L’altalena non danza più

Reportage dalla piana di Camp Garba, periferia Nord di Isiolo

Isiolo è una città di frontiera. Lo era ai tempi coloniali; lo è oggi, ancor di più, perché punto naturale di incontro con Somalia ed Etiopia.
Circondata da un territorio vastissimo e dalle bellezze incontaminate, Isiolo è diventata il
centro di un ambizioso programma turistico ed economico. Ma da anni questa terra è segnata da scontri tribali, che nel 2011 hanno visto una nuova recrudescenza. Forse in gioco c’è molto di più di quello che si vuol far credere.

Non è nei miei piani di fermarmi a Camp Garba. Devo solo passarci, scaricare il mio passeggero e continuare il viaggio sulle orme dei primi missionari del Meru. Da Nairobi arriviamo alla missione nel primissimo pomeriggio. P. Pierino Tallone, quasi cinquant’anni di Kenya, ci accoglie. Dopo le solite piacevolezze da vecchi amici, ecco che cominciano a venire fuori le notizie recenti. «Ieri sera hanno assalito la missione di Campi ya Juu, ci sono stati nove morti. La gente è molto spaventata e non si sa neppure se martedì – 3 gennaio – inizieranno le scuole come da calendario». Sento scoraggiamento nella voce del vecchio missionario che in questi ultimi anni, dal 1996 in avanti, di morti ne ha visti troppi a causa delle cosiddette violenze tribali. La missione di Campi ya Juu (campo, accampamento di sopra) si trova alla periferia sud-ovest della città di Isiolo, quasi di fronte alla grande cattedrale, nei cui grandi cortili la gente si sta riversando in cerca di rifugio.
Quando arriva il parroco, p. Simon Wambua, uno dei nostri missionari kenioti, capisco che la situazione è grave e incancrenita.
È dal 22 ottobre 2011 che gli eventi sono precipitati. Quel giorno, meglio quella notte, una banda di pastori Borana, scendendo con migliaia di cammelli dalle montagnole ai piedi del Monte Kenya, cominciarono ad uccidere indiscriminatamente e a bruciare i villaggi turkana che trovavano sul loro passaggio. Passando, rasero al suolo il villaggio di Mashakwata, uccisero diverse persone inermi e devastarono il bell’asilo-cappella costruito dalla missione. La gente terrorizzata abbandonò Mashakwata e Lokiki e si riversò nella missione di Camp Garba, dove si accamparono per parecchi giorni.
«Vuoi che andiamo a vedere?», mi chiede p. Simon. «Andiamo!».

Mashakwata
Detto fatto siamo in Land Rover e imbocchiamo una pista che partendo dalla strada asfaltata che punta a Nord, si dirige decisamente ad ovest attraverso una vastissima piana sul cui sfondo si stagliano le ultime propaggini del grande monte, il Kenya. Qua e là capanne turkana, giovani sfaccendati, campi coltivati a granoturco. Tutto è verde intenso. Le piogge sono state abbondanti e ci sarebbe cibo e pascolo per tutti. Ci fermiamo ad una specie di barriera. P. Simon invita un giovane leader locale – lo chiamiamo David Lorupe, anche se questo non è il suo vero nome – a salire in macchina con noi. Non è un politico di professione, ma gode della stima della sua gente. La pista è battutissima, spesso dobbiamo metterci in disparte per lasciar passare camion stracarichi di sabbia. Sembra tutta una piana a perdita d’occhio, ma di tanto in tanto bisogna fermarsi: un torrente ha scavato una profonda fessura nel terreno, un piccolo canyon. Sono i torrenti stagionali che scendono dal Kenya, violentissimi durante le piogge, ma facilmente guadabili in tempi ordinari. Grazie al monte hanno sempre un po’ di acqua e sulle rive i Turkana hanno sviluppato un’intensa attività di orticoltura che trova un mercato insaziabile nella vicina città.
Di colpo, nel letto di uno di questi torrenti, vedo decine e decine di camion che caricano sabbia. Arrivano da Meru carichi di pietre, scaricano ad Isiolo, entrano nella piana, si riempiono di sabbia e via di nuovo per Meru. Un ritmo incessante dalle prime ore dell’alba agli ultimi raggi di sole. La comunità turkana ha ottenuto dal governo la concessione della cava: ogni camion porta due suoi operai e due spalatori turkana e alla barriera comunitaria paga il valore di 5 euro, 2,5 per ogni spalatore; altri 5 euro li paga alla barriera della città. Ogni camion di sabbia: 10 euro. Valore a Meru? Certo molto di più.
Lasciata la cava, Lorupe ci guida verso Mashakwata, meglio quel che rimane del villaggio. Risalito il torrente stagionale attraverso un passaggio improvvisato siamo di nuovo nella piana. Nella vegetazione lussureggiante si indovinano recinti, qua e là rigogliosi campi di granoturco e resti di capanne bruciate o abbandonate ormai coperte dall’erba. «Qui hanno ucciso due anziani, uno era zoppo, non poteva neanche scappare», dice Lorupe indicando uno spiazzo sabbioso. Più avanti ecco il traliccio del serbatornio dell’acqua, il supporto da cui sono stati rubati i pannelli solari, la struttura semplice e solida dell’asilo, vetri rotti ovunque, la finestra del magazzino divelta per rubare tutto, e l’altalena e lo scivolo assaliti dalle erbacce. Una scena di desolazione.
Guardando l’altalena immobile, chiudo gli occhi e vedo il sorriso radioso dei bimbi elettrizzati dalla macchina foto, il loro volare sullo scivolo per farsi fotografare e lo spingere l’altalena sempre più su, quasi a toccare il cielo. «I bimbi toeranno a giocare qui!», penso in una preghiera che è anche una promessa.
«È stato un attacco improvviso», ricorda Lorupe. «Erano lassù – indicando la montagna – coi loro cammelli. Hanno cominciato a uccidere e bruciare, così, come se qualcuno glielo avesse ordinato». Dopo quello, altri attacchi sono seguiti, qua e là, all’improvviso, senza altro scopo se non quello di terrorizzare la gente con uccisione di bambini di scuola e anziani, sventramento di donne incinte e incendi di capanne. L’ultimo assalto è stato proprio quello della sera prima, 30 dicembre, alla missione di Campi ya Juu e ad altri quattro villaggi, dove l’obiettivo era la missione stessa e una serie di persone rappresentative della comunità turkana. Hanno attaccato alle 18.30, al crepuscolo, vestiti in tenuta militare con fucili automatici e pallottole in dotazione al personale di sicurezza governativo, cercando di penetrare nella missione. Per fortuna il cancello è stato chiuso in tempo. La macchina del parroco, p. Munene, ha ricevuto due pallottole e lui si è salvato per miracolo. Non così fortunato è stato il catechista (ammazzato a sangue freddo sulla soglia della sua casetta di legno, il corpo ritrovato solo il giorno dopo) ed altre otto persone, scelte – sembra – di proposito. Niente è stato rubato. Chiaro lo scopo: terrorizzare.

Rifugiati
Quando con p. Simon arriviamo alla missione di Campi ya Juu è già quasi buio. Ci sono militari ovunque e gruppi di volontari armati di arco e frecce, lance e coltellacci. Facce tese, niente donne e bambini in giro. La statua dell’Assunta, a cui la parrocchia è dedicata, è lì, proprio di fronte al cancello, indifesa come quella povera gente. Passiamo in cattedrale. Centinaia di persone, soprattutto bambini, donne e anziani, sono accampati nei vasti cortili. Qua è la ci sono fuocherelli accesi. Nella casa del parroco è in corso una riunione delle autorità locali. Il vescovo, mons. Anthony Mukobo, insiste per avere uno spiegamento di forze di sicurezza tale da rassicurare la gente e permettere loro di tornare a casa. «Questo non sarebbe successo se tutti i posti di comando e potere non fossero nelle mani di una sola tribù!», si mormora sottovoce. Poi i politici devono rispettare il loro ruolo di facciata. Parlano alla gente, «il governo è con voi, stiamo facendo di tutto per garantire la vostra sicurezza». Qualcuno ascolta nel buio della notte, ma la maggior parte continua a sedere attorno ai fuocherelli, indifferente: vecchi tristi, madri ansiose, bimbi senza lacrime dagli occhi sbarrati. Quante volte hanno sentito lo stesso ritornello?
Toando alla missione p. Simon racconta del periodo successivo al 22 ottobre e come una volta sia stato fermato da un posto di blocco borana (i Borana-Somali avevano creato una barriera di pietre tra la missione e la città, i Turkana un’altra tra la missione e il nord) dopo essere andato a portare cibo a dei rifugiati turkana. La banda di giovinastri che controllava il posto di blocco lo aveva tirato giù dalla macchina e malmenato perché aveva portato da mangiare a «quegli animali»! Tornato a casa malconcio aveva rassicurando i cristiani che già lo davano per morto.
È l’ultimo giorno dell’anno. mi è difficile dire grazie stasera. Ma lo dico per la fede di questo popolo, il coraggio dei miei confratelli e dei preti locali che stanno con la gente anche se hanno paura. Grazie per il dono di essere qui, in questa notte stellata così carica di dolore.
Poi mi rifugio nella cappelletta, per vegliare un po’ e ritrovare la quiete di cui ho bisogno.

Anno nuovo, speranza rinnovata
L’anno nuovo comincia presto. La prima messa è alle 8.30 a Kiwanjani (campo, spianata, pista), pochi chilometri a nord della missione. Mi aggrego a p. Tallone. Il tratto è breve. Mi fa notare i mucchi di pietre usati in passato per bloccare la strada e mai totalmente rimossi; questa era la zona turkana. Arriviamo in anticipo. Mi guardo attorno. L’asilo cappella è una struttura solida, due aule divise da una parete mobile di metallo, porte in ferro, solide inferriate. Don Giuseppe Zousa e Don Giulio Balocco della diocesi di Cagliari, fondatori della missione nel 1994, hanno fatto un buon lavoro. Ritiratisi a fine 2009, hanno lasciato il tutto ai Missionari della Consolata.
Le due aule sono diventate uno spazioso saloncino. La gente arriva alla spicciolata. La maggior parte sono donne e bambini, pochi gli uomini. È domenica, è il primo dell’anno: bisogna far festa e lodare il Signore. Si danza a volontà: all’ingresso, alla presentazione del libro della Parola, all’offertorio, alla comunione e alla fine. Non ci sono sconti sui canti. Il tempo non ha importanza, occorre celebrare. P. Tallone, lavagna alle spalle, predica, guida, celebra. La preghiera dei fedeli è spontanea, piccoli e grandi vi partecipano. La preghiera di una donna tocca il cuore di tutti. Prega per la pace: una preghiera intensa, appassionata, fiduciosa, quasi un pianto sommesso rivolto a Dio. C’è dentro tutto il dramma vissuto dalla comunità: il dolore delle donne, le lacrime dei bambini, la frustrazione degli uomini impossibilitati a proteggere le proprie famiglie. Invitano anche me a parlare. Condivido il mio dolore e aggiungo che forse ho capito perché i missionari della Consolata sono stati quasi forzati ad accettare Camp Garba: la Madonna Consolata li ha mandati per essere presenza di «consolazione» in questi tempi difficili.
La partecipazione a questa umile celebrazione mi riempie di speranza. La tristezza della sera è svanita. La forza, la fede, la semplicità di questa gente umile è contagiosa. «Il Signore davvero abbassa i potenti ed innalza gli umili!».

Cosa c’è sotto?
Ma i problemi restano. È vero che le comunità pastoraliste (come i Samburu, i Borana, i Turkana e anche i Somali) hanno sempre vissuto situazioni di conflittualità per il controllo delle risorse, dei pascoli e dell’acqua. La razzia ai danni delle altre tribù era una pratica normale, da celebrare nelle feste con danze, poemi e canti. Un tempo, prima della colonizzazione inglese, i grandi spazi attorno a Isiolo erano terra di nessuno in cui pascolavano anche i Maasai e che i Somali consideravano estensione naturale della loro terra. All’inizio degli anni Ottanta quegli spazi immensi sono stati pian piano occupati da migliaia di Turkana fuggiti in diverse ondate da zone lontane ad alta conflittualità. In quella pacifica invasione di disperati, c’è stata una tacita divisione del territorio: i Turkana si sono stabiliti a ovest della strada, i Somali e Borana sono rimasti soprattutto nella parte est, con ampi spazi di movimento soprattutto nei tempi di siccità affinché tutte le comunità, Samburu compresi, potessero usare le sempre verdi montagne a nord del Monte Kenya. I Turkana, di per sé pastori, per sopravvivere si son trasformati in agricoltori e lavoratori precari in Isiolo. Molti sono diventati cristiani, la maggioranza cattolici. Pur disorganizzati, sono una realtà che ha il suo peso nella politica locale soprattutto nelle elezioni.
Ed ecco una delle cause principali della conflittualità in cui i Turkana sono soprattutto le vittime, anche se spesso – sulla stampa – passano per essere i villani: la politica! Il parlamentare che rappresenta Isiolo è un Borana, ex cristiano – chierichetto dell’ucciso vescovo mons. Luigi Locati – tornato all’Islam. La sua rielezione a fine 2012 o inizio 2013 è a rischio. Se i Turkana e i Meru (altra presenza importante, soprattutto in città) si alleassero per un candidato unico, per lui sarebbe la fine. Le sue parole di miele chiamano alla convivenza, pace e riconciliazione, ma molti sostengono che sia lui a far arrivare da fuori migliaia di persone della sua tribù per farle registrare per le elezioni, aiutato in questo dalle autorità locali dominate dalla sua tribù. Turkana e Meru hanno sì qualche consigliere comunale e altri rappresentanti nell’apparato governativo, ma tutti in posizioni subordinate.

La nuova «Las Vegas»
Un secondo motivo di tensione è il controllo dell’economia. C’è un ambizioso progetto turistico-ambientale per Isiolo. Vogliono costruirvi una resort town o città turistica, con – tra l’altro – sei alberghi a cinque stelle, campi da golf, casinò, sale per conferenze, teatri e cinema, un museo di arte locale, catene di negozi, piste per mountain bike e perfino un sito per riprese cinematografiche nel fantastico ambiente naturale. Dovrebbe diventare la Las Vegas del Kenya. Il tutto servito dalla nuova strada asfaltata che porta in Etiopia (in stato di avanzata costruzione ad opera dei Cinesi) e dal nuovo aeroporto internazionale (già in costruzione) che oltre al turismo serve a facilitare l’esportazione dal vicino Meru della miraa o tchat (ma il recente bando a questa droga da parte dell’Olanda ne ha messo in crisi il mercato milionario, mentre si teme che anche altre nazioni europee, come l’Inghilterra, ne proibiscano l’importazione) e dei prodotti ortofrutticoli che vengono coltivati abbondantemente sulle vicine falde nord del monte Kenya.
Questa città del turismo e divertimento occuperà un’area di 1000 ettari proprio alle spalle della missione di Camp Garba, con il suo centro nella gola di Kipsing Gap, un luogo tra due montagnole sempre verdi, il Katim e l’Oldonyo Degishu, circondato a sud dal famoso Lewa Wildlife Conservancy (quella di Adamson e della leonessa del film Nata libera), a nord dalle riserve nazionali di Buffalo Springs e Shaba National Reserve, più il Samburu Game Park sul fiume Ewaso Ng’iro, ricchissimo di acqua. È un luogo dalle potenzialità turistiche immense. In teoria il progetto, attualmente sotto studio con una compagnia giapponese, prevederebbe che i primi beneficiari siano i gruppi locali. Ma se uno dei gruppi, il più debole, venisse spazzato via in anticipo…
C’è anche un altro fattore che complica le cose: la sabbia. Abbondante nel letto dei fiumi stagionali è un elemento fondamentale del previsto boom di costruzioni legate allo sviluppo turistico e alla crescita continua della città di Isiolo. Per ora la comunità turkana ha ottenuto la concessione dell’estrazione, ma fino a quando? Da ultimo c’è il valore dei terreni attorno al polo turistico: sta andando alle stelle. E se gli occupanti fossero costretti ad andarsene «spontaneamente»?

