Africa da «pazzi»

Medici di frontiera (1): Renzo de Stefani e «Le parole ritrovate»

Un movimento nato a Trento lotta contro la discriminazione dei malati di mente.
Organizza imprese impensabili in giro per il mondo. E promuove il «fareassieme», malati, familiari, operatori. In Kenya il gruppo scopre l’ospitalità e la gioia di vivere degli africani.

La traversata dell’Atlantico in barca a vela, il viaggio in treno da Venezia a Pechino sulle orme di Marco Polo, il coast to coast degli Stati Uniti da Boston a Los Angeles, la spedizione in Kenya per far nascere una scuola. A compiere tutte queste imprese, in pochi anni, non è stata una comitiva di turisti avventurosi, ma un gruppo di malati mentali impegnati a dimostrare che anche i «pazzi» possono vivere una vita normale e contribuire a migliorare il mondo.

Una psichiatria «democratica»
Tutto è cominciato nel 2006 su iniziativa di Renzo De Stefani, direttore del Dipartimento di salute mentale di Trento e fondatore de Le Parole Ritrovate (Pr): un movimento, diffuso in una quindicina di regioni italiane, che promuove il «fareassieme» (scritto attaccato). «La nostra filosofia consiste nel coinvolgere i pazienti e i loro familiari nei percorsi terapeutici e di reinserimento, rendendoli protagonisti alla pari degli operatori sanitari» spiega lo psichiatra. «Tutto questo in collaborazione con volontari o semplici cittadini interessati a dare una mano e a combattere i pregiudizi che, a oltre 30 anni dalla chiusura dei manicomi, continuano ad abbattersi sui malati di mente». Proprio per lottare contro lo stigma, De Stefani e Le Parole Ritrovate hanno dato vita a una serie di iniziative «extra-ordinarie» in giro per il mondo, in cui gruppi misti di utenti, familiari e operatori si sono messi alla prova, confrontandosi con altre realtà e favorendo la diffusione di una psichiatria più «democratica».
A Pechino ad esempio, grazie a un finanziamento della Provincia di Trento, hanno contribuito all’apertura del primo centro di salute mentale alternativo ai manicomi (che in Cina danno ricovero a circa 18 milioni di persone). Mentre negli Usa, presso la Veteran administration, hanno incontrato i reduci delle guerre degli ultimi 60 anni, alle prese con gravi conseguenze psichiatriche, per confrontarsi sul «fareassieme» e sulle pratiche di «auto-mutuo-aiuto».
«Ma l’esperienza africana, avviata nel 2009, ha un valore aggiunto rispetto a tutti gli altri viaggi che abbiamo intrapreso», dice De Stefani, «perché per la prima volta si è dato un contributo concreto alla vita delle popolazioni locali, attraverso la creazione di una scuola a Muyeye, in Kenya».

Turisti sui generis
Muyeye è un villaggio di polvere rossa a 15 km da Malindi, abitato da 10.000 persone che vivono in misere capanne di fango e paglia. «La scelta del Kenya è venuta un po’ per caso», spiega De Stefani, «il nostro obiettivo era fare qualcosa in aiuto alla cooperazione internazionale, e all’inizio ci eravamo rivolti all’Amref di Roma che aveva accolto con entusiasmo la nostra idea. Poi però i loro referenti in loco hanno avuto timore che un’«invasione» di 200-300 persone, per la maggior parte malati psichici, potesse portare scompiglio nelle loro attività, e abbiamo dovuto rinunciare a questa collaborazione». Alla fine il progetto è stato realizzato insieme a Itake, una piccola associazione di Frosinone specializzata nel sostegno scolastico a distanza, che aveva già alcuni contatti nella zona di Malindi. «Dalla fine del 2009, sono andati in Kenya a più riprese una decina di gruppi “misti” (malati e non) de Le Parole Ritrovate, provenienti da varie regioni italiane, per incontrarsi con la gente del posto, capire quali erano i principali bisogni e monitorare l’avanzamento dei lavori di costruzione della scuola» racconta Mario Stolf, che ha accompagnato come volontario alcuni gruppi partiti da Trento. Mario, che lavora nell’accoglienza agli immigrati, in passato era già stato in Kenya per conto dell’Ong Accri, lavorando in collaborazione con la diocesi di Nairobi e la parrocchia dei comboniani di Alex Zanotelli nella baraccopoli di Korogocho. «Perciò conoscevo già il territorio e la lingua locale, lo swahili. Prima del viaggio ho cercato di preparare i ragazzi, dando qualche informazione sul paese e qualche regola di comportamento, per evitare che agissero come i classici turisti mordi e fuggi, che fanno più danno che bene».
In effetti la presenza dei ragazzi delle Pr – documentata anche nel film «Muyeye» di Sergio Damiani e Juliane Biasi, selezionato tra i migliori documentari del 2011 da Rai Doc3 – è stata un’esperienza del tutto nuova per gli abitanti del villaggio. «Di solito i turisti arrivano da Malindi su pulmini da cui non scendono nemmeno per scattare le foto: si limitano a tirar giù i finestrini e lanciare ai ragazzini soldi e caramelle, per poi tornare subito in albergo o in spiaggia» racconta Mario Stolf. «I nostri ragazzi invece trascorrevano tutto il giorno con gli abitanti di Muyeye», dice De Stefani, «condividendo i pasti e dedicando molto tempo a parlare per conoscersi e scambiarsi esperienze a vicenda, con la traduzione simultanea di Mario».

Così diversi così uguali
Soprattutto i ragazzi e i loro familiari hanno cercato di raccontare e spiegare agli abitanti del villaggio le proprie esperienze di sofferenza e malattia. «Non è stato sempre facile» racconta il regista Sergio Damiani, «ricordo ad esempio quando Ugo, un ragazzo affetto da disturbi ossessivi e molto ansioso, ha raccontato che in passato aveva tentato di suicidarsi. La gente di Muyeye non riusciva a capire… come si può desiderare la morte quando si hanno i vestiti e la pancia piena?». In effetti per gli africani il concetto di morte volontaria è abbastanza incomprensibile: basti pensare che da nessun paese del continente arrivano all’Organizzazione Mondiale della Sanità dati statistici sui casi di suicidio, che in realtà sono molto rari e limitati alle grandi città, dov’è più forte l’imitazione dei modelli occidentali. «Tuttavia non sono mancati momenti di condivisione molto forti ed emozionanti – continua Damiani – in particolare quando il nostro gruppo ha incontrato la famiglia di Nebat Jumba, uno spaccatore di pietre. La sua prima moglie Riziki, dopo aver dato alla luce quattro figli, è uscita di senno, ha iniziato ad avere allucinazioni e sentire le voci, e lui ha dovuto rimandarla dai suoceri, affidando i bimbi alla seconda moglie». Tra i ragazzi italiani e questa famiglia si è creato un legame stretto, e adesso il gruppo di Trento continua a spedire a Riziki, ogni due mesi, alcuni farmaci. «Attraverso Riziki abbiamo conosciuto meglio la realtà della salute mentale in Kenya», dice De Stefani. «I malati meno gravi sono ben tollerati dalla comunità, ma se il wazimu, il matto, diventa aggressivo viene chiuso in casa, tenuto alla catena o spedito al manicomio di Mombasa». A Malindi c’è un ambulatorio dove le persone possono andare una volta al mese a prendere dei farmaci, soprattutto antipsicotici; ma non esiste nessun tipo di assistenza a domicilio. «Inoltre gli interventi farmacologici o di contenzione convivono pacificamente con i riti animistici. Di tanto in tanto, com’è accaduto anche per Riziki, si sgozza un agnello o un capretto, sperando che lo “spirito cattivo” abbandoni la persona. Quanto alla psicoterapia, non sanno cosa significhi».

Non terapie, ma botte di vita!
L’incontro tra le due realtà di esclusi – i bianchi matti e i neri poveri – è stata per molti partecipanti al viaggio una «rivelazione».
«Ho scoperto che l’Africa non è come ce la fanno vedere nelle pubblicità, un’Africa triste, ma invece è piena di gioia e colori» dice Egidio di Bologna. «Loro, pur nel bisogno, vivono molto più semplicemente e autenticamente di noi» dice Gilberto di Modena. Enzo di Trento è rimasto colpito da tre cose: «Il caldo, l’acqua non potabile, la miseria. Nel villaggio avevano 10 noci di cocco con 3.000 bambini: è significativo che quelle noci le abbiano date a noi». «A me dell’Africa hanno colpito la sporcizia, i bambini e la tanta voglia di vivere» osserva invece Umberto di Sondrio. E Mirella di Trento aggiunge: «Ricordo le case con le candele accese, il mangiare con le mani tutti assieme. Io ceno con forchetta, coltello e tovagliolo, ma sicuramente la solitudine come la sentiamo noi in un condominio, là non la sentono».
Ma oltre alla scoperta di «un’altra Africa», più autentica, più dignitosa e solare, un’esperienza come quella di Muyeye può avere un valore terapeutico per le persone affette da patologie mentali? «Non facciamoci illusioni – avverte il dottor De Stefani – questi viaggi non hanno un potere taumaturgico! Per alcuni non è cambiato un bel nulla; qualcuno, vedendo le condizioni di vita di Muyeye, si è depresso ancora di più; per qualcun altro invece il viaggio è stato la grande occasione della sua vita… In generale queste esperienze sono una botta di vita per i ragazzi. Tenete conto che i malati psichici raramente fanno una vita molto attiva: queste avventure sono un modo per dirsi «anch’io posso fare cose positive e interessanti, anch’io posso vivere», e questo crea benessere. Anche perché tutte queste dinamiche le viviamo in gruppo, stando insieme, condividendo ogni momento, rompendo l’isolamento». Inoltre, come spiega Anna di Bologna: «Andando in Africa le differenze si annullano. Noi bianchi eravamo diversi ai loro occhi, e proprio questo ha portato un senso di uguaglianza nel nostro gruppo facendoci vivere una dimensione di normalità. Eravamo così, diversi per il colore della pelle, ma paradossalmente tutti uguali, non c’erano più sani e malati…».

Una scuola per dare futuro
I ragazzi delle Pr, pur non partecipando direttamente alla costruzione della scuola di Muyeye, si sono mobilitati per una raccolta fondi in tutta Italia. Dalla vendita di mattoncini, cartoline e segnalibri dipinti a mano, alla realizzazione di spettacoli e concerti, ognuno ci ha messo del suo e alla fine si sono raccolti 60.000 euro che – con l’aggiunta di una cifra uguale messa dall’associazione Itake – hanno permesso di edificare la scuola, «tutta costruita manualmente, perché la manodopera costa meno dei mezzi meccanici» spiega Egidio di Bologna.
La scelta è ricaduta su una scuola professionale perché in Kenya, spiega Mario Stolf, «dopo la scuola primaria di otto anni, obbligatoria e gratuita, gli istituti secondari e professionali sono a pagamento, e solo una ristretta élite può permetterseli; mentre i figli dei poveri (la maggior parte) vanno a lavorare nel settore del turismo, fanno i beach boys o finiscono in giri poco puliti».
La scuola di Muyeye, inaugurata ufficialmente a inizio 2011, offre una sessantina di corsi di meccanica, elettronica, informatica, edilizia, sartoria, ecc. Senza contare i corsi di italiano, visto che a Malindi non solo i turisti, ma anche molti residenti e titolari di aziende – possibili datori di lavoro dei futuri artigiani – sono nostri connazionali. La scuola, che ha già creato posti di lavoro (7 insegnanti, di cui 4 stipendiati dal ministero della Gioventù e dello Sport), è affidata a un Comitato di gestione formato da alcuni enti locali e dalle famiglie del villaggio. Spetta a esso definire le linee politiche e reperire i finanziamenti. «In Kenya le scuole non vengono sovvenzionate dallo Stato», spiega infatti Mario, «ma sono a tutti gli effetti piccole imprese, che cercano di sostenersi tramite gli sponsor, le tasse scolastiche, la vendita di prodotti realizzati al loro interno».

E non finisce qui…
Il giorno dell’inaugurazione della Muyeye Polytechnic School erano presenti le autorità locali (rappresentanti del comune, della prefettura, del ministero dell’Istruzione e di quello di Gioventù e Sport) oltre a una cinquantina di persone delle Pr e a un gruppo di studentesse e docenti del liceo Rosmini di Trento, che vanta «una lunga tradizione di rapporti con il Servizio di salute mentale della città» come spiega la preside, Matilde Carollo. «Nelle classi si tengono incontri di sensibilizzazione sui temi dello stereotipo e dei pregiudizi legati alla malattia mentale, con la partecipazione degli utenti del servizio. Gli studenti partecipano periodicamente agli stage nel centro vacanze Casa del Sole, e anche l’esperienza africana è stata un modo per sperimentarsi “sul campo”». Una studentessa racconta che, giunta a Muyeye, all’inizio non sapeva come rapportarsi agli altri: «Sono molto timida e fatico a rompere il ghiaccio. Ma il primo giorno un ragazzo si è presentato come un amico di mio fratello ed è nata un’amicizia. Una sera le persone si sono presentate più a fondo e ho scoperto che quel ragazzo non era un operatore, come credevo, ma un utente. Questo mi ha sbalordito, perché era proprio come noi…».
Adesso, a distanza di tempo, oltre a sostenere la scuola il gruppo delle Pr mantiene rapporti di vario tipo con gli abitanti del villaggio: chi si tiene in contatto via sms, chi ha attivato forme di adozione a distanza, chi – semplicemente – ha deciso che, in un modo o nell’altro, in Africa ci toerà ancora.

Stefania Garini

Stefania Garini




Bisturi e passione

Medici di frontiera (2): Sivlio Galvagno e il CCM

Trentatre anni fa partiva per la prima volta. In Africa ha vissuto e continua a tornarvi.
Il suo cruccio è garantire il diritto alla salute per tutti. Così il chirurgo piemontese si racconta.

«In Italia non si capisce che in molte parti del mondo il diritto alla salute esiste solo sulla carta. In Kenya dicono che hai diritto alle medicine e che le cure sono gratuite, ma se poi non paghi non ottieni nulla. E ti mandano a comprare anche il filo di sutura. Mi è capitato, a Nairobi, lavorando nelle baraccopoli, che un ragazzo operato con una placca per una frattura di gamba, richiedesse di toglierla perché l’aveva già rivenduta ad un altro paziente. Venendo al controllo mi diceva: “Sto bene; togli la placca che qualcuno la sta aspettando”».
Chi parla è Silvio Galvagno, medico chirurgo di Manta, nei pressi di Saluzzo (Cn), che da 33 anni si adopera affinché il diritto alla salute prenda consistenza in Africa e in altre latitudini.
Discreto, quasi schivo, ma molto disponibile, Silvio non ama parlare di sé. Ma si sforza perché crede anche in questa dimensione, la comunicazione, per cambiare lo stato delle cose.
Fin dai tempi del liceo, Silvio, con amici di Saluzzo, fonda l’associazione «Club 3», con l’intento di attivarsi per il Terzo mondo. Poi all’Università si iscrive a medicina e … «Sentii parlare di un certo dottor Meo». Giuseppe Meo (vedi MC marzo 2011), uno dei fondatori dell’Ong «Comitato collaborazione medica» (Ccm). All’epoca, inizi anni ’70, il Ccm era composto da Meo, da sua moglie, e dall’inossidabile Roberto Masino. Tutti ancora in prima linea.
«Andai a parlare con Meo spiegandogli che avrei voluto partire. Lui disse che mi dovevo preparare come chirurgo». Silvio imposta gli ultimi anni degli studi sulla base dei consigli del dottor Meo. «Essere come medico il meno specialista possibile. Certamente la chirurgia di base in Africa è fondamentale e salva la vita. Come ricucire qualcuno che è stato incornato e ha le budella fuori dalla pancia».

Africa (CON MARIA TERESA)
Il grande giorno arriva nel 1979. Silvio ha una scadenza, perché sostituirà il servizio militare con il volontariato all’estero, ma il posto su un progetto seguito dal Ccm non si libera.
Giuseppe Meo trova allora una possibilità nell’ospedale di Sololo, della diocesi di Marsabit, Nord del Kenya, all’epoca appoggiato da un’associazione di Negrar (Verona), l’«Unione medica missionaria italiana».
È fatta. Silvio passa due anni a Sololo, in una zona sperduta ai confini con l’Etiopia.
«Mi davano 60.000 lire al mese. Ero da solo nella gestione dell’ospedale – ricorda – in quel periodo non c’erano le suore». Qualche tempo dopo, diviene vescovo a Marsabit, padre Ambrogio Ravasi, missionario della Consolata. Il Ccm firma una convenzione con lui e inizia una collaborazione che continua ancora oggi.
Nel frattempo, Silvio si sposa con Maria Teresa Caselle, medico al pronto soccorso delle Molinette di Torino, che condivide con lui questa passione. «Come viaggio di nozze siamo stati via due anni, volontari ancora a Sololo». Sono gli anni ’85-‘87. Silvio e Maria Teresa vi tornano per altri due anni, con il primo figlio nel 1990.
Vanno ancora a lavorare in Kenya per altri due anni. Questa volta al Nazareth Hospital, appena fuori Nairobi, che era gestito delle suore della Consolata (oggi passato alla diocesi).
«Era un grosso ospedale, molto buono, dove come Ccm avevamo un progetto per ricoverare i poveri delle bidonville, in collaborazione con padre Alex Zanotelli. Io andavo tutti i mercoledì pomeriggio all’ambulatorio nella discarica, dove c’era Sara, infermiera, che poi è morta di Aids».
L’intenzione è di stare lì e mandare i figli a scuola a Nairobi. «Però le scuole africane non ti danno nessuna sicurezza quando rientri (non sono riconosciute dal nostro sistema scolastico, ndr), mentre le scuole private sono per le élite e a noi non piaceva».
Quindi, quando il figlio più grande deve iniziare la prima elementare, la famiglia rientra in Italia. Silvio non perde però il «vizio» e si butta a capofitto nelle attività con il gruppo del Ccm che già opera a Torino e in diversi paesi africani. Da allora compie missioni chirurgiche per periodi brevi (un mese, un mese e mezzo), per poi tornare alla base di Manta.

La famiglia allargata
La famiglia Galvagno fa scelte coraggiose e impegnative anche sul fronte dei figli: un’adozione e due affidi, dopo il primo figlio. Una vera «famiglia allargata», all’africana.
«In questo è Maria Teresa che “tira”, io da solo non ce l’avrei mai fatta» sorride Silvio. Ed è orgoglioso di parlare dei figli:
«Il primo studiava a Parigi e ora ha finito, poi abbiamo un figlio peruviano che sta facendo l’Erasmus a Madrid. È stata con noi una ragazza in affido, che ora è sposata e ha una bambina. Questi tre sono a posto. Con noi c’è ancora un ragazzo, che sta frequentando la scuola secondaria».
Alla domanda se è più difficile operare in condizioni estreme in Africa o educare i figli Silvio risponde: «I figli sono facili quando sono piccoli, ma poi crescono e diventa molto più complicato». Maria Teresa è andata in pensione presto e si è impegnata in questa famiglia allargata. Oggi gestisce, come volontaria, anche la bottega del commercio equo a Saluzzo: Solidarmondo.
«Siamo ancora tornati in Africa con i figli per ferie, mentre periodi più lunghi e di lavoro li ho fatti da solo».

Chirurgo di guerra
L’11 settembre 2001 trova Silvio impegnato con il Ccm. «Era un periodo in cui andavo in Africa solo a farmi venire dei “mal di testa”: beghe e discussioni a non finire di programmi che andavano male. Sololo compreso. Parlandone a casa dicevamo, ma è possibile con quello che sta succedendo in Afghanistan? E scrissi due righe ad Emergency».
Era il Natale 2001 e l’Ong milanese di Gino Strada non si fa sfuggire l’occasione. Silvio parte per l’Afghanistan a inizio 2002. Compie diverse missioni con Emergency, lavorando in Afghanistan (Kabul e Lascarga), Iraq (Kirkuk e Soulimanya), Sierra Leone, Darfur.
«Ho trovata buona la filosofia di Emergency finché riguardava la chirurgia di guerra, me ne sono staccato quando si è parlato di cardiochirurgia. Fare un ospedale in Sudan per operare gratuitamente bambini e adulti malati di cuore ha un rapporto di costo / benefici, molto sfavorevole. Con i costi per operare un bambino al cuore ne operi 1.000 di appendicite, oppure ne curi 10.000 con altre malattie più endemiche. In Africa le malattie killer sono broncopolmonite, malaria, diarrea: costa poco curarle e coinvolgono tantissima gente. Per un intervento al cuore, poi occorre fare sempre controlli sofisticati, e i pazienti che vengono da lontano non potranno neppure seguirle».
Silvio torna al Ccm, che non ha mai veramente lasciato. Ne diventa presidente e attualmente vice presidente. Per avere più tempo lascia l’ospedale pubblico di Savigliano, vicino a casa, e specializzato in Germania in chirurgia vertebrale, lavora in una struttura privata convenzionata: «Così ho uno stipendio assicurato e una migliore gestione del tempo: niente tui e guardie. Posso impegnarmi con il Ccm in Italia e quando faccio le missioni all’estero non devo consumare le mie ferie». Scelta «scomoda» e impegnata.

A cavallo tra due continenti
«Adesso faccio le missioni con il Ccm quando c’è bisogno e dove c’è bisogno». Si occupa in particolare dei progetti dell’Ong in Etiopia e in Uganda (nel Lacor Hospital della Fondazione Corti). A novembre 2011 va in Etiopia, a Filtu, dove arrivano i somali in fuga dalla carestia (vedi MC novembre 2011). Poco prima era volato in Rwanda, su richiesta del Don Gnocchi, per organizzare meglio un centro per bambini portatori di handicap. Senza dimenticare il Sud Sudan, dove ha operato in due piccoli ospedali rurali a Adior, Bungagok, seguiti dal Ccm. «Lì facciamo operazioni chirurgiche per insegnare a operare agli infermieri, su patologie semplici, come l’eia inguinale. Abbiamo operato 45 eie, alternandoci: una io e una un infermiere. Prossimamente andrò in Uganda, a Gulu, dove il Ccm ha un progetto con un grosso ospedale universitario, governativo, ma seguito dalla Fondazione Corti di Milano. Ci hanno chiesto di organizzare un reparto di 90 letti di traumatologia. Sembra che gli incidenti della strada siano in aumento in Africa, mentre diminuiscono le lesioni da guerra. Come Ccm abbiamo una decina di ortopedici che si sono dati disponibili ad andare periodicamente a Gulu».

Come cambia l’Africa
In oltre trenta anni di lavoro Silvio assiste ad alcuni cambiamenti: «Abbiamo visto l’africanizzazione di molti ospedali che erano gestiti da missionari bianchi. Oggi sono sostituiti da missionari africani o da laici locali. È successo anche a Sololo, a un certo punto era gestito da tre africani assunti dalla diocesi. Ma l’esperienza si è poi chiusa. In Uganda, ad esempio, c’è già un gruppo medico molto valido, si fa un progetto specialistico».
Un passo oltre l’urgenza. «Questo è il nostro obiettivo. Chi l’ha perseguito da sempre è Giuseppe Meo».
Uno dei pilastri della filosofia Ccm è il cosiddetto «capacity building», ovvero la costruzione di competenze, capacità, nel personale locale. Formazione sul campo, assunzione di responsabilità.
«Noi cerchiamo di far sì che siano loro a fare le cose. Anche perché non possiamo essere sempre presenti».
Ma c’è un altro punto fondamentale per il Ccm: «In secondo luogo, importante, è ritornare e fare coscentizzazione in Italia, sul territorio. Sensibilizzare i nostri concittadini. Affinché si capisca cosa vuol dire povertà e assenza di diritti in campo sanitario. Che non c’è mutua, assicurazione, nulla. Ti fanno la prescrizione e poi ti danno il foglietto dicendoti di andare a comprare. Fuori dell’ospedale ci sono le farmacie private. Far conoscere quello che facciamo, è fondamentale».
Questo si realizza con incontri, articoli sui giornali medici e articoli divulgativi. Diversi gruppi in provincia di Cuneo sostengono progetti del Ccm. In quest’ottica Silvio pubblica un libro di ricordi (vedi box) «Ho recuperato un po’ di appunti, altri li avevo persi. Li ho raccolti per condividere con i lettori le sensazioni che io provavo».
Negli anni sono cambiati anche i finanziamenti. Fino a qualche tempo fa, il ministero degli Affari esteri italiano finanziava progetti di sviluppo. Ora ha quasi azzerato.
«Nei progetti Ccm finora riusciamo ancora a offrire tutto gratuitamente per la popolazione. Gli ospedali di Bungagok e Adior, ad esempio, sono finanziati da due progetti: uno della Regione Liguria e uno della Regione Toscana, nonostante la crisi. A Sololo c’è un progetto mamma-bambini in cui i bambini sotto i 5 anni e le gravide non pagano. Sono soldi raccolti da diversi gruppi di appoggio Moretta, Savigliano, in provincia di Cuneo».

I volontari di domani
Le missioni sono sempre realizzate da volontari che si pagano i viaggi e vengono preparati prima della partenza. «Ci sono giovani interessati a partire. Quelli meno esperti vanno in posti più facili tipo Sololo. Fanno un mese, due. Poi al ritorno realizzano incontri. Medici, infermieri, tecnici. Studenti che vanno a fare tesi».
Lui e il dottor Meo fanno queste missioni e cornordnano gli altri. Il Ccm è poi composto da una struttura di persone impegnate nell’amministrazione, negli aspetti tecnici della cooperazione, nella comunicazione.
Il Ccm realizza tutti gli anni un corso di medicina tropicale in alcuni ospedali torinesi. Corso molto seguito, fino a 80 iscritti tra medici, infermieri e tecnici.
Che messaggio mandare a un giovane interessato?
«A un giovane direi che se dovessi ricominciare rifarei tutto quello che ho fatto, perché è un mondo affascinante, perché ci credo. Forse è più difficile adesso che una volta avvicinarsi a queste realtà, perché le leggi erano più consone in passato e i finanziamenti erano maggiori. I giovani sono da incoraggiare».

Marco Bello

Marco Bello




Tornano le aquile al nido

Reportage da Scutari sull’emigrazione di ritorno

A 20 anni dalla fuga in massa dall’Albania verso l’Italia, migliaia di migranti hanno preso la via del ritorno e, con il sostegno di organizzazioni come Caritas e Acli, hanno avviato attività in proprio, creato posti di lavoro per i propri connazionali, contribuendo così allo sviluppo del paese, ancora frenato, però, da tradizioni culturali ancestrali, come discriminazioni di genere e vendette di sangue.

Il panorama all’imbrunire è mozzafiato. Vedendolo dalle mura del castello, l’enorme lago di Scutari si riempie del rossofuoco del tramonto e lascia senza parole. Tutt’attorno, per tre dei punti cardinali, le montagne d’Albania e del Montenegro, e a sud la terza città albanese, Scutari appunto, con i suoi 150 mila abitanti in continua crescita. Buona parte di essi conosce l’italiano, e alcuni lo parlano molto bene: un fenomeno che lascia senza parole, ma le cui ragioni sono sotto la luce del sole, perché quasi ogni famiglia ha un parente che ha vissuto per qualche tempo in Italia, o ancora ci vive.

Ritoo dal grande esodo
Era il 1991 quando l’impressionante esodo degli albanesi verso il nostro paese riempì tutte le televisioni nazionali. Chi non ricorda l’impatto emotivo delle immagini dei 20 mila disperati sbarcati a Bari con la nave Vlora l’8 agosto di quell’anno? Oggi gran parte di essi è inserita in Italia, con un lavoro e una famiglia. Ma non tutti. Infatti c’è chi, fatti i conti in tasca, compie il passo che aspettava da una vita: il ritorno in patria a testa alta, da persona che è riuscita nel proprio sogno migratorio e ora può tornare a investire nel suo paese, tanto a livello umano quanto economico, aprendo un’attività e magari dando anche lavoro in loco a connazionali.
Non stiamo parlando di racconti di fantasia; piuttosto, è la realtà che sta prendendo il sopravvento tra le vie della stessa Scutari, ancor più che a Tirana. Proprio da questa spartana città del profondo nord albanese (oggi parzialmente rimessa a posto, per lo meno nell’ottimo centro storico, con un pavé da far invidia a molte città d’arte nostrane) due decenni fa era partita la maggior parte delle persone in cerca di miglior fortuna.
«Sono sempre di più i migranti albanesi di ritorno, ovvero coloro che tornano in patria con l’obiettivo di cercare lavoro o aprire qualcosa di proprio» spiega Mauro Platè, 33 anni, responsabile dei progetti in Albania per l’organizzazione non governativa Ipsia (Istituto pace sviluppo innovazione Acli), che dal gennaio 2010 ha avviato con Caritas italiana, grazie al finanziamento di 1,2 milioni di euro del Mae (Ministero affari esteri italiano), il progetto «Risorse migranti»: si tratta di un’iniziativa di cooperazione internazionale che, tramite un primo sportello d’orientamento aperto a Scutari, accompagna chi torna in Albania dall’Italia e da altre zone d’Europa, offrendo sostegno per capitalizzare le capacità acquisite all’estero.
Un’azione concreta che, in punta di piedi ma con risultati sempre più evidenti, sta facendo emergere numeri importanti: «Sono almeno 450 le persone che si sono rivolte a noi in due anni, molti dei quali per chiedere consigli e orientamento» aggiunge Platè.
Secondo le stime governative, a fine 2010 erano circa 2 mila le persone che erano uscite dall’Italia, dove vivevano in condizione di regolarità, per far ritorno in patria. Ovvero quasi il 10% del numero di coloro che nello stesso tempo hanno rinnovato il permesso di soggiorno, 22 mila in tutto.

Nuove idee e Iniziative
Molti tornano nel paese delle Aquile (dal nome albanese, Shqiperia, così come il rapace è anche il simbolo nero impresso sulla bandiera rossa nazionale) anche in possesso di un titolo di studi conseguito in Italia. Blerim, per esempio, laureato in informatica, ha aperto a Scutari un’attività dedicata alla creazione di siti web. Hector, invece, ha ristrutturato un immobile in demolizione per trasformarlo in un locale culturale dove fare musica tipica tradizionale. O ancora, c’è chi ha costruito un centro fitness, ridato vita a una trattoria tradizionale, aperto un call center. «Ognuno di loro ha poi la possibilità di dare lavoro ad altre decine di persone – aggiunge il responsabile progetti di Ipsia -. Uno dei nostri compiti principali è facilitare l’incontro e lo scambio tra questi nuovi piccoli imprenditori, la messa in rete dei saperi genera opportunità laddove prima c’era poca spinta alla collaborazione». Un esempio? «Alcuni che in Italia hanno lavorato per anni come muratori e piastrellisti, al ritorno in Albania si sono uniti per avviare un’impresa edile» risponde Platè.
L’impegno dei cooperanti di Ipsia, (a fine 2011 erano in sette, due italiani e cinque albanesi a occuparsi dei progetti della ong) cerca di valorizzare il capitale sociale generato dai migranti di ritorno per dare nuova linfa allo sviluppo del paese, che ha indici positivi nonostante la crisi globale. Quella stessa crisi, paradossalmente, che oggi punge più  all’estero che in Albania, ha dato una spinta considerevole al boom di rientri degli ultimi anni. «In Italia diminuiscono i lavori stagionali e molte persone non vedendo più la certezza del lavoro preferiscono tornare in patria con i fondi e l’esperienza che hanno raccolto negli anni da emigranti» specifica Platè.
La debàcle dell’economia mondiale sta comunque incidendo nel paese delle aquile, ma «è una crisi di riflesso, non delle attività produttive, che sono poche, dipendendo l’Albania dalla produzione greca, italiana e tedesca in particolare. Piuttosto la difficoltà si vede nella diminuzione delle rimesse e nell’aumento del costo della vita».
In questo senso, l’imprenditorialità può essere la giusta medicina, ovvero nuove idee, nuovi progetti possono rilanciare una economia come quella albanese, rimasta immobile per decenni, almeno fino al termine del regime comunista terminato alla fine degli anni ’80. Per fomentare la nascita di microattività innovative e riadattare le competenze al mercato, «Risorse migranti» dedica ampio spazio alla formazione diretta: «In due anni abbiamo attivato corsi inerenti a 17 tipologie diverse di lavoro, tutti orientati alla riqualificazione professionale» sottolinea il responsabile progetti di Ipsia.
Ancora, le esperienze più virtuose vengono premiate attraverso una serie di bandi che finanziano lo startup aziendale: l’ultimo dei quali, indetto a fine 2011, prevede aiuti per 25 mila euro totali, destinati all’acquisto di attrezzature per attività registrate regolarmente. Un occhio di riguardo viene dato a chi si avvale di energie rinnovabili. «Sta nascendo una nuova mentalità in tale direzione – rileva Platè -; si vedono sempre più pannelli solari. Detto questo, c’è ancora molto lavoro da fare per far passare i concetti di sostenibilità, ma le istituzioni si stanno comportando piuttosto bene ultimamente». Non come fino al recente passato, quando tra corruzione e malaffare lo stato foiva un esempio tutt’altro che positivo per la popolazione.

Cambiamenti in corso
«Oggi la politica albanese ha capito che la migrazione di rientro è un fattore di sviluppo» continua Mauro. A Lezhe, storica cittadina del centro-nord, per esempio si tiene da qualche anno nel giorno di ferragosto la «festa del migrante», e nell’edizione 2011 il progetto «Risorse migranti» è stato l’invitato d’eccezione. Nel frattempo, anche a livello di politica nazionale le cose si muovono in termini di apertura all’esterno: da dicembre 2011 il governo di Tirana ha liberalizzato i visti e sta compiendo tutti i passi che l’Unione europea chiede per avere relazioni commerciali proficue.
«È in atto un processo di cambiamento, lento ma evidente, attraverso il quale le istituzioni locali saranno in grado a medio termine di “accompagnare” in modo significativo coloro che tornano dall’estero – spiega la sociologa Cristiana Paladini, 33 anni, collaboratrice in loco di Ipsia e ricercatrice nell’ambito delle migrazioni per l’università Lumsa di Roma e la University of London -. Nel 2009 il Goveo albanese ha stanziato finanziamenti per il ritorno degli emigranti, ma il bando è andato a vuoto per mancanza di informazione tra gli espatriati e perché promuoveva il rientro ma senza prevedere appoggi per chi tornava, come corsi di formazione o altro».
Ma le cose, tre anni dopo, si stanno modificando, continua Paladini: «È iniziato l’arrivo di un secondo blocco di migranti di ritorno, soprattutto laureati, che hanno documenti in regola in Italia o negli altri stati della Ue. Saranno loro a rappresentare il principale propulsore del cambiamento, perché sbarcano in patria con molta più professionalità da spendere».

Ostacoli da rimuovere: disparità di genere…
Nella rivoluzione che attraverserà l’Albania dei prossimi anni, garantita dai migranti di ritorno, «veri e propri pionieri che arrivano dall’Europa con la voglia di cambiare le cose che non vanno in patria e molto più coscienti dei propri diritti, come cittadini e come lavoratori» specifica la sociologa, sono però almeno due i duri ostacoli che dovranno essere superati: da una parte il forte divario donna-uomo, l’incidenza di un antico quanto violento codice d’onore interfamiliare, dall’altra il Kanun, codice di consuetudini che regola la vita sociale soprattutto nelle zone montane dell’Albania.
Nel primo caso, le logiche maschiliste storicamente presenti in Albania faticano a venir meno: la donna è quella che rimane isolata quando il marito va all’estero (basti pensare che il 90% delle persone intercettate da «Risorse migranti» è maschio) e che non viene assolutamente associata alla figura di imprenditrice. Ipsia, come altre ong, dedica parte dei propri progetti a interventi di appoggio all’impiego femminile, ad esempio nel settore tessile, mettendo in atto «una sfida in più che può fare molto per il loro futuro», aggiunge Paladini.

… e vendette di sangue
Nello stesso tempo, l’impegno per l’equità dei generi e la conciliazione familiare è la missione anche di molti uomini di fede, tra cui don Antonio Giovannini, parroco italiano che da 13 anni ha scelto il nord dell’Albania come luogo di vita e apostolato. Per anni coadiutore della cattedrale di Scutari, oggi la quotidianità di don Giovannini è dedita totalmente al servizio degli ultimi in particolare, nella parrocchia di Koman, meno di mille anime sperdute nelle montagne a est di Scutari, che costeggiano un lago generato dalla diga di Koman, appunto (la più grossa dell’Albania, che dà l’elettricità anche alla capitale Tirana) e, lungo almeno un centinaio di chilometri, arriva a Kukes, alla frontiera con il Kosovo.
«Sui monti ci vivono, senza corrente né gas, le famiglie che non hanno voluto migrare in città» spiega don Giovannini, che oramai vive con loro e macina decine di chilometri al giorno su quei sentirneri, periodi di neve compresi. «Vivono del proprio, e scendono nei villaggi più grandi 3-4 volte all’anno per vendere bestiame o il poco che riescono a coltivare. Ma molte famiglie non scendono mai, perché in vendetta con altre». È la gjakmarrja, la vendetta di sangue.
«Le vendette familiari appartengono a un codice di leggi medievale, il Kanun, considerato fuorilegge dalla metà del secolo scorso, ma ancora oggi in uso – continua il prete italiano -, se una persona fa uno sgarro a un componente di un altro clan, i familiari hanno l’obbligo morale di vendicarsi, innescando la spirale della violenza».
Si può arrivare all’omicidio, fino a mille omicidi in un solo anno in tutta l’Albania, stima il Programma alimentare mondiale dell’Onu (Pam). E almeno 3 mila famiglie, anche a Scutari, vivono oggi «inchiodate», ovvero chiuse in casa, dove i vendicatori non possono entrare. «Ci si può rivalere fino alla terza generazione, per questo anche molti bambini sono a rischio e non vanno a scuola» prosegue don Giovannini. Sono 6 mila i bambini in queste condizioni.
Nel tempo, don Giovannini è diventato una figura di riferimento, un mediatore che, però, può correre dei rischi: «In alcuni casi mi è capitato di ricevere minacce, ho dovuto smettere di intromettermi» racconta. Nel 2003, con alcune religiose della zona di Scutari, don Giovannini ha fondato la Shizr, acronimo albanese di Associazione per l’integrazione delle zone rurali; nata «per fare pressione a livello istituzionale, verso il governo albanese che solo ultimamente si sta dando da fare».
È del gennaio 2004 l’istituzione della prima vera corte penale albanese contro 12 tipologie di crimini gravi: tra questi ci sono le vendette di sangue. Nel frattempo, altre associazioni si sono aggiunte all’opera di riconciliare le famiglie in vendetta, come l’albanese League of peace missionaries o gli Ambasciatori di pace del Sermig di Torino. Non solo lavoro: la rinascita dell’Albania passa anche dal rispetto dei diritti umani.

Daniele Biella

Daniele Biella




Ho sentito un grido d’aiuto

Conversazione con padre Nicholas Muthoka

Tra risate fragorose e solennità del contegno, la missione italiana di un giovane sacerdote kenyano. Un autoritratto involontario, più che un confronto su grandi temi. Un piccolo spaccato di una nuova generazione di uomini consacrati, a cinquant’anni dal Vaticano II. Mentre il papa invita la Chiesa a pregare per le vocazioni.

«Tre parroci si trovano al bar e conversano su un problema comune: la presenza di pipistrelli nelle loro chiesette di campagna. Uno dei tre inizia: “Io ho provato col fucile, ma l’unico risultato è stato di riempire di buchi la chiesa”. “Io invece ho provato col veleno e sono spariti, ma dopo un po’ sono tornati”. “Io invece – dice il terzo – ho trovato la soluzione: li ho battezzati, poi li ho cresimati, e da allora in chiesa non si sono più fatti vedere”».
Il libro di «barzellette da preti» che padre Nicholas tiene in mano mostra i segni dell’usura, e il missionario ha tutta l’aria di conoscere bene il suo contenuto. Lo sfoglia mentre ci accoglie nel suo ufficio e ci fa accomodare su una sedia molto bassa. Sulla superficie di vetro della sua scrivania, sgombra e pulita, campeggia un piccolo crocifisso di bronzo che il nostro interlocutore sovrasta dall’alto.
Padre Nicholas fa precedere e seguire alla lettura delle barzellette le fragorose risate per le quali è ormai conosciuto da molti ragazzi, giovani e famiglie di Torino e dintorni.

A Roma con Marx
Padre Nicholas Nyamasyo Muthoka, nato nel 1981 a Machakos, provincia di Easte, Kenya, è stato ordinato sacerdote nel settembre scorso: «È stata la prima ordinazione nel mio paese da 37 anni a questa parte» dice con visibile orgoglio. Entrato nel seminario minore diocesano a 14 anni, ha sentito una seconda forte chiamata all’età di 18, quando ha iniziato l’iter formativo della Consolata che l’ha portato a Nairobi, Sagana, Roma e Torino, dove ora lavora.
«Fino a 14 anni ho studiato nel villaggio: studiavo, portavo al pascolo gli animali e lavoravo a casa. I miei genitori erano insegnanti, molto quadrati. Eravamo otto figli: uno è morto a causa del morso di un serpente. Siamo cinque maschi e due femmine. Ho studiato nelle diverse scuole in cui insegnava mia mamma, e per questo durante gli ultimi due anni non sono mai stato punito dagli insegnanti: mi dava lei le botte a casa. Però un giorno in cui lei non era a scuola, nell’ultima settimana della primaria, gli insegnanti si sono vendicati: non ricordo cosa avessi fatto, forse parlavo in classe, e me ne hanno dato tante».
Padre Nicholas ha un ricordo molto positivo degli anni in seminario, a eccezione del primo anno a Roma, nel quale ha sperimentato una crisi di fede dovuta alla discordanza tra ciò che vedeva nella «città del Papa» e l’idea che si era fatto dell’Europa cristiana. «Avevo idealizzato Roma considerandola il centro della fede. Mi aspettavo un altro modo di vivere il cristianesimo. In Europa la Chiesa che ho conosciuto dai missionari non è vissuta nella società. Sono venuto a contatto con una realtà che mi è sembrata senza Dio. Non riuscivo a capire come mai gli italiani che sono venuti in Kenya portando Gesù Cristo non prendessero con serietà la fede. Un mio fratello che aveva studiato Karl Marx, quando ero piccolo mi aveva detto che il cristianesimo era una creazione dei bianchi. Quando sono arrivato a Roma ho pensato: “Mio fratello aveva ragione”. Ora sono sette anni che vivo in Italia, la perseveranza mi ha aiutato a superare la crisi e adesso mi trovo molto bene tra gli italiani».

Missione Italia
Le statistiche dicono che in Asia c’è un sacerdote ogni 47mila abitanti, in Africa uno ogni 27mila, mentre in Europa ce n’è uno ogni 3.700 e in Italia uno ogni 1.200. Queste cifre sono forse uno dei motivi per cui gli europei, gli italiani, e gli stessi missionari nati nel Bel Paese, fanno fatica a considerare l’Italia come terra di missione. «Dire ai preti, ai Vescovi italiani, i quali hanno visto la loro terra dare tanti missionari per evangelizzare il mondo, che l’Italia è terra di missione, non è difficile. La maggior parte è d’accordo, lo afferma con decisione, ma in fondo non mi sembra convinta dentro, non lo sente. Il problema è una concezione riduttiva di missione per cui “ad gentes” è uguale a “mancanza di preti”. Non è vero. È questione di proporre una vita vissuta pienamente. Può anche esserci un prete ogni mille persone, ma se poi la società va per conto suo vuol dire che c’è ancora bisogno di evangelizzazione. Io ogni settimana incontro molti ragazzi nelle scuole, insieme parliamo delle cose concrete della loro vita: questa è evangelizzazione. La Chiesa non è presente lì dove vado io, è per questo che mi considero missionario».
Il nostro interlocutore si accalora parlando degli studenti incontrati nelle scuole superiori e ci parla di un altro preconcetto che rende difficile agli italiani considerare il proprio paese come luogo di missione: «I missionari spesso sono visti come uomini che vanno dai poveri per costruire scuole, ospedali, pozzi. Se la missione è ridotta a questo, l’Italia non è una terra di missione. Nelle problematiche sociali italiane, grazie a Dio, la Chiesa ha già un impegno forte senza bisogno di noi. Qui in Italia c’è un certo senso di autosufficienza, e questo fa male a tutti: quando vado nelle scuole e faccio vedere filmati che parlano di povertà, di guerra, di Aids, di conflitti intertribali, di solito i ragazzi sono d’accordo che sono situazioni in cui l’intervento di un missionario è importante, ma quando parliamo di divorzio, droga, solitudine, depressione, sofferenze che colpiscono le persone in Italia, allora dicono che sono cose normali, che non c’è bisogno dei missionari per affrontarle».
Forse perché parla di scuola e di studenti, padre Nicholas, dietro la sua scrivania, assume un contegno solenne da insegnante, alzando l’indice. «Italia ed Europa sono luoghi di missione perché non c’è la pienezza della vita di cui Gesù ha parlato, non c’è quella pace interiore che proviene dall’incontro con Cristo. Se non si attua un intervento educativo serio, concreto, io temo che quando questi ragazzi cresceranno e diverranno politici, dirigenti, ognuno penserà per sé, e allora, altro che democrazia».
La profezia funesta del missionario viene subito seguita dalla proposta di una soluzione: «Bisogna parlare di Dio: si possono affrontare le problematiche dei ragazzi a livello psicologico, di amicizia, però finché non si arriva a Gesù Cristo, non si risolve niente. Ci sono dei demoni che vengono cacciati solo attraverso la preghiera. Ci sono certe abitudini di vita, certi vizi, che, senza Gesù Cristo, non si possono superare. La missione è andare incontro alla gente che magari non soffre materialmente – benché con la crisi attuale si rischia di soffrire anche da questo punto di vista – ma soffre dentro».

Immaginario e realtà di due continenti
Data la sua esperienza italiana, ogni volta che torna in Kenya, padre Nyamasyo, come viene chiamato da alcuni giovani che lo frequentano, viene assalito da domande sul suo «paese adottivo» in modo del tutto simile a quello con cui in Italia si ricopre di domande il missionario che torna dall’Amazzonia o dalla Corea. «La gente è molto attratta. Quando sono stato a casa qualche mese fa ho dato dell’Europa un’immagine molto positiva: una Chiesa che ha radici, la serietà della gente nel darsi da fare, ad esempio sotto l’aspetto professionale, ma anche la sincerità delle persone. Parlo di queste cose per spronare i miei conterranei a imparare da questa società. Però poi metto in guardia, parlo della globalizzazione, dico che non tutto funziona, esorto i giovani a stare attenti ad alcuni disvalori europei come il mettere al centro i soldi invece della persona umana. Alcuni mi hanno chiesto: “possiamo venire in Europa a lavorare?”. Io ho detto loro che sarebbe meglio stare a casa per far sviluppare il Kenya».
L’immagine che nel suo paese si ha dell’Europa è quella attraente di un continente benestante in cui si vive nel benessere. È l’immagine di sé che l’occidente, tenta di dare al mondo, oltre che a se stesso, anche attraverso il possesso quasi esclusivo dei mezzi di comunicazione e d’informazione a livello globale. Chiediamo a padre Nicholas cosa ne pensa dell’immagine stereotipata dell’Africa che propongono i mass media italiani, accompagnati e confermati a volte da Ong e da missionari: quella di un continente in guerra, che soffre fame e malattie, popolato di gente priva di iniziativa, incapace di badare a se stessa, disperata. Il missionario, dopo la sua risata di rito, ammette di averci sofferto: «Temevo che incontrandomi, la gente pensasse di trovarsi di fronte a un poveretto, bisognoso di aiuto. Era una questione di autostima, di complesso d’inferiorità. Ora, avendo quotidianamente contatto con la gente e conoscendo i suoi pregiudizi, non ci soffro più. Un po’ è vero quello che viene raccontato dell’Africa: quando si parla di gente povera è vero. È vero che gli slums sono luoghi invivibili, che nel mio villaggio ci sono situazioni di orfani, di Aids, è vero che ci sono gli animali, ci sono i safari. È tutto vero. L’Africa non è tutta oro, però non è nemmeno tutta problemi! Che venga raccontata la verità non mi fa problema, l’importante è che tutti ci accorgiamo di non essere autosufficienti. Renderci conto che in Italia abbiamo i nostri problemi, che in Kenya abbiamo i nostri problemi».
L’immagine di Africa veicolata dai media fa il paio con l’immagine degli immigrati. «Io tecnicamente sono straniero, interiormente no. Ci sono miei amici che hanno vissuto esperienze di razzismo. Personalmente non ho mai subito discriminazione. Forse perché sono prete. Anche nelle famiglie che incontro, o con gli anziani. Parlando con loro ho riscontrato che c’è paura del migrante, dell’invasione, però è una paura ideale, che non ha conseguenze nell’incontro personale. Ad esempio mi capita che persone mi fermino per chiedermi indicazioni sulle strade. Se ci fosse razzismo, non chiederebbero a me». In ogni caso, il problema dell’intolleranza nei confronti dell’altro è una caratteristica di tutti i popoli: «In Kenya c’è tra le diverse etnie. L’arrivo di migranti non è percepito come un problema di per sé, non c’è la paura di un’invasione. Se l’arrivo di somali, ad esempio, provoca reazioni di intolleranza è per questioni di etnia. Per i kenyani il problema sta nel fatto che siano somali. L’intolleranza è quella tra le diverse etnie per questioni storiche. Ad esempio per l’etnia dei kamba, a cui io appartengo, nei tempi antichi l’intolleranza verso altri era una questione di orgoglio: l’etnia kamba era quella perfetta, scelta da Dio, aveva gli usi e costumi più belli. Gli altri erano stranieri, cattivi. I miei antenati andavano regolarmente ad attaccare i masai, che erano i nemici perfetti, non perché avessero fatto chissà cosa, ma perché erano masai. È una questione storica che si deve leggere negli usi e nelle tradizioni, e poi c’è la manipolazione dei politici a fini elettorali».

«Ho sentito il grido del mio popolo»
Il giovane missionario in altre occasioni ci aveva detto di aver capito alcune problematiche del suo paese stando in Italia, in particolare venendo a contatto con la realtà del consumo critico e parlando con le famiglie che fanno parte del Consolata GAS, Gruppo di Acquisto Solidale nato nel Centro di Animazione di Casa Madre. «Io non ho mai vissuto in uno slum. Ci sono andato una volta. Però mi sembrava normale. Vicino al mio villaggio c’è una multinazionale che produce cemento. Questo si sparge tutto attorno entrando nei polmoni delle persone che vivono nella zona. Di questo la gente non si accorge, pensa che sia tutto normale, che siano i wasungu che lavorano come sempre. Ho sempre saputo che il Kenya è un paese povero. Ciò che non sapevo era il perché. I meccanismi dell’economia internazionale, l’impoverimento, le multinazionali straniere che sfruttano le nostre terre». Il suo modo solenne di parlare, tra uno scoppio di risate e l’altro, diventa ancora più grave: «Ci sono persone abituate a fare distinzioni tra il sociale e lo spirituale. Le problematiche sociali ci interrogano, e la fede senza le opere è morta: non si può distinguere tra una Chiesa che si impegna socialmente e un’altra che si impegna spiritualmente. È l’unica fede che si esprime nell’aiuto al povero e nella preghiera: è il pane spezzato, l’unico Gesù Cristo. Allora le problematiche sociali riguardano lo spezzare il pane. “Ho sentito il grido del mio popolo”, dice il Signore a Mosé. “Date voi da mangiare”, dice Gesù. Non si può convivere con il peccato, anche con quello strutturale, ossia l’ingiustizia sistematica, lo sfruttamento dell’altro».

Italia (e giovani) in crisi esistenziale
Padre Nicholas ha assistito all’esplosione della crisi economica che sta colpendo l’Italia. Nonostante si dichiari a più riprese inadeguato a fare commenti rispetto alla situazione economica e politica italiana, gli chiediamo di dirci qualche sua impressione a pelle: «Penso che la crisi sia reale, però i timori sono esagerati. Gli italiani non sanno cosa significa non avere patrimonio, non avere niente. Io vengo da un paese povero. La mia famiglia non è povera perché i miei genitori lavoravano entrambi, e noi figli abbiamo studiato tutti. Però ho vissuto in una situazione in cui non c’era patrimonio. In Italia c’è da ringraziare Dio per il patrimonio che i genitori hanno potuto accumulare negli anni per aiutare i figli. Per dirla in poche parole, non vedo che gli italiani muoiano di fame. C’è però una seconda considerazione: i ragazzi non sono pronti a vivere nella precarietà economica, e la mancanza di lavoro li manda in crisi. La loro preoccupazione è giusta, non perché manchi qualcosa: si mangia, si comprano i biglietti per il concerto, si va al cinema, in piscina, la vita va avanti. Ma la preoccupazione è seria perché i ragazzi non sono pronti, e questo li manda profondamente in crisi. Se mio fratello sta un anno o due senza lavorare, si preoccupa, però non va in depressione. Qui entra in gioco una questione esistenziale».

Evangelizzare la cultura
Il riferimento reiterato al mondo giovanile italiano che il nostro interlocutore sta iniziando a conoscere nella sua frequentazione delle scuole, ci induce a chiedergli di descriverci un po’ meglio in cosa consista il suo lavoro di evangelizzazione: «L’Occidente ha un ruolo importante nel mondo, e i ragazzi che incontro nelle scuole saranno i futuri leader dell’Europa. Bisogna essere presenti dove si crea la cultura per mettervi la luce del Vangelo. Stimolare i ragazzi a prendere sul serio la loro vita. Il lavoro che faccio nelle scuole consiste in un confronto culturale ed evangelico con i popoli del mondo, partendo dal grosso patrimonio accumulato dai nostri due istituti di missionari e missionarie della Consolata. Come vivono gli altri il corpo, la sessualità, la libertà, la progettualità, la condizione giovanile, gli aspetti profondi della vita? Partiamo da questi aspetti, poi ci interroghiamo su come i nostri ragazzi vivono le stesse esperienze, e infine arriviamo alla visione cristiana».
Per padre Nicholas è un lavoro di evangelizzazione: la sua intenzione è vocazionale, vuole cioè che i ragazzi si rendano conto della serietà della vita, e aiutarli a scoprire la loro strada.
«I missionari sono quelli che vanno. I primi missionari andavano nei villaggi. Leggendo la realtà di Torino mi sono chiesto: quali sono i villaggi nei quali posso andare? Ho identificato la scuola, e in essa mi sto impegnando».

Vocazioni, dono della carità di dio
Il 29 aprile si celebrerà la giornata mondiale di preghiera per le vocazioni. Il messaggio del papa si intitola: «Le vocazioni, dono della carità di Dio», e lo slogan pensato dalla Cei per la stessa giornata è: «Rispondere all’amore… si può». «Io ho iniziato il cammino per diventare prete perché ho visto il mio parroco lavorare. Ho visto quello che faceva e ho pensato: “Posso anche io fare questo”. La mia vocazione è nata in un contesto di Chiesa che vive e serve. E la maggioranza delle vocazioni nascono così, come doni della carità di Dio e non come risposta a un’esigenza personale, o della propria famiglia. La vocazione è questo: rispondere all’amore che abbiamo ricevuto. Chi ha ricevuto tanto dona tanto e viceversa. Nel contesto dell’Italia di oggi, i ragazzi che incontro, non so quanto amore abbiano ricevuto. Dio dona alla Chiesa le vocazioni, ma a seconda dell’amore che le persone hanno ricevuto. La missione è aiutarle a sperimentare veramente l’amore di Dio. Quando l’avranno sperimentato, si potranno donare. Un ragazzo a scuola mi diceva: “L’amore non è possibile: i miei si sono separati e nessuno mi ha interpellato. Litigavano, volavano i piatti. Mia sorella si è sposata e si è separata. Mia cugina si è sposata ed è durata un anno”, sembrava una litania. E questa situazione oggi è generalizzata. Dobbiamo buttarci a insegnare a questi ragazzi e alle famiglie come vivere l’amore, così che si possano donare. Come dice padre Franco Gioda: “Lì dove c’è una lacrima noi dobbiamo esserci”».
Padre Nicholas, al richiamo del pranzo ormai pronto nel refettorio della Casa Madre dei missionari della Consolata, ci congeda, mettendo nuovamente al centro il libro con il quale ci aveva accolti: «Un giovanotto va dal parroco gesuita della sua parrocchia a chiedergli in prestito l’automobile. Il gesuita gli dice: “Non te la darò se prima non ti tagli i capelli!”. Il ragazzo fa: “Padre, ma anche Gesù aveva i capelli lunghi…”. E il gesuita: “Infatti andava a piedi”».

Luca Lorusso


Luca Lorusso




God Bless America!

La «religione civile» statunitense

Gli Stati Uniti, melting pot sociale, hanno avuto bisogno di un collante. È così nato il «culto alla nazione», con i suoi riti, profeti, luoghi e scritture sacre. E gli Usa di oggi celebrano e proteggono queste tradizioni.

Gli Stati Uniti sono la nazione che meglio è riuscita nel corso della storia ad incarnare una profonda religiosità civile e a farla convivere con le più diverse forme di religiosità «spirituale». Fino all’articolo (1967) di Roberth Bellah, Civil Religion in America, che ha coniato il termine «religione civile», gli studi precedenti avevano cercato di dimostrare come lo stato-nazione e la sua idea nazionalistica secolarizzante fossero ritenuti i successori del sentimento comunitario religioso. L’articolo di Bellah però, scritto soprattutto per giustificare l’intervento americano in Vietnam, ha dimostrato come proprio il nazionalismo possa assumere vesti religiose e come ci sia perfettamente riuscito negli Stati Uniti. Il melting pot degli americani, venuti da tante terre diverse, funziona, secondo il sociologo, perché tutti – pur mantenendo nella maggior parte dei casi la loro religione d’origine – adottano una «religione civile» che ha i suoi simboli e i suoi riti: la bandiera, l’inno, le feste, le parate, il culto della presidenza. Tutti siamo abituati, ad esempio, ad udire benedizioni come il famosissimo God bless America alla fine dei discorsi dei presidenti. Il merito della religione civile americana, secondo Bellah, sta non solo nell’aver saputo evitare i conflitti con le «religioni religiose», ma anche nell’aver trovato creative forme di convivenza e sovrapposizione. Sono stati costruiti, infatti, simboli potenti di solidarietà nazionale che sono riusciti a mobilitare livelli profondi di motivazione personale per il raggiungimento di traguardi nazionali. La religione civile, inoltre, non è assimilabile a un generico «culto della nazione americana», ma si può intendere come «una comprensione dell’esperienza americana alla luce di una realtà ultima ed universale».

I riti americani
Ma dove è oggi più visibile la religione civile e con che strumenti è più facile conservarla e trasmetterla di generazione in generazione? Di sicuro nei discorsi dei presidenti e in tanti simboli, riti e feste nazionali sacre che scandiscono il ritmo stagionale dei cittadini americani: l’Indipendence Day, il Thanksgiving Day, il Veterans Day e il Memorial Day. Ma anche nei tanti luoghi sacri nazionali oggi preservati grazie al lavoro del National Park Service. Questo ente nasce  nel 1916, proprio con lo scopo di custodire il patrimonio storico (e naturalistico) della nazione, prendendosi cura dei luoghi in cui la storia è avvenuta, secondo l’idea che, si legge nel sito: «La storia è ovunque, è parte di ciò che noi eravamo, di ciò che siamo e di ciò che saremo». La religione civile, infatti, è ciò che unisce nel profondo un popolo e le sue istituzioni, è la «narrazione» della sua vicenda storica e della sua tradizione culturale. La storia e il servizio offerto dai parchi storici, dunque, si inserisce nel più ampio orizzonte dell’educazione del cittadino americano. Diversi sono infatti i servizi offerti dai parchi per studenti ed insegnanti perchè è attraverso la trasmissione della memoria storica e la conoscenza di alcuni luoghi di importanza simbolica, che si crea e si sostiene l’orgoglio e un forte senso di appartenenza nazionale.

La nascita della nazione
Il principale luogo sacro nazionale che celebra l’origine degli Stati Uniti d’America è di sicuro la colonia di Plymouth in Massachusetts. Qui, infatti, quattro secoli fa, sbarcarono i primi Padri Pellegrini, dopo un duro viaggio attraverso l’Oceano Atlantico. Oggi a Plymouth c’è la Plymouth Plantation, un «museo vivente» che mostra l’insediamento originario della colonia attraverso una ricostruzione del villaggio inglese del XVII secolo. Nella sezione del museo ad esso dedicata, gli attori parlano, si comportano e vestono in modo adeguato per il periodo. Gli abitanti della colonia raccontano la dura vita degli inizi, ma anche il sogno, la fede e la perseveranza che li accompagnava nella costruzione di una nuova società basata su diritti e libertà.
Tra i passaggi decisivi nello sviluppo della religione civile in America, il primo e, forse, più importante, è legato alla rivoluzione americana (1775-1783). Partita dalla capitale del Massachussets, Boston, con la rivolta del tè, la rivoluzione ha consacrato la figura di George Washington a «Mosè nazionale» in grado di guidare il suo popolo verso la liberazione. Non c’è nessun altro periodo della storia americana, durante il quale così forte si sia sentito il dovere e il diritto di creare un nuovo mondo, una nuova società, come durante la rivoluzione americana. Thomas Paine catturò lo spirito del tempo, usando, ancora una volta, riferimenti «religiosi», quando scrisse: «Abbiamo in nostro potere la possibilità di far ricominciare il mondo, ancora una volta. (…) La nascita di un nuovo mondo è a portata di mano». Oltre all’appello per la creazione di un mondo nuovo, la rivoluzione ha prodotto profeti (come George Washington, Thomas Jefferson e Thomas Paine, tra gli altri), martiri, rituali, bandiere, festività e vacanze sacre, e pure una «Sacra Scrittura»: la Dichiarazione di indipendenza e la Costituzione.
Il Minute Man Historical Park, tra Lexington e Concord, in Massachusetts, è il luogo in cui è cominciata la Rivoluzione, il 19 aprile 1775 (A Revolution begins – A Nation is bo). I visitatori hanno la possibilità di attraversare il campo in cui è stato sparato il colpo che dette inizio alla rivoluzione: «The shot heard round the world» (il colpo che si è udito in tutto il mondo), riprendendo una frase che è poi divenuta la strofa iniziale dell’Inno di Concord di Ralph Waldo Emerson e che già dimostra l’importanza e la carica simbolica attribuita all’evento. Quel colpo, sparato forse accidentalmente, dà inizio alla rivoluzione americana e ai successivi scontri tra i due eserciti: la milizia e l’esercito regolare britannico che avevano combattuto fianco a fianco pochi anni prima nella guerra franco-indiana. È il momento fondante della ribellione, quando prende vita ed esce allo scoperto dopo una serie di azioni segrete. È anche la prima volta che un esercito composto di miliziani sfida il più potente esercito dell’epoca.
Nel parco è presente una statua dedicata al Minute Man, il soldato della milizia, che diventa il simbolo di una battaglia e dell’impegno per l’affermazione degli ideali di democrazia e libertà, contro chiunque, anche se più grande e potente, come nel caso dell’esercito britannico, voglia negarli o metterli in discussione.

Il «non ritorno»
Moltissimi sono i parchi celebrativi della rivoluzione americana ed un altro che merita attenzione è il Saratoga National Historical Park: A Crucial American Victory (Una vittoria americana cruciale). A Saratoga, infatti, nell’autunno del 1777 le forze americane incontrarono, sconfissero e costrinsero alla resa l’esercito britannico, segnando «il punto di svolta della rivoluzione americana», espressione con cui la battaglia di Saratoga è poi stata conosciuta e tramandata. Saratoga ha, infatti, rinnovato le speranze di indipendenza e, nell’epica che circonda la rivoluzione, «ha cambiato per sempre il volto del mondo». Il forte significato simbolico della battaglia di Saratoga sta nel fatto che l’imponente esercito inglese fu costretto ad arrendersi agli americani, cioè, ancora una volta, a coloro che volevano creare un nuovo mondo basato su libertà, democrazia e giustizia.
La religione civile sembra finora aver garantito un’unità culturale, basata sulla conquista e la difesa della democrazia, sulla libertà e l’uguaglianza di diritti e di doveri, per un popolo dalle diverse fedi e culture. Ma in un momento storico caratterizzato dalla globalizzazione e dallo sviluppo di società sempre più complesse e multiculturali permane il dubbio se la religione civile possa ancora essere il collante in grado di tenere insieme una nazione. E se gli americani saranno ancora in grado di riconoscersi come cittadini di questo Paese.

Viviana Premazzi

Viviana Premazzi




La religione del potere

Le minoranze cristiane e l’Islam

Nel 2011, le violenze contro le minoranze non islamiche sono state frequenti. Si sono contate numerose vittime e molti cristiani sono fuggiti all’estero. Parlare di intolleranza religiosa è facile, ma non sempre corretto. Spesso dietro le violenze ci sono i giochi del potere. Ieri Mubarak, oggi i militari hanno tutto l’interesse a distrarre gli egiziani dai problemi della quotidianità. Nel frattempo, in attesa delle elezioni presidenziali, la «rivoluzione» langue.

Il Cairo. Le recenti tornate elettorali, in tutti i paesi del nord-Africa, hanno portato al potere i partiti di matrice islamica. Marocco, Tunisia ed Egitto si sono scoperti conservatori più di quanto ogni analista avesse anticipato. La Camera bassa del Parlamento egiziano è composta per il 40% dai rappresentanti del partito Libertà e Giustizia (costola politica del movimento dei «Fratelli Musulmani») e per il 28% dagli eletti nelle file del partito salafita di Al Nour. La svolta islamica del paese, dopo la caduta di Mubarak, ha messo in fuga decine di migliaia di cristiani.
In Egitto vivono 83 milioni di persone di cui circa un decimo sono di fede cristiana. Questi dati sono però approssimativi. Infatti, nell’ultimo censimento, di inizio anni Ottanta, il dato sulla confessione religiosa non è considerato attendibile. La maggioranza dei cristiani appartengono alla Chiesa di Alessandria d’Egitto, e vengono chiamati copti, al-Qubat in arabo. Questa denominazione viene dal greco aiguptioi e definiva i discendenti cristiani degli antichi egizi, che nel VII secolo non si convertirono all’islam, dopo la conquista del paese da parte degli arabo-musulmani. Dopo secoli di discriminazioni, la situazione dei copti inizia a migliorare a cavallo tra ’800 e ‘900. Le prime violenze interconfessionali del dopo-Mubarak si registrano il primo gennaio 2011: ad Alessandria un attentato suicida uccide 21 persone e ne ferisce altre 79 alla messa di fine anno. Nei mesi successivi si registrano altre violenze: l’8 marzo in un quartiere periferico della capitale ci sono 13 morti: 7 cristiani e 6 musulmani. Sono invece 12 i morti l’8 maggio, a causa degli attacchi nei confronti di due chiese nei sobborghi del Cairo, ma l’episodio più cruento avviene a inizio autunno. Centinaia i feriti e 36 morti è stato il bilancio degli scontri avvenuti il 9 ottobre al Cairo nelle vicinanze di Maspero, nome della torre della radio-televisione pubblica egiziana situata sul lungo Nilo del Cairo. I giornali di tutto il mondo hanno raccontato questi scontri come l’apice della violenza interconfessionale, divampata in Egitto dopo la caduta di Mubarak. Quando l’11 febbraio 2011 viene dato l’annuncio che Mubarak lascia il potere, lo Stato rischia di sbandare e l’esercito, che da sempre è considerato dagli egiziani come il garante della stabilità, prende il controllo del paese. La legge d’emergenza, che dà al Presidente (carica ricoperta ad interim dal generale Tantawi) poteri speciali, resta in vigore. Il presidente, sino alle elezioni che si terranno entro giugno 2012, rimane formalmente Hosni Mubarak, ma tutte la sue funzioni sono espletate da Tantawi, che siede a capo del «Consiglio superiore delle Forze armate» (Scaf). Con il passare dei mesi, i rivoluzionari di piazza Tahrir prendono le distanze dall’operato dei militari e ricominciano le proteste. Prima al riparo delle differenti confessioni religiose e poi sempre più dichiaratamente contro lo Scaf. Il punto più violento è la settimana prima delle elezioni, a novembre 2011, quando negli scontri muoiono più di 80 persone. In queste manifestazioni partecipano persone di ogni estrazione: giovani laici come uomini con le barbe lunghe, emblema dei salafiti. Tra questi anche un anziano sacerdote ortodosso che racconta: «La giunta militare ha deciso di ucciderci. Ha cominciato sin dall’11 febbraio. Ha ucciso i copti a Maspero. Ha ucciso egiziani, cristiani e musulmani in piazza Tahrir».
Abeer Saady è la vice-direttrice del sindacato dei giornalisti egiziani, unica donna eletta tra la dirigenza dell’istituzione. Saady ha vissuto la rivoluzione e gli scontri dell’ultimo anno sempre in prima linea: «Quello che è successo a Maspero è tutt’altro che uno scontro religioso. In quella marcia c’erano copti e musulmani, assieme pacificamente. Marciavano per raggiungere la torre delle telecomunicazioni, quando sono stati attaccati dai militari. Queste violenze sono state documentate da un famoso blogger Alaa Abdel Fattah, che era presente alla manifestazione, e che ha usato tutti i social media per documentare quanto accadeva». Alaa, dopo i fatti di quella notte, è stato arrestato dai militari ed è rimasto nelle carceri egiziane per diversi mesi. «La controrivoluzione e l’esercito – continua la Saady – cercano di distruggere la credibilità di blogger e giornalisti. Si usa e si abusa della religione in questi casi». Sono in molti gli egiziani a pensarla come la sindacalista: Ibrahim ciondola per piazza Tahrir, si avvicina e ascolta interessato i discorsi che vedono in contrapposizione cristiani e musulmani: «Io sono musulmano, prego tutti i giorni, ma ho sempre frequentato le scuole cattoliche. Nel mio palazzo non vive nessun cristiano, ma in quello davanti a me ce ne sono diversi. In Egitto e soprattutto qui al Cairo, viviamo assieme. Certo puoi riconoscere i cristiani: hanno feste e abitudini diverse dalle nostre, ma non tanto da essere meno egiziani di me!». Mentre fa l’elenco di tutte le attitudini comuni tra cristiani e musulmani, assicura che non esiste discriminazione per le minoranze: «Se si fanno delle differenze vengono dalle persone corrotte che ci governano. La notte degli scontri a Maspero, mentre la gente iniziava a morire per strada la televisione pubblica, controllata dall’esercito, incitava all’odio inter-religioso. Il telegiornale raccontava che un gruppo di copti aveva attaccato l’esercito».

SUOR MARINA
Il quartiere di Eliopoli si trova alla periferia del Cairo, ci vuole più di un’ora di tram per arrivarci dal centro. La zona è residenziale, molto pulita e curata. Qui vive una numerosa comunità cristiana, vi risiedono sia cattolici che ortodossi. Suor Marina vive da cinque anni nel convento che si trova vicino a una delle chiese del quartiere, quella di Santa Fatima. È originaria di Assuan, città del sud dell’Egitto. Il suo velo è bianco e dalle maniche del vestito blu fa capolino il tatuaggio di una croce sul polso sinistro. Questo particolare sembra ricordare i punti di contatto che il cristianesimo ha con la tradizione locale, per la quale le mani delle donne accolgono disegni fatti con l’henné. «In questo convento – racconta suor Marina- ci sono sette suore, due maestre (suore anch’esse, ma con il ruolo di seguire le nuove vocazioni nel cammino verso i voti), io sono una di queste, e cinque postulanti. Anche qui, come in Europa, viviamo un periodo di crisi delle vocazioni, ma le postulanti sono il segno che non lasceremo l’Egitto. Siamo egiziane anche noi». Mentre racconta del convento e dei suoi studi a Roma, traspare la sua tranquillità e anche quando, incalzata dalle domande sul rapporto con i musulmani, ricorda i giorni degli scontri più violenti non c’è in lei alcuna rabbia: «In quei momenti ci siamo chiuse in convento. Avevamo un coprifuoco e solo due di noi andavano a fare la spesa, il rapporto con l’esterno era principalmente il sacerdote che veniva ogni giorno a dire messa. Molti cristiani – continua Suor Marina- hanno lasciato il paese, i giornali parlavano di un vero e proprio esodo. Tanti sono andati in America o hanno raggiunto dei parenti in Europa, molti sono andati proprio in Italia». Suor Marina non perde il suo tono sereno nemmeno parlando degli scontri e delle decine di morti che ne sono conseguiti, anche se ammette: «Abbiamo avuto paura. Con le altre sorelle non sapevamo se ci avrebbero mandato via e tutt’ora non sappiamo quali sono le intenzioni del nuovo governo. Proprio per questo le comunità cristiane, senza fare differenza tra i riti, sono più unite che mai». Uno dei fattori più imprevedibili, in questi mesi di transizione, è proprio il governo. Infatti questo non è composto dagli eletti nelle consultazioni elettorali di novembre, ma da membri della Giunta militare. Suor Marina riprende: «Con i Fratelli Musulmani alla guida del paese la situazione potrebbe migliorare, basti pensare che hanno fatto eleggere nelle loro liste diversi cristiani. Questi parlamentari non avrebbero mai avuto la forza per farsi eleggere autonomamente, ma essendo stati inseriti nelle liste di Libertà e Giustizia adesso possono rappresentarci in Parlamento». Suor Marina versa il thé e prepara un vassoio con i dolci «tipici egiziani» sottolinea. «Viviamo accanto ai musulmani. Per noi non sono stranieri, ne noi lo siamo per loro. Certo ci sono dei punti di attrito, ma nei giorni delle rivolte contro Mubarak, a difendere le strade di questo quartiere c’erano, uno accanto all’altro, giovani islamici e cristiani». L’unico nervo scoperto lo si tocca parlando dell’evangelizzazione: «In effetti per chi si converte la vita è tutt’altro che semplice. Se un musulmano diventa cristiano accetta di non vivere più la normalità, ed è costretto a lasciare l’Egitto; molti di essi vanno negli Stati Uniti. Allo stesso tempo, un copto che si converte all’islam non è detto che venga accettato senza problemi. Queste sono situazioni che una buona democrazia potrebbe risolvere ed è per questo che vorremmo un governo laico. Non vedo perché la religione debba influenzare le decisioni politiche, rischiando così di incitare comportamenti discriminatori». Facendole notare che il partito salafita aspira a introdurre la Shaaria, la legge islamica, risponde: «È giusto difendere la democrazia. Quindi, nessuno deve avere l’obbligo di portare il velo». E conclude con una battuta: «Anche se per me non cambierebbe molto. Dato che lo indosso ogni mattina…».

DISEGUAGLIANZE
La contrapposizione e le discriminazioni all’interno della società egiziana sono però visibili e ce ne parla Said Shehata, egiziano e da diversi anni professore alla London Metropolitan, autorevole università inglese: «La questione dei cristiani ha radici profonde. Non si applica lo stesso diritto per la costruzione di chiese e moschee: quest’ultime si possono costruire molto più facilmente. Nelle tensioni tra cristiani e musulmani – continua il professor Shehata- il vecchio regime ha avuto un ruolo importante: la questione religiosa è stata utilizzata per dividere le persone. Questo è avvenuto per far sì che il popolo non si focalizzasse sul regime, ma fosse interessato e preoccupato per altre questioni. Detto questo, è evidente che non c’è uguaglianza tra cristiani e musulmani: solo uno dei 26 governatori egiziani non è un fedele dell’islam, solo pochi ambasciatori sono cristiani e anche le posizioni di governo non sono equamente distribuite. Questi fattori ci portano a dire che c’è una discriminazione anche a livello politico nei confronti dei cristiani». Secondo lo studioso il problema «non è stato creato dai musulmani, ma dal regime e la società ora se lo porta dietro. La tensione c’è ancora e l’unica possibilità di risolverla è partire dall’idea che cristiani e musulmani sono cittadini con eguali diritti». La speranza per la costruzione di un nuovo Egitto post-rivoluzione passa anche dalla soluzione dei conflitti interreligiosi. «Entrambe le comunità – conclude il professore – devono essere coinvolte nella stessa misura. Bisogna incentivare le leggi che cancellino ogni tipo di discriminazione e in particolar modo bisogna usare i media e l’educazione perché parlino dei valori comuni invece che di presunte differenze».

Cosimo Caridi

Cosimo Caridi




Kenya, uniti per la pace: ripartire dai giovani

Cooperando

Riunire migliaia di giovani perché possano discutere e confrontarsi, liberare il campo dagli odi fra
etnie, cercare le reali cause del conflitto e trovare una soluzione comunitaria. Questi gli obiettivi del progetto «Giovani uniti per la pace in Kenya» lanciato dai missionari della Consolata e dall’Associazione Africa Rafiki. Affinché la tragedia degli scontri post-elettorali del 2007 e 2008 non si ripeta e prevalgano il dialogo e la riconciliazione.

Era da poco passato Natale quando l’opinione pubblica internazionale fu bruscamente strappata alla tranquillità delle feste dai primi notiziari che parlavano di centinaia di morti e migliaia di sfollati in tutto il Kenya, risucchiato in una tanto inspiegabile quanto cruenta spirale di odio e violenza interetnica all’indomani delle elezioni politiche del 27 dicembre 2007. Increduli, con il disastro ruandese del 1994 ancora negli occhi, gli osservatori cercavano di spiegare come potesse essere successo quello che unanimemente era ritenuto impossibile: che, cioè, un paese come il Kenya, non certo estraneo alle tensioni fra etnie ma dimostratosi fino a quel momento capace di gestirle, stesse sperimentando la stessa follia collettiva che si era vista all’opera in altri paesi africani e che si sperava superata e irripetibile.
La crisi si chiuse il 28 febbraio del 2008, con l’accordo fra i due contendenti, il presidente uscente Mwai Kibaki e l’oppositore Raila Odinga e la formazione di un governo di coalizione. Rimaneva da far luce sulle violenze perpetrate in quei due lunghissimi mesi di conflitto, il cui drammatico bilancio registrava più di mille morti e seicentomila sfollati costretti ad abbandonare le proprie case nel timore di essere attaccati e massacrati da quelli che, fino a poche settimane prima, erano stati i loro vicini di casa.
Oggi, a quattro anni di distanza, il Paese si prepara a una nuova consultazione elettorale, prevista per la fine del 2012-inizio 2013, in un contesto certamente più disteso e pacificato nel quale però i cittadini keniani rimangono guardinghi. Sebbene il forte desiderio del paese di gettarsi alle spalle i traumi del 2008 nutra un ottimismo tutto sommato abbastanza diffuso, nessuno si sente di escludere del tutto che lo spettro del conflitto inter-etnico torni ad aleggiare non appena la campagna elettorale dei candidati alla presidenza entri nel vivo. Contraddittori sono stati anche i segnali in arrivo dal Kenya dal 2008 ad oggi: se, da un lato, il paese ha accolto in maniera tutto sommato equilibrata la recente decisione del Tribunale Penale Internazionale di incriminare quattro esponenti politici keniani – fra i quali il figlio dell’ex-presidente Jomo Kenyatta, Uhuru – per omicidio, crimini contro l’umanità, deportazione e persecuzione sulla base di affiliazione politica, dall’altro diverse fonti, fra le quali un report della BBC, hanno segnalato circa due anni fa un tentativo di armarsi che alcuni gruppi della Rift Valley avrebbero perseguito acquistando fucili d’assalto AK 47 e G3.
In questo contesto di fiducia prudente si inserisce l’iniziativa «Giovani Uniti per La Pace in Kenya», un progetto della durata di ventinove mesi che prevede l’organizzazione di forum per la riconciliazione in undici località del Kenya. L’obiettivo è quello di coinvolgere circa sedicimila giovani dei gruppi etnici che si sono scontrati nel 2008, in un processo di valutazione e riflessione comunitario sul conflitto post-elettorale per demistificare l’elemento etnico, riconoscere e individuare le reali cause del conflitto e cercare di rimuoverle attraverso la collaborazione e il dialogo all’interno della comunità.

Presi alla sprovvista
«We were caught unaware», (siamo stati presi alla sprovvista). Padre Jacob Ndong’a non si dava pace, e con lui tutti i missionari presenti in Kenya, anche quando nel 2009 la situazione intea era in corso di normalizzazione e la «Commissione per la verità, la giustizia e la riconciliazione», istituita dal nuovo governo, era al lavoro per investigare sui crimini commessi durante gli scontri. La mediazione internazionale dell’ex-presidente ghanese John Kufuor e dell’ex-segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan, insieme alle pressioni della comunità internazionale, avevano portato già nel febbraio del 2008 a un accordo fra Mwai Kibaki e Raila Odinga, che avevano formato un governo di coalizione nel quale i due rivali erano, rispettivamente, presidente della repubblica e primo ministro, ma, al di là degli accordi politici di stabilizzazione, il paese era ancora profondamente traumatizzato.
I segni della violenza, d’altronde, erano tutt’altro che cancellati: a Kisumu, città del Kenya occidentale sulle rive del lago Vittoria, in pieno centro città gli edifici dati alle fiamme durante il conflitto rimanevano, neri di fuliggine e sventrati, come cicatrici non ancora rimarginate e pronte a riaprirsi al primo strappo.
Il senso di frustrazione implicito nelle parole di padre Ndong’a derivava principalmente dalla consapevolezza, condivisa dalla maggior parte dei missionari e degli operatori umanitari attivi in Kenya, che gli scontri post-elettorali del 2007 – 2008 avevano cause molto più profonde della semplice contrapposizione etnica, cause che però erano state ampiamente sottovalutate nel loro potenziale distruttivo.
Ad essere preso alla sprovvista è stato in effetti un Paese intero, chiesa cattolica compresa, che pure da anni nei suoi documenti segnalava la gravità della situazione e l’urgenza di risolvere una volta per tutte il problema della terra. La speranza di elezioni pacifiche aveva fatto sottovalutare la campagna di odio etnico messa in atto nei mesi immediatamente prima delle elezioni con ampio uso di radio locali e cellulari. Questo ottimismo «a tutti i costi» aveva lasciato campo libero a quella parte di classe dirigente che aveva volutamente strumentalizzato l’elemento etnico per fomentare tensioni da capitalizzare come merce di scambio nell’arena politica. Nella maggior parte dei casi, le violenze sono state perpetrate da giovani frustrati dalla mancanza di prospettive occupazionali che avevano accettato, in cambio di una manciata di scellini offerti dagli emissari di politici di diversi schieramenti – ben organizzati già da mesi -, di impugnare la panga (il tipico coltellaccio usato dai contadini per far di tutto, dal tagliare alberi al pulire la terra dalle erbacce, dal macellare un animale al farsi uno stuzzicadenti) e diventare giustizieri e difensori del proprio gruppo etnico.

Il conflitto e le sue cause
Proprio questo disagio giovanile è una delle chiavi di volta per comprendere i fatti del 2007 – 2008. Il tasso di disoccupazione, in Kenya, è intorno al 40%: circa sedici milioni di keniani non hanno un lavoro. Di questi, dieci milioni sono giovani fra i 18 e i 30 anni. «L’assenza di prospettive e la difficoltà a garantirsi la sussistenza», commentava padre Gigi Anataloni, missionario della Consolata e direttore della rivista The Seed di Nairobi all’epoca degli scontri, «si trasformano velocemente in mancanza di fiducia in se stessi e nel futuro. Giovani in questa condizione, che vivono di espedienti e che covano una rabbia e una frustrazione profonde, non sono difficili da coinvolgere in azioni violente in cambio di denaro».
Al disagio giovanile si aggiungono altri fattori, primo fra tutti quello dell’iniqua distribuzione della terra. «È un problema che affonda le sue radici nel colonialismo», precisa padre Michael Njagi da Mombasa, dove particolarmente serie sono le conseguenze del mancato riconoscimento del diritto alla terra. «Fu durante l’epoca coloniale che i nativi di zone di particolare interesse agricolo furono sfollati verso aree meno fertili per poter assegnare le loro terre ai coloni europei, sulla base di quanto sancito dal leggi come il Crown Lands Ordinance del 1902 poi rimpiazzato dal Govement Land Act del 1915. Il principio di gestione comunitaria delle terre andò perduto, accantonato in favore del modello occidentale di possesso privato.
A peggiorare la situazione furono le ridistribuzioni successive all’indipendenza, spesso attuate dai nuovi governi in maniera poco chiara a favore di individui potenti e ben introdotti, in grado di corrompere le autorità preposte all’assegnazione delle terre. Si calcola che circa il 60% di tutte le terre arabili sia nelle mani di pochi latifondisti, tra cui molti membri di governi passati e presenti.
Infine, ed è il fatto più di recente, le multinazionali straniere si stanno accaparrando i pezzi di terra migliori e, secondo le stime del Ministero della terra del Kenya, una serie di proprietari assenti, keniani e stranieri, posseggono oltre settantasette mila ettari di terra solo nella zona costiera fra Malindi e Mombasa dove le comunità locali sono costrette a vivere pagando affitti mensili e rischiando costantemente di essere sfrattate e allontanate».
Ulteriore elemento da tenere in considerazione, se si vogliono ricercare le cause reali del conflitto, è l’elevato tasso di corruzione, presente a tutti i livelli della società keniana, che in un contesto di risorse scarse o scarsamente utilizzate limita ulteriormente i margini di ridistribuzione della ricchezza. Se il modo più efficace e diffuso per garantirsi un impiego o un incarico è quello di corrompere chi è nella posizione di concederlo, è evidente che la stragrande maggioranza dei keniani è esclusa dalle dinamiche del mercato del lavoro. «È da questo insieme di fattori», riflette Josephat Khamasi Bandi, responsabile della ong keniana Yupk – Youth United for Peace in Kenya, «che si deve partire per tracciare un quadro realistico delle tensioni alla base del conflitto post-elettorale. La rivalità interetnica ha certamente aggravato queste tensioni ma non le ha causate e, senza queste ingiustizie di fondo, le rivalità tribali da sole non avrebbero potuto causare scontri su larga scala come quelli del 2008».

Il progetto «Giovani Uniti per la pace in Kenya»
È su questa serie di riflessioni che si è basata l’ideazione del progetto Giovani Uniti per la Pace in Kenya. Nato come movimento spontaneo di migliaia di giovani che, all’indomani degli scontri, si riunirono a Dagoretti, nella periferia di Nairobi, per discutere dell’accaduto e cercare risposte pacifiche e comunitarie alla violenza, il progetto attuale è l’ampliamento e l’estensione di quell’iniziativa quasi istintiva. Il responsabile di Yupk, Josephat Khamasi Bandi, è oggi il cornordinatore del progetto ed è impegnato in un intenso lavoro di organizzazione e supervisione dei forum.
«Nel 2008 abbiamo cominciato dalla zona della Rift Valley, dove gli scontri erano stati più aspri e sanguinosi», spiega Josephat, «e abbiamo organizzato forum di due giorni in ventisei parrocchie. A ogni forum partecipavano almeno cinquanta persone, molte delle quali erano proprio i perpetratori delle violenze. Il nostro obiettivo era quello di riunirle e permettere loro di confrontarsi: spesso il risultato erano scontri verbali piuttosto accesi, frutto di un risentimento ancora molto vivo. Ma, piano piano, grazie alla mediazione dei nostri moderatori, le persone trovavano la motivazione e le parole per aprire un dialogo e cominciavano a riconoscere che il problema non era essere kikuyu, luo, kalejin o samburu, bensì non avere a disposizione risorse che permettessero a tutti di garantirsi il sostentamento o il rispetto dei diritti più basilari, come il diritto al lavoro, alla terra, all’acqua. I risultati sono stati incoraggianti, per questo abbiamo deciso di cercare fondi che permettessero di allargare l’iniziativa a tutto il paese».
Oggi il progetto tocca undici località in tutto il Kenya e sono previsti centosessantacinque forum in ventinove che coinvolgeranno oltre sedicimila persone. Durante questi forum si replicheranno le modalità di invito al dialogo e al confronto già sperimentate nella Rift Valley, «naturalmente», aggiunge Josephat, «adattando l’iniziativa alla realtà locale e ai problemi prevalenti in quel contesto. Un conto è far comunicare kikuyu e kalejin che hanno come principale motivo di contesa la ripartizione della terra, altra cosa è aprire un dialogo fra Samburu e Pokot, che competono per l’accaparramento del bestiame e il controllo delle risorse idriche».
Le fasi del progetto sono essenzialmente due: la prima ha lo scopo di accompagnare i partecipanti dei forum fino alle prossime elezioni in un percorso di risanamento della memoria (healing of memories) e presa di coscienza dei propri diritti e doveri di cittadini. La seconda, che comincerà subito dopo le elezioni, darà una valutazione dei risultati ottenuti durante la prima fase – anche alla luce della reazione dei partecipanti a eventuali tensioni pre e post-elettorali – e getterà le basi per una gestione comunitaria dei conflitti e delle diatribe intee.

Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Voci dal Congo

Qui Kinshasa

Il presidente uscente vince al primo tuo e si proietta verso il secondo mandato di 5 anni. Ma i disordini non mancano. La gente, però, sceglie pace e stabilità.

Kinshasa è famosa per il gran numero di persone che camminano per strada. I quartieri di Masina e Kingasani sono conosciuti come «Cina Popolare» per la quantità di gente che c’è ovunque. Attraversare la strada diventa un’esperienza nella quale occorre combinare audacia, rapidità e prudenza. La capitale ha quasi 10 milioni di abitanti ed è molto estesa, perché pochi sono gli edifici a più piani.
A partire dal 28 novembre e fino a metà dicembre, tutto era diverso. Il giorno delle elezioni non si vedeva circolare quasi nessun veicolo. Dei taxi, imprescindibili per spostarsi in città, neanche l’ombra.
Quel giorno ho fatto un giro e ho inconrato gente piuttosto disorientata. Nella tessera elettorale c’era il nome del collegio, ma quando vi arrivavano lo trovavano chiuso e dovevano recarsi altrove. I commenti erano: «Vogliono ubriacarci affinché non votiamo», «Dove dobbiamo andare?», «Sicuro che hanno trasferito anche il mio nome?». Alcune persone hanno passato più di quattro ore cercando il proprio collegio elettorale, finché hanno potuto votare.
Altri non hanno avuto questa fortuna. Trovato il seggio, il loro nome non era sulla lista e hanno dovuto tornare a casa stanchi e arrabbiati con il sentimento di essere stati presi in giro.
Sabato, il giorno della chiusura della campagna elettorale, è stato un giorno difficile. I tre maggiori candidati dovevano fare il comizio finale, ma nessuno ha potuto farlo. Ci sono stati scontri tra i diversi gruppi di sostenitori, e la polizia li ha repressi brutalmente. Carine, un’amica mi ha chiamato al telefono per sapere la situazione dalla nostra parte della città. Le ho detto che era tutto tranquillo. Lei invece era sdraiata a terra da oltre due ore, vicino a sua madre e a sua sorella maggiore, perché si sentivano diversi spari nelle vicinanze e c’era il rischio che proiettili vaganti entrassero in casa. La settimana dopo le elezioni le scuole continuavano a essere chiuse e c’erano pochissimi mezzi e taxi in circolazione. Si viveva una calma tesa. Tutti stavano aspettando che accadesse qualcosa di strano in un qualsiasi momento. 
Il sabato alcuni bambini sono venuti a trovarci a casa. È stata una sorpresa perché era quasi una settimana che nessuno veniva a visitarci. Non ne potevano più di stare in casa. Erano già due settimane che non avevano corsi e non sapevano cosa fare. Questo mi ha fatto pensare al ritardo scolastico che può comportare una situazione come questa. Parlando di guerre e conflitti si contano le vittime e i feriti, i danni materiali, ma non si parla dei bambini che non possono andare a scuola o degli universitari che, pur avendo pagato le tasse, perdono l’anno.  

I giorni passavano e la Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni) ha iniziato a rendere pubblici risultati parziali. Si sentiva in giro un’aria di delusione. Molti congolesi avevano l’impressione che li stessero ingannando e prendendo in giro. Erano disillusi. Si sentivano commenti del tipo: «Hanno riso di noi. Non andrò mai più a votare in vita mia». La gente aveva fatto molti sforzi per ottenere la tessera elettorale. E questa è una città dove si vive giorno per giorno, non si ha l’opportunità di economizzare, non ci si può permettere il lusso di passare due giorni in coda.

Finalmente è arrivato il 14 dicembre, il giorno della proclamazione dei risultati provvisori. Era venerdì. La città era completamente deserta e io tornavo dal lavoro alle due del pomeriggio. Un percorso che faccio normalmente in oltre un’ora non mi ha preso più di dieci minuti. Arrivato a casa, trovai tutta la comunità del Teologato davanti alla Tv. L’annuncio era imminente. Iniziarono alle tre a trasmettere i risultati con discorsi interminabili, che facevano anche riferimento a «Dio onnipotente». I risultati venivano scanditi per regione secondo il numero di voti di ogni candidato. Oltre un’ora per arrivare ai totali. Incredibile!
È stato ancora più incredibile constatare quello che si temeva, confermato dalla Ceni: una differenza di tre milioni di voti tra Kabila e Tshisekedi. Nelle province in cui Kabila aveva vinto, la percentuale di partecipazione si avvicinava … al 95%! Per evitare disordini, l’esercito e la guardia repubblicana avevano isolato le zone strategiche della città. Sembrava di vivere in uno stato di assedio. C’erano blindati a lato delle strade e autobotti che sparavano acqua calda dove si riuniva un gruppo numeroso.  I tentativi di manifestazione erano repressi immediatamente. Il governo aveva anche impedito la trasmissione di sms. Così per oltre un mese nessuno in Rdc ha potuto inviare messaggi, si potevano solo ricevere dall’estero. Tutto questo per ostacolare la capacità di convocazione di manifestazioni, visto che c’è poca gente collegata quotidianamente a Inteet e usare i social network era difficile.
Altro dato significativo: Kabila non ha convocato neppure i suoi sostenitori per ringraziarli del loro appoggio durante il processo elettorale.
Tutti hanno manifestato disaccordo con le irregolarità dello scrutinio: i candidati, i partiti politici, la società civile, la chiesa cattolica, la comunità internazionale.
C’era un’aria di tristezza in tutta la città. Anche se Tshisekedi non avesse vinto le elezioni in tutto il paese, però certo, era chiaro che Kabila non avesse vinto con la differenza che mostravano i risultati finali.
Eravamo ormai alla vigilia di Natale, ma devo riconoscere che quest’anno non c’era un clima di festa e nemmeno il desiderio di farsi gli auguri per il nuovo anno. Se si facevano gli auguri a qualcuno, questi ti guardava in faccia come per dire: «Lo dici sul serio o stai prendendomi in giro?».

Ramón Lázaro Esnaola

 

Ramón Lázaro Esnaola




Normalità cercasi

Elezioni legislative nel paese del cacao

Finalmente il rinnovo del parlamento. Scaduto da 5 anni. Ma i militanti di Gbagbo non ci stanno e boicottano lo scrutinio. Il legislativo risulta così monco, e rappresenta solo metà degli ivoriani. Reportage della nostra inviata.

Un anno fa la Costa d’Avorio era nel mezzo di una violenta guerra civile, scoppiata come crisi post elettorale ma con radici antiche di oltre un decennio e risultato di un travagliato percorso politico (vedi MC Febbraio 2011). Si parlava di Republique du Golf perché il presidente Alassane Ouattara, legittimamente eletto al secondo tuo delle elezioni presidenziali svoltesi il 28 novembre 2010, aveva trasformato l’Hotel Golf nel suo quartier generale. L’Hotel, in passato il più lussuoso di Abidjan, era protetto dalle forze militari delle Nazioni Unite e dai soldati francesi contro gli attacchi delle milizie pro Gbagbo, il Presidente uscente che, non accettando il verdetto delle ue, si era autoproclamato vincitore. La crisi è durata cinque mesi, durante i quali il paese è rimasto paralizzato; le vittime ufficiali sono state 3.000 e gli sfollati oltre 100.000; l’economia, già in stallo, ha sofferto danni incalcolabili, e gli ivoriani, non riescono a dimenticare l’incubo vissuto.

Violenza, odio, follia
Abullay, autista e residente di Abobo, uno dei quartieri popolari di Abidjan più coinvolti negli scontri, ci descrive le atrocità e l’orrore di quei mesi. «Mai in vita mia e in questo paese avevo osservato tanta violenza, tanto odio, tanta follia. E per quale motivo? Qualcuno me lo spieghi per favore, perché io non capisco». La voce di Abullay fa eco a quella di tanti altri ivoriani, di ogni classe, etnia, religione e in ogni angolo della Costa d’Avorio. L’orrore della guerra tra le milizie delle Forze Nuove (Fn), in difesa del presidente Ouattara, e l’esercito controllato dell’ex presidente Laurent Gbagbo, ha provocato uno shock che la gente non ha ancora superato, specie a distanza di un periodo così breve.
Oggi il problema sicurezza è tra i più sentiti e costituisce una priorità per il futuro governo del paese. Le armi distribuite durante la crisi non sono ancora state deposte e sono nelle mani dei civili che, non sapendo più a che fazione obbedire, si sono semplicemente trasformati in banditi, e attaccano camion carichi di cacao, rubano e spargono terrore. A livello di forze dell’ordine, quelli che prima erano chiamati ribelli ora costituiscono le Forze Repubblicane della Costa d’Avorio (Frci) e dovrebbero essere i garanti della sicurezza.  Polizia e Gendarmerie sono parzialmente inoperative per i danni subiti nella guerra e perché prive di armi, anche a causa dell’embargo ancora in vigore. Alcuni giovani soldati Frci ci spiegano che non ricevono un salario da mesi, vivono in hotel o edifici che avevano occupato nella loro discesa dal Nord e spesso si rivolgono alla popolazione locale per ricevere cibo, tabacco e denaro; in cambio, dicono, garantiscono la protezione. Il ministro Achi Patrik, deputato Pdci (Partito Democratico della Costa d’Avorio, guidato dall’ex presidente Henri Konan Bedié) eletto nella circoscrizione di Adzopè (Regione dell’Agneby) ammette la gravità del problema: «Ci sono oltre 26.000 militari, un tempo membri delle Forze Nuove e delle Forze di Difesa e Sicurezza (Fds), queste ultime fedeli a Gbagbo, che oggi devono essere reintegrati nella società. Nelle neonate Frci convivono con difficoltà i due gruppi armati (i membri delle ex Fn sono maggioritari), e spesso mancano di formazione, di inquadramento, di disciplina. Inoltre, la quantità di armi ancora in circolazione è elevatissima; la sicurezza resta una bomba pronta ad esplodere in ogni momento».

Armi e manipolazione
Il capo villaggio di Akoupè, zona Est del paese, cuore della resistenza di Gbagbo, risponde all’interrogativo di Abullay: «Il popolo della Costa d’Avorio è pacifico, ma quando entra in gioco la politica, tutto si trasforma. Fratelli, cugini che aderiscono a fazioni opposte diventano nemici, l’odio e l’irrazionalità prevalgono su ogni etica di fratellanza e solidarietà. Nella nostra regione la popolazione è principalmente contadina e in maggioranza analfabeta. I leader politici hanno manipolato questa gente per oltre dieci anni con argomenti di propaganda e promesse fasulle, come la possibilità di definire il prezzo del cacao, che in realtà dipende dal mercato internazionale. Le armi sono state distribuite e la miccia della rivalità etnica innescata».
L’11 dicembre 2011 gli ivoriani sono stati chiamati nuovamente alle ue, questa volta per eleggere 255 deputati dell’Assemblea Nazionale (il Parlamento unicamerale). Le ultime elezioni legislative si erano svolte nel 2000 e gli eletti avrebbero dovuto avere un mandato di cinque anni ma, a causa della duratura crisi politica, sono rimasti in carica per oltre dieci anni con una legittimità precaria e un’operatività limitata.
Le elezioni del 2011 sono definite di «uscita dalla crisi» e vengono convocate e organizzate in tutta fretta dal governo Ouattara. Il Fronte Popolare Ivoriano (Fpi), partito di Gbagbo, decide di non partecipare perché le condizioni richieste non vengono accolte: il Fpi richiede la liberazione dell’ex presidente e il rientro di tutti gli altri leader esiliati; lo scongelamento dei conti del partito e una ricomposizione più equilibrata della Commissione Elettorale Indipendente (Cei). Gbagbo è invece estradato e portato all’Aia, il 29 novembre, per comparire davanti alla Corte penale internazionale. Il sabotaggio elettorale del Fpi è tema di discussione costante: alcuni membri del partito decidono di candidarsi comunque sotto il titolo di Indipendenti ma la maggior parte dei fedeli di Gbagbo obbedisce alle istruzioni e si auto esclude dal processo elettorale. In varie zone del paese il partito, a poche ore dal voto, invia sms invitando a non andare a votare, e a elezioni concluse ne chiede l’annullamento, definendo tutto il processo una mascarade (mascherata).

Parlamento monocolore
Il prefetto di Affery è convinto che il Fpi stia commettendo un grave errore, di cui si pentirà. «I militanti dell’ex presidente non hanno capito che dovranno aspettare altri cinque anni per rientrare nell’Assemblea Nazionale; e in questo periodo non avranno voce, non ci sarà vera opposizione né contropotere a quello presidenziale».
Di parere opposto madame Goman, quadro storico Fpi: «Queste elezioni sono una vergogna e faranno indietreggiare il paese di dieci anni. Come è possibile che il nostro presidente, che nel primo tuo delle presidenziali ha ottenuto il 40% dei voti, sia trattato in questo modo, estradato e giudicato da quella comunità internazionale che ha sempre fatto gli interessi della Francia e non degli ivoriani?».
I preparativi delle elezioni legislative da parte della Cei si svolgono in modo abbastanza regolare, malgrado i dubbi sulla composizione altamente politicizzata della Commissione; la campagna elettorale ufficialmente dura una settimana ma ogni candidato aveva avviato una strategia pre-campagna «classica». Il direttore di campagna ministro Bictogo, eletto deputato nella circoscrizione di Agboville per il partito di Ouattara Rdr (Rassemblement des Républicains), ci spiega che la pre-campagna consiste nel porta a porta, ovvero nel visitare tutti i capi villaggio, le associazioni di giovani, di donne, di religiosi, per spiegare il programma del candidato. Inoltre, e questo non ci viene detto ma risulta chiaro dall’osservazione sul terreno, ogni candidato lascia doni tangibili della propria generosità. Sedie, teloni in plastica, kit scolastici, pompe idriche, derrate alimentari, biciclette, ma anche semplicemente soldi sotto forma di micro finanziamenti per i vari gruppi.
A campagna ufficialmente iniziata la corsa elettorale diventa estremamente visibile: i comizi variano di grandezza in base ai fondi del candidato e nella loro sontuosità includono performance di artisti, riti di autorità tradizionali, tanta musica e striscioni. In generale i discorsi ufficiali accennano in modo pacato a temi etnici e religiosi ma non incitano alla violenza, anzi, invitano alla riconciliazione e alla pace. Si distribuiscono t-shirt e si organizzano rumorose carovane di moto e auto cariche di gente che urla eccitata: la regola sembra dire che vince chi fa più rumore e chi fa più «regali». Alcuni candidati hanno pianificato tutto da tempo e con astuzia, come Nando Martin (eletto nella circoscrizione 01), che alcuni anni fa aveva fondato una Ong, e adesso durante la campagna utilizza i risultati dei suoi progetti di sviluppo per mettere in mostra quanto le priorità della popolazione gli stiano a cuore; addirittura, durante il giorno del voto, i suoi collaboratori, distribuiscono cibo agli scrutatori in tutti i seggi. 

Elezioni pacifiche
Le dichiarazioni delle varie missioni di osservazione elettorale, tra cui l’Unione Africana e il Carter Center, sono tutte dello stesso tono. Un voto pacifico e senza incidenti vistosi, ma con un’affluenza alle ue debole, un’educazione elettorale inesistente e alcuni vistosi casi di uso di risorse pubbliche da parte di candidati che ricoprono funzioni governative. Il tasso di partecipazione, a conteggi ultimati, è del 36% e non sembra così disastroso se si pensa che è di tre punti percentuali più elevato di quello delle elezioni del 2000. In Costa d’Avorio, così come in generale nella regione dell’Africa dell’Ovest, l’interesse della popolazione verso le elezioni legislative è ridotto rispetto a quelle presidenziali. Se si aggiunge al boicottaggio del Fpi il clima di terrore che ha regnato nel paese fino a pochi mesi fa, non stupisce che la gente non sia andata a votare in massa. I risultati finali, piuttosto prevedibili, assegnano la maggioranza di deputati al partito Rdr, seguito dal Pdci.
L’alto numero di ministri eletti, tra cui il primo ministro Guillaume Soro, leader delle Forze Nuove, fa riflettere; i deputati, infatti, possono godere dell’immunità parlamentare e rimanere «intoccabili» dai giudici ivoriani, malgrado siano stati responsabili di crimini durante la guerra. Inoltre, una volta eletti, sceglieranno comunque la carica ministeriale, lasciando la poltrona della deputazione ai loro supplenti, ma l’immunità resterà in vigore. Il tema della giustizia è un altro argomento delicato nell’attuale contesto ivoriano. Antornine, anziano leader di opinione, oggi membro di un comitato di saggi per la riconciliazione nel comune di Agboville, spiega: «Le atrocità sono state commesse da entrambe le parti rivali del conflitto. Uccisioni, stupri, violazioni dei diritti umani: tutti hanno le mani sporche di sangue. Perché solo i responsabili Fpi e Gbagbo devono essere giudicati e imprigionati? La giustizia dovrebbe essere universale, e invece, in Costa d’Avorio è la giustizia del vincitore che prevale. Il rischio è di produrre nuovi antagonismi, di andare avanti su ferite non chiuse, che bruciano, e che prima o poi, porteranno a nuova violenza». 
Il frettoloso trasferimento di Gbagbo alla Corte Penale Internazionale dell’Aia, dove sarà processato per crimini contro l’umanità, non è arrivato al momento giusto: è avvenuto, infatti, a due settimane dalle elezioni e pochi giorni dopo un incontro informale tra il procuratore capo Ocampo e Ouattara nella residenza privata dello stesso Ouattara a Parigi. Tale evento ha suscitato perplessità legittime e incrementato il senso di sfiducia di molti ivoriani verso la comunità internazionale.
Malgrado un processo elettorale pacifico e piuttosto trasparente, la strada per la riconciliazione e la pace in Costa d’Avorio è ancora in salita. Riprendendo le parole del saggio Antornine: «Bisogna perdonare. Bisogna sedersi insieme e parlare. Non bisogna condannare, non ora. La ripresa economica sarà il principale mezzo per ristabilire la normalità: la gente affamata e diseducata è il bersaglio più facile delle manipolazioni politiche. Ora è tempo di costruire scuole, di creare posti di lavoro, riavviare il commercio del cacao e di cercare di dimenticare la paura».

Ermina Martini

Ermina Martini




La mistica del buon samaritano

Centro Hakumana: una risposta alla sfida dell’Aids a Maputo

Il Centro Hakumana («stiamo uniti» in lingua ronga) è il nome del progetto che alcune religiose, ispirandosi alla parabola del Buon Samaritano, hanno lanciato per rispondere come chiesa alla sfida urgente della pandemia dell’Aids nella città di Maputo. Coordinatrice del progetto è suor Janete Vieira, missionaria della Consolata brasiliana.

Maxaquene, parola magica per gli abitanti di Maputo: è il nome di tre quartieri dove si trova lo stadio omonimo e l’omonima squadra di calcio, la più gloriosa del Mozambico, quella da cui uscì il grande calciatore Eusebio. Ma è anche una zona molto povera, in gran parte abitata da immigrati di altre parti del paese, che hanno trovato impiego nella capitale come lavoratori domestici, manovali, venditori ambulanti, operai specializzati che non possono permettersi di abitare nella città di cemento.
Di fatto le abitazioni sono fatiscenti, con muri incompiuti di blocchi e mattoni o con pareti fatte semplicemente di canne e lamiere. Unici complessi dignitosi in muratura, ben circondati da alte mura, sono alcuni centri governativi e istituzioni private; una di queste è l’Istituto superiore Maria Madre dell’Africa (Ismma), scuola a livello universitario fondata (1995) e gestita dalle congregazioni religiose presenti in Mozambico, con lo scopo di preparare religiosi e laici impegnati nel servizio pastorale della Chiesa, professori di educazione morale e civica nelle scuole e centri di formazione sia statali che privati.
Nel recinto del campus universitario e legato all’Ismma è sorto da pochi anni il Centro Hakumana, che si prende cura di mamme e bambini orfani o abbandonati, vittime dell’Aids o di emarginazione di varie forme. Ne è cornordinatrice suor Janete Vieira, missionaria della Consolata brasiliana, che mi accompagna in visita nei diversi reparti del Centro e mi presenta alcune persone dell’équipe: la direttrice suor Evelyn, la segretaria suor Elena, l’amministratrice suor Isabel. Passando nei vari reparti salutiamo alcune donne impegnate in lavori di cucito e artigianato; finché raggiungiamo le aule dell’asilo, accolti dalle grida festose di bambini indiavolati, che scorrazzano per le stanze o giocano con balocchi più grandi di loro. Nel frattempo suor Janete mi racconta la storia del Centro e i suoi scopi.

Un sogno diventato realtà
«Tutto è cominciato un giorno di marzo 2006, per opera della commissione Hiv-Aids della Conferenza dei religiosi e religiose del Mozambico – racconta suor Janete -. Da due anni eravamo impegnate, una trentina di religiose, nell’organizzazione di incontri e seminari per giovani, studenti, parrocchie e altri religiosi, offrendo formazione e informazione, orientamenti e consigli sulla pandemia dell’Aids e relative problematiche. Quel giorno sentimmo che dovevamo fare di più per rispondere come Chiesa alla sfida: ci mancava il contatto diretto con le vittime dell’Aids; parlavamo molto di loro, ma non con loro, e non facevamo qualcosa per aiutarli concretamente».
Per due ore furono lanciate molte idee, ma senza alcuna conclusione. Fu tutto rimandato all’incontro seguente. Ma nella riunione di aprile la Commissione si era ridotta a 5 persone e la discussione non approdò a nulla. «Uscii dall’incontro sconsolata, ma non rassegnata – continua suor Janete -. Se è opera di Dio, nessuno ci fermerà, dissi a suor Evelyn, Mercedaria della Carità, appena nominata direttrice dell’Ismma e alloggiata provvisoriamente nella nostra casa a Maputo».
Seguirono altri incontri di gestazione, finché suor Evelyn presentò un progetto dettagliato per la creazione di un centro di accompagnamento e assistenza a livello di integrazione sociale, psicologica, sanitaria, legale e spirituale delle vittime dell’Aids. Seguirono altri incontri per superare le obiezioni, integrare i vari suggerimenti e crescere in sintonia nell’affrontare una missione sempre più urgente e difficile, ma necessaria e appassionante. Finché fu scelto il nome da dare al progetto: «Centro Hakumana», termine della lingua ronga che significa «stiamo uniti». Fu anche abbozzato lo spirito che doveva animare il progetto: suor Janete suggerì la parabola del buon samaritano soprattutto le sue parole rivolte all’oste: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno».
«Bisognava trovare il luogo dove aprire il Centro – continua suor Janete -. Visitammo molti posti, ma nessuno rispondeva alle nostre esigenze, finché decidemmo  di sfruttare un vecchio magazzino abbandonato nel territorio dell’Ismma. Quando presentammo il progetto con un artistico power-point al Consiglio permanente delle Conferenze dei religiosi e religiose, i superiori maggiori si sentirono sconcertati di fronte alla prospettiva di una nuova attività del genere, pur condividendo l’urgenza di una risposta al problema dell’Hiv/Aids in Maputo, come conferenza di religiosi, non in forma isolata; le obiezioni furono molte, finché il presidente della conferenza disse che bisognava aprirsi ai nuovi soffi dello Spirito e autorizzò l’uso del magazzino».
La bozza del progetto fu subito spedita a diversi istituti e organizzazioni per chiedere i finanziamenti. Per qualche mese sembrava che non accadesse niente, finché la congregazione delle Mercedarie della Carità promise 10 mila dollari, le Missionarie della Consolata altri 10 mila euro, le suore della Consolazione 16 mila dollari.
Cominciarono subito i restauri del fabbricato e la costruzione di annessi (cucina e chiosco per le refezioni), si comperarono tavoli, sedie e culle per bambini. Altra mobilia, tra cui cucina elettrica, frigorifero e televisore, arrivarono da una Ong in smobilitazione, il resto fu possibile acquistarlo grazie agli aiuti di alcune associazioni spagnole. Il sogno stava diventando realtà.

Primo caso con rodaggio
Il 2 novembre 2007 suor Janete stava recitando il rosario intorno alla chiesa della Polana, in attesa che cominciasse la messa, quando arrivò una ragazza con una scarpa rotta in mano e il viso vergognoso e triste; si avvicinò e, con tono di sfida, le disse chiaro e tondo:
– Suora, aiutami ad abortire.
– Cosa dici, ragazza?
– Sono incinta e l’uomo mi ha abbandonata. Non sono in condizione di avere questo bambino e non voglio che soffra come ho sofferto io.
– Ascoltami bene, ragazza: io ti posso aiutare a tenere il bimbo non a ucciderlo.
– Allora, prenditi cura di me.
«In quel “prenditi cura di me” riconobbi la voce di Dio ricorda suor Janete -. Senza rendermene conto mi ero impegnata con il primo caso di Hakumana».
Carola, così si chiamava la ragazza, 15 anni, era stata abbandonata in un mercato e poi adottata e cresciuta in una famiglia che la usava come serva; scappata da casa, si diede a una vita libertina, finché fuggì con un militare che, quando seppe che era incinta la abbandonò lasciandola senza un soldo.
Suor Janete portò la ragazza nella casa della sua comunità e il giorno seguente le procurò una famiglia cristiana che l’accogliesse e aiutasse nell’evolversi della mateità. Instabile, aggressiva, indipendente, testarda, Carola si rivelò subito un caso complicato: per il suo comportamento cambiò residenza per tre volte; affetta da malattie veneree non voleva farsi curare.
«Accompagnammo la ragazza passo passo nelle sue necessità basilari – continua suor Janete -. Tutti i giorni avevano colloqui per creare familiarità e chiarire la sua storia; una parrocchiana della Polana la orientò in tutto ciò che concee la mateità e a preparare il corredo per il bambino, che venne alla luce il 7 aprile 2008. Dimessa dall’ospedale, accogliemmo Carola e Karol nel nostro centro: era il nostro primogenito».
Carola era senza carta di identità, poiché rifiutava di chiamarsi con il cognome registrato all’anagrafe dai genitori adottivi. Fu registrata nuovamente con il nome di Carola Janete de la Consolata. L’ambiente di Hakumana sembrava l’aiutasse a sognare una vita diversa: partecipò ai corsi di alfabetizzazione nel Centro e, mentre Karol rimaneva ad Hakumana curato dalle «zie», cominciò a frequentare le scuole serali; ma il contatto con altri adolescenti le faceva desiderare una vita di «giovinetta spensierata». Toò a occuparsi del figlio a tempo pieno, provocandogli denutrizione e malattie a causa della sua inesperienza.
«C’era bisogno di un accompagnamento più intenso – racconta suor Janete -. Noi suore ci costituimmo in comunità residente nel Centro e Carola venne col figlio a vivere con noi, imparando a cucinare, ad aver cura del bimbo e di se stessa; imparò soprattutto ad amare e a sentirsi amata».
«Instabile e allergica a ogni regola – continua suor Evelyn -, un giorno Carola ci accusò di volerle rubare il figlio per venderlo fuori del paese. Per fortuna nel nostro gruppo avevamo già una psicologa clinica, suor Herminia, che riuscì a neutralizzare gli impulsi della giovane e farla rientrare nella vita reale. Ma che fatica! Dopo un anno e mezzo di accompagnamento cominciò qualche miglioramento: la vedevamo crescere giorno per giorno nel senso di responsabilità e impegno nella scuola e nell’amore al suo bambino».
«Tutto sommato – conclude suor Janete – il caso di Carola è stato anche per noi un prezioso tirocinio: ci era capitata proprio mentre discutevamo sui alcuni punti del progetto Hakumana da definire, come destinatari, servizi da offrire, metodologia d’azione. Carola fu la prima beneficiata e il primo contesto di applicazione».

Lo stile del samaritano
Scopi e metodi del Centro Hakumana oggi sono tutti ben chiari e definiti. Oltre a promuovere pubblici incontri di informazione e formazione sulle problematiche dell’Hiv/Aids e sul loro impatto sociale, il Centro si occupa soprattutto di persone affette dal virus e dei loro familiari o che si trovano in altre situazioni di vulnerabilità. Per rispondere alle necessità di tali persone, l’équipe del Centro Hakumana è chiamata prima di tutto a un lavoro di discernimento: si analizza caso per caso e si traccia un programma di azione. Generalmente in prima istanza si richiede alloggio, cibo, medicine e appoggio affettivo. Vengono poi avviati processi di orientamento e assistenza sanitaria e psicologica, legale e spirituale, per aiutare le persone a riacquistare autostima e dignità, sviluppare relazioni sociali e reintegrarsi nella comunità. Tutto avviene con molteplici modalità e mezzi: corsi e terapie di gruppo, interviste e colloqui personali, accompagnamento sistematico e visite a domicilio, investigazioni e interscambio di esperienze, attività di terapia occupazionale e mini progetti di autosostentamento, come cucito e artigianato, sostegno con alimenti e medicine.
«Tutti i servizi prestati da Hakumana si ispirano alla mistica della parabola del buon samaritano» spiega suor Janete, mentre indica su una parete del Centro un disegno e una scritta riferiti alla parabola evangelica. E continua: «Il samaritano non perse tempo, ma fece con prontezza quello che doveva fare: curare, rimediare, consolare, proteggere. Utilizza gli elementi alla sua portata per sottrarre il malcapitato dalle grinfie della morte e dall’indifferenza impietosa di chi passò senza fare nulla. L’olio e il vino con cui il samaritano unse le ferite del malcapitato, è per noi il sangue prezioso di Cristo che redime e salva; il lino con cui fu avvolto il corpo è per noi l’amore che ridona forza e rinfranca nelle vicissitudini del cammino della vita».
«L’esperienza di essere “prossimo” spinge il samaritano a “prendersi cura” del malcapitato fino alla completa guarigione – continua suor Evelyn -. Una volta fatta l’esperienza dell’amore tanto inusuale, sollevare il fratello diventa una passione anche per noi; non si può più essere indifferenti. Diventare prossimo dà forza e senso alla nostra vita».
«Nel samaritano è raffigurato Cristo stesso che si avvicina, solleva, cura e conferisce dignità – riprende la meditazione suor Janete -. Nel malcapitato vediamo Gesù che si identifica con tutti i poveri e gli oppressi del mondo: in essi anche noi incontriamo la Sua presenza reale, un sacramento di salvezza».

Locanda e locandiere
«Alcune situazioni complesse e delicate, come quella di Carola – continua suor Evelyn – ci hanno insegnato che Hakumana non poteva contare solo sull’azione di  un “buon samaritano”, ma aveva bisogno anche di un “albergatore”: c’era bisogno di una comunità di riferimento per accogliere e prendersi cura fino in fondo di certi casi estremi».
Nacque così un grande sogno: formare una comunità intercongregazionale: formata, cioè, da religiose di diverse congregazioni, ognuna con la propria specificità, aperta a laici volontari desiderosi di fare esperienza missionaria a servizio dei più emarginati; una comunità con stile di vita in funzione dei destinatari del progetto Hakumana e flessibile alle necessità della persona accolta; una comunità in cui i gesti concreti di amore, servizio, disponibilità, diventano realtà e sfida quotidiana.
Janete, Evelyn e una volontaria affittarono un piccolo appartamento non lontano dall’Ismma, poi si trasferirono nel Centro stesso quando il padrone di casa vendette l’alloggio. «Forse i tempi non erano ancora maturi per tale esperienza – sorride suor Janete -. Diventammo subito oggetto di chiacchiere e calunnie, accusate presso il cardinale di Maputo di dare scandalo, perché non facevamo vita comune con le nostre rispettive comunità. Ritornate nei nostri conventi, abbiamo studiato nuove strategie per continuare i programmi di lavoro del Centro Hakumana, restando fuori del convento per tutto il tempo richiesto per il bene degli utenti del nostro Centro».
Ben presto le critiche si volatilizzarono insieme agli accusatori. La Comunità Hakumana si ricostituì con tutte le approvazioni dei superiori religiosi ed ecclesiali. Grazie agli aiuti arrivati da varie parti, il progetto Hakumana poté essere sviluppato con nuove strutture e nuove iniziative: nel giro di un anno ospiti e servizi furono triplicati.
Attualmente l’équipe di Hakumana è formata da sette persone, cinque religiose e due assistenti sociali laiche. Ogni giorno Hakumana accoglie 60 bambini, una trentina di mamme che accompagnano i loro figli, una decina di uomini, ma non tutti si fermano per la refezione. Durante la settimana passano al Centro un centinaio di persone al giorno per incontri di formazione, colloqui con lo psicologo, assistente sociale e legale, o per cure e assistenza medica.
«La nostra attenzione di “buon samaritano” si estende ai vari quartieri di periferia con visite a domicilio; quando ci arrivano offerte specifiche, comperiamo abitazioni per donne abbandonate e alle prese con miseria e malattie – conclude suor Janete -. Ne abbiamo alcune qui a Maxaqene B, dove vivono 3-4 mamme che cercano di ricostruirsi un futuro per se stesse e per i propri figli».

Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi