I missionari della Consolata nell’Africa equatoriale

110 anni fa: l’inizio di una bellissima avventura

L’8 maggio 1902, dalla stazione di Porta Nuova a Torino i primi 4 missionari della Consolata prendono il treno delle 9.45 per Marsiglia, da dove il 10 si imbarcano per Zanzibar sbarcandovi il 28. Da qui il 5 giugno si trasferiscono a Mombasa e il 12 raggiungono Nairobi in treno con un viaggio di 24 ore. Il 20 giugno, ancora in treno, si trasferiscono a Naivasha, da dove partono in carovana per Tuthu il 26 mattina arrivandovi il 28 sera. Il 29 giugno 1902 celebrano la prima messa nel villaggio di Karoli.

«Due volte già su questo periodico abbiam fatto parola del nuovo Istituto della Consolata per le missioni estere. La prima nel novembre 1900, annunziandone l’erezione, fatta dal Rettore della Consolata, con l’approvazione, encomio ed appoggio degli E.mi Arcivescovi e Vescovi delle provincie ecclesiastiche di Torino e Vercelli. La seconda nel luglio del 1901, quando fu benedetta ed aperta al pubblico la cappella dell’Istituto in Torino, Corso Duca di Genova, n. 49.
Dicevamo allora che il primo campo apostolico assegnato ai nuovi missionari erano i popoli Galla, abitanti a sud dell’Abissinia sin presso le rive del fiume Tana. Per riuscir in quest’opera d’evan­gelizzazione si studiarono due progetti. Quello d’andar difilato dalla costa fino a queste località ed ivi stabilirsi, e quello d’un avanzamento graduale, fermandosi dapprima in qualche regione confinante coi Galla, ma meno lontana dalle comunicazioni col mondo civile, e di qui avanzarsi più tardi passo passo sino ai paesi Galla. Il primo progetto, se per qualche lato pareva attuabile, presentava pure gravi difficoltà. Occorrevano mesi di viaggio in carovana, attraverso a località malsanissime, tra popoli selvaggi e ladroni e, dopo tutto, colla prospettiva di non potervi forse arrivare, come successe a parecchie spedizioni depredate e massacrate dagli indigeni. Nondimeno, fermi nell’idea di tentare l’impresa, si fecero molte pratiche per aver informazioni, appoggi e difesa a tale intento: pratiche assai lunghe e laboriose e che non furono scevre di penose delusioni.
Gravi ragioni militavano invece a favore del secondo progetto, per cui già si propendeva ad adottarlo, quando sopravvennero difficoltà politiche, che sarebbe troppo lungo enumerare, ma che assolutamente obbligarono a questa scelta.
Fra le regioni poi che presentavano maggiore convenienza per un futuro avanzamento verso i Galla, la più indicata era il Kikùju, a sud-ovest del monte Kenia, massime perché facilmente accessibile mediante la nuova ferrovia dell’Uganda, aperta soltanto nello scorso marzo, e perché località sana e di belle speranze, come si vedrà dalla descrizione che ne faremo in seguito.
I necessari accordi col Rev.mo Vicario Apostolico di Zanzibar, Mons.
Allgeyer, dal quale dipende il Kikùju, furono facilitati assai dall’opera intelligente e delicata del R(egio). Console italiano a Zanzibar, cav. Giulio Pestalozza, al quale ripetiamo qui l’espressione della nostra profonda riconoscenza, ed auguriamo e preghiamo dalla Consolata degno compenso di celesti benedizioni. Pei buoni uffici di questo egregio funzionario, S. E. Mons. Allgeyer fu così ben disposto verso i nostri missionari, che non solo acconsentì loro di stabilirsi nel Kikùju, ma, come diremo innanzi, volle con grave suo disagio, accompagnarli egli stesso fino al posto della loro prima missione, istruendoli su quanto potesse giovare per la buona riuscita dell’opera. La carità apostolica e la sollecitudine patea, dimostrate verso i nostri da questo piissimo e zelante Vícario Apostolico, sono superiori ad ogni elogio, e noi segnaliamo il venerando Prelato all’ammirazione ed alla riconoscenza dei divoti della Consolata, acciò lo sostengano colle loro orazioni per la prosperità della sua persona e la riuscita delle sue opere apostoliche.
Fissata per tal modo la località ove iniziare l’impresa, si dispose per l’immediata partenza dei missionari, la quale per suggerimento dello stesso Monsignore doveva esser limitata a pochi in­dividui, stante le difficoltà d’un primo impianto in luoghi quasi sconosciuti e non per anco aperti alla civiltà. Pertanto l’8 maggio, benedetti dal nostro venerato Arcivescovo, il Cardinale Richelmy, partivano da Torino i primi missionari della Consolata, in numero di quattro: due sacerdoti, D(on). Tommaso Gays da Rivara e Teol(ogo). Filippo Perlo da Caramagna, e due confratelli secolari, Lusso Celeste e Falda Luigi, entrambi torinesi.
Imbarcatisi il 10 maggio a Marsiglia, arrivarono il 28 dello stesso mese a Zanzibar città capoluogo d’un’isola dello stesso nome nell’Oceano Indiano. La traversata fu felicissima grazie alla protezione della SS. Vergine Consolatrice, sopra di essi invocata da tante anime buone, le quali vivamente s’interessano alla riuscita di un’opera di tanta gloria a Dio. Tralasciamo di parlare di questa prima parte del viaggio e seguiamo senz’altro i nostri missionari da Zanzibar al luogo di loro destinazione. Lo faremo stralciando dalle interessanti lettere scritte nelle varie tappe del viaggio dal predetto Teol. Perlo.».

Il testo che vi abbiamo riproposto, usando un carattere tipografico simile a quello originale, è l’editoriale de «La Consolata» n. 9/1902, pp. 131-132, probabilmente scritto dal canonico Giacomo Camisassa, allora il direttore del «periodico» (così era definita la piccola rivista pubblicata dal santuario della Consolata di Torino, madre di questa nostra pubblicazione).
Narra l’inizio di una incredibile avventura missionaria dalla quale sono risultati frutti miracolosi e inaspettati nel giro di un solo secolo. P. Candido Bona, professore di Storia della Chiesa per generazioni di missionari, il card. John Njue di Nairobi e il nunzio apostolico del Kenya, mons. Alain Lebeaupin, sono convinti cheil più grande miracolo fatto dall’Allamano fu proprio la nascita e svilluppo nel Kenya centrale di una Chiesa locale fiorente e missionaria. «Mai nella storia della Chiesa – ebbe a dire p. Bona – si è assistito ad uno sviluppo così grande in un periodo così breve». Cominciarono in quattro, ora sono milioni.

Lunga preparazione
L’Allamano portò in cuore il desiderio di fondare un istituto missionario per molti anni. Per lui il 29 gennaio 1901, giorno ufficiale della fondazione del nuovo istituto, fu il punto di arrivo di un lungo cammino fatto di riflessione, discernimento e paziente ricerca. Voleva offrire all’abbondante clero piemontese la possibilità di un servizio missionario e per questo si consultò per anni con amici, santi come il Cottolengo e autorità ecclesiastiche romane. Una volta chiarito che doveva fondare il suo istituto, si trovò di fronte alle nuove regole di Propaganda Fide (il ministero vaticano incaricato delle missioni) che richiedevano un periodo di tirocinio missionario ai nuovi istituti prima che venisse loro affidata un’area da evangelizzare.
L’Allamano, per un affetto suo speciale verso il card. Massaia, apostolo dell’Etiopia, sognava di mandare i suoi missionari proprio sulle orme di un così grande pioniere dell’evangelizzazione. Ma… più facile a dirsi che a farsi:
l’istituto non esisteva ancora, l’Etiopia era affidata ai frati cappuccini francesi ed era un’impresa trovare qualcuno disposto ad accogliere dei missionari in cerca di esperienza.
Con l’Etiopia in mente, l’Allamano e il suo braccio destro, Giacomo Camisassa, cominciarono una fitta corrispondenza – durata anni – con i cappuccini francesi e contemporaneamente anche con Padri dello Spirito Santo (Pères Du Saint-Esprit, Holy Gost Fathers or Spiritans) a cui era affidato il confinante Vicariato Apostolico di Zanzibar.
I confini allora erano incerti. Il Vicariato dei Cappuccini in Etiopia confinava a sud con quello dello Zanzibar in modo impreciso al quarto o quinto parallelo Nord e c’era allora la convinzione che fosse possibile arrivare in Etiopia navigando il fiume Tana partendo dalla costa del Kenya.

La mano della provvidenza
Lettera dopo lettera le trattative proseguirono, fino a che il Vicario Apostolico dei Galla accettò, nel settembre 1900 – l’istituto non era ancora stato fondato! – di accogliere i nuovi missionari nella parte sud del suo vicariato, «nella regione del medio e alto fiume Tana fino al quarto grado di latitudine settentrionale».
Tutto bene allora? Macché. Proprio in quei tempi giunsero notizie da un esploratore che il fiume Tana non era navigabile se non per un brevissimo tratto. Inoltre risultava che la regione (da affidare ai nuovi missionari) era praticamente spopolata a causa di bande di Somali che vi facevano continue razzie. Al che gli inglesi, i quali stavano consolidando il loro controllo sul Kenya, proibirono a qualsiasi missionario di mettere piede da quelle parti, perché un eventuale massacro di europei sarebbe stato un grave smacco per il loro prestigio e autorità di fronte agli indigeni.
L’Allamano e il Camisassa erano continuamente informati della situazione dal console generale d’Italia a Zanzibar, il cav. Giulio Pestalozza.
Ma chiusa una porta, ecco che se ne aprì un’altra. Era stata inaugurata da poco la ferrovia Mombasa-Kampala, in Uganda, e i Padri dello Spirito Santo avevano, nel 1899, stabilito la missione di Saint Austin (S. Agostino) a Nairobi, un villaggio nuovo nato attorno alla stazione ferroviaria e avvantaggiato da acque fresche (nai-robi in maa, la lingua Maasai) e clima salubre senza malaria. Da Nairobi sarebbe stato facile organizzare una spedizione verso il Lago Rodolfo (oggi Turkana) e da là raggiungere il tanto agognato Galla. Le trattative si intensificarono, da Zanzibar cominciarono ad arrivare notizie piene di speranza. Poi tutto subì un’accelerazione improvvisa. Il dott. Hinde, sotto-commissario inglese per la regione del Muran’ga – allora Fort Hall -, aveva chiesto al Vicario Apostolico di mandare dei missionari presso il capo kikuyu Karoli, moderatamente favorevole agli inglesi, che era interessato ad averli per aprire una scuola nel suo villaggio. Ma, da buon protestante, il dott. Hinde aveva fatto la stessa richiesta anche alle società missionarie protestanti. Chi arrivava prima si mangiava tutto! I protestanti erano ricchi di mezzi e personale, mentre i Padri dello Spirito Santo non avevano allora né mezzi né personale per una pronta azione. I nuovi missionari della Consolata – inesperti, ma ben organizzati e con mezzi sufficienti – erano davvero mandati dalla provvidenza.

Preparazione immediata
L’Allamano e il Camisassa colsero l’occasione al balzo e intensificarono la preparazione dei primi. Pestalozza e il vicario mons. Allgeyer avevano suggerito di mandare solo un piccolo gruppo ad iniziare, non più di cinque. Furono scelti quattro tra i giovani sacerdoti e laici che avevano cominciato vita comune nella prima casa madre dell’Istituto (la Consolatina): p. Filippo Perlo e p. Tomaso Gays e i fratelli laici Luigi Falda e Celeste Lusso. Essi si legarono al nuovo istituto per un impegno di cinque anni giurando nelle mani dell’Allamano il 13 aprile 1902. Gli ultimi mesi prima della partenza furono intensissimi. L’Allamano vietò loro ogni impegno pastorale nella città e passarono i loro giorni in preghiera, studio e lavoro. Oltre all’inglese, studiarono medicina (tropicale), oculistica e chirurgia. Impararono fotografia (ripresa, sviluppo e stampa, maneggiando le pesanti macchine fotografiche a soffietto con lastre 13×18 e 10×15). Visitarono musei, approfondirono agricoltura e scienze naturali e praticarono l’arte di imbalsamare insetti e animali. Si decicarono con impegno a meccanica, idraulica, calzoleria e falegnameria. Ebbero anche lezioni di equitazione.
Partirono a maggio, in accordo con mons. Allgeyer, per evitare le grandi piogge e permettere allo stesso vicario di accompagnarli fino a destinazione. Ricevettero il crocefisso del mandato missionario il 3 maggio, il 7 fecero visita al card. Richelmy (arcivescovo allora di Torino) che non solo li benedisse ma si chinò a baciare loro i piedi (fatto rimasto segreto per anni), l’8 partirono da Porta Nuova in treno per Marsiglia salutati dall’Allamano, dal Camisassa (che aveva curato al dettaglio tutta l’organizzazione della spedizione) e un po’ di parenti. L’avventura era cominciata.
Di questo viaggio diede puntuale relazione il p. F. Perlo con un vivacissimo diario ricco di annotazioni, preziose informazioni e splendide foto che fu pubblicato a puntate su «La Consolata». Chissà se un giorno troveremo il tempo e i mezzi per ripubblicare quelle pagine così emozionanti.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




La guerra dentro casa

Un paese senza pace

Cambiano presidenti e comandanti, ma non la situazione. La guerra civile colombiana dura da oltre mezzo secolo. Ne fa le spese la popolazione, soprattutto gli oltre 4 milioni di sfollati e gli indios.
Ne abbiamo parlato con padre Ezio Roattino, missionario nel Cauca, regione dove guerriglia, esercito e paramilitari si fronteggiano senza esclusione di colpi. Sulla pelle dei civili per i quali dicono di combattere.

Spari di mitraglia, boati di esplosioni. Il sito internet delle «Forze armate rivoluzionarie di Colombia» (Farc) ha un «sottofondo musicale» piuttosto particolare. In questo spazio virtuale, il 26 febbraio viene pubblicato un comunicato in cui si annuncia la prossima liberazione di 10 prigionieri di guerra, soldati e poliziotti nelle mani della guerriglia1. Nello stesso comunicato, si annuncia che d’ora in poi le Farc non prenderanno più in ostaggio uomini e donne della popolazione civile. Padre Ezio Roattino, missionario della Consolata, da 30 anni in America Latina (o Abya Yala2, come egli preferisce dire), è scettico. «Nella logica della guerra, ci sono momenti in cui il linguaggio conciliatorio è reso necessario dalla situazione oggettiva. In questo momento le Farc sono in difficoltà». Non si sa con certezza di quanti uomini la guerriglia disponga oggi. Si parla di poche migliaia; qualche anno fa erano oltre 20 mila. I vari fronti e colonne mobili in cui le Farc sono organizzate sembrano muoversi in maniera disordinata, al di fuori di ogni strategia nazionale. «Il cornordinamento – spiega padre Ezio – è diventato molto complicato. Sia per la fortissima militarizzazione del territorio, sia per la diffusione di tecnologie sempre più sofisticate. Molte delle recenti disfatte delle Farc sono state possibili grazie all’intercettazione dei cellulari».
Oltre che dalle sconfitte patite ad opera dello Stato3, le difficoltà della guerriglia sono aggravate dalla scarsità di risorse finanziarie e, probabilmente, dalla mancanza di un forte comando centrale.
Negli ultimi quattro anni, le Farc hanno perso Raul Reyes, Manuel Marulanda, Mono Joyoy e da ultimo Alfonso Cano. Da novembre 2011, il nuovo leader è Rodrigo Londono-Echeverry, detto «Timochenko», di cui però si sa ancora troppo poco.
Paradossalmente, le difficoltà delle Farc si sono tradotte in maggiori pericoli per la popolazione civile, in modo particolare nel Cauca. «A Santander de Quilichao, per le imprese è molto pericoloso sottrarsi al pagamento della “quota rivoluzionaria”, un vero e proprio “pizzo”. Poi, oltre alle estorsioni nei confronti dei soggetti economici, ci sono i sequestri di persona».
Padre Ezio ricorda la vicenda del rapimento di Francesco Menotti Perlaza, figlio di una famiglia benestante. Il ragazzo riesce a scappare, ma per la famiglia l’incubo continua con minacce, bombe e un omicidio. Il 21 aprile 2011 viene assassinato Agustín Perlaza, zio di Francesco. Pochi giorni dopo quella tragica morte, padre Roattino si espone pubblicamente scrivendo una lettera aperta alle Farc. In essa si scaglia contro la «cultura della morte» fino ad affermare che una vera rivoluzione ha una propria etica e mistica oppure non è una rivoluzione.

«LEI NON PUÒ ENTRARE CON LE ARMI»
Ancora più difficile è la situazione per chi vive nei centri minori. Come a Toribio, il piccolo comune di montagna, in gran parte abitato da popolazione di     etnia nasa, dove padre Roattino
(continua a pag. 18)
è stato parroco fino a pochi mesi fa e dove gli attacchi della guerriglia sono molto frequenti. L’obiettivo è la locale stazione di polizia, ma gli effetti si ripercuotono su tutti.
«Le Farc che io conosco – parlo  di Toribio e del Cauca di questi ultimi anni – non lottano più per un ideale sociale, ma sono entrate nello spazio del terrorismo. Per esempio, il fatto di usare le bombole del gas che esplodendo colpiscono indiscriminatamente, secondo me va contro qualsiasi etica rivoluzionaria».
Sabato 9 luglio 2011 a Toribio è giorno di mercato. È attesa una chiva, una corriera, carica di prodotti della campagna. Invece, ne arriva una piena di bombe e ordigni esplosivi. L’esplosione, violentissima, avviene vicino alla stazione di polizia, non lontano dalla chiesa. Ci sono 3 morti e 122 feriti. Un bilancio che sarebbe potuto essere molto più tragico se la chiesa e la casa parrocchiale non avessero fatto da muro di contenimento, attutendo l’urto dell’onda esplosiva e proteggendo così tutta la gente che riempiva il mercato della piazza principale di Toribio.
Padre Roattino è duro con le Farc, ma lo è altrettanto con lo Stato. A Toribio il missionario non consente alla polizia di entrare in chiesa con le armi. Una decisione che viene spesso interpretata come un affronto di lesa maestà. «Un giorno, un comandante della locale stazione di polizia chiese di leggere le scritture durante la messa. Ma io mi opposi. “Io non metto in dubbio la sua fede – gli dissi -, ma lei rappresenta uno Stato armato”. A volte, mi vedo costretto a ricordare che Gesù Cristo fu ammazzato dalle forze dell’ordine… La parola di Dio – “Tu non uccidere” – vale sia per la guerriglia che per lo Stato. Perché non esiste una guerra giusta».

NUOVO TRATTATO, NUOVI ESCLUSI
Dall’agosto 2010 è presidente della Colombia Juan Manuel Santos. Che sicuramente non è un uomo nuovo. È stato ministro sotto la presidenza di Álvaro Uribe e proviene da una delle famiglie più influenti del paese.
I Santos sono stati proprietari ed oggi azionisti de El Tiempo, il principale quotidiano colombiano. Padre Roattino non vede, nel paese, i progressi che politici e media propagandano. «Viene esaltata – spiega il missionario – l’inteazionalizzazione del paese perché, il 12 ottobre 2011, il Congresso degli Stati Uniti ha approvato il “Trattato di libero commercio” con Bogotà. Ma il Tlc sarà certamente un brutto colpo per la Colombia degli esclusi. I prodotti provenienti dagli Stati Uniti invaderanno il mercato colombiano spiazzando con i loro prezzi bassi le produzioni locali».
Anche sul tema del conflitto armato interno, i proclami della presidenza Santos si scontrano contro la realtà. Nel luglio 2011, è stata promulgata la «Legge per le vittime e la restituzione delle terre»4, che si prefigge di restituire agli sfollati (desplazados) la terra persa a causa del conflitto e di indennizzare le vittime di violazione dei diritti umani. Peccato che la legge nasconda svariati trucchi giuridici5.
In Colombia, esistono almeno 4 milioni di sfollati6 e si stima che le terre in mano a proprietari illegittimi siano almeno 6,5 milioni di ettari. Numeri enormi. «Dubito molto sull’efficacia di questa legge. Basta ragionare un attimo: chi ha il coraggio di andare a reclamare una terra su cui si sono insediati altri soggetti, certamente più forti e più protetti di una famiglia di sfollati?».
I soggetti cui padre Roattino si riferisce sono latifondisti e paramilitari. Va ricordato che la «Legge di giustizia e pace»7, fulcro del processo di disarmo dei paramilitari, è sostanzialmente fallita. Oggi si sono formati nuovi gruppi paramilitari che, secondo cifre ufficiali, conterebbero 5.700 membri. Il fenomeno è reso possibile dalla connivenza con il mondo politico (come ha evidenziato lo scandalo conosciuto come «parapolitica») e con una parte delle forze di polizia. Nel 2011, almeno 180 poliziotti sono stati incarcerati per vincoli con i paramilitari8.
La terra è ambita da tutti, ma a prevalere sono sempre i soliti. In questi ultimi anni, c’è stata un’invasione di multinazionali minerarie sulla Cordigliera andina colombiana, la quale, tra l’altro, è una grande riserva di acqua, ospitando le sorgenti di tutti i grandi fiumi: Magdalena, Putumayo, Caquetà, Cauca. Ebbene, qui il governo ha già rilasciato 64 concessioni minerarie per poter estrarre petrolio o altre ricchezze come l’oro. «Ci sono resguardos indigeni – spiega padre Roattino – venduti a compagnie minerarie senza una consultazione previa con le popolazioni, come previsto dalla Costituzione. Quindi, l’acqua e la foresta appartengono agli ultimi arrivati. D’un colpo, la storia è tornata indietro di 500 anni!».
Per il 2012 in Colombia si prevede una crescita del Prodotto interno lordo pari al 4,5%. Numeri da invidia per politici, economisti e media del sistema neoliberista. Peccato che questo sviluppo segua le consuete strade della diseguaglianza, come sottolinea padre Roattino: «Oggi in Colombia gli ultimi – indios, afrodiscendenti, campesinos – stanno peggio di prima. Non ci sono dubbi che l’esclusione è in aumento. Com’è in aumento l’insicurezza. A Bogotà si dice più o meno così: nella condizione in cui ci troviamo oggi, i poveri non possono più mangiare, la classe media non può più comprare, i ricchi non possono più dormire (per la paura di essere derubati)».
A parte le vittime della guerra e della delinquenza, tra la gente comune a rischiare la vita sono soprattutto i sindacalisti e i difensori dei diritti umani. Nel 2011, sono stati assassinati 26 dei primi e 49 dei secondi9. L’impunità continua a coprire la violazione dei diritti umani. Il governo di Santos non si distingue da quello di Álvaro Uribe, suo predecessore, neppure in questo.

Paolo Moiola

Note
1 – La liberazione degli ostaggi è avvenuta lo scorso 2 aprile 2012. Alcuni erano prigionieri da 13 anni.
2 – Abya Yala è il nome indigeno delle Americhe.
3 – Pur lasciando spazio a colpi di coda, come avvenuto il 17 marzo 2012 quando le Farc hanno ucciso 11 soldati nel dipartimento di Arauca. Pochi giorni dopo, la controffensiva dell’esercito ha portato all’uccisione di 33 guerriglieri e alla cattura di 5.
4 – Ley de víctimas y restitución de tierras. La legge è scaricabile dal web.
5 – Gilberto Lopez y Rivas, Colombia. Il terrorismo di Stato continua, Latinoamerica n. 4, 2011, pagg. 68-71.
6 – Sono 3,7 milioni secondo Acción Social, organismo pubblico; sono invece 5,3 milioni secondo Codhes, nota Ong colombiana.
7 – Ley de justicia y paz, n. 975, 25 luglio 2005.
8 – Rapporto di Human Rights Watch, gennaio 2012.
9 – Rapporto di Somos defensores, Ong che si occupa di proteggere i difensori dei diritti umani: www.somosdefensores.org.

Paolo Moiola




Resistenza e dignità

Gli indigeni del Cauca

Sono pochi, ma combattivi. Nel Cauca, il movimento indigeno, nato dalla lotta di Manuel Quintín Lame, ha pagato il suo impegno con una lunga serie di morti. I più conosciuti sono padre Alvaro Ulcué (1984) e Cristobal Secue Tombé (2001). Ma il tributo di sangue continua ancora oggi. La guerriglia, i paramilitari e la forza pubblica non gradiscono un’opposizione, che fa della resistenza nonviolenta la propria forza.

In Colombia, su una popolazione totale di 47 milioni di abitanti, gli indigeni sono un milione e 400mila1. «Molti sostengono – racconta padre Roattino – che gli indigeni siano l’unico gruppo sociale che protesta e che si fa sentire». Questo vale soprattutto per gli indigeni del Cauca, appartenenti in maggioranza all’etnia nasa. Le loro mingas suscitano sempre molto clamore. «In effetti – conferma il missionario -, riescono a mobilitare 15-20 mila persone in marce di 4-5 giorni per arrivare fino a Bogotà. Hanno visibilità, anche se poi questa non produce frutti per quanto riguarda la risposta dello Stato. Le firme sono fatte su accordi che vengono regolarmente disattesi dalle autorità. Tuttavia, le mingas sono fondamentali per generare coscienza e solidarietà a livello nazionale».

L’oggetto del contendere è sempre lo stesso: la terra. Per i bianchi, essa è soprattutto una questione economica. Per gli indios, è innanzitutto una questione mistica: la terra è madre. Da difendere a costo della vita.
In Cauca, uno dei primi a parlare di diritti indigeni sulla terra è Manuel Quintín Lame (1880-1967), indio di padre nasa e madre guambiana. La sua lotta inizia combattendo il sistema del terraje. Questo prevede che i coloni (ex schiavi) paghino ai latifondisti un «affitto» costituito in parte da prodotti agricoli, in parte da giorni di lavoro gratuito. Non riuscendo ad ottenere risultati, Lame si fa più ardito iniziando a chiedere la restituzione della terra ai legittimi proprietari, gli indigeni. Una lotta impari, soprattutto per le terre più produttive, quelle in pianura. Tutte le volte in cui gli indios nasa si sono spinti verso le «terre basse», in mano al latifondo o ai paramilitari, è sempre finita nel sangue. Come ricordano il massacro di López Adentro (1984) o quello del Nilo (1991). Ma da anni il problema è anche sulle «terre alte» (conosciute come «tierras quebradas»), in mano agli indigeni, che sono state invase dagli attori del conflitto armato (la guerriglia, l’esercito, i paramilitari) e, più recentemente, dalle imprese multinazionali.
«Oggi – spiega padre Roattino – la vera ricchezza è data dalla enormi riserve di acqua. Si parla di migliaia di sorgenti idriche, centinaia di lagune. Quest’acqua beneficia tutta l’industria della Valle del Cauca e le grandi coltivazioni di canna da zucchero, ma gli indios – unici a poter accampare diritti – non ricevono nulla. Ed anzi rischiano di vedersi espropriati se non stanno all’erta».

Dopo la morte di Manuel Quintín Lame, nel febbraio del 1971 nasce il «Consiglio regionale indigeno del Cauca» (Consejo regional indígena del Cauca, Cric). Ma la lotta degli indigeni della regione trova nuovo impulso quando – è l’anno 1973 – sulla scena appare Álvaro Ulcué Chocué, il primo sacerdote di etnia nasa della Chiesa cattolica colombiana. Padre Roattino ha conosciuto bene padre Alvaro, avendo lavorato con lui dal 1982 al 1984 nei resguardos di Toribio, Jambaló e Taquejó. «Alvaro non soltanto ha marcato un’epoca, ma ha segnato in profondità la coscienza indigena».
Il sacerdote nasa voleva svegliare, scuotere l’indio che la colonia aveva umiliato e standardizzato. Voleva «decolonizzare la mente» degli indios. In primis, riappropriandosi della lingua madre, tratto essenziale dell’identità indigena.
«Una volta – racconta padre Ezio – mi convocarono quelli del Das, Departamento Administrativo de Seguridad. Uno dei punti su cui i servizi segreti vollero interrogarmi era proprio la lingua. “Padre, dicono che lei parli la lingua indigena. Dunque, chi non la conosce non può capirla”. Volevano dirmi: “Lei nasconde delle cose”. Il potere voleva controllare, ma per farlo basta fare una cosa: imparare la lingua. Cosa non facile invero, anche all’interno dei nasa. Un giorno feci salire in auto una ragazza di 15-16 anni che veniva da Cali e andava al suo villaggio. Le chiesi in lingua nasa: “Come stai?”. Lei mi rispose: “Buongiorno, padre”. In spagnolo. “Scusa – le dissi -. Ma tu non sei indigena?”. E lei: “Mia madre era indigena”. Che tradotto significava: per me non è più così».

Nel gennaio 1984 gli indigeni recuperano (non occupano) un latifondo a Corinto: la Hacienda López Adentro, una «terra bassa». Vi rimangono per circa un anno. Il 9 di novembre arrivano i militari che distruggono tutto: 300 ettari di coltivazioni, case e macchinari. Il giorno dopo, 10 novembre 1984, muore padre Alvaro Ulcué, ammazzato a Santander de Quilichao da 2 sicari. «Non fu una coincidenza – spiega padre Roattino -, ma un avvertimento: gli indios si erano spinti troppo in là. Quindici anni dopo sarebbe toccato a Cristobal, altro leader indigeno molto impegnato e deciso nell’azione del recupero delle terre».
Cristobal Secue Tombé viene assassinato il 25 giugno 2001, nel municipio di Corinto. Da allora è stato (è) uno stillicidio. Secondo dati ufficiali di Somos defensores2, nel 2010 in Colombia sono stati assassinati 32 difensori dei diritti umani. Di questi, 11 erano indigeni, di cui ben 8 del Cauca.

Sono passati 500 anni dalla Conquista: l’indio di oggi non è più quello di ieri. «Alcuni leader – spiega Roattino – vorrebbero tornare al passato, dimenticando che anche l’indio è nel 2012. Non si può dire: “Sii indio”. Ci sono indios che non vogliono essere tali. Non si può obbligare, imporre. Occorre dire: “Sii indio, se vuoi”. Personalmente, vedo 3 tipi di indio: c’è quello tradizionale che vuole essere la fotocopia del passato, c’è quello moderno che critica le tradizioni e c’è l’indio nuovo. Quest’ultimo è quello che ha una radice antica, che prende dal passato senza però dimenticare il tempo in cui vive». Un tempo segnato dalla strenua difesa della terra e della propria identità. Lungo questa difficile strada si sono incamminati i 120 mila indigeni del Cauca. A dispetto delle Farc, dei paramilitari e dello Stato colombiano.

Paolo Moiola

Note
1 – La cifra è quella dell’ultimo censimento (anno 2005) effettuato dal Departamento administrativo nacional de estadistíca (Dane). Secondo la stessa fonte, gli afrocolombiani sono poco meno di 4,3 milioni.
2 – Rapporto 2010 di Somos Defensores.

Paolo Moiola




Cercare gli ultimi

L’intervista: il missionario

Fede, chiesa, missione, teologia secondo padre Ezio Roattino.

«Io mi sforzo di ispirarmi al vangelo di Gesù. Quindi, cerco di condividere l’esistenza con i crocefissi. I crocefissi sono i poveri, gli impoveriti, le vittime. In una parola, sono gli ultimi. Con loro io mi sento bene. Oggi gli ultimi sono i campesinos sfollati, gli afrocolombiani e, nella mia quotidianità, gli indios del Cauca. Anche se faccio fatica, anche se ho i miei anni, anche se parlo la lingua nasa più o meno, io sono contento di essere lì con loro. Natale Vivalda, prete di Genova trapiantato in Colombia, ove morì il 13 luglio 2011, mi fu d’esempio. Lui andava nelle notarie pubbliche per controllare di chi fosse la terra. Natale mi diceva: “Tu, Ezio, non ti salverai da solo. Gli altri ti salveranno”».

Nel Cauca, da molti anni i missionari della Consolata vivono tra gli indios nasa. Con quale obiettivo?
«Li accompagniamo e li ascoltiamo. Sapendo che sono “altri”. Occorre proseguire sulla strada della “convivialità delle differenze” (essere alla stessa tavola), come diceva don Tonino Bello. E, se sono “altri”, altro sarà l’incontro con il vangelo. Come un seme che diventerà spiga con la linfa della terra e con il sole e la pioggia del cielo.
A Pentecoste tutte le genti, convocate dalla terra intera, ascoltavano la parola di Dio, proclamata da Pietro, nelle loro proprie e diverse lingue. Il vangelo, liberato dalla cultura occidentale (la cosiddetta inculturazione) e fondato sul dialogo (l’interculturalità), è sfida primaria della nostra missione.
Juan Del Valle, il primo vescovo (era spagnolo) di Popayan, così scriveva – attorno al 1546 – al Re di Spagna: “Qui gli indios sono più maltrattati che gli israeliti in Egitto. E se non si rimedia io continuerò a gridare, nonostante mi buttino pietre”. Se è fondamentale l’esistenza di una resistenza, allora occorre dare voce a chi la resistenza la mette in pratica. Vivere quotidianamente con i Nasa risponde a questo obiettivo».
Vivere la quotidianità è vivere la trascendenza?
«“La gloria di Dio è la vita dell’uomo”, dice San Ireneo. E, come precisava l’arcivescovo Romero, dandone un tocco latinoamericano, “la gloria di Dio è la vita del povero”. Bonhoeffer scriveva dal carcere ad un amico: “Dobbiamo imparare a vivere ogni giorno come fosse il primo e l’ultimo giorno della nostra vita. Può darsi che il giudizio universale arrivi domani, ma fino a domani io lotterò per la trasformazione di questo mondo”. Dunque, come missionari della Consolata siamo in Colombia, perché crediamo che dobbiamo sì lottare per la vita eterna, ma anche per la vita storica. Che poi è la ricerca dell’eguaglianza, della libertà e della solidarietà».

Una rivoluzione, dunque?
«La Rivoluzione francese non parlava forse di liberté, egalité, frateité? E con essa tante altre rivoluzioni. E la rivoluzione di Gesù, figlio di Dio e figlio dell’uomo, si sarà forse esaurita in Duemila anni di storia? Avremo già sfruttato questa miniera di risposte e di nuovi cammini? Occorrerebbe credere di più per osare di più e incidere di più».

Qualcuno si lamenta affermando che lottare per trasformare il mondo terreno non è compito di un missionario…
«Un giorno un confratello del Kenya mi chiese: “Ma la teologia della liberazione in America Latina non è finita?”. Io gli risposi: “Fino a che nel Padre nostro ci saranno le parole  ‘Liberaci dal male’, la teologia della liberazione, che diventa spiritualità e pratica della liberazione, non si potrà seppellire, perché è parte del vangelo”.
Un caro amico, sacerdote colombiano, padre Federico Carrasquilla, ci diceva: “Nella nostra Chiesa vedo chi lavora per Dio e chi lavora per il Regno, come se fossero due cose separate. Ma non si può lavorare per Dio senza il Regno, né lavorare per il Regno senza Dio. Da una parte, abbiamo belle liturgie e cerimonie senza preoccuparsi di chi non ha pane né lavoro, né casa; dall’altra, è tutto un organizzare comitati, sindacati, assemblee senza preghiera, eucarestia, lettura della parola di Dio. Non può esistere un Re senza Regno, né un Regno senza Re. Gesù non ha predicato Dio e non ha predicato il Regno, ma ha predicato il Regno di Dio”».

Padre Ezio, come vede la missione dei missionari della Consolata?
«È la missione della consolazione: consolare i poveri, i più poveri, gli ultimi. Giuseppe Allamano, il nostro fondatore, ci ha lasciato come esempio la vita e l’opera dello zio Giuseppe Cafasso. Questi, durante tutta la sua esistenza, visitò le quattro carceri di Torino. Lo fece ogni settimana, accompagnando fino al patibolo 68 condannati a morte. Per questo venne soprannominato “il prete della forca”, il prete degli ultimi.
In Colombia, chi sono e dove sono i condannati a morte? Se li conosciamo, stiamo accompagniandoli?».

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Linea di galleggiamento

Un passo avanti e uno indietro

Sotto il presidente Benigno Aquino i problemi del grande arcipelago asiatico non sono cambiati: la riforma agraria è fallita; la povertà e la disoccupazione rimangono alte; la tratta di esseri umani prospera; nel Sud agiscono alcuni gruppi terroristici. Per tutto questo, le Filippine – tra l’altro sovrappopolate – sono caratterizzate da una massiccia emigrazione.

Con l’arrivo alla presidenza nel giugno 2010, dopo un’accesa campagna elettorale, di Benigno Aquino III detto «Noynoy», le Filippine sembravano tornate ai loro ideali e a nuove speranze. Cinquantenne, schivo e pragmatico, single con fama di playboy, impegnatosi in campagna elettorale in un programma riformista e moralizzatore della vita pubblica, Noynoy, pur con molti limiti di appartenenza sociale, carattere e capacità, poteva forse essere l’unica possibilità lasciata alle Filippine. Una possibilità che, al momento, rischia di essere sprecata. Corruzione, nepotismo, povertà, difficili rapporti con la gerarchia cattolica rendono la presidenza Aquino a dir poco tormentata, certamente poco efficace nel risolvere i problemi nazionali. Su una cosa, però, filippini e osservatori inteazionali sono concordi: pochi sarebbero in grado di gestire efficacemente e in soli sei anni i problemi di un paese come le Filippine e molte delle difficoltà attuali sono eredità dell’amministrazione precedente, quella della presidente Gloria Macapagal-Arroyo.
La difficoltà di delineare la fisionomia di un arcipelago – frammentato per geografia, storia e sovrapposizioni culturali – si gioca su linee comuni e su specificità locali.
Nella prima categoria rientrano la lotta agli antichi privilegi, la riforma agraria, quella del sistema scolastico, il dibattito su educazione sessuale e contraccezione che vede fortemente schierata la Chiesa cattolica; nella seconda, la situazione di Mindanao e del lontano meridione filippino, ma anche quella delle tante «periferie» del paese, luoghi geograficamente, ma soprattutto culturalmente e per possibilità di crescita, troppo lontani dall’indaffarata, caotica e anche disincantata Manila. Ecco allora che proprio da queste aree periferiche parte l’emigrazione, la più massiccia al mondo in percentuale sulla popolazione totale. Manila, nonostante i tentativi di decentralizzazione amministrativa, è ancora una strozzatura nel sistema che organizza le partenze per l’estero attraverso una complessa rete di agenzie pubbliche e private, a volte nell’ulteriore incertezza della clandestinità. Nei paesi d’emigrazione, è invece probabile l’incontro con connazionali raggruppati in comunità sovente vaste e bene organizzate, in cui è possibile acclimatarsi prima ancora di cercare un’integrazione nei paesi d’accoglienza.

LA DIFFICILE EREDITÀ DEL CARDINALE SIN
Una emigrazione in cui anche la Chiesa ha un ruolo: sia chiedendo norme a tutela degli emigranti e offrendo attività di counseling in patria, sia provvedendo alle molte cappellanie filippine in oltre un centinaio di nazioni.
La storia filippina del dopoguerra è stata caratterizzata prima dalla costruzione di una fragile democrazia elitaria, eredità della colonizzazione statunitense (anni 1945-1965); da una dittatura lunga e dura guidata da Ferdinand Marcos (1965-1986), all’inizio mitigata da una politica populista e anti-elitaria; infine dal ritrovato orgoglio democratico dopo la «Rivoluzione dei fiori e dei rosari» del febbraio 1986 guidata da Corazón Aquino. Anche nel contesto storico contemporaneo, un cenno va fatto al ruolo della Chiesa nell’accompagnare questo difficile periodo della storia dell’arcipelago asiatico, passato da una democrazia «ritrovata», a una democrazia «tradita». Oggi anche a una rinnovata speranza, ma con poche illusioni.
Sarebbe sbagliato ridurre l’impegno della Chiesa a un ruolo «politico». In realtà, due sono sempre stati i suoi obiettivi fondamentali: formare la coscienza degli elettori e favorire consultazioni libere ed oneste. Senza mai appoggiare espressamente alcun candidato né programma di governo, i vescovi hanno suggerito i criteri morali per una valutazione delle candidature: operare con impegno e coerenza per il bene comune; promozione e difesa della giustizia; spirito di servizio; opzione preferenziale per i poveri e per la difesa dei diritti umani.
Un impegno, quello della Chiesa filippina, o almeno dei suoi settori più progressisti, che ha accompagnato negli ultimi 25 anni una società civile attiva e variegata, sovente ideologizzata e insieme repressa. Va ricordato anche il ruolo del cardinale Jaime Sin, negli anni bui della dittatura, coscienza critica del potere e poi «censore» della nuova e fragile democrazia filippina.
Il cardinale, deceduto il 21 giugno 2005, per quasi trent’anni dal 1974 al 2004 arcivescovo della capitale, è stato simbolo della Chiesa locale, sia nella capacità di dialogo – sovente intransigente – con il potere civile, sia nel tenere acceso l’impegno sociale senza però venir meno ai fondamenti di una Chiesa fortemente tradizionalista.

LA TERRA E LA RIFORMA MANCATA
Con la «Rivoluzione dei fiori e dei rosari», la caduta della dittatura Marcos e la presidenza di Corazon Aquino, la pressione della piazza e di settori dell’esercito costrinse allo studio e all’avvio di un «Programma complessivo di riforma agraria». Presentato come un mezzo per ridistribuire in modo equo le terre del latifondo a contadini senza terra, ha finito col diventare una trappola per i nuovi piccoli proprietari, lasciati senza mezzi concreti. A questo vanno aggiunti le «eque» compensazioni per i possidenti (che avevano ceduto «volontariamente» le proprie terre, mentre in parte venivano ridistribuite a membri delle loro stesse famiglie) e il riacquisto delle terre dai contadini non in grado di vivere del loro lavoro in mancanza di strumenti di sostegno finanziario e tecnico.
Inoltre, solo il 50% delle terre coinvolte nel progetto di riforma era di proprietà privata (e di queste solo il 4% è stato ridistribuito dopo una requisizione; il resto è stato prima acquistato dallo Stato); il rimanente 50% è (o era) proprietà pubblica. Oggi il 68% degli agricoltori non sono proprietari delle terre che lavorano e solo il 3% ha ottenuto la terra attraverso la riforma agraria.

MINDANAO, TRA GUERRIGLIA E BANDITISMO
Posta a sud delle Filippine, Mindanao è l’isola maggiore per superficie di questo paese che di isole ne conta oltre 7mila, ma ospita solo il 24 per cento della sua popolazione. I suoi 120 mila chilometri quadrati sono da quarant’anni un campo di battaglia e i suoi  23 milioni di abitanti (il 70 per cento cattolici e il 23 per cento musulmani) sono ostaggio di un conflitto tra esercito e movimenti indipendentisti che in anni recenti hanno in parte aderito al radicalismo di origine afghana e araba, rilanciando le rivendicazioni locali nel più ampio teatro globale successivo all’11 settembre 2001. Questo nonostante la creazione di una regione autonoma di Mindanao musulmana (con una popolazione islamica al 90 per cento), che comprende le province di Lanao del Sur, Maguindanao, Tawi-tawi e Sulu.
Il massacro di una sessantina di persone, per metà donne della famiglia di un candidato alla presidenza e per metà giornalisti, da parte di un clan rivale nel novembre 2009 nella provincia di Maguindanao, ha aperto gli occhi dell’opinione pubblica filippina e internazionale sui potentati locali, sovente armati, ai quali è garantita immunità e copertura in cambio di appoggio elettorale. Una situazione oggi complessa, quasi inestricabile, quella di Mindanao, come complessa è la sua storia. Da tempo le rivendicazioni autonomiste e identitarie guidate da notabili musulmani locali, eredi di antichi sultanati e privilegi, sono state espropriate da movimenti guerriglieri («Fronte nazionale di liberazione Moro», «Fronte islamico di liberazione Moro») prima e, oggi dal banditismo con pretesto religioso di Abu Sayyaf.
Nel meridione filippino, non a caso sovente definito dagli stessi media locali «far west», la questione religiosa diventa pretesto di divisione e di violenza. Ad essa non è estranea la strategia di Al Qaida e del jihadismo globale che su queste spiagge ha trovato approdi accoglienti, rifugi e uomini pronti a continuare la lotta, ma un ruolo importante hanno anche i vasti interessi delle multinazionali minerarie, le fazioni politiche e le stesse strutture militari.
La Chiesa locale e la missione in questo contesto riescono solo con grande difficoltà ad operare per la pace e la convivenza, come pure per la giustizia e lo sviluppo. Il rischio di essere «presi nel mezzo», di diventare oggetto di minacce, sequestri e anche  obiettivo di sicari è alto e già pagato a caro prezzo.

FAMIGLIA, SINDACATO, MULTINAZIONALI
La società filippina aggrega e insieme vive di un numero enorme di associazioni, gruppi, coalizioni e istituzioni. Una situazione connaturata alla tradizione, alla cultura filippina, che stima aggregazione e armonia sociale come valori prioritari, a partire dall’ambito familiare. Allo stesso tempo, questa impostazione «partecipatoria» più che «di azione» è un limite alla loro attività. L’altro, e ancora più pesante, è la difficoltà ad agire, in particolare in ambito economico o politico. Per decenni, dopo l’indipendenza, sindacati e Ong sono state illuse che la possibilità di crescere sotto il protettorato de facto americano potesse garantire una reale influenza sulla vita pubblica. Inoltre, la dipendenza del paese dalle iniziative imprenditoriali e dagli investimenti stranieri si è scontrata contro gli interessi locali portati avanti da alcuni gruppi. Non si può negare che la forte sindacalizzazione, molto avanzata rispetto ad altri paesi fino dagli anni Settanta, sospettata spesso di collegamenti con Partito comunista al bando e con le sue ali armate e guerrigliere, abbia costretto alla chiusura un gran numero di fabbriche nate per iniziativa straniera, giapponese in particolare, o al loro ridimensionamento.
Oggi le cose sono cambiate. Lo dimostrano le aree economiche speciali come quella che gravita attorno alla città di Olongapo (che include l’ex base navale statunitense di Subic Bay). Qui vincono la deregulation e i diktat degli investitori stranieri e delle loro controparti locali più che le necessità di tutela e di benessere della popolazione.
Mentre – e è un poco lo specchio del paese – accanto alle attività che danno da lavorare a migliaia di filippini nel settore formale (con punte avanzate di tecnologia e know-how), prosperano prostituzione e sfruttamento.
Insomma, le Filippine modificano l’apparenza ma non la sostanza. La scarsa memoria dell’arcipelago continua a giustificare il potere di pochi, l’«ineluttabilità» dei suoi mali incentiva mille iniziative, ma non una reazione. Non a caso l’emigrazione, incentivata fin dai tempi della dittatura, è oggi organizzata, gestita e per certi aspetti sfruttata proprio dalle strutture governative.

Stefano Vecchia

Stefano Vecchia




Il silenzio e la parola

20 maggio: giornata mondiale delle comunicazioni sociali

Animo e mente hanno bisogno di silenzi e riflessioni individuali e comunitarie.
Il silenzio è parte integrante della comunicazione. E favorisce il discernimento.
Le nuove forme di comunicazione, aiutano la chiesa a dialogare con l’uomo moderno.
Scopriamo il messaggio del papa per la 46a giornata delle comunicazioni sociali.

La frase del pastore e teologo Dietrich Bonhoeffer «Facciamo silenzio solo per amore della Parola», sintetizza più di ogni altra considerazione il messaggio di Benedetto XVI, inviato a gennaio per la giornata delle comunicazioni sociali del 20 maggio, alla chiesa universale e a tutti coloro che desiderano confrontarsi, con serietà, responsabilità e libertà sul tema dell’informazione. La parola non sempre ci fa pensare a ciò che diciamo o fingiamo di ascoltare. La relazione tra persone, la ricerca di una sintesi nella complessa babele di parole che ci travolgono a tutti i livelli è necessaria per vivere e non sopravvivere all’urto dell’immanente flusso presente di fatti e vicende.
L’anima e la mente hanno bisogno di silenzi e riflessioni, individuali e comunitarie, anche nell’ambito di ciò che di più prezioso abbiamo ricevuto in dono. A causa delle attuali dinamiche della comunicazione siamo sommersi da un flusso continuo di domande e risposte, spesso anzi di risposte non richieste, che vorrebbero anticipare e indurre questioni di nessuna utilità.
In questo contesto, ricorda Benedetto XVI, «il silenzio è prezioso per favorire il necessario discernimento tra i tanti stimoli e le tante risposte che riceviamo, proprio per riconoscere e focalizzare le domande veramente importanti».
Le grandi domande della filosofia, sul senso della vita, del sapere e della speranza, non si sono estinte nel cuore dell’uomo e continuano a manifestare «l’inquietudine dell’essere umano sempre alla ricerca di verità, piccole o grandi».
Fare silenzio
Nel giorno della festa di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti e comunicatori – il messaggio del Papa parte dall’affascinante titolo «Silenzio e parola: cammino di evangelizzazione». Silenzio e parola, scrive Benedetto XVI, sono due aspetti essenziali di ogni comunicazione, senza l’uno, l’altro è privato di senso: «Il silenzio è parte integrante della comunicazione e senza di esso non esistono parole dense di contenuto». Per Benedetto XVI, il silenzio «apre… uno spazio di ascolto reciproco» che rende «possibile una relazione umana più piena». È nel silenzio, infatti, che «ascoltiamo e conosciamo meglio noi stessi», che il pensiero si «approfondisce» e che «comprendiamo con maggiore chiarezza ciò che desideriamo dire o ciò che ci attendiamo dall’altro». Allo stesso modo, «tacendo, si permette all’altra persona di parlare, di esprimere se stessa, e a noi di non rimanere legati, senza un opportuno confronto, soltanto alle nostre parole o alle nostre idee».
Non a caso, prosegue il pontefice, «nelle diverse tradizioni religiose», la solitudine e il silenzio sono «spazi privilegiati per aiutare le persone a ritrovare se stesse e quella verità che dà significato a tutte le cose». Anche nel mondo contemporaneo, in cui l’uomo «è bombardato da risposte a quesiti che egli non si è mai posto e a bisogni che non avverte». «Là dove i messaggi e l’informazione sono abbondanti – aggiunge papa Ratzinger -, il silenzio diventa essenziale per disceere ciò che è importante da ciò che è inutile o accessorio».
Social network
E i social network, Facebook e Twitter? Non proprio una «benedizione» ma un segno, secondo Benedetto XVI, di considerazione verso le nuove forme di comunicazione online che essi rappresentano, dai micro messaggi di 140 caratteri o agli sms «non più lunghi di un versetto biblico», come afferma anche il cardinale Gianfranco Ravasi che accetta la sfida della comunicazione globale come una diretta conseguenza della sua missione: «Aiutare la chiesa a dialogare con l’uomo contemporaneo, cercandolo dove è, anche nel mondo del web, come un esploratore in perlustrazione in territori sconosciuti, distanti e spesso ostili, conduce la sua ricerca libero da preconcetti, con l’apertura al confronto caratteristica dell’uomo di cultura».
Le nuove tecnologie non sono guardate con sospetto dal papa ma con curiosità e apertura, nella consapevolezza che, per la Chiesa, ogni «mezzo» è «buono» se valido è il messaggio. Benedetto XVI non dimentica che viviamo in un’epoca in cui «le varie forme di siti, applicazioni e reti sociali» possono aiutare l’uomo «a vivere momenti di riflessione e di autentica domanda» e anche «a trovare spazi di silenzio, occasioni di preghiera, meditazione o condivisione della Parola di Dio». «Nella essenzialità di brevi messaggi – aggiunge – si possono esprimere pensieri profondi se ciascuno non trascura di coltivare la propria interiorità». Scrive papa Ratzinger: «Gran parte della dinamica attuale della comunicazione è orientata da domande alla ricerca di risposte. I motori di ricerca e le reti sociali sono il punto di partenza della comunicazione per molte persone che cercano consigli, suggerimenti, informazioni, risposte. Ai nostri giorni, la rete sta diventando sempre di più il luogo delle domande e delle risposte».
Complessità del mondo globale
Il direttore di «Civiltà Cattolica», padre Antonio Spadaro, grande esperto di nuovi media, scrive: «Parola e silenzio si integrano e non si oppongono. Il messaggio del papa scardina l’opposizione tra silenzio e parola, che ha la sua verità, ma solamente in casi estremi. Si deve sperare che da oggi in poi non si debba più assistere ad elogi del silenzio in sé e per sé, al di fuori di un tessuto comunicativo.
Chi prega sta in silenzio, ma in realtà non è di per sé vero. Chi prega elabora un linguaggio di comunicazione con Dio ed è proprio per elaborare questa parola, questo discorso, che tace esteriormente».
E oggi, nella realtà delle mille voci dissonanti e polifoniche, che sono una ricchezza, ma anche un indicatore della complessità del mondo globale, è necessario fare sintesi, pensiero, approfondimento.
Dare strumenti per comprendere e utilizzare la comunicazione, interpretarla e condurre le coscienze mature a un processo di dialogo e confronto, nel rispetto delle differenze delle fedi, delle culture e delle tradizioni che fanno dell’umanità un tesoro da salvare, per costruire un futuro sulle vie della pace e della frateità.
Parlare dell’evangelizzazione come luogo di comunicazione, è dire della relazione tra fede e comunicazione. Questo tocca tre aspetti dell’evangelizzazione: l’azione missionaria, la catechesi e la pastorale. La comunicazione ha un compito preciso in tutti gli aspetti della missione della chiesa, deve essere parte integrante di ogni piano pastorale e per questa ragione è necessaria la formazione di responsabili pastorali. Inoltre è fondamentale che i cristiani siano educati a selezionare l’informazione e a sviluppare lo spirito critico.
Nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del 1975 di Paolo VI, evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della chiesa, la sua identità più profonda. Quest’ultima esiste per evangelizzare, cioè per predicare e insegnare, essere canale del dono della grazia, riconciliare i peccatori con Dio, perpetuare il sacrificio di Cristo. In un primo tempo l’evangelizzazione si caratterizza nell’azione missionaria, cioè la missione «Ad gentes». La chiesa considera che la ricchezza della «buona notizia», ricevuta dalla bontà divina, è accolta per essere comunicata a tutti gli uomini. Perciò, nella pre-evangelizzazione, si tratta di stabilire degli obiettivi capaci di essere assimilati e condivisi da tutti gli uomini di buona volontà: il valore assoluto della persona umana, la difesa della vita, il valore della famiglia, il primato della verità, la possibilità di dare un senso alla vita.
la buona novella
Il linguaggio usato per l’annuncio della Buona Novella, deve essere comprensibile a chi riceve il messaggio di salvezza. Ciò richiede un processo di inculturazione inerente alla radicalità della fede, applicato soprattutto alla realtà linguistica e culturale del popolo. Nell’Ecclesia in Africa, vi è menzionato che le forme tradizionali di comunicazione sociale non debbano mai essere trascurate, perché sono ancora molto utili ed efficaci in molti centri africani. Come veicolo di saggezza e di espressione popolare, costituiscono una sorgente speciale di temi e ispirazioni per i tempi modei. La chiesa contemporanea può dunque disporre di diversi mezzi di comunicazione sociale, tanto tradizionali che modei. È suo dovere fae il miglior uso per diffondere il messaggio della salvezza.
Parlare della «comunicazione evangelizzatrice», è pure parlare dell’azione catechetica. La catechesi costituisce un momento efficace all’interno di un procedimento globale dell’evangelizzazione. Segue l’azione missionaria e precede l’azione pastorale. È l’azione «per la quale un gruppo umano interpreta la sua situazione, la vive e l’esprime alla luce del Vangelo».
Naturalmente la catechesi è comunicazione educativa e annuncio di fede, ed è, in questo senso, informazione, sulle dottrine, sulle riflessioni, sulle convinzioni. La fede rimane un «dono» di Dio e una libera adesione dell’uomo. Il documento del magistero Catechesi tradendae pone l’accento sull’importanza della comunicazione sociale e del linguaggio contemporaneo nella catechesi, nella quale devono essere orientati al dialogo, alla condivisione, alla conoscenza e all’accettazione reciproca delle diversità.
Parlare dell’azione evangelizzatrice come luogo di comunicazione è parlare della stessa azione pastorale. L’azione pastorale si riferisce a coloro che hanno l’incarico di guidare il gregge di Dio; ha per scopo l’incarnazione del Vangelo nelle condizioni di vita delle persone e si basa sul servizio della parola, la celebrazione liturgica dei sacramenti, sull’azione di carità e l’impegno sociale.
Nell’azione pastorale, la comunicazione invade tutti i settori dell’attività umana. La pastorale si occupa di un’insieme di azioni che necessitano una cornordinazione e una complementarietà, che sono possibili solamente grazie al dinamismo di comunicazione all’interno stesso della chiesa.
Tracce del Vaticano II
È a questo punto che, nell’anno del cinquantesimo anniversario dell’inizio del Vaticano II, è doveroso dare voce nella chiesa a quell’afflato di profezia che sembra smarrito. Che fine ha fatto la chiesa coraggiosa e aperta, di cui il Concilio aveva tracciato il profilo? Si è chiesto padre Bartolomeo Sorge, sulla rivista «Aggioamenti Sociali». E anche noi, oggi, dobbiamo porci lo stesso interrogativo. Le risposte manifestano più delusione e preoccupazione che fiducia e speranza. La chiesa – si dice – oggi non guarda più al futuro, ma al passato. E si citano l’involuzione in atto nei confronti della riforma liturgica; l’impasse del movimento ecumenico; l’insistenza sui «valori non negoziabili» che ostacola il dialogo; gli interventi della gerarchia che condizionano l’autonomia dei laici in politica. In realtà, non ci si può fermare a questi (e altri) casi, per quanto significativi. Un’indicazione di riflessione la fornisce Carlo Maria Martini in «Conversazioni nottue a Gerusalemme. Sul rischio della fede». Con la «parresia» evangelica che lo contraddistingue, il cardinale inizia rilevando che oggi «vi è un’indubbia tendenza a prendere le distanze dal Concilio. Il coraggio e le forze non sono più grandi come a quell’epoca e subito dopo». Come mai? «È indubbio – riconosce – che nel primo periodo di apertura alcuni valori sono stati buttati a mare. La chiesa si è dunque indebolita»; pertanto non devono sorprendere le paure e le resistenze di molti: «Posso ben comprendere le loro preoccupazioni se solo penso a quanti in questo periodo hanno abbandonato il sacerdozio, a come la chiesa sia frequentata da un numero sempre minore di fedeli e a come nella società e anche nella chiesa sia emersa una sconsiderata libertà». Tuttavia, i limiti del post Concilio non tolgono nulla alla grandezza dell’evento conciliare. «Nonostante tutto – conclude Martini – dobbiamo guardare avanti. […] credo nella prospettiva lungimirante e nell’efficacia del Concilio». La comunicazione della fede va riassunta in tre prospettive: 1. la necessità per i cristiani di «pensare in modo aperto»; 2. il bisogno che la chiesa ha di riscoprire il ruolo dei giovani; 3. l’urgenza di costruire una nuova «cultura della relazione».

Luca Rolandi

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Le comunicazioni e la chiesa
DAL CINEMA A FACEBOOK

Il 30 gennaio 1948 viene istituita da Pio XII la «Pontificia commissione di consulenza e di revisione ecclesiastica dei film a soggetto religioso o morale» e il 17 settembre dello stesso anno sono approvati il nuovo statuto e il nome di «Pontificia commissione per la cinematografia didattica e religiosa». Per essere più adatta alle esigenze dei nuovi mezzi di comunicazione, allora emergenti nel 1952, è di nuovo modificato lo statuto e la denominazione in «Pontificia commissione per la cinematografia» e vengono nominati numerosi esperti.
Lo sviluppo e il miglioramento di questo organismo continuò e nel 1954 il nome della commissione venne nuovamente mutato in «Pontificia commissione per la cinematografia, la radio e la televisione». L’8 settembre 1957 Pio XII promulga l’enciclica Miranda Prorsus sulle comunicazioni mentre il 17 febbraio 1958 dichiara santa Chiara d’Assisi «celeste patrona» della televisione e delle telecomunicazioni.
Nel 1959 Giovanni XXIII erige la Filmoteca Vaticana che viene affidata alla commissione. Soprattutto con il Concilio Vaticano II, che apre le porte e le finestre della chiesa al mondo, la comunicazione diventa elemento essenziale nella testimonianza e nell’evangelizzazione dei popoli. Per la prima volta in duemila anni, osservatori estei professionisti chiamati «giornalisti» sono ammessi a documentare e raccontare lo svolgimento dei lavori di un’assise così importante e influente sui destini dell’intera comunità cattolica mondiale. Del Vaticano II abbiamo riprese televisive, registrazioni audio, migliaia di fotografie e un numero sterminato di articoli che, spesso con dettagliata precisione, danno conto di dibattiti e polemiche intee che in passato sarebbero rimaste completamente segrete o, tutt’al più, sarebbero state oggetto di ricerca e analisi per gli storici, anni dopo la conclusione dell’evento. Per fare un paragone: del Concilio immediatamente precedente, il Vaticano I, abbiamo soltanto qualche dipinto e alcuni, spesso reticenti, resoconti. E nel Vaticano II viene soprattutto promulgato un documento, il decreto sui mezzi di comunicazione sociale il 4 dicembre 1963, la Inter Mirifica.
Durante il Concilio Vaticano II, Paolo VI con il motu proprio «In fructibus Multis» del 2 aprile 1964 cambia la denominazione del dicastero in «Pontificia commissione per le comunicazioni sociali» e affida a essa tutto quello che concee la comunicazione. A partire dal 1967 viene istituita da Paolo VI la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che da quella data si ripete a cadenza annuale. Con la costituzione apostolica Pastor Bonus del 1988 il dicastero viene elevato al grado di pontificio consiglio da Giovanni Paolo II. Il 20 maggio 2012 si celebra la 46esima giornata mondiale delle comunicazioni sociali sul tema «Silenzio e Parola: cammino di evangelizzazione».

Luca Rolandi

Luca Rolandi




La svolta di Macky

Macky Sall, quarto presidente del Senegal

Il Senegal conferma la sua tradizione democratica. Il duello finale tra il presidente al potere da 12 anni e il suo giovane allievo si è svolto nella calma. Nonostante i morti di febbraio e i vizi di incostituzionalità. La temuta deriva per il potere è stata arginata.
E ora il neopresidente deve rimboccarsi le maniche.

È la sera del 25 marzo, tiepida e tranquilla come quella di tante domeniche in questa stagione a Dakar. Il presidente del Senegal Abdoulaye Wade telefona a uno dei suoi «allievi», Macky Sall: «Le cose stanno definendosi, la vittoria è tua. Ti faccio i miei complimenti». Macky risponde con malcelata soddisfazione ma con rispetto: «Vi ringrazio!».
I senegalesi hanno votato tutto il giorno nella calma, per eleggere il loro nuovo presidente della Repubblica. I concorrenti al ballottaggio: «il vecchio» Wade e «l’allievo» Macky. Chiuse le ue alle 18, le proiezioni davano già il secondo con oltre il 60% di preferenze (risultato che si attesterà a 65,80%). I timori di un’involuzione «modello Costa d’Avorio» con il presidente uscente sconfitto che non vuole mollare, sono subito smentiti dalla telefonata. Il Senegal è a una svolta storica.

Un uomo ostinato
Abdoulaye Wade, «le vieux» (il vecchio) come viene soprannominato nel suo paese, ha 85 anni, ma ha deciso di attaccarsi al potere, nonostante tutto e tutti.
Eletto la prima volta alle consultazioni del 19 marzo 2000, questo oppositore storico divenne così il terzo presidente della Repubblica del Senegal. Dopo Léopold Sédar Senghor, il padre della patria e Abdou Diouf, entrambi del Partito Socialista, ognuno dei due al potere per 20 anni di fila dal giorno dell’indipendenza, il 4 aprile 1960. Diouf è sconfitto al secondo tuo da Wade. Nel 1974 Wade aveva fondato il Parti démocratique senegalais (Pds) di cui diventa il primo presidente.
Nel 2000 dunque si grida al «cambiamento» e si spera in una nuova era per il Senegal. Ma così non è. Ci si renderà presto conto che il sistema di corruzione e clientelismo perdura e si diffonde.
Il referendum costituzionale del 2001 dota il paese di una nuova Costituzione (la quarta dal 1960). La modifica fondamentale è quella dell’articolo 27: la durata del mandato presidenziale è ridotta da 7 a 5 anni (più consona alle democrazie modee) e il numero di mandati è limitato a due. Una clausola importante sancisce che queste due regole saranno modificabili solo tramite referendum popolare. La nuova Costituzione sopprime inoltre il Senato: il parlamento diventa unicamerale.
Finito il primo mandato nel 2007 (Wade era stato eletto quando vigeva l’altra Costituzione, con settennato), il presidente viene rieletto per altri cinque anni. È il secondo mandato e lui ha 80 anni. In questa occasione il presidente dichiara: «Non potrò più presentarmi in futuro perché ho bloccato la Costituzione su questo punto».
Ma nel 2008 ci ripensa. Il governo (il Senegal è una repubblica presidenziale, per cui il presidente della Repubblica è il capo dell’esecutivo) fa votare cinque leggi costituzionali, tra le quali quella che modifica l’articolo 27, riportando il mandato presidenziale a 7 anni. Il modo con cui l’emendamento viene fatto è però anticostituzionale, in quanto non è stato utilizzato il referendum.
dopo wade, wade?
Negli ultimi anni Abdoulaye Wade manda avanti suo figlio Karim, facendogli assumere sempre maggiori incarichi di potere. Lo nomina presidente dell’Agenzia nazionale dell’Organizzazione della Conferenza Islamica (Anoci). Il giovane deve seguire gli imponenti cantieri per l’incontro internazionale previsto nel 2008 proprio a Dakar. Ma l’Assemblea Nazionale (il parlamento) lo convoca per cattiva e opaca gestione dei fondi.
Il presidente dell’assemblea è Macky Sall, già primo ministro di Wade e suo possibile successore nel partito. Le vieux non lo perdonerà.
Karim Wade si candida a Dakar nelle amministrative del marzo 2009, ma il verdetto delle ue è implacabile. Sarà consigliere d’opposizione. Neanche due mesi dopo il padre Abdoulaye lo nomina ministro con la responsabilità di quattro dicasteri (Cooperazione internazionale, Territorio, Trasporti aerei e Infrastrutture). Nel 2010 colleziona anche l’importante ministero dell’Energia. Ma i senegalesi mal sopportano questa concentrazione di potere nelle mani di famiglia.
Nel giugno 2011 Wade propone di modificare lo scrutinio presidenziale: si eleggerebbe un «ticket presidenziale», ovvero presidente e vice-presidente, con appena il 25% dei suffragi. La popolazione vi vede il disegno di una successione ereditaria.
I principali partiti politici si rivoltano e così la società civile: le manifestazioni in capitale, di fronte all’Assemblea Nazionale, assumono contorni violenti. Wade è costretto a ritirare il progetto di legge.

Qualcosa si muove
Pochi giorni dopo nasce il Movimento 23 giugno (M23), fondato da alcuni partiti d’opposizione e da diversi gruppi della società civile. Movimento variegato e tutt’altro che unito, M23 ha come obiettivo dichiarato la partenza del presidente: «Wade vattene!». Le altre richieste sono: l’instaurazione di un sistema neutrale per l’organizzazione delle elezioni; che Karim Wade lasci il governo e i media di stato siano più neutrali.
Ci racconta un cornoperante italiano che da anni lavora in Senegal: «M23 è nato come movimento di piazza durante le manifestazioni di giugno 2011 e, in seguito, è stato colonizzato sempre più dai partiti, che l’hanno sicuramente usato per la campagna elettorale. Tra questi Benno Siggil Senegal. Resta comunque un movimento interessante per l’esperienza di coabitazione mista tra diversi soggetti della società civile e partiti». E continua: «Il gruppo più attivo all’interno dell’M23, e anche quello più radicale è “Y en a marre” (ne ho abbastanza, in gergo giovanile, ndr), nato da rapper e appoggiato da moltissimi giovani nelle principali città. Si posiziona come movimento slegato dai partiti – lo ha confermato in campagna elettorale – ed è riuscito a mobilitare giovani che fino a oggi non partecipavano alla vita politica, utilizzando un linguaggio vicino ai ragazzi: rap, slogan efficaci, immagini da puri e duri», conclude.
«Wade fu eletto dal popolo, ma ora ha deluso questo popolo, lo ha tradito. Adesso i senegalesi vogliono un cambiamento». Chi parla è Babacar Sarr, presidente del Fesfop (Festival internazionale del folklore e delle percussioni) di Louga, importante città nel Nord del paese.
«Con il movimento M23 la gente ha detto “No”. Basta andare contro la Costituzione. Si sono trovati partiti politici e leader della società civile. È un nuovo movimento che accompagnerà tutti i cambiamenti nel paese».
«Il popolo senegalese ha bisogno di azioni concrete, anche sulle istituzioni. Occorre separare il potere legislativo, esecutivo e giudiziario. E poi una buona governance. Un legislativo che rappresenti il popolo, un potere giudiziario che giudichi in nome del popolo, un potere esecutivo che governi per gli interessi del popolo».
Ma le violenze in Senegal non finiscono. Wade è candidato al suo terzo mandato, il Consiglio costituzionale lo ammette il 27 gennaio scorso. Non è accolta invece la candidatura del celebre cantante Youssou Ndur. A Dakar si scatena la guerriglia urbana. I morti sono almeno sei, ma alcune fonti parlano di 15, 150 i feriti, numerosi gli arresti. Per Babacar Sarr, 65 anni, con una vita di impegno politico alle spalle, il paese sta vivendo un momento storico: «Il popolo non deve sempre essere tradito e truffato. La nostra è stata un’indipendenza senza guerra, negoziata. Non abbiamo mai avuto morti. Quelli causati dal regime Wade sono stati i primi. La cittadinanza è sempre più vigilante, esigente, partecipativa». Il Consiglio costituzionale è composto di 5 «saggi», ma l’opposizione sostiene siano stati influenzati dal potere: «La candidatura è anticostituzionale, ma questo dimostra la scarsa indipendenza del potere giudiziario. Perché il Consiglio è stato “costretto” da Wade», sostiene Babacar Sarr.
«La modifica della Costituzione è avvenuta durante il suo primo mandato, il Consiglio sostiene che quello non entra nel conteggio. I suoi oppositori politici, avendo partecipato alle elezioni, è come se lo avessero accettato», spiega invece Mouhamadou Sarr, cornordinatore dei senegalesi del Piemonte, che vive tra Torino e Dakar.

Primo tuo
Il 26 febbraio scorso il presidente uscente affronta il primo tuo contro altri 12 pretendenti, molti dei quali suoi ex alleati, o «allievi» come Idrissa Seck, Macky Sall, Moustapha Niasse. Wade è convinto di vincere al primo tuo ben oltre il 50%. Ma la sua campagna non convince, e soprattutto i suoi ultimi anni di «regno» hanno visto una deriva autoritaria. Così gli elettori lo puniscono.
Il verdetto delle ue gli concede solo il 34,82% con un secondo posto a Macky Sall, 26,57%. Wade ha perso un milione di voti rispetto al 2000 e ne ha totalizzati solo 220.000 in più di Macky. È uno schiaffo per le sue ambizioni. L’astensione è alta: 48% del corpo elettorale.

Il giovane allievo
Macky Sall, 50 anni, è stato tra i più brillanti allievi di le vieux. Dopo gli studi in ingegneria in Senegal e Francia entra in politica aderendo al partito di Wade alla fine degli anni ‘80. Si rivela presto brillante e un valido collaboratore. Nominato ministro dell’Energia e Miniere nel 2001, poi dell’Inteo (2003), diventa in seguito fedele primo ministro di Wade (2004 – 2007) per poi passare alla presidenza dell’Assemblea Nazionale (il parlamento unicamerale). È qui che si consuma la rottura con il «maitre» (maestro), quando, nel novembre 2007 ne convoca il figlio Karim per spiegazioni sulla gestione dei fondi.
Le vieux lo costringe alle dimissioni. Macky fonda il suo partito d’opposizione, l’Alleanza per la Repubblica (Apr – Yakaar).
«Sono stato sorpreso in Senegal, visitando i villaggi in questi ultimi anni, nel vedere che Macky stava lavorando e preparando bene il terreno», racconta Mouhamadou Sarr.
«Io ho sempre speranza in coloro che vogliono cambiare le cose, anche se la situazione culturale e la mentalità politica senegalese tende a resistere al cambiamento», continua il cornordinatore dei senegalesi del Piemonte.
E per quanto riguarda Wade? «Io sono neutrale, ma penso che anche se fosse il migliore presidente del mondo, arrivato alla sua età si dovrebbe preoccupare delle sue preghiere con Dio e dei suoi affari personali, piuttosto che correre ancora dietro al potere».
E continua: «Penso che l’elezione di Macky porterà a un cambiamento in Senegal. Io provengo dalla periferia di Dakar e sono consapevole delle difficoltà che hanno le persone in città, ma anche in provincia. La vita è dura, la gente non riesce più ad andare avanti. Sicuramente abbiamo grosse potenzialità ma le opportunità non vengono date alla popolazione.
Adesso speriamo che questo gruppo di potere sia composto da gente onesta e competente, ma soprattutto con il coraggio di imporre una rottura con alcune pratiche e credenze. Finché i governi sono succubi o influenzabili dai capi religiosi e marabut, perché questi garantiscono loro dei voti, nulla potrà cambiare».
Al secondo tuo, Macky Sall riesce a mettere insieme tutti i candidati perdenti e ricevere il loro appoggio. Wade, invece, cerca voti religiosi, e si reca dal marabut Serigne Béthio Thioune, della potente confrateita dei Muridi, di fondamentale importanza nella complessa società senegalese. Ma questo non gli porterà molto.
«Io sono mouride, ma non ascolto il marabut per andare a votare, separo la politica dalla religione» dichiara Babacar Sarr. E continua: «Il senegalese medio che è andato a votare è una persona nel bisogno e vede tanti sprechi: soldi che vengono regalati a piacimento, spese fatte secondo priorità diverse da quelle della popolazione. Gente frustrata, stanca, disperata: questo fa dire vogliamo che Wade se ne vada».
È chiaro che Macky dovrà «pagare» politicamente l’appoggio degli altri candidati, in particolare Moustapha Niasse (arrivato terzo al primo tuo con 13,20%) e Ousmane Tanor Dieng (quarto con 11,45%). Importante è stato anche l’appoggio del cantante Youssou Ndour, di fama internazionale.
Ma ora soprattutto gli elettori lo aspettano alla prova del governo. «Macky ha accettato e ha firmato la “Carta di buona gouveance democratica” prodotta dalle Assise Nazionali. È questa la differenza. Inoltre c’è un salto generazionale, che è importante. Le raccomandazioni delle Assise saranno prese in conto dal governo di Macky. Il popolo sarà vigilante ed esigente su questo» insiste Babacar.
Le Assise Nazionali sono state organizzate a giugno 2008 e per circa un anno hanno realizzato un enorme lavoro partecipativo in tutto il paese e con la diaspora, per definire la «Carta di buona governance» che deve «guidare la ricostruzione nazionale e il rinforzo della repubblica». Le raccomandazioni delle Assise prendono in conto tutti i settori (agricoltura, ambiente, territorio, diritti, ecc.) e propongono una «visione», valori e un modello di governance per il Senegal.
Il tutto è poi rimasto nel cassetto senza mai venire utilizzato restando solo un ottimo esercizio di democrazia partecipativa.

Le priorità
Diverse emergenze attendono ora Macky e i suoi.
La crisi alimentare del Sahel di quest’anno toccherà almeno 800 mila senegalesi nell’interno del paese. Poi l’aumento del costo della vita, il prezzo dei carburanti, le inondazioni e i black out che fanno soffrire la popolazione di Dakar.
Un lavoro importante sarà anche il risanamento delle finanze dello stato.
Cosa chiede la diaspora
Anche in Italia la diaspora senegalese vuole un cambiamento. Macky ha vinto nella quasi totalità dei seggi per i senegalesi sul nostro territorio.
«Perché abbiamo qualche speranza che con Macky, siano affrontate alcune problematiche a noi care. Si tratta delle convenzioni sulle pensioni, gli accordi bilaterali sui flussi migratori, l’import di macchine usate, tutte cose sulle quali il governo Wade non ha fatto nulla», ricorda Mouhamadou. «La diaspora è molto stanca di non essere considerata. Vorremmo che si definisse una politica migratoria in Senegal. Speriamo che con Macky ci sia un cambiamento». Mouhamadou Sarr è molto attivo nelle associazioni dei migranti senegalesi in Italia.
Oggi la diaspora senegalese nel nostro paese è ben organizzata: esiste una federazione del Nord Italia e si sta lavorando per una federazione del centro e una del Sud. Il tutto per arrivare a una confederazione italiana. «Abbiamo raggiunto un livello di maturità importante – ricorda Mouhamadou – con un potere di pressione e un ruolo di plaidoyer, presso i governi del Senegal e dell’Italia. Analizziamo le politiche di cooperazione e i rapporti bilaterali e vogliamo presentare un documento di proposte al nuovo presidente. Poi vogliamo essere attenti affinché alcune cose vengano realizzate e le promesse elettorali mantenute».

Marco Bello

Marco Bello




La chiesa rompe l’assedio

La visita del Papa

Per adattarsi ai nuovi tempi, anche Cuba sta cambiando, pur rimanendo fedele alla propria Rivoluzione. Gli Stati Uniti, che dall’isola distano soltanto cinquanta chilometri, rimangono sempre l’oppositore più intransigente. Come nel 1998, anche nel 2012 è toccato alla Chiesa cattolica rompere l’assedio.

L’Avana. Nel decennio che ho vissuto in Italia prima di atterrare nella più grande Isola delle Antille, ho imparato che per parlare di Cuba, prima bisogna scegliere quale sarà il nostro punto di osservazione.
Si può decidere di osservarla dal Nord del mondo, in questo caso dall’Italia, lontana novemila chilometri, una distanza siderale (e non solo nel senso geografico del termine), oppure si può scegliere di osservarla con i piedi piantati nel Sud del mondo, a partire da paesi simili a quest’isola. Simili per popolazione, per risorse naturali e prodotto interno lordo. Credo che guardare Cuba dal Sud sia eticamente più corretto, altrimenti si rischia inconsapevolmente di assumere in modo acritico le idee tergiversate che promuovono i mezzi di comunicazione mainstream e, dietro a questi, i nemici della Rivoluzione cubana. Cuba è un paese socialista, con undici milioni di abitanti, che ha deciso di contraddire, con la sua Rivoluzione, la più grande potenza militare ed economica al mondo, che si trova a cinquanta chilometri scrasi dalle sue coste.  Con la sua Rivoluzione contesta anche il modello di libero mercato professato e promosso dal Nord del mondo. Questo è costato all’isola caraibica un embargo economico che dura da più di mezzo secolo, oltre al terrorismo finanziato apertamente dagli Stati Uniti e dai cubani fuoriusciti e stabilitisi a Miami. Credo che pochi paesi al mondo potrebbero resistere in simili condizioni. E questo è un fatto storico.
Fatta questa considerazione, possiamo atterrare sull’isola, camminare insieme fra le sue strade e ripercorrere la storia dei contatti e dei contrasti fra la Rivoluzione cubana e la Chiesa cattolica.
CUBA SI MUOVE
Quello attuale è per Cuba un periodo di grandi cambiamenti, non certo il primo e nemmeno l’ultimo che quest’isola caraibica, situata al centro del grande Golfo del Messico, si è trovata a vivere.
Le strade cubane sono diverse da qualsiasi altra in America Latina: qui non ci sono cartelloni pubblicitari, mentre negli ultimi trent’anni la pubblicità ha letteralmente ridisegnato i paesaggi urbani degli altri paesi del continente. Questi sono stati davvero invasi da un groviglio d’insegne d’ogni forma e dimensione, accalcate disordinatamente, con vistosi colori fosforescenti di giorno e luci artificiali di notte, come tanti piccoli altari consacrati alla fede della società consumistica.
Nelle strade dell’Avana invece questo non accade: i pochi manifesti che si trovano appesi sono messaggi in difesa della rivoluzione o di denuncia dell’embargo, a cui ultimamente si sono aggiunti gli appelli per il ritorno dei cinque eroi antiterroristi, ingiustamente incarcerati negli Stati Uniti. Le strade di quest’isola, così particolari, stanno vivendo al tempo stesso (come l’intera isola) un processo di profonda trasformazione. Nell’ultimo anno i cambiamenti si sono fatti evidenti: si tratta di una crescita a dir poco esponenziale di chioschi, piccole caffetterie, ristorantini a conduzione familiare, piccoli bar istallati nei cortili delle case dei privati, in cui si offrono pizze, caffe, spremute di frutta e una lunga serie di dolci della variegata pasticceria habanera. L’Avana è in metamorfosi, i cosiddetti cuentapropistas (quanti lavorano per conto proprio e non alle dipendenze dello Stato) tra il 2011 e il 2012 si sono moltiplicati, grazie alle aperture del VI Congresso del Partito comunista dell’anno scorso. I cuentapropistas stanno reinventando il modo di fare commercio. Stanno cambiando anche il volto del mercato. Una quantità di carretti (il cui arrivo è anticipato dalle grida dei venditori) girano oggi per le strade, carichi di ananas, pomodori, tuberi di manioca, fagioli e altre verdure, fra cui la tipica malanga. Questa è una patata dolce, che insieme alla carne di maiale, costituisce uno dei fondamenti nella dieta cubana, a tal punto da diventare, come racconta il cantautore popolare del gruppo Buena Fe, un prodotto socioculturale. Questo paese e il suo popolo hanno un loro ritmo di vita peculiare, che oltre ad essere una particolarità degli isolani, è diventato ancora più indecifrabile e caratteristico dal marchio lasciato dalla combinazione di oltre mezzo secolo di rivoluzione socialista e privazioni dovute all’embargo.
In questi giorni, nei giornali più popolari, quali Juventud Rebelde (dell’Unione dei Giovani comunisti) e Granma, il giornale ufficiale del Partito comunista, si pubblicano una serie di articoli sulla storia della Chiesa cattolica e alcuni comunicati ufficiali della conferenza di vescovi cattolici di Cuba. Nelle chiacchiere disordinate che si fanno per strada fra conoscenti e passanti, l’arrivo del pontefice è diventato un tema inevitabile.
Ritorniamo un po’ in dietro dove ebbe inizio questa storia.
CHIESA E RIVOLUZIONE:
UN INIZIO DIFFICILE
La Chiesa cattolica e la Rivoluzione hanno cominciato il loro rapporto, diciamo, col piede sbagliato. Questa è l’opinione di Sergio Samuel Arce Martinez, notabile teologo presbiteriano, che nel suo libro «La missione della Chiesa in una società socialista» (La misión de la Iglesia en una sociedad Socialista), afferma: «Il trionfo della rivoluzione sorprese la Chiesa, che si trovava teologicamente impreparata, inadeguata dal punto di vista pastorale e  ideologicamente reazionaria […] La peggiore delle nostre povertà era quella pastorale, che non impegnandosi a favore del popolo, praticava un amore che non possedeva l’efficacia della giustizia e si traduceva in rassegnazione conformista. La povertà pastorale della chiesa nel 1959 trovava corrispondenza nella sua povertà teologica, incapace di analizzare evangelicamente o biblicamente la Rivoluzione, situazione che portò all’esodo dei pastori agli inizi del 1960».
Nello stesso libro, qualche pagina oltre, Arce cita un discorso di Fidel Castro al riguardo: «Il movimento rivoluzionario internazionale, lungo la sua storia, non ha mai stabilito la questione dell’esclusione dei credenti dal partito. Nel caso di Cuba obbedì alla circostanza eccezionale del conflitto che sorse fra la gerarchia cattolica e la Rivoluzione nei primi anni, giacché purtroppo, la religione cattolica era la religione dei ricchi».
Secondo la blogger cubana Yasmín Silva, membro dell’Osservatorio critico: «La Chiesa cattolica lungo il ventesimo secolo e fino al ‘59, fu una chiesa prevalentemente urbana e associata alle classi alte. Quando, negli anni ’50, a Cuba si comincia ad articolare il movimento di liberazione dalla dittatura batistiana con una serie di scioperi e grandi manifestazioni popolari, la chiesa non ebbe una risposta coerente di fronte a questo movimento, ma appoggiò, per omissione o in modo cosciente, i governi reazionari che allora erano alleati con gli Stati Uniti. La situazione peggiora ulteriormente dopo il 1959, quando la rivoluzione si dichiara socialista e la chiesa si oppone con violenza, fino a risultare coinvolta in progetti e operazioni della Cia, come l’«operazione Peter Pan» (1960-’62), con cui si fecero uscire da Cuba migliaia di bambini senza genitori, perché fossero accolti negli Stati Uniti. Quest’operazione ebbe la sua giustificazione nella menzogna che questi bambini sarebbero stati mandati nell’Unione Sovietica per essere addottrinati. Con questi avvenimenti, la chiesa perse molto di quella già esigua base sociale, che aveva nella prima metà del ventesimo secolo».
NUOVA AMERICA, NUOVA
CHIESA
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti nelle vicende fra la Rivoluzione cubana e la Chiesa cattolica. Per cominciare si fece il Concilio Vaticano II, che aprì la Chiesa a un mondo pluralista ed ebbe le sue ripercussioni in America Latina, con la conferenza di Medellin nel 1968. Quest’apertura, in Cuba, si tradusse in una serie di cambiamenti nell’ottica della distensione, come la Carta pastoral del 1969, in cui l’episcopato marcava la propria distanza dal radicalismo controrivoluzionario annidato a Miami.
Nei decenni successivi, i movimenti di liberazione nel vicino Centroamerica ebbero una forte componente religiosa, soprattutto all’interno del Frente Sandinista de Liberación Nacional (Fsln) in Nicaragua, dove un sacerdote ed esponente della Teologia della liberazione, Eesto Cardenal, durante il periodo rivoluzionario nicaraguense (1979-1990) fu ministro della Cultura. Nel Salvador, durante gli anni Ottanta, ricordiamo l’assassinio di monseñor Aulfo Romero e di un gruppo di gesuiti dell’Università centroamericana (Uca), che si erano spesi in difesa dei settori popolari e contro la repressione militare. O pensiamo al Guatemala, all’assassinio di monseñor Juan Gerardi, insieme a quello di molti altri preti guerriglieri che diedero la loro vita, tutti impegnati nell’opzione per gli impoveriti, che in quegli anni  trovava spazio all’interno della Teologia della liberazione. Questi eventi ebbero una forte ripercussione a Cuba e nei rapporti fra Chiesa cattolica e Rivoluzione.
Nel 1991, nell’ambito del quarto Congresso del Partito comunista cubano e delle conseguenti riforme costituzionali dell’anno seguente, si affermò la distensione fra le Chiese cattolica e protestante e la Rivoluzione cubana.
ANNO 1998: FIDEL CASTRO E GIOVANNI PAOLO II
La visita di Giovanni Paolo II a Cuba nel 1998 fu un evento che in qualche modo chiuse questo periodo. Si attendeva come l’incontro fra i due giganti: Fidel Castro, leader indiscusso della Rivoluzione cubana e Giovanni Paolo II, punta di lancia dell’anticomunismo, i due superstiti del crollo del socialismo, della fine di un’epoca, quella del bipolarismo e della guerra fredda. Quest’incontro aveva gli occhi del mondo intero puntati addosso. Quattordici anni dopo, molte cose sono cambiate. Allora fu Fidel Castro quello che raccolse più vantaggi dalla distensione delle relazioni con il mondo cattolico cubano. In quest’occasione saranno Raul Castro, la Rivoluzione cubana e in definitiva il popolo cubano insieme alla chiesa cattolica, che trarranno vantaggi dal dialogo fra Chiesa e Rivoluzione.
Molti religiosi hanno lavorato in questa direzione, come il teologo e attivista brasiliano Frei Betto, che nell’aprile del 2005, alla fine del suo intervento speciale nell’Incontro intergenerazionale sulla teologia cubana, celebrato nella cattedrale episcopale della Santissima Trinità dell’Avana, affermava: «Essere Chiesa in un paese come il Brasile, come il Salvador o il Guatemala, è diverso da essere Chiesa a Cuba. Perché in questi paesi il popolo non vede ancora garantito, né strutturato politicamente, il diritto alla vita. Sebbene in Brasile si siano fatti passi avanti con Lula, i nostri problemi sono così imponenti da non poter essere risolti in quattro anni; in questo paese [Cuba, ndr], dopo più di quarant’anni, si è riusciti a garantire la vita a tutti, ovvero, qui si condivide il pane. Questo non significa che le nostre chiese debbano sacralizzare il sistema politico cubano. Piuttosto è fondamentale che le chiese si mettano al servizio del popolo cubano, perché la gente abbia la vita e la vita piena. Se la Rivoluzione va in questa direzione, la Rivoluzione va nella direzione di Gesù. La Rivoluzione aiuta a costruire nella storia il Regno di Dio».

José Carlos Bonino

José Carlos Bonino




Figlio della savana

Intervista con il cardinale Polycarp Pento, arcivescovo di Sar es Salaam

Nato nel 1944 in un villaggio della diocesi di Sumbawanga, Polycarp Pengo fu ordinato prete nel 1971; laureato in teologia morale all’Alfonsiana (Roma), fu rettore del seminario maggiore di Segerea (1978-83); consacrato vescovo di Nachingwea nel 1984, fu trasferito nella diocesi di Tunduru-Masasi (1986) e poi a quella di Dar Es Salaam (1990) come coadiutore del card. Rugambwa, a cui succedette nel 1992. Fu creato cardinale nel 1998.

Il cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar Es Salaam e presidente del Simposio delle Conferenze episcopali d’Africa e Madagascar (Secam) è stato uno dei protagonisti della II Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi (Roma, 4-25 ottobre 2009). Sintesi di tale Assemblea è l’esortazione apostolica postsinodale Africarne Munus, un documento che «darà alla Chiesa nuovo slancio per costruire un’Africa riconciliata nel cammino della verità, giustizia, amore e pace, e al Tanzania uno stimolo nuovo per una fede più matura» afferma il cardinale.

Cardinale Pengo, fra gli eventi significati della sua vita, certamente vi spicca il giorno in cui fu nominato arcivescovo di Dar Es Salaam. Quali furono, allora, i suoi sentimenti e quali sono oggi?
Entrai in servizio effettivo come arcivescovo di Dar Es Salaam nel 1992 e avevo una grande paura. Mi dicevo: «Polycarp, tu sei un figlio della brughiera e della savana! Che cosa farai in una grande e modea città? Come ti accoglierà la gente?».

La gente l’ha accolta bene e continua a farlo.
È vero. E di questo ringrazio il Signore.

Si dice che i tanzaniani, religiosamente, si dividano in tre gruppi uguali: il 33 per cento sono i cristiani e altrettanti sono i musulmani e i seguaci delle  religioni tradizionali. Qual è il rapporto fra cattolici, luterani, anglicani, «salvati», ecc.?
Il rapporto fra i cristiani cattolici, luterani e anglicani è buono. È molto migliorato rispetto a qualche decennio fa. Oggi, ad esempio, nell’ospedale governativo «Muhimbili» di Dar Es Salaam i cristiani condividono la stessa cappella, pur conservando le loro differenze dottrinali. Invece, con i «cristiani salvati» (walokole) abbiamo grossi problemi.  Questi vanno a caccia dei loro fedeli nelle varie chiese e imbrogliano le persone religiosamente e psicologicamente. Assai meglio è relazionarsi con i musulmani, perché conosci bene il loro pensiero. Quanto al numero, i dati citati sono superati, perché i cattolici da soli coprono il 27 per cento della popolazione e superano i musulmani.

Circa l’islam, Lawrence Mbogoni scrisse: «Durante gli anni 1985-95 gruppi di musulmani disprezzarono con asprezza i cristiani; il disprezzo culminò il 13/02/1998 allorché 2 cristiani furono uccisi e molte abitazioni distrutte»1. Eminenza, oggi qual è il rapporto fra cristiani e musulmani?
I disordini del decennio 1985-95 furono causati da diversi giovani musulmani, disoccupati, mandati a studiare l’islam fondamentalista in Egitto o in Arabia Saudita. Al loro ritorno in Tanzania, manifestarono la loro ostilità verso i cristiani saccheggiando molti negozi di carne suina a Dar Es Salaam e compirono altre distruzioni. Oggi non si registrano più atti del genere. Tuttavia l’ostilità verso i cristiani persiste. Non mancano gli insulti. La polizia sente tutto e sa tutto, ma non interviene. La mia paura è che i cattolici, che ora sopportano tutto in silenzio, un giorno perdano la pazienza. E allora saranno guai, purtroppo.

Il 2011 è stato un anno significativo per il Tanzania, perché ha celebrato 50 anni di indipendenza. Secondo il giornale «Mwananchi», lei commentò l’evento in questi termini: «Nei 50 anni passati abbiamo avuto dei successi. Ora dobbiamo darci da fare affinché, quando celebreremo il centenario della nostra indipendenza, non si dica: era meglio al tempo dei colonialisti». E aggiunse: «La nostra nazione nasconde gruppi di traditori, egoisti, capaci anche di uccidere i loro compagni pur di acquisire potenza e ricchezza»2. Eminenza, queste sono parole pesanti. Forse troppo pesanti, o mi sbaglio?
Sì, sono parole pesanti. Però ritengo che sia mio dovere denunciare con verità e chiarezza la situazione difficile del Tanzania. L’uomo della strada, di fronte a tante prevaricazioni subite, ha bisogno di una parola forte, affinché si cambi rotta. Altrimenti, potrebbero succedere grossi guai anche in Tanzania.

Da poco è uscito il documento di Benedetto XVI «Africarne Munus», che riguarda il Sinodo dei vescovi africani (Roma, 4-25 ottobre 2009). La Chiesa in Africa sta affrontando problemi cruciali che possono scoraggiare. Nel documento il papa scrive: «Scongiuro la Chiesa universale a guardare l’Africa con occhi di fede e speranza»3. Eminenza, che cosa consiglia al Tanzania?
In Tanzania noi cattolici dobbiamo rendere più matura e concreta la nostra fede cristiana. Troppi cattolici vivono ancora secondo la fede tradizionale-pagana, che non è la fede cristiana. Ad esempio: di fronte a una difficoltà (riguardante soprattutto la salute), il tanzaniano a chi si rivolge? Si rivolge al «curatore tradizionale» (che spesso è anche stregone). Questo è un segno chiaro che non si è ancora cristiani, che la fede è ancora pagana. Non abbiamo assunto la rivoluzione-liberazione di Gesù Cristo. E non dimentichiamo che  Gesù non ci ha salvati percorrendo la strada della ricchezza, del prestigio e delle comodità. Inoltre non ha ucciso nessuno, ma si è lasciato uccidere, dopo aver sofferto una morte atroce. Questo è il dono della sua salvezza. È nostra responsabilità accoglierla così com’è. Non imbrogliamoci né imbrogliamo con tante parole. Non cadiamo nella tentazione di ricambiare i torti patiti, anche di fronte ai musulmani. Costruiamo la fede su Gesù Cristo che perdonò tutti, morì in croce e, dopo tre giorni, risorse.

Anni fa lessi un articolo di un missionario, intitolato «Io sono uno straniero nella casa di mio Padre» (I am a stranger in my Father’s house). Perché il missionario, anche dopo tanti anni di lavoro, si sente ancora mzungu, cioè un «diverso», un pesce fuori dall’acqua?
Questo fatto rattrista un poco. Però non è un dato comune. Molti missionari si sentono a casa loro nella cultura del Tanzania o di altri paesi. Conosco missionari della Consolata e di altre congregazioni che rifiutano di ritornare in patria, che dicono: ora i miei fratelli sono questi e non quelli del paese in cui sono nato, che non mi conoscono nemmeno per nome.

Francesco Beardi

1    Cfr. Lawrence E. Y. Mbogoni, The Cross versus The Crescent (Religion and Politics in Tanzania from the 1880s to the 1990s), Dar Es Salaam 2004, 171-184.
2    Mwananchi, Agosti 14, 2011.
3    Africarne munus, Esortazione postsinodale di Benedetto XVI, 2011, 5.

Francesco Beardi




La religione delle montagne

Religioni in Cina: il Taoismo

Filosofia e religione ad un tempo, il taoismo è parte della vita del popolo cinese. Ci sono templi (1.800), monaci (20 mila) e fedeli (10 milioni), ma non c’è un leader spirituale di riferimento. Il precetto fondamentale del taoismo dice di «coltivare il proprio sé». Raggiunto questo obiettivo, sarà facile trovare un accordo con il mondo e con l’Universo.

Pechino. Baiyun guan, il tempio (guan) della Nuvola Bianca, è il principale tempio di Pechino della corrente taoista quanzhen. A mezzogiorno, il tempio è assolato. I monaci, dalle tuniche blu e dai capelli raccolti con un fermaglio sulla testa, si aggirano tra i padiglioni. I fedeli, accendono gli incensi, entrano nelle varie sale e si inchinano, tre volte, davanti alle numerose divinità taoiste.

LA GIORNATA DI UN MONACO TAOISTA
Liu Zongmin è a Baiyun guan da cinque anni: «Non chiedere a un monaco per quale ragione ha fatto questa scelta, spesso e volentieri è un percorso difficile, non è, come la gente crede, un passaggio comodo e tranquillo. In principio è molto duro». Oggi, il monaco Liu vive in una stanza singola di dieci metri quadrati, tra i suoi libri e un paravento di legno intarsiato. Dipinge calligrafie cinesi e alleva cinque tartarughe. «Simbolizzano la longevità», suggerisce.
Il tempio dove vive ha visto nascere conglomerati religiosi taoisti fin dalla dinastia Tang (618-907 dopo Cristo), ma fu l’imperatore Chinggis qan (Genghis Khan), della dinastia mongola degli Yuan che nel 1224 fece ricostruire il tempio da Qiu Changchun, importante monaco e patriarca del taoismo quanzhen.
Durante la dinastia dei Ming (1368-1644 dopo Cristo) prese, poi, il nome di tempio della Nuvola Bianca e, da quel momento è sempre stato un punto di riferimento per i monaci e i fedeli. Nel folle periodo della Rivoluzione culturale (1966-1976) è stato uno dei pochi luoghi di culto a non aver subito danni e scempi eccessivi ed oggi è divenuto la sede dell’Associazione taoista cinese.
Tra il 18 e il 22 settembre del 1978 venne istituita a Pechino la terza sessione dell’undicesimo congresso del Comitato centrale del Partito comunista cinese. Deng Xiaoping denunciò gli errori della Rivoluzione culturale. Da quel momento in poi cominciò l’era delle riforme: venne coinvolto l’aspetto economico della Cina e, in silenzio, anche la religione.
«Durante le feste, alle quattro del mattino, siamo già in piedi, per offrire i servizi religiosi ai fedeli, altrimenti la sveglia è alle sette, la colazione è alle sette e mezza… Durante la giornata ci sono due letture fisse, quelle del mattino e della sera, per i vivi e per le persone morte e le letture per lo studio, che cantano le gesta dei grandi maestri e dei patriarchi. Ad esempio, c’è una frase che dice, l’uomo potrà essere in pace e con lui l’intero Universo. Il concetto fondamentale del taoismo è coltivare il proprio sé; quando l’animo sarà sereno tutto avverrà in maniera autentica e naturale», continua il monaco Liu.
Il taoismo ha sempre coinvolto diversi piani culturali e religiosi, per cui, spesso e volentieri in Occidente si sono cercate formalizzazioni che incanalassero l’indagine della conoscenza in compartimenti più agibili, e si è confusa la parte con il tutto, definendo una determinata corrente taoista di una particolare epoca come il taoismo intero.

UNA REALTÀ COMPOSITA E VARIEGATA
Era comune la differenziazione tra il taoismo religioso e quello filosofico. Oggi, negli studi contemporanei, si va oltre questa visione, provando ad analizzare il taoismo da più punti di vista: c’è la metafisica e la cosmologia; ci sono i numerosi testi e i commentari ai testi che spesso condividono parte del lessico con il buddismo e il confucianesimo. C’è poi anche un piano sociale, istituzionale e liturgico, sia a livello locale che centrale, il quale si è dipanato nel lungo corso del tempo e in tutta la Cina e che ora sta finalmente emergendo.
Wang Ka, membro dell’Accademia delle Scienze sociali di Pechino presso il Dipartimento di Studi religiosi, afferma che «il taoismo è sempre stato tra la gente, nella società. È sbagliato pensare ad esso come qualcosa di esterno. È una religione viva: ci sono i monaci, i templi e i fedeli, il taoismo è parte della vita del popolo cinese. Fino al 1949, per ogni lutto che avveniva nelle famiglie era invitato un monaco taoista a leggere i testi, oggi nelle campagne avviene ancora ma in città molto meno».
La differenziazione tra le campagne e le città si ripercuote sensibilmente anche sulla religione: ci sono templi ufficiali nelle città, come ad esempio il Baiyun guan, che possono essere considerati come una vetrina della rinascita del taoismo, e numerosi templi dislocati nelle aree non cittadine, i quali assurgono ad una funzione di collante sociale e religioso per le comunità.
Tracciare una linea chiara e dai contorni tersi sul taoismo, sia a livello storico che religioso, è un’impresa difficile e non renderebbe neanche giustizia ad una realtà composita e variegata.
Quello che è certo è che il taoismo risulta esente da un unico credo e da un unico leader spirituale. I testi, criptici e sintetici, derivano da un panorama culturale localizzato, dove il culto si è sempre differenziato a seconda del contesto economico e sociale e dal luogo di residenza di chi lo praticava.
Vincent Goossaert, direttore per la Ricerca per gli affari religiosi a Parigi, sottolinea: «A livello teologico, cosmologico (e quindi anche per la coltivazione del sé) e liturgico, gli elementi chiave del taoismo sono rimasti stabili. I rituali taoisti compiuti tra la gente, piuttosto che nei templi ufficiali, sono praticamente gli stessi del passato, sia per la loro funzione sociale che a livello di contenuto. Alcuni elementi istituzionali rilevanti sono venuti meno durante il ventesimo secolo, e hanno reso il taoismo ancora più decentralizzato».
Il taoismo, così come altri culti locali cinesi, durante il ventesimo secolo ha avuto un forte ripiegamento su se stesso: l’influenza occidentale e il valore dato alla scienza e alla tecnica hanno visto la distruzione di numerosi luoghi di culto durante la rivoluzione del 1911-1912, e ancora nel 1926 e nel 1928, con la guerra civile cinese, durante la quale si sono voluti sradicare le strutture sociali che avevano caratterizzavano la Cina fino a quel momento.
Con la fondazione della Repubblica popolare cinese, nel 1949, a Pechino, vennero distrutti la maggior parte di templi taoisti e buddisti. La Rivoluzione culturale, infine, ha ulteriormente sfregiato quello che già era stato parzialmente annientato.
Per il professor Wang Ka, però, il termine annientare non è adatto e  si infervora nello spiegare che «nell’arco degli ultimi trent’anni, dal periodo delle Riforme in poi, in Cina ci sono ufficialmente più di mille e ottocento templi taoisti, molti nelle zone rurali. Una statistica ha annunciato che i credenti taoisti sono più di dieci milioni, anche se registrare i credenti in Cina non è impresa facile, mentre i monaci arrivano a essere ventimila».

MONACI E LAICI 
A Baiyun guan, i monaci si differenziano a seconda delle loro funzioni.
«L’abate del tempio è colui il quale ha la responsabilità delle relazioni con l’esterno, mentre il supervisore è incaricato dell’andamento di tutto ciò che avviene all’interno tempio, c’è poi chi si occupa delle scritture e chi è assegnato all’accoglienza dei fedeli, in totale oggi siamo cinquantanove monaci», racconta sempre il monaco Liu, mentre continua a versare il tè nelle piccole tazzine sul tavolo della sua camera.
Le funzioni religiose vengono spesso espletate grazie all’aiuto degli huoju daoshi, termine generico che indica i laici avviati allo studio e alla pratica del taoismo.
«Quanti siano i huoju daoshi è difficile da determinare, non c’è stata una ricerca generale, ma nei grandi templi, per valutare quanti siano, si procede con l’individuare le famiglie di volontari che sono coinvolti nei riti, da qui si ha un’idea generale», continua il professor Wang.
A livello storico, sono sempre state figure al margine, in quanto lo Stato, anche nel passato, non ha mai voluto conferire la possibilità ai taoisti di celebrare i riti al di fuori di un luogo ufficiale, come vuole essere il tempio.
Per lungo tempo gli è stato impedito di espletare le funzioni religiose, mentre dagli anni Novanta si sta cercando un modo per regolamentare la questione, con l’attivazione di precetti e linee guida che il taoista laico dovrebbe rispettare. Nonostante le proibizioni e i precetti scritti di recente, queste figure hanno accompagnato il taoismo nelle sue funzioni sociali e liturgiche.
Alcune ricerche dell’Associazione nazionale taoista hanno individuato, nel 2000, ventimila taoisti laici a livello locale, ma è senza dubbio difficile avere un dato preciso, seppure si suppone un forte aumento nell’ultimo decennio.

IL TAOISMO E LA PRESENZA GOVERNATIVA
L’Associazione taoista cinese, fondata nel 1957, ha avuto la funzione primaria nella restaurazione dei templi distrutti. All’inizio degli anni Ottanta si è proceduto con il recupero dei luoghi di culto nelle zone urbane per poi passare alle zone rurali negli anni Novanta.
Nella regione del Jiangsu, ad esempio, nel 1993 i templi taoisti erano solo cinque, ma nel 1999 erano già quarantadue.
L’Associazione, oltretutto, si occupa dell’educazione dei monaci e della regolamentazione del riconoscimento dei luoghi di culto a livello ufficiale.
Questo implica, senza dubbio, una presenza del governo all’interno dei luoghi di culto, che d’altronde stanno beneficiando dei finanziamenti statali e degli introiti dovuti al boom turistico.
La burocrazia a cui sono sottoposti i templi, segue una logica diversa da quella che era visibile nel passato, dove i templi minori, a livello locale, erano autonomi, seppur collegati in vari modi ai templi più importanti.
La funzione dei templi ufficiali, connessi con all’Associazione taoista cinese, pone in primo piano la diffusione della cultura taoista in senso lato. Il turismo, con la vendita dei souvenir religiosi (bracciali, oggetti di giada, statuette, ecc.), si associa ad una divulgazione di «precetti morali», che ben si confanno alla politica attuale della «società armoniosa». Spesso in questi templi, come a Baiyun guan, sono presenti dei veri e propri ambulatori dove si effettuano diagnosi e cure mediche, secondo i principi della medicina cinese.
«I fedeli, che vengono al tempio per bruciare gli incensi, hanno motivazioni diverse. C’è chi crede o chi viene per il giorno della nascita dei patriarchi1, c’è invece chi ha dei problemi in famiglia, chi cerca fortuna o un lavoro… abbiamo un rapporto stretto con i fedeli. Può accadere che qualcuno abbia dei dubbi nel corso della vita o si trovi in un momento di impasse, noi proviamo ad aiutarli», conferma il monaco Liu. I servizi che i monaci di oggi offrono ai fedeli, comunque, sono simili a quelli che offrivano nel passato: accompagnare nelle tappe fondamentali della vita, ossia nascita, matrimonio e morte.
«C’è sempre stato il fascino dell’eremita e di colui che si ritira dalla società. Ma per superare queste rappresentazioni e capire il ruolo del taoismo nella vita delle comunità locali di oggi, abbiamo bisogno di osservazioni sul campo e di dettagliate fonti storiche. Questo non è stato possibile fino a tempi relativamente recenti, ma adesso gli studi sul taoismo sono incentrati  sull’importanza del taoismo a livello sociale», afferma il professor Goossaert, ricordandoci che la Cina è cambiata anche da questo punto di vista.

CITTÀ E CAMPAGNA, DIMENSIONI DIVERSE
Spesso e volentieri i rituali sono espletati solo in parte nei tempi urbani ufficiali, molti si celebrano in quelli delle piccole comunità. I fedeli vengono coinvolti in brevi sezioni che in altre circostanze, invece, possono durare giorni, come nel caso del funerale. Sebbene la liturgia sia molto simile, differente è il contesto e lo stile dei riti.
Negli abbienti templi urbani, ad esempio, si sfoggiano oamenti religiosi come vesti e strumenti musicali che invece scarseggiano nelle comunità rurali.
I principali templi urbani accolgono una tipologia di fedele. Data la funzione divulgatrice della cultura taoista e visto il costo relativamente alto dei biglietti di ingresso al tempio, il fedele taoista, spesso e volentieri si dirige in templi locali o di periferia.
Questi templi non sono, solitamente, collegati con l’Associazione taoista cinese, ma sono piuttosto gestiti da organizzazioni locali, le quali possono agire in autonomia, sebbene spesso le ristrutturazioni e il recupero dei luoghi fisici siano state finanziate anche da parte del governo, sovente come ampliamento dell’area urbana.
I templi delle piccole comunità locali, nella continua ricerca di una loro dimensione tra la cooperazione e l’autonomia, sono tuttora presenti sul territorio cinese. Così si intrecciano i diversi piani delle aree urbane e di quelle rurali. Le prime volte alla diffusione delle cultura taoista e le seconde, più integrate nella comunità locale, che celebrano i riti per i fedeli. Quello che emerge è comunque una dimensione del taoismo variegata e più immersa nella società di quanto siamo stati abituati a vedere o a leggere sui libri2.

Désirée Marianini

Note
1 – Il taoismo, a differenza delle religioni abramitiche, non ha un unico padre fondatore. Il Pantheon taoista è sorprendentemente ampio, varia nel tempo e a seconda della corrente religiosa. Tra le varie divinità ci sono anche figure rappresentative o grandi maestri, definiti patriarchi, in quanto hanno avuto una funzione importante per la scuola di riferimento. Ad esempio il quinto patriarca della scuola Quanzhen è Wang Chongyang, personaggio storico vissuto nel dodicesimo secolo dopo Cristo. .
2 – Alcuni testi consigliati: Marcel Granet, Il pensiero cinese; Kristofer Schipper, Il corpo taoista; Fabrizio Pregadio, Awakening to the reality.

BOX

Breve storia del taoismo

UNA PAROLA, MOLTI SIGNIFICATI

Il testo fondamentale, il Daodejing, risale al 300 avanti Cristo. Si distinguono due correnti principali: la corrente «zhengyi» e la corrente «quanzhen».

La parola taoismo deriva dal cinese tao, secondo il sistema Wade-Giles (utilizzato per la traslitterazione dei caratteri cinesi in alfabeto latino nel ventesimo secolo). Secondo il sistema Pinyin (traslitterazione usata dal 1958 ad oggi) deriva invece da dao. Molti testi utilizzano indifferentemente la parole taoismo (da tao) o daoismo (da dao). Il carattere cinese è, comunque, la raffigurazione di vari concetti: via, cammino, percorso, metodo, parola e dottrina. Nell’affrontare una lettura su cos’è il taoismo dovremmo abituarci ad una multi-semantica e renderci subito conto della «non linearità», caratteristica della lingua e della cultura cinese.
Fermandoci ad osservare la linea del tempo della storia taoista notiamo come abbia raggiunto lo status di religione ufficiale della Cina contemporanea, ma anche quante diverse correnti si sono evolute nel tempo.
Una semplice immagine concessaci dal sinologo ed esperto di taoismo Russell Kirkland, merita di essere riportata: «Non è un’unica tradizione che si evolve, ma piuttosto il risultato di vari concetti e insegnamenti che si dipanano nel tempo, ed eventualmente confluiscono insieme, come le correnti confluiscono in un fiume». 
Il peo del corpo taoista si rifà alla lontana epoca della dinastia Zhou, ossia un periodo di tempo che corre dall’XI alla fine del III secolo avanti Cristo.
Nel 1993, a Guodian una città del centro sud della Cina, gli archeologi trovarono una copia del testo fondamentale del taoismo, il Daodejing, risalente a trecento anni prima di Cristo (leggere box successivo).

Il taoismo contemporaneo si muove tra gli inizi del XIX secolo e oggi, in tutto questo periodo ha subito depressioni e rinascite.
Le due più grandi correnti attive nella Cina contemporanea sono la corrente zhengyi e la corrente quanzhen. La prima si fa risalire al 142 d.C., quando Zhang Daoling fondò ufficialmente la Chiesa dei Maestri Celesti.
A quel tempo risale l’attuale visione di una teologia burocratica, in cui i monaci sono concepiti come dei funzionari dell’universo. In quel periodo vengono istituzionalizzati i centri di culto da parte del governo, e i templi taoisti vengono chiamati guan, nome ancora oggi utilizzato.
Il luogo centrale per le ordinazioni istituzionali dei monaci era il monte Longhu, nella provincia cinese del Jiangxi. La caratteristica principale della corrente zhenyi è il metodo di ordinazione dei monaci, che ha seguito, fino a tempi recenti, una affiliazione familiare, per cui esclusivamente alcune famiglie possedevano i requisiti per poter consacrare i novizi come monaci.
Da molti studi risulta che i monaci zhenyi sono stati e sono tutt’oggi esperti nei riti, piuttosto che nelle pratiche individuali di coltivazione spirituale. I templi zhenyi, oggi, sono localizzati al sud della Cina e a Taiwan, molti dei monaci sono sposati e vivono da laici, con figli e famiglia.
La corrente quanzhen, emerse verso il XII secolo dopo Cristo, con Wang Zhe, ma il suo effettivo sviluppo avvenne grazie al monaco e patriarca Qiu Changchun (1148-1227) che riorganizzò l’interno ordine.
Differenziandosi dalle istituzioni familiari della corrente zhenyi, la corrente quanzhen pone l’accento della sua pratica nella visione di una coltivazione personale e spirituale, comunemente definita come alchimia interiore.  L’ordine ebbe uno sviluppo indipendente durante il corso della dinastia mongola degli Yuan, con la creazione di numerosi templi per l’ascesi individuale e le pratiche interiori.
Un aspetto fondamentale per l’ordinazione dei monaci era lo spostarsi e poi risiedere in templi diversi su tutto il territorio cinese per accumulare esperienza e pratica meditativa con diversi maestri.

Désirée Marianini

BOX2

Divinità, luoghi sacri e scritture
GUARDARE AGLI «IMMORTALI»

I monaci interpretano le scritture taoiste, che sono espressione diretta delle divinità. Queste sono il modello di riferimento per i fedeli.

Le divinità taoiste – dette anche «Immortali» – sono l’oggetto del culto taoista in quanto personificazione del dao. Sono l’essenza del Qi originario1, dal quale sono nati e al quale ritornano.
Sono modelli per le persone comuni, a cui tendere nella propria vita, sono comunque esseri straordinari, che la narrativa taoista vede volare nel cielo dotati di poteri straordinari. Il mondo in cui vivono è simile al mondo terreno in cui sussiste un ordine gerarchico e istituzionalizzato. Molte delle divinità risiedono anche sulla terra e i luoghi in cui dimorano sono sacri. L’altare delle divinità taoiste è occupato da tre immortali: i Tre Puri.
Le montagne, come luogo di residenza delle divinità taoiste, hanno una grande importanza nella religione, vengono considerate sacre e sono mete di pellegrinaggio. Durante la dinastia Han furono consacrate cinque montagne per proteggere i quattro punti cardinali ed il punto centrale e associate con il culto taoista. Così, il monte Heng nello Shanxi rappresenta la protezione per il Nord, al monte Heng (stesso nome, ma scrittura diversa) nella regione dello Hunan è affidato il Sud, mentre il monte Tai nello Shangdong protegge l’Est, infine l’Ovest è affidato al monte Hua. Nello Henan la montagna Song è il fulcro centrale di tutti i punti cardinali.
Le scritture hanno un ruolo fondamentale perché il testo scritto è espressione diretta della divinità, i monaci tramite la comprensione del testo comunicano con gli spiriti ed il testo in sé diventa un talismano.
Le scritture sacre Jing hanno un carattere salvifico in quanto sono un contratto con le divinità ma anche l’espressione di una conoscenza esoterica di una realtà sconosciuta. Gran parte della narrativa taoista oggi è scritta nel Daozang, il canone taoista, la cui ultima versione risale al 1444 dopo Cristo.

Ricordiamo allora i testi principali del taoismo.
Daodejing o classico della via e della virtù: viene attribuito allo stesso Laozi, ma gli studiosi hanno più volte dibattuto sulla sua effettiva pateità. La versione più antica risale al III sec. a.C.. È un testo  breve ed enigmatico di circa cinquemila caratteri cinesi, nel quale vi sono istruzioni e regole per la crescita personale ma anche per la vita in un contesto socio-politico. Viene analizzato il concetto di Dao e di Virtù (De). Al testo sono stati accorpati diversi commentari i quali esplorano diversi significati in base alle scuole e le correnti di riferimento.

Zhuang zi: questo testo viene associato ad un personaggio che visse nel IV sec. a.C., il maestro Zhuang e che probabilmente ne scrisse sette capitoli. Sono presenti aneddoti e storie le quali illustrano la realtà universale e l’impossibilità della sua conoscenza attraverso la parzialità dell’esperienza umana.

Huainan zi: venne compilato nel 139 a.C. da Liu An, nipote del fondatore della dinastia Han, abile prosatore che divenne in seguito re di Huainan. Il testo è una collezione di ventuno brani nei quali Liu An esplora vari elementi dello scibile umano: filosofia, scienza, politica, astronomia.

Baopu zi: la parte intea del testo, venne scritto da Ge Hong nel 320 avanti Cristo, ed esplora i significati dell’alchimia interiore e la meditazione come mezzo per arrivare alla trascendenza.

Des.Ma.

Note
1 – Il Qi originario è a livello cosmologico e ontologico il pneuma (respiro o soffio) dell’antecedente al cielo, (termine importante per la cosmologia cinese, lo stato in cui Yin e Yang non si sono ancora uniti). Il Qi originario emerge dal Dao, è immateriale e rifugio dell’essenza, ossia rifugio del seme per la nascita del cosmo intero..

Désirée Marianini