Cercare gli ultimi

L’intervista: il missionario

Fede, chiesa, missione, teologia secondo padre Ezio Roattino.

«Io mi sforzo di ispirarmi al vangelo di Gesù. Quindi, cerco di condividere l’esistenza con i crocefissi. I crocefissi sono i poveri, gli impoveriti, le vittime. In una parola, sono gli ultimi. Con loro io mi sento bene. Oggi gli ultimi sono i campesinos sfollati, gli afrocolombiani e, nella mia quotidianità, gli indios del Cauca. Anche se faccio fatica, anche se ho i miei anni, anche se parlo la lingua nasa più o meno, io sono contento di essere lì con loro. Natale Vivalda, prete di Genova trapiantato in Colombia, ove morì il 13 luglio 2011, mi fu d’esempio. Lui andava nelle notarie pubbliche per controllare di chi fosse la terra. Natale mi diceva: “Tu, Ezio, non ti salverai da solo. Gli altri ti salveranno”».

Nel Cauca, da molti anni i missionari della Consolata vivono tra gli indios nasa. Con quale obiettivo?
«Li accompagniamo e li ascoltiamo. Sapendo che sono “altri”. Occorre proseguire sulla strada della “convivialità delle differenze” (essere alla stessa tavola), come diceva don Tonino Bello. E, se sono “altri”, altro sarà l’incontro con il vangelo. Come un seme che diventerà spiga con la linfa della terra e con il sole e la pioggia del cielo.
A Pentecoste tutte le genti, convocate dalla terra intera, ascoltavano la parola di Dio, proclamata da Pietro, nelle loro proprie e diverse lingue. Il vangelo, liberato dalla cultura occidentale (la cosiddetta inculturazione) e fondato sul dialogo (l’interculturalità), è sfida primaria della nostra missione.
Juan Del Valle, il primo vescovo (era spagnolo) di Popayan, così scriveva – attorno al 1546 – al Re di Spagna: “Qui gli indios sono più maltrattati che gli israeliti in Egitto. E se non si rimedia io continuerò a gridare, nonostante mi buttino pietre”. Se è fondamentale l’esistenza di una resistenza, allora occorre dare voce a chi la resistenza la mette in pratica. Vivere quotidianamente con i Nasa risponde a questo obiettivo».
Vivere la quotidianità è vivere la trascendenza?
«“La gloria di Dio è la vita dell’uomo”, dice San Ireneo. E, come precisava l’arcivescovo Romero, dandone un tocco latinoamericano, “la gloria di Dio è la vita del povero”. Bonhoeffer scriveva dal carcere ad un amico: “Dobbiamo imparare a vivere ogni giorno come fosse il primo e l’ultimo giorno della nostra vita. Può darsi che il giudizio universale arrivi domani, ma fino a domani io lotterò per la trasformazione di questo mondo”. Dunque, come missionari della Consolata siamo in Colombia, perché crediamo che dobbiamo sì lottare per la vita eterna, ma anche per la vita storica. Che poi è la ricerca dell’eguaglianza, della libertà e della solidarietà».

Una rivoluzione, dunque?
«La Rivoluzione francese non parlava forse di liberté, egalité, frateité? E con essa tante altre rivoluzioni. E la rivoluzione di Gesù, figlio di Dio e figlio dell’uomo, si sarà forse esaurita in Duemila anni di storia? Avremo già sfruttato questa miniera di risposte e di nuovi cammini? Occorrerebbe credere di più per osare di più e incidere di più».

Qualcuno si lamenta affermando che lottare per trasformare il mondo terreno non è compito di un missionario…
«Un giorno un confratello del Kenya mi chiese: “Ma la teologia della liberazione in America Latina non è finita?”. Io gli risposi: “Fino a che nel Padre nostro ci saranno le parole  ‘Liberaci dal male’, la teologia della liberazione, che diventa spiritualità e pratica della liberazione, non si potrà seppellire, perché è parte del vangelo”.
Un caro amico, sacerdote colombiano, padre Federico Carrasquilla, ci diceva: “Nella nostra Chiesa vedo chi lavora per Dio e chi lavora per il Regno, come se fossero due cose separate. Ma non si può lavorare per Dio senza il Regno, né lavorare per il Regno senza Dio. Da una parte, abbiamo belle liturgie e cerimonie senza preoccuparsi di chi non ha pane né lavoro, né casa; dall’altra, è tutto un organizzare comitati, sindacati, assemblee senza preghiera, eucarestia, lettura della parola di Dio. Non può esistere un Re senza Regno, né un Regno senza Re. Gesù non ha predicato Dio e non ha predicato il Regno, ma ha predicato il Regno di Dio”».

Padre Ezio, come vede la missione dei missionari della Consolata?
«È la missione della consolazione: consolare i poveri, i più poveri, gli ultimi. Giuseppe Allamano, il nostro fondatore, ci ha lasciato come esempio la vita e l’opera dello zio Giuseppe Cafasso. Questi, durante tutta la sua esistenza, visitò le quattro carceri di Torino. Lo fece ogni settimana, accompagnando fino al patibolo 68 condannati a morte. Per questo venne soprannominato “il prete della forca”, il prete degli ultimi.
In Colombia, chi sono e dove sono i condannati a morte? Se li conosciamo, stiamo accompagniandoli?».

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Linea di galleggiamento

Un passo avanti e uno indietro

Sotto il presidente Benigno Aquino i problemi del grande arcipelago asiatico non sono cambiati: la riforma agraria è fallita; la povertà e la disoccupazione rimangono alte; la tratta di esseri umani prospera; nel Sud agiscono alcuni gruppi terroristici. Per tutto questo, le Filippine – tra l’altro sovrappopolate – sono caratterizzate da una massiccia emigrazione.

Con l’arrivo alla presidenza nel giugno 2010, dopo un’accesa campagna elettorale, di Benigno Aquino III detto «Noynoy», le Filippine sembravano tornate ai loro ideali e a nuove speranze. Cinquantenne, schivo e pragmatico, single con fama di playboy, impegnatosi in campagna elettorale in un programma riformista e moralizzatore della vita pubblica, Noynoy, pur con molti limiti di appartenenza sociale, carattere e capacità, poteva forse essere l’unica possibilità lasciata alle Filippine. Una possibilità che, al momento, rischia di essere sprecata. Corruzione, nepotismo, povertà, difficili rapporti con la gerarchia cattolica rendono la presidenza Aquino a dir poco tormentata, certamente poco efficace nel risolvere i problemi nazionali. Su una cosa, però, filippini e osservatori inteazionali sono concordi: pochi sarebbero in grado di gestire efficacemente e in soli sei anni i problemi di un paese come le Filippine e molte delle difficoltà attuali sono eredità dell’amministrazione precedente, quella della presidente Gloria Macapagal-Arroyo.
La difficoltà di delineare la fisionomia di un arcipelago – frammentato per geografia, storia e sovrapposizioni culturali – si gioca su linee comuni e su specificità locali.
Nella prima categoria rientrano la lotta agli antichi privilegi, la riforma agraria, quella del sistema scolastico, il dibattito su educazione sessuale e contraccezione che vede fortemente schierata la Chiesa cattolica; nella seconda, la situazione di Mindanao e del lontano meridione filippino, ma anche quella delle tante «periferie» del paese, luoghi geograficamente, ma soprattutto culturalmente e per possibilità di crescita, troppo lontani dall’indaffarata, caotica e anche disincantata Manila. Ecco allora che proprio da queste aree periferiche parte l’emigrazione, la più massiccia al mondo in percentuale sulla popolazione totale. Manila, nonostante i tentativi di decentralizzazione amministrativa, è ancora una strozzatura nel sistema che organizza le partenze per l’estero attraverso una complessa rete di agenzie pubbliche e private, a volte nell’ulteriore incertezza della clandestinità. Nei paesi d’emigrazione, è invece probabile l’incontro con connazionali raggruppati in comunità sovente vaste e bene organizzate, in cui è possibile acclimatarsi prima ancora di cercare un’integrazione nei paesi d’accoglienza.

LA DIFFICILE EREDITÀ DEL CARDINALE SIN
Una emigrazione in cui anche la Chiesa ha un ruolo: sia chiedendo norme a tutela degli emigranti e offrendo attività di counseling in patria, sia provvedendo alle molte cappellanie filippine in oltre un centinaio di nazioni.
La storia filippina del dopoguerra è stata caratterizzata prima dalla costruzione di una fragile democrazia elitaria, eredità della colonizzazione statunitense (anni 1945-1965); da una dittatura lunga e dura guidata da Ferdinand Marcos (1965-1986), all’inizio mitigata da una politica populista e anti-elitaria; infine dal ritrovato orgoglio democratico dopo la «Rivoluzione dei fiori e dei rosari» del febbraio 1986 guidata da Corazón Aquino. Anche nel contesto storico contemporaneo, un cenno va fatto al ruolo della Chiesa nell’accompagnare questo difficile periodo della storia dell’arcipelago asiatico, passato da una democrazia «ritrovata», a una democrazia «tradita». Oggi anche a una rinnovata speranza, ma con poche illusioni.
Sarebbe sbagliato ridurre l’impegno della Chiesa a un ruolo «politico». In realtà, due sono sempre stati i suoi obiettivi fondamentali: formare la coscienza degli elettori e favorire consultazioni libere ed oneste. Senza mai appoggiare espressamente alcun candidato né programma di governo, i vescovi hanno suggerito i criteri morali per una valutazione delle candidature: operare con impegno e coerenza per il bene comune; promozione e difesa della giustizia; spirito di servizio; opzione preferenziale per i poveri e per la difesa dei diritti umani.
Un impegno, quello della Chiesa filippina, o almeno dei suoi settori più progressisti, che ha accompagnato negli ultimi 25 anni una società civile attiva e variegata, sovente ideologizzata e insieme repressa. Va ricordato anche il ruolo del cardinale Jaime Sin, negli anni bui della dittatura, coscienza critica del potere e poi «censore» della nuova e fragile democrazia filippina.
Il cardinale, deceduto il 21 giugno 2005, per quasi trent’anni dal 1974 al 2004 arcivescovo della capitale, è stato simbolo della Chiesa locale, sia nella capacità di dialogo – sovente intransigente – con il potere civile, sia nel tenere acceso l’impegno sociale senza però venir meno ai fondamenti di una Chiesa fortemente tradizionalista.

LA TERRA E LA RIFORMA MANCATA
Con la «Rivoluzione dei fiori e dei rosari», la caduta della dittatura Marcos e la presidenza di Corazon Aquino, la pressione della piazza e di settori dell’esercito costrinse allo studio e all’avvio di un «Programma complessivo di riforma agraria». Presentato come un mezzo per ridistribuire in modo equo le terre del latifondo a contadini senza terra, ha finito col diventare una trappola per i nuovi piccoli proprietari, lasciati senza mezzi concreti. A questo vanno aggiunti le «eque» compensazioni per i possidenti (che avevano ceduto «volontariamente» le proprie terre, mentre in parte venivano ridistribuite a membri delle loro stesse famiglie) e il riacquisto delle terre dai contadini non in grado di vivere del loro lavoro in mancanza di strumenti di sostegno finanziario e tecnico.
Inoltre, solo il 50% delle terre coinvolte nel progetto di riforma era di proprietà privata (e di queste solo il 4% è stato ridistribuito dopo una requisizione; il resto è stato prima acquistato dallo Stato); il rimanente 50% è (o era) proprietà pubblica. Oggi il 68% degli agricoltori non sono proprietari delle terre che lavorano e solo il 3% ha ottenuto la terra attraverso la riforma agraria.

MINDANAO, TRA GUERRIGLIA E BANDITISMO
Posta a sud delle Filippine, Mindanao è l’isola maggiore per superficie di questo paese che di isole ne conta oltre 7mila, ma ospita solo il 24 per cento della sua popolazione. I suoi 120 mila chilometri quadrati sono da quarant’anni un campo di battaglia e i suoi  23 milioni di abitanti (il 70 per cento cattolici e il 23 per cento musulmani) sono ostaggio di un conflitto tra esercito e movimenti indipendentisti che in anni recenti hanno in parte aderito al radicalismo di origine afghana e araba, rilanciando le rivendicazioni locali nel più ampio teatro globale successivo all’11 settembre 2001. Questo nonostante la creazione di una regione autonoma di Mindanao musulmana (con una popolazione islamica al 90 per cento), che comprende le province di Lanao del Sur, Maguindanao, Tawi-tawi e Sulu.
Il massacro di una sessantina di persone, per metà donne della famiglia di un candidato alla presidenza e per metà giornalisti, da parte di un clan rivale nel novembre 2009 nella provincia di Maguindanao, ha aperto gli occhi dell’opinione pubblica filippina e internazionale sui potentati locali, sovente armati, ai quali è garantita immunità e copertura in cambio di appoggio elettorale. Una situazione oggi complessa, quasi inestricabile, quella di Mindanao, come complessa è la sua storia. Da tempo le rivendicazioni autonomiste e identitarie guidate da notabili musulmani locali, eredi di antichi sultanati e privilegi, sono state espropriate da movimenti guerriglieri («Fronte nazionale di liberazione Moro», «Fronte islamico di liberazione Moro») prima e, oggi dal banditismo con pretesto religioso di Abu Sayyaf.
Nel meridione filippino, non a caso sovente definito dagli stessi media locali «far west», la questione religiosa diventa pretesto di divisione e di violenza. Ad essa non è estranea la strategia di Al Qaida e del jihadismo globale che su queste spiagge ha trovato approdi accoglienti, rifugi e uomini pronti a continuare la lotta, ma un ruolo importante hanno anche i vasti interessi delle multinazionali minerarie, le fazioni politiche e le stesse strutture militari.
La Chiesa locale e la missione in questo contesto riescono solo con grande difficoltà ad operare per la pace e la convivenza, come pure per la giustizia e lo sviluppo. Il rischio di essere «presi nel mezzo», di diventare oggetto di minacce, sequestri e anche  obiettivo di sicari è alto e già pagato a caro prezzo.

FAMIGLIA, SINDACATO, MULTINAZIONALI
La società filippina aggrega e insieme vive di un numero enorme di associazioni, gruppi, coalizioni e istituzioni. Una situazione connaturata alla tradizione, alla cultura filippina, che stima aggregazione e armonia sociale come valori prioritari, a partire dall’ambito familiare. Allo stesso tempo, questa impostazione «partecipatoria» più che «di azione» è un limite alla loro attività. L’altro, e ancora più pesante, è la difficoltà ad agire, in particolare in ambito economico o politico. Per decenni, dopo l’indipendenza, sindacati e Ong sono state illuse che la possibilità di crescere sotto il protettorato de facto americano potesse garantire una reale influenza sulla vita pubblica. Inoltre, la dipendenza del paese dalle iniziative imprenditoriali e dagli investimenti stranieri si è scontrata contro gli interessi locali portati avanti da alcuni gruppi. Non si può negare che la forte sindacalizzazione, molto avanzata rispetto ad altri paesi fino dagli anni Settanta, sospettata spesso di collegamenti con Partito comunista al bando e con le sue ali armate e guerrigliere, abbia costretto alla chiusura un gran numero di fabbriche nate per iniziativa straniera, giapponese in particolare, o al loro ridimensionamento.
Oggi le cose sono cambiate. Lo dimostrano le aree economiche speciali come quella che gravita attorno alla città di Olongapo (che include l’ex base navale statunitense di Subic Bay). Qui vincono la deregulation e i diktat degli investitori stranieri e delle loro controparti locali più che le necessità di tutela e di benessere della popolazione.
Mentre – e è un poco lo specchio del paese – accanto alle attività che danno da lavorare a migliaia di filippini nel settore formale (con punte avanzate di tecnologia e know-how), prosperano prostituzione e sfruttamento.
Insomma, le Filippine modificano l’apparenza ma non la sostanza. La scarsa memoria dell’arcipelago continua a giustificare il potere di pochi, l’«ineluttabilità» dei suoi mali incentiva mille iniziative, ma non una reazione. Non a caso l’emigrazione, incentivata fin dai tempi della dittatura, è oggi organizzata, gestita e per certi aspetti sfruttata proprio dalle strutture governative.

Stefano Vecchia

Stefano Vecchia




Il silenzio e la parola

20 maggio: giornata mondiale delle comunicazioni sociali

Animo e mente hanno bisogno di silenzi e riflessioni individuali e comunitarie.
Il silenzio è parte integrante della comunicazione. E favorisce il discernimento.
Le nuove forme di comunicazione, aiutano la chiesa a dialogare con l’uomo moderno.
Scopriamo il messaggio del papa per la 46a giornata delle comunicazioni sociali.

La frase del pastore e teologo Dietrich Bonhoeffer «Facciamo silenzio solo per amore della Parola», sintetizza più di ogni altra considerazione il messaggio di Benedetto XVI, inviato a gennaio per la giornata delle comunicazioni sociali del 20 maggio, alla chiesa universale e a tutti coloro che desiderano confrontarsi, con serietà, responsabilità e libertà sul tema dell’informazione. La parola non sempre ci fa pensare a ciò che diciamo o fingiamo di ascoltare. La relazione tra persone, la ricerca di una sintesi nella complessa babele di parole che ci travolgono a tutti i livelli è necessaria per vivere e non sopravvivere all’urto dell’immanente flusso presente di fatti e vicende.
L’anima e la mente hanno bisogno di silenzi e riflessioni, individuali e comunitarie, anche nell’ambito di ciò che di più prezioso abbiamo ricevuto in dono. A causa delle attuali dinamiche della comunicazione siamo sommersi da un flusso continuo di domande e risposte, spesso anzi di risposte non richieste, che vorrebbero anticipare e indurre questioni di nessuna utilità.
In questo contesto, ricorda Benedetto XVI, «il silenzio è prezioso per favorire il necessario discernimento tra i tanti stimoli e le tante risposte che riceviamo, proprio per riconoscere e focalizzare le domande veramente importanti».
Le grandi domande della filosofia, sul senso della vita, del sapere e della speranza, non si sono estinte nel cuore dell’uomo e continuano a manifestare «l’inquietudine dell’essere umano sempre alla ricerca di verità, piccole o grandi».
Fare silenzio
Nel giorno della festa di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti e comunicatori – il messaggio del Papa parte dall’affascinante titolo «Silenzio e parola: cammino di evangelizzazione». Silenzio e parola, scrive Benedetto XVI, sono due aspetti essenziali di ogni comunicazione, senza l’uno, l’altro è privato di senso: «Il silenzio è parte integrante della comunicazione e senza di esso non esistono parole dense di contenuto». Per Benedetto XVI, il silenzio «apre… uno spazio di ascolto reciproco» che rende «possibile una relazione umana più piena». È nel silenzio, infatti, che «ascoltiamo e conosciamo meglio noi stessi», che il pensiero si «approfondisce» e che «comprendiamo con maggiore chiarezza ciò che desideriamo dire o ciò che ci attendiamo dall’altro». Allo stesso modo, «tacendo, si permette all’altra persona di parlare, di esprimere se stessa, e a noi di non rimanere legati, senza un opportuno confronto, soltanto alle nostre parole o alle nostre idee».
Non a caso, prosegue il pontefice, «nelle diverse tradizioni religiose», la solitudine e il silenzio sono «spazi privilegiati per aiutare le persone a ritrovare se stesse e quella verità che dà significato a tutte le cose». Anche nel mondo contemporaneo, in cui l’uomo «è bombardato da risposte a quesiti che egli non si è mai posto e a bisogni che non avverte». «Là dove i messaggi e l’informazione sono abbondanti – aggiunge papa Ratzinger -, il silenzio diventa essenziale per disceere ciò che è importante da ciò che è inutile o accessorio».
Social network
E i social network, Facebook e Twitter? Non proprio una «benedizione» ma un segno, secondo Benedetto XVI, di considerazione verso le nuove forme di comunicazione online che essi rappresentano, dai micro messaggi di 140 caratteri o agli sms «non più lunghi di un versetto biblico», come afferma anche il cardinale Gianfranco Ravasi che accetta la sfida della comunicazione globale come una diretta conseguenza della sua missione: «Aiutare la chiesa a dialogare con l’uomo contemporaneo, cercandolo dove è, anche nel mondo del web, come un esploratore in perlustrazione in territori sconosciuti, distanti e spesso ostili, conduce la sua ricerca libero da preconcetti, con l’apertura al confronto caratteristica dell’uomo di cultura».
Le nuove tecnologie non sono guardate con sospetto dal papa ma con curiosità e apertura, nella consapevolezza che, per la Chiesa, ogni «mezzo» è «buono» se valido è il messaggio. Benedetto XVI non dimentica che viviamo in un’epoca in cui «le varie forme di siti, applicazioni e reti sociali» possono aiutare l’uomo «a vivere momenti di riflessione e di autentica domanda» e anche «a trovare spazi di silenzio, occasioni di preghiera, meditazione o condivisione della Parola di Dio». «Nella essenzialità di brevi messaggi – aggiunge – si possono esprimere pensieri profondi se ciascuno non trascura di coltivare la propria interiorità». Scrive papa Ratzinger: «Gran parte della dinamica attuale della comunicazione è orientata da domande alla ricerca di risposte. I motori di ricerca e le reti sociali sono il punto di partenza della comunicazione per molte persone che cercano consigli, suggerimenti, informazioni, risposte. Ai nostri giorni, la rete sta diventando sempre di più il luogo delle domande e delle risposte».
Complessità del mondo globale
Il direttore di «Civiltà Cattolica», padre Antonio Spadaro, grande esperto di nuovi media, scrive: «Parola e silenzio si integrano e non si oppongono. Il messaggio del papa scardina l’opposizione tra silenzio e parola, che ha la sua verità, ma solamente in casi estremi. Si deve sperare che da oggi in poi non si debba più assistere ad elogi del silenzio in sé e per sé, al di fuori di un tessuto comunicativo.
Chi prega sta in silenzio, ma in realtà non è di per sé vero. Chi prega elabora un linguaggio di comunicazione con Dio ed è proprio per elaborare questa parola, questo discorso, che tace esteriormente».
E oggi, nella realtà delle mille voci dissonanti e polifoniche, che sono una ricchezza, ma anche un indicatore della complessità del mondo globale, è necessario fare sintesi, pensiero, approfondimento.
Dare strumenti per comprendere e utilizzare la comunicazione, interpretarla e condurre le coscienze mature a un processo di dialogo e confronto, nel rispetto delle differenze delle fedi, delle culture e delle tradizioni che fanno dell’umanità un tesoro da salvare, per costruire un futuro sulle vie della pace e della frateità.
Parlare dell’evangelizzazione come luogo di comunicazione, è dire della relazione tra fede e comunicazione. Questo tocca tre aspetti dell’evangelizzazione: l’azione missionaria, la catechesi e la pastorale. La comunicazione ha un compito preciso in tutti gli aspetti della missione della chiesa, deve essere parte integrante di ogni piano pastorale e per questa ragione è necessaria la formazione di responsabili pastorali. Inoltre è fondamentale che i cristiani siano educati a selezionare l’informazione e a sviluppare lo spirito critico.
Nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del 1975 di Paolo VI, evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della chiesa, la sua identità più profonda. Quest’ultima esiste per evangelizzare, cioè per predicare e insegnare, essere canale del dono della grazia, riconciliare i peccatori con Dio, perpetuare il sacrificio di Cristo. In un primo tempo l’evangelizzazione si caratterizza nell’azione missionaria, cioè la missione «Ad gentes». La chiesa considera che la ricchezza della «buona notizia», ricevuta dalla bontà divina, è accolta per essere comunicata a tutti gli uomini. Perciò, nella pre-evangelizzazione, si tratta di stabilire degli obiettivi capaci di essere assimilati e condivisi da tutti gli uomini di buona volontà: il valore assoluto della persona umana, la difesa della vita, il valore della famiglia, il primato della verità, la possibilità di dare un senso alla vita.
la buona novella
Il linguaggio usato per l’annuncio della Buona Novella, deve essere comprensibile a chi riceve il messaggio di salvezza. Ciò richiede un processo di inculturazione inerente alla radicalità della fede, applicato soprattutto alla realtà linguistica e culturale del popolo. Nell’Ecclesia in Africa, vi è menzionato che le forme tradizionali di comunicazione sociale non debbano mai essere trascurate, perché sono ancora molto utili ed efficaci in molti centri africani. Come veicolo di saggezza e di espressione popolare, costituiscono una sorgente speciale di temi e ispirazioni per i tempi modei. La chiesa contemporanea può dunque disporre di diversi mezzi di comunicazione sociale, tanto tradizionali che modei. È suo dovere fae il miglior uso per diffondere il messaggio della salvezza.
Parlare della «comunicazione evangelizzatrice», è pure parlare dell’azione catechetica. La catechesi costituisce un momento efficace all’interno di un procedimento globale dell’evangelizzazione. Segue l’azione missionaria e precede l’azione pastorale. È l’azione «per la quale un gruppo umano interpreta la sua situazione, la vive e l’esprime alla luce del Vangelo».
Naturalmente la catechesi è comunicazione educativa e annuncio di fede, ed è, in questo senso, informazione, sulle dottrine, sulle riflessioni, sulle convinzioni. La fede rimane un «dono» di Dio e una libera adesione dell’uomo. Il documento del magistero Catechesi tradendae pone l’accento sull’importanza della comunicazione sociale e del linguaggio contemporaneo nella catechesi, nella quale devono essere orientati al dialogo, alla condivisione, alla conoscenza e all’accettazione reciproca delle diversità.
Parlare dell’azione evangelizzatrice come luogo di comunicazione è parlare della stessa azione pastorale. L’azione pastorale si riferisce a coloro che hanno l’incarico di guidare il gregge di Dio; ha per scopo l’incarnazione del Vangelo nelle condizioni di vita delle persone e si basa sul servizio della parola, la celebrazione liturgica dei sacramenti, sull’azione di carità e l’impegno sociale.
Nell’azione pastorale, la comunicazione invade tutti i settori dell’attività umana. La pastorale si occupa di un’insieme di azioni che necessitano una cornordinazione e una complementarietà, che sono possibili solamente grazie al dinamismo di comunicazione all’interno stesso della chiesa.
Tracce del Vaticano II
È a questo punto che, nell’anno del cinquantesimo anniversario dell’inizio del Vaticano II, è doveroso dare voce nella chiesa a quell’afflato di profezia che sembra smarrito. Che fine ha fatto la chiesa coraggiosa e aperta, di cui il Concilio aveva tracciato il profilo? Si è chiesto padre Bartolomeo Sorge, sulla rivista «Aggioamenti Sociali». E anche noi, oggi, dobbiamo porci lo stesso interrogativo. Le risposte manifestano più delusione e preoccupazione che fiducia e speranza. La chiesa – si dice – oggi non guarda più al futuro, ma al passato. E si citano l’involuzione in atto nei confronti della riforma liturgica; l’impasse del movimento ecumenico; l’insistenza sui «valori non negoziabili» che ostacola il dialogo; gli interventi della gerarchia che condizionano l’autonomia dei laici in politica. In realtà, non ci si può fermare a questi (e altri) casi, per quanto significativi. Un’indicazione di riflessione la fornisce Carlo Maria Martini in «Conversazioni nottue a Gerusalemme. Sul rischio della fede». Con la «parresia» evangelica che lo contraddistingue, il cardinale inizia rilevando che oggi «vi è un’indubbia tendenza a prendere le distanze dal Concilio. Il coraggio e le forze non sono più grandi come a quell’epoca e subito dopo». Come mai? «È indubbio – riconosce – che nel primo periodo di apertura alcuni valori sono stati buttati a mare. La chiesa si è dunque indebolita»; pertanto non devono sorprendere le paure e le resistenze di molti: «Posso ben comprendere le loro preoccupazioni se solo penso a quanti in questo periodo hanno abbandonato il sacerdozio, a come la chiesa sia frequentata da un numero sempre minore di fedeli e a come nella società e anche nella chiesa sia emersa una sconsiderata libertà». Tuttavia, i limiti del post Concilio non tolgono nulla alla grandezza dell’evento conciliare. «Nonostante tutto – conclude Martini – dobbiamo guardare avanti. […] credo nella prospettiva lungimirante e nell’efficacia del Concilio». La comunicazione della fede va riassunta in tre prospettive: 1. la necessità per i cristiani di «pensare in modo aperto»; 2. il bisogno che la chiesa ha di riscoprire il ruolo dei giovani; 3. l’urgenza di costruire una nuova «cultura della relazione».

Luca Rolandi

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Le comunicazioni e la chiesa
DAL CINEMA A FACEBOOK

Il 30 gennaio 1948 viene istituita da Pio XII la «Pontificia commissione di consulenza e di revisione ecclesiastica dei film a soggetto religioso o morale» e il 17 settembre dello stesso anno sono approvati il nuovo statuto e il nome di «Pontificia commissione per la cinematografia didattica e religiosa». Per essere più adatta alle esigenze dei nuovi mezzi di comunicazione, allora emergenti nel 1952, è di nuovo modificato lo statuto e la denominazione in «Pontificia commissione per la cinematografia» e vengono nominati numerosi esperti.
Lo sviluppo e il miglioramento di questo organismo continuò e nel 1954 il nome della commissione venne nuovamente mutato in «Pontificia commissione per la cinematografia, la radio e la televisione». L’8 settembre 1957 Pio XII promulga l’enciclica Miranda Prorsus sulle comunicazioni mentre il 17 febbraio 1958 dichiara santa Chiara d’Assisi «celeste patrona» della televisione e delle telecomunicazioni.
Nel 1959 Giovanni XXIII erige la Filmoteca Vaticana che viene affidata alla commissione. Soprattutto con il Concilio Vaticano II, che apre le porte e le finestre della chiesa al mondo, la comunicazione diventa elemento essenziale nella testimonianza e nell’evangelizzazione dei popoli. Per la prima volta in duemila anni, osservatori estei professionisti chiamati «giornalisti» sono ammessi a documentare e raccontare lo svolgimento dei lavori di un’assise così importante e influente sui destini dell’intera comunità cattolica mondiale. Del Vaticano II abbiamo riprese televisive, registrazioni audio, migliaia di fotografie e un numero sterminato di articoli che, spesso con dettagliata precisione, danno conto di dibattiti e polemiche intee che in passato sarebbero rimaste completamente segrete o, tutt’al più, sarebbero state oggetto di ricerca e analisi per gli storici, anni dopo la conclusione dell’evento. Per fare un paragone: del Concilio immediatamente precedente, il Vaticano I, abbiamo soltanto qualche dipinto e alcuni, spesso reticenti, resoconti. E nel Vaticano II viene soprattutto promulgato un documento, il decreto sui mezzi di comunicazione sociale il 4 dicembre 1963, la Inter Mirifica.
Durante il Concilio Vaticano II, Paolo VI con il motu proprio «In fructibus Multis» del 2 aprile 1964 cambia la denominazione del dicastero in «Pontificia commissione per le comunicazioni sociali» e affida a essa tutto quello che concee la comunicazione. A partire dal 1967 viene istituita da Paolo VI la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che da quella data si ripete a cadenza annuale. Con la costituzione apostolica Pastor Bonus del 1988 il dicastero viene elevato al grado di pontificio consiglio da Giovanni Paolo II. Il 20 maggio 2012 si celebra la 46esima giornata mondiale delle comunicazioni sociali sul tema «Silenzio e Parola: cammino di evangelizzazione».

