Scene da un matrimonio – Dalla Macedonia, un paese quasi sconosciuto

Nel 1991 la
Macedonia si staccò pacificamente dalla Jugoslavia. A oltre 20 anni
dall’indipendenza il suo nome è ancora incerto, perché la confinante Grecia lo
rivendica. Dalle regioni macedoni sono emigrati in moltissimi: 700 mila su una
popolazione di poco superiore ai 2 milioni. In Italia ne sono arrivati –
legalmente o illegalmente – un numero importante: ventimila nel solo Veneto.
Il matrimonio di Azra ed Enis, due giovani
emigrati macedoni, è l’occasione per conoscere un paese tanto vicino quanto
sconosciuto.

La Macedonia è uno di quei «nuovi» stati che difficilmente
la gente sa collocare su una cartina geografica e di cui, ancor meno, sa
descrivere la storia. Questo potrebbe essere dovuto al
fatto che è una ex repubblica jugoslava arrivata all’indipendenza – era l’8
settembre del 1991 – senza passare per una guerra, o i cui scontri etnici
interni tra albanesi e macedoni, nei primi anni 2000, non sono stati
considerati degni dell’attenzione della stampa occidentale.

L’EMIGRAZIONE HA SVUOTATO I VILLAGGI

Secondo Risto Karajkov, collaboratore di Osservatorio Balcani e
Caucaso, uno dei siti più autorevoli nel panorama dell’informazione sui Balcani
in Italia: «Si stima che la diaspora macedone all’estero sia attorno alle 700.000
persone (su 2,1 milioni di cittadini), anche se non vi è alcuna istituzione in
Macedonia in grado di fornire statistiche attendibili sul livello di
emigrazione dal paese. L’unica conclusione, riportata ripetutamente dai media, è
che è massiccia». Nell’articolo pubblicato sul sito spiega come
tradizionalmente fossero «le regioni più povere e con scarse condizioni per
sviluppare l’agricoltura ad alimentare i flussi migratori, mentre negli ultimi
anni sono anche le regioni più ricche a perdere manodopera contribuendo a
creare il mito di pecalba (la migrazione economica), la nostalgia per la
madrepatria, le vite consumate lontano dalla propria famiglia e dai propri cari».
Lo scenario che si presenta a chi arriva nei villaggi della campagna macedone –
tranne nel mese di agosto – è di abbandono e desolazione: a causa
dell’emigrazione. Nei villaggi sono rimasti solo gli anziani e chi riesce
ancora a portare avanti il lavoro nei campi, e con esso a mantenersi. I giovani
che non riescono o hanno scelto di non emigrare abbandonano comunque i villaggi
per andare a cercare fortuna in città, soprattutto a Skopje, la capitale.
Karajkov mette comunque in luce che «non si tratta di un processo nuovo: è
iniziato più di cinquant’anni fa anche se, col passare del tempo, le sue
conseguenze sono sempre più visibili. Oggi in Macedonia ci sono 458 villaggi
che hanno meno di 50 abitanti, tra questi oltre 100 che hanno meno di 10
abitanti. L’Ufficio statale per le statistiche riporta, infatti, un totale di
147 villaggi che attualmente sono completamente vuoti».



LE STRADE PER L’ITALIA

I Macedoni che emigrano in Italia scelgono prevalentemente le
regioni del Nord e, tra le città, Treviso e Piacenza, quest’ultima addirittura
ribattezzata Strumicenza per l’alto numero di persone emigrate dalla regione
macedone che porta il nome di Strumica.

Secondo Osservatorio Balcani «circa 5.000 cittadini macedoni
migrano ogni anno verso il nostro paese». Si può arrivare in Italia legalmente,
ottenendo un passaporto bulgaro (in quanto appartenenti alla minoranza macedone
in Bulgaria) o grazie a parenti o amici già residenti in Italia che facciano da
datori di lavoro. O in maniera irregolare – come è il caso di molti migranti,
non solo macedoni -, spesso diventando vittime di ricatti ed estorsioni per
viaggi della speranza in condizioni estreme e false promesse di lavoro.

Nell’inchiesta sulle comunità balcaniche a Piacenza, realizzata
per «Piacenza Sera» dal giornalista freelance Gaetano Gasparini, viene
sottolineato il peso della diaspora macedone in questa città: sono ben 1939, il
che ne fa il secondo gruppo etnico della città. I macedoni, si legge
nell’inchiesta, sono «lavoratori con nuclei famigliari stabili e una seconda
generazione già avviata». In Italia le prime generazioni macedoni lavorano
principalmente (per lo meno all’inizio delle loro carriere lavorative) nel
settore dell’edilizia, anche se non sono rari i casi di avviamento di attività
imprenditoriali autonome dopo alcuni anni di lavoro dipendente, non per forza
nello stesso settore, come testimonia un immigrato di origini macedoni
intervistato nel corso dell’inchiesta. «Sono arrivato a Piacenza nel 1999,
anch’io sono stato clandestino per un paio d’anni. Ho lavorato duro come
manovale e poi come camionista, alla fine sono riuscito a realizzare il mio
sogno ovvero aprire un salone di parrucchiere». Le seconde generazioni spesso
seguono i percorsi professionali già avviati dai genitori nonostante comincino a
emergere scelte diverse e più autonome, come l’avvio di attività transnazionali
tra l’Italia e la Macedonia.

IL MATRIMONIO DI AZRA ED ENIS 

Dall’aeroporto di Treviso partono voli diretti per Skopje due
volte alla settimana. La maggior parte dei Macedoni residenti in Italia vive
infatti in Veneto (19.870 persone alla fine del 2010, 7.686 solo nella
provincia di Treviso). In alcune regioni della Macedonia, soprattutto nella
parte occidentale, la lingua italiana, così come il dialetto veneto, sono
estremamente diffusi per l’altissimo numero di immigrati macedoni in questa
regione dovuto alle catene migratorie (parenti e amici) che dagli anni ’90
hanno cominciato a legare alcuni villaggi macedoni alle città del Veneto.
Durante l’estate i villaggi, quasi completamente disabitati nei mesi invernali,
sembrano tornare a vivere. Per le vacanze infatti la diaspora macedone torna,
rigorosamente su macchine con targa italiana, dall’Italia alla Macedonia, per
trascorrere le vacanze nel proprio paese di origine, visitare i parenti rimasti
lì o rientrati anch’essi per le vacanze, sistemare alcuni affari e celebrare
feste e momenti importanti, come i matrimoni. Il mese di agosto sembra infatti
essersi ormai trasformato nel mese dei matrimoni. Il matrimonio cui abbiamo
avuto il privilegio di partecipare è stato celebrato nel villaggio di Borovec,
nella provincia di Struga, nella parte occidentale della Repubblica di
Macedonia. Gli sposi erano Azra ed Enis, due giovanissimi macedoni, residenti
in Italia (anzi, per essere precisi, figli di immigrati macedoni in Italia,
quelli che vengono chiamati «seconda generazione»). In queste zone vivono i
Torbeshi, una comunità di slavi cristiani islamizzati durante la dominazione
ottomana, che hanno affinità sia con i Pomacchi dei Monti Rodopi sia con i
Gorani di Albania e Kosovo. Anche tra i Torbeshi ci sono moltissimi immigrati
in Italia detti pechalbari (emigranti, appunto). I matrimoni tra i
Torbeshi si festeggiano secondo l’antica tradizione e durano per tre giorni.
Flauti e tamburi, sax e fisarmoniche accompagnano le danze che si ripetono
senza sosta giorno e notte, perché nei matrimoni macedoni ballare è molto più
importante che mangiare.

Anche il matrimonio di Borovec è stato celebrato nel rispetto di
tutte le tradizioni dei Torbeshi, custodite dagli anziani della comunità:
mentre i festeggiamenti, canti e balli, erano in corso a casa dello sposo, un
gruppo di uomini, parenti dello sposo, è partito per incontrare gli uomini
della famiglia della sposa e «sigillare con loro l’affare del matrimonio». Poi
la sposa è stata coperta con un broccato, «rapita» e portata a casa dello
sposo.

Nelle comunità musulmane macedoni, lo sposo e sua madre non
prendono parte al corteo nuziale che conduce la sposa dalla sua casa natale a
quella dello sposo, ma la attendono insieme alle donne della famiglia. Queste
accolgono la futura sposa all’entrata del paese, mostrando in questo modo la
propria approvazione, poiché, attraverso il matrimonio, una nuova donna entrerà
a far parte della famiglia. La sposa viene accolta con canti e danze e
accompagnata così fino a casa dello sposo. Lo sposo dalla propria casa cerca di
vedere «di nascosto» la sposa attraverso un anello, pronunciando una formula
rituale di buon auspicio. A quel punto la sposa entra nella casa dello sposo e
riceve offerte dai testimoni dello sposo che «riempiono» di soldi le sue scarpe
fino a quando «potrà calzarle». La sposa per la maggior parte del tempo tiene
gli occhi bassi e non sorride, mostrando così la tristezza per aver abbandonato
la propria famiglia e la propria madre, mentre la suocera celebra la sua gioia
nell’aver acquisito una nuora. I festeggiamenti durano per tre giorni, le donne
indossano vestiti tradizionali ricamati a mano e tutta la comunità si riunisce
attorno agli sposi riconoscendo e benedicendo la loro unione. Quelli che si
svolgono d’estate in Macedonia sono matrimoni tradizionali, ma che non hanno
alcun valore legale o religioso. La benedizione dell’Imam, infatti, i
futuri sposi l’hanno ricevuta un anno prima, in occasione del fidanzamento
ufficiale e il matrimonio civile viene contratto in comune nei giorni
successivi, ma come mera formalità. Questo dimostra l’importanza della
tradizione comunitaria che sacralizza i legami tra i suoi membri e la loro
appartenenza a essa.

EMIGRAZIONE DI PERSONE…

A un’analisi più approfondita ci si rende conto che i matrimoni
(così come altre celebrazioni importanti) che gli emigrati continuano a
celebrare nel paese di origine, servono, soprattutto alle prime generazioni,
per espiare una «colpa» (quella di aver lasciato il paese) e controbilanciare
l’effetto perturbatore suscitato dall’emigrazione. La naturalizzazione degli
immigrati e, in maniera ancora maggiore, l’ottenimento della cittadinanza
italiana per i loro figli, infatti, rendono retrospettivamente più chiara la
funzione disgregante che l’emigrazione ha per le comunità di origine quando
essa è protratta nel tempo, quando si ripete per un grande numero di individui,
uomini e donne, e di famiglie. Come dice il sociologo Sayad nel libro La
doppia assenza
, infatti: «Emigrare significa “disertare”, “tradire”. In un
certo modo significa indebolire la comunità da cui ci si separa, anche quando
lo si fa, appunto, per rinforzarla, per favorire la sua prosperità. Ogni partenza
e ogni emigrato rappresentano altrettante mutilazioni. Così, a partire dalla
stessa origine dell’emigrazione, si comprende come essa contenga i rischi di
una rottura con lo spirito e non soltanto con il corpo. Si capisce, così,
che per far in modo che il tabù della naturalizzazione funzioni, non è
sufficiente biasimarla e biasimare il naturalizzato, ma bisogna sacralizzare
(nel senso forte del termine) la comunità e l’appartenenza indefettibile (un
tipo di fedeltà assoluta) alla comunità in quanto gruppo sociale, e sacralizzare
a sua volta il gruppo in quanto struttura o insieme di strutture comunitarie –
che è ciò che succede, ad esempio, coi matrimoni. Bisogna sacralizzare i
legami che uniscono tra loro i vari membri della comunità, soprattutto quando
sono dispersi, e i legami che li uniscono alla comunità, soprattutto quando ne
sono separati, per poter esorcizzare il demone della contaminazione sovversiva
a cui l’emigrazione espone e che la naturalizzazione consacra».

La vera prova dell’integrazione o del mantenimento dei legami con
la terra di origine sarà la seconda, e soprattutto la terza generazione. Rimane
da vedere se prevarrà la «volontà» di sentirsi italiani al 100% o se la crisi o
i casi di discriminazione subita porteranno a un ripiegamento sulle proprie
origini e a ipotesi di ritorno. Questa sarà la sfida che spetterà ai figli dei
primi migranti che saranno magari in grado di esplorare e appropriarsi di una
terza via, un nuovo modo di essere italiani-macedoni, in Italia, in Macedonia o
altrove.

IMMIGRAZIONE DI CAPITALI

Da sempre le migrazioni presentano anche aspetti positivi per i
paesi nativi dei migranti. Le rimesse, infatti, aiutano la crescita del Pil
nazionale. La Macedonia, così come altri paesi di emigrazione, si è resa conto
dell’immenso potenziale delle rimesse e degli investimenti esteri, e ha dato
vita a un processo per favorire gli investimenti in Macedonia. Il governo
macedone, appoggiandosi a un’incisiva campagna mediatica, ha intrapreso riforme
radicali per attirare e orientare gli investimenti da parte degli emigranti,
portando la Macedonia a essere uno dei paesi con le tasse più basse in Europa.
Ha offerto massicci incentivi agli investitori stranieri, promosso aree economiche
libere e si è impegnato in una intensiva comunicazione con i singoli
investitori. Due giovani macedoni incontrati al matrimonio, ad esempio,
residenti in Italia dalla fine degli anni ’90, ormai perfettamente bilingui e
con una conoscenza profonda dei contesti italiano e macedone, stavano, proprio
nel corso dell’estate, concludendo tutte le pratiche per dare vita ad
un’attività di business transnazionale tra l’Italia e la Macedonia, con
installazione di fabbriche e laboratori in Macedonia per la produzione di
manufatti da vendere poi sul mercato italiano ed europeo.

Il futuro della Macedonia e della sue genti è ancora tutto da
costruire, in patria e fuori.

Viviana Premazzi

Box:
DALLA JUGOSLAVIA
A OGGI

TRA SKOPJE E ATENE, UN NOME DI TROPPO

Fino al 1991 è stata la «Repubblica socialista di macedonia».
Oggi è un paese senza un nome condiviso. Tanto facile è stato il distacco dalla
Federazione jugoslava quanto complicate sono le relazioni tra Skopje e Atene.

Nonostante siano paesi confinanti, i collegamenti tra
la Macedonia e la Grecia non sono facili. Da Skopje a Salonicco c’è un solo
autobus al giorno e i treni non sono garantiti. Il mezzo più «comodo» e veloce è
quindi il taxi privato anche se non tutti i tassisti se la sentono di
attraversare il confine o chiedono un compenso extra per le questioni che
potrebbero nascere alla frontiera.

Questo perché le relazioni tra i due paesi, così come
l’ingresso della Macedonia nella Nato e nell’Unione europea, sono ancora ad un
punto morto a causa della disputa sul nome. Se ripercorriamo la storia possiamo
capie i motivi.

L’8 settembre del 1991 la «Repubblica socialista di
Macedonia», una delle sei entità statuali che costituivano la federazione
jugoslava, dichiara la propria indipendenza in seguito a un referendum e il 17
novembre dello stesso anno il parlamento di Skopje adotta la costituzione della
«Repubblica di Macedonia». Nel 1992 con l’idea di costituire la «Grande
Macedonia» il nuovo governo di Skopje stampa carte geografiche che comprendono
anche la Macedonia dell’Egeo nella loro neo-nata nazione, battendo anche
cartamoneta con la Torre bianca, emblema di Salonicco, seconda città greca.
Queste iniziative secondo l’esperto macedone Risto Karajkov «hanno provocato la
Grecia, per niente disposta a cedere nome, storia e identità macedone alla
Macedonia, appunto, e che le ha bollate come mire espansionistiche di Skopje
sulla Macedonia dell’Egeo. La Grecia ritiene, inoltre, che il nome “Macedonia”
sia parte esclusiva della propria storia e della propria eredità culturale, e
sostiene che, prendendo questo nome, il proprio vicino settentrionale utilizzi
indebitamente questa eredità». Le definizioni contemporanee di Macedonia, però,
potrebbero essere considerate dubbie, poiché i limiti della regione geografica «Macedonia»
sono stati spostati diverse volte nel corso della storia. Rudy Caparrini su
mondogreco.it riporta la definizione dei confini della Macedonia data dai
geografi: «Quella vasta area della penisola balcanica (66mila chilometri
quadrati) suddivisa oggi fra Fyrom, Grecia, Bulgaria e Albania. […] Oltre la
metà della superficie complessiva di tale regione, però – specifica più avanti
-, appartiene alla Grecia (precisamente 34.231 kmq) mentre solo poco più di un
terzo è parte della Fyrom (Ex Repubblica Yugoslava di Macedonia). Mai nella
storia, inoltre, è esistita un’entità sovrana denominata semplicemente
Macedonia». Anche se è vero che il Regno di Macedonia, a cui la regione odiea
deve il suo nome, era situato quasi interamente dentro i confini greci,
comprendendo una piccolissima parte di ciò che oggi è la regione.

Così nel 1992, in seguito alla richiesta della
Grecia, l’Unione europea adotta la «Dichiarazione di Lisbona», che proibisce al
nuovo stato, ancora non riconosciuto a livello internazionale, di utilizzare il
nome «Macedonia». Il 7 aprile 1993, un anno e mezzo dopo la data di
proclamazione dell’indipendenza della Repubblica di Macedonia, a causa
dell’ostruzionismo greco, il Consiglio di sicurezza dell’Onu, invece, approva
la risoluzione 817, con la quale ammette il paese nell’organizzazione delle
Nazioni Unite, ma con la denominazione temporanea di Fyrom (Former Yugoslav
Republic of Macedonia
). Skopje, però, non gradisce tale soluzione, argomentando
l’incongruenza del riferimento alla Jugoslavia, con cui i ponti vanno rotti una
volta per tutte, anche a livello lessicale. Nel febbraio 1994 poi la Grecia
sottopone la Macedonia a un embargo, chiudendo completamente i confini comuni.
L’embargo è causato dalla decisione di Skopje di adottare, come bandiera
nazionale, il cosiddetto «Sole di Vergina», simbolo legato ad Alessandro Magno.
La Grecia protesta anche contro un articolo della costituzione macedone, nel
quale si parla di sostegno e protezione delle minoranze macedoni presenti negli
stati confinanti. Dopo diciotto mesi di embargo, che causa alla Macedonia danni
stimati intorno ai due miliardi di dollari, nel settembre 1995 Atene e Skopje
firmano un trattato, sotto l’egida dell’Onu, col quale si impegnano a cercare
una soluzione mediata alla disputa. Nel trattato, i due paesi non sono citati
con i propri nomi costituzionali, ma come «Primo contraente» e «Secondo
contraente». Nell’ottobre 1995, a seguito della modifica della bandiera e
dell’articolo conteso la Grecia riapre le frontiere. Alla fine dello stesso
anno i due paesi iniziano dei negoziati bilaterali, sotto il patrocinio delle
Nazioni Unite per risolvere la disputa sul nome. All’inizio la Grecia si
dichiara assolutamente contraria ad ogni riferimento alla parola «Macedonia»
per il possibile nome costituzionale del proprio vicino. Nel corso degli anni,
però, questa posizione si ammorbidisce, e oggi questa possibilità non viene
esclusa a priori, anche se si preferirebbe un nome composito. La posizione
macedone è, invece, quella di utilizzare una doppia formula: il nome Repubblica
di Macedonia nei rapporti col resto del mondo, e di trovare un nome diverso per
i rapporti bilaterali con la Grecia. La Grecia però non è d’accordo, e vuole un
nome unico e approvato da tutti. Nel corso degli anni, la Macedonia viene
riconosciuta col suo nome costituzionale da 120 paesi, inclusi tre membri
permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Russia, Cina e, il 4 novembre
2004, gli Stati Uniti. Tuttavia, la questione del nome non è risolta e
complica, ad esempio, il processo di integrazione euroatlantica di Skopje. Da
parte greca la questione si incancrenisce, trasformandosi in motivo di orgoglio
nazionale che non può ammettere cedimenti, mentre il partito al potere a Skopje
lega le proprie fortune elettorali alla contrapposizione con la Grecia. A
ottobre 2012 però la Commissione europea decide di procedere coi negoziati per
l’ingresso della Macedonia nell’Unione Europea anche senza che si sia risolta
la disputa sul nome, cosa che fino a qualche tempo fa era la soluzione proposta
dalla Macedonia. (Viviana Premazzi)

(1) Per approfondire: www.balcanicaucaso.org

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Viviana Premazzi




Acqua e Foreste: la dote di Vientiane

La situazione in Indocina / 2: Laos
Chiuso e
isolato, fino a ieri il Laos era conosciuto soltanto per il conflitto con gli
Stati Uniti. Oggi l’ex regno cerca una sua dimensione internazionale, almeno
nell’ambito indocinese. In tanti se ne fanno paladini, mirando alle sue risorse
(acqua e foreste su tutto). Riuscirà il Laos, paese con molte etnie e un solo
partito, a progredire senza essere schiacciato?

A novembre 2012, tre eventi consecutivi hanno rilanciato
il Laos sulla scena mondiale. Anzi, per diversi aspetti ve lo hanno introdotto,
per la prima volta, con enfasi. I tre eventi sono stati: l’organizzazione
dell’Incontro Asia-Europa (Asia-Europa Meeting, Asem), l’avvio del
percorso finale verso l’accesso all’Organizzazione mondiale del Commercio
(Wto), l’inaugurazione formale dei lavori per la sua prima diga sul Mekong. Tre
eventi interconnessi e, in prospettiva, di grande rilievo.

Dopo 15 anni di percorso burocratico e di lenta
evoluzione, il paese, per molti aspetti ancora chiuso – per scelta e per
necessità – entro confini assediati da potenti e invadenti vicini, ha chiesto
formalmente di entrare nel Wto.

Lo ha fatto nel contesto del 9° Incontro Asia-Europa che
ha portato nella capitale Vientiane 51 paesi partecipanti, inclusi tutti i
membri Ue e Asean (Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico) e i
rappresentanti delle due organizzazioni, oltre a tre nuovi aderenti (Norvegia,
Svizzera e Bangladesh). Al centro dell’incontro – che quest’anno ha avuto come
tema «Amici per la pace partner per la prosperità» – la ricerca di un impegno
comune per superare la crisi del debito, rilanciare l’economia globale e
affrontare le questioni regionali.

L’accesso al Wto, perseguito fino dal 1997, consentirà al
piccolo paese asiatico (236.800 chilometri quadrati) e ai suoi 6,3 milioni di
abitanti di beneficiare di tariffe commerciali ridotte, un bonus per la sua
economia asfittica (il Pil annuale è di soli 8,3 miliardi di dollari). Un
ingresso facilitato, va ricordato, dalla sua condizione di nazione tra le meno
sviluppate. Di fatto il riconoscimento che la strada verso il progresso
economico sarà lunga e con ogni probabilità difficile, disseminata di riforme
del sistema politico e di nuove priorità economiche e sociali. Una strada
contrassegnata – si spera – anche dall’impegno a conservare con cura le proprie
risorse naturali, che al momento costituiscono la sola ricchezza del Laos.

DA LUANG PRABANG  A VIENTIANE

Quattro secoli e mezzo fa, con una mossa
all’apparenza sconsiderata, re Setthathirat fondava l’attuale capitale laotiana
Vientiane. A spingere allora il sovrano ad abbandonare le rive settentrionali
del Mekong e a dare vita a un nuovo centro del suo potere lungo il grande
fiume, fu la minaccia birmana. Oggi sono gli investimenti cinesi, thailandesi,
singaporeani, giapponesi, europei a mettere a rischio l’indipendenza del paese.
Mentre le nuove infrastrutture servono soprattutto agli interessi immediati
degli investitori e delle élite locali legate al partito unico e al vicino
cinese, il reddito complessivo non sembra risentire dei tanti progetti di
origine straniera, e quello pro-capite annuo resta tra i più bassi del
continente e del mondo.

Il Laos da decenni è sotto assedio affinché
il regime che governa con intransigenza da un lato ceda alla democratizzazione,
ai diritti civili e allo sviluppo del paese, dall’altro consenta, sempre
motivato dalle necessità dello «sviluppo» l’intervento massiccio di partner
stranieri. Nel tempo, forse inevitabilmente, l’immensa Cina popolare ha fatto
sentire il suo peso, mettendo via via ai margini il Vietnam, rivale strategico,
e la Thailandia, rivale economico. Oggi il Laos è una specie di protettorato
della Repubblica popolare cinese, invaso dai suoi prodotti a basso prezzo.
Ancor più sottoposto a pressioni insostenibili sulle sue risorse e, alla fine,
sulla sua autonomia. A dare concretezza a tutto ciò anche la serie di quattro
dighe costruite dai cinesi nell’alto corso del Mekong, in territorio cinese,
che influiscono sul corso più meridionale del fiume e sulle popolazioni
rivierasche.

Nonostante gli investimenti massicci, le
prospettive restano incerte per almeno due ragioni: il basso livello di
sviluppo e il costo che le realizzazioni hanno, o avranno, sulla vita delle
popolazioni in un territorio aspro e fragile.

IL PESO (POLITICO)  DEGLI INVESTIMENTI

Paese poco più piccolo dell’Italia, senza
sbocco al mare, ricco di risorse idriche e forestali, dove convivono una grande
varietà di etnie e lingue, il Laos fatica a mantenere autonomia di scelte,
indipendenza economica e ancor più l’identità sopravvissuta all’indipendenza
dalla Francia del 1949, al conflitto più o meno palese con gli Stati Uniti e,
dal 1975, alle contraddizioni del regime comunista. Identificato questo con il partito Pathet Lao,
una realtà fragile, che va lentamente perdendo in autonomia e controllo
ideologico. Crescono gli investimenti cinesi e da Pechino arriva anche il 32
per cento del sostegno internazionale al Laos. Con la costruzione di aree di
sviluppo al confine, ponti, strade e ferrovie, la Cina popolare sta integrando
sempre più le sue regioni meridionali con il vicino, il quale è determinante
anche per i suoi rapporti sempre più stretti con l’Asean.

Ricerca di sviluppo e mantenimento degli
equilibri ecologici, modeità e tradizione nei modi di vita, indipendenza e
sempre maggiore influenza straniera, socialismo e rivendicazioni
democratiche… I dualismi profondi del Laos si estendono anche alle sue due
maggiori città. Indaffarata e modea, con più velleità che eccessi, la
capitale Vientiane si affaccia da una piana polverosa sulla riva del Mekong a
fronteggiare l’ingombrante vicino thailandese. Città di templi e monumenti,
centro di una folta comunità monastica, Luang Prabang è sbocco sul grande fiume
di comunità contadine e tribali, che popolano le valli tra le montagne
ricoperte di foresta. Tra i due estremi, un paese in bilico sul proprio futuro
che a nuove strade di grande comunicazione, agli aeroporti, allo sviluppo della
propria compagnia Lao Aviation, alla costruzione di nuovi ponti sul
Mekong verso la Thailandia e a un network telefonico a banda larga
attivo dal mese scorso affida qualcosa di più che la capacità di essere più
coeso: soprattutto la possibilità di essere anche economicamente più omogeneo e
cornordinato, insieme più aperto e più competitivo verso l’esterno.

MONACI E MONASTERI

Il territorio laotiano costituisce una regione di
transito, non sempre pacifico, di popolazioni. Un passaggio reso possibile da
profonde vallate disposte in direzione Nord-Sud e dai fiumi che permettono un
rapido accesso, almeno nei periodi più propizi alla navigazione, dalla Cina
meridionale alle fertili pianure della Cambogia e della Thailandia. Il continuo
passaggio, e in parte la sedentarizzazione di popolazioni di diversi ceppi
etnici e linguistici, non poteva non lasciare una traccia e, nello stesso
tempo, non poteva non creare una situazione di costante incertezza nella sua
storia tormentata.

I vari regni Thai in Laos, di cui il primo fu fondato nel
1360, ebbero come sfondo regioni poco ospitali, caratterizzate da profonde
valli fluviali, montagne ricoperte di fitte foreste, un territorio
complessivamente povero e difficile da controllare e organizzare. Le popolazioni
Mon (Hmong) soggiogate non avevano saputo o potuto, in un tale contesto,
sviluppare una cultura avanzata, come invece avevano fatto i Mon della Cambogia,
del Siam (Thailandia) e della Birmania (Myanmar). Di conseguenza il passato di
cui i Lao (debitori di molto agli antichi Mon) sono oggi fieri è un passato in
gran parte concesso o imposto loro.

La religione induista non ha lasciato tracce
degne di nota e le tradizioni animiste, per quanto fortemente presenti, sono
inevitabilmente soverchiate dal buddhismo. Quest’ultimo, nella sua versione Hinayana,
giunse dal Siam, senza nulla concedere alla tradizione locale. Introdotto dai
vincitori, venne subito e accettato. In Laos, la scarsità di ritrovamenti
collegabili a una tradizione animista o sciamanica contrasta con la situazione
attuale che vede gli spiriti indissolubilmente connessi alla vita quotidiana.
Questo può dipendere anche dalla difficile individuazione di reperti,
eventualmente esistenti ma disseminati su un territorio montuoso e ricoperto da
un denso manto forestale, oltre che dalla storia complessa e dai frequenti
conflitti.

I gruppi che si rifanno a pratiche di
carattere animistico sono oggi spesso tra gli elementi più deboli delle società
locali, generalmente quelli che hanno meno possibilità di accedere
all’istruzione e che da sempre tramandano tradizioni orali. Di conseguenza,
l’orizzonte religioso e culturale del Laos è buddhista e il buddhismo
costituisce per i laotiani un elemento identitario e, al contempo, l’unica
forza alternativa al potere politico. Ciascun laotiano passa abitualmente un
certo periodo della vita in un monastero come novizio e a questo si aggiunge
l’attaccamento della popolazione alla dottrina del Buddha e il suo sostegno
alle istituzioni buddhiste, che permette di acquisire meriti e proseguire più
spediti sulla via della Liberazione. Ai monaci ci si rivolge per i riti
quotidiani, le occasioni festive e i momenti di passaggio della vita personale
e sociale, ma monasteri e templi sono sottoposti alla benevolenza del governo,
che sovente nella storia recente ha usato le armi della repressione e del
ricatto per tacitae proteste e rivendicazioni.

Stefano
Vecchia

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Stefano Vecchia




Donne alla riscossa La società civile vuole cambiare un paese violento

Tassi di omicidio superiori a quelli di
paesi in situazioni di conflitto armato, fortissima disuguaglianza nella
distribuzione delle risorse, profondo machismo
culturale con relative violenze domestiche e femminicidi in costante
crescita, tratta di bambine e ragazze… L’Honduras è ritenuto il paese più
pericoloso al mondo, eppure qualcosa si sta muovendo, soprattutto a livello di
organizzazione femminile, per difendere i propri diritti e introdurre
importanti cambiamenti nella società.

In tutto l’Honduras risuona una sola parola
d’ordine che in questo momento interessa la popolazione: cambiamento. Sono
passati più di tre anni dal colpo di stato, e da allora tanto è stato fatto
dalla gente honduregna (anche se per l’Onu, almeno il 60% dei 7,3 milioni di
abitanti vive in situazione di povertà) per far valere i propri diritti di
scelta e creare un contrappeso ai giochi di potere dell’oligarchia delle
famiglie più influenti del paese. L’Honduras è il terzo paese in America
Latina, dopo Colombia e Haiti, ad avere maggiori disuguaglianze sociali.
Generalmente la gran parte dei governi passati avevano la tendenza a preservare
lo status quo, mantenendo il potere nelle mani di poche famiglie.



Resistenza nata dal golpe

Con il governo di Manuel Zelaya,
durato dal 2006 al 2009, destituito da un colpo di stato delle forze armate,
c’era stato un cambio di tendenza e si era visto un tentativo di introdurre
importanti cambiamenti per una maggiore giustizia sociale, tra cui l’aumento
del salario minimo e una bozza di riforma agraria. Ma queste novità non erano
ben viste da chi ha perpetrato il golpe del 28 giugno 2009. Il nuovo governo ha
raggiunto il potere successivamente con elezioni, considerate alquanto
discutibili anche dalla comunità internazionale, alle quali non sono stati
ammessi gli osservatori delle Nazioni Unite.

Ora è al potere il governo del
Partito Nazionale, un partito conservatore, il quale considera incostituzionali
alcune importanti riforme che erano state intraprese negli anni precedenti. Nel
frattempo peró una gran parte della società civile si è organizzata nel Frente
Nacional de resistencia Popular
(Fnrp) per esprimere il proprio dissenso
nei confronti di un governo che in realtà fa l’interesse di una parte piccola
della popolazione.

Il Fnrp, che dal colpo di stato ha
coinvolto nelle proprie rivendicazioni movimenti popolari e organizzazioni che
cercano una trasformazione sociale del paese, è vicino a rappresentanze di ogni
strato sociale: cittadini, contadini, operai, microimpresari, gruppi
ambientalisti e studenteschi, forze politiche progressiste e democratiche,
professionisti, donne, artisti, popolazioni indigene, comunità ecclesiali di
base, e altro ancora. Questo movimento ha un braccio politico, costituito dal Partido
Libre
(Partito Libero), la cui candidata alla presidenza è Xiomara Castro,
moglie di Manuel Zelaya, il quale è pure cornordinatore del partito e del
movimento.


Lotta per la terra

Come tutti gli esponenti politici
che si candideranno alle elezioni del 2013, la signora Xiomara avrà molte
questioni spinose da affrontare. «In primo luogo la proprietà della terra, che è
una delle ragioni principali di lotta all’interno del paese. La popolazione
dell’Honduras è prevalentemente agricola, ma la maggior parte delle terre è
paradossalmente proprietà di pochi: il 50% della superficie coltivabile è in
mano al 3,7% della popolazione», riporta Anna Schieppati, volontaria italiana
presente nel paese centroamericano da quattro anni e collaboratrice di diverse
ong locali. «Si coltiva una grande varietà di prodotti, grazie alle variazioni
climatiche del paese. Nelle zone più calde crescono anacardi, ananas, meloni;
in quelle più fredde patate, fragole, cavoli. In tutto il paese si coltivano
mais e fagioli, due elementi basilari dell’alimentazione locale». Un’ottima
varietà di prodotti, il cui ricavo però, come spesso accade, non viene
distribuito equamente tra la popolazione.

«I grandi latifondi esistenti,
invece – continua Schieppati – appartengono in maggioranza alle compagnie
bananiere e a quelle che producono olio di palma africana, pianta molto dannosa
per l’ambiente, perché rovina il suolo. Ma la gente qui non tace: le grandi
lotte di rivendicazione contadina sono iniziate proprio in Honduras negli anni
’90 con il governo di Calleja, in cui si implementò una politica a livello
regionale di carattere neoliberista (soprattutto con la Ley de modeización
y desarrollo agrícolo
), sponsorizzata dagli Stati Uniti, in cui l’accesso
alla terra non fu più amministrato dallo stato. Però, nonostante le battaglie
vinte, il modello capitalista continua a farla da padrone».

Due esempi possono dare un’idea
della situazione conflittuale nel paese. Il primo è la condizione delle
famiglie contadine del nord del paese, in un territorio chiamato Bajo Aguán, «in
cui i contadini rivendicano le terre possedute da René Morales, Reinaldo
Canales e Miguel Facussé, quest’ultimo una delle persone piú influenti del
paese, legato anche al narcotraffico», continua la volontaria italiana. Miguel
Facussé comprò le terre dallo stato proprio in seguito alla Ley de
modeización
. Peró le associazioni contadine locali affermano che le terre
in realtà furono vendute attraverso una procedura illegale e per sostenere la
loro causa nel 2001 si organizzarono nel Movimiento unido campesino del Aguán
(Muca).

La zona del Bajo Aguan è
considerata una zona di conflitto. Ciò risulta già evidente sulla strada per
arrivare in questo territorio: vi sono moltissimi blocchi stradali dei
militari, che fermano macchine, autobus, moto, camion e controllano i documenti
dei viaggiatori e il materiale che eventualmente viene trasportato. La lotta
dei dipendenti e guardie dei proprietari terrieri contro i contadini è una
lotta armata, che ha visto molti morti da entrambe le parti. Un importante
quotidiano nazionale afferma che ogni 16 giorni avviene una morte violenta.

«Esercito e polizia non sono
imparziali custodi dell’ordine; basta ascoltare cosa afferma il commissario
responsabile dello sgombero: “Sono inutili gli sforzi che fanno i contadini; è
un atteggiamento irrazionale. Abbiamo una forza normale; puó essere che ci
siano stati scontri da entrambe le parti, è uno sgombero, non è una festa. E la
loro presa di posizione è una stupidaggine, quindi noi la prossima volta non
cercheremo il dialogo come stiamo facendo adesso. Se loro si credono forti, non
hanno la minima idea di quanto siamo forti noi”» riporta Schieppati. Parole
forti, di minaccia, che fanno capire quanto sia ardua la situazione.

Un altro esempio del tutto
diverso, ma che riflette bene la realtà di un paese messo a disposizione di
tutti tranne che dei suoi cittadini, è il progetto delle ciudad modelo
(città modello). L’idea era di dare delle terre in concessione a un consorzio
nordamericano per la costruzione di città. Le ciudad modelo erano
pensate come urbanizzazioni che potevano avvalersi di una legislazione a parte,
indipendente da quella honduregna, essere esenti dalle tasse locali e avere una
polizia propria.

Le zone scelte erano aree
strategiche in quanto a locazione e risorse: uno sbocco sul mare, terre ricche
di acqua e molto fertili, strade ben asfaltate. La promessa fatta alla gente
era quella di centinaia di nuovi posti di lavoro. Il Congresso ha cercato di
far approvare questo progetto, che però, grazie anche alla pressione di molte
associazioni e semplici cittadini, che ogni mercoledì si riunivano per
protestare contro questa proposta, alla fine è stato dichiarato
incostituzionale.

Violenza epidemica

Uno dei più
grandi problemi del paese, che è andato esasperandosi negli ultimi anni, è il
clima di violenza, dovuto al fatto che l’Honduras è diventato un’importante via
del traffico internazionale di droga, passaggio preferito dai narcotrafficanti
che vengono dal Sud America e sono diretti negli Stati Uniti e in Canadà.

Un dato su
tutti: il tasso di omicidi è di 86,5 ogni 100 mila abitanti, uno dei più alti
al mondo. Basti pensare che nel non lontano Costa Rica è di 10,3, in Italia di
1,1 e la media mondiale è di 8,8.

La violenza ha varie cause, che
possono essere identificate nella grande disuguaglianza all’interno della
società e nella grande diffusione di armi da fuoco, che possono essere reperite
con facilità. Non bisogna però dimenticare anche l’aspetto culturale della
violenza che, per esempio, si esprime all’interno della società con il machismo
o maschilismo: «La donna honduregna si alza alle quattro del mattino per
accendere il fuoco e preparare la colazione per la famiglia; molto spesso
lavora fuori, oltre che in casa, generalmente coltivando i campi, dedicandosi a
lavori informali, o partecipando a microimprese – spiega Schieppati -. Spesso,
purtroppo, le donne si trovano a doversi occupare da sole della sussistenza
della famiglia; sovente i figli vengono concepiti al di fuori dell’unione
matrimoniale e non è raro che un uomo abbia figli da diverse donne. A ciò
bisogna aggiungere che molti uomini non vogliono contribuire al mantenimento
dei figli e a volte si rifiutano di riconoscerli proprio per non avere
responsabilità nei loro confronti».

Donne alla riscossa

A livello istituzionale sono state
create nuove leggi e istituzioni per combattere il machismo e la
situazione di oppressione e violenza in cui sono costrette a vivere molte donne
honduregne; ma sono soprattutto le organizzazioni civili che hanno contribuito
a fare grossi passi in avanti, pretendendo dalle istituzioni governative di
mettere in pratica quello che generalmente rimaneva solo sulla carta.

«Varie associazioni di donne nel
corso degli anni hanno lottato per introdurre importanti cambiamenti a livello
sociale, culturale, legale. Esse sono presenti su quasi tutto il territorio con
nomi e scopi differenti: Visitación Padilla, Centro de estudios de la
mujer
, Centro de derechos de mujeres, Las Hormigas, Programa
Deborah
», continua la volontaria italiana, che collabora con alcune di esse
alla promozione della parità di genere.

«Nel dare maggior potere alle
donne, queste associazioni hanno avuto un ruolo fondamentale, mettendo in atto
con intelligenza varie strategie: hanno raccolto informazioni e pubblicato
studi di alto livello sulla condizione femminile per avere più visibilità; si
sono cornordinate con la cooperazione internazionale per ottenere fondi con cui
sostenere le varie attività; hanno esercitato una forte lobbying sulle
istituzioni governative, esigendo più sensibilità da parte loro». Uno dei loro
servizi più significativi ed efficaci è l’apertura di consultori legali
gratuiti, che informano circa le leggi del paese e, se necessario, offrono
assistenza legale alle donne che non possono permettersi un avvocato.

«Proprio questi consultori sono
stati importanti per ridare dignità alle cittadine e avvicinarle alle
istituzioni, il cui personale, negli altri luoghi pubblici, tende molto spesso
a trascurare, o peggio ancora, a mortificare le donne che vi accorrono per
sporgere denuncia, soprattutto se queste vengono da aree rurali e hanno uno
scarso livello scolastico», racconta ancora Schieppati.

Benvenuti a Casa Zulema

Un ulteriore flagello che la
società civile dell’Honduras sta tentando di combattere è l’Aids. Il paese
centroamericano presenta il tasso più alto di portatori del virus Hiv del
continente, con lo 0,8% della popolazione (in Italia è 0,006%). Nonostante il
fatto che molti ospedali possano distribuire i farmaci, l’attenzione integrale
ai pazienti è rara. La cura è gratuita, il problema è che questa non è
disponibile per tutti. Data la scarsità dei farmaci disponibili negli ospedali,
la cura viene iniziata solo con quelle persone che, per condizione familiare,
stile di vita, possono garantire continuità.

Il problema è che i tre quarti
degli infettati sono persone senza tetto, che vivono per la strada, e pertanto
la loro condizione è di totale abbandono. Molte persone inoltre, una volta
contagiate, vengono abbandonate dai familiari.

«Il virus è ancora visto come uno
stigma: molte persone affermano che “la malattia è un castigo del Signore per i
peccati della carne”; tanti non dicono di avere il virus e non si sottomettono
a cure, proprio per non dover confessare ai propri cari di essere stati contagiati»
sottolinea la volontaria italiana.

Tra le realtà che combattono la
stigmatizzazione, dando un accompagnamento integrale alle persone infette senza
condizioni economiche o familiari adeguate, c’è Casa Zulema, un centro di
accoglienza per malati di Hiv-Aids in un paese a breve distanza dalla capitale
Tegucigalpa. Qui le persone sono accudite e rispettate nella loro dignità e
ricevono un’alimentazione sana ed equilibrata.

Casa Zulema prende il nome da una
donna morta in ospedale abbandonata da familiari e amici. La accompagnò nei
suoi ultimi giorni di vita padre Ramon Martinez Perez, un sacerdote spagnolo
che alla morte della donna, nel 1997, decise di costruire una casa per casi
simili. All’inizio essa aveva lo scopo di offrire la possibilità di una morte
dignitosa alle persone che si trovavano abbandonate in ospedale.

Oggi, con i progressi della
ricerca medica, la casa è diventata principalmente un luogo di recupero, in cui
la gente apprende le nuove abitudini necessarie per portare avanti la cura con
successo, imparando ad accettare e convivere con la malattia per poi tentare di
reinserirsi all’interno della società.

A Casa Zulema vivono donne,
uomini e bambini senza limiti di età, religione o razza (il 90% della
popolazione honduregna è meticcia). «L’unico requisito necessario per
alloggiarvi è che il paziente non abbia atteggiamenti violenti o aggressivi,
che mettano in pericolo gli altri abitanti», spiega dogna Laura, la
responsabile della struttura. «La vita in Casa Zulema inizia alle 7 di mattina,
con la colazione nella sala da pranzo comune e la prima distribuzione dei
farmaci. Poi i bambini vanno nella scuola vicina, mentre gli adulti
contribuiscono, a seconda delle condizioni fisiche e psicologiche, alla pulizia
della casa e del giardino, alla preparazione del pranzo e della cena. Nel
pomeriggio c’è un momento di preghiera e di riflessione spirituale. La sera,
dopo la nuova tornata di farmaci, che sono molto forti, la gente sente presto
il bisogno di riposare. La domenica spesso si organizzano escursioni nei
dintorni».

Nella casa operano volontari e
persone che ricevono uno stipendio, anche se minimo, come la cuoca, la donna
delle pulizie e un’amministratrice tuttofare. Solo due sono le persone che
vivono 24 ore su 24 nella casa: dogna Laura e Claudia che accompagnano e
si prendono cura della vita di circa 20 persone tra adulti e bambini.

«La casa vive principalmente di
carità e sono molte le aziende, le parrocchie e semplici individui che offrono
ciò che è necessario: cibo, vestiario, biancheria, prodotti d’igiene personale,
quadei e giochi per i bambini, medicine; ma non gli antiretrovirali, che sono
dati dall’ospedale. Sono molte le persone e i gruppi che si ricordano della
casa per condividere quello che hanno» ribadisce la responsabile.

Esiste, quindi, tutta una parte
di Honduras che ha a cuore il prossimo e che sta alzando la propria voce. Il
futuro prossimo dirà se riuscirà a dare un volto nuovo, migliore, al proprio
paese.

Daniele Biella

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Daniele Biella




Mukululu: Ricominciare, Sempre

 


Mukululu. Fratel Mukiri a quota 80: omaggio a un vecchio combattente che non molla mai.

(foto Gigi Anataloni e TWS)

La vecchia Land Rover arranca sui ripidi saliscendi della pista. Lasciato il campo base di Mukululu, ci dirigiamo nel cuore della foresta del Nyambene. L’autista, abbondanti capelli bianchi al vento, guida sicuro. Ogni tanto qualche parola per farmi notare un albero di canfora, una frana recente, un sentirnero che si perde nel verde, le tracce ingoiate dalla vegetazione di lavori iniziati quarant’anni fa. Il piccolo Raimondo, sul sedile posteriore, continua a parlare, sentendosi escluso dal gioco dei grandi.

La diga semivuota a marzo 2011

Arriviamo alla diga numero uno che tracima allegra. Un piccolo bacino quasi invisibile: acqua e foresta hanno lo stesso colore. Diga numero due, il laghetto si fonde col blu del cielo mentre una cascatella di schiuma bianca restituisce al torrente Ura l’acqua in sovrappiù. Ma per poco. Lasciata la strada, l’autista, bastone in mano, Raimondo che gli trotterella davanti e dietro, s’inerpica con passo lento ma sempre deciso su un sentirnero appena tracciato tra gli alberi. Poi la foresta finisce di colpo. Lavoro dell’uomo. Un ampio spazio è stato disboscato. Sullo sfondo, dove la valle si chiude come un imbuto, ci sono uomini al lavoro con picconi, pale e carriole. Una diga sta crescendo, anzi è a buon punto dopo un anno di lavoro. L’acqua si sta già raccogliendo nella parte più bassa del bacino. Grossi tubi la immettono nelle cistee di distribuzione dell’acquedotto di Tuuru. I lavori procedono spediti o quasi, a dispetto della mancanza di fondi e delle continue emergenze. Da una parte si scava, dall’altra s’innalza; qui si recupera l’argilla, là si compatta. Cordicelle, bastoncini e fili vari, tracciano un reticolo preciso per guidare i lavori. L’autista, che è il capomastro, ispeziona, controlla, rimbrotta, corregge, incoraggia. Mi ha portato a vedere il suo sogno, o parte di esso: un nuovo bacino in cui immagazzinare acqua a sufficienza per 250.000 persone, senza contare gli animali, per almeno un mese nel caso – probabilissimo – di una nuova siccità. Una diga a basso costo, essenziale, nell’attesa del grande sogno, la diga definitiva, capace di un milione di metri cubi, non solo 120.000 attuali, che risolverebbero per sempre la sfida di una vita.

La diga piena nel 2012, a gennaio

Era il 3 gennaio 2012. Ero ospite nella casa del «vecchio orso», amico carissimo dai miei primi anni di teologia, inizio anni Settanta. Fratel Giuseppe Argese, che gli amici chiamavano «ursus in silvis» (l’orso nella foresta), nonostante gli acciacchi, aveva voluto accompagnarmi personalmente a vedere il progresso della sua lunga battaglia per l’acqua, iniziata nel 1969 a Tuuru, nel Meru (Kenya), per il bene dei molti bambini poliomielitici. Non ho più scritto di quei giorni, perché il mio viaggio non si concluse come pianificato. Fu fratel Giuseppe stesso che dovette organizzare per me un avventuroso trasporto a un ospedale di Nairobi dopo che il 5 gennaio un infarto mi aveva atterrato sulla collina di Mekinduri. «Non lasciarmi anche tu», aveva detto mentre mi portavano via.

Scrivo ora, queste poche righe perché molte cose sono successe da allora. Mi aiuto con i messaggi flash di fratel Giuseppe.

«Da settembre 2010 razioniamo l’acqua. Le piogge (son) fallite. Sono sei mesi che mi angoscia questo problema. Sto preparando un terzo invaso nella foresta dalla capacità di 120.000 m3, anche se non so dove e come avere i soldi, ma la Divina Provvidenza ha sempre provveduto» (28/02/2011). Più di una volta in nostro Mukiri (il silenzioso) ha dovuto mandare il laconico messaggio: «Ho bisogno di soldi per pagare gli operai e il materiale della diga» (04/03/2012). «Ogni volta che andavo in foresta, (a) vedere la diga 2 vuota (a causa della siccità), mi sentivo stringere il cuore» (02/03/2012), aveva appena scritto. Da qui nasceva l’urgenza di catturare più acqua possibile durante le abbondanti piogge e accelerare i lavori. «Grazie a tutti gli amici. Tutto il 2011 (è stato) sotto pressione e angoscia, (costretto) a fermare tutto! (per mancanza di fondi). Abbiamo ancora bisogno del vostro aiuto, stiamo completando la diga» (05/04/2012).

I lavori sono andati avanti, ma non finiti. Mukiri ha dovuto fermarsi, e non solo per mancanza di quid. Non ce la faceva più, le gambe non reggevano, la salute traballava, gli anni si facevano sentire. È rimasto bloccato a Nairobi per oltre un mese, per rimettersi in sesto.

La distruzione della predan n. 3 a ottobre 2013

Il 13 ottobre 2012 ho ricevuto da Mukululu un file zippato, «Dam 3 disaster» (il disastro della diga 3). Poche foto di uno squarcio enorme: il bacino vuoto, l’acqua andata. Fratel Giuseppe era ancora a Nairobi. Mi è venuto un groppo alla gola. Solo due settimane dopo, finalmente una email dal fratello. «Vedi disastro diga 3. (Nella) notte 12/10/2012 dalle ore 7pm alle ore 3am (sono caduti) 178 millimetri di pioggia, volume in m3: 934.500 (nell’intero bacino). Sono tornato a Mukululu domenica 21 ottobre, sto benino anche se ho problemi di gamba destra. Intestino (: l’) operazione (ha) rimosso 7 polipi, (mi si è) riaperta ulcera duodeno, (ho) perso molto sangue, sono molto debole e giallo, pieno di guai. … Uniti nella preghiera, siamo nelle mani della Divina Provvidenza, poteva andare peggio. Non ci sono vittime, solo danni (là) dove il volume d’acqua è passato» (25/10/2012).

Due anni di lavoro spazzati via in una notte. Un terribile colpo basso anche per lui, vecchia guardia che non si arrende mai.

Alla mia risposta che balbettava incoraggiamento, scriveva: «Carissimo Gigi, grazie amicizia, ormai sono quasi solo a combattere. Non preoccuparti» (03/11/2012). Si era già messo in moto per ricominciare. Un milione di metri cubi di pioggia che ti scappano sotto il naso in una notte… ci deve essere il modo di domarli.

Il 10 novembre scorso è stato il suo compleanno: 80 anni. Non so se c’era voglia di far festa quel giorno a Mukululu. Immagino che se han tagliato una torta, la fetta più grossa sia andata al piccolo Raimondo. Ero là quando celebrò i 75, che coincisero anche con i suoi 50 anni di Africa. C’erano molti amici quel giorno. Oggi il vecchio orso della foresta è più solo. Forse quel giorno ha passato diverse ore nella quiete silenziosa della nuova bellissima chiesa costruita con pazienza certosina. L’impresa che lo vede lottare da mezzo secolo lo sta consumando. Ma non demorde. Lo spinge un’indistruttibile fiducia nella Divina Provvidenza. Quella stessa fede che tanti anni fa gli fece dire sì al vescovo che gli chiedeva acqua per i piccoli poliomielitici di Tuuru nonostante non avesse la minima idea di dove trovarla e con essa i soldi necessari. E il grande amore per la gente del Nyambene, la sua gente, con cui ha condiviso giornie e dolori, fatiche e speranze, fallimenti e grandi risultati realizzando insieme, colpo di machete dopo colpo, zappata dopo zappata, badilata dopo badilata, scarriolata dopo scarriolata un’opera titanica di grande impatto umano e ambientale che ha cambiato la vita di un’intera regione.

Vuoi dare una mano?

Gigi Anataloni

Nota:

Rimando a MC settembre 2010, pp. 17-23 e MC febbraio 2008, pp. 10-15 per una documentazione più ampia su fratel Argese e il progetto dell’acquedotto di Tuuru. Cerca «Argese» in questo stesso sito.

PER AIUTARE:

se pensi di poter dare una mano a completare il progetto puoi usare clicca sul link delle cornordinate bancarie nella home page. Oppure connettiti a «ilMioDono» e trovi una voce specifica per questo progetto.




CARLO E GERY, CUORE ASHÁNINKA

Lui è un prete e missionario, lei un’infermiera. Arrivarono in Perú dalla provincia di Caserta rispettivamente 32 e 25 anni fa. Lui opera nella selva
centrale, tra le popolazioni indigene (shipibo, asháninka ealtre) calpestate dallo stato e dalle multinazionali. Lei
lavora nella periferia urbana di Lima con la popolazione a rischio, bambini e
adolescenti soprattutto.Si chiamano Carlo e Geremia (Gery) Iadicicco, fratello e sorella. Questa è la
loro storia. Piena di sorprese.


Villa El Salvador. 
Sulla maglietta bianca scende un rosario di fattura indigena, sul viso
forte un vecchio paio di occhiali a goccia. Carlo Iadicicco, prete e missionario fidei donum, ha 67
anni, ma mette in mostra un fisico sportivo e un’energia coinvolgente che esce
prepotente dalla voce e dalla gestualità. 
Padre Carlo è di passaggio a Villa El Salvador, periferia di Lima. 

«Sono in Perú da 32 anni. A parte qualche
capatina in Italia, un breve periodo sulla costa e qui a Villa, la metà di
questi anni li ho trascorsi nella Cordigliera centrale delle Ande, in Ancasch.
Dal 1995 vivo invece nella selva subtropicale, conosciuta come bosco umido
amazzonico o selva bassa. Però, in quanto “missionario itinerante”, mi muovo in
un territorio vasto quanto l’Italia meridionale». Quell’Italia meridionale da
cui padre Carlo proviene: Bellona, provincia di Caserta. Mamma Anna e papà Ciro
Iadicicco hanno fatto le cose in grande: undici figli, di cui due emigrati in
Perú. Qualche anno dopo la sua partenza per il paese andino, Carlo è stato
infatti seguito dalla sorella Geremia detta Gery, maestra e infermiera, che a
Villa El Salvador vive e lavora.

DA GUSTAVO
GUTIÉRREZ AGLI INDIOS

«Erano gli anni Settanta ed io – racconta padre Carlo – ero
un giovane di belle speranze dentro il contesto della Chiesa. Ci fu un
terremoto devastante, che fece oltre 80 mila vittime. Io però cominciai a
interessarmi di Perú non soltanto a causa di quel tragico evento, ma anche
perché vi operava una Chiesa che faceva un cammino molto interessante,
capeggiata dal vescovo di Chimbote, mons. Bambarén1. A Chimbote c’erano le
prime conferenze di Gustavo Gutiérrez sulla teologia della liberazione2. Io ne
ero affascinato sia dal punto di vista intellettuale che umano. Qualche anno
dopo questi eventi, riuscii a farmi mandare in Perú».

Oggi padre Carlo lavora nel dipartimento di Ucayali, nella
zona centro-orientale del Perù, al confine con il Brasile. Ha una parrocchia
nella cittadina di Bolognesi, provincia di Atalaya. Tuttavia, egli si descrive
come un «missionario itinerante».

«La maggior parte della mia quotidianità la passo andando di
comunità in comunità. E ciò mi impedisce di avere una équipe pastorale, con la
quale sarebbe difficile muoversi. C’è stata anche una circostanza scatenante
che mi ha fatto pendere per questo stile di vita. È stato quando ho cominciato
a seguire un gruppo di indios – un sottogruppo di Nahua – che erano stati
cacciati dai luoghi dove vivevano da un’invasione di madereros (tagliaboschi).
Il mio primo contatto è stato invece – era il 1995 – con gli indigeni della
famiglia asháninka del Basso Urubamba e del Tambo. Da allora ho scoperto che io
potevo dare senso alla mia vita di missionario e di uomo sposando la causa
indigena». 

Per raggiungere i diversi villaggi, si muove specialmente
via lancia o canoa, percorrendo il grande Ucayali e i suoi affluenti. Oltre che
con gli Asháninka, padre Carlo lavora con gli Shipibo-Conibo, ma ha contatti
anche con gruppi di Yaminahua, Amahuaca e Cashinahua.

Spesso, almeno per le persone estranee alla tematica, gli
indigeni sono un’entità unica e omogenea. Non è così.

«Quello indigeno – spiega il missionario – è un mondo di
straordinaria ricchezza e varietà. Tuttavia, esiste una matrice comune che lo
attraversa e che lo rende differente dal nostro Occidente. Il mondo indigeno
non prevede un’esistenza fatta di accumulazione di beni. In secondo luogo, noi
occidentali, a partire dalla cultura greca e dalla filosofia socratica in
particolare, abbiamo diviso il mondo in Dio, uomini e natura. I popoli indigeni
non prevedono una divisione tanto meccanica. Al contrario, cercano una vita di
armonia con se stessi, con la natura e con gli spiriti».

Padre Carlo ha idee sue. Come quando nega l’esistenza dei
popoli isolati («un’esagerazione di etnologi e antropologi», sostiene) o quando
contesta il sistema delle Nazioni Unite sulla riduzione delle emissioni dovute
alla deforestazione3. Ma diventa serio e perentorio quando spiega le emergenze
attuali.

IL VIRUS E L’UTOPIA

«Il primo problema è il collasso dell’Amazzonia. Io non mi
iscrivo dentro il grande, rispettabile e ammirevole movimento ambientalista. Né
voglio fare del terrorismo ecologico. Io sono semplicemente un prete che vede
nella natura e nell’Amazzonia una creazione di Dio. A me interessa la vita, sia
essa umana, animale o vegetale. Il fatto certo è che la sopravvivenza delle
popolazioni indigene è legata in maniera indissolubile all’ambiente in cui esse
vivono. Tre quarti del territorio amazzonico del Perú è in concessione a
compagnie straniere che vanno ad operare direttamente su terre, territori e
risorse dei popoli indigeni».

Dal punto di vista dello sfruttamento petrolifero, la vasta
zona geografica dove opera padre Carlo corrisponde al Lotto 1264. Titolare
della concessione è la True Energy, società petrolifera a capitale canadese. «Si
sono piazzati con alcuni pozzi anche se il petrolio è di pessima qualità e
molto profondo. Con un prezzo oltre i 100 dollari al barile anche un prodotto
scadente genera profitti. Questi stanno rovinando tutto e non hanno nessun
contatto con le popolazioni indigene del luogo. Arrivano con l’elicottero,
usato per portare di tutto, fin’anche l’acqua in bottiglia per gli operai. La
mia avversione non è soltanto verso l’inquinamento ambientale, ma anche verso
un inquinamento che è etico, morale e civile».

La tracotanza delle compagnie minerarie è conosciuta. In Perú,
nulla è cambiato dopo i fatti di Bagua (i tragici scontri tra indigeni e
polizia)5 e dopo l’approvazione della legge di consultazione preventiva delle
popolazioni indigene6. Nel Perú della crescita economica su base estrattiva, il
«pericolo-tenaglia» è concreto: nel sottosuolo ci sono le risorse petrolifere,
sopra c’è il legname pregiato, in mezzo i popoli indigeni.

«Purtroppo – spiega padre Carlo -, si è diffuso un virus che
vede l’Amazzonia come un magazzino di beni da depredare. L’utopia è sempre
migliore della realtà. L’utopia ha mosso i grandi uomini, da san Francesco al
Mahatma Gandhi. La soluzione utopica sarebbe di rendere l’Amazzonia off-limits».

LA PASSIONE PER IL POSSIBILE

Se l’utopia non è praticabile (almeno per il momento), la
domanda è: cosa si può e deve fare?

«Facciamo un esempio – spiega -, comparando la situazione
del Canada e della Svezia a quella dell’Amazzonia. Da secoli il Canada e la
Svezia riescono a vendere i propri pini senza compromettere i loro boschi,
perché il Perú non potrebbe vendere il cedro e il mogano senza distruggere le
proprie foreste? Ecco, almeno uno sviluppo sostenibile di questo tipo andrebbe
perseguito. Certamente non è facile, considerando che queste imprese
transnazionali sono più forti degli stati, soprattutto di stati come il Perú».

Padre Carlo è un uomo di cultura: sa spaziare con cognizione
di causa dalla Bibbia a Gramsci. Ma è anche e soprattutto un uomo pratico che,
al cospetto della realtà, vuole poter agire concretamente. «Con Gery, ho sempre
sostenuto che la nostra filosofia deve essere dettata dalla “passione per il
possibile”. Che significa: facciamo quello che possiamo fare, partendo da
relazioni microsociali. Se cerchiamo lo scontro, dobbiamo sapere che
storicamente i poveri e dunque anche gli indigeni hanno quasi sempre perso.
L’importante è ricordare che gli indigeni non sono relitti storici. Né sono
quelli descritti da Rousseau con il mito del buon selvaggio7. Faccio un esempio
banale: se dai a un indigeno un cellulare, puoi essere certo che non se lo
scollerà dall’orecchio finché vive. Oppure si guardi ai giovani indios che
studiano in città. Quando tornano al villaggio, passano con totale disinvoltura
dall’indossare scarpe e occhiali a camminare a piedi nudi e con le frecce in
mano. Io li chiamo “pendolari della cultura”».

LA CAUSA INDIGENA È CAUSA DELL’UMANITÀ

Chiediamo a padre Carlo se, a suo parere, la causa indigena
non finisca per interessare soltanto a ristretti gruppi di persone come, ad
esempio, antropologi, etnologi e ambientalisti.

«Non lo credo. Gli indigeni sono essenziali per il mondo non
soltanto a motivo dell’ecosistema in cui essi si muovono ma anche per le
alternative di vita e di modello economico che portano avanti. Per questo ne ho
la certezza: la causa indigena non riguarda soltanto i popoli indigeni ma tutta
l’umanità».

Geremia detta Gery ha ascoltato in rispettoso silenzio la
nostra conversazione con il vulcanico fratello missionario. Ma anche lei ha
molte cose da raccontare (la sua storia qui sotto)8. Una, la più
bella tra tutte, le siede accanto. Sono Shany e Gery, sorelline asháninka, che
lei ha adottato e che ora si stringono attorno allo zio Carlo. Prete italiano
dal cuore asháninka.

Paolo Moiola
 

Note

1 – Sulla figura di mons. Bambarén si legga l’intervista La
vita prima del debito (MC, maggio 2000), a cura di Paolo Moiola.

2 – Su Gustavo Gutiérrez si leggano le interviste Gli esclusi
non si arrenderanno (MC, febbraio 1998) e Ma i giovani statunitensi mi dicono
che… (MC, dicembre 2003), entrambe a cura di Paolo Moiola.

3 – Si tratta del programma delle Nazioni Unite denominato «Redd».
Il sito ufficiale: www.un-redd.org.

4 – Sulla questione dei lotti in cui è stato suddiviso il
Perú, si legga: Paolo Moiola, Splendori e miserie del lotto 122, MC, novembre
2011.

5 – Gli scontri avvennero il 5 giugno 2009. Lasciarono sul
terreno almeno 33 morti, tra indigeni e poliziotti. Il numero reale di vittime
potrebbe però essere stato maggiore.

6 – Si tratta della Legge 29785, del 6 settembre 2011, dal
titolo di: «Ley del derecho a la consulta previa a los pueblos indígenas u
originarios, reconocido en el convenio 169 de la Organización inteational del
trabajo (Oit)».

7 – Secondo il «mito del buon selvaggio», in origine l’uomo è
un animale buono e pacifico, corrotto successivamente dalla società e dal
progresso.

8 – Le foto di questo reportage e la foto della copertina
del numero sono di Annalisa Iadicicco e Marlon Krieger:  www.annalisaiadicicco.com.

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Box:

Geremia Iadicicco
A VOLTE, LE FAVOLE SI AVVERANO

Dagli ospedali dell’Italia ai centri di salute della selva
amazzonica. Dalle scuole italiane a quelle di Villa El Salvador. Un percorso professionale
ma soprattutto di vita.

Villa El Salvador. Non diremo l’età di Geremia detta Gery
perché non sta bene. Diremo soltanto che porta benissimo i suoi anni. Quando ha
poco meno di 18 anni, parte da Bellona, provincia di Caserta, per andare a lavorare
al Nord, in Liguria, con il suo diploma di maestra sotto il braccio. Lavora
come maestra-educatrice per 5 anni in vari istituti dove, prima della riforma
della scuola, si tenevano i bambini con qualche problema. Dopo la riforma,
questi istituti vengono chiusi e Geremia decide di frequentare una scuola per
infermieri professionali all’ospedale Galliera di Genova. Ottenuta la
qualifica, per 13 anni rimane fedele al suo ruolo di infermiera-caposala. Poi
la svolta.

«In quegli anni – racconta – maturai il desiderio di
viaggiare e inserirmi in un altro contesto sociale e politico, per darmi
l’opportunità di vivere, in una forma più coerente e autentica, i miei ideali
cristiani, politici e sociali. Scelsi il Perú perché lì viveva da molti anni
mio fratello Carlo, sacerdote e missionario, con cui condividevo molti di
quegli ideali».

Gery parte da Genova 25 anni fa con la Ong Mlal (Movimento
laico America Latina), inserita in un progetto di «Salute comunitaria», che si
svolge alla periferia di Lima, in una città in costruzione chiamata Villa El
Salvador, dove tuttora vive. Negli anni successivi, lavora per diversi progetti
sociali e di sviluppo, sempre all’interno di gruppi  professionali impegnati con i settori della
popolazione più a rischio, come bambini e adolescenti. Trova aiuto e supporto
in molte persone: «Sono stata costantemente accompagnata – ricorda lei con
riconoscenza – da persone di alto valore morale e grande sensibilità sociale,
sia peruviani che italiani. Mio fratello Carlo, la mia famiglia, amiche e amici
inseparabili hanno fatto e fanno il possibile per aiutarmi – non soltanto dal
punto di vista economico – nella realizzazione dei progetti a cui mi sono
dedicata e ancora oggi mi dedico».

Gery trascorre tre dei suoi venticinque anni in Perú nella
selva amazzonica, accompagnando il fratello nella sua missione dedicata ai
nativi di varie etnie. Lavora in un piccolo progetto di salute, con i promotori
di varie comunità indigene, asháninka soprattutto. Condivide le proprie
conoscenze della medicina occidentale, ma impara anche i fondamenti della
medicina indigena.

«Questi anni vissuti nella selva furono per me i piú
significativi, soprattutto sul piano umano e personale. Dalla selva infatti
portai a Villa El Salvador il regalo più bello: una bimba asháninka a cui demmo
il nome di Shany. Aveva solo un anno, ora ne ha 16 ed è stata raggiunta dalla
sorellina Gery di 11 anni, che vive con noi da 6».

A vivere con loro c’é anche la nipote Paola, che collabora
nel programma di cui Geremia Iadicicco è responsabile. Si tratta di un progetto
educativo che si svolge nella periferia di Villa El Salvador. «Circa 13 anni fa
– racconta -, al ritorno dalla selva, insieme ad un gruppo di persone iniziammo
un lavoro con bambini e adolescenti della zona periferica della città. Era la
zona più povera, abitata da una popolazione emarginata ed esclusa. Creammo due
programmi. Il primo è formale: una scuola matea, “Arenitas del Mar”, che
adesso è anche elementare. Il secondo è invece un doposcuola comunitario –
l’abbiamo chiamato “Escuela Deporte y Vida” (Scuola sport e vita) -, aperto a
tutti i bambini, bambine ed adolescenti, che cercano uno spazio dove poter
risolvere le loro necessità: fare i compiti, stare insieme facendo sport, arte,
manualità, così come dice il nome». Questi programmi sono gestiti dal Cedec («Centro
de educación y desarrollo comunitario»), un’associazione senza scopo di lucro
di cui Gery è presidente. 

I progetti di Geremia Iadicicco e del fratello Carlo hanno
trovato l’entusiastico appoggio di molti abitanti di Bellona, loro paese
natale. Tanto che, nella cittadina casertana, sono nate due associazioni di
supporto, la recente «Pachacamac» e soprattutto «Alas de Esperanza»1.
Quest’ultima è nata come gruppo musicale che suona musica andina con strumenti
tipici della tradizione musicale latinoamericana. Quando una favola diventa
realtà, anche la musica deve essere all’altezza.

Paolo Moiola
 
Nota:1 – Il sito ufficiale dell’associazione e gruppo musicale «Alas
de Esperanza» (Ali di speranza): www.alasdeesperanza.it. Sul sito è possibile
ascoltare brani della loro musica.

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Paolo Moiola




UNA STORIA AFFASCINANTE! 25 anni di presenza in Corea del Sud per gli IMC

I Missionari della Consolata celebrano 25 anni di presenza in Corea del Sud.
Arrivati in Corea del Sud il 20 gennaio 1988, i primi quattro
missionari della Consolata iniziarono l’evangelizzazione tra i ceti sociali più
poveri e l’animazione missionaria nella Chiesa locale.

Con  l’arrivo di altro personale la
loro missione si caratterizzò per
il dialogo con le grandi religioni e, da ultimo, per il lavoro tra gli
immigrati stranieri. Fiore all’occhiello sono i 6 coreani entrati nella
nostra famiglia missionaria e già operanti in altri continenti.


Per uno sciopero all’aeroporto di Roma, arrivammo a Seoul con un
giorno e mezzo di ritardo, di notte, senza nessuno che ci aspettasse. Eppure potemmo
fin dall’inizio assaggiare la gentilezza e l’organizzazione perfetta del popolo
coreano. La ragazza del Centro di Informazioni prese con un bel sorriso il
numero di telefono dei Francescani che le porgevamo, li chiamò per capire bene
la nostra destinazione, fece arrivare il taxi all’uscita dell’aeroporto e, in
meno di un’ora, eravamo alla casa dei frati in centro Seoul. Era mezzanotte. «Ben
arrivati in Corea – ci accolse padre Beitia, superiore spagnolo dei Francescani
-. Siete a casa vostra!».

Così cominciò, il 20 gennaio
1988, la storia dei missionari della Consolata in Corea. Guardandola
all’indietro, 25 anni dopo, si dimostra una storia «affascinante».

Coreano, kimchi e
fantasia

L’aria era
satura dei lacrimogeni che la polizia usava in dosi generose per fronteggiare
le dimostrazioni quasi giornaliere degli studenti contro un governo che si
dichiarava democratico, ma che della democrazia cominciava solo a balbettare le
prime sillabe; e noi, tappandoci la bocca con il fazzoletto e asciugandoci le
lacrime che ci inondavano gli occhi, raggiungevamo la nostra classe per la
lezione di coreano, all’Università Yonsei. Ci chiedevamo dove fossimo capitati.

Le speranze e le attese
dell’Istituto per l’inizio assoluto della sua missione in Asia erano grandi.
C’erano stati accesi dibattiti prima che il Capitolo Generale del 1987
decidesse l’apertura all’Asia e scegliesse la Corea del Sud.

La nostra preparazione, era stata
più spontanea che altro: due mesi nella casa generalizia a Roma per conoscerci
e frateizzare, leggere articoli sulla situazione sociale, politica, culturale
e religiosa della Corea, avviare contatti epistolari con il vescovo della
diocesi di Incheon che ci avrebbe accolti… in attesa del sospirato visto per
la Corea. Insieme alla Direzione Generale di allora, soprattutto, «sognavamo».

Sognavamo una chiara e decisa «scelta
dei poveri», per fare con loro e per loro grandi cose. Sognavamo di offrire
alla Chiesa locale la nostra bella testimonianza di vita consacrata, con uno
stile comunitario vero, intriso di comunione, preghiera e fratellanza.

Sognavamo l’incontro con le
grandi religioni dell’Asia, di cui avevamo qualche idea superficiale, ma i cui
nomi ci riempivano di misteriosa curiosità: buddismo, confucianesimo,
sciamanesimo. Sognavamo di diventare un possibile «ponte» verso la grande e, in
quel momento, inaccessibile Cina. Sognavamo, soprattutto, di dare una buona
mano alla Chiesa locale, che allora contava solo il 3% della popolazione, per
farla crescere in numero e qualità.

Sognavamo, ma ora, tra l’odore
acre dei lacrimogeni, ci chiedevamo dove fossero finiti i nostri sogni.

La lingua coreana si rivelò
subito un osso più duro del previsto; per sentirci sufficientemente a nostro
agio ci vollero 4-5 anni di sforzo costante. Anche l’adattamento a cibo, agli
usi e costumi coreani richiese molta buona volontà: dopo 25 anni posso dire che
è buono anche il kimchi (cavoli piccanti).

Il Paese era in pieno boom
economico e i poveri stavano «sparendo» velocemente dall’orizzonte. La Chiesa,
piccola ma ben strutturata e organizzata, contava già forze pastorali
sufficienti per le sue parrocchie, i laici impegnati erano numerosi e i
seminari erano strapieni di candidati. Non c’erano parrocchie da affidare a
missionari stranieri. Dove eravamo capitati? Qual era il nostro posto da
missionari in Corea? Missione in Asia sì, ma «quale» missione?

Noi siamo  per i non cristiani!

La nostra prima esperienza tra i
poveri fu a Man-sok-dong, un «villaggio della luna» di Incheon, come sono
chiamati in Corea i quartieri periferici delle città, specie di baraccopoli
dove si ammassavano i poveri; quartieri che già allora stavano sparendo,
inghiottiti dai grattacieli dei progetti di ri-costruzione delle città. Visto
che la Chiesa locale non aveva bisogno di noi come parroci (anche se aiutavamo
molto nelle parrocchie); dato che l’assistenza sociale nel paese era ben
strutturata ed efficiente (con suore in prima linea in un numero impressionante
di centri per portatori di handicap, orfanotrofi, ospedali, case per anziani) e
la società non aveva bisogno di noi per costruire scuole e ospedali, scavare
pozzi e fare opere di sviluppo… constatato che la nostra immagine tradizionale
di missione era impossibile da realizzare andammo in crisi!

Una crisi molto benefica,
peraltro; capimmo e accettammo che Qualcuno ci stava purificando, tagliando i
rami secchi: i «nostri» progetti e sogni, per renderci più liberi e disponibili
a seguire i Suoi! Privati del nostro stile classico di missione, riscoprimmo
tutta la bellezza e validità del carisma trasmessoci dal beato Giuseppe
Allamano: «Voi siete per i non cristiani».

Si trattava solo di cercare il «come»
essere per i non cristiani. E non fu facile. Lo Spirito Santo, però, al momento
opportuno ci venne in aiuto, come sempre ha fatto. Così il discernimento è
diventato il mezzo naturale per cercare di scoprire cosa e dove e come il
Signore volesse da noi nella missione. L’allora superiore generale, padre
Giuseppe Inverardi, ci offrì fino alla fine vicinanza e appoggio «affettivi»,
assieme a una preziosa libertà di pensiero e di opzione. La visita di uno dei
consiglieri di allora, padre Ramon Cazallas, ci aiutò a rompere gli indugi e a
decidere la nostra prima opzione missionaria: creare una «comunità
d’inserimento» nel quartiere di Man-sok-dong. Si trattava di «vivere assieme ai
poveri», più che fare qualcosa per loro.

Mentre Paco Lopez (spagnolo) e
Alvaro Yepes (colombiano) restavreno nella casa presa in affitto a Yok-kok,
nostro quartiere generale, Luiz Emer (brasiliano) e io ci spostammo, il
mercoledì delle ceneri del 1992, in una casetta esattamente come tutte le altre
di Man-sok-dong, dando inizio alla seconda comunità in Corea, dedita
all’evangelizzazione dei poveri urbani.

Angeli, amici e benefattori

L’arrivo nel quartiere di un
gruppo di preti stranieri (e la nostra presenza nelle parrocchie vicine) suscitò
molta curiosità nei cattolici. Le visite a casa si susseguivano: gruppi di
catechisti, donne della Legio Mariae; membri dei cori parrocchiali;
persone singole o gruppetti di amici. Quante volte dovemmo rispondere, nel
nostro coreano ancora incerto, a domande da interrogatorio di quarto grado: sì,
siamo ognuno di un paese diverso; sì, viviamo assieme e di solito non
litighiamo; sì, anche in Europa ci sono le quattro stagioni e le angurie; sì,
ci piace il kimchi (anche se allora era una bugia).

Monica, una signora della parrocchia,
si metteva spesso a nostra disposizione con la sua auto per fare le spese,
accogliere i visitatori all’aeroporto, per portarci nel luogo scelto per le
nostre vacanze comunitarie estive. Pundo, un signore che faceva il taxista, era
a nostra disposizione per i problemi tecnici concreti quotidiani. Francesca,
Sofia e tante altre catechiste, erano sempre a disposizione per correggere il
testo in coreano delle nostre omelie. E tante altre persone ci passavano
accanto: veri angeli del Signore per accompagnarci nel cammino e aiutarci a
credere che Lui non ci lasciava soli.

Tale situazione offriva una
preziosa opportunità per l’animazione missionaria. Cominciammo con un incontro
mensile di formazione per chi lo volesse; poi qualche ritiro spirituale; incontro
mensile missionario per gli alunni del catechismo delle elementari e medie.

Il «Gruppo amici» era fondato!
Quel fenomeno di Alvaro, destreggiandosi nei meandri della burocrazia locale,
riuscì a ottenere un numero di conto corrente «ufficiale», con grande sorpresa
di altre comunità religiose che non c’erano ancora riuscite. Così anche le
offerte degli amici cominciarono ad affluire costanti e generose.

Da quel momento le cose si sono
molto evolute; prima di tutto costruimmo la nostra casa-madre a Yok-kok. In
questa circostanza l’angelo inviato da Chi continuava a purificarci ma sempre
con un occhio di riguardo, rispondeva al nome di Kim Joseph. Questi, esperto di
costruzioni, si fece carico di «sorvegliare» la costruzione al posto nostro.
Essa ci pareva enorme a quei tempi, mentre adesso è diventata un nanerottolo,
schiacciato dai grattacieli nel frattempo sorti accanto.

Fin
dall’inizio ci preoccupammo di avere gli spazi necessari per l’animazione
missionaria e per altre eventuali attività non ancora previste. C’era infatti
un giovanotto che ci si era avvicinato e ci «annusava» con curiosità e
interesse, finché un giorno prese il coraggio a due mani e ci chiese se fosse
potuto anche lui «diventare come noi». Iniziò così anche il discorso del
discernimento vocazionale e quello più complesso della formazione. A quel Paolo
ne seguì un altro, poi altri giovani ancora. Purtroppo, in fasi diverse della
loro formazione, quei primi candidati coreani missionari della Consolata
uscirono tutti, ma ebbero il merito di aprire il cammino, di farci riflettere
su come agire con gli studenti coreani, quale formazione attuare con loro, come
meglio proseguire con le attività di formazione e animazione missionaria.

Il discernimento, illuminato
anche da padre Piero Trabucco, l’allora superiore generale, ci convinse a
pubblicare una rivista missionaria ad gentes per la Corea. Essa sarebbe
stata di forte aiuto per la nostra cerchia di amici, un prezioso mezzo di
animazione vocazionale, per attirare altri giovani alla bellezza della
vocazione missionaria, e un forte stimolo per la Chiesa coreana, molto attiva
nell’annunciare il Vangelo ai vicini, ma molto meno nel farlo ai lontani.

«La Consolata» in coreano

Anche questa
volta il discernimento ci spinse a lanciarci in una nuova avventura. Era il
1995. Nel frattempo erano arrivati altri missionari: Gianpaolo Lamberto,
italiano, e Antonio Domenech, spagnolo, nel 1992; Rafael, argentino, e
Benjamin, colombiano, nel 1994; per il 1996 era previsto l’arrivo di Alvaro
Pacheco, portoghese, e Juan Pablo, colombiano. Crescendo il nostro numero,
aumentava anche la capacità di lavoro. L’angelo di tuo questa volta si
chiamava Choi Marino, giornalista di professione; era seriamente ammalato, ma
ci diede ugualmente un aiuto decisivo, insieme a Shin Ki-jin, protestante, ma
amico fedelissimo, che da quasi 20 anni continua ad essere l’editore della
nostra rivista «La Consolata», naturalmente con caratteri coreani.

L’esperienza di Marino, mancato
purtroppo nel gennaio del 2000, si dimostò utile per indurci a pubblicare,
accanto alla rivista, una serie di sussidi di formazione missionaria che ebbero
il loro momento di gloria, e per riorganizzare il Gruppo degli Amici, secondo
la classica struttura coreana.

Grazie a questo, abbiamo iniziato
a organizzare «pellegrinaggi di esperienza missionaria», prima alle radici
dell’Istituto in Italia, poi alle missioni in Kenya, alle nostre presenze in
Spagna, in Portogallo e in Mongolia.

A tali iniziative si aggiungono i
problemi per trasmettere un autentico spirito missionario ad gentes alle
persone, per accrescere il numero dei benefattori, per diffondere la rivista…
ed altri ancora. Nonostante gli enormi sforzi fatti dalla nostra équipe
di Animazione missionaria vocazionale, non siamo ancora riusciti a formare un
gruppo giovanile missionario stabile. Anche in Corea le vocazioni alla vita
religiosa e missionaria sono drasticamente scese di numero. Eppure siamo
convinti che il Padrone della Vigna sia ancora al lavoro, magari sotto traccia,
per noi.

Finalmente, gli «altri»

«Mi rifugio nel santo Buddha, mi
rifugio nella santa dottrina, mi rifugio nella santa comunità dei monaci». È la
classica «professione di fede» buddista, cantilenata al ritmo del mok-tak
(un tamburello di legno concavo) dalla monaca che guida la solenne
celebrazione, mentre l’intera assemblea si profonde in rispettosi inchini a
ogni invocazione. Sono alla cerimonia pubblica per la festa della nascita di
Buddha; vi partecipo su esplicito invito del vescovo di Tae-jon, mons. Ryu
Lazzaro, che porta alla comunità buddista gli auguri della Chiesa cattolica. I
molti monaci, di vari ordini buddisti, e la grande folla ascoltano con
attenzione quando il vescovo legge loro il messaggio augurale ufficiale,
pubblicato ogni anno per l’occasione dal Pontificio consiglio per il dialogo
interreligioso.

Già ai tempi di Man-sok-dong
avevo avuto la possibilità di avvicinare qualche mu-dang (donna
sciamana) e di assistere a qualcuno dei loro rumorosissimi riti. Così pure, fin
dal nostro arrivo in Corea, avevamo visitato numerosi templi buddisti,
meravigliandoci al vedere una religione «viva» che guidava la vita di milioni
di persone.

Il grande sogno d’incontrare le
religioni non cristiane del paese, coltivato ancor prima di arrivare in Corea,
pur sempre vivo, era stato a lungo dilazionato a causa di altre necessità della
nostra missione, così come si stava sviluppando. Solo padre Antonio, arrivato
con la seconda ondata, dotato di sensibilità particolare in questo campo,
intrecciava le prime relazioni con monaci buddisti e membri di altre religioni.
Ma a dare la carica fu la visita di padre Alberto Trevisiol, allora vice
superiore generale: in un nuovo discernimento fu deciso di assumere il dialogo
interreligioso come dimensione costitutiva della nostra missione in Corea,
espressione chiara del nostro essere «per i non cristiani». Correva l’anno di
grazia 1995.

La decisione formale, però, prima
di diventare effettiva, ebbe bisogno di un lungo iter di preparazione.
Accompagnando Antonio, che aveva cominciato a studiare Religioni Comparate
all’Università cattolica di So-gang, cominciai anch’io a frequentare gli «altri»,
a partecipare a seminari di presentazione delle varie religioni per capire
meglio la loro fede e vita, a «pellegrinaggi interreligiosi» per visitare i
loro luoghi sacri, a tessere relazioni con i fedeli delle «religioni dei nostri
vicini», come si chiamano in Corea le «religioni non cristiane», espressione
molto significativa.

Fu costruito un piccolo centro
per il dialogo interreligioso a Ok-kil-dong, non lontano dalla base di Yok-kok,
completato e inaugurato nell’aprile del 1999 dal nostro vescovo, mons.
McNaughton, alla presenza del nunzio, mons. Morandini, con la partecipazione di
amici di diverse tradizioni religiose e di un buon numero di Amici Imc. Era
nata la terza presenza della nostra missione in Corea.

Dopo un primo periodo esaltante,
pieno di incontri e attività, grazie anche alla «Catena della pace», gruppo di
dialogo di candidati leaders religiosi, che aveva preso il nostro centro
come loro base di operazioni, seguì un periodo di delusione e fatica: la Catena
della pace sciolta, ci fu qualche crisi vocazionale intea… ma non abbiamo
mai mollato! Fin dal 2002 fummo chiamati dalla Conferenza episcopale coreana a
far parte della Commissione per il dialogo ecumenico e interreligioso; più
tardi entrammo nella Commissione per il Dialogo della Conferenza coreana delle
religioni per la Pace (Kcrp), partecipazioni «ufficiali» ci diedero molta
visibilità nel campo del dialogo interreligioso, anche perché ero l’unico
partecipante «straniero».

Con alcuni dei nostri cattolici
facemmo molte visite a gruppi e centri delle «religioni dei nostri vicini»;
eravamo riusciti a creare relazioni stabili con un gruppo di fedeli buddisti di
un tempio vicino (2005-2006), grazie all’interesse e accoglienza del loro
monaco guida; ma quando questi fu spostato in un eremo sulle montagne, tutto il
processo fu interrotto. Poi intervenne il Padrone della vigna, tramite il
governo coreano questa volta: per fare spazio a un complesso di case popolari,
espropriò tutti coloro che vivevano nell’area dove c’era il nostro centro.

Nuova crisi e nuovo
discernimento. Ma l’esperienza accumulata ci permise di costruire un nuovo
centro in un’altra zona, più adatto al tipo di dialogo che nel frattempo
avevamo maturato: un dialogo di base tra fedeli di varie religioni, da
prolungare nel tempo e non ridotto a qualche sporadico incontro; un dialogo
fatto attraverso lo scambio dell’esperienza religiosa, che fosse di
arricchimento per tutti.

Nella nuova zona, nella diocesi
di Tae-jon, nel centro della Corea, il vescovo ci accolse a braccia aperte,
esclamando: «Anche noi a Tae-jon abbiamo bisogno di consolazione! E in quanto
al terreno, non preoccupatevi. Dio ha già scelto il luogo adatto per voi: si
tratta solo di trovarlo!».

Era vero. Il Padrone della vigna
ci aveva riservato un bel posto, e il solito angelo delle nostre costruzioni,
il signor Kim Joseph, accompagnato dal figlio Matteo, provvide a completare la
costruzione in tempo per celebrare i 25 anni di nostra presenza in Corea.

Burroni e vette

Dopo vari
anni di presenza a Man-sok-dong, dove l’ammodeamento dell’area diventava
sempre più concreto, cominciammo a riflettere sul senso, stile e forma di presenza
in quel «quartiere della luna», finché la comunità decise che era ora di
cambiare. Nel 2001, una comunità di tre missionari, si stabilì in un altro
quartiere di poveri, a Ku-ryong-maul, nella stessa capitale Seoul. Lo spazio
della nostra abitazione era limitatissimo, ma trovammo un’altra casetta accanto
e l’adibimmo a doposcuola per i ragazzi del quartiere e per altre attività.

Della
comunità di Ku-ryong-maul faceva parte anche il keniano Joseph Otieno. Ci
viveva felice, facendo, secondo le sue stesse parole, «le piccole cose che
c’erano da fare»: riparazioni nella casa di alcune nonnine del luogo, fare la
spesa e altri servizi per le stesse nonnine, assistenza e pratica dell’inglese
per i ragazzi del doposcuola… Era anche un vero atleta, tanto da iscriversi a
un gruppo sportivo che partecipava alle corse amatoriali. Il 18 dicembre 2005,
stava partecipando con il suo gruppo sportivo a una mezza maratona, organizzata
per raccogliere fondi a favore dei bambini sofferenti di cuore… quando il suo
cuore si fermò nei primi chilometri della corsa. Aveva 31 anni. Lo shock fu
tremendo e la crisi altrettanto dura. Non ci restava che aggrapparci alla fede
con tutte le forze. Anche perché, all’inizio dello stesso anno orribile, in un
incidente d’auto, avevamo perso David, seminarista di 29 anni. Dopo questi
fatti si prospettava una nuova evoluzione: anche la nostra presenza a
Ku-ryong-maul stava perdendo un po’ di significato. Avevamo scoperto che, da
qualche anno, i «più poveri dei poveri» in Corea erano gli immigrati stranieri,
entrati nel paese, spesso illegalmente, in cerca di lavoro. Inizialmente la
Chiesa coreana stentò a rendersi conto del fenomeno, ma poi rispose con grande
generosità e organizzazione, tipiche del popolo coreano.

Anche noi decidemmo di collaborare
con la Chiesa locale nell’opera di assistenza e accoglienza dei lavoratori
stranieri. Nell’ottobre 2007 ci siamo stabiliti anche a Tong-du-cheon, città a
nord est di Seoul, diocesi di Ui-jong-bu. Ben presto la nuova casa diventò un
punto di riferimento sicuro per i molti immigrati stranieri che vivevano nella
zona. Ed è l’espressione attuale dell’evoluzione che la famosa «opzione per i
poveri» ha avuto nella nostra storia. 

Tra avvicendamenti e nuovi arrivi
di missionari il lavoro continua, grazie anche agli «angeli», moltiplicati e
diversificati, mandati dal Signore per accompagnare il nostro cammino.

«Non vi sembra un caso
straordinario che i due primi missionari della Consolata coreani ad essere
ordinati sacerdoti abbiano tutti e due lo stesso nome: Han Gyeong-ho?» proclamò
estasiato il vescovo di Incheon, all’ordinazione di Pietro e Martino, l’8
ottobre 2009; e la numerosissima assemblea rispose con un «oh!» di meraviglia,
stretta con affetto attorno ai due novelli sacerdoti. «Sono destinati uno al
Brasile e l’altro alla Spagna – proseguiva il vescovo – inviati anche dalla
nostra Chiesa coreana come missionari ad gentes».

Sì, il Padrone della vigna, oltre
a farci sperimentare la sofferenza dei «burroni», ci dava finalmente anche la
gioia di gustare l’ebbrezza delle «vette». E il dono si è ripetuto più volte.
Nel gennaio 2011 fu la volta di Kim Joseph (ora in Colombia) e nel gennaio 2012
quella di Lee Benigno (ora in Kenya). In occasione della festa della Consolata
2012 è stato ordinato diacono Kim Giuseppino, che riceverà la consacrazione
sacerdotale all’inizio del 2013, in concomitanza con il 25° della nostra
presenza in Corea.

In dirittura di arrivo c’è anche
Marco, per ora in formazione in Argentina. Intanto continuiamo a sperare che il
Padrone della vigna mandi altri giovani decisi a offrire generosamente la loro
vita per la missione ad gentes.

Conclusione

Lunga e
affascinante la nostra storia in Corea. Molte altre cose sono successe in
questi 25 anni, ma non sono state scritte, perché ci vorrebbero troppi libri
per contenerle. Posso però affermare con certezza: è affascinante scoprire che,
dietro a ogni avvenimento, grande o piccolo che sia, c’è la mano di Colui che è
«protagonista» della missione a pieno titolo. È Lui che guida la storia e le
storie, che dà significato agli eventi, che attira tutto a Sé, in maniera a
volte evidente, a volte nascosta e discreta, come sotto traccia, ma sempre
certa.

È
affascinante scoprire come la missione non la facciano gli eventi o i momenti
importanti, che pure ci sono ogni tanto, ma le piccole cose, la vita d’ogni
giorno, che sembra non dire e non fare niente di eccezionale, ma poi si scopre
essere il tessuto di una storia intera che, vista globalmente e da giusta
distanza, si rivela come un arazzo bellissimo.

È affascinante, infine, scoprire
come la missione, l’annuncio della Buona Notizia agli altri, diventi esperienza
personale di vangelo, di fede autentica nel Signore, che di giorno in giorno si
va purificando, approfondendo, diventando linfa vitale.

A risentirci per il 50°!
 
Diego Cazzolato

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Diego Cazzolato




Haiti: La perla perduta

Incontro con il giornalista haitiano Gotson Pierre. A tre anni dal devastante
terremoto che sembrava cambiare le sorti del paese, la politica fa passi
indietro. Il presidente Joseph Martelly
governa con autoritarismo, senza curarsi della Costituzione. Mentre
clientelismo e corruzione sono in aumento.Ma il movimento sociale manifesta il suo malcontento e la tensione
cresce.Il punto di vista di un osservatore privilegiato.

(Foto Marco Bello e AFP)

Gotson Pierre, haitiano, fa il
giornalista da oltre 30 anni. Ha lavorato, tra l’altro, alla creazione di una
rete di radio rurali e nel 2001 ha fondato il Groupe Médialternatif,
un’associazione di media che vuole essere voce critica della società e dei
movimenti sociali. Tra le altre attività, Médialternatif gestisce
l’agenzia online altepresse.org che ha acquistato una grande
credibilità in patria e all’estero.

Da
maggio 2011 Haiti ha un nuovo presidente: il discusso cantante Michel Joseph
Martelly.
Quali
sono le caratteristiche del governo Michel Martelly?

«È un’amministrazione che cambia profondamente dalla
precedente. Un governo che comunica molto. Una comunicazione che invade tutto,
che quasi rimpiazza l’azione politica. Diventa l’azione politica. Ogni giorno
arrivano numerosi comunicati dal primo ministro, dai ministeri, dalla
presidenza. Una macchina di comunicazione efficiente in tutte le istituzioni
dello stato.

Però
è un flusso d’informazione governativa unidirezionale, che rende conto di
quello che vuole il governo. Il potere concede interviste a media selezionati.
Un’amministrazione che pare voler comunicare con il pubblico attraverso i
media, ma allo stesso tempo limita l’accesso dei giornalisti all’informazione.

È
una comunicazione persuasiva, per dire “vedete che le cose stanno cambiando”.
Martellano su alcuni concetti: siamo molto vicini alla propaganda.

Si
avvalgono di compagnie private di comunicazione. La società spagnola che ha
gestito la campagna elettorale di Martelly è ora al servizio della presidenza,
e ha messo un esperto latino americano a capo della comunicazione».

E
dal punto di vista politico?

«Non
è cambiato nulla in realtà. È un presidente che non vuole negoziare con
nessuno, si vuole imporre, anche se non ha i rapporti di forza che gli
servirebbero. Non ha i numeri in Parlamento dove è in larga minoranza. Martelly
spinge l’autoritarismo a un livello visto solo sotto la dittatura militare.

Lui
parte dal principio che il presidente può fare quello che vuole: è la
concezione del capo supremo della nazione, la stessa che avevano i Duvalier
(padre e figlio dittatori sanguinari dal ’57 all’86, ndr). Per lui il
presidente è a capo di tutti i poteri. Il principio di separazione tra
esecutivo, legislativo e giudiziario non esiste. Pensa di avere potere su tutto
quello che succede ad Haiti e vuole imporre le sue decisioni.

Ha
ricevuto le organizzazioni dei media per dire loro cosa devono fare. Ma il
Parlamento non ci sta e questo porta sempre a un braccio di ferro, a un blocco
istituzionale. Talvolta si risolve all’ultimo momento per le pressioni della
comunità internazionale o arriva a crisi di governo. È successo così con le due
nomine dei primi ministri.

Oggi
c’è in gioco la formazione del Consiglio elettorale permanente (Cep), organo
che organizza le elezioni e starà in carica nove anni. Influenzerà quindi la
dirigenza politica delle prossime due legislature.

Ma
i parlamentari vogliono far valere il fatto che oggi il Senato non può
scegliere i membri del Cep perché la Costituzione vuole due terzi dei senatori
presenti, ma oggi la camera alta ha un terzo scaduto, quindi è impossibile
avere il quorum.

Occorre
fare un Consiglio elettorale provvisorio per completare il Parlamento con
elezioni e poi passare al permanente.

Il
presidente ha influenzato il potere giudiziario imponendo la sua volontà, per
la scelta di tre membri per il Cep, poi Martelly ha scelto altri tre membri,
come esecutivo. In questo modo ha imposto un consiglio di sei membri, e gli ha
fatto prendere funzioni ufficialmente. Ma la Costituzione ne prevede nove:
mancano quelli nominati dal legislativo».

 C’è
un ritardo sulle elezioni?

«Le
elezioni senatoriali e municipali sono in ritardo di almeno un anno. E non si
sa cosa succederà, perché non si trova una soluzione.

È uno stile di funzionamento politico che non vuole
chiarire le cose, tanto meno rinforzare le istituzioni. Si pensava che fosse
incapacità, ma ora alcuni osservatori dicono ci sia dietro una strategia. Ad
esempio qualcuno ha paura di una volontà di sciogliere il Parlamento. I mandati
dei parlamentari vanno verso la fine, rimanderà ancora le elezioni? È un male
minore per Martelly.

Sono
a rischio anche il decentramento e l’autonomia dei poteri locali. I sindaci
hanno terminato il loro mandato, e malgrado avesse promesso di mantenerli fino
alle prossime elezioni, il presidente li ha rimpiazzati con persone nominate
dall’esecutivo. Sta centralizzando il potere.

Il
processo democratico è seriamente minacciato da questi comportamenti. Non
riconosce le organizzazioni politiche e non incoraggia la strutturazione
politica. È piuttosto il clientelismo che aumenta. Se non sei con lui, sei un
nemico della patria, come con il fascismo».

Ma
esiste una vera opposizione e da chi è costituita?

«C’è
un’opposizione che si mostra sempre più. Una critica all’azione del governo. Ma
la strutturazione e l’organizzazione di questa opposizione è ancora da farsi
nonostante esistano attori sociali capaci di condurre un insieme di azioni.

Le
debolezze e le derive di Martelly hanno alimentato l’opposizione e abbiamo
visto una serie di manifestazioni di protesta, con partecipazione di
organizzazioni della società civile e di partiti politici. Criticano questo
approccio politico e la gestione della cosa pubblica. Il cattivo uso dei fondi
pubblici è evidente anche per il posto occupato dalla sua famiglia nella
macchina amministrativa. Normalmente la moglie del presidente non occupa delle
funzioni. Invece la moglie di Martelly è stata da lui nominata a presiedere una
commissione di cui fanno parte rappresentanti di ministeri. Il figlio è
responsabile di una struttura al di sopra del ministero della Gioventù e dello
Sport e gestisce un programma di realizzazione di stadi o spazi sportivi nel
paese, con molti fondi a disposizione. Mentre il ministero non ha alcun
controllo su questo. Criticare Martelly, o rifiutare la sua pratica politica,
non vuole però necessariamente dire che si sceglie un’opzione in linea con la
rivolta del 1986 (quando fu cacciato Duvalier, ndr) e la partecipazione
popolare alla democrazia. Nel movimento sociale c’è molta gente critica verso
Martelly. Un certo numero di associazioni vogliono rompere con tutte le
esperienze di autoritarismo che lui rappresenta, altre no. Chi porta avanti
questo discorso sono piccole organizzazioni che non hanno ancora un rapporto di
forza favorevole a livello del paese. Possono avere un’alternativa da proporre,
ma non hanno peso per farla valere. Ad esempio sono nati due piccoli partiti
della sinistra popolare e democratica».

Allora
cosa stanno facendo i partiti politici di opposizione?

«Oggi
c’è un insieme di dodici partiti, alcuni storici e due nascenti, che hanno
fatto una convenzione e stanno portando avanti una riflessione su come fare
opposizione. Ci sono dentro anche i partiti degli ex presidenti Aristide (Fanmi
Lavalas
) e Préval (Inite). L’altro partito storico, l’Opl
(Organizzazione del popolo in lotta) non ne vuole far parte perché è molto
critico con queste ultime due formazioni. Sta puntando su una “terza via”.
Ricordiamo che Martelly ha pochissimi deputati dalla sua parte. Ha inoltre
fondato un suo partito: Parti tet kale (partito testa pelata, ndr)».

Che
peso ha nel gioco politico la comunità internazionale?

«Alla
comunità internazionale fa comodo la situazione attuale. Non vuole problemi:
meglio consolidare quello che c’è fino alle prossime elezioni presidenziali.
Martelly afferma che non ha paura di un colpo di stato perché la comunità
internazionale è presente e sorveglia la situazione attraverso la Minustah
(Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione di Haiti, composta da
circa 10.000 uomini tra soldati e poliziotti, ndr). L’Onu lascia capire
che hanno bisogno di altri 4-5 anni affinché sia formata una forza di polizia
capace in Haiti.

La
comunità internazionale vuole che i termini delle elezioni siano rispettati: un
presidente sia eletto e sia al potere fino alle prossime elezioni. Il resto non
è un suo problema. Secondo loro un susseguirsi di elezioni porterà alla
stabilità, anche se le gravi questioni degli haitiani permangono irrisolte.

Se
Martelly non riesce a calmare la situazione, allora loro intervengono per
dirgli cosa fare. Ad esempio Usa, Francia e Unione europea vogliono sia formato
il Cep, nella logica della stabilità. Quindi sono intervenuti e hanno fatto
pressioni. La Minustah ha detto che il Parlamento si deve sbrigare a nominare i
tre membri di sua competenza. La comunità internazionale vuole che le
istituzioni esistano, per loro è un criterio importante di stabilità».

La
situazione rischia di esplodere a livello sociale?

«Il
movimento sociale organizzato non è forte, ma l’espressione del rifiuto, a
livello sociale, inizia a farsi vedere. Questo è sfociato nella serie di
manifestazioni in diverse città del paese, contro il carovita, la corruzione,
il traffico di droga. Fenomeni in aumento.

Abbiamo
assistito a manifestazioni organizzate, ma non c’è dietro necessariamente una
struttura sociale forte. Sono dei movimenti di protesta che si organizzano.
Un’esplosione non è da scartare.

Martelly
vuole fare di testa sua, ma su molti piani non è efficace, non riesce a dare
risposte ai problemi. La corruzione dilaga. Le persone che sono al potere,
prima di tutto vogliono guadagnare molti soldi. Al di là di mettere in piedi
dei programmi di ricostruzione o sviluppo.

Ho
raccolto testimonianze sul fatto che nell’esecuzione di un progetto
governativo, come quelli per la costruzione di case, occorre prevedere un 30%
in più per commissioni varie.

Inoltre
lo stato acquista servizi da persone nelle aree di influenza del presidente e
della sua famiglia. È scoppiato uno scandalo perché sono stati attribuiti
lavori di ricostruzione per 400 milioni di dollari a imprese che sono in buona
parte del senatore dominicano Bautista. Il fatto è che i lavori sono stati dati
senza alcuna gara d’appalto o controllo. E questo accompagnato con buone dosi
di tangenti.

Martelly
avrebbe ricevuto soldi da Bautista durante la campagna elettorale, ma anche
dopo aver prestato giuramento come presidente. Tutto ciò resta nell’impunità
totale».

Lo
Stato sta mettendo in opera dei programmi per migliorare le condizioni di vita
della gente?

«Un
primo problema nella messa in opera dei programmi è la corruzione e il
clientelismo. Questo fa sì che i beneficiari finali non siano numerosi, ma
diventino quasi il pretesto per fare il progetto.

L’altro
aspetto è l’orientamento dei progetti realizzati. Sono impostati per migliorare
la situazione nel breve termine ma non hanno un impatto sociale durevole. È il
caso dei programmi sociali governativi orientati alle famiglie. Alcuni si
ispirano ai programmi brasiliani contro la fame, ma ad Haiti sono gestiti dalla
presidenza ed è più un modo per acquisire seguaci.

È
difficile capire quali sono le realizzazioni e verificare i risultati di ogni
programma. Ce ne sono cinque o sei che fanno la stessa cosa: per ridurre la
fame danno cibo alla gente.

Si
tratta di fondi multilaterali, ovvero di cooperazione tra stati, e altri del
tesoro pubblico.

Ci
sono ancora i progetti di emergenza a tre anni dal
sisma?

«L’umanitario
è sempre presente ad Haiti. Ci sono, da un lato, le agenzie dell’Onu, che
tentano di lavorare con il governo, e dall’altro le Ong che fanno i loro
programmi. I progetti di emergenza hanno un limite: lavorano sull’immediato,
sulle conseguenze di un insieme di problemi, ma non sulle loro cause.

Purtroppo
neppure il governo ha messo in piedi un meccanismo per attaccare queste cause.

Ad
esempio gli interventi su bacini versanti, la pulizia dei canali, la
riforestazione non sono stati fatti. Così arrivano gli uragani come Sandy e
causano morte e distruzione.

Le
sfide della situazione haitiana attuale sono tante, e allo stesso tempo, la
gente che ha votato Martelly vorrebbe vedere qualche segno di miglioramento. Ma
non c’è nulla che si manifesta in questo senso, se non la comunicazione. Vedo
quindi una certa disillusione in una parte dell’elettorato di Martelly. Mentre
altri continuano a difenderlo strenuamente. Poi ci sono gli oppositori che lo
criticano alla radio e gli fanno perdere consensi. Alcuni analisti sostengono
che il presidente non vuole le elezioni adesso perché ha paura di perdere.
Mentre lui vuole avere tutti i dieci posti da senatore e tutti i sindaci».

E
questo programma di sviluppo del Nord?

«Nel paese ci sono ancora molti problemi e non si sente
la volontà a risolverli. Nonostante alcuni eventi spettacolari, come
l’inaugurazione del parco industriale di Caracol.

L’idea è di fare al Nord del paese un polo economico.
Questo tramite tre elementi: un aeroporto a Cap Haitien (seconda città del
paese, ndr), che è diventato internazionale, una zona industriale nella
baia di Caracol e il progetto di un porto non lontano.

Sviluppare l’economia nel Nord attraverso l’industria
manifatturiera e turismo. La zona industriale inaugurata dovrebbe impiegare
37.000 persone in 3 anni. Adesso sono 1.000 i posti di lavoro creati. Oltra a
tutto questo hanno attivato una sezione universitaria del Nord che dipende
dall’Università di stato.

Le critiche sono che l’opzione della manifatturiera per
sviluppare il Nord non può essere sul lungo termine. Inoltre per fare la zona
industriale sono state cementificate terre agricole, togliendole alla
produzione di cibo e, d’altro lato, non è stata presa alcuna misura sui rischi
sociali e ambientali che un’operazione di questa portata può avere. Ad esempio
la creazione di bidonville, che si sono sempre formate nei pressi di
queste strutture.

Quali
sono i punti deboli della classe politica haitiana?

«Uno dei problemi centrali ad Haiti è che uomini e donne
politici haitiani, al potere o all’opposizione, non riescono ad analizzare,
constatare e accettare i rapporti di forza. Ma questo è necessario per il
dialogo politico. Se si avesse questa coscienza, si potrebbero fare sforzi per
costruire qualcosa, anche negoziando. E si prenderebbero disposizioni per
migliorare la propria posizione di forza, facendo un lavoro sul terreno.

Anche per questo motivo i partiti politici ad Haiti non
si costruiscono alla base, ma tramite l’accesso ai media: parlando alla radio. Invece
il partito va costruito con un lavoro di militanti, mettendo in piedi le
strutture, organizzando la base. La comunicazione è qualcosa in più che
permette di esprimersi; non organizza, piuttosto anima».

Cosa
bisognerebbe fare oggi ad Haiti?

«Vedo
la via di uscita in questo senso: strutture che accettino di costruirsi con un
lavoro sul terreno, e solo in un secondo tempo sviluppare le influenze a
livello pubblico.

Un
leader carismatico non risolve i problemi. È vero, occorre una voce
credibile che abbia séguito, ma anche costruire una militanza dalla base.

Uno
dei ruoli essenziali per i partiti politici, movimenti sociali e le strutture
popolari, è riprendere il lavoro di educazione popolare e di educazione civica.
Quanto era stato fatto prima del 1986. Dopo le crisi tutte le risorse sono
andate perdute, in particolare con il colpo di stato del ‘91, buona parte dell’élite
popolare è stata uccisa o è andata in esilio. Possiamo dire che abbiamo perso
quel lavoro.

Bisogna
ricominciare a riorganizzare i contadini, i partiti popolari, a educare la
gente sulle ideologie politiche. Cos’è la destra, cos’è la sinistra. Perché sul
terreno oggi non c’è alcun riferimento ideologico o a dei valori.

È
un ruolo importante, alcune associazioni lo stanno assumendo, ma non è la
tendenza dominante. L’incertezza economica, la precarietà hanno influito sui
settori sociali, hanno fatto si che tutti siano preoccupati di cosa succederà
domani.

I
movimenti sociali continuano a esistere e vedo una nuova cornordinazione tra
organizzazioni contadine, tra quelle delle donne e tra sindacati. Anche la
nascita di questi piccoli partiti politici: sono tutti segnali interessanti».

Marco Bello

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Marco Bello




Guatemala: Non è arrivata, la fine del mondo


Cosa
porterà la fine del 13mo b’aqtun.
Pace, armonia, giustizia, equilibrio
interiore. Tutto questo, dicono le guide spirituali, dovrebbe portare con sé
la fine dell’era prevista dal calendario Maya. Dipenderà però dalla nostra
coscienza.Perché il cambiamento deve essere dentro di
noi
.
(foto Simona Rovelli)

Mentre
gran parte del mondo attendeva con curiosità, trepidazione, speranza o terrore
(a seconda delle differenti visioni), il
21 dicembre 2012, in Guatemala – cuore pulsante dell’universo Maya, dove ancora
una maggioranza della popolazione, in particolare gli Ajq’ijab (le guide
spirituali, in lingua Maya K’iché) mantengono viva la millenaria
tradizione spirituale originaria – in realtà tutto taceva.

Ha
fatto eccezione l’industria del turismo che, in un paese splendido ma
zoppicante sotto moltissimi aspetti, ha cercato di sfruttare al meglio, in
termini di immagine e di business, il bonus piovuto dal cielo,
organizzando eventi in tema e sfoando i più disparati pacchetti turistici,
essenzialmente per stranieri e spesso escludendo dall’organizzazione e
partecipazione la stessa popolazione di etnia maya.

Si
è scritto e detto ormai di tutto circa questa fatidica data, citata come la
fine del «tredicesimo b’aqtun» del calendario Maya, a partire dalla
distruzione del mondo con o senza giorno del giudizio, passando per il
profetico arrivo di un fantomatico «Pianeta X», la caduta di una cometa o
asteroide che sia, il ritorno degli alieni, l’inversione dei poli magnetici e
svariati – nefasti o benefici a seconda delle interpretazioni – allineamenti
tra centro della galassia, Sole, Terra e alcuni pianeti. Ognuna di queste
teorie si basa, nella migliore delle ipotesi, su libere interpretazioni e
connessioni un po’ fantasiose e forzose tra gli elementi più disparati e, nella
peggiore, su un intenzionale desiderio di creare confusione e panico, per
trae svariati benefici.

La profezia

Ma cos’è un b’aqtun ed esiste davvero una profezia maya a
riguardo del tredicesimo?

I Maya nei secoli hanno sviluppato grandi doti di astronomi e,
studiando il movimento di diversi corpi celesti tra cui ad esempio Marte e
Venere, idearono almeno venti calendari che regolavano ciascuno diversi aspetti
della vita, dalla semina alla nascita di un essere umano. Il parallelismo tra «Cielo»
e «Terra» deriva dalla loro peculiare «cosmovisione» (ovvero come concepiscono,
percepiscono e vivono il senso dell’esistenza dell’intero universo, ne spiegano
la creazione e il funzionamento), per cui le energie che governano i corpi
stellari devono trovare il loro riscontro negli eventi terrestri.

Il b’aqtun è un periodo di tempo riferito a uno di questi
calendari, nella fattispecie quello denominato della Cuenta Larga,
ovvero il calendario che stabilisce il computo di tempi estremamente lunghi e
che sarebbe vigente, senza interruzioni, dai tempi della Creazione
(originatasi, come indicato nella stele 1 di Cobá, Messico, milioni di anni
fa). Per l’esattezza il b’aqtun è un multiplo di 20 (numero sacro per i
Maya, corrispondente al ciclo minimo del calendario Cholq’ij, che regge
il susseguirsi delle energie umane) secondo questo semplice schema:

-1 giorno è detto kin,
– 20 kines fanno un winaq (20 giorni),

– 18 winales sono un tun (che significa «pietra»:
360 giorni),

– 20 tunes corrispondono a un k’atun (7.200 giorni),

– 20 k’atunes un b’aqtun (144.000 giorni),

– 20 b’aqtunes un piktun (2.880.000 giorni). E così
via…

La prima osservazione è che il calendario maya, così come alcuni
erroneamente affermano, non termina affatto con il tredicesimo b’aqtun,
(periodo di 1.872.000 giorni), ma prosegue, ipoteticamente fino all’infinito.
Esiste per esempio una data scolpita nel tempio delle Iscrizioni di Palenque,
Messico, che daterebbe il 13 Ottobre 4.772 d.C., così come esistono date
antecedenti al b’aqtun 1 di questa era, come per esempio indicato in
Quiriguá, Guatemala, dove tra le tante date si può individuare l’8.238 a.C.

Termina un’era

Perché dunque tanto clamore rispetto al tredicesimo b’aqtun
e alla data del 21 dicembre 2012?

La data (4 Ajpu / 3 Kank’in, secondo il calendario
della Cuenta Larga) viene indicata in differenti steli di
svariati siti archeologici del Guatemala e del Messico, semplicemente come fine
di un’era, venendo maliziosamente strumentalizzata come data della fine del
mondo. Infatti, seppur considerando che i b’aqtunes arrivano fino a 20
formando un piktun, è doveroso ricordare che secondo i Maya ogni 13 di
essi si concluderebbe un ciclo completo, corrispondente a un’era del mondo, e
questo passaggio sarebbe segnato normalmente da un sostanziale cambiamento,
preceduto da eventi più o meno significativi. In questo caso si tratterebbe
propriamente della chiusura del terzo ciclo dall’inizio della creazione che,
stabilendo un parallelismo con il calendario Gregoriano, andrebbe dal 6
Settembre 3.114 a.C. (inizio del nuovo ciclo, con il primo giorno del primo b’aqtun),
al 21 dicembre 2012 d.C., ultimo giorno dell’attuale b’aqtun, appunto il
tredicesimo, iniziato nel 1.618. 
Inoltre, secondo vari studi compiuti in Guatemala da antropologi e Ajq’ijab,
la data indicherebbe sia la fine dell’era precedente che l’inizio della nuova,
indicando infatti il giorno 0 (zero) – concetto non contemplato nel calendario
gregoriano – del nuovo ciclo.

Evidenziamo che in nessun caso si parla di fine del mondo, ma di
alcuni eventuali cambiamenti importanti.

Altri citano erroneamente il Chilam Balam (uno dei
pochi testi profetici maya salvatisi dalla furia colonizzatrice), il quale però
descriverebbe alcune catastrofi durante il 13 k’atun Ajaw (e non
13 b’aqtun!). Per approfondimento, secondo la nomenclatura della tavola
degli Ajpú, definita dal missionario Diego de Landa nel libro «Relaciones
de las cosas de Yucatán» agli inizi dell’epoca coloniale, il 13 k’atun Ajaw
si sarebbe concluso il 2 novembre 1.539. Quale catastrofe peggiore, per i Maya,
della conquista spagnola? Attualmente, secondo la suddetta tavola staremmo tra
l’altro vivendo il b’aqtun 6, in numero cardinale, che sarebbe il
tredicesimo in numero ordinale. Il «nome» del b’aqtun (in questo caso
sei) viene infatti definito dall’energia iniziale (che accompagna sempre un Ajpú),
la quale di ciclo in ciclo non segue un ordine crescente. Per capire questo
concetto è necessario addentrarsi profondamente nella cosmovisione Maya e in
calcoli complicati, uscendo inoltre dalla logica calendarica occidentale.

La spiritualità viva

Ma una volta stabilito cosa indicano le steli
e i testi sacri Maya, è estremamente importante analizzare la spiritualità viva
e pulsante attraverso le parole delle guide spirituali (Ajq’ijab),
coloro che hanno la responsabilità di tramandarsi, per lo più oralmente, le
antichissime tradizioni.

Non esiste un consenso generalizzato a riguardo, se non nel deciso
rifiuto delle infondate posizioni catastrofiste. Molte «abuelas y abuelos»
Maya (nonne e nonni letteralmente, così come poeticamente vengono definite le
persone che hanno acquisito una certa saggezza) ritengono che energeticamente
si entrerà in una nuova era che favorirà pace, armonia, unione, giustizia,
equilibrio tra gli esseri umani e tra questi e Madre Natura (così come
profetizza anche il Chilam Balam, per il 4 k’atun che
inizierà questo dicembre). Il tutto si raggiungerà attraverso il ritrovamento
di un vero equilibrio interiore, che nella cosmovisione maya è fondamentale per
poter concretizzare i passi successivi. Alcuni si spingono a dichiarare che
tanta sarà l’armonia da permettere la comunicazione attraverso la trasmissione
del pensiero. Altri invece pensano che, nonostante l’energia propizia, il
cambiamento sarà molto più lento e graduale e dipenderà molto dal grado di
risveglio delle nostre coscienze. Per altri ancora, tutto risiede nel nostro
libero arbitrio e il destino del pianeta Terra, con i suoi equilibri e i suoi
abitanti, non è prestabilito.

Il cambiamento sta dentro di
noi

Cosa ne è della speranza nell’arrivo di alieni che spazzino via la
feccia dell’umanità, facendo piazza pulita delle negatività? Una visione troppo
comoda, che affida a un «miracolo» esterno e senza impegno il cambiamento che
ciascuno di noi, con coscienza e sforzo, dovrebbe intraprendere nel suo piccolo
per mutare radicalmente il corso della storia umana, piagata da tante
ingiustizie e prossima a subire e far subire, in particolare ai più deboli e
alle generazioni future, le conseguenze del cambio climatico. Tra quelli che
seguono la spiritualità maya, non vi è attenzione, né tantomeno preoccupazione
rispetto a una eventuale venuta, e piuttosto ci si concentra sulla propria
crescita personale e comunitaria.

E la paura di catastrofi naturali e dell’eventualità che la
popolazione umana possa essere decimata da eventi disastrosi (o dagli alieni
stessi)? Solo chi ha paura di vivere tutte le sfumature dell’esistenza, chi
sente di non aver tentato in ogni istante tutto il possibile per offrire il
meglio di sé, chi non accetta che vita e morte sono parte di una necessaria e
utile ciclicità, chi si attacca al proprio ego senza ricordare il senso del
passaggio sulla Terra, ha una profonda paura di morire, che sia in una
catastrofe o per mano degli alieni.

Nelle terre maya, dove si vive in ogni istante la precarietà della
vita, ci si concentra sul presente con umiltà, semplicità, intensità e
determinazione, consci di essere una goccia di Infinito nell’Universo.

Simona Rovelli

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Simona Rovelli




Questione di vita o di morte

La lotta per l’acqua nel semiarido Nordeste brasiliano

Con il termine sertão viene indicata una vasta regione semiarida, estesa su molti stati del nordeste brasiliano, battuta da un sole feroce e siccità cronica. Per rispondere a tale emergenza, un missionario della Consolata, da 20 anni, scava pozzi e costruisce cistee, lottando contro la rassegnazione della gente e la corruzione dei politici.

Le previsioni dell’Istituto nazionale di ricerche spaziali (Inpe) già diversi anni fa non erano affatto incoraggianti per il Nordeste del Brasile: la regione sarebbe stata colpita da una grande siccità, che si sarebbe estesa dal 2006 al 2011. Purtroppo tali previsioni si sono avverate e il periodo è già passato: dei 400 municipi della Bahia, 186 hanno dichiarato lo stato di emergenza.
Padre Moratelli Vidal, missionario della Consolata, da 20 anni affronta la questione dell’acqua nei municipi di Jaguararí e Monte Santo, a 300 km da Salvador, capoluogo dello stato di Bahia; egli è convinto che, per convivere nel territorio semiarido, prima di tutto sia necessario superare la mentalità della dipendenza tanto religiosa che politica.
lotta alla rassegnazione
«Dopo tante sofferenze e tanti fallimenti nelle semine e nell’allevamento del bestiame, ingannata dalle promesse dei politici, la gente del sertão si è rassegnata a subire la situazione: un’attitudine che toglie la forza per organizzarsi e protestare», afferma il missionario e fa notare come l’espressione più frequente della gente sia: «Se Dio vuole, pioverà». E continua: «Sarebbe più conveniente dire: aiutati che Dio ti aiuta, nel senso che Dio manda la pioggia, ma la gente deve usare il proprio cervello per sviluppare progetti e rivendicare i propri diritti, spronando l’amministrazione pubblica a fare il suo dovere».
La situazione è grave, ma non tragica come era anticamente, quando molti contadini dovettero abbandonare la campagna. Oggi ci sono molte più risorse che in passato, come la pensione, il sussidio mensile del governo per le famiglie più povere per l’acquisto di prodotti alimentari di base (bolsa família) e per la scuola (bolsa escola), assicurazioni e microcredito bancario per fattorie a conduzione familiare (bolsa safra), costruzione di cistee per l’acqua, estensione della rete elettrica con il programma «luce per tutti» e altre forme di aiuto.
Grazie a tali benefici la gente si sente soddisfatta e magari non esige più riforme strutturali per una soluzione definitiva. E per quanto riguarda la siccità, gli specialisti dicono che è quasi impossibile eliminarla. Allora non rimane altro che darsi da fare e imparare a convivere con il clima semiarido, caratterizzato da 300-750 millimetri di pioggia l’anno.
Chiesa e siccità
Ne è un esempio la parrocchia di San Giovanni Battista di Jaguararí, formata da 80 piccole comunità e, dal 1985, affidata ai missionari e missionarie della Consolata. In quella zona sono stati già perforati centinaia di pozzi artesiani e poste tubature per decine di chilometri. Oltre a questo, il Centro culturale della parrocchia ha già costruito più di 800 cistee per l’acqua potabile e per l’uso agricolo.
Il gruppo missionario è composto da tre padri e quattro suore. I progetti, iniziati dal padre Vidal, continuano con il sostegno del Centro culturale e del municipio e sono cornordinati da 45 associazioni locali, legate a una Associazione centrale con sede in Jacobina che assicura l’assistenza tecnica.
Un’altra zona in cui l’acqua è questione di vita o di morte è il territorio della parrocchia di Monte Santo con oltre 140 comunità, assistita dai missionari della Consolata dal 1987. Attualmente vi lavorano tre preti e un diacono. Uno di essi è padre Moratelli, specialista nella prospezione del sottosuolo (rabdomanzia), da tutti conosciuto come il «padre dell’acqua».
Egli spiega che la regione si trova in un sistema geologico semiarido causato dall’essere umano, che ha disboscato il suolo senza controllo. Il processo di desertificazione si trova in uno stadio tale che la natura non riesce a ricuperare da sola. Nonostante piova fino a 700 mm l’anno, il suolo non è in grado di trattenere l’acqua.
Secondo il parere del missionario è urgente «immagazzinare l’acqua nei periodi piovosi e costruire sbarramenti, una specie di piccole dighe per gli animali». Egli suggerisce ancora che in tutti i centri abitati «il governo investa in pozzi artesiani e trasformi l’acqua salata in acqua potabile, mediante strumenti desalinizzatori, con la partecipazione della comunità locale. Per tale collaborazione si potrebbe ricorrere a una tessera elettronica, con cui ognuno pagherebbe per la quantità di acqua processata». Inoltre, ogni fattoria dovrebbe avere il suo pozzo artesiano per il bestiame: «Tale investimento valorizzerebbe la proprietà e salverebbe il bestiame».
siccità è… potere
L’Aquifero Tucano, riserva d’acqua sotterranea, seconda per grandezza in tutto il Brasile, è a 100 km da Monte Santo. Le comunità chiedono al governo di fare investimenti in un progetto d’acqua potabile sicuro e permanente, con tubature che rifoiscano la città e i centri abitati. «Tale progetto eviterebbe che l’acqua, elemento vitale per l’essere umano e gli animali, diventi causa di malattie come sta capitando al momento. L’acqua che si utilizza attualmente non è adatta al consumo», ammonisce padre Vidal.
«La pubblicazione del numero dei municipi in stato di emergenza è stata accolta con esultanza, come un’occasione per ricevere molto denaro pubblico, invece di vederla come motivo di vergogna per il disinteresse e la mancanza di organizzazione nel superare tali situazioni critiche che si ripetono anno dopo anno. Mentre alcuni portano in processione immagini sacre sul santuario della Santa Croce, altare del sertão, altri, in città, rubano a piene mani» afferma indignato il missionario.
L’elettrificazione rurale è stata una grande impresa del governo. L’energia elettrica ha portato benefici alla campagna e aumentato il commercio. «Perché la questione dell’acqua non è trattata con altrettanto impegno e serietà?» domanda padre Moratelli; e commenta: «Il fatto è che la siccità continua a essere l’asse di briscola per la carriera dei politici che gestiscono autobotti in cambio di potere. L’intervento di un progetto governativo abolirebbe le autobotti, cosa che per i politici locali sarebbe un pessimo affare per tutto ciò che ruota attorno all’industria della siccità».
Tale tesi è convalidata dagli abitanti di Monte Santo. Una fonte, che preferisce non essere identificata, afferma che la regione è un’arena elettorale del deputato dello stato di Bahia; ogni potere è in mano sua. «Mentre era solo segretario del sindaco, questo deputato ha speso 5 milioni di reali per la campagna elettorale e dopo la sua elezione ha continuato ad arricchirsi: in 64 anni di vita, è stato il primo impiegato statale che ho visto diventare milionario» afferma e accusa: «La siccità è la situazione che permette maggiori guadagni. Le autobotti valgono voti; c’è un controllo integrato di tutti i poteri. Le denunce non vanno avanti e chi denuncia è intimidito. L’amministrazione è una fonte d’impieghi; chi non vi lavora, ha qualche parente impiegato e non vuole che perda il posto, per cui tace».
mistica dell’acqua
Un altro personaggio che si distingue nella lotta per l’acqua è il padre Nelson Nicolau, originario di Chapecó (Stato di Santa Caterina), che da 20 anni lavora nel municipio di Cansanção, 35 km da Monte Santo. «È necessario sviluppare e preservare la mistica dell’acqua – afferma -. Quando la vita è minacciata dalla siccità, la Chiesa deve agire per difenderla. Per questo i cristiani devono coinvolgersi nella lotta per l’acqua».
Grazie alla sua opera di coscientizzazione nelle comunità, negli anni ‘90 fu creata l’Arpa, (Associazione regionale pro-acqua), che riunisce quattro parrocchie (Queimadas, Cansanção, Nordestina e Monte Santo) e cornordina iniziative e progetti a tutto campo. Con l’aiuto della Caritas sono stati comprati i macchinari per la perforazione dei pozzi; per mezzo delle autorità regionali l’Arpa ha ricevuto una retro-scavatrice e un camion con cassone ribaltabile per la pulizia e costruzione di piccole dighe. Al tempo stesso si è riusciti a costruire una rete di tubi per portare l’acqua in città e a piccole comunità rurali.
acqua per tutti
La professoressa Maria da Gloria Cardoso, cornordinatrice della pastorale dell’infanzia e membro dell’Arpa, dice che «la questione dell’acqua è trattata con molta approssimazione: i politici non la prendono mai sul serio. Tutto diventa manipolazione politica. C’erano progetti per la costruzione di cistee e per macchine perforatrici, ma sono fermi. Il suolo ha una crosta dura e occorrono strumenti adeguati per perforarla. Venti anni fa con l’aiuto della Banca mondiale furono costruite molte cistee, ma fu un lavoro malfatto e la maggior parte è andata in rovina», ricorda.
A Monte Santo la Commissione dell’Arpa, che raggruppa rappresentanti della Chiesa, del Sindacato dei lavoratori rurali, dell’Asa (Organizzazione del semiarido) e dell’amministrazione pubblica, fa rilevamenti ed elabora progetti, ma il lavoro procede con lentezza. «Negli anni passati facemmo un progetto, chiedendo di destinare il 3% del bilancio municipale alle risorse idriche. Il progetto fu approvato nel consiglio comunale, ma al momento di elaborare il calcolo di bilancio, questa voce non comparve. La gente, poi, è anche molto passiva, aspetta sempre che Dio mandi la pioggia e la siccità continua ad apparire come un castigo meritato», lamenta Maria da Gloria.
Secondo Anna Maria Campos de Oliveira, assessore all’agricoltura di Monte Santo, municipio con 53 mila abitanti, la situazione si è aggravata negli ultimi sei mesi. La strategia del comune è pulire le fontane, perforare e ricuperare pozzi e distribuire «borse basiche» (alimenti di prima necessità) alle famiglie più bisognose. Per questo il sindaco ricevette l’aiuto del governo federale per il valore di 60 mila reali (25 mila euro).
D’altra parte ci sono molte critiche riguardanti le autocistee, che rappresentano la maggiore fonte di corruzione. Nel municipio ci sono 53 autobotti affittate e pagate dall’Esercito tramite il governo federale, al costo di 500 mila reali al mese (200 mila euro). Secondo alcune informazioni, ci sono camion che ricevono mensilmente da 12 a 17 mila reali (5-7 mila euro). La maggior parte è controllata dai consiglieri comunali. Oltre a ciò, l’acqua trasportata non è di buona qualità. La segretaria chiarisce che il prezzo mensile per camion varia da 3 a 10 mila reali (1.220-6.000 euro).
«Il prezzo è alto, ma il municipio non riceve alcun soldo; tutto è fatto attraverso l’Esercito», commenta Anna Campos e confessa, al tempo stesso, che è difficile controllare l’approvvigionamento. Essa stessa ha già sporto varie denunce. «Ma non posso portare le prove concrete, perché non ho informazioni esatte su queste autobotti».
Anna Campos osserva che nel municipio non c’è più posto da cui estrarre l’acqua potabile. Le autocistee dovrebbero trasportarla da Quinjigue, ma recentemente l’analisi di un campione ha rivelato che l’acqua portata a una comunità era inadatta al consumo umano. «Ho già ricevuto perfino minacce di morte per aver controllato l’acqua attinta a un deposito per il bestiame e distribuita per il consumo umano», rivela.
Evaristo Rodrigues de Lima, un rappresentante della Commissione dell’acqua, collabora con «Articolazione del semiarido-ASA», istituzione non governativa che lavora insieme alle diocesi e ad associazioni locali. Egli spiega che dal 2002 furono costruite nel municipio circa 3 mila cistee da 16 mila litri ciascuna. Si prevede che per il 2014 ne saranno costruite almeno altre 5 mila per portare a tutti l’acqua potabile. «Il lavoro è fatto in forma collettiva per non favorire nessuno. È una risorsa per tutti», sottolinea.
Inoltre, ci sono anche cistee riservate per gli allevamenti di bestiame e produzione di ortaggi. «Nel 2011 ne furono costruite 40, da 50 mila litri ciascuna. In questi progetti abbiamo coinvolto le famiglie. Ciò garantisce la produzione degli ortaggi. Li stanno ancora vendendo», commenta Evaristo con soddisfazione.
La signora Olivia Gonçalves de Carvalho della comunità «Fattoria vecchia» ha investito 7 mila reali (3 mila euro) in una cisterna per coltivazione, con recinto e aiuole per la produzione di ortaggi. «La cisterna è una terapia, perché per estrarre l’acqua devo azionare la pompa e col movimento fisico mi sento meglio; poi, con i miei ortaggi non mangio veleno. Gli animali non berranno più acqua sporca. È una benedizione! Magari ogni famiglia avesse una di queste cistee!» esclama.
La vita nel sertão gira attorno all’acqua, che normalmente è gestita dalla donna. Oggi la gente si rende conto che è importante avere una cisterna a portata di mano, per garantire la buona qualità dell’acqua e conseguentemente della vita. L’acqua accanto a casa risparmia lunghe camminate e allevia il lavoro della donna, che così può dedicarsi di più ai figli e alla propria casa.
I pozzi danno sicurezza alle famiglie nel lavoro dei campi e le cistee rendono possibile la coltivazione di piccoli orti familiari. Con tutto ciò si riscontra una diminuzione delle malattie nei bambini e anziani.
Jaime C. Patias

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Dionisia: donna forte del sertão

Il giorno 8 marzo, Giornata internazionale della donna, gli abitanti di Barreira, Pedra Vermelha, villaggio della parrocchia di Monte Santo, si sono riuniti per celebrare i 112 anni della signora Dionisia, simbolo della resistenza del sertão. La nipote, Martinha das Neves Nascimento, racconta la storia della donna più vecchia della regione.
Dionisia Maria nacque nella fattoria Serra de Lopes, Monte Santo; fu registrata all’anagrafe l’8 marzo del 1900; si sposò con José das Neves dal quale ebbe 14 figli (due dei quali morti, una figlia in tenera età, un’altra da adulta).
Oggi Dionisia vive con una delle figlie: ha 102 nipoti vivi, circa 245 bisnipoti e 46 trisnipoti. Ebbe una vita molto difficile, arrivando fino a patire la fame con tutta la famiglia. Durante la grande siccità del 1932 aveva già tre figli ed era in attesa del quarto. Il marito andava a lavorare a giornata nei campi dei fazendeiros; con la paga giornaliera (2 reali, meno di un euro) poteva comprare due chili di farina.
Dionisia restava con i figli senza niente da mangiare. Allora prendeva i bambini, un machete, una zappa e andava nel campo; tagliava un licuri, palma tipica del sertão, ne estraeva il palmito (cuore di palma) e lo dava da mangiare ai bambini. Essi mangiavano il palmito, bevevano acqua e andavano a giocare, mentre essa puliva la piantagione della manioca. Alle 11 prendeva il machete, tagliava il tronco del licuri, lo portava su una lastra di pietra e lo batteva fino a ridurlo in polvere; poi tornava a casa, mescolava la farina in una padella e faceva una specie di focaccia. I bambini mangiavano fino a saziarsi e andavano a dormire tranquilli.
La sera, quando il marito tornava, le domandava:
– Dove sono i bambini? Sono già morti di fame?
– No, stanno già dormendo, rispondeva.
– Che cosa hanno mangiato?
– Palmito, focaccia di licuri e acqua: sono a pancia piena.

In quei tempi lunghi e difficili i fratelli di Dionisia se ne andarono in cerca di altre terre e di condizioni migliori, abbandonando i vecchi genitori; ma essa diceva fiduciosa: «Accada quello che deve accadere, io non abbandonerò mai i miei genitori». Li assistette fino alla fine. Dice che è viva perché non ha abbandonato i suoi genitori: i suoi fratelli sono già tutti morti; è rimasta solo lei per raccontae la storia.

Per la nipote Martinha, insegnante a Barreira, nonna Dionisia è una grande donna che si adattò a qualsiasi servizio per nutrire i suoi figli, fino a lavorare a giornata, ripulendo il terreno. «Con la sua forza d’animo, oggi, nonna Dionisa ci trasmette un’esperienza di vita, di amore e saggezza. Lo dico perché abbiamo imparato tanto dai suoi esempi; essa non ha mai frequentato la scuola, ma la scuola della vita gli ha insegnato molte attività. È stata una grande artigiana. Faceva reti di cotone: essa stessa filava gli spaghi e intrecciava le reti; era una delle sue specialità. Faceva oggetti di creta: pignatte, brocche, scodelle. Con le fibre della palma licuri confezionava stuoie, borsette, cappelli, cose che ancora oggi riesce a fare con maestria, magari solo per regalarle ad amici e parenti. Oltre a essere madre, nonna, bisnonna e trisavola, Dionisia è anche madre di tanti bambini che aiutò a entrare nella vita. Infatti, un’altra attività da lei svolta per molti anni fu quella di levatrice: migliaia di bambini sono nati con il suo aiuto; ci furono alcuni casi difficili, ma con l’aiuto di Dio, medicina naturale, orazioni e tanta fede nel Signore di Bonfim, nella Madonna Addolorata e nei santi protettori, le riuscirono tutti con successo. Fu anche un’eccellente santona: era ricercatissima per i casi di disgrazie e di malocchio».
Una volta, Dionisia con un bimbo in braccio andò a chiedere un po’ di latte a un vicinato; ma questi glielo rifiutò. Toata a casa, venne a sapere che la mucca gli aveva rovesciato il secchio con un calcio. Tale fatto segnò la sua vita e produsse in lei l’istinto della solidarietà. Contro una concezione banale del dono della vita, donna Dionisia è il simbolo della lotta per la sopravvivenza feconda di molte vite. Nel sertão, dove difficoltà e sofferenze sono maggiori, lei rappresenta la donna tenace, che non si arrende mai.

Jaime Patias

Jaime C. Patias




A ognuno la sua sfida

Intervista a padre Francesco Beardi

A distanza di 35 anni, padre Francesco Beardi è tornato in Tanzania un anno e mezzo fa; dopo una breve esperienza pastorale è stato chiamato a lavorare nel Centro di Animazione missionaria di Bunju (Dar Es Salaam) e a dirigere la rivista in swahili Enendeni (Andate), un lavoro in cui è maestro e in una posizione privilegiata per osservare le sfide della società e della chiesa in Tanzania.

Che cosa hai provato tornando in Tanzania? Cosa ti ha sorpreso di più?
Risiedo in Tanzania da 15 mesi: troppo poco per esprimere giudizi e fare bilanci. Pertanto le mie considerazioni sono impressioni. Quanto scrivo oggi, domani potrebbe essere diverso, senza escludere che possa aver preso qualche grosso granchio…
Sono ritornato in Tanzania dopo 35 anni di assenza. Lasciai il paese nel 1976 e vi rimisi piede nel 2011. La mia prima presenza durò dal 1973 al 1976.
Sapevo che il reinserimento in Tanzania sarebbe stato complesso. Così è stato e così è: a cominciare dalla lingua swahili, che si è arricchita di tanti e nuovi vocaboli. Fra questi, changamoto (sfida). Per me tutto è «changamoto» a 360 gradi, perché il tanzaniano pensa, parla e agisce a «modo suo», in modo… sorprendente.
La prima sorpresa sono proprio i tanzaniani, oggi circa 44 milioni, mentre nel 1976 erano 14 milioni. Con loro ho la possibilità di «rinascere», passando però attraverso «le doglie del parto» dell’incontro-scontro culturale.
Sorprendente è il numero dei loro giornali quotidiani. Negli anni ‘70 erano due, oggi una ventina. Ma molto più sorprendente è qualche voce critica della stampa. «Ci siamo stufati della propaganda dei politici che non vogliono il cambiamento» titolava, il 23 marzo 2011, il quotidiano Mwananchi. The Citizen, il 12 dicembre 2011, stigmatizzava: 32 milioni di euro sono «sfumati» nella celebrazione del cinquantesimo dell’indipendenza della Tanzania (1961-2011). Le sorprese continuano: ad esempio, la pubblica denuncia di incesto subito da una figlia da parte del padre (programma radiofonico del 23-24 febbraio 2011). «Ai miei tempi» fatti del genere venivano sepolti nell’omertà generale.
Omertà che avvolge ancora l’aids. L’uomo della strada non ne parla. Qualcuno, incalzato da eventi tragici, incomincia ad alludervi come «malattia di questi giorni». La stampa si sofferma sulla vicenda di qualche sieropositivo, senza tuttavia raccontare come si contrae il virus. Però qualcuno incomincia a dire: «Sconfiggeremo l’aids se muteremo i nostri costumi sessuali».
Ricordo, infine, la nozione di «ovvio». Ciò che per me è «ovvio» non sempre lo è, e nella stessa misura, per il tanzaniano. L’«ovvio tanzaniano» è changamoto!
 
Come vedi il futuro della Tanzania?
Pensando al futuro, non bisogna avere fretta né, tanto meno, invocare colpi di bacchetta magica di fronte ai mali che affliggono la società tanzaniana. Ciò vale per tutti i paesi in ogni angolo del mondo. Chi può dire che la crisi economica italiana e mondiale finirà domani o dopo domani?
Personalmente scommetto nel futuro positivo della Tanzania. La buona volontà c’è; le risorse pure: gas naturale, ferro, oro, pietre preziose, uranio. Grandi le possibilità nel settore turistico. Per non parlare della risorsa di sempre: l’agricoltura, anche se in balia della pioggia. Però la ricchezza delle ricchezze sono i 44 milioni di tanzaniani e tanzaniane (soprattutto). Moltissimi sono giovani, che studiano.
Recita un proverbio swahili: elimu ni mali (la conoscenza è un capitale). Non basta il canto, il tamburo, la danza. Bisogna leggere, pensare, capire, scrivere e «formarsi»: soprattutto alla stregua del Vangelo. Carestie, guerre e aids sono emergenze crudeli. La «formazione» è prevenzione e cura di ogni miseria. Anche della «stregoneria».

Della stregoneria che dici?
Qual è il flagello dell’Africa subsahariana? La povertà generalizzata o la ricorrente siccità? La corruzione politica o la mancanza di progettazione? Oppure l’aids? «L’aids» sembrerebbe la risposta più immediata e pertinente oggi. Invece no. La grande calamità dell’Africa (e della Tanzania) è la stregoneria. Oggi come ieri. Lo sostiene Gabriel Ruhumbika, scrittore tanzaniano in Janga sugu la wazawa (La piaga contagiosa degli indigeni), un romanzo in swahili sulla stregoneria nella Tanzania contemporaneo e nella società africana in generale (vedi pag. 24). Il fenomeno non riguarda solo la gente comune, i disperati che voglio allontanare dalla loro vita il malocchio e la sfortuna; ma a consultare gli stregoni sono gente istruita, persone responsabili del mondo politico e finaziario, e perfino preti e suore, in cerca di un futuro migliore, di prestigio e ricchezza.
Il libro di Ruhumbika è stato scelto dal ministro dell’Educazione in Tanzania come testo di letteratura swahili per la scuola secondaria: speriamo che, oltre a insegnare la lingua nazionale, contribuisca a sconfiggere questo fenomeno irrazionale, ma molto radicato nella cultura africana. Ma ci vuole pazienza e costanza, anche da parte della Chiesa.
Come si sta muovendo la Chiesa locale?
La Chiesa gode di prestigio e di autorevolezza. Però preti e vescovi sono troppo assillati dal problema «soldi» per le loro attività. Le collette di denaro diventano sempre più frequenti: anche tre in una sola messa. I cattolici capiscono e rispondono bene, ma incominciano a essere stanchi, perché la vita è costosa, dato il costante aumento del prezzo dei generi alimentari.
Pure le feste religiose (ordinazioni di sacerdoti, consacrazioni di vescovi, giubilei, ecc.) sono esageratamente dispendiose. Non mancano i fedeli che si indebitano per partecipare a una celebrazione. Tuttavia c’è un aspetto positivo: di fronte a un’iniziativa della comunità, i cattolici non si tirano indietro, perché sanno che «la chiesa siamo noi».
In genere i messaggi dell’episcopato cattolico sono incisivi anche politicamente. Nel presente dibattito per la nuova costituzione politica, i vescovi ammoniscono: «Alcuni leaders politici, invece di impegnarsi a scrivere una costituzione che difenda i beni e i diritti di tutti, specialmente dei bisognosi, cercano di tutelare solo il loro interesse; inoltre, introducono nella nuova costituzione idee contrarie al piano di Dio».

Cosa ne pensano il cardinale Pengo e padre Massawe?
Attento e critico verso le forze politiche è, soprattutto, il cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar Es Salaam. Nel 2011, in occasione del cinquantenario di indipendenza del paese, dichiarò: «Durante questi 50 anni abbiamo ottenuto numerosi successi. Ora dobbiamo far sì che, quando celebreremo i 100 anni, non si dica: “Era meglio al tempo dei colonialisti!”. Oggi la nazione conta gruppi di traditori, egoisti, vanagloriosi, pronti anche a uccidere chi si oppone ai loro progetti» (cfr. Mwananchi 14-8-2011; MC. maggio 2012).
A proposito del cinquantenario, non meno forte è padre Lello Massawe, superiore dei missionari della Consolata in Tanzania, che dichiara: «In questi giorni, prima della festa dei 50 anni, sentiamo ripetere dalla radio e dalla televisione: “Abbiamo avuto coraggio, siamo capaci, andiamo avanti”. Sono parole frutto di una politica sporca. Io non vedo alcuna verità in esse. Abbiamo avuto il coraggio di far che cosa? Abbiamo avuto il coraggio di mungere la gente, abbiamo avuto il coraggio di rubare ai poveri più di quanto abbiamo loro dato per aiutarli ad uscire dalla povertà» (cfr. la rivista Enendeni, dicembre 2011).

Il rapporto con gli altri cristiani: luterani, anglicani, «salvati» (walokole)…
È un tema molto significativo per noi missionari. Cito ancora il cardinale Pengo, da me intervistato. Il presule ritiene che il rapporto fra cattolici, luterani e anglicani sia buono. Ad esempio, le «tre Chiese», nell’università di Dar Es Salaam, pregano nella stessa chiesa, come pure condividono la cappella dell’ospedale Muhimbili, sempre a Dar. Ma con il gruppo dei «salvati» (walokole) il discorso cambia: costoro vanno a caccia di fedeli dappertutto, da una chiesa all’altra, ingannando le persone. «Meglio il rapporto con i musulmani, perché sappiamo come sono».

Parliamo, allora, dei musulmani…
Molti musulmani rivendicano dallo stato la costituzione del «tribunale islamico» secondo la legge coranica. Però il presidente Jakaya Kikwestern, musulmano, ha risposto: «Se volete questo tribunale, costituitevelo voi stessi. Lo stato non può intervenire nei problemi religiosi delle varie religioni». Però tanti musulmani non accettano questa posizione e ritornano alla carica nello stesso parlamento.
Ciò che maggiormente preoccupa, secondo il cardinale Pengo, è il disprezzo verso i cristiani. Alcuni musulmani insultano i cattolici apertamente, anche di fronte alle forze dell’ordine, che fingono di non sentire. I cattolici, pro bono pacis, sopportano tutto in silenzio senza reagire. Fino a quando?

Che cosa fai a Bunju?
A Bunju opero nel Consolata Mission Centre, a metà strada tra Dar Es Salaam e Bagamoyo, con altri tre confratelli.
Il Centro viene additato come un faro che illumina presente e futuro, tutto e tutti. E veramente tutti ne usufruiscono: uomini e donne a livello personale o in movimenti, professori e studenti, catechisti e seminaristi, vescovi e preti. Tante le suore. Tantissimi i giovani, con prezzi scontati. La luce che il faro sprigiona è pure ecumenica, giacché il Centro ha aperto i cancelli anche a non cattolici: ai luterani, per esempio. Non mancano ambientalisti né leaders politici, tra cui musulmani.
Dopo una complessa gestazione, nel 2008 i missionari della Consolata diedero alla luce il Consolata Mission Centre: per pregare, pensare e cambiare. È un Centro che parla all’intera Tanzania, con la «missione» sempre protagonista.
Il Centro ospita pure la redazione della rivista Enendeni (Andate), di cui sono direttore. È modesta nella veste tipografica, ma si impegna ad essere propositiva nei contenuti, specialmente in tema di formazione evangelica, di giustizia e pace. L’editoriale di marzo scorso recita: «Se manchi di giustizia verso l’altro, le tue preghiere, i tuoi digiuni e le tue offerte della quaresima sono ipocrisia…».
È, però, paradossale che un mzungu (straniero), dallo swahili quasi indecente, diriga una rivista in tale lingua… Ancora una volta sono di fronte a un changamoto, una sfida: rinascere in Tanzania a quasi 70 anni, con i capelli bianchi e la schiena già incurvata dalle intemperie della vita.
Tuttavia ringrazio la Madonna Consolata.

Romina Remigio

Romina Remigio