Il «paradiso» dimenticato

Viaggio in uno stato «semi fallito»

Piccolo stato dell’Africa dell’Ovest ha una storia difficile. Oggi è diventato crocevia del traffico di cocaina. Ma la  popolazione è ospitale e ricca di cultura. Il paese vanta angoli stupendi e incontaminati. I guineani però stentano a prendere in mano il proprio destino.

Si arriva di notte a Bissau. Il caldo e l’umidità ti avvolgono immediatamente. La pista di atterraggio è illuminata grazie ad un generatore, mentre la città è per lo più al buio. Gli spazi appaiono subito ridotti, a partire dalla sala dell’aeroporto. Si tratta di un paese di piccole dimensioni, una superficie di appena 36.120 km2, per cui tutto, per certi versi, è più vicino e semplice. I suoi abitanti sono  un milione e seicentomila e la capitale ha il volto di una cittadella in cui è molto facile incontrarsi. Questo, insieme ad un certo fascino lusitano e ad una natura rigogliosa, la rende amabile, così come paiono subito simpatici e cordiali i guineani.
Ma molte sono le problematiche che il paese affronta.

Una storia travagliata
La Repubblica della Guinea-Bissau1, paese dell’Africa Occidentale, è stata per secoli colonia del Portogallo con il nome di Guinea portoghese. L’indipendenza è arrivata solamente il 24 settembre 1973, dopo una lacerante guerra decennale. È  il Paigc (Partito africano per l’indipendenza della Guinea e di Capo Verde)  a liberare il paese dal giogo straniero. È un partito di ispirazione socialista, alla cui guida era il carismatico Amilcar Cabral, assassinato da uno dei suoi compagni sei mesi prima dell’indipendenza, la causa per cui si era battuto per più di vent’anni.
Il Paigc ha governato ininterrottamente fino al 1991, ma, dopo aver giocato un ruolo chiave per guidare il paese alla liberazione, non è stato in grado di condurlo allo sviluppo e al buon governo negli anni successivi. Solo nel 1994 si sono tenute le prime elezioni con un sistema multipartitico.
Uscita quindi dal colonialismo solo una trentina di anni fa, la Guinea-Bissau ha attraversato molti momenti di forte instabilità politica2, il cui culmine è stato raggiunto con lo scoppio della guerra civile il 7 giugno 1998. Gli scontri tra l’esercito nazionale e i ribelli sono durati 11 mesi e si sono conclusi con la vittoria dei rivoltosi al comando del generale Ansume Mané e la cacciata del presidente della repubblica João Beardino Vieira, detto Ninho. Si è trattato di una guerra particolarmente traumatica che ha provocato decine di migliaia di profughi, devastato la già debolissima economia e depotenziato le strutture statali.
Gli ultimi anni hanno visto succedersi numerosi golpe e sostituzioni di presidenti e capi delle forze armate. Nel marzo del 2009 nel giro di pochi giorni il presidente della repubblica, João Ninho Vieira (che era stato rieletto nel 2005, ndr.), e il capo di stato maggiore dell’esercito, Tagmé Na Waié, vengono uccisi da un commando militare. E nell’aprile 2010, è avvenuto un tentativo di colpo di stato comandato da due generali dell’esercito, Antonio Idjai e Bubo Na Tchuto, che si risolve con la nomina dei due a ruoli chiave di potere.

stato «fallito»?
Oggi la Guinea-Bissau è definito tecnicamente uno «stato fallito», con un governo che non controlla la totalità del territorio, ed è incapace di assicurare i servizi di base e di sicurezza3. Ha un bilancio statale fortemente deficitario e l’esercito è un apparato indipendente che sfugge ad ogni controllo. Con tali condizioni il paese è diventato il principale crocevia per il traffico della cocaina dall’America Latina all’Europa. Piccoli aerei e navi mercantili sfruttano la particolare conformazione territoriale, che conta uno splendido arcipelago (le Bijagos) di oltre 80 isole, dove non esistono controlli e frontiere. E sono proprio l’esercito e i suoi generali ad essere coinvolti in questi traffici. Secondo l’agenzia antidroga statunitense, la Dea (Drug enforcement administration, ndr.), le organizzazioni criminali colombiane riescono a trasportare ogni giorno circa una tonnellata di cocaina in Guinea-Bissau4. C’è chi oggi parla addirittura di «narco-stato».
Recentemente l’Unione europea ha annunciato di mettere in stand-by il suo programma per la riforma delle forze di sicurezza, uno dei punti strategici per il miglioramento dello stato. Spazientita dal mancato rispetto delle regole dello stato di diritto ha ritenuto impossibile svolgere ancora il suo compito. Per di più, a dicembre 2010, ha minacciato di sospendere del tutto gli aiuti allo sviluppo se la Guinea-Bissau non ristabilirà al più presto una situazione politica un minimo accettabile.
La popolazione vive guardando ai fatti con disincanto, consapevole dei gravi problemi ma troppo occupata dalle fatiche quotidiane. Spesso con la sola speranza di emigrare. Vediamo alcuni dati: oltre due terzi della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno e oltre il 21% con meno di 1 dollaro. L’aspettativa di vita, 45 anni, è tra le più basse al mondo. Si stima che solo oltre la metà della popolazione sia alfabetizzata e poco più di un terzo scolarizzata, nonostante negli ultimi anni stia crescendo molto l’accesso alla scuola, frutto di maggiore consapevolezza nella gente dell’importanza dell’educazione. Il livello di insegnamento, però, rimane scarso: basti pensare che la lingua utilizzata nelle scuole è (quasi sempre) il portoghese ma solo il 10% degli abitanti è in grado di parlarlo correttamente. Infine, il tasso di mortalità infantile è di circa il 13%. La situazione nutrizionale dei bambini dai 6 ai 59 mesi mostra che il 32% soffre di malnutrizione cronica, soprattutto nell’ambiente rurale5. Nell’ultimo periodo poi, con l’aumento generalizzato dei prezzi dei beni primari, le cose rischiano di aggravarsi ulteriormente. Il prezzo del pane e il costo dei mezzi di trasporto pubblici, un bene ed un servizio primari, sono aumentati del 50% in poche settimane.

Le 4 Debolezze
Dal punto di vista macro-economico, il paese presenta quattro elementi di debolezza6. In primo luogo, la Guinea-Bissau ha un elevatissimo livello di dipendenza da un unico prodotto d’esportazione, l’anacardo (castanha de cajù), coltivato dalla maggioranza dei piccoli agricoltori del paese. La scelta di questa pianta è stata fatta dal primo governo indipendente e, se da una parte ha permesso di ricavae dei proventi, dall’altra, ne ha creato una monocoltura che soffoca la differenziazione dei prodotti agricoli. Circa il 5% della superficie totale del paese è coperto dall’anacardo, che rappresenta circa il 98% dei proventi delle esportazioni e il 17% delle entrate complessive dello stato. L’oscillazione del prezzo internazionale ha un impatto molto forte sull’economia e sui contadini guineani.
Il secondo punto debole è la dipendenza dalle importazioni di beni primari come il riso, che in passato era addirittura esportato. Il paese risente perciò gravemente dell’impennata dei prezzi mondiali di questo prodotto. 
In terzo luogo, la Guinea-Bissau ha una rete infrastrutturale molto degradata. Le strade non hanno una sufficiente manutenzione e la presenza di molti fiumi renderebbe necessaria la costruzione di ponti. Inoltre, il porto di Bissau è fatiscente ed avrebbe bisogno di un completo restauro.
Quarto: il governo riceve il 50% delle sue entrate dalla concessione di licenze per la pesca a navi battenti bandiera straniera, le quali portano il pesce in altri paesi. Molto spesso però i dati relativi alle licenze non vengono registrati in modo completo e trasparente, alimentando dinamiche di corruzione.
Dal punto di vista delle risorse minerarie – soprattutto fosfato, bauxite e petrolio – si prospetta che nei prossimi anni possa aumentare il loro sfruttamento, che oggi è ad un livello basso a causa della mancanza di infrastrutture e investimenti (il petrolio non è ancora estratto, ndr).

Una ricchezza intrinseca
C’è un altro settore attualmente ancora poco sfruttato ma che potrebbe portare occupazione e reddito: il turismo. L’arcipelago delle Bijagos è un’attrazione che potrebbe attirare visitatori e turisti. È un sito nominato nel 1996 dall’Unesco «riserva della biosfera», mentre il Wwf l’ha iscritto tra le 200 regioni di particolare importanza ecologica del mondo. Oltre alle bellissime spiagge incontaminate, la sabbia bianca e una varietà impressionante di specie marine (ippopotami, tartarughe e più di 150 diverse specie di pesci), sulle isole abita una popolazione dalle caratteristiche culturali e dalle tradizioni molto speciali. Gente che vive a strettissimo contatto con la natura ed i suoi equilibri. Per cui, anche in questo caso, se venisse sviluppato il settore turistico, occorrerà vigilare perché venga preservata la relazione tra il popolo bijagos e il suo ambiente.
La varietà e la diversità che contraddistingue la Guinea-Bissau passa anche per la quantità di etnie presenti. In una popolazione di piccole dimensioni sono presenti ben 36 gruppi differenti. Il più numeroso è quello dei balanta che raggiunge il 30% della popolazione totale, al quale seguono mandinga, fula, manjaco, pepel e altri. È un’ulteriore ricchezza di questa terra ed è interessante notare che le relazioni tra di essi sono solitamente segnate dalla solidarietà e da un basso livello di conflitto, pur conservando una buona dose di reciproci pregiudizi.
Dal punto di vista religioso il 55% delle persone è legato alla «religione tradizionale» ed è chiamato impropriamente animista. Il 30% è di religione islamica e il 15% circa è cristiano. In generale si può affermare che è una popolazione semplice, pacifica, profondamente religiosa e con un forte senso del sacro. Anche le relazioni tra le diverse confessioni religiose è segnata da rapporti pacifici.
L’animo pacifico, la solidarietà inter-etnica ed inter-religiosa sono sicuramente elementi positivi in un quadro economico e socio-politico non certo consolante. Di fatto, però, si percepisce un certo immobilismo generale nelle persone, abituate da anni a ricevere aiuti, per lo più calati dall’alto. Ed è proprio la logica dell’aiuto di organizzazioni inteazionali, Ong e a volte anche della chiesa che, insieme ad altri elementi storici e culturali, non ha favorito l’intraprendenza e la crescita del paese. Come scrive l’economista Dambisa Moyo7, si tratta di «un’economia aid dependent (dipendente dall’aiuto, ndr), ancorata cioè ai fondi umanitari come unica ma costante e torrenziale forma di sostentamento economico». Con la complice corruzione del governo.
Nel prossimo futuro, c’è da augurarsi che possa esserci innanzitutto stabilità politica e quindi meno potere ai militari. Un clima diverso potrebbe facilitare il lavoro delle tante persone che ogni giorno cercano di costruire una Guinea-Bissau migliore, indipendente e fiera di sé. Senza dimenticare che, come dice il detto criolo, la lingua parlata da tutti i guineani, «sorti sta na pe» (letteralmente, la fortuna viene dai piedi): solo chi muove i propri piedi e non rimane fermo, immobile, in attesa può far sì che buone cose accadano.

di Matteo Ghiglione

NOTE
1 – Al nome originario fu aggiunto quello della capitale Bissau per impedire la confusione con il vicino stato della Guinea, ex colonia francese.
2 – Nei primi vent’anni della sua esistenza (1974-1994) la Guinea-Bissau ha conosciuto cinque capi di governo, mentre nei dieci anni successivi (1997-2007) si sono succeduti ben nove primi ministri.
3 – L’Undp, l’organizzazione internazionale dell’Onu che ogni anno redige la classifica in base all’indice di sviluppo umano, le assegna in tale elenco il 173° posto su 182 paesi (Norvegia al 1° posto, Italia al 18°).
4 – F. Marzano, Il “paradiso” africano dei cartelli colombiani, www.thepostinternazionale.it, 19/02/2011.
5 – Caritas Guinée Bissau, Plano estratégico da Diocese de Bissau 2010-2014, marzo 2010.
6 – Banca Mondiale, Guinée Bissau, Para além de Castanha de Caju: diversificação através do comércio Estudo do Diagnóstico de Integração do Comércio para o Melhoramento do Quadro Integrado Assistência Técnica para Assuntos do Comércio Inteacional, 2009.
7 – Dambisa Moyo, Dead Aid, ed. Farrar, Strauss and Giroux, 2010.

Matteo Ghiglione




Un nonno vigile con i «baffi»

Dalla Valsugana all’Etiopia… con amore

«Da 21 anni sono nonno vigile delle scuole
elementari di Borgo Valsugana (TN), prestato ai miei nipotini “neri” dell’Africa: i loro sguardi e sorrisi sono gli stessi. Sognano di crescere, studiare, imparare a costruirsi un futuro…
a dispetto di tutto e di tutti. Nei miei viaggi ho visto l’altra faccia del mondo, mi si sono aperti altri orizzonti».
Così si presenta Giovanni De Marchi, cugino dell’omonimo missionario della Consolata, maresciallo dei CC in pensione con un sano «mal d’Africa».