Luca Rolandi

Luca Rolandi




La svolta di Macky

Macky Sall, quarto presidente del Senegal

Il Senegal conferma la sua tradizione democratica. Il duello finale tra il presidente al potere da 12 anni e il suo giovane allievo si è svolto nella calma. Nonostante i morti di febbraio e i vizi di incostituzionalità. La temuta deriva per il potere è stata arginata.
E ora il neopresidente deve rimboccarsi le maniche.

È la sera del 25 marzo, tiepida e tranquilla come quella di tante domeniche in questa stagione a Dakar. Il presidente del Senegal Abdoulaye Wade telefona a uno dei suoi «allievi», Macky Sall: «Le cose stanno definendosi, la vittoria è tua. Ti faccio i miei complimenti». Macky risponde con malcelata soddisfazione ma con rispetto: «Vi ringrazio!».
I senegalesi hanno votato tutto il giorno nella calma, per eleggere il loro nuovo presidente della Repubblica. I concorrenti al ballottaggio: «il vecchio» Wade e «l’allievo» Macky. Chiuse le ue alle 18, le proiezioni davano già il secondo con oltre il 60% di preferenze (risultato che si attesterà a 65,80%). I timori di un’involuzione «modello Costa d’Avorio» con il presidente uscente sconfitto che non vuole mollare, sono subito smentiti dalla telefonata. Il Senegal è a una svolta storica.

Un uomo ostinato
Abdoulaye Wade, «le vieux» (il vecchio) come viene soprannominato nel suo paese, ha 85 anni, ma ha deciso di attaccarsi al potere, nonostante tutto e tutti.
Eletto la prima volta alle consultazioni del 19 marzo 2000, questo oppositore storico divenne così il terzo presidente della Repubblica del Senegal. Dopo Léopold Sédar Senghor, il padre della patria e Abdou Diouf, entrambi del Partito Socialista, ognuno dei due al potere per 20 anni di fila dal giorno dell’indipendenza, il 4 aprile 1960. Diouf è sconfitto al secondo tuo da Wade. Nel 1974 Wade aveva fondato il Parti démocratique senegalais (Pds) di cui diventa il primo presidente.
Nel 2000 dunque si grida al «cambiamento» e si spera in una nuova era per il Senegal. Ma così non è. Ci si renderà presto conto che il sistema di corruzione e clientelismo perdura e si diffonde.
Il referendum costituzionale del 2001 dota il paese di una nuova Costituzione (la quarta dal 1960). La modifica fondamentale è quella dell’articolo 27: la durata del mandato presidenziale è ridotta da 7 a 5 anni (più consona alle democrazie modee) e il numero di mandati è limitato a due. Una clausola importante sancisce che queste due regole saranno modificabili solo tramite referendum popolare. La nuova Costituzione sopprime inoltre il Senato: il parlamento diventa unicamerale.
Finito il primo mandato nel 2007 (Wade era stato eletto quando vigeva l’altra Costituzione, con settennato), il presidente viene rieletto per altri cinque anni. È il secondo mandato e lui ha 80 anni. In questa occasione il presidente dichiara: «Non potrò più presentarmi in futuro perché ho bloccato la Costituzione su questo punto».
Ma nel 2008 ci ripensa. Il governo (il Senegal è una repubblica presidenziale, per cui il presidente della Repubblica è il capo dell’esecutivo) fa votare cinque leggi costituzionali, tra le quali quella che modifica l’articolo 27, riportando il mandato presidenziale a 7 anni. Il modo con cui l’emendamento viene fatto è però anticostituzionale, in quanto non è stato utilizzato il referendum.
dopo wade, wade?
Negli ultimi anni Abdoulaye Wade manda avanti suo figlio Karim, facendogli assumere sempre maggiori incarichi di potere. Lo nomina presidente dell’Agenzia nazionale dell’Organizzazione della Conferenza Islamica (Anoci). Il giovane deve seguire gli imponenti cantieri per l’incontro internazionale previsto nel 2008 proprio a Dakar. Ma l’Assemblea Nazionale (il parlamento) lo convoca per cattiva e opaca gestione dei fondi.
Il presidente dell’assemblea è Macky Sall, già primo ministro di Wade e suo possibile successore nel partito. Le vieux non lo perdonerà.
Karim Wade si candida a Dakar nelle amministrative del marzo 2009, ma il verdetto delle ue è implacabile. Sarà consigliere d’opposizione. Neanche due mesi dopo il padre Abdoulaye lo nomina ministro con la responsabilità di quattro dicasteri (Cooperazione internazionale, Territorio, Trasporti aerei e Infrastrutture). Nel 2010 colleziona anche l’importante ministero dell’Energia. Ma i senegalesi mal sopportano questa concentrazione di potere nelle mani di famiglia.
Nel giugno 2011 Wade propone di modificare lo scrutinio presidenziale: si eleggerebbe un «ticket presidenziale», ovvero presidente e vice-presidente, con appena il 25% dei suffragi. La popolazione vi vede il disegno di una successione ereditaria.
I principali partiti politici si rivoltano e così la società civile: le manifestazioni in capitale, di fronte all’Assemblea Nazionale, assumono contorni violenti. Wade è costretto a ritirare il progetto di legge.

Qualcosa si muove
Pochi giorni dopo nasce il Movimento 23 giugno (M23), fondato da alcuni partiti d’opposizione e da diversi gruppi della società civile. Movimento variegato e tutt’altro che unito, M23 ha come obiettivo dichiarato la partenza del presidente: «Wade vattene!». Le altre richieste sono: l’instaurazione di un sistema neutrale per l’organizzazione delle elezioni; che Karim Wade lasci il governo e i media di stato siano più neutrali.
Ci racconta un cornoperante italiano che da anni lavora in Senegal: «M23 è nato come movimento di piazza durante le manifestazioni di giugno 2011 e, in seguito, è stato colonizzato sempre più dai partiti, che l’hanno sicuramente usato per la campagna elettorale. Tra questi Benno Siggil Senegal. Resta comunque un movimento interessante per l’esperienza di coabitazione mista tra diversi soggetti della società civile e partiti». E continua: «Il gruppo più attivo all’interno dell’M23, e anche quello più radicale è “Y en a marre” (ne ho abbastanza, in gergo giovanile, ndr), nato da rapper e appoggiato da moltissimi giovani nelle principali città. Si posiziona come movimento slegato dai partiti – lo ha confermato in campagna elettorale – ed è riuscito a mobilitare giovani che fino a oggi non partecipavano alla vita politica, utilizzando un linguaggio vicino ai ragazzi: rap, slogan efficaci, immagini da puri e duri», conclude.
«Wade fu eletto dal popolo, ma ora ha deluso questo popolo, lo ha tradito. Adesso i senegalesi vogliono un cambiamento». Chi parla è Babacar Sarr, presidente del Fesfop (Festival internazionale del folklore e delle percussioni) di Louga, importante città nel Nord del paese.
«Con il movimento M23 la gente ha detto “No”. Basta andare contro la Costituzione. Si sono trovati partiti politici e leader della società civile. È un nuovo movimento che accompagnerà tutti i cambiamenti nel paese».
«Il popolo senegalese ha bisogno di azioni concrete, anche sulle istituzioni. Occorre separare il potere legislativo, esecutivo e giudiziario. E poi una buona governance. Un legislativo che rappresenti il popolo, un potere giudiziario che giudichi in nome del popolo, un potere esecutivo che governi per gli interessi del popolo».
Ma le violenze in Senegal non finiscono. Wade è candidato al suo terzo mandato, il Consiglio costituzionale lo ammette il 27 gennaio scorso. Non è accolta invece la candidatura del celebre cantante Youssou Ndur. A Dakar si scatena la guerriglia urbana. I morti sono almeno sei, ma alcune fonti parlano di 15, 150 i feriti, numerosi gli arresti. Per Babacar Sarr, 65 anni, con una vita di impegno politico alle spalle, il paese sta vivendo un momento storico: «Il popolo non deve sempre essere tradito e truffato. La nostra è stata un’indipendenza senza guerra, negoziata. Non abbiamo mai avuto morti. Quelli causati dal regime Wade sono stati i primi. La cittadinanza è sempre più vigilante, esigente, partecipativa». Il Consiglio costituzionale è composto di 5 «saggi», ma l’opposizione sostiene siano stati influenzati dal potere: «La candidatura è anticostituzionale, ma questo dimostra la scarsa indipendenza del potere giudiziario. Perché il Consiglio è stato “costretto” da Wade», sostiene Babacar Sarr.
«La modifica della Costituzione è avvenuta durante il suo primo mandato, il Consiglio sostiene che quello non entra nel conteggio. I suoi oppositori politici, avendo partecipato alle elezioni, è come se lo avessero accettato», spiega invece Mouhamadou Sarr, cornordinatore dei senegalesi del Piemonte, che vive tra Torino e Dakar.

Primo tuo
Il 26 febbraio scorso il presidente uscente affronta il primo tuo contro altri 12 pretendenti, molti dei quali suoi ex alleati, o «allievi» come Idrissa Seck, Macky Sall, Moustapha Niasse. Wade è convinto di vincere al primo tuo ben oltre il 50%. Ma la sua campagna non convince, e soprattutto i suoi ultimi anni di «regno» hanno visto una deriva autoritaria. Così gli elettori lo puniscono.
Il verdetto delle ue gli concede solo il 34,82% con un secondo posto a Macky Sall, 26,57%. Wade ha perso un milione di voti rispetto al 2000 e ne ha totalizzati solo 220.000 in più di Macky. È uno schiaffo per le sue ambizioni. L’astensione è alta: 48% del corpo elettorale.

Il giovane allievo
Macky Sall, 50 anni, è stato tra i più brillanti allievi di le vieux. Dopo gli studi in ingegneria in Senegal e Francia entra in politica aderendo al partito di Wade alla fine degli anni ‘80. Si rivela presto brillante e un valido collaboratore. Nominato ministro dell’Energia e Miniere nel 2001, poi dell’Inteo (2003), diventa in seguito fedele primo ministro di Wade (2004 – 2007) per poi passare alla presidenza dell’Assemblea Nazionale (il parlamento unicamerale). È qui che si consuma la rottura con il «maitre» (maestro), quando, nel novembre 2007 ne convoca il figlio Karim per spiegazioni sulla gestione dei fondi.
Le vieux lo costringe alle dimissioni. Macky fonda il suo partito d’opposizione, l’Alleanza per la Repubblica (Apr – Yakaar).
«Sono stato sorpreso in Senegal, visitando i villaggi in questi ultimi anni, nel vedere che Macky stava lavorando e preparando bene il terreno», racconta Mouhamadou Sarr.
«Io ho sempre speranza in coloro che vogliono cambiare le cose, anche se la situazione culturale e la mentalità politica senegalese tende a resistere al cambiamento», continua il cornordinatore dei senegalesi del Piemonte.
E per quanto riguarda Wade? «Io sono neutrale, ma penso che anche se fosse il migliore presidente del mondo, arrivato alla sua età si dovrebbe preoccupare delle sue preghiere con Dio e dei suoi affari personali, piuttosto che correre ancora dietro al potere».
E continua: «Penso che l’elezione di Macky porterà a un cambiamento in Senegal. Io provengo dalla periferia di Dakar e sono consapevole delle difficoltà che hanno le persone in città, ma anche in provincia. La vita è dura, la gente non riesce più ad andare avanti. Sicuramente abbiamo grosse potenzialità ma le opportunità non vengono date alla popolazione.
Adesso speriamo che questo gruppo di potere sia composto da gente onesta e competente, ma soprattutto con il coraggio di imporre una rottura con alcune pratiche e credenze. Finché i governi sono succubi o influenzabili dai capi religiosi e marabut, perché questi garantiscono loro dei voti, nulla potrà cambiare».
Al secondo tuo, Macky Sall riesce a mettere insieme tutti i candidati perdenti e ricevere il loro appoggio. Wade, invece, cerca voti religiosi, e si reca dal marabut Serigne Béthio Thioune, della potente confrateita dei Muridi, di fondamentale importanza nella complessa società senegalese. Ma questo non gli porterà molto.
«Io sono mouride, ma non ascolto il marabut per andare a votare, separo la politica dalla religione» dichiara Babacar Sarr. E continua: «Il senegalese medio che è andato a votare è una persona nel bisogno e vede tanti sprechi: soldi che vengono regalati a piacimento, spese fatte secondo priorità diverse da quelle della popolazione. Gente frustrata, stanca, disperata: questo fa dire vogliamo che Wade se ne vada».
È chiaro che Macky dovrà «pagare» politicamente l’appoggio degli altri candidati, in particolare Moustapha Niasse (arrivato terzo al primo tuo con 13,20%) e Ousmane Tanor Dieng (quarto con 11,45%). Importante è stato anche l’appoggio del cantante Youssou Ndour, di fama internazionale.
Ma ora soprattutto gli elettori lo aspettano alla prova del governo. «Macky ha accettato e ha firmato la “Carta di buona gouveance democratica” prodotta dalle Assise Nazionali. È questa la differenza. Inoltre c’è un salto generazionale, che è importante. Le raccomandazioni delle Assise saranno prese in conto dal governo di Macky. Il popolo sarà vigilante ed esigente su questo» insiste Babacar.
Le Assise Nazionali sono state organizzate a giugno 2008 e per circa un anno hanno realizzato un enorme lavoro partecipativo in tutto il paese e con la diaspora, per definire la «Carta di buona governance» che deve «guidare la ricostruzione nazionale e il rinforzo della repubblica». Le raccomandazioni delle Assise prendono in conto tutti i settori (agricoltura, ambiente, territorio, diritti, ecc.) e propongono una «visione», valori e un modello di governance per il Senegal.
Il tutto è poi rimasto nel cassetto senza mai venire utilizzato restando solo un ottimo esercizio di democrazia partecipativa.

Le priorità
Diverse emergenze attendono ora Macky e i suoi.
La crisi alimentare del Sahel di quest’anno toccherà almeno 800 mila senegalesi nell’interno del paese. Poi l’aumento del costo della vita, il prezzo dei carburanti, le inondazioni e i black out che fanno soffrire la popolazione di Dakar.
Un lavoro importante sarà anche il risanamento delle finanze dello stato.
Cosa chiede la diaspora
Anche in Italia la diaspora senegalese vuole un cambiamento. Macky ha vinto nella quasi totalità dei seggi per i senegalesi sul nostro territorio.
«Perché abbiamo qualche speranza che con Macky, siano affrontate alcune problematiche a noi care. Si tratta delle convenzioni sulle pensioni, gli accordi bilaterali sui flussi migratori, l’import di macchine usate, tutte cose sulle quali il governo Wade non ha fatto nulla», ricorda Mouhamadou. «La diaspora è molto stanca di non essere considerata. Vorremmo che si definisse una politica migratoria in Senegal. Speriamo che con Macky ci sia un cambiamento». Mouhamadou Sarr è molto attivo nelle associazioni dei migranti senegalesi in Italia.
Oggi la diaspora senegalese nel nostro paese è ben organizzata: esiste una federazione del Nord Italia e si sta lavorando per una federazione del centro e una del Sud. Il tutto per arrivare a una confederazione italiana. «Abbiamo raggiunto un livello di maturità importante – ricorda Mouhamadou – con un potere di pressione e un ruolo di plaidoyer, presso i governi del Senegal e dell’Italia. Analizziamo le politiche di cooperazione e i rapporti bilaterali e vogliamo presentare un documento di proposte al nuovo presidente. Poi vogliamo essere attenti affinché alcune cose vengano realizzate e le promesse elettorali mantenute».

Marco Bello

Marco Bello




La chiesa rompe l’assedio

La visita del Papa

Per adattarsi ai nuovi tempi, anche Cuba sta cambiando, pur rimanendo fedele alla propria Rivoluzione. Gli Stati Uniti, che dall’isola distano soltanto cinquanta chilometri, rimangono sempre l’oppositore più intransigente. Come nel 1998, anche nel 2012 è toccato alla Chiesa cattolica rompere l’assedio.

L’Avana. Nel decennio che ho vissuto in Italia prima di atterrare nella più grande Isola delle Antille, ho imparato che per parlare di Cuba, prima bisogna scegliere quale sarà il nostro punto di osservazione.
Si può decidere di osservarla dal Nord del mondo, in questo caso dall’Italia, lontana novemila chilometri, una distanza siderale (e non solo nel senso geografico del termine), oppure si può scegliere di osservarla con i piedi piantati nel Sud del mondo, a partire da paesi simili a quest’isola. Simili per popolazione, per risorse naturali e prodotto interno lordo. Credo che guardare Cuba dal Sud sia eticamente più corretto, altrimenti si rischia inconsapevolmente di assumere in modo acritico le idee tergiversate che promuovono i mezzi di comunicazione mainstream e, dietro a questi, i nemici della Rivoluzione cubana. Cuba è un paese socialista, con undici milioni di abitanti, che ha deciso di contraddire, con la sua Rivoluzione, la più grande potenza militare ed economica al mondo, che si trova a cinquanta chilometri scrasi dalle sue coste.  Con la sua Rivoluzione contesta anche il modello di libero mercato professato e promosso dal Nord del mondo. Questo è costato all’isola caraibica un embargo economico che dura da più di mezzo secolo, oltre al terrorismo finanziato apertamente dagli Stati Uniti e dai cubani fuoriusciti e stabilitisi a Miami. Credo che pochi paesi al mondo potrebbero resistere in simili condizioni. E questo è un fatto storico.
Fatta questa considerazione, possiamo atterrare sull’isola, camminare insieme fra le sue strade e ripercorrere la storia dei contatti e dei contrasti fra la Rivoluzione cubana e la Chiesa cattolica.
CUBA SI MUOVE
Quello attuale è per Cuba un periodo di grandi cambiamenti, non certo il primo e nemmeno l’ultimo che quest’isola caraibica, situata al centro del grande Golfo del Messico, si è trovata a vivere.
Le strade cubane sono diverse da qualsiasi altra in America Latina: qui non ci sono cartelloni pubblicitari, mentre negli ultimi trent’anni la pubblicità ha letteralmente ridisegnato i paesaggi urbani degli altri paesi del continente. Questi sono stati davvero invasi da un groviglio d’insegne d’ogni forma e dimensione, accalcate disordinatamente, con vistosi colori fosforescenti di giorno e luci artificiali di notte, come tanti piccoli altari consacrati alla fede della società consumistica.
Nelle strade dell’Avana invece questo non accade: i pochi manifesti che si trovano appesi sono messaggi in difesa della rivoluzione o di denuncia dell’embargo, a cui ultimamente si sono aggiunti gli appelli per il ritorno dei cinque eroi antiterroristi, ingiustamente incarcerati negli Stati Uniti. Le strade di quest’isola, così particolari, stanno vivendo al tempo stesso (come l’intera isola) un processo di profonda trasformazione. Nell’ultimo anno i cambiamenti si sono fatti evidenti: si tratta di una crescita a dir poco esponenziale di chioschi, piccole caffetterie, ristorantini a conduzione familiare, piccoli bar istallati nei cortili delle case dei privati, in cui si offrono pizze, caffe, spremute di frutta e una lunga serie di dolci della variegata pasticceria habanera. L’Avana è in metamorfosi, i cosiddetti cuentapropistas (quanti lavorano per conto proprio e non alle dipendenze dello Stato) tra il 2011 e il 2012 si sono moltiplicati, grazie alle aperture del VI Congresso del Partito comunista dell’anno scorso. I cuentapropistas stanno reinventando il modo di fare commercio. Stanno cambiando anche il volto del mercato. Una quantità di carretti (il cui arrivo è anticipato dalle grida dei venditori) girano oggi per le strade, carichi di ananas, pomodori, tuberi di manioca, fagioli e altre verdure, fra cui la tipica malanga. Questa è una patata dolce, che insieme alla carne di maiale, costituisce uno dei fondamenti nella dieta cubana, a tal punto da diventare, come racconta il cantautore popolare del gruppo Buena Fe, un prodotto socioculturale. Questo paese e il suo popolo hanno un loro ritmo di vita peculiare, che oltre ad essere una particolarità degli isolani, è diventato ancora più indecifrabile e caratteristico dal marchio lasciato dalla combinazione di oltre mezzo secolo di rivoluzione socialista e privazioni dovute all’embargo.
In questi giorni, nei giornali più popolari, quali Juventud Rebelde (dell’Unione dei Giovani comunisti) e Granma, il giornale ufficiale del Partito comunista, si pubblicano una serie di articoli sulla storia della Chiesa cattolica e alcuni comunicati ufficiali della conferenza di vescovi cattolici di Cuba. Nelle chiacchiere disordinate che si fanno per strada fra conoscenti e passanti, l’arrivo del pontefice è diventato un tema inevitabile.
Ritorniamo un po’ in dietro dove ebbe inizio questa storia.
CHIESA E RIVOLUZIONE:
UN INIZIO DIFFICILE
La Chiesa cattolica e la Rivoluzione hanno cominciato il loro rapporto, diciamo, col piede sbagliato. Questa è l’opinione di Sergio Samuel Arce Martinez, notabile teologo presbiteriano, che nel suo libro «La missione della Chiesa in una società socialista» (La misión de la Iglesia en una sociedad Socialista), afferma: «Il trionfo della rivoluzione sorprese la Chiesa, che si trovava teologicamente impreparata, inadeguata dal punto di vista pastorale e  ideologicamente reazionaria […] La peggiore delle nostre povertà era quella pastorale, che non impegnandosi a favore del popolo, praticava un amore che non possedeva l’efficacia della giustizia e si traduceva in rassegnazione conformista. La povertà pastorale della chiesa nel 1959 trovava corrispondenza nella sua povertà teologica, incapace di analizzare evangelicamente o biblicamente la Rivoluzione, situazione che portò all’esodo dei pastori agli inizi del 1960».
Nello stesso libro, qualche pagina oltre, Arce cita un discorso di Fidel Castro al riguardo: «Il movimento rivoluzionario internazionale, lungo la sua storia, non ha mai stabilito la questione dell’esclusione dei credenti dal partito. Nel caso di Cuba obbedì alla circostanza eccezionale del conflitto che sorse fra la gerarchia cattolica e la Rivoluzione nei primi anni, giacché purtroppo, la religione cattolica era la religione dei ricchi».
Secondo la blogger cubana Yasmín Silva, membro dell’Osservatorio critico: «La Chiesa cattolica lungo il ventesimo secolo e fino al ‘59, fu una chiesa prevalentemente urbana e associata alle classi alte. Quando, negli anni ’50, a Cuba si comincia ad articolare il movimento di liberazione dalla dittatura batistiana con una serie di scioperi e grandi manifestazioni popolari, la chiesa non ebbe una risposta coerente di fronte a questo movimento, ma appoggiò, per omissione o in modo cosciente, i governi reazionari che allora erano alleati con gli Stati Uniti. La situazione peggiora ulteriormente dopo il 1959, quando la rivoluzione si dichiara socialista e la chiesa si oppone con violenza, fino a risultare coinvolta in progetti e operazioni della Cia, come l’«operazione Peter Pan» (1960-’62), con cui si fecero uscire da Cuba migliaia di bambini senza genitori, perché fossero accolti negli Stati Uniti. Quest’operazione ebbe la sua giustificazione nella menzogna che questi bambini sarebbero stati mandati nell’Unione Sovietica per essere addottrinati. Con questi avvenimenti, la chiesa perse molto di quella già esigua base sociale, che aveva nella prima metà del ventesimo secolo».
NUOVA AMERICA, NUOVA
CHIESA
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti nelle vicende fra la Rivoluzione cubana e la Chiesa cattolica. Per cominciare si fece il Concilio Vaticano II, che aprì la Chiesa a un mondo pluralista ed ebbe le sue ripercussioni in America Latina, con la conferenza di Medellin nel 1968. Quest’apertura, in Cuba, si tradusse in una serie di cambiamenti nell’ottica della distensione, come la Carta pastoral del 1969, in cui l’episcopato marcava la propria distanza dal radicalismo controrivoluzionario annidato a Miami.
Nei decenni successivi, i movimenti di liberazione nel vicino Centroamerica ebbero una forte componente religiosa, soprattutto all’interno del Frente Sandinista de Liberación Nacional (Fsln) in Nicaragua, dove un sacerdote ed esponente della Teologia della liberazione, Eesto Cardenal, durante il periodo rivoluzionario nicaraguense (1979-1990) fu ministro della Cultura. Nel Salvador, durante gli anni Ottanta, ricordiamo l’assassinio di monseñor Aulfo Romero e di un gruppo di gesuiti dell’Università centroamericana (Uca), che si erano spesi in difesa dei settori popolari e contro la repressione militare. O pensiamo al Guatemala, all’assassinio di monseñor Juan Gerardi, insieme a quello di molti altri preti guerriglieri che diedero la loro vita, tutti impegnati nell’opzione per gli impoveriti, che in quegli anni  trovava spazio all’interno della Teologia della liberazione. Questi eventi ebbero una forte ripercussione a Cuba e nei rapporti fra Chiesa cattolica e Rivoluzione.
Nel 1991, nell’ambito del quarto Congresso del Partito comunista cubano e delle conseguenti riforme costituzionali dell’anno seguente, si affermò la distensione fra le Chiese cattolica e protestante e la Rivoluzione cubana.
ANNO 1998: FIDEL CASTRO E GIOVANNI PAOLO II
La visita di Giovanni Paolo II a Cuba nel 1998 fu un evento che in qualche modo chiuse questo periodo. Si attendeva come l’incontro fra i due giganti: Fidel Castro, leader indiscusso della Rivoluzione cubana e Giovanni Paolo II, punta di lancia dell’anticomunismo, i due superstiti del crollo del socialismo, della fine di un’epoca, quella del bipolarismo e della guerra fredda. Quest’incontro aveva gli occhi del mondo intero puntati addosso. Quattordici anni dopo, molte cose sono cambiate. Allora fu Fidel Castro quello che raccolse più vantaggi dalla distensione delle relazioni con il mondo cattolico cubano. In quest’occasione saranno Raul Castro, la Rivoluzione cubana e in definitiva il popolo cubano insieme alla chiesa cattolica, che trarranno vantaggi dal dialogo fra Chiesa e Rivoluzione.
Molti religiosi hanno lavorato in questa direzione, come il teologo e attivista brasiliano Frei Betto, che nell’aprile del 2005, alla fine del suo intervento speciale nell’Incontro intergenerazionale sulla teologia cubana, celebrato nella cattedrale episcopale della Santissima Trinità dell’Avana, affermava: «Essere Chiesa in un paese come il Brasile, come il Salvador o il Guatemala, è diverso da essere Chiesa a Cuba. Perché in questi paesi il popolo non vede ancora garantito, né strutturato politicamente, il diritto alla vita. Sebbene in Brasile si siano fatti passi avanti con Lula, i nostri problemi sono così imponenti da non poter essere risolti in quattro anni; in questo paese [Cuba, ndr], dopo più di quarant’anni, si è riusciti a garantire la vita a tutti, ovvero, qui si condivide il pane. Questo non significa che le nostre chiese debbano sacralizzare il sistema politico cubano. Piuttosto è fondamentale che le chiese si mettano al servizio del popolo cubano, perché la gente abbia la vita e la vita piena. Se la Rivoluzione va in questa direzione, la Rivoluzione va nella direzione di Gesù. La Rivoluzione aiuta a costruire nella storia il Regno di Dio».

José Carlos Bonino

José Carlos Bonino




Figlio della savana

Intervista con il cardinale Polycarp Pento, arcivescovo di Sar es Salaam

Nato nel 1944 in un villaggio della diocesi di Sumbawanga, Polycarp Pengo fu ordinato prete nel 1971; laureato in teologia morale all’Alfonsiana (Roma), fu rettore del seminario maggiore di Segerea (1978-83); consacrato vescovo di Nachingwea nel 1984, fu trasferito nella diocesi di Tunduru-Masasi (1986) e poi a quella di Dar Es Salaam (1990) come coadiutore del card. Rugambwa, a cui succedette nel 1992. Fu creato cardinale nel 1998.

Il cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar Es Salaam e presidente del Simposio delle Conferenze episcopali d’Africa e Madagascar (Secam) è stato uno dei protagonisti della II Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi (Roma, 4-25 ottobre 2009). Sintesi di tale Assemblea è l’esortazione apostolica postsinodale Africarne Munus, un documento che «darà alla Chiesa nuovo slancio per costruire un’Africa riconciliata nel cammino della verità, giustizia, amore e pace, e al Tanzania uno stimolo nuovo per una fede più matura» afferma il cardinale.

Cardinale Pengo, fra gli eventi significati della sua vita, certamente vi spicca il giorno in cui fu nominato arcivescovo di Dar Es Salaam. Quali furono, allora, i suoi sentimenti e quali sono oggi?
Entrai in servizio effettivo come arcivescovo di Dar Es Salaam nel 1992 e avevo una grande paura. Mi dicevo: «Polycarp, tu sei un figlio della brughiera e della savana! Che cosa farai in una grande e modea città? Come ti accoglierà la gente?».

La gente l’ha accolta bene e continua a farlo.
È vero. E di questo ringrazio il Signore.

Si dice che i tanzaniani, religiosamente, si dividano in tre gruppi uguali: il 33 per cento sono i cristiani e altrettanti sono i musulmani e i seguaci delle  religioni tradizionali. Qual è il rapporto fra cattolici, luterani, anglicani, «salvati», ecc.?
Il rapporto fra i cristiani cattolici, luterani e anglicani è buono. È molto migliorato rispetto a qualche decennio fa. Oggi, ad esempio, nell’ospedale governativo «Muhimbili» di Dar Es Salaam i cristiani condividono la stessa cappella, pur conservando le loro differenze dottrinali. Invece, con i «cristiani salvati» (walokole) abbiamo grossi problemi.  Questi vanno a caccia dei loro fedeli nelle varie chiese e imbrogliano le persone religiosamente e psicologicamente. Assai meglio è relazionarsi con i musulmani, perché conosci bene il loro pensiero. Quanto al numero, i dati citati sono superati, perché i cattolici da soli coprono il 27 per cento della popolazione e superano i musulmani.

Circa l’islam, Lawrence Mbogoni scrisse: «Durante gli anni 1985-95 gruppi di musulmani disprezzarono con asprezza i cristiani; il disprezzo culminò il 13/02/1998 allorché 2 cristiani furono uccisi e molte abitazioni distrutte»1. Eminenza, oggi qual è il rapporto fra cristiani e musulmani?
I disordini del decennio 1985-95 furono causati da diversi giovani musulmani, disoccupati, mandati a studiare l’islam fondamentalista in Egitto o in Arabia Saudita. Al loro ritorno in Tanzania, manifestarono la loro ostilità verso i cristiani saccheggiando molti negozi di carne suina a Dar Es Salaam e compirono altre distruzioni. Oggi non si registrano più atti del genere. Tuttavia l’ostilità verso i cristiani persiste. Non mancano gli insulti. La polizia sente tutto e sa tutto, ma non interviene. La mia paura è che i cattolici, che ora sopportano tutto in silenzio, un giorno perdano la pazienza. E allora saranno guai, purtroppo.

Il 2011 è stato un anno significativo per il Tanzania, perché ha celebrato 50 anni di indipendenza. Secondo il giornale «Mwananchi», lei commentò l’evento in questi termini: «Nei 50 anni passati abbiamo avuto dei successi. Ora dobbiamo darci da fare affinché, quando celebreremo il centenario della nostra indipendenza, non si dica: era meglio al tempo dei colonialisti». E aggiunse: «La nostra nazione nasconde gruppi di traditori, egoisti, capaci anche di uccidere i loro compagni pur di acquisire potenza e ricchezza»2. Eminenza, queste sono parole pesanti. Forse troppo pesanti, o mi sbaglio?
Sì, sono parole pesanti. Però ritengo che sia mio dovere denunciare con verità e chiarezza la situazione difficile del Tanzania. L’uomo della strada, di fronte a tante prevaricazioni subite, ha bisogno di una parola forte, affinché si cambi rotta. Altrimenti, potrebbero succedere grossi guai anche in Tanzania.

Da poco è uscito il documento di Benedetto XVI «Africarne Munus», che riguarda il Sinodo dei vescovi africani (Roma, 4-25 ottobre 2009). La Chiesa in Africa sta affrontando problemi cruciali che possono scoraggiare. Nel documento il papa scrive: «Scongiuro la Chiesa universale a guardare l’Africa con occhi di fede e speranza»3. Eminenza, che cosa consiglia al Tanzania?
In Tanzania noi cattolici dobbiamo rendere più matura e concreta la nostra fede cristiana. Troppi cattolici vivono ancora secondo la fede tradizionale-pagana, che non è la fede cristiana. Ad esempio: di fronte a una difficoltà (riguardante soprattutto la salute), il tanzaniano a chi si rivolge? Si rivolge al «curatore tradizionale» (che spesso è anche stregone). Questo è un segno chiaro che non si è ancora cristiani, che la fede è ancora pagana. Non abbiamo assunto la rivoluzione-liberazione di Gesù Cristo. E non dimentichiamo che  Gesù non ci ha salvati percorrendo la strada della ricchezza, del prestigio e delle comodità. Inoltre non ha ucciso nessuno, ma si è lasciato uccidere, dopo aver sofferto una morte atroce. Questo è il dono della sua salvezza. È nostra responsabilità accoglierla così com’è. Non imbrogliamoci né imbrogliamo con tante parole. Non cadiamo nella tentazione di ricambiare i torti patiti, anche di fronte ai musulmani. Costruiamo la fede su Gesù Cristo che perdonò tutti, morì in croce e, dopo tre giorni, risorse.

Anni fa lessi un articolo di un missionario, intitolato «Io sono uno straniero nella casa di mio Padre» (I am a stranger in my Father’s house). Perché il missionario, anche dopo tanti anni di lavoro, si sente ancora mzungu, cioè un «diverso», un pesce fuori dall’acqua?
Questo fatto rattrista un poco. Però non è un dato comune. Molti missionari si sentono a casa loro nella cultura del Tanzania o di altri paesi. Conosco missionari della Consolata e di altre congregazioni che rifiutano di ritornare in patria, che dicono: ora i miei fratelli sono questi e non quelli del paese in cui sono nato, che non mi conoscono nemmeno per nome.

Francesco Beardi

1    Cfr. Lawrence E. Y. Mbogoni, The Cross versus The Crescent (Religion and Politics in Tanzania from the 1880s to the 1990s), Dar Es Salaam 2004, 171-184.
2    Mwananchi, Agosti 14, 2011.
3    Africarne munus, Esortazione postsinodale di Benedetto XVI, 2011, 5.

Francesco Beardi




La religione delle montagne

Religioni in Cina: il Taoismo

Filosofia e religione ad un tempo, il taoismo è parte della vita del popolo cinese. Ci sono templi (1.800), monaci (20 mila) e fedeli (10 milioni), ma non c’è un leader spirituale di riferimento. Il precetto fondamentale del taoismo dice di «coltivare il proprio sé». Raggiunto questo obiettivo, sarà facile trovare un accordo con il mondo e con l’Universo.

Pechino. Baiyun guan, il tempio (guan) della Nuvola Bianca, è il principale tempio di Pechino della corrente taoista quanzhen. A mezzogiorno, il tempio è assolato. I monaci, dalle tuniche blu e dai capelli raccolti con un fermaglio sulla testa, si aggirano tra i padiglioni. I fedeli, accendono gli incensi, entrano nelle varie sale e si inchinano, tre volte, davanti alle numerose divinità taoiste.

LA GIORNATA DI UN MONACO TAOISTA
Liu Zongmin è a Baiyun guan da cinque anni: «Non chiedere a un monaco per quale ragione ha fatto questa scelta, spesso e volentieri è un percorso difficile, non è, come la gente crede, un passaggio comodo e tranquillo. In principio è molto duro». Oggi, il monaco Liu vive in una stanza singola di dieci metri quadrati, tra i suoi libri e un paravento di legno intarsiato. Dipinge calligrafie cinesi e alleva cinque tartarughe. «Simbolizzano la longevità», suggerisce.
Il tempio dove vive ha visto nascere conglomerati religiosi taoisti fin dalla dinastia Tang (618-907 dopo Cristo), ma fu l’imperatore Chinggis qan (Genghis Khan), della dinastia mongola degli Yuan che nel 1224 fece ricostruire il tempio da Qiu Changchun, importante monaco e patriarca del taoismo quanzhen.
Durante la dinastia dei Ming (1368-1644 dopo Cristo) prese, poi, il nome di tempio della Nuvola Bianca e, da quel momento è sempre stato un punto di riferimento per i monaci e i fedeli. Nel folle periodo della Rivoluzione culturale (1966-1976) è stato uno dei pochi luoghi di culto a non aver subito danni e scempi eccessivi ed oggi è divenuto la sede dell’Associazione taoista cinese.
Tra il 18 e il 22 settembre del 1978 venne istituita a Pechino la terza sessione dell’undicesimo congresso del Comitato centrale del Partito comunista cinese. Deng Xiaoping denunciò gli errori della Rivoluzione culturale. Da quel momento in poi cominciò l’era delle riforme: venne coinvolto l’aspetto economico della Cina e, in silenzio, anche la religione.
«Durante le feste, alle quattro del mattino, siamo già in piedi, per offrire i servizi religiosi ai fedeli, altrimenti la sveglia è alle sette, la colazione è alle sette e mezza… Durante la giornata ci sono due letture fisse, quelle del mattino e della sera, per i vivi e per le persone morte e le letture per lo studio, che cantano le gesta dei grandi maestri e dei patriarchi. Ad esempio, c’è una frase che dice, l’uomo potrà essere in pace e con lui l’intero Universo. Il concetto fondamentale del taoismo è coltivare il proprio sé; quando l’animo sarà sereno tutto avverrà in maniera autentica e naturale», continua il monaco Liu.
Il taoismo ha sempre coinvolto diversi piani culturali e religiosi, per cui, spesso e volentieri in Occidente si sono cercate formalizzazioni che incanalassero l’indagine della conoscenza in compartimenti più agibili, e si è confusa la parte con il tutto, definendo una determinata corrente taoista di una particolare epoca come il taoismo intero.

UNA REALTÀ COMPOSITA E VARIEGATA
Era comune la differenziazione tra il taoismo religioso e quello filosofico. Oggi, negli studi contemporanei, si va oltre questa visione, provando ad analizzare il taoismo da più punti di vista: c’è la metafisica e la cosmologia; ci sono i numerosi testi e i commentari ai testi che spesso condividono parte del lessico con il buddismo e il confucianesimo. C’è poi anche un piano sociale, istituzionale e liturgico, sia a livello locale che centrale, il quale si è dipanato nel lungo corso del tempo e in tutta la Cina e che ora sta finalmente emergendo.
Wang Ka, membro dell’Accademia delle Scienze sociali di Pechino presso il Dipartimento di Studi religiosi, afferma che «il taoismo è sempre stato tra la gente, nella società. È sbagliato pensare ad esso come qualcosa di esterno. È una religione viva: ci sono i monaci, i templi e i fedeli, il taoismo è parte della vita del popolo cinese. Fino al 1949, per ogni lutto che avveniva nelle famiglie era invitato un monaco taoista a leggere i testi, oggi nelle campagne avviene ancora ma in città molto meno».
La differenziazione tra le campagne e le città si ripercuote sensibilmente anche sulla religione: ci sono templi ufficiali nelle città, come ad esempio il Baiyun guan, che possono essere considerati come una vetrina della rinascita del taoismo, e numerosi templi dislocati nelle aree non cittadine, i quali assurgono ad una funzione di collante sociale e religioso per le comunità.
Tracciare una linea chiara e dai contorni tersi sul taoismo, sia a livello storico che religioso, è un’impresa difficile e non renderebbe neanche giustizia ad una realtà composita e variegata.
Quello che è certo è che il taoismo risulta esente da un unico credo e da un unico leader spirituale. I testi, criptici e sintetici, derivano da un panorama culturale localizzato, dove il culto si è sempre differenziato a seconda del contesto economico e sociale e dal luogo di residenza di chi lo praticava.
Vincent Goossaert, direttore per la Ricerca per gli affari religiosi a Parigi, sottolinea: «A livello teologico, cosmologico (e quindi anche per la coltivazione del sé) e liturgico, gli elementi chiave del taoismo sono rimasti stabili. I rituali taoisti compiuti tra la gente, piuttosto che nei templi ufficiali, sono praticamente gli stessi del passato, sia per la loro funzione sociale che a livello di contenuto. Alcuni elementi istituzionali rilevanti sono venuti meno durante il ventesimo secolo, e hanno reso il taoismo ancora più decentralizzato».
Il taoismo, così come altri culti locali cinesi, durante il ventesimo secolo ha avuto un forte ripiegamento su se stesso: l’influenza occidentale e il valore dato alla scienza e alla tecnica hanno visto la distruzione di numerosi luoghi di culto durante la rivoluzione del 1911-1912, e ancora nel 1926 e nel 1928, con la guerra civile cinese, durante la quale si sono voluti sradicare le strutture sociali che avevano caratterizzavano la Cina fino a quel momento.
Con la fondazione della Repubblica popolare cinese, nel 1949, a Pechino, vennero distrutti la maggior parte di templi taoisti e buddisti. La Rivoluzione culturale, infine, ha ulteriormente sfregiato quello che già era stato parzialmente annientato.
Per il professor Wang Ka, però, il termine annientare non è adatto e  si infervora nello spiegare che «nell’arco degli ultimi trent’anni, dal periodo delle Riforme in poi, in Cina ci sono ufficialmente più di mille e ottocento templi taoisti, molti nelle zone rurali. Una statistica ha annunciato che i credenti taoisti sono più di dieci milioni, anche se registrare i credenti in Cina non è impresa facile, mentre i monaci arrivano a essere ventimila».

MONACI E LAICI 
A Baiyun guan, i monaci si differenziano a seconda delle loro funzioni.
«L’abate del tempio è colui il quale ha la responsabilità delle relazioni con l’esterno, mentre il supervisore è incaricato dell’andamento di tutto ciò che avviene all’interno tempio, c’è poi chi si occupa delle scritture e chi è assegnato all’accoglienza dei fedeli, in totale oggi siamo cinquantanove monaci», racconta sempre il monaco Liu, mentre continua a versare il tè nelle piccole tazzine sul tavolo della sua camera.
Le funzioni religiose vengono spesso espletate grazie all’aiuto degli huoju daoshi, termine generico che indica i laici avviati allo studio e alla pratica del taoismo.
«Quanti siano i huoju daoshi è difficile da determinare, non c’è stata una ricerca generale, ma nei grandi templi, per valutare quanti siano, si procede con l’individuare le famiglie di volontari che sono coinvolti nei riti, da qui si ha un’idea generale», continua il professor Wang.
A livello storico, sono sempre state figure al margine, in quanto lo Stato, anche nel passato, non ha mai voluto conferire la possibilità ai taoisti di celebrare i riti al di fuori di un luogo ufficiale, come vuole essere il tempio.
Per lungo tempo gli è stato impedito di espletare le funzioni religiose, mentre dagli anni Novanta si sta cercando un modo per regolamentare la questione, con l’attivazione di precetti e linee guida che il taoista laico dovrebbe rispettare. Nonostante le proibizioni e i precetti scritti di recente, queste figure hanno accompagnato il taoismo nelle sue funzioni sociali e liturgiche.
Alcune ricerche dell’Associazione nazionale taoista hanno individuato, nel 2000, ventimila taoisti laici a livello locale, ma è senza dubbio difficile avere un dato preciso, seppure si suppone un forte aumento nell’ultimo decennio.

IL TAOISMO E LA PRESENZA GOVERNATIVA
L’Associazione taoista cinese, fondata nel 1957, ha avuto la funzione primaria nella restaurazione dei templi distrutti. All’inizio degli anni Ottanta si è proceduto con il recupero dei luoghi di culto nelle zone urbane per poi passare alle zone rurali negli anni Novanta.
Nella regione del Jiangsu, ad esempio, nel 1993 i templi taoisti erano solo cinque, ma nel 1999 erano già quarantadue.
L’Associazione, oltretutto, si occupa dell’educazione dei monaci e della regolamentazione del riconoscimento dei luoghi di culto a livello ufficiale.
Questo implica, senza dubbio, una presenza del governo all’interno dei luoghi di culto, che d’altronde stanno beneficiando dei finanziamenti statali e degli introiti dovuti al boom turistico.
La burocrazia a cui sono sottoposti i templi, segue una logica diversa da quella che era visibile nel passato, dove i templi minori, a livello locale, erano autonomi, seppur collegati in vari modi ai templi più importanti.
La funzione dei templi ufficiali, connessi con all’Associazione taoista cinese, pone in primo piano la diffusione della cultura taoista in senso lato. Il turismo, con la vendita dei souvenir religiosi (bracciali, oggetti di giada, statuette, ecc.), si associa ad una divulgazione di «precetti morali», che ben si confanno alla politica attuale della «società armoniosa». Spesso in questi templi, come a Baiyun guan, sono presenti dei veri e propri ambulatori dove si effettuano diagnosi e cure mediche, secondo i principi della medicina cinese.
«I fedeli, che vengono al tempio per bruciare gli incensi, hanno motivazioni diverse. C’è chi crede o chi viene per il giorno della nascita dei patriarchi1, c’è invece chi ha dei problemi in famiglia, chi cerca fortuna o un lavoro… abbiamo un rapporto stretto con i fedeli. Può accadere che qualcuno abbia dei dubbi nel corso della vita o si trovi in un momento di impasse, noi proviamo ad aiutarli», conferma il monaco Liu. I servizi che i monaci di oggi offrono ai fedeli, comunque, sono simili a quelli che offrivano nel passato: accompagnare nelle tappe fondamentali della vita, ossia nascita, matrimonio e morte.
«C’è sempre stato il fascino dell’eremita e di colui che si ritira dalla società. Ma per superare queste rappresentazioni e capire il ruolo del taoismo nella vita delle comunità locali di oggi, abbiamo bisogno di osservazioni sul campo e di dettagliate fonti storiche. Questo non è stato possibile fino a tempi relativamente recenti, ma adesso gli studi sul taoismo sono incentrati  sull’importanza del taoismo a livello sociale», afferma il professor Goossaert, ricordandoci che la Cina è cambiata anche da questo punto di vista.

CITTÀ E CAMPAGNA, DIMENSIONI DIVERSE
Spesso e volentieri i rituali sono espletati solo in parte nei tempi urbani ufficiali, molti si celebrano in quelli delle piccole comunità. I fedeli vengono coinvolti in brevi sezioni che in altre circostanze, invece, possono durare giorni, come nel caso del funerale. Sebbene la liturgia sia molto simile, differente è il contesto e lo stile dei riti.
Negli abbienti templi urbani, ad esempio, si sfoggiano oamenti religiosi come vesti e strumenti musicali che invece scarseggiano nelle comunità rurali.
I principali templi urbani accolgono una tipologia di fedele. Data la funzione divulgatrice della cultura taoista e visto il costo relativamente alto dei biglietti di ingresso al tempio, il fedele taoista, spesso e volentieri si dirige in templi locali o di periferia.
Questi templi non sono, solitamente, collegati con l’Associazione taoista cinese, ma sono piuttosto gestiti da organizzazioni locali, le quali possono agire in autonomia, sebbene spesso le ristrutturazioni e il recupero dei luoghi fisici siano state finanziate anche da parte del governo, sovente come ampliamento dell’area urbana.
I templi delle piccole comunità locali, nella continua ricerca di una loro dimensione tra la cooperazione e l’autonomia, sono tuttora presenti sul territorio cinese. Così si intrecciano i diversi piani delle aree urbane e di quelle rurali. Le prime volte alla diffusione delle cultura taoista e le seconde, più integrate nella comunità locale, che celebrano i riti per i fedeli. Quello che emerge è comunque una dimensione del taoismo variegata e più immersa nella società di quanto siamo stati abituati a vedere o a leggere sui libri2.

Désirée Marianini

Note
1 – Il taoismo, a differenza delle religioni abramitiche, non ha un unico padre fondatore. Il Pantheon taoista è sorprendentemente ampio, varia nel tempo e a seconda della corrente religiosa. Tra le varie divinità ci sono anche figure rappresentative o grandi maestri, definiti patriarchi, in quanto hanno avuto una funzione importante per la scuola di riferimento. Ad esempio il quinto patriarca della scuola Quanzhen è Wang Chongyang, personaggio storico vissuto nel dodicesimo secolo dopo Cristo. .
2 – Alcuni testi consigliati: Marcel Granet, Il pensiero cinese; Kristofer Schipper, Il corpo taoista; Fabrizio Pregadio, Awakening to the reality.

BOX

Breve storia del taoismo

UNA PAROLA, MOLTI SIGNIFICATI

Il testo fondamentale, il Daodejing, risale al 300 avanti Cristo. Si distinguono due correnti principali: la corrente «zhengyi» e la corrente «quanzhen».

La parola taoismo deriva dal cinese tao, secondo il sistema Wade-Giles (utilizzato per la traslitterazione dei caratteri cinesi in alfabeto latino nel ventesimo secolo). Secondo il sistema Pinyin (traslitterazione usata dal 1958 ad oggi) deriva invece da dao. Molti testi utilizzano indifferentemente la parole taoismo (da tao) o daoismo (da dao). Il carattere cinese è, comunque, la raffigurazione di vari concetti: via, cammino, percorso, metodo, parola e dottrina. Nell’affrontare una lettura su cos’è il taoismo dovremmo abituarci ad una multi-semantica e renderci subito conto della «non linearità», caratteristica della lingua e della cultura cinese.
Fermandoci ad osservare la linea del tempo della storia taoista notiamo come abbia raggiunto lo status di religione ufficiale della Cina contemporanea, ma anche quante diverse correnti si sono evolute nel tempo.
Una semplice immagine concessaci dal sinologo ed esperto di taoismo Russell Kirkland, merita di essere riportata: «Non è un’unica tradizione che si evolve, ma piuttosto il risultato di vari concetti e insegnamenti che si dipanano nel tempo, ed eventualmente confluiscono insieme, come le correnti confluiscono in un fiume». 
Il peo del corpo taoista si rifà alla lontana epoca della dinastia Zhou, ossia un periodo di tempo che corre dall’XI alla fine del III secolo avanti Cristo.
Nel 1993, a Guodian una città del centro sud della Cina, gli archeologi trovarono una copia del testo fondamentale del taoismo, il Daodejing, risalente a trecento anni prima di Cristo (leggere box successivo).

Il taoismo contemporaneo si muove tra gli inizi del XIX secolo e oggi, in tutto questo periodo ha subito depressioni e rinascite.
Le due più grandi correnti attive nella Cina contemporanea sono la corrente zhengyi e la corrente quanzhen. La prima si fa risalire al 142 d.C., quando Zhang Daoling fondò ufficialmente la Chiesa dei Maestri Celesti.
A quel tempo risale l’attuale visione di una teologia burocratica, in cui i monaci sono concepiti come dei funzionari dell’universo. In quel periodo vengono istituzionalizzati i centri di culto da parte del governo, e i templi taoisti vengono chiamati guan, nome ancora oggi utilizzato.
Il luogo centrale per le ordinazioni istituzionali dei monaci era il monte Longhu, nella provincia cinese del Jiangxi. La caratteristica principale della corrente zhenyi è il metodo di ordinazione dei monaci, che ha seguito, fino a tempi recenti, una affiliazione familiare, per cui esclusivamente alcune famiglie possedevano i requisiti per poter consacrare i novizi come monaci.
Da molti studi risulta che i monaci zhenyi sono stati e sono tutt’oggi esperti nei riti, piuttosto che nelle pratiche individuali di coltivazione spirituale. I templi zhenyi, oggi, sono localizzati al sud della Cina e a Taiwan, molti dei monaci sono sposati e vivono da laici, con figli e famiglia.
La corrente quanzhen, emerse verso il XII secolo dopo Cristo, con Wang Zhe, ma il suo effettivo sviluppo avvenne grazie al monaco e patriarca Qiu Changchun (1148-1227) che riorganizzò l’interno ordine.
Differenziandosi dalle istituzioni familiari della corrente zhenyi, la corrente quanzhen pone l’accento della sua pratica nella visione di una coltivazione personale e spirituale, comunemente definita come alchimia interiore.  L’ordine ebbe uno sviluppo indipendente durante il corso della dinastia mongola degli Yuan, con la creazione di numerosi templi per l’ascesi individuale e le pratiche interiori.
Un aspetto fondamentale per l’ordinazione dei monaci era lo spostarsi e poi risiedere in templi diversi su tutto il territorio cinese per accumulare esperienza e pratica meditativa con diversi maestri.

Désirée Marianini

BOX2

Divinità, luoghi sacri e scritture
GUARDARE AGLI «IMMORTALI»

I monaci interpretano le scritture taoiste, che sono espressione diretta delle divinità. Queste sono il modello di riferimento per i fedeli.

Le divinità taoiste – dette anche «Immortali» – sono l’oggetto del culto taoista in quanto personificazione del dao. Sono l’essenza del Qi originario1, dal quale sono nati e al quale ritornano.
Sono modelli per le persone comuni, a cui tendere nella propria vita, sono comunque esseri straordinari, che la narrativa taoista vede volare nel cielo dotati di poteri straordinari. Il mondo in cui vivono è simile al mondo terreno in cui sussiste un ordine gerarchico e istituzionalizzato. Molte delle divinità risiedono anche sulla terra e i luoghi in cui dimorano sono sacri. L’altare delle divinità taoiste è occupato da tre immortali: i Tre Puri.
Le montagne, come luogo di residenza delle divinità taoiste, hanno una grande importanza nella religione, vengono considerate sacre e sono mete di pellegrinaggio. Durante la dinastia Han furono consacrate cinque montagne per proteggere i quattro punti cardinali ed il punto centrale e associate con il culto taoista. Così, il monte Heng nello Shanxi rappresenta la protezione per il Nord, al monte Heng (stesso nome, ma scrittura diversa) nella regione dello Hunan è affidato il Sud, mentre il monte Tai nello Shangdong protegge l’Est, infine l’Ovest è affidato al monte Hua. Nello Henan la montagna Song è il fulcro centrale di tutti i punti cardinali.
Le scritture hanno un ruolo fondamentale perché il testo scritto è espressione diretta della divinità, i monaci tramite la comprensione del testo comunicano con gli spiriti ed il testo in sé diventa un talismano.
Le scritture sacre Jing hanno un carattere salvifico in quanto sono un contratto con le divinità ma anche l’espressione di una conoscenza esoterica di una realtà sconosciuta. Gran parte della narrativa taoista oggi è scritta nel Daozang, il canone taoista, la cui ultima versione risale al 1444 dopo Cristo.

Ricordiamo allora i testi principali del taoismo.
Daodejing o classico della via e della virtù: viene attribuito allo stesso Laozi, ma gli studiosi hanno più volte dibattuto sulla sua effettiva pateità. La versione più antica risale al III sec. a.C.. È un testo  breve ed enigmatico di circa cinquemila caratteri cinesi, nel quale vi sono istruzioni e regole per la crescita personale ma anche per la vita in un contesto socio-politico. Viene analizzato il concetto di Dao e di Virtù (De). Al testo sono stati accorpati diversi commentari i quali esplorano diversi significati in base alle scuole e le correnti di riferimento.

Zhuang zi: questo testo viene associato ad un personaggio che visse nel IV sec. a.C., il maestro Zhuang e che probabilmente ne scrisse sette capitoli. Sono presenti aneddoti e storie le quali illustrano la realtà universale e l’impossibilità della sua conoscenza attraverso la parzialità dell’esperienza umana.

Huainan zi: venne compilato nel 139 a.C. da Liu An, nipote del fondatore della dinastia Han, abile prosatore che divenne in seguito re di Huainan. Il testo è una collezione di ventuno brani nei quali Liu An esplora vari elementi dello scibile umano: filosofia, scienza, politica, astronomia.

Baopu zi: la parte intea del testo, venne scritto da Ge Hong nel 320 avanti Cristo, ed esplora i significati dell’alchimia interiore e la meditazione come mezzo per arrivare alla trascendenza.

Des.Ma.

Note
1 – Il Qi originario è a livello cosmologico e ontologico il pneuma (respiro o soffio) dell’antecedente al cielo, (termine importante per la cosmologia cinese, lo stato in cui Yin e Yang non si sono ancora uniti). Il Qi originario emerge dal Dao, è immateriale e rifugio dell’essenza, ossia rifugio del seme per la nascita del cosmo intero..

Désirée Marianini




«Albese» prete e missionario

A tre anni dalla morte pubblicata biograifa di padre Paolo Tablino

È uscito lo scorso marzo 2012 presso le Edizioni S. Paolo il libro intitolato Paolo Tablino – un missionario immerso nel Vangelo, ne è autore don Giovanni Ciravegna, già rettore del Seminario Diocesano di Alba.

È opportuna una premessa: esattamente tre anni or sono, padre Paolo Tablino moriva a Nairobi, in Kenya, all’età di 81 anni, dei quali circa cinquanta vissuti nelle aride terre del Nord del Kenya, ai confini con l’Etiopia, e, per sua volontà, veniva sepolto a Marsabit. In questa regione, d’intatta se pur selvaggia bellezza, caratterizzata da clima ostico e comunicazioni malagevoli, insieme ad altri sacerdoti, religiosi e laici, inizialmente italiani e albesi, aveva annunciato il Vangelo, realizzato scuole, chiese e strutture per la promozione umana, stabilendo contatti con popolazioni di cui, fino agli anni ‘60, poco si conosceva quanto a modo di vivere, lingua e struttura sociale.
Ben noto, pur così lontano, in Alba città e diocesi, aveva sempre mantenuto contatti epistolari e personali con un vasto numero di amici, che, nei tre anni trascorsi dalla morte, hanno mantenuto per lui quanto mai vivo il ricordo, l’affetto e, direi, la venerazione: questo libro soddisfa l’attesa di molti, sia degli amici di lungo corso e quelli più recenti. La prova più evidente della costanza dei legami che tutti costoro mantengono con lui è il gruppo di uomini e donne di ogni età che il giorno quattro di ogni mese – anniversario del suo passaggio al cielo -, si riunisce nel duomo di Alba alla messa delle ore diciotto, preceduta da un’ora di adorazione eucaristica.
Il libro è strutturato linearmente in forma biografica: dopo un flash iniziale sulle impressioni e reazioni seguite alla notizia del decesso, l’autore segue le vicende della vita di Paolo Tablino, dalla giovinezza alla formazione, all’ordinazione sacerdotale, all’impegno missionario, che assume rispondendo all’invito dell’amico don Bartolomeo Venturino, anch’egli albese, primo sacerdote fidei donum in Italia nel 1958, e di mons. Carlo Cavallera, vescovo di Nyeri fino al 1964, poi di Marsabit (vedi MC 2011/03, pag. 16). La narrazione abbina le circostanze individuali ai luoghi in cui ha operato: Alba, Kenya, Roma, rammentando le persone da lui conosciute, ricordando momenti, fatiche, scritti, decisioni importanti di un’esistenza spesa senza risparmio al servizio del Vangelo e degli uomini e delle donne che la vita gli aveva fatto incontrare.
Questa è la struttura di un testo in cui, intercalate nella trama della sua vita s’inseriscono testimonianze, concise talvolta, altre volte approfondite, di persone che l’hanno frequentato, ne hanno condiviso tempi di vita e momenti decisivi, hanno dialogato con lui di argomenti e di scelte di grande rilevanza.
Assai spesso l’autore fa parlare padre Paolo stesso, riportandone scritti da lui inviati e gelosamente conservati dai destinatari: la costanza e la cura nello scrivere a tantissime persone sono state certamente una delle caratteristiche più note e importanti della sua personalità. Queste lettere, che colpiscono per la spontaneità e la capacità di rapportarsi con l’interlocutore, toccano tutti i casi della vita: avvenimenti lieti e tristi, scelte impegnative, drammi e miracoli che solo il cuore conosce. Un complesso di migliaia di fogli, scritti a mano con calligrafia precisa, i più su carta leggera per posta aerea dove i francobolli e le diciture portano immagini esotiche di animali africani o di paesaggi di bellezza primordiale. Sovente si tratta di lettere dense di contenuti dottrinali, pastorali, teologici: queste sono per lo più dirette ai maestri e agli amici del seminario di Alba, del gruppo missionario, dell’Azione Cattolica.
Il libro di don Giovanni Ciravegna attinge in modo esauriente a questa raccolta di documenti, che spazia dai primi appunti giovanili, già rigorosi nella loro semplicità, alle lettere serene della maturità, scritte con il pensiero ormai oltre la morte.
Nel testo parlano anche, con voci riportate in diretta, molti amici, nei quali la richiesta fatta loro dall’autore di fornire una testimonianza personale ha dato avvio a un flusso inarrestabile di ricordi e di memorie comuni, in cui emergono momenti di comunione o di percorsi umani condivisi.
Questa è, in sintesi, la sostanza del libro che vede ora la luce. Il ritratto umano e sacerdotale di padre Paolo Tablino mi pare più che riuscito. Poiché questa è la prima biografia che si presenta al pubblico, senza dubbio è auspicabile un prossimo accurato studio che approfondisca tutti gli aspetti della ricchissima personalità del missionario.
Quello che si può affermare, senza che possa suonare come giudizio riduttivo, è che il protagonista del volume è considerato da un punto di vista quasi esclusivamente «albese»: è albese l’autore, albesi per lo più sono gli amici che ne hanno parlato e Alba è stata ben presente nella vita di p. Tablino, costantemente ricordata nelle savane desertiche del Nord Kenya (la Gazzetta d’Alba vi è sempre arrivata, ben attesa, per anni, coi tempi permessi dalle poste).
Don Giovanni Ciravegna ne esamina accuratamente il periodo giovanile di formazione scolastica e sacerdotale: è questo il momento fondamentale per la comprensione del futuro missionario. Sullo sfondo della Alba degli anni ‘40 e ‘50, l’autore cita i maestri che lo hanno formato, sia sacerdoti che laici, analizza i primi anni di apostolato come prete accanto a uomini di grande livello, impegnati insieme in una molteplice varietà di iniziative. È un periodo di fecondità straordinaria nella fede e nelle opere che segnerà la vita di tanti, di p. Paolo per primo e di tanti amici.
Ma l’uomo e il missionario sono stati molto di più: l’Africa e insieme la missione, a un certo punto della sua vita, sono state le sole cose importanti. I cinquant’anni dedicati alla gente del Nord Kenya dovranno essere oggetto di studio approfondito, magari da parte di uno dei giovani, ora uomini, da lui formati ed avviati a culture e studi per loro del tutto nuovi e neppure immaginati fino a prima di incontrarlo. Gli argomenti su cui lavorare sono ancora molti e tutti di grande interesse: possediamo documenti, in parte pubblicati, in italiano ed in inglese. Mi riferisco agli studi linguistici, etnografici e religiosi sui popoli dell’area Nord Kenya/Etiopia, condivisi con don Bartolomeo Venturino, che gli hanno valso la conoscenza e l’amicizia di studiosi di tutto il mondo. Accenno ancora agli scritti sulla storia dell’evangelizzazione di quella che in epoca coloniale era l’inaccessibile Northe Frontier (frontiera settentrionale). In questo campo, la sua testimonianza, vissuta direttamente e condivisa con persone ormai quasi tutte scomparse, è preziosa e insostituibile. I due volumi, pubblicati in inglese dalle Paulines Publications Africa delle Figlie di S. Paolo di Nairobi, costituiscono una miniera fondamentale per la storiografia dell’evoluzione umana e cristiana del Nord del Kenya, presentata nel contesto dello sviluppo della Chiesa nell’Est Africa ed in Etiopia, a cui sono dedicati alcuni accurati capitoli.
Esiste poi una larga quantità di studi biografici di persone da lui conosciute, intrapresi per fae memoria e per manifestare gratitudine: i suoi maestri e amici Alberto Abrate, Giuseppe Pieroni, Sandro Toppino, don Mario Mignone, mons. Pietro Rossano, don Natale Bussi, don Agostino Vigolungo ed altri ancora.
Mi piacerebbe che questa ulteriore ricerca biografica potesse illuminare altri aspetti – appena accennati nel libro di don Ciravegna – di una personalità di grande rilievo. Sarà una volta di più confermata la statura di un uomo che, fino all’ultimo, ha tenuto fede all’intuizione ricevuta a sedici anni: quella di un mandato che, nel termine latino che lo definisce, missio, suona come sinonimo di quella che è stata la sua ragione di vita: la missione.
Cito per conclusione le parole dello stesso p. Tablino in chiusura del libro I Gabbra del Kenya:
«Se Gesù Cristo ci ha detto di andare a tutte le genti, egli sapeva che tra queste c’erano anche i Gabbra. Tutte le nostre incertezze e le nostre opinioni non possono cancellare il valore di quel mandato».

Silvio Veglio
(architetto, discepolo-amico di don Tablino e volontario per alcuni anni nella diocesi di Marsabit)

Silvio Veglio




Camminare con la gente

Dalle lettere di padre Beppe Svanera da Marialabaja

Padre Beppe continua a scrivere regolarmente ai suoi amici condividendo un cammino non facile,
ma anche ricco di momenti di grazia.
In queste pagine, squarci di storia alla scoperta delle radici del popolo afro di Marialabaja, e squarci di interiorità di missionari attenti alla realtà e fedeli al Vangelo.

Ordinazione sacerdotale
Finalmente una buona notizia: sabato 19 febbraio 2011 è stato ordinato il primo sacerdote missionario della Consolata, p. Edilberto Maza nato a Marialabaja nel 1977. Ha perso i genitori da bambino ed è cresciuto con la nonna e la zia in una famiglia numerosa di zii, cugini e nipoti. Con lui è stato ordinato diacono il giovane etiope Nebiyu Elias Gabriel che dopo gli studi teologici a Bogotá ha passato un anno con noi dedicando il suo tempo soprattutto ai giovani che, entusiasti, lo hanno accompagnato in questo importante momento. Dopo l’ordinazione partiranno, come tutti i missionari: p. Heriberto per il Mozambico e il diacono Nebiyu verso il Venezuela. Noi li accompagniamo con la preghiera.
La solenne celebrazione ha riempito la chiesa e la piazza. Tanta gente in festa con il nostro Vescovo e un nutrito gruppo di sacerdoti che hanno accompagnato i due giovani missionari al ritmo dei tamburi con canti e balli afro e africani alternati a momenti di intenso raccoglimento e sincera devozione. Da sottolineare la presenza di rappresentanti di quattordici nazioni diverse uniti nella stessa fede e lode a Dio. Bello, definitivamente bello, questo momento che riconcilia con la vita e rinforza i grandi ideali che animano la missione e ci aiuta poi a tornare con nuova energia per affrontare la non facile realtà di tutti i giorni.

MOLTE PROMESSE
Momenti come questi ci permettono in qualche modo di superare anche l’ultima delusione dei nostri governanti. A fine gennaio 2011 abbiamo avuto la visita del vicepresidente della Colombia accompagnato dal ministro dell’Agricoltura e da una serie di personaggi che dovrebbero difendere il benessere dei loro elettori ma che, puntualmente, fanno gli interessi di chi li condiziona con i capitali. La visita è stata il frutto di una lunga e faticosa campagna da parte della Comunità di sfollati di Mampujan. Mampujan è uno dei nostri trentacinque villaggi. La famiglia di p. Heriberto è originaria di là. Come ogni comunità, viveva lavorando i campi in santa pace e senza problemi fino a quando un giorno si presentò la guerriglia e cominciarono le intimidazioni e i sequestri. Una sera del 2000 arrivarono invece i paramilitari che radunarono tutti nella piazza. La gente, spaventata, pregava disperatamente. Non furono uccisi, come era invece successo in altre comunità, ma ricevettero l’ordine di lasciare il paese entro le dieci del giorno dopo. Così Mampujan cessò di esistere: 245 famiglie partirono per Marialabaja portando quello che potevano verso un destino ignoto e crudele. I paramilitari continuarono il loro cammino e in quei giorni trucidarono tredici contadini di Las Brisas, un villaggio vicino. Oggi Mampujan è solo desolazione: le case sono ruderi soffocati dalla selva. Nacque nel frattempo un nuovo Mampujan chiamato «Rosas de Mampujan» su un terreno acquistato dopo l’esodo dal p. Salvatore Mura con l’aiuto di amici italiani, all’ingresso di Marialabaja.
Dopo dieci anni alcuni pensano di ritornare al paesello natio, ma la cosa non è per niente facile. Con quali prospettive? Le persone anziane vanno ogni giorno alla loro terra, distante due o tre ore, per coltivare qualcosa e sopravvivere, e tornano la sera a piedi o con l’asinello perché ancora non si sentono sicuri. I giovani non dimostrano alcun interesse. Si sono abituati al paese, alla strada, alla moto e alla televisione. Lavorare la terra non è il loro ideale di vita. Inoltre il governo non ha ancora mostrato alcun interesse concreto, al di là delle solite dichiarazioni, per assicurare servizi come strade, elettricità, scuola e, soprattutto, i prestiti necessari per tornare a lavorare la terra.
Finalmente però Mampujan sembra interessare il governo che ha scelto questa comunità con altre otto per un piano pilota di possibile ritorno. Da qui la visita del vicepresidente e del suo seguito. L’incontro si è svolto nel cortile della nostra piccola fattoria della Consolata con più di trecento persone, sotto lo stretto controllo di almeno un centinaio di poliziotti e soldati. Speravamo veramente in qualcosa di più, con tutta quella messinscena. E invece ancora una volta la montagna ha partorito il topolino: ancora promesse e tante, troppe parole hanno assopito l’assemblea dei presenti che hanno reagito vigorosamente solo quando il governatore della regione vicina (non il nostro, e neppure il nostro sindaco!) ha toccato il tema della coltivazione della palma che sta minacciando seriamente la sicurezza alimentare della popolazione. Finalmente sono scrosciati gli applausi dei contadini e di tutta la nostra gente per sottolineare come questo sia il vero problema del nostro territorio. Servirà a qualcosa? Noi lo speriamo e continueremo a lottare in questa direzione con tutti i mezzi legali ma soprattutto con la certezza che il Dio di Gesù Cristo che si è manifestato a suo tempo a Mosè ascolterà ancora una volta il «grido del suo popolo».

Pasqua 2011:
sofferenza dalle radici lontane
Nuovamente Pasqua! Vita nuova in Cristo risuscitato e sempre vivo in mezzo ai suoi, perché tutto e tutti abbiano vita, e vita in abbondanza. A Marialabaja chi ha preso coscienza del valore della Pasqua la celebra con gioia. La grande maggioranza, per ragioni storiche, culturali e ambientali, trasforma la settimana santa in una grande baldoria tutta da studiare. Uno dei momenti che suscita maggiore interesse e partecipazione popolare è sicuramente la «Via Crucis» del Venerdì Santo, probabilmente per il predominare del sentimento o anche per l’identificazione della nostra gente con le sofferenze di Cristo.
Sui Monti di Maria, e quindi anche a Marialabaja, la violenza è un fenomeno complesso non ancora studiato a fondo e senzaprospettive di vera pace. Che è successo nei Monti di Maria? Ci sono state una cinquantina di stragi, quasi quattromila assassinii politici, circa duecentomila profughi, campagne abbandonate e tuguri nelle città. Non in una foresta disabitata, ma in territorio con paesi sviluppati, autorità civili, militari e religiose, strutture di governo e organizzazioni popolari a due ore dalla città di Cartagena, capitale del turismo colombiano.
La versione ufficiale parla di paramilitarismo alimentato dal 1997 da un’alleanza di allevatori e politici per «difendersi» dai guerriglieri di sinistra. Le radici sono comunque molto più lontane e affondano nel secolare problema della terra che qui, come altrove in Colombia, è tradizionalmente in mano a poche famiglie.
Negli anni ‘70 ci fu un tentativo di riforma agraria da parte del governo, ma i padroni cacciarono i contadini affittuari, che, in reazione, si organizzarono con l’appoggio ufficiale e occuparono, al grido di «la terra è di chi la lavora», le oltre quattrocento fattorie dove sempre avevano vissuto. Negli anni ‘80 giunsero nella regione diversi personaggi con misteriose fortune legate soprattutto al narcotraffico. Comprarono grandi aziende e protessero con uomini armati il commercio della droga via mare. In quegli anni molti i contadini furono eliminati, mentre scomparvero molti dirigenti sociali identificati come elementi sovversivi. Salvo casi isolati, le autorità militari lasciarono correre.
Contemporaneamente crescevano i gruppi guerriglieri, già diffusi nel resto della Colombia, approfittando della frustrazione del movimento contadino. Non rispettarono l’organizzazione contadina Anuc, perché aveva trattato con il governo, e imposero il loro metodo violento a base di sequestri e taglieggiamenti, creando un grande malessere soprattutto tra i piccoli allevatori di bestiame. I contadini si trovarono stretti tra due fuochi. Anche i guerriglieri si assicurarono un corridoio strategico per il traffico della droga verso il mare e aumentarono vertiginosamente gli assalti, i sequestri e gli assassinii. Paramilitari e guerriglieri si organizzarono sempre meglio con rinforzi continui di personale e mezzi; ma la guerra, fin dall’inizio, fu soprattutto contro i civili accusati di appoggiare uno dei due contendenti. Intanto esercito e polizia combattevano, senza grandi risultati, i guerriglieri e chiudevano un occhio, anche due, sui paramilitari.
La debolezza del governo diede via libera alle «Cooperative Convivir» che in pratica erano gruppi paramilitari che avevano le armi e la protezione dello stato oltre all’appoggio dei grossi allevatori e narcotrafficanti. L’espansione paramilitare non riuscì comunque a eliminare i guerriglieri che continuarono imperterriti le loro attività anche quando nel 2003 cominciò in Colombia il processo di smobilitazione dei paramilitari. Lo stato, finalmente, cominciò una doppia azione che si dimostrò vincente: da una parte trattò la smobilitazione dei paramilitari e dall’altra l’esercito realizzò una serie di azioni efficaci che finalmente eliminarono i diversi gruppi guerriglieri almeno nei Monti di Maria.
Partecipai alla smobilitazione dei paramilitari dei Monti di Maria il 14 luglio 2005 quando tutto sembrava ormai finito. Fu una giornata di festa per la gente. Ma i problemi di fondo rimangono irrisolti. Così scriveva un giornale locale: «Le ragioni di fondo di questo orribile conflitto sono ancora irrisolte: una terra mal distribuita; una presenza debole delle istituzioni governative incapaci di mettere ordine nei titoli di proprietà della terra che oggi, dopo le successive spoliazioni e usurpazioni, continuano ad essere un rompicapo; gli affari dei narcotrafficanti, che si regolano con il piombo e continuano a prosperare nel Golfo di Morrosquillo; la corruzione dei dirigenti politici ossessionati dalla brama di mantenere i loro privilegi e le loro fonti di ricchezza; la miopia di membri della forza pubblica o politici, fuori dalla storia, che vedono pericolosi comunisti nei leader più attivi e continuano a uccidere semplici contadini cavandosela sempre. Solo se cambieranno questi fattori che alimentano il conflitto, gli abitanti dei Monti di Maria eviteranno che la loro triste storia si ripeta».

Non c’è due senza tre, 4.10.2011
Non c’é il due senza il tre, ed è con grande gioia che abbiamo vissuto l’ordinazione del terzo sacerdote e secondo missionario della Consolata di Marialabaja. Dopo il carmelitano p. Fredy e il p. Edilberto Maza, in Mozambico da pochi mesi, il 30 luglio è stato ordinato p. Beardo Matorell Batista che è poi partito per il Tanzania come sacerdote missionario.
Naturalmente l’allegria è stata grande in questo paese afro che ha donato tre dei suoi figli migliori al servizio del Vangelo per una nuova umanità secondo il cuore di Dio. Beardo è figlio di Miguelina e Erasmo due professori esemplari e molto stimati nell’ambiente educativo e sociale di Marialabaja e da sempre impegnati nella parrocchia. Festa grande e significativa soprattutto perché ha confermato ancora una volta i valori della nostra gente nonostante i secoli di schiavitù e la poca considerazione che godono ancora ai nostri giorni. Per noi missionari una bella soddisfazione e un invito speciale perché ci sentiamo stimolati a fidarci sempre di più delle persone che ci circondano e che devono diventare protagoniste del proprio futuro.
Contemporaneamente a questa ordinazione sacerdotale si è costituito nel Centro Afro Allamano un gruppo di giovani impegnati in un progetto educativo con la nostra gente. Sono universitari che da tempo svolgono attività comunitarie e che hanno deciso di «mettersi in proprio» assumendosi la responsabilità nell’educazione del proprio popolo. Inizialmente appoggiati dalla parrocchia, si radunano tutti i lunedì per elaborare materiali di formazione, a partire dalla cultura e tradizione afro, che loro stessi distribuiscono nelle diverse comunità alle persone impegnate o comunque desiderose di lavorare con bambini, ragazzi, giovani e adulti. Questo sta generando un grande interesse soprattutto nelle «mamme comunitarie» che attendono ogni giorno a gruppi di bambini dai tre ai sei anni, nelle maestre delle scuole elementari e nei professori di religione delle medie e superiori.
è interessante notare che il punto di partenza è sempre la Parola di Dio avvicinata secondo l’età delle persone e la sensibilità afro che è profondamente religiosa. Penso che questa sia la chiave del possibile successo della proposta educativa del nostro gruppo di giovani contrariamente alle diverse iniziative che vengono «da fuori» e che per mille ragioni non tengono conto della mentalità religiosa della nostra gente. è un avvicinamento alla Bibbia alternativo rispetto ai diversi gruppi religiosi che pullulano nel territorio e che spesso strumentalizzano la Parola di Dio per allontanare dai problemi reali o per incutere paura minacciando castighi e a volte generando fanatismo.
Riusciranno i nostri giovani eroi a realizzare un Marialabaja diverso? Intanto ci provano! E noi formuliamo i migliori auguri con piena fiducia nella Parola di Dio che con la forza dello Spirito permetterà loro di superare qualsiasi ostacolo.

Natale 2011: cristianizzazione e schiavitù
Il 2011 è stato un anno di grazia per noi e per il nostro popolo con l’ordinazione di due sacerdoti missionari della Consolata. Possiamo dire: «Missione compiuta!»?
In un recente incontro comunitario ci siamo guardati in faccia tutti piuttosto perplessi. Il parroco colombiano P. Gabriel, il brasiliano P. Sergio, il giovane seminarista Alex del Kenya e l’italiano (che sono io), ci siamo visti un po’ persi e abbiamo dovuto riconoscere che siamo ancora ben lontani dal capire cultura, mentalità e linguaggio del nostro popolo, soprattutto per quanto riguarda le sue espressioni religiose. Dio è dappertutto, ma Gesù Cristo è il grande sconosciuto! Eppure la presenza di missionari nel territorio data quasi dall’inizio della conquista dell’America quando fu fondata nel 1535 «Villa Maria» l’attuale Marialabaja. Che è successo in tutti questi anni e particolarmente nei quasi 25 anni della nostra presenza come missionari della Consolata?
Vale la pena ripercorrere le circostanze e le caratteristiche dell’evangelizzazione dei primi tempi della conquista nel territorio di Cartagena de Indias, «porto e porta» degli schiavi che popolarono gran parte della Colombia. L’evangelizzazione, o meglio il proceso di cristianizzazione della popolazione afro fu lungo, contradditorio e doloroso per la semplice ragione che cristianesimo e schiavitù sono andati a braccetto per secoli lasciando conseguenze profonde che durano ancora.
La Chiesa del secolo sedicesimo accettava la schiavitù che già esisteva anteriormente, considerandola normale e addirittura necessaria per offrire a questi «poveretti» la possibilità di entrare nel Regno di Dio. Il cristianesimo incise quindi enormemente sulla creazione di un sincretismo religioso nato dall’incontro delle diverse culture originarie dell’Africa con le tradizioni spagnole imposte con autorità ma non sempre con profondità e libertà. L’influsso religioso cristiano fu inesistente nei palenques (dove si rifugiavano gli schiavi che fuggivano), minimo nelle miniere, limitato nelle aziende agricole spagnole, e più consistente nella città di Cartagena dove i Gesuiti, soprattutto con p. Sandoval e p Claver (S. Pedro Claver), accoglievano nel porto e seguivano nella città con diverse iniziative pastorali gli schiavi che arrivavano dall’Africa.
Nonostante i limiti dell’evangelizzazione, le comunità afro con grande sapienza riscoprirono nel cristianesimo espressioni religiose che furono un’arma di sopravvivenza culturale e permisero di conservare e ricreare elementi mitici delle religioni africane. Questo perdura anche oggi e si manifesta soprattutto nelle feste patronali delle diverse comunità. E non saremo noi, poveri «untorelli», a cambiare questa realtà. Piuttosto siamo chiamati a capire e valorizzare questa cultura e tradizione e aiutare nella formazione di persone che siano sempre più coscienti dei propri valori alla luce del Vangelo di Gesù tanto distorto storicamente come rivoluzionario e dinamico oggi e sempre.
L’accettazione da parte del «negro-schiavo» del messaggio cristiano era difficile da giudicare. La sincerità poteva essere messa in dubbio dalla convenienza, ma sicuramente il senso di protezione che nasce dal battesimo e dall’idea dell’uguaglianza davanti a Dio aiutò lo schiavo ad accettare la sua condizione e a non perdere la speranza nonostante nella maggior parte dei casi fosse trattato come una bestia.
D’altra parte abbondarono i decreti e le ordinanze dei Re di Spagna che ricordavano ai proprietari di schiavi l’obbligo di provvedere alla loro catechizzazione perché si riteneva, con ragione, che la religione organizzata potesse essere un mezzo utile per il controllo sociale. Ma, come succedeva normalmente questi ordini reali, restarono lettera morta. Come restano lettera morta tanti documenti e disposizioni della Chiesa attuale e della Conferenza episcopale. E anche quelli di noi missionari, che con tutta la buona volontà continuiamo l’opera di evangelizzazione di questo popolo senza conoscee bene la storia, il linguaggio simbolico e la realtà più profonda. Ce ne rendiamo conto a ogni piè sospinto e allora tentiamo almeno di voler bene alla nostra gente e di camminare insieme con umiltà e coraggio verso la Luce che è apparsa nella notte di Betlemme per l’intera umanità.

Pasqua 2012: Villa Maria
Parecchi sono stati incuriositi dal nome di «Villa Maria» citato nella mia lettera precedente. è stato il primo nome di Marialabaja, fondata, secondo la tradizione, da Alonso de Heredia fratello di Pedro de Heredia, fondatore di Cartagena de Indias nel 1535. Mancano molti tasselli per ricostruire la storia di questo paese e del suo territorio, ma il titolo stesso di «Villa» indica che esisteva una popolazione residente che, tra l’altro, pagava tasse e contributi al Re di Spagna. Negli atti del processo di beatificazione di San Pietro Claver (1580-1654) appare ancora citata come Villa Maria e diverse volte si afferma che dopo Pasqua il nostro santo, «schiavo degli schiavi», visitava «Villa Maria popolazione di negri».
Poi tutto è scomparso, anche il nome. I continui attacchi dei nativi alle aziende spagnole, l’insicurezza, l’ambiente selvaggio della regione e le condizioni climatiche avverse, distrussero le case di fango e paglia e cancellarono ogni traccia di presenza umana. Nell’ambiente ostile e isolato rimase la gente con tanta voglia di vivere, e si moltiplicò. Dall’anelito di libertà della maggioranza nera della popolazione e dall’incontro-scontro con gli ultimi indigeni sopravvissuti alla conquista e i pochi coloni, si sviluppò un popolo e si originò una nuova cultura.
Più tardi «Villa Maria» fu rifondata e diventò «Maria la Baja» per distinguerla da «Maria la Alta», attualmente «El Carmen de Bolivar» dall’altra parte dei «Monti di Maria». Nel 1918 vi si stabilì il primo sacerdote (il salvatoriano tedesco P. Alexander Treittinger) e nel 1935 Marialabaja divenne Municipio affermandosi sempre più come la «dispensa alimentare» della regione per la sua terra fertilissima e un vasto e complesso sistema d’irrigazione realizzato dal governo negli anni ‘70.
Con la violenza degli anni 1995-2005 e le coltivazioni di palma iniziate nel 1998 il territorio, la cultura, l’economia, la società hanno subito un profondo cambiamento e non mancano le preoccupazioni per il futuro. Come missionari cerchiamo di stare molto attenti all’evolversi della situazione e camminiamo con il nostro popolo, animando la comunità «dentro e fuori del tempio», cercando nuove vie e possibili soluzioni alla luce della Parola di Dio e offrendo la nostra collaborazione a tutte le persone di buona volontà. E così, poco a poco, con tante difficoltà ma anche tante piccole soddisfazioni, ha preso forma il «progetto afro-educativo Villa Maria» del quale vi ho già scritto. «Villa Maria» perché vuole riscoprire le radici di questa terra, la sua storia, tradizione e cultura, per affrontare il presente e costruire un futuro che sogniamo insieme. Le diverse iniziative sociali della parrocchia animate dalla pastorale sociale e le piccole strutture realizzate in questi anni con la vostra solidarietà sono sfociate in questo progetto con la responsabilità della gente del posto a partire dalla nostra rete di piccole scuole, dalla cascina «Consolata» e dal «Centro Afro Allamano». La Fondazione «a partir de los niños», la «Società di sviluppo afro-rurale» (Cdar) per i progetti agricoli e la «Società Radici di Marialabaja per la sicurezza sociale» (Ramass) sono sempre più protagoniste del progetto, hanno ottenuto riconoscimento giuridico e fanno ora parte, con diversi altri gruppi agricoli e comunitari, della Sezione municipale di Agrosolidaria, una società cornoperativa nazionale che si identifica con questo slogan: «Hasta que tengamos una Colombia justa, debemos tener una solidaria» (Per avere una Colombia giusta, dobbiamo avee una solidale).
Se sono rose… A volte mi chiedo se vale la pena suscitare e accompagnare questi processi organizzativi e culturali. Per qualcuno è tempo perso perché i cambiamenti sono pochi e troppo lenti. Per altri è tutta una nostra montatura, perché se noi missionari lasciassimo, tutto cadrebbe. C’è poi chi dice: «Non sono affari nostri». Rispetto le opinioni altrui e che siano felici! A me piace vivere intensamente il momento presente. Ricordo il passato, che necessariamente insegna, e sogno il futuro, che stimola, ma mi piace vivere pienamente il presente e quindi anche questo progetto afro-educativo, con tutte le sue manifestazioni, incognite e contraddizioni. A chi ci ha accompagnato con affetto e pazienza auguro gli stessi sentimenti e tanta felicità.

Beppe Svanera
(1a parte: MC 2011/04 pp. 22-29;
2a parte: MC 2011/12 pp. 78-84).

Beppe Svanera




Sui monti vita nuova

Lemie, Valli di Lanzo: dodici battesimi in regalo

Il viso di Aaliyah, nata a Lemie 5 mesi fa da genitori camerunesi, è incoiciato da un berretto di morbida lana bianca. La giovane mamma la stringe tra le braccia per custodie il calore. Gli altri due bimbi nati in Italia, Felicia, bimba nigeriana di appena due mesi, e Nketa, piccolo congolese di tre, sono infagottati in pesanti coperte bianche.
Assieme agli altri nove bambini festeggiati oggi, nati in Africa durante il viaggio della loro famiglia alla ricerca di una nuova casa, passano dalle braccia dei propri genitori a quelle dei padrini e delle madrine di pelle bianca.
L’emozione è palpabile. Fino a nove mesi fa, non uno solo dei 90 residenti a Lemie – paese che si sta spopolando, così come la valle che lo accoglie – avrebbe potuto prevedere un evento del genere. Questa  mattina (sabato 18 febbraio 2012), dodici bambini africani vengono battezzati nella parrocchia di San Michele Arcangelo.
La chiesa è piena di persone. Sono state aggiunte delle sedie vicino all’altare per le famiglie dei battezzandi e il variegato spicchio di mondo che si è presentato all’appello delle campane: i carabinieri, le suore, i cittadini del paese, il sindaco, gli operatori e i volontari impegnati da maggio dello scorso anno nell’accoglienza dei rifugiati.
Le prime parole di p. Paul placano il brusio. «Non vi sembra già un miracolo? Persone provenienti da ogni parte del mondo che si riuniscono nella fede. Nonostante le differenze, siamo tutti fratelli».
Si affiancano nella conduzione della cerimonia il parroco di Lemie, Don Bartolomeo Giaime, piemontese doc, e p. Paul Nde, della Pastorale Migranti, originario del Camerun, che ha accompagnato le famiglie fino a questo momento in un percorso costellato di sabati di preghiera e di canto.
L’italiano non può essere l’unico idioma, si deve ammorbidire nella cadenza francese e trovare sintesi nella lingua inglese, affinché il cerchio della Parola di Dio possa abbracciare tutti i presenti. I canti immergono in orizzonti nuovi, dal sapore inedito, la maggior parte dei presenti. Siamo in terra d’Africa. È difficile non abbandonarsi al ritmo dei tamburi.
Alla fine della cerimonia le Suore del Cottolengo, su invito di p. Paul, intonano il Magnificat, seguite da suore di origine africana che chiudono la cerimonia con una vivace preghiera di ringraziamento.
La festa che segue è un intreccio di Nigeria, Congo, Camerun e Italia, nel cibo offerto, nelle parole scambiate, nei giochi spontanei dei bimbi.
«Sono arrivato a Lemie con una sola indicazione», racconta p. Paul. «Ci sono dei profughi di lingua francese e dinglese che hanno bisogno d’un sacerdote».
A maggio del 2011, per il tramite della Protezione Civile e del consorzio Connecting People, trentasei profughi subsahariani sono giunti dal territorio libico in questo paesino arrampicato nelle alte Valli di Lanzo. Fin da subito, nonostante i timori degli operatori della cornoperativa Crescere Insieme, impegnati nell’accoglienza, il paese, a partire dal suo primo cittadino, ha aperto loro le braccia.
La loro dimora è una casa storica, Villa Buzzi, messa a disposizione dalla Piccola Casa della Divina Provvidenza Cottolengo. Tra le pareti spesse della vecchia residenza, finalmente al sicuro, sono emerse storie di straordinaria forza e di speranza.
«Devo dire che la loro semplicità mi ha colpito», dice p. Paul. «Queste persone pensano al futuro con un po’ di timore, ma sperano nell’aiuto divino per superare le difficoltà del momento presente».
Richiedenti asilo: questo sono i quaranta migranti per la legge italiana. L’équipe multidisciplinare del consorzio Connecting People e della cornoperativa Crescere Insieme, in collaborazione con la Piccola Casa, ha sostenuto le famiglie con percorsi di apprendimento della lingua italiana, laboratori e attività ricreative, percorsi di informatica, assistenza sanitaria, ma soprattutto ha cercato di riannodare, con tutta la delicatezza possibile, i fili di tante vite spezzate, prima da violenze e persecuzione, poi dalla guerra.
«La settimana scorsa tutti i nostri ospiti hanno sostenuto l’intervista con la commissione ministeriale preposta all’esame delle loro domande di asilo», spiega Mauro Maurino, consigliere di amministrazione del consorzio Connecting People. «Adesso, siamo in attesa delle risposte. Certamente», continua Maurino, «questa festa ha per noi, operatori dell’accoglienza, un grande significato. Vediamo in essa una scelta di appartenenza, niente affatto scontata, a un luogo, a un tempo, a una comunità».
L’azzurro è terso. Il bianco della neve è la risposta della terra al sole, ricco di promesse di primavera. Promesse che il freddo pungente del mattino non riesce ad ammutolire.

Serena Naldini

Serena Naldini