C’entra la religione?
In questa difficile equazione, c’entra anche la religione? Apparentemente no, anche se di fatto da una parte ci sono delle tribù islamiche che controllano tutto il potere, e dall’altra tribù prevalentemente cristiane o tradizionaliste tra le quali solo i Meru detengono qualche reale potere economico. Un fatto sembra però evidente: la chiesa cattolica è l’unica realtà che impedisce una pulizia etnica senza testimoni. Non a caso negli attacchi più recenti sono stati uccisi due catechisti e assalita una missione, e la gente, sia dopo le violenze del 22 ottobre che quelle di capodanno, ha cercato rifugio nel perimetro della cattedrale o delle missioni (Camp Garba e Ngaremara, una quindicina di chilometri più a nord).
Inoltre non è un segreto per nessuno che i Somali hanno sempre sognato una grande Somalia che arrivasse fino a Isiolo, che a Isiolo ci sono centri di reclutamento della milizia di Al Shaabab, che la presenza dei fondamentalisti è molto estesa e che molti dei soldi sporchi provenienti dalla Somalia vengono riciclati proprio a Isiolo. Ufficialmente la religione non c’entra. Di fatto è uno degli elementi di cui tener conto.
Intanto la chiesa di Isiolo comincia a sentire il peso di questa situazione che si prevede di non facile soluzione. Anzi, nel sentire di tanti, questo 2012, prima delle elezioni, sarà un anno difficilissimo con un crescendo di violenza. Di fatto la gente di Mashakwata non è ancora tornata a ricostruire il suo villaggio, anche se avevano pianificato un ritorno in massa per il 2 gennaio. Per ora i loro bambini vanno all’asilo sotto un grande albero nella vicina scuola cappella di Kiwanjani. Sono una quarantina. Per fortuna, anche sotto un albero, i bambini sono sempre bambini e non perdono il sorriso e la voglia di giocare. Intanto l’altalena e lo scivolo di Mashakwata continuano ad aspettare che la gioia dei bambini li risvegli e li faccia ancora danzare.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Un mondo di rifugiati

Reportage dal campo profughi più grande del mondo

La carestia nel Coo d’Africa ha reso famoso il piccolo villaggio di Dadaab.
Ma in questa zona, persa nel nulla, i campi profughi ci sono da vent’anni. Nel 2011 si sono ingrossati
a causa dell’ultima crisi. Nei campi la vita è precaria, ma scandita da regole precise. E l’insicurezza
permane elevata.  Anche i keniani si sono mobilitati con gesti di solidarietà verso
i rifugiati. Viaggio «dentro» il campo.

A inizio gennaio 2011 è scoppiata la grave crisi della siccità e della fame nei paesi del Coo d’Africa e in Kenya (vedi MC novembre 2011). Il problema è stato previsto, annunciato e deprecato da molti. Le nazioni si sono mosse, le associazioni e Ong si sono organizzate, sono partiti tanti aiuti di emergenza per la fame e per la salute di 13 milioni di persone in Somalia, Etiopia, Djibuti, Kenya, Sudan.
La gente in Kenya si è mobilitata come non mai con il motto «Kenya for Kenyans» (Kenya per i keniani) offrendo un contributo altissimo grazie a sacrifici e rinunce. Anche noi, nel nostro piccolo, come Missionari della Consolata ci siamo mossi, sostenuti da tanti nostri amici, per portare sollievo e consolazione nelle zone più colpite dalla carestia e dalla fame in Kenya: turkana, samburu, tharaka.
La fame dovuta alla grave siccità che ha colpito questi paesi e al conseguente rialzo dei prezzi del cibo (farina, fagioli, olio, zucchero, riso) non è ancora debellata. La gente continua a soffrire e a sperare lottando per una vita migliore. Il problema dunque persiste e continuerà finché le nuove piogge potranno offrire nuovi raccolti, prezzi accessibili a tutti, progetti di sviluppo per prevenire disastri futuri (ad esempio riserve d’acqua, dighe e pozzi). Anche i mercati globalizzati sono colpevoli, perché favoriscono l’importazione di cibo a scapito dei produttori locali.
In una situazione così grave, rimane nel Coo d’Africa una profonda ferita umana conosciuta ormai da tutto il mondo: i campi dei rifugiati di Dadaab, nel Nord Est de Kenya, a 80 Km dal confine con la Somalia.

Viaggio a Dadaab
Il 12 ottobre scorso, grazie all’appoggio dell’Ong Avsi (Associazione Italiana di Servizio Internazionale) e di Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) ho potuto visitare alcuni campi dei rifugiati di Dadaab. Era un desiderio che avevo nel cuore dopo aver condiviso le realtà della fame nelle diverse zone del Kenya. La zona si trova a un’ora di aereo da Nairobi.
Dadaab è un piccolo villaggio sulla strada che da Garissa (a 130 km) va a Liboi al confine con la Somalia (a 80 Km) in un territorio totalmente sabbioso e impervio pieno di arbusti e poche piante. Gli abitanti sono keniani-somali che da tanto tempo condividono vita e lavoro, commercio e pastorizia. Attoo a questo piccolo villaggio sono piazzati tutti i campi delle Nazioni Unite e delle Ong con una potente difesa di reticolati e cancelli di sicurezza, dove ci sono gli uffici e tende dei volontari per il servizio ai rifugiati.
Nel 1991 quando scoppiò la crisi e la guerra in Somalia, molti somali scapparono dalla loro terra per rifugiarsi in questo angolo del Kenya. Allora il Goveo keniano preparò alcuni campi particolari attorno al villaggio di Dadaab: Ifo 1 nel 1991 per 30mila rifugiati a 5 km,  Dagahaley nel 1992 per altri 30mila rifugiati a 16 km, Hagadera nel 1994 per altri 30mila a 12 km verso Sud. Ora stanno preparando Ifo 2 e 3 per ricevere altre persone e il campo Kambioos al Sud di Hagadera. Ognuno di questi campi ospita oggi circa 120mila rifugiati costituendo il complesso di rifugiati più grande del mondo con 450 mila abitanti.
Qui ogni giorno entrano decine di famiglie (specie donne e bambini): dalle 1.200 alle 1.500 persone che camminano per 24 giorni in condizioni disastrose, o vengono portate su carretti di fortuna o in qualche camion dove sono stipati come animali da macello. Quando arrivano sono in condizioni di fame, degrado, sofferenza, insicurezza, malattie e disperazione silenziosa. Il vero povero non protesta mai, ma guarda e spera.

Rifugiati e rifugiati
Ci sono due tipi di rifugiati: quelli che veramente scappano dalla guerra dei clan e dalla fame che imperversa nel paese, e quelli che sono membri di qualche gruppo armato (come Al Shabaab o altre milizie) e che continuano a seminare terrore e guerra dovunque siano. Nei campi ci sono tante armi che alimentano anche il commercio clandestino in altre aree del paese.
Chi arriva al campo deve passare all’ufficio di registrazione per avere il proprio posto nel clan al quale appartiene, la carta d’identità, una tenda, il bonus per mangiare, per l’ospedale ecc. Ogni famiglia registrata riceve un pacco di cibo per 3 settimane (mais, riso, fagioli, pasta, soia).
Tutti hanno accesso ad acqua gratis, assistenza medica e medicine, educazione libera nel sistema scolastico del Kenya. Tutto questo organizzato da World Food Program (Wfp, agenzia delle Nazioni Unite per la lotta contro la fame) con diverse associazioni e Ong fra cui Care, sotto il patrocinio di Unhcr. In ogni campo ci sono un ospedalino e due dispensari per il pronto soccorso. Le malattie più correnti sono: denutrizione, malaria e infezioni di vario tipo.

Vita nei campi
Gli abitanti dei campi sono al 99% somali provenienti dalla vicina Somalia, poi ci sono piccoli gruppi di etiopi, sudanesi, ruandesi, ugandesi, congolesi scappati da situazioni di tensione, lotte tribali e altre cause di conflitti permanenti. La lingua parlata è il somalo, poco inglese e pochissimo kiswahili (lingua ufficiale del Kenya). Per lavorare con i rifiugiati, ad esempio per rimuovere ansia, diffidenza e ostilità occorre conoscere il somalo, altrimenti ci sono barriere insormontabili. La quasi totalità sono musulmani intransigenti. Con loro il dialogo è difficile. Solamente le donne e i bambini hanno come sempre la dolcezza del rapporto umano, del sorriso e delle porte aperte per il futuro. Il resto è integralismo puro.
Ogni gruppo di 10 casette o tende è circondato da una siepe o «steccato» di arbusti secchi, non per le bestie nottue, mi dicono, ma per una certa privacy a cui loro tengono molto. Ogni gruppo di 10 famiglie ha un capo che cerca di tenere ordine e condivisione. Non è quindi una situazione come quella degli slum di Nairobi, ma una condizione più decente e umanamente accettabile. Da notare che, al di fuori di questi compound, c’è un grande degrado: sporcizia, sacchi di plastica svolazzanti, le famose «mobile tornilets», mucchi di rifuti di ogni tipo dove le capre si danno da fare per trovare qualcosa da mangiare. Il problema più grande dopo il cibo è l’educazione. Molti ospiti sono illetterati. Solamente il 41% dei ragazzi e il 37% delle ragazze vanno a scuola. In tutti i quattro campi ci sono 19 scuole, asilo e primarie insieme, mentre le secondarie sono in tutto sei (due per ogni campo di 120mila rifugiati). Si formano così classi con 90 – 100 alunni, dove la maggioranza siede per terra per mancanza di banchi. Un libro di testo ogni dieci alunni, e pochissimi materiali. Ho visto quadei offerti dall’Unicef (Agenzia Onu per l’infanzia) e altri libri di contabilità ammucchiati a pile negli uffici dei presidi delle scuole. Si stanno costruendo tre biblioteche per favorire la lettura tra gli alunni. Le tre scuole che ho visitato (Amani, Upendo e Iftin – luce) sono frequentate da 1.500 a 2.300 alunni, con molti maestri impreparati e senza materiale didattico.

Tensione e insicurezza
C’è continua tensione in tutti i campi anche nella base delle Nazioni Unite. Il giorno 13 ottobre in piena mattinata sono state rapite due giovani dottoresse spagnole mentre prestavano servizio al campo Ifo. Noi in quel momento eravamo nel campo di Hagadera. Ci è stato dato l’ordine di non muoverci finché non fossero arrivate le forze militari ad accompagnarci al nostro campo. Trenta o quaranta macchine in servizio umanitario costrette al convoglio forzato. E per un giorno non siamo potuti uscire. Al Shabaab e altre milizie hanno un grande potere che il Kenya sta cercando di controllare. Forse è un po’ tardi intervenire adesso, dopo averli lasciati liberi nel commercio delle armi e nelle scorribande nel paese.
Ci sono due stazioni di Polizia per ogni campo ma i problemi sono tanti e delicati. Resta un mistero il traffico delle armi nei campi. Difficile entrare nella cultura familiare e sociale dei clan che dominano la società somala.

Futuro per i Rifugiati
Nel mondo si contano 50 milioni di profughi (in inglese: displaced people). La maggior parte dei conflitti avvengono nei paesi in via di sviluppo e la popolazione civile diventa un bersaglio militare o si trova nel mezzo del fuoco incrociato di gruppi armati. Spostarsi su altre terre vuol dire cercare sicurezza e protezione, cibo e stabilità.
La maggior parte dei rifugiati nei campi di Dadaab vivono in tende, ma anche in cassette fatte con fango e arbusti della savana. Non è facile per loro prevedere il giorno del ritorno: non si sa quando finirà il conflitto dei clan in Somalia. Ognuno vorrebbe ritornare alla propria terra. Ma se un giorno dovessero ritornare, dovrebbero essere sicuri di trovare un sistema legale, giuridico, educativo, e la possibilità di un lavoro. In un termine la sopravvivenza, soprattutto per le  vedove e gli orfani. Il processo di riconciliazione e pace può durare decenni come in altri paesi,

Franco Cellana   

Franco Cellana




Dove soffia il vento di Haiti

Due anni dopo: inizia l’era del presidente cantante

Il paese ha un nuovo presidente e un nuovo governo. Ottenuti con la benedizione delle comunità internazionale. Ma non della società haitiana.
Intanto la ricostruzione e il rispetto i diritti umani sono ancora idee lontane.
La svolta è storica, con il sapore di un ritorno al passato.  
Reportage dal paese di Sweet Mickey.

«Ritornare a prima del 1986. Correggere i problemi degli ultimi 25 anni. È questo che intende fare Michel Martelly. Si tratta di un cambiamento sì, ma verso il passato». È il commento del giornalista Gotson Pierre sul nuovo presidente della Repubblica di Haiti.
«Ora l’oligarchia è ancora più forte, è tornata al potere e lo ha fatto sotto forma di una destra populista».

Le elezioni degli stranieri
Ma facciamo un passo indietro.  Il 28 novembre 2010 al primo tuo di elezioni truccate e a bassa partecipazione, il popolare cantante di kompa Michel Martelly, Sweet Mickey per i fans, arriva solo terzo. Al primo posto la costituzionalista e docente universitaria Mirlande Manigat e al secondo Jude Célestin, candidato del presidente uscente René Préval e genero del medesimo. Ma solo Célestin può contare su una coalizione di partiti in appoggio (si veda MC gennaio 2011), gli altri due non hanno una base politica.
Le elezioni sono volute dalla comunità internazionale e dallo stesso Préval che vede il suo delfino in pole position. Nella realtà haitiana del dopo terremoto non ci sono le condizioni tecniche (il sisma del 12 gennaio 2010 ha ucciso 300 mila persone e oltre 1,3 milioni sono sfollate) né politiche. La Commissione elettorale provvisoria (Cep), organo «neutrale» incaricato di organizzare le consultazioni, è di fatto in mano al presidente uscente. Così i principali partiti politici non presentano candidati e i movimenti sociali haitiani invitano a boicottare lo scrutinio. Risultato: scarsissima affluenza alle ue, difficili condizioni di voto e brogli massicci.
«Le elezioni sono state una farsa: disprezzo assoluto della popolazione e risultati inattendibili. La maggioranza dei settori della società haitiana non le voleva in quel momento». Chi parla è Suzy Castor, storica, grande intellettuale, e co-fondatrice, insieme al marito, il compianto Gérard Pierre-Charles, di uno dei maggiori partiti haitiani, l’Opl (Organizzazione del popolo in lotta).
I sostenitori di Martelly – anche lui senza un partito, ma appoggiato da migliaia di fans – non accettano la sconfitta e scendono in piazza con violente manifestazioni.
Martelly è legato alla destra duvalierista e aveva sostenuto il colpo di stato del 1991 contro il presidente Aristide. Ha molto seguito e uomini fidati nelle popolose bidonville della capitale. Si rischia il caos totale nel paese devastato dal terremoto e in preda a un’epidemia di colera mai vista.

Elezioni «commissariate»
Le diplomazie Onu e soprattutto Usa si mettono in moto. Si decide una riconta di verbali di voto (non dei voti) per modificare il risultato del primo tuo. Lo scarto tra Célestin e Martelly è minimo (si parla di 6.800 voti), nulla in confronto ai brogli verificati e denunciati da organizzazioni di difesa dei diritti umani haitiane e di monitoraggio elettorale inteazionali.
Hillary Clinton fa un viaggio lampo a Port-au-Prince e convince René Préval a ritirare (informalmente) il suo candidato. La riconta (pilotata) delle «elezioni farsa» ribalta il risultato: Martelly si ritrova al secondo posto a spese di Célestin, che si ritira in buon ordine.
Al secondo tuo, rinviato al 20 marzo, Martelly surclassa Manigat con una percentuale di 67,7% delle preferenze. L’affluenza è sempre molto bassa, meno del 20% degli aventi diritto.
Intanto la coalizione di Préval, Initè, ottiene la maggioranza dei seggi a camera e senato.

Un presidente del passato
L’arrivo alla presidenza di Sweet Mickey legato alla classe dominante haitiana è un vero passaggio storico.
Si tratta del ritorno dell’oligarchia al potere dopo 25 anni di lotte e rivoluzioni dei movimenti sociali. Un’oligarchia che ha radici storiche nella rivoluzione di fine XVIII secolo, e che ha sempre mantenuto le distanze dal popolo, quasi non esitesse.
La novità è l’atteggiamento populista di Martelly, uno show man, che ama il bagno di folla, va in mezzo alla gente, inaugura scuole, fa promesse. Atteggiamento non sempre ben visto dagli altri esponenti dell’oligarchia.
Martelly ha anche amici scomodi, come il colonnello Michel François, il capo della polizia che assieme al generale Raoul Cédras aveva condotto il sanguinoso colpo di stato del 1991 (in tre anni fece circa 5.000 vittime, soprattutto tra i leader della società civile). Golpe organizzato e finanziato dagli Usa (Geroge Bush padre alla presidenza) per stroncare il sogno di libertà e auto determinazione dei movimenti sociali haitiani, gli stessi che rivoltandosi a Jean-Claude Duvalier, l’avevano fatta finita con la dittatura.
Continua Gotson Pierre: «In questa classe dirigente non c’è senso dello Stato, vogliono gestire la cosa pubblica come nel privato; riscontriamo un individualismo spinto. Martelly si appropria dello Stato come di un affare personale: un autocrate».
Suzy Castor, non vuole cedere al pessimismo: «Abbiamo un presidente che canta e danza. Ma in che direzione stiamo andando?
I consiglieri di Martelly sono in maggioranza ex macoute (qui inteso come duvalieristi, ndr) e pochi hanno esperienza delle cose di Stato. Qui, quando si raggiunge il potere, si mette su il proprio clan». E rincara Gotson: «Non c’è ancora coscienza di cittadinanza, il tessuto sociale è debole. La gente è pronta ad accettare quello che il potere fa. L’amministrazione è stata talmente assente negli ultimi anni, che adesso vedendo Martelly correre e mostrarsi in pubblico il popolo pensa: almeno questo si sposta, parla con noi di problemi reali».