Da oltre 20 anni Giovanni De Marchi ha smesso la divisa di maresciallo dei carabinieri e ha indossato quella di «nonno vigile»: cappellino con visiera, giacca bianca e paletta che portano la scritta ben visibile «vigilanza scolastica». Tutti i giorni, dalle 7.30 alle 8.00 del mattino, in Piazza De Gasperi di Borgo Valsugana (TN), si pianta davanti alle strisce pedonali, intima l’alt alle auto e ordina agli studenti con gentilezza e altrettanta fermezza di attraversare la strada che li porta al comprensorio delle scuole elementari e medie.
«Il contatto con la gente – confessa – è sempre stato un punto fondamentale della mia vita. Questo servizio mi dà la possibilità di conoscere e osservare i comportamenti della gente, soprattutto dei bambini, di cui apprezzo la spontaneità e semplicità».
Nonostante l’aspetto serio, accentuato dai suoi folti baffi da ordinanza, il nonno vigile si è acquistato fin da subito stima e simpatia di alunni e genitori. A Borgo Valsugana lo conoscono tutti, non solo per il suo impegno di volontariato, ma anche per il suo «mal d’Africa»: da alcuni anni raccoglie fondi per sostenere le attività di padre Paolo Angheben in Etiopia.
non per caso…
Giovanni De Marchi è nato nel 1937, lo stesso anno in cui un suo cugino, con lo stesso nome e cognome, veniva ordinato sacerdote tra i missionari della Consolata. Un segno del destino? Forse, anche se per tanti anni non si sentì particolarmente coinvolto nelle imprese del cugino missionario, almeno fino a quando questi restò in vita.
Ma dopo la morte di padre De Marchi, avvenuta a Fatima nel 2003, il nonno vigile cominciò a scoprie la figura eccezionale: ne restò affascinato e sentì subito l’urgenza d’impegnarsi anche a favore della gente per la quale suo cugino aveva speso la sua esistenza. Prima di tutto volle conoscere più a fondo la sua vita e la sua opera, interrogando soprattutto coloro che lo avevano conosciuto da vicino. «Mi raccontarono aneddoti inimmaginabili che dipingevano la sua figura di missionario straordinario, vero uomo di Dio, di una semplicità disarmante, amato da tutti. Decisi così di onorae la memoria alla sua maniera, cioè mettendomi a disposizione degli altri» spiega il signor De Marchi.
Si trattava di trovare il modo e il luogo. Lo scoprì subito, in un articolo che parlava di un collaboratore del cugino missionario in Etiopia fin dal 1974: padre Paolo Angheben, missionario della Consolata trentino, con il quale il nonno vigile si mise immediatamente in relazione epistolare, finché lo incontrò di persona nel 2005, quando padre Paolo toò in Italia per un breve periodo di vacanze.
«Fu un incontro che spiritualmente mi cambiò la vita – continua il signor De Marchi -. Nel 2006 iniziai a raccogliere fondi per la sua missione. Nel giro di due anni riuscii a fare 40 adozioni a distanza. Ma dentro di me cullavo un sogno ben più grande: sognavo l’Africa, l’Etiopia in particolare, incontrare la gente per la quale mio cugino aveva speso gli ultimi 32 anni della sua vita, dal 1970 al 1988 lavorando sul posto e, nel resto degli anni, a Fatima, chiedendo continuamente ai pellegrini preghiere e aiuti per i lebbrosi e i bambini handicappati della sua cara Etiopia». Il sogno divenne realtà nel gennaio 2006, quando padre Angheben lo invitò nella sua missione di Modjo. «All’improvviso mi trovai catapultato in un altro mondo – racconta il signor De Marchi -. Fu un’esperienza che mi permise di vivere a contatto con i locali, conoscendo la loro quotidianità fatta di sacrifici, sofferenze e privazioni».
«una scuola anche per loro»
Crocevia tra nord, sud ed est del paese, a 80 km da Addis Abeba, Modjo si presentava come un luogo strategico delle attività dei missionari della Consolata, con scuola matea per 250 bambini, dispensario e altre opere sociali, seminario minore con una ventina di aspiranti missionari, centro di animazione missionaria vocazionale, punto di riferimento per la formazione giovanile e centro di spiritualità per preti e religiosi, sotto la guida di padre Paolo.
Nei 24 giorni di permanenza in Etiopia, Giovanni visitò altre missioni in cui era presente la memoria del cugino missionario: Gambo con l’ospedale e il villaggio dei lebbrosi, Meki con le sue scuole superiori e professionali, Shashemane con la scuola per ciechi, Gighessa con l’istituto per handicappati… Per l’ex maresciallo fu un crescendo di emozioni, come egli stesso racconta,  percorrere «quelle terre intrise di sangue, lacrime, sudore e immensi sacrifici di tanti missionari e suore, promotori di fede e civiltà. Veri eroi silenziosi di grande umanità, umiltà e serenità interiore, che non chiedono nulla per sé ma per gli altri».
Lo stupore per le meraviglie compiute dai missionari e missionarie veniva contrastato dall’impressione suscitata dalle opere ancora da fare. L’esperienza più scioccante l’ebbe a Daka Bora, una comunità in aperta campagna nella missione di Modjo, come lui stesso racconta: «Entrai in una baracca dove erano assiepati una cinquantina di bambini, seduti sul pavimento di terra, che scrivevano sopra dei sassi. Mi dissero che quella era una scuola e che serviva per 300 alunni. Non potevo credere ai miei occhi. Promisi subito che, tornato in Italia, mi sarei dato da fare per procurare loro banchi un po’ più comodi».
E così avvenne. Il nonno vigile lanciò il progetto «Una scuola anche per loro» per raccogliere fondi, iniziando nelle 18 classi scolastiche di Borgo Valsugana, da quei 340 alunni dei quali da tanti anni era l’angelo custode sugli attraversamenti pedonali. Per meglio rendere l’idea, portò in aula un bel sasso e diede una dimostrazione pratica di come i loro compagni africani trasformano una pietra in banco di scuola. «Pensate voi bambini – disse in quell’occasione – quante cose si sprecano nelle nostre case. Perché non facciamo qualche fioretto e mettiamo da parte qualche soldino per aiutare questi fanciulli nell’acquisto di una cinquantina di banchi il cui costo si aggira sui 30 euro cadauno?».
E fu un successo. All’iniziativa aderirono anche vari enti e associazioni locali e il nonno vigile racimolò circa 12 mila euro: nel 2007 la scuola di Daka Bora era bella e finita, ingrandita e arredata a dovere, come poté constatare nel 2008, quando il signor De Marchi toò a Modjo per la seconda volta.
«Fu un’emozione indescrivibile, una gioia immensa – racconta -, velata però dalla visione di altri problemi urgenti, primo tra tutti la mancanza di acqua. Gli abitanti del paese erano costretti a percorrere fino a 12 chilometri a piedi per procurarsela. Qualche volta condivisi con loro questa fatica, suscitando non poco stupore, dato che questo compito è affidato ai ragazzini e non agli anziani».
L’anno seguente il villaggio era collegato all’acquedotto comunale, grazie ai fondi raccolti e inviati dal nonno vigile per pagare le condutture necessarie.
«il ponte della stella»
Nel frattempo padre Angheben era stato trasferito a Weragu, una zona poverissima e isolata, senza acqua né luce né mezzi di trasporto, dove gli unici edifici in muratura sono le strutture della missione, tra cui una scuola con 1.200 alunni e una piccola clinica gestita da due suore polacche, che visitano e curano donne e anziani e somministrano i vaccini ai piccoli.
Anche a Weragu, a contatto con la gente, Giovanni De Marchi non finisce di stupirsi, e racconta: «Queste persone, nonostante la povertà, hanno una grande dignità e non si lamentano mai. Salutavo ed ero sempre ricambiato. Sono stato accolto nelle loro capanne e mi hanno offerto il pane e un bicchiere d’acqua in segno di amicizia: cose talmente semplici a cui noi occidentali non siamo ormai più abituati». Anche qui il nonno vigile ha lasciato la sua impronta, promuovendo la costruzione del ponte sul fiume Minne.
Questo fiume divide la vallata in due; durante la stagione delle piogge è spesso in piena, travolgendo gente e animali che si azzardano ad attraversarlo, rendendo così impossibile l’accesso all’omonimo villaggio per vari giorni, isolando la popolazione dal resto del mondo e impedendo ogni attività della vita sociale: mercato, assistenza medica, accesso alla scuola e alla vita religiosa delle varie comunità. Un guaio soprattutto per moltissimi studenti, costretti a interrompere la frequenza scolastica.
La gente del posto ha cercato di superare l’ostacolo con grossi tronchi di albero gettati sopra le sponde del fiume; una soluzione sempre provvisoria, dato che un ponte del genere veniva spesso spazzato via dalla prima piena del fiume.
Per molti anni la popolazione di Minne fece appello al governo perché costruisse un ponte solido. Ci furono commissioni di studio e di esperti che studiarono la fattibilità del progetto, ma senza mai tradurlo nel concreto. Finché la missione decise di risolvere l’annoso problema con la costruzione di un ponte di grossi tronchi di legno montati su due spallette in cemento armato, ancorate alle rive del fiume, in modo da garantire il passaggio alla popolazione della zona, a macchine e camioncini di portata non superiore ai 35 quintali.
Ma un’altra campagna del signor De Marchi ha permesso la costruzione di un ponte tutto in cemento; lo ha chiamato: «Ponte della stella, della speranza e della solidarietà». «È stato inaugurato nel 2009 – continua il nonno vigile -; è lungo dieci metri e largo quattro; è stato progettato da Antonio Canevaro un geometra italo-etiopico; è costato 16 mila euro, di cui 14 mila donati dai borghesani».
«Rifugio di pace»
Nel mese di marzo del 2010, Giovanni De Marchi è tornato per la terza volta in Etiopia, consegnando a padre Angheben altri 9.600 euro, raccolti come al solito tra la gente e le associazioni di Borgo e della Valsugana, per contribuire alla costruzione della biblioteca del centro giovanile a Debre Selam, nel territorio della missione di Weragu.
Debre Selam (rifugio di pace, in amarico) è una cittadina nel cuore della regione dell’Oromia, centro amministrativo della provincia di Gololcha. Anche qui mancano elettricità, telefono e servizio postale.
La presenza della chiesa cattolica nella provincia del Gololcha risale al lontano 1896, con la fondazione della missione di Minne, da parte dei Cappuccini francesi, i quali anche a Debre Selam aprirono una scuola, che dopo altalenanti vicende fu consegnata all’amministrazione cittadina (vedi riquadro). Padre Angheben è riuscito a ottenere la restituzione del terreno e ad allargarlo, per costruirvi il centro giovanile.
Tra elementari, medie e superiori a Debre Selam fanno capo quasi 5 mila studenti, che frequantano le scuole in città e nelle succursali delle campagne circostanti: una marea di giovani bisognosi di aiuto e accompagnamento nel loro cammino di formazione intellettuale e professionale. Il centro giovanile ideato da padre Paolo Angheben è composto da una biblioteca che offre possibilità di studio e consultazione agli studenti delle scuole superiori in modo particolare; una sala avrà due-tre computer per insegnare le basi dell’informatica e per la ricerca via internet.
Accanto alla biblioteca sarà costruito un centro sportivo con un campo da calcio (60X90 m.), due di pallavolo e uno di pallacanestro, dato che lo sport è un’attività sempre più importante nel cammino di formazione umana e sociale dei giovani e per essi in città non c’è alcuna struttura sportiva. Ci sarà, naturalmente anche una piccola chiesa per offrire loro un cammino di formazione spirituale.
«Il costo del progetto – spiega il signor De Marchi – si aggira attorno a 85 mila euro. A beneficiae non saranno solo i 5 mila studenti, ma anche maestri e impiegati governativi, come la popolazione tutta, che potrà accedere agli impianti sportivi. Ma l’obiettivo principale resta quello di aiutare i giovani di Debre Selam a costruire il loro futuro e rimanere nella loro terra, di dare alla gente etiope, donne, uomini e bambini, le possibilità di vivere  con dignità e in pace».

di Benedetto Bellesi

(Rielaborazione di un’intervista pubblicata su La Finestra  n. 6 – 2010)

Benedetto Bellesi




I dubbi dell’isola «Ribelle»

Dopo Hong Kong, reportage dall’«altra» Cina

Separata dal 1949, l’isola di Taiwan (ex Formosa) è divisa tra nazionalisti (che guardano alla Cina) e democratici (che guardano agli Stati Uniti e all’Occidente). Con la vittoria elettorale dei primi, Taipei si è molto avvicinata a Pechino, come dimostra anche l’adesione ad un importante accordo di libero scambio (l’Ecfa). Eppure, anche se pochi taiwanesi parlano di «indipendenza» (termine tabù), ancora meno considerano l’opzione della «riunificazione» alla Cina continentale.

Taipei. Per avere un’idea di come i taiwanesi guardino alla storia cinese, basta farsi un giro al memoriale dedicato a Chang Kai-shek. Una struttura imponente, persa in mezzo ad una piazza immensa e deserta, cui fanno capolino alcuni taiwanesi impegnati a diffondere quanto di più proibito c’è per Pechino: il culto del Falun Gong, il gruppo religioso-filosofico fuorilegge in Cina dal 1999. Per i taiwanesi il memoriale è un simbolo: pur avendo perso la battaglia per la Cina (1949, leggere box), essi hanno trasformato quella sconfitta nell’annullamento (ancorché simbolico) degli storici rivali, i comunisti cinesi. Siamo a Taipei, circa tre ore di volo da Pechino (i viaggi diretti sono in vigore solo da tre anni; in precedenza, per andare dalla Cina a Taiwan, era necessario uscire dal paese, passare per Hong Kong e prendere un volo verso l’isola considerata ancora oggi ribelle da Pechino), ma la distanza sembra secolare.
Il Partito comunista cinese non è mai menzionato nel museo di storia nazionale, tra le macchine lussuose usate dal generale Chang Kai-shek e le foto in cui è ritratto insieme ai leader che riconobbero Taiwan. I cinesi chiacchierano e guardano stupiti i documenti e l’immensa statua di Chang Kai-shek, al termine delle tante scale che portano al monumento. Un altro mito che la Cina si appresta a fare crollare. Pechino, ormai, è sempre più vicina. La profonda recessione economica di Taiwan (ante-2010) pare essere risultata determinante per un cambiamento permanente dei rapporti tra l’isola «ribelle» e la Grande Cina, così vigorosa e imponente nella sua crescita economica.

SOLTANTO UN ACCORDO DI 
LIBERO SCAMBIO?
Per capire a che punto siano le relazioni tra Cina e Taiwan è necessario un breve excursus, che mostra nel recente accordo economico-commerciale tra i due paesi il nuovo ago della bilancia, il nuovo equilibrio. Con esso si sigilla la scelta della classe politica oggi al potere a Taiwan, i nazionalisti del Guomindang (leggere box), per un riavvicinamento nei confronti della Cina, a scapito dell’influenza storica degli Stati Uniti.
Solo nel 2009 – per la prima volta dal 1949 – i leader dei due paesi si sono incontrati a Pechino, a seguito di un anno vissuto pericolosamente. Prima di quella data a Taiwan erano al potere i democratici, schierati su posizioni indipendentiste. Nel 2008, con la vittoria del Guomindang, il partito nazionalista di Ma Ying-jeou, tutto è cambiato. La Cina ha subito approfittato della salita al potere dei nazionalisti, schierati su posizioni ad essa favorevoli, per dare inizio ad una nuova stagione nei rapporti tra i due paesi. Un avvicinamento confermato anche dalle recenti (novembre 2010) elezioni in cinque città che hanno dato – anche se di stretta misura – il via libera popolare alla scelta del Guomindang: la maggioranza della popolazione ha votato in favore di chi riteneva che l’avvicinamento alla ricca Cina fosse necessario.
Il 29 giugno 2010 era stato infatti firmato l’Economic Cooperation Framework Agreement (Ecfa), un accordo economico che abbassa le tariffe degli scambi commerciali tra i due paesi, con la conseguente creazione di un’area di libero scambio che ricorda molto da vicino le politiche cinesi già in precedenza attuate per le zone economiche speciali o per Hong Kong. L’Ecfa ha diviso la società civile taiwanese in due tronconi: i favorevoli e i contrari a Pechino.

I DEMOCRATICI:
NON CI FIDIAMO
Esistono ancora forti differenze, ma – come in un gioco di specchi – i taiwanesi si considerano più cinesi degli abitanti continentali. Usano ancora gli ideogrammi tradizionali, si dedicano molto più, almeno in apparenza, al culto dello spirito rispetto agli ipermaterialisti cinesi di oggi. «Noi non sputiamo e siamo educati», mi raccontano alcuni ragazzi che incontro in uno dei tanti night market della città. Sono cortesi, felici di poter chiacchierare con uno straniero e parlano un buon inglese. I taiwanesi mangiano quasi sempre fuori casa, dati i prezzi economici e la diffusione capillare dei mercati all’aperto tra fumi di tofu, salsicce e ogni genere culinario. Il piatto forte è una specie di cotoletta di pollo croccante, da avvolgere in un pezzo di carta e mangiare con le mani. Le file sono lunghissime e con la compagnia incontrata c’è tempo per scambiare più di una battuta. Scopro così che si tratta di attivisti del Democratic Progressive Party, l’opposizione taiwanese: volantinano e regalano pacchetti di fazzoletti di carta con in bella vista il volto di Tsai Ing-wen, la leader del partito.
Girano tra i vari mercati, quando li incontro sono in pausa, in attesa della bistecca di pollo: «Non siamo cinesi – specificano -. Ad esempio, non sputiamo, non abbiamo un partito unico e siamo democratici». Una volta terminato il pasto in piedi, mentre osserviamo la fiumana di gente muoversi in modo agitato tra i vari stand, li seguo nella loro attività militante: molte persone si fermano, discutono, altre scuotono la testa e affermano di essere a favore del Guomindang. La mia presenza sembra aizzare un poco gli animi, specie quando mi viene chiesto da dove arrivo e la risposta include la parola Cina. Molti infatti lasciano briglia sciolte alle peggiori nefandezze contro Pechino. In molti criticano il partito di governo, per criticare la Cina. Sono loro, i nazionalisti taiwanesi, ad avere operato per spingere l’isola sotto il controllo pechinese.
«I nazionalisti hanno venduto Taiwan alla Cina», affermano i ragazzi, che sono durissimi verso l’Ecfa: «È un modo come un altro per mettersi nelle mani della Cina e garantire ai ricchi taiwanesi i propri affari».
I giovani rappresentano la base, il corpo sociale del partito democratico. Shane Lee, invece, è professore della Chang Jung Christian University di Taipei. Il suo approccio è da intellettuale organico al partito democratico, molto attento alle parole senza evitare però stoccate dure e pungenti ai suoi avversari politici. È lui che prova a spiegarmi le ragioni del malcontento dei democratici rispetto alla nuova piega presa dalle relazioni tra Pechino e Taipei: «L’accordo non favorisce la nostra industria, la disoccupazione salirà e il gap tra i ricchi e i poveri aumenterà. I ricchi diventeranno sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Speriamo che in futuro il nostro governo cambi questo approccio di estrema dipendenza dalla Cina. Siamo preoccupati perché ormai conosciamo i cinesi: attraverso l’economia cercheranno di stringere intorno al nostro collo il nodo politico, finendo per farci perdere le conquiste democratiche della nostra storia. La nostra gente è molto preoccupata da questo avvicinamento. Del resto la Cina non è mai stata “gentile” con noi. Oggi però, secondo i sondaggi, la maggioranza dei taiwanesi è favorevole alle relazioni con la Cina sia per questioni economiche che militari. Taiwan è militarmente debole e vulnerabile ad eventuali attacchi missilistici di Pechino. Questo lo sanno tutti e tale aspetto rimane una delle principali preoccupazioni della popolazione».

I NAZIONALISTI:
È SOLTANTO ECONOMIA
Sun Yang-ming è un ex giornalista, vice presidente del Cross-Strait Interflow Prospect Foundation, un think tank che esamina le relazioni tra Cina e Taiwan. La sua è la posizione di chi ha lavorato all’accordo e di chi, più in generale, è favorevole a Pechino: «L’Ecfa è importante per entrambi, ma ognuno ha le proprie interpretazioni. Pechino crede che questo sia il momento per andare verso un’intensificazione dei rapporti con Taiwan: per i cinesi, l’Ecfa è soltanto il primo passo dei molti che hanno in mente. Noi diciamo un’altra cosa: vediamo come esso funziona, come la gente reagirà, se, soprattutto, sarà utile a risollevere la nostra economia. Noi non possiamo andare veloci quanto la Cina. La nostra parola d’ordine è stabilità. Anche perché, ora come ora, la posizione del nostro presidente è debole: Ma Ying-Jeou paga la crisi e l’Ecfa è una prima risposta».
C’è da chiedersi, specie per uno come Sun Yang-ming, molto vicino ai teorici statunitensi, cosa pensano gli Stati Uniti dell’accordo economico: «Gli americani – dice ridendo – sono estasiati dall’Ecfa! Erano terrorizzati dai leaders del Partito democratico e dai loro continui balletti e sparate mediatiche contro la Cina. Per loro era un problema. Comunque, anche con gli Usa noi siamo stati chiari: l’Ecfa non è un passo verso la riunificazione politica. Siamo stati onesti e abbiamo specificato tutto quanto vogliamo fare». È la verità? «Sinceramente: una eventuale unificazione politica non è un’opzione valida in questo momento dal nostro punto di vista. Alla popolazione di Taiwan ormai non interessa più essere indipendente o essere considerata cinese: vuole soltanto vivere in pace e in una situazione economica tranquilla. Vuole controllare il proprio portafoglio e sentirlo pieno. La gente di Taiwan del resto non può essere spinta ad una unificazione quando per cinquant’anni abbiamo detto peste e coa dei cinesi. Sarebbe assurdo».

Simone Pieranni

ACCORDI ED AMBIGUITÀ

IL MONDO OLTRE LO STRETTO

Gli interessi economici sembrano aver sopito le polemiche tra la Cina del continente e la Cina di Taiwan. Tuttavia, Pechino considera Taipei sempre una «provincia ribelle». E non vedrebbe di buon occhio un ritorno al governo del paese del Partito democratico in caso di vittoria nelle elezioni presidenziali del 2012.

