Ai confini della speranza
Reportage dalle missioni nella Rift Valley: Manda e Sanza (1)
Manda è la missione ultima nata, generata dalla parrocchia di Sanza; entrambe si trovano nella Rift Valley, con temperature altissime, dove siccità e carestia sono cicliche e drammatiche: qui ho conosciuto nuove etnie, ho visto scene di vita quotidiana «arcaica», ho ascoltato storie di vita missionaria inimmaginabili… Ho immagazzinato forti sensazioni e non posso fare altro che condividerle.
Nell’ultimo viaggio in Tanzania ho visitato luoghi, tribù, realtà che non avevo mai visto, percorrendo centinaia di chilometri su strade dove i grandi protagonisti sono sabbia e spine, per lasciarmi poi coinvolgere da realtà lontane anni luce dalla nostra. Ho conosciuto nuove etnie e i missionari che lavorano, crescono, conoscono, imparano e vivono con loro, a temperature altissime senza acqua, né luce, tanto meno la rete per usare il cellulare.
Ho ascoltato storie di vita di missionari che vivono lottando ogni giorno per avere acqua e per far funzionare pannelli solari. Un mondo che non immaginavo. I miei occhi, prima ancora della macchina, hanno fotografato scene di vita quotidiana «arcaica»: donne che timidamente mi osservavano mentre con la zappa in una mano e la tanica nell’altra facevano la fila presso uno dei rari pozzi della zona, costruiti dai missionari; sguardi di donne e di bambini che continuano a interrogarmi. Mai come in questo viaggio ho capito che non potevo fare altro che ascoltare, vedere e immagazzinare sensazioni da trascrivere e raccontare.
Verso le missioni della Rfit Valley
Con padre Giacomo Baccanelli, superiore regionale dei missionari della Consolata, partiamo prestissimo da Iringa, alla volta delle missioni di Manda, Sanza ed Heka.
Il viaggio è lungo e impegnativo: non è il periodo migliore per percorrere quelle strade «inesistenti». Siamo in piena stagione delle piogge: c’è il rischio di rimanere impantanati nella sabbia fangosa, che ricopre una superficie impenetrabile indurita dal sole.
Ci inoltriamo in strade strette e tortuose della foresta a picco su burroni riempiti da alberi altissimi. La temperatura sale e scende alla stessa velocità delle curve e il paesaggio fitto di verde, riempie i miei occhi.
Diretti al cuore desertico del Tanzania, maciniamo chilometri e chilometri senza vedere anima viva se non in qualche piccolo villaggio sperduto nel nulla. Non posso che chiedermi come facciano, di cosa vivano! Il paesaggio sembra inghiottirci. Enormi distese di acacie con rami e spine ci bloccano il passaggio. Più di una volta, padre Giacomo scende dalla macchina per aprire un varco nel bush.
Siamo finalmente al bivio per Manda, chiediamo informazioni sulla praticabilità della strada e ripartiamo. Dopo un paio d’ore arriviamo visibilmente stanchi.
Il sole è selvaggio come il paesaggio che ci circonda.
Parcheggiamo sotto i rami secchi di un albero, vicino a un pozzo dove alcuni bambini sono in fila per prendere l’acqua. Un piccolino alla mia vista scappa, un altro si attacca a ventosa alle gambe del fratello obbligandosi a evitare il mio sguardo.
Un giovane con le cuffiette alle orecchie riempie le sue taniche gialle. Ascolterà davvero qualcosa o è solo una novità introdotta nel villaggio per imitare i coetanei che vivono in città?
A MANDA CON IL PIONIERE DELLA RIFT VALLEY
Mi guardo attorno e non c’è nulla. Solo distese di alberi e boscaglia fitta. Ci viene incontro padre Antonio Zanette: un instancabile missionario della Consolata che dal 1967 lavora in Tanzania e da vari anni in questa regione, diventando il pioniere della Rift Valley.
Esile ma con un fisico temprato alle temperature e alla realtà del posto, ci accoglie con estrema cordialità. Impegnatissimo tra costruzioni, ragazzi da gestire, donne che lo aspettano per un seminar, ci fa entrare in una casa ancora in costruzione. È davvero caldo! Ci offre una soda. Dopo qualche minuto arriva una delle donne del villaggio con un po’ di polenta e carne selvatica: nonostante la mia riconoscenza per il gesto, riuscirò solo ad assaggiarla.
Davanti a una sigaretta sempre accesa padre Antonio inizia a raccontarmi la sua vita di missione. «Dal 2000 mi spingevo in questa zona al confine con Dodoma. Nel 2005 venivo una volta al mese, a pregare con un gruppo di cristiani, a una decina di chilometri da Manda e mi chiesero se potevo occuparmi anche di questa area e dei villaggi sparsi nei dintorni. La realtà di arretratezza la conoscevo già. Era ed è ancora tutto da sviluppare. E così iniziai a pensare a come fare per aprire una missione.
Sono qui stabile da settembre 2010, anche se sono appena rientrato dall’Italia, dove sono stato per un intervento medico. Nel gennaio 2011, il vescovo di Dodoma ha dichiarato che vuol promuovere a parrocchia la missione di Manda, cui fanno capo una quindicina di villaggi vicini. C’è davvero tanto da fare perché qui la maggior parte della gente è pagana, ma sono molto fiducioso, perché è gente capace e sveglia. L’assistenza religiosa mi ha permesso di entrare nelle loro vite e quindi di conoscerli.
E i primi risultati sono che proprio i giovani vogliono farsi cattolici, cercano una strada di fede profonda».
Mi perdo a osservare l’entusiasmo di questo uomo consapevolmente e forse volutamente solo, in un posto davvero disperato, privo di qualsiasi elementare comodità.
Facciamo un giro della missione e padre Antonio continua a spiegarmi: «Il problema maggiore è l’istruzione, perché in pochissimi vanno a scuola: in tutta la zona, molto estesa e popolosa, ci sono solo cinque scuole elementari; altro problema grande è la mancanza di acqua. Con l’aiuto di un’associazione americana ho fatto costruire un pozzo per la gente».
Ci sono 15 etnie nella zona di Manda, ma le maggiori sono i wasukuma e i wagogo. «I wasukuma sono grandi coltivatori e pastori tradizionalmente nomadi anche se in tanti iniziano a essere stanziali – continua padre Antonio -. Occupano una zona che sfruttano fino all’esaurimento e poi l’abbandonano. I wagogo invece sono stanziali. Lavorano solo per il proprio fabbisogno che poi dipende dalla stagione delle piogge. E quest’anno sembra che proprio non voglia piovere. Il raccolto sarà scarsissimo e la fame sarà tanta».
Le strutture della missione in costruzione si ergono come antitesi a una natura selvaggiamente aggressiva. «Ciò che vedi e sto ultimando comprende la chiesa, la casa dei padri e quella delle suore, un centro per il catechismo e per le donne cattoliche e la falegnameria. Sto aspettando le suore e sono sicuro che una volta arrivate la missione cambierà faccia. Non ci sono piani definiti circa la nostra collaborazione. Svolgeranno il loro servizio missionario in base alle proprie presenze e alla realtà del posto. È una zona di prima evangelizzazione con tutte le difficoltà che noi missionari conosciamo bene» conclude il missionario.
Avendomi scrutato più di quanto abbia fatto io con lui, padre Antonio mi dice: «Chi me lo fa fare? Ti starai chiedendo. Beh, non so darti una risposta. Non te lo so dire. Posso solo dirti che sento che il mio posto da uomo, prima ancora che da missionario, è qui, tra questa gente».
Non posso negare che appena arrivata a Manda, dopo un viaggio così lungo, un caldo sfibrante, immersa a 360 gradi nel bush, conoscendo quest’uomo solo, mi sono chiesta come si potesse vivere una quotidianità così ostile, isolata e tremendamente dura, ma salutandolo ho visto un uomo sereno, circondato dall’affetto e dalla stima delle donne del villaggio che avevano percorso chilometri per il seminar promesso.
SABBIA E SPINE… FINO A SANZA
Ripartiamo alla volta di Sanza, distante solo sessanta chilometri, ma la strada sarà ancora peggiore di quella precedente. Una pianura di sabbia arsa dal sole ramificata in una miriade di strade sterrate. Da una stagione all’altra il paesaggio cambia così velocemente che è difficile imboccare la giusta direzione. Non un albero particolare, non una freccia o un segnale utile da fotografare mentalmente.
Nel nulla sbuca un anziano su una bicicletta che ci dice di seguirlo, ci indicherà lui la strada per Sanza, senza però valutare che lui è in bicicletta e noi su un fuoristrada. Per la «gioia» di padre Giacomo i rami delle acacie ci abbracciano in uno stridulo raschiare contro le portiere della macchina.
Arriviamo finalmente a Sanza; ci accolgono un giovane diacono, Marco Turra, che presto sarà ordinato prete, padre Salvatore Renna, veterano anche lui di questi villaggi della Rift Valley, e padre Thomas Ishengoma, rientrato in Tanzania nel 2002, dopo essere stato in Spagna e Colombia.
La missione di Sanza è stata aperta nel 1987. «Era una zona di prima evangelizzazione, dove mancava tutto – mi racconta padre Giacomo, durante il viaggio -. L’emergenza era ed è tuttora l’acqua. È un posto arido. Abbiamo iniziato con la parrocchia, un dispensario, un asilo e tanti piccoli aiuti per tamponare. Pensavamo anche a una scuola di arti e mestieri ma poi l’idea non è maturata. Il problema di qui è che manca l’intraprendenza per collaborare allo sviluppo della zona».
UNA MISSIONE IPERDINAMICA AI CONFINI DEL MONDO
Marco mi accompagnerà nei tre giorni successivi alla scoperta di questa parte di Tanzania per me nuova. «Non c’è campo per telefonare, né luce – mi dice subito Marco -. Siamo fuori dal mondo. Noi utilizziamo i pannelli solari e il generatore per le cose principali, ma la situazione è tale che ci sprona a reinventarci ogni giorno come affrontare le difficoltà nostre, del posto e della gente. Le strutture che vedi sono la chiesa, l’asilo, il dispensario gestito dalle suore, un magazzino di cibo per i poveri, soprattutto mais, distribuito una volta al mese. Poi abbiamo la falegnameria, in cui sono stati fatti anche i banchi per l’asilo, e un garage essenzialmente per le nostre macchine, messe a dura prova dalla condizione delle strade. Infine abbiamo un allevamento di mucche, capre, maiali e l’orto. Cerchiamo di essere autosufficienti, ma è dura. Quest’anno la siccità ci sta distruggendo. Le uniche verdure che riusciamo a mangiare sono i cavoli cinesi. La frutta è poca e se continua a non piovere non ce ne sarà proprio».
Mentre Marco mi mostra l’orto, osservo delle donne in lontananza che nel letto secco di un fiume, fanno buche nella sabbia per prendere acqua. Qui è una consuetudine. In ginocchio, piegate per ore, sotto un sole bollente, con i loro bambini sulla schiena, scavano per riempire secchi e bacinelle di un’acqua sabbiosa, scura.
Conosco il valore dell’acqua che proprio questo continente mi ha insegnato, ma mai come in questo viaggio ne capirò il significato vitale. Non ci sono parole capaci di descrivere lo stress e la tensione quotidiana di queste persone per il bisogno vitale dell’acqua in una zona così depressa. Non ho visto la presenza di una sola ong in questa parte di Tanzania, popolata da tribù che vivono un olocausto quotidiano, abbandonati dal mondo ma non da questi angeli di Dio, che per il solo fatto di accompagnarli, ascoltarli e sostenerli vivendo insieme, mangiando o non mangiando, ammalandosi come loro, meritano la nostra stima estrema. Questi sono posti dove solo chi ha Dio come fedele amico riesce a vivere e rimanere sereno. Non è un posto per tutti.
UN GIOVANE MISSIONARIO A SCUOLA
Prima di visitare gli asili, Marco mi porta nella scuola primaria governativa, vicino alla missione: 800 studenti in divisa, dai 5 ai 13 anni mi riempiono la vista. Una scuola così affollata, ma gestita da soli 10 insegnanti che pur di lavorare arrivano da zone lontane come il Kilimanjaro.
Dixon Baluti è il vice mwalimu mkuu (vice preside) della scuola. Orgoglioso del ruolo, ci fa accomodare nel suo ufficio affollato di carte e di libri. Ventisette anni, Dixon è della tribù dei jaluo, mi precisa, e viene da Mwanza. Ha da poco concluso il corso di preparazione per maestri a Tanga. «Questa è una zona difficile. I genitori non hanno la formazione necessaria per capire l’importanza e valore dell’istruzione. Molti non mandano i figli a scuola, nonostante l’obbligo imposto dal governo. I ragazzi sono abbandonati a se stessi e obbligati a lavorare i campi con i genitori fin da piccoli. La retta è di 5 dollari l’anno e molti non riescono a pagarla. Adesso le lezioni iniziano alle 7 di mattina e durano fino alle 4 del pomeriggio, abbiamo aumentato le ore grazie al piano di aiuto alimentare americano, voluto dal Presidente Obama». Osservando i sorrisi di queste centinaia di giovani non posso che dire con loro «asante sana» (grazie mille) a Obama: grazie al piano alimentare americano, possono aver un pasto tutti i giorni. I bambini dell’asilo mangiano l’uji (polenta di mais e latte) appena arrivano e poi a pranzo: una vera benedizione in un posto così disperato.
FORMAZIONE, FORMAZIONE E FORMAZIONE
Fino al 2007 padre Thomas Ishengoma era formatore al seminario dei missionari della Consolata di Morogoro e da tre anni è a Sanza, perché vuole misurarsi con una realtà di missione nella sua terra.
Di cultura sorprendente quanto la sua umiltà, padre Thomas è impegnato in molteplici attività: è parroco, si occupa della gestione degli asili della parrocchia e della formazione delle maestre, segue da vicino l’andamento delle scuole primarie e secondarie dei villaggi, organizza corsi settimanali e mensili per le donne, per le maestre e per le mamme.
«Credo molto nella formazione della nostra gente. Questa è una zona difficile, abbandonata a se stessa; tuttavia la gente sta iniziando a volere un cambiamento; per questo ho voluto fortemente mettermi a loro disposizione per incontri sull’andamento e mantenimento dell’asilo, dall’alimentazione alla pulizia, dalla formazione delle maestre alla pedagogia del bambino, senza tralasciare la formazione dei giovani e delle donne nei villaggi. Una volta al mese, di solito l’ultimo sabato, celebriamo La giornata del bambino: dalle 8 del mattino alle 4 del pomeriggio, in parrocchia o in qualche posto qui vicino, raduniamo genitori e figli dai 3 ai 14 anni; mentre le madri preparano il cibo, i bambini si divertono giocando e disegnando; ma la cosa più importante è che insieme si stabilisce “il progetto di Dio o casa del bambino”, ossia la conoscenza concreta del bambino che abbraccia un progetto di vita futuro.
«Nostro obiettivo e nostra priorità è la formazione – interviene padre Renna Salvatore a confermare le parole di Thomas -. Solo attraverso la formazione si può cambiare la realtà. La missione in questi anni è già riuscita a creare dei forti cambiamenti sia a livello di sviluppo economico che in quello dell’evangelizzazione. Proprio da queste zone sono arrivate diverse vocazioni. Ma il lavoro è ancora molto».
Mitico factotum
Padre Salvatore, pugliese doc, dal 1964 in Tanzania, è da sempre nei posti «caldi» della missione. A Sanza da sei anni, è punto di riferimento per tutto e per tutti: è il mitico «tuttofare» e si occupa della parte tecnica della missione: dalle costruzioni di asili nei villaggi all’animazione, all’insegnamento, ai seminari di formazione e promozione umana.
«In posti così esasperati non si può avere un ruolo definito, siamo tutti intercambiabili» mi dice padre Salvatore mentre prepara il suo delizioso karcadè. Tutti lo conoscono. Sguardo dolce ma deciso, barbetta che suscita ironia tra i confratelli, esperienza di vita quasi totalizzante in missioni di frontiera, padre Salvatore non può che incantarmi.
Riprendendo il discorso sulla formazione, padre Renna continua: «Rimangono tuttavia problemi seri, come le piaghe dell’alcolismo e delle droghe leggere, la poligamia intrinseca alla loro cultura; ora è arrivata anche l’aids. Il livello culturale è molto basso, anche perché sia i wagogo che i wasukuma sono ancorati alle loro tradizioni. Potrebbero stare meglio, ma continuano a vivere come cento anni fa, anche a causa della superstizione. I problemi derivati da casi di stregoneria sono allucinanti. Il ricorso al medico tradizionale, come è chiamato benignamente, è una cosa normale».
«Secondo le loro convinzioni – interviene Marco – i malanni non possono venire da Dio, ma sono causati da persone che tramano di nascosto; per scovarle si ricorre dallo stregone. Una volta scoperto il colpevole, la vendetta è pesante: va dall’allontanamento della persona dal villaggio fino all’omicidio».
Giovane missionario
iN UNA TERRA ESTREMA
Marco Turra è entrato nel seminario diocesano che aveva diciannove anni. Nel 2000 era a Londra quando conobbe i missionari della Consolata e decise di diventare uno di loro.
È arrivato in Tanzania a Morogoro per lo studio del kiswahili e poi subito in missione a Pawaga. Da settembre 2010 è a Sanza. A vederlo, così giovane, rimango sorpresa per la sua capacità di adattamento in un posto simile e per il suo modo di interagire con le persone nei villaggi. Come i suoi confratelli è impegnatissimo. Insegna in alcune scuole secondarie, si reca nei villaggi, visita i malati, segue la casa dei non vedenti, cura con passione anche l’orto e l’allevamento delle mucche della missione, e mi porta con orgoglio a visitarle.
Marco mi regala altri ricordi indimenticabili, come la conoscenza di una famiglia wasukuma e l’incontro con gli anziani wagogo ciechi, alloggiati in una costruzione in mattoni con quindici stanze indipendenti.
LE CASE PER GLI ANZIANI CIECHI
Attraversiamo il villaggio che il sole è ancora forte con la sabbia che si infiltra dovunque. I bambini conoscono Marco ma si avvicinano timorosi. Mi osservano, mi scrutano, ma hanno paura. Molti scappano. Non mi era mai successo in Tanzania di trovare dei bambini che alla vista di un bianco ancora scappassero.
Oltrepassiamo le case dei wagogo: basse e rettangolari. Una signora mi invita a entrare. La struttura è in fango. Il tetto è piatto ricoperto da cespugli di erba, i muri con piccole finestre. Entro e una leggera frescura mi sorprende, così come la perfetta divisione della casa: in un angolo separato da una parete di fango c’è la cucina, dall’altra parte la «zona notte» con un grande letto matrimoniale e una zanzariera. La donna mi spiega che hanno il cortile in comune, dove di solito si cucina e si accolgono gli ospiti.
Usciamo dalla casa e vediamo gli anziani sotto un albero, seduti su pelli di capre, stuoie e sgabelli. Marco li chiama e non appena sentono la sua voce si alzano e raggianti ci vengono incontro. Capisco subito che sono i ciechi. In tanti hanno cataratte che sono degenerate.
Sono tutti anziani che i famigliari hanno «invitato» ad andarsene da casa, quando per la loro cecità sono diventati un peso per il resto della famiglia. Vengono da zone lontane. Hanno affrontato un viaggio di molti chilometri, quando hanno saputo di questa casa messa a disposizione dai missionari per i non vedenti. Sono comunque indipendenti e riescono a gestirsi da soli. Le donne della comunità di base del villaggio provvedono loro acqua e cibo e essi riescono a cucinarselo.
Mi raccontano storie pazzesche, mentre i loro occhi assenti e fissi nel vuoto si inumidiscono; sono storie in cui si intrecciano i ricordi di fatica e fame, siccità e lavoro nei campi a temperature più che torride. Eppure sono lì, sereni e felici, senza alcun rancore verso persone o eventi del passato né sul perché sia toccata loro tale sorte, ma continuano a ringraziare Marco e i missionari perché non li hanno lasciati in mezzo alla strada. Mi sento veramente in un altro mondo se penso a quello nostro!
UNA GALLINA DAI WASUKUMA
È arrivata Maria, una donna wagogo di quarantacinque anni, ma che ne dimostra molti di più, che ci accompagna alla casa di una sua amica wasukuma. Quest’ultima l’avevamo incontrata la mattina davanti all’asilo, dove aveva accompagnato il figlioletto, poiché abitano in pieno bush a qualche distanza dalla missione.
Iniziamo a percorrere un sentirnero sconnesso tra i soliti campi di mais bruciati dal sole, dove i girasoli secchi sembrano delle braccia tese al cielo per invocare una pioggia che non vuole cadere; sbuchiamo in una stradina polverosa tra acacie dalle spine lunghe e affilate, che graffiano impietosamente le portiere dell’auto; arriviamo davanti a un recinto di spine alto più di un metro: entriamo e ci viene incontro la nostra amica.
Un viso dai tratti eleganti e una pelle d’ebano. Altissima e slanciata mi sorride come fossi l’amica di sempre. Qualche metro più in là c’è la madre anziana, altrettanto alta. Ci invitano a sederci all’ombra della casa.
Ci sono tutti i suoi figli, tranne il piccolo di cinque anni, che conosceremo più dardi, quando la signora mi mostrerà la ricchezza di famiglia: un folta mandria di mucche di razze diverse e pregiate, capre, pecore, tutte vigilate dallo sguardo maturo del bambino. Non ci sono uomini, poiché sono anch’essi ad accudire il bestiame; arriva però un vicino, spinto dalla curiosità di conoscere la mzungu (bianca).
Cominciamo a parlare, mentre i bambini ci scorrazzano attorno insieme a galli e galline. Marco traduce le tante domande che rivolgo alla giovane wagogo. Sono incuriosita dalle caratteristiche di questa etnia fiera e seminomade, discendente dai masai. Fisicamente infatti si assomigliano; ma la donna ci spiega subito che culturalmente sono molto diversi: i wasukuma non sono grandi lavoratori e più intraprendenti: lo testimoniano le vaste distese di campi coltivati non solo per la loro sussistenza, ma anche per vendere parte del raccolto.
Ma la ricchezza principale è costituita dal bestiame, che serve anche per stipulare matrimoni e formarsi una famiglia. Per una donna come me, mi dice il suo vicinato, potrebbero sborsare anche cinquanta mucche, ma di quelle pregiate. Rispondo scherzando che sono troppo poche, ne servirebbero almeno un centinaio; dopo un istante di imbarazzo e indecisione scoppiamo tutti a ridere. Poi la madre anziana racconta del suo matrimonio e della dote pesante pagata dal marito e non solo in animali, ma anche in denaro.
Ma è la donna più giovane a sottolineare che la loro è una famiglia aperta, pur mantenendo usi e costumi tradizionali di cui hanno capito il valore. Domando chiarimenti sulla pratica dell’infibulazione e la giovane risponde prontamente che è stata abbandonata ormai da molti anni. Anzi, rincara la dose contro certe usanze figlie della superstizione e ringrazia la presenza dei missionari che attraverso le scuole, il dispensario e gli incontri li aiutano a crescere i figli con maggiore apertura.
Rimango davvero senza parole! Sono seduta su uno sgabello in pieno bush, nel niente, davanti a tre caratteristiche case wasukuma: una per gli uomini, un’altra per le donne e i bambini e una terza per gli animali; siamo accerchiati da galline, gatti e cani, e questa donna vestita in tipico stile wasukuma, oltre a ringraziarmi per essere andata nella sua casa, mi dice convinta che hanno bisogno e vogliono una cultura più aperta per i loro figli.
Ecco le motivazioni e le gratificazioni capaci di farti rimanere in un posto come questo, ai confini della speranza. «È qui che acquista senso la presenza di noi missionari» mi aveva già detto padre Antonio Zanette e me lo sentirò ripetere a Heka da padre Saverio Diaz.
L’incontro termina con un’altra sorpresa divertente. I bambini iniziano a correre dientro a una gallina e la inseguono per parecchi minuti, finché decidono di acchiapparla e la consegnano alla mamma, che me la regala come segno di ospitalità. Cerco di prenderla e tenerla ferma tra le mani, tentando di non far capire che è la prima volta che maneggio una gallina. Il cuore dell’animale batte forte che sembra uscire dal suo corpo.
Marco mi spiega che i wasukuma non regalano mai animali morti. Se il regalo è una gallina, questa deve essere la migliore; per questo la fanno correre all’impazzata per dimostrare che non è malata, ma gode perfetta salute.
Consegnata a padre Salvatore, il giorno dopo la gallina ricompare sulla tavola, per farmi gustare ancora una volta la squisita ospitalità dei missionari e della loro gente, capace di donare con tanta gioia nonostante la loro povertà.
Romina Remigio