Mediamente

Il piacere di capire

FUORI DAL CORO

Bianca come il latte, rossa come il sangue
Alessandro d’Avenia,  Mondadori,  2010 – Euro 14,00

Il giovane Alessandro d’Avenia, classe 1977, firma un romanzo dallo stile fresco e autentico. Il suo rapportarsi alla realtà grazie al mestiere dell’insegnante gli consente di avvicinarsi con emotività e senza nulla di artificioso alle voci dei ragazzi, storie di vita raccolte prevalentemente in classe. Il suo romanzo d’esordio si legge d’un fiato e ci riporta tutti, chi più e chi meno, a quelle prime pulsioni e domande esistenziali dell’adolescenza. Leo è un sedicenne che sta maturando un percorso introspettivo verso una maturità più completa. Il suo sogno principale si colora di rosso, perché rossi sono i capelli di una certa Beatrice che incontra a scuola. Quando la spinta di tanto entusiasmo si ammala, la vita di Leo viene invasa da un bianco penetrante, il simbolo dell’assenza e del nulla. Inizia così una partita con la vita e una lenta consapevolezza dell’ineluttabilità umana ma anche della forza e della bellezza delle più semplici relazioni.  

«Diamoci del tu»: botta e risposta con l’autore

Il tuo libro è stato definito da alcuni critici come un libro di «formazione» quasi specificamente diretto a un pubblico adolescenziale. La pensi così o credi che il pubblico, di qualsiasi età, possa avvicinarsi a questa lettura?  
L’adolescenza è l’età in cui si scopre il fascino dell’età adulta. Non si tratta di leggere le età della vita come tappe concluse una volta per tutte, ma di integrarle nell’unità storica della persona. Non vuol dire rimanere bambini o adolescenti, ma conservare ciò che ognuna di queste tappe ha conquistato: la semplicità del bambino e la fame di senso dell’adolescente. Il mio libro parla ad ogni adolescente: chi ha quell’età o chi l’ha avuta. Parla ai genitori, parla ai professori. È un libro per tutti.

Il bianco è l’assenza, il rosso è la vita. Si potrebbe dire che, proprio grazie alle  relazioni interpersonali, si attua la maturazione esistenziale del protagonista?   
Oggi le relazioni sono diventate “liquide”, come dice un filosofo contemporaneo, perché da un lato non si vogliono costruire legami forti che sembrano toglierci la libertà, dall’altro si ha una sete estrema degli stessi e li si cerca quasi ossessivamente saltando da un legame all’altro, illudendosi che con la quantità si possa sopperire alla mancanza di qualità. Manca un fondo solido su cui muoversi. I ragazzi vivono secondo i modelli che la cultura adulta presenta e incoraggia. Non è un problema loro, ma della cultura di chi li ha generati. I ragazzi hanno fame di maestri e ancor più di testimoni. Solo la vita educa e solo la vita incanta. Un insegnante “accende” se è “acceso” lui, se ha trovato lui la stella. Solo chi ama conosce. Non c’è altra strada: insegna a vivere solo un insegnante che ama la vita sua e dei propri ragazzi e la difende, la conserva, la incoraggia.

Giovane professore, giovane maestro di vita. La complicità tra romanziere e personaggio letterario come nasce e cosa vuole trasmettere a chi legge?
La storia, diceva Aristotele, racconta le cose come sono, l’arte le racconta come possono essere. Nel romanzo c’è una forte tensione ad una scuola possibile, che in questi anni ho visto spesso realizzarsi grazie alla collaborazione con colleghi e genitori impegnati in un unico scopo. I ragazzi, se trovano professori che “professano” la loro materia come una fede, che amano le loro vite come un tesoro prezioso, sono disposti a seguirti ovunque, con i tipici alti e bassi della loro età e gli errori di noi adulti. La scuola, come la famiglia, è un sistema imperfetto. Il Sognatore è uno che aiuta Leo a diventare Leo perché vive lui la pienezza della sua vocazione di uomo adulto e insegnante. Lo diceva bene la Ginzburg: solo chi ha una vocazione e la vive ne provoca altre attorno a sé. Io questo lo vedo accadere, nonostante tutte le difficoltà e le sconfitte che comporta.

I primi sullo scaffale

Revolutionary Road, Richard Yates  
Minimum fax, 2009 – Euro 18,00

Un cult pubblicato nel 1961 dalla Garzanti con il titolo I non conformisti torna nell’edizione del 2009 ed è più attuale che mai. Ambientato nel 1955, è la storia dei Wheeler, una giovane coppia trentenne, che coltiva il proprio anticonformismo in modo ingenuo e anche un po’ ipocrita. L’ambizione frustrata e il fallimento si svelano in ogni gesto e all’interno della loro casa, specchio della middle class, ma anche di una crescente amarezza. Yates coglie perfettamente le nevrosi e il vuoto di una società basata sull’immagine e indaga sui rapporti interpersonali, sulla famiglia mononucleare, sulla solitudine degli anonimi sobborghi cittadini fino a ricalcare, come su un palco teatrale, le orme della tragedia shakespeariana. 

Il cane nero, Rebecca Hunt
Ponte alle Grazie, 2011 – Euro 16,00

Il 22 luglio 1964, nella sua dimora tra le tranquille colline del Kent, Winston Churchill si sveglia e si ritrova in compagnia di una vecchia conoscenza, un ospite tutt’altro che gradito. È un gigantesco cane nero e, dal buio del suo angolo, non gli toglie gli occhi di dosso. Qualche ora più tardi, nella sua casetta a schiera, la giovane Esther si prepara ad accogliere un aspirante inquilino: è il cane nero che vuole installarsi a casa sua, anzi nella sua mente. Ironico, umano e mai banale, il romanzo della Hunt si apre a un’interessante interpretazione tra la depressione e le sue vittime. Dove l’unica possibilità per combattere il male del secolo ha un nome: accettazione.

Che te lo dico a fare, marco biaz
Miraggi Edizioni, 2011 – Euro 24,00

Siamo a Torino, il 2008 volge al termine. Nel cuore della città, a due passi dalla stazione, c’è il Bojan Faust, un malfamato albergo gestito come uno stato da due macedoni e da un Dj africano. Intoo al Bojan orbitano strani personaggi provenienti dai quattro angoli del globo. Che te lo dico a fare è un romanzo veloce e asciutto sulla vita trasversale di una città: una Torino che sembra una capitale europea ma che non riesce a liberarsi dal suo Dna intollerante, un luogo ospitale solo per pochi e un porto franco per piccoli e grandi delinquenti. Storie di uomini e donne accomunati da un unico destino: resistere, evitare la galera e il giro della morte, tornare a casa.

Paris, je t’aime
Un film corale, 2006

Film corale firmato da registi più o meno famosi e presentato a Cannes. Un tributo a Parigi, vista sotto differenti angolature, e all’essenza delle relazioni con l’altro da noi.
Oltre al buon uso della tecnica cinematografica e alla capacità dei registi di far stare in soli 5 minuti di visione l’essenzialità del contenuto, Paris je t’aime ha la capacità di trasmettere un’infinita varietà di emozioni e di interpretazioni…differenti per ogni spettatore.
Non è facile, dunque, dare delle linee chiare e delle chiavi di lettura del film. Ogni episodio trasmette qualcosa di «diversamente» riconoscibile per ognuno di noi.

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Attese e dubbi nel «paese del sorriso»

Maggio 2010-Maggio 2011: ad un anno dalla rivolta

Nel paese asiatico, la situazione è di grande confusione e di calma apparente. Da una parte, c’è il movimento delle «Camicie rosse» («Fronte unito per la democrazia contro la dittatura», Udd); dall’altra, i «poteri» che, da sempre, hanno in mano il paese: l’esercito, i monarchici, le élites. Ma l’equilibrio può rompersi da un momento all’altro, perché, se si guarda dietro il sorriso da dépliant turistico, si scopre un paese caratterizzato da miseria e ingiustizie secolari. Nel frattempo, anche l’economia langue, a parte quella legata al mercato del sesso – con due milioni di thailandesi coinvolti – che non conosce recessione.

Bangkok. Il 19 maggio cade l’anniversario della fine della protesta che per due mesi nel 2010 portò nelle piazze della capitale thailandese molte migliaia di manifestanti, ma costò al paese anche le peggiori violenze dell’ultimo ventennio.
Con un bilancio di 90 morti e oltre 1.800 feriti, decine, forse centinaia di desaparecidos e data la reazione delle autorità e dell’esercito (chiamato a sostituire una polizia inaffidabile), la «rivoluzione mancata» è sembrata virare verso la guerra civile. A complicare la situazione tra i due contendenti, le «Camicie rosse» e le «istituzioni» (che al loro interno sono tutt’altro che univoche), un numero imprecisato di «uomini in nero»,  visti in diverse occasioni all’interno della protesta impegnare militarmente l’esercito facendo uso di armi automatiche e di rudimentali lanciarazzi, divenendo così ragione e pretesto per azioni militari contro manifestanti in maggioranza pacifici.
Come andarono veramente le cose, in termini di rispetto dei diritti civili e umani, ma anche delle convenzioni inteazionali, come pure sulle ragioni dei contendenti  e, ancora, a chi sono da attribuire le responsabilità per la morte dei due fotoreporter durante gli scontri (il giapponese Hiro Muramoto e l’italiano Fabio Polenghi), resta ancora in buona parte da chiarire.
Nell’ultimo anno, il paese, vasto una volta e mezza l’Italia e con 65 milioni di abitanti, ha mantenuto le sue divisioni e se possibile le ha approfondite. Pochi sono stati i cambiamenti, se non in termini repressivi, che potrebbero impedire una sollevazione e un bagno di sangue di dimensioni ancora maggiori.
A dimostrarlo la campagna dinamitarda che colpì Bangkok e le regioni nordorientali del paese dopo la repressione e fino ad autunno inoltrato. Un susseguirsi di azioni che potrebbero indicare o una strategia della tensione rientrata quando la situazione è apparsa maggiormente sotto il controllo delle autorità, oppure che la protesta ha una struttura in grado di pianificare e mettere in pratica anche atti violenti. In quest’ultimo caso, suggerito da una serie di altri elementi, azioni di tipo terroristico potrebbero riaffacciarsi in qualunque momento.
Negli ultimi mesi sono andate crescendo di entità e frequenza le proteste organizzate dal «Fronte unito per la democrazia contro la dittatura» (il nome formale del movimento delle Camicie rosse) mirate insieme a chiedere le dimissioni del governo guidato da Abhisit Vejjajiva, nuove elezioni e la liberazione dei leaders in carcere (senza processo) dal maggio 2010.
Iniziative pacifiche e colorite, con una crescente carica politica in vista del voto che dovrebbe situarsi tra giugno e luglio 2011, di fatto a soli tre-quattro mesi dalla scadenza naturale della legislatura.
Le recenti manifestazioni, rese possibili dalla fine della legge marziale (inizialmente imposta a buona parte del paese e poi rimasta in vigore a Bangkok e nelle province limitrofe sino a fine anno), hanno portato in piazza decine di migliaia di manifestanti e hanno incentivato la liberazione dei sette maggiori leaders della protesta, accusati di terrorismo. L’obiettivo più importante a breve termine è stato dunque raggiunto ma, mentre un buon numero di capi del movimento e della rivolta restano alla macchia in Thailandia e in Cambogia, esso cerca nuove strade e si dà nuovi obiettivi sul medio termine, con quello finale dichiarato di un cambiamento radicale della società thailandese ovvero la fine del dominio dei gruppi elitari e la presa del potere da parte delle classi meno privilegiate.
Debolezza principale delle Camicie rosse è la loro mancanza di coesione. Se i principali obiettivi sono simili per tutte le sue componenti, strategie e interessi immediati possono anche essere diversi. Per non parlare dei particolarismi locali e di leadership. Inoltre, se la maggioranza del movimento ha metodi e scopi pacifici, non manca al suo interno chi è convinto che un vero cambiamento non potrà esserci se non attraverso una lotta violenta. La repressione governativa ha accentuato questa convinzione.
La sensazione è che il peggio potrebbe ancora venire proprio in occasione di una campagna elettorale che il governo espresso dal Partito democratico (a sua volta sostenuto dalle «Camicie gialle», movimento nazionalista e filo-monarchico), hanno cercato di blindare a loro favore. Questo partito, il più antico del paese, fondato negli anni Trenta, è oggi guidato da Abhisit Vejjajiva, nemmeno cinquantenne. Nato in Gran Bretagna ed educato a Oxford, per uno strano avvitamento della storia, è toccata a lui la responsabilità di decidere una repressione sanguinosa senza avee pagato almeno finora lo scotto con le dimissioni o l’esilio, altra prassi nella tormentata storia del paese.

CAMICE ROSSE E CAMICIE GIALLE
Quanto all’opposizione, il referente politico delle Camicie rosse, il Puea Thai (erede del Thai rak thai, fondato dal magnate delle telecomunicazioni ed ex primo ministro Thaksin Shinawatra e sciolto dopo il golpe), è un partito di scarsa credibilità democratica. Come il suo ispiratore, alla fine.
Thaksin, esiliato dal colpo di stato militare del 2006, già condannato a due anni di carcere per abuso di potere, sarebbe un personaggio come tanti, nella politica del continente asiatico, se non fosse per un elemento fondamentale: è stato l’unico a dare a molti milioni di thailandesi l’illusione di potere uscire dalla loro situazione, che non è solo di povertà, ma anche e soprattutto di mancanza di prospettive e opportunità. I thailandesi che lo avevano mandato al potere una prima volta nel 2001 e lo hanno votato nuovamente (con una maggioranza schiacciante) a fine 2005, hanno voluto credere nella sua  propaganda e negli ideali espressi dalla sua politica, perché di quegli ideali nessuno aveva mai parlato come lui. Con una vasta semina di opportunismo e populismo, ma sostenuto anche da azioni concrete, seppure pagate con il denaro pubblico.
Come il ticket per accedere agli ospedali: poco più di mezzo euro per disporre di visite mediche e medicinali essenziali, prima irraggiungibili. Non sufficienti per cure concrete, ma almeno per sapere contro quale male combattere. Oppure il milione di baht (circa 23mila euro al cambio attuale) donato a ciascun villaggio – almeno nelle aree che lo hanno votato – per opere pubbliche. Concessioni che poco hanno influito sulle drammatiche disparità di questo paese. Tuttavia, il suo potere è cresciuto fino al punto da sfiorare le massime istituzioni del Regno. La reazione dei vecchi centri di potere non si è fatta attendere, propiziata anche dalla discesa in piazza delle Camicie gialle, che due anni dopo sarebbero state responsabili della clamorosa occupazione degli aeroporti di Bangkok per far cadere il governo filo-Thaksin (intanto finito esule all’estero) eletto liberamente pur sotto un  nuova costituzione dettata dai militari golpisti.

IL MIGLIORE DEI MONDI? CORRUZIONE, MISERIA, INGIUSTIZIA
Dietro il sorriso da dépliant turistico, la Thailandia nasconde un’ampia realtà di miseria e ingiustizia.
Il sistema elitario e patealistico che lo governa ha cercato per decenni di convincere i thailandesi che vivono nel migliore dei mondi possibili e insieme ha negato alla maggioranza una prospettiva di miglioramento dalla propria condizione originaria. Disinteresse e tolleranza hanno convinto molti  che l’unico mezzo per uscire dallo stato di arretratezza e sottomissione fosse un arricchimento rapido: con quali mezzi, lo testimoniano insieme la realtà dei quartieri dedicati allo svago a Bangkok, Pattaya, sulle isole di Phuket e Koh Samui. Con quali risultati è evidente nella quantità di beni di consumo, motociclette, auto e alcornol che affluiscono verso le campagne senza un significativo aumento della scolarizzazione, del risparmio, della coscienza politica. La crisi del paese non è conseguenza della protesta, ma ne è ragione e sfondo. Purtroppo in questi ultimi anni, dal colpo di stato militare (sostenuto in primo luogo da aristocrazia, settori della monarchia, élite urbane di Bangkok), che ha costretto Thaksin a lasciare il potere, la situazione è se possibile peggiorata. La corruzione colpisce a tutti i livelli della società e coinvolge profondamente le istituzioni.
Quella coinvolta in questa situazione è una Thailandia unita all’orgoglio nazionalista e dalla monarchia, ma nettamente divisa in due da necessità e possibilità con un divario crescente fra benessere e miseria.
A questo punto il paese si trova a un bivio e a fare da spartiacque non sarà più il tradizionale «mediatore» militare. Nessuno crede più che gli uomini in divisa, gestori di vasti interessi economici di fatto senza controllo da parte dell’autorità civile, che al governo impongono congrui versamenti di bilancio in cambio di protezione dagli oppositori, che non controllano una limitata insurrezione islamista nel Sud, possano essere credibili gestori del paese. Un ulteriore golpe, il 21° in 90 anni, non sarebbe accettato dalla popolazione, ma anche dalla classe politica e imprenditoriale che già lotta con crisi globale e incongruenze locali. Certamente non dalla diplomazia internazionale, i cui rapporti con Bangkok hanno visto nell’ultimo anno momenti tesi. Una diplomazia che  osserva con attenzione le mosse di chi gestisce questo paese secondo logiche abituali all’interno, ma impresentabili al di fuori. La pretesa è che il mondo non veda e non giudichi, in cambio di possibilità d’investimento e l’apertura a un turismo sovente equivoco e diseducato, negativo per l’immagine del paese almeno quanto la rapacità degli imprenditori locali e dei palazzinari che vanno devastando, con convinta gradualità, le coste un tempo splendide della terraferma e delle isole.
Bangkok resta un cantiere perenne e a stupire per primi gli operatori turistici locali e stranieri è lo spuntare continuo di alberghi e centri commerciali, veloci nella edificazione quanto anarchici nell’inserimento urbanistico.

SESSO A PAGAMENTO, UN MERCATO SEMPRE FIORENTE

In un momento di evidente difficoltà economica, con un turismo che tiene (per l’ascesa degli arrivi di indiani, cinesi, coreani e russi a scapito dei tradizionali clienti europei e giapponesi), le statistiche ufficiali e gli imprenditori fingono che tutto vada a gonfie vele. La tenuta riguarda soprattutto la marea di turisti indirizzati verso il «Paese del sorriso» dalla disponibilità di servizi sessuali sotto varie forme ma tutti, ugualmente, all’insegna dello sfruttamento della persona e della disattenzione (interessata) delle autorità.
Tra parentesi, la maggior parte della «materia prima» di cui si nutre questo mercato (che coinvolge fino a due milioni di thailandesi) proviene, non a caso, dalle regioni dove più alta è la densità di Camicie rosse e di seguaci di Thaksin Shinawatra. Sono le regioni orientali, quelle che ospitano una vasta popolazione impoverita e senza prospettive che foiscono a Bangkok e ai centri più o meno decaduti del turismo internazionale non soltanto le risorse alimentari necessarie, ma anche le persone-oggetto, la cui età media tende ad abbassarsi in misura inversamente proporzionale allo spessore della crisi.
Non c’è stata una sola volta, nei cinque anni in cui chi scrive ha posto la sua base lavorativa in Thailandia, che sui giornali si sia dibattuto del fenomeno e della sua entità, sulle sue ragioni e sulle possibilità di intervenire per limitarlo, almeno. Il sesso è una merce, disponibile ovunque, come il riso sulle tavole dei thailandesi e come esso sottoposto solo alle regole del mercato, ma mai messo in discussione o subordinato alla ricerca di alternative, in questo caso di istruzione e di un lavoro dignitoso, sufficientemente retribuito.
Davanti a  questo che, per un paese «normale», sarebbe causa almeno di imbarazzo e sottoposto a tentativi di soluzione, sia in termini di opportunità, sia di persecuzione di chi sfrutta questa situazione, stranieri e tutori dell’ordine inclusi, le sue élites mostrano un disinteresse a cui si oppongono con poche risorse Ong locali e inteazionali. Su uno stesso livello si può porre l’uso di alcornolici, che fanno della Thailandia il paese meno astemio dell’Asia e insieme quello con il più alto numero di decessi correlati all’alcornol nel continente.
Il senso di questi due esempi è che mentre il sistema educativo prepara buoni cittadini, passivi davanti al cambiamento e alle loro stesse difficoltà, problemi enormi vengono se non incentivati almeno tollerati come valvola di sfogo di disoccupazione, frustrazione e povertà.

LE STAMPELLE DELLE FORZE ARMATE E DELLA MONARCHIA
Per un paese che si vorrebbe dare una veste di modeità, il fardello è pesante, ma esso sembra non riguardare un sistema di potere che non è solo benestante, ma autoreferenziale e che si appoggia, per la sua sopravvivenza e giustificazione, sulle forze armate o sulla monarchia a seconda del momento e della convenienza. Un uso crescente della «lesa maestà» contro dissidenti ed oppositori stanno in questi ultimi tempi sollevando un dibattito anche sui media locali, abitualmente distratti e, ancor più, sottoposti a autolimitazioni  o alla censura connessa alle varie forme di legislazione d’emergenza. La Thailandia, paese che nell’immaginario collettivo è un avamposto della democrazia in Asia e tra i più certi alleati degli Stati Uniti (due questioni connesse, originatesi ai tempi del conflitto vietnamita), oggi è in realtà sottoposto a un regime che continuamente elude le regole e di fatto vive sulla criminalizzazione dell’avversario.
Le opposizioni non sono meno criticabili, ma dalla loro parte hanno la scusante di essere oggi – nel bene e nel male – espressione di un disagio concreto e senza risposte di un paese profondo che nei numeri è maggioritario, come anche di una Thailandia rurale che ha nell’élite urbana di Bangkok non un riferimento riformista e cosmopolita, ma l’espressione degli interessi tradizionali e di un idealismo accademico che – come la politica – si perde tra le pieghe di repressione, corruzione, interessi molteplici e spesso contrapposti. Insomma, un sistema che si bilancia con regole intee a scapito di una società che non ha la possibilità di esprimere il proprio disagio e le proprie necessità, sapendo che comunque le sue richieste saranno eluse.
La povertà e l’ignoranza, oltre che pressioni di ogni genere, contribuiscono alla vendita dei voti. Una consuetudine che tutti i gruppi politici dicono di volere cambiare, ma alla fine favoriscono. Si è finora votato e probabilmente si voterà presto, non per partiti e programmi, ma per il candidato che potrebbe essere più utile in prospettiva e che al momento opportuno paga meglio.

Stefano Vecchia

BOX / La cronistoria: alcune date significative

2005, fine – Le elezioni danno il secondo mandato consecutivo a Thaksin Shinawatra, magnate delle comunicazioni. Il risultato non viene accettato dagli oppositori e a Bangkok si mobilitano le Camicie gialle, movimento nazionalista e filomonarchico, che sostiene il Partito democratico, sconfitto alle elezioni.

2006, 19 settembre – Mentre Thaksin si trova a New York per partecipare alla riunione dell’Assemblea Onu, i militari effettuano un colpo di stato incruento che suscita la simpatia della popolazione della capitale.

2007- Dopo un referendum, viene promulgata la nuova Costituzione.

2007, dicembre – Le elezioni vedono la vittoria del «Partito del potere popolare» che si rifà all’esperienza del disciolto Thai Rak Thai («Thai che amano i thai») di Thaksin.

2008, settembre – Le Camicie gialle occupano gli aeroporti della capitale.

2008, dicembre – Una sentenza della Corte Suprema condanna per brogli elettorali decine di esponenti del «Partito del potere popolare», tra cui quasi tutti i membri del governo.

2008, dicembre – Il Partito democratico prende il potere senza una chiamata alle ue e il suo presidente, Abhisit Vejjajiva diventa primo ministro. I superstiti parlamentari legati a Thaksin danno vita al Puea Thai, oggi maggiore partito di opposizione. Con ruoli invertiti, si sviluppa ora la protesta delle Camicie rosse.

2010, marzo/maggio – A decine di migliaia scendono su Bangkok, inizia un braccio di ferro drammatico con le autorità che finirà con la repressione dei manifestanti il 19 maggio 2010.

BOX / I protagonisti: i colori delle «camice» thialandesi

L’ascesa al potere del governo di coalizione guidato dal Partito democratico è stata propiziata dalle
Camicie gialle, movimento con più «anime» (monarchici, aristocratici, burocrazia, nazionalisti, parte del clero buddhista…), tuttavia il rapporto di simpatia si è da tempo interrotto. La disputa territoriale su alcune aree contese del confine Thai-cambogiano, ha portato il movimento ad accusare il governo di avere svenduto gli interessi del paese e ne ha chiesto le dimissioni.
Le Camicie blu, organizzazione fiancheggiatrice di uno dei partiti della coalizione, il Bhum Jai Thai, e quelle «bianche» o «multicolore» (ali meno estremiste delle Gialle a cui si associa parte del pubblico impiego) hanno fatto la loro comparsa in diverse manifestazioni di piazza.
Le Camicie rosse, nate come reazione al colpo di stato militare contro Thaksin Shinawatra, sono la sponda di piazza del Puea Thai e degli altri gruppi d’opposizione. Al loro interno hanno diverse tendenze ideologiche – dalla sinistra radicale agli ecologisti alla social-democrazia -, ma soprattutto provenienze e leadership differenti. Questo ha impedito che diventasse un vero e proprio movimento rivoluzionario.
Le Camicie nere, sono il servizio d’ordine del movimento, organizzate in stile paramilitare e con un ruolo ancora da chiarire nelle vicende della protesta e della repressione.
Ste.V.

Stefano Vecchia




Radio Incontro

Storia di una radio per la riconciliazione

Nata come radio per la riconciliazione, ha oggi obiettivi precisi: sorvegliare l’azione di governo; lottare contro la povertà e aprirsi verso la regione. Ma anche cercare di dare alla popolazione gli strumenti per sapersi autogestire.

Radio Isanganiro è una radio associativa burundese. Ascoltata in tutto il paese e in parte nei vicini Congo (Rdc) e Rwanda, è stata creata nel 2002 da un gruppo di giornalisti formati da una Ong statunitense, Serach for common ground, attiva nell’ambito della risoluzione dei conflitti attraverso i media. «Eravamo in un contesto di guerra civile aperta, c’erano movimenti ribelli che combattevano il governo, ma anche sfollati interni e molti rifugiati fuori dal paese, soprattutto in Tanzania». Chi parla è Vincent Nkeshimana, giovane e dinamico direttore della radio. I giornalisti per riflesso, pensarono di poter essere più efficaci creando una radio per il dialogo. «Isanganiro, vuol dire incrocio in kirundi, la lingua di tutti i burundesi, punto d’incontro. Tutti i programmi erano orientati verso la creazione di spazi di scambio tra la diaspora e coloro che erano nel paese, tra i rifugiati e quelli che stavano all’interno. E c’erano anche degli scambi di produzioni con la Radio Kwizera in Tanzania, allo scopo di veicolare l’immagine di ricostruzione della nazione, ma anche di permettere alla gente di esprimersi sulla loro situazione» ricorda Vincent.
«Siamo andati oltre e abbiamo teso il microfono ai ribelli, cosa che era proibita. Ma questo ha causato minacce, chiusura della radio e l’arresto di alcuni giornalisti. Poi, il governo si rese conto che quello che era stato detto alla radio non era così negativo come pensava e avrebbe potuto aiutare ad avvicinare le posizioni dei belligeranti».

Media per la pace
Una radio per far incontrare la gente, per riconciliare e chiudere le ferite aperte dai massacri. Al contrario di quello che era stata Radio mille colline in Rwanda nel 1994 e altri media in Costa d’Avorio dopo l’inizio della crisi del 2002, che lavorarono per dividere la nazione.
Radio Isanganiro ha iniziato a trasmettere durante la guerra, una situazione in cui l’informazione è particolarmente sotto controllo. «Ora si può dire che siamo in un sistema democratico, i diritti umani sono relativamente rispettati, ma le sfide restano intere. A parte il fatto che non c’è guerra aperta, non ci sono grandi differenze con i primi anni: il problema della fame è sempre presente, il deficit di educazione e di accesso alla salute sono sempre attuali. Anche la libertà di espressione non è totalmente garantita. Tutti questi sono cantieri sui quali la radio deve continuare a lavorare e facciamo tutto per accompagnare l’azione di sviluppo del nostro paese».
Il Burundi sta affrontando un cammino difficile, dove l’incontro deve passare anche attraverso percorsi di giustizia. Radio Isanganiro vuole risvegliare la coscienza del cittadino e mettere chi gestisce davanti alle sue responsabilità, sorvegliare l’azione di governo e denunciando i malfunzionamenti: «Vogliamo appoggiare l’attuazione della giustizia, perché il Burundi ha conosciuto un passato drammatico, e forse la comunicazione su queste piaghe può fare emergere ancora violenza. Siamo per la Commissione verità e riconciliazione, ma occorre che i burundesi siano pronti a “consumare” queste verità».

Elezioni «difficili»
Ma se parliamo di politica, in particolare di elezioni (vedi box), il direttore si rivela molto diplomatico.
«Il processo elettorale è stato influenzato da una escalation verbale violenta e a volte da violenze vere, ma globalmente le elezioni si sono svolte bene. Il problema è che un gruppo di partiti politici si è ritirato, e oggi non riusciamo a valutare tutti gli aspetti negativi di questo fatto. Ci sono rischi di un “ritorno indietro”. Lo dico basandomi sui casi di assassinii che sono ormai regolari. Non c’è un giorno in cui non si parla di furti, uccisioni o attacchi da parte di gente che si dice affiliata ai movimenti che hanno disertato le elezioni. Dall’altra parte c’è un potere che ha vinto tutto con le elezioni e non vuole cedere di nulla, è legittimamente installato al potere per cinque anni. È una situazione di non dialogo, nella quale l’avvenire non è senza preoccupazioni».
Nel momento in cui scriviamo non ci sono  rivendicazioni chiare del movimento violento che si è creato e non si conoscono i legami di questo con i partiti politici che hanno boicottato le elezioni.
«Se ci deve essere dialogo, occorre ancora capire su cosa negoziare e perché».

Una lingua, più lingue
In Burundi la lingua kirundi è parlata da tutti e unisce tutti. Viene parlato anche il kiswahili, come lingua commerciale, ma non è originaria della zona.
La radio trasmette il 70% dei programmi in kirundi e altri in francese e in kiswahili. Ora si sta attrezzando anche per emissioni in inglese, in quanto il paese fa parte della Comunità degli stati dell’Africa dell’Est (East African Community, Eac), paesi anglofoni. Isanganiro trasmette anche in diretta sul web (www.isanganiro.org) e quindi può essere ascoltata dai numerosi burundesi della diaspora.

Libertà di stampa
Il direttore è positivo sulla libertà di espressione e di stampa nel suo paese. Lo dice in un momento in cui Jean-Claude Kavumbagu, direttore dell’agenzia NetPress, è in carcere da metà luglio per aver messo in dubbio le capacità delle forze di sicurezza del paese di difendere i cittadini da attacchi terroristi. Accusato di «tradimento», capo di accusa applicabile, secondo diritto burundese, solo durante lo stato di guerra, è considerato da Amnesty Inteational un detenuto d’opinione. Allo stesso tempo anche un giornalista della Radio pubblica africana è dietro le sbarre. «Ora abbiamo una relativa libertà di espressione, ma questo ci mette in difficoltà rispetto a certi agenti del potere. Loro, penso, hanno un’interpretazione diversa di quello che deve essere l’obiettivo del giornalismo». E fa un confronto con i paesi limitrofi: «Rispetto al Rwanda e alla Repubblica democratica del Congo, il Burundi è un paradiso in termini di libertà di espressione. Ma il problema è l’influenza che i nostri dirigenti subiscono: credono che i metodi dei vicini siano i migliori e quindi sono tentati di fare come loro».
La Radio Isanganiro collabora con le tre radio comunitarie presenti nel paese. Queste sono molto radicate con il loro territorio (sono una a Ngozi, Nord, una a Gitega, centro e la terza a Makamba, nel Sud). Sviluppano programmi comuni nei quali Isanganiro beneficia del giornalismo di prossimità, mentre le radio comunitarie ricevono formazione e competenze per la produzione e gestione dell’informazione.
Oggi le maggiori difficoltà sono economiche. «È dura mantenersi finanziariamente, perché i costi in Burundi sono elevati, e se non ci fossero stati aiuti estei di finanziatori, le radio private qui non sarebbero mai nate. Il mercato della pubblicità è molto ridotto: nel migliore dei casi, non copre il 20-25% del budget. Se non ci sono aiuti estei diventa impossibile mandare in giro le équipe».
Uno studio dell’istituto Panos di Parigi del 2008, confermato nel 2010, riporta la Radio Isanganiro come la seconda più ascoltata in Burundi, subito dopo la radio pubblica nazionale, che ha dalla sua tutte le infrastrutture nel paese.
«Noi ci siamo lanciati in una riflessione per un piano manageriale che ci permetta, progressivamente  una raccolta di fondi che possa coprire il funzionamento. Abbiamo un piano strategico e uno operativo».

Marco Bello

Per approfondimenti su Radio associative e comunitarie nel mondo si veda dossier MC settembre 2009.

Marco Bello




Ombre sulla pace

Burundi: dopo 15 anni di guerra, una pace instabile

I massacri della guerra civile burundese restano impuniti. E gli
abitanti di uno dei più piccoli paesi d’Africa continuano a vivere
nell’incertezza per il futuro. La terra, unica risorsa del paese, inizia
a scarseggiare. Le elezioni del 2010 sono boicottate dall’opposizione. E
ritorna il fantasma dei «ribelli» sulle mille colline.


Il piccolo paese centro africano, sta tentando, con difficoltà, di
camminare sulla via della riconciliazione. Dalla sua indipendenza (1962)
dal protettorato belga, il Burundi era stato dominato da un gruppo di
tutsi, minoranza etnica (14% rispetto all’85% di hutu) e aveva già visto
la sua storia segnata da ricorrenti massacri (1964, 1972, 1988).
Nel giugno 1993 si tengono le prime elezioni libere, che sono vinte a
grande maggioranza dagli hutu. Melchior Ndadaye è il primo presidente
hutu del paese. Ma la transizione si rivela difficile, i tutsi sono in
tutti i posti chiave dell’amministrazione del paese e hanno in mano
l’esercito. Tre mesi dopo il neo presidente è assassinato e iniziano i
massacri che porteranno a 300.000 morti, un milione di sfollati e
rifugiati nei paesi confinanti (sui 6,8 milioni di abitanti di allora) e
a tre lustri di guerra civile. Storia meno nota del genocidio rwandese,
ma altrettanto terribile. Le uccisioni di massa nel vicino Rwanda si
innescano nell’aprile del ‘94, quando l’aereo su cui viaggiano i
presidenti di Rwanda e Burundi viene, misteriosamente, abbattuto. Oggi,
sei alti funzionari rwandesi, vicini al presidente Paul Kagame
(all’epoca ufficiali del suo esercito) sono sotto inchiesta per il
fatto.
La comunità internazionale si impegna nella difficile mediazione
burundese. Anche Julius Nyerere prima e (soprattutto) Nelson Mandela poi
sono coinvolti in prima persona. Nell’agosto 2000 sono firmati gli
accordi di Arusha (Tanzania), che prevedono una divisione in base alla
percentuale etnica nelle istituzioni dello stato, compreso l’esercito,
da sempre in mano ai tutsi. Ma la guerra continua.

Solo a fine 2003, con gli accordi di Pretoria (Sudafrica), si arriva a
un cessate il fuoco “quasi” generale. Sul terreno restano i ribelli del
Fronte nazionale di liberazione (Fnl), che scenderanno a patti nel 2008,
diventando partito politico l’anno successivo. Nel 2005 le elezioni
generali (presidenza, parlamento, amministrative) vedono la vittoria del
partito di ex ribelli Cndd-Fdd (Consiglio nazionale per la difesa della
democrazia – Forze per la difesa della democrazia). Pierre Nkurunziza,
uno dei leader, diventa presidente. Il primo vice presidente è invece un
tutsi. Vengono rispettate le quote etniche e tutti i partiti si
attrezzano per avere nei propri ranghi hutu e tutsi e cancellare i nomi a
sfondo etnico. Viene promulgata la nuova Costituzione.
«Ormai la connotazione non è più etnica – raccontava una giornalista
burundese prima delle ultime elezioni – si parla più in termini di
partiti politici, al potere e all’opposizione».

Alla firma di Pretoria gli sfollati sono ancora 100.000, mentre dal 2002
ad oggi sono 360.000 i rifugiati in Tanzania che rientrano nel paese,
secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr). Oggi sarebbero
ancora 100.000 a dover rientrare.
In un paese di 27.000 km quadrati, con una popolazione di 8 milioni di
abitanti, questo enorme afflusso ha ulteriormente aggravato il problema
principale: la terra. La densità di popolazione, oltre 290 abitanti a
km2, è una delle più alte del continente.
«La terra è la questione fondamentale di questo paese. Con due stagioni
delle piogge, un suolo fertile e bagnato da diversi fiumi, il Burundi è
sempre verdeggiante. Ma la produzione alimentare non arriva a soddisfare
tutte le bocche da sfamare. Il padre di famiglia divide il suo
appezzamento tra i figli maschi e questa divisione sta provocando una
“polverizzazione” delle parcelle. Senza contare che i rifugiati
rientrati hanno bisogno di terra per coltivare». Spiega un analista
esperto del paese.

Elezioni «imbrogliate». Il 24 maggio 2010 le elezioni amministrative
vedono vincere il partito al potere con il 64% dei voti. Gli osservatori
nazionali e inteazionali rivelano «irregolarità», ma giudicano la
consultazione valida nel suo insieme. I brogli non avrebbero influenzato
il risultato finale.
Ma i partiti di opposizione non ci stanno, denunciano «frodi massicce» e
decidono di boicottare le successive legislative di giugno e
presidenziali di luglio. Pierre Nkurunziza resta l’unico candidato alla
presidenza. Oltre ad essere riconfermato presidente, il suo partito si
assicura una maggioranza schiacciante in parlamento.
Intanto la situazione della sicurezza peggiora drasticamente: «Durante
il periodo pre-elettorale, persone legate al Cndd-Fdd e al Fnl,
avrebbero aggredito e ucciso, oppositori politici, così come militanti
dei loro partiti diventati critici» denuncia Amnesty Inteational. Il
Cndd-Fdd mobilita i suoi giovani membri, nel movimento Imbonerakure
questi, spesso armati di bastoni e manganelli, scortano rappresentanti
del potere pubblico che arrestano o pattugliano i quartieri. I partiti
di opposizione, si vedono impedire le riunioni.
Così la campagna presidenziale è segnata da violenze politiche: almeno
116 sono gli attacchi alla granata e oltre 30 locali di partiti sono
dati alle fiamme (essenzialmente del Cndd-Fdd). Allo stesso tempo molti
sono gli esponenti dei partiti di opposizione arrestati e detenuti
arbitrariamente. Ricompare la pratica della tortura, molto usata dai
temuti Service national de renseignement, i servizi segreti burundesi,
fino a pochi anni fa, ma che era in diminuzione e nel nuovo codice
penale (2009) è definita fuori legge. I servizi dipendono direttamente
dal presidente della Repubblica.
Alcuni leader importanti di partiti politici fuggono all’estero. È il
caso di Agathon Rwasa, capo del Fnl e di Alexis Sinduhije, che è anche
direttore della Radio pubblica africana (Rpa), i cui giornalisti sono
continuamente perseguitati (vedi articolo).

Gli accordi di Arusha prevedevano la realizzazione di una Commissione
nazionale verità e giustizia (Cnvg) e la creazione di una commissione
giudiziaria internazionale per realizzare un’inchiesta sui colpevoli
delle tante violazioni dei diritti umani e assassinii politici della
guerra. La Cnvg, che dovrebbe essere affiancata da un tribunale speciale
e dovrebbe inserirsi nel sistema giudiziario burundese, non ha però
ancora visto la luce. Così gli autori dei massacri di centinaia di
migliaia di persone restano totalmente impuniti.
Intanto voci di una nuova ribellione armata nel paese scuotono i
burundesi. Da settembre 2010 si verificano attacchi sporadici a
postazioni militari e civili da parte di gruppi armati. Il governo li
chiama «banditi», alcuni commentatori parlano di «ribelli». Riaffiora
troppo presto il vocabolario degli anni della guerra civile, che si era,
da poco, messo nel cassetto.

Marco Bello

Marco Bello




Verso la nuova revolución

Reportage dall’isola che sta cambiando

Per salvare il socialismo cubano occorre un cambiamento. Aperture verso libertà imprenditoriale e agricoltura famigliare saranno elementi importanti. Intanto 500mila impiegati pubblici saranno in eccesso. E dovranno riconvertirsi nei «nuovi» lavori.

Lo aveva detto Fidel Castro oltre dieci anni fa: rivoluzione è capire il momento storico, è cambiare tutto quello che deve essere cambiato. E oggi a Cuba siamo in piena rivoluzione. Si sta delineando un sistema misto, dove il ruolo dello stato andrà riducendosi e l’iniziativa privata acquisirà maggiore spazio, ma garantendo la supremazia della pianificazione rispetto al mercato.  Per quanto si vogliano addolcire le definizioni, il processo prevede,  tra l’altro, l’incorporamento al settore privato nei prossimi cinque anni di 1,8 milioni di lavoratori. Il governo di Cuba, lo scorso gennaio, ha già avviato una revisione dell’organico del personale pubblico in cinque ministeri e le previsioni sono di un taglio di 500.000 impiegati statali entro la fine dell’anno. Mentre in altri paesi si parlerebbe di 500.000 disoccupati, a Cuba si preferisce chiamarli «lavoratori disponibili».
Raul Castro in un discorso al parlamento Cubano (Anpp, Assemblea Nacional por el Poder Popular) il primo agosto 2010 aveva annunciato l’espansione dell’esercizio del lavoro in proprio e la sua utilizzazione come un’ulteriore alternativa occupazionale per i lavoratori in esubero, eliminando una serie di divieti vigenti per la concessione di nuove licenze e per la commercializzazione di determinate produzioni, rendendo più flessibile la contrattazione di forza lavoro. Il 18 dicembre era tornato sul tema ribadendo che il 2011 sarebbe stato segnato dall’introduzione graduale e progressiva di cambiamenti strutturali e di concetto nel modello economico cubano. Tali cambiamenti serviranno per preservare il socialismo e rinforzarlo, aveva detto il leader.

Tempo di riforme
Quello a cui Raul si riferisce non è una riforma del sistema socialista – e ci tiene a fare il pignolo sull’uso dei termini – ma la sua attualizzazione.
Nella seconda metà di aprile si è riunito all’Avana il sesto Congresso del Partito comunista cubano (Pcc) a distanza di «soli» tredici anni dal precedente del 1997. La frequenza media è di un Congresso ogni sette anni (il primo si era svolto nel 1975). Il Congresso, organismo supremo del partito, del quale determina gli orientamenti politici e le linee guida, è basato sull’approvazione dei «Lineamenti»1 della politica economica e sociale del partito e della rivoluzione, ovvero un nuovo volto per l’isola. Il 6° Congresso è stato composto da mille membri, eletti a livello di comitati municipali e distretti.
Incontriamo uno storico funzionario pubblico cubano – che preferisce rimanere anonimo – nonché membro del partito comunista dalla sua fondazione: «I cambiamenti saranno faticosi per il mio paese, ma sono indispensabili. Forse si è aspettato troppo, avremmo dovuto capire prima che stavamo commettendo alcuni errori. Per esempio, non è giusto che ci sia così tanto lavoro in nero, e che la gente onesta, laureati e devoti compagni, guadagnino molto meno che un tassista o di chi ruba parte della produzione per rivenderla sottobanco. Anche a livello di quadri dirigenti, alcuni hanno sempre operato per il bene, ma altri non hanno saputo gestire le risorse. Penso sia corretto che adesso, chi non è efficiente o chi non dimostra impegno, possa essere licenziato». Gli chiediamo quale sarà la difficoltà maggiore nell’affrontare i tanti cambiamenti previsti dai Lineamenti e con sicurezza risponde: «La parte più difficile sarà convincere il popolo della necessità di prendere certi provvedimenti, perché se capiranno che il socialismo deve cambiare per il bene di tutti, allora appoggeranno il piano di riforma. Il regime non abbandonerà mai a se stessi i bisognosi, chi è solo e non può lavorare avrà sempre la tessera di razionamento e un sussidio. Però bisogna avvalorare meglio le necessità e le possibilità reali dello stato, e occorre rimboccarsi le maniche».

Economia cercasi
Nel documento all’esame del Congresso si ripete con costanza quasi ossessiva la parola «spreco» e si insiste sulla diffusione di nuovi meccanismi di razionalizzazione delle risorse. Raul Castro coglie con lucidità il punto e spiega come «una delle barriere più difficili da superare nell’obbiettivo di formare una visione diversa – e  lo riconosce pubblicamente nel discorso del 18 dicembre scorso – è l’assenza di una cultura economica tra la popolazione, inclusi non pochi quadri dirigenti, i quali, dimostrando un’ignoranza supina nella materia, nell’affrontare problemi quotidiani adottano o propongono decisioni senza valutare un istante quali costi e quali effetti si producono, e senza sapere se esistono fondi allocati nel bilancio dello stato».
Il messaggio è chiaro: in tutti gli ambiti, dalla salute alla cultura, dall’impiego pubblico alle imprese statali, bisogna tagliare gli esuberi, migliorare l’efficienza e spendere meno.
Anche agli occhi di un semplice viaggiatore straniero sbarcato sull’isola, appare evidente che la maggior parte della gente negli ultimi cinquanta anni non ha saputo – o potuto – sviluppare alcuna forma di imprenditorialità.
I cubani vedono nei turisti la loro principale fonte di guadagno, ma non conoscono alcuna logica relativa alla qualità del servizio, all’ampliare l’offerta o a migliorare la prestazione, né comprendono il rapporto qualità-prezzo per gli standard della regione, così che Cuba risulta molto più cara rispetto a paesi quali Messico, Nicaragua, Repubblica Dominicana, che offrono servizi di qualità superiore. A ciò si aggiunge una marcata passività, un’attitudine all’aspettare che il cambiamento sia portato da altri e che risolvere i problemi più gravi, come l’impatto della recente crisi economica, ci pensi il regime.
Vicente, ha una storia tipicamente cubana: negli anni Ottanta venne mandato in Russia a studiare «tecniche di comunicazione dei sistemi satellitari militari» all’Università di Leningrado (l’attuale San Pietroburgo).  Quando gli mancava un solo anno per raggiungere la laurea, venne rispedito a Cuba: non ci sarà più bisogno di sistemi satellitari militari gli hanno detto, la guerra fredda sta per finire. Rientrato nel suo paese ha fatto di tutto, dal cameriere al manovale, e adesso da qualche mese ha aperto una piccola cabaña (pensione) sulla costa di Remedios, dove offre servizi basici per turisti nazionali. «La mia sensazione è che lo stato voglia imporre sempre maggiori tasse a chi vuole avviare attività economiche in proprio, per prendersi la sua fetta di guadagno e fronteggiare la crisi. Ufficialmente hanno detto che amplieranno le possibilità di lavoro privato ma in pratica, per quanto mi riguarda, hanno già aumentato le tariffe per la concessione delle licenze e le imposte sul reddito. Però, per chi ha iniziativa, questo è il momento in cui provarci, a fare qualcosa di diverso, che non sia emigrare o aspettare le rimesse dei familiari all’estero. Almeno ora se vogliamo metterci in proprio possiamo farlo sotto il buon auspicio del partito e in totale legalità».
Martino Vinci, esperto di sviluppo rurale per il Pnud (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo), lavora all’Avana da diversi anni, e conferma le grandi aspettative di novità: «Cuba potrebbe non essere più la stessa dopo questo anno, stiamo vivendo un nuovo salto storico ma bisognerà vedere se i cambiamenti previsti saranno di sostanza e non solo di forma. L’autonomia non si ottiene con un decreto ma si costruisce con la partecipazione di tutti.
I principali limiti del sistema agricolo cubano, e ricordiamoci che Cuba è un importatore netto di alimenti, risiedono nella contraddizione esistente tra un modello produttivo reale che è sempre più decentrato e non statale (le cornoperative) ed un altro ancora centralizzato, di pianificazione, commercializzazione dei prodotti e assegnazione dei mezzi di produzione. È un sistema che non premia chi è più efficiente, non distribuisce in base ai livelli di produttività, ma introduce molti livelli di intermediazione e quindi non può essere sostenibile. I Lienamienti vanno esattamente verso una direzione opposta all’attuale, concedono maggiore spazio alla piccola produzione non statale, riducono il peso dello stato sia nella gestione sia nella produzione e danno maggiori responsabilità ai governi locali nella pianificazione del settore. La diversificazione produttiva è una scelta ormai senza ritorno, così come la rinuncia alla monocultura della canna da zucchero».

Largo all’agricoltura familiare
A livello di politiche agrarie, si erano visti segni importanti di cambiamento già con un decreto del luglio 2008, che prevedeva la concessione dei terreni incolti ai contadini che avessero dimostrato volontà di produrre e la disponibilità dei mezzi minimi per intraprendere l’iniziativa. Vinci spiega: «La distribuzione delle terre è in corso, ha raccolto grande consenso, ma non soddisfa ancora la grande domanda generata tra la popolazione. Del milione di ettari previsti, ne sono stati distribuiti circa 700mila e i risultati sono visibili ad occhio nudo. Tuttavia i problemi sono ancora molti. I nuovi produttori spesso non hanno adeguato accesso ad assistenza tecnica, finanziamento e mezzi di produzione, con forti rischi di abbandonare il loro progetto prematuramente. La terra è concessa in usufrutto gratuito per dieci anni alla sola condizione di mantenerla in produzione».
Gli chiediamo se non ci saranno rischi nell’introdurre meccanismi vicini all’economia di  mercato: «Non si va verso l’eliminazione dei prezzi sussidiati né verso un mercato dominato solo dall’offerta e dalla domanda. Si aspira a introdurre un sistema più equo di distribuzione dei sussidi, non più generalizzati, e a una coesistenza più armonica tra prezzi determinati dal mercato e prezzi regolati dallo stato. Il problema principale risiede nella necessità che i prezzi si adeguino maggiormente ai costi reali, soprattutto se verranno eliminati i sussidi per l’accesso ai mezzi di produzione. Allo stesso tempo occorrerà garantire l’accesso agli alimenti fondamentali adeguando i prezzi alla capacità di acquisto della maggior parte della popolazione. Se si riesce a stimolare davvero l’offerta, attraverso un incremento sostanziale della produzione, i rischi saranno ridotti. Attualmente la maggiore pressione sui prezzi dipende dal fatto che sul mercato non esiste sufficiente offerta di determinati prodotti alimentari e questo crea speculazioni e distorsioni».
Tra i cambiamenti presentati nel piano di riforma ve ne sono alcuni che più di altri rompono con il passato: per esempio, la legalizzazione della compra vendita immobiliare, da sempre severamente vietata a Cuba. Il funzionario intervistato ci spiega che di fatto, non si fa altro che legalizzare pratiche che erano già ampiamente diffuse: «I cubani hanno sempre trovato il modo per comprare e vendere case o auto, ma lo facevano di nascosto e con sotterfugi; è un bene che oggi accettiamo la realtà e andiamo avanti».  
Altro punto critico previsto è la soppressione graduale della tessera di approvvigionamento. Non è più sostenibile fornire servizi e assistenza a tutti, senza distinguere chi ne ha realmente bisogno. Come viene spiegato nel documento esaminato dal Congresso, il socialismo è parità di diritti e di opportunità, ma non è uguaglianza. Gli atteggiamenti patealisti dello stato vanno evitati e si deve riscattare il valore del lavoro come mezzo indispensabile per rispondere alle necessità quotidiane.
«Bisogna cancellare per sempre la nozione che Cuba sia l’unico paese al mondo dove si può vivere senza lavorare» aveva gridato Raul Castro, introducendo il vento di cambiamento che anticipava il documento di riforma. «Il lavoro è un diritto e un dovere e dovrà essere remunerato in modo conforme alla quantità e qualità. Il salario diventerà uno stimolo per incrementare la produttività, la disciplina e la motivazione». Si punta su un sistema meritocratico, piuttosto che di favoritismi.
Non c’è alcun dubbio che la posta in gioco per Cuba sia molto elevata: la battaglia economica costituisce oggi, più che mai, il dovere principale e il centro del pensiero ideologico dei dirigenti, perché da essa dipende la sostenibilità del sistema socialista.

Ermina Martini

1- Il documento «Lineamentos» della politica economica e sociale del Partito e della Rivoluzione è reperibile in www.pcc.cu

Ermina Martini




Pelle (s)fortunata


La loro condizione è estremamente allarmante: gli albini, donne e uomini, bambine e bambini, sequestrati e fatti a pezzi per fare amuleti con la loro pelle e altri organi; crimini causati da credenze tribali ed enormi interessi economici. Ma qualcosa sta cambiando: un albino è stato eletto membro del parlamento tanzaniano nel partito di opposizione.

1-appena-nato-avvolto-nella-kangha-mbagala (Romina Remigio)
1-appena-nato-avvolto-nella-kangha-mbagala (Romina Remigio)

Fatti a pezzi, ammazzati, mutilati, scuoiati… solo per fae dei portafortuna. Questo è quello che accade quotidianamente da anni agli albini in Tanzania.
Le foto del mio reportage «I AM ALBINO» (che ha vinto il terzo premio al 38° Portfolio Internazionale Ateum) mostrano la vita degli albini nella loro cruda realtà, dalla paura di essere ammazzati ai tumori che li colpiscono; ma sono anche un inno alla forza e al coraggio che essi hanno nell’affrontare la vita. Lavorano, amano, si sposano, fanno figli che curano amorevolmente. In Tanzania c’è addirittura una squadra di calcio formata da albini; hanno un’associazione nazionale che si occupa di sensibilizzare la popolazione sulle loro condizioni, ma soprattutto sul fatto che essi sono africani, tanzaniani e vogliono vivere la loro vita liberamente come tutti i loro fratelli.
Ma non fanno notizia
Mentre l’informazione nazionale, europea, internazionale è impegnata a sgomitare per proporci ogni giorno un nuovo scornop, in Tanzania degli esseri umani sono ammazzati brutalmente per riti magici. Come può l’informazione mondiale chiudere gli occhi davanti a situazioni del genere, e turarsi le orecchie di fronte a chi chiede aiuto e a quei giornalisti locali che denunciano tale mattanza? Come giornalista, non posso che provare vergogna quando i grandi direttori dei nostri giornali, davanti alla denuncia di una situazione aberrante e allo sforzo di sensibilizzare l’opinione pubblica su ciò che accade ancora nel 2011 in una parte del mondo, mi rispondono che il mio reportage è ben fatto fotograficamente, ma non fa notizia!
L’Africa, come da anni viene ribadito, non fa notizia. I massacri di albini, grandi e piccoli, la pelle dei quali e altre parti del corpo vengono utilizzate per realizzare amuleti, gli enormi introiti economici dietro tali delitti, per non parlare di casi limitati a riti magici-tribali, non fanno notizia!
Mi vergogno di svegliarmi in un paese dove il giornalismo sociale è ormai così marginale.
Non dimenticherò mai le parole di Enzo Biagi: qualche mese prima che morisse, ebbi la fortuna di incontrarlo per la mia tesi di laurea; prima ancora di rivolgergli una domanda, mi chiese cosa volessi fare da grande. Orgogliosa e decisa, risposi: «La foto-giornalista! Voglio raccontare cosa accade nel mondo dalla prospettiva di chi non ha voce». E lui, dopo aver osservato la mia convinzione, mi disse: «Sarà difficile. Sarà il mestiere più duro del mondo. Non potrai mai farlo per guadagnare, ma solo per passione! Deve essere una passione! Io ho sempre detto che questo lavoro lo farei anche gratis».

Il primo parlamentare albino del Tanzania: Salum Khalfan Barwany - AFP PHOTO/Yasuyoshi CHIBA
Il primo parlamentare albino del Tanzania: Salum Khalfan Barwany – AFP PHOTO/Yasuyoshi CHIBA

Primo albino in parlamento

Era il 2007 quando sentii parlare per la prima volta che due albini in un villaggio erano stati trovati ammazzati, dopo essere stati scuoiati vivi. Mi sembrava così assurdo. In Tanzania?!
Si tratta di un’antica credenza tribale ancora persistente, anzi in forte aumento. Negli ultimi due anni, albini uomini e donne, bambini e bambine sono stati sequestrati, massacrati, fatti a pezzi, scuoiati per fare amuleti con la loro pelle bianca e altre parti del corpo.
Il fenomeno è esploso nella parte più povera e arretrata del Tanzania, nelle regioni di Singida, Mwanza, Shinyanga, al confine con il lago Vittoria, dove vivono minatori e pescatori convinti dagli stregoni locali che avere un amuleto fatto di pelle o parti di albino porti fortuna nel lavoro e nella vita.
Di fronte ai continui servizi giornalistici e alle pressioni di attivisti dei diritti umani, nel 2008 il governo ha dichiarato illegali tutte le licenze degli stregoni del nord e vietato qualsiasi loro attività. «Sotto la nostra spinta il governo ha iniziato anche azioni di tutela degli albini» mi dice la presidente dell’Associazione albini del Tanzania, signora Shymaa Kway-Geer; per la sua determinazione nella lotta alle discriminazioni contro gli albini, il presidente Jakaya Kikwestern l’ha chiamata in Parlamento, primo membro albino in tale istituzione.
Non esiste una stima precisa, ma sembra che in Tanzania gli albini siano più di 300 mila. La malattia che li colpisce più frequentemente è il cancro alla pelle. Per essere curati devono recarsi a Dar es Salaam, presso l’Ocean Road, l’unico ospedale per la cura del cancro in tutto il Paese. Per chi vive al nord questo significa affrontare un viaggio di due, tre giorni.
«Noi siamo terrorizzati. Il governo ha predisposto schiere di poliziotti che scortano gli albini durante questi lunghi viaggi. Abbiamo paura di girare da soli, di essere aggrediti. Quando non vediamo tornare a casa i nostri bambini la preoccupazione aumenta. Io vivo con mio marito e i miei quattro figli. Di notte, se qualcuno bussa alla porta, io inizio già ad agitarmi; e i miei figli mi dicono: mamma, andiamo noi, tu non andare».
La presidente con il resto del consiglio direttivo e alcuni membri dell’Associazione mi ricevono nel loro ufficio: una stanza che l’Ocean Road ha messo a loro disposizione, anche per la massiccia presenza di albini in cura all’ospedale. Il mio sguardo fotografa articoli di giornali che arredano la stanza. Enormi raccoglitori traboccano di carte, documentazione e casi di aggressione ad albini.
Shymaa è seduta al tavolo di fronte a me, scrive il suo numero di telefono piegata e incollata su un foglio di carta. È molto miope, come la maggioranza degli albini. Vede pochissimo e, nonostante le grosse lenti montate sugli occhiali, ha bisogno di avvicinarsi al foglio quasi fino a toccarlo con il naso. Una delle tante conseguenze dell’albinismo, insieme ai tumori alla pelle, è proprio la miopia, che si sviluppa fin da bambini, causando loro enormi difficoltà a scuola: non tutti possono permettersi il lusso di un paio di occhiali.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

A casa di Victor

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Arrivo nella scuola del villaggio mentre il muezzin chiama alla preghiera. Victor è sulla porta della scuola, accecato dalla luce abbagliante di mezzogiorno. Ha gli occhi socchiusi, arriccia il naso e cerca di farsi ombra con la mano come per voler mettere a fuoco. Non mi conosce, ma sa di dover aspettare una mzungu (bianca) che vuole conoscere lui e la sua famiglia.
Mi avvicino e mi sorride solo quando sono a pochi centimetri da lui. Non sapendo cosa dire mi prende per mano. La sua mano è porosa, sembra di carta vetrata, mi graffia. È talmente ustionata dal sole da essere coperta da bolle indurite e fastidiose.
È un bel bambino. I lineamenti sono delicati; la pelle del viso e del collo è bianchissima, morbida, sembra curata o ancora troppo giovane.
Prendiamo una strada sterrata; si toglie le scarpe, ne lega i lacci tra loro e le appende al collo. I quadei e i libri li mette sulla testa e cammina spedito, ma si sente osservato. Timidamente inizia a farmi qualche domanda in inglese. Gli piace studiare. E mi dice che l’inglese è la sua materia preferita.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Passiamo in mezzo a bambini che giocano a pallone, accanto a donne che attizzano il fuoco per cucinare l’ugali (polenta). Tutti ci guardano e lui sorride e saluta, contento di essere importante agli occhi del villaggio perché ha con sé la mzungu.
Arriviamo finalmente a casa sua. La mamma è fuori che lava i panni e lui le si avvicina, gli sorride e subito si mette ad aiutarla. La casa di fango è immersa nel villaggio di Kibiti, accerchiata da alberi di mango che ne delimitano il perimetro.
Alla spicciolata arriva una squadra di ragazzine e bambini: sono i fratelli e le sorelle di Victor. La mamma mi dice di avere sette figli, due dei quali albini: Victor, che mi accompagna, e Oliver, il primo figlio, che lavora a Dar es Salaam.
Suo marito, molto malato, non è albino. «Lo era suo nonno – mi anticipa quasi a voler spiegare come due figli siano nati albini e gli altri cinque no -. Non ho mai pensato, nemmeno per un secondo, che Victor o Oliver potessero essere una disgrazia. Amo tutti i miei figli allo stesso modo. Mio marito e io li abbiamo allevati senza pregiudizi; anzi, gli altri cinque sono istintivamente diventati più protettivi nei confronti di Victor, soprattutto in questi anni. Se ne sentono tante. Meno male che noi viviamo in un piccolo villaggio e la gente vuole bene a Victor, lo aiuta e lo protegge. Non credono a queste superstizioni. Victor è un bimbo buono, generoso, molto dolce ed è ben voluto da tutti. Lui va a scuola con gli altri bimbi del villaggio, li aiuta a fare i compiti, gioca con loro, va al catechismo ed è stato anche scelto dal parroco come chierichetto. Gli piace studiare e dice che da grande vuol fare il medico per guarire tutti i bambini. Io sono orgogliosa di Victor e di Oliver come di ognuno dei miei sette figli. Quello che sta accadendo in Tanzania è vergognoso; ognuno di noi tanzaniani deve reagire e aiutare le famiglie dove ci sono albini, affinché finisca questa tragedia assurda. I nostri albini sono figli del Tanzania come gli altri. Sono africani bianchi e il governo deve impegnarsi nel far capire alla gente che sono esseri umani e che è assurdo pensare che possiamo vincere la nostra povertà con un amuleto fatto con le parti di una persona, un loro fratello per giunta».

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Vita da fantasma

Too a Dar es Salaam e incontro il segretario generale dell’Associazione albini del Tanzania, Samuel Mugo, che mi mostra la bozza di una proposta di ricerca che l’associazione ha elaborato, per stabilire le cause che sono all’origine delle uccisioni e ha fatto appello al governo perché questo dichiari la situazione come emergenza nazionale. Stanno facendo pressione su leaders religiosi, giornalisti e attivisti dei diritti umani affinché facciano sentire la loro voce e convincano i membri del governo che la strage degli albini è socialmente e moralmente ingiustificata.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

«Inoltre un’altra sfida che gli albini devono affrontare – continua Samuel – è la discriminazione sul posto di lavoro, poiché sono disprezzate le loro qualifiche e competenze. Meno male che all’Ocean Road ci sono albini che lavorano come infermieri e negli uffici. Ma nei villaggi dell’interno i bambini albini non vengono mandati a scuola; sono emarginati e condannati a un futuro di lavori manuali spesso sotto il loro peggior nemico: il sole bollente che cuoce la loro pelle».
Gli domando come, secondo lui, si possano uccidere e scuoiare delle persone come fossero animali, per fae degli amuleti magici. «Forse per istinto o per nostra cultura: quando una persona si trova davanti a privazioni,  per prima cosa cerca spiegazioni e consigli dai guaritori tradizionali con la speranza di scoprire la causa dei problemi e delle sfortune e i relativi rimedi. Il più delle volte la soluzione consiste nel cercare scorciatornie che possano risolvere i mali, causando però maggiori problemi alla società. Di recente nel Paese sono venuti a galla 2 mila casi di commercio di organi umani. E in Africa, l’albinismo suscita da sempre pregiudizio. Un africano bianco è considerato e definito uno zeru zeru, fantasma o spettro. E si è trasmessa la convinzione che un albino sia dotato di poteri soprannaturali».
«Ero in giro per le strade di Dar es Salaam, mi hanno bloccato in tre e hanno provato a tagliarmi un dito del piede; per fortuna è arrivata una donna che si è messa a gridare» mi racconta Musa mentre mi mostra i segni dell’aggressione.
superstizioni e crudeltà
All’Ocean Road incontro Veronica mentre sta allattando il suo bellissimo Fredy, subito dopo il trattamento di chemioterapia: un tumore alla pelle la sta disintegrando fisicamente; ma Fredy, di cinque mesi, è bene in salute. Le dico che è pericoloso allattarlo a causa della sua chemioterapia. Mi risponde che tra il farlo morire di fame o per danni dovuti alla sua chemio, non sa cosa sia peggio. Come tante altre donne, è stata abbandonata dal marito quando aveva iniziato a stare male e l’unica eredità lasciatagli è questo bimbo che ama. Ma lei sta morendo. E non è la sola.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Le sue amiche vogliono fermamente essere fotografate per far vedere al mondo come è ridotto un albino aggredito dagli uomini o dal tumore alla pelle. Sono letteralmente sfigurate, eppure si mettono in posa con i loro bimbi in braccio. «Voi giornalisti dovete dirlo, dovete raccontarlo al mondo – mi grida Greta -. Ci sono antiche credenze ancora diffuse come quella che si possa guarire dall’aids avendo rapporti sessuali con ragazze albine, non facendo altro che aumentare gli stupri e il contagio. I bambini, che sono la maggioranza poiché la vita media di un albino è 40 anni, rischiano continuamente di essere uccisi e mutilati dei genitali, che i sicari rivendono a prezzi altissimi per riti tribali».
Di fronte alle loro storie, non posso fare a meno di domandarmi se sia giusto che questi sfortunati, che passano tutta la vita a difendersi dal sole, oltre alle sofferenze provocate da piaghe, scottature, tumori della pelle, dopo l’emarginazione e le difficoltà sempre maggiori, siano costretti a vivere la loro quotidianità nel terrore di essere mutilati e scuoiati vivi!
Greta, prima di finire il suo sermone, avvicina i suoi occhi ai miei, raccontandomi quanto devono soffrire soprattutto negli attimi prima di morire; leggenda vuole che le parti dei loro corpi utilizzate nei riti magici, siano tanto più efficaci quanto più forti siano state le urla durante la mattanza.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Affari e riscatto

Si calcola che in Africa ci sia un albino ogni 5 mila abitanti (in Europa uno ogni 60 mila). In alcuni paesi, come Congo, Uganda, Malawi, Kenya, Mozambico la percentuale degli albini è maggiore che in Tanzania e le credenze e pratiche magiche nei loro riguardi non sono meno drammatiche.
Dietro i crimini contro gli albini, non ci sono solo pregiudizi e superstizione. Sembra che gli introiti derivanti da tale mattanza siano troppo grandi per essere fermati. Secondo fonti della polizia tanzaniana un cadavere di albino può essere venduto per una somma che va dai 75 ai 400 mila dollari.

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Proprio in Tanzania, nel mese di agosto 2010, un cittadino keniano è stato catturato e condannato per direttissima a 17 anni di carcere per aver cercato di sequestrare un giovane albino (subito messo sotto scorta) allo scopo di rivenderlo per 220 mila euro.
Una giornalista tanzaniana, Vicky Ntetema, corrispondente della Bbc, è costretta a vivere sotto scorta perché minacciata di morte per aver denunciato il coinvolgimento di stregoni e poliziotti nelle uccisioni di albini.
Le denunce sono giunte anche al Parlamento europeo che, con una risoluzione del 4 settembre 2008, ha sollecitato le autorità tanzaniane ad avviare un’indagine su tali crimini e ha invitato il governo a «tutelare i diritti degli albini tanzaniani attraverso politiche d’inclusione, parità di accesso a istruzione e assistenza medica di qualità, a offrire loro una protezione sociale e giuridica adeguata; promuovere una migliore formazione degli operatori sanitari e seminari per insegnanti e genitori per far capire come sia importante che i bambini albini siano protetti dal sole».

(Photo Romina Remigio)
(Photo Romina Remigio)

Il presidente tanzaniano Kikwestern, come presidente anche dell’Unione africana e quindi maggiormente sollecitato dalle associazioni di diritti umani, è stato «costretto» ad adottare forti misure di sicurezza a favore degli albini.
Ma il riscatto maggiore per l’Associazione nazionale degli albini e di tutti gli albini del Tanzania è arrivato il 3 novembre 2010: per la prima volta nella storia, per volontà popolare, alle elezioni presidenziali è stato eletto in Parlamento un albino 52enne, Salum Khalfani Bar’wani, candidato del partito di opposizione Fronte civico unito (Cuf). Nonostante i tanti brogli elettorali denunciati, ha battuto alle ue l’avversario della maggioranza che da 15 anni ricopriva il seggio. «Questa è stata decisamente una vittoria rivoluzionaria per tutti gli albini di questo Paese» ha commentato Bar’wani.

Romina Remigio



Al potere, per cambiare

Incontro con mons. Alvaro Ramazzini, vescovo di San Marcos

Finita la guerra, in Guatemala è rimasta la violenza. Una violenza che trova alimento nella diseguaglianza. La ricchezza è nelle mani di poche famiglie. Le multinazionali minerarie devastano il territorio senza apportare benefici. Il latifondo produce per l’esportazione schiavizzando la manodopera locale, soprattutto indigena. In questa situazione, molti tentano di emigrare negli Stati Uniti, correndo il rischio del sequestro o della deportazione. Di tutto ciò abbiamo parlato con mons. Alvaro Ramazzini, molto duro nei confronti del governo e del Congresso guatemaltechi, deboli e lontani dalla gente.

In Guatemala cambiano i presidenti, ma non cambia la situazione per l’80 per cento della popolazione. Impoverimento, diseguaglianze, violenza, distruzione ambientale, emigrazione continuano ad essere le caratteristiche dominanti del paese centroamericano.
In vista delle elezioni presidenziali di settembre 2011, abbiamo incontrato mons. Alvaro Ramazzini, dal 1988 vescovo di San Marcos, dipartimento guatemalteco al confine con il Messico.

DA UNA VIOLENZA ALL’ALTRA

Mons. Ramazzini, come descriverebbe il Guatemala del 2011?
«Direi che è una società molto violenta. Abbiamo un tasso di omicidi altissimo: sono 16 le persone uccise ogni giorno. Si tratta di una situazione diversa da quella che abbiamo sofferto durante il conflitto. È una violenza legata alla presenza del narcotraffico, che occupa la parte Nord del paese ed anche la zona dove io vivo. È una violenza legata anche ai gruppi che noi chiamiamo las maras. Molti dei giovani che compongono queste bande sono il risultato di famiglie disintegrate. Essi non hanno avuto l’esperienza di essere amati e quindi hanno un odio molto profondo nei confronti della società, una società molto impoverita. Prova di questo impoverimento è il fenomeno dell’emigrazione. Sono migliaia i guatemaltechi che cercano di andare negli Stati Uniti attraverso il Messico. Con tutti i rischi che questo viaggio comporta.
A parte la questione della violenza, quella del Guatemala è una società molto polarizzata, fondata su un modello economico che non riesce a superare la disuguaglianza economica, con la ricchezza concentrata nelle mani di pochi. È una società che non ha avuto il coraggio di promuovere una riforma agraria nel senso più profondo ed integrale. Una società con un vergognoso tasso di malnutrizione infantile: su 100 bambini da 1 a 5 anni di età, 49 soffrono di malnutrizione cronica. Tra le popolazioni indigene questo tasso aumenta fino al livello del 59%. Per questi bambini il futuro è buio».
A proposito di emigrazione, quali sono i rischi a cui lei si riferisce?
«Nel 2010 ci sono stati oltre 10mila guatemaltechi sequestrati mentre cercavano di passare per il territorio messicano1. Ci sono bande che fanno pagare riscatti di 5-10 mila dollari. Senza dire delle donne violentate.
Un solo fatto: lo scorso anno, a Tamaulipas, in Messico, furono ammazzati 72 migranti, dei quali 14 erano del Guatemala e tra questi 3 appartenevano alla mia diocesi.
E poi c’è il problema delle deportazioni. Soltanto nel 2010 ci sono stati 135mila guatemaltechi deportati dagli Stati Uniti e dal Messico. Anche in termini economici questo dato è devastante, considerando che le rimesse dall’estero sono la seconda entrata per il Guatemala. Negli Usa ci sono circa un milione di guatemaltechi: immagini cosa accadrebbe se tutti questi venissero rimpatriati».

In Guatemala, i presidenti sembrano tutti eguali. Anche gli ultimi due, Oscar Berger e Alvaro Colom, non hanno agito diversamente. È così?
«I loro governi hanno portato avanti una politica neoliberale. Questo significa privilegiare gli investimenti stranieri, favorendo la presenza delle compagnie transnazionali. Prendiamo la multinazionale canadese dell’oro Goldcorp, una delle più grandi del mondo, che opera proprio nel territorio di San Marcos. Loro pagano soltanto l’1 per cento di royalties. Nel frattempo, l’oncia d’oro, in soli 3 anni, è passata da 420 dollari agli attuali 1.460 dollari. Loro continuano a darci l’1 per cento, usando tutta l’acqua che vogliono con il rischio perenne dell’inquinamento. Insomma, i vantaggi per il Guatemala sono inesistenti. E ancora oggi si firmano accordi per l’estrazione del petrolio2.
Comunque, a parte la questione delle multinazionali, tutte le politiche governative favoriscono la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. Recenti studi dicono che in Guatemala 56 famiglie detengono tutte le ricchezze».

LATIFONDO, BIOCOMBUSTIBILI E PAPAVERI

A proposito di concentrazione, anche le terre sono nelle mani di pochissimi proprietari. La piaga del latifondo è ancora un problema irrisolto?
«Assolutamente sì! Il problema del latifondo c’è ancora oggi, nel 2011. Oltre a ciò vige un sistema – io lo vedo personalmente anche nella mia zona – quasi feudale per  i lavoratori, i quali non hanno diritto all’assistenza sociale né alle vacanze né alla pensione. Addirittura non sono padroni del pezzo di terra dove abitano all’interno della finca. In qualsiasi momento possono essere espulsi e cacciati via. Quindi, in Guatemala, il sistema latifondista persiste ed ora con una caratteristica in più: molta terra viene utilizzata per la coltivazione della palma africana per produrre biocombustibili. È qualcosa di inaudito ed incomprensibile che, in un paese dove i bambini non ricevono cibo sufficiente, si usi la terra per coltivare palma africana o canna da zucchero per produrre biocombustibili! Ancora una volta si dimostra che abbiamo governi deboli o incapaci di affrontare il potere economico dei latifondisti.   Stando così le cose, nella mia regione i contadini hanno iniziato a coltivare i papaveri da oppio. Dicono che è il solo modo di sopravvivere per essi e le loro famiglie».

Nulla di nuovo sotto il sole: i problemi sono quelli di sempre. Che fare per uscire da una situazione che pare perpetuarsi senza soluzione di continuità?
«Molti di noi nella Pastorale sociale ci facciamo questa domanda. Cosa possiamo fare? Cosa dobbiamo fare? Siamo arrivati alla conclusione che soltanto arrivando al potere politico si possano cambiare le cose. Certamente non vogliamo tornare alle sofferenze che ha significato il conflitto armato. Abbiamo sofferto tanto che preferiamo non ripetere quell’esperienza.
Tra parentesi, una cosa interessante. Poco tempo fa è stata fatta un’inchiesta tra i giovani. La domanda era: voi sareste d’accordo se ci fosse un colpo di stato? La risposta è stata sì, siamo d’accordo con il colpo di stato.
La cosa non mi stupisce. Adesso abbiamo un Congresso della repubblica che è un disastro. Abbiamo un governo che non ascolta le grida della popolazione. Per esempio, sul tema delle miniere, sullo sviluppo rurale e così via. Per questo molti non credono più nel sistema dei partiti politici.  
In questo momento, stiamo discutendo su come articolare i movimenti sociali di diverso genere e tendenze. Credenti o non credenti non importa, la cosa importante è che le persone abbiano il desiderio di un Guatemala diverso, molto diverso da quello che abbiamo adesso. Vogliamo fare una proposta pubblica ai candidati delle elezioni di settembre dicendo loro: noi vorremmo che il Guatemala fosse così e così, che il presidente avesse questo profilo, eccetera. Tuttavia, l’idea principale è di costruire un grande movimento sociale che si presenti non a queste ma alle successive elezioni. Perché, lo ripeto, noi siamo convinti che soltanto arrivando al potere politico si possano cambiare le cose».

Che pensa del «Trattato di libero commercio» (Tlc) cui anche il suo paese ha aderito?
«Il Trattato di libero commercio con gli Stati Uniti – il Cafta3 – non ha avuto un’influenza positiva. Tutte le analisi dicono che finora i risultati sono stati negativi per il paese. Io ero contrario al Tlc con gli Stati Uniti perché vedevo che non conveniva al paese».

E con l’Europa?
«L’Unione europea ha cominciato a parlare di un accordo di libera associazione dallo scorso anno. Purtroppo, ci siamo accorti che – invece di un accordo di associazione che favorisca lo sviluppo del paese – si tratta anche in questo caso di un trattato di libero commercio4. Per molti di noi è stata una delusione.
Due anni fa sono stato a Bruxelles con una delegazione per parlare dell’accordo. Ci dissero che loro avrebbero agito in modo diverso dagli Usa: prima ci sarebbe stata una discussione a livello nazionale sull’argomento, ma non è stato fatto; poi sarebbero stati formulati criteri per sviluppare programmi in favore del Guatemala, ma non è stato fatto; da ultimo, ci sarebbe stato un patto di libero commercio. Questo sì che è stato fatto!».

RIGOBERTA E IL GENERALE

I popoli indigeni costituiscono la maggioranza della popolazione. Com’è la loro condizione nella società guatemalteca?
«La maggioranza di essi è esclusa ed emarginata.
Oggi c’è una legge che punisce la discriminazione. Ad esempio, Rigoberta fu insultata (9 ottobre 2003) quando andò a testimoniare contro Rios Montt. Le persone sono state condannate ma se la sono cavata pagando una multa.
C’è anche una legge per la quale nelle scuole elementari si dovrebbe insegnare nella lingua locale. Adesso abbiamo professori che potrebbero farlo, ma che non hanno un posto dove insegnare perché lo stato dice di non avere i soldi necessari. Dunque, la situazione degli indigeni continua ad essere di sfruttamento ed emarginazione.
Anche noi siamo stati criticati. Come mai – ci è stato detto – nella chiesa cattolica non c’è un vescovo di etnia indigena? È vero. Noi abbiamo cercato di avere un vescovo indigeno, ma i candidati presentati sono risultati non idonei alla carica.
Si consideri che, fino al 1950, gli indigeni non potevano entrare in seminario. Non erano accettati. Dunque, finora non abbiamo formato sacerdoti indigeni con un’esperienza pastorale sufficiente per diventare vescovi. Ma stiamo cercando di rimediare.
Anche i membri indigeni del Congresso della repubblica sono pochissimi. Come sono pochissimi gli indigeni che rivestono cariche pubbliche».

I numeri dicono questo. Tuttavia, quando – nelle presidenziali del 2007 – Rigoberta Menchú Tum, maya e premio Nobel, si presentò come candidata, ottenne un misero risultato. Come mai?
«Quando Rigoberta rese pubblico il suo desiderio di presentarsi come candidata alle presidenziali, uno dei nostri collaboratori le scrisse una lettera in cui si diceva che non era ancora il momento per un passo di questo tipo. Aspetta – le disse -; preparati, comincia a percorrere le zone intee del paese, fatti conoscere di più e così avrai un appoggio maggiore. Rigoberta pensò che noi della diocesi fossimo contro di lei. Io le spiegai che era nostra intenzione appoggiarla, ma che le cose si debbono fare in un certo momento, quando si è sicuri di avere dei risultati.  
Il fatto è che Rigoberta è stata tanto tempo fuori del paese. In molte comunità indigene dell’interno non è conosciuta. In ogni caso, adesso lei è impegnata con la formazione indigena Winaq5.
A parte il caso di Rigoberta, spesso il protagonismo di alcuni non permette un ricambio generazionale. Lo vedo con formazioni di sinistra e contadine che non si rinnovano e che presentano sempre gli stessi leader. Arriva un momento in cui un vecchio leader dovrebbe dire: io mi metto fuori e appoggio i nuovi».

A settembre di quest’anno ci saranno le elezioni presidenziali. Lei cosa prevede?
«Si parla molto del Partido patriota6 del generale ritirato Otto Pérez Molina. Si dice anche che la moglie del presidente Colom, la signora Sandra Torres, voglia presentarsi come candidata. Lei è stata promotrice di alcuni programmi sociali, che aiutano la gente senza però risolvere i problemi sostanziali. Secondo le leggi attuali, la signora non potrebbe presentarsi, ma vediamo cosa decideranno i magistrati della Corte costituzionale. Successe anche con Rios Montt quando si presentò come candidato. Venne ammesso, ma poi per fortuna fu sconfitto.
Credo che la partita si giocherà tra la coalizione del presidente Alvaro Colom e il Partido patriota di Molina. Quando ho incontrato quest’ultimo, gli ho fatto presente che lui aveva il problema di essere stato un membro dell’esercito. Il generale mi ha risposto: “Sì, ma in quello dei buoni, non dei cattivi”».

Il Guatemala ha un’altissima percentuale di giovani. Per chi votano costoro?
«Molti giovani non partecipano alla vita politica nazionale, soprattutto quelli delle aree rurali. Quelli che vivono fuori del paese, in particolare negli Stati Uniti, non possono votare. Altri hanno tali problemi di sopravvivenza che certo non si preoccupano di andare a votare».

E cosa pensano del conflitto armato costato al Guatemala migliaia di vite e tanta sofferenza?
«Non ne so il motivo, ma purtroppo i popoli dimenticano molto in fretta ciò che hanno vissuto. Noi adulti dovremmo avere l’attenzione di trasmettere alle generazioni giovani ciò che abbiamo vissuto.  
Occorre insistere che negli istituti scolastici pubblici venga insegnata la storia del conflitto armato. Purtroppo, neppure nei nostri collegi cattolici, siamo riusciti a farlo, anche perché il ministero è molto rigido rispetto ai programmi scolastici. Neppure il rapporto “Nunca más” è conosciuto, nonostante sia costato la vita ad un vescovo7 e la persecuzione a molte delle persone che vi avevano lavorato».

LE MULTINAZIONALI E LA RESISTENZA DELLE COMUNITÀ

A San Marcos, la sua diocesi, ci sono conflitti ambientali pesanti. Lei si è schierato pubblicamente dalla parte delle popolazioni locali. Ci racconti come stanno le cose…
«In base alla direttiva 169 della Organizzazione internazionale del lavoro, lo Stato, prima di iniziare qualsiasi progetto, dovrebbe fare una consultazione con le popolazioni indigene coinvolte8. In altri termini, una popolazione deve essere ben informata, per poter decidere se un progetto sia o meno conveniente. Tuttavia, anche quando le consultazioni vengono svolte, i governi negano che l’eventuale giudizio negativo sia vincolante per il via ai progetti.
L’anno scorso a San Marcos sono state assassinate 3 persone che si opponevano ai progetti idroelettrici della multinazionale spagnola Unión Fenosa. Erano persone vicine al Frena, il Frente de Resistencia en Defensa del Pueblo y de los Recursos Naturales. Non dico che la multinazionale spagnola sia responsabile di quelle morti, ma certamente i fatti sono collegati.
Eppure, le popolazioni dicono cose di buon senso: se l’energia elettrica sarà prodotta con l’acqua del fiume che passa nei nostri territori, noi vogliamo essere beneficiari del progetto».
La vicenda – drammatica – di Unión Fenosa non è l’unica che vede coinvolte imprese transnazionali. È nota la lotta tra i residenti di Sipacapa e San Miguel (in gran parte indigeni) e la multinazionale canadese Goldcorp (Montana Exploradora). Com’è oggi la situazione?
«La resistenza in Sipacapa è diminuita. Il consiglio comunale ha preso una posizione non favorevole alla popolazione, accettando un’offerta della Goldcorp di circa un milione di dollari. È stato un colpo duro anche per i catechisti, molto coinvolti in questa lotta di resistenza. Inoltre, qualcuno dei residenti ha venduto la terra perché aveva bisogno di soldi.
D’altra parte, dato che il governo non ha la forza per fronteggiare il potere economico e i rappresentanti del Congresso pensano solo ai benefici personali, l’opposizione alle attività delle multinazionali minerarie può venire soltanto dalle comunità9. Noi stiamo ripetendolo nelle nostre zone: dobbiamo continuare con la resistenza pacifica, non possiamo mollare. La loro lotta è la nostra lotta!».

Dopo battaglie tanto lunghe ed estenuanti, è difficile mantenere viva la resistenza…
«È così difficile che noi, come diocesi, stiamo lavorando su una “spiritualità della resistenza”. Anche se tanti cattolici non comprendono le nostre scelte. Non capiscono che non si può vivere in pace se non c’è una promozione di alcuni principi quali la giustizia e la verità, la libertà e la solidarietà».

Monsignore, lei parla di lotta per la terra, dice che per cambiare qualcosa occorre andare al potere, è contro i trattati di libero commercio e le multinazionali minerarie… Una curiosità: i suoi colleghi vescovi sono tutti come lei?
«Non lo so. Sarebbe meglio che lo domandasse a loro. Mi fanno spesso questa domanda mettendomi un po’ in imbarazzo. Io dico sempre che ciascun vescovo risponde ai problemi che vede nella propria diocesi. Il fatto poi di correre più rischi, di avere più protagonismo (nel senso buono del termine), ciò dipende dalla scelta personale di ognuno. Tuttavia, pur non osando dare giudizi sugli atteggiamenti dei miei fratelli, io posso dire che sulle cose fondamentali – come l’opzione preferenziale per i poveri, l’inculturazione del vangelo, la difesa dei diritti umani- tra di noi c’è unità. Quando poi non si trova l’accordo di tutti, si ricorre alla votazione e vince chi ha la maggioranza. In questi casi occorre lavorare su chi non è convinto. Occorre un’opera di persuasione, soprattutto sui temi sensibili, come il problema agrario o un modello di sviluppo rurale in favore delle grandi maggioranze contadine».

TANTI FEDELI, POCHI CRISTIANI

Chiudiamo parlando di religione. In Guatemala, ci sono molte sette evangeliche (chiese pentecostali). Come sono i rapporti tra queste e la chiesa cattolica?
«Fallimentari. Non vogliono sapere nulla di ecumenismo. Loro promuovono questa “teologia della prosperità”: se tu verrai con noi, Dio ti benedirà e avrai soldi e successo negli affari.
Poi ci sono i predicatori che riescono a raccogliere moltitudini con la promessa di guarigioni (va ricordato che il paese ha un servizio sanitario gravemente carente). Questi toccano molto i sentimenti, facendo aggio sul senso di insicurezza e di frustrazione della gente».

A parte la questione delle sette, come giudica i cattolici guatemaltechi?
«Personalmente considero inaccettabile che in un paese con una popolazione al 98 per cento cristiana ci siano i problemi che abbiamo. Siamo un popolo molto religioso, ma non lo dimostriamo nei fatti, lottando per una trasformazione della società.
C’è un divorzio tra fede e realtà. Molti vengono a messa, fanno la comunione ma poi… Per esempio, troppi guatemaltechi non pagano le tasse, sono ingiusti nei rapporti di lavoro, trattano male le persone, sono razzisti. La Bibbia dice: “Per i vostri frutti vi conosceranno”. Oggi i frutti della società guatemalteca sono in contraddizione assoluta con il cristianesimo. Sarebbe meglio che noi ci dichiarassimo atei piuttosto che cristiani di questo tipo».

Paolo Moiola

NOTE AL TESTO:

1 – Si veda il reportage sul sito della televisione CNN-Mexico: http://mexico.cnn.com.
2 – Nel Petén, con la multinazionale francese Perenco: www.perenco-guatemala.com.
3 – Catfa: «Central America Free Trade Agreement».
4 – Acuerdo de asociación, firmato il 19 maggio 2010.
5 – Il sito web di Winaq: www.winaq.org.gt.
6 – Il sito web del partito di Molina: www.partidopatriota.com.
7 – È il drammatico rapporto finale del progetto Recuperatión de la memoria histórica (Remhi), redatto dalla chiesa cattolica guatemalteca attraverso il lavoro dei gruppi pastorali di undici diocesi. Due giorni dopo la presentazione di Nunca más, mons. Juan Gerardi, cornordinatore del progetto, venne assassinato.
8 – Convenzione Ilo/Oit 169 sui Popoli indigeni e tribali adottata il 27 giugno 1989, entrata in vigore il 5 settembre 1991.
9 – Un sito web sulle lotte contro le miniere in America latina: www.noalamina.org.

Paolo Moiola




Chiesa nel mondo

PAKISTAN
SHAHBAZ BHATTI MARTIRE
   
La Conferenza Episcopale del Pakistan, riunita in assemblea dal 20 al 25 marzo a Multan, ha deciso di inoltrare ufficialmente alla Santa Sede la richiesta di proclamare Shahbaz Bhatti, il ministro federale per le minoranze religiose ucciso il 2 marzo scorso all’età di 42 anni, “martire e patrono della libertà religiosa”. La richiesta è stata presentata in assemblea dal vescovo di Multan, mons. Andrew Francis, delegato per il Dialogo interreligioso, ed è stata approvata all’unanimità dai vescovi. Essi hanno reso un tributo a Bhatti, riconoscendo la sua opera in favore delle minoranze religiose e dei cristiani e ricordando la sua autentica testimonianza di fede giunta fino al sacrificio della vita. Nella seconda settimana di aprile, invece, i vescovi e i fedeli cattolici si sono riuniti a Islamabad per commemorare Bhatti, a 40 giorni dalla morte. Il Ministro pakistano, di fede cattolica, che si era battuto per la soppressione della legge sulla blasfemia, è stato assassinato nella capitale pakistana per mano di un gruppo di uomini armati, dal volto coperto.
(Zenit)

SVIZZERA
ACQUA E PACE
    
In occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua, celebratasi il 22 marzo, la Rete Ecumenica dell’Acqua ha lanciato la campagna “Acqua e Pace Giusta” nel corso della quale, per sette settimane, a partire da lunedì 7 marzo, si sono susseguite riflessioni quaresimali settimanali sulla connessione tra l’accesso all’acqua, i conflitti per questa grande risorsa e la costruzione di una pace giusta. Di settimana in settimana, nella pagina web sono state proposte riflessioni bibliche insieme ad altre iniziative individuali e di congregazioni religiose. La Rete Ecumenica dell’Acqua è una iniziativa di Chiese, organizzazioni e movimenti cristiani che promuovono l’acqua come diritto umano e lavorano a favore dell’accesso di tutti attraverso iniziative a base comunitaria realizzate in tutto il mondo.
(Fides)

ITALIA
IL CROCIFISSO     
NELLE SCUOLE
      
La sentenza emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo a favore dell’esposizione del crocifisso nelle scuole italiane ha ricevuto il plauso della Santa Sede, per la quale si tratta di una decisione che “fa storia” nel riconoscimento della libertà religiosa. La Corte riconosce «ad un livello giuridico autorevolissimo ed internazionale che la cultura dei diritti dell’uomo non deve essere posta in contraddizione con i fondamenti religiosi della civiltà europea, a cui il cristianesimo ha dato un contributo essenziale». Dal canto suo, il cardinale Péter Erdő, Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE), ha espresso soddisfazione per la sentenza, definendola «un segno di buon senso, di saggezza e di libertà. Oggi è stata scritta una pagina di storia – ha dichiarato -. Si è aperta una speranza non solo per i cristiani, ma per tutti i cittadini europei, credenti e laici, che si erano sentiti profondamente lesi dalla sentenza precedente e sono preoccupati di fronte a procedimenti che tendono a sgretolare una grande cultura come quella cristiana e a minare in definitiva la propria identità. Considerare la presenza del crocifisso nello spazio pubblico come contraria ai diritti dell’uomo sarebbe stato negare l’idea stessa di Europa. Senza il crocifisso l’Europa che oggi conosciamo non esisterebbe. Per questo motivo la sentenza è prima di tutto una vittoria per l’Europa», ha concluso il cardinale.
(Zenit)

INDIA
CARITA’ E CONVERSIONI
   
Quando George Palliparampil, oggi vescovo di Miao, ha iniziato il suo ministero, nella parte nord-orientale dell’India, il suo lavoro missionario era illegale e ha dovuto subire interrogatori da parte della polizia. Nonostante i perduranti ostacoli, questo è il luogo in cui la Chiesa cattolica è cresciuta di più negli ultimi 30 anni, con più di 10.000 battesimi di adulti ogni anno, nonostante il divieto alle conversioni. Oggi, più del 40% dei circa 900 mila abitanti di Arunachal Pradesh è cattolico e il loro numero è in rapida crescita. Secondo mons. Palliparampil ciò che ha favorito la rapida diffusione della fede è stato il «convincimento della gente di poter trovare nella Chiesa qualcuno che cammini con loro. Non qualcuno che viene per imporre programmi o progetti, ma qualcuno che si è lasciato coinvolgere in ogni aspetto della loro vita e loro l’hanno accolto». Un agente di polizia ha confessato: «Non vi sono villaggi in cui questi missionari non siano andati. Hanno dormito nelle loro case tribali, mangiano con i tribali, i loro figli vanno nelle loro scuole in tutta l’India e curano i loro ammalati non per fini di conversione, ma perché queste persone guariscano, per fini puramente umanitari. Quando arrivano queste persone [i missionari cristiani], i tribali vogliono solo far parte del Cristianesimo». «E questo – conclude il vescovo – è ciò che sta avvenendo. Non è una sorta di conversione imposta come alcune persone hanno tentato di far passare. È pura accoglienza».
(Zenit)

KUWAIT
NOSTRA SIGNORA DI ARABIA
   
Il 16 gennaio 2011, il cardinale Antonio Cañizares Llovera, ha proclamato, nella cattedrale del Kuwait, la Beata Vergine Maria Nostra Signora di Arabia, patrona di tutti i Paesi del Golfo, e cioè: Kuwait, Bahrein, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Yemen e Oman. «Questo “nuovo” titolo della Madonna ha toccato il cuore della gente», dice mons. Camillo Ballin, vicario apostolico in Kuwait. Qui in Kuwait la Madonna non ha fatto apparizioni come a Lourdes, a Fatima e altrove, ma lei è sempre stata presente e qui è riuscita a portare Gesù prima ancora che vi arrivasse l’islam. Infatti, nell’isola di Failaka, appartenente al Kuwait, ci sono i resti di una chiesa, probabilmente nestoriana, del quinto secolo. Come pure altri importanti resti archeologici di chiese di quel tempo si trovano anche in altri Paesi del Golfo. A Lei abbiamo voluto dedicare tutto il Golfo perché preceda e accompagni il nostro ministero. Sono note le varie e complicate situazioni di questi Paesi, dove a volte si può godere di una limitata tolleranza della libertà di culto, ma a volte tale libertà non è assolutamente permessa. In questo intricato labirinto, dove in una sola chiesa dobbiamo celebrare in 5 riti e in 12 lingue, lei ci deve indicare il cammino perché la diversità non sia divisione ma unità».
(Camillo Ballin)

MALAYSIA
SOLO PER CRISTIANI
   
In seguito alla polemica legata all’uso della parola “Allah” per significare “Dio”, il governo aveva proibito l’uso del termine da parte dei cristiani. Essi, hanno fatto ricorso dimostrando che l’uso del termine “Allah” data ancora dal 1600 e la Corte suprema ha dato loro ragione. Ed ora 30 mila bibbie in lingua malay, ferme alla dogana, sono state sbloccate e possono essere distribuite con la sovrascritta: ‘Solo per cristiani’ al fine di evitare confusioni e conversioni.
(Asia news)

Sergio Frassetto




Porto Alegre dieci anni dopo

Dakar 2011: il Forum visto dai contadini

Da Porto Alegre a Dakar: il Forum sociale mondiale compie 10 anni. E lo fa in Africa.
I problemi organizzativi non mancano, ma partecipazione ed entusiasmo sono elevati. Importante la presenza dei movimenti contadini di tutto il mondo. Sono loro che producono il cibo per l’intero pianeta.

Dopo Bamako, Mali (2006) e Nairobi, Kenya (2007), si è svolto a Dakar, in Senegal, il terzo Forum sociale mondiale (Fsm) in terra d’Africa.
La manifestazione è così giunta alla sua decima edizione ed ha ormai compiuto 10 anni. Nato nel 2001 a Porto Alegre, nel Sud del Brasile, si è poi svolto nella stessa città nel 2002, 2003 e 2005. In Asia, a Mumbai è stata organizzata l’edizione del 2004, mentre nel 2006 i movimenti sociali hanno optato per un Forum detto «policentrico», ovvero due incontri che si sono svolti, a una settimana di distanza a Caracas e a Bamako appunto. Dall’anno successivo, il Forum è diventato biennale.
Quest’anno a Dakar, tra il 6 e l’11 febbraio la prestigiosa università Cheikh Anta Diop è stata invasa da 75 mila persone. Oltre il doppio di quelle previste dagli organizzatori. Hanno partecipato attivisti dei movimenti di 123 paesi, di cui ben 43 africani (quasi ogni stato del continente, visto che oggi sono 53). Presenti anche i rappresentanti dei popoli «senza stato» palestinese e kurdo.
«C’è stata una forte mobilitazione a tutti i livelli, il numero di partecipanti che aspettavamo è stato largamente superato, il bilancio è quindi molto positivo da questo punto di vista». Tira le prime conclusioni Samba Gueye, presidente del Cncr (Consiglio nazionale di concertazione dei rurali), la piattaforma nazionale che riunisce contadini, allevatori e pescatori di tutto il Senegal. È una delle grosse associazioni senegalesi attive nella preparazione del Forum. «È vero che dal punto di vista organizzativo ci sono stati dei problemi» ammette.
Il rettore dell’Università, di recente nomina, ha dichiarato, a lavori iniziati, di non essere al corrente del Forum. Così le lezioni e gli esami non sono stati sospesi e si è creata una competizione sulle aule. Più volte è successo che fosse in corso un seminario del Forum e arrivassero gli studenti senegalesi che dovevano sostenere un esame. Gli occupanti venivano così invitati ad andarsene. In tutta fretta gli organizzatori hanno dovuto allestire dei tendoni negli spazi vuoti del campus universitario, per ovviare al problema. Queste sovrapposizioni di spazi hanno fatto saltare completamente la programmazione ed è diventato difficile individuare ora e luogo degli incontri di interesse.

Soddisfazione senegalese
«È la prima volta che si tiene nel nostro paese un avvenimento di questo tipo e siamo stati tutti sorpresi dell’entusiasmo che ha suscitato» racconta il dottor Mamadou Cissé, rappresentante dell’Ong italiana Cisv in Senegal. «Avevamo molti dubbi sul fatto che le organizzazioni del Senegal sentissero loro il Forum, sulla percezione che la società civile mondiale sarebbe venuta da noi». «Nonostante le difficoltà di programmazione, ho sentito la presenza di una forte volontà di ritrovarsi a discutere sulle diverse tematiche» continua il dottor Cissé.
«Riconosco grande coraggio e perseveranza a tutte le organizzazioni della società civile, che malgrado i problemi organizzativi, sono riuscite a sedersi intorno a un tavolo, sotto delle tende, o semplicemente da qualche parte per mancanza di una sala. È stata importante la comunione tra i diversi attori che hanno partecipato e si sono confrontati».
Si dice che sia stato il Forum sociale peggio organizzato, ma è stato certo molto partecipato, soprattutto dagli africani. È riuscito a coinvolgere la popolazione senegalese, la sua società civile, cosa successa in tono minore ad esempio a Nairobi nel 2007.
Le donne, in particolare quelle africane, sono state protagoniste degli incontri e hanno fatto sentire la loro voce. Secondo alcuni questo è stato un elemento caratterizzante del Forum di Dakar.
«Anche a livello delle tematiche sviluppate c’è stata molta partecipazione: per noi è un obiettivo raggiunto» continua soddisfatto Samba Gueye.
Giustizia ecologica, crisi mondiale, migrazioni, sovranità alimentare, accesso all’acqua e all’igiene, leggi e buon governo, sprechi militari e altri sono i principali temi trattati in quasi 1.000 incontri dalle 1.205 organizzazioni iscritte al Forum di Dakar.  Per la prima volta, il Forum mondiale di Teologia e Liberazione si è svolto direttamente all’interno del Fsm, per dare la possibilità a tutti di parteciparvi. Circa 80 teologi, di differenti tradizioni e regioni del mondo, si sono incontrati su «Relazione tra spiritualità ed etica a partire dal dialogo tra tradizioni religiose e pratiche sociali». Tra i temi affrontati, quello del legame tra ricchezza, povertà ed ecologia, per una «Liberazione dal capitalismo come sistema di accumulo».
Fsm declinato al «rurale»
Tra i movimenti sociali in Africa, quelli più importanti sono i movimenti contadini. Forse perché la grande massa degli africani è impiegata in campagna e vive di agricoltura, allevamento, pesca. A Dakar ha partecipato la sempre presente rete mondiale Via Campesina, ma anche la piattaforma continentale africana e quella dell’Africa dell’Ovest, il Roppa (Rete delle organizzazioni contadine e dei produttori agricoli dell’Africa dell’Ovest) di cui fa parte il Cncr.
Alcune questioni preoccupano i produttori agricoli africani, sfide fondamentali anche per i consumatori, come lo dimostrano le attuali rivolte del pane in Nord Africa.
Samba Gueye parla animatamente di un tema caldo, quello dell’«accaparramento della terra» da parte delle multinazionali (noto anche come land grabbing, vedi MC ottobre 2010, ndr).
«C’è stata convergenza e solidarietà tra tutti i contadini del mondo su alcuni temi. Ad esempio l’appropriazione delle terre. Stiamo mettendo in piedi dei meccanismi e continueremo a costruire alleanze per quanto concee il problema fondiario e l’accaparramento di questa risorsa. Abbiamo discusso molto e abbiamo preso delle misure per mobilitarci ancora di più verso i nostri governi e, allo stesso tempo, incontrare altri settori della società civile, per unire i nostri sforzi e agire insieme per fermare il fenomeno. Perché se non mettiamo un freno, avremo dei contadini senza terra oppure degli operai agricoli».
Ma oltre ai grandi leader contadini, all’incontro di Dakar erano presenti produttori di diversi paesi del continente. E non solo.
«Il Forum in sé non produce risultati concreti – dice Malick Sow -. Ci offre delle tribune, per poter discutere di tematiche che sono al centro delle preoccupazioni dei produttori: l’accaparramento delle terre, ad esempio, ci accomuna e ci spinge a fare delle alleanze con altri attori». Malick è un agricoltore della regione di Louga, nel Nord del Senegal. È anche il segretario generale della sua associazione la Federazione delle organizzazioni contadine di Louga. Pragmatico, meno diplomatico, va dritto al dunque: «Nella nostra regione esiste questo fenomeno. Abbiamo dei produttori che sono stati vittime dell’accaparramento. Li abbiamo portati al Forum e hanno dato una testimonianza molto forte sulla loro esperienza, spiegando qual è l’impatto sulla produzione e sulla vita quotidiana. In questo modo sono entrati in contatto con dei giuristi che hanno preso l’impegno di essere al loro fianco per cercare modi e possibilità di rientrare nella loro parcella di produzione. Questo è un risultato concreto». E continua: «Inoltre come associazione abbiamo preso contatto con un centro ricerche e stiamo cercando di mettere insieme produttori e consumatori su questa problematica. Perché se si priva della terra il produttore, questi troverà comunque il modo di nutrire la sua famiglia, mentre il consumatore corre più rischi di non riuscirvi. Tutti devono capire che è loro interesse che il produttore non sia privato della terra».

Ogm e microcredito
Malick snocciola diverse questioni importanti: «Un altro problema, quello delle sementi Ogm, ha avuto molto spazio nelle discussioni. Grazie agli incontri abbiamo potuto pensare a collaborazioni con altri settori che hanno i nostri stessi interessi e pensare ad azioni concrete per lottare contro l’introduzione di queste sementi in Senegal. Un’altra preoccupazione fondamentale è la questione del finanziamento rurale. Quali sono le possibilità per mettere in piedi un sistema di finanziamento dell’agricoltura adattato alle esigenze dei produttori? Abbiamo identificato una collaborazione con altri attori latino americani. E ancora, importante per noi è la questione della migrazione. Si è parlato di co-sviluppo (nome tecnico per indicare azioni di migranti in appoggio ai loro villaggi di origine, ndr). Noi siamo in zone ad alto potenziale di migrazione e dobbiamo riflettere sul modo in cui i migranti possano investire in azioni a carattere economico per migliorare la produzione agricola».
Malick vede come risultato concreto anche i contatti e il confronto con i movimenti di altri continenti: «Ci sono molte esperienze interessanti in alcuni paesi latinoamericani, come Brasile, Colombia, Venezuela. Esperienze diverse, ma noi stiamo cercando di capire come tradurle nella nostra realtà socio culturale. Ci sono contatti stabiliti grazie al Forum e vedremo come continuare questa collaborazione e questo scambio, e mettere in piedi azioni concrete».
Samba Gueye spiega il lavoro svolto sulle questioni più legate alle pressioni inteazionali:
«Abbiamo parlato di sicurezza e sovranità alimentare, perché i popoli devono continuare a sfamare la propria gente, rurale o urbana, con la produzione agricola, ma per questo ci vogliono delle politiche coerenti. Abbiamo anche denunciato gli Ape (Accordi di partenariato economico che l’Unione europea sta siglando con diversi paesi, ndr) e quelli dell’Omc (Organizzazione mondiale del commercio). Si è discusso molto dei biocarburanti, le colture che ci sono imposte e alle quali siamo contrari. Si è parlato della diffusione delle monocolture a scapito della produzione famigliare e di controllo dell’acqua, come risorsa di irrigazione. Per questo dobbiamo denunciare i paesi ricchi che vogliono prendere acqua e terre fertili e lasciarci quelle aride».

Il vento del Nord
Si respirava, nell’atmosfera del Forum, un’attenzione particolare alle lotte di liberazione nei paesi arabi e alla cacciata dei dittatori in Egitto e Tunisia. Due eventi che hanno visto la mobilitazione delle masse, della società civile e soprattutto dei giovani di questi paesi. A indicare che c’è una grande stanchezza verso i regimi autoritari.
Taoufik Ben Abdallah, figura storica del Fsm, membro dei consigli africano e internazionale e uno tra i principali organizzatori di Dakar, poco prima dell’inizio dei lavori aveva detto: «La situazione in Tunisia, Costa d’Avorio ed Egitto ha un’eco nel mondo per rivitalizzare situazioni comuni in tanti paesi. Vogliamo che il Fsm 2011 sia come un ricettacolo di energie e capacità dei popoli per migliorare la propria vita. Vogliamo un Forum per le alternative popolari e democratiche e per valori universali condivisi».

Marco Bello
Si ringraziano per la collaborazione Simone Pettoruso e Sara Fischetti da Dakar, e per le foto Mara Alberghetti.

DAKAR 2011: impressioni di un partecipante «speciale»

Uniti dalla stessa passione

Dalla manifestazione di apertura, ricca di colori e ritmi africani, all’invasione pacifica dell’università. Donne, uomini, giovani dei movimenti di mezzo mondo si sono ritrovati per una settimana di confronto. Il racconto di un volontario italiano che da anni vive in Senegal.

«L’Afrique organise, le Sénégal accueille» (l’Africa organizza, il Senegal accoglie): i manifesti lungo le caotiche strade di Dakar non lasciano dubbi, il decimo Forum Sociale Mondiale sarà un evento marcato da una forte impronta, quella del calore e dei ritmi senegalesi. O meglio, africani.
L’appuntamento con il Forum è per domenica 6 febbraio nella grande piazza davanti alla Rts, principale televisione nazionale. Alle 13, nonostante il caldo, la piazza è già un insieme colorato e rumoroso di delegazioni dei vari paesi, con minibus che contribuiscono con megafoni e musica, mentre gli immancabili djembé (tipico di tamburo, ndr) raccolgono i più coraggiosi per qualche passo di danza.
Appena arrivati ci mettiamo alla ricerca delle associazioni con le quali la Cisv lavora quotidianamente nel paese. I loro striscioni diventano immediatamente i nostri. I saluti, qualche scambio di attese sul Forum che sta per cominciare e subito siamo rapiti da un altro cartello, striscione o semplicemente dal piacere di vedere che la società civile senegalese con la quale condividiamo sforzi e speranze è presente in massa all’appuntamento. Poco dopo il lungo corteo inizia la sua marcia in direzione della Check Anta Diop, l’università di Dakar. Dai palazzi e dai marciapiedi i più applaudono, partecipando a rendere la manifestazione un evento indimenticabile, mix unico di colori e rivendicazioni pacifiche, ma determinate. Dai movimenti dell’America Latina per l’accesso alla terra dei popoli indigeni, ai comitati di sans papier delle banlieue parigine, fino alle donne della Casamance che chiedono la fine di una guerra che da 20 anni colpisce il Sud del Senegal, tutti sembrano legati da un filo comune e dalla stessa voglia di farsi sentire, ognuno con i propri slogan, canti e ritmi. I grandi viali di Dakar, irriconoscibili senza la confusione dei taxi e dei car rapide, ci accompagnano fino all’ingresso dell’università dove il corteo aspetta gli interventi del presidente Abdoulaye Wade, di Lula ed Evo Morales (presidente della Bolivia). L’accoglienza riservata a questi ultimi permette fin da subito di capire quali sono i punti di riferimento dei movimenti presenti a Dakar.
Il Forum è ufficialmente aperto e per noi, la «delegazione» Cisv, arriva il momento di rimboccarsi le maniche, entrare in contatto con il Comitato organizzativo e cominciare ad allestire il nostro stand. Avendo partecipato alle riunioni di preparazione del Forum sappiamo che non sarà facile muoverci all’interno di un’organizzazione degli spazi e degli eventi che si preannuncia tutt’altro che perfetta. E la nostra impressione trova conferma.
Le magliette gialle dei volontari incaricati di gestire l’evento vengono sommerse di partecipanti in cerca di informazioni, gli stand iniziano ad animarsi e lo spazio destinato alla Cisv prende forma grazie a una paziente ricerca di tavoli, sedie, tessuti e quanto sia necessario per renderlo un punto di incontro e scambio di esperienze. E così per tutta la durata del Forum l’équipe della Cisv ha «invaso» l’università, non solo con la presenza allo stand, ma anche con seminari organizzati direttamente o con la partecipazione agli atelier che ogni giorno riempiono il campus universitario. Più di cento seminari al giorno, oltre a proiezioni di film, spettacoli teatrali e musicali, il tutto secondo la logica dell’auto-organizzazione, che prevede improvvisazione, adattabilità e una buona dose di pazienza.

Sfogliando il lungo programma degli eventi si ha immediatamente la percezione dell’ampiezza e della varietà dei gruppi di partecipanti presenti a Dakar, con la possibilità di ascoltare esperienze e proposte, problemi e soluzioni, a volte mischiando lingue diverse o approfittando dei traduttori spontanei tra il pubblico. Capita quindi, che durante un seminario sulla microfinanza, si sieda accanto a noi Alex Zanotelli, o che sotto una tenda si possano vedere Naomi Klein e il presidente del Roppa (Rete di organizzazioni contadine dell’Africa dell’Ovest), Djibo Bagna, mentre discutono di accaparramento di terre, problemi globali e alternative locali. O ancora che politici europei si nascondano tra i partecipanti per sentire le ragioni della società civile. Ed è con questo spirito che durante i sei giorni del Forum le strade del campus universitario hanno visto una folla disordinata andare su e giù verso le facoltà di Lettere, Diritto e Scienze tecnologiche le quali hanno ospitato i partecipanti nelle aule o, più sovente, nelle tende all’esterno dei palazzi, in un incrocio decisamente atipico con gli studenti che si recavano alle lezioni abituali. Altra meta dei partecipanti è stata il villaggio che ospitava le attività sul tema della migrazione, di grande attualità nelle sue diverse sfaccettature, allestito presso il prestigioso Istituto Fondamentale d’Africa nera (Ifan). E nella zona di più recente costruzione dell’università, l’Ucad II, gli stand delle associazioni sono stati luoghi di conoscenza tra realtà diverse in cui i contatti si concretizzano e le idee si moltiplicano. Tra questi punti di incontro impossibile non includere anche lo stand della Cisv, in cui lo striscione, le foto appese e i molti volantini sul tavolo hanno attirato centinaia di persone, incuriosite dal nostro lavoro in Senegal e, più in generale, dalle iniziative che la «comunità per il mondo» realizza in Africa e America Latina.
Fino a venerdì 11 febbraio, giorno degli ultimi seminari, prima dei saluti e dell’augurio che il Forum possa continuare a crescere. Consapevoli che una parte di questo percorso, dal 2001 ad oggi, è passato da qui, dalla Check Anta Diop di Dakar e dai suoi viali stracolmi di colori e persone.
Noi, con la stanchezza e la soddisfazione di questi giorni, torniamo alle nostre attività, a Louga, Dahra, Ross Bethio, Sippo e agli altri angoli di Senegal, con in più l’impressione di far parte di un grande movimento eterogeneo ma unito dalla stessa passione per il futuro.

Simone Pettoruso, da Dakar

Marco Bello e Simone Pettoruso




Isole favolose delle spezie

Reportage dall’arcipelago delle Molucche

Conteso per secoli da portoghesi, spagnoli, inglesi e olandesi per
le sue spezie (una volta più preziose dell’oro), diventato suo malgrado parte dell’Indonesia, l’arcipelago delle Molucche ha visto la pacifica convivenza dei suoi abitanti turbata da scontri sanguinosi tra cristiani e musulmani. Toata la pace, sono tornati i turisti.

Ritoo alle origini
Il viaggio è molto lungo dall’Europa. L’ultimo dei 5 voli mi porta ad Ambon, dove sbarco insieme a un folto gruppo di famiglie miste di molucchesi che ritornano in patria con coniugi olandesi e figli. Wilma è una signora olandese che mi invita per Natale a casa sua, nell’isola di origine della famiglia del marito.
«Ritorniamo tutti gli anni a Saparua per le vacanze» mi spiega Theo, il marito dalla pelle scura, nato in Olanda in un ex campo di concentramento nazista, da genitori costretti a emigrare dall’arcipelago nel ‘51.
La testimonianza di Theo mi farà approfondire la storia recente delle Molucche, conosciute come isole delle spezie, da secoli percorse da commercianti e avventurieri cinesi, malesi, arabi ed europei.
Dopo la seconda guerra mondiale e dopo aver combattuto i giapponesi al fianco degli olandesi, migliaia di soldati di Ambon e delle Molucche del sud rimasero fedeli all’Olanda. Molti erano cristiani e, temendo di passare sotto il governo di Giava, proclamarono una repubblica indipendente, che ebbe vita breve.
Quando l’Olanda, su pressione americana, accettò l’indipendenza dell’Indonesia, si preoccupò di mettere in salvo coloro che erano stati fedeli all’esercito reale olandese e rischiavano di venire massacrati.  
I genitori di Theo erano tra i 12.500 che furono trasportati in Olanda. Avevano già un bimbo, altri 12 nacquero nel campo di concentramento. Privati di documenti e di nazionalità, non potevano ritornare in patria, rischiavano di venire uccisi per la loro fedeltà all’Olanda.
Le famiglie condivisero per 12 anni gli spazi angusti e angosciosi del campo di concentramento. Il loro sonno era tormentato da incubi; alcuni, la notte, credevano di sentire ancora i gemiti degli ebrei.
I bambini, numerosi, frequentavano le scuole e col tempo anche i loro genitori riuscirono a inserirsi e abitare case decorose. Anche in Olanda il dopoguerra fu segnato dalla voglia di riprendere vita e speranza.
Wilma ha 7 tra fratelli e sorelle e ha trovato la felicità accanto a Theo. Piccolo di statura, occhiali e sorriso bonario. Negli anni la coppia ha dovuto superare prove difficili, come la morte del secondogenito in un incidente. «Era il più bello dei tre» si confida Theo, quando mi complimento per la prestanza dei due ragazzi.
Poi Wilma mi indica una cicatrice, lasciata da un’operazione a cuore aperto che ha dovuto subire. «La vita in Olanda è molto ben organizzata per chi ha famiglia» mi conferma la cognata, che è arrivata col marito olandese e il figlio. «Qui in Indonesia non vi è alcuna forma di sicurezza sociale, una malattia grave ti porta alla tomba, ma per le vacanze è un luogo meraviglioso».

Itawaka, 20 dicembre 2010
Raggiungo Saparua sul motoscafo carico di merci e persone. Salgo su un ojeck, il taxi-moto che mi conduce alla fermata del bemo, il pulmino che attraversa l’isola e mi porta a Itawaka, il villaggio dei Papilaja.
Striscioni e bandiere bordano la strada; la gente è intenta a dipingere le facciate delle case e le recinzioni: mancano solo quattro giorni a Natale. I chiodi di garofano sono stesi ad asciugare sulle stuoie lungo le strade e le donne raccolgono le noci moscate in grandi ceste.
In chiesa si celebrano matrimoni, due o tre al giorno, seguiti da pranzi dove è costume mangiare carne di cane.
Arrivo a casa di Theo quando la famiglia è riunita in veranda, accanto alla tomba del nonno, mancato tre anni fa. «I bambini gli fanno compagnia» mi spiega Wilma. In cucina si sta preparando la papeda, una polentina che pare colla, da servire con sughi speziati, fatta con la farina di sago, una palma che cresce su queste isole. Estrarre la polpa bianca dal tronco è un lavoro complesso e faticoso, che ho visto fare lungo i fiumi, perché occorre acqua per lavare e tritare la dura massa del sago, palma che ha consentito la sopravvivenza durante guerre e carestie. 

AMBON
La strada che collega l’aeroporto ad Ambon si snoda lungo la baia, bordata da piante esotiche, giardini e casette curate, un vero paradiso tropicale. Fino a un anno fa erano ancora molti i segni lasciati dal conflitto che insanguinò queste isole tra il 1998 e il 2002. Chiedo ai miei nuovi amici il perché di quella strage e tutti sono concordi nel ritenere responsabile il governo di Jakarta, che, cogliendo l’occasione di un incidente tra le due comunità, inviò l’esercito a maggioranza islamica. Cristiani e musulmani avevano convissuto pacificamente per secoli nelle isole. Ma le aspirazioni all’indipendenza delle Molucche dovevano essere represse, fomentando divisioni, rancori e vendette, terribili nella tradizione delle isole. L’intervento portò distruzione e morte, gli incendi bruciarono case e chiese ad Ambon e rasero al suolo interi villaggi sulle isole.
L’Indonesia è sovente percorsa da moti di ribellione, isole come  Sumatra, Papua e Sulawesi, ricchissime di minerali, petrolio, gas, oro, uranio, vedono dirottare i proventi verso la capitale, mentre la popolazione soffre. Le ribellioni vengono sedate dall’esercito, che riceve lauti compensi direttamente dalle multinazionali e compagnie petrolifere (Exxon).
Oggi sento che si vuole dimenticare e si aspira a una vita migliore. Sono stati costruiti alberghi per ospitare i partecipanti alle manifestazioni inteazionali di vela, che coinvolgono anche la vicina Australia. Il mare e le barriere coralline delle isole sono splendidi, ma difficilmente raggiungibili. Il traffico è in aumento, con auto nuove. Molte le moto e i bejack, carretti spinti sulle biciclette, da uomini che si rompono le reni, come a Calcutta e in Bangladesh.

Cattedrale
Credo di capire il perché di tante chiese. Tutti hanno un figlio, un nipote, qualcuno che sta male. L’ospedale è nuovo, ma le cure sono da pagare; a chi non ha denaro non resta che pregare.
Ambon è punteggiata dai campanili delle chiese protestanti, numerose come le diverse denominazioni. Le belle chiese cattoliche costruite dai portoghesi nel 1500 furono rase al suolo dai calvinisti olandesi, quando presero possesso dell’arcipelago. Gli altri eleganti edifici coloniali furono bombardati dagli alleati, quando Ambon divenne il quartier generale giapponese dal 1942 al 1944.
Accanto alla cattedrale la biblioteca è curata dall’anziano vescovo olandese, che mi riceve tra gli scaffali colmi di libri, pubblicazioni e sculture in pietra e legno, provenienti da Papua e Tanimbar. «Mi chiamo Andre Sol e ho 95 anni» mi dice orgoglioso e sorridente il vescovo, oramai in pensione. Giunto nel 1946 nelle Molucche, conserva vivacità e spirito critico. «La comunità cinese di Ambon, molto abbiente, ha voluto finanziare la nostra nuova, splendida cattedrale. Troppo ricca. Gesù era povero; bastava fare una semplice tettornia con il clima caldo che abbiamo».
Andre mi consiglia di visitare le isole Kei, avamposto dei cattolici in un paese segnato dalla forte presenza di protestanti e islamici. Poi mi consegna un libro che mi aiuterà a capire meglio la gente di Molucca, scritto una trentina di anni fa da un’insegnante di inglese australiana: nei due anni vissuti lavorando presso l’università di Ambon, accumulò esperienze forti e profonde e seppe descrivere con arguzia e affetto gli aspetti più significativi della cultura nelle isole.

CERAM
Quello che ho visto durante le immersioni nel mare delle Molucche è meraviglioso. Ceram è l’isola madre, l’isola misteriosa, dove la resistenza al regime di Jakarta si è prolungata fino a metà degli anni ‘70. Foreste impenetrabili la proteggono; i fiumi che scendono dai monti si possono risalire, portandosi appresso le seghe per liberare il passaggio della barca dai rami. Il petrolio viene estratto anche qui,  ma in luoghi remoti, che non vedremo, perché l’isola è grande, lunga più di 300 km e le strade sono poche e impervie.
La giungla è abitata da un’etnia particolare, gli alifuru, che usano portare una bandana rossa e fino alla seconda guerra mondiale erano noti come cacciatori di teste.
Per raggiungere la costa nord e il villaggio su palafitte di Sawai, dobbiamo cercare posto sul veicolo 4×4 che lo collega al capoluogo Masohi, trasportando persone, cose e casse di pesci. Dobbiamo superare una serie di catene montuose, in 4 ore di curve e ripide salite. L’ultimo tratto di strada risulta essere una pista piena di buche e fango.
La notte si scatenano violenti temporali, ma il giorno può essere radioso, con passaggi di nubi che si arrossano al tramonto. La capanna di bambù in cui alloggiamo ha l’assito che di notte lascia filtrare la luce della luna, riflessa sull’acqua. L’umidità sale e la mattina ci troviamo con gli indumenti bagnati.
Tra le palafitte sotto casa veleggiano leggiadri pesci pipistrello; le strade del villaggio risuonano delle grida e delle risa di tanti bambini; gli uomini sono intenti a scavare con scalpelli i tronchi che diventeranno sampan, leggere imbarcazioni. Le donne lavano e si lavano allegre, tuffandosi nei canali d’acqua dolce e fresca, che scende dalle alte pareti di roccia che circondano l’abitato.
La scuola si trova su un’altura e dall’altra parte della baia vi è un villaggio cristiano. La sera il muezzin chiama alla preghiera, le bambine vestono una mantellina bianca con cuffia e si recano in moschea, separate dagli altri fedeli da un drappo appeso.

KEI KECIL
Traghetti e speed boats collegano le varie isole dell’arcipelago, ma i viaggi sono lunghi e pieni d’incognite. Per le isole Kei ho trovato due posti sul volo che parte da Ambon all’alba.
Jan Pieterszoon Coen è ricordato come lo spietato condottiero che assicurò all’Olanda il monopolio del commercio delle spezie, dopo aver sconfitto i portoghesi, che per primi erano giunti nelle isole Molucche, nel 1512.
La popolazione di Banda, le isole della noce moscata, che si era rifiutata di sottostare alle sue imposizioni, fu sterminata e i pochi sopravvissuti fuggirono alle Kei, isole remote che rimangono ancora oggi il centro più importante del cattolicesimo delle Molucche.
I gesuiti arrivarono a Kei nel 1888; le Missioni del Sacro Cuore di Gesù li sostituirono nel 1920. Sede vescovile, nel 1946 Kei inviò a Papua i missionari cattolici  e gli insegnanti con le loro famiglie per portare il messaggio cristiano.
Kei Kecil (piccola) è unita a Dullah da un ponte. Lungo la via principale si notano le insegne di scuole cattoliche, con ampi spazi verdi e campi sportivi. Veniamo fermate da tre studenti in divisa, il più grande si chiama Feri e studia turismo nell’istituto  Santa Teresia, gestito dalle suore del Sacro Cuore.
Feri vuol farci conoscere Olav Luis, l’insegnante d’inglese che ci invita a scambiarci il numero di telefono. Feri non ci lascerà più, i suoi sms mi seguiranno per tutto il resto del viaggio. Lo porteremo con noi nelle visite a Dullah, l’isola dove abita con la famiglia, ma che non conosce. Prendiamo in affitto un vecchio bemo e raggiungiamo i villaggi, tutti islamici, dove i bimbi ci guardano attoniti. Spaventati dai nostri visi estranei, scoppiano a piangere e corrono dai fratellini.
Anche queste isole hanno tradizioni simili alle altre che abbiamo visitato. I villaggi, i cui abitanti possono essere di religione diversa, hanno una forma di gemellaggio, detta Pela che li coinvolge nei casi di bisogno.
Il matrimonio tra gli abitanti dei due villaggi, che possono essere anche situati su isole diverse, sono considerati incestuosi e puniti severamente, anche con la morte.
Kei ha una particolarità, le tre caste: la maggior parte della gente appartiene alla casta media e non ha problemi, che invece toccano coloro che appartengono alla casta inferiore o a quella superiore.
L’ultima sera visitiamo la famiglia di Feri, che abita una casa di fango, tra i campi di manioca, l’unica coltura possibile, a parte il cocco e le banane, in un’isola fatta di corallo. La stanza è rischiarata da un lume a petrolio che manda un fumo acre. In cucina è pronta la cena a base di pesce secco e manioca bollita.
Paulina è una mamma bella e stanca, nativa di Kisar, isola non lontana da Timor Est; anche il marito è un bell’uomo, gentile. Così pure i 5 figli. Per noi hanno disteso un foglio di plastica sul pavimento e hanno appeso delle tende alle pareti.
Ci salutiamo. «Devi ritornare –  insiste Feri -; ti potrò accompagnare a Kei Besar, l’isola grande, dove sono nato e dove vive la famiglia di papà».

Claudia Caramanti

Claudia Caramanti