Un paese da «ricostruire»
E la ricostruzione? L’oltre un milione di terremotati che vivono in condizioni drammatiche?
La Commissione a interim per la ricostruzione di Haiti (Cirh) voluta dalla comunità internazionale, con l’esclusione totale delle forze vive della società haitiana, e approvata da Préval, è ormai giunta a fine mandato. Ma i risultati sono tutt’altro che evidenti.  «Abbiamo l’impressione che i soldi promessi non siano arrivati». Dice padre William Smarth, ottuagenario sacerdote associato alla congregazione dello Spirito Santo. Lui, uno dei pilastri morali del paese, ha «fatto» un pezzo di storia di Haiti.
«Per me la ricostruzione non è un problema di soldi ma un momento partecipativo di dibattito nazionale. Préval è stato nullo: si è preoccupato solo del potere, mantenerlo o mettere un fedele al suo posto. Questo mentre la gente è nel bisogno. Occorre ancora molta educazione politica.
Dopo il 12 gennaio 2010 è stato passivo, anche per questo ha perso consensi e il suo successore designato non è stato votato. Lui ha giocato con la comunità internazionale proponendosi come stabilità».
Si rattrista l’anziano prete a cui si deve la traduzione dei messali e del catechismo in lingua creola e un grande lavoro di formazione per le generazione future, che continua tuttora.
«Oggi è la comunità internazionale che dirige il paese: Usa, Francia, Brasile; con una certa rivalità tra loro. Il Brasile è più accettato dalla popolazione perché ha anche aiutato.
Ma non c’è alcuna realizzazione delle strutture di base. Ora gli stranieri sono stati forzati a provare un altro cammino con questo nuovo presidente.
L’inquietudine è che si appoggi ad un’ala molto conservatrice, una destra non intelligente, ovvero le vestigia di Duvalier. Ma non è più la stessa epoca – continua il sacerdote costretto all’esilio dal dittatore nel 1969 e molto attivo nei movimenti sociali e nella chiesa di base – non possiamo restare con la gente di Duvalier».
Scava nel passato, quasi rivedesse i Volontari della sicurezza nazionale (al secolo Ton ton macoute) sfilare al passo dell’oca con gli stivali lucidi: «Haiti ha acquisito due capisaldi democratici dalla rivolta dell’86. Primo: il diritto di parola, solo dopo grande sacrificio. La stampa però è ancora debole non fa un lavoro di formazione politica. Secondo: la lotta per i diritti delle donne, che sono migliorati, nella vita e nella politica.
Un altro punto importante è la volontà dei genitori affinché i bimbi vadano a scuola. Fino al 1960 non si preoccupavano di questo, soprattutto per le bambine. Adesso si rendono conto che se i figli non sanno leggere e scrivere non hanno via di uscita».

Il ritorno dei dinosauri
E Jean-Claude Duvalier ha fatto di nuovo parlare di se, tornando, a sorpresa, nel paese il 16 gennaio 2011, dopo 25 anni di esilio. Un durissimo colpo per i movimenti sociali, donne e uomini che avevano lottato per rovesciare la dittatura e che, molto spesso hanno famigliari vittime del suo sanguinario regime. Duvalier deve essere giudicato per crimini contro l’umanità ed è oggi sotto libertà vigilata a Port-au-Prince (in realtà si muove liberamente). Un giudice d’istruzione della capitale sta trattando il caso e si aspetta un segnale forte della giustizia haitiana contro l’impunità.
Un mese dopo il ritorno di Duvalier anche Jean-Bertrand Aristide, fuggito nel 2004 in seguito a una rivolta popolare, fa il suo rientro ad Haiti, aumentando ulteriormente la confusione. «Aristide mantiene un basso profilo pubblico. Però incontra molte persone, fa riunioni. Quando è rientrato ha detto di volersi interessare all’educazione» racconta Gotson Pierre. «Il suo partito Fanmi Lavalas non ha più preso posizioni, faceva più uscite pubbliche prima del ritorno».

Diritti sotto terra
Scettiche sul processo di ricostruzione anche le attivissime associazioni di difesa dei diritti umani.
Da alcuni mesi sono iniziate le espulsioni forzate di terremotati accampati in modo informale un po’ ovunque in capitale e in altre città colpite dal terremoto.
«È una questione molto preoccupante e si verifica in continuazione. Una violazione della Costituzione haitiana, nel suo articolo 22 che protegge il diritto alla casa e il diritto delle persone sfollate all’interno del proprio paese, ma anche di convenzioni inteazionali ratificate da Haiti». Chi parla è Antonal Mortimé, giovane segretario esecutivo della Piattaforma di organizzazioni haitiane per la difesa dei diritti umani (Pohdh), la maggiore rete nazionale che raggruppa otto organizzazioni di difesa dei diritti umani ad Haiti.
«Come piattaforma stiamo lavorando in una quarantina di campi dove formiamo le persone affinché rivendichino loro stesse i propri diritti, ma ciò non impedisce che in certe zone, in particolare nella regione metropolitana, si verifichino frequenti espulsioni che causano violazioni sistematiche dei diritti della persona. Questo avviene talvolta con la complicità di agenti di certe municipalità o ancora di grandi proprietari appoggiati dal governo.
Lo stato haitiano dovrebbe farsi carico e accompagnare queste persone affinché trovino un luogo dignitoso per reinstallarsi».
Ma i terremotati sloggiati non ricevono un habitat decente. In alcuni casi i campi sono ricollocati in altre zone, dove però le condizioni non sono differenti dai campi di origine.
«L’Oim (Organizzazione internazionale dei migranti, ndr) ha appoggiato lo Stato a spostare questi campi fuori città, sulla strada verso Nord. Ma qui non c’è elettricità, non ci sono strutture per cure mediche, per l’educazione. Si è lontani dai luoghi di lavoro, con condizioni di trasporto pessime e c’è molta promiscuità. Inoltre sono zone a rischio smottamento, inondazione e contaminazione con colera» continua Antonal.
Sulla costruzione fisica delle case la piattaforma fa pressioni affinché la Cirh si faccia da parte e gli haitiani prendano il controllo del processo della ricostruzione con tutti i mezzi che la commissione ha in mano, ovvero che lo Stato haitiano possa affrontare il problema della casa, nella prospettiva del diritto all’habitat, all’accesso alla terra e ai servizi sociali di base.

Finalmente … il  governo
Dopo due tentativi andati a vuoto (bocciati dal parlamento), il presidente Michel Martelly è riuscito, nell’ottobre scorso, ad avere la fiducia dal parlamento per il governo guidato da Garry Conille. Diplomatico e funzionario dell’Onu, Conille è stato consigliere di Bill Clinton nella sua veste di inviato dell’Onu per Haiti. Clinton è anche il presidente della Cirh. In molti, dietro a questa ratificazione, vedono ancora una volta gli interessi della comunità internazionale a gestire la «cosa pubblica» nel paese.
«Osserviamo alcune iniziative inquietanti del governo Martelly-Conille – incalza Antonal Mortimé – È la prima volta dal 1987 che c’è una compagine governativa così numerosa: tra ministri e segretari di stato sono 37. Troppi per un paese senza soldi.
Inoltre è stata annunciato la creazione dell’esercito ad Haiti, senza alcuna consultazione nazionale, non sono stati implicati gli altri poteri, come il legislativo.
Le Forze Armate d’Haiti si sono spesso macchiate di crimini e sono state all’origini di numerosi colpi di stato. Il presidente Jean-Bertrand Aristide, riportato ad Haiti dagli statunitensi dopo il putsh del generale Cédras, nel 1995 aveva soppresso l’esercito. La sicurezza intea e delle frontiere fu da allora affidata alla polizia nazionale e alle missioni militari dei caschi blu Onu che si sono succedute.
«Noi non abbiamo una posizione pregiudiziale sulla questione, ma siamo molto inquieti sul processo che Martelly ha cominciato per ripristinare l’esercito. Ad esempio, contrariamente alla convenzione sull’uguaglianza dei sessi, ha già detto che sarà composta da soli uomini. Inoltre l’iniziativa è stata discussa con la comunità diplomatica, nelle grandi ambasciate, Usa, Canada, Francia, Messico e Brasile. Il parlamento non è stato informato, quando invece è co-depositario, secondo la Costituzione, della sovranità nazionale. C’è la Minustah (Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione di Haiti) il cui mandato è stato rinnovato fino all’ottobre 2012. La questione dell’esercito è legata alla presenza dei militari stranieri, perché si tratta del processo di sviluppo generale del paese per dare una risposta all’insicurezza, e alla ricostruzione».
Preoccupate le organizzazioni per i diritti umani anche per la rinascita dei servizi segreti: «Temiamo che si faccia una retromarcia fino all’epoca Duvalier. Sarà costituito il Sin (Service d’intelligence national) che avrà come missione di sorvegliare i luoghi divertimento, i media, i tribunali, le frontiere, ecc. Abbiamo già osservato un aumento delle perquisizioni su alcune strade. Il controllo della stampa, ad esempio, va contro la Costituzione, garante della libertà di espressione». Martelly parla delle sue grandi priorità: ristabilire lo stato di diritto, l’educazione, l’ambiente e il lavoro. «Nel suo comportamento e nelle sue dichiarazioni, anche nei confronti dei media, non sentiamo che gli stia a cuore lo stato di diritto o l’educazione. La società civile globalmente non è stata consultata su questi grandi temi. Il presidente, per certe decisioni, è passato a lato della Costituzione».

Marco Bello

Marco Bello




Ai confini della speranza

Reportage dalle missioni nella Rift Valley: Manda e Sanza (1)

Manda è la missione ultima nata, generata dalla parrocchia di Sanza; entrambe si trovano nella Rift Valley, con temperature altissime, dove siccità e carestia sono cicliche e drammatiche: qui ho conosciuto nuove etnie, ho visto scene di vita quotidiana «arcaica», ho ascoltato storie di vita missionaria inimmaginabili… Ho immagazzinato forti sensazioni e non posso fare altro che condividerle.

Nell’ultimo viaggio in Tanzania ho visitato luoghi, tribù, realtà che non avevo mai visto, percorrendo centinaia di chilometri su strade dove i grandi protagonisti sono sabbia e spine, per lasciarmi poi coinvolgere da realtà lontane anni luce dalla nostra. Ho conosciuto nuove etnie e i missionari che lavorano, crescono, conoscono, imparano e vivono con loro, a temperature altissime senza acqua, né luce, tanto meno la rete per usare il cellulare.
Ho ascoltato storie di vita di missionari che vivono lottando ogni giorno per avere acqua e per far funzionare pannelli solari. Un mondo che non immaginavo. I miei occhi, prima ancora della macchina, hanno fotografato scene di vita quotidiana «arcaica»: donne che timidamente mi osservavano mentre con la zappa in una mano e la tanica nell’altra facevano la fila presso uno dei rari pozzi della zona, costruiti dai missionari; sguardi di donne e di bambini che continuano a interrogarmi. Mai come in questo viaggio ho capito che non potevo fare altro che ascoltare, vedere e immagazzinare sensazioni da trascrivere e raccontare.

Verso le missioni della Rfit Valley
Con padre Giacomo Baccanelli, superiore regionale dei missionari della Consolata, partiamo prestissimo da Iringa, alla volta delle missioni di Manda, Sanza ed Heka.
Il viaggio è lungo e impegnativo: non è il periodo migliore per percorrere quelle strade «inesistenti». Siamo in piena stagione delle piogge: c’è il rischio di rimanere impantanati nella sabbia fangosa, che ricopre una superficie impenetrabile indurita dal sole.
Ci inoltriamo in strade strette e tortuose della foresta a picco su burroni riempiti da alberi altissimi. La temperatura sale e scende alla stessa velocità delle curve e il paesaggio fitto di verde, riempie i miei occhi.
Diretti al cuore desertico del Tanzania, maciniamo chilometri e chilometri senza vedere anima viva se non in qualche piccolo villaggio sperduto nel nulla. Non posso che chiedermi come facciano, di cosa vivano! Il paesaggio sembra inghiottirci. Enormi distese di acacie con rami e spine ci bloccano il passaggio. Più di una volta, padre Giacomo scende dalla macchina per aprire un varco nel bush.
Siamo finalmente al bivio per Manda, chiediamo informazioni sulla praticabilità della strada e ripartiamo. Dopo un paio d’ore arriviamo visibilmente stanchi.
Il sole è selvaggio come il paesaggio che ci circonda.
Parcheggiamo sotto i rami secchi di un albero, vicino a un pozzo dove alcuni bambini sono in fila per prendere l’acqua. Un piccolino alla mia vista scappa, un altro si attacca a ventosa alle gambe del fratello obbligandosi a evitare il mio sguardo.
Un giovane con le cuffiette alle orecchie riempie le sue taniche gialle. Ascolterà davvero qualcosa o è solo una novità introdotta nel villaggio per imitare i coetanei che vivono in città?

A MANDA CON IL PIONIERE DELLA RIFT VALLEY
Mi guardo attorno e non c’è nulla. Solo distese di alberi e boscaglia fitta. Ci viene incontro padre Antonio Zanette: un instancabile missionario della Consolata che dal 1967 lavora in Tanzania e da vari anni in questa regione, diventando il pioniere della Rift Valley.
Esile ma con un fisico temprato alle temperature e alla realtà del posto, ci accoglie con estrema cordialità. Impegnatissimo tra costruzioni, ragazzi da gestire, donne che lo aspettano per un seminar, ci fa entrare in una casa ancora in costruzione. È davvero caldo! Ci offre una soda. Dopo qualche minuto arriva una delle donne del villaggio con un po’ di polenta e carne selvatica: nonostante la mia riconoscenza per il gesto, riuscirò solo ad assaggiarla.
Davanti a una sigaretta sempre accesa padre Antonio inizia a raccontarmi la sua vita di missione. «Dal 2000 mi spingevo in questa zona al confine con Dodoma. Nel 2005 venivo una volta al mese, a pregare con un gruppo di cristiani, a una decina di chilometri da Manda e mi chiesero se potevo occuparmi anche di questa area e dei villaggi sparsi nei dintorni. La realtà di arretratezza la conoscevo già. Era ed è ancora tutto da sviluppare. E così iniziai a pensare a come fare per aprire una missione.
Sono qui stabile da settembre 2010, anche se sono appena rientrato dall’Italia, dove sono stato per un intervento medico. Nel gennaio 2011, il vescovo di Dodoma ha dichiarato che vuol promuovere a parrocchia la missione di Manda, cui fanno capo una quindicina di villaggi vicini. C’è davvero tanto da fare perché qui la maggior parte della gente è pagana, ma sono molto fiducioso, perché è gente capace e sveglia. L’assistenza religiosa mi ha permesso di entrare nelle loro vite e quindi di conoscerli.
E i primi risultati sono che proprio i giovani vogliono farsi cattolici, cercano una strada di fede profonda».
Mi perdo a osservare l’entusiasmo di questo uomo consapevolmente e forse volutamente solo, in un posto davvero disperato, privo di qualsiasi elementare comodità.
Facciamo un giro della missione e padre Antonio continua a spiegarmi: «Il problema maggiore è l’istruzione, perché in pochissimi vanno a scuola: in tutta la zona, molto estesa e popolosa, ci sono solo cinque scuole elementari; altro problema grande è la mancanza di acqua. Con l’aiuto di un’associazione americana ho fatto costruire un pozzo per la gente».
Ci sono 15 etnie nella zona di Manda, ma le maggiori sono i wasukuma e i wagogo. «I wasukuma sono grandi coltivatori e pastori tradizionalmente nomadi anche se in tanti iniziano a essere stanziali – continua padre Antonio -. Occupano una zona che sfruttano fino all’esaurimento e poi l’abbandonano. I wagogo invece sono stanziali. Lavorano solo per il proprio fabbisogno che poi dipende dalla stagione delle piogge. E quest’anno sembra che proprio non voglia piovere. Il raccolto sarà scarsissimo e la fame sarà tanta».
Le strutture della missione in costruzione si ergono come antitesi a una natura selvaggiamente aggressiva. «Ciò che vedi e sto ultimando comprende la chiesa, la casa dei padri e quella delle suore, un centro per il catechismo e per le donne cattoliche e la falegnameria. Sto aspettando le suore e sono sicuro che una volta arrivate la missione cambierà faccia. Non ci sono piani definiti circa la nostra collaborazione. Svolgeranno il loro servizio missionario in base alle proprie presenze e alla realtà del posto. È una zona di prima evangelizzazione con tutte le difficoltà che noi missionari conosciamo bene» conclude il missionario. 
Avendomi scrutato più di quanto abbia fatto io con lui, padre Antonio mi dice: «Chi me lo fa fare? Ti starai chiedendo. Beh, non so darti una risposta. Non te lo so dire. Posso solo dirti che sento che il mio posto da uomo, prima ancora che da missionario, è qui, tra questa gente».
Non posso negare che appena arrivata a Manda, dopo un viaggio così lungo, un caldo sfibrante, immersa a 360 gradi nel bush, conoscendo quest’uomo solo, mi sono chiesta come si potesse vivere una quotidianità così ostile, isolata e tremendamente dura, ma salutandolo ho visto un uomo sereno, circondato dall’affetto e dalla stima delle donne del villaggio che avevano percorso chilometri per il seminar promesso.

SABBIA E SPINE… FINO A SANZA
Ripartiamo alla volta di Sanza, distante solo sessanta chilometri, ma la strada sarà ancora peggiore di quella precedente. Una pianura di sabbia arsa dal sole ramificata in una miriade di strade sterrate. Da una stagione all’altra il paesaggio cambia così velocemente che è difficile imboccare la giusta direzione. Non un albero particolare, non una freccia o un segnale utile da fotografare mentalmente.
Nel nulla sbuca un anziano su una bicicletta che ci dice di seguirlo, ci indicherà lui la strada per Sanza, senza però valutare che lui è in bicicletta e noi su un fuoristrada. Per la «gioia» di padre Giacomo i rami delle acacie ci abbracciano in uno stridulo raschiare contro le portiere della macchina.
Arriviamo finalmente a Sanza; ci  accolgono un giovane diacono, Marco Turra, che presto sarà ordinato prete, padre Salvatore Renna, veterano anche lui di questi villaggi della Rift Valley, e padre Thomas Ishengoma, rientrato in Tanzania nel 2002, dopo essere stato in Spagna e Colombia.
La missione di Sanza è stata aperta nel 1987. «Era una zona di prima evangelizzazione, dove mancava tutto – mi racconta padre Giacomo, durante il viaggio -. L’emergenza era ed è tuttora l’acqua. È un posto arido. Abbiamo iniziato con la parrocchia, un dispensario, un asilo e tanti piccoli aiuti per tamponare. Pensavamo anche a una scuola di arti e mestieri ma poi l’idea non è maturata. Il problema di qui è che manca l’intraprendenza per collaborare allo sviluppo della zona».

UNA MISSIONE IPERDINAMICA AI CONFINI DEL MONDO
Marco mi accompagnerà nei tre giorni successivi alla scoperta di questa parte di Tanzania per me nuova. «Non c’è campo per telefonare, né luce – mi dice subito Marco -. Siamo fuori dal mondo. Noi utilizziamo i pannelli solari e il generatore per le cose principali, ma la situazione è tale che ci sprona a reinventarci ogni giorno come affrontare le difficoltà nostre, del posto e della gente. Le strutture che vedi sono la chiesa, l’asilo, il dispensario gestito dalle suore, un magazzino di cibo per i poveri, soprattutto mais, distribuito una volta al mese. Poi abbiamo la falegnameria, in cui sono stati fatti anche i banchi per l’asilo, e un garage essenzialmente per le nostre macchine, messe a dura prova dalla condizione delle strade. Infine abbiamo un allevamento di mucche, capre, maiali e l’orto. Cerchiamo di essere autosufficienti, ma è dura. Quest’anno la siccità ci sta distruggendo. Le uniche verdure che riusciamo a mangiare sono i cavoli cinesi. La frutta è poca e se continua a non piovere non ce ne sarà proprio».
Mentre Marco mi mostra l’orto, osservo delle donne in lontananza che nel letto secco di un fiume, fanno buche nella sabbia per prendere acqua. Qui è una consuetudine. In ginocchio, piegate per ore, sotto un sole bollente, con i loro bambini sulla schiena, scavano per riempire secchi e bacinelle di un’acqua sabbiosa, scura.
Conosco il valore dell’acqua che proprio questo continente mi ha insegnato, ma mai come in questo viaggio ne capirò il significato vitale. Non ci sono parole capaci di descrivere lo stress e la tensione quotidiana di queste persone per il bisogno vitale dell’acqua in una zona così depressa. Non ho visto la presenza di una sola ong in questa parte di Tanzania, popolata da tribù che vivono un olocausto quotidiano, abbandonati dal mondo ma non da questi angeli di Dio, che per il solo fatto di accompagnarli, ascoltarli e sostenerli vivendo insieme, mangiando o non mangiando, ammalandosi come loro, meritano la nostra stima estrema. Questi sono posti dove solo chi ha Dio come fedele amico riesce a vivere e rimanere sereno. Non è un posto per tutti.

UN GIOVANE MISSIONARIO A SCUOLA
Prima di visitare gli asili, Marco mi porta nella scuola primaria governativa, vicino alla missione: 800 studenti in divisa, dai 5 ai 13 anni mi riempiono la vista. Una scuola così affollata, ma gestita da soli 10 insegnanti che pur di lavorare arrivano da zone lontane come il Kilimanjaro.
Dixon Baluti è il vice mwalimu mkuu (vice preside) della scuola. Orgoglioso del ruolo, ci fa accomodare nel suo ufficio affollato di carte e di libri. Ventisette anni, Dixon è della tribù dei jaluo, mi precisa, e viene da Mwanza. Ha da poco concluso il corso di preparazione per maestri a Tanga. «Questa è una zona difficile. I genitori non hanno la formazione necessaria per capire l’importanza e valore dell’istruzione. Molti non mandano i figli a scuola, nonostante l’obbligo imposto dal governo. I ragazzi sono abbandonati a se stessi e obbligati a lavorare i campi con i genitori fin da piccoli. La retta è di 5 dollari l’anno e molti non riescono a pagarla. Adesso le lezioni iniziano alle 7 di mattina e durano fino alle 4 del pomeriggio, abbiamo aumentato le ore grazie al piano di aiuto alimentare americano, voluto dal Presidente Obama». Osservando i sorrisi di queste centinaia di giovani non posso che dire con loro «asante sana» (grazie mille) a Obama: grazie al piano alimentare americano, possono aver un pasto tutti i giorni. I bambini dell’asilo mangiano l’uji (polenta di mais e latte) appena arrivano e poi a pranzo: una vera benedizione in un posto così disperato.

FORMAZIONE, FORMAZIONE E FORMAZIONE
Fino al 2007 padre Thomas Ishengoma era formatore al seminario dei missionari della Consolata di Morogoro e da tre anni è a Sanza, perché vuole misurarsi con una realtà di missione nella sua terra.
Di cultura sorprendente quanto la sua umiltà, padre Thomas è impegnato in molteplici attività: è parroco, si occupa della gestione degli asili della parrocchia e della formazione delle maestre, segue da vicino l’andamento delle scuole primarie e secondarie dei villaggi, organizza corsi settimanali e mensili per le donne, per le maestre e per le mamme.
«Credo molto nella formazione della nostra gente. Questa è una zona difficile, abbandonata a se stessa; tuttavia la gente sta iniziando a volere un cambiamento; per questo ho voluto fortemente mettermi a loro disposizione per incontri sull’andamento e mantenimento dell’asilo, dall’alimentazione alla pulizia, dalla formazione delle maestre alla pedagogia del bambino, senza tralasciare la formazione dei giovani e delle donne nei villaggi. Una volta al mese, di solito l’ultimo sabato, celebriamo La giornata del bambino: dalle 8 del mattino alle 4 del pomeriggio, in parrocchia o in qualche posto qui vicino, raduniamo genitori e figli dai 3 ai 14 anni; mentre le madri preparano il cibo, i bambini si divertono giocando e disegnando; ma la cosa più importante è che insieme si stabilisce “il progetto di Dio o casa del bambino”, ossia la conoscenza concreta del bambino che abbraccia un progetto di vita futuro.
«Nostro obiettivo e nostra priorità è la formazione – interviene padre Renna Salvatore a confermare le parole di Thomas -. Solo attraverso la formazione si può cambiare la realtà. La missione in questi anni è già riuscita a creare dei forti cambiamenti sia a livello di sviluppo economico che in quello dell’evangelizzazione. Proprio da queste zone sono arrivate diverse vocazioni. Ma il lavoro è ancora molto».

Mitico factotum 
Padre Salvatore, pugliese doc, dal 1964 in Tanzania, è da sempre nei posti «caldi» della missione. A Sanza da sei anni, è punto di riferimento per tutto e per tutti: è il mitico «tuttofare» e si occupa della parte tecnica della missione: dalle costruzioni di asili nei villaggi all’animazione, all’insegnamento, ai seminari di formazione e promozione umana.
«In posti così esasperati non si può avere un ruolo definito, siamo tutti intercambiabili» mi dice padre Salvatore mentre prepara il suo delizioso karcadè. Tutti lo conoscono. Sguardo dolce ma deciso, barbetta che suscita ironia tra i confratelli, esperienza di vita quasi totalizzante in missioni di frontiera, padre Salvatore non può che incantarmi.
Riprendendo il discorso sulla formazione, padre Renna continua: «Rimangono tuttavia problemi seri, come le piaghe dell’alcolismo e delle droghe leggere, la poligamia intrinseca alla loro cultura; ora è arrivata anche l’aids. Il livello culturale è molto basso, anche perché sia i wagogo che i wasukuma sono ancorati alle loro tradizioni. Potrebbero stare meglio, ma continuano a vivere come cento anni fa, anche a causa della superstizione. I problemi derivati da casi di stregoneria sono allucinanti. Il ricorso al medico tradizionale, come è chiamato benignamente, è una cosa normale».
«Secondo le loro convinzioni – interviene Marco – i malanni non possono venire da Dio, ma sono causati da persone che tramano di nascosto; per scovarle si ricorre dallo stregone. Una volta scoperto il colpevole, la vendetta è pesante: va dall’allontanamento della persona dal villaggio fino all’omicidio».

Giovane missionario
iN UNA TERRA ESTREMA
Marco Turra è entrato nel seminario diocesano che aveva diciannove anni. Nel 2000 era a Londra quando conobbe i missionari della Consolata e decise di diventare uno di loro.
È arrivato in Tanzania a Morogoro per lo studio del kiswahili e poi subito in missione a Pawaga. Da settembre 2010 è a Sanza. A vederlo, così giovane, rimango sorpresa per la sua capacità di adattamento in un posto simile e per il suo modo di interagire con le persone nei villaggi. Come i suoi confratelli è impegnatissimo. Insegna in alcune scuole secondarie, si reca nei villaggi, visita i malati, segue la casa dei non vedenti, cura con passione anche l’orto e l’allevamento delle mucche della missione, e mi porta con orgoglio a visitarle.
Marco mi regala altri ricordi indimenticabili, come la conoscenza di una famiglia wasukuma e l’incontro con gli anziani wagogo ciechi, alloggiati in una costruzione in mattoni con quindici stanze indipendenti. 

LE CASE PER GLI ANZIANI CIECHI
Attraversiamo il villaggio che il sole è ancora forte con la sabbia che si infiltra dovunque. I bambini conoscono Marco ma si avvicinano timorosi. Mi osservano, mi scrutano, ma hanno paura. Molti scappano. Non mi era mai successo in Tanzania di trovare dei bambini che alla vista di un bianco ancora scappassero.
Oltrepassiamo le case dei wagogo: basse e rettangolari. Una signora mi invita a entrare. La struttura è in fango. Il tetto è piatto ricoperto da cespugli di erba, i muri con piccole finestre. Entro e una leggera frescura mi sorprende, così come la perfetta divisione della casa: in un angolo separato da una parete di fango c’è la cucina, dall’altra parte la «zona notte» con un grande letto matrimoniale e una zanzariera. La donna mi spiega che hanno il cortile in comune, dove di solito si cucina e si accolgono gli ospiti.
Usciamo dalla casa e vediamo gli anziani sotto un albero, seduti su pelli di capre, stuoie e sgabelli. Marco li chiama e non appena sentono la sua voce si alzano e raggianti ci vengono incontro. Capisco subito che sono i ciechi. In tanti hanno cataratte che sono degenerate.
Sono tutti anziani che i famigliari hanno «invitato» ad andarsene da casa, quando per la loro cecità sono diventati un peso per il resto della famiglia. Vengono da zone lontane. Hanno affrontato un viaggio di molti chilometri, quando hanno saputo di questa casa messa a disposizione dai missionari per i non vedenti. Sono comunque indipendenti e riescono a gestirsi da soli. Le donne della comunità di base del villaggio provvedono loro acqua e cibo e essi riescono a cucinarselo.
Mi raccontano storie pazzesche, mentre i loro occhi assenti e fissi nel vuoto si inumidiscono; sono storie in cui si intrecciano i ricordi di fatica e fame, siccità e lavoro nei campi a temperature più che torride. Eppure sono lì, sereni e felici, senza alcun rancore verso persone o eventi del passato né sul perché sia toccata loro tale sorte, ma continuano a ringraziare Marco e i missionari perché non li hanno lasciati in mezzo alla strada. Mi sento veramente in un altro mondo se penso a quello nostro!

UNA GALLINA DAI WASUKUMA
È arrivata Maria, una donna wagogo di quarantacinque anni, ma che ne dimostra molti di più, che ci accompagna alla casa di una sua amica wasukuma. Quest’ultima l’avevamo incontrata la mattina davanti all’asilo, dove aveva accompagnato il figlioletto, poiché abitano in pieno bush a qualche distanza dalla missione.
Iniziamo a percorrere un sentirnero sconnesso tra i soliti campi di mais bruciati dal sole, dove i girasoli secchi sembrano delle braccia tese al cielo per invocare una pioggia che non vuole cadere; sbuchiamo in una stradina polverosa tra acacie dalle spine lunghe e affilate, che graffiano impietosamente le portiere dell’auto; arriviamo davanti a un recinto di spine alto più di un metro: entriamo e ci viene incontro la nostra amica.
Un viso dai tratti eleganti e una pelle d’ebano. Altissima e slanciata mi sorride come fossi l’amica di sempre. Qualche metro più in là c’è la madre anziana, altrettanto alta. Ci invitano a sederci all’ombra della casa.
Ci sono tutti i suoi figli, tranne il piccolo di cinque anni, che conosceremo più dardi, quando la signora mi mostrerà la ricchezza di famiglia: un folta mandria di mucche di razze diverse e pregiate, capre, pecore, tutte vigilate dallo sguardo maturo del bambino. Non ci sono uomini, poiché sono anch’essi ad accudire il bestiame; arriva però un vicino, spinto dalla curiosità di conoscere la mzungu (bianca).
Cominciamo a parlare, mentre i bambini ci scorrazzano attorno insieme a galli e galline. Marco traduce le tante domande che rivolgo alla giovane wagogo. Sono incuriosita dalle caratteristiche di questa etnia fiera e seminomade, discendente dai masai. Fisicamente infatti si assomigliano; ma la donna ci spiega subito che culturalmente sono molto diversi: i wasukuma non sono grandi lavoratori e più intraprendenti: lo testimoniano le vaste distese di campi coltivati non solo per la loro sussistenza, ma anche per vendere parte del raccolto.
Ma la ricchezza principale è costituita dal bestiame, che serve anche per stipulare matrimoni e formarsi una famiglia. Per una donna come me, mi dice il suo vicinato, potrebbero sborsare anche cinquanta mucche, ma di quelle pregiate. Rispondo scherzando che sono troppo poche, ne servirebbero almeno un centinaio; dopo un istante di imbarazzo e indecisione scoppiamo tutti a ridere. Poi la madre anziana racconta del suo matrimonio e della dote pesante pagata dal marito e non solo in animali, ma anche in denaro.
Ma è la donna più giovane a sottolineare che la loro è una famiglia aperta, pur mantenendo usi e costumi tradizionali di cui hanno capito il valore. Domando chiarimenti sulla pratica dell’infibulazione e la giovane risponde prontamente che è stata abbandonata ormai da molti anni. Anzi, rincara la dose contro certe usanze figlie della superstizione e ringrazia la presenza dei missionari che attraverso le scuole, il dispensario e gli incontri li aiutano a crescere i figli con maggiore apertura.
Rimango davvero senza parole! Sono seduta su uno sgabello in pieno bush, nel niente, davanti a tre caratteristiche case wasukuma: una per gli uomini, un’altra per le donne e i bambini e una terza per gli animali; siamo accerchiati da galline, gatti e cani, e questa donna vestita in tipico stile wasukuma, oltre a ringraziarmi per essere andata nella sua casa, mi dice convinta che hanno bisogno e vogliono una cultura più aperta per i loro figli.
Ecco le motivazioni e le gratificazioni capaci di farti rimanere in un posto come questo, ai confini della speranza. «È qui che acquista senso la presenza di noi missionari» mi aveva già detto padre Antonio Zanette e me lo sentirò ripetere a Heka da padre Saverio Diaz.
L’incontro termina con un’altra sorpresa divertente. I bambini iniziano a correre dientro a una gallina e la inseguono per parecchi minuti, finché decidono di acchiapparla e la consegnano alla mamma, che me la regala come segno di ospitalità. Cerco di prenderla e tenerla ferma tra le mani, tentando di non far capire che è la prima volta che maneggio una gallina. Il cuore dell’animale batte forte che sembra uscire dal suo corpo.
Marco mi spiega che i wasukuma non regalano mai animali morti. Se il regalo è una gallina, questa deve essere la migliore; per questo la fanno correre all’impazzata per dimostrare che non è malata, ma gode perfetta salute. 
Consegnata a padre Salvatore, il giorno dopo la gallina ricompare sulla tavola, per farmi gustare ancora una volta la squisita ospitalità dei missionari e della loro gente, capace di donare con tanta gioia nonostante la loro povertà.

Romina Remigio

Romina Remigio




Pakistan: i grigi mattoni dell’ingiustizia

Ogni volta che si parla di Pakistan è sempre per dare brutte notizie. Quando non ci sono attentati o omicidi o bombardamenti della Nato (26 novembre 2011, con 24 militari pakistani uccisi), si tratta di disastri naturali. Un peccato per un paese che altrimenti sarebbe affascinante. All’inizio di novembre 2011, a Karachi, provincia di Sindh, nel Pakistan meridionale, nel giro di pochi giorni sono stati uccisi un commerciante cristiano (Jamil Masih) e un pastore protestante (Jamil Sawan). Pochi giorni prima, nella stessa provincia, in una cittadina nei pressi di Shikarpur, erano stati assassinati quattro medici indù, probabilmente per mano di membri della confrateita musulmana Bhaya Baradari per vendicare un matrimonio tra una indù e un musulmano. Nel frattempo, l’Autorità pakistana delle Telecomunicazioni ha diramato un provvedimento che ordina alle società di telefonia di bloccare i messaggi di testo (Sms) in cui siano inserite una serie di parole ritenute volgari, oscene o nocive. Tra esse vi sarebbero – racconta l’agenzia Fides – anche «Gesù Cristo» e «Satana». Tutti episodi che, ancora una volta, confermano la difficile condizione in cui versano le minoranze non-musulmane che vivono nel paese asiatico, in particolare gli indù e i cristiani. Ognuno di questi gruppi conta circa 3 milioni di fedeli (pari al 2 per cento della popolazione pakistana).
Va ricordato che è ancora aperto il caso di Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte con l’accusa di aver offeso il profeta Maometto (blasfemia). «L’8 novembre 2010 – racconta nella sua autobiografia -, dopo cinque minuti di camera di consiglio, la sentenza si abbatte su di noi come un fulmine. “Asia Noreen Bibi, ai sensi dell’articolo 295-C del codice pakistano, questa corte la condanna alla pena capitale per impiccagione e a un’ammenda di 300.000 rupie”».
Nel frattempo la politica langue nella corruzione. Il presidente Asif Ali Zardari, già marito di Benazir Bhutto (assassinata il 27 dicembre 2007 durante la campagna per le elezioni generali), non ha dato una svolta al paese. Come grida nei suoi affollatissimi comizi Imran Khan, famoso ex capitano della nazionale pakistana di cricket, dal 1996 leader del Movimento per la giustizia, che si prepara alle elezioni del 2013. Oggi Khan è di gran lunga il politico più popolare, surclassando il presidente in carica e Nawaz Sharif. Quest’ultimo, miliardario ed ex primo ministro, è leader della Lega musulmana-N e gode del supporto dell’Arabia Saudita, attore invisibile ma certamente molto attivo sul palcoscenico pakistano. Più visibili sono gli Stati Uniti, che nel maggio 2011 in una città pachistana hanno trovato ed ucciso Osama bin Laden, da tempo ospite – più o meno occulto – nel paese asiatico. Per contrastare i talebani e controllare un paese strategico (e nucleare), Washington sovvenziona copiosamente l’esercito e il governo di Islamabad, ancorché inaffidabili e corrotti. Gioca invece da battitore libero l’Inter-services intelligence (Isi), la potentissima agenzia dei servizi segreti del Pakistan, coinvolta in tutti i conflitti e i complotti.

Indipendentemente da chi sia al potere, finora il paese asiatico non è riuscito ad uscire dal circolo vizioso della povertà. Tutti i dati lo confermano. Su una popolazione totale di quasi 190 milioni di persone, oltre 64 milioni vivono sotto la soglia di povertà, sia nelle aree rurali che nelle immense periferie degradate delle città. Le donne, tradizionalmente costrette ad un ruolo subalterno (nella famiglia e nella società), sono i soggetti più colpiti. Assieme ai bambini: si stima che il 37,4 per cento dei minori sotto i 5 anni siano malnutriti. In queste condizioni, è facile che gruppi di privilegiati – siano militari, politici al potere, religiosi musulmani fondamentalisti o l’oligarchia (composta da una decina di famiglie) – riescano a manovrare una popolazione fiaccata da un’esistenza ai limiti della pura sopravvivenza. In Pakistan, come in molti altri paesi del mondo, la «collera dei poveri» non ha ancora trovato una strada autonoma ed efficace.

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Missione una e trina

Mepanhira, Mecanhelas, Entre Lagos: panoramica a volo di uccello

Ero stato nel Niassa un mese dopo l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo, firmato a Roma  il 4 ottobre 1992. Avevo trovato missioni in macerie e gente poverissima, affamata, con vestiti a brandelli… Sono ritornato il giugno scorso: dopo 20 anni, ho trovato comunità rifiorite, come quelle che fanno capo a Mecanhelas, una triplice parrocchia fino a pochi anni fa, ora ridotta a due, ma ricca di iniziative e di speranze.

In viaggio da Gurué a Mecanhelas, accompagnato da mons. Lerma, ci fermiamo nella missione di Mepanhira: una sosta molto breve ma sufficiente per confrontare i cumoli di macerie trovati 20 anni fa con la risurrezione delle numerose opere, per rivivere soprattutto le emozioni provate quando sentii raccontare le sue origini (cfr Missioni Consolata, aprile 1993, pag. 48-51).

Un pezzo di storia… che se ne va
Il primo a portare il vangelo in quella zona era stato un certo Namuro Chipenenga, nato nell’estremo sud del Niassa nel 1888 e morto a Mecanhelas nel 1990, alla bell’età di 102 anni.
Avventuriero, analfabeta e prepotente, cercò fortuna prima in Sudafrica, poi nel Nyassaland (oggi Malawi), dove imparò a leggere e scrivere. Un giorno entrò per curiosare in una chiesa cattolica e rimase folgorato dalle parole del missionario monfortano: si iscrisse al catecumenato e a 35 anni si fece battezzare col nome di Giovanni Battista.
Nel 1933 Giovanni Battista toò al suo villaggio natio e cominciò a insegnare la via del vangelo. L’anno seguente toò in Malawi con 250 catecumeni per farli battezzare nella missione dei monfortani. Estese la sua evangelizzazione ad altri villaggi e ogni anno portava centinaia di catecumeni nel Nyassaland per essere battezzati e confermati nella vita cristiana, finché i padri monfortani, consigliarono a Chipenenga di rivolgersi ai missionari della Consolata, da pochi anni presenti a Massangulo.
E così fece. Tre missionari della Consolata seguirono Chipenenga, che presentò loro 600 catecumeni pronti per il battesimo, cercarono un luogo adatto e si stabilirono nella zona: così nacque Mepanhira. Era l’anno 1938. 
Mepanhira divenne presto il centro propulsore dell’evangelizzazione del sud del Niassa, dando origine a nuove parrocchie, come Mitucue (1939) e Maua (1940), che a loro volta, dopo la II guerra mondiale, diedero vita ad altre fondazioni.
Fiore all’occhiello di Mepanhira fu la nascita delle «Suore dell’Immacolata Concezione», la prima congregazione di suore mozambicane, fondate da padre Oberto Abondio.
Con l’indipendenza del Mozambico (1975), tutta la missione fu nazionalizzata e i missionari cacciati. Trasformata in base militare del Frelimo e gli edifici ridotti a caserme, Mepanhira fu più volte bombardata e saccheggiata dai soldati della Renamo.
Solo Chipenenga, ormai cieco, rimase al suo posto e per 12 anni continuò a rincuorare i cristiani, sfidando le minacce del Frelimo e le pallottole della Renamo, finché un nipote lo portò in salvo a Mecanhelas.
Toata la pace, da Mecanhelas i missionari ripresero la cura delle comunità di Mepanhira e ne fondarono di nuove, restaurarono la chiesa e le altre strutture, e nel 2003 consegnarono la parrocchia al clero locale. «Con un certo rammarico – confessa padre Diamantino principale artefice della risurrezione di Mepanhira quando era parroco di Mecanhelas -. Se ne va così un pezzo della nostra storia, la seconda missione fondata dai missionari della Consolata in Mozambico; ma ne siamo anche felici, poiché il seme gettato in tanti anni di lavoro ha portato frutto, fino alla maturità della Chiesa locale.

Mecanhelas: vulcanica missione
«Anche in questa zona troviamo comunità molto antiche, formate dai nostri primi missionari. È la parte più evangelizzata del Niassa, popolata dall’etnia macua, molto aperta al vangelo, a differenza della popolazione del nord del Niassa in prevalenza musulmana» spiega il confratello colombiano padre Rogelio Alarcón, attuale parroco di Mecanhelas, insieme al portoghese padre José Neves. Entrambi hanno in cura 180 comunità cristiane: 140 formano la parrocchia di Mecanhelas, altre 40 quella di Entre Lagos.
«Il nostro è anzitutto e naturalmente un lavoro pastorale – continua padre Rogelio – di evangelizzazione e servizio sacramentale, visite alle comunità e animazione vocazionale e missionaria, formazione di catechisti, animatori di comunità, operatori ecclesiali: è la cosiddetta chiesa ministeriale, caratteristica in tutto il Mozambico, cioè, una chiesa dove i laici sono chiamati ad assumere e svolgere ruoli importanti nella vita della comunità cristiana».
Alla pastorale religiosa si aggiungono una folta serie di iniziative e progetti di carattere sociale: corsi di risorse umane, doposcuola per alunni in difficoltà, servizi sanitari, laboratori di carpenteria e meccanica, attività agricole e zootecniche…
Fiore all’occhiello della missione è il «Centro nutrizionale padre Ariel Granada», missionario della Consolata ucciso in un’imboscata nel 1991, durante la guerra civile mozambicana. Era stato lui a raccogliere i primi orfani in questo luogo, poi l’opera si è sviluppata e continua in sua memoria. Il Centro accoglie e cura bambini da 0 a 3 anni con seri deficit alimentari, causati da malattie (malaria), parassiti, mancanza di cure dei genitori. Nei casi più gravi si ricorre agli ospedali della zona e del Malawi.
Altra opera importante sono i «lares», case di accoglienza per studenti provenienti da comunità dell’interno che frequentano le scuole secondarie di Mecanhelas, Entre Lagos e altri due grossi villaggi. «Chiediamo loro un contributo in natura (prodotti agricoli) e un minimo in denaro; ma naturalmente non riescono a pagare tutte le spese» spiega padre Rogelio.
«L’ultimo progetto lanciato a Mecanhelas sono i corsi di microinformatica – riprende il missionario -. Iniziati da padre Simon Pedro, stiamo studiando la maniera di migliorarli con computer più modei. Per noi è un impegno gravoso, ma vale la pena. Anche in questo sperduto angolo del mondo l’informatica è indispensabile per chi vuole continuare gli studi o semplicemente trovare un lavoro».

Tito, il capomastro
Mi domando come facciano due soli missionari a portare avanti tante attività. Padre Rogelio mi legge nel pensiero: «La risposta è semplice: coinvolgiamo la gente del luogo e accogliamo laici dall’esterno». Il Centro nutrizionale è affidato a due mamme, coadiuvate da due giovani laiche missionarie portoghesi.
«La scuola d’informatica è nata grazie ad alcuni giovani portoghesi, venuti d’estate a Mecanhelas: hanno insegnato a maneggiare il computer ai coetanei locali, uno dei quali si è specializzato nel centro di formazione della parrocchia di Cuamba e, tornato al paese, è responsabile di tale progetto».
Da 4 anni a Mecanhelas c’è anche Tito Abraão, un laico missionario portoghese, che mi racconta sorridendo la sua storia. Già maturo e affermato capomastro, chiese di diventare fratello missionario della Consolata, ma durante il noviziato in Italia maturò la decisione di rispondere alla vocazione missionaria come laico. Tornato in Portogallo, incontrò il vescovo di Lichinga, Luis Ferreira da Silva, che lo portò nella sua diocesi.
«Ho lavorato per 14 anni con il dom Luis, un sant’uomo che riusciva ad avere aiuti con facilità – racconta Tito -. Abbiamo ricostruito le missioni distrutte dalla guerra, ingrandito la chiesetta di Lichinga facendone una degna cattedrale, costruito il monastero delle suore dell’Immacolata e nuove chiese, una delle quali può contenere più di mille persone sedute».
Tito ha lavorato per due anni anche nella diocesi di Inhambane, dove ha costruito scuole e un centro per la promozione delle donne. Da quattro anni è a Mecanhelas, occupandosi inizialmente di falegnameria, officina meccanica, catechesi e altre faccende. «A Mecanhelas erano sorte oltre 60 chiese e cappelle in varie comunità, con un programma di 8 costruzioni ogni anno, ma ben presto sono andate in rovina, perché fatte in fretta e senza l’esperienza. Ora sono state rifatte più solide e non cadranno facilmente».

Entre lagos: scuola di dialogo
Padre José e padre Rogelio si alternano nel servizio alle comunità della parrocchia di Entre Lagos, ai confini con il Malawi, ma non vi abitano, mancando ancora di strutture adatte. Ci sono invece tre suore brasiliane della Divina Provvidenza, che praticamente suppliscono il parroco in molte attività pastorali, come corsi di formazione e accompagnamento di catechisti, animatori e ministri laici, visite alle varie comunità.
Esse curano anche le opere sociali della parrocchia: seguono le due case di accoglienza per gli studenti, organizzano corsi di arti e mestieri per ragazzi e ragazze, promuovono artigianato e altri progetti di sviluppo.
Alle suore è affidata pure la gestione dei lares per ragazzi e ragazze e il funzionamento dell’Esam (Ensino secundario aberto moçambicano), un grande progetto educativo della diocesi di Lichinga, che ha aiutato tanta gente, soprattutto giovani, ad acquisire una formazione secondaria pre-universitaria. Nata in Malawi per opera dei gesuiti a favore dei rifugiati mozambicani, la scuola è stata adottata dalla diocesi di Lichinga ed è diventato un motore di sviluppo per tutta la regione del Niassa.
«La popolazione di quel luogo è in maggioranza musulmana -spiega padre José Neves, mentre mi accompagna in visita ad alcune comunità di Entre Lagos – ma la chiesa cattolica è molto ben accettata e la popolazione è molto cornoperativa, anche la parte islamica. Qui cristiani e musulmani vivono il dialogo interreligioso, che si traduce in frateità interreligiosa, nella gioia e nel dolore; quando muore un musulmano, per esempio, i cristiani preparano la tomba; viceversa, i musulmani la preparano per i cristiani. Un ambiente di frateità che rende facile la nostra attività.
Abbiamo in cantiere incontri con le autorità tradizionali: regoli, capi, imam e pastori di chiese cristiane, per condividere le idee sull’educazione tradizionale, riti di iniziazione, usi e costumi culturali e morali che hanno bisogno di essere purificati; ma vogliamo farlo attraverso il dialogo e il reciproco rispetto».

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Suore, venti anni dopo

Mediamente

Mariapia Bonanate, Paoline Editoriale Libri, 2010 – Euro 18,00
A volte occorre andar oltre il titolo di un libro, oltre il pregiudizio spesso infondato di ciò che potremmo trovare tra le sue pagine. Così fu per me la conoscenza con Suore, il libro di Mariapia Bonanate, continuazione del lavoro omonimo scritto 20 anni prima. Il libro rimase inizialmente a decantare qualche tempo sul comodino, in una fase di assoluta sospensione tra il desiderio di leggerlo e la poca volontà. Poi, finalmente, una sera in cui la casa era stranamente silenziosa, iniziai a sfogliarlo e passai velocemente dal semplice sfogliare alla lettura. I personaggi vividi, quasi tangibili sulla carta, la capacità della scrittrice di trasmettere, attraverso le donne incontrate, un contagio positivo, mi conquistarono. In ogni pagina di Suore, nella testimonianza attiva di queste donne eccezionali (alcune delle quali laiche), si avverte il palpitare della spiritualità nella vita quotidiana. In punta di piedi, quasi a ritmo di danza, la voce al femminile di Mariapia si fa strada e racconta un mondo taciuto, dove donne coraggiose si «lasciano abitare dall’altro» e, con intelligenza, umanità e fantasia, ridisegnano la storia.
Quello di Suore è un macrocosmo femminile che non fa notizia, ma che testimonia, con un’incredibile forza spirituale, come la speranza passi attraverso l’amore senza condizioni e possa essere l’antidoto all’attuale vuoto delle nostre esistenze.

Donne e suore in prima linea
Sono passati venti anni da quando Mariapia ha incontrato le sue amiche suore. Donne che sono rimaste a combattere in prima linea, senza giudizio e con amore.
Donne che diventano fonte di sopravvivenza per chi vive il dramma della prostituzione, della tossicodipendenza, delle guerre e della miseria. Nove capitoli arricchiscono il libro con i nuovi incontri. Dall’inchiostro prendono vita tante umanissime figure che vivono il Vangelo in prima persona. Niente a che fare con la mistica o con la catechesi, l’universo femminile di Mariapia è reale. Dalla scelta del «silenzio» a quella dell’azione sociale con un filo rosso comune: la costanza e il raccoglimento per riscoprire Dio. Da suor Teresa, alla studentessa di Praga, a suor Rossana e alla Carmelitana scalza (Cristiana Dobner) per citare esempi di vita contemplativa. Esistenze dove l’amore per il mondo si concretizza nel raccoglimento, mai fine a sé stesso ma sempre attento a ciò che accade al di fuori, informato sui passi di un mondo in continua trasformazione. Sul versante dell’attivismo tante figure indimenticabili. Ridare dignità e speranza alle «creature del bisogno» è l’obiettivo di tutte le amiche di Mariapia che, chi in un modo e chi nell’altro, fuggono dalle certezze per camminare fianco a fianco con gli ultimi dell’universo. Ecco allora emergere dal racconto, solo per citare alcune di queste grandi donne, Suor Eugenia, una sorella delle missionarie della Consolata che, dopo un lungo periodo in Kenya, decide, una volta tornata in Italia, di  dedicarsi alle africane emigrate e costrette a vendersi sui marciapiedi di Torino. Nel difficile territorio campano, invece, Suor Rita apre Casa Rut e dona il suo aiuto alle tante ragazze madri, scampate alla tratta; Carla Osella fonda una scuola e poi un sindacato per gli zingari (l’Aizo); Maddalena di Spello mette a disposizione il suo focolare domestico a tutte le ore del giorno e della notte per offrire un pò di calore e di conforto a chi brancola nel buio; come lei, suor Teresa Martino – ex attrice di successo – guida Casa Betania, ritrovo di malati di mente, barboni e diseredati. Una geografia umana che non ha bisogno di tante parole, che antepone l’azione alla predica, che ascolta e non giudica, che sa farsi sentire attraverso il gesto amoroso. (gm)

Una domenica con Mariapia Bonanate

Suono alla porta di Mariapia Bonanate in una domenica dal cielo terso e dai colori accesi. Torino è silenziosa, piacevole, soiona. Mariapia mi accoglie con la calda informalità di chi ha il cuore aperto. La sua casa è piena di luce e, seppur nella tranquillità festiva, si avverte un pulsare di vita e di calore umano. Suore è oggetto di discussione ma non solo. La nostra conoscenza passa attraverso sottili emozioni e riflessioni. Come nella scrittura, anche nel racconto orale, Mariapia riesce a trasmetterti un pezzo di cielo, la speranza oltre la speranza. Lo fa semplicemente, con umiltà, e si presta non solo al suo racconto personale ma anche all’ascolto, alla condivisione. Nel suo volto elegante e intelligente, i segni di una ricerca profonda, di una vita vissuta pienamente, di tanta bellezza e anche molta sofferenza. Il fascino e il carisma possono dissolversi, la coraggiosa umanità no. Così è Mariapia Bonanate, così sono le donne del suo libro.

Nell’introduzione tu parli del linguaggio dell’anima che non invecchia mai. Cosa significa?
«La perdita di valori della nostra epoca si rispecchia proprio nel vuoto di parole ed è solo l’anima – parte più autentica di noi –  a dar spessore alle parole. Nelle donne che ho incontrato, l’anima si manifesta attraverso il loro corpo, il loro “esserci” sempre e senza condizioni. La loro totale presenza in tutte le situazioni è il loro linguaggio. La loro viva testimonianza non è fatta di parole, farcite di mistica o di devozione, ma del loro operato, del loro coraggio quotidiano, dei loro gesti amorevoli e di quell’accoglienza gratuita e silenziosa che sanno donare, lasciandosi “abitare” dagli altri».

Venti anni fa e oggi. Come sono cambiate le «tue» suore e cosa ti hanno regalato?
«La maggior parte di loro le ho ritrovate con lo stesso entusiasmo di venti anni fa. L’atteggiamento che non è cambiato è proprio quella forma di condivisione che fa intravedere un futuro migliore. Ritengo ancora più necessario, rispetto agli anni passati, che le porte dei monasteri si aprano, che le finestre si spalanchino verso il mondo, in un positivo contagio con la gente. Le mie amiche suore mi hanno donato il senso della gratuità, la fiducia nell’invisibile e la capacità di reinventarmi la vita anche nelle situazioni più complesse».

Cosa intendi con «la festa dell’anima»?
«La loro dedizione e il loro abbandono totale verso gli altri portano una nota di gioia. Tutte le donne di cui parlo nel mio libro  hanno la capacità di creare, attorno a loro, un’atmosfera di felicità e di armonia che rende accettabile anche il contesto più drammatico. È il mistero della sofferenza che, se accettato e non rifiutato, apre la via della speranza. Il ponte per superare l’odio e la paura è l’amore: esigenza primordiale di tutte le persone e segno distintivo di tutta questa galleria di donne e suore che riescono a ridare fiducia anche alle esistenze più tormentate».

Gabriella Mancini

Gabriella Mancini




Una priorità … alla volta

Intervista a mons. Josè Luis Ponce de Leon, vicario apostolico di Ingwavuma

Dall’inizio del 2009 mons. José Luis Ponce de Leon, missionario della Consolata
argentino, è alla guida del vicariato apostolico di Ingwavuma. Tre anni di sede vacante hanno accumulato numerose urgenze, che vengono affrontate una per volta, mentre vecchi e nuovi progetti cercano di
rispondere alle sfide del distretto più povero del Sudafrica, tra le quali l’Aids e le miserie che
ne derivano.

«Quando fu annunciata la mia nomina a vescovo di Ingwavuma, nel novembre 2008, un periodico italiano mi telefonò a Roma, domandandomi quali fossero i piani per il vicariato. Fui preso alla sprovvista: quali piani potevo avere senza conoscere il luogo, la sua gente e la sua storia? Del vicariato conoscevo solo Saint Lucia, dove avevo fatto un ritiro e poi vi avevo portato due o tre confratelli per studiare lo zulu alla scuola di padre Declan Doherty. Non conoscevo niente di questo luogo». Così mons. José Luis comincia a raccontare la sua esperienza missionaria alla guida del vicariato di Ingwavuma.

Come mai sei stato nominato vescovo di Ingwavuma e non di Dundee, dove avevi già lavorato?
Fino a tre o quattro anni fa, quasi metà delle diocesi del Sudafrica erano vacanti. Nel 2006 è arrivato il nuovo nunzio, mons. James Patrick Green: ha visitato le diocesi, ha parlato con la gente e ha fatto gradualmente le nomine. Nominare vescovi scelti fuori dalle diocesi di destinazione penso sia stata la sua policy: lo ha fatto con tutte le sedi vacanti eccetto una. Così a Dundee, dove lavorai per 10 anni svolgendo vari incarichi a livello diocesano, è stato mandato un prete di Durban, mentre io sono a Ingwavuma.
Penso che tale policy porti dei vantaggi, soprattutto perché obbliga a capire la realtà nuova e sconosciuta in cui si è chiamati a lavorare.

Qual è la novità di Ingwavuma?
Anche se il vicariato di Ingwavuma confina con la diocesi di Dundee, si tratta di una realtà diversa. Dundee porta l’impronta dei francescani e dei missionari della Consolata; Ingwavuma quella dei Servi di Maria. Sono arrivati qui nel 1948; in 60 anni hanno evangelizzato questa zona; esistono ancora alcune chiesette che risalgono ai benedettini di Santa Ottilia, primi missionari nello Zululand, ma a fondare e sviluppare la Chiesa sono stati i Servi di Maria della provincia americana.
Per molti anni, come mi hanno raccontato, andavano di famiglia in famiglia chiedendo alla gente di mandare i figli a scuola, facendo dell’insegnamento il principale mezzo di evangelizzazione, finché il governo tagliò i sussidi alle scuole cattoliche e divenne impossibile portarle avanti. Verso gli anni ‘70 passarono a costrure cappelle e seguire le piccole comunità.

Dopo tre vescovi Servi di Maria, come sei stato accolto?
Forse i serviti stessi hanno chiesto un vescovo esterno al loro ordine. Mi hanno accolto tutti con molto calore: Servi di Maria e clero diocesano, religiose e laici, anche se ero un illustre sconosciuto. Fin da subito ho detto alla gente che volevo conoscerla e che avrei visitato tutte le comunità, ma senza preavviso. Ho spiegato pure che quando non capiscono cosa dico, devono dirmelo. E continuo a insistere: «Vi prego, non dite: “Yebo baba, yebo baba” (sì padre), anche se non mi capite».

E com’è andata?
Hanno tentato di farmi cambiare idea: era per loro inconcepibile accogliere il vescovo senza fare festa e dargli così una buona impressione. Spiegai che volevo vedere «una domenica normale», come quelle che vivono settimanalmente i loro preti. E i preti mi hanno aiutato in questo, dicendomi dove e quando andare, dandomi qualcuno per guidarmi, ma mai hanno avvisato la gente del mio arrivo. Ho incontrato comunità vive che preparano liturgie vibranti e partecipate anche in assenza del prete; altre invece si sono mostrate paurose e fragili. In tutti i casi c’è stata una sincera gratitudine. «Siamo felici che ti ricordi di tutti noi e diciamo grazie perché percorri le stesse strade che fanno ogni domenica i nostri preti, senza preoccuparti di distanze e altre difficoltà che incontri per venire a visitarci». A Ingwavuma, alla fine della messa mi hanno detto: «Il tuo predecessore è arrivato giovane ed è invecchiato insieme a noi; anche tu sei arrivato giovane: ti auguriamo di invecchiare tra di noi».

Quanti fedeli conta il vicariato?
Il vicariato di Ingwavuma (nome della prima missione aperta nel suo attuale territorio) si estende da nord a sud per 250 km e per 80 km da est a ovest; conta circa 600 mila abitanti, dei quali 25 mila cattolici (4% circa), sparsi in 5 parrocchie o missioni: a nord Ingwavuma e Ngwanase confinanti con il Mozambico, al centro Ubombo con le omonime montagne, a sud Mtubatuba e Hlabisa, dove c’è la cattedrale. Ogni parrocchia conta da15 a 20 comunità: 75 nell’intero vicariato. Le ho visitate quasi tutte.
Fino a sette anni fa tutti i preti, vescovo compreso, erano Servi di Maria, eccetto un diocesano. Alla fine del 2004 sono stati ordinati i primi preti diocesani. Oggi nel vicariato lavorano 14 preti: 8 diocesani e 6 Serviti. Ci sono anche due comunità di suore.
In sette anni c’è stato un ricambio di personale, con i Servi di Maria dimezzati (ormai tutti sopra i 70 anni) e sostituiti da giovani preti diocesani. Il passaggio generazionale obbliga a un cambiamento di visione pastorale e missionaria, ma soprattutto di prospettive, di aspettative e metodi, di cui ho già parlato ai fedeli: i Serviti, quasi tutti stranieri, avevano aiuti dall’estero e potevano sostenere economicamente il vicariato; i diocesani invece dovranno essere sostenuti dalle proprie comunità.

Quali sono le priorità affrontate in questi tre anni?
Quando arrivai nel vicariato, rimasto senza vescovo per tre anni, tutti si aspettavano che prendessi subito delle decisioni. Invece ho radunato preti e suore per presentarmi, dire la mia storia e domandare cosa si aspettavano da me. Poi ho chiesto quali fossero secondo loro le priorità pastorali da affrontare. Dopo aver messo a fuoco le varie urgenze, dissi loro che, considerando le nostre forze limitate e la vastità del territorio, bisognava scegliere una priorità alla volta: realizzata o avviata la prima, passare alla seconda.
Tutti hanno scelto la catechesi, nel suo senso più ampio, come cammino di fede vissuta quotidianamente, esperienza personale di Cristo e impegno per farlo conoscere a tutti.
Per realizzare tale cammino c’è bisogno di catechisti. Abbiamo mandato dieci persone, due per parrocchia, alla settimana di formazione per catechisti al centro Pax Christi di Newcastle; corso che si tiene ogni anno all’inizio di gennaio, tempo di ferie, dato che molti dei nostri catechisti sono anche maestri. Dopo tale corso essi erano preparati per formare altri catechisti. Si sono costituiti in due équipes e nei finesettimana di marzo e di maggio 2010 hanno tenuto il loro primo corso nei centri di Hlabisa e Ngwanase. La risposta ha superato ogni aspettativa: oltre 150 persone, provenienti da tutte le missioni, hanno partecipato a tutti gli incontri e li hanno animati attivamente. Anch’io sono stato presente a tutti questi raduni: ho compreso ancora una volta che la presenza del vescovo, anche senza dire una parola, è per tutti un segno di quanto io ritenessi importante ciò che stavano facendo.

Quale sarà la seconda priorità?
Il cammino è ancora lungo. La seconda priorità sarà la preparazione di un’équipe itinerante per la formazione di laici, animatori e leader di comunità. La preparazione di questa squadra, di cui farò parte io stesso, avverrà tramite il corso apposito di tre settimane organizzato a Johannesburg dal Lumko Institute, organismo della Conferenza episcopale Sudafricana. Esso ci darà un linguaggio, una visione comune e insieme potremo anche vedere come tradurre tutto ciò nella nostra realtà rurale.

A livello sociale quali sono gli impegni del vicariato?
Quando andai a chiedere aiuto in Germania, il direttore di una Ong mi accolse con queste parole: «Per noi il Sudafrica è una nazione ricca: devi convincermi che io devo aiutarti». Gli posi sotto gli occhi un dossier con le statistiche ufficiali governative, mostrando come il distretto di Khanyakude (territorio del nostro vicariato) è uno dei due distretti più poveri del Sudafrica, soprattutto a causa dell’Aids, che colpisce il 30-40 per cento della popolazione. La pandemia ha falciato praticamente quelli della mia generazione, tra i 40-50 anni, lasciando tantissimi orfani che vivono per strada o in baracche, presso nonni e parenti in condizioni di miseria.
Nel vicariato non esiste alcun orfanotrofio né struttura specifica per tali bambini, ma abbiamo progetti di aiuto per più di 3 mila orfani, con lo scopo di farli crescere nel proprio ambiente e comunità. Cioè, provvediamo a costruire casette a due stanze per gli orfani e le persone che se ne prendono cura. Tale progetto è spesso complesso: bisogna procurare certificati di nascita e documenti di identità di cui sono sprovvisti molti bambini e chi li accudisce; assicurare il diritto di proprietà del terreno dove si costruisce la casa, ottenendo il riconoscimento da parte dell’autorità tribale; quindi seguire le pratiche per iscrivere i bambini agli uffici di assistenza sociale e alla scuola, fornire loro uniformi e materiale scolastico, visitare i beneficiari del progetto per conoscere i loro bisogni e controllare che tutto proceda bene…
Sono già state costruite una cinquantina di case e altrettante sono già sponsorizzate dalla Germania. Nella zona di Hlabisa il progetto è iniziato da poco; la maggior parte delle realizzazioni sono nel nord del vicariato, dove aiutiamo anche molti orfani mozambicani.
In questa zona direttori o ex direttori di scuola hanno cominciato a prendersi cura di alcuni orfani: ora ne aiutano più di mille. Li ho molto lodati, perché questa volta l’iniziativa non parte da uno straniero, prete o suora, ma da laici cattolici, che si prendono cura della propria gente. E noi ci serviamo di loro per costruire queste case: essi identificano chi ne ha veramente bisogno e continuano a seguirli nella loro situazione scolastica e sanitaria.

Tu hai una lunga esperienza anche nella prevenzione del virus e cura dei malati di Aids.
Come chiesa cattolica abbiamo affrontato il problema molto prima del governo. Anzi, da parte governativa c’è stata una grande confusione: nel 1998 Mbeki aveva fatto un bellissimo discorso sulla gravità della situazione, ma, diventato presidente si è rimangiato tutto, dicendo che l’Aids è una malattia come le altre, che non si trasmette da madre a figlio e che i farmaci antiretrovirali non servono. L’attuale presidente ha aggravato la situazione.
La Conferenza episcopale sudafricana ha avuto un’intuizione geniale: ha istituito uno speciale «Ufficio Aids», con lo scopo di cornordinare la raccolta di fondi delle organizzazioni inteazionali e la loro distribuzione per sostenere i programmi di assistenza ai malati di Aids. Nella mia esperienza a Madadeni e a Daveyton mi bastava pensare un progetto, farlo firmare dal vescovo, presentarlo all’Ufficio Aids a Pretoria e gli aiuti arrivavano regolarmente, rendendo poi conto dell’impiego degli aiuti ricevuti.
Con l’arrivo dei farmaci antiretrovirali, la Conferenza episcopale ha svolto ancora una volta un’azione pionieristica, individuando e organizzando vari centri per la distribuzione dei farmaci e per il controllo dei loro effetti. Uno di essi è il centro San Gabriele a Mtubatuba. Oltre a questo centro, abbiamo una «clinica mobile»: ogni settimana una nostra auto raccoglie i pazienti per strada e li porta in una delle nostre cappelle dove ricevono gli antiretrovirali.
I nostri progetti rimangono ancora all’avanguardia e sono apprezzati per serietà ed efficienza, nonostante la modestia delle strutture: un laboratorio Toga sistemato all’interno di un container, con macchinari che eseguono analisi sul posto, senza attendere i risultati dagli ospedali delle grandi città con un notevole risparmio di tempo. A ciò si deve aggiungere che i nostri operatori arrivano nei luoghi dove nessuno arriva.

Quanti sono i pazienti curati con antiretrovirali?
Al momento nel vicariato sono 1.300 i malati di Aids che prendono regolarmente antiretrovirali. I soldi provengono dagli Stati Uniti, tramite il Pepfar (Presidencial emergency plan for Aids releif). A partire dal 2013 tali aiuti non verranno più versati a chiese o organismi particolari, ma ai singoli governi. Abbiamo aperto un dialogo con gli amministratori locali, dicendoci disposti a continuare il nostro lavoro, purché ci vengano foite le medicine, che sono la parte più costosa del progetto; altrimenti dovremo chiudere. Il governo ha risposto che vuole prendersi la totale responsabilità dei pazienti in questione: al nord 600 di essi sono stati trasferiti in 10 giorni all’ospedale di Manguzi, vicino al Mozambico; quelli in cura nel centro di Mtubatuba passeranno gradualmente agli ospedali locali entro il mese di maggio 2012.

E come l’avete presa?
È giusto che il governo si assuma le sue responsabilità, dopo che la Chiesa ha svolto un ruolo di supplenza in assenza dello Stato. Ma rimangono delle perplessità. La gente non si fida del servizio statale: teme che la distribuzione dei farmaci non avvenga in modo regolare, specialmente in caso di scioperi, che possono durare a lungo come è capitato l’anno scorso. Inoltre, molte persone, a causa dello stigma ancora legato all’Aids, rifiutano di recarsi all’ospedale locale, per paura che amici e colleghi di lavoro vengano a scoprire la loro malattia. E senza la regolare assunzione di antiretrovirali il paziente muore, anche per un semplice raffreddore.

Quale futuro?
È chiaro che a livello di vicariato dovremo rivedere il nostro lavoro con i malati di Aids. In un incontro con i responsabili del progetto Aids abbiamo fatto due scelte: continuare i progetti a favore degli orfani, pensando alle generazioni di domani; intensificare il programma di formazione Education for life, (educazione per la vita), destinato soprattutto ai giovani, poiché il problema della prevenzione rimane una grande sfida. Non manca l’informazione da parte di mass media e governo, per prevenire Aids, ma non bastano i preservativi; occorre formare alla responsabilità e offrire motivazioni per sfidare preconcetti mentali, culturali e di situazioni concrete.
Ma c’è dell’altro. Sono entrato da poco in contatto con la dottoressa Barbara Ensoli, cornordinatrice del centro nazionale Aids dell’Istituto superiore di sanità, dove si sta studiando un vaccino per prevenire l’HIV e neutralizzare l’Aids. La fase preventiva richiede ancora tempo, le sperimentazioni terapeutiche invece stanno dando buoni risultati. Tali esperimenti, grazie a un programma di cooperazione a livello di governi, sono in corso anche in Sudafrica. In un incontro con Barbara e il suo team, abbiamo presentato il nostro lavoro nel vicariato e sono rimasti impressionati dalla competenza tecnica dimostrata dai nostri operatori nel rispondere alle loro domande. La conclusione è stata: «Dobbiamo lavorare insieme». Chiusa una fase, se ne sta aprendo un’altra. Lo speriamo.

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Chicco di caffè in acqua bollente

Dalla fuga alle luci del palcoscenico

La storia di PascalJunior Mtombo sfuggito all’eruzione del vulcano Nyiragongo (Goma, Rep. Democratica del Congo) nel 2002 ed approdato a Dar es Salaam, in Tanzania, diventando leader di una band di successo. Il sogno della famiglia era di farlo lavorare in ufficio, il suo quellodi cantare, fin dall’età di 12 anni.

È una calda e tranquilla giornata quando giunge la notizia della terribile eruzione vulcanica: c’è appena il tempo per fare un fagotto con l’essenziale ed organizzare la fuga. Scappano tutti: è il caos. Non importa se ricco o povero, la lava non risparmia nessuno, le automobili sono inutilizzabili poiché l’unica strada è stata distrutta. Tutti scappano con un obiettivo comune: la salvezza. Junior è soltanto un ragazzo, orfano di madre, come tanti dalle sue parti. L’incoscienza dell’età lo spinge a sfidare la lava, attende il suo arrivo con alcuni amici e gioca a lanciarvi dentro i sassi per osservare cosa succede. Non immagina, mentre inizia il suo cammino, che quella stessa lava, dopo averlo allontanato dalla sua casa e dal suo villaggio, sarà il primo passo di un cammino che lo condurrà alla realizzazione del suo sogno: diventare un cantante professionista!
Quando oggi gli domando se abbia mai pensato che in fondo quella fuga è stata la prima tappa verso il suo sogno, sorride dicendo di non credere che sia così. Mi spiega: «È stato determinante soprattutto il periodo della guerra: la quotidianità era dura». E sottolinea: «La vita dopo l’eruzione è tornata alla normalità in pochi mesi, mentre i problemi grossi erano appunto la situazione instabile e disordinata del conflitto».
L’esodo
Conoscendolo scopro quali sono le sue armi vincenti: impegno, passione e determinazione. Oggi (2011) Junior ha 25 anni, presentato da un amico comune mi offre gentilmente ospitalità nella sua casetta di Dar es Salaam. Apre le porte del suo mondo, ci facciamo lunghe chiacchierate e risate, discorsi a 360°: dalla politica alle ragazze, dalla musica alle esperienze di vita vissuta. Nasce da subito un’intesa, una condivisione del presente e del reciproco passato, di sogni, ambizioni e speranze per il futuro.
Junior rievoca, apparentemente senza eccessiva tristezza, il dramma dell’eruzione e mi racconta alcune vicende come quella di molti anziani che, ritenendo di essere al sicuro dopo l’eruzione, non abbandonarono le proprie case. Mi piace pensare che nonostante in cuor loro conoscessero il destino che li attendeva, abbiano preferito rimanere e morire nella loro terra.
Dopo alcune ore di viaggio – continua Junior -, arriva al confine con il Ruanda insieme a migliaia di altri profughi: dei bus li scortano fino ad un campo allestito per l’occasione nella cittadina di Mudende. Il campo è organizzato nella sede in disuso dell’università, distrutta durante il genocidio del 1994. È accolto con cortesia e gentilezza dai ruandesi. Ancora oggi sorride al ricordo dei biscotti ricevuti dagli addetti del campo profughi.
L’area è molto grande, i tetti sono distrutti, non ci sono materassi né porte e finestre, i servizi igienici sono inesistenti, ci sono tantissime persone, l’atmosfera comprensibilmente tesa e triste, ma Junior non si perde d’animo e trova perfino la forza di cantare. Trascorre lì tre mesi, la più grande risorsa sono i profughi stessi: si crea una grande famiglia, ci si aiuta a vicenda e si stringono amicizie.
Finita l’emergenza torna al suo villaggio e decide quasi immediatamente di partire per il Burundi: vuole concentrare le energie per realizzare il suo obiettivo. Non può contare sull’aiuto del padre con il quale non ha rapporti da tempo; la famiglia è troppo povera per poter pensare a lui. Lotta e fatica per racimolare i soldi necessari al viaggio. Parte per Bujumbura dove conta sull’aiuto di un amico che gli aveva promesso vitto ed alloggio, ma al suo arrivo alla stazione non c’è nessuno ad attenderlo. Non ha soldi, non conosce la città, si aggrappa allora a Didier, un ragazzo burundese conosciuto lo stesso giorno sul bus. Didier capisce la situazione, non rimane indifferente, lo invita a casa sua. Un giorno, camminando per strada, si sente chiamare, ritrova un amico che aveva completamente perso di vista da anni, in quel momento pensa: «È un angelo». Richard, il suo amico d’infanzia si trova lì in vacanza per la chiusura estiva della scuola ed è venuto a trovare la famiglia. Presenta Junior agli amici presso i quali soggioa e questi lo accolgono nella loro casa. «Sono un ragazzo molto fortunato – commenta Junior -, la mia vita è stata avventurosa, tante cose sono state dure ma poi si sono risolte!».
Musica, che passione
All’Alliance Française di Bujumbura incontra la cantante burundese Diana Kanyamozi. La conoscenza dà buoni frutti ed inizia a cantare con lei nel ruolo di back up, ovvero accompagnatore musicale. Non c’è alcuno stipendio ma almeno i pasti sono garantiti. Diana gli concede anche di cantare una canzone durante uno spettacolo, una buona opportunità di affacciarsi al palcoscenico. Poi, in una città dove il panorama musicale non lascia intravedere grandi opportunità, arriva inaspettatamente un famoso cantante franco-congolese: Lokua Kanza, proprio il cantante preferito di Junior. Motivo della visita? Ascoltare artisti locali per scoprire qualche nuovo talento: un’occasione semplicemente da non perdere!
Junior Gringo – lo chiamano così fin da bambino, dopo la proiezione di un film weste – è solo un ragazzo, non ha né invito né credenziali per poter avvicinare un personaggio così importante. Prova a chiedere il permesso agli organizzatori, ma la risposta è un sorriso ironico: è già tutto stabilito, nomi dei cantanti e degli strumentisti che faranno l’audizione. È molto triste vedersi chiuso questo spiraglio. Ma Junior non si dà per vinto, il giorno dell’evento aspetta la star davanti alla porta dell’Alliance Française, e quando questi arriva gli si fionda incontro per salutarlo. A sorpresa, Lokua ricambia il suo abbraccio. A quel punto Junior gli spiega di voler cantare ma di non essere nell’elenco e così è invitato dall’esaminatore in persona alle audizioni. Quando Lokua chiede di ascoltare i candidati separatamente, tutti rimangono interdetti. Pensano di dover cantare e suonare in gruppo, e la novità li intimidisce. Alla richiesta di chi voglia rompere il ghiaccio nessuno alza la mano… nessuno tranne Junior: ora o mai più! Sono presenti giornalisti, fotografi e tanti ospiti, lui è timidissimo, esordisce cantando con le mani in tasca. Conosce bene le canzoni di Lokua e ne canta una; questi si compiace e sorride. Alla fine riceve l’applauso ed un pollice in alto: canta bene, ha una bella voce ma non ha il portamento di un cantante professionista. La sera stessa Lokua lo invita a cena, Junior ricorda ancora queste parole: «Mi raccomando, non lasciare la musica, sei giovane e bravo, ancora qualche anno e sarai pronto!».
Quel giorno Junior riceve un’ulteriore conferma circa la sua strada, essere apprezzato da un artista del calibro di Lokua Kanza vuol dire che ha davvero il potenziale per diventare professionista e raggiungere il successo.
In Tanzania via Uganda
Quell’incoraggiamento lo spinge a cercare fortuna altrove; dal Burundi all’Uganda il passo è breve, senza guardarsi indietro prosegue il suo viaggio. Approda a Kampala, una città grande ed animata dove spera in nuove opportunità. Il primo periodo si sistema da alcuni parenti della mamma, dopo solo due settimane viene ingaggiato da una jazz band. Mi confessa: «Durante il provino erano molto scettici perché non sapevo l’inglese, mi hanno accettato per la bellezza della voce».
Durante il periodo ugandese Junior colma la lacuna linguistica ed arricchisce il suo bagaglio culturale. Oggi ricorda con orgoglio di essere riuscito a pagarsi una stanzetta per la prima volta in vita sua. Soggioa circa tre anni in quella città, poi decide che è il momento di cambiare, di fare nuove esperienze.
Tuttavia le cose non vanno come aveva pianificato: vuole raggiungere Dar es Salaam, ma il denaro finisce presto viste le spese di vitto ed alloggio a Bukoba nell’attesa della nave per attraversare il lago Vittoria, il permesso per l’ingresso in Tanzania ed il trasporto. Il suo peregrinare lo conduce nel nord della Tanzania, nella città di Mwanza, ma è un disastro: per quasi due anni soffre la fame e dorme sulle sedie di plastica dello stesso locale nel quale canta, un postaccio dove la retribuzione è a stento sufficiente per i pasti. È il periodo più brutto della sua carriera e forse della sua vita.
Fortunatamente durante un concerto stringe amicizia con Samuel, un ragazzo israeliano. Tramite lui conosce Josephat, un pastore protestante della Glory of Christ Tanzanian church, che lo invita a raggiungerlo nella sua abitazione di Mikocheni, un sobborgo a nord di Dar es Salaam. Questi lo adotta come un figlio e lo introduce nella sua chiesa dove intraprende la carriera di cantante Gospel. La chiesa protestante di Mikocheni conta migliaia di fedeli che ogni domenica affollano il grande spazio dedicato alle funzioni. In quell’ambiente Junior si fa subito notare ed apprezzare da tutti.
L’incontro con Deo Mwanambilimbi, fondatore e cantante dei Kalunde band e suo vicino di casa, gli apre la strada alla carriera di professionista. Deo un giorno lo invita ad un concerto e gli fa cantare una canzone probabilmente solo per gioco. Sentendolo, rimane così colpito da scritturarlo. La band è conosciuta ed apprezzata, vincitrice per due volte consecutive – 2007 e 2008 – del Tanzania Music Awards.
Lo scorso 20 gennaio ho accompagnato Junior e Deo al Tanzania Music Awards 2011, l’evento nazionale più importante che premia le migliori band, canzoni e cantanti! Il massimo riconoscimento al quale possono ambire gli artisti locali. Il fatto di partecipare è già un bel successo per Junior.
cuor sincero
Junior è un ragazzo semplice, onesto ed affettuoso con ottime idee e fantasia. Non lesina energie e ci mette passione, si diverte, gli piace il suo lavoro, è sempre a caccia di nuove ispirazioni. È giovane ed affascinato dall’idea di conquistare un titolo. Canta e scrive canzoni in Inglese, Francese e Swahili. Il suo repertorio include musica modea e tradizionale tanzaniana, congolese ed africana, pop e cover inteazionali.
È l’anima del gruppo, il jolly della band, a volte fa il burlone e condisce tutto con ironia ed allegria. È colui che può creare da un momento all’altro la variante vincente, il fuori programma. Grazie al suo carisma ed alle sue potenzialità è diventato un punto di riferimento: e non si diventa leader per caso.
Non sono un intenditore di musica, apprezzo la sua voce e le sue doti artistiche, sono testimone delle sue qualità umane. Ha un sorriso sincero, coinvolgente e convincente. Dai suoi occhi traspare un’insolita dolcezza, la stessa percepita nella sua voce che però sa essere anche grintosa ed energica. Sa catturare l’interesse dell’ascoltatore e trasmettere emozioni. Nel suo quartiere tanti conoscono Junior Gringo, gli vogliono bene, non potrebbe essere altrimenti, in questo modo mi spiego come mai in passato sia stato sempre aiutato ben volentieri da tutti, di certo non è stata solo questione di fortuna.
Junior mi ha raccontato una storia narratagli dalla madre quando era bambino. «Ci sono tre pentole, nella prima una carota, nell’altra un uovo e nell’ultima dei chicchi di caffè. Messe le pentole sul fuoco dopo una decina di minuti la carota si cuoce e diventa morbida, l’uovo diventa solido ed i chicchi di caffè rimangono invariati colorando l’acqua». La metafora riconduce a tre tipologie di uomini: i primi come le carote sembrano duri e pronti a tutto, ma alla prima difficoltà si “ammorbidiscono”; i secondi apparentemente fragilissimi come le uova crude, all’occorrenza possono rivelarsi capaci di reagire con maggiore solidità; i terzi come il caffè apparentemente non mutano ma riescono ad adattarsi a tutte le situazioni senza problemi.
Parlando di sacrifici, rischi, impegno e tenacia per realizzare i propri progetti Junior Gringo ha commentato: «È come entrare nel cerchio dei pericoli e delle sfide, c’è chi proprio non vuole sapee e rimane fuori. Chi entra ma rimane bloccato ed impaurito non sapendo cosa fare. Chi entra, lo attraversa e meravigliato esclama: ce l’ho fatta!». Ed ha concluso: «Molti ragazzi pensano positivo, molti altri negativo. In Congo ci sono tantissimi cantanti più bravi di me solo che non hanno creduto di potercela fare o non hanno avuto possibilità. Tu sei cresciuto insieme agli amici e hai fatto con loro le scuole, poi ognuno ha preso la propria strada, probabilmente qualcuno ti avrà detto: “Sei pazzo ad andare in Africa!”. Un tuo amico leggendo il tuo articolo potrebbe pensare che non sia il migliore, o che non scrivi per la migliore rivista in circolazione, però tu sei partito per un paese lontano, non sei rimasto a casa scrivendo comodamente dalla tua stanza, sei venuto qui con impegno e volontà. Ho trascorso molto tempo chiedendomi se avrei mangiato il giorno dopo: quando arriva un’opportunità bisogna impegnarsi al massimo e darsi da fare per realizzare i propri sogni. Bisogna combattere, lavorare sodo per vivere come un re».

Francesco Cosentini

Francesco Cosentini




Olocausto Africa

La prima grande fame del ventunesimo secolo

Catastrofe umanitaria. È quello che si sta consumando in 5 paesi del Coo d’Africa. Oltre 12 milioni di persone sono interessate, mentre 390.000 bambini sono a grave rischio di morte per fame. Eppure siamo nel XXI secolo. Ma a noi (europei) interessano i Suv, gli
i-phone e, ovviamente, il calcio. E ci sentiamo tranquilli regalando un euro con l’sms.
L’ennesima crisi africana ha cause ben precise. La siccità è solo il detonatore di una geopolitica omicida durata oltre 20 anni.

«La crisi globale del cibo e dell’acqua è arrivata alla capanna di Safia: lei non può più comperare farina, riso, fagioli, latte in polvere. I prezzi sono cresciuti enormemente. La terra dei campi per piccole o grandi coltivazioni è spaccata, arida, polverosa. Safia non riesce più a trovare un po’ d’acqua da bere o per cucinare. La siccità ha devastato il gregge delle sue capre, ha scomposto quello delle pecore dei suoi vicini, ha distrutto la forza delle mandrie di mucche e cammelli delle tribù limitrofe. È il caos». Chi parla è padre Franco Cellana, superiore dei missionari della Consolata in Kenya. Si riferisce alla grave crisi alimentare che sta colpendo intere regioni dell’Africa dell’Est.
Safia è un emblema di quello che sta succedendo ad oltre 12 milioni e mezzo di persone in cinque paesi: Kenya (3,7 milioni), Etiopia (4,8), Somalia (3,7) e Gibuti (165.000). Ma anche in Eritrea, sebbene il regime dittatoriale di Afeworki continui a negare. Una crisi epocale, che le Nazioni Unite hanno classificato in alcune regioni del centro Sud della Somalia con un nome tragico: carestia. La memoria storica riporta indietro agli anni 1984-85 quando una crisi analoga colpì Etiopia e Sud Sudan, causando la morte «per fame» di centinaia di migliaia di persone. E poi successivamente alla fine degli anni ’90.
I dati dell’Unicef (agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia) parlano di 1,85 milioni di bambini coinvolti di cui 780.000 sono malnutriti e la metà soffre di «malnutrizione acuta». Ovvero fame.
«Nella Somalia che è la più colpita, i vecchi cercano di combattere la fame con un liquido masticato da un ramo spinoso chiamato jerrin mentre anche i loro bambini vagano per la savana in cerca di arbusti liquorosi per vincere gli stimoli della fame» continua padre Cellana.
Ma oggi esistono i «sistemi di allerta precoce», ovvero complessi algoritmi che sintetizzano dati climatici (piogge), prezzi del cibo, produzione agricola e hanno il compito di mettere in preallarme governi, organizzazioni inteazionali e agenzie umanitarie. Avvisaglie di una possibile crisi erano infatti già state segnalate ad ottobre 2010. In seguito, una cattiva stagione delle piogge ad aprile 2011 ha contribuito al disastro. Le Nazioni Unite parlano di una siccità tra le più acute degli ultimi decenni.
Così in primavera è iniziato l’esodo di popolazioni dalle zone più colpite, ovvero dal centro e Sud della Somalia. La gente abbandona i propri villaggi alla ricerca di cibo e acqua. Fuga verso Mogadiscio, la capitale della Somalia, dove è più facile accedere agli aiuti umanitari e fuga verso i campi profughi nel Sud Est dell’Etiopia e Nord Est del Kenya. L’Alto Commissariato per i rifugiati (Unhcr) stima un afflusso di 1.500 persone al giorno nei tre campi di Dadaab (Kenya), che ha portato la popolazione dai 90.000 previsti dalle strutture agli oltre 440.000 facendone il complesso di rifugiati più grande del pianeta.
Il tutto nell’indifferenza totale del mondo. Fino a quando Papa Benedetto XVI ha lanciato un appello per le popolazioni colpite, all’Angelus di domenica 17 luglio. Anche le Nazioni Unite si sono mosse, decretando, tre giorni dopo, lo stato di carestia. Finalmente la crisi ha guadagnato le prime pagine dei maggiori quotidiani del mondo e la Fao ha convocato una riunione straordinaria il 25 luglio, che si è conclusa con una richiesta di fondi per rispondere all’«emergenza umanitaria».

Le cause
Ma le cause della fame non sono solo climatiche.
Innanzitutto in Somalia, dopo la crisi politica del 1991 e la caduta del regime di Mohamed Siad Barre, non c’è più stato un governo stabile, che avesse il controllo dell’intero territorio nazionale. Il paese è caduto prima nelle mani dei «signori della guerra», poi delle «corti islamiche», infine di Al Shabaab, una costellazione di gruppi estremisti legati ad Al Qaeda. A questi si oppone il governo federale di transizione (Tfg), con sede a Mogadiscio, appoggiato dalla Comunità internazionale e da una missione dei peacekeeping dell’Unione Africana, Amisom (composta da circa 9.000 militari ugandesi e burundesi).
La guerra civile, che in Somalia va avanti da 20 anni, e l’assenza di uno stato ha negato qualsiasi possibilità di politiche agricole e di protezioni contro eventi climatici catastrofici, come la siccità.
In secondo luogo la crisi globale dei prezzi alimentari ha colpito ancora più duramente nel Coo d’Africa, dove la produzione agricola resta dipendente dai fenomeni atmosferici. I prezzi del cibo sui mercati locali sono aumentati notevolmente e la gente non è più in grado di comprare la farina e gli altri alimenti di base.
Marco Bertotto, direttore di Agire (consorzio di undici Ong italiane attive sul fronte delle emergenze umanitarie) è critico su come questa crisi sia stata raccontata dai media: «L’immagine che è passata è stata di una ennesima crisi in Africa, con i bambini che muoiono di fame e per la quale non si può fare nulla. Senza raccontare la serie di fattori che hanno portato a questo che non è un disastro naturale».
La situazione ha infatti origini molto più complesse: «La crisi ha una componente naturale legata ai cambiamenti climatici, ovvero aspetti dipendenti dai cicli delle piogge,  poi ci sono i problemi di restrizione della mobilità delle persone a causa della guerra, di anni di politiche agricole sbagliate e sfruttamento del territorio scorretto. Ad esempio l’assenza di investimenti in campo agricolo o investimenti mal gestiti, favorendo le monoculture estensive con finalità di esportazione piuttosto che appoggiando le comunità locali». E conclude: «L’emergenza in Africa orientale è stata provocata dall’uomo e non è ineluttabile».

La risposta del mondo
La macchina umanitaria si è quindi messa in moto a luglio.
Le Nazioni Unite hanno chiesto circa 2,4 miliardi di dollari per fronteggiare la crisi. Bertotto fa i conti: «Finora solo il 58% è stato promesso, neanche stanziato. Poi manca oltre un miliardo. C’è quindi un problema di inadeguatezza delle risorse per far fronte a questa emergenza.
Nel corso del mese di agosto c’è stato un aumento della capacità di risposta delle agenzie umanitarie, dovuto al fatto che alcune cose si sono mosse, i soldi sono iniziati ad arrivare e in parte è aumentato l’accesso in Somalia. Questo ha permesso non tanto di migliorare la situazione ma di impedie il peggioramento, perché sul terreno la situazione è critica».
Secondo Bertotto il «picco» della crisi dovrebbe ancora arrivare, in quanto la carestia si sta estendendo ad altre zone.
«Il contesto di intervento delle agenzie umanitarie è molto difficile, soprattutto in Somalia. Ci sono fasce di popolazione che non hanno ricevuto gli aiuti e che realisticamente non li riceveranno mai, perché ci sono zone dove è impossibile arrivare a causa della guerra. Anche le Ong italiane, pur avendo costruito negli anni un rapporto con operatori locali che consente loro una buona presenza, hanno difficoltà». La sicurezza, a causa della guerra, è limitata, mentre in alcuni casi, soprattutto all’inizio della crisi, gli Al Shabaab hanno impedito l’intervento delle agenzie umanitarie, accusandole di strumentalizzare la carestia.
«Nei gruppi Al Shabaab si trovano insieme elementi ideologizzati da correnti islamiche estremiste e fazioni di origine clanica insoddisfatti della situazione attuale» dice monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico della Somalia (già nostro ospite su MC marzo 2010).
E continua: «Sì, è vero che hanno posto ostacoli a diverse agenzie umanitarie e dell’Onu, però hanno anche lasciato che organizzazioni come il Cicr (Comitato internazionale della croce rossa, ndr) e altre, soprattutto di origine musulmana, agissero nei territori da loro controllati».
Parlando di cosa succede sul terreno: «La situazione nel centro Sud Somalia rimane molto grave a causa dell’insicurezza e della siccità che ha provocato la carestia. Coloro che possono continuano a cercare di sopravvivere rifugiandosi in Kenya o nel Sud Ovest dell’Etiopia, ma anche in altre zone del cosiddetto Ogaden (Etiopia dell’Est, ndr). Almeno centomila sono arrivati nella zona di Mogadiscio in quanto accessibile al mare e ora quasi tutta sotto controllo del governo di transizione».
Anche la Caritas Italiana sta intervenendo per portare soccorsi, e ha messo a disposizione 700 mila euro (nel momento in cui si scrive la raccolta dei fondi è in atto) attraverso le Caritas nazionali. Continua mons. Bertin: «La Caritas agisce nei campi di rifugiati del Kenya e dell’Etiopia. In Somalia interviene per interposta persona, ma non posso precisare né dove né come per ragioni di sicurezza dei nostri partner locali».
«La situazione sta peggiorando perché ci si rende sempre più conto dell’estendersi del territorio colpito dalla siccità – racconta Paolo Beccegato, responsabile dell’area internazionale di Caritas Italiana -. Va sottolineato peraltro che l’insicurezza rende ancora più precaria la situazione della popolazione, invogliandola ad andare a rifugiarsi da qualche parte. Ciò nonostante, piccoli interventi in varie località sono ancora possibili, grazie a organizzazioni locali che godono la fiducia della Caritas Somalia, che Caritas Italiana sostiene. Non solo, ma ci sono concrete possibilità che questi interventi aumentino, limitando così l’esodo della gente».

La tattica di Al Shabaab
Gli Al Shabaab con una mossa unilaterale si erano ritirati da Mogadiscio il 6 agosto scorso. Ma questa, celebrata come una vittoria dal Tfg, non è altro che una mossa tattica. E gli scontri sono continuati, tant’è che a inizio settembre un conflitto a fuoco tra governativi, Amisom e non precisate «milizie armate» ha causato 15 morti e oltre 20 feriti gravi. Sul campo è caduto anche un cameraman malese, Noramfaizul Mohd Nor. Questo ha causato il ritiro di tutti i 54 operatori umanitari della Malesia.
La diplomazia arranca e domenica 4 settembre, sempre a Mogadiscio, è iniziata la conferenza consultativa, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per definire il futuro del governo transitorio. Oltre al Tfg si sono riuniti per tre giorni i responsabili della regione auto proclamata autonoma dello Puntland e di altri territori semi autonomi. È stato pure firmato un documento politico che dovrebbe portare a una nuova Costituzione e ad elezioni nell’agosto 2012. Ma né il Somaliland (Nord della Somalia) auto proclamatosi indipendente nel 1991, né gli Al Shabaab sono rappresentati. Difficile, in questo modo, trovare soluzioni condivise da tutti.

La «carestia» si estende
Intanto le Nazioni Unite allargano sempre più la zona somala definita sotto «carestia», che sul campo significa un aumento delle persone soggette a rischio di morte per fame e pandemie. Colera, morbillo, malaria si diffondono quando il fisico è debole perché sotto alimentato.
A migliaia, intere famiglie anche con bimbi piccoli, tentano il viaggio della disperazione per raggiungere i campi profughi, già affollati da centinaia di migliaia di persone. Dichiarando anche la zona di Bay (sotto controllo degli Al Shabaab) in stato di carestia, sono ormai 6 le regioni somale più colpite e altre 750 mila persone sono a rischio.
«Tutti gli anni, ciclicamente – sostiene Marilena Bertini, presidente dell’Ong Comitato di collaborazione medica (Ccm), da tempo impegnata nell’area – si registrano situazioni drammatiche per la salute e la sopravvivenza delle persone legate ai conflitti in atto, alla povertà e alle condizioni climatiche che stanno peggiorando. I bisogni d’intervento sono strutturali e richiedono azioni di lungo periodo. Da sempre il Ccm è a fianco di queste popolazioni e anche in questo momento particolarmente drammatico vogliamo farci portavoce dell’ingiustizia che vivono». Ancora una volta, chi conosce bene la zona, è cosciente che la siccità ha solo fatto precipitare una situazione mantenuta al limite a causa di decenni di interventi e politiche «umane» errate.
Monsignor Bertin sintetizza così le sfide di oggi e di domani: «Le prospettive immediate sono quelle di salvare le vite. Per il futuro bisognerà lavorare di più per la pace e la ricostruzione dello stato».

Marco Bello

Marco Bello