Speranza senza confini

Reportage dalle missioni della Rift Valley: Heka (2)

Diceva Nyerere: «L’istruzione non è un modo per sfuggire alla povertà, ma uno strumento per combatterla». Un sogno rimasto nel cassetto in molte zone del Tanzania, ma non ad Heka, dove i missionari della Consolata lo hanno preso sul serio, dedicando energie fisiche e materiali alla scolarizzazione a cominciare dai più piccoli con la costruzione di asili nella maggior parte delle comunità della parrocchia.

DESERTO ON THE ROAD FINO Ad HEKA
Nell’auto guidata dal diacono Marco Turra, continuo il mio viaggio nel cuore della Rift Valley. Un paesaggio piegato dalla siccità. Scheletri di capanne abbandonate nella sabbia; bambini che pascolano mucche scheletriche. Il vento caldo continua ad abbronzarmi il viso, ormai bruciato da un sole implacabile. Attraversiamo villaggi stremati dal caldo e dalla siccità.
Nonostante il sole sia alto, gruppi di donne con i bambini sulla schiena avvolti nelle kange continuano con metodi arcaici a zappare i campi e a piantare nella speranza che prima o poi arrivi la pioggia. Il detto «la speranza è l’ultima a morire» sarà stato coniato qui. Ci avviciniamo a una pozzanghera che ha riempito un enorme buco nella strada, Marco rallenta e davanti ai nostri occhi un uomo con una tazza riempie un secchio di quell’acqua nera, melmosa, sporca. Alzo la macchinetta e capisco che non ha problemi a farsi fotografare ma il suo sguardo mi ghiaccia il cuore.
Dopo svariate ore arriviamo alla missione di Heka. C’è padre Saverio Diaz ad accoglierci e a offrirci subito da bere. Conosce bene l’effetto del caldo di questi posti. Colombiano, dai modi eleganti, inizia a rispondere alle mie domande con grande discrezione. «Sono stato tanti anni in Colombia. Dopo il 25° anno di sacerdozio ho chiesto di voler andare in missione in un altro continente e così mi hanno mandato in Tanzania. Ad Heka siamo in due: il kenyano Steven Muta e io. Le difficoltà del posto le avrai già capite. L’acqua è davvero un dramma. Abbiamo scavato qualche pozzo ma non basta. Siamo impegnati nella formazione per lo sviluppo di questa zona e della gente attraverso la costruzione di asili, il sostegno e la formazione dei maestri e andiamo a insegnare nelle scuole secondarie perché qui non ci sono nemmeno maestri. Padre Steven infatti insegna oltre che religione anche matematica nelle secondarie per sopperire alla mancanza di insegnanti. Abbiamo 22 asili nei villaggi vicini alla missione. Ciascun asilo ha dai trenta ai centoventi bambini. Il mio obiettivo è costruire asili a dimensione del posto. Qui non si può pensare di fare grandi strutture con costi di gestione enormi. Bisogna ottimizzare e fare strutture semplici, di mattoni non cotti che fanno da asilo durante la settimana e da Chiesa la domenica. Sono strutture che loro possono gestire e mantenere. Io ho sempre puntato sulla collaborazione della gente. Avete bisogno di un asilo?
I genitori portano sabbia, acqua, mattoni, il resto lo mettiamo noi attraverso i nostri benefattori. L’asilo riesce quasi sempre a mantenersi. I genitori pagano 1000 scellini al mese, 6 euro l’anno, per coprire le spese del cibo mentre lo stipendio per la maestra e le divise per i bambini li paghiamo noi. Organizziamo dei seminari di formazione per la gente, per i giovani e per le maestre che di solito vengono scelte dal villaggio quindi non hanno una grande formazione».

GLI ASILI DI PADRE DIAZ
Partiamo alla volta degli asili e ci immergiamo nel bush. Chilometri di terra battuta in un paesaggio che sembra abbandonato quando di colpo spunta un asilo. Ne vedrò diversi. La struttura è simile per tutti: funzionali, colorati, ben tenuti e accoglienti. I bambini sono visibilmente provati dalla fame, ma menomale che almeno qui riescono a mangiare. Padre Saverio mi fa vedere anche una scuola primaria governativa.
«Dicono che hanno speso 6 milioni di scellini per fare i gabinetti. Con quella somma io ci faccio una scuola di mattoni e cemento» precisa il missionario. Arriviamo all’ora dell’uju. Una fila lunghissima di ragazzi aspetta il proprio tuo con la tazza in mano per prendere la razione che gli spetta. Sono davvero tanti. La scuola è semplice, ma piccola per quella moltitudine di ragazzi.
Accanto ad alcuni lotti di terreno padre Saverio mi mostra le aule che sta costruendo proprio perché la scuola è piccola. Andremo a vedere anche un’altra scuola in costruzione finanziata dal S.O.S. di Padova che oltre a finanziare circa 70 borse di studio per ragazzi, sta aiutando nelle costruzioni. Conoscerò un missionario davvero capace di amministrare alla grande quei soldi che per una zona simile sono sempre troppo pochi.
Toiamo alla sede della missione prima che i bambini dell’asilo parrocchiale vadano a casa. Scendo dal fuoristrada che sono letteralmente assaltata da un centinaio di bambini bellissimi che mi vengono incontro, abbracciandomi e prendendomi la mano. Si vede che sono abituati a vedere i volontari. Per niente spaventati come i bambini dei villaggi, iniziano a cantare, a salutarmi in italiano e in inglese.
La scuola è ben tenuta, le maestre sono accoglienti e capaci. Disegni di animali e di fiori avvolgono le pareti estee e intee della scuola. C’è davvero poca differenza con i nostri asili.
Nella missione c’è anche un dispensario costruito e tuttora sostenuto dalla famiglia di Vittorio Bosco di Torino. Il dispensario è gestito dalle suore. È poco frequentato in questo tempo. Una suora mi spiega che tra le malattie maggiormente diffuse ci sono la malaria, infezioni intestinali e infezioni alla pelle dovute alla mancanza di acqua e di igiene. L’aids poi è ormai estremamente diffusa anche qui. Infatti hanno delle stanze apposite per la prevenzione, analisi e terapia dell’aids.
Toiamo nella casa parrocchiale e continuiamo a parlare, mentre aspettiamo che torni padre Steven da scuola per far pranzo.

ASCOLTANDO PADRE DIAZ
Padre Saverio è un profondo conoscitore delle varie etnie del Tanzania. Mi conferma molte cose già dette da altri missionari sui wasukuma e sui wagogo, come il loro perseverare nel vivere in maniera povera e senza migliorare le proprie condizioni di vita e delle case. La motivazione di ciò è dovuta alla loro superstizione: sono convinti che il male viene dall’invidia. Mi racconta la storia di un ragazzo che lui aveva aiutato per continuare gli studi. «Era diventato un bravo falegname e aveva iniziato a lavorare, riuscendo a mettere da parte anche qualche soldo. A un certo punto questo ragazzo si ammala di tumore e muore. Sono andato dalla famiglia dicendo loro che con i soldi che il ragazzo aveva messo da parte, volevo costruire una casa in cemento per loro. I parenti si sono opposti con resistenza per paura che migliorare la loro condizione, potesse portare la gente a ingelosirsi e a fare malefici. Ho comunque costruito la casa per reinvestire al meglio i soldi del ragazzo e la nonna e il resto della famiglia per più di un anno non sono entrati nella casa, rimanevano fuori durante il giorno e la notte tornavano nelle loro capanne per paura della sciagura che poteva abbattersi su di loro».

UNA NUVOLA DI POLVERE
Vedo arrivare una nuvola di polvere… sembra quasi un cartone animato. È padre Steven in moto, di ritorno dalle sue ore di insegnamento ai ragazzi di una scuola superiore. Dopo pranzo mi soffermerò a parlare con lui. Sono solo due i missionari ad Heka. Padre Steven oltre a occuparsi dell’amministrazione della missione, fa catechesi e organizza seminari per i giovani della zona, prepara i catechisti, fa pastorale e segue le jumuiya ndogo ndogo, ossia le piccole comunità di base. Mi ripete gli stessi problemi che ho toccato con mano anch’io.
Con padre Steven c’è un ragazzo, ventenne: Novastus. È un giovane che insegna matematica nelle secondarie. Viene da Sadani, una zona nella diocesi di Iringa, dove i missionari della Consolata hanno una missione. «Ho conosciuto i missionari della Consolata durante la scuola secondaria – racconta -. Quello che mi ha colpito da subito di loro è stato il sacrificio e la capacità di mettere insieme persone di culture diverse con professionalità e stile. Io provengo da una famiglia povera e ho avuto la fortuna di incontrare i missionari della Consolata che mi hanno aiutato non solo a studiare ma anche a crescere, a capire cosa volevo fare, come farlo e chi volevo diventare da grande. Sto bene con loro e vorrei continuare a seguirli proprio per apprendere il loro modo di stare con e in mezzo alle persone».
Chiedo a Novastus come vede il suo paese e cosa possono ancora fare i missionari della Consolata in Tanzania. «C’è uno sviluppo economico molto veloce in Tanzania, che però non va di pari passo con quello sociale. Dal punto di vista politico sembra che qualcosa possa migliorare, quindi anche le politiche sociali e assistenziali. Dovrebbe esserci una struttura che controlli bene le risorse che vengono spese nella formazione di maestri e di studenti, perché le differenze tra le zone sono enormi. Pensa alla diversità tra la regione di Iringa e questa. Tanti soldi vengono investiti male, per non dire che finiscono nelle mani di gente che non pensa allo sviluppo culturale, sociale e sanitario. I missionari possono continuare ad aiutarci solo investendo nella formazione: dall’asilo all’università. Solo la formazione culturale può sviluppare e migliorare la realtà. E se tu entri in un asilo o in una scuola dei missionari della Consolata capisci quest’attenzione globale alla persona».
Prima di ripartire per Sanza padre Saverio mi fa vedere la chiesa nuova che hanno finito da poco. Passiamo prima davanti a quella vecchia che è stata sostituita perché troppo piccola.
Entro nella nuova chiesa: è semplice ma elegante, proprio come padre Diaz che è un grande artista. I disegni originali e i mosaici sono opera sua come le modifiche alla struttura tecnica della chiesa per via del caldo. L’anima sudamericana si fonde con il ritmo africano e il risultato è spettacolare.

Romina Remigio

Romina Remigio




Lotta di potere tra dame di ferro

Paese in cerca di riconciliazione, a 40 anni dall’indipendenza

Galleggiante sulle acque, ciclicamente afflitto da inondazioni spaventose, con una popolazione di quasi 170 milioni di abitanti su un territorio metà di quello italiano, il Bangladesh è uno dei paesi più poveri del mondo; le ferite ereditate da guerre e lotte per l’indipendenza, dopo 40 anni, stentano a rimarginare; alle tensioni etniche e religiose si aggiunge la ventennale rivalità politica tra due «dame di ferro».

Il 16 dicembre 1971 il Pakistan Orientale, che da lì a poco sarebbe diventato ufficialmente Bangladesh, trovava una difficile indipendenza, alla fine di una guerra breve ma sanguinosa, che doveva segnare non soltanto la neonata patria di 60 milioni di persone, tra le più povere del pianeta, ma anche i rapporti tra i protagonisti del conflitto e dell’intero Subcontinente Indiano.
Nasceva una nazione con forti limiti iniziali. Non solo i rapporti storici e culturali con la confinante India, che dovevano tradursi in un ingombrante protettorato, ma anche la povertà di risorse, la sovrappopolazione, la configurazione territoriale, la collocazione geo-politica…

Pianura galleggiante
Il Bangladesh ha sempre avuto un rapporto problematico con le sue acque, che insieme costituiscono una minaccia, ma anche garantiscono opportunità vitali per i suoi 170 milioni di abitanti concentrati su una superficie inferiore a quella italiana e un territorio generalmente piatto al livello del mare. Un territorio su cui convergono le acque dei fiumi Gange e Brahmaputra prima di gettarsi con la maggiore area deltizia al mondo nel Golfo del Bengala. Alle piene periodiche, sovente eventi disastrosi per l’apertura delle dighe a monte del territorio bengalese, in India, si aggiungono tifoni catastrofici o alte maree eccezionali.
Ora, tuttavia, e sempre più, è anche il progressivo crescere delle acque marine a preoccupare le autorità e le popolazioni costiere. Le statistiche degli ultimi  30 anni segnalano una crescita media delle acque di 5 millimetri l’anno e le proiezioni prospettano un futuro ancora più difficile.
I rifugiati del Bangladesh – in parte eredità del conflitto, in maggioranza migranti economici o veri profughi – in India, sono oggi oltre 10 milioni e crescono al ritmo di molte migliaia l’anno. Un numero di disperati contrastati non solo dal governo indiano, che pretende con provvedimenti repressivi spesso indiscriminati di contenere l’immigrazione illegale, i molteplici traffici frontalieri e l’infiltrazione del terrorismo islamista, che a più riprese in anni recenti ha portato devastanti attacchi in territorio indiano, ma anche dai fondamentalisti indù e dai movimenti che usano l’immigrazione dal Bangladesh come strumento della loro politica secessionista.
Né lingua né etnia distinguono le popolazioni ai due lati del confine e la comune cultura bengalese, quella che ha espresso il premio Nobel per la letteratura Rabindranath Tagore e quello per l’economia Muhammad Yunus, li avvicina più di quanto la fede li divida.
Tuttavia il flusso di immigrati irregolari dal Bangladesh verso l’India, da un lato, la presenza di almeno 100 mila coltivatori indiani nel lato bangladeshi del confine restano una miccia sempre innescata nei rapporti tra New Delhi e Dhaka.

LE RAGIONI DI UN CONFLITTO
Il 16 dicembre 1971 il corpo di spedizione pachistano dichiarava la resa alle forze congiunte della resistenza bengalese e dell’esercito indiano. Finiva così la guerra d’indipendenza dell’odierno Bangladesh. Un evento traumatico che doveva ridisegnare la fisionomia del Pakistan, ma insieme proiettava nell’incertezza uno dei paesi più poveri e sovrappopolati del mondo.
Per 24 anni questo lembo di territorio nordorientale del Subcontinente Indiano era stato oggetto del destino disegnato a tavolino dai negoziatori britannici che nelle ultime, convulse settimane prima di lasciare al proprio destino la loro «perla» imperiale, incendiata dalle tensioni e divisa territorialmente, avevano delineato confini impossibili, tenendo solo conto della preponderanza religiosa della popolazione.
Nella notte tra il 14 e il 15 agosto 1947 erano così nati due stati sovrani, l’India a maggioranza indù e il Pakistan a maggioranza musulmana. Un Pakistan però diviso in due tronconi ai due estremi dell’ex colonia indiana: il Pakistan Occidentale, oggi Pakistan, e il Pakistan Orientale, l’attuale Bangladesh.
La regione occidentale era da lungo tempo islamizzata da diverse invasioni fino dal 9° secolo, vicina per lingua e abitudini al mondo mediorientale, iranico e centro-asiatico, con una lingua nazionale, l’urdu, portata dagli immigrati dall’India dopo la separazione, con un ampio vocabolario arabo-persiano e scritta in una versione adattata dell’alfabeto arabo. Una terra, con eccezione di poche aree, caratterizzata da un paesaggio desertico, semi-arido o montuoso.
Il Pakistan Orientale è stata antica terra di diffusione buddista, prima di essere induista e poi, dal 14° secolo, diventare in maggioranza musulmana. L’acqua è la sua benedizione e la sua condanna, l’elemento che ha plasmato la sua gente, le attività economiche, la cultura.
Con l’indipendenza le regioni del Pakistan Orientale avevano perso, perché annesso allo Stato indiano del Bengala Occidentale, il suo centro più prestigioso e grande fucina culturale, Calcutta, e all’India erano rimaste anche le fabbriche dove confluiva la juta, maggiore risorsa delle aree oggi in Bangladesh.
Inevitabilmente, il peso demografico, geografico, strategico ed economico del lontano Occidente doveva diventare un elemento di rottura, alimentato dall’intransigenza dei governi del Pakistan, insediati prima a Karachi e poi a Islamabad. Passata l’euforia dell’indipendenza e dell’acquisizione di una identità distinta dall’India sì, ma altrettanto duale all’interno del nuovo Stato, con i primi sintomi di insofferenza le regioni orientali diventarono di fatto colonie su cui imporre leggi e scelte elaborate a 1.600 chilometri di distanza.

LA GUERRA
Nel giro di qualche anno l’insofferenza doveva diventare rabbia e richiesta di autodeterminazione. Il movimento di protesta dalle molte anime, tra cui quella marxista e quella nazionalista, trovò espressione a partire dal 3 marzo 1971 nelle manifestazioni guidate da Sheikh Mujibur Rahman. Settori locali delle forze armate come pure pubblici dipendenti si unirono al movimento che crebbe di forza e consistenza nelle settimane successive, sottoposto a pressioni e poi ad aperta repressione dal 25 marzo, quando l’esercito intervenne, per ordine del presidente-generale Yahya Khan, per riprendere il controllo della capitale.
La dichiarazione d’indipendenza, letta il 27 marzo nella città di Chittagong dal maggiore Ziaur Rahman, e la contemporanea proclamazione della nascita dell’Esercito di liberazione del Bangladesh, rappresentarono l’avvio del vero movimento di liberazione. Nei mesi successivi, defezioni dall’esercito regolare e una crescente partecipazione di civili metteranno in grado il Mukti Bahini, il movimento di guerriglia che associava le varie «anime» della resistenza, di confrontarsi con una repressione durissima, fino a quando l’India, che per ordine di Indira Gandhi già aveva infiltrato spie e armi, non dichiarerà apertamente il proprio intervento a sostegno dei bengalesi e delle proprie esigenze strategiche verso l’avversario pachistano, determinando l’andamento del conflitto.

PROSPETTIVE, SVILUPPO  E RICONCILIAZIONE
In sintesi, natura e storia recente contribuiscono a rendere il Bangladesh una realtà instabile che fatica a trovare un proprio equilibrio. Alla fine, anche nazionalismo e repressione non convincono ad allinearsi dietro una leadership velleitaria spesso corrotta, sovente repressiva. Alla guida, dopo la dura esperienza semi-dittatoriale di Muhammad Ershad dal 1981 al 1990, una classe politica litigiosa che ruota attorno a due donne: Sheikh Hasina, attuale primo ministro, figlia di Mujibur Rahman, a capo della Lega Awami, e Khaleda Zia, vedova del primo presidente del Bangladesh, Ziaur Rahman e leader del Partito nazionalista del Bangladesh. Una battaglia senza esclusione di colpi la loro, combattuta non solo dalle tribune elettorali o dai banchi parlamentari, ma anche nei tribunali e nelle piazze con scontri sanguinosi tra i loro sostenitori, a volte, anche se per periodi brevi, da dietro le sbarre di una prigione.
La domanda che sale più spesso dalla società civile è: quale paese ci avete dato dopo una guerra di liberazione che tutti hanno pagato a caro prezzo? Almeno l’80% dei bangladeshi sono poveri, speranza di vita e reddito sono tra i più bassi al mondo; libertà civili e democrazia vedono seri limiti. «C’è da chiedersi – dice la docente di storia e studiosa delle ripercussioni sociali dei confitti Yasmin Saikia, originaria del Bangladesh – su che cosa basi la pretesa di guidare il paese la leadership attuale, che si propone come erede dell’esperienza della guerra di liberazione. Troppi servono i propri movimenti politici e non la popolazione che resta divisa per origine e opportunità».
«Oggi – dice ancora la dottoressa Saikia – davanti a una storiografia ufficiale che continua a parlare di eroi, di personaggi eccezionali e non della gente comune che la guerra ha vissuto e sofferto, la popolazione non è incoraggiata a evolversi verso un dialogo reale tra le parti intee e con gli altri paesi del conflitto per puntare alla riconciliazione».
La recente ondata di arresti e di incriminazioni per crimini di guerra di esponenti della politica islamista radicale, personaggi non a caso all’opposizione nel Parlamento, ha più il sapore della vendetta che della giustizia.
Il Tribunale per i crimini inteazionali creato nel 2010 dal governo con l’intento di giudicare i leader collaborazionisti con il Pakistan Occidentale, ha finora sollevato più critiche che entusiasmo, non avendo alcuna legittimazione internazionale, che il Bangladesh non ha cercato.
Quello che la storia non racconta, in un difficile bilanciamento tra i massacri descritti con dovizia sui libri di testo e la realtà che fu di sofferenza di più popoli, è una verità che va emergendo oggi, a quattro decadi di distanza. A chiederla, la storia e le società civili dei paesi coinvolti nel conflitto: a portarlo avanti, in modo non sempre specchiato, le autorità che hanno riscoperto come sofferenze antiche e antichi rancori possano oggi coprire mancanze e promesse tradite.
Come sottolineato da Taslima Nasreen, la più conosciuta scrittrice del Bangladesh, in esilio perché minacciata di morte dai fondamentalisti islamici nel suo paese, «forse per i ricercatori inteazionali, il Bangladesh non è importante. Tuttavia, i cittadini del mio paese hanno ora la possibilità di diventare liberi pensatori, devono trovare il coraggio e l’orgoglio di condividere le proprie vicende passate con il mondo».

FEDI E CHIESA
In Bangladesh su una popolazione di circa 170 milioni di cittadini, i musulmani sono oltre l’85%, gli indù il 10%, i buddisti lo 0,6%, i cristiani lo 0,3%. Come nella confinante India, le problematiche delle fedi minoritarie si intrecciano con quella delle etnie meno favorite dalla storia e dal numero. Le minoranze, e fra esse gruppi consistenti come Oraon e Santal, non essendo contemplate e garantite in alcun modo dalla Costituzione, hanno scarse possibilità di sviluppo ed emancipazione.
La Chiesa denuncia da tempo come i loro diritti siano negati e calpestati. In gran numero e in modo sovente ignorato subiscono quotidiane discriminazioni, abusi e violenze da parte dei connazionali di fede musulmana, maggioritaria nel paese, nel disinteresse se non con la complicità di funzionari di polizia, pubblica amministrazione e magistratura.
Secondo un rapporto di qualche tempo fa, in parte diffuso dall’Agenzia Fides, le minoranze «sono spesso defraudate indebitamente della terra che hanno coltivato o delle case che hanno abitato per secoli; le donne subiscono stupri, sequestri, conversioni e matrimoni forzati; i cittadini non musulmani sono discriminati nella ricerca di lavoro e nell’istruzione. Vi sono violazioni aperte e continue dei diritti umani fondamentali, senza che nessuno intervenga».
Proprio perché tra le minoranze la Chiesa locale, e per molti decenni a partire dalla fine dell’Ottocento la missione ad gentes, ha lavorato non solo in termini di evangelizzazione ma anche e soprattutto di promozione umana, esse sono al centro delle molte iniziative di sostegno alla ricerca di giustizia e dignità. Come Hotline Human Rights Bangladesh, creata con il sostegno della Commissione Giustizia e Pace dei vescovi del paese, per monitorare il rispetto dei diritti umani; oppure di azione concreta sul territorio come il Resource Centre for Christian Youth in Bangladesh, attiva tra i gruppi etnici e le comunità indù, buddista e cristiana.

Stefano Vecchia

Stefano Vecchia




2012: anno internazionale delle cooperative

Cooperando

Le cornoperative sono una forma di impresa sociale. Alcune grandi e potenti, altre piccole. Legate alla comunità, rappresentano un importante strumento di sviluppo nel Sud del mondo.

Cooperative agricole, cornoperative di credito, cornoperative di lavoratori, di consumatori, di produttori: a uno sguardo anche superficiale, la presenza di queste forme d’impresa nella quotidianità di tutti i cittadini risulta piuttosto evidente, nel Nord come nel Sud del mondo. Secondo dati Onu, le cornoperative danno lavoro a circa cento milioni di persone sul pianeta (cioè una persona su settanta) e contano poco meno di un miliardo di associati, un settimo della popolazione mondiale. Le trecento più grandi cornoperative del globo hanno, insieme, redditi per 1.600 miliardi di dollari.
Non stupisce, dunque, che le Nazioni Unite abbiano deciso di dedicare a questa forma di impresa dodici mesi di iniziative e visibilità, dichiarando il 2012 «anno internazionale delle cornoperative» e preparando un fitto calendario di eventi ad esso correlati. La campagna di sensibilizzazione targata Onu, comunque, si concentra non «sul quanto» ma «sul come»: «le cornoperative – recita lo slogan ufficiale – costruiscono un mondo migliore», perché sono imprese possedute e dirette da e per i loro membri.
Questa la definizione generale, che cattura quello che si potrebbe definire lo spirito di cornoperativa. La realtà, tuttavia, appare estremamente più variegata e sotto la stessa etichetta ricadono tipi di impresa che vanno da piccole realtà di autofinanziamento e sussistenza a colossi economici con giri d’affari milionari. La più grande del mondo è una cornoperativa di consumatori, l’inglese The Co-operative Group Ltd: conta sei milioni di membri, dà lavoro a oltre centomila persone, agisce nel mercato alimentare e farmaceutico, nella foitura di servizi bancari e legali, nella gestione di imprese di pompe funebri, agenzie di viaggio, concessionarie di auto e negozi di elettronica, per un fatturato annuo di oltre tredici miliardi di sterline.
Ovviamente, il primo tipo di cornoperativa, quello di piccole dimensioni, è quello che più di frequente si incontra e si promuove nelle iniziative di cooperazione allo sviluppo. Nel Sud del mondo, le cornoperative sono uno strumento attraverso il quale si dà forma all’esigenza di una comunità di organizzarsi per garantirsi il sostentamento e l’indipendenza economica.

I valori fondanti
Il movimento cornoperativo si identifica in sette principi fondanti: adesione libera e volontaria; controllo democratico da parte dei soci; partecipazione economica dei soci; autonomia e indipendenza dei soci; educazione, formazione e informazione; cooperazione fra cornoperative e interesse verso la comunità.
Come questi principi vengano tradotti in entità legalmente riconosciute e quanto abbiano un effetto concreto sul tessuto economico locale dipende dalle singole legislazioni e dal contesto politico ed economico di ogni paese. Secondo l’Inteational Co-operative Alliance – Ica, principale partner delle Nazioni Unite nelle iniziative del 2012 sulle cornoperative, i sistemi giuridici e le realtà economiche di molti paesi, specialmente nel Sud, non sono adeguati a recepire i principi cornoperativi e a creare un ambiente favorevole per lo sviluppo dell’impresa sociale. «Gli operatori economici – spiega il premio Nobel per la pace Muhammad Yunus nel suo libro Un mondo senza povertà – non ne riconoscono l’esistenza né assegnano loro un posto nel mercato; le considerano delle stramberie e le tengono ai margini». Uno dei punti su cui con più forza batterà la campagna delle Nazioni Unite sarà dunque proprio quello di fornire alle imprese cornoperative, e ai gruppi che aspirano a costituirsi come tali, consulenza e informazioni per accrescere il proprio ruolo nelle economie locali.
I risultati di una maggior apertura al modello cornoperativo in alcuni paesi sono, d’altronde, piuttosto confortanti: secondo i dati del Fondo internazionale delle Nazioni Unite per lo sviluppo agricolo (Ifad), in Brasile più di un terzo del Pil derivante dall’agricoltura (pari al 5% di quello totale) è stato prodotto da imprese cornoperative, che hanno ottenuto dall’esportazione di prodotti agricoli per 3,6 miliardi di dollari. Mentre in Kenya circa venti milioni di persone traggono le loro fonti di sussistenza dal movimento cornoperativo o dal suo indotto, che genera quasi metà del prodotto interno lordo e controlla il 70% del mercato del caffè e quasi tutto quello del cotone. In Costa d’Avorio le cornoperative hanno investito complessivamente ventisei milioni di dollari per costruire scuole, strade e cliniche per la salute matea e infantile.
Non solo. Secondo uno studio dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), le cornoperative dimostrerebbero una maggiore capacità di resistenza in tempi di crisi, poiché dipendono dal capitale dei membri e non da quello prestato dalle banche. I dati statistici, prosegue lo studio, indicano che le cornoperative hanno un tasso di sopravvivenza più alto rispetto a quello dei loro competitors e sono mediamente più longeve delle altre imprese.
Infine, la promozione del movimento cornoperativo in contesti come l’Africa orientale e meridionale è una delle esigenze emerse durante il forum degli agricoltori che si è tenuto al quartier generale dell’Ifad a Roma nel febbraio 2010, poiché solo mediante forme aggregative come quella delle cornoperative agricole sarebbe possibile aumentare l’autonomia, l’accesso al mercato e il potere decisionale dei contadini all’interno dell’economia dei propri paesi.

Cooperative e microcredito
Le cornoperative sono anche uno degli strumenti attraverso i quali vengono realizzate iniziative di microfinanza, in particolare di microcredito e, viceversa, la microfinanza si può basare (ma non sempre) su un modello cornoperativo. Entrambi nascono con l’intento di rendere disponibile l’accesso al credito alle fasce più povere della popolazione prive delle credenziali per rivolgersi al sistema bancario tradizionale.
Sebbene microfinanza e cooperazione abbiano delle indubbie somiglianze quanto allo spirito che li caratterizza, sono tuttavia due concetti diversi. Muhammad Yunus, uno dei massimi promotori del microcredito al punto da essee considerato il padre, ha concepito il proprio modello come qualcosa di differente dal credito cornoperativo. Nel suo libro Il banchiere dei poveri spiega che le cornoperative di credito in Bangladesh, suo paese natale, richiedevano la restituzione della somma prestata in una sola tranche, creando a suo dire nei contadini una resistenza a separarsi in un’unica soluzione da una cospicua cifra di denaro. Di conseguenza, i debitori tendevano a rimandare il rimborso del credito ricevuto e ad accumulare così un debito sempre più alto, fino a trovarsi nell’impossibilità di saldarlo. Yunus adottò il metodo opposto, decidendo di richiedere il rimborso del credito in soluzioni di entità talmente ridotta che il cliente non si sarebbe neanche accorto di pagarlo. Sempre a proposito delle cornoperative Yunus scrive che, sebbene nate in risposta allo sfruttamento degli operai da parte degli avidi proprietari delle fabbriche inglesi del XVIII e XIX secolo, le imprese di questo tipo non hanno come obiettivo principale quello di migliorare le condizioni dei poveri. «Se cadono nelle mani sbagliate – continua Yunus – le cornoperative possono anche diventare uno strumento di penetrazione nell’economia che consente guadagni a singoli individui o a gruppi ristretti invece che portare beneficio all’insieme della società».
Al di là dei dibattiti interni a quello che è il mondo, estremamente complesso, dell’imprenditoria sociale e dell’economia solidale, il legame fra cornoperative e microfinanza è abbastanza solido in molte realtà del mondo: in Colombia, ad esempio, sono imprese di questo tipo a gestire la quasi totalità delle iniziative di microcredito nel paese.

Chiara Giovetti

Donne e microcredito

Si conclude in questo mese il progetto empowerment delle donne vulnerabili e delle ragazze madri in due città, Kinshasa e Isiro, finanziato per metà con i fondi della cooperazione decentrata del comune di Roma (vedi MC ottobre 2011). Un botta e risposta sul progetto con padre Santino Zanchetta, responsabile della parte di progetto eseguito a Kinshasa.

Padre Santino, lei lavora a Saint Hilaire, un quartiere di Kinshasa, che lei ama definire «una periferia a misura d’uomo». Che cosa intende con questa espressione?

«Intendo che non si tratta della periferia tipica dei paesi poveri, con case accatastate le une sulle altre. È un quartiere densamente abitato, questo sì: solo la nostra parrocchia conta ventinovemila persone, inserite in un comune di oltre un milione e seicentomila abitanti. La gestione degli spazi, però è diversa: è lo Stato stesso che destina appezzamenti di terreno di diciotto per diciotto metri, che diventano il cortile dove si può costruire un’abitazione e vivere insieme alla propria famiglia con una certa autonomia».
I problemi sono tanti, comunque, a partire dai servizi e dalle infrastrutture.

«Sì, la foitura di elettricità e acqua dipende da società pubbliche che servono anche la nostra zona, ma la distribuzione è poco costante sia nelle quantità che nei tempi.
A livello di servizi educativi la situazione è molto problematica. Il 47% dei ragazzi in età scolare non ha la possibilità di andare a scuola: le famiglie non possono permettersi di pagare le rette per tutti i figli – di solito sono sette o otto – perciò ne fanno studiare solo alcuni. Chi patisce di più questa esclusione sono le ragazze, perché spesso le famiglie preferiscono far studiare i maschi, considerati il futuro fulcro della famiglia africana. Eppure, a ben guardare, sono proprio le donne con la loro “economia sommersa” a far quadrare il bilancio familiare».

Come nasce il progetto di empowerment delle donne?

«Per andare incontro a queste ragazze che non hanno potuto studiare, per poter fornire loro una dignità derivante dal saper leggere e scrivere e per permettere loro di “avere in mano un mestiere” con cui provvedere ai propri bisogni immediati – si pensi ai corsi di sartoria: anche il semplice saper riparare gli abiti dei familiari è già un risultato – e trarre da questo mestiere il proprio sostentamento. Oltre ai corsi di sartoria ce ne sono altri, ad esempio quelli di estetica o quelli di informatica».

Come si promuove l’inserimento delle donne nel mondo del lavoro?
«Attraverso un programma di microcredito, che permette loro di avere un capitale iniziale per cominciare un’attività e di abituarsi all’idea e alla pratica del risparmio. Ogni donna riceve una somma pari a centoventi euro che deve utilizzare per avviare un’attività e restituire, entro una determinata scadenza, maggiorata di un piccolo interesse, in modo che il comitato gestionale del progetto possa utilizzare questa maggiorazione per aprire il microcredito a ulteriori donne».

Le donne sono organizzate in una cornoperativa?

«Sono organizzate in piccoli gruppi che funzionano in modo molto simile a una cornoperativa, ma in certi paesi – e il Congo è uno di questi – ottenere il riconoscimento formale come impresa cornoperativa richiede un iter burocratico lungo e complesso».

Può citare un esempio di successo del progetto?

«Il primo che mi viene in mente è quello di Matondo, una donna giovane ma già vedova, che ha otto figli. Due delle figlie, di diciotto e sedici anni, hanno preso parte ai nostri corsi e ora, oltre a lavorare negli atelier per il confezionamento di abiti, hanno aperto un chioschetto per strada dove vendono beni di prima necessità come zucchero, tè, pane, latte, caffè. Grazie a questa attività, hanno potuto far studiare altre due sorelle, di otto e undici anni, pagando autonomamente le rette scolastiche. Questo è solo un esempio, ce ne sarebbero molti altri».

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Spreco, quindi esisto

La lunga strada del cibo verso la discarica

Ogni anno si sprecano 1,3 tonnellate di cibo nel mondo. Dodici miliardi di euro solo in Italia. Molti sono prodotti non vendibili per usi diversi, non avariati, finiscono in discarica. Prodotti agricoli distrutti per ragioni di mercato. Cibo sprecato nelle mense scolastiche e ristoranti. L’impatto ecologico, sociale ed economico è elevato.

Nel nostro opulento mondo occidentale assistiamo sempre più spesso a un fenomeno inimmaginabile fino a qualche decennio fa: tonnellate di cibo finiscono nella spazzatura. Basta dare un’occhiata ai cassoni dei rifiuti vicino ai supermercati, per trovarci dentro sacchi pieni di prodotti di ogni tipo, ancora perfettamente commestibili, ma con qualche difetto nella confezione, oppure in prossimità della data di scadenza o, nel caso della frutta, con qualche ammaccatura, che però non ne compromette le qualità organolettiche, ma solo quelle estetiche. Anche i cassonetti situati vicino alle nostre abitazioni ospitano sempre più spesso grandi quantità di cibo avanzato, specialmente dopo le festività più importanti. Ad esempio tra la vigilia di Natale 2011 e Capodanno in Italia sono state buttate circa 440.000 tonnellate di cibo, per un valore totale di circa 1,32 miliardi di euro, equivalenti a più di 50 euro per famiglia. Latticini, uova e carne rappresentavano il 43% del totale, il pane il 22%, la frutta e la verdura il 19%, la pasta il 4% ed infine i dolci il 3%. Il 20% del totale della spesa alimentare degli italiani per le festività è finito nella spazzatura, nonostante la crisi economica  abbia fatto diminuire del 10% la quantità di cibo acquistata, rispetto all’anno precedente. Secondo la Fao, la tendenza allo spreco di cibo nel mondo occidentale è cresciuta del 50% dal 1974 a oggi, e attualmente vengono sprecate, dal campo alla tavola, 1,3 miliardi di tonnellate di cibo ogni anno, così suddivise: 670.000 tonnellate nei paesi industrializzati e 630.000 in quelli in via di sviluppo. Le popolazioni europee e nordamericane contribuiscono a questo spreco nella misura di 115 chili a testa all’anno, contro i 6-11 chili delle popolazioni dell’Africa sub-sahariana e del Sud-Est asiatico. Tutto questo, nonostante le persone che soffrono la fame nel mondo siano 925 milioni, secondo il rapporto Fao del 2010 e nella sola Europa vi siano 80 milioni di persone sotto la soglia della povertà. Mentre nei 27 paesi dell’Unione europea c’è uno spreco pro-capite annuo pari a 179 chili di cibo, solo in Italia si getta ogni anno una quantità di cibo che potrebbe soddisfare le necessità alimentari dei tre quarti dell’intera popolazione (cioè potrebbe nutrire 44 milioni di persone).
Traducendo il nostro spreco alimentare in cifre, possiamo dire che vanno persi lungo la filiera alimentare (produzione agricola, trasformazione industriale, distribuzione, consumo) 12 miliardi di euro, corrispondenti a circa 20 milioni di tonnellate di cibo. Soltanto gli ipermercati buttano ogni giorno 250 chili di cibo. Ogni anno, inoltre, vengono lasciate nella spazzatura circa 250.000 tonnellate di carne e, se pensiamo che per produe un solo chilo sono necessari 15.000 litri di acqua, ci rendiamo subito conto dell’impatto devastante sull’ambiente di questa insensata gestione del cibo.

Da spreco a risorse
Il fenomeno dello spreco alimentare in Italia è stato attentamente studiato da Last Minute Market (www.lastminutemarket.it), centro studi accademico dell’Università di Bologna, che si è occupato delle cause e delle conseguenze del fenomeno ed ha pubblicato i risultati della ricerca ne «Il libro nero dello spreco in Italia: il cibo», a cura di Andrea Segrè e di Luca Falasconi, Edizioni Ambiente, 2011. Oltre a questa pubblicazione,  l’organizzazione è specializzata nella raccolta del surplus alimentare presso alcuni supermercati in Italia ed alla sua successiva distribuzione ai bisognosi. Tra le sue iniziative, c’è stata l’organizzazione della conferenza «Transforming food  waste into a risource» (La trasformazione dello spreco del cibo in risorsa), svoltasi a Bruxelles il 28 ottobre 2010, a cui hanno partecipato le organizzazioni Fareshare (Gran Bretagna), Stop Food Wasting Movement (Danimarca) ed Andes (Francia). In questa circostanza è stata elaborata la Dichiarazione congiunta contro lo spreco alimentare, in cui è stato posto come obiettivo prioritario l’abbattimento del 50% dello spreco alimentare entro il 2025. Inoltre è stato fatto un appello alle Nazioni Unite perché la lotta allo spreco alimentare venga inserita nel 7° degli Obiettivi del Millennio (Assicurare la sostenibilità ambientale).
Dalla ricerca condotta da Last Minute Market risulta che in Italia le percentuali di alimenti sprecati, rispetto al totale disponibile, variano dal 34 al 55%, a seconda delle categorie di prodotti, con una tendenza a superare il 50% di spreco per verdura, frutta, bevande alcoliche e carne. I prodotti cerealicoli sprecati rappresentano poco più del 40%, mentre i prodotti ittici il 33,6%. Nel caso dei cereali, il minore spreco è dovuto a una inferiore deperibilità rispetto alle altre categorie, mentre i prodotti ittici sono sottoposti ad una filiera tecnologicamente migliore.

Cosa e quando buttiamo?
Per quanto riguarda le tipologie di prodotti alimentari sprecati,  possiamo distinguere tra una prima formata da tutti quei prodotti, che hanno perso le caratteristiche organolettiche ed igieniche minime perché possano essere considerati commestibili; la seconda è rappresentata da quegli alimenti definiti sub standard, perché non in possesso di determinate caratteristiche estetiche e tuttavia perfettamente commestibili. Da studi condotti negli ultimi dieci anni, risulta che grandi quantità di cibo sano, appartenente alla seconda categoria, vengono perse ad ogni livello della filiera agroalimentare. Possiamo parlare in questo caso di sprechi alimentari evitabili, cioè prodotti non più vendibili per ragioni diverse, che, non essendoci un uso alternativo, finiscono in discarica. È opportuno soffermarsi su ogni punto della filiera , prendendo in considerazione lo spreco nei campi, nell’industria alimentare, nella distribuzione e nelle nostre case.
Per quanto riguarda lo spreco nei campi, secondo i dati Istat del 2009 poco più del 3,3% della produzione agricola italiana non è stata raccolta. I motivi sono vari, tuttavia nessuno di questi compromette le qualità organolettiche e quindi la consumabilità dei prodotti. Si va dalla non conformità a determinate caratteristiche estetiche (ad esempio verdure fuori pezzatura oppure colpite dalla grandine), a ragioni eminentemente commerciali, come il mantenimento dei prezzi a un certo livello, grazie all’eliminazione di una parte del prodotto; oppure l’abbandono dello stesso nei campi da parte degli agricoltori, perché i costi di raccolta sono superiori al prezzo di mercato. La quantità effettiva di prodotti agricoli abbandonati nei campi nel 2009 è stata di 17.700.586 tonnellate. Se consideriamo in particolare il settore ortofrutticolo, nello stesso anno, è stata sprecata una quantità di ortofrutta (7 milioni di tonnellate) che avrebbe potuto soddisfare le esigenze quasi di una seconda Italia.
I prodotti agricoli, nel loro viaggio dal campo alla nostra tavola, possono essere fermati nelle cornoperative e nelle organizzazioni di produttori, che hanno il compito di applicare le norme previste dall’Organizzazione Comune di Mercato (Ocm), le quali prevedono il ritiro dal mercato di parte delle merci, per evitare il crollo dei prezzi. In questo caso, i prodotti ritirati  sono destinati in piccola parte al consumo di fasce deboli della popolazione, il resto viene utilizzato per la produzione di alcol etilico, al compostaggio ed all’alimentazione animale. La quantità di prodotti ortofrutticoli ritirati dal commercio ogni anno nei paesi dell’Unione Europea è di circa 300.000 tonnellate. Vale la pena di considerare che l’Unione Europea nell’annata agraria 2005-2006 ha stanziato 32 milioni di euro, di cui 6,8 solo all’Italia e questo denaro è servito per finanziare l’acquisto, la logistica e, nel 90% dei casi, la distruzione dei prodotti. Un vero e proprio sperpero di denaro pubblico.
A livello dell’industria alimentare, lo spreco annuale di cibo è di circa il 2,6% rispetto alla produzione finale totale, pari a quasi 1,7 milioni di tonnellate, e di questo quantitativo solo una piccola parte viene destinata a enti assistenziali, mentre la maggior parte diventa rifiuto, per giunta non sempre avviato alla raccolta differenziata.
Per quanto riguarda la distribuzione, un’indagine condotta a livello dei mercati all’ingrosso (centri agroalimentari e mercati ortofrutticoli) ha mostrato una perdita annuale dei prodotti gestiti come rifiuti dell’1-1,2%. Almeno un terzo di questi prodotti però potrebbero essere perfettamente utilizzati, perché presentano danni del tutto irrilevanti, mentre due terzi potrebbero essere recuperati con un’oculata gestione degli stock (uso di celle frigorifere, giacenza monitorata). Nel 2009 le perdite di prodotti ortofrutticoli a livello di distribuzione sono ammontate a 109.617 tonnellate. Per quanto riguarda il mercato all’ingrosso, questo spreco può ancora una volta essere riconducibile a ragioni di mercato volte al mantenimento dei prezzi. Nel caso della grande/ media distribuzione organizzata lo spreco di cibo può essere dovuto ad una cattiva programmazione delle foiture, ma più spesso alla manipolazione dei prodotti da parte dei clienti, che ne danneggiano l’estetica, rendendoli meno desiderabili. Nel 2009 le attività commerciali alimentari italiane hanno sprecato 263.645 tonnellate di alimenti, di cui il 40% erano prodotti ortofrutticoli.

Consumatori spreconi
L’ultimo anello della catena agroalimentare è rappresentata dai consumatori, cioè da tutti noi. Secondo la ricerca di Last Minute Market, nelle mense delle scuole italiane viene sprecata ogni anno una quantità di cibo pari al 13-16% degli acquisti effettuati. I motivi sono molteplici. Sicuramente la distrazione può essere responsabile del cibo lasciato ad invecchiare nel frigorifero o nella dispensa. Anche le allettanti offerte del «tre per due», i «sottocosto», che si possono trovare nei supermercati, oppure la difficoltà a reperire le confezioni monodose per i single sono spesso alla base dello spreco alimentare. Probabilmente tuttavia tendiamo a non porre attenzione al cibo che sprechiamo semplicemente per mancanza di un’adeguata educazione in proposito, se non addirittura a causa dell’errata convinzione, peraltro inculcataci dal sistema economico attuale, che maggiori consumi equivalgono a più benessere.

Spreco ad alto impatto
Lo spreco alimentare è responsabile degli impatti ambientale, economico, nutrizionale e sociale.
Per quanto riguarda lo smaltimento dei rifiuti alimentari, ogni tonnellata genera 4,2 tonnellate di CO2, quindi ogni anno vengono rilasciate nell’atmosfera oltre 8 milioni di tonnellate di CO2  solo in Italia, come diretta conseguenza dello spreco di circa 20 milioni di tonnellate di cibo. L’impatto ambientale generato dallo spreco del cibo si valuta considerando tre diversi parametri: l’impronta del carbonio, l’impronta ecologica (ovvero la quantità di terra o di mare consumate nella produzione dei cibi) e l’impronta idrica (l’acqua consumata in tutti i processi della filiera agroalimentare).
La prima non si riferisce unicamente al processo di smaltimento dei rifiuti alimentari, che genera anche metano, ma si riferisce alla quantità di CO2 generata lungo tutti i processi e comprende quindi anche le emissioni generate nella produzione dei pesticidi e dei fitofarmaci adoperati, nelle trasformazioni industriali e nel trasporto.
L’impronta ecologica si riferisce alla quantità di terreno o di mare biologicamente attivo, necessaria per produrre la quantità di cibo per ciascuno di noi, nonché la quantità per smaltire i rifiuti generati. Non è solo l’estensione della superficie del terreno utilizzato per soddisfare le nostre necessità, ma anche tutto quello che essa rappresenta in termini di biodiversità, stabilità climatica, fissazione dell’energia solare e conversione in materie prime. Sulla base dei consumi attuali, l’Italia ha un’impronta ecologica di 4,2 ettari pro-capite, ma la sua biocapacità è soltanto di un ettaro, quindi esiste un deficit ecologico di 3,2 ettari globali pro-capite (l’ettaro globale o gha è l’unità di misura dell’impronta ecologica).
L’impronta idrica si riferisce al consumo delle risorse idriche lungo la filiera agroalimentare e tiene conto anche dell’acqua necessaria per la produzione dei beni di consumo. In Italia lo smaltimento dei rifiuti alimentari genera un consumo d’acqua pari a 105 milioni di metri cubi all’anno. Se poi consideriamo la quantità d’acqua usata per l’agricoltura, quella relativa alla quantità di cibo sprecato è di 5,3 miliardi di metri cubi all’anno, un quantitativo sufficiente a dissetare tutti gli abitanti del Kenya per 270 anni. 
L’impatto economico dovuto allo spreco di cibo è rappresentato dal mancato guadagno che si sarebbe potuto realizzare, se quel cibo fosse stato venduto al prezzo di mercato. Come visto sopra, per l’Italia è di 12 miliardi di euro per 20 milioni di tonnellate di cibo sprecate.
Per impatto nutrizionale si intende la quantità di nutrienti legati agli alimenti che vanno persi con lo spreco del cibo. Basta pensare, ad esempio, che la quantità di arance perse ogni anno contengono vitamina C pari al fabbisogno annuale di 13 milioni di persone, secondo quanto raccomandato dai La (Livelli di assunzione giornalieri raccomandati di nutrienti per la popolazione italiana). La quantità di pomodori da tavola lasciati in campo in un anno contiene invece vitamina E sufficiente per il fabbisogno annuale di circa 6,5 milioni di persone.

Rosanna Novara Topino

       

Rosanna Novara Topino




L’altalena non danza più

Reportage dalla piana di Camp Garba, periferia Nord di Isiolo

Isiolo è una città di frontiera. Lo era ai tempi coloniali; lo è oggi, ancor di più, perché punto naturale di incontro con Somalia ed Etiopia.
Circondata da un territorio vastissimo e dalle bellezze incontaminate, Isiolo è diventata il
centro di un ambizioso programma turistico ed economico. Ma da anni questa terra è segnata da scontri tribali, che nel 2011 hanno visto una nuova recrudescenza. Forse in gioco c’è molto di più di quello che si vuol far credere.

Non è nei miei piani di fermarmi a Camp Garba. Devo solo passarci, scaricare il mio passeggero e continuare il viaggio sulle orme dei primi missionari del Meru. Da Nairobi arriviamo alla missione nel primissimo pomeriggio. P. Pierino Tallone, quasi cinquant’anni di Kenya, ci accoglie. Dopo le solite piacevolezze da vecchi amici, ecco che cominciano a venire fuori le notizie recenti. «Ieri sera hanno assalito la missione di Campi ya Juu, ci sono stati nove morti. La gente è molto spaventata e non si sa neppure se martedì – 3 gennaio – inizieranno le scuole come da calendario». Sento scoraggiamento nella voce del vecchio missionario che in questi ultimi anni, dal 1996 in avanti, di morti ne ha visti troppi a causa delle cosiddette violenze tribali. La missione di Campi ya Juu (campo, accampamento di sopra) si trova alla periferia sud-ovest della città di Isiolo, quasi di fronte alla grande cattedrale, nei cui grandi cortili la gente si sta riversando in cerca di rifugio.
Quando arriva il parroco, p. Simon Wambua, uno dei nostri missionari kenioti, capisco che la situazione è grave e incancrenita.
È dal 22 ottobre 2011 che gli eventi sono precipitati. Quel giorno, meglio quella notte, una banda di pastori Borana, scendendo con migliaia di cammelli dalle montagnole ai piedi del Monte Kenya, cominciarono ad uccidere indiscriminatamente e a bruciare i villaggi turkana che trovavano sul loro passaggio. Passando, rasero al suolo il villaggio di Mashakwata, uccisero diverse persone inermi e devastarono il bell’asilo-cappella costruito dalla missione. La gente terrorizzata abbandonò Mashakwata e Lokiki e si riversò nella missione di Camp Garba, dove si accamparono per parecchi giorni.
«Vuoi che andiamo a vedere?», mi chiede p. Simon. «Andiamo!».

Mashakwata
Detto fatto siamo in Land Rover e imbocchiamo una pista che partendo dalla strada asfaltata che punta a Nord, si dirige decisamente ad ovest attraverso una vastissima piana sul cui sfondo si stagliano le ultime propaggini del grande monte, il Kenya. Qua e là capanne turkana, giovani sfaccendati, campi coltivati a granoturco. Tutto è verde intenso. Le piogge sono state abbondanti e ci sarebbe cibo e pascolo per tutti. Ci fermiamo ad una specie di barriera. P. Simon invita un giovane leader locale – lo chiamiamo David Lorupe, anche se questo non è il suo vero nome – a salire in macchina con noi. Non è un politico di professione, ma gode della stima della sua gente. La pista è battutissima, spesso dobbiamo metterci in disparte per lasciar passare camion stracarichi di sabbia. Sembra tutta una piana a perdita d’occhio, ma di tanto in tanto bisogna fermarsi: un torrente ha scavato una profonda fessura nel terreno, un piccolo canyon. Sono i torrenti stagionali che scendono dal Kenya, violentissimi durante le piogge, ma facilmente guadabili in tempi ordinari. Grazie al monte hanno sempre un po’ di acqua e sulle rive i Turkana hanno sviluppato un’intensa attività di orticoltura che trova un mercato insaziabile nella vicina città.
Di colpo, nel letto di uno di questi torrenti, vedo decine e decine di camion che caricano sabbia. Arrivano da Meru carichi di pietre, scaricano ad Isiolo, entrano nella piana, si riempiono di sabbia e via di nuovo per Meru. Un ritmo incessante dalle prime ore dell’alba agli ultimi raggi di sole. La comunità turkana ha ottenuto dal governo la concessione della cava: ogni camion porta due suoi operai e due spalatori turkana e alla barriera comunitaria paga il valore di 5 euro, 2,5 per ogni spalatore; altri 5 euro li paga alla barriera della città. Ogni camion di sabbia: 10 euro. Valore a Meru? Certo molto di più.
Lasciata la cava, Lorupe ci guida verso Mashakwata, meglio quel che rimane del villaggio. Risalito il torrente stagionale attraverso un passaggio improvvisato siamo di nuovo nella piana. Nella vegetazione lussureggiante si indovinano recinti, qua e là rigogliosi campi di granoturco e resti di capanne bruciate o abbandonate ormai coperte dall’erba. «Qui hanno ucciso due anziani, uno era zoppo, non poteva neanche scappare», dice Lorupe indicando uno spiazzo sabbioso. Più avanti ecco il traliccio del serbatornio dell’acqua, il supporto da cui sono stati rubati i pannelli solari, la struttura semplice e solida dell’asilo, vetri rotti ovunque, la finestra del magazzino divelta per rubare tutto, e l’altalena e lo scivolo assaliti dalle erbacce. Una scena di desolazione.
Guardando l’altalena immobile, chiudo gli occhi e vedo il sorriso radioso dei bimbi elettrizzati dalla macchina foto, il loro volare sullo scivolo per farsi fotografare e lo spingere l’altalena sempre più su, quasi a toccare il cielo. «I bimbi toeranno a giocare qui!», penso in una preghiera che è anche una promessa.
«È stato un attacco improvviso», ricorda Lorupe. «Erano lassù – indicando la montagna – coi loro cammelli. Hanno cominciato a uccidere e bruciare, così, come se qualcuno glielo avesse ordinato». Dopo quello, altri attacchi sono seguiti, qua e là, all’improvviso, senza altro scopo se non quello di terrorizzare la gente con uccisione di bambini di scuola e anziani, sventramento di donne incinte e incendi di capanne. L’ultimo assalto è stato proprio quello della sera prima, 30 dicembre, alla missione di Campi ya Juu e ad altri quattro villaggi, dove l’obiettivo era la missione stessa e una serie di persone rappresentative della comunità turkana. Hanno attaccato alle 18.30, al crepuscolo, vestiti in tenuta militare con fucili automatici e pallottole in dotazione al personale di sicurezza governativo, cercando di penetrare nella missione. Per fortuna il cancello è stato chiuso in tempo. La macchina del parroco, p. Munene, ha ricevuto due pallottole e lui si è salvato per miracolo. Non così fortunato è stato il catechista (ammazzato a sangue freddo sulla soglia della sua casetta di legno, il corpo ritrovato solo il giorno dopo) ed altre otto persone, scelte – sembra – di proposito. Niente è stato rubato. Chiaro lo scopo: terrorizzare.

Rifugiati
Quando con p. Simon arriviamo alla missione di Campi ya Juu è già quasi buio. Ci sono militari ovunque e gruppi di volontari armati di arco e frecce, lance e coltellacci. Facce tese, niente donne e bambini in giro. La statua dell’Assunta, a cui la parrocchia è dedicata, è lì, proprio di fronte al cancello, indifesa come quella povera gente. Passiamo in cattedrale. Centinaia di persone, soprattutto bambini, donne e anziani, sono accampati nei vasti cortili. Qua è la ci sono fuocherelli accesi. Nella casa del parroco è in corso una riunione delle autorità locali. Il vescovo, mons. Anthony Mukobo, insiste per avere uno spiegamento di forze di sicurezza tale da rassicurare la gente e permettere loro di tornare a casa. «Questo non sarebbe successo se tutti i posti di comando e potere non fossero nelle mani di una sola tribù!», si mormora sottovoce. Poi i politici devono rispettare il loro ruolo di facciata. Parlano alla gente, «il governo è con voi, stiamo facendo di tutto per garantire la vostra sicurezza». Qualcuno ascolta nel buio della notte, ma la maggior parte continua a sedere attorno ai fuocherelli, indifferente: vecchi tristi, madri ansiose, bimbi senza lacrime dagli occhi sbarrati. Quante volte hanno sentito lo stesso ritornello?
Toando alla missione p. Simon racconta del periodo successivo al 22 ottobre e come una volta sia stato fermato da un posto di blocco borana (i Borana-Somali avevano creato una barriera di pietre tra la missione e la città, i Turkana un’altra tra la missione e il nord) dopo essere andato a portare cibo a dei rifugiati turkana. La banda di giovinastri che controllava il posto di blocco lo aveva tirato giù dalla macchina e malmenato perché aveva portato da mangiare a «quegli animali»! Tornato a casa malconcio aveva rassicurando i cristiani che già lo davano per morto.
È l’ultimo giorno dell’anno. mi è difficile dire grazie stasera. Ma lo dico per la fede di questo popolo, il coraggio dei miei confratelli e dei preti locali che stanno con la gente anche se hanno paura. Grazie per il dono di essere qui, in questa notte stellata così carica di dolore.
Poi mi rifugio nella cappelletta, per vegliare un po’ e ritrovare la quiete di cui ho bisogno.

Anno nuovo, speranza rinnovata
L’anno nuovo comincia presto. La prima messa è alle 8.30 a Kiwanjani (campo, spianata, pista), pochi chilometri a nord della missione. Mi aggrego a p. Tallone. Il tratto è breve. Mi fa notare i mucchi di pietre usati in passato per bloccare la strada e mai totalmente rimossi; questa era la zona turkana. Arriviamo in anticipo. Mi guardo attorno. L’asilo cappella è una struttura solida, due aule divise da una parete mobile di metallo, porte in ferro, solide inferriate. Don Giuseppe Zousa e Don Giulio Balocco della diocesi di Cagliari, fondatori della missione nel 1994, hanno fatto un buon lavoro. Ritiratisi a fine 2009, hanno lasciato il tutto ai Missionari della Consolata.
Le due aule sono diventate uno spazioso saloncino. La gente arriva alla spicciolata. La maggior parte sono donne e bambini, pochi gli uomini. È domenica, è il primo dell’anno: bisogna far festa e lodare il Signore. Si danza a volontà: all’ingresso, alla presentazione del libro della Parola, all’offertorio, alla comunione e alla fine. Non ci sono sconti sui canti. Il tempo non ha importanza, occorre celebrare. P. Tallone, lavagna alle spalle, predica, guida, celebra. La preghiera dei fedeli è spontanea, piccoli e grandi vi partecipano. La preghiera di una donna tocca il cuore di tutti. Prega per la pace: una preghiera intensa, appassionata, fiduciosa, quasi un pianto sommesso rivolto a Dio. C’è dentro tutto il dramma vissuto dalla comunità: il dolore delle donne, le lacrime dei bambini, la frustrazione degli uomini impossibilitati a proteggere le proprie famiglie. Invitano anche me a parlare. Condivido il mio dolore e aggiungo che forse ho capito perché i missionari della Consolata sono stati quasi forzati ad accettare Camp Garba: la Madonna Consolata li ha mandati per essere presenza di «consolazione» in questi tempi difficili.
La partecipazione a questa umile celebrazione mi riempie di speranza. La tristezza della sera è svanita. La forza, la fede, la semplicità di questa gente umile è contagiosa. «Il Signore davvero abbassa i potenti ed innalza gli umili!».

Cosa c’è sotto?
Ma i problemi restano. È vero che le comunità pastoraliste (come i Samburu, i Borana, i Turkana e anche i Somali) hanno sempre vissuto situazioni di conflittualità per il controllo delle risorse, dei pascoli e dell’acqua. La razzia ai danni delle altre tribù era una pratica normale, da celebrare nelle feste con danze, poemi e canti. Un tempo, prima della colonizzazione inglese, i grandi spazi attorno a Isiolo erano terra di nessuno in cui pascolavano anche i Maasai e che i Somali consideravano estensione naturale della loro terra. All’inizio degli anni Ottanta quegli spazi immensi sono stati pian piano occupati da migliaia di Turkana fuggiti in diverse ondate da zone lontane ad alta conflittualità. In quella pacifica invasione di disperati, c’è stata una tacita divisione del territorio: i Turkana si sono stabiliti a ovest della strada, i Somali e Borana sono rimasti soprattutto nella parte est, con ampi spazi di movimento soprattutto nei tempi di siccità affinché tutte le comunità, Samburu compresi, potessero usare le sempre verdi montagne a nord del Monte Kenya. I Turkana, di per sé pastori, per sopravvivere si son trasformati in agricoltori e lavoratori precari in Isiolo. Molti sono diventati cristiani, la maggioranza cattolici. Pur disorganizzati, sono una realtà che ha il suo peso nella politica locale soprattutto nelle elezioni.
Ed ecco una delle cause principali della conflittualità in cui i Turkana sono soprattutto le vittime, anche se spesso – sulla stampa – passano per essere i villani: la politica! Il parlamentare che rappresenta Isiolo è un Borana, ex cristiano – chierichetto dell’ucciso vescovo mons. Luigi Locati – tornato all’Islam. La sua rielezione a fine 2012 o inizio 2013 è a rischio. Se i Turkana e i Meru (altra presenza importante, soprattutto in città) si alleassero per un candidato unico, per lui sarebbe la fine. Le sue parole di miele chiamano alla convivenza, pace e riconciliazione, ma molti sostengono che sia lui a far arrivare da fuori migliaia di persone della sua tribù per farle registrare per le elezioni, aiutato in questo dalle autorità locali dominate dalla sua tribù. Turkana e Meru hanno sì qualche consigliere comunale e altri rappresentanti nell’apparato governativo, ma tutti in posizioni subordinate.

La nuova «Las Vegas»
Un secondo motivo di tensione è il controllo dell’economia. C’è un ambizioso progetto turistico-ambientale per Isiolo. Vogliono costruirvi una resort town o città turistica, con – tra l’altro – sei alberghi a cinque stelle, campi da golf, casinò, sale per conferenze, teatri e cinema, un museo di arte locale, catene di negozi, piste per mountain bike e perfino un sito per riprese cinematografiche nel fantastico ambiente naturale. Dovrebbe diventare la Las Vegas del Kenya. Il tutto servito dalla nuova strada asfaltata che porta in Etiopia (in stato di avanzata costruzione ad opera dei Cinesi) e dal nuovo aeroporto internazionale (già in costruzione) che oltre al turismo serve a facilitare l’esportazione dal vicino Meru della miraa o tchat (ma il recente bando a questa droga da parte dell’Olanda ne ha messo in crisi il mercato milionario, mentre si teme che anche altre nazioni europee, come l’Inghilterra, ne proibiscano l’importazione) e dei prodotti ortofrutticoli che vengono coltivati abbondantemente sulle vicine falde nord del monte Kenya.
Questa città del turismo e divertimento occuperà un’area di 1000 ettari proprio alle spalle della missione di Camp Garba, con il suo centro nella gola di Kipsing Gap, un luogo tra due montagnole sempre verdi, il Katim e l’Oldonyo Degishu, circondato a sud dal famoso Lewa Wildlife Conservancy (quella di Adamson e della leonessa del film Nata libera), a nord dalle riserve nazionali di Buffalo Springs e Shaba National Reserve, più il Samburu Game Park sul fiume Ewaso Ng’iro, ricchissimo di acqua. È un luogo dalle potenzialità turistiche immense. In teoria il progetto, attualmente sotto studio con una compagnia giapponese, prevederebbe che i primi beneficiari siano i gruppi locali. Ma se uno dei gruppi, il più debole, venisse spazzato via in anticipo…
C’è anche un altro fattore che complica le cose: la sabbia. Abbondante nel letto dei fiumi stagionali è un elemento fondamentale del previsto boom di costruzioni legate allo sviluppo turistico e alla crescita continua della città di Isiolo. Per ora la comunità turkana ha ottenuto la concessione dell’estrazione, ma fino a quando? Da ultimo c’è il valore dei terreni attorno al polo turistico: sta andando alle stelle. E se gli occupanti fossero costretti ad andarsene «spontaneamente»?

C’entra la religione?
In questa difficile equazione, c’entra anche la religione? Apparentemente no, anche se di fatto da una parte ci sono delle tribù islamiche che controllano tutto il potere, e dall’altra tribù prevalentemente cristiane o tradizionaliste tra le quali solo i Meru detengono qualche reale potere economico. Un fatto sembra però evidente: la chiesa cattolica è l’unica realtà che impedisce una pulizia etnica senza testimoni. Non a caso negli attacchi più recenti sono stati uccisi due catechisti e assalita una missione, e la gente, sia dopo le violenze del 22 ottobre che quelle di capodanno, ha cercato rifugio nel perimetro della cattedrale o delle missioni (Camp Garba e Ngaremara, una quindicina di chilometri più a nord).
Inoltre non è un segreto per nessuno che i Somali hanno sempre sognato una grande Somalia che arrivasse fino a Isiolo, che a Isiolo ci sono centri di reclutamento della milizia di Al Shaabab, che la presenza dei fondamentalisti è molto estesa e che molti dei soldi sporchi provenienti dalla Somalia vengono riciclati proprio a Isiolo. Ufficialmente la religione non c’entra. Di fatto è uno degli elementi di cui tener conto.
Intanto la chiesa di Isiolo comincia a sentire il peso di questa situazione che si prevede di non facile soluzione. Anzi, nel sentire di tanti, questo 2012, prima delle elezioni, sarà un anno difficilissimo con un crescendo di violenza. Di fatto la gente di Mashakwata non è ancora tornata a ricostruire il suo villaggio, anche se avevano pianificato un ritorno in massa per il 2 gennaio. Per ora i loro bambini vanno all’asilo sotto un grande albero nella vicina scuola cappella di Kiwanjani. Sono una quarantina. Per fortuna, anche sotto un albero, i bambini sono sempre bambini e non perdono il sorriso e la voglia di giocare. Intanto l’altalena e lo scivolo di Mashakwata continuano ad aspettare che la gioia dei bambini li risvegli e li faccia ancora danzare.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Un mondo di rifugiati

Reportage dal campo profughi più grande del mondo

La carestia nel Coo d’Africa ha reso famoso il piccolo villaggio di Dadaab.
Ma in questa zona, persa nel nulla, i campi profughi ci sono da vent’anni. Nel 2011 si sono ingrossati
a causa dell’ultima crisi. Nei campi la vita è precaria, ma scandita da regole precise. E l’insicurezza
permane elevata.  Anche i keniani si sono mobilitati con gesti di solidarietà verso
i rifugiati. Viaggio «dentro» il campo.

A inizio gennaio 2011 è scoppiata la grave crisi della siccità e della fame nei paesi del Coo d’Africa e in Kenya (vedi MC novembre 2011). Il problema è stato previsto, annunciato e deprecato da molti. Le nazioni si sono mosse, le associazioni e Ong si sono organizzate, sono partiti tanti aiuti di emergenza per la fame e per la salute di 13 milioni di persone in Somalia, Etiopia, Djibuti, Kenya, Sudan.
La gente in Kenya si è mobilitata come non mai con il motto «Kenya for Kenyans» (Kenya per i keniani) offrendo un contributo altissimo grazie a sacrifici e rinunce. Anche noi, nel nostro piccolo, come Missionari della Consolata ci siamo mossi, sostenuti da tanti nostri amici, per portare sollievo e consolazione nelle zone più colpite dalla carestia e dalla fame in Kenya: turkana, samburu, tharaka.
La fame dovuta alla grave siccità che ha colpito questi paesi e al conseguente rialzo dei prezzi del cibo (farina, fagioli, olio, zucchero, riso) non è ancora debellata. La gente continua a soffrire e a sperare lottando per una vita migliore. Il problema dunque persiste e continuerà finché le nuove piogge potranno offrire nuovi raccolti, prezzi accessibili a tutti, progetti di sviluppo per prevenire disastri futuri (ad esempio riserve d’acqua, dighe e pozzi). Anche i mercati globalizzati sono colpevoli, perché favoriscono l’importazione di cibo a scapito dei produttori locali.
In una situazione così grave, rimane nel Coo d’Africa una profonda ferita umana conosciuta ormai da tutto il mondo: i campi dei rifugiati di Dadaab, nel Nord Est de Kenya, a 80 Km dal confine con la Somalia.

Viaggio a Dadaab
Il 12 ottobre scorso, grazie all’appoggio dell’Ong Avsi (Associazione Italiana di Servizio Internazionale) e di Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) ho potuto visitare alcuni campi dei rifugiati di Dadaab. Era un desiderio che avevo nel cuore dopo aver condiviso le realtà della fame nelle diverse zone del Kenya. La zona si trova a un’ora di aereo da Nairobi.
Dadaab è un piccolo villaggio sulla strada che da Garissa (a 130 km) va a Liboi al confine con la Somalia (a 80 Km) in un territorio totalmente sabbioso e impervio pieno di arbusti e poche piante. Gli abitanti sono keniani-somali che da tanto tempo condividono vita e lavoro, commercio e pastorizia. Attoo a questo piccolo villaggio sono piazzati tutti i campi delle Nazioni Unite e delle Ong con una potente difesa di reticolati e cancelli di sicurezza, dove ci sono gli uffici e tende dei volontari per il servizio ai rifugiati.
Nel 1991 quando scoppiò la crisi e la guerra in Somalia, molti somali scapparono dalla loro terra per rifugiarsi in questo angolo del Kenya. Allora il Goveo keniano preparò alcuni campi particolari attorno al villaggio di Dadaab: Ifo 1 nel 1991 per 30mila rifugiati a 5 km,  Dagahaley nel 1992 per altri 30mila rifugiati a 16 km, Hagadera nel 1994 per altri 30mila a 12 km verso Sud. Ora stanno preparando Ifo 2 e 3 per ricevere altre persone e il campo Kambioos al Sud di Hagadera. Ognuno di questi campi ospita oggi circa 120mila rifugiati costituendo il complesso di rifugiati più grande del mondo con 450 mila abitanti.
Qui ogni giorno entrano decine di famiglie (specie donne e bambini): dalle 1.200 alle 1.500 persone che camminano per 24 giorni in condizioni disastrose, o vengono portate su carretti di fortuna o in qualche camion dove sono stipati come animali da macello. Quando arrivano sono in condizioni di fame, degrado, sofferenza, insicurezza, malattie e disperazione silenziosa. Il vero povero non protesta mai, ma guarda e spera.

Rifugiati e rifugiati
Ci sono due tipi di rifugiati: quelli che veramente scappano dalla guerra dei clan e dalla fame che imperversa nel paese, e quelli che sono membri di qualche gruppo armato (come Al Shabaab o altre milizie) e che continuano a seminare terrore e guerra dovunque siano. Nei campi ci sono tante armi che alimentano anche il commercio clandestino in altre aree del paese.
Chi arriva al campo deve passare all’ufficio di registrazione per avere il proprio posto nel clan al quale appartiene, la carta d’identità, una tenda, il bonus per mangiare, per l’ospedale ecc. Ogni famiglia registrata riceve un pacco di cibo per 3 settimane (mais, riso, fagioli, pasta, soia).
Tutti hanno accesso ad acqua gratis, assistenza medica e medicine, educazione libera nel sistema scolastico del Kenya. Tutto questo organizzato da World Food Program (Wfp, agenzia delle Nazioni Unite per la lotta contro la fame) con diverse associazioni e Ong fra cui Care, sotto il patrocinio di Unhcr. In ogni campo ci sono un ospedalino e due dispensari per il pronto soccorso. Le malattie più correnti sono: denutrizione, malaria e infezioni di vario tipo.

Vita nei campi
Gli abitanti dei campi sono al 99% somali provenienti dalla vicina Somalia, poi ci sono piccoli gruppi di etiopi, sudanesi, ruandesi, ugandesi, congolesi scappati da situazioni di tensione, lotte tribali e altre cause di conflitti permanenti. La lingua parlata è il somalo, poco inglese e pochissimo kiswahili (lingua ufficiale del Kenya). Per lavorare con i rifiugiati, ad esempio per rimuovere ansia, diffidenza e ostilità occorre conoscere il somalo, altrimenti ci sono barriere insormontabili. La quasi totalità sono musulmani intransigenti. Con loro il dialogo è difficile. Solamente le donne e i bambini hanno come sempre la dolcezza del rapporto umano, del sorriso e delle porte aperte per il futuro. Il resto è integralismo puro.
Ogni gruppo di 10 casette o tende è circondato da una siepe o «steccato» di arbusti secchi, non per le bestie nottue, mi dicono, ma per una certa privacy a cui loro tengono molto. Ogni gruppo di 10 famiglie ha un capo che cerca di tenere ordine e condivisione. Non è quindi una situazione come quella degli slum di Nairobi, ma una condizione più decente e umanamente accettabile. Da notare che, al di fuori di questi compound, c’è un grande degrado: sporcizia, sacchi di plastica svolazzanti, le famose «mobile tornilets», mucchi di rifuti di ogni tipo dove le capre si danno da fare per trovare qualcosa da mangiare. Il problema più grande dopo il cibo è l’educazione. Molti ospiti sono illetterati. Solamente il 41% dei ragazzi e il 37% delle ragazze vanno a scuola. In tutti i quattro campi ci sono 19 scuole, asilo e primarie insieme, mentre le secondarie sono in tutto sei (due per ogni campo di 120mila rifugiati). Si formano così classi con 90 – 100 alunni, dove la maggioranza siede per terra per mancanza di banchi. Un libro di testo ogni dieci alunni, e pochissimi materiali. Ho visto quadei offerti dall’Unicef (Agenzia Onu per l’infanzia) e altri libri di contabilità ammucchiati a pile negli uffici dei presidi delle scuole. Si stanno costruendo tre biblioteche per favorire la lettura tra gli alunni. Le tre scuole che ho visitato (Amani, Upendo e Iftin – luce) sono frequentate da 1.500 a 2.300 alunni, con molti maestri impreparati e senza materiale didattico.

Tensione e insicurezza
C’è continua tensione in tutti i campi anche nella base delle Nazioni Unite. Il giorno 13 ottobre in piena mattinata sono state rapite due giovani dottoresse spagnole mentre prestavano servizio al campo Ifo. Noi in quel momento eravamo nel campo di Hagadera. Ci è stato dato l’ordine di non muoverci finché non fossero arrivate le forze militari ad accompagnarci al nostro campo. Trenta o quaranta macchine in servizio umanitario costrette al convoglio forzato. E per un giorno non siamo potuti uscire. Al Shabaab e altre milizie hanno un grande potere che il Kenya sta cercando di controllare. Forse è un po’ tardi intervenire adesso, dopo averli lasciati liberi nel commercio delle armi e nelle scorribande nel paese.
Ci sono due stazioni di Polizia per ogni campo ma i problemi sono tanti e delicati. Resta un mistero il traffico delle armi nei campi. Difficile entrare nella cultura familiare e sociale dei clan che dominano la società somala.

Futuro per i Rifugiati
Nel mondo si contano 50 milioni di profughi (in inglese: displaced people). La maggior parte dei conflitti avvengono nei paesi in via di sviluppo e la popolazione civile diventa un bersaglio militare o si trova nel mezzo del fuoco incrociato di gruppi armati. Spostarsi su altre terre vuol dire cercare sicurezza e protezione, cibo e stabilità.
La maggior parte dei rifugiati nei campi di Dadaab vivono in tende, ma anche in cassette fatte con fango e arbusti della savana. Non è facile per loro prevedere il giorno del ritorno: non si sa quando finirà il conflitto dei clan in Somalia. Ognuno vorrebbe ritornare alla propria terra. Ma se un giorno dovessero ritornare, dovrebbero essere sicuri di trovare un sistema legale, giuridico, educativo, e la possibilità di un lavoro. In un termine la sopravvivenza, soprattutto per le  vedove e gli orfani. Il processo di riconciliazione e pace può durare decenni come in altri paesi,

Franco Cellana   

Franco Cellana




Dove soffia il vento di Haiti

Due anni dopo: inizia l’era del presidente cantante

Il paese ha un nuovo presidente e un nuovo governo. Ottenuti con la benedizione delle comunità internazionale. Ma non della società haitiana.
Intanto la ricostruzione e il rispetto i diritti umani sono ancora idee lontane.
La svolta è storica, con il sapore di un ritorno al passato.  
Reportage dal paese di Sweet Mickey.

«Ritornare a prima del 1986. Correggere i problemi degli ultimi 25 anni. È questo che intende fare Michel Martelly. Si tratta di un cambiamento sì, ma verso il passato». È il commento del giornalista Gotson Pierre sul nuovo presidente della Repubblica di Haiti.
«Ora l’oligarchia è ancora più forte, è tornata al potere e lo ha fatto sotto forma di una destra populista».

Le elezioni degli stranieri
Ma facciamo un passo indietro.  Il 28 novembre 2010 al primo tuo di elezioni truccate e a bassa partecipazione, il popolare cantante di kompa Michel Martelly, Sweet Mickey per i fans, arriva solo terzo. Al primo posto la costituzionalista e docente universitaria Mirlande Manigat e al secondo Jude Célestin, candidato del presidente uscente René Préval e genero del medesimo. Ma solo Célestin può contare su una coalizione di partiti in appoggio (si veda MC gennaio 2011), gli altri due non hanno una base politica.
Le elezioni sono volute dalla comunità internazionale e dallo stesso Préval che vede il suo delfino in pole position. Nella realtà haitiana del dopo terremoto non ci sono le condizioni tecniche (il sisma del 12 gennaio 2010 ha ucciso 300 mila persone e oltre 1,3 milioni sono sfollate) né politiche. La Commissione elettorale provvisoria (Cep), organo «neutrale» incaricato di organizzare le consultazioni, è di fatto in mano al presidente uscente. Così i principali partiti politici non presentano candidati e i movimenti sociali haitiani invitano a boicottare lo scrutinio. Risultato: scarsissima affluenza alle ue, difficili condizioni di voto e brogli massicci.
«Le elezioni sono state una farsa: disprezzo assoluto della popolazione e risultati inattendibili. La maggioranza dei settori della società haitiana non le voleva in quel momento». Chi parla è Suzy Castor, storica, grande intellettuale, e co-fondatrice, insieme al marito, il compianto Gérard Pierre-Charles, di uno dei maggiori partiti haitiani, l’Opl (Organizzazione del popolo in lotta).
I sostenitori di Martelly – anche lui senza un partito, ma appoggiato da migliaia di fans – non accettano la sconfitta e scendono in piazza con violente manifestazioni.
Martelly è legato alla destra duvalierista e aveva sostenuto il colpo di stato del 1991 contro il presidente Aristide. Ha molto seguito e uomini fidati nelle popolose bidonville della capitale. Si rischia il caos totale nel paese devastato dal terremoto e in preda a un’epidemia di colera mai vista.

Elezioni «commissariate»
Le diplomazie Onu e soprattutto Usa si mettono in moto. Si decide una riconta di verbali di voto (non dei voti) per modificare il risultato del primo tuo. Lo scarto tra Célestin e Martelly è minimo (si parla di 6.800 voti), nulla in confronto ai brogli verificati e denunciati da organizzazioni di difesa dei diritti umani haitiane e di monitoraggio elettorale inteazionali.
Hillary Clinton fa un viaggio lampo a Port-au-Prince e convince René Préval a ritirare (informalmente) il suo candidato. La riconta (pilotata) delle «elezioni farsa» ribalta il risultato: Martelly si ritrova al secondo posto a spese di Célestin, che si ritira in buon ordine.
Al secondo tuo, rinviato al 20 marzo, Martelly surclassa Manigat con una percentuale di 67,7% delle preferenze. L’affluenza è sempre molto bassa, meno del 20% degli aventi diritto.
Intanto la coalizione di Préval, Initè, ottiene la maggioranza dei seggi a camera e senato.

Un presidente del passato
L’arrivo alla presidenza di Sweet Mickey legato alla classe dominante haitiana è un vero passaggio storico.
Si tratta del ritorno dell’oligarchia al potere dopo 25 anni di lotte e rivoluzioni dei movimenti sociali. Un’oligarchia che ha radici storiche nella rivoluzione di fine XVIII secolo, e che ha sempre mantenuto le distanze dal popolo, quasi non esitesse.
La novità è l’atteggiamento populista di Martelly, uno show man, che ama il bagno di folla, va in mezzo alla gente, inaugura scuole, fa promesse. Atteggiamento non sempre ben visto dagli altri esponenti dell’oligarchia.
Martelly ha anche amici scomodi, come il colonnello Michel François, il capo della polizia che assieme al generale Raoul Cédras aveva condotto il sanguinoso colpo di stato del 1991 (in tre anni fece circa 5.000 vittime, soprattutto tra i leader della società civile). Golpe organizzato e finanziato dagli Usa (Geroge Bush padre alla presidenza) per stroncare il sogno di libertà e auto determinazione dei movimenti sociali haitiani, gli stessi che rivoltandosi a Jean-Claude Duvalier, l’avevano fatta finita con la dittatura.
Continua Gotson Pierre: «In questa classe dirigente non c’è senso dello Stato, vogliono gestire la cosa pubblica come nel privato; riscontriamo un individualismo spinto. Martelly si appropria dello Stato come di un affare personale: un autocrate».
Suzy Castor, non vuole cedere al pessimismo: «Abbiamo un presidente che canta e danza. Ma in che direzione stiamo andando?
I consiglieri di Martelly sono in maggioranza ex macoute (qui inteso come duvalieristi, ndr) e pochi hanno esperienza delle cose di Stato. Qui, quando si raggiunge il potere, si mette su il proprio clan». E rincara Gotson: «Non c’è ancora coscienza di cittadinanza, il tessuto sociale è debole. La gente è pronta ad accettare quello che il potere fa. L’amministrazione è stata talmente assente negli ultimi anni, che adesso vedendo Martelly correre e mostrarsi in pubblico il popolo pensa: almeno questo si sposta, parla con noi di problemi reali».

Un paese da «ricostruire»
E la ricostruzione? L’oltre un milione di terremotati che vivono in condizioni drammatiche?
La Commissione a interim per la ricostruzione di Haiti (Cirh) voluta dalla comunità internazionale, con l’esclusione totale delle forze vive della società haitiana, e approvata da Préval, è ormai giunta a fine mandato. Ma i risultati sono tutt’altro che evidenti.  «Abbiamo l’impressione che i soldi promessi non siano arrivati». Dice padre William Smarth, ottuagenario sacerdote associato alla congregazione dello Spirito Santo. Lui, uno dei pilastri morali del paese, ha «fatto» un pezzo di storia di Haiti.
«Per me la ricostruzione non è un problema di soldi ma un momento partecipativo di dibattito nazionale. Préval è stato nullo: si è preoccupato solo del potere, mantenerlo o mettere un fedele al suo posto. Questo mentre la gente è nel bisogno. Occorre ancora molta educazione politica.
Dopo il 12 gennaio 2010 è stato passivo, anche per questo ha perso consensi e il suo successore designato non è stato votato. Lui ha giocato con la comunità internazionale proponendosi come stabilità».
Si rattrista l’anziano prete a cui si deve la traduzione dei messali e del catechismo in lingua creola e un grande lavoro di formazione per le generazione future, che continua tuttora.
«Oggi è la comunità internazionale che dirige il paese: Usa, Francia, Brasile; con una certa rivalità tra loro. Il Brasile è più accettato dalla popolazione perché ha anche aiutato.
Ma non c’è alcuna realizzazione delle strutture di base. Ora gli stranieri sono stati forzati a provare un altro cammino con questo nuovo presidente.
L’inquietudine è che si appoggi ad un’ala molto conservatrice, una destra non intelligente, ovvero le vestigia di Duvalier. Ma non è più la stessa epoca – continua il sacerdote costretto all’esilio dal dittatore nel 1969 e molto attivo nei movimenti sociali e nella chiesa di base – non possiamo restare con la gente di Duvalier».
Scava nel passato, quasi rivedesse i Volontari della sicurezza nazionale (al secolo Ton ton macoute) sfilare al passo dell’oca con gli stivali lucidi: «Haiti ha acquisito due capisaldi democratici dalla rivolta dell’86. Primo: il diritto di parola, solo dopo grande sacrificio. La stampa però è ancora debole non fa un lavoro di formazione politica. Secondo: la lotta per i diritti delle donne, che sono migliorati, nella vita e nella politica.
Un altro punto importante è la volontà dei genitori affinché i bimbi vadano a scuola. Fino al 1960 non si preoccupavano di questo, soprattutto per le bambine. Adesso si rendono conto che se i figli non sanno leggere e scrivere non hanno via di uscita».

Il ritorno dei dinosauri
E Jean-Claude Duvalier ha fatto di nuovo parlare di se, tornando, a sorpresa, nel paese il 16 gennaio 2011, dopo 25 anni di esilio. Un durissimo colpo per i movimenti sociali, donne e uomini che avevano lottato per rovesciare la dittatura e che, molto spesso hanno famigliari vittime del suo sanguinario regime. Duvalier deve essere giudicato per crimini contro l’umanità ed è oggi sotto libertà vigilata a Port-au-Prince (in realtà si muove liberamente). Un giudice d’istruzione della capitale sta trattando il caso e si aspetta un segnale forte della giustizia haitiana contro l’impunità.
Un mese dopo il ritorno di Duvalier anche Jean-Bertrand Aristide, fuggito nel 2004 in seguito a una rivolta popolare, fa il suo rientro ad Haiti, aumentando ulteriormente la confusione. «Aristide mantiene un basso profilo pubblico. Però incontra molte persone, fa riunioni. Quando è rientrato ha detto di volersi interessare all’educazione» racconta Gotson Pierre. «Il suo partito Fanmi Lavalas non ha più preso posizioni, faceva più uscite pubbliche prima del ritorno».

Diritti sotto terra
Scettiche sul processo di ricostruzione anche le attivissime associazioni di difesa dei diritti umani.
Da alcuni mesi sono iniziate le espulsioni forzate di terremotati accampati in modo informale un po’ ovunque in capitale e in altre città colpite dal terremoto.
«È una questione molto preoccupante e si verifica in continuazione. Una violazione della Costituzione haitiana, nel suo articolo 22 che protegge il diritto alla casa e il diritto delle persone sfollate all’interno del proprio paese, ma anche di convenzioni inteazionali ratificate da Haiti». Chi parla è Antonal Mortimé, giovane segretario esecutivo della Piattaforma di organizzazioni haitiane per la difesa dei diritti umani (Pohdh), la maggiore rete nazionale che raggruppa otto organizzazioni di difesa dei diritti umani ad Haiti.
«Come piattaforma stiamo lavorando in una quarantina di campi dove formiamo le persone affinché rivendichino loro stesse i propri diritti, ma ciò non impedisce che in certe zone, in particolare nella regione metropolitana, si verifichino frequenti espulsioni che causano violazioni sistematiche dei diritti della persona. Questo avviene talvolta con la complicità di agenti di certe municipalità o ancora di grandi proprietari appoggiati dal governo.
Lo stato haitiano dovrebbe farsi carico e accompagnare queste persone affinché trovino un luogo dignitoso per reinstallarsi».
Ma i terremotati sloggiati non ricevono un habitat decente. In alcuni casi i campi sono ricollocati in altre zone, dove però le condizioni non sono differenti dai campi di origine.
«L’Oim (Organizzazione internazionale dei migranti, ndr) ha appoggiato lo Stato a spostare questi campi fuori città, sulla strada verso Nord. Ma qui non c’è elettricità, non ci sono strutture per cure mediche, per l’educazione. Si è lontani dai luoghi di lavoro, con condizioni di trasporto pessime e c’è molta promiscuità. Inoltre sono zone a rischio smottamento, inondazione e contaminazione con colera» continua Antonal.
Sulla costruzione fisica delle case la piattaforma fa pressioni affinché la Cirh si faccia da parte e gli haitiani prendano il controllo del processo della ricostruzione con tutti i mezzi che la commissione ha in mano, ovvero che lo Stato haitiano possa affrontare il problema della casa, nella prospettiva del diritto all’habitat, all’accesso alla terra e ai servizi sociali di base.

Finalmente … il  governo
Dopo due tentativi andati a vuoto (bocciati dal parlamento), il presidente Michel Martelly è riuscito, nell’ottobre scorso, ad avere la fiducia dal parlamento per il governo guidato da Garry Conille. Diplomatico e funzionario dell’Onu, Conille è stato consigliere di Bill Clinton nella sua veste di inviato dell’Onu per Haiti. Clinton è anche il presidente della Cirh. In molti, dietro a questa ratificazione, vedono ancora una volta gli interessi della comunità internazionale a gestire la «cosa pubblica» nel paese.
«Osserviamo alcune iniziative inquietanti del governo Martelly-Conille – incalza Antonal Mortimé – È la prima volta dal 1987 che c’è una compagine governativa così numerosa: tra ministri e segretari di stato sono 37. Troppi per un paese senza soldi.
Inoltre è stata annunciato la creazione dell’esercito ad Haiti, senza alcuna consultazione nazionale, non sono stati implicati gli altri poteri, come il legislativo.
Le Forze Armate d’Haiti si sono spesso macchiate di crimini e sono state all’origini di numerosi colpi di stato. Il presidente Jean-Bertrand Aristide, riportato ad Haiti dagli statunitensi dopo il putsh del generale Cédras, nel 1995 aveva soppresso l’esercito. La sicurezza intea e delle frontiere fu da allora affidata alla polizia nazionale e alle missioni militari dei caschi blu Onu che si sono succedute.
«Noi non abbiamo una posizione pregiudiziale sulla questione, ma siamo molto inquieti sul processo che Martelly ha cominciato per ripristinare l’esercito. Ad esempio, contrariamente alla convenzione sull’uguaglianza dei sessi, ha già detto che sarà composta da soli uomini. Inoltre l’iniziativa è stata discussa con la comunità diplomatica, nelle grandi ambasciate, Usa, Canada, Francia, Messico e Brasile. Il parlamento non è stato informato, quando invece è co-depositario, secondo la Costituzione, della sovranità nazionale. C’è la Minustah (Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione di Haiti) il cui mandato è stato rinnovato fino all’ottobre 2012. La questione dell’esercito è legata alla presenza dei militari stranieri, perché si tratta del processo di sviluppo generale del paese per dare una risposta all’insicurezza, e alla ricostruzione».
Preoccupate le organizzazioni per i diritti umani anche per la rinascita dei servizi segreti: «Temiamo che si faccia una retromarcia fino all’epoca Duvalier. Sarà costituito il Sin (Service d’intelligence national) che avrà come missione di sorvegliare i luoghi divertimento, i media, i tribunali, le frontiere, ecc. Abbiamo già osservato un aumento delle perquisizioni su alcune strade. Il controllo della stampa, ad esempio, va contro la Costituzione, garante della libertà di espressione». Martelly parla delle sue grandi priorità: ristabilire lo stato di diritto, l’educazione, l’ambiente e il lavoro. «Nel suo comportamento e nelle sue dichiarazioni, anche nei confronti dei media, non sentiamo che gli stia a cuore lo stato di diritto o l’educazione. La società civile globalmente non è stata consultata su questi grandi temi. Il presidente, per certe decisioni, è passato a lato della Costituzione».

Marco Bello

Marco Bello




Ai confini della speranza

Reportage dalle missioni nella Rift Valley: Manda e Sanza (1)

Manda è la missione ultima nata, generata dalla parrocchia di Sanza; entrambe si trovano nella Rift Valley, con temperature altissime, dove siccità e carestia sono cicliche e drammatiche: qui ho conosciuto nuove etnie, ho visto scene di vita quotidiana «arcaica», ho ascoltato storie di vita missionaria inimmaginabili… Ho immagazzinato forti sensazioni e non posso fare altro che condividerle.

Nell’ultimo viaggio in Tanzania ho visitato luoghi, tribù, realtà che non avevo mai visto, percorrendo centinaia di chilometri su strade dove i grandi protagonisti sono sabbia e spine, per lasciarmi poi coinvolgere da realtà lontane anni luce dalla nostra. Ho conosciuto nuove etnie e i missionari che lavorano, crescono, conoscono, imparano e vivono con loro, a temperature altissime senza acqua, né luce, tanto meno la rete per usare il cellulare.
Ho ascoltato storie di vita di missionari che vivono lottando ogni giorno per avere acqua e per far funzionare pannelli solari. Un mondo che non immaginavo. I miei occhi, prima ancora della macchina, hanno fotografato scene di vita quotidiana «arcaica»: donne che timidamente mi osservavano mentre con la zappa in una mano e la tanica nell’altra facevano la fila presso uno dei rari pozzi della zona, costruiti dai missionari; sguardi di donne e di bambini che continuano a interrogarmi. Mai come in questo viaggio ho capito che non potevo fare altro che ascoltare, vedere e immagazzinare sensazioni da trascrivere e raccontare.

Verso le missioni della Rfit Valley
Con padre Giacomo Baccanelli, superiore regionale dei missionari della Consolata, partiamo prestissimo da Iringa, alla volta delle missioni di Manda, Sanza ed Heka.
Il viaggio è lungo e impegnativo: non è il periodo migliore per percorrere quelle strade «inesistenti». Siamo in piena stagione delle piogge: c’è il rischio di rimanere impantanati nella sabbia fangosa, che ricopre una superficie impenetrabile indurita dal sole.
Ci inoltriamo in strade strette e tortuose della foresta a picco su burroni riempiti da alberi altissimi. La temperatura sale e scende alla stessa velocità delle curve e il paesaggio fitto di verde, riempie i miei occhi.
Diretti al cuore desertico del Tanzania, maciniamo chilometri e chilometri senza vedere anima viva se non in qualche piccolo villaggio sperduto nel nulla. Non posso che chiedermi come facciano, di cosa vivano! Il paesaggio sembra inghiottirci. Enormi distese di acacie con rami e spine ci bloccano il passaggio. Più di una volta, padre Giacomo scende dalla macchina per aprire un varco nel bush.
Siamo finalmente al bivio per Manda, chiediamo informazioni sulla praticabilità della strada e ripartiamo. Dopo un paio d’ore arriviamo visibilmente stanchi.
Il sole è selvaggio come il paesaggio che ci circonda.
Parcheggiamo sotto i rami secchi di un albero, vicino a un pozzo dove alcuni bambini sono in fila per prendere l’acqua. Un piccolino alla mia vista scappa, un altro si attacca a ventosa alle gambe del fratello obbligandosi a evitare il mio sguardo.
Un giovane con le cuffiette alle orecchie riempie le sue taniche gialle. Ascolterà davvero qualcosa o è solo una novità introdotta nel villaggio per imitare i coetanei che vivono in città?

A MANDA CON IL PIONIERE DELLA RIFT VALLEY
Mi guardo attorno e non c’è nulla. Solo distese di alberi e boscaglia fitta. Ci viene incontro padre Antonio Zanette: un instancabile missionario della Consolata che dal 1967 lavora in Tanzania e da vari anni in questa regione, diventando il pioniere della Rift Valley.
Esile ma con un fisico temprato alle temperature e alla realtà del posto, ci accoglie con estrema cordialità. Impegnatissimo tra costruzioni, ragazzi da gestire, donne che lo aspettano per un seminar, ci fa entrare in una casa ancora in costruzione. È davvero caldo! Ci offre una soda. Dopo qualche minuto arriva una delle donne del villaggio con un po’ di polenta e carne selvatica: nonostante la mia riconoscenza per il gesto, riuscirò solo ad assaggiarla.
Davanti a una sigaretta sempre accesa padre Antonio inizia a raccontarmi la sua vita di missione. «Dal 2000 mi spingevo in questa zona al confine con Dodoma. Nel 2005 venivo una volta al mese, a pregare con un gruppo di cristiani, a una decina di chilometri da Manda e mi chiesero se potevo occuparmi anche di questa area e dei villaggi sparsi nei dintorni. La realtà di arretratezza la conoscevo già. Era ed è ancora tutto da sviluppare. E così iniziai a pensare a come fare per aprire una missione.
Sono qui stabile da settembre 2010, anche se sono appena rientrato dall’Italia, dove sono stato per un intervento medico. Nel gennaio 2011, il vescovo di Dodoma ha dichiarato che vuol promuovere a parrocchia la missione di Manda, cui fanno capo una quindicina di villaggi vicini. C’è davvero tanto da fare perché qui la maggior parte della gente è pagana, ma sono molto fiducioso, perché è gente capace e sveglia. L’assistenza religiosa mi ha permesso di entrare nelle loro vite e quindi di conoscerli.
E i primi risultati sono che proprio i giovani vogliono farsi cattolici, cercano una strada di fede profonda».
Mi perdo a osservare l’entusiasmo di questo uomo consapevolmente e forse volutamente solo, in un posto davvero disperato, privo di qualsiasi elementare comodità.
Facciamo un giro della missione e padre Antonio continua a spiegarmi: «Il problema maggiore è l’istruzione, perché in pochissimi vanno a scuola: in tutta la zona, molto estesa e popolosa, ci sono solo cinque scuole elementari; altro problema grande è la mancanza di acqua. Con l’aiuto di un’associazione americana ho fatto costruire un pozzo per la gente».
Ci sono 15 etnie nella zona di Manda, ma le maggiori sono i wasukuma e i wagogo. «I wasukuma sono grandi coltivatori e pastori tradizionalmente nomadi anche se in tanti iniziano a essere stanziali – continua padre Antonio -. Occupano una zona che sfruttano fino all’esaurimento e poi l’abbandonano. I wagogo invece sono stanziali. Lavorano solo per il proprio fabbisogno che poi dipende dalla stagione delle piogge. E quest’anno sembra che proprio non voglia piovere. Il raccolto sarà scarsissimo e la fame sarà tanta».
Le strutture della missione in costruzione si ergono come antitesi a una natura selvaggiamente aggressiva. «Ciò che vedi e sto ultimando comprende la chiesa, la casa dei padri e quella delle suore, un centro per il catechismo e per le donne cattoliche e la falegnameria. Sto aspettando le suore e sono sicuro che una volta arrivate la missione cambierà faccia. Non ci sono piani definiti circa la nostra collaborazione. Svolgeranno il loro servizio missionario in base alle proprie presenze e alla realtà del posto. È una zona di prima evangelizzazione con tutte le difficoltà che noi missionari conosciamo bene» conclude il missionario. 
Avendomi scrutato più di quanto abbia fatto io con lui, padre Antonio mi dice: «Chi me lo fa fare? Ti starai chiedendo. Beh, non so darti una risposta. Non te lo so dire. Posso solo dirti che sento che il mio posto da uomo, prima ancora che da missionario, è qui, tra questa gente».
Non posso negare che appena arrivata a Manda, dopo un viaggio così lungo, un caldo sfibrante, immersa a 360 gradi nel bush, conoscendo quest’uomo solo, mi sono chiesta come si potesse vivere una quotidianità così ostile, isolata e tremendamente dura, ma salutandolo ho visto un uomo sereno, circondato dall’affetto e dalla stima delle donne del villaggio che avevano percorso chilometri per il seminar promesso.

SABBIA E SPINE… FINO A SANZA
Ripartiamo alla volta di Sanza, distante solo sessanta chilometri, ma la strada sarà ancora peggiore di quella precedente. Una pianura di sabbia arsa dal sole ramificata in una miriade di strade sterrate. Da una stagione all’altra il paesaggio cambia così velocemente che è difficile imboccare la giusta direzione. Non un albero particolare, non una freccia o un segnale utile da fotografare mentalmente.
Nel nulla sbuca un anziano su una bicicletta che ci dice di seguirlo, ci indicherà lui la strada per Sanza, senza però valutare che lui è in bicicletta e noi su un fuoristrada. Per la «gioia» di padre Giacomo i rami delle acacie ci abbracciano in uno stridulo raschiare contro le portiere della macchina.
Arriviamo finalmente a Sanza; ci  accolgono un giovane diacono, Marco Turra, che presto sarà ordinato prete, padre Salvatore Renna, veterano anche lui di questi villaggi della Rift Valley, e padre Thomas Ishengoma, rientrato in Tanzania nel 2002, dopo essere stato in Spagna e Colombia.
La missione di Sanza è stata aperta nel 1987. «Era una zona di prima evangelizzazione, dove mancava tutto – mi racconta padre Giacomo, durante il viaggio -. L’emergenza era ed è tuttora l’acqua. È un posto arido. Abbiamo iniziato con la parrocchia, un dispensario, un asilo e tanti piccoli aiuti per tamponare. Pensavamo anche a una scuola di arti e mestieri ma poi l’idea non è maturata. Il problema di qui è che manca l’intraprendenza per collaborare allo sviluppo della zona».

UNA MISSIONE IPERDINAMICA AI CONFINI DEL MONDO
Marco mi accompagnerà nei tre giorni successivi alla scoperta di questa parte di Tanzania per me nuova. «Non c’è campo per telefonare, né luce – mi dice subito Marco -. Siamo fuori dal mondo. Noi utilizziamo i pannelli solari e il generatore per le cose principali, ma la situazione è tale che ci sprona a reinventarci ogni giorno come affrontare le difficoltà nostre, del posto e della gente. Le strutture che vedi sono la chiesa, l’asilo, il dispensario gestito dalle suore, un magazzino di cibo per i poveri, soprattutto mais, distribuito una volta al mese. Poi abbiamo la falegnameria, in cui sono stati fatti anche i banchi per l’asilo, e un garage essenzialmente per le nostre macchine, messe a dura prova dalla condizione delle strade. Infine abbiamo un allevamento di mucche, capre, maiali e l’orto. Cerchiamo di essere autosufficienti, ma è dura. Quest’anno la siccità ci sta distruggendo. Le uniche verdure che riusciamo a mangiare sono i cavoli cinesi. La frutta è poca e se continua a non piovere non ce ne sarà proprio».
Mentre Marco mi mostra l’orto, osservo delle donne in lontananza che nel letto secco di un fiume, fanno buche nella sabbia per prendere acqua. Qui è una consuetudine. In ginocchio, piegate per ore, sotto un sole bollente, con i loro bambini sulla schiena, scavano per riempire secchi e bacinelle di un’acqua sabbiosa, scura.
Conosco il valore dell’acqua che proprio questo continente mi ha insegnato, ma mai come in questo viaggio ne capirò il significato vitale. Non ci sono parole capaci di descrivere lo stress e la tensione quotidiana di queste persone per il bisogno vitale dell’acqua in una zona così depressa. Non ho visto la presenza di una sola ong in questa parte di Tanzania, popolata da tribù che vivono un olocausto quotidiano, abbandonati dal mondo ma non da questi angeli di Dio, che per il solo fatto di accompagnarli, ascoltarli e sostenerli vivendo insieme, mangiando o non mangiando, ammalandosi come loro, meritano la nostra stima estrema. Questi sono posti dove solo chi ha Dio come fedele amico riesce a vivere e rimanere sereno. Non è un posto per tutti.

UN GIOVANE MISSIONARIO A SCUOLA
Prima di visitare gli asili, Marco mi porta nella scuola primaria governativa, vicino alla missione: 800 studenti in divisa, dai 5 ai 13 anni mi riempiono la vista. Una scuola così affollata, ma gestita da soli 10 insegnanti che pur di lavorare arrivano da zone lontane come il Kilimanjaro.
Dixon Baluti è il vice mwalimu mkuu (vice preside) della scuola. Orgoglioso del ruolo, ci fa accomodare nel suo ufficio affollato di carte e di libri. Ventisette anni, Dixon è della tribù dei jaluo, mi precisa, e viene da Mwanza. Ha da poco concluso il corso di preparazione per maestri a Tanga. «Questa è una zona difficile. I genitori non hanno la formazione necessaria per capire l’importanza e valore dell’istruzione. Molti non mandano i figli a scuola, nonostante l’obbligo imposto dal governo. I ragazzi sono abbandonati a se stessi e obbligati a lavorare i campi con i genitori fin da piccoli. La retta è di 5 dollari l’anno e molti non riescono a pagarla. Adesso le lezioni iniziano alle 7 di mattina e durano fino alle 4 del pomeriggio, abbiamo aumentato le ore grazie al piano di aiuto alimentare americano, voluto dal Presidente Obama». Osservando i sorrisi di queste centinaia di giovani non posso che dire con loro «asante sana» (grazie mille) a Obama: grazie al piano alimentare americano, possono aver un pasto tutti i giorni. I bambini dell’asilo mangiano l’uji (polenta di mais e latte) appena arrivano e poi a pranzo: una vera benedizione in un posto così disperato.

FORMAZIONE, FORMAZIONE E FORMAZIONE
Fino al 2007 padre Thomas Ishengoma era formatore al seminario dei missionari della Consolata di Morogoro e da tre anni è a Sanza, perché vuole misurarsi con una realtà di missione nella sua terra.
Di cultura sorprendente quanto la sua umiltà, padre Thomas è impegnato in molteplici attività: è parroco, si occupa della gestione degli asili della parrocchia e della formazione delle maestre, segue da vicino l’andamento delle scuole primarie e secondarie dei villaggi, organizza corsi settimanali e mensili per le donne, per le maestre e per le mamme.
«Credo molto nella formazione della nostra gente. Questa è una zona difficile, abbandonata a se stessa; tuttavia la gente sta iniziando a volere un cambiamento; per questo ho voluto fortemente mettermi a loro disposizione per incontri sull’andamento e mantenimento dell’asilo, dall’alimentazione alla pulizia, dalla formazione delle maestre alla pedagogia del bambino, senza tralasciare la formazione dei giovani e delle donne nei villaggi. Una volta al mese, di solito l’ultimo sabato, celebriamo La giornata del bambino: dalle 8 del mattino alle 4 del pomeriggio, in parrocchia o in qualche posto qui vicino, raduniamo genitori e figli dai 3 ai 14 anni; mentre le madri preparano il cibo, i bambini si divertono giocando e disegnando; ma la cosa più importante è che insieme si stabilisce “il progetto di Dio o casa del bambino”, ossia la conoscenza concreta del bambino che abbraccia un progetto di vita futuro.
«Nostro obiettivo e nostra priorità è la formazione – interviene padre Renna Salvatore a confermare le parole di Thomas -. Solo attraverso la formazione si può cambiare la realtà. La missione in questi anni è già riuscita a creare dei forti cambiamenti sia a livello di sviluppo economico che in quello dell’evangelizzazione. Proprio da queste zone sono arrivate diverse vocazioni. Ma il lavoro è ancora molto».

Mitico factotum 
Padre Salvatore, pugliese doc, dal 1964 in Tanzania, è da sempre nei posti «caldi» della missione. A Sanza da sei anni, è punto di riferimento per tutto e per tutti: è il mitico «tuttofare» e si occupa della parte tecnica della missione: dalle costruzioni di asili nei villaggi all’animazione, all’insegnamento, ai seminari di formazione e promozione umana.
«In posti così esasperati non si può avere un ruolo definito, siamo tutti intercambiabili» mi dice padre Salvatore mentre prepara il suo delizioso karcadè. Tutti lo conoscono. Sguardo dolce ma deciso, barbetta che suscita ironia tra i confratelli, esperienza di vita quasi totalizzante in missioni di frontiera, padre Salvatore non può che incantarmi.
Riprendendo il discorso sulla formazione, padre Renna continua: «Rimangono tuttavia problemi seri, come le piaghe dell’alcolismo e delle droghe leggere, la poligamia intrinseca alla loro cultura; ora è arrivata anche l’aids. Il livello culturale è molto basso, anche perché sia i wagogo che i wasukuma sono ancorati alle loro tradizioni. Potrebbero stare meglio, ma continuano a vivere come cento anni fa, anche a causa della superstizione. I problemi derivati da casi di stregoneria sono allucinanti. Il ricorso al medico tradizionale, come è chiamato benignamente, è una cosa normale».
«Secondo le loro convinzioni – interviene Marco – i malanni non possono venire da Dio, ma sono causati da persone che tramano di nascosto; per scovarle si ricorre dallo stregone. Una volta scoperto il colpevole, la vendetta è pesante: va dall’allontanamento della persona dal villaggio fino all’omicidio».

Giovane missionario
iN UNA TERRA ESTREMA
Marco Turra è entrato nel seminario diocesano che aveva diciannove anni. Nel 2000 era a Londra quando conobbe i missionari della Consolata e decise di diventare uno di loro.
È arrivato in Tanzania a Morogoro per lo studio del kiswahili e poi subito in missione a Pawaga. Da settembre 2010 è a Sanza. A vederlo, così giovane, rimango sorpresa per la sua capacità di adattamento in un posto simile e per il suo modo di interagire con le persone nei villaggi. Come i suoi confratelli è impegnatissimo. Insegna in alcune scuole secondarie, si reca nei villaggi, visita i malati, segue la casa dei non vedenti, cura con passione anche l’orto e l’allevamento delle mucche della missione, e mi porta con orgoglio a visitarle.
Marco mi regala altri ricordi indimenticabili, come la conoscenza di una famiglia wasukuma e l’incontro con gli anziani wagogo ciechi, alloggiati in una costruzione in mattoni con quindici stanze indipendenti. 

LE CASE PER GLI ANZIANI CIECHI
Attraversiamo il villaggio che il sole è ancora forte con la sabbia che si infiltra dovunque. I bambini conoscono Marco ma si avvicinano timorosi. Mi osservano, mi scrutano, ma hanno paura. Molti scappano. Non mi era mai successo in Tanzania di trovare dei bambini che alla vista di un bianco ancora scappassero.
Oltrepassiamo le case dei wagogo: basse e rettangolari. Una signora mi invita a entrare. La struttura è in fango. Il tetto è piatto ricoperto da cespugli di erba, i muri con piccole finestre. Entro e una leggera frescura mi sorprende, così come la perfetta divisione della casa: in un angolo separato da una parete di fango c’è la cucina, dall’altra parte la «zona notte» con un grande letto matrimoniale e una zanzariera. La donna mi spiega che hanno il cortile in comune, dove di solito si cucina e si accolgono gli ospiti.
Usciamo dalla casa e vediamo gli anziani sotto un albero, seduti su pelli di capre, stuoie e sgabelli. Marco li chiama e non appena sentono la sua voce si alzano e raggianti ci vengono incontro. Capisco subito che sono i ciechi. In tanti hanno cataratte che sono degenerate.
Sono tutti anziani che i famigliari hanno «invitato» ad andarsene da casa, quando per la loro cecità sono diventati un peso per il resto della famiglia. Vengono da zone lontane. Hanno affrontato un viaggio di molti chilometri, quando hanno saputo di questa casa messa a disposizione dai missionari per i non vedenti. Sono comunque indipendenti e riescono a gestirsi da soli. Le donne della comunità di base del villaggio provvedono loro acqua e cibo e essi riescono a cucinarselo.
Mi raccontano storie pazzesche, mentre i loro occhi assenti e fissi nel vuoto si inumidiscono; sono storie in cui si intrecciano i ricordi di fatica e fame, siccità e lavoro nei campi a temperature più che torride. Eppure sono lì, sereni e felici, senza alcun rancore verso persone o eventi del passato né sul perché sia toccata loro tale sorte, ma continuano a ringraziare Marco e i missionari perché non li hanno lasciati in mezzo alla strada. Mi sento veramente in un altro mondo se penso a quello nostro!

UNA GALLINA DAI WASUKUMA
È arrivata Maria, una donna wagogo di quarantacinque anni, ma che ne dimostra molti di più, che ci accompagna alla casa di una sua amica wasukuma. Quest’ultima l’avevamo incontrata la mattina davanti all’asilo, dove aveva accompagnato il figlioletto, poiché abitano in pieno bush a qualche distanza dalla missione.
Iniziamo a percorrere un sentirnero sconnesso tra i soliti campi di mais bruciati dal sole, dove i girasoli secchi sembrano delle braccia tese al cielo per invocare una pioggia che non vuole cadere; sbuchiamo in una stradina polverosa tra acacie dalle spine lunghe e affilate, che graffiano impietosamente le portiere dell’auto; arriviamo davanti a un recinto di spine alto più di un metro: entriamo e ci viene incontro la nostra amica.
Un viso dai tratti eleganti e una pelle d’ebano. Altissima e slanciata mi sorride come fossi l’amica di sempre. Qualche metro più in là c’è la madre anziana, altrettanto alta. Ci invitano a sederci all’ombra della casa.
Ci sono tutti i suoi figli, tranne il piccolo di cinque anni, che conosceremo più dardi, quando la signora mi mostrerà la ricchezza di famiglia: un folta mandria di mucche di razze diverse e pregiate, capre, pecore, tutte vigilate dallo sguardo maturo del bambino. Non ci sono uomini, poiché sono anch’essi ad accudire il bestiame; arriva però un vicino, spinto dalla curiosità di conoscere la mzungu (bianca).
Cominciamo a parlare, mentre i bambini ci scorrazzano attorno insieme a galli e galline. Marco traduce le tante domande che rivolgo alla giovane wagogo. Sono incuriosita dalle caratteristiche di questa etnia fiera e seminomade, discendente dai masai. Fisicamente infatti si assomigliano; ma la donna ci spiega subito che culturalmente sono molto diversi: i wasukuma non sono grandi lavoratori e più intraprendenti: lo testimoniano le vaste distese di campi coltivati non solo per la loro sussistenza, ma anche per vendere parte del raccolto.
Ma la ricchezza principale è costituita dal bestiame, che serve anche per stipulare matrimoni e formarsi una famiglia. Per una donna come me, mi dice il suo vicinato, potrebbero sborsare anche cinquanta mucche, ma di quelle pregiate. Rispondo scherzando che sono troppo poche, ne servirebbero almeno un centinaio; dopo un istante di imbarazzo e indecisione scoppiamo tutti a ridere. Poi la madre anziana racconta del suo matrimonio e della dote pesante pagata dal marito e non solo in animali, ma anche in denaro.
Ma è la donna più giovane a sottolineare che la loro è una famiglia aperta, pur mantenendo usi e costumi tradizionali di cui hanno capito il valore. Domando chiarimenti sulla pratica dell’infibulazione e la giovane risponde prontamente che è stata abbandonata ormai da molti anni. Anzi, rincara la dose contro certe usanze figlie della superstizione e ringrazia la presenza dei missionari che attraverso le scuole, il dispensario e gli incontri li aiutano a crescere i figli con maggiore apertura.
Rimango davvero senza parole! Sono seduta su uno sgabello in pieno bush, nel niente, davanti a tre caratteristiche case wasukuma: una per gli uomini, un’altra per le donne e i bambini e una terza per gli animali; siamo accerchiati da galline, gatti e cani, e questa donna vestita in tipico stile wasukuma, oltre a ringraziarmi per essere andata nella sua casa, mi dice convinta che hanno bisogno e vogliono una cultura più aperta per i loro figli.
Ecco le motivazioni e le gratificazioni capaci di farti rimanere in un posto come questo, ai confini della speranza. «È qui che acquista senso la presenza di noi missionari» mi aveva già detto padre Antonio Zanette e me lo sentirò ripetere a Heka da padre Saverio Diaz.
L’incontro termina con un’altra sorpresa divertente. I bambini iniziano a correre dientro a una gallina e la inseguono per parecchi minuti, finché decidono di acchiapparla e la consegnano alla mamma, che me la regala come segno di ospitalità. Cerco di prenderla e tenerla ferma tra le mani, tentando di non far capire che è la prima volta che maneggio una gallina. Il cuore dell’animale batte forte che sembra uscire dal suo corpo.
Marco mi spiega che i wasukuma non regalano mai animali morti. Se il regalo è una gallina, questa deve essere la migliore; per questo la fanno correre all’impazzata per dimostrare che non è malata, ma gode perfetta salute. 
Consegnata a padre Salvatore, il giorno dopo la gallina ricompare sulla tavola, per farmi gustare ancora una volta la squisita ospitalità dei missionari e della loro gente, capace di donare con tanta gioia nonostante la loro povertà.

Romina Remigio

Romina Remigio




Pakistan: i grigi mattoni dell’ingiustizia

Ogni volta che si parla di Pakistan è sempre per dare brutte notizie. Quando non ci sono attentati o omicidi o bombardamenti della Nato (26 novembre 2011, con 24 militari pakistani uccisi), si tratta di disastri naturali. Un peccato per un paese che altrimenti sarebbe affascinante. All’inizio di novembre 2011, a Karachi, provincia di Sindh, nel Pakistan meridionale, nel giro di pochi giorni sono stati uccisi un commerciante cristiano (Jamil Masih) e un pastore protestante (Jamil Sawan). Pochi giorni prima, nella stessa provincia, in una cittadina nei pressi di Shikarpur, erano stati assassinati quattro medici indù, probabilmente per mano di membri della confrateita musulmana Bhaya Baradari per vendicare un matrimonio tra una indù e un musulmano. Nel frattempo, l’Autorità pakistana delle Telecomunicazioni ha diramato un provvedimento che ordina alle società di telefonia di bloccare i messaggi di testo (Sms) in cui siano inserite una serie di parole ritenute volgari, oscene o nocive. Tra esse vi sarebbero – racconta l’agenzia Fides – anche «Gesù Cristo» e «Satana». Tutti episodi che, ancora una volta, confermano la difficile condizione in cui versano le minoranze non-musulmane che vivono nel paese asiatico, in particolare gli indù e i cristiani. Ognuno di questi gruppi conta circa 3 milioni di fedeli (pari al 2 per cento della popolazione pakistana).
Va ricordato che è ancora aperto il caso di Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte con l’accusa di aver offeso il profeta Maometto (blasfemia). «L’8 novembre 2010 – racconta nella sua autobiografia -, dopo cinque minuti di camera di consiglio, la sentenza si abbatte su di noi come un fulmine. “Asia Noreen Bibi, ai sensi dell’articolo 295-C del codice pakistano, questa corte la condanna alla pena capitale per impiccagione e a un’ammenda di 300.000 rupie”».
Nel frattempo la politica langue nella corruzione. Il presidente Asif Ali Zardari, già marito di Benazir Bhutto (assassinata il 27 dicembre 2007 durante la campagna per le elezioni generali), non ha dato una svolta al paese. Come grida nei suoi affollatissimi comizi Imran Khan, famoso ex capitano della nazionale pakistana di cricket, dal 1996 leader del Movimento per la giustizia, che si prepara alle elezioni del 2013. Oggi Khan è di gran lunga il politico più popolare, surclassando il presidente in carica e Nawaz Sharif. Quest’ultimo, miliardario ed ex primo ministro, è leader della Lega musulmana-N e gode del supporto dell’Arabia Saudita, attore invisibile ma certamente molto attivo sul palcoscenico pakistano. Più visibili sono gli Stati Uniti, che nel maggio 2011 in una città pachistana hanno trovato ed ucciso Osama bin Laden, da tempo ospite – più o meno occulto – nel paese asiatico. Per contrastare i talebani e controllare un paese strategico (e nucleare), Washington sovvenziona copiosamente l’esercito e il governo di Islamabad, ancorché inaffidabili e corrotti. Gioca invece da battitore libero l’Inter-services intelligence (Isi), la potentissima agenzia dei servizi segreti del Pakistan, coinvolta in tutti i conflitti e i complotti.

Indipendentemente da chi sia al potere, finora il paese asiatico non è riuscito ad uscire dal circolo vizioso della povertà. Tutti i dati lo confermano. Su una popolazione totale di quasi 190 milioni di persone, oltre 64 milioni vivono sotto la soglia di povertà, sia nelle aree rurali che nelle immense periferie degradate delle città. Le donne, tradizionalmente costrette ad un ruolo subalterno (nella famiglia e nella società), sono i soggetti più colpiti. Assieme ai bambini: si stima che il 37,4 per cento dei minori sotto i 5 anni siano malnutriti. In queste condizioni, è facile che gruppi di privilegiati – siano militari, politici al potere, religiosi musulmani fondamentalisti o l’oligarchia (composta da una decina di famiglie) – riescano a manovrare una popolazione fiaccata da un’esistenza ai limiti della pura sopravvivenza. In Pakistan, come in molti altri paesi del mondo, la «collera dei poveri» non ha ancora trovato una strada autonoma ed efficace.

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Missione una e trina

Mepanhira, Mecanhelas, Entre Lagos: panoramica a volo di uccello

Ero stato nel Niassa un mese dopo l’accordo di pace tra Frelimo e Renamo, firmato a Roma  il 4 ottobre 1992. Avevo trovato missioni in macerie e gente poverissima, affamata, con vestiti a brandelli… Sono ritornato il giugno scorso: dopo 20 anni, ho trovato comunità rifiorite, come quelle che fanno capo a Mecanhelas, una triplice parrocchia fino a pochi anni fa, ora ridotta a due, ma ricca di iniziative e di speranze.

In viaggio da Gurué a Mecanhelas, accompagnato da mons. Lerma, ci fermiamo nella missione di Mepanhira: una sosta molto breve ma sufficiente per confrontare i cumoli di macerie trovati 20 anni fa con la risurrezione delle numerose opere, per rivivere soprattutto le emozioni provate quando sentii raccontare le sue origini (cfr Missioni Consolata, aprile 1993, pag. 48-51).

Un pezzo di storia… che se ne va
Il primo a portare il vangelo in quella zona era stato un certo Namuro Chipenenga, nato nell’estremo sud del Niassa nel 1888 e morto a Mecanhelas nel 1990, alla bell’età di 102 anni.
Avventuriero, analfabeta e prepotente, cercò fortuna prima in Sudafrica, poi nel Nyassaland (oggi Malawi), dove imparò a leggere e scrivere. Un giorno entrò per curiosare in una chiesa cattolica e rimase folgorato dalle parole del missionario monfortano: si iscrisse al catecumenato e a 35 anni si fece battezzare col nome di Giovanni Battista.
Nel 1933 Giovanni Battista toò al suo villaggio natio e cominciò a insegnare la via del vangelo. L’anno seguente toò in Malawi con 250 catecumeni per farli battezzare nella missione dei monfortani. Estese la sua evangelizzazione ad altri villaggi e ogni anno portava centinaia di catecumeni nel Nyassaland per essere battezzati e confermati nella vita cristiana, finché i padri monfortani, consigliarono a Chipenenga di rivolgersi ai missionari della Consolata, da pochi anni presenti a Massangulo.
E così fece. Tre missionari della Consolata seguirono Chipenenga, che presentò loro 600 catecumeni pronti per il battesimo, cercarono un luogo adatto e si stabilirono nella zona: così nacque Mepanhira. Era l’anno 1938. 
Mepanhira divenne presto il centro propulsore dell’evangelizzazione del sud del Niassa, dando origine a nuove parrocchie, come Mitucue (1939) e Maua (1940), che a loro volta, dopo la II guerra mondiale, diedero vita ad altre fondazioni.
Fiore all’occhiello di Mepanhira fu la nascita delle «Suore dell’Immacolata Concezione», la prima congregazione di suore mozambicane, fondate da padre Oberto Abondio.
Con l’indipendenza del Mozambico (1975), tutta la missione fu nazionalizzata e i missionari cacciati. Trasformata in base militare del Frelimo e gli edifici ridotti a caserme, Mepanhira fu più volte bombardata e saccheggiata dai soldati della Renamo.
Solo Chipenenga, ormai cieco, rimase al suo posto e per 12 anni continuò a rincuorare i cristiani, sfidando le minacce del Frelimo e le pallottole della Renamo, finché un nipote lo portò in salvo a Mecanhelas.
Toata la pace, da Mecanhelas i missionari ripresero la cura delle comunità di Mepanhira e ne fondarono di nuove, restaurarono la chiesa e le altre strutture, e nel 2003 consegnarono la parrocchia al clero locale. «Con un certo rammarico – confessa padre Diamantino principale artefice della risurrezione di Mepanhira quando era parroco di Mecanhelas -. Se ne va così un pezzo della nostra storia, la seconda missione fondata dai missionari della Consolata in Mozambico; ma ne siamo anche felici, poiché il seme gettato in tanti anni di lavoro ha portato frutto, fino alla maturità della Chiesa locale.

Mecanhelas: vulcanica missione
«Anche in questa zona troviamo comunità molto antiche, formate dai nostri primi missionari. È la parte più evangelizzata del Niassa, popolata dall’etnia macua, molto aperta al vangelo, a differenza della popolazione del nord del Niassa in prevalenza musulmana» spiega il confratello colombiano padre Rogelio Alarcón, attuale parroco di Mecanhelas, insieme al portoghese padre José Neves. Entrambi hanno in cura 180 comunità cristiane: 140 formano la parrocchia di Mecanhelas, altre 40 quella di Entre Lagos.
«Il nostro è anzitutto e naturalmente un lavoro pastorale – continua padre Rogelio – di evangelizzazione e servizio sacramentale, visite alle comunità e animazione vocazionale e missionaria, formazione di catechisti, animatori di comunità, operatori ecclesiali: è la cosiddetta chiesa ministeriale, caratteristica in tutto il Mozambico, cioè, una chiesa dove i laici sono chiamati ad assumere e svolgere ruoli importanti nella vita della comunità cristiana».
Alla pastorale religiosa si aggiungono una folta serie di iniziative e progetti di carattere sociale: corsi di risorse umane, doposcuola per alunni in difficoltà, servizi sanitari, laboratori di carpenteria e meccanica, attività agricole e zootecniche…
Fiore all’occhiello della missione è il «Centro nutrizionale padre Ariel Granada», missionario della Consolata ucciso in un’imboscata nel 1991, durante la guerra civile mozambicana. Era stato lui a raccogliere i primi orfani in questo luogo, poi l’opera si è sviluppata e continua in sua memoria. Il Centro accoglie e cura bambini da 0 a 3 anni con seri deficit alimentari, causati da malattie (malaria), parassiti, mancanza di cure dei genitori. Nei casi più gravi si ricorre agli ospedali della zona e del Malawi.
Altra opera importante sono i «lares», case di accoglienza per studenti provenienti da comunità dell’interno che frequentano le scuole secondarie di Mecanhelas, Entre Lagos e altri due grossi villaggi. «Chiediamo loro un contributo in natura (prodotti agricoli) e un minimo in denaro; ma naturalmente non riescono a pagare tutte le spese» spiega padre Rogelio.
«L’ultimo progetto lanciato a Mecanhelas sono i corsi di microinformatica – riprende il missionario -. Iniziati da padre Simon Pedro, stiamo studiando la maniera di migliorarli con computer più modei. Per noi è un impegno gravoso, ma vale la pena. Anche in questo sperduto angolo del mondo l’informatica è indispensabile per chi vuole continuare gli studi o semplicemente trovare un lavoro».

Tito, il capomastro
Mi domando come facciano due soli missionari a portare avanti tante attività. Padre Rogelio mi legge nel pensiero: «La risposta è semplice: coinvolgiamo la gente del luogo e accogliamo laici dall’esterno». Il Centro nutrizionale è affidato a due mamme, coadiuvate da due giovani laiche missionarie portoghesi.
«La scuola d’informatica è nata grazie ad alcuni giovani portoghesi, venuti d’estate a Mecanhelas: hanno insegnato a maneggiare il computer ai coetanei locali, uno dei quali si è specializzato nel centro di formazione della parrocchia di Cuamba e, tornato al paese, è responsabile di tale progetto».
Da 4 anni a Mecanhelas c’è anche Tito Abraão, un laico missionario portoghese, che mi racconta sorridendo la sua storia. Già maturo e affermato capomastro, chiese di diventare fratello missionario della Consolata, ma durante il noviziato in Italia maturò la decisione di rispondere alla vocazione missionaria come laico. Tornato in Portogallo, incontrò il vescovo di Lichinga, Luis Ferreira da Silva, che lo portò nella sua diocesi.
«Ho lavorato per 14 anni con il dom Luis, un sant’uomo che riusciva ad avere aiuti con facilità – racconta Tito -. Abbiamo ricostruito le missioni distrutte dalla guerra, ingrandito la chiesetta di Lichinga facendone una degna cattedrale, costruito il monastero delle suore dell’Immacolata e nuove chiese, una delle quali può contenere più di mille persone sedute».
Tito ha lavorato per due anni anche nella diocesi di Inhambane, dove ha costruito scuole e un centro per la promozione delle donne. Da quattro anni è a Mecanhelas, occupandosi inizialmente di falegnameria, officina meccanica, catechesi e altre faccende. «A Mecanhelas erano sorte oltre 60 chiese e cappelle in varie comunità, con un programma di 8 costruzioni ogni anno, ma ben presto sono andate in rovina, perché fatte in fretta e senza l’esperienza. Ora sono state rifatte più solide e non cadranno facilmente».

Entre lagos: scuola di dialogo
Padre José e padre Rogelio si alternano nel servizio alle comunità della parrocchia di Entre Lagos, ai confini con il Malawi, ma non vi abitano, mancando ancora di strutture adatte. Ci sono invece tre suore brasiliane della Divina Provvidenza, che praticamente suppliscono il parroco in molte attività pastorali, come corsi di formazione e accompagnamento di catechisti, animatori e ministri laici, visite alle varie comunità.
Esse curano anche le opere sociali della parrocchia: seguono le due case di accoglienza per gli studenti, organizzano corsi di arti e mestieri per ragazzi e ragazze, promuovono artigianato e altri progetti di sviluppo.
Alle suore è affidata pure la gestione dei lares per ragazzi e ragazze e il funzionamento dell’Esam (Ensino secundario aberto moçambicano), un grande progetto educativo della diocesi di Lichinga, che ha aiutato tanta gente, soprattutto giovani, ad acquisire una formazione secondaria pre-universitaria. Nata in Malawi per opera dei gesuiti a favore dei rifugiati mozambicani, la scuola è stata adottata dalla diocesi di Lichinga ed è diventato un motore di sviluppo per tutta la regione del Niassa.
«La popolazione di quel luogo è in maggioranza musulmana -spiega padre José Neves, mentre mi accompagna in visita ad alcune comunità di Entre Lagos – ma la chiesa cattolica è molto ben accettata e la popolazione è molto cornoperativa, anche la parte islamica. Qui cristiani e musulmani vivono il dialogo interreligioso, che si traduce in frateità interreligiosa, nella gioia e nel dolore; quando muore un musulmano, per esempio, i cristiani preparano la tomba; viceversa, i musulmani la preparano per i cristiani. Un ambiente di frateità che rende facile la nostra attività.
Abbiamo in cantiere incontri con le autorità tradizionali: regoli, capi, imam e pastori di chiese cristiane, per condividere le idee sull’educazione tradizionale, riti di iniziazione, usi e costumi culturali e morali che hanno bisogno di essere purificati; ma vogliamo farlo attraverso il dialogo e il reciproco rispetto».

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi