L’eredità del maestro Kong

Religioni in Cina / 2: il Confucianesimo

Filosofia e religione a un tempo, il confucianesimo è la vera cultura cinese. Nella sua lunga storia – Kong Zi (Confucio, nella traduzione del gesuita Matteo Ricci) nacque nel 551 a.C. – ha conosciuto periodi di auge e altri di disprezzo. Oggi vive l’ennesima rinascita. Forse (anche) perché il potere centrale ha bisogno di nuove legittimazioni.

Un anno e mezzo fa, alla vigilia del viaggio del presidente cinese Hu Jintao negli Stati Uniti, una statua in bronzo di Confucio, alta dieci metri, fece la sua comparsa davanti al Museo Nazionale a Pechino, proprio su quella piazza Tian’anmen dominata dal ritratto di Mao Zedong. Fino ad allora soltanto il Grande Timoniere aveva avuto l’onore di campeggiare permanentemente sulla piazza simbolo della Cina, affiancato due volte l’anno dal ritratto del padre della patria e primo presidente della repubblica cinese dopo la caduta dell’impero, Sun Yat-sen. Con la stessa rapidità con cui fu installata, la statua fu rimossa dopo poco tempo e posizionata all’interno del museo lasciando adito alle speculazioni sul perché di tale gesto. Da tempo il ritorno della figura del maestro è un argomento di dibatto tra gli esperti di questioni cinesi.
Il confucianesimo, come lo ha definito il pensatore contemporaneo Tu Wei-ming, è allo stesso tempo una visione del mondo, un’etica sociale, un’ideologia politica, una tradizione letteraria e un modo di vivere. «Il confucianesimo è una religione-filosofia che contiene i valori spirituali ed etici del popolo cinese. Difficile che sparisca», ci spiega Umberto Bresciani, docente all’Università Cattolica Fujen di Taipei ed esperto del dialogo religioso e culturale con il mondo cinese, contattato per email da Missioni Consolata.

UN PERCORSO STORICO ACCIDENTATO
La fortuna avuta per oltre 2.500 anni scemò agli inizi del XX secolo, quando Confucio fu additato come principale motivo dell’arretratezza della Cina che si confrontava con le potenze occidentali. Il lento disgregarsi del fondamento ideologico che aveva retto l’impero sin dall’epoca Han (206 a.C-220 d.C) ebbe alcune tappe fondamentali.
Nel 1905 fu decretata l’abolizione del sistema degli esami, una via d’accesso all’amministrazione pubblica basata sulla conoscenza dei classici. Un sistema tanto lodato in Occidente in epoca dei Lumi, perché considerato un metodo di selezione di una classe dirigente illuminata. Il crollo dell’ultima dinastia imperiale nel 1911 mise fine ai riti di Stato e nel 1919, con l’esplodere del movimento del 4 maggio, le nuove generazioni influenzate dalle idee che arrivavano dall’estero (liberalismo, socialismo, comunismo, positivismo) decretarono il rigetto dell’antica ideologia per abbracciare una cultura nuova, sebbene poi – dagli anni Trenta – le correnti più moderate e i nazionalisti cercarono di reinterpretare la tradizione confuciana in chiave modea.
L’apice del disprezzo fu però raggiunto con la Cina comunista, durante gli anni della Rivoluzione Culturale, a cavallo tra il 1966 e 1976, quando il pensatore originario di Qufu, nell’odiea provincia dello Shandong, fu bollato come feudale e reazionario. Questo perché Mao Zedong, nonostante fosse intriso – sin dalla giovinezza – della cultura confuciana, era deciso a imporre sul Paese il proprio pensiero. Con la morte di Mao e la fine dei dieci anni di lotta di potere e furore ideologico che sconvolsero la Cina, le radici iniziarono a riaffiorare. «La morsa si allentò, e i confuciani convinti ripresero a parlare, per quanto lo permetteva l’autorità – continua il professor Bresciani -. Con il passare degli anni, questa libertà è venuta aumentando, anche perché i governanti cercano di strumentalizzare per quanto possibile le dottrine e gli ideali confuciani, avendo bisogno di legittimare la loro presenza al potere. È prevedibile che, salvo rovesci ideologici dell’oligarchia al potere, la presenza del confucianesimo diventerà sempre più rilevante e palese. Non poche scuole hanno reintrodotto lo studio dei classici come corso obbligatorio. Si fa già sentire anche chi vorrebbe che il confucianesimo fosse proclamato religione di stato, non per opprimere le altre religioni, ma per avere un punto di riferimento, com’è il cristianesimo luterano nei paesi nordici o l’anglicanesimo in Gran Bretagna».
Come ha spiegato la professoressa Alessandra Lavagnino, direttrice dell’Istituto Confucio dell’Università di Milano, la riscossa del pensiero confuciano si inserisce in quelli che sono gli studi sulla nazione, i cosiddetti guoxue, ossia il recupero di una tradizione autoctona cinese. «È la riscoperta delle radici di una cultura propriamente cinese, non di importazione come d’altronde è stato lo stesso marxismo».
Secondo un sondaggio dell’anno scorso, condotto tra duemila studenti universitari e pubblicato sul «Nanfang Ribao», Confucio è annoverato al secondo posto tra i dieci simboli culturali della Cina contemporanea, subito sotto la scrittura e prima della calligrafia, della Grande Muraglia e degli stessi Mao Zedong e Deng Xiaoping, i leader carismatici della rivoluzione e della crescita cinese. «A livello popolare sta avvenendo una massiccia riscoperta dei suzhi, vale a dire delle caratteristiche proprie e dei tratti peculiari di quella che potremo definire la “cinesità”. Assistiamo a un ritorno al rispetto per le gerarchie e le norme, al rispetto per gli insegnanti, all’idea che sia possibile elevarsi con il sapere».
A livello governativo il Partito comunista cinese, almeno da una decina di anni, sotto la dirigenza Hu Jintao, ha riscoperto e fatto largo uso di termini riconducibili alla tradizione confuciana, come «società armoniosa» o xiaokang, benessere. Nonostante il largo spazio dedicato nei discorsi ufficiali, la società armoniosa non ha tuttavia ancora trovato spazio tra i principi ispiratori dell’azione del Partito accanto alla teoria di Deng Xiaoping, a quella della «costruzione del socialismo con caratteristiche cinesi» e al pensiero de «le tre rappresentatività» di Jiang Zemin, con cui il vertice ha cornoptato a sé quelli che ritiene gli strati più dinamici della società. Segno che all’interno della dirigenza esistono ancora resistenze.
I tempi stanno comunque cambiando.

DALLA DEMONIZZAZIONE AL GRANDE SCHERMO
Come scriveva nel 2010 il professor Daniel Bell, docente di filosofia all’Università Tsingua, uno degli atenei più rinomati della Cina, in passato Confucio era usato per attaccare i nemici politici. Il caso più eclatante fu la campagna di critica contro Confucio e contro Lin Biao (pin Lin pin Kong fu lo slogan) alla fine del 1974 con cui allo stesso tempo si colpivano, accostandoli, il maestro e l’ex delfino di Mao, caduto in disgrazia e morto in circostanze misteriose in un incidente aereo nel 1971.
Trentaquattro anni dopo, al contrario, la cerimonia di apertura dei Giochi olimpici di Pechino esaltò i temi contenuti nei Dialoghi, la raccolta del pensiero del maestro compilata dai suoi discepoli e dai loro allievi. Mentre a mancare dalla mastodontica festa a cinque cerchi furono proprio gli anni della Cina comunista. E che dire del lavoro di divulgazione dei Dialoghi fatto dagli schermi della televisione di Stato CcTv dalla signora Yu Dan, docente di tecniche dei media a Pechino, che ha riportato all’attenzione popolare il confucianesimo con successo di pubblico e di ascolti, sebbene con qualche mal di pancia tra gli studiosi. «Ricorda molto i libri di autoperfezionamento scritti per convincere le persone a credere in sé stesse. Personalmente sono più attratto dal lavoro di critica sociale che in Cina cerca di trarre ispirazione dalla tradizione confuciana per pensare riforme politiche», scrive Bell sottolineando come chi si interessi di questo punto non si ferma al solo personaggio Confucio.
Nel 2010, infine, il Pcc sostenne invece il blockbuster «Kong Zi», film interpretato dalla star Chow Yun-fat e diretto da Hu Mei, che rivede in chiave nazionalista la vita del pensatore.  Ancora, al maestro è stato dedicato il premio istituito in concorrenza con il Nobel per la Pace, dopo il riconoscimento assegnato da Oslo all’intellettuale dissidente Liu Xiaobo nel 2010.
«Al giorno d’oggi il confucianesimo ha una funzione di legittimazione politica, può servire a dare nuove basi morali per governare la Cina», scrive Bell sul quotidiano canadese Globe and Mail, «Il comunismo ha perso la propria capacità di ispirare i cinesi e la consapevolezza del bisogno di un qualche sostituto è ricaduta in parte sulla tradizione. Il confucianesimo è l’alternativa più scontata». Non a caso l’articolo, già nel titolo, si interroga sulla possibilità di un Partito confuciano cinese, la cui sigla sarebbe – come nel caso comunista – Pcc.

IDEALI E VISIONE DEL MONDO
Negli anni il ritorno del maestro è diventato anche uno strumento del softpower cinese. «A loro tempo i missionari calcarono l’accento sulle tematiche dell’amore universale e sulla forte etica morale di Confucio. La burocrazia celeste ispirò gli illuministi. Oggi gli Istituti Confucio sono la rete per far conoscere la cultura e la lingua cinese nel mondo. Sono l’equivalente dei Goethe Institut e degli istituti Cervantes. Pechino ha scelto come rappresentante Confucio», sottolinea la professoressa Lavagnino.
La riscoperta del confucianesimo non è tuttavia un fenomeno esclusivamente calato dall’alto, secondo Bell. Molto si muove anche fuori dal controllo governativo, nelle accademie e nella società.
«Un secolo fa era necessario aggioare il confucianesimo e portarlo all’altezza del dialogo con la cultura dell’occidente. Questo lavoro è stato realizzato da tre generazioni di filosofi. Hanno buttato via quelle che erano evidenti incrostazioni accumulate lungo i secoli, come un’etica familiare fossilizzata in senso patealistico, una politica autoritaria, la posizione inferiore della donna, e così via. Hanno conservato gli ideali e la visione del mondo originaria di Confucio e Mencio, espressi in un linguaggio e una logica presi dall’Occidente, in modo da divenire comprensibili anche per gli occidentali – spiega Bresciani -. Quanto al rapporto con il marxismo, in genere i nuovi confuciani per principio sono contrari a esso, anche se poi nella pratica sono più tolleranti: dato che la Cina sta uscendo da un secolo di guerre e di caos sociale, non è il caso di procurare altro caos cercando di sovvertire lo status quo; è meglio auspicare e favorire un progressivo distanziarsi dagli ideali e metodi comunisti, e cioè un’evoluzione piuttosto che una rivoluzione. Un po’ quello che sta avvenendo»1.

Andrea Pira

Andrea Pira




CinéLatino festival della speranza

Tolosa: festival del cinema latinoamericano senza pailettes e tappeti rossi

CinéLatino: è il nome dei Rencontres de Toulouse, un Festival dedicato al cinema latinoamericano, giunto alla ventiquattresima edizione, che ha avuto luogo nell’antica città francese tra il 23 marzo e il primo aprile scorsi.

Tolosa è la quarta città francese per numero di abitanti (450.000), posta ai piedi dei Pirenei nell’Alta Garonna e capitale culturale dell’antica Occitania.
Sede fin dall’inizio del 1200 di Università, è attualmente il secondo polo universitario francese, con quasi 100.000 (!) studenti e quattro facoltà.
Il centro storico è ben conservato, parzialmente pedonale, ricco di stradine con palazzi storici e chiese, ma anche di bar, ristoranti, birrerie, bistrots molto frequentati a tutte le ore.
Una città giovane, vivace, piena d’iniziative, con centri culturali, cinema e teatri, biblioteche, librerie (attraversando il centro ho contato 8 librerie e 5 bancomat: nelle nostre città possiamo contare 30 bancomat e 2 librerie…).
Il Festival non è solamente proiezione di lungometraggi, documentari o cortometraggi (le tre sezioni nelle quali è articolato), ma occasione d’incontri con i realizzatori e i registi, per il pubblico professionale, per gli amanti della cultura latinoamericana con retrospettive, concerti, mostre ed esposizioni.
Il comitato organizzatore ha selezionato, tra le circa 400 opere pervenute, 14 film, 7 documentari e 10 cortometraggi ponendoli all’attenzione delle Giurie.
Una prima, ufficiale, affiancata da altra Giuria di esperti locali, da una di studenti e da quella internazionale di Signis (Associazione cattolica mondiale per la comunicazione che riunisce professionisti di radio, televisione, cinema, video, educazione ai media, Inteet e nuove tecnologie, riconosciuta dal Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali).
I lavori presentati, tutti provenienti dal Centro e Sud America, hanno rivelato caratteristiche comuni.
In modo particolare i documentari e i cortometraggi (sui quali era chiamata a esprimere la valutazione la Giuria Signis) sono stati caratterizzati da un ritmo di racconto molto più lento e descrittivo di come siamo abituati nella nostra frenetica Europa. Una buona fotografia è una seconda caratteristica comune, anche se alcuni documentari e cortometraggi sono farciti d’immagini in soggettiva, un po’ traballanti perché girate senza l’uso del cavalletto. Scenari incantevoli, immersi nella natura e ricchi di tradizioni, di animali, di particolari e primi piani sui quali la telecamera indugia e descrive.
Le tematiche affrontate, salvo rare eccezioni, erano quelle dell’integrazione in nuove società, del recupero delle tradizioni familiari e sociali, del dialogo tra generazioni.
Non esiste più, in questa scuola di cinema, la classica figura del narratore: lo spettatore scopre la storia attraverso le immagini – un poco alla volta – arrivando al finale che spesso è lasciato «aperto» ad interpretazioni personali, in genere ottimistiche e rievocatrici di speranze.
Le musiche non sono prevalenti, ma intervallate a silenzi o suoni d’ambiente, e sono curate e composte appositamente.
Nel corso di un incontro con i giovani registi, si è parlato dell’evoluzione del concetto di documentario, a volte «contaminato» da fiction, dallo stile del reportage o dell’inchiesta.