Per i taiwanesi oltre lo Stretto c’è la Cina o il Continente? La rettificazione dei nomi è una delle chiavi di volta del pensiero confuciano. In accordo con lo zhengming (teoria confuciana dei nomi, ndr), per raggiungere le finalità proprie alla posizione e agli obblighi sociali di ciascuno, i nomi devono essere corrispondenti all’oggetto cui si riferiscono.
Negli ultimi tempi il dibattito politico a Taiwan è ruotato attorno ai due termini: Cina e continente. Merito del presidente Ma Ying-jeou che ha sollevato il problema a colloquio con i parlamentari del Guomindang, il Partito nazionalista, tornato al governo tre anni fa, dopo otto anni in cui aveva dovuto cedere la guida dell’isola al Partito progressista democratico (Pdp), schierato su posizioni indipendentiste. Per oltre cinquant’anni, ossia da quando le truppe nazionaliste di Chang Kai-shek furono sconfitte nella guerra civile dai comunisti guidati da Mao Zedong e dovettero riparare a Formosa, entrambe le sponde dello Stretto si sono considerate la sola e unica Cina.
Qualcosa è cambiato con l’inizio del nuovo secolo. Negli anni di governo del Pdp, tra il 2000 e il 2008, gli abitanti dell’isola avevano iniziato a considerare il proprio Paese qualcosa di diverso dalla Repubblica popolare. Era semplicemente Taiwan. Mentre sull’altra sponda, superato il braccio di mare che li divide dagli ingombranti cugini, c’è la Cina. Dopo aver riportato i nazionalisti al governo, il presidente Ma ha avviato un percorso di riavvicinamento con il governo cinese, suggellato lo scorso giugno dalla firma di un accordo di cooperazione economica che ha segnato il punto più alto delle relazioni tra Pechino e Taipei dal 1949. «È un momento decisivo per lo sviluppo di un dialogo a lungo termine  –  disse Chiang Pin-kung, capo della delegazione di Taipei -, dobbiamo cogliere l’opportunità di lavorare insieme e fidarci reciprocamente». L’accordo, conosciuto come Economic Cooperation Framework Agreement o semplicemente Ecfa, prevede che Pechino abbassi le tariffe d’importazione su 539 prodotti taiwanesi. L’isola farà lo stesso per 267 prodotti cinesi. Nel 2008, primo anno dall’apertura delle frontiere ai turisti cinesi, in oltre 2 milioni hanno visitato l’isola. E quest’anno, i visitatori cinesi a Taiwan, 1,2 milioni, dovrebbero superare i giapponesi. Senza contare gli oltre 2.000 studenti che, attraversato lo Stretto, saranno ammessi quest’anno nelle università taiwanesi.
Eventi e problemi
È in questo contesto che si colloca il discorso tenuto a febbraio 2011 dal presidente. Un ritorno al cosiddetto «Consenso del 1992», un testo stilato dai due governi – ma mai messo in atto –, che stabilisce i parametri comuni per l’interpretazione del concetto di unica Cina.
In pratica ognuna delle due parti lo utilizza a proprio piacimento, entrambe riconoscendosi come la vera Cina. Per Pechino l’isola continua a essere una «provincia ribelle», mentre per Taipei – erede della Repubblica fondata nel 1912 al crollo del secolare Celeste impero –  al di là dei 180 chilometri di Stretto c’è il Continente. La presa di posizione del presidente sembra sostenuta dai sondaggi. Secondo una ricerca del Global Views Monthly, pubblicata a fine gennaio 2011, il 54,8 per cento dei taiwanesi è propenso a mantenere lo status quo. E a fronte di un 27,7 per cento che aspira alla definitiva indipendenza, soltanto il 7,1 per cento vede nel proprio futuro una riunificazione politica con la Repubblica popolare.
I risvolti diplomatici di questa ambiguità sono emersi all’inizio dell’anno, quando Taipei ha richiamato i propri rappresentanti nelle Filippine, colpevoli di aver estradato a Pechino 14 cittadini taiwanesi accusati di frode. Nel 1975 il dittatore filippino Ferdinand Marcos firmò un accordo con l’allora primo ministro cinese, Zhou Enlai, con cui riconosceva l’esistenza di una sola Cina, di cui Taiwan era una parte inscindibile. Pur tra le legittime preoccupazioni del governo taiwanese per la sorte dei propri connazionali (accusati di essersi appropriati di oltre 20 milioni di dollari), Manila non ha potuto non rispettare l’accordo di estradizione firmato con Pechino nel 2001 ed entrato in vigore cinque anni dopo. Ricorda infine uno scenario da Guerra fredda l’arresto, quattro mesi fa, del generale Lo Hsien-che, con l’accusa di aver passato per anni segreti militari alla Repubblica popolare e condannato per questo all’ergastolo a fine maggio. Per il ministero della Difesa di Taipei si tratta del più grave caso di spionaggio negli ultimi 50 anni e, secondo quanto riferito dall’agenzia missionaria Asia News, potrebbero essere coinvolte almeno altre 10 spie.
Così come ricordano vecchi rancori le accuse mosse contro alcuni quotidiani, i cui articoli sul Continente sono considerati forme di propaganda pro cinese, finanziata da Pechino, in spregio a una vecchia legge che vieta di fare pubblicità alle aziende o ai prodotti made in China.
Le presidenziali del 2012
Tutto questo avviene mentre l’isola inizia a prepararsi per le presidenziali di gennaio 2012. La presidentessa del Pdp, Tsai Ing-wen, si è aggiudicata il sondaggio telefonico commissionato dai democratici per la scelta del proprio candidato, superando di un punto percentuale l’ex primo ministro, Su Tseng-chang: 42,5 per cento contro 41,5 per cento il risultato finale della rilevazione. Prima donna a correre per la poltrona presidenziale, è per gli elettori una mediazione tra le posizioni indipendentiste intransigenti di parte dei democratici e la politica di riavvicinamento con la Cina continentale del Gmd. È considerata una moderata, esponente dell’ala pragmatica del partito, decisa a non interrompere bruscamente i nuovi rapporti economici con Pechino. Questo sebbene negli anni Novanta sia stata tra le ispiratrici della «teoria dei due Stati», propugnata dall’ex presidente Lee Teng-hui, e della proposta di cambiare il nome ufficiale di Formosa da «Repubblica di Cina» a «Repubblica di Taiwan».
Tuttavia l’appartenenza al Pdp è tutt’altro che una garanzia per la dirigenza cinese. «È una persona mite, ma resta comunque una separatista, sebbene moderata. I rapporti tra le due sponde dello Stretto potrebbero subire un’inversione di rotta», ha sottolineato Wang Jianmin, ricercatore dell’Accademia cinese per le scienze sociali. Tsai non ha intenzione di rinnegare quanto fatto negli ultimi tre anni dal suo rivale, ma è decisa a trattare la Cina come un qualsiasi altro partner economico e soprattutto con il sostegno dell’«Organizzazione mondiale del commercio» che, al momento, il governo di Taipei ha preferito lasciare fuori dai rapporti con Pechino.
Gli scambi con la Cina hanno spinto l’economia dell’isola a un tasso di crescita che, nel 2010, ha toccato l’11 per cento, il più veloce degli ultimi 23 anni. E a marzo le esportazioni verso il continente hanno superato i 2,5 miliardi di euro. Vinto il primo round, Tsai dovrà ora cercare di tenere unito il suo stesso partito. Dal suo sfidante alle primarie ci si attende un impegno a favore della vincitrice. Su è però in rotta con uno dei principali sponsor politici di Tsai all’interno del Pdp, quel Frank Hsieh battuto due anni fa alle presidenziali da Ma Ying-jeou. Nei sondaggi, tra l’attuale capo di Stato e la sua sfidante è al momento testa a testa. Tuttavia, Ma può contare su un precedente propizio: la sconfitta di Tsai nella corsa a sindaco di Taipei lo scorso anno, quando a vincere fu il candidato dei nazionalisti.

Andrea Pira

La situazione religiosa

Diversi da Pechino

A Taiwan la religione è libera. Il culto più praticato è il buddismo, anche se il taoismo è la religione, la seconda, che ha più templi sull’isola (circa 18mila). Il 4,5 % della popolazione è cristiana: protestanti con circa 3mila chiese e cattolici con circa 298 mila membri e oltre 1.000 chiese. A Taiwan, inoltre, sono presenti molte sette e culti minori, come il Falun Gong, religione vietata in Cina che ha trovato molti adepti sull’isola ribelle, dove può essere praticata liberamente.

Il Falun Gong è un sistema di pratiche e credenze fondato recentemente, nel 1992, ad opera di Li Hongzi. Si tratta di un movimento spirituale, considerato come una setta dal Partito comunista cinese, che ha finito per avere grande diffusione in Cina negli anni ‘90. Secondo dati ufficiali cinesi nel 1998 sarebbero stati oltre 70 milioni i praticanti del Falun Gong, un mix tra spiritualismo qigong e grande enfasi alla morale. Dopo essere stati bollati come una setta, molti praticanti del Falun Gong a fine anni ‘90 diedero vita a numerose proteste pacifiche. A Pechino 10 mila persone contestarono il governo a causa del trattamento subito dai media proprio a Zhongnanhai, quartier generale dei leader cinesi. Da quel momento il Falun Gong è considerato illegale in Cina.

Andrea Pira




Consolate il mio popolo

Inacio Saure, missionario della Consolata, vescovo di Tete (Mozambico)

Consacrato vescovo di Tete in Mozambico il 22 maggio 2011, accolto calorosamente 15 giorni dopo da fedeli e autorità civili della diocesi,
mons. Inacio Saure, missionario dellaConsolata, mozambicano, ha dichiarato che la sua sarà una missione di consolazione, come è scritto nel suo stemma episcopale. La situazione che si trova ad affrontare presenta problemi vecchi e nuovi che richiedono una forte dose di
coraggio e di consolazione.

Consolamini populus meus: è il motto dello stemma episcopale di mons. Inacio Saure, preso da Isaia 40.1 per significare la caratteristica del suo ministero di vescovo. La consolazione, ha spiegato nel suo messaggio dopo l’ordinazione, è ciò di cui c’è maggiormente bisogno nella diocesi di Tete, oltre a far parte del suo carisma in quanto missionario della Consolata.
La Consolata non è nuova nella diocesi di Tete: vi arrivò nel lontano 1926, con la prima spedizione dei suoi missionari in Mozambico.
80 anni dopo…
A quei tempi il territorio dell’attuale diocesi di Tete si chiamava «Alta Zambesia»; sotto l’aspetto religioso faceva parte della Prelazia del Mozambico, che comprendeva l’intero territorio della colonia portoghese. La guidava mons. Rafael de Assunção.
Quando i missionari della Consolata chiesero di poter lavorare in Mozambico, il Prelato concesse l’autorizzazione affidando loro unicamente la circoscrizione di Zumbo, che aveva come centro la missione di S. Pietro Claver di Miruru, nella Zambesia superiore, ai confini con l’allora Rodesia, e permettendo di aprire una casa procura a Tete.
La regione era stata evangelizzata dai Gesuiti fin dal secolo XVI, ma quando i missionari della Consolata misero piede in Mozambico (1925) la maggior parte delle missioni erano in uno stato di semi-abbandono. La forza missionaria occupava una piccola parte del territorio: il clero secolare stava attorno a Lorenço Marques (oggi Maputo) e lungo il litorale; pochi religiosi, come francescani e monfortani, continuavano la cura di alcune missioni costruite nell’interno.
Alle tensioni tra secolari e religiosi si aggiungevano soprattutto gli umori politici del Portogallo. Così, quando il marchese di Pombal cacciò i gesuiti dal Portogallo (1759), questi furono espulsi anche dal Mozambico. Toarono nel 1881 e fondarono nell’Alta Zambesia due importanti centri di evangelizzazione a Boroma e Miruru; ma furono di nuovo espulsi nel 1910, in seguito alla rivoluzione che instaurò la Repubblica del Portogallo e scatenò un furioso anticlericalismo in tutti suoi territori.
Per alcuni anni le missioni di Miruru e Boroma furono affidate ai Verbiti tedeschi; ma con lo scoppio della prima guerra mondiale anche questi missionari furono allontanati, perché tedeschi e considerati nemici. Così Miruru rimase abbandonata fino al 1926, quando arrivarono i primi otto missionari della Consolata. L’anno seguente arrivarono sette suore della Consolata; a Tete rimase padre Peyrani che, oltre al compito di procuratore, svolse per due anni la funzione di parroco della chiesa di San Tiago.
Nel 1932 anche i missionari della Consolata lasciarono definitivamente l’Alta Zambesia, per concentrare la loro presenza nella regione del Nyassa.
Oggi, un altro figlio della Consolata, mons. Inacio Saure, è stato chiamato a guidare tutto il territorio dell’Alta Zambesia, diventato dal 1962 diocesi di Tete. Il nuovo vescovo incontra una situazione per molti aspetti simile a quella trovata dai missionari della Consolata 80 anni fa; anzi, le vicende storiche del passato e e i problemi del presente hanno moltiplicato le sfide alla missione di «consolazione» del nuovo vescovo.
La guerra e non solo…
«Metà della diocesi non ha assolutamente assistenza religiosa» spiega padre Tiago Palagi, comboniano italiano, dal 2009 amministratore apostolico della diocesi di Tete, dopo la rinuncia per limiti di età di mons. Paulo Mandlate, per 33 anni vescovo della diocesi. «Sei distretti su dodici, non hanno una missione, non hanno un padre, non hanno una suora – continua il missionario mostrando sulla mappa la regione nord-occidentale della provincia di Tete -. Su 27 parrocchie, 13 sono praticamente abbandonate da decenni».
Questa regione è stata zona di guerra ancora prima delle altre parti del Mozambico. A partire dal 1970, durante la guerra coloniale, i missionari furono imprigionati ed espulsi, perché diventati scomodi testimoni delle atrocità dell’esercito portoghese, come i massacri perpetrati nella regione di Mucumbura (1971) e a Wiriyamu.
Con la proclamazione dell’indipendenza del Mozambico, continua padre Tiago, «abbiamo queste due realtà: una parte della diocesi in cui c’è vita e vitalità perché c’è stata sempre una presenza missionaria di padri e suore, anche se c’è stata qualche difficoltà per riadattarsi alla nuova situazione creata dalla nazionalizzazione di scuole e altre opere; l’altra metà delle missioni, a nord del lago di Cabora Bassa, rimaste senza missionari e distrutte completamente dall’incuria e dalla successiva guerra civile».
Alcune missioni, diventate basi politiche e militari del Frelimo, furono bombardate dalla Renamo che, stabilitasi definitivamente nella zona, creò un cordone militare che per una dozzina d’anni rese impossibile qualsiasi comunicazione tra le comunità e i missionari e la diocesi in generale.
Finita la guerra civile e tornata la pace nel paese (1992), sono mancate le forze e la volontà «politica» per riprendere il lavoro in quelle missioni. Da una parte i missionari rimasti erano pochissimi, con le energie che venivano meno per l’età, e le congregazioni religiose non sono ritornate nelle loro antiche missioni, a causa della crisi di vocazioni. Dall’altra parte l’ordinario locale non ha cercato né favorito l’arrivo di nuovi istituti religiosi, a differenza di altri vescovi mozambicani, che hanno cercato nuove forze missionarie e hanno promosso la formazione del clero diocesano.
Attualmente, la diocesi di Tete, che si estende per oltre 100 mila kmq (pari al Nord-Italia), con una popolazione di oltre 2 milioni di abitanti, conta circa 270 mila cattolici, con una sessantina di suore e 31 preti; di questi solo 5 sono diocesani, impegnati nel lavoro pastorale, mentre altri 3 sono all’estero per specializzazioni. La scarsità di clero diocesano la dice lunga sulla situazione ecclesiale della diocesi, che il prossimo anno celebrerà le nozze d’oro della sua creazione.
Le speranze per il futuro sono per ora basate su tre studenti in teologia, una quindicina di seminaristi in filosofia e 25 nel seminario propedeutico a Beira.
«Entro quest’anno dovremmo avere una nuova ordinazione -spiega padre Tiago -. Se avessimo un prete all’anno sarebbe un successo. Tutti i nostri preti diocesani sono stati ordinati negli ultimi cinque anni; sono giovani e hanno bisogno di essere aiutati e guidati nel loro lavoro. Il vero problema per preti e seminaristi è formarli, sostenerli, accompagnarli; far loro sentire la gioia di essere preti… Sarà questa la prima delle raccomandazioni che farò al nuovo vescovo: dedicarsi il più possibile ai preti e ai seminaristi e non aver paura di perdere tempo con loro».
diocesi in stato di missione
Nonostante la distruzione di tutte le strutture delle missioni e l’assenza tanto prolungata dei missionari, le comunità di quelle regioni sono sopravvissute, sia religiosamente che economicamente recandosi nei paesi confinanti, soprattutto in Zambia e in Malawi; molte di esse si sono organizzate per recarsi nelle parrocchie di questi paesi per ricevere i sacramenti.
I contatti sono stati ripresi negli ultimi due anni. Padre Tiago ha cercato di visitare le missioni abbandonate per scoprire le comunità ancora vive e ha raccolto il loro lamento: «Ci avete abbandonati. La diocesi ci ha dimenticati». L’amministratore apostolico ha subito organizzato autentiche «spedizioni missionarie» con padri, suore e seminaristi maggiori, dando così un segnale concreto che la diocesi vuole riprendersi la cura pastorale di tutti i suoi figli, specialmente in quei luoghi di difficile accesso e dove da troppo tempo manca una presenza missionaria stabile.
«Abbiamo fatto un’assemblea con preti, religiosi e religiose e ho spiegato come la diocesi appartiene a tutti; quindi ho proposto loro di lasciare per una settimana o 10 giorni le loro parrocchie o loro attività, per spostarsi nelle zone più lontane e abbandonate, in modo da assicurare anche ad esse un’assistenza più capillare almeno due o tre volte l’anno. La risposta è stata unanime e generosa».
Non è un’impresa facile. Sono viaggi come ai vecchi tempi: bisogna portarsi dietro tutto, dal combustibile all’acqua da bere, al cibo, agli attrezzi per riparare l’auto in caso di avarie non troppo grosse; si convive con le comunità cristiane, adattandosi alle condizioni precarie che si incontrano; si approfitta della stagione secca, perché mancano le strade. Alcune sono state cancellate dalle acque del lago di Cabora Bassa; per raggiungere alcune località come la provincia di Zumbo, bisogna passare dallo Zimbabwe.
«Raggiunta una comunità, ce n’è stata indicata un’altra e poi altre ancora – racconta padre Tiago -. Siamo ritornati missionari del mato, della foresta. In questi due anni la gente ha respirato di nuovo aria di missione e sta aspettando, ha una grande voglia di riprendere l’evangelizzazione in tutta la diocesi. E questa è la sfida grande che attende il nuovo vescovo, mons. Inacio Saure: portare la presenza di chiesa in tutto il territorio diocesano; una vera missione di consolazione lo aspetta: visitare le comunità, soprattutto quelle più sperdute e abbandonate; non sarà un lavoro di ufficio; l’abbiamo avuto per 33 anni un vescovo di ufficio».
le mani sul… carbone
Tete è naturalmente inserita in un contesto socio-economico locale e nazionale, le cui pressioni si fanno sentire anche a livello ecclesiale. Tale situazione è caratterizzata dalla «corsa all’oro» da parte delle multinazionali; oro reale in varie parti, ma soprattutto «oro nero», cioè il carbone. I paesi emergenti, con enorme fame di energia (Brasile, India, Cina, Australia…), stanno investendo miliardi di dollari in «mega progetti» in varie parti del Mozambico per sfruttae le risorse naturali: carbone, petrolio, gas naturale, diamanti, sabbia pesante…
Per quanto riguarda la provincia di Tete, il governo mozambicano ha firmato contratti con la compagnia brasiliana Vale do Rio Doce e con l’australiana Riversdale per l’estrazione del carbone su grande scala nelle zone di Moatize e Benga. Sono state già avviate miniere di carbone a cielo aperto, con conseguenze non indifferenti per l’ambiente e per la salute degli abitanti.
Ancora più gravi sono i risvolti sociali. La gente non riesce a capire cosa stia succedendo: vede enormi quantità di auto di lusso, macchinari e automezzi che intasano le strade, ma non ne ricava alcun beneficio; anzi, vede crescere la sua povertà. La disponibilità di denaro di manager e tecnici stranieri fa lievitare i prezzi delle materie essenziali per la sopravvivenza, tanto che Tete è diventata la città più cara del Mozambico. Anche il capretto, cibo base della popolazione di questa regione, ha ormai prezzi proibitivi.
Le nuove industrie minerarie non producono lavoro per i locali: il lavoro è per gente che viene da fuori, magari anche mozambicani di altre parti del paese, gente con una minima specializzazione che può trovare o si illude di trovare lavoro in queste imprese. Gli operai locali senza alcuna qualifica possono essere utilizzati inizialmente per i lavori pesanti e dismessi quando non servono più, come è capitato a 6.500 manovali impiegati da una delle ditte subappaltatrici della Vale, per chiudere i pozzi di epoca coloniale, e poi licenziati a lavoro ultimato, provocando proteste e scioperi tra i minatori.
Un’altra conseguenza sul piano sociale è lo spostamento di popolazioni intere; migliaia di contadini sono stati costretti ad abbandonare le loro terre, per essere trasferiti a 30 o più chilometri di distanza, in villaggi detti di «reinsediamento», con abitazioni malfatte e precarie, anguste e invivibili per gente abituata a spazi ben diversi. Questa popolazione ha perso le proprie radici e ha trovato ben poco di ciò che poteva essere un beneficio.
I mega progetti non producono ricchezza neppure per il paese. Si dice che fanno alzare il Pil (prodotto interno lordo), ma è una illusione e una falsità assoluta, perché la ricchezza prodotta non appartiene al Mozambico. La Vale è padrone assoluto delle concessioni ottenute dal governo: tutto ciò che c’è nel sottosuolo, che viene estratto ed esportato appartiene alla compagnia. Lo stesso vale per le concessioni alla Riversdale: il governo non sa neppure cosa c’è nel sottosuolo, se vi è solo carbone o anche altri minerali; ma lo sanno bene le multinazionali.
I contratti stipulati tra governo e multinazionali mancano di assoluta trasparenza, per cui allo stato vengono solo le briciole. Le compagnie si fanno belle, magari, costruendo qualche scuoletta, ripitturando l’ospedale o con altri lavoretti del genere, ma al tempo stesso portano via a piene mani la ricchezza del paese, senza che la gente del luogo ne benefici minimamente.
Del problema si è interessata anche l’ultima assemblea generale della Conferenza episcopale del Mozambico nel maggio scorso: il prof. Tomás Selemane ha spiegato ai vescovi l’impatto dei mega progetti sulla popolazione mozambicana, i conflitti sociali che ne derivano, le strategie delle multinazionali e gli interessi occulti di governanti e leader politici; l’esperto ha proposto anche azioni concrete per affrontare la situazione e far sì che lo sfruttamento delle risorse del paese produca qualche benessere anche per la gente comune.
«Abbiamo posto la domanda e continueremo il discorso, nella prossima assemblea della Conferenza episcopale» spiega padre Tiago. Di fatto, è stato avviato uno studio per avere cifre e dati concreti, elementi dettagliati e inconfutabili prima di parlare e prendere una posizione chiara e coraggiosa. Non basta denunciare le compagnie per la corsa all’accaparramento delle materie prime, ma anche chi favorisce tale fenomeno, i contratti occulti di persone di partito o di governo o di gruppi limitati.
«È evidente che come chiesa – continua padre Tiago – sarà necessario non solo denunciare ciò che sta capitando, ma mettersi dalla parte di chi sta soffrendo di tali conseguenze. Questo è quello che abbiamo davanti agli occhi. Per ora, dal punto di vista di chiesa, è ancora un discorso marginale, ma il problema si farà sentire sempre più: anche questa è una sfida che il nuovo vescovo dovrà affrontare, insieme a tutti i vescovi del Mozambico».

Benedetto Bellesi

Inacio Saure: la sua storia

Padre Inácio Saure è nato il 2 marzo 1960, a Balama, diocesi di Pemba, in Mozambico, dove ha frequentato le scuole elementari e medie.
Dopo lo scoppio della guerra civile entrò nel seminario della Consolata a Maputo; frequentati i corsi di filosofia e il 1° anno di teologia nel seminario S. Agostino di Matola (1990-1992), proseguì gli studi teologici presso l’Istituto superiore di Teologia S. Eugenio di Mazenod a Kinshasa (R.D. del Congo), dove conseguì nel 1998 il baccellierato in teologia.
Emessa la prima professione religiosa nell’Istituto Missioni Consolata il 7 gennaio 1995 e quella perpetua il 15 maggio 1998, fu ordinato presbitero l’8 dicembre dello stesso anno.
Dopo l’ordinazione ha ricoperto i seguenti incarichi:
– 1999-2001 vicario curato della parrocchia S. Mukasa Lukunga, a Kinshasa;
– 2002-2005 parroco della chiesa Mater Dei e superiore della comunità a Mont-Ngafula (diocesi di Kisantu); direttore della scuola d’informatica e vice superiore regionale;
– 2006 fu destinato in Mozambico per lavorare nell’ambito della formazione;
– 2006-2007, dopo aver studiato la lingua italiana a Roma, ha frequentato un corso per maestri dei novizi presso l’istituto Mater Christi a Bobo-Dioulasso nel Burkina Faso;
– 2008 rettore del seminario medio e filosofico dei missionari della Consolata a Matola e, da dicembre dello stesso anno, è stato maestro dei novizi presso il Noviziato Internazionale della Consolata a Maputo.

Benedetto Bellesi




Transizione: missione compiuta

Marzo 2010 – Aprile 2011: ritorno alla democrazia

Dopo tredici mesi di giunta militare, il Niger ritrova la via della democrazia. I soldati hanno deposto il presidente Tanja, che si era arroccato al potere. Poi hanno gestito la transizione e le elezioni e si sono ritirati.
Il nuovo presidente, attento al sociale, ha di fronte a sé una sfida enorme: migliorare le condizioni di vita in uno dei paesi più poveri del mondo. L’inizio di una nuova era?

Il 7 aprile 2011 il Niger volta pagina. Mahamadou Issoufou, oppositore storico, diventa il primo presidente della VII Repubblica. Issoufou, presidente del partito Pnds – Tarayya (Partito nigerino per la democrazia e il socialismo) ha 59 anni ed è in politica dal 1991. È membro del comitato Africa dell’Internazionale socialista. Ha tentato tre volte di accedere alla presidenza (1992, 1999 e 2004) ma solo lo scorso 12 marzo, al ballottaggio, con un verdetto delle ue del 57,95%, la speranza di un cambiamento nel poverissimo paese saheliano si è concretizzata. Il percorso per giungere al cambiamento non è però stato indolore. E, soprattutto, il futuro non sarà privo di incertezze e difficoltà. Ma occorre fare un passo indietro.

Transizione militare
«morbida»

Il presidente Mamadou Tanja, giunto al potere nel 1999 e rieletto per un secondo mandato di cinque anni, pensa che sia bene continuare a dirigere il paese. Così lancia la tazartché (ovvero continuità, in lingua haussa), una campagna per modificare la Costituzione (che prevede al massimo due mandati) e potersi ricandidare. Ma fa di più. Scioglie l’Assemblea Nazionale e la Corte costituzionale (maggio e giugno 2009) e si mantiene al potere affidando a un comitato ristretto di fedeli la scrittura di una nuova carta costituzionale che prevede, tra l’altro, il prolungamento del suo mandato. La fa approvare il 4 agosto dello stesso anno per referendum (con bassissima partecipazione). Si tratta, di fatto di un golpe istituzionale. La Cedao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest) sospende il Niger.
In gioco c’è soprattutto il mega giacimento uranifero di Imurarene, che entrerà in funzione nel 2013 e farà raddoppiare la produzione di uranio del paese, facendolo diventare il secondo produttore mondiale dopo il Canada. Va notato che nel 2007 il prezzo del minerale era schizzato da 60 a 138 dollari la libbra, mentre oggi, dopo il disastro di Fukushima (Giappone) è nuovamente sceso a 60.
Ma a parte alcuni settori che lo sostengono, le manovre di Mamadou Tanja creano malcontento anche all’interno del paese. Il 18 febbraio 2010 un gruppo di militari della 5a compagnia di appoggio e servizio della capitale, lo destituisce e si crea il Consiglio supremo per il ripristino della democrazia (Csrd), presieduto dal giovane generale Salou Djibo. Il colpo di stato avviene senza spargimenti di sangue (come è consuetudine in Niger) e, in questo caso, senza coinvolgere gli alti dirigenti dell’esercito: lo stato maggiore non è implicato.
I putschisti si prefiggono di «sanare le finanze pubbliche, riconciliare i nigerini e riportare la democrazia». Programma ambizioso per dei militari che hanno preso il potere con la forza.
«La giunta ha avuto il merito di aver condotto il processo fino alla fine, avere organizzato le elezioni e mantenuto il programma. Questo è tutto. Ma non li presenterei come degli eroi» ricorda Moussa Tchangari, giornalista e segretario generale di Alteative Espace Citoyens, un’associazione della società civile nigerina, molto attiva nel campo dell’educazione alla cittadinanza e della promozione dei diritti umani. «Se guardiamo alla gestione dei fondi pubblici, molti nigerini sono delusi: i militari non hanno fatto alcuna bonifica e molti grandi “ladri” sono ancora in circolazione».

Tempi rispettati
La giunta aveva promesso una transizione di un anno. E così è stato. Dopo aver promulgato una nuova Costituzione (adottata per referendum il 31 ottobre 2010) che ha dato origine alla VII Repubblica, hanno organizzato le consultazioni elettorali amministrative, legislative e presidenziali, senza però candidarsi (cosa che invece aveva fatto il colonnello Ibrahim Baré Mainssara nel 1996, che dopo aver fatto il colpo di stato divenne presidente per via elettorale).
«La transizione è andata bene, i testi che sono stati adottati sono all’altezza, le elezioni si sono svolte nella calma generale e senza brogli. C’è stata la vittoria di un candidato, subito riconosciuta dal suo avversario. Tutto questo è molto positivo» continua Moussa Tchangari.
Ma «c’è stata anche qualche difficoltà: alcuni partiti sono stati respinti, e i militari hanno fatto molte pressioni, affinché il risultato fosse quello che abbiamo raggiunto oggi; hanno influenzato in diversi modi. Globalmente il candidato ha comunque vinto, ma ha beneficiato di un certo appoggio dell’esercito».

I settori sociali
Dato importante: i militari hanno associato la società civile nella transizione. «La società civile ha partecipato in certe strutture, come ad esempio nel Consiglio consultativo nazionale (Ccn) del quale hanno fatto parte un grande numero di organizzazioni sociali e che è stato presieduto da un membro di queste. Io ho preso parte ai lavori sulla Costituzione e a molti altri. C’è stata quindi una partecipazione nell’elaborazione dei documenti e al dibattito sul futuro del paese».
Il generale Djibo ha creato nell’aprile 2010 il Ccn con lo scopo di rielaborare i testi fondamentali del paese: Costituzione, codice elettorale, carta dei partiti politici e statuto dell’opposizione. Presieduto da Marou Amadou, presidente del Fronte unito per la salvaguardia della democrazia (Fusd), associazione che si opponeva alla tazarché, era composto da 131 membri che hanno lavorato ai vari testi.
«Ci sono state persone della società civile associate alla gestione stessa della transizione» continua Moussa. Anche a livello di scrutini – i militari ne hanno organizzati ben cinque – tutto si è svolto in modo molto tranquillo e partecipato. Un esempio per l’Africa. «Da quello che ho visto tutto è andato molto bene, c’è stata anche una certa euforia, non esagerata, alla nigerina. Comunque tutti non vedevano l’ora che si voltasse pagina. A parte qualche nostalgico, che non manca mai» racconta Remo Zulli, agronomo, cornoperante che da tempo lavora nel paese. «Al primo tuo c’è stata una buona partecipazione, al secondo meno perché molti dicevano che ormai con le alleanze che si erano formate i giochi erano fatti». E continua: «Dopo la proclamazione dei risultati a Niamey e a Tahoua, zona di origine del presidente, l’atmosfera era ottima. A Tahoua si sono formati cortei di macchine che festeggiavano». Ora le attese sono enormi. «Molti dicono che le cose andranno meglio, ma più in generale c’è un clima d’attesa, anche perché Issoufou ha fatto molte promesse durante la campagna elettorale, citando cifre secondo me esagerate per alcuni settori d’intervento» conclude Remo Zulli.

La Politica dei numeri
Molti parlano di svolta democratica o di ritorno alla democrazia. Le sfide per il nuovo governo sono tuttavia enormi.
Il Pnds, arrivato in testa al primo tuo (31 gennaio), ha saputo giocare bene sulle alleanze per il ballottaggio. In particolare si è aggiudicato l’appoggio di Hama Amadou, uno degli uomini più potenti del Niger, già primo ministro di Mamadou Tanja e poi silurato dallo stesso. Il neonato partito di Amadou, Movimento democratico nigerino per una federazione africana (Modem) è arrivato al terzo posto al primo tuo. Altro sostegno Issoufou l’ha avuto da due partiti tradizionalmente legati a Tanja, l’Rdp e l’Udr. Anche l’Andp – Zaman Lahiya ha dato il suo sostegno (vedi box). In questo modo, oltre alla vittoria alle presidenziali, la coalizione di Issoufou, Coordinazione delle forze per la democrazia e la repubblica (Cfdr), può contare su 78 deputati sui 107 assegnati all’Assemblea Nazionale.
«La coalizione al potere è stata raffazzonata in pochi giorni, alla vigilia delle elezioni. Questo è un altro problema: non sappiamo se sia solida e quanto durerà» commenta Moussa Tchangari. «Hama Amadou continuerà ad appoggiare il presidente?». Il Modem può contare infatti su 23 seggi in parlamento. L’ex partito di Tanja (e di Amadou), l’Mnsd –  Nassara (Movimento nazionale per la società di sviluppo), che ha presentato Seini Oumarou, è retrocesso a seconda forza politica, con 23 deputati rispetto ai 47 che aveva nel 2004.

Sfide e compromessi
Il Niger, con i suoi 15 milioni di abitanti, occupa sempre uno degli ultimi tre posti della classifica mondiale delle Nazioni Unite, basata sull’indice di sviluppo umano. Si confronta a carestie cicliche (circa ogni cinque anni) che causano crisi alimentari e morti. Le fredde statistiche dicono che due terzi dei suoi abitanti vivono con meno di 1,25 dollari al giorno.
La popolazione è all’85% rurale e vive in grande maggioranza di agricoltura e allevamento. Ma il problema dell’accesso all’acqua è ancora fortissimo.
Così il presidente ha promesso di investire 9 miliardi di euro in progetti strutturali. In particolare 1,8 miliardi su agricoltura e acqua e altrettanti per l’educazione. Anche sull’accesso alle cure mediche il programma di Mahamadou Issoufou prevede forti investimenti.
«Il paese vive una situazione difficile, la popolazione versa in una povertà estrema: la più grande sfida è di assicurare ai nigerini cibo e i servizi di base» ricorda Moussa Tchangari.
«Occorre che la gente inizi a vedere delle ricadute della democrazia nei propri piatti, nella vita di tutti i giorni. Altrimenti la popolazione dovrà sempre confrontarsi con situazioni come quella della fame, della salute, e inizierà a chiedersi a cosa serve la democrazia».
E, riferendosi al problema del terrorismo, Al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi, vedi MC dicembre 2010): «Occorre poi preservare la pace e la sicurezza nel paese, in un contesto regionale molto agitato…».
Nel programma politico di Issoufou ci sono molte promesse difficili da realizzare, «soprattutto quando si fa conto su finanziamenti estei – sostiene il giornalista -. È previsto che il 50% dei finanziamenti siano estei. Innanzitutto nel contesto attuale di crisi, bisogna vedere se potrà reperire così tante risorse. In secondo luogo, i finanziatori imporranno le loro condizioni, che non necessariamente andranno d’accordo con la politica sociale promessa da Issoufou. Chi finanzia dall’estero vuole delle politiche di tipo liberale, come fare allora a promuovere delle politiche sociali? È una contraddizione. Un esempio: il governo investe oggi dei miliardi nell’accesso all’acqua potabile, ma se poi i partner finanziari impongono di affidare la gestione dell’acqua ai privati, l’accesso sarà limitato, di fatto, dai prezzi».

Voglia di uranio
E di petrolio

Parlando di compromessi, il Niger è il serbatornio di uranio della Francia, uno dei paesi che ha più investito in centrali nucleari al mondo. Nel 2006 Mamadou Tanja aveva spezzato il quarantennale monopolio dei transalpini nello sfruttamento dell’oro grigio nigerino, facendo entrare canadesi, australiani, indiani e cinesi. Così aveva ottenuto una rinegoziazione del prezzo, mantenuto dalla Francia molto più basso di quello del mercato. Areva, il gigante mondiale del nucleare civile (francese), aveva comunque ottenuto la concessione dell’importante giacimento di Imourarene.  «Un altro aspetto importante rispetto alla transizione è stato il braccio di ferro tra il presidente Tanja e Areva» sostiene Tchangari. «Il regime (di Tanja, ndr) ha difeso gli interessi del paese e questo ha fatto sì che in appoggio (esterno) del colpo di stato la Francia abbia inviato i suoi militari. È come se il cambiamento si traducesse anche in un rafforzamento dell’influenza transalpina». Il rischio è elevato: «Le forze speciali francesi sono ancora in Niger e sembra che vogliano installarvi una base. I militari della giunta non hanno accettato, ma aspettiamo di vedere come il governo civile gestirà la cosa. Se darà la possibilità all’esercito francese di essere presente, sarà molto grave. Anche per quello che sta succedendo in Libia, di cui il Niger è un paese confinante».
La questione della Francia ha diviso gli stessi militari della giunta. Alcuni di loro sono ancora in prigione per questo. Un dossier difficile da gestire per il neo presidente sarà la creazione di una coesione all’interno dell’esercito, che è diviso, ma anche «come fare in modo che i militari non entrino più nella gestione della vita pubblica».
Con Mamadou Tanja, il Niger era entrato in pieno nella sfera di influenza cinese. La Cina si appresta a sfruttare il nuovissimo giacimento di petrolio di Agadem (centro – Est), che farà entrare il Niger, entro il 2011, nella cerchia di paesi produttori. Il giacimento è di tutto rispetto: le riserve stimate sono di oltre un miliardo di barili e ne dovrebbe produrre circa 100.000 al giorno. La China National Petroleum Corporation (Cnpc, vedi MC luglio-agosto 2008) ha anche realizzato una raffineria nei pressi di Zinder, che dovrebbe entrare in funzione nei prossimi mesi. Ancora aperta la questione dell’oleodotto che dovrà portare il greggio nel golfo di Guinea.

Primi passi
Come prima mossa il neo presidente nomina, il giorno stesso della sua investitura, primo ministro il tuareg Brigi Rafini di Iférouane. Una  mossa simbolica ma anche pragmatica. È il primo tuareg ad accedere a questo posto in Niger. Un modo per coinvolgere questo gruppo, da sempre ai margini. Rafini, 58 anni, è conosciuto per umiltà, dedizione al lavoro e capacità di ascolto.    
Dopo 10 anni di governo Tanja, un presidente socialista e una nuova Costituzione, il Niger si sta forse aprendo a una nuova era. Ma le sfide e i problemi restano quelli di sempre.

Marco Bello

Testimoni: incontro con l’onorevole A.Malam Issa
L’entusiasmo di chi comincia

Le legislative di inizio 2011 hanno fornito una nuova fisionomia al parlamento nigerino alla 49sima legislatura. Missioni Consolata ha raggiunto telefonicamente il deputato Assoumana Malam Issa. Al suo primo ingresso all’Assemblea Nazionale, l’onorevole Issa è vice presidente del gruppo parlamentare Pnds – Tarayya, prima forza politica e maggioranza parlamentare.

La coalizione al potere è molto varia, con il Pnds troviamo il Modem di Hama Amadou e anche alcuni partiti legati a Ibrahim Baré Mainassara. Pensa che questa alleanza possa durare?
«Dopo i fatti del 2009, ovvero il tentativo di annullare le conquiste democratiche degli ultimi due decenni, i nigerini, di tutti i partiti politici sono coscienti della grande necessità di mettere in primo piano l’interesse del paese, per non rischiare di ricadere in regimi non democratici. Questo costituisce il cemento che salda gli alleati, compresi i partiti di opposizione. Ed è ancor più dimostrato dall’elezione, il 19 aprile scorso, a presidente dell’Assemblea Nazionale, di Hama Amadou. L’ex primo ministro ha raccolto 103 voti a favore e uno contrario. L’altra ragione che garantirà il successo di questa alleanza è che il Pnds è un partito che funziona sulla base di principi solidi e il Presidente della Repubblica tiene conto di questo. È chiaro che evitare la rottura della governance, la preoccupazione di far rinascere un Niger nuovo saranno la bussola di questo regime».

Una delle sfide del governo saranno le misure in campo sociale, per migliorare le condizioni di vita della popolazione. Sarà possibile con i ricavi delle risorse naturali del paese (uranio e petrolio)? O ci sarà bisogno di cospicui finanziamenti stranieri?
«Il presidente Mahamadou Issoufou ha proposto un programma al popolo nigerino ed è su questo che è stato eletto. Certo, le risorse nazionali non saranno sufficienti per finanziare tutte le azioni a breve termine, ma è chiaro che il Niger ha enormi potenzialità in termini di ricchezze minerarie e petrolifere e noi scommettiamo sul fatto che, a medio e lungo termine, il ricorso a finanziamenti dall’estero sarà limitato».

Un’altra sfida importante è quella di mantenere la sicurezza della popolazione. Il Niger ha conosciuto due ribellioni tuareg. Oggi c’è la minaccia di Aqmi (Al Qaeda) a livello regionale. Che programma politico ha la coalizione al potere per far fronte a questo? Il fatto che il presidente abbia nominato, per la prima volta nella storia del paese, un tuareg al posto di primo ministro, è legato a una strategia in questo senso?
«Uno degli assi del presidente Issoufou è proprio la sicurezza e un grande numero di azioni saranno prese per far fronte a questa sfida. Ma al contrario di una interpretazione errata della nomina di Brigi Rafini a primo ministro, la principale ragione è che si tratta di una persona di molta esperienza, con una grossa conoscenza della realtà del Niger, un temperamento federatore e una grande saggezza».

I rapporti con la Francia. Sotto Mamadou Tanja sono stati tesi. Oggi ci sono militari francesi delle forze speciali in Niger e vorrebbero installarvi una base permanente. Secondo lei come va gestita la questione?
«Preferisco non rispondere a questa domanda. Ma sappiate che il Niger agisce in una logica di partenariato di tipo “vincente – vincente”!».

Pensa che con la VII Repubblica si inizia un nuovo periodo di speranza nella storia del paese?
«Certamente. Tutte le premesse sono buone: nuovo leader, nuovi attori, contesto favorevole, prospettive economiche radiose, volontà mostrata di rottura a tutti i livelli per favorire un cambiamento di mentalità».

Ma.B.


    CRONOLOGIA ESSENZIALE

1960 3 agosto:    proclamazione dell’indipendenza dalla Francia. Diori Hamani diventa presidente.
    1974 15 aprile:    colpo di stato di Seyni Kountché.
    1987 10 novembre:    muore Kountché di emorragia cerebrale. Il colonnello Ali Saibou diventa presidente del consiglio militare.
    1989 dicembre:    Saibou eletto presidente nel corso delle prime elezioni dall’indipendenza.
    1990 maggio:    iniziano gli scontri tra tuareg ed esercito regolare.
    1990 dicembre:    Saibou vuole portare il paese al multipartitismo, istituisce la Conferenza nazionale per regolamentare il cambiamento.
    1992 dicembre:    una nuova Costituzione è adottata per referendum.
    1993 27 marzo:    prime elezioni presidenziali pluraliste. Mahamane Ousmane, del partito di opposizione, è il primo presidente eletto democraticamente.
    1995:    firma dell’accordo di Ouagadougou, fine della ribellione tuareg.
    1996 27 gennaio:    il colonnello Ibrahim Baré Mainassara prende il potere con un colpo di stato. Nel luglio si fa eleggere presidente.
    1999 9 aprile:    il colonnello Mainassara Baré è assassinato. Caos istituzionale. In seguito a pressioni inteazionali sono organizzate elezioni a ottobre e novembre. Mamadou Tanja eletto presidente della repubblica.
    2003:    i servizi segreti americani e inglesi denunciarono che il Niger aveva venduto uranio all’Iraq. Il direttore della Cia, George Tenet, dovette in seguito ammettere che le accuse erano false.
    2004 dicembre:    Tanja è rieletto per un secondo e ultimo mandato con il 65,5% dei voti.
    2005:    crisi alimentare nei paesi del Sahel. Il Niger è il più colpito. Intervengono le Ong inteazionali di emergenza.
    2007 febbraio:    attacco a Iférouane, rivendicato dal Movimento dei nigerini per la giustizia (Mnj), composto da giovani tuareg. È la prima manifestazione del Mnj che attacca successivamente le imprese minerarie e postazioni dell’esercito nel nord del paese.
    2007 1 giugno:    crisi del governo Hama Amadou per lo scandalo al Ministero dell’educazione di base (Meba), 6,1 milioni di euro scomparsi.
    2008 24 giugno:    arresto dell’ex premier Hama Amadou, sospettato di furto di denaro pubblico.
    2009 25 maggio:    la Corte costituzionale respinge l’organizzazione del referendum per prolungare il mandato del presidente. Il giorno seguente Mamadou Tanja scioglie l’Assemblea Nazionale.
    2009 5 giugno:    decreto presidenziale per indire il referendum sulla nuova Costituzione il 4 agosto.
    2009 12 giugno:    la Corte costituzionale annulla il decreto presidenziale del 5 giugno.
    2009 27 giugno:    il presidente Mamadou Tanja assume poteri eccezionali e due giorni dopo scioglie la Corte costituzionale.
    2009 4 agosto:    vittoria dei “si” al referendum che prolunga il mandato presidenziale.
    2009 inizio ottobre:    i ribelli tuareg del Fronte patriottico nigerino e dell’Mnj depongono le armi.
    2009 20 ottobre:    la Cedeao (organizzazione regionale) sospende il Niger.
    2010 18 febbraio:    colpo di stato militare. Tanja è deposto e arrestato. Il potere è assunto dal Consiglio supremo per la restorazione della democrazia con a capo il generale Salou Djibo. Sospensione della Costituzione.
    2010 31 ottobre:    adozione per referendum della nuova Costituzione, inizia la VII Repubblica.
    2011 31 gennaio     Mahamadou Issoufou vince le elezioni presidenziali. Entra in carica il 7 aprile. Si svolgono anche le amministrative e le legislative. Il 19 aprile Hama Amadou è eletto presidente dell’Assemblea Nazionale.

Marco Bello




Un Eden in mezzo all’oceano

Reportage dalle isole Raja Ampat, Papua occidentale

Epicentro mondiale di biodiversità, paradiso perduto, nuova Micronesia, ultima frontiera del diving, culla della creazione nel mezzo dell’oceano… sono alcune
definizioni dell’arcipelago Raja Ampat, a ovest della Papua occidentale (indonesia).

Il primo a tuffarsi in questo mare fu un olandese amante dell’avventura, alla ricerca di relitti dell’ultima guerra mondiale. Era il 1990, otto anni dopo accompagnò uno scienziato australiano che, dalla prima immersione, intuì di trovarsi in un ecosistema unico al mondo. È il mare di Raja Ampat, arcipelago all’estremo nord ovest dell’isola di Papua, la seconda più grande al mondo, la più misteriosa e inaccessibile.
Raja Ampat significa «quattro re»: nome risalente al 15° secolo, quando il sultano di Tidore, nelle Molucche, concesse il governo delle isole maggiori a quattro raja locali.
A causa della situazione politica in Indonesia, si dovette aspettare il 2001 per fare un primo sopralluogo, cui seguirono spedizioni scientifiche sotto l’egida di Conservation Inteational. Dal 2006 si sono avuti i primi risultati sorprendenti: nel mare di Raja Ampat sono state individuate 450 specie di corallo duro (più della metà delle specie esistenti al mondo), 600 specie di molluschi, più di 950 pesci di barriera. Forme di vita marina sono state recentemente scoperte dagli scienziati che si alternano sul posto e premono affinché la zona venga tutelata dall’Unesco.

L’eden In fondo all’oceano
Partiamo sotto la pioggia su un veliero in legno, costruito dai maestri d’ascia di Sulawesi, uguale a quelli usati un tempo da pirati e commercianti del sud est Asiatico. I primi giorni sono durissimi: odore di nafta del motore, mare mosso, fumo dei compagni a bordo mi fanno star male. Unico sollievo è tuffarsi in un mare che ogni giorno regala spettacoli di vita marina; ma prima conviene fare un sopralluogo e valutare i rischi, poiché le correnti marine a volte sono forti come fiumi in piena.
Finalmente mi immergo nel mare di Raja Ampat. Doveva essere una prova a 5-10 metri e invece rimango per quasi un’ora tra i 25 e i 30 metri. L’acqua è azzurra e limpida; a tratti è verde scuro, densa di plancton. La visibilità qua e là è scarsa, ma i colori e le forme dei coralli sono sorprendenti. Spettacolari sono le vaste lagune che racchiudono centinaia di isolotti calcarei, ricchi di vegetazione.
Vedo colori e forme di vita che mi riempiono di gioia. Subito mi passa accanto un napoleone gigante, poi altri pescioni, mentre una tartaruga fugge veloce. Coralli dalle forme stravaganti, tra cui il broccolo, col gambo bianco e fiore bordato di azzurro, le spugne tubolari verde acido e molti nudibranchi, la mia passione, piccoli e coloratissimi. Indescrivibile.
Adesso capisco quando dicono che Raja Ampat è il primo posto per la biodiversità e l’immersione.
Ciò che rende questo mare così ricco è lo straordinario habitat, fatto da estese barriere coralline, forti correnti, praterie di erbe marine, mangrovie intatte, lagune e baie tranquille con spiagge sabbiose dove si accumulano i principi nutritivi. L’estremo isolamento finora lo ha preservato. Però, purtroppo, sulle spiagge si sono accumulati rifiuti di plastica, portati dalle correnti da chissà dove; sul mare galleggiano isolotti formati da tali rifiuti non degradabili.
Raja Ampat comprende 2.500 tra isole e barriere coralline, dove i rari villaggi sono abitati per lo più da gente di Papua. Scuri di pelle, hanno capelli crespi, che nei bambini sfumano in biondo. Pare che questo scolorire dei capelli sia dovuto a una carenza di proteine. Gli uomini sono dediti alla pesca, che oggi non si pratica più con cianuro o dinamite.

Papua: paradiso a rischio
Sorong è il capoluogo della Papua occidentale. Dall’alto pare un esteso villaggio immerso nel verde con tante chiese; in realtà ha 247 mila abitanti ed è al centro dello sfruttamento di gas e petrolio, ovviamente da parte di compagnie straniere.
I missionari cattolici vi sono arrivati dalle isole Kei negli anni ‘30 del secolo scorso, in seguito alla scoperta di questo immenso territorio, che si credeva disabitato. Sorvolando per la prima volta la Nuova Guinea, protetta da coste alte e dirupate e da foreste impenetrabili, i primi esploratori si stupirono nel trovarvi fertili vallate, una civiltà contadina evoluta e un habitat di eccezionale interesse scientifico.
Papua si trova a est della linea Wallace e costituisce la transizione dalla regione asiatica a quella relativa all’Oceania, basata su elementi di tipo biologico. Per questo a Papua si trovano una flora e una fauna molto simili a quelle australiane, tra cui l’echidna, mammifero che depone le uova, e marsupiali come il wallaby e il canguro.
Compagnie straniere hanno scoperto ben presto i ricchi giacimenti minerari e hanno aperto grandi miniere che hanno modificato l’ambiente. La maggiore si trova sotto un ghiacciaio a 4 mila metri. Il materiale viene incanalato verso il mare, dove viene caricato su navi dirette in Islanda. L’energia geotermica di cui è ricca l’isola consente la lavorazione a costi bassi, con personale polacco, a beneficio delle grandi imprese.
Lo sfruttamento del sottosuolo, (minerali, gas e petrolio), attira lavoratori da isole lontane, dove mancano possibilità di lavoro. È gente di tutti i colori, come si può vedere nel grande e affollatissimo mercato di Sorong. Molti visi dicono che ci sono stati incroci di popoli: cinesi, malesi, arabi, europei.

Indipendenza:
Un sogno proibito

I nativi sono molto scuri di pelle, con capelli crespi e naso grosso. Curiosi e gentili, sono stupiti di incontrare degli stranieri. Clementina e Josephina sono due robuste signore cattoliche, dai lineamenti tipici di Papua, venute a Sorong per un corso di aggioamento. Insegnano religione a Fak Fak, città portuale a sud est di Sorong. Ci rivediamo la sera prima di partire, presso la cattedrale di Kristus Raja (Cristo re).
Il sole è tramontato, il parroco Paul Tan mi accoglie, sorridente e bonario. «I miei nonni erano cattolici e arrivarono dalla Cina il secolo scorso approdando a Kaimana, cittadina della costa sud, dove avviarono un piccolo commercio. Ora vi è un aeroporto dove atterrano gli aerei che trasportano i tecnici delle compagnie petrolifere, che vengono poi trasferiti in elicottero sulle piattaforme in mare».
Paul mi conferma che le grandi risorse di Papua vanno in minima parte a beneficio della popolazione locale. Lungo la costa e nei profondi fiordi è presente anche la BP (la compagnia petrolifera del disastro nel golfo del Messico) e altre multinazionali, cui il governo corrotto di Jakarta ha concesso lo sfruttamento. Motivo di inquietudine è anche la continua immigrazione, che ha lo scopo evidente di far diventare sempre più indonesiana questa regione, di cultura e tradizioni molto diverse da Giava.
La popolazione si è sempre opposta alla penetrazione indonesiana. Dopo il conflitto mondiale si schierò a fianco dell’Olanda, che nel 1962, però, dovette ritirarsi dalla sua ex colonia su pressione americana. I movimenti di opposizione continuano a rivendicare la loro indipendenza, nonostante alcune recenti concessioni da parte del governo. Ma troppi sono gli interessi in gioco. Dure sono le repressioni da parte dell’esercito indonesiano: si parla di torture e orribili prigionie per chi sogna ancora l’indipendenza.
Padre Paul incontra e congeda un drappello di fedeli. «Questi parrocchiani – mi spiega – si rivolgono a me perché imponga loro le mani per guarirli dai loro mali, sovente di origine psichica; ma stasera non mi sento bene. Questo è un paese molto interessante. Devi ritornare e fermarti più a lungo: ti farò visitare le comunità cattoliche dei villaggi immersi nella giungla» mi promette salutandomi.
le mitiche isole Banda
Il volo di ritorno da Sorong a Jakarta fa scalo ad Ambon, capitale delle Molucche del sud. Ne approfitto per visitare l’arcipelago delle Banda, una decina di isole bellissime, delle quali solo cinque abitate: Banda Neira, Banda Besar, Ai, Run, Hatta. Disposte ad arco intorno al vulcano Api, suolo ideale per la noce moscata e altre spezie, un tempo erano un vero paradiso tropicale. Mercanti da tutto il mondo rifoivano gli abitanti di tutti i beni di cui le isole erano sprovviste, in cambio delle spezie, usate fin dal medioevo come farmaci e conservanti.
Le cose cambiarono con l’arrivo dei portoghesi nel 1512; fu peggio con i mercanti olandesi: presentatisi armati e minacciosi, imposero il monopolio commerciale delle spezie. I loro interessi furono poi insidiati dagli inglesi che, in loro assenza, si accaparrarono i commerci con le isole Ai e Run. Toarono gli olandesi e, per riprendere il monopolio, uccisero tutti gli abitanti di Banda Neira, salvo poche centinaia di persone fuggite nelle isole Kei. La forza lavoro fu sostituita da schiavi, provenienti anche da Papua, al servizio di coloni olandesi, detti perkeniers.
L’isola di Run rimase in mano inglese fino 1621, quando venne attaccata dagli olandesi, che distrussero tutti gli alberi di noce moscata. Nel 1667 gli inglesi accettarono di andarsene, in cambio di una piccola isola nel nord America, New Amsterdam, subito ribattezzata New York.
Nell’attesa dell’aereo per Banda Neira leggo l’autobiografia di Des Alwi, nipote di Said Baadilla, appartenente alla famiglia più influente di Banda, almeno fino al 1930. «Des era mio padre, è stato sepolto due mesi fa a Banda Neira» mi dice una signora, che mi invita nell’albergo di famiglia. Tania, questo è il suo nome, ci ospita in un edificio che sembra uscito da un album di foto del secolo scorso e ci guida alla visita dell’isola.
Banda Neira è un’isola molto piccola con eleganti edifici coloniali olandesi e strade tranquille ombreggiate da alberi frondosi. Accanto alla moschea sorge la scuola per bambini indigeni, fondata da Hatta e Syahrir, due nazionalisti esiliati in quest’isola nel 1936 dal governo coloniale olandese, ma che nell’esilio continuarono la loro lotta per l’indipendenza dell’Indonesia: nel 1945 Hatta divenne il primo vice presidente nel governo repubblicano, guidato da Sukao, e Syahrir divenne primo ministro l’anno seguente.

Baadilla
Tania è nata a Hong Kong e vive a Jakarta, come tutti i ricchi delle Molucche. Ha studiato in Svizzera e in America, come i suoi fratelli, che dovrebbero arrivare a giorni: è in gioco l’eredità di Des, un uomo d’affari che ha visto la sua vita prendere una decisa svolta quando, bambino di Banda Neira, ebbe la fortuna di conoscere Hatta e Syahrir: quest’ultimo lo adottò insieme ad altri bambini.
Il bisnonno di Tania si chiamava Said Baadilla, nome andaluso di famiglia marocchina. Era chiamato «re delle perle» del mare di Aru, per aver fatto fortuna con tale commercio insieme a quello delle spezie. Era stato nominato cavaliere della corona olandese, per aver regalato alla regina Guglielma una perla grande come un uovo di piccione.
«Le mie nonne erano cinesi – mi spiega Tania, che ha l’aspetto e la grinta delle donne che hanno in mano l’economia del sud est asiatico -. Dicono che tutti veniamo dalla Cina e il colore della pelle dipende dal secolo in cui sono arrivati i nostri avi».
Baadilla è un nome che ricorre spesso a Banda Neira, dove vivono cugini rivali in affari e in lotta per le eredità. Alcuni di essi stanno lavorando giorno e notte per ultimare la costruzione del primo distributore di benzina, in un terreno accanto alla villa di Des, appena restaurata per ospitare il Presidente tra due settimane.
Finora la benzina viene venduta in bottiglie.

All’ombra del vulcano api
L’isola si risveglia dal torpore tropicale, due volte al mese, quando giunge la grande nave che collega Banda Neira con Ambon e Papua. Allora si scatenano le moto, che passano nelle vie ingombre dai carretti dei facchini, dalle bancarelle di cibo, dagli scaricatori e dai viaggiatori che salgono e scendono spingendosi senza pietà.
Quando la nave riparte deve girare su se stessa nel bacino del porto, chiuso dal vulcano Api: un cono perfetto, che fa da sfondo a tutte le immagini dell’isola. L’ultima eruzione avvenne 20 anni fa e sulla colata che sprofonda in mare sono cresciuti coralli giganteschi, dalle strane forme.
Anche le isole Banda sono un paradiso per le immersioni, dove si scoprono fondali e pesci preziosi, che si possono vedere solo qui. Il pesce mandarino, per esempio, tutti i giorni alle 11 e alle 17 risale dalle acque del porto, strisciando sulle rocce nere fino al bordo del molo, per farsi ammirare nella sua livrea elegante a disegni blu e arancione.
Ai è un’altra bellissima isola dove la famiglia Baadilla passava le vacanze. Qui si ricorda lo sterminio dei suoi abitanti, perpetrato nel 1615 dagli olandesi, dopo la sconfitta subita ad opera degli isolani, addestrati dagli inglesi per contrastare i rivali. Gli abitanti che non poterono fuggire, come nel caso di Banda Neira, vennero sostituiti da schiavi e prigionieri.
L’abitato si allunga a breve distanza dalla spiaggia di sabbia fine e le case sono circondate da giardini fioriti e piante tropicali. Vicino ai ruderi di un antico forte inglese incontro una donna anziana, che presenta un grosso tumore tra gola e petto. Non vi è assistenza medica di stato in Indonesia, nessuno si prende cura di chi non può pagare; l’aspettativa di vita è molto bassa.
Ritoo a Banda Neira e passo a salutare la dottoressa che tiene un ambulatorio nella sua casetta. Qualche anno fa fu coinvolta in un incidente aereo. Il bimotore si schiantò sulla breve pista dell’aeroporto durante un forte temporale. Tra i feriti solo la dottoressa, di origine giavanese e appassionata di sport subacqueo, rimase colpita alla spina dorsale e ora presta servizio seduta in carrozzella.

Claudia Caramanti

Claudia Caramanti




Guardando con occhi da indio

Amazzonia: una diversa prospettiva (2.da parte)

I popoli non indigeni dell’Amazzonia, gli invasori venuti da fuori, da sempre guardano a quell’immenso territorio, terra di inesauribili risorse, con gli occhi dell’avere.
Ma coloro che nella foresta nascono e vivono da millenni, guardano ad essa con occhi diversi, quelli dell’essere, perché la vita dell’uomo e della foresta sono inscindibilmente unite. Nell’Amazzonia le due culture si incontrano e scontrano. Qualcuno, come i missionari della Consolata, è presente perché prevalga
l’incontro vero sullo scontro.

Nell’articolo precedente (MC aprile 2011, pp. 53-57) abbiamo visto le conseguenze devastanti che l’approccio agro-industriale, basato sulla «cultura occidentale», ha sulla foresta amazzonica. In contrapposizione ad esso sta prendendo sempre più vigore un modo antico ed alternativo di relazionarsi con la foresta, quello basato sulla «cultura india», ben descritta da Daví Kopenawa, sciamano e capo politico degli Yanomami. «I nostri vecchi – ha detto Daví in un incontro internazionale di giovani -, i nostri avi hanno conservato la natura, la montagna, la foresta, l’acqua e non hanno mai pensato di distruggere questi elementi. Io sto lavorando e lottando perché non muoia, assieme alla foresta, la nostra cultura: i nostri canti cerimoniali, lo sciamanesimo e le altre attività tradizionali che continuiamo a praticare. Noi Yanomami siamo molto preoccupati; io sono molto preoccupato perché (nella nostra terra) stanno venendo molti non indios, molti bianchi, da altre parti del Brasile, e perché i governanti di qui incitano alla distruzione della natura per l’estrazione dei minerali e delle altre risorse. [Rivolgendosi a europei e nordamericani:] i vostri avi non hanno riflettuto, non hanno pensato prima di distruggere la terra. Adesso voglio parlare a voi; mandarvi un messaggio che vi chiedo di portare ai vostri popoli affinché comprendano almeno un po’ il nostro modo di pensare e le nostre esigenze. Il mio messaggio vorrei che fosse diretto in particolare ai giovani e alle giovani, adolescenti e anche a quelli un po’ più grandi, perché pensino e riflettano. I bianchi ora sono preoccupati per i cambiamenti climatici. Vorrei che questi giovani capissero che bisogna rispettare la terra, rispettare la foresta, rispettare i popoli indigeni. Io vorrei che si comprendesse l’anima della foresta, lo spirito della foresta; che i giovani capissero l’importanza di questo: noi siamo fratelli e la terra è la nostra madre». Gli Yanomami non nascondono l’ambizione – non priva di un filo di supponenza – di voler educare i bianchi per evitare l’autodistruzione dell’umanità verso la quale i bianchi stessi – se non cambiano modello di vita – sono destinati ad andare.
Ma noi bianchi perché dovremmo farci educare dagli indios? Perché gli indios hanno nella loro cultura lo «spirito della foresta», della foresta amazzonica in particolare, che insegna all’uomo che ogni essere vivente, anche se piccolo e ritenuto di poco valore, è utile e positivo in qualche campo specifico.

ECOSISTEMA IMMENSO
E parliamo di un ecosistema enorme (7 milioni di km2, che corrisponde al 5% dell’intera superficie terrestre e al 40% della superficie dell’America del Sud), con la diversità biologica più ricca della Terra: oltre 60.000 specie di piante, circa 100.000 specie di invertebrati, 3.000 specie di pesci, 400 specie di anfibi, quasi 400 specie di rettili, 1.300 specie di uccelli, più di 400 specie di mammiferi, fra cui oltre un centinaio di primati; cioè il 30% di tutte le specie di flora e fauna del mondo.
La nostra società ha da imparare molto dalla foresta amazzonica e dagli indios che la abitano. Innanzitutto la cultura della diversità. Gli indios hanno da insegnare agli europei – che dopo aver distrutto le proprie risorse naturali hanno esteso questa loro capacità all’intero mondo – a convivere con la foresta amazzonica, traendone risorse senza distruggerla; hanno da insegnarci valori che l’uomo moderno ha smarrito, a cominciare dal valore della vita, valori che sono passati in secondo piano per cedere il posto all’ansia del possesso individuale senza limiti, all’avidità, all’ingordigia. Quando questi prendono il dominio, si crea uno scompiglio esistenziale: è la crisi dell’uomo moderno, della nostra società.

MACUXI: IL RECUPERO
Quando parliamo di indios occorre però distinguere quelli, come gli Yanomami, entrati in contatto con i bianchi circa mezzo secolo fa, da quelli, come i Macuxì, in contatto con i bianchi da alcuni secoli; Yanomami e Macuxì che ho avuto modo di visitare di recente (nel dicembre 2010).
Ai secondi si può applicare in gran parte il quadro descritto sopra riguardo agli effetti provocati dalla colonizzazione più o meno recente dell’Amazzonia. Per essi l’urgenza è quella di arginare la perdita della loro identità culturale, prodotta dal prolungato contatto con i non indios, il recupero della stessa e il riconoscimento effettivo dei loro diritti politici, sanciti dalla Costituzione brasiliana del 1988, ma al momento ancora lontani dalla loro piena applicazione. La Costituzione riconosce come «terre indigene» quelle occupate tradizionalmente e in maniera continuativa dagli indios, utilizzate per le loro attività produttive, indispensabili per la preservazione delle risorse ambientali, e necessarie per la loro riproduzione fisica e culturale, secondo i loro usi, consumi e tradizioni. Queste terre non sono di proprietà degli indios, bensì dell’Unione Brasiliana, e vengono concesse in possesso ai gruppi indigeni che ci vivono; terre inalienabili e indisponibili. Gli indigeni mantengono – in modo imprescrittibile – il diritto esclusivo allo sfruttamento delle risorse, delle ricchezze presenti nei fiumi, nei laghi e nel sottosuolo, salvo autorizzazioni a favore di non indios, da parte del Congresso Nazionale Brasiliano, le quali comunque devono prevedere la consultazione previa degli indios residenti e una loro partecipazione ai profitti.
Questa è la legge, ma la sua applicazione è stata finora assai travagliata. Prova ne è la vicenda dell’area indigena di Raposa Serra do Sol, nello Stato di Roraima, della quale il Supremo Tribunale Federale solo nel 2009, dopo trent’anni di lotta, ha riconosciuto il possesso ai Macuxì che l’abitavano da millenni. Ma questo possesso non è ancora completo, poiché sussistono alcune condizioni limitative da rispettare.
Nel corso di questa lotta, assai rilevante è stato l’apporto dei missionari e delle missionarie della Consolata operanti a Bõa Vista e nell’Amazzonia in generale: colonne portanti della campagna intea e internazionale Nos Existimos, fondata sul movimento comune dei tre segmenti sociali deboli (indios, contadini senza terra e lavoratori delle periferie urbane) per il riscatto dei diritti di cittadinanza basati sulla giustizia e lo sviluppo sostenibile, e articolata sul riconoscimento legale delle terre indigene. Il che richiede l’allontanamento dalle medesime terre di ogni persona estranea, la concessione di titoli di proprietà o di possesso ai piccoli coloni delle terre da essi lavorate, e interventi economici e sociali a favore dei coloni stessi, il blocco dello sviluppo dei latifondi e delle industrie con impatto ambientale devastante, politiche dell’occupazione a favore degli emarginati urbani nonché la lotta contro la violenza, la corruzione e l’impunità a tutti i livelli.
La partecipazione alla lotta per creare una coscienza comune nelle fasce deboli ha avuto come risultato finora, in modo evidente, solo il predetto rispetto della Raposa Serra do Sol. Ciò è costato ai missionari della Consolata, oltre a numerose intimidazioni e minacce, il sequestro per alcuni giorni di tre missionari, nel 2004, e l’incendio doloso del Centro Indigeno di Formazione e della scuola di Surumú, nel 2005.
Come si vede, si tratta di una situazione in cui gli indios Macuxì, assai faticosamente, cercano di riacquistare una totale libertà e rispetto della loro esistenza e delle loro tradizioni. Per ottenere questo stanno mettendo al centro del loro progetto un’ambiziosa azione di formazione culturale e professionale, consci del fatto che non si può uscire da nessuna situazione di emarginazione economica e sociale senza un grande investimento in capitale educativo e umano, che per loro significa anche recupero della loro cultura ancestrale. Punto centrale della cultura Macuxì è l’approccio comunitario. Sono le singole comunità che inviano i giovani e le giovani più promettenti alla scuola di Surumú, ed essi – formati anche attraverso il contatto con comunità diverse dalle loro di origine – diventeranno capaci di lavorare per la comunità di appartenenza. Infatti è la comunità che investe mantenendo agli studi i giovani e che quindi avrà i primi benefici dell’investimento fatto.
Una chiara lezione che possiamo trarre noi europei: l’istruzione è un bene pubblico che dev’essere finalizzato al bene comune e non trattato come un affare privato. È un modello di economia comunitaria, non di comunismo, poiché ognuno può lavorare e godere i frutti oltre che per la comunità, anche per se stesso, lavorando nelle terre che gli sono assegnate.

YANOMAMI: LA DIFESA
L’approccio comunitario è assai diffuso anche nella cultura degli Yanomami, che si trovano in una situazione differente rispetto ai Macuxì. Entrati in contatto da poco con i non indios, il loro problema contingente è la difesa della loro cultura dalle influenze inevitabili che il contatto con altre culture comporta. Così, mentre le donne tutte, di qualsiasi età, rigorosamente indossano solo il pessimaki – una frangetta di cotone rosso vivo che copre la vulva e avvolge i fianchi al di sopra delle natiche –, solo gli uomini di una certa età vanno in giro nudi con il pene legato da una cordicella di cotone (xenarú-ukú) che, cingendo i fianchi, glielo tiene alto e appoggiato al ventre; i giovani e molti bambini indossano invece variopinti e stinti calzoncini bermuda. Gli sciamani continuano ad applicare i riti volti a guarire uomini, donne e bambini, ma gli abitanti delle yano o xabono (nomi yanomami che corrispondono al guaraní maloca) ricorrono anche alle cure dei centri di assistenza medica della Funasa (Fundação Nacional de Saúde), specie per la cura delle malattie che essi ritengono acquisite dai non indios (malaria, tubercolosi, influenza, morbillo, sifilide e altre). Gli Yanomami sono disponibili a iniziare nuovi percorsi di inculturazione loro proposti dai non indios, a condizione che l’azione culturale sia circoscritta e includa anche l’insegnamento dello scrivere la loro lingua. Questa è sempre stata trasmessa esclusivamente in forma orale e la riduzione alla forma scritta è stata fatta solo di recente ad opera di missionari e missionarie ed è considerata dagli Yanomami come utile strumento per comunicare con l’esterno in posizione di eguaglianza e reciprocità.
Il grande problema oggi è in effetti la difesa della loro identità culturale, impeiata sulla credenza che esiste uno stretto parallelismo fra comunità degli uomini e comunità degli spiriti buoni (xapuri). Punto nodale è lo sciamano (pajé o xapuri lui stesso), che tiene i contatti con il mondo degli xapuri ed è la chiave per mantenere l’armonia dell’Universo. Gli xapuri sostengono il cielo e la morte dell’ultimo di essi significherebbe la fine del mondo. Essi si occupano della trasmissione dei miti e delle conoscenze e sono in grado di guarire le persone: non sono le medicine che guariscono, ma lo sciamano che fa in modo che lo xapuri (spirito buono) scacci quello cattivo. Tutte le disgrazie sono provocate da gesti che rompono l’armonia; è quindi fondamentale mantenere l’armonia per impedire che il mondo parallelo degli xapuri, che sta sopra, crolli.

NUOVI PERICOLI
Quest’identità culturale è in pericolo per la presenza dei garimpeiros e dei militari che uccidono gli animali, devastano la terra, abusano delle donne, portano malattie (che sono segno lampante, per gli Yanomami, del disturbo arrecato dai garimpeiros e dai militari alla comunità degli spiriti). Le singole comunità (le singole yano) non sono in grado di fronteggiare gli intrusi operando ognuna per sè; per questo occorre un’unione delle diverse comunità.
Assai apprezzata è quindi l’opera dei missionari e missionarie della Consolata che, negli ultimi anni, hanno concorso a organizzare incontri ripetuti degli sciamani di un’ampia zona con popolazione yanomami, sostenendo gli ingenti costi per il trasporto aereo degli sciamani delle diverse yano. Sono assai apprezzati perché permettono l’operare comune degli sciamani – e, quando gli sciamani operano insieme, le malattie se ne vanno – e la formazione di nuovi sciamani.
Ad essi, e ai loro amici e sostenitori, è stato anche richiesto di sostenere e finanziare pure le riunioni zonali dei taxaua (capi politici) delle diverse yano al fine di dar luogo ad un’assemblea dei capi politici che faccia massa critica per l’impostazione e la realizzazione di un’efficace azione politica a livello locale, statale e federale che respinga la presenza dei garimpeiros, limiti l’azione dei militari e contrasti l’avanzata dei fazendeiros nelle terre yanomami. Come si vede, esigenze e richieste molto precise e concrete!

LA MONETA
Un altro problema delicato è il contatto con la moneta. Alcuni Yanomami ricevono un salario dalla Funasa poiché lavorano presso un centro medico allestito presso una yano all’interno della Missione Catrimani; ma mancano di un’adeguata preparazione sull’impiego del denaro ricevuto. Che cosa significano i soldi in una cultura che non ha soldi? Per molti indios le conseguenze sono state disastrose: la loro identità culturale s’è disgregata e hanno presto imparato a mendicare per acquistare alcolici.
Questo è ciò che gli xapuri e i taxaua degli Yanomami che vivono nelle zone più intee della foresta vogliono fermamente evitare e per questo sentono la necessità di operare congiuntamente e intravedono l’azione positiva che può essere svolta da coloro che avvertono come amici, come i missionari e le missionarie della Consolata, i figli e le figlie del beato Giuseppe Allamano.

METODO ALLAMANIANO
Sarei quasi per dire, parafrasando l’esclamazione sopra riferita agli indios: «Lasciamoci educare dai missionari e dalle missionarie della Consolata!». Educare dal metodo allamaniano (come ebbe a dire Papa San Pio X) di evangelizzazione, che non procede abbattendo una parte della foresta, costruendo una chiesa e cominciando poi a contare i battezzati, più o meno spontanei, nella fede cattolica; che non procede accelerando l’assimilazione degli indios nella società brasiliana e la loro evangelizzazione, bensì ponendo al centro della propria azione l’attenzione alla persona. Era convinzione del beato Allamano che per avviare alla religione cristiana fosse opportuno passare attraverso «l’elevazione dell’ambiente» perché la promozione umana è parte integrante dell’evangelizzazione.
Nel caso particolare dell’opera missionaria nei confronti degli indios della selva amazzonica, essa si articola sui seguenti punti:
1. tutelare la loro salute fisica;
2. rispettare e fortificare la cultura, i valori, le tradizioni, la lingua e il modo di vivere delle comunità indigene;
3. promuovere l’alfabetizzazione nella loro lingua, oltre che nella lingua veicolare portoghese;
4. aiutarli ad adattarsi ai cambiamenti sociali ed economici che inevitabilmente deriveranno dai contatti con gli estranei.

FORMAZIONE DI LEADER
Un esempio illuminante di azione di evangelizzazione in atto presso le comunità yanomami dell’interno è il progetto di formazione di professori e leader di comunità, in grado di svolgere attività d’insegnamento nei confronti dei membri delle comunità, ma anche attività di organizzazione e di animazione, di traduzione portoghese-yanomans (o altro idioma yanomami), di mediazione con le autorità pubbliche brasiliane, e di interazione con le associazioni che appoggiano la causa indigena. Queste sono attività che portano sia al rafforzamento interno dell’identità della comunità sia al miglioramento della capacità politica della stessa per essere messa in condizione di affrontare le inevitabili sfide con la società circostante in modo autonomo e consapevole, potendo contare su strumenti di comunicazione basati su adeguate conoscenze del proprio mondo e di quello esterno.
Salvare innanzitutto la loro vita personale e comunitaria; se poi i buoni risultati ottenuti nello sviluppo delle attività predette porteranno al sorgere di un’atmosfera di comprensione reciproca, sarà possibile, all’interno di essa e su richiesta dello sciamano o del singolo indio, aprire un colloquio riguardante anche gli aspetti spirituali e religiosi, preludio all’evangelizzazione. Percorso che non sarà sicuramente facile.

UN CASO DIFFICILE
Un caso emblematico: l’infanticidio, che è pratica diffusa presso gli Yanomami e che è la diretta conseguenza della loro concezione della nascita di una nuova vita. Per gli Yanomami la vita non inizia con il concepimento né con il distacco della nuova creatura dalla madre, ma con l’accoglimento da parte della comunità (che, accettandola, se ne fa carico); il che è espressamente indicato con l’inizio dell’allattamento del neonato; questo diventa una persona solo se è accettato dal gruppo, dalla comunità. La mancata accettazione può essere dovuta a difetti fisici (ma, a volte, bambini con gravi difetti fisici sono ugualmente accettati e vivono) o a un parto gemellare (è ritenuto impossibile, per mancanza di risorse, allevare contemporaneamente due nuove creature: il maschio viene tenuto e la femmina soppressa). Altre ragioni sono l’eccessiva vicinanza del neonato a un fratello ancora poppante (e lo svezzamento inizia, al più presto, a due anni dalla nascita) o l’abbandono della donna gravida da parte del padre del bambino o comunque in assenza del padre (senza un uomo che sappia cacciare, la donna non potrà allevare il figlio, che viene quindi soppresso) o il fatto che il neonato sia di genere femminile, quando invece la famiglia desiderava avere un maschio.
L’eliminazione della nuova creatura può avvenire o per aborto procurato con erbe o con pugni e calci sul ventre della puerpera o, più di frequente, con la frattura del collo e l’abbandono del corpicino nella foresta. Si può stimare che il tasso d’infanticidio oscilli fra il 15 e il 30 per cento.
Si tratta di una questione assai problematica per un cristiano, e i missionari e le missionarie della Consolata cercano di intervenire spiegando che con l’infanticidio si sopprime una vita o cercando di promuovere atti di adozione da parte della comunità, con l’intervento di donne diverse dalla madre naturale (eventualmente foendo il latte in polvere necessario per l’allattamento), ma in definitiva la decisione spetta soltanto alla comunità indigena e i missionari e missionarie non possono che prendee atto.
È questo il punto sicuramente più arduo, su cui i missionari e le missionarie lavorano con grande attenzione e cautela, come d’altra parte richiede ogni azione di evangelizzazione secondo l’approccio allamaniano. Con la pratica dei principi cristiani quali la carità paziente, il perdono che pone fine a odî antichi, il superamento delle barriere di parentela e lignaggio, il servizio a tutti per il benessere di tutti, la valorizzazione di tutte le forme di vita, l’istruzione che apre la mente e stimola la volontà, i missionari e le missionarie della Consolata suggeriscono agli Yanomami cambiamenti comportamentali e indicano nuovi orizzonti culturali e morali.

Daniele Ciravegna
Docente di Economia politica e ricercatore universitario dell’Università degli Studi di Torino e dell’Universitad Nacional de Córdoba; presidente della Fondazione Don Mario Operti di Torino.

Daniele Ciravegna




I «lunghi capelli» della democrazia

Reportage / Il «miracolo» di Hong Kong

I «megagrattacieli», la borsa valori, le luci perenni non debbono ingannare. La ex colonia inglese tornata alla Cina popolare sotto lo slogan «un Paese, due sistemi» non è quello che appare. Incontro con Leung Kwok-hung, detto «Lunghi Capelli», rappresentante politico della metropoli e colorito oppositore di Pechino.

Hong Kong. Mentre la Cina celebrava, con il consueto sfarzo e un sempre presente nazionalismo, la sua festa nazionale per i sessantuno anni della Repubblica Popolare, lo scorso ottobre a Hong Kong un manipolo di attivisti manifestava di fronte ad una stazione di polizia contro l’arresto di alcune persone che, nel giugno 2010, avevano celebrato i ventuno anni dal massacro di Tiananmen. A guidarli c’era Leung Kwok-hung, un personaggio celebre a Hong Kong, autoproclamatosi Lunghi Capelli («non me li taglierò finché da queste parti non ci sarà una vera democrazia»), da tempo impegnato in un continuo confronto con il gigante asiatico. Non c’era tanta gente al presidio, ma un discreto schieramento di forze dell’ordine, vagamente preoccupate dalla presenza di uno straniero, tanto più se armato di macchina fotografica. Leung si è avvicinato a loro e dopo un rapido conciliabolo, la normalità è stata ristabilita. Toando sui suoi passi, ha offerto sigarette ai manifestanti, con il sorriso tra le labbra e l’aria di chi sembra sempre avere tutto sotto controllo. Il suo lavoro di una vita, una tela di relazioni politiche costanti, ha fatto diventare Leung un personaggio noto. Pur rimanendo un ottimista, a Lunghi Capelli non manca il cinismo: «Hong Kong è un miraggio», mi ripeterà più volte durante la giornata trascorsa insieme.
La Cina lo deve sopportare perfino in visite ufficiali, perché Lunghi Capelli, anima della politica locale, è da tempo passato dal movimento alle tribune del Consiglio legislativo di Hong Kong, dopo un’elezione che ha fatto scuola: «A parte le occasioni date dalle visite ufficiali, io non posso mettere piede in Cina. Sono stato interdetto».  
Eletto nel 2004 con circa 61 mila voti, è divenuto celebre tempo fa in Occidente per le sue numerose battaglie democratiche, sempre accompagnato dalla immancabile maglietta di Che Guevara («Ne ho più di quaranta», precisa). È lui una delle anime più importanti del movimento che a Hong Kong ricorda il giugno 1989, la rivolta di Piazza Tiananmen. Qualche tempo fa di Lunghi Capelli ha fatto un ritratto politico e umano struggente Yu Jie, scrittore cinese recentemente messo ai domiciliari – come il Premio Nobel Liu Xiaobo -, per avere pubblicato proprio a Hong Kong un libro molto critico verso il premier cinese Wen Jiabao.

LA «CASINO ECONOMY»
Incontro Lunghi Capelli in una calda mattinata di Hong Kong, dopo un numero esagerato di telefonate per trovarci nel posto giusto, come fosse impossibile riuscire a trovarlo in un luogo per più di cinque minuti. Lunghi Capelli è ipercinetico e presume che la conoscenza di uno straniero di Hong Kong sia la stessa che ha un locale. Finalmente concordiamo un punto comune, accanto a un Inteet Point (con bibita gratis, schermo gigante, pulitissimo a circa 10 centesimi di euro all’ora).
Arriva a bordo di un minivan con foto del Che e la scritta Power to People. Mi carica rapidamente, neanche avessimo gli scagnozzi di qualche Hong Kong movie alle spalle e ci dirigiamo all’università, dove Lunghi Capelli è invitato a tenere un seminario alla facoltà di giurisprudenza. Oggetto: l’economia cinese e quella di Hong Kong, un modello che Leung chiama la casino economy: «Si basa su speculazioni e scommesse finanziarie, ma la differenza tra chi possiede molto e chi niente, non farà che creare gravi conseguenze alla Cina».
Poi andiamo nel suo ufficio nei palazzi governativi di Hong Kong, dove entra tra i saluti e gli abbracci di ogni addetto all’interno del mega insediamento di Ice House Road, cuore della city di Hong Kong.

VERRÀ IL TEMPO (ANCHE IN CINA)
Leung si definisce socialista e costituisce una novità politica nella palude di Hong Kong, perché rappresenta una sorta di anti politica, concepita come movimento delle persone, contro il potere dei partiti (qualcosa di avvicinabile al grillismo italiano, benché con altro retroterra storico e culturale). Da quando è stato eletto versa 4mila euro circa del suo compenso nelle casse di diverse organizzazioni della società civile di Hong Kong, dopo essee stato per molto tempo un loro rappresentante, sempre presente e molto acclamato dai media: «La politica è fatta dalla gente e io sono ottimista circa il futuro. D’altronde anche prima del crollo dell’Unione Sovietica nessuno credeva a quella possibilità. La Cina in questo momento appare molto forte, ma le disuguaglianze e la mancanza dei diritti prima o poi creeranno dei problemi alle autorità. Non è questione di leader. Io sono semplicemente uno che aiuta la gente a dire “basta”, perché alla fine a muoversi sono le persone, quando capiscono che si è arrivati ad un livello limite di sopportazione. Per questo sono ottimista».
Chiacchierare con Leung – completamente ispirato dal Novecento – è un continuo rimando al passato, anche europeo, con un occhio di riguardo alla storia cinese. «Mao era uno che quando aveva freddo si metteva il cappotto del comunismo, ma in realtà il suo modello restava quello confuciano», precisa. Spiegando poi il suo personale approccio alla politica cinese: «Ci sono stati i recenti scioperi in Cina che mostrano una situazione che potrebbe diventare più calda, nonostante la potenza esibita da Pechino. Io credo che la gente, quando il regime autoritario non sarà in grado di farla mangiare quotidianamente, si ribellerà».
Saliamo ancora sul minibus, di fretta, verso la stazione di polizia di Quarry Bay, dove finiscono tutti gli attivisti che hanno problemi con la giustizia della città: «In teoria la polizia di Hong Kong non ha grossi problemi con noi, ma le pressioni cinesi ormai si fanno sentire».
Dopo la dimostrazione finiamo in un piccolo ristorante di quella zona, prima popolare e abitata da operai, ora finita nel progetto di costruzione di una nuova sfavillante parte della città finanziaria. Mentre mangiamo noodles e tofu, gli chiedo come ci si senta a combattere un governo, nominalmente socialista, con la maglia di Che Guevara: «È molto semplice in realtà, specie se ritieni che la Cina non sia comunista. Il Che non sarebbe sopravvissuto in Cina». Hong Kong e Cina: impossibile uscire dal dualismo, come se per spiegare uno dei due fattori, fosse obbligatorio parlare dell’altro.
Che sentimento, che aria si respira ad Hong Kong rispetto alla Cina? «Frustrazione, in primo luogo. Combattiamo contro un gigante, con ben poche possibilità di vincere, ma almeno noi dobbiamo resistere. È difficile. La forza economica della Cina ha scelto Hong Kong come centro finanziario. Quindi tutte le persone che hanno legami con il Partito a Hong Kong ormai fanno valanghe di soldi. Questo crea molta confusione, perché la gente vede questi fenomeni e pensa che la Cina gioverà a Hong Kong. È pur vero che noi, per molto tempo, non abbiamo avuto uno straccio di società civile, ma piano piano qualcosa sta nascendo. In Europa c’è voluto molto tempo prima di affermare alcuni diritti, anche in Cina, più conservatrice e tradizionalista, saranno necessari molti anni. Ma i cambiamenti arriveranno, ne sono certo».
E Hong Kong in tutto questo? «Qui dopo il passaggio cinese al capitalismo ormai la gente non ha più un senso politico. Il socialismo viene visto come il demonio, c’è una grande confusione. Il problema vero è che sono trent’anni che manca completamente una discussione critica e politica».

HONG KONG NON ESISTE
Mentre usciamo dal ristorante, di fronte ai megagrattacieli di questa ex area operaia, Leung mi indica con il dito il centro di Hong Kong, da cui siamo partiti in mattinata: «Hong Kong non esiste – spiega -, è un miraggio: la maggioranza delle persone può solo guardare le vetrine splendenti, senza comprare nulla. Per questo prima o poi le cose cambieranno».

Simone Pieranni

ALCUNE DATE
1842 Hong Kong viene ceduta dalla Cina alla Gran Bretagna, dopo la prima guerra dell’oppio.
1941 – Viene occupata dai giapponesi fino al 1946, quando viene liberata dalle truppe inglesi.
Anni ’70 Dopo la seconda guerra mondiale comincia una crescita economica che porterà Hong Kong ad essere considerata la prima tra le «tigri asiatiche».
1997-2046 Nel 1984 viene deciso il passaggio alla Cina, attraverso un accordo tra quest’ultima e la Gran Bretagna, formalizzato ufficialmente nel 1997. Nasce la politica di «un paese due sistemi» come cardine politico della Regione amministrativa speciale di Hong Kong, in attesa del passaggio totale alla Cina, che avverrà solo nel 2046.

LA PRESENZA RELIGIOSA

La libertà religiosa è uno dei diritti fondamentali garantiti dalla Basic Law di Hong Kong. Nella regione amministrativa autonoma sono presenti credenti di molte correnti religiose, orientali e occidentali, tra buddisti, induisti, confuciani, taoisti, cristiani e musulmani. I cattolici sono circa 350 mila, con 291 sacerdoti, 41 chiese e 30 cappelle che permettono di celebrare messe sia in lingua cantonese, sia in inglese. Ci sono anche 283 scuole e asili cattolici, con circa 220 mila studenti. Non mancano i servizi sanitari: 12 ospedali, 39 centri per famiglie, 18 ostelli, 13 case per anziani, 20 centri di riabilitazione. La Caritas è una delle principali associazioni di aiuto della Chiesa di Hong Kong, strettamente in contatto con Roma e gli altri centri religiosi asiatici.

UN PARADISO… FISCALE
Con circa 7 milioni di abitanti, Hong Kong da un’economia basata sulle esportazioni di beni legati all’elettronica e all’industria dell’abbigliamento, è diventata ormai un centro finanziario, sede di attività di multinazionali e banche. È considerato un paradiso fiscale. Hong Kong politicamente è governata dalla «Basic Law», la costituzione locale. Il potere esecutivo è nelle mani del primo ministro e il Consiglio Esecutivo, mentre le leggi sono approvate dal Consiglio Legislativo, metà del quale è eletto a suffragio universale, mentre l’altra metà è nominato dalle «functional costituencies», le corporazioni professionali che il governo cinese ha deciso di non abolire perché favorevoli alla sua politica.

Simone Pieranni




Chi comanda ad Hong Kong?

Autonomia o dominio cinese?

Difficile governare 7 milioni di abitanti barcamenandosi tra la «Basic Law», la minicostituzione di Hong Kong, e i voleri di Pechino. Per ora diritti e libertà sembrano secondari rispetto agli aspetti economici. Ma in futuro le cose potrebbero cambiare.

Hong Kong attende centomila nuovi residenti che andranno ad aggiungersi ai 7 milioni di abitanti dell’ex colonia britannica, tornata alla Cina nel 1997 e il cui definitivo passaggio a Pechino è previsto per il 2046. Il primo aprile si è concluso un calvario lungo 12 anni ed è arrivata al termine la controversa vicenda dei figli di cittadini di Hong Kong, nati in Cina. I ragazzi potranno adesso riunirsi alle proprie famiglie da cui erano stati separati per anni.
Per la maggior parte sono figli di matrimoni misti celebrati tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, quando molti anziani cittadini di Hong Kong, ancora non tornata sotto il controllo di Pechino, cercavano moglie nel sud della Cina. Nel 1999, la Corte di appello finale dell’ex colonia decise che i figli dei residenti nel Territorio avevano lo stesso diritto di residenza di cui godevano i genitori. Un diritto esteso anche a quanti erano nati quando i genitori non avevano ancora ottenuto la residenza permanente. Si permetteva così il ricongiungimento familiare, cui il governo di Hong Kong, guidato dal filo-pechinese Tung Chee-hwa, si oppose, paventando un’invasione di oltre 2 milioni di nuovi cittadini. L’amministrazione della regione autonoma si affidò all’Assemblea nazionale del popolo, il parlamento cinese, per reinterpretare la legge sull’immigrazione – rendendo di fatto illegale il ricongiungimento – e la «Basic Law», la mini-Costituzione di Hong Kong ratificata nel 1990, sei anni dopo la Dichiarazione sino-britannica con cui  Margaret Thatcher riconsegnava a Pechino la sovranità su Hong Kong.
La nuova legge presentata dal Segretario alla sicurezza, Ambrose Lee Siu-kwong, prevede che possa chiedere la cittadinanza chi aveva meno di 14 anni al momento della concessione della residenza ai genitori. Il passo in avanti, come è stato definito dagli attivisti che da anni si battevano perché fosse riconosciuto questo diritto, è una conseguenza del cambiamento demografico nell’ex colonia. Nel 2009 il tasso di incremento delle nascite è stato uno dei più bassi al mondo: 11,7 per mille.  La società della colonia è sempre più vecchia e manca una forza lavoro giovane, che cinicamente il governo vorrebbe impiegare come mano d’opera. Una strategia che, ha scritto Asia Sentinel, dimostra come il governo tenga in scarsa considerazione «il grande vantaggio che Hong Kong ha su Shanghai o su altre città cinesi: lo stato di diritto e la sacralità dei contratti».

AUTONOMIA ED INTERFERENZE
Un caso analogo di interferenza nell’autonomia della magistratura e più in generale nella definizione circa la sovranità o meno di Hong Kong, si è ripetuto nel processo che oppone il fondo statunitense Fg Hemisphere Associates alla Repubblica Democratica del Congo (RdC) e al colosso dei trasporti China Railway Group. L’Fg Hemisphere è uno dei cosiddetti fondi avvoltornio, ossia un fondo speculativo di investimento privato che compra a basso prezzo i debiti di imprese in difficoltà o di Paesi in via di sviluppo che hanno accumulato un certo ritardo nel  pagamento. La società aveva comprato un debito della Snel, la società elettrica congolese, contratto negli anni Ottanta del secolo scorso con la ditta yugoslava Energoinvest, quando ancora la  RdC si chiamava Zaire. Nel 1991 lo Stato africano non aveva ancora cancellato il debito e ammise il default. Sei anni fa, avendo ormai perso la speranza di farsi rimborsare, Energoinvest vendette il debito al fondo d’investimento che cercò di farsi valere su Kinshasa in diversi tribunali nel mondo. Lo scorso febbraio la Corte d’appello di Hong Kong ha concesso alla Fg Hemisphere di prelevare l’ammontare del debito, 100 milioni di dollari, dal fondo di 350 milioni di dollari stanziati dall’impresa statale China Railway in favore della Gécamines, una società mineraria congolese.
L’accordo  tra la società cinese e il Congo è tipico della strategia di Pechino in Africa, fatta di accesso alle risorse naturali del continente  – in questo caso cobalto e  rame – in cambio di grandi progetti infrastrutturali. La China Railway è quotata nella Borsa dell’ex colonia sotto la cui giurisdizione, pertanto, ricade la causa contro l’azienda. E qui nasce quella che per molti critici è una minaccia all’autonomia della magistratura. Il governo locale sostiene la tesi difensiva di Kinshasa e dalla China Railway, secondo cui il tribunale di Hong Kong non ha giurisdizione sulla causa perché la Repubblica democratica del Congo è uno Stato sovrano. In questo caso a occuparsene dovrebbe essere un altro Stato sovrano, la Cina appunto. Secondo la Basic Law infatti la politica estera è competenza di Pechino e ogni decisione è rimessa nelle mani del comitato permanente dell’Anp. La Repubblica democratica del Congo si appella all’immunità totale per le imprese a partecipazione statale, prevista nell’ordinamento cinese. Meno chiaro è quanto preveda invece la legge nell’ex colonia. In teoria la Basic Law si ispira ai principi stabiliti dai britannici che governavano il «Porto profumato» dal 1860. Negli anni Ottanta del secolo scorso stabilirono che l’immunità non doveva essere applicata agli accordi commerciali. Il dibattito ruota attorno a un’unica questione, ossia capire se si tratti di affari o di un rapporto tra Paesi sovrani.

IL PREMIER DONALD TSANG
La Corte d’appello si trova davanti a tre possibili scelte: confermare la sentenza di febbraio e irritare Pechino; rigettarla; rimettere la decisione nelle mani dell’Assemblea nazionale del popolo e lasciare ai delegati cinesi il compito di interpretare la legislazione di Hong Kong. Per i critici si tratterebbe dell’ennesima spallata alla politica di «un Paese, due sistemi», che doveva garantire alla Regione amministrativa speciale una forte autonomia e un’indipendenza legislativa per almeno 50 anni dal ritorno alla Cina. Hong Kong gode di libertà di stampa, giudici indipendenti (un lascito della Gran Bretagna) ed elezioni regolari, sebbene il governatore non sia eletto direttamente dai cittadini e metà del Consiglio legislativo sia nominato dalle «functional costituencies», le corporazioni professionali che il governo cinese ha deciso di non abolire perché favorevoli alla sua politica. Già in passato l’amministrazione britannica cercò di cornoptare o marginalizzare le opposizioni, ma questo non impedì di svolgere le prime elezioni all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso.
Dopo il 1997 tuttavia Pechino decretò che il suffragio universale non sarebbe stato possibile prima del 2012, per poi spostare l’asticella ancora più in là di altri cinque anni. Come scrive per l’Hong Kong Joual l’analista Frank Ching: «Trascorsi 13 anni l’autonomia promessa da Pechino si sta restringendo. Allo stesso tempo si sta assistendo a un cambiamento nell’atteggiamento dei cittadini. Nel 1997 in molti volevano tenere le distanze dal Continente, ma oggi che la Cina è diventata la seconda economia al mondo, sanno che devono attaccarsi al vagone della locomotiva rossa». Lo dimostrano le scelte dell’attuale capo dell’esecutivo, Donald Tsang, che ha nominato in posti chiave figure gradite a Pechino, in alcuni casi deputati all’Anp o alla Conferenza politico consultiva del popolo cinese, e lui stesso considerato filocinese.

LA MORTE DI SZETO WAH
Un cambio di direzione che risale al 2003, quando oltre mezzo milione di manifestanti scesero in piazza per protestare contro la difficile situazione economica e contro un nuovo pacchetto di leggi che limitava i diritti di base e la libertà. Il tutto mentre nell’ultimo anno si è assistito a una scissione nel movimento democratico tra un’ala disposta al compromesso e un’altra più radicale. E che a gennaio ha dovuto affrontare la morte di Szeto Wah, settantanovenne veterano e icona dei democratici. Fondatore dell’Alleanza per il sostegno del movimento democratico in Cina e organizzatore per anni della veglia di preghiera per le vittime del massacro di Tiananmen nel 1989 è stato definito una spina nel fianco per la Cina. Ai funerali avrebbero dovuto partecipare anche gli ex leader del movimento studentesco di Tiananmen, Wang Dan e Wuer Kaixi, ora in esilio a Taiwan, cui però è stato negato il visto per entrare nell’ex colonia. Un’occasione persa di dimostrare autonomia, ha scritto Fank Ching, sia per Pechino sia per Hong Kong.

Andrea Pira

Andrea Pira




L’anno delle foreste

Cooperando

Arriva in questi giorni al giro di boa il 2011, che le Nazioni Unite hanno dichiarato anno
internazionale delle Foreste per «sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale su temi come la conservazione, la gestione e lo sviluppo sostenibile di tutti i tipi di foreste».

I progetti di MCO nelle foreste
Missioni Consolata Onlus sostiene una pluralità di progetti che i missionari della Consolata portano avanti da anni nelle foreste d’Africa e America Latina. L’idea che anima questi progetti è basata sulla convinzione che la preservazione e l’uso sostenibile del patrimonio naturale non sono fini a se stessi, ma acquistano senso e si rafforzano se l’obiettivo ultimo è il benessere delle persone.
Il «Tuuru Water Scheme»
Era il benessere dei bambini poliomielitici del centro di Tuuru, in Kenya, che fratel Giuseppe Argese aveva in mente quando iniziò il lungo lavoro che lo condusse alla costruzione dell’acquedotto della foresta di Nyambene. Il centro, come tutta la zona dell’Igembe, aveva sempre sofferto della mancanza di acqua potabile mentre la foresta, a venticinque chilometri di distanza, ne aveva in abbondanza.
Il progetto nacque su scala ridotta e venne realizzato piano piano, goccia a goccia, nel corso di quarant’anni, impiegando migliaia di persone della zona che, grazie a questo coinvolgimento, lo hanno fin da subito fatto proprio e avvertito come qualcosa che apparteneva alla popolazione locale. Oggi sono previste ulteriori opere di ampliamento per garantire l’acqua anche durante prolungati periodi di siccità, pur continuando a non intaccare l’equilibrio dell’ecosistema forestale. Per questo la protezione della foresta e la sua demarcazione, la difesa contro insediamenti abusivi e il taglio illegale di legname, sono aspetti essenziali del progetto.
Maestra Foresta
A Catrimani, nell’Amazzonia brasiliana, i missionari della Consolata lavorano dagli anni Sessanta con gli indios Yanomami, per la difesa dei loro diritti – in primis il diritto alla terra – e per la salvaguardia della loro cultura. L’etno-educazione, come viene definita la forma di istruzione alla quale accedono le nuove generazioni indigene, è un tipo di formazione che valorizza le caratteristiche culturali del popolo Yanomami, a partire dalla lingua, dalla cosmogonia e dalla medicina tradizionale. P. Corrado Dalmonego sta portando avanti un progetto che si chiama Maestra Foresta proprio per sottolineare come dalla selva gli Yanomami traggano non solo il loro sostentamento ma anche le norme che regolano la loro vita, nel pieno rispetto dell’ecosistema circostante (vedi in questo stesso numero l’articolo di Daniele Ciravegna a pag. 51-57).
I pigmei di Bayenga
A stretto contatto con la foresta vivono anche i pigmei Bambuti, considerati fra i primi e più antichi abitanti della foresta dell’Uele e dell’Ituri, nella Repubblica Democratica del Congo. Nel territorio di Bayenga, Alto Uele, dove i missionari della Consolata sono presenti dagli anni Settanta, la popolazione pigmea conta circa duemila persone che vivono di caccia e raccolta, e scambiano i propri prodotti (carne affumicata, miele e frutti della foresta) con quelli agricoli della popolazione bantu della zona. Il rapporto con i Bantu non è mai stato semplice, poiché questa etnia discrimina i pigmei considerandoli esseri inferiori a metà fra uomo e scimmia.
Per questo p. Andres Garcia e i missionari della Consolata, in stretta collaborazione con la Diocesi di Wamba, hanno avviato progetti educativi, sanitari e agricoli con l’obiettivo di sostenere i pigmei Bambuti nel loro sforzo di essere riconosciuti come cittadini alla pari degli altri. I progetti educativi promuovono un diritto all’istruzione che tenga conto dei tempi della comunità pigmea, legati alla foresta: durante il periodo della caccia, infatti, le famiglie si trasferiscono nella foresta e di questo occorre tenere conto nel fissare il calendario scolastico. Lo stesso vale per l’agricoltura, che non vuole sostituirsi alla caccia stravolgendo così i fondamenti della cultura pigmea, bensì vuole solo fornire un’opportunità complementare alla caccia per l’approvvigionamento di cibo.
La selva colombiana
Intenso è il lavoro dei missionari anche in Colombia, nella zona amazzonica del Caquetá. Si tratta di una zona dove la fitta foresta fornisce un ideale nascondiglio ai gruppi armati in lotta per il controllo del mercato della coca. La popolazione civile, vittima del fuoco incrociato fra esercito, Farc e paramilitari, vive in un clima di costante tensione e timore a causa della presenza capillare, anche se spesso invisibile, dei tre gruppi in lotta, che minacciano i civili e puniscono duramente quelli sorpresi a collaborare con le forze avversarie.
In zone come queste, la cosiddetta bonanza della coca attrae colombiani provenienti da tutto il Paese, che si fermano solo il tempo necessario per trarre vantaggi economici dalla coltivazione delle foglie da cui si ricava la polvere bianca, per scappare in seguito verso zone più sicure. Le persone, dunque, cambiano di località troppo frequentemente e questo crea non pochi ostacoli a chi cerca di portare avanti insieme ai loro progetti duraturi e solidi.
Nonostante le difficoltà, tuttavia, i missionari della Consolata presenti fra Puerto Ospina, Puerto Leguizamo, La Tagua, Solano, Remolino e San Vicente del Caguán continuano a investire sui progetti di formazione per creare nelle popolazioni locali una mentalità diversa, non più rassegnata alla morte e succube della violenza legata al commercio della cocaina ma aperta a un futuro migliore dove un essere umano valga di più dei grammi di droga che trasporta.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti