La grande calamità

Stregoneria in Africa

Vero flagello dell’Africa bantu è la stregoneria: lo sostiene Gabriel Ruhumbika, scrittore tanzaniano di 73 anni, nel suo romanzo sociologico Janga Sugu la Wazawa (La piaga contagiosa degli indigeni). L’autore si addentra in uno dei meandri più affascinanti e inquietanti della cultura bantu: la stregoneria, appunto.
L’intera famiglia dell’anziano Ninalwo viene sterminata (misteriosamente) da eventi oscuri. A nulla servono i tradizionali riti propiziatori per arrestare un morbo crudele ed endemico come la peste. O le voraci cavallette.
«Stregoneria» è un termine astratto, dietro al quale si muovono, però, losche figure in carne e ossa, temute da tutti, eppure assai ricercate.
Eccolo «lo stregone» del romanzo di Ruhumbika. Non ha un nome solo, bensì tre: è nello stesso tempo padre Joni (prete cattolico), Alhaji Sheikh Isa (musulmano) e Simba Mbiti (presunto professore).
Joni è un giovane prete, troppo… disinvolto verso le donne. Però un giorno incontra una vergine che gli si oppone con veemenza, ferendolo in testa con la pietra con cui sta macinando la farina. Il prete, deriso da tutti, si vendica contro… la religione cattolica del papa di Roma: aderisce all’islam e si trasferisce in Senegal.
Nel nuovo contesto socio-religioso il personaggio non è più soltanto padre Joni, bensì il musulmano Alhaji Sheikh Isa. Gode di quattro mogli. La prima, la più importante, è ricca e bellissima. Però, con la menopausa, diventa brutta, cicciona e le spunta persino la barba. Il consorte si consola «passeggiando» con altre donne. Ma l’ex bella non accetta l’affronto: con l’ausilio di alcune esperte comari immobilizza il marito infedele, lo denuda e minaccia di castrarlo.
Padre Joni-Alhaji Sheikh, intimorito, abbandona il Senegal e ritorna in Tanzania, dopo aver derubato la facoltosa moglie di tutti i suoi quattrini. Ora padre Joni-Alhaji Sheikh è pure il professor Simba Mbiti, stregone potente, famoso e temuto, con un codazzo di manutengoli, assassini, che eseguono i suoi ordini malvagi. Ad esempio: attaccano la donna che, anni prima, ha svergognato il loro padrone; la uccidono e recano allo stregone, come trofeo, l’intero basso ventre della vittima. Misfatti del genere si susseguono a catena. Organi sessuali, cuori, nasi, orecchi e altre parti del corpo umano vengono venduti, a caro prezzo, dal losco stregone. Sono i suoi farmaci miracolosi, i suoi portafortuna infallibili, i suoi amuleti onnipotenti.
I clienti chi sono? Sono i pezzi da novanta del governo, della finanza, del commercio, delle miniere d’oro e diamanti, della polizia. Frequentano padre Joni-Alhaji Sheikh-Simba Mbiti per aumentare il loro prestigio: la loro ricchezza, soprattutto.

Il romanzo di Ruhumbika è anche uno specchio della società politica della Tanzania. Racconta che nel 1985 l’onesto Julius Nyerere lascia di sua volontà la presidenza della repubblica. Gli succede Hassan Mwinyi, proveniente dall’isola di Zanzibar. I tanzaniani del continente gli appioppano il termine ruksa (o rushwa): ossia «bustarelle», corruzione, denaro facile a palate. Chi è corruttore-corrotto affonda le mani nelle casse dello stato e le ritrae piene di bigliettoni. È anche così che sperpera il denaro pubblico. Al governo non restano che debiti.
Tra gli arricchiti spicca Joni-Alhaji Sheikh-Simba Mbiti, prete-musulmano-professore, che esercita «il commercio della stregoneria».  Questo traffico – scrive Ruhumbika – cresce nell’arricchire i personaggi del potere. Non sono molti, tuttavia determinano le sorti dell’intera comunità.
Però è un traffico molto rischioso. Tutto può repentinamente mutare: e si piomba nella povertà o si affoga in un mare di guai. A prescindere dal fatto che la stregoneria rappresenta una grave minaccia per la vita e la sicurezza della famiglia (Cf G. Ruhumbika, op. cit., p.187). Figli e figlie, mariti e mogli scompaiono «misteriosamente».
A lungo andare e dopo cocenti delusioni da parte dei clienti dello stregone, può scattare la caccia allo stesso stregone e la feroce vendetta.
Tale sorte non risparmia neppure padre Joni-Alhaji Sheikh-Mbiti Simba: stanato dal suo ufficio criminoso, viene linciato in pubblica piazza da alcuni suoi ex clienti, tragicamente delusi dal professore. Naturalmente gli astanti non vedono, non sentono, né sanno nulla (Ibidem, pp.173-175).
Contro il fenomeno della stregoneria – termina il romanzo di Ruhumbika – è in corso una lunga e complessa guerra psicosociale. Però la vittoria arriverà, perché il proverbio recita: penye nia pana njia (se c’è la volontà, c’è la strada). Così in Africa nascerà la famiglia della speranza. Ognuno potrà coricarsi alla sera e alzarsi al mattino senza il terrore dello stregone. Tutti potranno soddisfare il loro ideale di progresso: in pace, serenità e sicurezza.

Francesco Beardi

Francesco Beardi




Il paradiso degli orchi

Italiani e turismo sessuale

A Fortaleza e a Natal gli italiani sono disprezzati. E con ragione. I nostri connazionali hanno in mano il business sporco. Sono inoltre tra i turisti più assidui delle due città brasiliane. La stragrande maggioranza di loro non cerca però le spiagge, bensì la prostituzione, compresa  quella minorile. E, sull’aereo di ritorno a casa, se ne vanta. Senza neppure provare un minimo di vergogna…

Natal (Rio Grande do Norte). «Quella là non è il mio tipo: troppo bassa, troppo piatta». L’attenzione del gruppetto si concentra su una giovane brasiliana non molto alta e non troppo formosa.
L’autore dell’indagine anatomica è un italiano sulla sessantina, tracagnotto, dall’accento regionale marcato e dallo sguardo che saetta da una donna all’altra, tra le tante che affollano la sala d’attesa dell’aeroporto di Natal. Il resto dell’allegra brigata è formato da connazionali di varie età, tutti di ritorno da una «gita turistica» nel Nordest del Brasile.
Volano altri commenti e apprezzamenti per questa o quella, tra sgomitate e risate sguaiate.
Lo spettacolo è a tratti ridicolo, quando non del tutto indecente: il branco di italiani schiamazzanti e gesticolanti si racconta ad alta voce le prodezze sperimentate durante il viaggio alla scoperta delle bellezze locali, possibilmente giovanissime e a volte (o spesso?) minorenni, incuranti del fatto che qualcuno – italiano o brasiliano che sia – possa capire e scandalizzarsi. O, semplicemente, vergognarsi di loro e di condividere la stessa patria.
Ad un tratto, tra le sedie della sala d’aspetto, passa una bella ragazza dai capelli lunghi, in pantaloncini corti e maglietta aderente, e qualcuno della compagnia fa il gesto di tirare una manata sul sedere, ma è trattenuto dal vicino. «Ehi, vuoi che ti mettano dentro?», gli chiede ridacchiando il compagno.
Già, in Brasile la fama dei cacciatori di sesso facile italiani s’è ormai diffusa, e le misure contenitive e punitive si sono fatte sempre più severe, nel corso degli anni. Prostituzione, e droga, speculazione edilizia e altro ancora, in vaste aree del Nordest sono in mano ai nostri connazionali, che hanno pienamente contribuito a renderci odiosi alla popolazione locale. In certe città, dove essi si sono distinti per corruzione e sfruttamento, o utilizzo, della prostituzione, in particolare minorile, e spaccio di stupefacenti, il solo parlare in italiano può essere pericoloso, o, comunque, fortemente sconsigliato.
Il razzismo nei nostri confronti è, infatti, fortissimo, e motivato dalla diffusione delle attività sopracitate, in cui diversi nostri compatrioti si sono distinti particolarmente.

PARADISO PER CHI?
Fortaleza (Cearà), marzo 2012. Entriamo in un internet-caffè in una via a ridosso del lungomare, e ci sediamo nel dehors all’aperto. Ordiniamo dell’acqua di cocco e approfittiamo per chiedere, in portoghese, al proprietario come mai tutti i clienti, seduti a fumare e a bere caffè, parlino in italiano. Ci risponde che sono nostri connazionali – lui compreso – che lavorano in Brasile o che trascorrono qui le vacanze. «Questo Paese è il paradiso per noi – dice convinto -. Non toerei più in Italia, per nessuna ragione. Qui ho trovato la mia fonte di guadagno e di vita».
Ci guardiamo intorno: il locale è sgarrupato, fatiscente, con sedie e tavoli di plastica, sporchi, quattro o cinque computer vecchio modello, un bancone sovraffollato di cianfrusaglie e un cesso degno di questo nome… Possibile, ci chiediamo, che abbia trovato «l’America», con questo postaccio e vendendo connessioni internet lente, caffè, sigarette e acqua di cocco?
Mentre ci frullano in testa diverse domande che non osiamo rivolgergli, lui ci risponde da solo: intermedia l’affitto (a prezzi stratosferici, scopriremo dopo) di appartamenti per le vacanze – vacanze di tutti i tipi – per italiani che approdano in queste zone del Brasile, depresse, sporche ma dalle bellissime spiagge e con giovani donne povere e travestiti che si vendono in mezzo alla strada.
Da lì a poco, a foirci ulteriori risposte, arriva un gruppetto di nostri compatrioti accompagnato da un paio di rumorose ragazze locali, che salutano affabilmente il nostro ristoratore.
Non ci vuole molto a capire come Piero (nome di fantasia) abbia trovato il paradiso in Brasile. E come non sia il solo italiano ad essersi sistemato economicamente in questo modo, lo scopriremo nei giorni successivi, entrando in altri bar, ristoranti e internet-caffè, e osservando il traffico umano che vi si articola di giorno e di sera tardi davanti e all’interno.
Visitando altre zone della capitale dello Stato del Cearà, con minore presenza di italiani, e parlando con la gente, ci rendiamo conto di quanto siano disprezzati, se non addirittura odiati, i nostri connazionali che hanno fatto delle vacanze a scopo sessuale, o dello  sfruttamento stesso della prostituzione, il leit motif della loro vita. Ne arrivano a frotte, ancora adesso, nonostante i provvedimenti punitivi anche esemplari (nei casi di sfruttamento di minorenni), introdotti dalle autorità brasiliane. Semplicemente, si sono fatti più furbi… e spesso mascherano le loro avventure con lo sport – il surf va per la maggiore in spiagge da sogno o in altri paradisi naturali, così come il nuoto o le escursioni -, il business, i «fidanzamenti via internet».

ITALIANI, BRUTTA GENTE
Il quartiere degli italiani a Fortaleza si chiama Praia de Iracema: è un borgo degradato che l’amministrazione municipale sta ristrutturando, cercando di mandare via i nostri connazionali.
Gli italiani residenti nella città sono circa 20mila, ma altrettanti vivono in clandestinità.
La maggioranza è arrivata lì alla ricerca di sesso a buon mercato. Altri sono coinvolti nel giro della prostituzione, dello spaccio e degli affari loschi.
La nostra padrona di casa ci spiega che «forse tra gli italiani ci saranno anche persone oneste, ma non è questa l’esperienza che ci siamo fatti qua, con loro. Abbiamo incontrato solo gente terribile. Possiamo pensare, certo, che costoro appartengano alla fascia sociale più degradata del vostro Paese, ma qui essi rappresentano tutti voi, e lo fanno nel peggiore dei modi. Noi li evitiamo in tutte le maniere non vogliamo avere nulla a che fare con loro e con i loro traffici».
In un bar italiano sulla spiaggia e meta di nostri connazionali, apprendiamo che i proprietari e gli avventori residenti in città da tempo si ingegnano, con molta fantasia e astuzia, a frodare i nuovi arrivati in cerca di sistemazione abitativa, lavoro o, molto spesso, di sesso a pagamento. Questi confidano sul fatto che il locale è gestito e frequentato da italiani, che certamente offriranno aiuto e appoggio. Invece si ritrovano ingannati: vengono proposti loro appartamenti a costi altissimi, rispetto al mercato locale, e si ritrovano presto in giri illegali e di prostitute che cercano di spillare loro quanti più soldi possono.
Un italiano proprietario di una clinica e in Brasile da dieci anni ci spiega che, per non essere visto, tutte le mattine entra dalla porta di servizio, perché i pazienti – tutti della media borghesia brasiliana – non devono sapere di avere a che fare con uno che arriva dall’Italia. Smetterebbero, infatti, di fidarsi e sceglierebbero un altro centro medico.
Un altro nostro compatriota, con un’agenzia immobiliare, ci racconta che alcuni italiani andavano lì, compravano dei terreni, e facevano un progetto per la costruzione di un palazzo o di un grattacielo: i brasiliani, com’è consuetudine, acquistavano gli appartamenti sulla carta, dando una caparra e pagando delle rate fino alla fine della costruzione, ma si ritrovavano senza niente, imbrogliati e defraudati dei loro soldi. I costruttori, infatti, una volta vendute tutte le abitazioni, scappavano con il capitale raccolto facendo perdere le loro tracce.
Casi come questi – insieme a prostituzione, spaccio e altre illegalità – hanno contribuito a rendere il nostro popolo, la nostra lingua e cultura, oggetto di ostilità e razzismo.

INTERNET: FIDANZAMENTI E  PROSTITUZIONE
Ci sono ragazze fidanzate a decine di italiani contemporaneamente, e tutto via Facebook, email, Skype. Ce ne sono tante che vivono così, accalappiando uomini di ogni età e ceto sociale – meglio se danarosi, però – con l’aiuto – il know-how – di chi vive, malavitosamente, in Brasile da anni.
La giovane adesca una preda su internet, cerca di avviare una relazione amicale o sentimentale virtuale: nel giro di qualche settimana, lei si trasforma nella «mia ragazza in Brasile». Lo scopo, ovviamente, è una trappola: attirare qui il malcapitato credulone o depravato e spennarlo per bene. Lei lo raggirerà dicendo di essere molto povera e di aver bisogno di soldi per la famiglia o per cure mediche per una zia inesistente.
Per scoprire questo traffico basta sedersi per qualche giorno in alcuni internet-point della città e, facendo finta di essere impegnati in conversazioni via Skype, o letture di quotidiani online, osservare ogni movimento e ascoltare le conversazioni di queste fanciulle: un mondo di oscuri traffici, di raggiri, imbrogli vi si dispiegherà tutt’intorno.
Dall’altra parte, a 10mila chilometri di distanza, ciascun fidanzato, collegato in chat su Messenger, Fb o Skype, è certo che la dolce ed esotica brasileira sia solo per «lui», non sapendo di far parte di un nutrito gruppo di aspiranti amanti e di essere cascato in una armadilha, una trappola ben programmata, con attori e comparse, e con collaboratori italiani che lucreranno sulle sue disavventure.
Gestendo bene i tui di viaggio in Brasile, ognuna di queste prostitute invita ciascun fidanzato a passare del tempo con lei. Dopo un paio di settimane a Fortaleza, essi ritornano in Italia con il portafoglio vuoto e, probabilmente, con la carta di credito azzerata dai debiti, ma racconteranno agli amici di avere una meravigliosa morosa innamorata e in attesa della prossima vacanza insieme.
Tali e altre pratiche criminali sono ben note alla polizia federale, che spesso esegue controlli e blitz per individuare gli italiani coinvolti in questi giri e senza permesso di soggiorno.

«PORTATORI DI CRIMINALITÀ»
Non sono pochi i fogli di via e i rimpatri forzati dati ai nostri connazionali colti in flagrante attività illecita e senza documenti.
Le nostre leggi sull’immigrazione e i nostri media ci hanno abituati a scene di espulsione coatta ai danni di disperati giunti nel nostro Paese a bordo di barconi scassati, che noi identifichiamo come «portatori di criminalità», facendo di tutta l’erba un fascio, e confondendo clandestini senza permesso di soggiorno e delinquenti.
Qui, sulle coste nordestine del Brasile siamo noi, spesso, i clandestini, gli spacciatori, gli sfruttatori della prostituzione, gli adescatori di altri italiani, gli imbroglioni. I disprezzati. Siamo noi ad apparire nella cronaca giudiziaria dei giornali o dei Tiggì, e motivo di vergogna per altri connazionali onesti.

Angela Lano e Feando Lattarulo

Angela Lano e Feando Lattarulo




Contadini con i piedi per terra

L’agricoltura comunitaria e famigliare

Nelle società africane e latino americane esiste un movimento di contadini. Identità e tradizioni, ma anche approccio comunitario, sono le loro armi. Per un’agricoltura al servizio dell’uomo (e della famiglia), e non dell’arricchimento di pochi. Ecco il libro, imperdibile, che racconta queste storie.

«Noi siamo le nostre  risorse, le nostre tradizioni» sostiene lo storico leader dei contadini senegalesi Mamadou Cissokho – nel suo libro intitolato «Dio non è contadino» – proponendo all’Africa e alla sua anima rurale un percorso di riappropriazione della propria identità, in un mondo globalizzato che tende ad utilizzare gli agricoltori per scopi economici, espropriando loro terre, risorse e conoscenze.
Comunità, contro individualismo
«La comunità è la dimensione centrale della società pre-capitalistica ed è esattamente la dimensione che ci è stata sottratta dalla modeizzazione, che ha messo al suo centro l’individuo. Le organizzazioni contadine riescono talvolta a recuperare la dimensione comunitaria e occorre quindi definire le strategie che accompagnano questo tipo di azioni…» scriveva qualche anno fa il professor Enrico Luzzati, scomparso nel 2008, promotore di ricerche e riflessioni sulle realtà contadine africane e latinoamericane, e grande sostenitore di un modello di sviluppo rurale che abbia al centro la comunità e una via cornoperativistica alla produzione e al commercio (il professor Luzzati è stato collaboratore di MC sui temi dell’economia alternativa, ndr).
Costruire relazioni
I contadini come soggetto centrale, la ricerca, la cooperazione sul campo fatta dalle Ong – in particolare dalla Cisv di Torino -: il libro «Con i piedi per terra. Lavorare con le organizzazioni contadine nei progetti di cooperazione allo sviluppo» coniuga questi tre elementi con un approccio di ricerca-azione.
«Accompagnare le organizzazioni contadine del Sud del mondo vuol dire costruire prima di tutto, insieme ai progetti e alle azioni concrete, una vera relazione di partenariato, basata sul rispetto e l’autonomia»: ricordiamo nel libro (vedi box).
Il testo ha come filo conduttore un’idea politica forte: l’agricoltura familiare e cornoperativa, e le organizzazioni e i movimenti contadini a essa legati, costituiscono una chance per il futuro dell’umanità, in particolare quella più povera, e per la sostenibilità del pianeta.
L’approfondimento teorico del tema è presentato in un excursus sulle categorie e caratteristiche delle organizzazioni di agricoltori e sui modelli di produzione utilizzati; inoltre si trovano in esso un’analisi ed esempi concreti di modalità, metodi e approcci di accompagnamento del mondo contadino e del lavoro comune, anche al fine di migliorare l’efficienza, l’efficacia, la partecipazione, la sostenibilità e l’impatto dei progetti.
Storie di vita contadina
Ma la forza del libro è soprattutto nella narrazione della vita dei movimenti, della storia dei suoi leader, delle relazioni di scambio e collaborazione tra persone e popoli diversi. Nel volume «Con i piedi per terra» possiamo leggere le vicende, le fortune e le traversie storiche di diverse organizzazioni contadine, e come esse si sono rapportate nel dialogo e nella collaborazione con le Ong nei progetti di cooperazione.
Veniamo a conosceza della storia di Djibril Diao, figlio di contadini diventato lui stesso imprenditore agricolo, produttore di riso del villaggio di Ronkh nel Nord del Senegal, rappresentante e animatore dell’organizzazione Asescaw, che è arrivato fino a presiedere una tavola rotonda mondiale di contadini all’incontro di Terra Madre, vivendo concretamente uno scambio tra piccoli produttori di ogni continente.
La lunga carriera di Beard Lédéa Ouedraogo (MC ha presentato la sua storia, luglio-agosto 2010), attivissimo ancora a 85 anni e leader storico del movimento Naam in Burkina Faso, organizzazione che è riuscita a valorizzare un territorio arido, a mantenere i giovani nei villaggi a trasformare la propria realtà. Ancora, la storia di Felicité passata in 15 anni da animatrice di progetto a presidente di una cornoperativa per lo stoccaggio e la vendita del riso. E di Nazaria Tum, che in Guatemala ha condotto le Comunità di popolazioni in resistenza (Cpr della Sierra) attraverso anni di difesa nonviolenta nelle selve montagnose del Quiché. Mentre oggi anima un’organizzazione di donne indigene che lotta per i propri diritti e per non farsi espropriare le terre dagli interessi delle multinazionali minerarie e idroelettriche appoggiate dai governi.
Storie «con i piedi per terra» che ci raccontano del mondo rurale povero e delle possibilità che esso ha di diventare sempre più un riferimento per un’umanità che sta rovinando le risorse ed i rapporti sociali sulla terra; storie di legami di cooperazione dalle quali si traggono strumenti di lavoro per collaborare e per crescere nell’ambito dei progetti di cooperazione e sviluppo.

Federico Perotti

Federico Perotti




L’eredità del maestro Kong

Religioni in Cina / 2: il Confucianesimo

Filosofia e religione a un tempo, il confucianesimo è la vera cultura cinese. Nella sua lunga storia – Kong Zi (Confucio, nella traduzione del gesuita Matteo Ricci) nacque nel 551 a.C. – ha conosciuto periodi di auge e altri di disprezzo. Oggi vive l’ennesima rinascita. Forse (anche) perché il potere centrale ha bisogno di nuove legittimazioni.

Un anno e mezzo fa, alla vigilia del viaggio del presidente cinese Hu Jintao negli Stati Uniti, una statua in bronzo di Confucio, alta dieci metri, fece la sua comparsa davanti al Museo Nazionale a Pechino, proprio su quella piazza Tian’anmen dominata dal ritratto di Mao Zedong. Fino ad allora soltanto il Grande Timoniere aveva avuto l’onore di campeggiare permanentemente sulla piazza simbolo della Cina, affiancato due volte l’anno dal ritratto del padre della patria e primo presidente della repubblica cinese dopo la caduta dell’impero, Sun Yat-sen. Con la stessa rapidità con cui fu installata, la statua fu rimossa dopo poco tempo e posizionata all’interno del museo lasciando adito alle speculazioni sul perché di tale gesto. Da tempo il ritorno della figura del maestro è un argomento di dibatto tra gli esperti di questioni cinesi.
Il confucianesimo, come lo ha definito il pensatore contemporaneo Tu Wei-ming, è allo stesso tempo una visione del mondo, un’etica sociale, un’ideologia politica, una tradizione letteraria e un modo di vivere. «Il confucianesimo è una religione-filosofia che contiene i valori spirituali ed etici del popolo cinese. Difficile che sparisca», ci spiega Umberto Bresciani, docente all’Università Cattolica Fujen di Taipei ed esperto del dialogo religioso e culturale con il mondo cinese, contattato per email da Missioni Consolata.

UN PERCORSO STORICO ACCIDENTATO
La fortuna avuta per oltre 2.500 anni scemò agli inizi del XX secolo, quando Confucio fu additato come principale motivo dell’arretratezza della Cina che si confrontava con le potenze occidentali. Il lento disgregarsi del fondamento ideologico che aveva retto l’impero sin dall’epoca Han (206 a.C-220 d.C) ebbe alcune tappe fondamentali.
Nel 1905 fu decretata l’abolizione del sistema degli esami, una via d’accesso all’amministrazione pubblica basata sulla conoscenza dei classici. Un sistema tanto lodato in Occidente in epoca dei Lumi, perché considerato un metodo di selezione di una classe dirigente illuminata. Il crollo dell’ultima dinastia imperiale nel 1911 mise fine ai riti di Stato e nel 1919, con l’esplodere del movimento del 4 maggio, le nuove generazioni influenzate dalle idee che arrivavano dall’estero (liberalismo, socialismo, comunismo, positivismo) decretarono il rigetto dell’antica ideologia per abbracciare una cultura nuova, sebbene poi – dagli anni Trenta – le correnti più moderate e i nazionalisti cercarono di reinterpretare la tradizione confuciana in chiave modea.
L’apice del disprezzo fu però raggiunto con la Cina comunista, durante gli anni della Rivoluzione Culturale, a cavallo tra il 1966 e 1976, quando il pensatore originario di Qufu, nell’odiea provincia dello Shandong, fu bollato come feudale e reazionario. Questo perché Mao Zedong, nonostante fosse intriso – sin dalla giovinezza – della cultura confuciana, era deciso a imporre sul Paese il proprio pensiero. Con la morte di Mao e la fine dei dieci anni di lotta di potere e furore ideologico che sconvolsero la Cina, le radici iniziarono a riaffiorare. «La morsa si allentò, e i confuciani convinti ripresero a parlare, per quanto lo permetteva l’autorità – continua il professor Bresciani -. Con il passare degli anni, questa libertà è venuta aumentando, anche perché i governanti cercano di strumentalizzare per quanto possibile le dottrine e gli ideali confuciani, avendo bisogno di legittimare la loro presenza al potere. È prevedibile che, salvo rovesci ideologici dell’oligarchia al potere, la presenza del confucianesimo diventerà sempre più rilevante e palese. Non poche scuole hanno reintrodotto lo studio dei classici come corso obbligatorio. Si fa già sentire anche chi vorrebbe che il confucianesimo fosse proclamato religione di stato, non per opprimere le altre religioni, ma per avere un punto di riferimento, com’è il cristianesimo luterano nei paesi nordici o l’anglicanesimo in Gran Bretagna».
Come ha spiegato la professoressa Alessandra Lavagnino, direttrice dell’Istituto Confucio dell’Università di Milano, la riscossa del pensiero confuciano si inserisce in quelli che sono gli studi sulla nazione, i cosiddetti guoxue, ossia il recupero di una tradizione autoctona cinese. «È la riscoperta delle radici di una cultura propriamente cinese, non di importazione come d’altronde è stato lo stesso marxismo».
Secondo un sondaggio dell’anno scorso, condotto tra duemila studenti universitari e pubblicato sul «Nanfang Ribao», Confucio è annoverato al secondo posto tra i dieci simboli culturali della Cina contemporanea, subito sotto la scrittura e prima della calligrafia, della Grande Muraglia e degli stessi Mao Zedong e Deng Xiaoping, i leader carismatici della rivoluzione e della crescita cinese. «A livello popolare sta avvenendo una massiccia riscoperta dei suzhi, vale a dire delle caratteristiche proprie e dei tratti peculiari di quella che potremo definire la “cinesità”. Assistiamo a un ritorno al rispetto per le gerarchie e le norme, al rispetto per gli insegnanti, all’idea che sia possibile elevarsi con il sapere».
A livello governativo il Partito comunista cinese, almeno da una decina di anni, sotto la dirigenza Hu Jintao, ha riscoperto e fatto largo uso di termini riconducibili alla tradizione confuciana, come «società armoniosa» o xiaokang, benessere. Nonostante il largo spazio dedicato nei discorsi ufficiali, la società armoniosa non ha tuttavia ancora trovato spazio tra i principi ispiratori dell’azione del Partito accanto alla teoria di Deng Xiaoping, a quella della «costruzione del socialismo con caratteristiche cinesi» e al pensiero de «le tre rappresentatività» di Jiang Zemin, con cui il vertice ha cornoptato a sé quelli che ritiene gli strati più dinamici della società. Segno che all’interno della dirigenza esistono ancora resistenze.
I tempi stanno comunque cambiando.

DALLA DEMONIZZAZIONE AL GRANDE SCHERMO
Come scriveva nel 2010 il professor Daniel Bell, docente di filosofia all’Università Tsingua, uno degli atenei più rinomati della Cina, in passato Confucio era usato per attaccare i nemici politici. Il caso più eclatante fu la campagna di critica contro Confucio e contro Lin Biao (pin Lin pin Kong fu lo slogan) alla fine del 1974 con cui allo stesso tempo si colpivano, accostandoli, il maestro e l’ex delfino di Mao, caduto in disgrazia e morto in circostanze misteriose in un incidente aereo nel 1971.
Trentaquattro anni dopo, al contrario, la cerimonia di apertura dei Giochi olimpici di Pechino esaltò i temi contenuti nei Dialoghi, la raccolta del pensiero del maestro compilata dai suoi discepoli e dai loro allievi. Mentre a mancare dalla mastodontica festa a cinque cerchi furono proprio gli anni della Cina comunista. E che dire del lavoro di divulgazione dei Dialoghi fatto dagli schermi della televisione di Stato CcTv dalla signora Yu Dan, docente di tecniche dei media a Pechino, che ha riportato all’attenzione popolare il confucianesimo con successo di pubblico e di ascolti, sebbene con qualche mal di pancia tra gli studiosi. «Ricorda molto i libri di autoperfezionamento scritti per convincere le persone a credere in sé stesse. Personalmente sono più attratto dal lavoro di critica sociale che in Cina cerca di trarre ispirazione dalla tradizione confuciana per pensare riforme politiche», scrive Bell sottolineando come chi si interessi di questo punto non si ferma al solo personaggio Confucio.
Nel 2010, infine, il Pcc sostenne invece il blockbuster «Kong Zi», film interpretato dalla star Chow Yun-fat e diretto da Hu Mei, che rivede in chiave nazionalista la vita del pensatore.  Ancora, al maestro è stato dedicato il premio istituito in concorrenza con il Nobel per la Pace, dopo il riconoscimento assegnato da Oslo all’intellettuale dissidente Liu Xiaobo nel 2010.
«Al giorno d’oggi il confucianesimo ha una funzione di legittimazione politica, può servire a dare nuove basi morali per governare la Cina», scrive Bell sul quotidiano canadese Globe and Mail, «Il comunismo ha perso la propria capacità di ispirare i cinesi e la consapevolezza del bisogno di un qualche sostituto è ricaduta in parte sulla tradizione. Il confucianesimo è l’alternativa più scontata». Non a caso l’articolo, già nel titolo, si interroga sulla possibilità di un Partito confuciano cinese, la cui sigla sarebbe – come nel caso comunista – Pcc.

IDEALI E VISIONE DEL MONDO
Negli anni il ritorno del maestro è diventato anche uno strumento del softpower cinese. «A loro tempo i missionari calcarono l’accento sulle tematiche dell’amore universale e sulla forte etica morale di Confucio. La burocrazia celeste ispirò gli illuministi. Oggi gli Istituti Confucio sono la rete per far conoscere la cultura e la lingua cinese nel mondo. Sono l’equivalente dei Goethe Institut e degli istituti Cervantes. Pechino ha scelto come rappresentante Confucio», sottolinea la professoressa Lavagnino.
La riscoperta del confucianesimo non è tuttavia un fenomeno esclusivamente calato dall’alto, secondo Bell. Molto si muove anche fuori dal controllo governativo, nelle accademie e nella società.
«Un secolo fa era necessario aggioare il confucianesimo e portarlo all’altezza del dialogo con la cultura dell’occidente. Questo lavoro è stato realizzato da tre generazioni di filosofi. Hanno buttato via quelle che erano evidenti incrostazioni accumulate lungo i secoli, come un’etica familiare fossilizzata in senso patealistico, una politica autoritaria, la posizione inferiore della donna, e così via. Hanno conservato gli ideali e la visione del mondo originaria di Confucio e Mencio, espressi in un linguaggio e una logica presi dall’Occidente, in modo da divenire comprensibili anche per gli occidentali – spiega Bresciani -. Quanto al rapporto con il marxismo, in genere i nuovi confuciani per principio sono contrari a esso, anche se poi nella pratica sono più tolleranti: dato che la Cina sta uscendo da un secolo di guerre e di caos sociale, non è il caso di procurare altro caos cercando di sovvertire lo status quo; è meglio auspicare e favorire un progressivo distanziarsi dagli ideali e metodi comunisti, e cioè un’evoluzione piuttosto che una rivoluzione. Un po’ quello che sta avvenendo»1.

Andrea Pira

Andrea Pira




CinéLatino festival della speranza

Tolosa: festival del cinema latinoamericano senza pailettes e tappeti rossi

CinéLatino: è il nome dei Rencontres de Toulouse, un Festival dedicato al cinema latinoamericano, giunto alla ventiquattresima edizione, che ha avuto luogo nell’antica città francese tra il 23 marzo e il primo aprile scorsi.

Tolosa è la quarta città francese per numero di abitanti (450.000), posta ai piedi dei Pirenei nell’Alta Garonna e capitale culturale dell’antica Occitania.
Sede fin dall’inizio del 1200 di Università, è attualmente il secondo polo universitario francese, con quasi 100.000 (!) studenti e quattro facoltà.
Il centro storico è ben conservato, parzialmente pedonale, ricco di stradine con palazzi storici e chiese, ma anche di bar, ristoranti, birrerie, bistrots molto frequentati a tutte le ore.
Una città giovane, vivace, piena d’iniziative, con centri culturali, cinema e teatri, biblioteche, librerie (attraversando il centro ho contato 8 librerie e 5 bancomat: nelle nostre città possiamo contare 30 bancomat e 2 librerie…).
Il Festival non è solamente proiezione di lungometraggi, documentari o cortometraggi (le tre sezioni nelle quali è articolato), ma occasione d’incontri con i realizzatori e i registi, per il pubblico professionale, per gli amanti della cultura latinoamericana con retrospettive, concerti, mostre ed esposizioni.
Il comitato organizzatore ha selezionato, tra le circa 400 opere pervenute, 14 film, 7 documentari e 10 cortometraggi ponendoli all’attenzione delle Giurie.
Una prima, ufficiale, affiancata da altra Giuria di esperti locali, da una di studenti e da quella internazionale di Signis (Associazione cattolica mondiale per la comunicazione che riunisce professionisti di radio, televisione, cinema, video, educazione ai media, Inteet e nuove tecnologie, riconosciuta dal Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali).
I lavori presentati, tutti provenienti dal Centro e Sud America, hanno rivelato caratteristiche comuni.
In modo particolare i documentari e i cortometraggi (sui quali era chiamata a esprimere la valutazione la Giuria Signis) sono stati caratterizzati da un ritmo di racconto molto più lento e descrittivo di come siamo abituati nella nostra frenetica Europa. Una buona fotografia è una seconda caratteristica comune, anche se alcuni documentari e cortometraggi sono farciti d’immagini in soggettiva, un po’ traballanti perché girate senza l’uso del cavalletto. Scenari incantevoli, immersi nella natura e ricchi di tradizioni, di animali, di particolari e primi piani sui quali la telecamera indugia e descrive.
Le tematiche affrontate, salvo rare eccezioni, erano quelle dell’integrazione in nuove società, del recupero delle tradizioni familiari e sociali, del dialogo tra generazioni.
Non esiste più, in questa scuola di cinema, la classica figura del narratore: lo spettatore scopre la storia attraverso le immagini – un poco alla volta – arrivando al finale che spesso è lasciato «aperto» ad interpretazioni personali, in genere ottimistiche e rievocatrici di speranze.
Le musiche non sono prevalenti, ma intervallate a silenzi o suoni d’ambiente, e sono curate e composte appositamente.
Nel corso di un incontro con i giovani registi, si è parlato dell’evoluzione del concetto di documentario, a volte «contaminato» da fiction, dallo stile del reportage o dell’inchiesta.

La Giuria Signis, composta da Maria Teresa Teramo – insegnante all’Università di Buenos Aires -, Martine Liabeuf – ex insegnante di Lione -, e fra Mario Durando – presidente della giuria e responsabile della Nova-T produzioni multimediali di Torino -, si è confrontata a lungo, valutando sia la qualità tecnica che il valore del contenuto e del messaggio ed ha premiato il documentario «Canicula» del messicano José Alvarez.
La scelta è stata motivata per la qualità della fotografia, delle musiche e dei silenzi, per la poesia del racconto che invita a riflettere sul rispetto e l’amore alla natura, per il racconto degli antichi miti e dei riti religiosi, immersi in un simbolismo universale.
In Canicula il regista conduce lo spettatore in un villaggio degli indiani Totonac a Veracruz, in Messico. Nella foresta di montagna, dove gli abitanti creano ceramiche superbe, decorate con delicati disegni provenienti dall’antichità, la vita scorre tra la natura e gli animali.
I ragazzi, in un antico rito iniziatico denso di simboli, spiritualità ed eleganza, imparano a volare e a diventare «Voladores de Papantla» tramandando cultura e tradizioni antichissime.
Per la sezione dei cortometraggi, la scelta si è orientata su Kyaka La Na (La lana rossa) della colombiana Adriana Cepeda, che attualmente vive negli Stati Uniti.
è la storia di una ragazza orfana, ospite con la sorellina della nonna, a New York. La differenza di età e cultura, l’illusione di una modeità capace di far dimenticare sentimenti e tradizioni si scontrano con il desiderio della nonna d’insegnare i lavori tradizionali e tornare nella propria cultura. Finché la ragazza si accorge di quanto sta perdendo e… finale aperto all’interpretazione dello spettatore. L’ultima scena, infatti, nella sua serenità fa comprendere una riconciliazione interiore che potrebbe portare a qualsiasi scelta di vita.
Il corto, di buona qualità tecnica e artistica, è stato segnalato dalla Giuria Signis per la narrazione sui temi dell’immigrazione, dell’integrazione, della riappropriazione della propria identità delle origini, per il valore della famiglia e del rispetto e accompagnamento nelle scelte personali.
Un plauso al centinaio di volontari (tutti giovani, studenti o ex studenti) che si sono prodigati nell’accogliere, accompagnare, organizzare un festival definito non di pailettes o tappeti rossi, ma di cultura e accoglienza.

Mario Durando

Mario Durando




La generazione ghepardo

Africa: cos’è la rivoluzione mobile

Le parole d’ordine sono mobile banking e «nuvola». Le armi: il telefonino e il computer portatile. I combattenti: la «generazione ghepardo». L’Africa sta vivendo una «rivoluzione» epocale, nella quale la tecnologia la fa da padrone. E giovani curiosi e dinamici vogliono sostituire gli «ippopotami» della politica.

La chiamano «la rivoluzione mobile» e, come tutte le etichette che pretendono di marcare uno spartiacque, anche questa roboante definizione suona retorica. Eppure basta percorrere la 1st street di Eastleigh, quartiere di Nairobi noto anche come Little Mogadishu per l’altissima concentrazione di imprenditori e rifugiati (spesso un aspetto non esclude l’altro) somali, per cominciare a pensare che ci sia qualcosa di vero e profondo in questa rivoluzione.
A farlo sospettare non sono solo gli onnipresenti negozi di telefonia mobile che vendono cellulari da dieci dollari o gli sportelli del sistema MPesa, la piattaforma creata dall’operatore mobile Safaricom per inviare e ricevere denaro da un telefono a un altro.
A dare il senso di questo cambiamento sociale ed economico sono piuttosto le parole di Mohammed, un rifugiato 23enne che, dopo 14 anni nel campo profughi di Ifo, a Dadaab, insegna inglese a Eastleigh. Periodicamente, tramite MPesa, invia denaro al resto della famiglia che vive ancora nel campo oppure, in caso di bisogno, ai suoi fratelli che vivono di pastorizia nell’Est del Kenya e che lo contattano con i loro cellulari caricati a energia solare, inseguendo pascoli e network, spesso salendo su alture o inerpicandosi su tralicci.
Mentre chiacchieriamo davanti a un chai masala, riceve un sms: altri fratelli emigrati in Canada gli fanno sapere di avergli spedito dei soldi via Inteet su Daabshil, uno dei più popolari sistemi bancari islamici della Somalia. Con quei fondi potrà partire per il Sud Sudan, dove conta di avviare un business. «Questo è tutto quello di cui ho bisogno, dice sollevando il suo cellulare. Qui ci sono tutti i miei contatti. E con questo posso ricevere i soldi che mi servono».

«Armi» modee
Il Nokia 1100 che stringe in pugno è una delle armi di questa rivoluzione, la più diffusa, e non a caso «Foreign Policy» l’ha definito l’AK 47 (Kalashnikov) della telefonia mobile: lo possiedono 250 milioni di persone, soprattutto nel Sud del mondo, per i quali non importa che, nel Nord, sia ormai considerato un pezzo di modeariato.
È affidabile, economico, facile da usare. In generale, quattro cellulari su cinque presenti nel mondo oggi si trovano nei paesi poveri. Più o meno sofisticati, generalmente a basso costo: secondo i calcoli del guru della tecnologia Nathan Eagle, chiunque guadagni almeno cinque dollari al giorno può permettersi un cellulare.
Per molte famiglie è un investimento. Lo si usa per indirizzare i propri prodotti verso mercati più redditizi, per ottenere informazioni spesso cruciali per sopravvivere, per inviare rimesse a casa. Ciò aiuta a spiegare il successo della telefonia mobile in Somalia, come racconta la giornalista della Bbc Mary Harper nel suo ultimo libro «Getting Somalia Wrong»: il paese, per quanto privo di un vero governo da vent’anni, ha la rete di telefonia mobile più economica del mondo. Un’autostrada impalpabile che fa da contraltare alle disastrate infrastrutture e che, secondo Hassan, dipendente somalo di una Ong con sede a Nairobi, sta trasformando la Somalia nel primo paese a moneta virtuale al mondo. «Grazie a Zaad – un’altra piattaforma di mobile banking lanciata dalla Salaam Somali Bank –  posso pagare taxi e caffè con il mio cellulare trasferendo i soldi sui numeri di conto esposti dagli esercizi commerciali».
Le transazioni hanno un costo, che però viene annoverato nella lista delle spese per la sicurezza: non si circola con denaro in tasca e, in caso di furto del cellulare, il denaro rimane nella «nuvola» (vedi glossario).
Nel sud della Somalia i miliziani di Al Shabaab hanno vietato i servizi di mobile banking, ufficialmente perché non islamici. Ma Hassan ha un’altra spiegazione: «Nella “nuvola” ci finivano anche i loro stipendi. E quando si sono accorti che il sistema era troppo vulnerabile hanno deciso di vietarlo».

Nuovi linguaggi
Sull’onda della vertiginosa diffusione di cellulari in Africa, un nuovo acronimo si è aggiunto alla lunga galleria di sigle che accompagnano la storia del continente dall’indipendenza ad oggi: ICT4D, ovvero Information and communication technologies for development. La febbre della tecnologia digitale per lo sviluppo ha contagiato istituzioni inteazionali come la Banca Mondiale, multinazionali della cooperazione come Oxfam, agenzie nazionali dello sviluppo, soprattutto nel Nord Europa, e corporation tecnologiche, come Vodafone e Microsoft: espressioni come mobile health (che riguarda progetti sanitari impeiati sull’uso del cellulare) o crowdsourcing (un sistema di raccolta d’informazioni basato su piattaforme digitali) sono diventate le nuove parole chiave per accedere a finanziamenti e a fondi di ricerca. 
Un approccio che sfuma come non mai i confini tra profit e no-profit. Per rendersene conto, basta visitare il cuore della Silycon Valley africana, sempre a Nairobi, ma su Ngong Road, costellata di enclavi di espatriati vecchi e nuovi, anglosassoni e cinesi, centri commerciali e culturali. In un ampio e luminoso open space all’ultimo piano di un edificio di vetro si trova iHub, il business incubator più famoso dell’intera Africa. Qui giovani keniani smanettano su laptop o discutono attorno a un grafico su un monitor di idee da trasformare in apps per cellulare o in piattaforme per il web. Eric Hersman, americano trapiantato in Kenya e animatore di vari blog tra cui White African («Dove le ICT incontrano l’Africa») l’ha fondato appena due anni ma, racconta, il seme è stato piantato nel 2007, e non in Kenya.

Generazione di ghepardi
È stato al Ted African Forum di Arusha, in Tanzania, che, dal palco, l’economista ghanese George Ayittey ha lanciato la sua profezia sul futuro del continente, con una metafora dal tipico respiro africano: c’è la generazione degli ippopotami e quella dei ghepardi. I primi sono legati alla logica postcoloniale e sono i dinosauri della politica, impastorniati nei ruoli di potere tradizionali e nella corruzione. I secondi guardano avanti, corrono veloci, sono curiosi, vogliono cambiare il mondo. La cheetah generation, vaticinò, sta sbocciando.
Al netto dell’enfasi, la profezia si è rivelata in parte corretta. Hersmann, che si trovava tra il pubblico, lo verificò meno di un anno dopo quando, insieme a un’attivista keniana anch’essa in platea, Juliana Rotich, vide il paese che aveva scelto come seconda casa sull’orlo della guerra civile.
La contestata vittoria del presidente in carica Mwai Kibaki sul leader dell’opposizione Raila Odinga aveva fatto precipitare il Kenya nel caos. È stato in quel momento che la cheetah generation si è messa a ruggire, dalla tastiera di un computer. Hersman, Rotich, attivisti di base ad Harvard e soprattutto tanti giovani keniani lanciarono Ushahidi – testimone in ki-swahili – una piattaforma online che permette di mappare la crisi in corso sulla base di sms ed e-mail inviati da chiunque. Un caso esemplare di crowdsourcing, ovvero raccolta diffusa di informazioni, che ha trovato applicazioni anche in altri contesti: dopo i terremoti ad Haiti e in Cile, durante l’operazione Piombo fuso su Gaza, nei conflitti in Libia e in Siria. Attoo a Ushahidi è aumentata l’attenzione sulle potenzialità della tecnologia recepita anche da organizzazioni come Un Ocha (Organizzazione delle Nazioni unite per il cornordinamento dell’aiuto umanitario), che per la prima volta ha chiesto la collaborazione della comunità di volontari di Ushahidi per monitorare l’emergenza umanitaria ad Haiti. Inoltre, a partire da iniziative come Ushahidi la cheetah generation è cresciuta e si è data da fare, soprattutto in Africa orientale, il vero cuore di questa rivoluzione che s’irradia non solo in Africa ma in tutti i Pvs (Paesi in via di sviluppo), sempre più Pds, «Paesi di sviluppatori».

Sviluppo telematico
La competizione Apps4Africa è una vera vetrina di creatività tecnologica africana. Nell’ultima edizione hanno trionfato un progetto che consente la gestione della distribuzione del grano via cellulare, Grainy bunch, ideato da un 28enne di Dar Er Salaam; Mkulima Bora, una app creata da un gruppo di sviluppatori keniani che consente agli utenti l’accesso a informazioni sul tipo di pianta da seminare, incrociando dati meternorologici e geografici; e Agro Universe, innovazione ugandese per monitorare il processo di distribuzione di prodotti rurali.
Uno dei progetti più riusciti premiati in una precedente edizione è iCow, «la migliore amica dell’allevatore», una app scaricabile gratuitamente per tutti gli utenti Safaricom, Orange e Airtel, iCow offre a chi si registra la possibilità di ricevere informazioni personalizzate sul ciclo di gestazione delle proprie mucche, il listino iCow Soko delle quotazioni del bestiame e, a richiesta, informazioni su vaccinazioni, alimentazione e igiene del latte.
A decretae il successo, il suo menu a scelta vocale, il che permette di ovviare al diffuso analfabetismo. iHub aiuta giovani sviluppatori a trovare fondi per produrre le proprie idee ed è un punto di riferimento per chiunque intenda rafforzare la società civile locale con tecnologie digitali: è il caso di MapKibera, progetto di mappatura partecipativa della più grande baraccopoli africana, Kibera appunto, usando la piattaforma libera Open Street Map e appoggiandosi a un team di adolescenti locali muniti di dispositivi Gps.

Non è tutto oro
Nonostante risultati incoraggianti, c’è però chi invita alla cautela su questo nuovo determinismo tecnologico che, alimentato dall’entusiasmo per l’ICT4D, rischia di lasciare in ombra i limiti e le implicazioni di lungo termine della rivoluzione mobile. Kentaro Toyama, professore d’informatica a Berkeley con una lunga esperienza nel campo della tecnologia per lo sviluppo, ad esempio, è probabilmente l’ICT4D-scettico più noto tra gli addetti ai lavori.
Le critiche più ricorrenti riguardano il fatto che un approccio soprattutto «gadgetistico» alla tecnologia fa dimenticare la dimensione politica e sociale dello sviluppo.
La tecnologia, ricorda Toyama, non è la panacea contro la povertà, ma uno strumento che va messo al servizio di competenze e sensibilità. Questo punto è legato a un altro aspetto della questione, che, riprendendo i casi precedenti, può essere riassunto così: Easteleigh e iHub spesso ignorano le rispettive esistenze. Ovvero le iniziative che ruotano attorno alle Ict per lo sviluppo non sono basate su una conoscenza approfondita di come i beneficiari già usano quelle tecnologie.
Un esempio è rappresentato dal monitoraggio mobile eseguito in parallelo ad Ushahidi durante le violenze post-elettorali in Kenya del 2008, quando la gang Luo che sosteneva Odinga, i Taliban di Kibera, usarono i cellulari per cornordinare l’epurazione degli abitanti Kikuyu dello slum.
O ancora il sofisticato uso che Al-Shabaab fa di Twitter, prova che per terrorizzare e intimidire bastano 140 caratteri.
L’ennesimo aspetto critico da sottolineare è infine che le tecnologie mobili non riescono a raggiungere i più poveri ma, piuttosto, rafforzando l’emergente classe media, stanno creando un’ulteriore spaccatura alla base della piramide, destinata ad ampliarsi con il passare del tempo. Al centro di uno studio della Arizona State University e della New America Foundation c’è MPesa, la piattaforma di mobile-banking che rappresenta l’esempio più eclatante delle capacità trasformative della telefonia mobile nei paesi poveri. Negli ultimi quattro anni, questo sistema ha raggiunto 14 milioni di utenti, che lo usano regolarmente per inviare e ricevere denaro. Per l’«Economist», MPesa ha generato un incremento fino al 30 per cento del bilancio familiare e oggi è usato dal 65% della popolazione keniana. Un’indagine successiva ha però rilevato che il 60% della fascia più povera della popolazione continua a non aver accesso al servizio: essendo guidate da una logica di profitto, le compagnie telefoniche non trovano conveniente investire in infrastrutture in alcune aree rurali. Inoltre, le transazioni hanno un costo che resta proibitivo per chi vive sotto la linea di povertà.
La rivoluzione insomma ha le sue ombre ma sta producendo una consapevolezza che finalmente mitiga nella gioventù africana complessi d’inferiorità o voglia di fuga. Consapevolezza che si traduce nell’esplosione di webcomics come «Emergency», ovvero la rivolta Mau Mau raccontata in internet dal disegnatore keniano Chief Nyamweya, o «Who Fears Death», della scrittrice nigeriana di fantascienza Nnedi Okorafor, in cui la civiltà ricomincia in Africa dopo un’apocalisse nucleare. La rivoluzione, come diceva negli anni Sessanta il menestrello nero Gil Scott-Heron, non finirà in televisione ma sarà dal vivo. O, se mai, annunciata da un sms.

Gianluca Iazzolino  

 

Gianluca Iazzolino




Feudale, islamico, atomico

Un paese complesso e diseguale

Militari, servizi segreti e oligarchia economica dominano su una popolazione impoverita. L’islam, la religione della Costituzione, è usato come arma per combattere i nemici e opprimere le minoranze. Su tutto ciò s’inserisce una deriva integralista di matrice qaedista e talebana.

L’uccisione di Osama bin Laden il 2 maggio 2011 da parte di uomini dei reparti speciali statunitensi nella città-guaigione di Rawalpindi aveva le potenzialità di chiudere un periodo in sé difficile e controverso nei rapporti tra Usa (e Occidente) e Pakistan. Invece, sia quell’episodio, sia la successiva evoluzione della situazione internazionale e intea dovevano mostrare che la fine di Bin Laden apriva un capitolo contrastato e sanguinoso, rischiando di allargare ancora di più il fossato ideologico, strategico e di interessi tra Pakistan e Occidente, identificato soprattutto con la sua mano armata: la missione Nato in Afghanistan denominata Isaf (Inteational Security Assistance).

OSAMA E TALEBANI, FANTASMI ONNIPRESENTI
Il funerale di Osama, tenutosi poche ore dopo la sua fine in un’area del Mare d’Oman, al largo delle coste pachistane, ha tolto ogni possibilità ai suoi estimatori di fare della sua morte un rischioso «cult», ma non ha chiuso del tutto sospetti, macchinazioni e teorie attorno alle ultime fasi della sua vicenda terrena, incluso il suo ruolo reale in Al Qaeda e nella galassia jihadista sparsa dal Marocco all’Indonesia. Non sarebbe servito, altrimenti, radere al suolo, nel febbraio 2012, la casa dove aveva vissuto per anni prima dell’uccisione, in un’area fortemente controllata dai servizi di sicurezza del paese. Memoria quindi scomoda anche per intelligence locale, generali e politici… da cancellare come premessa al riavvicinamento agli Usa, nonostante le morti di civili e militari colpiti dai droni a stelle e strisce.
Difficile non ricordare che l’ascesa di Bin Laden era stata in tempi non sospetti – quelli dell’invasione sovietica dell’Afghanistan e della sua successiva liberazione – «necessaria» agli Usa e ai servizi segreti pachistani, come in seguito lo è stata l’aberrazione talibana, coltivata in Pakistan per essere rilasciata oltreconfine. Fino a quando le due aberrazioni non si sono intrecciate con la crisi morale e di legittimità di buona parte dei regimi mediorientali e con i rinnovati interessi dell’Occidente, diventando un pericoloso boomerang.
Difficile ignorare che la deriva integralista in Pakistan è stata accesa dalla scelta del generale-dittatore Zia Ul Haq di creare – alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso – una legislazione gradita ai religiosi radicali (sheikh e mullah), utile a sostenee il potere mettendo però l’una contro l’altra le anime sociali, etniche e religiose del grande paese asiatico (esteso quasi tre volte l’Italia, 180 milioni di abitanti, il secondo al mondo come popolazione musulmana). Difficile infine ignorare che in tempi più recenti il generale-presidente Musharraf abbia promosso le forze armate ad arbitri della vita del paese che – dalla nascita nel 1947 – ha vissuto più anni sotto il potere dei fucili che non sotto quello del Parlamento.
Tutto ovviamente sotto lo sguardo attento e mai disinteressato dell’Occidente, opportunamente distratto per quanto riguardava gli effetti su sviluppo, diritti umani e civili, democrazia di una tale situazione. Che oltretutto coincideva con la necessità di disporre di un partner che bilanciasse la potenza indiana in stretto accordo con il gigante cinese emergente. Fino a quando la situazione intea è sembrata sfuggire di mano e il riavvicinamento tra Usa e India (e di entrambi con la Cina) ha accelerato la deriva islamista del paese. Dotato, anche questo va ricordato, di decine di testate atomiche e di vettori in grado di lanciarle, con il rischio più volte espresso dalle diplomazie, che l’arsenale possa finire in mano all’islamismo radicale oppure a gruppi terroristici. Oggi è troppo tardi, forse affinché gli anticorpi presenti nel paese possano insieme attivare una democrazia compiuta, l’indipendenza strategica e soffocare l’aggressione integralista.

PARLAMENTO FRAMMENTATO E SENZA POTERE                                
Il Pakistan resta feudale nell’intimo, con una parte non indifferente della popolazione costretta in stato di schiavitù da tradizioni o debiti, e milioni di altri cacciati – come conseguenza di conflitti locali e regionali, per catastrofe naturali e per discutibili e velleitarie scelte di sviluppo – in una vita di stenti in campi profughi. Dipendenti insieme dalla «benevolenza» delle autorità locali e dagli insufficienti aiuti inteazionali.
Nessuna delle forze parlamentari è in grado di contrastare i «poteri forti» del paese: militari, servizi segreti, establishment economico, antica aristocrazia tribale, autorità religiose.
Il «Partito del popolo pachistano», guidato dopo la morte di Benazir Bhutto dal figlio e (più concretamente) dal vedovo Asif Ali Zardari, laicista senza rinnegare l’identità islamica scolpita nella Costituzione, è oggi maggioritario in Parlamento, ma non può da solo gestire il paese. Il suo principale antagonista è la Lega musulmana (fazione Nawaz), con leader e Nawaz Sharif, islamista pragmatico senza inclinazioni all’ideale jihadista. In mezzo, come presenza parlamentare, la Lega musulmana (fazione Qaid-e-Azam) il partito dell’ex generale ed ex presidente Parvez Musharraf, ora di fatto in esilio a Londra inseguito da un mandato di arresto.
Il «Movimento di tutti i partiti democratici», di chiara ispirazione islamista, ha al centro il piccolo Pakistan Tehrik-e-Insaf, guidato dall’ex campione di cricket Imran Khan. Un partito che per la sua carica giustizialista prima ancora che religiosa, ha tra i suoi uomini di punta Iftikhar Ahmad Chaudhry, ex presidente della Corte suprema, dimissionato da Musharraf insieme ad altri 40 giudici e incarcerato. Nel suo complesso il «Movimento di tutti i partiti democratici» è fautore di un’islamizzazione moderata ma concreta. Insomma, il confronto tra musulmani radicali e liberali resta aperto.
Attoo, una galassia di partiti e di movimenti, espressione di una società civile frammentata. Verdi e comunisti sono delle presenze pressoché simboliche, ma insieme a una molteplicità di formazioni a base etnica e territoriale, come il Muttahida Qaumi Movement, che raccoglie i voti dei mohajir, danno consistenza formale all’incerta democrazia pakistana.  

L’ISLAM, LE MINORANZE, LA BLASFEMIA
La politica, nel complesso, sembra avere un ruolo oggi secondario rispetto ad antichi e nuovi potentati, al controllo dei militari, al crescente ruolo del fondamentalismo religioso. Certamente non è in grado di gestire la situazione nemmeno secondo le regole della Costituzione che segnala uguaglianza e benessere comuni per le minoranze come per la maggioranza musulmana.
Nato per dare una patria ai musulmani dell’India al tempo della separazione di quella che fino al 15 agosto 1947 era stata un’unica entità politica sotto la Corona britannica, il Pakistan ha da sempre nella fede un forte elemento identitario, sottolineato dalla sua Costituzione. Indubbiamente, però, la condizione di sottosviluppo e, in tempi più recenti, il contagio islamista di matrice qaedista e talebana dal confinante Afghanistan ha fatto del Pakistan un paese incerto tra laicità dello Stato e islamismo ma, soprattutto, un paese ostile alle sue minoranze. Cristiani perseguitati nella provincia del Punjab e nelle loro enclave assediate nel Nord e nell’Ovest del paese; induisti nel Balochistan, sikh nella provincia del Nord-Ovest e nel Punjab, ancora cristiani e indù nella megalopoli portuale di Karachi, all’estremo Sud.
Nel mirino degli integralisti sono anche movimenti e sette musulmani considerate eterodosse (se non addirittura eretiche) da islamisti che non ammettono deviazioni da una dottrina di importazione araba (da molti considerata straniera in quanto lontana dalle tradizioni islamiche locali) e insieme promuovono intolleranza e terrorismo. Oggetto di questa attenzione sono i Sufi, fautori di una mistica islamica, e gli Ahmadiya, deviazione pacifica e laboriosa dall’ortodossia che la persecuzione sembra averla nel Dna, qui come in Iran e in Indonesia.
A sua volta, lo stato pachistano continua a tollerare nel suo ordinamento giuridico la serie di provvedimenti indicati comunemente come «legge anti-blasfemia». Strumenti posti in opera dal dittatore militare Zia ul-Haq nel 1986, che la rinnovata ma fragile democrazia pachistana continua a tollerare consentendo così a un islam (che pochi sembrano volere) di dominare con la violenza prima ancora che i non-musulmani, gli stessi fratelli e sorelle nella fede.
Un esempio di come la situazione abbia influito sul Paese, la rende con chiarezza il suo cuore demografico, culturale ed economico, il Punjab.

L’ARRETRAMENTO DEL PUNJAB
Fino a pochi anni fa, il Punjab (82 milioni di abitanti sparsi su 205.344 chilometri quadrati di territorio alluvionale attraversato da imponenti corsi d’acqua e grandi vie di comunicazione), la provincia più popolosa e ricca delle quattro che compongono il Pakistan e che per un lungo tratto affianca il confine con il vicino-rivale India, è stata la vetrina di una paese possibile. Distante dal tribalismo associato a un crescente radicalismo di impronta talebana che identificava la Provincia della Frontiera del Nord-Ovest, lontana dall’arretratezza congenita del desertico Balochistan; ignorata dai problemi interetnici associati alle congregazione malavitose e a vasti potentati rurali che governano il meridionale Sindh e il suo capoluogo Karachi, la provincia sta ora esprimendo in pieno il travaglio dell’intero paese. Non a caso qui riemergono prepotenti fenomeni come il latifondismo sostenuto dal potere delle milizie private, il fondamentalismo religioso che ha fatto vittime illustri nella provincia con la maggiore popolazione cristiana (quasi due milioni i battezzati), le discriminazioni che la cultura indo-islamica (con il cuore nel capoluogo Lahore), aveva superato nel nome di una grande tradizione culturale e di una fede tollerante e dialogica.

Stefano Vecchia

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Le minoranze non islamiche
NON È UN PAESE PER CRISTIANI

La vicenda di Asia Bibi è soltanto un esempio e neppure il più drammatico. In Pakistan, molti cristiani hanno perso la vita. Alcuni erano personaggi conosciuti (come il ministro cattolico Bhatti), altri semplici cittadini la cui unica colpa era di non essere fedeli islamici.

Sono tempi duri e pericolosi per i cristiani del Pakistan. Segnati non soltanto dall’emarginazione quotidiana ma anche da molte forme di violenza e sopraffazione che hanno trovato un’eco internazionale. Senza che però la pressione delle diplomazie e della Chiesa universale in stretto contatto con i movimenti della società civile e la Chiesa locale abbiano ottenuto di cambiare la situazione in senso positivo.
Il potere politico ha mostrato come non mai la sua sudditanza all’azione degli estremisti, in parte guardati con simpatia proprio da settori della maggioranza di governo. Sequele di atti violenti hanno accentuato tensioni e diffidenza.
Il fatto che la minaccia integralista sia ora arrivata a ogni livello è dimostrato dall’assassinio il 4 gennaio 2011 di Salman Taseer, politico progressista, tra i principali esponenti del Partito del popolo pachistano e governatore della provincia del Punjab. Il 2 marzo dello stesso anno il ministro per le Minoranze, il cattolico Shahbaz Bhatti veniva ucciso all’uscita di casa. Nei due casi, gli assassini sono stati esaltati come «eroi» dagli islamisti.
Sulla stessa linea dei due uccisi, ovvero di contrarietà a un uso arbitrario e opportunista della «legge antiblasfemia» e per il predominio dello stato di diritto sulle faziosità e sugli estremismi, sempre nel 2011 l’attuale ambasciatrice di Islamabad a Washington, Sherry Rehman è stata costretta alle dimissioni dal governo e il figlio di Taseer, Shahbaz Ali, è scomparso dopo essere stato rapito il 26 agosto.
Non unico come dinamica, ma assurto a simbolo, il caso di Asia Bibi ha fatto da sfondo e da pretesto a omicidi «eccellenti» come anche alle continue pressioni degli integralisti. Asia, madre di famiglia, cattolica, condannata a morte in prima istanza nel novembre 2010 è in attesa da allora di un giudizio d’appello bloccato dalle pressioni degli integralisti e dal timore della politica e dei giudici che una sentenza di assoluzione  – probabile come hanno dimostrato analoghi casi nel passato – possa diventare il pretesto per una spallata al fragile governo di Islamabad.
Resta valida invece la visione espressa qualche tempo fa dal domenicano padre James Channan, direttore del Centro per la pace dell’arcidiocesi di Lahore: «Purtroppo, il fondamentalismo sembra oggi incontrollabile. Sembra non esserci più spazio per opinioni diverse, una situazione che va oltre ogni immaginazione e che va contro gli stessi principi essenziali della fede islamica. Gli assassinii di Salman Taseer e di Sahbaz Bhatti hanno lasciato i cristiani in uno stato di shock. Hanno reso ancora più evidente come siano poveri, oppressi e vulnerabili. Come, alla fine, siano l’immagine del Cristo sofferente».

Asia Bibi, Salman Taseer, Shabaz Bhatti: la semplice madre di famiglia cattolica, il raffinato politico musulmano e il coraggioso esponente cristiano hanno cercato a modo loro di far prevalere la ragione e il diritto in una situazione di intolleranza e fanatismo. Molti altri sono finiti sotto processo con l’accusa di oltraggio al profeta Muhammad, al Corano o alla religione islamica, alcuni hanno pagato con la vita la loro appartenenza religiosa. Associata spesso a povertà ed emarginazione che ne mettono maggiormente a rischio incolumità e onore, come nel caso delle giovani cristiane che lavorano in stato di servitù nelle case di agiati musulmani. Per non dire delle giovani rapite e stuprate o di quelle costrette alla conversione all’Islam e al matrimonio.
Alla fine anche contrasti di vicinato, antichi rancori, incomprensioni possono diventare, pur in pochi casi – se valutati sul metro delle dimensioni territoriali e demografiche del paese – ma comunque significativi e dolorosi, pretesti per accuse infamanti, detenzione ma anche azioni extragiudiziali spesso violente e letali.
A consentirlo è una visione opportunista dell’Islam che permette a un’accusa senza prove oppure palesemente falsificata diventi – se attuata da un musulmano – denuncia legale per inquirenti e magistrati sovente intimoriti, a volte conniventi, mettendo a rischio la vita degli accusati, dei loro familiari e di chi ne prende le difese.
Come sottolinea tuttavia Nadir Hassan, giornalista pachistano, «il vero avversario non è il sistema giudiziario. È necessario che la maggioranza della popolazione venga istruita, convinta che le leggi contro la blasfemia sono crudeli e anacronistiche». «Quando una società comprende che mettere a morte qualcuno per le sue opinioni e credenze religiose è fondamentalmente illiberale – prosegue Hassan -, la battaglia è già vinta. In Pakistan purtroppo, non abbiamo nemmeno iniziato ad avanzare verso questa convinzione, ma è anche vero che finora nessuna pena capitale comminata per reati di blasfemia è stata eseguita perché le più alte istanze giudiziarie, inclusa la Corte islamica federale, hanno sempre annullato i verdetti iniziali. La minaccia maggiore per la vita di quanti sono accusati di tale reato arriva da fanatici, mentre il disinteresse della polizia verso i violenti, come pure i giudizi dei tribunali di grado inferiore, alimentano il rischio di esecuzioni extragiudiziarie».

Stefano Vecchia

Stefano Vecchia




Ricostruire la comunità

Piccola storia di riscatto dal basso

Mentre un piano globale per la ricostruzione non esiste, piccole realtà locali, legate alla solidarietà, riescono a produrre cambiamento. È il caso della fondazione haitiana promossa da un missionario scalabriniano veneto. Siamo andati a trovarlo.

L’arrivo a Port-au-Prince è sempre qualcosa di emozionante e affascinante. Forse già per il nome, ma sicuramente per la storia straordinaria e terribile di questa città. E infine, per gli eventi degli ultimi anni, dal terremoto del 12 gennaio 2010 in poi. Qualcuno la voleva rasa al suolo e i suoi abitanti irrimediabilmente persi, ed è questo che i mass media del mondo intero ci hanno presentato. E invece no. Port-au-Prince, o meglio il suo popolo, resiste, sopravvive, brulica di attività di ogni genere. Dal piccolo commercio al traffico di stupefacenti, dalla costruzione di case, alla composizione di splendide poesie, alla scultura di simboli vudù sulla latta raddrizzata dei bidoni di benzina.
Una vita sempre «border line», come se tutto dovesse crollare da un momento all’altro, come se la tensione sociale dovesse far scoccare la scintilla di disordini incontenibili. Come se la terra dovesse tremare ancora.
La realtà quotidiana è il traffico caotico e incontrollato, contro il quale lottano i suoi abitanti, inventandosi scorciatornie e orari improbabili per andare e tornare dal lavoro.
La città è così ben descritta dalla corrente letteraria del «realismo meraviglioso» fondata dagli haitiani Jaques Romain e Jaques Stephen Alexis: il meraviglioso, il fantastico, qui diventa realistico, vero, cioè accade.
La cronaca di oggi ci riporta un aumento di banditismo cittadino, attacchi e uccisioni a scopo di rapina. In questo periodo è di moda l’assalto a mano armata con la motocicletta. Qualche mese fa andavano di più i rapimenti a scopo di estorsione.

Spostare i disperati
A Port-au-Prince si lavora un po’ ovunque per rimuovere le macerie con camion e ruspe e il panorama cittadino è molto cambiato negli ultimi dodici mesi. Chi ha potuto ha iniziato a ricostruire con i propri mezzi la casa crollata. Altri si sono accontentati delle costruzioni «temporanee» distribuite dalle Ong umanitarie. Ma non esiste una pianificazione complessiva.
Negli ultimi tempi le tendopoli (o «campi», come li chiamano qui) che occupavano le principali piazze e aree libere della città, a partire dalla zona dell’aeroporto internazionale per arrivare alle belle Place Saint Pierre e Place Boyer di Pétion-ville, sono state sgomberate, tornando alla quasi «normalità» precedente al terremoto.
Salendo per la strada Canapé Vert per Pétion-ville sulle pendici scoscese delle montagne che sovrastano la città, sono sempre più evidenti nuovi quartieri di semplici casette arroccate una sull’altra. Sembra quasi che aumentino, occupando i pendii verso l’alto, di giorno in giorno, in una zona totalmente esposta agli smottamenti causati dalle delle frequenti alluvioni.
Ma il grande sbocco dei disperati che hanno perso tutto durante il terremoto e che ora sono sloggiati dalle piazze e dai campi di calcio cittadini è la Plaine du cul de sac. È in questa pianura ricca d’acqua, al lato Nord della capitale, nella forbice tra la strada nazionale n. 1 verso Gonaives e la n. 3 verso Hince, che la città si sta espandendo. Nel Sud non è possibile, il comune di Carrefour è già congestionato, a Est ci sono le montagne e a Ovest il mare. A partire dal disegno politico di creare la più grande tendopoli, il Camp Corail (campo Corallo), prevista inizialmente per 9.000 persone, ora in questa vasta zona si sono «accampati» con rifugi di vario tipo e privi quasi di servizi, oltre 47.000 sfollati.
È qui, al limite del comune di Croix-de-Bouquets, che incontriamo un’interessante esperienza di reale ricostruzione dal basso.
In questi luoghi a metà degli anni Novanta padre Giuseppe Durante, della congregazione degli Scalabriniani, era stato inviato per aprire una nuova missione. Padre Giuseppe, originario di Montebelluna (Tv) veniva da esperienze di lavoro negli Usa, in Messico e poi con gli immigrati haitiani in Repubblica Dominicana.
Nella zona chiamata «Santo», padre Giuseppe aveva costruito un primo seminario per gli scalabriniani. Ad esso aveva, negli anni, aggiunto una clinica e una scuola per il quartiere.
«Subito dopo il terremoto – racconta padre Giuseppe – il nostro seminario era diventato il punto di riferimento per la gente dell’area. Con alcune persone sensibili abbiamo creato un comitato di quartiere e iniziato la distribuzione di acqua tramite autocistee. Poi abbiamo distribuito degli aiuti arrivati dagli Usa e dalla Regione Lombardia. Anche il Pam (Programma alimentare mondiale) ci ha dato dei viveri e abbiamo organizzato un magazzino. Gli alimenti in parte erano rubati all’arrivo ed era anche pericoloso distribuire quelli che restavano: si diventava obiettivo di assalti. In questo ci hanno aiutato dei gruppi giovanili, come il Kiro, presente in quasi tutte le parrocchie».
Il missionario inossidabile, con gli occhiali perennemente appannati, sembra non essere cambiato negli ultimi quindici anni.
Le attività di prima emergenza sono durate circa tre mesi, i campi da calcio del centro degli scalabriniani erano diventati delle tendopoli. Poi il parroco di Croix-de-bouquets e due laici sono andati a parlare con padre Giuseppe per proporre un’iniziativa più sul lungo periodo.
«Abbiamo pensato di creare una fondazione di diritto haitiano».
È nata così la Fondation haitienne pour le relèvement et le développement (Fhrd, Fondazione haitiana per il cambiamento e lo sviluppo) la cui missione è lo sviluppo del quartiere. Erano passati quattro mesi dal sisma. Oggi la fondazione ha un comitato di amministrazione di nove persone, tutte haitiane tranne padre Giuseppe, che ne rimane presidente, anche se preferirebbe prendee un po’ le distanze. «Come scalabriniani abbiamo sempre appoggiato la fondazione e, in un certo senso, siamo un po’ garanti dell’uso dei fondi che arrivano per le attività».

Una casa vera
La fondazione si è concentrata subito sul bisogno primario: la casa. «Volevamo aiutare la gente a rifarsi un’abitazione decente», non le baracche in compensato o plastica distribuite dalle Ong inteazionali e pagate quanto le case permanenti, che sono ormai parte dell’habitat haitiano delle zone terremotate. Un business questo che, con i soldi degli aiuti, ha favorito fabbricanti statunitensi, importatori dominicani e costruttori troppo spesso stranieri ad Haiti.
«Abbiamo realizzato dei prototipi di casette in blocchi di cemento e cemento armato, antisismiche, coperte di lamiera». Visitiamo le costruzioni non lontano dalla missione: una sala con angolo cucina, due camere decenti, un bagno: quanto basta per un’abitazione dignitosa per una famiglia. Con un primo aiuto di Caritas Italiana, Croce rossa e alcuni volontari italiani esperti in costruzioni, la fondazione ha realizzato il primo «villaggio» di 18 casette recintate da un muro di protezione: il «villaggio Colombe», inaugurato il 29 novembre 2011.
«È stato il primo quartiere permanente costruito a Port-au-Prince e ha suscitato molto interesse». Continua padre Giuseppe. «Inizialmente è stato difficile avere dei fondi, ma quando i finanziatori hanno constatato che siamo in grado di realizzare quanto promesso, si sono presentati in molti».

Cooperativa di inquilini
La novità, oltre alla costruzione semplice ma funzionale e accogliente, è il concetto di «comunità integrale» che la Fondazione vuole realizzare. «La Fondazione è responsabile della costruzione e della gestione del villaggio. Le famiglie beneficiarie, scelte su una lista di coloro che, nella zona, hanno perso tutto e sono più bisognose, si costituiscono in cornoperativa di residenti. La cornoperativa elegge tra i membri un responsabile di villaggio. Per Colombe è una signorina molto in gamba. La Fondazione nomina una persona che si occupa di quel villaggio. Le due figure collaborano per dirimere i conflitti e rispondere alle necessità che possono sorgere. Sono responsabili di quello che succede. Abbiamo sperimentato che con questo sistema c’è molta partecipazione».
Le case poi, se tutto funziona, sono riscattate dagli inquilini: «Un’abitazione ci costa circa 10.000 dollari (7.700 euro, ndr.) escluso il costo della terra: ottimo prezzo per Haiti». La Fondazione produce i propri blocchi di cemento (è questo il mattone di base usato sull’isola) e può contare, in parte, su lavoro volontario. «Ogni famiglia paga un “affitto” di 400 dollari all’anno e in 10 anni la casa diventa di sua proprietà». Un contratto è stipulato tra gli inquilini e la Fondazione, con il quale i primi accettano anche le regole per abitare nel villaggio, una sorta di regolamento condominiale. «La terra, invece resta della Fondazione, perché vogliamo avere sempre la possibilità di un certo controllo su quanto succede nel villaggio. Altrimenti il rischio è che costruiscano altre strutture in modo disordinato o vendano la casa. Se vogliono uscire dal progetto la Fondazione rifonde quanto hanno pagato fino a quel momento. È una garanzia della durata, ovvero che le case non siano vendute, saccheggiate, danneggiate». Il villaggio ha acqua corrente potabile (il che è un lusso a Port-au-Prince) ed elettricità. Gli inquilini devono essere in grado di pagare i consumi. 
«Abbiamo una lista con centinaia di domande» ricorda il missionario. E i finanziatori, visto il successo del villaggio Colombe, si sono fatti avanti.
Un secondo villaggio di 28 case è in costruzione, mentre sono previsti altri due villaggi di 70 e 80 abitazioni. «Anche la Croce rossa italiana ha chiesto alla Fondazione di costruire il proprio villaggio di 200 case!». E qui si pone un problema: perché si rischia di superare le forze della Fhrd per soddisfare tutte le richieste. E questo ha aperto una riflessione intea. 

Dalla casa alla comunità
«La Caritas italiana all’inizio ci ha dato il costo di 10 case, e volevamo farle dove la gente ha perso la propria per causa del terremoto. Ma c’era il problema della proprietà della terra, che qui non è mai certa. Inoltre c’erano i dubbi legati al trasporto del materiale da costruzione in diversi quartieri, con il rischio elevato che venisse rubato. Allora io ho proposto di fare le case raggruppate, in un cantiere unico, recintato, protetto. Su una terra acquistata con documenti sicuri. È stata una scelta indovinata: abbiamo comprato la terra qui, e la gente che era nelle tende è venuta ad abitarci».
E intorno si sviluppa il concetto di comunità: «Dare la casa, e poi? È nata l’idea che i bambini potessero usufruire della scuola e della clinica. Abbiamo anche chiesto alla Croce Rossa che potesse fare un centro giochi, biblioteca, sala computer, campo sportivo. È nato un “villaggio urbano”. Inoltre un gruppo di suore brasiliane stanno impostando con la gente un progetto di “economia solidale”: hanno iniziato diversi corsi e vogliono puntare su orti e allevamento di piccoli animali.
L’idea è dunque passata dalla costruzione della casa alla costruzione della comunità, con assistente sociale, servizi, protezione. Un’idea che ha avuto molto successo: c’è sicurezza, continuità». Il padre è umile e dalle sue parole non traspare neppure un filo di vanità per queste realizzazioni, che localmente, stanno dando ottimi risultati.

Lavoro e dignità
Un altro aspetto fondamentale sta contribuendo a migliorare le condizioni di vita a Santo: «Si è creato lavoro: abbiamo 130 operai, nella costruzione, nella fabbricazione dei mattoni, e cucine. È diventata fonte reddito. La relazione con la comunità è molto buona».
Questi ultimi sono i «progetti produttivi» che padre Giuseppe elenca con orgoglio, pur non nascondendo le difficoltà: «La Fondazione ha realizzato anche un panificio che oltre a impiegare personale, contribuisce al reddito delle famiglie attraverso le madri che vendono in giro i sacchetti di pane. E qui famiglia vuol soprattutto dire mamma con figli, perché gli uomini sono latitanti. Talvolta, in una giornata, una madre riesce a guadagnare anche più di un operaio. Per il futuro stiamo realizzando una fabbrica di pasta e una cucina industriale».
L’Agenzia scalabriniana per la cooperazione allo sviluppo onlus (www.ascs.it) di Milano, appoggia il progetto con volontari e cooperanti di lungo periodo, come Mirco Camilletti, che da oltre un anno è impegnato sul terreno. «Ci hanno anche messi in contatto con industriali milanesi, i quali ci mandano queste macchine che utilizziamo per il panificio».
Un importante aiuto per la costruzione dei villaggi e la formazione lo stanno dando i volontari «storici». Sono amici di padre Giuseppe e professionisti di Montebelluna che da 16 anni vengono a passare alcuni mesi a Santo, mettendo a disposizione le loro competenze e formando giovani haitiani: Martino, Bruno, Tarcisio, Antonio, Florio, Diego, Giuseppe.
Lasciato il villaggio Colombe, a poca distanza siamo in un cantiere dove file di casette sono in costruzione. Sarà il villaggio «Montebelluna – Bassano». Qui diverse squadre sono al lavoro e l’attività è frenetica: chi prepara il cemento, chi intonaca, chi monta le strutture.
«La gente ci differenzia dalle Ong. Qui la persona religiosa, nell’immaginario popolare, è molto importante. Per questo godiamo di un certo prestigio, ci fanno le confidenze, soprattutto come missionari. Anche perché sanno che non facciamo i nostri interessi». E conclude: «Questa relazione con la gente mi ha dato delle soddisfazioni personali, inoltre stiamo rispondendo ai bisogni reali. Per questo io mi sento bene».

Marco Bello


Marco Bello




L’ombra dei Ton Ton Macoute

Tra corruzione, paramilitari e assenza del governo

«Sono stati fatti dei passi avanti, ma siamo preoccupati perché ci sono molti segni di ante 1986». Suzy Castor, storica, politica e attivista dei diritti umani, ricorda l’anno in cui fu rovesciato Duvalier, ma non sconfitto il duvalierismo.
«La transizione è lunga (dalla dittatura alla democrazia, ndr.), ma le conquiste democratiche, pur essendo solide, non sono irreversibili. Affinché lo siano occorrerebbero istituzioni forti, partiti politici forti e società civile forte». Nulla di questo è una realtà nell’Haiti di oggi, dove si assiste invece a «una de-istituzionalizzazione del paese» ricorda Castor.
Si riferisce, tra l’altro, a un fenomeno allarmante apparso a inizio 2012: la nascita di un sedicente movimento degli ex militari delle Forze Armate d’Haiti (Fadh), smantellate dal presidente Aristide all’inizio del 1995.
Negli ultimi mesi uomini in uniforme, armati e foiti di camionette hanno occupato edifici pubblici e strutture della polizia. A partire dalla loro base principale a Carrefour, comune nei pressi di Port-au-Prince, si sono poi mostrati in diverse località del paese. Il 17 aprile hanno fatto irruzione nel cortile della Camera dei deputati, dove una sessione era in corso, con lo scopo – sostenevano – di presentare le loro rimostranze per la rifondazione dell’esercito. Il presidente della camera, Lévaillant Louis Jeaune, ha subito sospeso i lavori.
Di fatto, molti di questi uomini sono giovani e non possono quindi essere ex militari. Si tratta di una forza paramilitare, di miliziani che non sono per nulla, o quasi, ostacolati dalle istituzioni.
«L’esercito è contemplato dalla Costituzione – ricorda Suzy Castor – e gli ex militari hanno sempre cercato di ricrearlo. Oggi il clima è loro favorevole, in quanto il presidente Martelly ha fatto della rifondazione delle Fadh uno dei suoi punti del programma di governo».
L’intervento in parlamento è stato condannato ufficialmente dal portavoce della presidenza e dal governo, ma di fatto poche azioni sono state intraprese.

Ma dove sono finiti i fondi governativi per la ricostruzione? «Credo che la ricostruzione sia partita male dall’inizio; l’organismo creato a tal fine non era adeguato». Il regista Aold Antonin parla della Commissione ad interim per la ricostruzione di Haiti, il cui mandato è cessato il 15 ottobre scorso e non è stato rinnovato. «Occorreva togliere la ricostruzione dall’influenza delle lotte di potere haitiane e dal clientelismo. Doveva essere un organismo nazionale, non straniero. Ma soprattutto fare contratti da 10 milioni di dollari senza gara d’appalto è stata una enorme fonte di corruzione».
Degli 11 miliardi promessi dai donatori ufficiali, ne sono stati versati 3,5. Poi tutto è stato bloccato. Nessun impatto si è visto, nessuna pianificazione generale, «nessun piano di sistemazione del territorio – continua Antonin – o di intervento nelle altre città per decentrare i servizi».
Riassume in modo sintetico padre William Smarth, 81 anni e colonna morale del paese: «Grande delusione: no ricostruzione, no decentramento, no lavoro. Si continua ad attirare gente in capitale».

Intanto la politica haitiana è di nuovo bloccata. Il presidente–cantante Michel Martelly è riuscito a ottenere le dimissioni del suo primo ministro Garry Conille il 27 febbraio scorso. Conille spingeva affinché si risolvesse la questione della nazionalità del presidente (la Costituzione haitiana prevede che non possa avee altre, mentre Martelly è sotto inchiesta per sospetto di avere nazionalità statunitense e italiana). Soprattutto aveva creato una commissione di verifica per i lavori da 300 milioni di dollari per la ricostruzione che sotto l’amministrazione congiunta Bellerive (precedente premier) – Martelly erano «scomparsi» nella Repubblica Dominicana.
Il nuovo primo ministro designato, Laurent Lamothe, uomo d’affari e attuale ministro degli esteri, è (al momento in cui si scrive) nel processo di ratificazione in parlamento.
Il blocco degli aiuti governativi (da notare che si tratta di un canale diverso da quelli raccolti nei vari paesi del mondo e poi utilizzati da missionari ed Ong) è quindi in gran parte dovuta all’incertezza politica che regna nel paese, alla mancanza di un organismo di gestione e controllo e, non ultimo, all’attuale assenza di un governo con pieni poteri.

Marco Bello

Marco Bello




Il folle dell’Africa centrale

Sulle tracce di Joseph Kony

C’è qualcuno che neppure i satelliti della Cia riescono a scovare. È ricercato dalla Cpi. Ma riesce sempre a farla franca.
Si nasconde in Uganda, Sudan, Congo, Centrafrica. Joseph Kony pare inarrestabile. Da oltre vent’anni imperversa col suo folle esercito nel cuore dell’Africa, senza che nessuno riesca a fermarlo. A dispetto dei video propagandistici di sedicenti Ong Usa.

Lo ricordate? Il «pazzo visionario» fondatore del Lord’s Resistence Army, l’Esercito di Resistenza del Signore (Lra), che nei territori acholi del Nord dell’Uganda per vent’anni ha seminato il panico, soprattutto a causa dei rapimenti di bambini che venivano forzati ad arruolarsi e trasformati in belve sanguinarie. E delle bambine usate come schiave, anche sessuali.
Il proposito iniziale era quello di trasformare l’Uganda in una teocrazia basata sui dieci comandamenti, con uno strano mix di fondamentalismo cristiano vetero-testamentarista, nazionalismo acholi e misticismo tradizionale: da sempre, Kony dice di essere in contatto diretto con Dio, di parlare con gli spiriti, di ricevere istruzioni direttamente dallo Spirito Santo, di aver il dono delle lingue, della telepatia e di chissà quanto altro. Attoo a sé ha creato un’aura di paura e venerazione e ai suoi seguaci / soldati impartisce strette regole rituali, come quella di farsi il segno della croce prima di combattere, per evitare di essere uccisi, o di disegnare una croce sul petto e sul fucile con olio benedetto, segno della potenza dello Spirito Santo.
Per giustificare la follia omicida e la crudeltà delle azioni imposte ai suoi, asseriva che il popolo acholi andava purificato e continuava a fare un distorto riferimento alle Scritture. Di fatto, Joseph Kony è accusato di aver rapito tra i 60 e i 100 mila bambini e di aver causato due milioni di sfollati interni dal 1986.

Gli anni più recenti
Dopo una prima fase in cui le sue azioni erano state sostenute dal Sudan in funzione anti-Museveni (il presidente ugandese era infatti accusato di appoggiare i ribelli sud sudanesi), nel 2002 l’Lra è stato cacciato dalle forze ugandesi e si è spostato oltre confine, prima in Sud Sudan, poi in Repubblica Democratica del Congo, continuando le sue scorribande. Per tutto questo, il 6 ottobre 2005 la Corte Penale Internazionale dell’Aja (Cpi) ha spiccato un mandato di cattura per crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi in Uganda tra il 2002 e il 2004 nei confronti suoi e di altri quattro leader del movimento: il suo vice Vincent Otti e i comandanti Dominic Ongwen e Okot Odhiambo, oltre a Raska Lukwiya (ucciso dall’esercito ugandese il 12 agosto 2006).
Nel 2008, erano state avviate delle trattative per giungere a un accordo di pace con il governo ugandese, ma all’ultimo momento Kony si è tirato indietro, dopo aver posto come condizione (ovviamente irricevibile) il ritiro di tutte le accuse a suo carico presso la Corte Penale Internazionale. Era stato proprio all’inizio delle trattative che per la prima volta dopo tempo immemorabile Kony aveva rotto il silenzio e rilasciato un’intervista in video, dal suo nascondiglio nelle foreste del Congo nordoccidentale. Circondato da alcuni dei suoi uomini pesantemente armati, aveva ripetuto di non essere il mostro che tutti pensavano: «Mi lasci dire chiaramente cosa accadeva in Uganda – dichiarò nell’intervista –. Museveni andava nei villaggi e tagliava le orecchie alla gente, dicendo loro che era opera dell’Lra. Io non posso tagliare le orecchie di mio fratello, io non posso strappare l’occhio di mio fratello». È stato durante le trattative che è morto Vincent Otti, braccio destro di Kony, che sembrava voler portare a termine il processo di pace: secondo molti, fu ucciso proprio per questo, su ordine di Kony.
Dopo la fine delle trattative, l’Lra ha portato a termine una delle ultime «azioni» su larga scala, il massacro del giorno di Natale del 2008. In quel giorno e nelle tre settimane seguenti, Kony e i suoi hanno colpito a morte oltre 800 persone e rapite altre centinaia nel Congo nordorientale e in Sud Sudan.

L’Lra oggi
Oggi i ribelli continuano a imperversare nella zona al confine tra il Sud-Est della Repubblica Centrafricana (Rca) e il Nord-Est della Rd Congo, nel distretto dell’Haut-Uélé (provincia dell’Ituri), vivendo in luoghi semidisabitati da cui di volta in volta partono per assalire i villaggi, depredando, uccidendo e continuando a rapire civili. Negli ultimi rapporti dell’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, si parla di due morti e tredici rapiti in attacchi portati avanti tra il 6 e il 25 marzo scorsi nel territorio di Dungu (Rdc), altri a Bondo, alla frontiera con la Rca, nel cui territorio sono state uccise quattro persone e rapite altre 31, nel corso di otto attacchi alle città di Zemio e Mbocki. A Obo, da ottobre sono presenti truppe statunitensi a sostegno di quelle centrafricane e ugandesi.
Una delle ultime denunce viene da Human Rights Watch (Hrw): secondo l’Ong, il Lord’s Resistance Army dall’inizio del 2012 ha intensificato gli attacchi in Repubblica Centrafricana, mettendo in seria pericolo i civili delle aree colpite. Gli attacchi continuano anche nel Congo democratico. Hrw parla di oltre 400 mila sfollati, di cui almeno 2 mila solo in questo inizio del 2012, che vivono tutti nel terrore del prossimo attacco. Tra gennaio e marzo, l’Ong conta almeno 53 nuovi attacchi tra i due paesi, con il sequestro di 90 civili e l’uccisione di nove. Secondo la ricercatrice di Hrw Anneke Van Woudenberg, «l’aumento degli attacchi dell’Lra dimostra che il gruppo ribelle non è una forza esaurita e rimane una seria minaccia per i civili. L’Unione Africana, le Nazioni Unite e i governi della regione dovrebbero intraprendere passi urgenti per implementare le misure di protezione dei civili e metterci la reale volontà di renderle operative».

Voci dal terreno
Hrw ha compiuto una missione sul campo tra marzo e aprile 2012, intervistando 23 tra vittime e testimoni degli attacchi, oltre ai leader locali, alla società civile e ai rappresentanti delle autorità centrafricane. «Era il 27 febbraio – raccontano ad esempio due sorelle di 43 e 62 anni di Agoumar –, eravamo andate a pescare e tre miliziani ci hanno rapite. Ci hanno obbligate a trasportare miele, arachidi e pesanti sacchi di farina appena saccheggiati lì vicino. Abbiamo camminato tre giorni e tre notti senza fermarci. Ci hanno picchiate selvaggiamente e quando mia sorella si è seriamente ammalata, dopo la terza notte, hanno deciso di lasciarci andare. Ma i nostri fratelli e nipoti, rapiti lo stesso giorno, ancora mancano all’appello e temiamo possano esser stati uccisi».
Nell’area attorno a Ngouyo, villaggio a 30 km a sud di Djema, l’Lra ha portato 12 attacchi in due anni, tra cui due nel dicembre 2011 e tre nel marzo 2012. Ma a Ngouyo sono di stanza solo due soldati delle forze armate centrafricane, a cui, dopo gli attacchi di dicembre, l’esercito ugandese ha aggiungo altri suoi militari: gli abitanti temono però che se ne vadano presto, lasciandoli alla mercé di Kony.
«Per noi è molto difficile coltivare i campi e ora la gente soffre la fame – dice un leader locale -. Da quando sono iniziati gli attacchi, andiamo nei campi solo in gruppo e solo a quelli che si trovano a meno di 5 km dal villaggio. Ma dopo gli attacchi di marzo, nessuno si è più azzardato a lasciare il villaggio». A Ngouyo non c’è rete telefonica o comunicazione radio, così la gente non ha modo di avvertire degli attacchi. L’8 marzo, miliziani dell’Lra hanno attaccato un gruppo di sette persone che erano andate a pescare al fiume Ouara, a 15 km dal villaggio. «Hanno detto a mio figlio di 29 anni di sdraiarsi a terra – racconta un’anziana – e gli hanno legato le mani dietro la schiena. Hanno saccheggiato tutti i nostri averi e se ne sono andati portandolo con sé. Quando ho gridato per protestare, mi hanno ferita al braccio con una baionetta».
Un’altra testimonianza interessante e inquietante, raccolta da Irin News, viene invece da Limayi, Rdc: un uomo, rapito e poi rilasciato, ha raccontato che i miliziani di Kony avrebbero ora divise e fucili nuovi. E le divise sono quelle delle Fardc, le forze armate regolari congolesi.

Ma Kony dov’è ?
L’esercito ugandese sospetta che Joseph Kony si nasconda nella regione sudanese del Darfur, con 100 – 150 tra combattenti, membri della famiglia e bimbi e adulti rapiti. Sempre secondo le autorità ugandesi, Dominic Ongwen e Okot Odhiambo si nasconderebbero nelle foreste inaccessibili attorno ai fiumi Vovodo e Chinko in Centrafrica, con un centinaio di ribelli divisi in piccoli gruppi ed un numero imprecisato di sequestrati. Il colonnello Binansio Okumu (noto come Binany) e un altro comandante dell’Lra conosciuto col nome di Obol si pensa possano nascondersi in Congo, nei pressi del Parco Nazionale di Garamba, dove prima era stanziato l’Lra. Questi comandanti sono i responsabili del massacro di Makombo del Natale 2009, che causò 345 civili uccisi e oltre 250 rapiti.
Tuttavia, secondo gli Stati Uniti, Kony si troverebbe in Centrafrica. Sta di fatto che negli ultimi mesi l’Lra ha operato soprattutto in piccoli gruppi. Chi riesce a scappare racconta che Kony e gli altri leader hanno probabilmente dato istruzioni ai ribelli di limitarsi a saccheggiare quando finiscono le provviste, ma di evitare massacri su larga scala per tenere la loro posizione nascosta alle forze armate che danno loro la caccia.
In questa regione del Centrafrica operano altri gruppi armati e banditi, che aumentano l’insicurezza e a volte rendono difficile per i locali identificare chi li sta attaccando. Ad esempio, dall’inizio del 2012, il Front Populaire Pour le Redressement, Fpr, un gruppo ribelle del Ciad guidato da Baba Laddé e precedentemente di stanza nel Nord della Rca, secondo le autorità locali si sarebbe spostato a Sud, verso le zone in cui si muove anche l’Lra.
Poche tuttavia le misure per proteggere i civili: solamente un centinaio di soldati centrafricani sono dispiegati nella vasta regione orientale, in molte città ci sono solo da due a cinque soldati mal equipaggiati e con scarsi mezzi di comunicazione e di trasporto, mentre altri villaggi e città non hanno affatto soldati.
A questi si aggiungono 600 – 800 unità dispiegate in Centrafrica dall’esercito ugandese, come parte delle operazioni congiunte contro l’Lra, ma poche si trovano nelle aree abitate per proteggere i civili e sono piuttosto concentrate sulla cattura dei capi del gruppo ribelle.

Il ruolo degli Usa
Dopo l’11 settembre, Washington ha incluso l’Lra tra le organizzazioni terroristiche straniere. Il 28 agosto 2008, Kony è stato incluso nella lista dei terroristi più pericolosi del mondo. Già George W. Bush, nel novembre 2008, aveva personalmente deciso il sostegno finanziario e logistico, con l’invio di diciassette analisti militari per sostenere l’esercito ugandese nella caccia al criminale.
Meno visibile e a ranghi ridotti, l’Lra non ha però smesso di essere pericoloso. E così, nell’ottobre 2011, Barack Obama ha aumentato a 100 le truppe inviate in supporto alle operazioni: stavolta si tratta di forze equipaggiate per combattere, anche se autorizzate a farlo «solo in caso di autodifesa». A ciò va aggiunto l’invio di un Us C-12, un aereo da ricognizione che aiuta nella raccolta dati e nelle operazioni di intelligence.
In Centrafrica, i consiglieri Usa sono di stanza a Djema e Obo: ciò ha aiutato a migliorare le relazioni tra civili e militari, il cornordinamento tra gli eserciti dei vari paesi e la condotta dei soldati ugandesi, che in precedenza erano stati accusati di ubriachezza molesta e di alcuni casi di violenza sessuale. Tuttavia, il Dipartimento di Stato americano ha negato l’autorizzazione ai suoi di muoversi fuori dalle città dove sono distaccati.
Le Nazioni Unite hanno una missione di peacebuilding in Centrafrica, chiamata Binuca, che a dicembre ha ricevuto mandato dal Consiglio di Sicurezza di far rapporto sugli attacchi dell’Lra e di supportare il disarmo dei combattenti. Ma da allora, ancora nessuno del personale della Binuca è stato stanziato nelle zone affette dall’Lra.
In marzo, l’Unione Africana ha annunciato una iniziativa di cooperazione regionale per implementare gli sforzi per combattere Kony, incluso il dispiegamento di 5 mila membri della task force regionale con soldati ugandesi, congolesi, centrafricani e sud sudanesi, la maggior parte dei quali sono già dispiegati nella regione. L’Unione Europea e altri finanziatori si sono detti disposti a sostenere l’iniziativa. Ma non è ancora chiaro se le forze militari che stanno conducendo ora le operazioni contro l’Lra passeranno il testimone a una nuova struttura di comando o se invece hanno la capacità di dispiegare le truppe necessarie per proteggere adeguatamente i civili.
Due operazioni militari – Iron Fist nel 2002 e Lightning Thunder nel 2008 – erano già state condotte congiuntamente tra Congo, Sudan e Uganda, ma senza esito alcuno. Tensioni tra gli eserciti congolese e ugandese avevano ostacolato le operazioni e, alla fine del 2011, prima delle elezioni congolesi, il governo della Rdc aveva ordinato ai soldati ugandesi di lasciare il Congo e non hanno ancora avuto il permesso di tornare.
Il 23 aprile scorso, forse anche sull’onda del grande e discusso successo del video «Kony 2012» che ha imperversato in rete, il presidente Usa Barack Obama ha annunciato che i consiglieri militari americani proseguiranno la loro missione in Africa centrale per aiutare nella caccia a Kony: «I nostri uomini continueranno gli sforzi per trascinare Kony davanti alla giustizia e salvare delle vite» ha dichiarato il presidente in un discorso tenuto al museo del memoriale dell’olocausto a Washington. «Ciò fa parte della nostra strategia regionale per mettere fine al flagello rappresentato dall’Lra e per aiutare a costruire un futuro nel quale nessun bambino africano sarà più sottratto alla sua famiglia, nessuna bambina violentata, nessun ragazzo trasformato in soldato».

Giusy Baioni


Giusy Baioni