La Giuria Signis, composta da Maria Teresa Teramo – insegnante all’Università di Buenos Aires -, Martine Liabeuf – ex insegnante di Lione -, e fra Mario Durando – presidente della giuria e responsabile della Nova-T produzioni multimediali di Torino -, si è confrontata a lungo, valutando sia la qualità tecnica che il valore del contenuto e del messaggio ed ha premiato il documentario «Canicula» del messicano José Alvarez.
La scelta è stata motivata per la qualità della fotografia, delle musiche e dei silenzi, per la poesia del racconto che invita a riflettere sul rispetto e l’amore alla natura, per il racconto degli antichi miti e dei riti religiosi, immersi in un simbolismo universale.
In Canicula il regista conduce lo spettatore in un villaggio degli indiani Totonac a Veracruz, in Messico. Nella foresta di montagna, dove gli abitanti creano ceramiche superbe, decorate con delicati disegni provenienti dall’antichità, la vita scorre tra la natura e gli animali.
I ragazzi, in un antico rito iniziatico denso di simboli, spiritualità ed eleganza, imparano a volare e a diventare «Voladores de Papantla» tramandando cultura e tradizioni antichissime.
Per la sezione dei cortometraggi, la scelta si è orientata su Kyaka La Na (La lana rossa) della colombiana Adriana Cepeda, che attualmente vive negli Stati Uniti.
è la storia di una ragazza orfana, ospite con la sorellina della nonna, a New York. La differenza di età e cultura, l’illusione di una modeità capace di far dimenticare sentimenti e tradizioni si scontrano con il desiderio della nonna d’insegnare i lavori tradizionali e tornare nella propria cultura. Finché la ragazza si accorge di quanto sta perdendo e… finale aperto all’interpretazione dello spettatore. L’ultima scena, infatti, nella sua serenità fa comprendere una riconciliazione interiore che potrebbe portare a qualsiasi scelta di vita.
Il corto, di buona qualità tecnica e artistica, è stato segnalato dalla Giuria Signis per la narrazione sui temi dell’immigrazione, dell’integrazione, della riappropriazione della propria identità delle origini, per il valore della famiglia e del rispetto e accompagnamento nelle scelte personali.
Un plauso al centinaio di volontari (tutti giovani, studenti o ex studenti) che si sono prodigati nell’accogliere, accompagnare, organizzare un festival definito non di pailettes o tappeti rossi, ma di cultura e accoglienza.

Mario Durando

Mario Durando




La generazione ghepardo

Africa: cos’è la rivoluzione mobile

Le parole d’ordine sono mobile banking e «nuvola». Le armi: il telefonino e il computer portatile. I combattenti: la «generazione ghepardo». L’Africa sta vivendo una «rivoluzione» epocale, nella quale la tecnologia la fa da padrone. E giovani curiosi e dinamici vogliono sostituire gli «ippopotami» della politica.

La chiamano «la rivoluzione mobile» e, come tutte le etichette che pretendono di marcare uno spartiacque, anche questa roboante definizione suona retorica. Eppure basta percorrere la 1st street di Eastleigh, quartiere di Nairobi noto anche come Little Mogadishu per l’altissima concentrazione di imprenditori e rifugiati (spesso un aspetto non esclude l’altro) somali, per cominciare a pensare che ci sia qualcosa di vero e profondo in questa rivoluzione.
A farlo sospettare non sono solo gli onnipresenti negozi di telefonia mobile che vendono cellulari da dieci dollari o gli sportelli del sistema MPesa, la piattaforma creata dall’operatore mobile Safaricom per inviare e ricevere denaro da un telefono a un altro.
A dare il senso di questo cambiamento sociale ed economico sono piuttosto le parole di Mohammed, un rifugiato 23enne che, dopo 14 anni nel campo profughi di Ifo, a Dadaab, insegna inglese a Eastleigh. Periodicamente, tramite MPesa, invia denaro al resto della famiglia che vive ancora nel campo oppure, in caso di bisogno, ai suoi fratelli che vivono di pastorizia nell’Est del Kenya e che lo contattano con i loro cellulari caricati a energia solare, inseguendo pascoli e network, spesso salendo su alture o inerpicandosi su tralicci.
Mentre chiacchieriamo davanti a un chai masala, riceve un sms: altri fratelli emigrati in Canada gli fanno sapere di avergli spedito dei soldi via Inteet su Daabshil, uno dei più popolari sistemi bancari islamici della Somalia. Con quei fondi potrà partire per il Sud Sudan, dove conta di avviare un business. «Questo è tutto quello di cui ho bisogno, dice sollevando il suo cellulare. Qui ci sono tutti i miei contatti. E con questo posso ricevere i soldi che mi servono».

«Armi» modee
Il Nokia 1100 che stringe in pugno è una delle armi di questa rivoluzione, la più diffusa, e non a caso «Foreign Policy» l’ha definito l’AK 47 (Kalashnikov) della telefonia mobile: lo possiedono 250 milioni di persone, soprattutto nel Sud del mondo, per i quali non importa che, nel Nord, sia ormai considerato un pezzo di modeariato.
È affidabile, economico, facile da usare. In generale, quattro cellulari su cinque presenti nel mondo oggi si trovano nei paesi poveri. Più o meno sofisticati, generalmente a basso costo: secondo i calcoli del guru della tecnologia Nathan Eagle, chiunque guadagni almeno cinque dollari al giorno può permettersi un cellulare.
Per molte famiglie è un investimento. Lo si usa per indirizzare i propri prodotti verso mercati più redditizi, per ottenere informazioni spesso cruciali per sopravvivere, per inviare rimesse a casa. Ciò aiuta a spiegare il successo della telefonia mobile in Somalia, come racconta la giornalista della Bbc Mary Harper nel suo ultimo libro «Getting Somalia Wrong»: il paese, per quanto privo di un vero governo da vent’anni, ha la rete di telefonia mobile più economica del mondo. Un’autostrada impalpabile che fa da contraltare alle disastrate infrastrutture e che, secondo Hassan, dipendente somalo di una Ong con sede a Nairobi, sta trasformando la Somalia nel primo paese a moneta virtuale al mondo. «Grazie a Zaad – un’altra piattaforma di mobile banking lanciata dalla Salaam Somali Bank –  posso pagare taxi e caffè con il mio cellulare trasferendo i soldi sui numeri di conto esposti dagli esercizi commerciali».
Le transazioni hanno un costo, che però viene annoverato nella lista delle spese per la sicurezza: non si circola con denaro in tasca e, in caso di furto del cellulare, il denaro rimane nella «nuvola» (vedi glossario).
Nel sud della Somalia i miliziani di Al Shabaab hanno vietato i servizi di mobile banking, ufficialmente perché non islamici. Ma Hassan ha un’altra spiegazione: «Nella “nuvola” ci finivano anche i loro stipendi. E quando si sono accorti che il sistema era troppo vulnerabile hanno deciso di vietarlo».

Nuovi linguaggi
Sull’onda della vertiginosa diffusione di cellulari in Africa, un nuovo acronimo si è aggiunto alla lunga galleria di sigle che accompagnano la storia del continente dall’indipendenza ad oggi: ICT4D, ovvero Information and communication technologies for development. La febbre della tecnologia digitale per lo sviluppo ha contagiato istituzioni inteazionali come la Banca Mondiale, multinazionali della cooperazione come Oxfam, agenzie nazionali dello sviluppo, soprattutto nel Nord Europa, e corporation tecnologiche, come Vodafone e Microsoft: espressioni come mobile health (che riguarda progetti sanitari impeiati sull’uso del cellulare) o crowdsourcing (un sistema di raccolta d’informazioni basato su piattaforme digitali) sono diventate le nuove parole chiave per accedere a finanziamenti e a fondi di ricerca. 
Un approccio che sfuma come non mai i confini tra profit e no-profit. Per rendersene conto, basta visitare il cuore della Silycon Valley africana, sempre a Nairobi, ma su Ngong Road, costellata di enclavi di espatriati vecchi e nuovi, anglosassoni e cinesi, centri commerciali e culturali. In un ampio e luminoso open space all’ultimo piano di un edificio di vetro si trova iHub, il business incubator più famoso dell’intera Africa. Qui giovani keniani smanettano su laptop o discutono attorno a un grafico su un monitor di idee da trasformare in apps per cellulare o in piattaforme per il web. Eric Hersman, americano trapiantato in Kenya e animatore di vari blog tra cui White African («Dove le ICT incontrano l’Africa») l’ha fondato appena due anni ma, racconta, il seme è stato piantato nel 2007, e non in Kenya.

Generazione di ghepardi
È stato al Ted African Forum di Arusha, in Tanzania, che, dal palco, l’economista ghanese George Ayittey ha lanciato la sua profezia sul futuro del continente, con una metafora dal tipico respiro africano: c’è la generazione degli ippopotami e quella dei ghepardi. I primi sono legati alla logica postcoloniale e sono i dinosauri della politica, impastorniati nei ruoli di potere tradizionali e nella corruzione. I secondi guardano avanti, corrono veloci, sono curiosi, vogliono cambiare il mondo. La cheetah generation, vaticinò, sta sbocciando.
Al netto dell’enfasi, la profezia si è rivelata in parte corretta. Hersmann, che si trovava tra il pubblico, lo verificò meno di un anno dopo quando, insieme a un’attivista keniana anch’essa in platea, Juliana Rotich, vide il paese che aveva scelto come seconda casa sull’orlo della guerra civile.
La contestata vittoria del presidente in carica Mwai Kibaki sul leader dell’opposizione Raila Odinga aveva fatto precipitare il Kenya nel caos. È stato in quel momento che la cheetah generation si è messa a ruggire, dalla tastiera di un computer. Hersman, Rotich, attivisti di base ad Harvard e soprattutto tanti giovani keniani lanciarono Ushahidi – testimone in ki-swahili – una piattaforma online che permette di mappare la crisi in corso sulla base di sms ed e-mail inviati da chiunque. Un caso esemplare di crowdsourcing, ovvero raccolta diffusa di informazioni, che ha trovato applicazioni anche in altri contesti: dopo i terremoti ad Haiti e in Cile, durante l’operazione Piombo fuso su Gaza, nei conflitti in Libia e in Siria. Attoo a Ushahidi è aumentata l’attenzione sulle potenzialità della tecnologia recepita anche da organizzazioni come Un Ocha (Organizzazione delle Nazioni unite per il cornordinamento dell’aiuto umanitario), che per la prima volta ha chiesto la collaborazione della comunità di volontari di Ushahidi per monitorare l’emergenza umanitaria ad Haiti. Inoltre, a partire da iniziative come Ushahidi la cheetah generation è cresciuta e si è data da fare, soprattutto in Africa orientale, il vero cuore di questa rivoluzione che s’irradia non solo in Africa ma in tutti i Pvs (Paesi in via di sviluppo), sempre più Pds, «Paesi di sviluppatori».

Sviluppo telematico
La competizione Apps4Africa è una vera vetrina di creatività tecnologica africana. Nell’ultima edizione hanno trionfato un progetto che consente la gestione della distribuzione del grano via cellulare, Grainy bunch, ideato da un 28enne di Dar Er Salaam; Mkulima Bora, una app creata da un gruppo di sviluppatori keniani che consente agli utenti l’accesso a informazioni sul tipo di pianta da seminare, incrociando dati meternorologici e geografici; e Agro Universe, innovazione ugandese per monitorare il processo di distribuzione di prodotti rurali.
Uno dei progetti più riusciti premiati in una precedente edizione è iCow, «la migliore amica dell’allevatore», una app scaricabile gratuitamente per tutti gli utenti Safaricom, Orange e Airtel, iCow offre a chi si registra la possibilità di ricevere informazioni personalizzate sul ciclo di gestazione delle proprie mucche, il listino iCow Soko delle quotazioni del bestiame e, a richiesta, informazioni su vaccinazioni, alimentazione e igiene del latte.
A decretae il successo, il suo menu a scelta vocale, il che permette di ovviare al diffuso analfabetismo. iHub aiuta giovani sviluppatori a trovare fondi per produrre le proprie idee ed è un punto di riferimento per chiunque intenda rafforzare la società civile locale con tecnologie digitali: è il caso di MapKibera, progetto di mappatura partecipativa della più grande baraccopoli africana, Kibera appunto, usando la piattaforma libera Open Street Map e appoggiandosi a un team di adolescenti locali muniti di dispositivi Gps.

Non è tutto oro
Nonostante risultati incoraggianti, c’è però chi invita alla cautela su questo nuovo determinismo tecnologico che, alimentato dall’entusiasmo per l’ICT4D, rischia di lasciare in ombra i limiti e le implicazioni di lungo termine della rivoluzione mobile. Kentaro Toyama, professore d’informatica a Berkeley con una lunga esperienza nel campo della tecnologia per lo sviluppo, ad esempio, è probabilmente l’ICT4D-scettico più noto tra gli addetti ai lavori.
Le critiche più ricorrenti riguardano il fatto che un approccio soprattutto «gadgetistico» alla tecnologia fa dimenticare la dimensione politica e sociale dello sviluppo.
La tecnologia, ricorda Toyama, non è la panacea contro la povertà, ma uno strumento che va messo al servizio di competenze e sensibilità. Questo punto è legato a un altro aspetto della questione, che, riprendendo i casi precedenti, può essere riassunto così: Easteleigh e iHub spesso ignorano le rispettive esistenze. Ovvero le iniziative che ruotano attorno alle Ict per lo sviluppo non sono basate su una conoscenza approfondita di come i beneficiari già usano quelle tecnologie.
Un esempio è rappresentato dal monitoraggio mobile eseguito in parallelo ad Ushahidi durante le violenze post-elettorali in Kenya del 2008, quando la gang Luo che sosteneva Odinga, i Taliban di Kibera, usarono i cellulari per cornordinare l’epurazione degli abitanti Kikuyu dello slum.
O ancora il sofisticato uso che Al-Shabaab fa di Twitter, prova che per terrorizzare e intimidire bastano 140 caratteri.
L’ennesimo aspetto critico da sottolineare è infine che le tecnologie mobili non riescono a raggiungere i più poveri ma, piuttosto, rafforzando l’emergente classe media, stanno creando un’ulteriore spaccatura alla base della piramide, destinata ad ampliarsi con il passare del tempo. Al centro di uno studio della Arizona State University e della New America Foundation c’è MPesa, la piattaforma di mobile-banking che rappresenta l’esempio più eclatante delle capacità trasformative della telefonia mobile nei paesi poveri. Negli ultimi quattro anni, questo sistema ha raggiunto 14 milioni di utenti, che lo usano regolarmente per inviare e ricevere denaro. Per l’«Economist», MPesa ha generato un incremento fino al 30 per cento del bilancio familiare e oggi è usato dal 65% della popolazione keniana. Un’indagine successiva ha però rilevato che il 60% della fascia più povera della popolazione continua a non aver accesso al servizio: essendo guidate da una logica di profitto, le compagnie telefoniche non trovano conveniente investire in infrastrutture in alcune aree rurali. Inoltre, le transazioni hanno un costo che resta proibitivo per chi vive sotto la linea di povertà.
La rivoluzione insomma ha le sue ombre ma sta producendo una consapevolezza che finalmente mitiga nella gioventù africana complessi d’inferiorità o voglia di fuga. Consapevolezza che si traduce nell’esplosione di webcomics come «Emergency», ovvero la rivolta Mau Mau raccontata in internet dal disegnatore keniano Chief Nyamweya, o «Who Fears Death», della scrittrice nigeriana di fantascienza Nnedi Okorafor, in cui la civiltà ricomincia in Africa dopo un’apocalisse nucleare. La rivoluzione, come diceva negli anni Sessanta il menestrello nero Gil Scott-Heron, non finirà in televisione ma sarà dal vivo. O, se mai, annunciata da un sms.

Gianluca Iazzolino  

 

Gianluca Iazzolino




Il folle dell’Africa centrale

Sulle tracce di Joseph Kony

C’è qualcuno che neppure i satelliti della Cia riescono a scovare. È ricercato dalla Cpi. Ma riesce sempre a farla franca.
Si nasconde in Uganda, Sudan, Congo, Centrafrica. Joseph Kony pare inarrestabile. Da oltre vent’anni imperversa col suo folle esercito nel cuore dell’Africa, senza che nessuno riesca a fermarlo. A dispetto dei video propagandistici di sedicenti Ong Usa.

Lo ricordate? Il «pazzo visionario» fondatore del Lord’s Resistence Army, l’Esercito di Resistenza del Signore (Lra), che nei territori acholi del Nord dell’Uganda per vent’anni ha seminato il panico, soprattutto a causa dei rapimenti di bambini che venivano forzati ad arruolarsi e trasformati in belve sanguinarie. E delle bambine usate come schiave, anche sessuali.
Il proposito iniziale era quello di trasformare l’Uganda in una teocrazia basata sui dieci comandamenti, con uno strano mix di fondamentalismo cristiano vetero-testamentarista, nazionalismo acholi e misticismo tradizionale: da sempre, Kony dice di essere in contatto diretto con Dio, di parlare con gli spiriti, di ricevere istruzioni direttamente dallo Spirito Santo, di aver il dono delle lingue, della telepatia e di chissà quanto altro. Attoo a sé ha creato un’aura di paura e venerazione e ai suoi seguaci / soldati impartisce strette regole rituali, come quella di farsi il segno della croce prima di combattere, per evitare di essere uccisi, o di disegnare una croce sul petto e sul fucile con olio benedetto, segno della potenza dello Spirito Santo.
Per giustificare la follia omicida e la crudeltà delle azioni imposte ai suoi, asseriva che il popolo acholi andava purificato e continuava a fare un distorto riferimento alle Scritture. Di fatto, Joseph Kony è accusato di aver rapito tra i 60 e i 100 mila bambini e di aver causato due milioni di sfollati interni dal 1986.

Gli anni più recenti
Dopo una prima fase in cui le sue azioni erano state sostenute dal Sudan in funzione anti-Museveni (il presidente ugandese era infatti accusato di appoggiare i ribelli sud sudanesi), nel 2002 l’Lra è stato cacciato dalle forze ugandesi e si è spostato oltre confine, prima in Sud Sudan, poi in Repubblica Democratica del Congo, continuando le sue scorribande. Per tutto questo, il 6 ottobre 2005 la Corte Penale Internazionale dell’Aja (Cpi) ha spiccato un mandato di cattura per crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi in Uganda tra il 2002 e il 2004 nei confronti suoi e di altri quattro leader del movimento: il suo vice Vincent Otti e i comandanti Dominic Ongwen e Okot Odhiambo, oltre a Raska Lukwiya (ucciso dall’esercito ugandese il 12 agosto 2006).
Nel 2008, erano state avviate delle trattative per giungere a un accordo di pace con il governo ugandese, ma all’ultimo momento Kony si è tirato indietro, dopo aver posto come condizione (ovviamente irricevibile) il ritiro di tutte le accuse a suo carico presso la Corte Penale Internazionale. Era stato proprio all’inizio delle trattative che per la prima volta dopo tempo immemorabile Kony aveva rotto il silenzio e rilasciato un’intervista in video, dal suo nascondiglio nelle foreste del Congo nordoccidentale. Circondato da alcuni dei suoi uomini pesantemente armati, aveva ripetuto di non essere il mostro che tutti pensavano: «Mi lasci dire chiaramente cosa accadeva in Uganda – dichiarò nell’intervista –. Museveni andava nei villaggi e tagliava le orecchie alla gente, dicendo loro che era opera dell’Lra. Io non posso tagliare le orecchie di mio fratello, io non posso strappare l’occhio di mio fratello». È stato durante le trattative che è morto Vincent Otti, braccio destro di Kony, che sembrava voler portare a termine il processo di pace: secondo molti, fu ucciso proprio per questo, su ordine di Kony.
Dopo la fine delle trattative, l’Lra ha portato a termine una delle ultime «azioni» su larga scala, il massacro del giorno di Natale del 2008. In quel giorno e nelle tre settimane seguenti, Kony e i suoi hanno colpito a morte oltre 800 persone e rapite altre centinaia nel Congo nordorientale e in Sud Sudan.

L’Lra oggi
Oggi i ribelli continuano a imperversare nella zona al confine tra il Sud-Est della Repubblica Centrafricana (Rca) e il Nord-Est della Rd Congo, nel distretto dell’Haut-Uélé (provincia dell’Ituri), vivendo in luoghi semidisabitati da cui di volta in volta partono per assalire i villaggi, depredando, uccidendo e continuando a rapire civili. Negli ultimi rapporti dell’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, si parla di due morti e tredici rapiti in attacchi portati avanti tra il 6 e il 25 marzo scorsi nel territorio di Dungu (Rdc), altri a Bondo, alla frontiera con la Rca, nel cui territorio sono state uccise quattro persone e rapite altre 31, nel corso di otto attacchi alle città di Zemio e Mbocki. A Obo, da ottobre sono presenti truppe statunitensi a sostegno di quelle centrafricane e ugandesi.
Una delle ultime denunce viene da Human Rights Watch (Hrw): secondo l’Ong, il Lord’s Resistance Army dall’inizio del 2012 ha intensificato gli attacchi in Repubblica Centrafricana, mettendo in seria pericolo i civili delle aree colpite. Gli attacchi continuano anche nel Congo democratico. Hrw parla di oltre 400 mila sfollati, di cui almeno 2 mila solo in questo inizio del 2012, che vivono tutti nel terrore del prossimo attacco. Tra gennaio e marzo, l’Ong conta almeno 53 nuovi attacchi tra i due paesi, con il sequestro di 90 civili e l’uccisione di nove. Secondo la ricercatrice di Hrw Anneke Van Woudenberg, «l’aumento degli attacchi dell’Lra dimostra che il gruppo ribelle non è una forza esaurita e rimane una seria minaccia per i civili. L’Unione Africana, le Nazioni Unite e i governi della regione dovrebbero intraprendere passi urgenti per implementare le misure di protezione dei civili e metterci la reale volontà di renderle operative».

Voci dal terreno
Hrw ha compiuto una missione sul campo tra marzo e aprile 2012, intervistando 23 tra vittime e testimoni degli attacchi, oltre ai leader locali, alla società civile e ai rappresentanti delle autorità centrafricane. «Era il 27 febbraio – raccontano ad esempio due sorelle di 43 e 62 anni di Agoumar –, eravamo andate a pescare e tre miliziani ci hanno rapite. Ci hanno obbligate a trasportare miele, arachidi e pesanti sacchi di farina appena saccheggiati lì vicino. Abbiamo camminato tre giorni e tre notti senza fermarci. Ci hanno picchiate selvaggiamente e quando mia sorella si è seriamente ammalata, dopo la terza notte, hanno deciso di lasciarci andare. Ma i nostri fratelli e nipoti, rapiti lo stesso giorno, ancora mancano all’appello e temiamo possano esser stati uccisi».
Nell’area attorno a Ngouyo, villaggio a 30 km a sud di Djema, l’Lra ha portato 12 attacchi in due anni, tra cui due nel dicembre 2011 e tre nel marzo 2012. Ma a Ngouyo sono di stanza solo due soldati delle forze armate centrafricane, a cui, dopo gli attacchi di dicembre, l’esercito ugandese ha aggiungo altri suoi militari: gli abitanti temono però che se ne vadano presto, lasciandoli alla mercé di Kony.
«Per noi è molto difficile coltivare i campi e ora la gente soffre la fame – dice un leader locale -. Da quando sono iniziati gli attacchi, andiamo nei campi solo in gruppo e solo a quelli che si trovano a meno di 5 km dal villaggio. Ma dopo gli attacchi di marzo, nessuno si è più azzardato a lasciare il villaggio». A Ngouyo non c’è rete telefonica o comunicazione radio, così la gente non ha modo di avvertire degli attacchi. L’8 marzo, miliziani dell’Lra hanno attaccato un gruppo di sette persone che erano andate a pescare al fiume Ouara, a 15 km dal villaggio. «Hanno detto a mio figlio di 29 anni di sdraiarsi a terra – racconta un’anziana – e gli hanno legato le mani dietro la schiena. Hanno saccheggiato tutti i nostri averi e se ne sono andati portandolo con sé. Quando ho gridato per protestare, mi hanno ferita al braccio con una baionetta».
Un’altra testimonianza interessante e inquietante, raccolta da Irin News, viene invece da Limayi, Rdc: un uomo, rapito e poi rilasciato, ha raccontato che i miliziani di Kony avrebbero ora divise e fucili nuovi. E le divise sono quelle delle Fardc, le forze armate regolari congolesi.

Ma Kony dov’è ?
L’esercito ugandese sospetta che Joseph Kony si nasconda nella regione sudanese del Darfur, con 100 – 150 tra combattenti, membri della famiglia e bimbi e adulti rapiti. Sempre secondo le autorità ugandesi, Dominic Ongwen e Okot Odhiambo si nasconderebbero nelle foreste inaccessibili attorno ai fiumi Vovodo e Chinko in Centrafrica, con un centinaio di ribelli divisi in piccoli gruppi ed un numero imprecisato di sequestrati. Il colonnello Binansio Okumu (noto come Binany) e un altro comandante dell’Lra conosciuto col nome di Obol si pensa possano nascondersi in Congo, nei pressi del Parco Nazionale di Garamba, dove prima era stanziato l’Lra. Questi comandanti sono i responsabili del massacro di Makombo del Natale 2009, che causò 345 civili uccisi e oltre 250 rapiti.
Tuttavia, secondo gli Stati Uniti, Kony si troverebbe in Centrafrica. Sta di fatto che negli ultimi mesi l’Lra ha operato soprattutto in piccoli gruppi. Chi riesce a scappare racconta che Kony e gli altri leader hanno probabilmente dato istruzioni ai ribelli di limitarsi a saccheggiare quando finiscono le provviste, ma di evitare massacri su larga scala per tenere la loro posizione nascosta alle forze armate che danno loro la caccia.
In questa regione del Centrafrica operano altri gruppi armati e banditi, che aumentano l’insicurezza e a volte rendono difficile per i locali identificare chi li sta attaccando. Ad esempio, dall’inizio del 2012, il Front Populaire Pour le Redressement, Fpr, un gruppo ribelle del Ciad guidato da Baba Laddé e precedentemente di stanza nel Nord della Rca, secondo le autorità locali si sarebbe spostato a Sud, verso le zone in cui si muove anche l’Lra.
Poche tuttavia le misure per proteggere i civili: solamente un centinaio di soldati centrafricani sono dispiegati nella vasta regione orientale, in molte città ci sono solo da due a cinque soldati mal equipaggiati e con scarsi mezzi di comunicazione e di trasporto, mentre altri villaggi e città non hanno affatto soldati.
A questi si aggiungono 600 – 800 unità dispiegate in Centrafrica dall’esercito ugandese, come parte delle operazioni congiunte contro l’Lra, ma poche si trovano nelle aree abitate per proteggere i civili e sono piuttosto concentrate sulla cattura dei capi del gruppo ribelle.

Il ruolo degli Usa
Dopo l’11 settembre, Washington ha incluso l’Lra tra le organizzazioni terroristiche straniere. Il 28 agosto 2008, Kony è stato incluso nella lista dei terroristi più pericolosi del mondo. Già George W. Bush, nel novembre 2008, aveva personalmente deciso il sostegno finanziario e logistico, con l’invio di diciassette analisti militari per sostenere l’esercito ugandese nella caccia al criminale.
Meno visibile e a ranghi ridotti, l’Lra non ha però smesso di essere pericoloso. E così, nell’ottobre 2011, Barack Obama ha aumentato a 100 le truppe inviate in supporto alle operazioni: stavolta si tratta di forze equipaggiate per combattere, anche se autorizzate a farlo «solo in caso di autodifesa». A ciò va aggiunto l’invio di un Us C-12, un aereo da ricognizione che aiuta nella raccolta dati e nelle operazioni di intelligence.
In Centrafrica, i consiglieri Usa sono di stanza a Djema e Obo: ciò ha aiutato a migliorare le relazioni tra civili e militari, il cornordinamento tra gli eserciti dei vari paesi e la condotta dei soldati ugandesi, che in precedenza erano stati accusati di ubriachezza molesta e di alcuni casi di violenza sessuale. Tuttavia, il Dipartimento di Stato americano ha negato l’autorizzazione ai suoi di muoversi fuori dalle città dove sono distaccati.
Le Nazioni Unite hanno una missione di peacebuilding in Centrafrica, chiamata Binuca, che a dicembre ha ricevuto mandato dal Consiglio di Sicurezza di far rapporto sugli attacchi dell’Lra e di supportare il disarmo dei combattenti. Ma da allora, ancora nessuno del personale della Binuca è stato stanziato nelle zone affette dall’Lra.
In marzo, l’Unione Africana ha annunciato una iniziativa di cooperazione regionale per implementare gli sforzi per combattere Kony, incluso il dispiegamento di 5 mila membri della task force regionale con soldati ugandesi, congolesi, centrafricani e sud sudanesi, la maggior parte dei quali sono già dispiegati nella regione. L’Unione Europea e altri finanziatori si sono detti disposti a sostenere l’iniziativa. Ma non è ancora chiaro se le forze militari che stanno conducendo ora le operazioni contro l’Lra passeranno il testimone a una nuova struttura di comando o se invece hanno la capacità di dispiegare le truppe necessarie per proteggere adeguatamente i civili.
Due operazioni militari – Iron Fist nel 2002 e Lightning Thunder nel 2008 – erano già state condotte congiuntamente tra Congo, Sudan e Uganda, ma senza esito alcuno. Tensioni tra gli eserciti congolese e ugandese avevano ostacolato le operazioni e, alla fine del 2011, prima delle elezioni congolesi, il governo della Rdc aveva ordinato ai soldati ugandesi di lasciare il Congo e non hanno ancora avuto il permesso di tornare.
Il 23 aprile scorso, forse anche sull’onda del grande e discusso successo del video «Kony 2012» che ha imperversato in rete, il presidente Usa Barack Obama ha annunciato che i consiglieri militari americani proseguiranno la loro missione in Africa centrale per aiutare nella caccia a Kony: «I nostri uomini continueranno gli sforzi per trascinare Kony davanti alla giustizia e salvare delle vite» ha dichiarato il presidente in un discorso tenuto al museo del memoriale dell’olocausto a Washington. «Ciò fa parte della nostra strategia regionale per mettere fine al flagello rappresentato dall’Lra e per aiutare a costruire un futuro nel quale nessun bambino africano sarà più sottratto alla sua famiglia, nessuna bambina violentata, nessun ragazzo trasformato in soldato».

Giusy Baioni


Giusy Baioni




I missionari della Consolata nell’Africa equatoriale

110 anni fa: l’inizio di una bellissima avventura

L’8 maggio 1902, dalla stazione di Porta Nuova a Torino i primi 4 missionari della Consolata prendono il treno delle 9.45 per Marsiglia, da dove il 10 si imbarcano per Zanzibar sbarcandovi il 28. Da qui il 5 giugno si trasferiscono a Mombasa e il 12 raggiungono Nairobi in treno con un viaggio di 24 ore. Il 20 giugno, ancora in treno, si trasferiscono a Naivasha, da dove partono in carovana per Tuthu il 26 mattina arrivandovi il 28 sera. Il 29 giugno 1902 celebrano la prima messa nel villaggio di Karoli.

«Due volte già su questo periodico abbiam fatto parola del nuovo Istituto della Consolata per le missioni estere. La prima nel novembre 1900, annunziandone l’erezione, fatta dal Rettore della Consolata, con l’approvazione, encomio ed appoggio degli E.mi Arcivescovi e Vescovi delle provincie ecclesiastiche di Torino e Vercelli. La seconda nel luglio del 1901, quando fu benedetta ed aperta al pubblico la cappella dell’Istituto in Torino, Corso Duca di Genova, n. 49.
Dicevamo allora che il primo campo apostolico assegnato ai nuovi missionari erano i popoli Galla, abitanti a sud dell’Abissinia sin presso le rive del fiume Tana. Per riuscir in quest’opera d’evan­gelizzazione si studiarono due progetti. Quello d’andar difilato dalla costa fino a queste località ed ivi stabilirsi, e quello d’un avanzamento graduale, fermandosi dapprima in qualche regione confinante coi Galla, ma meno lontana dalle comunicazioni col mondo civile, e di qui avanzarsi più tardi passo passo sino ai paesi Galla. Il primo progetto, se per qualche lato pareva attuabile, presentava pure gravi difficoltà. Occorrevano mesi di viaggio in carovana, attraverso a località malsanissime, tra popoli selvaggi e ladroni e, dopo tutto, colla prospettiva di non potervi forse arrivare, come successe a parecchie spedizioni depredate e massacrate dagli indigeni. Nondimeno, fermi nell’idea di tentare l’impresa, si fecero molte pratiche per aver informazioni, appoggi e difesa a tale intento: pratiche assai lunghe e laboriose e che non furono scevre di penose delusioni.
Gravi ragioni militavano invece a favore del secondo progetto, per cui già si propendeva ad adottarlo, quando sopravvennero difficoltà politiche, che sarebbe troppo lungo enumerare, ma che assolutamente obbligarono a questa scelta.
Fra le regioni poi che presentavano maggiore convenienza per un futuro avanzamento verso i Galla, la più indicata era il Kikùju, a sud-ovest del monte Kenia, massime perché facilmente accessibile mediante la nuova ferrovia dell’Uganda, aperta soltanto nello scorso marzo, e perché località sana e di belle speranze, come si vedrà dalla descrizione che ne faremo in seguito.
I necessari accordi col Rev.mo Vicario Apostolico di Zanzibar, Mons.
Allgeyer, dal quale dipende il Kikùju, furono facilitati assai dall’opera intelligente e delicata del R(egio). Console italiano a Zanzibar, cav. Giulio Pestalozza, al quale ripetiamo qui l’espressione della nostra profonda riconoscenza, ed auguriamo e preghiamo dalla Consolata degno compenso di celesti benedizioni. Pei buoni uffici di questo egregio funzionario, S. E. Mons. Allgeyer fu così ben disposto verso i nostri missionari, che non solo acconsentì loro di stabilirsi nel Kikùju, ma, come diremo innanzi, volle con grave suo disagio, accompagnarli egli stesso fino al posto della loro prima missione, istruendoli su quanto potesse giovare per la buona riuscita dell’opera. La carità apostolica e la sollecitudine patea, dimostrate verso i nostri da questo piissimo e zelante Vícario Apostolico, sono superiori ad ogni elogio, e noi segnaliamo il venerando Prelato all’ammirazione ed alla riconoscenza dei divoti della Consolata, acciò lo sostengano colle loro orazioni per la prosperità della sua persona e la riuscita delle sue opere apostoliche.
Fissata per tal modo la località ove iniziare l’impresa, si dispose per l’immediata partenza dei missionari, la quale per suggerimento dello stesso Monsignore doveva esser limitata a pochi in­dividui, stante le difficoltà d’un primo impianto in luoghi quasi sconosciuti e non per anco aperti alla civiltà. Pertanto l’8 maggio, benedetti dal nostro venerato Arcivescovo, il Cardinale Richelmy, partivano da Torino i primi missionari della Consolata, in numero di quattro: due sacerdoti, D(on). Tommaso Gays da Rivara e Teol(ogo). Filippo Perlo da Caramagna, e due confratelli secolari, Lusso Celeste e Falda Luigi, entrambi torinesi.
Imbarcatisi il 10 maggio a Marsiglia, arrivarono il 28 dello stesso mese a Zanzibar città capoluogo d’un’isola dello stesso nome nell’Oceano Indiano. La traversata fu felicissima grazie alla protezione della SS. Vergine Consolatrice, sopra di essi invocata da tante anime buone, le quali vivamente s’interessano alla riuscita di un’opera di tanta gloria a Dio. Tralasciamo di parlare di questa prima parte del viaggio e seguiamo senz’altro i nostri missionari da Zanzibar al luogo di loro destinazione. Lo faremo stralciando dalle interessanti lettere scritte nelle varie tappe del viaggio dal predetto Teol. Perlo.».

Il testo che vi abbiamo riproposto, usando un carattere tipografico simile a quello originale, è l’editoriale de «La Consolata» n. 9/1902, pp. 131-132, probabilmente scritto dal canonico Giacomo Camisassa, allora il direttore del «periodico» (così era definita la piccola rivista pubblicata dal santuario della Consolata di Torino, madre di questa nostra pubblicazione).
Narra l’inizio di una incredibile avventura missionaria dalla quale sono risultati frutti miracolosi e inaspettati nel giro di un solo secolo. P. Candido Bona, professore di Storia della Chiesa per generazioni di missionari, il card. John Njue di Nairobi e il nunzio apostolico del Kenya, mons. Alain Lebeaupin, sono convinti cheil più grande miracolo fatto dall’Allamano fu proprio la nascita e svilluppo nel Kenya centrale di una Chiesa locale fiorente e missionaria. «Mai nella storia della Chiesa – ebbe a dire p. Bona – si è assistito ad uno sviluppo così grande in un periodo così breve». Cominciarono in quattro, ora sono milioni.

Lunga preparazione
L’Allamano portò in cuore il desiderio di fondare un istituto missionario per molti anni. Per lui il 29 gennaio 1901, giorno ufficiale della fondazione del nuovo istituto, fu il punto di arrivo di un lungo cammino fatto di riflessione, discernimento e paziente ricerca. Voleva offrire all’abbondante clero piemontese la possibilità di un servizio missionario e per questo si consultò per anni con amici, santi come il Cottolengo e autorità ecclesiastiche romane. Una volta chiarito che doveva fondare il suo istituto, si trovò di fronte alle nuove regole di Propaganda Fide (il ministero vaticano incaricato delle missioni) che richiedevano un periodo di tirocinio missionario ai nuovi istituti prima che venisse loro affidata un’area da evangelizzare.
L’Allamano, per un affetto suo speciale verso il card. Massaia, apostolo dell’Etiopia, sognava di mandare i suoi missionari proprio sulle orme di un così grande pioniere dell’evangelizzazione. Ma… più facile a dirsi che a farsi:
l’istituto non esisteva ancora, l’Etiopia era affidata ai frati cappuccini francesi ed era un’impresa trovare qualcuno disposto ad accogliere dei missionari in cerca di esperienza.
Con l’Etiopia in mente, l’Allamano e il suo braccio destro, Giacomo Camisassa, cominciarono una fitta corrispondenza – durata anni – con i cappuccini francesi e contemporaneamente anche con Padri dello Spirito Santo (Pères Du Saint-Esprit, Holy Gost Fathers or Spiritans) a cui era affidato il confinante Vicariato Apostolico di Zanzibar.
I confini allora erano incerti. Il Vicariato dei Cappuccini in Etiopia confinava a sud con quello dello Zanzibar in modo impreciso al quarto o quinto parallelo Nord e c’era allora la convinzione che fosse possibile arrivare in Etiopia navigando il fiume Tana partendo dalla costa del Kenya.

La mano della provvidenza
Lettera dopo lettera le trattative proseguirono, fino a che il Vicario Apostolico dei Galla accettò, nel settembre 1900 – l’istituto non era ancora stato fondato! – di accogliere i nuovi missionari nella parte sud del suo vicariato, «nella regione del medio e alto fiume Tana fino al quarto grado di latitudine settentrionale».
Tutto bene allora? Macché. Proprio in quei tempi giunsero notizie da un esploratore che il fiume Tana non era navigabile se non per un brevissimo tratto. Inoltre risultava che la regione (da affidare ai nuovi missionari) era praticamente spopolata a causa di bande di Somali che vi facevano continue razzie. Al che gli inglesi, i quali stavano consolidando il loro controllo sul Kenya, proibirono a qualsiasi missionario di mettere piede da quelle parti, perché un eventuale massacro di europei sarebbe stato un grave smacco per il loro prestigio e autorità di fronte agli indigeni.
L’Allamano e il Camisassa erano continuamente informati della situazione dal console generale d’Italia a Zanzibar, il cav. Giulio Pestalozza.
Ma chiusa una porta, ecco che se ne aprì un’altra. Era stata inaugurata da poco la ferrovia Mombasa-Kampala, in Uganda, e i Padri dello Spirito Santo avevano, nel 1899, stabilito la missione di Saint Austin (S. Agostino) a Nairobi, un villaggio nuovo nato attorno alla stazione ferroviaria e avvantaggiato da acque fresche (nai-robi in maa, la lingua Maasai) e clima salubre senza malaria. Da Nairobi sarebbe stato facile organizzare una spedizione verso il Lago Rodolfo (oggi Turkana) e da là raggiungere il tanto agognato Galla. Le trattative si intensificarono, da Zanzibar cominciarono ad arrivare notizie piene di speranza. Poi tutto subì un’accelerazione improvvisa. Il dott. Hinde, sotto-commissario inglese per la regione del Muran’ga – allora Fort Hall -, aveva chiesto al Vicario Apostolico di mandare dei missionari presso il capo kikuyu Karoli, moderatamente favorevole agli inglesi, che era interessato ad averli per aprire una scuola nel suo villaggio. Ma, da buon protestante, il dott. Hinde aveva fatto la stessa richiesta anche alle società missionarie protestanti. Chi arrivava prima si mangiava tutto! I protestanti erano ricchi di mezzi e personale, mentre i Padri dello Spirito Santo non avevano allora né mezzi né personale per una pronta azione. I nuovi missionari della Consolata – inesperti, ma ben organizzati e con mezzi sufficienti – erano davvero mandati dalla provvidenza.

Preparazione immediata
L’Allamano e il Camisassa colsero l’occasione al balzo e intensificarono la preparazione dei primi. Pestalozza e il vicario mons. Allgeyer avevano suggerito di mandare solo un piccolo gruppo ad iniziare, non più di cinque. Furono scelti quattro tra i giovani sacerdoti e laici che avevano cominciato vita comune nella prima casa madre dell’Istituto (la Consolatina): p. Filippo Perlo e p. Tomaso Gays e i fratelli laici Luigi Falda e Celeste Lusso. Essi si legarono al nuovo istituto per un impegno di cinque anni giurando nelle mani dell’Allamano il 13 aprile 1902. Gli ultimi mesi prima della partenza furono intensissimi. L’Allamano vietò loro ogni impegno pastorale nella città e passarono i loro giorni in preghiera, studio e lavoro. Oltre all’inglese, studiarono medicina (tropicale), oculistica e chirurgia. Impararono fotografia (ripresa, sviluppo e stampa, maneggiando le pesanti macchine fotografiche a soffietto con lastre 13×18 e 10×15). Visitarono musei, approfondirono agricoltura e scienze naturali e praticarono l’arte di imbalsamare insetti e animali. Si decicarono con impegno a meccanica, idraulica, calzoleria e falegnameria. Ebbero anche lezioni di equitazione.
Partirono a maggio, in accordo con mons. Allgeyer, per evitare le grandi piogge e permettere allo stesso vicario di accompagnarli fino a destinazione. Ricevettero il crocefisso del mandato missionario il 3 maggio, il 7 fecero visita al card. Richelmy (arcivescovo allora di Torino) che non solo li benedisse ma si chinò a baciare loro i piedi (fatto rimasto segreto per anni), l’8 partirono da Porta Nuova in treno per Marsiglia salutati dall’Allamano, dal Camisassa (che aveva curato al dettaglio tutta l’organizzazione della spedizione) e un po’ di parenti. L’avventura era cominciata.
Di questo viaggio diede puntuale relazione il p. F. Perlo con un vivacissimo diario ricco di annotazioni, preziose informazioni e splendide foto che fu pubblicato a puntate su «La Consolata». Chissà se un giorno troveremo il tempo e i mezzi per ripubblicare quelle pagine così emozionanti.

Gigi Anataloni

Gigi Anataloni




Feudale, islamico, atomico

Un paese complesso e diseguale

Militari, servizi segreti e oligarchia economica dominano su una popolazione impoverita. L’islam, la religione della Costituzione, è usato come arma per combattere i nemici e opprimere le minoranze. Su tutto ciò s’inserisce una deriva integralista di matrice qaedista e talebana.

L’uccisione di Osama bin Laden il 2 maggio 2011 da parte di uomini dei reparti speciali statunitensi nella città-guaigione di Rawalpindi aveva le potenzialità di chiudere un periodo in sé difficile e controverso nei rapporti tra Usa (e Occidente) e Pakistan. Invece, sia quell’episodio, sia la successiva evoluzione della situazione internazionale e intea dovevano mostrare che la fine di Bin Laden apriva un capitolo contrastato e sanguinoso, rischiando di allargare ancora di più il fossato ideologico, strategico e di interessi tra Pakistan e Occidente, identificato soprattutto con la sua mano armata: la missione Nato in Afghanistan denominata Isaf (Inteational Security Assistance).

OSAMA E TALEBANI, FANTASMI ONNIPRESENTI
Il funerale di Osama, tenutosi poche ore dopo la sua fine in un’area del Mare d’Oman, al largo delle coste pachistane, ha tolto ogni possibilità ai suoi estimatori di fare della sua morte un rischioso «cult», ma non ha chiuso del tutto sospetti, macchinazioni e teorie attorno alle ultime fasi della sua vicenda terrena, incluso il suo ruolo reale in Al Qaeda e nella galassia jihadista sparsa dal Marocco all’Indonesia. Non sarebbe servito, altrimenti, radere al suolo, nel febbraio 2012, la casa dove aveva vissuto per anni prima dell’uccisione, in un’area fortemente controllata dai servizi di sicurezza del paese. Memoria quindi scomoda anche per intelligence locale, generali e politici… da cancellare come premessa al riavvicinamento agli Usa, nonostante le morti di civili e militari colpiti dai droni a stelle e strisce.
Difficile non ricordare che l’ascesa di Bin Laden era stata in tempi non sospetti – quelli dell’invasione sovietica dell’Afghanistan e della sua successiva liberazione – «necessaria» agli Usa e ai servizi segreti pachistani, come in seguito lo è stata l’aberrazione talibana, coltivata in Pakistan per essere rilasciata oltreconfine. Fino a quando le due aberrazioni non si sono intrecciate con la crisi morale e di legittimità di buona parte dei regimi mediorientali e con i rinnovati interessi dell’Occidente, diventando un pericoloso boomerang.
Difficile ignorare che la deriva integralista in Pakistan è stata accesa dalla scelta del generale-dittatore Zia Ul Haq di creare – alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso – una legislazione gradita ai religiosi radicali (sheikh e mullah), utile a sostenee il potere mettendo però l’una contro l’altra le anime sociali, etniche e religiose del grande paese asiatico (esteso quasi tre volte l’Italia, 180 milioni di abitanti, il secondo al mondo come popolazione musulmana). Difficile infine ignorare che in tempi più recenti il generale-presidente Musharraf abbia promosso le forze armate ad arbitri della vita del paese che – dalla nascita nel 1947 – ha vissuto più anni sotto il potere dei fucili che non sotto quello del Parlamento.
Tutto ovviamente sotto lo sguardo attento e mai disinteressato dell’Occidente, opportunamente distratto per quanto riguardava gli effetti su sviluppo, diritti umani e civili, democrazia di una tale situazione. Che oltretutto coincideva con la necessità di disporre di un partner che bilanciasse la potenza indiana in stretto accordo con il gigante cinese emergente. Fino a quando la situazione intea è sembrata sfuggire di mano e il riavvicinamento tra Usa e India (e di entrambi con la Cina) ha accelerato la deriva islamista del paese. Dotato, anche questo va ricordato, di decine di testate atomiche e di vettori in grado di lanciarle, con il rischio più volte espresso dalle diplomazie, che l’arsenale possa finire in mano all’islamismo radicale oppure a gruppi terroristici. Oggi è troppo tardi, forse affinché gli anticorpi presenti nel paese possano insieme attivare una democrazia compiuta, l’indipendenza strategica e soffocare l’aggressione integralista.

PARLAMENTO FRAMMENTATO E SENZA POTERE                                
Il Pakistan resta feudale nell’intimo, con una parte non indifferente della popolazione costretta in stato di schiavitù da tradizioni o debiti, e milioni di altri cacciati – come conseguenza di conflitti locali e regionali, per catastrofe naturali e per discutibili e velleitarie scelte di sviluppo – in una vita di stenti in campi profughi. Dipendenti insieme dalla «benevolenza» delle autorità locali e dagli insufficienti aiuti inteazionali.
Nessuna delle forze parlamentari è in grado di contrastare i «poteri forti» del paese: militari, servizi segreti, establishment economico, antica aristocrazia tribale, autorità religiose.
Il «Partito del popolo pachistano», guidato dopo la morte di Benazir Bhutto dal figlio e (più concretamente) dal vedovo Asif Ali Zardari, laicista senza rinnegare l’identità islamica scolpita nella Costituzione, è oggi maggioritario in Parlamento, ma non può da solo gestire il paese. Il suo principale antagonista è la Lega musulmana (fazione Nawaz), con leader e Nawaz Sharif, islamista pragmatico senza inclinazioni all’ideale jihadista. In mezzo, come presenza parlamentare, la Lega musulmana (fazione Qaid-e-Azam) il partito dell’ex generale ed ex presidente Parvez Musharraf, ora di fatto in esilio a Londra inseguito da un mandato di arresto.
Il «Movimento di tutti i partiti democratici», di chiara ispirazione islamista, ha al centro il piccolo Pakistan Tehrik-e-Insaf, guidato dall’ex campione di cricket Imran Khan. Un partito che per la sua carica giustizialista prima ancora che religiosa, ha tra i suoi uomini di punta Iftikhar Ahmad Chaudhry, ex presidente della Corte suprema, dimissionato da Musharraf insieme ad altri 40 giudici e incarcerato. Nel suo complesso il «Movimento di tutti i partiti democratici» è fautore di un’islamizzazione moderata ma concreta. Insomma, il confronto tra musulmani radicali e liberali resta aperto.
Attoo, una galassia di partiti e di movimenti, espressione di una società civile frammentata. Verdi e comunisti sono delle presenze pressoché simboliche, ma insieme a una molteplicità di formazioni a base etnica e territoriale, come il Muttahida Qaumi Movement, che raccoglie i voti dei mohajir, danno consistenza formale all’incerta democrazia pakistana.  

L’ISLAM, LE MINORANZE, LA BLASFEMIA
La politica, nel complesso, sembra avere un ruolo oggi secondario rispetto ad antichi e nuovi potentati, al controllo dei militari, al crescente ruolo del fondamentalismo religioso. Certamente non è in grado di gestire la situazione nemmeno secondo le regole della Costituzione che segnala uguaglianza e benessere comuni per le minoranze come per la maggioranza musulmana.
Nato per dare una patria ai musulmani dell’India al tempo della separazione di quella che fino al 15 agosto 1947 era stata un’unica entità politica sotto la Corona britannica, il Pakistan ha da sempre nella fede un forte elemento identitario, sottolineato dalla sua Costituzione. Indubbiamente, però, la condizione di sottosviluppo e, in tempi più recenti, il contagio islamista di matrice qaedista e talebana dal confinante Afghanistan ha fatto del Pakistan un paese incerto tra laicità dello Stato e islamismo ma, soprattutto, un paese ostile alle sue minoranze. Cristiani perseguitati nella provincia del Punjab e nelle loro enclave assediate nel Nord e nell’Ovest del paese; induisti nel Balochistan, sikh nella provincia del Nord-Ovest e nel Punjab, ancora cristiani e indù nella megalopoli portuale di Karachi, all’estremo Sud.
Nel mirino degli integralisti sono anche movimenti e sette musulmani considerate eterodosse (se non addirittura eretiche) da islamisti che non ammettono deviazioni da una dottrina di importazione araba (da molti considerata straniera in quanto lontana dalle tradizioni islamiche locali) e insieme promuovono intolleranza e terrorismo. Oggetto di questa attenzione sono i Sufi, fautori di una mistica islamica, e gli Ahmadiya, deviazione pacifica e laboriosa dall’ortodossia che la persecuzione sembra averla nel Dna, qui come in Iran e in Indonesia.
A sua volta, lo stato pachistano continua a tollerare nel suo ordinamento giuridico la serie di provvedimenti indicati comunemente come «legge anti-blasfemia». Strumenti posti in opera dal dittatore militare Zia ul-Haq nel 1986, che la rinnovata ma fragile democrazia pachistana continua a tollerare consentendo così a un islam (che pochi sembrano volere) di dominare con la violenza prima ancora che i non-musulmani, gli stessi fratelli e sorelle nella fede.
Un esempio di come la situazione abbia influito sul Paese, la rende con chiarezza il suo cuore demografico, culturale ed economico, il Punjab.

L’ARRETRAMENTO DEL PUNJAB
Fino a pochi anni fa, il Punjab (82 milioni di abitanti sparsi su 205.344 chilometri quadrati di territorio alluvionale attraversato da imponenti corsi d’acqua e grandi vie di comunicazione), la provincia più popolosa e ricca delle quattro che compongono il Pakistan e che per un lungo tratto affianca il confine con il vicino-rivale India, è stata la vetrina di una paese possibile. Distante dal tribalismo associato a un crescente radicalismo di impronta talebana che identificava la Provincia della Frontiera del Nord-Ovest, lontana dall’arretratezza congenita del desertico Balochistan; ignorata dai problemi interetnici associati alle congregazione malavitose e a vasti potentati rurali che governano il meridionale Sindh e il suo capoluogo Karachi, la provincia sta ora esprimendo in pieno il travaglio dell’intero paese. Non a caso qui riemergono prepotenti fenomeni come il latifondismo sostenuto dal potere delle milizie private, il fondamentalismo religioso che ha fatto vittime illustri nella provincia con la maggiore popolazione cristiana (quasi due milioni i battezzati), le discriminazioni che la cultura indo-islamica (con il cuore nel capoluogo Lahore), aveva superato nel nome di una grande tradizione culturale e di una fede tollerante e dialogica.

Stefano Vecchia

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Le minoranze non islamiche
NON È UN PAESE PER CRISTIANI

La vicenda di Asia Bibi è soltanto un esempio e neppure il più drammatico. In Pakistan, molti cristiani hanno perso la vita. Alcuni erano personaggi conosciuti (come il ministro cattolico Bhatti), altri semplici cittadini la cui unica colpa era di non essere fedeli islamici.

Sono tempi duri e pericolosi per i cristiani del Pakistan. Segnati non soltanto dall’emarginazione quotidiana ma anche da molte forme di violenza e sopraffazione che hanno trovato un’eco internazionale. Senza che però la pressione delle diplomazie e della Chiesa universale in stretto contatto con i movimenti della società civile e la Chiesa locale abbiano ottenuto di cambiare la situazione in senso positivo.
Il potere politico ha mostrato come non mai la sua sudditanza all’azione degli estremisti, in parte guardati con simpatia proprio da settori della maggioranza di governo. Sequele di atti violenti hanno accentuato tensioni e diffidenza.
Il fatto che la minaccia integralista sia ora arrivata a ogni livello è dimostrato dall’assassinio il 4 gennaio 2011 di Salman Taseer, politico progressista, tra i principali esponenti del Partito del popolo pachistano e governatore della provincia del Punjab. Il 2 marzo dello stesso anno il ministro per le Minoranze, il cattolico Shahbaz Bhatti veniva ucciso all’uscita di casa. Nei due casi, gli assassini sono stati esaltati come «eroi» dagli islamisti.
Sulla stessa linea dei due uccisi, ovvero di contrarietà a un uso arbitrario e opportunista della «legge antiblasfemia» e per il predominio dello stato di diritto sulle faziosità e sugli estremismi, sempre nel 2011 l’attuale ambasciatrice di Islamabad a Washington, Sherry Rehman è stata costretta alle dimissioni dal governo e il figlio di Taseer, Shahbaz Ali, è scomparso dopo essere stato rapito il 26 agosto.
Non unico come dinamica, ma assurto a simbolo, il caso di Asia Bibi ha fatto da sfondo e da pretesto a omicidi «eccellenti» come anche alle continue pressioni degli integralisti. Asia, madre di famiglia, cattolica, condannata a morte in prima istanza nel novembre 2010 è in attesa da allora di un giudizio d’appello bloccato dalle pressioni degli integralisti e dal timore della politica e dei giudici che una sentenza di assoluzione  – probabile come hanno dimostrato analoghi casi nel passato – possa diventare il pretesto per una spallata al fragile governo di Islamabad.
Resta valida invece la visione espressa qualche tempo fa dal domenicano padre James Channan, direttore del Centro per la pace dell’arcidiocesi di Lahore: «Purtroppo, il fondamentalismo sembra oggi incontrollabile. Sembra non esserci più spazio per opinioni diverse, una situazione che va oltre ogni immaginazione e che va contro gli stessi principi essenziali della fede islamica. Gli assassinii di Salman Taseer e di Sahbaz Bhatti hanno lasciato i cristiani in uno stato di shock. Hanno reso ancora più evidente come siano poveri, oppressi e vulnerabili. Come, alla fine, siano l’immagine del Cristo sofferente».

Asia Bibi, Salman Taseer, Shabaz Bhatti: la semplice madre di famiglia cattolica, il raffinato politico musulmano e il coraggioso esponente cristiano hanno cercato a modo loro di far prevalere la ragione e il diritto in una situazione di intolleranza e fanatismo. Molti altri sono finiti sotto processo con l’accusa di oltraggio al profeta Muhammad, al Corano o alla religione islamica, alcuni hanno pagato con la vita la loro appartenenza religiosa. Associata spesso a povertà ed emarginazione che ne mettono maggiormente a rischio incolumità e onore, come nel caso delle giovani cristiane che lavorano in stato di servitù nelle case di agiati musulmani. Per non dire delle giovani rapite e stuprate o di quelle costrette alla conversione all’Islam e al matrimonio.
Alla fine anche contrasti di vicinato, antichi rancori, incomprensioni possono diventare, pur in pochi casi – se valutati sul metro delle dimensioni territoriali e demografiche del paese – ma comunque significativi e dolorosi, pretesti per accuse infamanti, detenzione ma anche azioni extragiudiziali spesso violente e letali.
A consentirlo è una visione opportunista dell’Islam che permette a un’accusa senza prove oppure palesemente falsificata diventi – se attuata da un musulmano – denuncia legale per inquirenti e magistrati sovente intimoriti, a volte conniventi, mettendo a rischio la vita degli accusati, dei loro familiari e di chi ne prende le difese.
Come sottolinea tuttavia Nadir Hassan, giornalista pachistano, «il vero avversario non è il sistema giudiziario. È necessario che la maggioranza della popolazione venga istruita, convinta che le leggi contro la blasfemia sono crudeli e anacronistiche». «Quando una società comprende che mettere a morte qualcuno per le sue opinioni e credenze religiose è fondamentalmente illiberale – prosegue Hassan -, la battaglia è già vinta. In Pakistan purtroppo, non abbiamo nemmeno iniziato ad avanzare verso questa convinzione, ma è anche vero che finora nessuna pena capitale comminata per reati di blasfemia è stata eseguita perché le più alte istanze giudiziarie, inclusa la Corte islamica federale, hanno sempre annullato i verdetti iniziali. La minaccia maggiore per la vita di quanti sono accusati di tale reato arriva da fanatici, mentre il disinteresse della polizia verso i violenti, come pure i giudizi dei tribunali di grado inferiore, alimentano il rischio di esecuzioni extragiudiziarie».

Stefano Vecchia

Stefano Vecchia




Ricostruire la comunità

Piccola storia di riscatto dal basso

Mentre un piano globale per la ricostruzione non esiste, piccole realtà locali, legate alla solidarietà, riescono a produrre cambiamento. È il caso della fondazione haitiana promossa da un missionario scalabriniano veneto. Siamo andati a trovarlo.

L’arrivo a Port-au-Prince è sempre qualcosa di emozionante e affascinante. Forse già per il nome, ma sicuramente per la storia straordinaria e terribile di questa città. E infine, per gli eventi degli ultimi anni, dal terremoto del 12 gennaio 2010 in poi. Qualcuno la voleva rasa al suolo e i suoi abitanti irrimediabilmente persi, ed è questo che i mass media del mondo intero ci hanno presentato. E invece no. Port-au-Prince, o meglio il suo popolo, resiste, sopravvive, brulica di attività di ogni genere. Dal piccolo commercio al traffico di stupefacenti, dalla costruzione di case, alla composizione di splendide poesie, alla scultura di simboli vudù sulla latta raddrizzata dei bidoni di benzina.
Una vita sempre «border line», come se tutto dovesse crollare da un momento all’altro, come se la tensione sociale dovesse far scoccare la scintilla di disordini incontenibili. Come se la terra dovesse tremare ancora.
La realtà quotidiana è il traffico caotico e incontrollato, contro il quale lottano i suoi abitanti, inventandosi scorciatornie e orari improbabili per andare e tornare dal lavoro.
La città è così ben descritta dalla corrente letteraria del «realismo meraviglioso» fondata dagli haitiani Jaques Romain e Jaques Stephen Alexis: il meraviglioso, il fantastico, qui diventa realistico, vero, cioè accade.
La cronaca di oggi ci riporta un aumento di banditismo cittadino, attacchi e uccisioni a scopo di rapina. In questo periodo è di moda l’assalto a mano armata con la motocicletta. Qualche mese fa andavano di più i rapimenti a scopo di estorsione.

Spostare i disperati
A Port-au-Prince si lavora un po’ ovunque per rimuovere le macerie con camion e ruspe e il panorama cittadino è molto cambiato negli ultimi dodici mesi. Chi ha potuto ha iniziato a ricostruire con i propri mezzi la casa crollata. Altri si sono accontentati delle costruzioni «temporanee» distribuite dalle Ong umanitarie. Ma non esiste una pianificazione complessiva.
Negli ultimi tempi le tendopoli (o «campi», come li chiamano qui) che occupavano le principali piazze e aree libere della città, a partire dalla zona dell’aeroporto internazionale per arrivare alle belle Place Saint Pierre e Place Boyer di Pétion-ville, sono state sgomberate, tornando alla quasi «normalità» precedente al terremoto.
Salendo per la strada Canapé Vert per Pétion-ville sulle pendici scoscese delle montagne che sovrastano la città, sono sempre più evidenti nuovi quartieri di semplici casette arroccate una sull’altra. Sembra quasi che aumentino, occupando i pendii verso l’alto, di giorno in giorno, in una zona totalmente esposta agli smottamenti causati dalle delle frequenti alluvioni.
Ma il grande sbocco dei disperati che hanno perso tutto durante il terremoto e che ora sono sloggiati dalle piazze e dai campi di calcio cittadini è la Plaine du cul de sac. È in questa pianura ricca d’acqua, al lato Nord della capitale, nella forbice tra la strada nazionale n. 1 verso Gonaives e la n. 3 verso Hince, che la città si sta espandendo. Nel Sud non è possibile, il comune di Carrefour è già congestionato, a Est ci sono le montagne e a Ovest il mare. A partire dal disegno politico di creare la più grande tendopoli, il Camp Corail (campo Corallo), prevista inizialmente per 9.000 persone, ora in questa vasta zona si sono «accampati» con rifugi di vario tipo e privi quasi di servizi, oltre 47.000 sfollati.
È qui, al limite del comune di Croix-de-Bouquets, che incontriamo un’interessante esperienza di reale ricostruzione dal basso.
In questi luoghi a metà degli anni Novanta padre Giuseppe Durante, della congregazione degli Scalabriniani, era stato inviato per aprire una nuova missione. Padre Giuseppe, originario di Montebelluna (Tv) veniva da esperienze di lavoro negli Usa, in Messico e poi con gli immigrati haitiani in Repubblica Dominicana.
Nella zona chiamata «Santo», padre Giuseppe aveva costruito un primo seminario per gli scalabriniani. Ad esso aveva, negli anni, aggiunto una clinica e una scuola per il quartiere.
«Subito dopo il terremoto – racconta padre Giuseppe – il nostro seminario era diventato il punto di riferimento per la gente dell’area. Con alcune persone sensibili abbiamo creato un comitato di quartiere e iniziato la distribuzione di acqua tramite autocistee. Poi abbiamo distribuito degli aiuti arrivati dagli Usa e dalla Regione Lombardia. Anche il Pam (Programma alimentare mondiale) ci ha dato dei viveri e abbiamo organizzato un magazzino. Gli alimenti in parte erano rubati all’arrivo ed era anche pericoloso distribuire quelli che restavano: si diventava obiettivo di assalti. In questo ci hanno aiutato dei gruppi giovanili, come il Kiro, presente in quasi tutte le parrocchie».
Il missionario inossidabile, con gli occhiali perennemente appannati, sembra non essere cambiato negli ultimi quindici anni.
Le attività di prima emergenza sono durate circa tre mesi, i campi da calcio del centro degli scalabriniani erano diventati delle tendopoli. Poi il parroco di Croix-de-bouquets e due laici sono andati a parlare con padre Giuseppe per proporre un’iniziativa più sul lungo periodo.
«Abbiamo pensato di creare una fondazione di diritto haitiano».
È nata così la Fondation haitienne pour le relèvement et le développement (Fhrd, Fondazione haitiana per il cambiamento e lo sviluppo) la cui missione è lo sviluppo del quartiere. Erano passati quattro mesi dal sisma. Oggi la fondazione ha un comitato di amministrazione di nove persone, tutte haitiane tranne padre Giuseppe, che ne rimane presidente, anche se preferirebbe prendee un po’ le distanze. «Come scalabriniani abbiamo sempre appoggiato la fondazione e, in un certo senso, siamo un po’ garanti dell’uso dei fondi che arrivano per le attività».

Una casa vera
La fondazione si è concentrata subito sul bisogno primario: la casa. «Volevamo aiutare la gente a rifarsi un’abitazione decente», non le baracche in compensato o plastica distribuite dalle Ong inteazionali e pagate quanto le case permanenti, che sono ormai parte dell’habitat haitiano delle zone terremotate. Un business questo che, con i soldi degli aiuti, ha favorito fabbricanti statunitensi, importatori dominicani e costruttori troppo spesso stranieri ad Haiti.
«Abbiamo realizzato dei prototipi di casette in blocchi di cemento e cemento armato, antisismiche, coperte di lamiera». Visitiamo le costruzioni non lontano dalla missione: una sala con angolo cucina, due camere decenti, un bagno: quanto basta per un’abitazione dignitosa per una famiglia. Con un primo aiuto di Caritas Italiana, Croce rossa e alcuni volontari italiani esperti in costruzioni, la fondazione ha realizzato il primo «villaggio» di 18 casette recintate da un muro di protezione: il «villaggio Colombe», inaugurato il 29 novembre 2011.
«È stato il primo quartiere permanente costruito a Port-au-Prince e ha suscitato molto interesse». Continua padre Giuseppe. «Inizialmente è stato difficile avere dei fondi, ma quando i finanziatori hanno constatato che siamo in grado di realizzare quanto promesso, si sono presentati in molti».

Cooperativa di inquilini
La novità, oltre alla costruzione semplice ma funzionale e accogliente, è il concetto di «comunità integrale» che la Fondazione vuole realizzare. «La Fondazione è responsabile della costruzione e della gestione del villaggio. Le famiglie beneficiarie, scelte su una lista di coloro che, nella zona, hanno perso tutto e sono più bisognose, si costituiscono in cornoperativa di residenti. La cornoperativa elegge tra i membri un responsabile di villaggio. Per Colombe è una signorina molto in gamba. La Fondazione nomina una persona che si occupa di quel villaggio. Le due figure collaborano per dirimere i conflitti e rispondere alle necessità che possono sorgere. Sono responsabili di quello che succede. Abbiamo sperimentato che con questo sistema c’è molta partecipazione».
Le case poi, se tutto funziona, sono riscattate dagli inquilini: «Un’abitazione ci costa circa 10.000 dollari (7.700 euro, ndr.) escluso il costo della terra: ottimo prezzo per Haiti». La Fondazione produce i propri blocchi di cemento (è questo il mattone di base usato sull’isola) e può contare, in parte, su lavoro volontario. «Ogni famiglia paga un “affitto” di 400 dollari all’anno e in 10 anni la casa diventa di sua proprietà». Un contratto è stipulato tra gli inquilini e la Fondazione, con il quale i primi accettano anche le regole per abitare nel villaggio, una sorta di regolamento condominiale. «La terra, invece resta della Fondazione, perché vogliamo avere sempre la possibilità di un certo controllo su quanto succede nel villaggio. Altrimenti il rischio è che costruiscano altre strutture in modo disordinato o vendano la casa. Se vogliono uscire dal progetto la Fondazione rifonde quanto hanno pagato fino a quel momento. È una garanzia della durata, ovvero che le case non siano vendute, saccheggiate, danneggiate». Il villaggio ha acqua corrente potabile (il che è un lusso a Port-au-Prince) ed elettricità. Gli inquilini devono essere in grado di pagare i consumi. 
«Abbiamo una lista con centinaia di domande» ricorda il missionario. E i finanziatori, visto il successo del villaggio Colombe, si sono fatti avanti.
Un secondo villaggio di 28 case è in costruzione, mentre sono previsti altri due villaggi di 70 e 80 abitazioni. «Anche la Croce rossa italiana ha chiesto alla Fondazione di costruire il proprio villaggio di 200 case!». E qui si pone un problema: perché si rischia di superare le forze della Fhrd per soddisfare tutte le richieste. E questo ha aperto una riflessione intea. 

Dalla casa alla comunità
«La Caritas italiana all’inizio ci ha dato il costo di 10 case, e volevamo farle dove la gente ha perso la propria per causa del terremoto. Ma c’era il problema della proprietà della terra, che qui non è mai certa. Inoltre c’erano i dubbi legati al trasporto del materiale da costruzione in diversi quartieri, con il rischio elevato che venisse rubato. Allora io ho proposto di fare le case raggruppate, in un cantiere unico, recintato, protetto. Su una terra acquistata con documenti sicuri. È stata una scelta indovinata: abbiamo comprato la terra qui, e la gente che era nelle tende è venuta ad abitarci».
E intorno si sviluppa il concetto di comunità: «Dare la casa, e poi? È nata l’idea che i bambini potessero usufruire della scuola e della clinica. Abbiamo anche chiesto alla Croce Rossa che potesse fare un centro giochi, biblioteca, sala computer, campo sportivo. È nato un “villaggio urbano”. Inoltre un gruppo di suore brasiliane stanno impostando con la gente un progetto di “economia solidale”: hanno iniziato diversi corsi e vogliono puntare su orti e allevamento di piccoli animali.
L’idea è dunque passata dalla costruzione della casa alla costruzione della comunità, con assistente sociale, servizi, protezione. Un’idea che ha avuto molto successo: c’è sicurezza, continuità». Il padre è umile e dalle sue parole non traspare neppure un filo di vanità per queste realizzazioni, che localmente, stanno dando ottimi risultati.

Lavoro e dignità
Un altro aspetto fondamentale sta contribuendo a migliorare le condizioni di vita a Santo: «Si è creato lavoro: abbiamo 130 operai, nella costruzione, nella fabbricazione dei mattoni, e cucine. È diventata fonte reddito. La relazione con la comunità è molto buona».
Questi ultimi sono i «progetti produttivi» che padre Giuseppe elenca con orgoglio, pur non nascondendo le difficoltà: «La Fondazione ha realizzato anche un panificio che oltre a impiegare personale, contribuisce al reddito delle famiglie attraverso le madri che vendono in giro i sacchetti di pane. E qui famiglia vuol soprattutto dire mamma con figli, perché gli uomini sono latitanti. Talvolta, in una giornata, una madre riesce a guadagnare anche più di un operaio. Per il futuro stiamo realizzando una fabbrica di pasta e una cucina industriale».
L’Agenzia scalabriniana per la cooperazione allo sviluppo onlus (www.ascs.it) di Milano, appoggia il progetto con volontari e cooperanti di lungo periodo, come Mirco Camilletti, che da oltre un anno è impegnato sul terreno. «Ci hanno anche messi in contatto con industriali milanesi, i quali ci mandano queste macchine che utilizziamo per il panificio».
Un importante aiuto per la costruzione dei villaggi e la formazione lo stanno dando i volontari «storici». Sono amici di padre Giuseppe e professionisti di Montebelluna che da 16 anni vengono a passare alcuni mesi a Santo, mettendo a disposizione le loro competenze e formando giovani haitiani: Martino, Bruno, Tarcisio, Antonio, Florio, Diego, Giuseppe.
Lasciato il villaggio Colombe, a poca distanza siamo in un cantiere dove file di casette sono in costruzione. Sarà il villaggio «Montebelluna – Bassano». Qui diverse squadre sono al lavoro e l’attività è frenetica: chi prepara il cemento, chi intonaca, chi monta le strutture.
«La gente ci differenzia dalle Ong. Qui la persona religiosa, nell’immaginario popolare, è molto importante. Per questo godiamo di un certo prestigio, ci fanno le confidenze, soprattutto come missionari. Anche perché sanno che non facciamo i nostri interessi». E conclude: «Questa relazione con la gente mi ha dato delle soddisfazioni personali, inoltre stiamo rispondendo ai bisogni reali. Per questo io mi sento bene».

Marco Bello


Marco Bello




L’ombra dei Ton Ton Macoute

Tra corruzione, paramilitari e assenza del governo

«Sono stati fatti dei passi avanti, ma siamo preoccupati perché ci sono molti segni di ante 1986». Suzy Castor, storica, politica e attivista dei diritti umani, ricorda l’anno in cui fu rovesciato Duvalier, ma non sconfitto il duvalierismo.
«La transizione è lunga (dalla dittatura alla democrazia, ndr.), ma le conquiste democratiche, pur essendo solide, non sono irreversibili. Affinché lo siano occorrerebbero istituzioni forti, partiti politici forti e società civile forte». Nulla di questo è una realtà nell’Haiti di oggi, dove si assiste invece a «una de-istituzionalizzazione del paese» ricorda Castor.
Si riferisce, tra l’altro, a un fenomeno allarmante apparso a inizio 2012: la nascita di un sedicente movimento degli ex militari delle Forze Armate d’Haiti (Fadh), smantellate dal presidente Aristide all’inizio del 1995.
Negli ultimi mesi uomini in uniforme, armati e foiti di camionette hanno occupato edifici pubblici e strutture della polizia. A partire dalla loro base principale a Carrefour, comune nei pressi di Port-au-Prince, si sono poi mostrati in diverse località del paese. Il 17 aprile hanno fatto irruzione nel cortile della Camera dei deputati, dove una sessione era in corso, con lo scopo – sostenevano – di presentare le loro rimostranze per la rifondazione dell’esercito. Il presidente della camera, Lévaillant Louis Jeaune, ha subito sospeso i lavori.
Di fatto, molti di questi uomini sono giovani e non possono quindi essere ex militari. Si tratta di una forza paramilitare, di miliziani che non sono per nulla, o quasi, ostacolati dalle istituzioni.
«L’esercito è contemplato dalla Costituzione – ricorda Suzy Castor – e gli ex militari hanno sempre cercato di ricrearlo. Oggi il clima è loro favorevole, in quanto il presidente Martelly ha fatto della rifondazione delle Fadh uno dei suoi punti del programma di governo».
L’intervento in parlamento è stato condannato ufficialmente dal portavoce della presidenza e dal governo, ma di fatto poche azioni sono state intraprese.

Ma dove sono finiti i fondi governativi per la ricostruzione? «Credo che la ricostruzione sia partita male dall’inizio; l’organismo creato a tal fine non era adeguato». Il regista Aold Antonin parla della Commissione ad interim per la ricostruzione di Haiti, il cui mandato è cessato il 15 ottobre scorso e non è stato rinnovato. «Occorreva togliere la ricostruzione dall’influenza delle lotte di potere haitiane e dal clientelismo. Doveva essere un organismo nazionale, non straniero. Ma soprattutto fare contratti da 10 milioni di dollari senza gara d’appalto è stata una enorme fonte di corruzione».
Degli 11 miliardi promessi dai donatori ufficiali, ne sono stati versati 3,5. Poi tutto è stato bloccato. Nessun impatto si è visto, nessuna pianificazione generale, «nessun piano di sistemazione del territorio – continua Antonin – o di intervento nelle altre città per decentrare i servizi».
Riassume in modo sintetico padre William Smarth, 81 anni e colonna morale del paese: «Grande delusione: no ricostruzione, no decentramento, no lavoro. Si continua ad attirare gente in capitale».

Intanto la politica haitiana è di nuovo bloccata. Il presidente–cantante Michel Martelly è riuscito a ottenere le dimissioni del suo primo ministro Garry Conille il 27 febbraio scorso. Conille spingeva affinché si risolvesse la questione della nazionalità del presidente (la Costituzione haitiana prevede che non possa avee altre, mentre Martelly è sotto inchiesta per sospetto di avere nazionalità statunitense e italiana). Soprattutto aveva creato una commissione di verifica per i lavori da 300 milioni di dollari per la ricostruzione che sotto l’amministrazione congiunta Bellerive (precedente premier) – Martelly erano «scomparsi» nella Repubblica Dominicana.
Il nuovo primo ministro designato, Laurent Lamothe, uomo d’affari e attuale ministro degli esteri, è (al momento in cui si scrive) nel processo di ratificazione in parlamento.
Il blocco degli aiuti governativi (da notare che si tratta di un canale diverso da quelli raccolti nei vari paesi del mondo e poi utilizzati da missionari ed Ong) è quindi in gran parte dovuta all’incertezza politica che regna nel paese, alla mancanza di un organismo di gestione e controllo e, non ultimo, all’attuale assenza di un governo con pieni poteri.

Marco Bello

Marco Bello




La guerra dentro casa

Un paese senza pace

Cambiano presidenti e comandanti, ma non la situazione. La guerra civile colombiana dura da oltre mezzo secolo. Ne fa le spese la popolazione, soprattutto gli oltre 4 milioni di sfollati e gli indios.
Ne abbiamo parlato con padre Ezio Roattino, missionario nel Cauca, regione dove guerriglia, esercito e paramilitari si fronteggiano senza esclusione di colpi. Sulla pelle dei civili per i quali dicono di combattere.

Spari di mitraglia, boati di esplosioni. Il sito internet delle «Forze armate rivoluzionarie di Colombia» (Farc) ha un «sottofondo musicale» piuttosto particolare. In questo spazio virtuale, il 26 febbraio viene pubblicato un comunicato in cui si annuncia la prossima liberazione di 10 prigionieri di guerra, soldati e poliziotti nelle mani della guerriglia1. Nello stesso comunicato, si annuncia che d’ora in poi le Farc non prenderanno più in ostaggio uomini e donne della popolazione civile. Padre Ezio Roattino, missionario della Consolata, da 30 anni in America Latina (o Abya Yala2, come egli preferisce dire), è scettico. «Nella logica della guerra, ci sono momenti in cui il linguaggio conciliatorio è reso necessario dalla situazione oggettiva. In questo momento le Farc sono in difficoltà». Non si sa con certezza di quanti uomini la guerriglia disponga oggi. Si parla di poche migliaia; qualche anno fa erano oltre 20 mila. I vari fronti e colonne mobili in cui le Farc sono organizzate sembrano muoversi in maniera disordinata, al di fuori di ogni strategia nazionale. «Il cornordinamento – spiega padre Ezio – è diventato molto complicato. Sia per la fortissima militarizzazione del territorio, sia per la diffusione di tecnologie sempre più sofisticate. Molte delle recenti disfatte delle Farc sono state possibili grazie all’intercettazione dei cellulari».
Oltre che dalle sconfitte patite ad opera dello Stato3, le difficoltà della guerriglia sono aggravate dalla scarsità di risorse finanziarie e, probabilmente, dalla mancanza di un forte comando centrale.
Negli ultimi quattro anni, le Farc hanno perso Raul Reyes, Manuel Marulanda, Mono Joyoy e da ultimo Alfonso Cano. Da novembre 2011, il nuovo leader è Rodrigo Londono-Echeverry, detto «Timochenko», di cui però si sa ancora troppo poco.
Paradossalmente, le difficoltà delle Farc si sono tradotte in maggiori pericoli per la popolazione civile, in modo particolare nel Cauca. «A Santander de Quilichao, per le imprese è molto pericoloso sottrarsi al pagamento della “quota rivoluzionaria”, un vero e proprio “pizzo”. Poi, oltre alle estorsioni nei confronti dei soggetti economici, ci sono i sequestri di persona».
Padre Ezio ricorda la vicenda del rapimento di Francesco Menotti Perlaza, figlio di una famiglia benestante. Il ragazzo riesce a scappare, ma per la famiglia l’incubo continua con minacce, bombe e un omicidio. Il 21 aprile 2011 viene assassinato Agustín Perlaza, zio di Francesco. Pochi giorni dopo quella tragica morte, padre Roattino si espone pubblicamente scrivendo una lettera aperta alle Farc. In essa si scaglia contro la «cultura della morte» fino ad affermare che una vera rivoluzione ha una propria etica e mistica oppure non è una rivoluzione.

«LEI NON PUÒ ENTRARE CON LE ARMI»
Ancora più difficile è la situazione per chi vive nei centri minori. Come a Toribio, il piccolo comune di montagna, in gran parte abitato da popolazione di     etnia nasa, dove padre Roattino
(continua a pag. 18)
è stato parroco fino a pochi mesi fa e dove gli attacchi della guerriglia sono molto frequenti. L’obiettivo è la locale stazione di polizia, ma gli effetti si ripercuotono su tutti.
«Le Farc che io conosco – parlo  di Toribio e del Cauca di questi ultimi anni – non lottano più per un ideale sociale, ma sono entrate nello spazio del terrorismo. Per esempio, il fatto di usare le bombole del gas che esplodendo colpiscono indiscriminatamente, secondo me va contro qualsiasi etica rivoluzionaria».
Sabato 9 luglio 2011 a Toribio è giorno di mercato. È attesa una chiva, una corriera, carica di prodotti della campagna. Invece, ne arriva una piena di bombe e ordigni esplosivi. L’esplosione, violentissima, avviene vicino alla stazione di polizia, non lontano dalla chiesa. Ci sono 3 morti e 122 feriti. Un bilancio che sarebbe potuto essere molto più tragico se la chiesa e la casa parrocchiale non avessero fatto da muro di contenimento, attutendo l’urto dell’onda esplosiva e proteggendo così tutta la gente che riempiva il mercato della piazza principale di Toribio.
Padre Roattino è duro con le Farc, ma lo è altrettanto con lo Stato. A Toribio il missionario non consente alla polizia di entrare in chiesa con le armi. Una decisione che viene spesso interpretata come un affronto di lesa maestà. «Un giorno, un comandante della locale stazione di polizia chiese di leggere le scritture durante la messa. Ma io mi opposi. “Io non metto in dubbio la sua fede – gli dissi -, ma lei rappresenta uno Stato armato”. A volte, mi vedo costretto a ricordare che Gesù Cristo fu ammazzato dalle forze dell’ordine… La parola di Dio – “Tu non uccidere” – vale sia per la guerriglia che per lo Stato. Perché non esiste una guerra giusta».

NUOVO TRATTATO, NUOVI ESCLUSI
Dall’agosto 2010 è presidente della Colombia Juan Manuel Santos. Che sicuramente non è un uomo nuovo. È stato ministro sotto la presidenza di Álvaro Uribe e proviene da una delle famiglie più influenti del paese.
I Santos sono stati proprietari ed oggi azionisti de El Tiempo, il principale quotidiano colombiano. Padre Roattino non vede, nel paese, i progressi che politici e media propagandano. «Viene esaltata – spiega il missionario – l’inteazionalizzazione del paese perché, il 12 ottobre 2011, il Congresso degli Stati Uniti ha approvato il “Trattato di libero commercio” con Bogotà. Ma il Tlc sarà certamente un brutto colpo per la Colombia degli esclusi. I prodotti provenienti dagli Stati Uniti invaderanno il mercato colombiano spiazzando con i loro prezzi bassi le produzioni locali».
Anche sul tema del conflitto armato interno, i proclami della presidenza Santos si scontrano contro la realtà. Nel luglio 2011, è stata promulgata la «Legge per le vittime e la restituzione delle terre»4, che si prefigge di restituire agli sfollati (desplazados) la terra persa a causa del conflitto e di indennizzare le vittime di violazione dei diritti umani. Peccato che la legge nasconda svariati trucchi giuridici5.
In Colombia, esistono almeno 4 milioni di sfollati6 e si stima che le terre in mano a proprietari illegittimi siano almeno 6,5 milioni di ettari. Numeri enormi. «Dubito molto sull’efficacia di questa legge. Basta ragionare un attimo: chi ha il coraggio di andare a reclamare una terra su cui si sono insediati altri soggetti, certamente più forti e più protetti di una famiglia di sfollati?».
I soggetti cui padre Roattino si riferisce sono latifondisti e paramilitari. Va ricordato che la «Legge di giustizia e pace»7, fulcro del processo di disarmo dei paramilitari, è sostanzialmente fallita. Oggi si sono formati nuovi gruppi paramilitari che, secondo cifre ufficiali, conterebbero 5.700 membri. Il fenomeno è reso possibile dalla connivenza con il mondo politico (come ha evidenziato lo scandalo conosciuto come «parapolitica») e con una parte delle forze di polizia. Nel 2011, almeno 180 poliziotti sono stati incarcerati per vincoli con i paramilitari8.
La terra è ambita da tutti, ma a prevalere sono sempre i soliti. In questi ultimi anni, c’è stata un’invasione di multinazionali minerarie sulla Cordigliera andina colombiana, la quale, tra l’altro, è una grande riserva di acqua, ospitando le sorgenti di tutti i grandi fiumi: Magdalena, Putumayo, Caquetà, Cauca. Ebbene, qui il governo ha già rilasciato 64 concessioni minerarie per poter estrarre petrolio o altre ricchezze come l’oro. «Ci sono resguardos indigeni – spiega padre Roattino – venduti a compagnie minerarie senza una consultazione previa con le popolazioni, come previsto dalla Costituzione. Quindi, l’acqua e la foresta appartengono agli ultimi arrivati. D’un colpo, la storia è tornata indietro di 500 anni!».
Per il 2012 in Colombia si prevede una crescita del Prodotto interno lordo pari al 4,5%. Numeri da invidia per politici, economisti e media del sistema neoliberista. Peccato che questo sviluppo segua le consuete strade della diseguaglianza, come sottolinea padre Roattino: «Oggi in Colombia gli ultimi – indios, afrodiscendenti, campesinos – stanno peggio di prima. Non ci sono dubbi che l’esclusione è in aumento. Com’è in aumento l’insicurezza. A Bogotà si dice più o meno così: nella condizione in cui ci troviamo oggi, i poveri non possono più mangiare, la classe media non può più comprare, i ricchi non possono più dormire (per la paura di essere derubati)».
A parte le vittime della guerra e della delinquenza, tra la gente comune a rischiare la vita sono soprattutto i sindacalisti e i difensori dei diritti umani. Nel 2011, sono stati assassinati 26 dei primi e 49 dei secondi9. L’impunità continua a coprire la violazione dei diritti umani. Il governo di Santos non si distingue da quello di Álvaro Uribe, suo predecessore, neppure in questo.

Paolo Moiola

Note
1 – La liberazione degli ostaggi è avvenuta lo scorso 2 aprile 2012. Alcuni erano prigionieri da 13 anni.
2 – Abya Yala è il nome indigeno delle Americhe.
3 – Pur lasciando spazio a colpi di coda, come avvenuto il 17 marzo 2012 quando le Farc hanno ucciso 11 soldati nel dipartimento di Arauca. Pochi giorni dopo, la controffensiva dell’esercito ha portato all’uccisione di 33 guerriglieri e alla cattura di 5.
4 – Ley de víctimas y restitución de tierras. La legge è scaricabile dal web.
5 – Gilberto Lopez y Rivas, Colombia. Il terrorismo di Stato continua, Latinoamerica n. 4, 2011, pagg. 68-71.
6 – Sono 3,7 milioni secondo Acción Social, organismo pubblico; sono invece 5,3 milioni secondo Codhes, nota Ong colombiana.
7 – Ley de justicia y paz, n. 975, 25 luglio 2005.
8 – Rapporto di Human Rights Watch, gennaio 2012.
9 – Rapporto di Somos defensores, Ong che si occupa di proteggere i difensori dei diritti umani: www.somosdefensores.org.

Paolo Moiola




Resistenza e dignità

Gli indigeni del Cauca

Sono pochi, ma combattivi. Nel Cauca, il movimento indigeno, nato dalla lotta di Manuel Quintín Lame, ha pagato il suo impegno con una lunga serie di morti. I più conosciuti sono padre Alvaro Ulcué (1984) e Cristobal Secue Tombé (2001). Ma il tributo di sangue continua ancora oggi. La guerriglia, i paramilitari e la forza pubblica non gradiscono un’opposizione, che fa della resistenza nonviolenta la propria forza.

In Colombia, su una popolazione totale di 47 milioni di abitanti, gli indigeni sono un milione e 400mila1. «Molti sostengono – racconta padre Roattino – che gli indigeni siano l’unico gruppo sociale che protesta e che si fa sentire». Questo vale soprattutto per gli indigeni del Cauca, appartenenti in maggioranza all’etnia nasa. Le loro mingas suscitano sempre molto clamore. «In effetti – conferma il missionario -, riescono a mobilitare 15-20 mila persone in marce di 4-5 giorni per arrivare fino a Bogotà. Hanno visibilità, anche se poi questa non produce frutti per quanto riguarda la risposta dello Stato. Le firme sono fatte su accordi che vengono regolarmente disattesi dalle autorità. Tuttavia, le mingas sono fondamentali per generare coscienza e solidarietà a livello nazionale».

L’oggetto del contendere è sempre lo stesso: la terra. Per i bianchi, essa è soprattutto una questione economica. Per gli indios, è innanzitutto una questione mistica: la terra è madre. Da difendere a costo della vita.
In Cauca, uno dei primi a parlare di diritti indigeni sulla terra è Manuel Quintín Lame (1880-1967), indio di padre nasa e madre guambiana. La sua lotta inizia combattendo il sistema del terraje. Questo prevede che i coloni (ex schiavi) paghino ai latifondisti un «affitto» costituito in parte da prodotti agricoli, in parte da giorni di lavoro gratuito. Non riuscendo ad ottenere risultati, Lame si fa più ardito iniziando a chiedere la restituzione della terra ai legittimi proprietari, gli indigeni. Una lotta impari, soprattutto per le terre più produttive, quelle in pianura. Tutte le volte in cui gli indios nasa si sono spinti verso le «terre basse», in mano al latifondo o ai paramilitari, è sempre finita nel sangue. Come ricordano il massacro di López Adentro (1984) o quello del Nilo (1991). Ma da anni il problema è anche sulle «terre alte» (conosciute come «tierras quebradas»), in mano agli indigeni, che sono state invase dagli attori del conflitto armato (la guerriglia, l’esercito, i paramilitari) e, più recentemente, dalle imprese multinazionali.
«Oggi – spiega padre Roattino – la vera ricchezza è data dalla enormi riserve di acqua. Si parla di migliaia di sorgenti idriche, centinaia di lagune. Quest’acqua beneficia tutta l’industria della Valle del Cauca e le grandi coltivazioni di canna da zucchero, ma gli indios – unici a poter accampare diritti – non ricevono nulla. Ed anzi rischiano di vedersi espropriati se non stanno all’erta».

Dopo la morte di Manuel Quintín Lame, nel febbraio del 1971 nasce il «Consiglio regionale indigeno del Cauca» (Consejo regional indígena del Cauca, Cric). Ma la lotta degli indigeni della regione trova nuovo impulso quando – è l’anno 1973 – sulla scena appare Álvaro Ulcué Chocué, il primo sacerdote di etnia nasa della Chiesa cattolica colombiana. Padre Roattino ha conosciuto bene padre Alvaro, avendo lavorato con lui dal 1982 al 1984 nei resguardos di Toribio, Jambaló e Taquejó. «Alvaro non soltanto ha marcato un’epoca, ma ha segnato in profondità la coscienza indigena».
Il sacerdote nasa voleva svegliare, scuotere l’indio che la colonia aveva umiliato e standardizzato. Voleva «decolonizzare la mente» degli indios. In primis, riappropriandosi della lingua madre, tratto essenziale dell’identità indigena.
«Una volta – racconta padre Ezio – mi convocarono quelli del Das, Departamento Administrativo de Seguridad. Uno dei punti su cui i servizi segreti vollero interrogarmi era proprio la lingua. “Padre, dicono che lei parli la lingua indigena. Dunque, chi non la conosce non può capirla”. Volevano dirmi: “Lei nasconde delle cose”. Il potere voleva controllare, ma per farlo basta fare una cosa: imparare la lingua. Cosa non facile invero, anche all’interno dei nasa. Un giorno feci salire in auto una ragazza di 15-16 anni che veniva da Cali e andava al suo villaggio. Le chiesi in lingua nasa: “Come stai?”. Lei mi rispose: “Buongiorno, padre”. In spagnolo. “Scusa – le dissi -. Ma tu non sei indigena?”. E lei: “Mia madre era indigena”. Che tradotto significava: per me non è più così».

Nel gennaio 1984 gli indigeni recuperano (non occupano) un latifondo a Corinto: la Hacienda López Adentro, una «terra bassa». Vi rimangono per circa un anno. Il 9 di novembre arrivano i militari che distruggono tutto: 300 ettari di coltivazioni, case e macchinari. Il giorno dopo, 10 novembre 1984, muore padre Alvaro Ulcué, ammazzato a Santander de Quilichao da 2 sicari. «Non fu una coincidenza – spiega padre Roattino -, ma un avvertimento: gli indios si erano spinti troppo in là. Quindici anni dopo sarebbe toccato a Cristobal, altro leader indigeno molto impegnato e deciso nell’azione del recupero delle terre».
Cristobal Secue Tombé viene assassinato il 25 giugno 2001, nel municipio di Corinto. Da allora è stato (è) uno stillicidio. Secondo dati ufficiali di Somos defensores2, nel 2010 in Colombia sono stati assassinati 32 difensori dei diritti umani. Di questi, 11 erano indigeni, di cui ben 8 del Cauca.

Sono passati 500 anni dalla Conquista: l’indio di oggi non è più quello di ieri. «Alcuni leader – spiega Roattino – vorrebbero tornare al passato, dimenticando che anche l’indio è nel 2012. Non si può dire: “Sii indio”. Ci sono indios che non vogliono essere tali. Non si può obbligare, imporre. Occorre dire: “Sii indio, se vuoi”. Personalmente, vedo 3 tipi di indio: c’è quello tradizionale che vuole essere la fotocopia del passato, c’è quello moderno che critica le tradizioni e c’è l’indio nuovo. Quest’ultimo è quello che ha una radice antica, che prende dal passato senza però dimenticare il tempo in cui vive». Un tempo segnato dalla strenua difesa della terra e della propria identità. Lungo questa difficile strada si sono incamminati i 120 mila indigeni del Cauca. A dispetto delle Farc, dei paramilitari e dello Stato colombiano.

Paolo Moiola

Note
1 – La cifra è quella dell’ultimo censimento (anno 2005) effettuato dal Departamento administrativo nacional de estadistíca (Dane). Secondo la stessa fonte, gli afrocolombiani sono poco meno di 4,3 milioni.
2 – Rapporto 2010 di Somos Defensores.

Paolo Moiola