Uomo Nero, Torna A Casa Tua

Reportage da Israele:
la dura vita dei richiedenti asilo africani.
A migliaia,
fuggiti da conflitti africani, si ritrovano in Israele dopo un viaggio impossibile.
Ma per i richiedenti asilo l’integrazione è molto difficile. Non esiste una
legge che li tuteli. I politici di destra al governo li considerano una
minaccia. Le associazioni denunciano: immigrazione gestita su base religiosa.

Corre per oltre 250 chilometri il susseguirsi di reti e
muri che dividono il deserto del Sinai da Israele. Tel Aviv ha deciso la
costruzione di queste barriere per bloccare il flusso di migranti che negli
ultimi anni arriva sempre più copioso dall’Africa sub-sahariana. Sono i figli
dell’Africa nera: eritrei, somali, sudanesi, congolesi, nigeriani, ivoriani che
scappano dai loro paesi dilaniati da guerre, tanto lunghe quanto cruente.
Attraversano il deserto del Sahara e in molti scelgono di proseguire per
l’Egitto e la Libia, i più «fortunati» s’imbarcheranno per il tragico viaggio
verso Lampedusa. Una parte minoritaria decide di continuare a piedi attraverso
il deserto del Sinai, verso quella che in Europa definiamo «l’unica democrazia
del Medioriente». Israele accetta di malavoglia i richiedenti di asilo
politico. Sono decine le denunce di associazioni umanitarie, israeliane e
inteazionali, che parlano di soldati che sparano contro uomini e donne mentre
questi tentano di superare il confine tra Israele ed Egitto.

Respinti a fucilate

Yaki ha finito il servizio militare da qualche anno e ora studia
in una grande città europea. Per oltre dodici mesi ha pattugliato il confine
meridionale israeliano: «Da lì entrano i terroristi. Sono quelli che hanno
fatto scoppiare gli autobus negli anni passati». Yaki non è un estremista di destra, né uno
sprovveduto facilmente influenzabile dalla propaganda governativa. Nato e
cresciuto in una famiglia israeliana della media borghesia, a 18 anni è stato
catapultato in 36 mesi di servizio militare obbligatorio. «Personalmente –
continua l’ex militare – non ho mai sparato contro i migranti, ma ho negli
occhi l’immagine di una notte in cui una pattuglia ha iniziato a fare fuoco
contro un gruppo di donne. Non ci sono stati morti, ma quando abbiamo parlato
con loro ci hanno raccontato che erano state tutte rapite e violentate per mesi
dai beduini nel deserto». Le donne di cui racconta Yaki, come la maggioranza
degli africani che arrivano in Israele attraversando il Sinai, sono state
trasferite in un centro di detenzione nel deserto nel Neghev, Sud del paese,
per essere identificate, seguendo lo stesso principio dei Cie (Centro di
identificazione ed espulsione) e Cara (Centri di accoglienza richiedenti asilo)
in Italia.

Dal maggio 2012 a Tel Aviv è stato messo in funzione un nuovo
centro di detenzione che, a pieno regime, potrà ospitare fino a 16mila persone
nel Neghev. È stato definito, dai pochi a cui è stato permesso l’accesso, «un’immensa
prigione di tende e prefabbricati nel deserto». Da ottobre la polizia di
frontiera ha iniziato a respingere nel deserto del Sinai i rifugiati africani,
un’altra triste analogia con la politica di contenimento all’immigrazione
attuata dall’Europa.

La storia di Oscar

Tel Aviv è la città simbolo della nascita
dello stato ebraico, un agglomerato urbano dove vivono circa tre milioni di
persone, quasi la metà della popolazione israeliana. Le prime case spuntarono a
inizio anni ’40, come periferia di Jaffa, uno dei più antichi e conosciuti
porti arabi del Mediterraneo. Con la creazione dello Stato ebraico, nel 1948,
si costruirono velocemente i grandi palazzi sulla spiaggia, che tutt’ora
ospitano i più rinomati alberghi d’Israele, costituendo uno skyline
simile a una grande città della Florida.

Le case degli arabi residenti a Jaffa, per lo
più scappati durante la guerra del ’48, vennero inglobate nel grande processo
di urbanizzazione. Dopo 60 anni Tel Aviv è diventata una delle città più care
al mondo per acquistare casa. Si sono concentrati qui soprattutto i giovani e
la parte meno religiosa d’Israele, lasciando Gerusalemme agli ultra-ortodossi.

A Tel Aviv sorge il più importante aeroporto
d’Israele, l’unico che fa atterrare i voli di linea inteazionali. Ed è qui
che diciotto anni fa atterrò l’aereo di Oscar Oliver, 45 anni, congolese. Oscar
scappava da un conflitto lungo e sanguinoso come solo le guerre civili sanno
essere. Era portavoce del sindacato studentesco e per le sue idee venne
arrestato e perseguito. Scappò dal Congo all’Egitto «ma non mi andava di
passare da una dittatura a un’altra» quindi chiese e ottenne un visto
lavorativo per arrivare in Israele. Ora è uno dei 60mila africani richiedenti
asilo politico residenti in Israele senza documenti. Oscar vive in clandestinità
con sua figlia, 9 anni, nata a Tel Aviv, ma senza la residenza israeliana. «Il
problema – spiega Oscar – è che le autorità gestiscono l’immigrazione su una
base religiosa. Non ci sono leggi che regolamentino l’ingresso di persone in
pericolo, questo è il cuore della questione: non c’è una legge per accogliere
chi non è ebreo». Dal punto di vista legale, Israele ha firmato la Convenzione
di Ginevra, che sancisce i diritti delle vittime di guerra e più in generale il
diritto internazionale umanitario, ma si rifiuta di riconoscere lo status di
rifugiato.

Oscar, come circa l’ottanta percento dei
richiedenti asilo africani, vive in una bolla di Tel Aviv, il quartiere di Neve
Sha’an, che sorge attorno all’enorme stazione dei bus. In Israele non c’è un
sistema ferroviario efficiente, gran parte della popolazione si muove con
modei bus verdi. I prezzi sono bassi e le rotte coprono tutto il paese. Come
in ogni grande centro urbano il quartiere accanto alla stazione è uno dei più
degradati della città: case fatiscenti, pochi servizi e ancor meno sicurezza.
Il picco del degrado è certamente il parco Levinsky, un paio di ettari in pieno
centro a Tel Aviv, esattamente alle spalle della stazione degli autobus. Qui
dorme ogni notte qualche migliaio di persone, tutte africane, buona parte delle
quali in Europa sarebbero inserite nel processo di richiesta di asilo politico.

Infiltrati o rifugiati?

Ci sono in Israele circa 60mila rifugiati
africani, di cui circa 40mila sono eritrei, altri 15mila vengono dal Sudan, metà
dei quali sono cristiani provenienti dal Sud Sudan mentre l’altra metà arriva
dal Darfur e sono musulmani. Fino alla scorsa primavera c’erano circa 2mila
persone originarie della Costa d’Avorio, ma negli ultimi mesi sono state in gran
parte deportate.

Al momento le autorità stanno cercando di
fare rimpatriare anche parte dei rifugiati fuggiti dal Sud Sudan. Le
espressioni usate per definire i richiedenti asilo politico sono al centro di
una campagna condotta dal governo israeliano: non vengono chiamati rifugiati,
ma infiltrati, quasi a richiamare il termine utilizzato per gli attentatori
palestinesi durante la seconda intifada. Il governo non parla di deportazioni,
termine troppo simile a quello usato in Europa negli anni ’30 e ’40, ma di
rimpatri volontari «anche se in molti – racconta Oscar – sanno che tornando nei
loro paesi d’origine troveranno i loro aguzzini ad aspettarli».

L’Ong Human Rights Watch ha accusato
il governo israeliano di contribuire a creare un’atmosfera negativa nei
confronti dei migranti. Secondo il sondaggio pubblicato a inizio novembre dal
quotidiano Israel Hayom, sembra che la strategia abbia funzionato: il
52% degli israeliani non vorrebbero come vicino di casa un lavoratore
straniero. Nell’ultimo anno ci sono state molte manifestazioni contro i
migranti africani organizzate da vari movimenti di destra sia a Tel Aviv che a
Gerusalemme. In una di queste marce Michael Ben Ari, un parlamentare
israeliano, ha incitato la folla urlando: «Io lo so, sono venuti per distruggere
il paese». Durante l’ultima estate si sono registrati attacchi fisici almeno
una volta alla settimana. Persino un asilo nido, frequentato per la maggioranza
da bambini eritrei, è stato dato alle fiamme.

I partiti di destra che governano il paese hanno una posizione
molto netta sui rifugiati africani e non perdono occasione per rimarcarla. Il
primo ministro Benjamin Netanyahu ha definito i migranti africani come una
minaccia all’identità dello stato ebraico. Elli Ishai, ex ministro
dell’Inteo, ha dichiarato a una tv israeliana: «La soluzione è chiara.
Neghiamo loro il permesso di lavorare, li imprigioniamo e li rimandiamo in
Eritrea». Miri Regev, già parlamentare: «I sudanesi sono un cancro nel corpo
della nostra nazione». Danny Dannon, parlamentare: «La soluzione è parlare
apertamente di deportazione. Dobbiamo deportare gli infiltrati».

«Gli africani che arrivano in Israele non sono alla ricerca di un
lavoro, ma di protezione» ripetono invece come un mantra gli attivisti e i
pochi politici che da anni lavorano per integrare i rifugiati nella società
israeliana. La possibilità di essere impiegati, se non in nero, è molto bassa,
perché lo stato ebraico non riconosce ai richiedenti asilo un permesso di
lavoro. Questa condizione spinge ancora più in basso i rifugiati, infatti molti
di loro sono stati costretti a pagare un riscatto per essere rilasciati, dopo
essere stati sequestrati in Sinai. I trafficanti chiedono fino a 10mila
dollari, una cifra enorme per i paesi dell’Africa sub-sahariana. Le famiglie
per aiutare i propri ragazzi s’indebitano, debito che ricade sulle spalle dei
richiedenti asilo.

Il lavoro dei Volontari

Israele è una nazione composta per l’ottanta percento da figli e
nipoti di rifugiati. Ed è proprio su questo punto che insistono i volontari di Levinsky
Soup
(La Zuppa di Levinsky), un gruppo di cittadini, che da febbraio dello
scorso anno aiuta gli africani che vivono nel parco. Iris ha studiato in Italia
due anni e ha una vaga idea di come funziona il programma di protezione per i richiedenti
asilo in Italia e in Europa: «Il problema qui è governativo ed è sicuramente
l’agenda per la quale il paese deve rimanere a maggioranza ebraica. È una cosa
razzista. Non vogliono aiutare o permettere ad altre persone di restare qui. Ma
non si prendono nemmeno il tempo di controllare se questi ragazzi hanno i
requisiti o meno per ottenere l’asilo politico». Mentre Iris parla si forma una
lunga coda, gli africani ordinatamente aspettano l’unico pasto caldo della
giornata. «La cosa che non ha senso – continua Iris – è che Israele è composto
per la maggior parte da seconde o terze generazioni di rifugiati
dell’Olocausto. Dobbiamo aiutare i rifugiati africani come obbligo verso i
nostri padri, che si sono salvati, che da rifugiati hanno creato uno stato».
Shlomo arriva al parco su una bici che traina uno strano carretto, ci sono
dentro due pentoloni: «Più di venti chili di riso bianco, la base dei nostri
pasti. Serviamo ogni sera tra i 500 e gli 800 piatti, più di qualsiasi ente di
solidarietà in Israele». Levinsky Soup è un gruppo informale di
cittadini che si è autorganizzato lo scorso inverno dopo la morte per ipotermia
di un rifugiato nel parco. «Non ci è sembrato possibile – spiega Shlomo mentre
scodella il riso – siamo rimasti scioccati e come singoli cittadini abbiamo
deciso di fare qualcosa. Questo è un paese accogliente, lo è stato con i nostri
genitori e noi dobbiamo esserlo con altri». Passeggiando per il parco si vedono
coperte e buste di plastica piene di vestiti incastrate all’incrocio dei rami
degli alberi. «Israele – continua Shlomo – ha già dovuto affrontare la
questione dell’immigrazione di massa. Abbiamo gestito quasi un milione di
arrivi con la disgregazione dell’Unione Sovietica, non posso credere che il
governo sia traumatizzato da 60mila rifugiati africani. Vorremmo vedere la
democrazia applicata per tutti e non solo per gli ebrei».

Per gli abitanti del parco, se un pasto caldo è quasi
un’eccezione, l’accesso ai servizi sanitari è praticamente impossibile. L’Ong Physician
for Human Rights
, Phr, (Medici per i diritti dell’uomo) è una delle poche
associazioni alla quale si possono rivolgere i rifugiati. «Il 59% dei nostri
pazienti – racconta Ran Cohen, operatore dell’Ong – ha subito torture e abusi,
anche di carattere sessuale, durante il passaggio in Sinai. Phr ha una sede con
ambulatorio a pochi minuti a piedi dal parco, nulla a che vedere a confronto
dei grandi ospedali privati della zona Sud di Tel Aviv, ma da qui passano ogni
settimana centinaia di richiedenti asilo. L’Ong lavora contrastando
quotidianamente le difficoltà di un lavoro «scomodo»: aiutare decine di
migliaia di persone che non sono benvenute a causa della provenienza, della
loro religione: «Aiutare i rifugiati – conclude Ran – è quasi un crimine in
Israele».

 Cosimo
Caridi

Cosimo Caridi




«Venerando Dio in te… Buongiorno!»

Esperienza di Dialogo Interreligioso in Corea: Alla scoperta del
«SOO-WOON-KYO», religione autoctona coreana.
La presenza dei missionari della Consolata in Corea del Sud è caratterizzata
dal dialogo interreligioso con le molte confessioni storiche e autoctone
presenti nel paese. Padre Diego ci racconta l’esperienza da lui vissuta con una
delle religioni nate di recente nel paese: un fine settimana con il
Soo-woon-kyo.

Lo spirito religioso in Corea
affonda da tempo immemorabile le sue radici nello sciamanesimo, nel buddismo e
nel confucianesimo. Su questa base preesistente, da poco più di 200 anni in qua
si è inserito con forza anche il cristianesimo. Oltre a queste religioni «maggiori»
però, esiste in Corea tutta una galassia di altre religioni molto più «piccole»,
ma non per questo meno importanti nel panorama religioso della nazione. Si
tratta delle cosiddette «religioni autoctone coreane».

Nate in
genere nella seconda metà del 1800 dall’illuminazione di fondatori che volevano
rispondere alla sofferenza e alla situazione di vera oppressione in cui versava
allora il popolo, queste religioni hanno trovato i loro migliori rappresentanti
nel ch’on-do-kyo (la religione della «Via del cielo») e nel buddismo-won
(buddismo nato in Corea); ma sono anche state sottoposte a un inarrestabile
processo di disgregazione, che ha portato alla nascita di innumerevoli altri
piccoli gruppi. Al momento della creazione, nel 1983, dell’Associazione delle
religioni autoctone coreane che le racchiude e rappresenta tutte, queste erano
ben 34! Anche se, da allora, diverse sono praticamente scomparse.

Nel
contesto del dialogo interreligioso, ho avuto una bella occasione per conoscere
e avvicinare, per la prima volta, una di queste piccole religioni autoctone,
chiamata «Soo-woon-kyo» (pronuncia: su-un-ghio), ed ecco che cosa
ho scoperto!

L’occasione

Dal 5 al 12 maggio si era
celebrata a Seoul, e per la prima volta in Corea, la «Settimana dell’Armonia
tra le religioni», sotto gli auspici della Conferenza coreana delle religioni
per la pace (Kcrp, Korean Conference of Religions for Peace), autentico
organo propulsore del dialogo interreligioso in Corea.

Il suo attuale presidente,
l’arcivescovo cattolico Igino Kim Hui-jung, e gli altri leaders delle 7
grandi religioni della Corea, avevano aperto solennemente la Settimana con un
grande «evento» nella centralissima piazza di Kwang-hwa-moon. Poi chiunque
avesse voluto, durante la settimana era invitato ad andare a visitare 7 «luoghi
santi» delle religioni in centro Seoul. A ogni luogo visitato, la persona
riceveva un timbro, che avrebbe poi dato diritto a partecipare al programma
seguente, pensato dalla Kcrp: un fine-settimana di «esperienza diretta» presso
qualcuna delle religioni della Corea. Vivendo ormai da quasi quattro mesi a
Dae-jeon, città a 170 km da Seoul, dove noi missionari della Consolata stiamo
costruendo il nostro nuovo Centro di dialogo interreligioso, avevo potuto
partecipare solo ai momenti più importanti della «Settimana dell’Armonia tra le
religioni», ma poi ho scoperto con piacere che uno dei fine-settimana di «esperienza»
delle altre religioni si sarebbe svolto proprio a Dae-jeon, e mi sono subito
iscritto per partecipare.

Si trattava di far visita,
conoscere e sperimentare, per quanto possibile, la religione Soo-woon-kyo. Non
ne avevo mai sentito parlare prima, e perciò ero particolarmente incuriosito.
Il fine-settimana in questione era da venerdì 13 a domenica 15 luglio. 

I partecipanti

Vivendo a soli 5 km dal quartier
generale del Soo-woon-kyo, sono arrivato presto al luogo del raduno, e ho
cominciato a salutare i presenti. Innanzitutto il segretario generale
dell’Associazione delle religioni autoctone coreane, di cui il Soo-woon-kyo fa
parte, il signor Kim Jae-wan, una simpatica persona di una certa età, che mi ha
preso subito a benvolere (ero l’unico straniero presente!) e che è rimasto con
noi per tutto il tempo. Ho salutato poi il professor Pak Kwang-su, del
Buddismo-won, un caro amico che non vedevo da molti anni, e altri ancora.
Infine è arrivato il pullman da Seoul, da cui è sceso un folto gruppo di
partecipanti, guidati dal professor Pyon Jin-hung, cattolico e segretario
generale della Kcrp.

Tra i partecipanti, conosciuti
poco a poco durante il fine settimana, c’erano una monaca e un monaco buddisti;
una signora confuciana; alcuni buddisti laici; altri non meglio identificati
(si trova un po’ di tutto nell’ambiente del dialogo interreligioso!); e un buon
gruppo di cattolici. Stranamente i protestanti, che di solito si trovano
dappertutto, hanno brillato per la loro assenza: hanno fatto solo una fugace
apparizione per qualche ora un prete anglicano e un pastore protestante che
partecipano regolarmente agli incontri della Kcrp. In tutti eravamo quasi una
trentina.

Ai partecipanti «estei», però,
bisogna aggiungere tutti i volontari del Soo-woon-kyo, che erano là ad accoglierci
e accompagnarci. Erano tutti vestiti, uomini e donne, con una classica
giacchettina coreana grigia, sulla quale spiccavano ben visibili le strisce di
5 colori che contrassegnano il Soo-woon-kyo: il giallo, il rosso, il verde, il
bianco e il nero, che simboleggiano l’universo. Tra di essi c’erano gli «esperti»
della religione, incaricati di spiegarcela e mostrarcela, i «sacerdoti» che
presiedono ai riti e le signore che, come da tradizione, si sono occupate della
cucina per tutti noi (radicalmente vegetariana!).

La prima cosa che tutti abbiamo
imparato dal Soo-woon-kyo è il modo di salutare. Non si dice semplicemente «buongiorno»,
ma si fa riferimento al Dio del cielo (ovviamente inteso in senso orientale,
non una entità «personale» come siamo abituati a pensarlo noi); un Dio presente
sia in me sia nella persona che mi sta davanti, viene «riconosciuto e venerato»
fin dal saluto. Perciò: «Venerando Dio in te… buongiorno!».

Visita ai luoghi sacri

Non c’è dubbio che i nostri
ospiti del Soo-woon-kyo abbiano dato fondo a tutta la loro fantasia, per
prepararci un programma da svolgere, che più «vario» non poteva essere.

Abbiamo cominciato con una visita
ai «luoghi sacri» della religione: questi sono immersi in un parco naturale
molto esteso e bellissimo, ai piedi del monte Kum-byong, pieno di alberi
secolari e di verde, campi coltivati a verdure e sentirneri che s’inoltrano nel
bosco. Abbiamo visitato innanzitutto il tempio centrale, To-sol-ch’on, che ci
ha rivelato subito la complessità di questa religione. Ci è stato spiegato che
un riquadro centrale dorato, al centro del tempio, rappresenta il «Dio del
cielo» (che non si vede e non si tocca); ma poi ci sono i simboli degli altri
personaggi che vengono venerati nella religione: Tan-gun (il mitico fondatore
della Corea); Buddha (nella sua versione «escatologica» di Amita-bul); e
Confucio. Questa religione infatti pretende di «unificare» in se stessa le
dottrine e i principi religiosi di Confucianesimo, Buddismo e Taoismo.

Accanto al tempio principale c’è
un altro tempietto che ospita l’immancabile campana, di cui ci sono state
spiegate le caratteristiche artistiche e di costruzione. La campana viene
suonata ogni mattina e ogni sera, ritmandone il suono alle invocazioni cantate
a Buddha. Infine il «Pop-hwe-dang», cioè il luogo dove si svolgono i
riti religiosi e la preghiera.

A tutto questo è da aggiungere
una costruzione modea, nella quale siamo stati ospitati e nella quale abbiamo
svolto tutte le attività del fine-settimana.

I riti

Il sabato mattino, alle 4.00,
eravamo tutti radunati nel luogo apposito per la preghiera. Fui colpito nel
vedere come ci fossero molti «sacerdoti», vestiti con un abito da cerimonia
molto particolare e in testa una specie di corona a cinque stadi. A tuo hanno
presieduto la preghiera, che consiste in una prima offerta solenne di incenso a
Buddha, seguita da una serie di prostrazioni profonde, e poi nella ripetizione
cantata del «credo» basico della religione; seguita da altri canti e
prostrazioni, durante le quali l’intera assemblea si gira tutta verso i quattro
punti cardinali. Il tutto è accompagnato dal suono ritmico del «mok-tak»,
tamburello di legno concavo, tipico strumento buddista. 

Anche la domenica abbiamo potuto
assistere alla celebrazione domenicale, questa volta per fortuna alle dieci del
mattino; celebrazione che si è svolta quasi uguale alla prima a cui avevamo
assistito, con l’aggiunta di una lettura dagli scritti del fondatore della
religione e una semplice spiegazione/omelia sulla parte letta; per l’occasione,
aveva a che fare con il non lasciarsi vincere dal desiderio della ricchezza.

La sera prima, pur sotto la
pioggia, avevamo partecipato a una processione davanti al tempio centrale,
lungo un «percorso sacro» segnato da pietre disseminate sull’immenso prato,
preceduti dai portatori di bandiere, e ciascuno avevamo in mano una candela
accesa… Il tutto mentre lassù in alto, dentro il tempio, un sacerdote faceva
le prostrazioni di rito e offriva incenso a Buddha.

Fui molto impressionato dalla
devozione che tutti i fedeli Soo-woon-kyo mostravano durante la preghiera. I
rituali sono precisi e complicati (retaggio del Confucianesimo); per fare la
prostrazione, per esempio, gli uomini devono mettere a terra per prima la mano
sinistra (le donne, quella destra) e appoggiare il piede sinistro sopra quello
destro (le donne al contrario), e così via… Le formule cantate, per me
incomprensibili, devono essere molto ripetute, perché tutti le sapevano a
memoria e le cantavano a occhi chiusi, con grande concentrazione.

Attività di contorno

A me, a dir
la verità, sarebbe piaciuta una spiegazione più calma e completa della «teologia»
della religione, ma evidentemente gli organizzatori del programma non devono
averla pensata come me, perché questa parte, pur importante, è stata coperta
con una conferenza di un’oretta, senza lasciare tempo a eventuali domande di
spiegazione e di approfondimento. Tenete presente che ogni religione ha il
proprio «linguaggio» che, per uno straniero come me, non sempre è facile da
capire. Molte altre ore sono state, invece, impiegate in attività di esperienza
della cultura tradizionale coreana, con la quale il Soo-woon-kyo (come tutte le
religioni autoctone coreane) ha profondi legami. Abbiamo così fatto un esercizio
di origami
: si trattava di piegare e ripiegare quattro fogli di carta
colorata per ottenee un han-bok, cioè un vestito classico coreano in
miniatura.

Poi un’iniziazione alla danza
sacra
con i cembali, di chiara matrice buddista, e anche molto faticosa
dal punto di vista fisico, perché non si tratta solo di suonare i cembali, ma
anche di ruotarli in aria mentre si eseguono alcuni passi di danza,
volteggiando su se stessi.

Poi la preparazione di un piatto
tradizionale coreano
: esperienza alla quale mi sono discretamente
sottratto, date le mie quasi nulle doti culinarie.

Infine ci siamo accaniti tutti, a
gruppetti, in una specie di gioco dell’oca, ricalcato su un gioco
tradizionale ancora molto in voga in Corea, ma «trasformato» in base alle
credenze del Soo-woon-kyo. Secondo il punteggio ottenuto, facendo rotolare un
grosso «dado» di legno, i giocatori passavano attraverso un percorso tortuoso,
complicatissimo e pieno di insidie, dal «mondo reale degli uomini» per arrivare
al «mondo intermedio» e infine raggiungere il «mondo del regno di Dio».

Ci è stato spiegato che i fedeli
prendono questo gioco molto sul serio, quando lo fanno nel giorno di capodanno,
in quanto credono che il loro percorso sulla carta-guida del gioco determini
davvero le vicende della loro vita di un anno intero. È poi successo che abbia
vinto proprio io, e questo fatto mi è valso una grande popolarità tra tutti i
presenti!

Per concludere

Tutto sommato, è stata una bella
esperienza, che ha arricchito di un altro tassello il mio cammino di impegno nel
campo del dialogo interreligioso.

Personalmente, lo ripeto, avrei
preferito meno attività di contorno e più incontri di «sostanza» con i
rappresentanti del Soo-woon-kyo. Trovo curioso che, più una religione è
piccola, più la sua «dottrina» si presenta complessa e di difficile
comprensione. La pretesa di unificare in una sola le tradizioni religiose di
Confucianesimo, Buddismo e Taoismo, mi appare eccessiva, specie vedendo come,
di fatto, la parte del leone sia fatta dal Buddismo: il fondatore del Soo-woon-kyo
era un ex-monaco buddista!

Allo stesso modo trovo
sorprendente il fatto che, nonostante la piccolezza della religione e il suo
profondo e perfino «esagerato» legame con la cultura tradizionale coreana, i
fedeli del Soo-woon-kyo siano convinti di avere una «missione universale» da
svolgere, per costruire il regno di Dio sulla terra. Una missione che sentono
come particolarmente affidata al «popolo coreano», visto quasi come un messia
per il mondo intero. Di fatto invece, a mio parere, la religione si trova
troppo «chiusa» nel mondo culturale coreano e non credo possa ancora vantare
nessun tentativo concreto di apertura reale al mondo.

Insomma, l’esperienza mi ha
lasciato in cuore un mucchio di domande sulle quali mi sarebbe piaciuto
dialogare con i fedeli del Soo-woon-kyo! Ad ogni modo, come ho detto a tutti al
momento della cerimonia di chiusura dell’esperienza stessa, il fatto che adesso
io abiti a pochi chilometri dal quartiere generale della religione mi offrirà
certamente, in futuro, altre occasioni di incontro e dialogo, che spero possa
diventare proficuo.

Un’ultima considerazione:
certamente un’occasione come questa era preziosa per il Soo-woon-kyo per farsi
conoscere e mettersi in mostra, ma ciò non toglie nulla al commovente impegno e
all’entusiasmo con cui molte persone si sono prodigate per noi, in molti e
diversi modi, in questo fine-settimana. Tutti noi partecipanti abbiamo
sottolineato questo aspetto e li abbiamo ringraziati di tutto cuore.

«Venerando Dio in voi…
arrivederci!», fratelli e sorelle del Soo-woon-kyo.

Diego Cazzolato

Diego Cazzolato




Senza Nazione né Confini

I Sami: ultimo ceppo indigeno presente in Europa.
I Sami (impropriamente detti Lapponi) sono una popolazione
indigena della penisola scandinava. Nonostante il secolare processo di
colonizzazione e assimilazione, hanno conservato lingua e cultura. Oggi contano
circa 75 mila unità, sparse nelle regioni più settentrionali della Norvegia,
Svezia, Finlandia e Russia. Popolo senza confini né nazione, godono di
determinate concessioni che permettono loro di rafforzare la propria identità e
preservae gli aspetti culturali e tradizionali.

«Ascolta fratello, ascolta sorella!
Ascoltate la voce della madre primordiale! La terra è la nostra madre; se le
rubiamo la vita, moriremo anche noi…». Le note della canzone di Mari Boine,
una delle cantanti Sami più conosciute, si diffondono nella casa di Ari
Kangasniemi, poco lontano da Rovaniemi. Qui, Ari assieme alla moglie Irene, si è
trasferito nel 1995 trasformando lo stile di vita lappone, in un vero lavoro.

Considerato un’icona vivente nel
mondo dell’artigianato locale, Ari lavora le coa di renna trasformandole in
oggetti d’arte: coltelli, lampadari, statuine. Irene, invece, fabbrica vestiti,
monili, scarpe dalle fatture tradizionali di un mondo perduto, di cui sente la
mancanza.

«La città non ci piace, siamo
fuggiti dalla città per restare qui, immersi nella natura. Se non la tradisci,
la natura, la terra ti accoglie e ti offre tutto quello di cui hai bisogno»
afferma Irene mentre, nella sua casa in legno, mi offre una torta fatta in casa
e un succo di mirtilli raccolti nel bosco.

Chi può dirsi sami?

Un po’ animista, un po’
ambientalista, Irene è la tipica lappone che potrebbe vivere senza supermercati
e senza elettricità. Adora la cultura Sami, come dimostrano i tappeti, i quadri
e i tamburi di cui sono tappezzate le stanze in cui abita. Però, sia lei che
Ari, sami non lo sono, anche se potrebbero esserlo. E anch’essi, come molti
altri finlandesi, norvegesi, svedesi che vivono in Lapponia, incespicano quando
chiedo loro quali caratteristiche occorre possedere per potersi definire sami.

Questa titubanza mi conforta: dopo
diverse settimane di soggiorno in Lapponia, non ho ancora capito cosa significa
essere sami e chi si può qualificare tale ed ero arrivato al punto di pensare
di non aver capito nulla di questo gruppo etnico, l’ultimo ceppo indigeno
presente in Europa. Tutte le persone che ho interrogato sull’argomento, mi
hanno offerto risposte variegate: è sami chi parla una delle nove lingue sami
(in questo caso, secondo i dati del parlamento sami svedese, il 70% di chi si
dichiara ufficialmente sami, non dovrebbe esserlo); è sami chi è nato da almeno
un genitore sami (dunque sarebbero sami anche l’attrice Renée Zellweger e la
cantante Joni Mitchell, nate rispettivamente da madre e padre sami); è sami chi
alleva le renne (i sami che vivono di pesca, allora, a quale gruppo
apparterrebbero?).

L’ambiguità si ripercuote anche
tra gli stessi rappresentanti politici. Egil Olli, presidente del Samediggi
(il parlamento sami) norvegese, fatica a trovare una descrizione adatta,
rimandandomi alla definizione ufficiale: «Una persona è considerata sami se
egli stesso si considera sami e se ha imparato a parlare sami avendo almeno un
genitore o un nonno che parla sami come madrelingua».

Storia di colonizzazione

La difficoltà nel codificare
questo gruppo etnico scandinavo è figlia della violenta storia di
colonizzazione di cui i Sami sono stati vittime a partire dal XVI secolo. Sino
ad allora i Fenni, come li aveva chiamati nel 98 d.C. Tacito nel suo Germania,
non hanno mai avuto bisogno di identificare se stessi, essendo vissuti praticamente
isolati e commerciando pacificamente con i finnici, con cui condividono il
ceppo linguistico ungro-finnico.

A parte il fugace accenno di
Tacito, i Sami rimasero pressoché sconosciuti nel continente europeo sino al
medioevo, quando Svezia, Danimarca e Russia iniziarono a contendersi la regione
settentrionale della penisola scandinava, imponendo tasse ai suoi pochi
abitanti. La necessità di procurarsi legname, di cui sono tuttora ricche le
terre del Nord, favorirono la colonizzazione da parte degli abitanti del sud:
norvegesi, russi, svedesi, finlandesi cominciarono a spostarsi oltre il Circolo
Polare Artico, appoggiati da numerosi decreti reali che favorivano gli
insediamenti e assegnavano terre «permanentemente disabitate appartenenti a Dio
e alla Corona Svedese e a nessun altro».

Poco importa se le terre «permanentemente
disabitate» erano, in realtà, già da millenni territori dei Sami: in quanto
pagani e idolatri, non avevano diritto a ciò che Dio aveva creato per i
cristiani.

L’alleanza tra Chiesa e stato, fu
una miscela esplosiva per la cultura sami: ossessionati dalla stregoneria, i
missionari luterani consideravano satanico tutto ciò che aveva un collegamento
con l’aldilà. Gli sciamani cominciarono a essere emarginati dai siida (i
villaggi), gli yoik, i canti tradizionali che identificavano ciascun
gruppo o addirittura il singolo individuo, vennero proibiti, mentre i tamburi
con i quali si cercava un passaggio nel mondo degli spiriti, furono distrutti,
tanto che i pochissimi esemplari superstiti sono gelosamente custoditi nei
musei.

L’obbligo della messa domenicale,
impose ai sami convertiti di organizzare dettagliatamente i loro spostamenti,
limitando il nomadismo e il collegamento con altri villaggi. La Chiesa, con i
suoi rituali e i suoi dogmi, giocò, quindi, un ruolo di primaria importanza
nella politica che lo stato perseguiva per sottomettere i Sami. Le varie case
reali (svedesi, danesi, russe) sfruttarono con abilità le avanguardie
missionarie perché preparassero il terreno a successive colonizzazioni.

«Oggi la Chiesa guarda in modo
differente la cultura locale» mi dice Erva Nittyvuopio, teologa finlandese
specializzata in cultura sami: «Le varie diocesi cercano di appoggiare la
società sami permettendo la pratica di usanze un tempo proibite, come il canto
dello yoik in chiesa o l’uso dei tamburi, sempre che siano finalizzate a
perpetuare la gloria di Dio».

A distruggere lo stile di vita
sami fu, però, il potere statale: la scoperta dell’argento a Nasafiaell e,
ancor più, di giganteschi giacimenti di ferro a Kiruna e a Gallivare, nel XVII
secolo, indusse la casa reale svedese a emanare la famigerata Lapland Bill,
la legge che, regolando l’uso della terra, toglieva ai Sami il diritto al suo
sfruttamento.

Ottant’anni più tardi, nel 1751,
la demarcazione dei confini tra il regno di Svezia-Finlandia e quello tra
Danimarca-Norvegia, segnò il definitivo colpo di grazia per i nativi lapponi.
Costretti a scegliere una nazionalità, venne loro tolto il diritto di migrare
nelle terre dei loro avi. «È questo, forse più di ogni altro decreto o più di
ogni altra imposizione religiosa, l’atto che segna il punto di svolta della
storia sami» spiega Evjen Bjorg, professore di sociologia al Centro di Studi
Sami dell’Università di Tromso.

Oggi i Sami sono divisi in
quattro nazioni: 50.000 vivono in Norvegia, 25.000 in Svezia, 7.500 in
Finlandia e 2.000 in Russia.

Ricerca di identità

Nel XIX secolo, vessati dallo
stato, emarginati dalla società, ostracizzati dalla Chiesa, i Sami cercarono di
trovare una propria identità aderendo al Laestadianismo. Creata da un
prete svedese, Lars Levi Laestadius, questa nuova dottrina cristiana cercò di
dare modo ai Sami di esplicitare la propria fede traendo esempio
dall’esperienza personale, veicolandola nella cultura locale minacciata
dall’alcol, dal materialismo e dal commercio.

Giunto sull’orlo di un collasso
esistenziale a causa delle sue tristi vicende famigliari (la morte della prima
moglie, dell’amato fratello Petrus e del suo primo figlio), Lars riuscì a
risalire la china grazie alla seconda moglie, Maria. Fu per merito di questa
donna, rimasta sempre in secondo piano, che Laestadius riprese vigore e fiducia
nella vita e nella fede, dedicandosi alla protezione della cultura sami. I suoi
sermoni, pronunciati nella chiesa di Karesuando, erano talmente pieni di pathos
che ogni domenica la chiesa si riempiva di indigeni.

«Il laestandianesimo si propagò
tra i Sami perché il suo fondatore fu uno dei primi preti a saper comunicare il
messaggio cristiano usando immagini e linguaggi che i Sami potevano facilmente
comprendere» dice Birgitta Simma, pastore della Chiesa Svedese presso la
comunità sami nella diocesi di Luleaa. Il modo di contestualizzare i riti, con
canti, danze, preghiere, letture, non era però approvato dalla Chiesa Svedese,
che vedeva nel laestandianesimo una forma di liikutuksia, un’estasi al
limite dell’eresia.

Da parte loro, anche i mercanti
norvegesi e svedesi cominciarono a lamentarsi: Laestadius aveva severamente
proibito l’alcornol, fedele alleato dei commercianti che lo utilizzavano per
obnubilare la mente dei Sami durante le contrattazioni.

Sobri e finalmente fieri della
loro natura, i Sami cominciarono a rifiutare le imposizioni estee. Il
laestadianesimo, che ormai veniva visto come una peculiarità dell’essere sami,
si diffuse rapidamente oltre che in Svezia anche in Norvegia, ma soprattutto in
Finlandia. Era ormai divenuto un pericolo sia per la Chiesa Svedese, che vedeva
l’eresia affondare radici sempre più profonde tra i Lapponi, sia per la Corona,
che riceveva resoconti allarmanti di sollevazioni nel nord del paese.

Sempre più oppressi da svedesi e
norvegesi, l’8 novembre 1852 un gruppo di sami laestadianisti organizzò una
rivolta a Kautokeino per abolire il commercio di liquori. Ben presto la
ribellione si trasformò in un movimento etnico che, imbracciati i fucili,
espresse le proprie frustrazioni uccidendo lo sceriffo, un mercante di liquori,
e dando fuoco alle loro case.

Sebbene sedata in poche ore, la
rivolta di Kautokeino divenne il simbolo di rivalsa dei Sami, come è stato ben
descritto in The Kautokeino Rebellion, il film del norvegese Nils Gaup,
egli stesso discendente di uno dei rivoltosi, poi impiccato.

La renna fonte di vita e cultura

Non è un caso che proprio in
questo minuscolo villaggio di 1.600 abitanti, sorga l’unica università sami
riconosciuta dall’ordinamento scolastico di Norvegia, Finlandia, Svezia e
Russia, le quattro nazioni in cui si dividono gli 85.000 sami. Tra le materie
studiate, vi è anche Allevamento delle renne: «Una delle tradizioni su
cui si basa tutta la struttura sociale sami
– spiega la professoressa Ellen Inga Turi -. L’adattamento dei Sami ai
cambiamenti politici, come la divisione del loro territorio secondo nazionalità,
e ai cambiamenti climatici in atto, potrebbe darci molte risposte al futuro
stesso dell’umanità. I Sami, per un certo verso, sono le nostre avanguardie del
mondo che verrà domani». L’importanza della renna nella vita sami si riflette
anche nel vocabolario: eallin, vita, si trasforma in eallu,
mandria, e, ancora, in eadni, madre.

Dopo che i Sami da pescatori si
convertirono in allevatori di renne, questo ruminante divenne la loro
principale fonte di sostentamento. La renna è l’animale che, letteralmente,
dona la vita: di lei non si butta nulla. La carne, magrissima e ricca di Omega
3, di ferro, selenio e calcio, viene fatta essiccare; la pelle si trasforma in
coperte, abiti, nei caratteristici goikkehat, gli stivaletti con la
punta rialzata, in cappelli; le coa e gli zoccoli vengono lavorati per fae
manici di coltello e oggetti di uso quotidiano che danno lavoro ad artigiani
come Ari Kangasniemi.

Dalla lavorazione della pelle,
abbiamo importato il termine nappa, vocabolo sami, così come sami è la
parola tundra. I Sami sono più vicini a noi di quanto pensiamo.
L’influenza della renna nella cultura sami è talmente evidente che anche un
architetto come Alvaar Alto ha disegnato l’urbanistica della città di Rovaniemi
riproducendo sul terreno la figura di una testa di renna con le coa.

Infine, le orecchie dei 120.000
cuccioli di renna che ogni anno nascono alla metà di maggio negli allevamenti
sami, vengono marchiati con segni distintivi durante una cerimonia a cui
partecipa tutto il villaggio. In quest’occasione anche i Sami che, per svariate
cause, hanno dovuto trasferirsi in città o al sud, tornano al loro siida,
rinsaldando così i legami tra le famiglie. «Ogni volta che too con la moglie
e i figli, i nostri genitori ci preparano il lavvu (la tenda Sami). È
qui che, abbandonando per qualche giorno le comodità della casa, ritrovo la mia
identità» mi confida Emel Perrtula, che dalle pendici del monte sacro Saana, a
Enontekio, si è trasferito a Helsinki, dove oggi lavora come ricercatore
chimico. «Mangiare in silenzio attorno al fuoco e dormire su brandine, permette
a tutti noi di unirci ai nostri antenati e non dimenticare dove affondano le
nostre radici».

Emel mi confida che sua moglie,
dopo aver avuto due figlie, pregava l’intervento di Jouksahkka, lo spirito che
permette al feto, che secondo le credenze sami all’inizio è sempre femminile,
di trasformarsi in sesso maschile. «So che è illogico e che la scienza nega
questa credenza, ma alla fine abbiamo avuto il desiderato bambino».

Fierezza ritrovata

La consapevolezza e, soprattutto,
l’orgoglio di appartenere al gruppo sami, sono rinati alla fine degli anni
Settanta, dopo che per secoli i governi svedese, finlandese e quello norvegese
con particolare accanimento, avevano cercato di smantellare la cultura indigena
per affermare l’unità dello stato sulla base di uno specifico gruppo nazionale
predominante. Le battaglie combattute dalle associazioni sami, spesso isolate
dai loro stessi consanguinei, hanno portato i loro frutti: nelle scuole si è
ricominciato a insegnare la lingua sami, la musica tradizionale viene
riscoperta e ci sono radio che trasmettono radiogiornali dalla Samiland,
programmi per bambini e per giovani. La Radio Sami Norvegese, la più
strutturata tra le tre esistenti in Scandinavia, trasmette anche circa 20 ore
di programmi televisivi al mese, mentre l’ufficio locale di Kiruna della
televisione nazionale svedese, ne trasmette dieci.

Politicamente i Sami hanno una
propria rappresentanza nei parlamenti nazionali, mentre in ognuno dei tre stati
scandinavi, vi sono parlamenti sami eletti ogni quattro anni, dove il governo
locale dibatte le questioni più spinose. Nei raduni ufficiali viene cantato il Sàmi
soga làvlla
, la Canzone dei Sami, l’inno nazionale dei Sami scritto da Isak
Saba. La fierezza del sentirsi sami la si vede girando nella Samiland dove, nei
giardini delle case sorgono le tipiche tende accanto alle quali sventola la Sàmi
leavga
, la bandiera disegnata da Astrid Bahl nel 1986.

In un territorio dove il sole e
la luna regnano sovrani alternando la propria presenza per sei mesi l’anno, è
naturale che questi due elementi vengano riprodotti anche nel simbolo
nazionale: su un campo cromaticamente variegato con i colori tradizionali,
sorge un cerchio, che simboleggia nella sua interezza il tamburo magico,
equamente diviso tra il rosso del sole e il blu della luna.

Rispetto per la natura

La preponderante presenza della
natura nella vita sami, esaltata dai fenomeni atmosferici del sole di
mezzanotte, della notte continua per diversi mesi e, soprattutto, dalle aurore
boreali, oggi spiegati scientificamente, sono stati i soggetti di un’epica
orale che, senza l’intervento della Chiesa sarebbe, probabilmente, perduta. «I
missionari cristiani possono aver commesso degli errori valutando le credenze
dei Sami, ma è ormai appurato che i primi testi tradotti in sami sono stati
redatti dalla Chiesa Svedese. Erano testi biblici, ma hanno permesso all’intera
letteratura sami di non andar perduta» chiarisce Birgitta Simma.

I sami più rispettati erano i taidis,
coloro, cioè, che possedevano il taidid, la capacità di adattamento e di
orientamento, che conferiva loro uno status superiore perché li poneva
perfettamente in simbiosi con la natura e con gli spiriti che l’abitavano.

Oggi, con l’avvento del Gps,
delle motoslitte, del goretex, forse il taidid non è poi più così
necessario per la sopravvivenza dei Sami, ma rimane comunque il fatto che la
rinnovata ricerca della semplicità, il ritorno a una vita più austera e in
linea con i cicli della natura forse permetteranno a questa civiltà millenaria
di superare anche le sfide del tempo e del progresso che tutto appiattisce.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali




Luci e ombre del Brasile «nero»

Incontro con mons. Giovanni Crippa, Vescovo ausiliario di Salvador Bahia.

La Bahia è abitata dai discendenti degli schiavi africani. Stato
affascinante ma arretrato e problematico come la sua capitale, Salvador. Ne
abbiamo parlato con Giovanni Crippa, missionario della Consolata, vescovo
ausiliario di una città che rappresenta la più antica diocesi del Brasile.

Salvador Bahia. Il centro storico di Salvador domina con il suo sguardo antico e
solenne un’estensione a perdita d’occhio di case cresciute, negli ultimi
decenni, una sull’altra fino a formare un disordinato e congestionato reticolo
urbano e stradale.

Il Pelourinho, colorato, bello e decadente, è
il punto di grande attrazione per turisti, artisti alla ricerca di ispirazioni
e suggestioni forti e di lettori appassionati di Jorge Amado, probabilmente il
più grande scrittore brasiliano.

La città, vista dall’alto, è un’unica enorme
favela, da cui spuntano, qua e là, delle isole di grattacieli modeissimi e
lussuosi, e grandi centri commerciali brulicanti di auto ed esseri umani (ma in
cui ancora molti bahiani non possono permettersi di fare acquisti).

SPLENDORI E MISERIE

Salvador Bahia è sede di numerose università,
storiche e rinomate, sia statali sia federali, cattoliche, evangeliche e di
altre confessioni, nonché di un prestigioso Centro di Studi afro-orientali
della Ufba (Università federale della Bahia). È abbellita da palazzi e strade
di grande pregio artistico; è dispensatrice di musica, letteratura, pittura; di
misticismo e saggezza tradizionale; di esoterismo; di magia; dei riti
propiziatori a Madre Terra; di donne sciamane venerate e temute, in quanto depositarie
di antichi poteri e di guarigione. Nota per il suo sincretismo e anche per la
sua tolleranza religiosa, la Bahia lascia spazio a culti e pratiche di diversa
origine, che talvolta si nascondono o si mescolano l’uno nell’altro, come
avviene per i riti del candomblé, nei quali animismo africano,
paganesimo europeo pre-cristiano e cattolicesimo si confondono in celebrazioni
popolari molto seguite, ad esempio quelle in onore di Iyemanjá, la Dea del
Mare, assimilata, per certi versi, alla Madonna.

L’allegria e la festosità dei bahiani sono
contagiose. La loro lentezza esasperante, la disorganizzazione e il cronico
ritardo sono elementi di cui presto ci si dimentica di fronte alla simpatia
della gente, che non perde l’occasione per inscenare balli e canti neanche
mentre prepara la acarajé, un piatto afrobrasiliano delizioso. O mentre
aspetta che diventi notte giocando a carte su un tavolino improvvisato vicino a
un venditore abusivo di cd.

Salvador è, allo stesso tempo, bella e
intrigante, brutta e violenta. Piena di storia e di cultura, ma ancora
arretrata, problematica e recettrice di marginalità e disagio. È l’emblema di
tutta la splendida Bahia, lo stato nero del Brasile da cui è impossibile non
venire ammaliati.

L’INVASIONE DEI «GRINGOS»

Come Iyami-Ajé / Iyami Oxorongá (nella
mitologia orixás, figura femminile donatrice di vita e di morte), la
Bahia è creatrice, ma anche distruttrice. Come in tutto il paese, ricchezza e
povertà, cultura e ignoranza, lusso e miseria, convivono in un unico luogo, con
contrasti enormi e aggressivi, a distanza di pochi metri l’uno dall’altro.

Lungo il Litorale di Salvador e di Mata de
São João, fin quasi al confine con lo stato del Sergipe, umili villaggi di
pescatori si sono trasformati in meno di dieci anni in cittadine artificiali
per ricchi epuloni brasiliani e stranieri, che hanno investito in immobili,
facendo salire alle stelle il prezzo dei terreni, delle costruzioni e degli
affitti. I nativos (popolazione locale), come vengono chiamati dai gringos
con un malcelato disprezzo, sono stati relegati, per scelta o per necessità, in
altri villaggi adiacenti meno glamour e benestanti, o in vie fatiscenti
e sporchissime in zone meno visibili e transitate dai turisti. È il caso,
emblematico, della famosa e frequentata (affollata) Praia do Forte, che in un
decennio è passata da umile borgo di pescatori e raccoglitori di cocchi a città
dai tanti e lussuosi condominios fechados (condomini chiusi) e centro
commerciale a cielo aperto. La popolazione locale, discendente degli schiavi
neri deportati dall’Africa con le tratte secolari, ha in gran parte venduto
terreni e casette ai forestieri, che ne hanno fatto negozi, ristoranti e
abitazioni per milionari, oppure li ha ceduti in affitto a prezzi altissimi.

Il boom edilizio di tutta l’area costiera e
le ondate di turismo hanno portato benessere anche agli autoctoni, ma ciò non è
stato accompagnato da sviluppo umano, educazione scolastica e servizi
medico-sanitari, con il risultato di produrre un ulteriore disagio sociale, un
abuso di alcolici e sostanze stupefacenti, abitudini sessuali precoci con
conseguenti mateità nel periodo adolescenziale.

A tutto questo si sovrappone, come
causa-effetto, una gestione pubblica deficitaria e indifferente ai bisogni reali
della popolazione di tutto lo stato, e un’organizzazione della politica che
ricorda ancora i tempi dei latifondisti e dei fazendeiros, e dove domina
corruzione, voto di scambio e vuote promesse.

La scuola pubblica è totalmente inadeguata a
qualsiasi standard dignitoso. La sanità è una sorta di «emergenza» perenne mai
trasformata in medicina specialistica o diagnostica. Chi ha soldi si fa curare,
chi non ne ha s’arrangia e può sperare che la medicina tradizionale, con le sue
mille erbe e radici, possa fare miracoli anche con i virus portati dai turisti.

La famiglia è un concetto dalla difficile
definizione: le ragazzine più povere e
con scarsa scolarizzazione iniziano a far figli a 12-14 anni, e non poche a 30
si ritrovano già nonne e con diversi matrimoni alle spalle.

CATTOLICA E AFRICANA

In un afoso pomeriggio di febbraio, poco
prima che il Caevale renda inaccessibili le già engarrafadas
(imbottigliate) strade di Salvador, e il suo caotico centro storico, a Garcia,
nella sede dell’Arcidiocesi, incontriamo il vescovo ausiliario, il simpatico e
attivissimo dom Giovanni Crippa, italiano e missionario della Consolata.

Dom Giovanni, cosa vuol dire essere vescovo
in Bahia?

«L’Arcidiocesi di São Salvador da Bahia è la
prima diocesi del Brasile (1551). I suoi numeri sono importanti (vedi box,
cfr
). L’arcivescovo, dom Murilo Sebastião Ramos Krieger, conta su due
Vescovi Ausiliari: dom Gilson Andrade da Silva e il sottoscritto. Un terzo, dom
Gregorio Paixão, è stato recentemente nominato vescovo di Petrópolis.

È una realtà che devo ancora imparare a
conoscere, ma che già amo e cerco di servire. La grande sfida è mantenere viva
l’azione della Chiesa in un territorio così esteso e con una popolazione
considerevole, incentivando uno spirito di comunione tra i sacerdoti e
promuovendo il senso di appartenenza alla Chiesa locale di tutto il popolo di
Dio come dice il mio motto episcopale: “In aedificationem Corporis Christi”,
cioè, “Per edificare il Corpo di Cristo” (Ef 4,12), che è la Chiesa».

Ci descriva una sua giornata-tipo…

«Dalla mia poca esperienza posso dire che non
esiste una giornata-tipo. Il Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi,
al n. 70 dice: “Il Vescovo ausiliare è dato per raggiungere più efficacemente
il bene delle anime in una Diocesi troppo estesa o con elevato numero di
abitanti o per altri motivi di apostolato”.

Per quanto mi riguarda, l’arcivescovo mi ha
affidato il territorio del Recôncavo (la parte più intea della regione
metropolitana) per concretizzare il progetto di una futura Diocesi. Per questo
risiedo prevalentemente nella città di Cruz das Almas, a circa 150 km da
Salvador, per poter seguire da vicino le parrocchie attraverso le visite
pastorali, gli incontri con il clero, con i religiosi, i movimenti e i vari
servizi pastorali.

All’inizio di febbraio abbiamo acquistato
anche una radio Am (Rádio Alvorada), un grande investimento economico, che sarà
di grande aiuto per l’evangelizzazione. Le parrocchie, infatti, hanno un
territorio molto esteso e sono formate da diverse comunità dove la presenza del
sacerdote è saltuaria.

Stiamo anche pensando all’apertura di un
seminario propedeutico per la futura Diocesi dove accogliere i giovani che si
sentono chiamati al sacerdozio.

Oltre alle parrocchie del Recôncavo mi occupo
anche di quelle dell’isola di Itaparica prospicente alla Bahia de Todos os
Santos.

Quando è necessario ritorno nella capitale
bahiana per collaborare nella pastorale, nelle celebrazioni di cresime e feste
patronali. Non mancano impegni di conferenze in varie istituzioni (università,
collegi, parrocchie…) e ritiri. Collaboro anche con la Radio Excelsior da
Bahia con un programma settimanale di 45 minuti sulla liturgia della Parola
della domenica.

Per la mancanza di professori, nel primo
semestre, insegno Storia della Chiesa nella Facoltà cattolica di Feira de
Santana, così ho l’occasione per incontrare persone amiche che hanno fatto
parte della prima tappa della mia vita in Brasile.

L’agenda di un vescovo è sempre piena, come
lo è quella di un prete dedicato al suo servizio, ma le occasioni più belle ce
le riserva lo Spirito quando ci sfida con l’imprevisto».

Quali sono i principali problemi della Bahia
e di Salvador?

«Salvador è una città antica (1549) la cui
origine coincide con la scoperta/conquista da parte dei portoghesi. Ogni suo
angolo, con le chiese, monumenti e vie, è segnata da questa storia che ha
marcato il nome della città stessa: Città del Salvatore della Bahia di Tutti i
Santi.

Salvador, meravigliosa, ricca di storia e di
bellezze naturali, è una città abbandonata, dimenticata e maltrattata. Per
l’incompetenza dei suoi amministratori è cresciuta in un modo disordinato ed è
diventata una grande favela. Ad eccezione di alcune “isole”, la maggior parte
della popolazione vive ammucchiata in quartieri dove mancano le infrastrutture
necessarie per soddisfare i bisogni essenziali. L’esempio più eclatante è la
costruzione della metropolitana, iniziata 13 anni fa e ancora oggi senza
nessuna prospettiva di conclusione dei lavori. Tuttavia, in pochi mesi, il
governo dello stato è riuscito a costruire lo stadio della “Fonte Nova”, per la
Coppa delle Confederazioni e i prossimi Mondiali di Calcio.

Nel 2012 c’è stato uno sciopero dei
professori che è durato 115 giorni e uno sciopero della Polizia militare, di 12
giorni, che hanno provocato grandissimi disagi tra i cittadini.

Un altro grave problema è l’accesso alla
sanità. Le istituzioni sanitarie pubbliche sono carenti e precarie. Non ci sono
strutture sufficienti per garantire i servizi alla popolazione.

Il “Plano de saúde” (Assicurazione
sanitaria) privato è costoso, e una famiglia media con figli difficilmente se
lo può permettere. Questa situazione è una piaga che colpisce soprattutto il
Nordest del Brasile.

Un’altra grande lacuna è quella della scuola
pubblica, soprattutto quella gestita dallo Stato: mancano le strutture, c’è
degrado, scarsa preparazione curricolare – purtroppo anche degli insegnanti -,
abbandono degli studi, ecc.

Da parte dei politici, anche in questo
ambito, si nota disinteresse, perché si sa, è più facile governare un paese
ignorante che uno istruito.

La mancanza di educazione e istruzione tra
gli adolescenti, la disgregazione familiare, e la pedofilia – uomini adulti che
hanno rapporti con ragazzine – portano al fenomeno, piuttosto diffuso, delle
gravidanze precoci.

Le famiglie popolari, in Bahia, sono centrate
sulla figura della donna, della madre. Molte volte l’uomo fugge dalle sue
responsabilità, è assente. C’è molto machismo, da una parte, e strutture
sociali matriarcali, dall’altra. Tutto questo, insieme all’assenza dello Stato,
concorre a creare un clima di violenza che ha raggiunto livelli molto alti.
Secondo la Segreteria di sicurezza pubblica (SSP), nel 2012 sono stati
registrati 2.391 omicidi in Salvador e nelle città della Regione metropolitana,
con un aumento del 12,5% rispetto al 2011». 

Un elemento che balza gli occhi, in tutta la
Bahia (e nel resto del Nordest), è la crescita delle chiese evangeliche e
pentecostali. Ce ne sono in ogni angolo e sempre di più. Come spiega questo
fenomeno?

«I dati sulla religione del Censimento del
2010 mostrano che tra il 2000 e il 2010 la percentuale della popolazione che si
dichiarava cattolica è passata dal 73,6% al 64,6%.

Gli evangelici costituiscono il 22,2% della
popolazione. Tuttavia, il segmento evangelico è molto diversificato o diviso:
il 60% sono pentecostali, il 18,5% appartiene alle chiese storiche o
tradizionali e il 21,8% a una categoria che l’Ibge (Instituto Brasileiro de
Geografia e Estatística
) chiama “evangelici non determinati” dei quali alcuni
non sono praticanti.

Gli adepti allo spiritismo sono passati
dall’1,3% al 2% e i cosiddetti senza religione sono passati dal 7,3% all’8%.

Stiamo vivendo un profondo cambiamento nella
società brasiliana, anche a livello religioso. Se è vero che la Chiesa
cattolica sta perdendo fedeli, è altrettanto vero che le chiese protestanti
(luterana, presbiteriana, battista e avventista) stanno attraversando una crisi
profonda. Si moltiplicano le chiese evangeliche, frutto di una divisione e di
una guerra intea alla ricerca di spazio e visibilità.

Questa disputa intea al cristianesimo
favorisce la crescita del numero di persone indifferenti al Vangelo.

Un fenomeno molto in voga in questi tempi, è
quello della “teologia della prosperità”, di tipo calvinista: il successo
materiale è il riscontro della fede. I predicatori attuano vere e proprie
“strategie”, e la tecnica usata è quella dell’auto-motivazione. La tattica è
approssimativamente questa: incontrano persone in difficoltà economiche,
psicologiche, sociali e iniziano a motivarle a ottenere dei risultati
materiali, dei cambiamenti chiedendo di affidarsi a Dio. Se questo è certamente
positivo, il problema sorge quando le esperienze di successo ottenuto sono
fittizie, raccontate da “comparse” allo scopo di indurre il fedele ad
abbandonarsi alle istruzioni del predicatore, che adotta vere tecniche di
vendita e ne approfitta, spesso arricchendosi alle spalle dei poveracci che
donano tutto ciò che hanno nella convinzione di ricevere una ricompensa da Dio.
La fede diventa così un prodotto di scambio commerciale, materialista, egoista.
Non c’è più il dono agli altri, gratuito, ma solo un dare per avere.

D’altro canto, però, la Chiesa cattolica si
rende conto di quanto già sapeva da secoli, cioè che esiste un grande numero di
cattolici battezzati, ma non evangelizzati.

Il grande pericolo è che questa nuova
configurazione non ha come obiettivo di unire i cristiani per trasformare il
mondo seguendo il desiderio di Gesù, ma quello di promuovere ideologie
rivestite di una vernice religiosa che procura interessi personali o di gruppi
che si auto-definiscono chiese. La maggior parte di queste “chiese” incoraggia
un proselitismo riduzionista e disgregante della società, cercando di imporre
un pensiero unico. La Chiesa cattolica rispetta tutte le religioni e desidera
essere rispettata». 

La Bahia è nota per i rituali di candomblé, una sorta di religione
sincretista, con riferimenti a culti animisti, pagani pre-cristiani e
cattolici. Qual è il rapporto tra la Chiesa cattolica bahiana e questi gruppi?
Ci sono fedeli che alla domenica vanno a messa e alla sera ai rituali
afro-brasiliani?

«La Bahia è terra di un popolo ospitale e
amico che offre la sua casa, le sue tradizioni e la sua culinaria a tutte le
persone che qui arrivano.

La religione fa parte dell’espressione
culturale di un popolo. Non tutti i bahiani seguono le tradizioni legate alle
religioni afro-brasiliane. È ingenuo pensare che tutti gli afro-discendenti
siano legati al candomblé. Purtroppo, la religione afro è sempre più confusa
con il folclore. Il patrimonio musicale religioso del candomblé, per
esempio, è usato per fini commerciali.

Il punto di partenza deve essere il rispetto
di qualunque forma religiosa lasciando all’individuo la libertà della scelta.
Il sincretismo religioso, però, è riduzionista e mette il seguace della
religione del candomblé in una posizione di servilismo o sottomissione
all’uomo bianco. All’inizio della colonizzazione, i neri venuti dall’Africa
erano obbligati a “mentire” se volevano continuare a praticare la loro
religione, che era proibita, in un paese cristiano. Per mantenere i propri riti
attribuirono nomi di santi cattolici ai propri orixás (divinità). Oxalá,
per esempio, poteva essere il Senhor do Bonfim. Era una forma intelligente, di
saggezza politica, per mantenersi indenni e per non essere puniti.

Oggi, la Costituzione brasiliana permette a
ogni cittadino di abbracciare liberamente la propria religione. Vivere un
sincretismo, praticare allo stesso tempo il candomblé con il cristianesimo
significa riconoscere che il primo non è capace di soddisfare o di offrire
quello che si sta cercando. Lo stesso si può dire dei cristiani che frequentano
il candomblé.

La teologia e l’antropologia cristiane
differiscono totalmente da quella del candomblé. Per questo le persone del
candomblé devono vivere liberamente la loro scelta, così come quelli che
professano altre religioni. Buona parte delle Iyalorixá (sacerdotesse o
dirigenti spirituali) di Salvador sono contrarie al sincretismo, specialmente coloro
che hanno una formazione accademica, per evitare che venga considerata una mera
espressione folclorica.

La Chiesa è convinta che deve predicare il
Vangelo di Gesù, vivendo i valori cristiani e rispettando le differenze».

Per concludere, monsignore. Cosa le piace
della Bahia e di Salvador in particolare?

«Prima di tutto la gente. Gente felice,
ospitale, cordiale che ti mette subito a tuo agio, che ti fa sentire a casa.
Gente che sempre chiede la benedizione, che vuole salutarti, stringerti la
mano, abbracciarti.

Ci sono poi alcuni luoghi significativi per
la bellezza di cui la natura li ha dotati e per il significato storico,
religioso e culturale che hanno acquisito lungo il tempo.

La Cattedrale metropolitana della
Trasfigurazione del Signore: una chiesa che apparteneva ai gesuiti e che
accoglie le spoglie mortali di alcuni vescovi che lì hanno svolto il loro
ministero. Persone che hanno amato e servito questa Chiesa come il card. Dom
Lucas Moreira Neves che mi ha ordinato diacono a Roma nel 1985. Chi immaginava
di diventare vescovo ausiliare in questa Chiesa di cui lui è stato pastore?

Il Santuario-Basilica del Senhor do Bonfim,
dove si confondono fede e tradizione, religiosità popolare e catechesi,
preghiera e emozione vissuta da una miriade di persone di ogni ceto e razza.

La Basilica Nossa Senhora da Conceição da
Praia, patrona della Bahia, espressione della devozione mariana della gente che
lì accorre quotidianamente.

La Bahia de Todos os Santos: non ci si stanca
mai di contemplare questa bellezza naturale. Ogni giorno sembra diversa,
soprattutto nei colori quando il sole tramonta.

Il Recôncavo: composto da vari municipi che
circondano la Bahia de Todos os Santos, qui si mischiano il verde della
vegetazione con l’abbondanza della frutta; le varie espressioni della
religiosità popolare con le feste tradizionali; la bontà della gente con la
bellezza delle sue chiese.

L’isola di Itaparica dove la popolazione vive
di pesca e di turismo. Qui la gente è padrona del tempo, ha imparato ad essere
paziente e ad avere sempre fiducia nella Provvidenza divina.

Le periferie della città dove, nonostante la
povertà, la violenza e l’ambiente disumano, le persone vivono e soprattutto
cercano di trovare il senso della vita a partire dal Vangelo e dalla vita
comunitaria, dove le celebrazioni sono sempre una festa e un punto di partenza
per costruire il Regno di Dio».

Angela
Lano*

 (*) Gioalista e scrittrice,
Angela Lano vive con la famiglia nello stato brasiliano di Bahia.

Angela Lano




Fede dietro le sbarre

Benvenuti a Kamiti, la Prigione
di massima sicurezza.
Kamiti con 3.000 detenuti e 800 guardie è la prigione maschile
più grande del Kenya. Vi si entra per non uscie più. Ospita il fior fiore dei
condannati a morte e gli ergastolani più pericolosi. Eppure proprio in Kamiti
sta fiorendo la speranza.

Kamiti è una parola che in Kenya
fa venire i brividi. È il nome della più infame prigione maschile del paese.
Infame perché costruita dai colonialisti inglesi nel periodo dell’insurrezione
dei Mau Mau. Infame perché durante il ventennio del partito unico, 1982-2002,
era il posto dove finivano molti prigionieri politici. Infame perché chi entra
là, non ne esce più, chiuso com’è nel braccio della morte in attesa di
un’impiccagione che non arriva mai – da anni non ci sono più esecuzioni, anche
se la pena di morte non è stata abolita -, o condannato all’ergastolo. Infame
perché ospita il fior fiore dei delinquenti del paese: oltre 3.000 detenuti che
hanno commesso tutti i peggiori delitti elencati nei manuali di criminologia.
Infame perché le 800 guardie, sottopagate, spesso non vivono una vita migliore
dei loro ospiti forzati, e alcune si lasciano coinvolgere in traffici non
proprio leciti. Infame perché dalla connivenza di racket di detenuti e
carcerieri corrotti, sono partite alcune delle truffe digitali più raffinate ai
danni di tanti utenti di cellulari. Infame infine perché più di una volta c’è
stato l’infausto connubio tra guardie corrotte e condannati a morte per
eseguire sanguinose rapine i cui autori sparivano misteriosamente, salvo poi
riapparire crivellati di colpi quando qualcuno cominciava a sospettare.

Ma Kamiti non è solo questo. Per molti è luogo di speranza e
redenzione. Come lo fu nel 1957 per Dedan Kimathi, un capo militare dei Mau
Mau, impiccato proprio in quella prigione dagli Inglesi: la sua non fu una
morte da disperato. L’incontro con p. Nicola Marino, un missionario della
Consolata che visitava regolarmente i prigionieri Mau Mau, gli cambiò la vita e
Kimathi morì completamente riconciliato con Dio e con gli uomini, «come un
santo», scrisse il cappellano che l’accompagnò all’esecuzione.

Nella prigione c’è una cappella interconfessionale in pietra, 200
posti a sedere, costruita dagli Inglesi nel 1954. È ancora perfettamente
conservata e funzionante: la sua croce di legno, i banchi tradizionali e le nude
pareti di pietra a vista offrono un rifugio spirituale a molte anime tribolate.
La usano credenti delle più svariate denominazioni, e anche i cattolici, che
sono circa un sesto dell’intera popolazione carceraria.

La comunità cattolica è molto organizzata, con un bel gruppo di
catechisti che seguono i detenuti nei vari blocchi, con un cappellano ufficiale
delle varie prigioni del paese, che visita periodicamente anche Kamiti, e
diversi volontari estei che collaborano stabilmente. Tra questi le suore missionarie
della Consolata che sul terreno della prigione, ma appena fuori dalle mura,
hanno costruito il Centro Cafasso, per aiutare i pochi che hanno la grazia di
uscire da quella bolgia a reinserirsi nella vita quotidiana. E p. Eugenio
Ferrari che da sempre ha una passione particolare per i prigionieri, da buon
missionario della Consolata e «pronipote» di s. Giuseppe Cafasso, protettore
dei detenuti. Con lui e i ragazzi della rivista The Seed (Il Seme)
entriamo a scoprire dove sboccia la speranza.

Goditi la libertà intanto che
puoi

Niente mi aveva preparato alla mia prima visita a Kamiti, la
prigione di massima sicurezza. Un massiccio cancello di legno rinforzato da
sbarre di ferro marca l’ingresso alla prigione. Dopo dieci passi c’è un secondo
cancello tutto di ferro. Ovunque vedi guardie armate mazzi di chiavi
incredibilmente grandi appesi al collo.

Accolti dal capo catechista, Geoffrey Kamau, e dai suoi aiutanti,
siamo subito introdotti all’ufficiale di servizio. Ci controllano da capo a
piedi nel caso portassimo merce illegale. Mentre il pesante cancello metallico
si chiude dietro di noi, ho la sensazione che qualcosa mi sfugga, ma non riesco
a focalizzare cosa.

Dentro la struttura la mia attenzione è subito attirata dalle mura
alte almeno cinque metri e costellate dalle torrette delle sentinelle armate.
Nel cortile gruppi di detenuti ci guardano stupiti, mentre si annoiano nella
mattinata che non finisce mai.

Ci dirigiamo verso l’infermeria. Un’altra porta di ferro si apre e
chiude per noi, e lì, proprio di fronte a noi, vediamo un gruppo di carcerati
che canta allegramente le lodi del Signore. Non me l’aspettavo. Come si può
essere allegri a Kamiti? Mi dicono subito che si stanno preparando per la
messa.

Incontro Thomas N. che è qui da diciassette anni ed è convinto di
aver completamente cambiato la sua vita. Un giorno verrà liberato, questo spera
con tutto il cuore. Un desiderio impossibile da realizzare visto che è dentro a
vita per rapina a mano armata. In prigione ha scritto due libri (The Curse
e The Sweet sting) e ne ha altri cinque in cantiere. Sogna che qualcuno
gli doni un computer per scrivere più velocemente. Dice che i carcerati sono
uomini e non dovrebbero essere trattati come animali.

Un altro cancello si è aperto e chiuso. Siamo in un altro reparto.
Qui ci sono molte attività in corso: falegnameria, meccanica, sartoria,
lavorazione del cuoio, produzioni artistiche e stampa delle targhe delle auto.
Potrebbe essere chiamata «l’area industriale» di Kamiti. Alcuni dei lavori dei
carcerati sono stupendi. Riesco ad avere uno dei loro souvenir, un anello
multicolore in stile maasai.

Più in là c’è l’area della scuola: elementari, medie e superiori
sotto lo stesso tetto, le classi divise da tende di sacco. Determinazione è
dipinta sulle facce degli studenti e degli insegnanti. Hanno anche un giornale:
The Kamiti Times magazine. Tutti gli insegnanti sono carcerati, compreso
il preside, Albert Kitur, 17 anni di prigione. Ci sono 42 insegnanti e, nel
2012, 20 candidati per l’esame di terza media e 15 per la maturità.

Un altro cancello si apre e chiude rumorosamente. Ci troviamo in
uno degli affollati dormitori, chiamati blocchi. Qui solo gli affidabili
(carcerati premiati per buona condotta) hanno il privilegio di dormire in un
letto. Ben visibili nelle loro uniformi blu, sono un collegamento tra i
detenuti e le guardie. Tutti gli altri dormono sul pavimento quando il sole
tramonta.

Qui c’è anche un’area chiamata «Old Trafford» (come lo stadio del Manchester
United
), un cortile dove i detenuti possono giocare a pallone, suonare,
prendere il sole e rilassarsi. Hanno perfino una Kamba boy’s band.

La visita è finita. Ho cercato di essere rilassato, rassicurato
dalla presenza di Christopher Wambua che è guardia e catechista, ma sono
contento di uscire da questo posto che mi dà i brividi, anche se tutti i
detenuti sono stati di una cordialità e gentilezza incredibili.

Finalmente il massiccio cancello d’entrata si chiude alle mie
spalle a conclusione della nostra visita, resa possibile dalla politica open
doors
del governo e dalle riforme iniziate dopo il 2002 dal vicepresidente
Moodi Awori (che era anche umile parrocchiano del santuario della Consolata di
Nairobi).

E improvvisamente capisco. Ora so cosa mi è sembrato di perdere
mentre entravo: la libertà.

Fede e riabilitazione

La vita in prigione è un tempo che non finisce mai, ma Peter
Ndungu (ergastolano), si considera fortunato perché è ancora vivo pur essendo
stato condannato all’impiccagione nel 1997. Quando la corte di appello aveva
confermato la sentenza, aveva avuto la certezza che fosse la fine.
Fortunatamente lasciò il braccio della morte nel 2009 quando il presidente
Kibaki commutò la sentenza in ergastolo per 4.000 condannanti a morte.

Quindici anni dopo quel fatidico 1997, Peter è un uomo cambiato.
Ci viene incontro con una vecchia copia del The Seed, un numero speciale
del 2002 dedicato al centenario dei missionari della Consolata in Kenya. Quella
copia è specialissima per Peter, non solo perché l’ha aiutato a rinforzarsi
nella fede, ma anche perché riporta un coloratissimo disegno (a biro) che lui
fece della Madonna col bambino (ricordo con emozione quella Madonnina! ndt).

«Una volta condannato a morte, mi sono reso conto che i miei sogni
erano svaniti nel nulla. Dovevo fermarmi, pensare e approfondire di più il mio
rapporto con Dio. Avevo grandi piani, invece di colpo mi trovavo sotto stretta
sorveglianza, perquisito a ogni piè sospinto, confinato in una cella e
autorizzato a prendere il sole solo per pochi minuti ogni giorno. Avevo grandi
ambizioni e improvvisamente era tutto finito».

Fortunatamente non era del tutto nuovo al cammino di fede. A suo
tempo era stato un membro attivo del gruppo giovanile della sua parrocchia.
Chiuso in cella, cominciò a riscoprire la scintilla di fede che pensava di aver
perso tanti anni prima. «Mi sono riavvicinato alla Chiesa. Ho avuto un sacco di
tempo per essere vicino a Dio. Mi sono messo a studiare la dottrina della
Chiesa e ho letto la bibbia da capo a fondo. L’esempio di persone come Giuseppe
e Daniele che come me erano passate attraverso la prigione, mi ha dato coraggio».

Da allora Peter è cresciuto spiritualmente fino a fare anche il
corso di catechista alla «Scuola cattolica di formazione spirituale» che,
dentro la prigione, dal 2010 forma animatori e accompagnatori spirituali per
aiutare i detenuti. Peter, ora catechista e accompagnatore, sa bene quanto sia
importante per i nuovi detenuti essere aiutati ad accettare e apprezzare il
processo di riabilitazione offerto in prigione sia dallo stato che da organizzazioni
religiose. Così spende gran parte del suo tempo aiutando soprattutto i giovani
ad accettare quel che sono senza perdere il rispetto di se stessi e la
speranza, perché senza di essa molti dei nuovi si lasciano andare e diventano
deboli e malati. «Quando ti trovi in una situazione come quella, si diventa
come fratelli e la fede in Dio ti aiuta a capire che quel che vivi è solo un
fallimento temporaneo. C’è vita oltre questo mondo».

Insieme ad altri detenuti, Peter ha aiutato a iniziare il «Prison
Entertaining and Counselling Group
» che punta a coinvolgere i prigionieri
in un programma di teatro, danze e canti per incoraggiarli a non sprecare il
loro tempo e a valorizzare invece i loro talenti anche attraverso i molti corsi
professionali che la prigione offre.

Peter ha accettato la sua situazione, eppure continua a sperare di
poter ottenere, un giorno, il perdono presidenziale per tornare fuori, libero,
e partecipare al processo di costruzione della nazione. «Il miglior regalo che
la gente può farmi in questo momento è sostenermi con la preghiera, perché
attraverso la preghiera Dio compie miracoli. Ho un desiderio da esprimere a
tutti: accettate di nuovo nella comunità i detenuti che sono stati rilasciati.
Ricordate che la prigione è un po’ come un’officina, dove i carcerati, come le
macchine, sono riparati. In prigione hanno la possibilità di imparare molti
mestieri e, una volta fuori, possono guadagnarsi la vita se sono aiutati a
inserirsi e hanno la possibilità di praticare quello che hanno imparato. Molti
di noi siamo davvero dispiaciuti di quello che abbiamo fatto e desidereremmo
proprio essere riabbracciati dalla comunità se fossimo liberati. Penso che
nessuno di noi abbia voglia tornare alla vita criminale di prima, per questo è
importante il sostegno della comunità».

Incontriamo anche Sammy Musembi, anni 38. Era sposato e padre di
due bambini quando è stato arrestato nel 1998. Non era battezzato anche se nato
in una famiglia cristiana e sposato con una cattolica. Anche lui è stato dieci
anni tra i condannati a morte prima che la sua sentenza fosse commutata in
ergastolo. È profondamente convinto che Dio avesse un piano preciso su di lui
nel volerlo in prigione. Secondo lui, se non fosse stato per la prigione, non
avrebbe mai conosciuto Dio, perché il suo stile di vita e la compagnia che
frequentava non glielo avrebbero permesso. «Avessi continuato con lo stesso
stile di vita, sarei già morto». Fortunatamente quando l’hanno arrestato per
rapina a mano armata, si è trovato in una cella con dei compagni cattolici. «Pregavano
mattina, mezzogiorno e sera, e tenevano perfino discussioni sulla bibbia. Sono
rimasto profondamente colpito e mi sono unito a loro per cambiare la mia vita».
Sammy, che riconosce il crimine per cui è stato condannato, fu battezzato nel
2002 e cresimato nel 2004, e poi ha fatto il corso per diventare catechista. «Ho
imparato tanto qui dentro. Mi son reso conto che la mia vita passata non era
certo da stinco di santo. Ora sono davvero cambiato. Ho anche scritto lettere
alle persone che ho danneggiato chiedendo il loro perdono». Sua madre, pur
protestante, è stata contentissima che lui diventasse cattolico e gli ha
regalato la sua prima bibbia nel 2003.

Un prete e i suoi buddies

Ogni giovedì una Peugeot bianca si ferma davanti alla porta fortificata
della prigione di massima sicurezza di Kamiti. La guida p. Eugenio Ferrari, una
figura ben nota alle guardie. Il suo interesse è la salvezza e la dignità delle
persone chiuse dentro quelle mura che ospitano alcuni dei peggiori criminali
della nazione: assassini, ladri, rapinatori, gente che ha distrutto e
ingannato, causando pene infinite a migliaia di altri concittadini. La lista
delle loro malefatte è lunga.

È questa gente che p. Eugenio va a incontrare. Li chiama
affettuosamente i suoi buddies (amici/compagni). È così affezionato a
loro che se, per qualche ragione, deve saltare l’appuntamento settimanale se ne
cruccia tantissimo. C’è una cosa che continua a stupire questo prete italiano
nelle sue estenuanti visite settimanali: come possano persone come quelle,
condannate a morte o in prigione da così tanti anni da aver perso il conto,
essere così giorniose e partecipare all’eucaristia con tanto entusiasmo e un coro
fantastico, e come possano credergli quando dice loro che Dio li ama e aspetta
che loro ritornino a Lui. «È gente fantastica. La Messa e il sacramento della
riconciliazione trasformano la loro vita umana e spirituale. Si sentono davvero
persone umane e non cose che languiscono in prigione». In tutti questi anni p.
Eugenio ne ha battezzati a centinaia e confermati tanti. Innumerevoli sono le
confessioni ascoltate che non condividerà mai con nessuno. «Non rivelerò mai
cosa succede nell’animo di un peccatore pentito. È incredibile come la Grazia
di Dio lavori dove “abbondava il peccato”, come dice s. Paolo».

Il missionario offre molto più che semplice speranza ai detenuti.
Ha una parola buona per tutti, indipendentemente da tribù o religione. Li
visita nell’infermeria, celebra la messa nel braccio della morte, si preoccupa
anche delle guardie e mobilita ogni persona che conosce nel suo ministero di
umanizzazione. A Natale e Pasqua – e non solo -, con l’aiuto di amici e dei
parrocchiani del santuario della Consolata in Nairobi, porta pane per tutti e
poi oggetti per l’igiene personale, medicine, abiti caldi da vestire sotto la
divisa (fa molto freddo a Nairobi tra giugno e agosto), e cancelleria per chi
studia e deve fare gli esami statali. Non mancano poi palloni, riviste, libri e
carte da gioco. In questa maniera vuol dimostrare loro che, se anche hanno un
passato non proprio esemplare, Dio li ama come figli suoi, e che hanno una
dignità uguale a quella di ogni altro uomo.

_________________________

Di Michael Kalunde, Lourine Oluoch, Daniel Kikonde e Agnes
Mwonjaru. Servizio speciale pubblicato su la rivista The Seed, 8-9/2012. Traduzione e adattamento di Gigi Anataloni.

A cura di Gigi Anataloni




Spiritualità e pragmatismo

A 20 anni dalla morte, a Spezzano la mostra «a tutti e a
ciascuno: vita e opere di p. Giuseppe Richetti».
Il 12 gennaio è stata inaugurata presso casa Corsini a Spezzano
(Modena) la mostra in memoria di p. Giuseppe Richetti in occasione del 20°
anniversario della sua morte. Nella chiesa parrocchiale si è tenuta una
celebrazione in sua memoria, con partecipazione di tutta la grande famiglia del
missionario, e autorità e popolazione. P. Mario Barbero per i missionari della
Consolata ha ricordato la figura di p. Giuseppe e ha offerto testimonianze
dall’Africa.

Un pioniere della fede e dell’evangelizzazione.

È nitido il ritratto che restituisce il profilo di padre Giuseppe Richetti,
missionario della Consolata, di cui abbiamo ricordato i vent’anni dalla morte
lo scorso 12 gennaio. Nato a Spezzano di Fiorano il 14 marzo 1933 è morto a
Nairobi (Kenya) il 12 gennaio 1993, alla soglia dei sessant’anni; formatosi
presso il seminario di Modena-Nonantola, p. Giuseppe ha dedicato tutta la sua
vita alla missione in Africa. Thomson’s Falls (ora Nyahururu), Kerugoya, Tuthu,
Sagana e Karuri sono le tappe del suo impegno in Kenya. In quelle missioni p.
Giuseppe ha profondamente innovato, nella scia del Vaticano II, la presenza
cristiana nelle comunità africane: dal coinvolgimento dei laici nella
catechesi, alla traduzione di tutta la liturgia delle ore e della Parola in
kikuyu, la lingua maggiormente diffusa tra i locali, fino alla costruzione di
chiese, scuole, asili, oratori e luoghi di formazione. Una sintesi
straordinaria di pragmatismo e spiritualità.

Era un uomo di fede e un amante della liturgia, ma sapeva
diventare geometra, ragioniere e architetto di fronte alle esigenze delle
comunità che era chiamato a servire. E in ogni impresa era in grado di
coinvolgere, anche a distanza, i fratelli, gli amici e i parenti di Spezzano e
del modenese, in una relazione con il territorio delle sue origini che passava
dal continuo scambio epistolare ai container riempiti di materiali utili alle
missioni. In tanti sono stati coinvolti nei suoi harambee, ovvero quei
momenti contagiosi di solidarietà in cui tutti erano chiamati a dare quanto
potevano per il successo delle opere intraprese.

Padre Giuseppe è riuscito a far diventare tutti un po’ missionari.
E gli spezzanesi hanno deciso di non dimenticare quanto accaduto. Lo racconta
Francesco Richetti, fratello di p. Giuseppe, che, insieme ai familiari, ha
curato l’organizzazione della mostra «A tutti e a ciascuno, opere pensieri e
frutti di p. Giuseppe Richetti». «Insieme all’Amministrazione comunale, alla
parrocchia di Spezzano e ai missionari della Consolata, che ringrazio per la
disponibilità, abbiamo voluto offrire un momento che non fosse solo di ricordo
o commemorazione, ma che servisse ad avvicinare la figura di p. Giuseppe alla
comunità di Spezzano, soprattutto ai più giovani. Mio fratello è scomparso
venti anni fa. Il tempo passa, ma ciò che ha fatto rimane ancora oggi vivo tra
le comunità che ha servito in Africa. Conoscere le sue opere, i suoi pensieri,
i suoi scritti e condividere i frutti della sua azione è il modo migliore per
ricordarlo e allo stesso tempo per “restituire” alla sua Spezzano
consapevolezza e orgoglio per ciò che ha prodotto».

«Penso tra l’altro – continua Francesco Richetti – che nel profilo
di p. Giuseppe ci siano tante indicazioni utili per superare le difficoltà di
questo tempo di crisi. A chiunque gli ponesse una domanda, anche il solito “come
va?” rispondeva sempre “benone!”. Anche di fronte alle difficoltà, alla povertà
di mezzi e risorse, ai suoi acciacchi che non l’hanno mai abbandonato, la
profonda fede e la convinzione che insieme si può far fronte a ogni impedimento
hanno caratterizzato una vita durante la quale ha infuso speranza e amicizia
cristiana a tante persone».

«Abbiamo voluto ripercorrere le tappe
salienti del suo impegno missionario, dalla partenza da casa al seminario di Modena-Nonantola,
dagli studi a Torino con i missionari della Consolata fino alla sua ragione di
vita: la missione in Kenya, il grande impegno nella liturgia e nella catechesi,
e la costruzione di tante strutture di accoglienza, le prime in muratura di quegli
anni».

Nella giornata del 12 gennaio è stata inaugurata alle ore 16 la
mostra presso casa Corsini a Spezzano e alle ore 18, presso la chiesa
parrocchiale di Spezzano si è tenuta una celebrazione in ricordo del
missionario. Sono intervenuti il Sindaco di Fiorano Claudio Pistoni, il parroco
di Spezzano don Paolo Orlandi, P. Mario Barbero per i missionari della
Consolata che ha ricordato la figura di padre Giuseppe e ha offerto
testimonianze dall’Africa, Annalisa Vandelli autrice del libro «Continuerà a sorridere»
sulla vita di padre Richetti, e Anna Richetti in rappresentanza della famiglia.

Matteo Richetti


Il mio ricordo

La notizia della morte di p.
Giuseppe Richetti mi colpì come un fulmine mentre ero negli Stati Uniti
d’America. Non potevo crederci perché solo qualche giorno prima avevo ricevuto
una sua lettera che mi augurava Buon Natale e mi ragguagliava sulla sua attività
nella parrocchia di Karuri.

Avevo conosciuto p. Richetti, almeno di vista, prima ancora che
fosse ordinato sacerdote nel 1956, ma fu soprattutto nei dodici anni trascorsi
in Kenya che lo frequentai ed ebbi modo di apprezzare le sue doti di
missionario vulcanico e carismatico: il suo spirito di preghiera, la sua
genialità e creatività, la sua passione nell’attuare il Concilio Vaticano II e
per la formazione dei catechisti, dei laici, delle persone consacrate, dei
sacerdoti.

Fui perciò molto contento quando, lo scorso 12 gennaio, i suoi
famigliari mi invitarono a partecipare al 20° anniversario della sua morte nel
suo paese nativo di Spezzano e a portare la mia testimonianza su di lui. A
Spezzano sono stato impressionato dalla massiccia partecipazione della gente a
questo evento: dalle autorità cittadine, alla parrocchia, a tante persone dei
paesi vicini, tutti hanno risposto all’appello.

Sono stato anzitutto ammirato della sua numerosa famiglia, dai
fratelli ai nipoti ai pronipoti, tutti impegnati non solo nell’organizzazione
dell’evento ma nel condividere l’impegno missionario di p. Giuseppe.

Incontrando tante persone venute per questo anniversario, mi è
sembrato che a distanza di vent’anni p. Richetti fosse vivo lì in mezzo alla
sua gente, a richiamare la realtà della Chiesa missionaria e della
responsabilità missionaria di ogni cristiano.

L’impressione dominante è stata rendermi conto che p. Richetti è
vivo. Ripercorrendo le tappe del suo servizio missionario in Kenya nei suoi
vari aspetti, è impressionante vedere come egli sia riuscito a «contagiare»
tante persone, famigliari e amici, nei suoi impegni missionari fosse pur la
costruzione di una chiesa o di una scuola o di un centro pastorale, o la
formazione del personale: catechisti, ministri della parola, laici, famiglie.
Come ha scritto suo nipote Matteo: «P. Richetti è una sintesi straordinaria tra
spiritualità e pragmatismo».

I suoi progetti missionari sono continuati dopo la sua morte e con
un’ampiezza imprevista. Sono nati dei gruppi che hanno realizzato centinaia di
adozioni a distanza aiutando così
migliaia di famiglie keniane che hanno potuto mandare a scuola i loro figli.
Sono state costruite delle scuole, dei dispensari; si sono realizzati degli
interscambi, molte persone dall’Italia sono andate in Kenya anche solo per
brevi periodi, rientrando entusiaste per quanto hanno visto e decise a vivere
in modo nuovo il proprio impegno cristiano.

P. Richetti continua a essere un «costruttore di chiese» non solo
perché ha costruito  edifici e formato
comunità in Kenya ove ha lavorato per 25 anni, ma anche in Italia ove molte
persone, attratte dal suo dinamismo missionario, hanno riscoperto cosa significhi
essere Chiesa e hanno adottato una nuova mentalità e un nuovo stile di vita.

Mario Barbero

Matteo Richetti e Mario Barbero




Strage di Innocenti Violenza contro donne e minori: emergenza mondiale

Sembra impossibile, ma soprattutto
sconcerta e rincresce constatare come possa esistere tanta violenza contro le
donne in ogni parte del mondo, specialmente in Asia e in Africa. Una suora
missionaria irlandese, Maura O’Donohue, il cui lavoro di medico nel campo
dell’Hiv/Aids l’ha portata in Thailandia, Corea, Taiwan e India, è rimasta
sconvolta quando è venuta a conoscenza della giovane età di molte bambine
sfruttate sessualmente dai militari. E ancora di più quando si è resa conto del
numero di bambine e bambini costretti a entrare nel giro del commercio del
sesso per soddisfare le richieste dell’industria del turismo.

«Questa
attività criminale – ha scritto sulla rivista Concilium (3/2011, 62-63)
– è fortemente organizzata e ha la capacità di cambiare le sue strategie non
appena le strutture investigative e giudiziarie delle varie nazioni si
concentrano su di essa». Come suora missionaria e medico, che collabora con una
rete di organizzazioni impegnate nella lotta contro questo fenomeno, suor Maura
è giunta a pensare «che quella realtà rappresenti l’avanguardia della missione
della Chiesa oggi».

A cadere vittime dei trafficanti
del sesso non sono solo bambine e bambini di famiglie povere, ma anche giovani
donne provenienti da ambienti sociali, culturali e religiosi diversi, come
Iris, una studentessa universitaria poco più che ventenne. Quando fu rapita,
venne subito drogata per costringerla a sottomettersi; fu poi segregata in case
di appuntamento e, per sopportare la routine quotidiana di rapporti
sessuali con uomini di ogni ceto sociale, giunse al punto di aver continuamente
bisogno di eroina per rimanere intontita.

Suor Maura racconta altre storie
di donne e ragazze vittime di trafficanti, come quella di Amina, rapita dal
collegio a 14 anni insieme a un gruppo di compagne. Amina venne usata come
scudo umano nella lunga marcia verso il fronte di guerra. Sospettata di aver
tentato la fuga, fu condannata a duecento frustate. Nel frattempo aveva avuto
due figli, frutto della violenza cui l’aveva sottoposta l’ufficiale militare,
che aveva altre venti ragazze a sua disposizione.

A queste storie se ne aggiungono
altre, a cui noi non prestiamo attenzione, anche se giornali e televisione ne
parlano con regolarità. Sono le storie di donne portate via dall’Africa e
costrette ad attraversare a piedi per mesi il deserto del Sahara, subendo
continue violenze e soffrendo fame e sete. Quelle che raggiungono le sponde del
Mediterraneo devono affrontare il rischioso viaggio sulle «carrette del mare»
verso l’Europa, per poi finire con l’essere rimpatriate, dopo un periodo di
detenzione, perché prive di documenti.

La sofferenza e l’insicurezza
delle donne non finiscono qui. Quelle che sono reclutate in piena regola in
diverse parti del mondo per lavori domestici o come badanti, rischiano spesso
di essere sfruttate dagli uomini della famiglia che le ospitano. I casi di
questa forma di violenza non sono affatto pochi; una violenza subita facilmente
dalle donne per l’insicurezza e la fragilità che sperimentano, quando sono
separate dalle loro famiglie e lasciate sole, bisognose di tutto. Anche la loro
posizione giuridica, in quanto immigrate illegalmente, contribuisce ad
aggravare questo stato di cose.

Il caso forse più raccapricciante
e inumano della violenza sulle donne è quello praticato nel Congo ex Zaire
durante la guerra. Parlando a Roma nell’ottobre 2009 al Sinodo dei vescovi
africani, mons. Théophile Kaboy, vescovo coadiutore della città congolese di
Goma, ha gelato i giornalisti con i suoi racconti. «I conflitti e le guerre –
ha affermato – hanno portato, specialmente in Congo, alla vittimizzazione e
alla “cosificazione” della donna. Su migliaia di donne sono state perpetrate,
da tutti i gruppi armati, violenze sessuali di massa, come arma di guerra». I
loro figli, arruolati con la forza dai gruppi armati, sono stati costretti a
violentare le loro madri e le loro sorelle davanti allo sguardo impotente dei
padri. Tutto questo per incutere terrore nella gente, vincere la loro
resistenza, umiliare il nemico, mediante la violenza sulle donne.

Per lenire le conseguenze di
traumi tanto brutali, il vescovo di Goma ha affermato che bisognerebbe risalire
alla causa ultima, quale, per esempio, la crisi di governabilità causata da
guerre, saccheggi e sfruttamento anarchico delle risorse naturali, traffico
delle armi e assenza di un esercito statale forte e preparato.

Naturalmente, l’intervento
immediato in tali casi è la creazione di case di accoglienza per le donne
vittime di violenze, case che accompagnino il recupero dal trauma subito.
Tuttavia, ha ancora affermato il vescovo di Goma, «la risorsa principale contro
la cultura della violenza è costituita dalle donne stesse e dal riconoscimento
del loro ruolo da parte dell’intera comunità, anche di quella ecclesiale». «Noi
vescovi – ha affermato un altro presule, mons. Telesphore Gorge Mpundu,
arcivescovo di Lusaka nello Zambia – dobbiamo parlare in modo più chiaro della
dignità della donna alla luce delle Scritture e della dottrina sociale della
Chiesa».

È proprio questo il punto centrale
per arrivare a una presa di coscienza della dignità della donna, quella cioè di
lottare contro idee e tradizioni che la umiliano. Esempi di umiliazione,
dettati da tradizioni disumane, non mancano. In alcuni paesi la discriminazione
della donna non è limitata solo al mondo del lavoro, ma già prima della nascita
si individuano gli embrioni femminili per eliminarli. Tale drammatica
situazione si verifica specialmente in Cina e in India, al punto che l’attuale
livello delle nascite maschili, anziché alla media di 105 maschi per 100
femmine, si attesta rispettivamente a 121 e 112 per 100 femmine. Tale
dislivello è dettato in Cina dalla politica demografica del figlio unico, ma
sia in Cina sia in India anche dalla tradizionale preferenza culturale per i
maschi a scapito delle donne. Questa tendenza è pure presente nei paesi del
Caucaso, come Azerbaigian, Georgia e Armenia, e nei Balcani.

Ma c’è di peggio. Una notizia
riportata domenica 26 giugno 2011 dal giornale indiano Hindustan Times e
ripresa da altri quotidiani, riferisce che se prima in alcune parti dell’India
esisteva l’infanticidio o l’abbandono di bambine e poi l’aborto selettivo di
feti di sesso femminile, ora si farebbe strada l’intervento chirurgico di «genitoplastica»,
che trasformerebbe in maschietti centinaia di bambine della fascia di età
compresa da uno a cinque anni. Se la notizia fosse vera, si tratterebbe di una
scioccante tendenza senza precedenti e non soltanto di interventi di chirurgia
correttiva. Tuttavia, per fortuna, alcuni esperti di genetica ritengono
impossibile convertire chirurgicamente una bambina normale in un maschietto.

La vicenda richiama comunque
l’attenzione su un fenomeno noto in India, specialmente negli stati
settentrionali e occidentali e nella stessa capitale Nuova Delhi, ossia la tradizionale
preferenza per i maschi che provoca uno squilibrio preoccupante tra maschi e
femmine e favorisce il traffico di donne. Uomini celibi delle regioni più
ricche dell’India e della Cina «comprano» donne dalle regioni più povere,
mentre dalla Corea del Sud e da Taiwan si fa «turismo matrimoniale» in Vietnam
per prendere moglie.

In India la selezione sessuale
porta all’eliminazione di molte bambine sia nate che non nate. Si stimano 5
milioni gli aborti selettivi di bambine negli ultimi 20 anni.

La preferenza per il figlio
maschio è dovuta a fattori religiosi, sociali ed economici. In molte famiglie
di fede indù continua a essere particolarmente sentita la convinzione che per
ottenere la salvezza sia necessario un figlio maschio. Molte cose sono però
cambiate o stanno cambiando. Le bambine indiane, quando hanno l’opportunità, si
distinguono ormai in vari ambiti, soprattutto nell’istruzione, nello sport e
nelle espressioni artistiche.

L’emarginazione della donna e la
disparità tra i sessi spiegano particolari pratiche ancora in uso in India,
quali l’obbligo di sposarsi in giovanissima età, ancora bambine, con un uomo
scelto dalla propria famiglia e a volte molto anziano. Sono pratiche entrate a
far parte del pensiero comune di larghe fasce della popolazione indiana.

È necessario perciò creare una
nuova mentalità. Nel tentativo di incidere sulla promozione di questa nuova
concezione di vita, la Chiesa di Goa, nel giorno della festa della natività
della Vergine Maria (8 settembre), ha lanciato un appello inteso ad affermare
il valore di tutte le bambine sia nella famiglia sia nella società. «Ogni vita
umana è un dono prezioso di Dio e quindi fonte di dignità», ha spiegato il
segretario esecutivo della Commissione Giustizia e Pace. Ogni bambina nata o
non nata, ha aggiunto, condivide questo diritto, a cominciare dal diritto alla
vita.

Una cosa è certa: essere donna
non sembra per nulla facile in India e in Cina, ma anche in Africa e in altri
paesi del mondo. Si può forse cercare di porvi rimedio mediante la creazione di
strutture di promozione della donna, soprattutto per mezzo della formazione
culturale, dell’alfabetizzazione e della catechesi, per assicurare alla donna
una maggiore presa di coscienza della sua dignità in modo da offrirle la
possibilità di lottare contro idee e tradizioni culturali che la umiliano.

Christiane Kadjo, una cittadina
ivoriana, è per esempio stata premiata a Madrid il 27 ottobre 2011 con il
riconoscimento Harambee Spagna, dovuto al suo lavoro in Costa di Avorio,
rivolto a dare istruzione e pari opportunità alle donne. Attraverso la Ong Education
et developement
, ossia attraverso scuole e centri sociali, essa ha dato
alle giovani la possibilità di accedere a lavori retribuiti o di avviare
piccole attività. Questi centri limitano anche l’emigrazione, dal momento che
creano possibilità di sviluppo nel proprio paese. 

Purtroppo «la violenza contro le
donne continua a essere una tragica realtà», ha affermato mons. Silvano Tomasi,
osservatore della Santa Sede, alla 17a sessione del Consiglio dei diritti
umani, tenuta a Ginevra nel giugno 2011. Anche papa Benedetto XVI nel novembre
2011, durante la consegna delle credenziali al nuovo ambasciatore tedesco, ha
denunciato alcune tendenze materialistiche ed edonistiche diffuse nel mondo
occidentale, tra le quali la discriminazione della donna, e ha ammonito che una
relazione, la quale ignora come l’uomo e la donna abbiano uguale dignità,
costituisce un grave delitto contro l’umanità.

Giampietro Casiraghi

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Gianpietro Casiraghi




Oltre le sbarre Don Pierluigi Murgioni: testimone e martire

Da 20 anni, il 24 marzo, anniversario dell’assassinio di Oscar
Romero (1980), arcivescovo di El Salvador, si celebra la «Giornata di preghiera
e di digiuno in memoria dei missionari martiri». Per tale giornata, presentiamo
la figura di Pierluigi Murgioni, missionario fidei donum in Uruguay dal 1968 al
1977, durante la dittatura militare, quando predicare il Vangelo e parlare di
giustizia significava essere un pericoloso avversario del potere e si rischiava
di essere messi a tacere. Don Pierluigi, infatti, fu imprigionato e torturato
per cinque anni e poi espulso dal paese. È morto a soli cinquantun anni,
lasciandoci come ultimo regalo la traduzione in italiano del Diario di Oscar
Romero.

«Dalla mia cella posso vedere il
mare; stasera c’è una luna piena stupenda, bassa sul mare, rossa, con i fiocchi
di nuvole davanti: tutto uno spettacolo. Sono piccole cose che ti aiutano a “essere
fuori”. Bisogna saper accettare tutto con semplicità come è nella dolce e
terribile logica del Vangelo. Dio è amore, morto e risuscitato e perciò:
benedetti i puri di cuore, benedetti i poveri, benedetti voi che piangete,
benedetti i perseguitati, benedetti i costruttori di pace». Così scrisse in una
lettera dal carcere don Pierluigi Murgioni (1942-1993), sacerdote bresciano,
missionario fidei donum in Uruguay.

La
sua drammatica ma nel contempo straordinaria vicenda umana è descritta nel
libro pubblicato dall’Editrice Ave dal titolo: «Pierluigi Murgioni. Dalla
mia cella posso vedere il mare
». Ne è autore il professore Anselmo Palini,
docente di materie letterarie nella scuola superiore, che ha al suo attivo
diverse pubblicazioni sui temi della pace, dell’obiezione di coscienza, dei
diritti umani e della nonviolenza. In questo libro egli approfondisce la storia
umana e spirituale del prete bresciano, ingiustamente incarcerato e torturato
durante gli anni bui della dittatura militare in Uruguay, dove si trovava come fidei
donum
in servizio pastorale nella diocesi di Melo, all’interno del piccolo
paese sudamericano.

La sua vicenda ricalca quella di
tanti testimoni che incarnando lo spirito del Concilio Vaticano II e della
Conferenza di Medellin, fecero la scelta dei poveri e di conseguenza
denunciarono le ingiustizie strutturali che in maniera pervasiva stravolgevano
la realtà sociale e civile di tutta l’America Latina. La teologia della
liberazione diede a queste persone i criteri evangelici per una corretta
analisi della situazione e le Comunità di Base – autentica linfa vitale del
cattolicesimo latinoamericano – diedero spessore ecclesiale alle scelte di
posizione che questi profeti del secolo ventesimo facevano nella realtà in cui
erano inseriti.

Don Pierluigi era arrivato in
Uruguay nel 1968 nel contesto della cooperazione e comunione tra le chiese che,
sotto il poderoso impulso dell’enciclica Fidei Donum di Pio XII, aveva
incrementato notevolmente il numero dei sacerdoti diocesani italiani impegnati
nei vari paesi così detti di missione.

In Uruguay, in particolare,
approdarono sacerdoti delle diocesi di Novara, Bergamo, Brescia e Verona. Una
perfetta miscela piemontese-lombardo-veneta che, se pur dispersa negli angoli
più reconditi dell’Uruguay, si ricompattava periodicamente attraverso degli
incontri memorabili, capaci di risollevare lo spirito e il morale ai missionari
italiani, anche nei momenti più duri, tale era l’amicizia, l’affetto e l’unione
reciproca che stava alla base di questo legame. Di questi incontri, don
Pierluigi era un po’ l’anima; purtroppo un amaro destino aveva riservato per
lui un’esperienza missionaria del tutto particolare.

Durante un’incursione nottua
compiuta dai militari che avevano preso il potere tramite un golpe in
cui avevano sospeso ogni garanzia costituzionale, venne arrestato nel maggio
del 1972, con l’accusa di appartenere al Movimento di liberazione nazionale Tupamaros
e senza nessuna spiegazione, portato e incarcerato in un luogo sconosciuto. A
suo carico non fu mai esibito lo straccio di una prova che avesse infranto la
legge uruguayana; però era tale l’astio dei golpisti nei confronti della Chiesa
schierata apertamente e decisamente dalla parte degli oppressi, che essi
vollero, attraverso lui, dare un esempio a tutti gli altri sacerdoti, al fine
di raffreddae lo slancio evangelico e solidaristico con chi era coinvolto nei
cammini di liberazione sociali, civili e politici.

Fu torturato sistematicamente,
per il solo piacere sadico di infierire su un ministro del culto cattolico, che
aveva manifestato solamente carità e solidarietà cristiana nei confronti degli
appartenenti ai Tupamaros (cosa ben diversa dal condividere ideali e
strategie di lotta). Fu privato della possibilità di celebrare l’eucarestia in
carcere e gli vennero tolti sia la Bibbia che il Breviario.

Rapato a zero, con la casacca
color kaki di tela grezza, sulla quale era cucito il numero 756, che era
diventato per imposizione dei suoi carcerieri un suo secondo nome, venne fatto
scendere nel calabozo (prigione sotterranea) dove, insieme ad altri
ragazzi appartenenti alla miglior gioventù uruguayana, passò cinque lunghissimi
anni della sua vita. Gli cambiarono cella e compagni diverse volte.
Sistematicamente, ogni due-tre mesi, veniva fatto vestire con abiti civili, per
fargli balenare la possibilità che «di lì a poco sarebbe stato rimandato in
Italia»; ma era una tragica farsa, studiata dagli specialisti della Cia che
stavano dietro le quinte dei golpisti uruguayani, per fiaccarne l’animo e lo
spirito.

Ma don Pierluigi fu forte,
resistette a ogni tortura e condizionamento; i suoi compagni di sventura lo
ricordano come colui che sosteneva la speranza di tutti, era un riferimento
preciso nella disgrazia collettiva del carcere.

Quando fu rilasciato, il 12
ottobre 1978, all’aeroporto di Montevideo, diversi furono i missionari italiani
venuti a salutarlo e a ringraziarlo per la sua incrollabile testimonianza di
fede offerta nei lunghi anni di detenzione. Il lungo abbraccio che ci
scambiammo prima che lui salisse sull’aereo resta uno dei ricordi più belli e
indelebili che tutt’ora mi porto nel cuore.

Rientrato nella sua Brescia, don
Pierluigi riprenderà il suo servizio sacerdotale come parroco in una suggestiva
località sul lago di Garda, dove tra le altre cose porterà a termine la
traduzione del Diario di mons. Oscar Romero.

Anselmo Palini con questa sua
fatica ha voluto raccogliere lettere e testimonianze di persone che hanno
condiviso la vicenda umana e spirituale di don Pierluigi. Ne è uscito un libro
ricco di pagine toccanti che aiutano a scoprire i veri testimoni del Vangelo
nei tempi in cui viviamo.

Mons. Domenico Sigalini, vescovo
di Palestrina, bresciano come don Pierluigi, compagno di studi e di ordinazione
sacerdotale, durante la presentazione del libro, avvenuta nell’Aula Magna
dell’Istituto dei padri Comboniani di Brescia, il 24 ottobre 2012, ha detto che
questi testimoni vanno tolti dalla cerchia degli affetti familiari e territoriali
e fatti conoscere a un più vasto pubblico, specialmente giovanile, per mostrare
la loro fede cristallina e la loro coerenza evangelica di vita, della quale
sono portatori nel contesto storico ed ecclesiale dei nostri giorni.

Sicuramente la lettura di questo
libro aiuterà molti a ritrovare il gusto dell’appartenenza alla Chiesa, proprio
perché si scopriranno compagni di viaggio di testimoni che hanno saputo offrire
la loro vita nell’annuncio del Vangelo e nella difesa dei diritti dell’uomo.

Don Mario Bandera
Direttore Missio – Novara

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Mario Bandera




Disarmare il Dolore col Sorriso Un incontro speciale: il Mago Sales

È stato in decine di paesi in tutto il
mondo, incontra migliaia di bambini ogni anno: «Vado da loro per regalare un
sorriso e fare una promessa». E per il 2013 ha in programma progetti anche in
favore dei missionari della Consolata. Incontrare il sacerdote salesiano mago
Sales è un’esperienza ricca, perché ricca è la sua condivisione che non perde
di vista la sofferenza, la vera gioia e la ricerca della verità. Grazie alla
medicina dell’allegria.

Lo incontriamo per interesse missionario: il mago Sales
porta da due decenni la sua allegria (e i suoi aiuti) in alcune decine di paesi
in tutto il mondo; e per curiosità: un prete salesiano dedito ai giochi di
prestigio, a vederlo in alcuni video su youtube una macchietta con la
croce al collo. Dopo l’intervista abbiamo avuto la piacevole sensazione di aver
incontrato non un ruolo (sacerdote) o un mestiere (mago), scatole che possono
rimanere vuote, pur tra l’ammirazione generale; neppure l’«impegno per i poveri»,
idea che a volte impoverisce di umanità chi la persegue; ma una persona. La sua
vita, allegra e dolente allo stesso tempo, e quindi la sua grande ricchezza.

Don Silvio Mantelli (questo il suo nome) ci
colpisce per la schiettezza – riguardo ai contrasti con alcuni confratelli
causati dal suo «mestiere», o a esperienze di sofferenza provocate in parte da
lui stesso -, e per la vulnerabilità che lascia trasparire dal suo volto. Forse
la sua franchezza priva di acredine viene proprio da quella vulnerabilità
accettata e testimoniata. Si potrebbe chiamarla anche trasparenza, o
addirittura misericordia. «I bambini in genere sono i critici più spassionati:
se hanno qualcosa da dirti te lo dicono senza problemi. Io mi sono accorto di
essere dalla loro parte, di essere un po’ un bambino» ci dice. E noi crediamo
che sia vero.

UN
MISSIONARIO DELLA CONSOLATA… MANCATO

Capelli bianchi, grandi occhiali posati su un
grande naso, sopracciglia foltissime. Sul petto una croce keniota, segno dei
progetti cui contribuirà nel 2013 per portare acqua alle popolazioni di quel
paese africano. Ci attendevamo di trovarlo con una bacchetta magica, un
copricapo colorato e vesti catarifrangenti. Ci accontentiamo della serie
concentrica di rombi che disegnano in modo ipnotico la trama del suo maglione. «Mi
definisco un prete che fa il mago: ho scelto di fare il mago, ma non di essere
prete. La vocazione è come la vita: nessuno chiede di venire al mondo. La vita è
un dono. La vocazione, cristiana e sacerdotale, pure».

Il mago Sales faceva le magie già prima della
vocazione, «quindi ho semplicemente continuato. Le faccio anche per
riconoscenza: credo di aver ricevuto molto dalla vita, allora restituisco il
debito e regalo dei sorrisi. Mi piace molto farlo!». Piemontese, nato nelle
langhe, a Novello, nel ‘44, Silvio arriva piccolissimo a Torino col papà
impiegato di banca, e la mamma commercialista. I genitori non lo possono
seguire «allora sono stato bocciato in prima media. Andavo bene solo in
educazione fisica. Poi i miei mi hanno mandato dai salesiani coi quali ho fatto
le medie e il classico faticando molto. A 19 anni un sacerdote straordinario
con la sua testimonianza di vita mi ha dato l’input: volevo diventare
missionario della Consolata! Ma i miei non erano d’accordo sulle missioni, e un
giorno ho trovato a casa un salesiano che mi ha portato nella sua
congregazione. Io volevo entrare nella Consolata perché a Novello conoscevo un
medico condotto, il dottor Dagnino, che quando era rimasto vedovo era diventato
missionario della Consolata, ed era andato in Kenya a testimoniare il Vangelo
come prete facendo il medico».

LA
TIMIDEZZA, LA MAGIA E GESÙ CRISTO

Sul viso e nella voce un sorriso affabile.
Inaspettatamente il mago Sales appare timido, perfino impacciato. Già dal primo
sguardo su di lui dobbiamo fare i conti coi nostri schemi e pregiudizi. Per
fortuna ci eravamo preparati a incontrarlo leggendo la sua gustosa e poetica
autobiografia sul sito magosales.com.

«Io sono molto timido. La timidezza non la
vinci mai completamente. Fare spettacoli mi ha aiutato». Don Silvio dice di non
essere un’eccezione: «Molti personaggi dello spettacolo sono timidi. Io ho
insegnato ad Arturo Brachetti, star a livello mondiale. Quando l’ho
incontrato era un ragazzino timido. Lo spettacolo l’ha aiutato a venire fuori.
Vasco Rossi, ad esempio, è timidissimo. Io l’ho conosciuto. I timidi hanno una
potenza in più perché, non esprimendosi nel sociale, interiorizzano, e la loro
fantasia diventa molto creativa».

La timidezza e la creatività, lo spettacolo
che fa esprimere l’interiorità. Tutto ciò ci fa intuire che la magia per don
Silvio non è uno strumento posticcio, un’espediente per attirare l’attenzione e
catechizzare il suo pubblico, ma un modo di essere, di esprimersi. Forse
allora, al contrario di quanto lui stesso ci ha detto, la magia per la sua vita
è più simile a una vocazione che a una scelta.

«Ogni tanto ricevo delle mail di gente
che mi chiede se non mi vergogno a fare il mago, io che sono prete. La magia è
parte di me. In fin dei conti se la religione è soprannaturale, la magia è
soprannaturale in finzione. Magia e religione non sono da equiparare, ma in
qualche modo tra loro c’è un legame. Gesù faceva miracoli. La magia, come il
miracolo, non è il fine, ma un mezzo per far capire realtà che altrimenti
sarebbero difficili da spiegare. Poi per me la magia è il modo in cui mi
avvicino alla gente. In tanti territori sono entrato non come prete ma come
animatore per bambini. In Vietnam c’è una legge che impedisce riunioni di più
di dieci persone. Io ne avevo di fronte più di mille e mi lasciavano fare. Lo
stesso a Cuba, in Somalia, in Palestina. Vado a regalare un sorriso, non a fare
politica o conversioni».

FAR
GUARIRE ATTRAVERSO IL SORRISO

Con una leggera inflessione dolente nella
voce il mago Sales d’improvviso parla del male del mondo: la magia e Gesù sono
legati tra loro dalla passione per l’umanità, in particolare quella sofferente.
«Il male del mondo non può lasciare indifferenti, soprattutto se colpisce un
bambino. Uno dovrebbe usare ogni mezzo per lenirlo. Il gioco è un valore
fondamentale. Molte volte in giro per il mondo i bambini mi hanno detto: “Grazie
perché mi hai regalato un sorriso”. Una volta in Somalia, alla fine di uno
spettacolo in un orfanotrofio dove, tra l’altro, c’erano tre suore della
Consolata, l’unica presenza cristiana in quel momento nel paese, un medico è
venuto da me e mi ha detto che quell’ora di spettacolo aveva annullato la
sofferenza di venti anni di guerra, era stata la prima volta che aveva riso e
si era divertito. Un’altra volta Dominique La Pierre mi ha detto: “Far
sorridere in situazioni di povertà e sofferenza significa in un certo senso già
guarirla”. Era il mio sogno: diventare come il dottor Dagnino, medico e prete,
far guarire col buon umore e il sorriso».

Il mago Sales porta ai bambini un aiuto
duplice: da un lato il divertimento, dall’altro i fondi raccolti in Europa. «Vado
da loro per regalare un sorriso e fare una promessa. Non puoi andare da un
bimbo, farlo divertire, scattare due foto e chiudere tutto lì!».

ESSERE
INCOMPRESO…

Immaginiamo che per i confratelli di don Silvio,
e non solo per loro, deve essere difficile accettare una modalità così
eccentrica di essere sacerdote. «Come capita a tutti, ho incontrato persone che
mi hanno capito e voluto bene, e altre che… non è che non mi abbiano voluto
bene, però…».

Il mago Sales parla con molta onestà dei suoi
contrasti coi confratelli. Ci fa capire che in alcuni ambienti si preferisce
non dire nulla, o al massimo alludere. Lui invece sembra non farsi remore. E la
sua semplicità, l’assenza di rancore e di quella superbia di chi crede di
essere nel giusto e vuole dimostrare gli errori degli altri, c’incantano.

«Le difficoltà servono a stimolare la
ricerca. Di solito il fatto che io faccia il mago non piace. Pensano: “Ma
questo deve fare il prete!”. I confratelli non te lo dicono. Poi te lo fanno
sapere per vie traverse. Anche don Bosco una volta fu portato in manicomio dai
suoi preti perché lo prendevano per matto. Si trovano sempre persone così».

UNA
STORIA DOLOROSA

Nella sua autobiografia il mago Sales, tra le
altre cose, narra anche di una storia d’amore che tre decenni fa l’aveva
portato fuori dalla congregazione, in cui è poi rientrato dopo alcuni anni.
Leggerla ci ha stupito, non tanto per la vicenda in sé, quanto per il fatto di
trovarla scritta di suo pugno nel suo sito web. Evidentemente per lui
essere testimoni dell’amore di Dio non significa mostrare solo quelle parti di
sé che corrispondono alle aspettative della gente ma – come dice lui – «vivere
integralmente la tua vita» con il male e il bene che in essa inevitabilmente si
intrecciano.

«È una cosa risaputa. Non l’ho mai nascosta.
Il sentimento e la sessualità non si possono annullare. Io non ho ricevuto
un’educazione in questo campo. I miei non ne parlavano. Mi dicevano che ero
nato sotto un cavolo. Non ho avuto mai smentite, né aggioamenti. Poi a scuola
il problema del sesso, della masturbazione, era una cosa da combattere a tutti
i costi. E forse questo mi ha influenzato. Forse pensavo che entrare nella
religione come prete avrebbe annullato la tentazione. “Sei più vicino a Dio”,
pensavo…

Ho incontrato una donna, sposata, con un
figlio. È nato un sentimento. Abbiamo anche pensato di andare a vivere insieme.
Dopo è valsa la ragione. Abbiamo fatto delle scelte. Lei dalla sua, io dalla
mia. La più sfortunata è stata lei: un giorno ho saputo che era in ospedale. Si
era presa un cane, come fanno tante persone che si sentono sole. Era su una
panchina e le è venuto un aneurisma. Non ha più ripreso conoscenza. Io sono
andato in ospedale a trovarla. Mi ha fatto impressione perché era senza
capelli, immobile. Io l’ho chiamata con il termine con cui ci chiamavamo, e dai
suoi occhi sono venute fuori delle lacrime. Alla fine le ho dato una
benedizione».

GIRARE IL
MONDO DAI 49 IN POI

Ci verrebbe da chiudere l’intervista qui,
sulle parole commosse di quest’uomo che ci mostra com’è fragile, imprevedibile,
sconcertante, e allo stesso tempo intensamente bella la vita. Ma sul mago Sales
ci sono molte cose da dire ancora. E allora proseguiamo. Don Silvio oggi
impiega gran parte della sua attività per i poveri del mondo. La cosa curiosa è
che questa mondialità, presente nella sua vita da sempre, è rimasta inespressa
fino ai suoi 49 anni: «Ho sempre fatto le cose in ritardo. Sono pigro oltre che
timido. Nel 1993 sono andato in Brasile, in un lebbrosario. Lì c’era Paolino di
otto anni che mi ha chiesto di fare una magia per lui: non la guarigione, ma di
farlo tornare da papà e mamma. Ci sono sofferenze che vanno al di là del male
fisico. Allora ho pensato: “Se guarisce, magari i genitori lo riprendono con
loro”. È nata così l’idea di aiutare i bambini del mondo attraverso gli
spettacoli. I soldi si sono trovati: Paolino è guarito. Però non è stato
accettato dai genitori. Ora è sposato, ha dei figli, ha la sua famiglia».

Da quell’anno il mago Sales ha visitato
almeno venticinque paesi: «In ognuno compro una stola. A Cherasco ho fatto una
cappellina in cui le ho appese tutte. Ce ne sono certamente più di venticinque!
Dovrei contarle.

Il paese che mi ha colpito di più è il Madagascar.
È stato il secondo viaggio che ho fatto. Poi ci sono tornato molte volte. Lì ho
avuto degli incontri importanti. Ma ogni paese ha le sue ricchezze. Haiti ad
esempio. Mi ricordo che un tempo portavo i quotidiani ai missionari. Erano così
felici che passavano la notte a leggere. E poi la sera raccontavano le storie.
Tant’è che ho iniziato a scrivere un libro sulle vite di alcuni bimbi. Sono
stato in Myanmar e mi sono fatto raccontare la vita di un bimbo monaco… poi
scriverò la vita di un bambino soldato, di un altro che lavora al mercato…».

Nel 2012 don Silvio è stato in Messico dove
sta finanziando un progetto per la formazione di giovani con 20mila euro
raccolti dal cinque per mille, poi è stato ad Haiti per visitare una scuola
costruita con 120mila euro dati da una fondazione bancaria. «Sono andato con
una persona di Cuneo che due anni fa ha perso la sua unica figlia in un
incidente stradale, e ora è un socio della fondazione mago Sales. Lui viene con
me e mi ringrazia perché vede cosa accade nel mondo. Non che così annulli la
sofferenza, perché certi dolori non li puoi mai vincere, però…».

Dopo Haiti è stato in India e Myanmar, e
infine in Palestina.

«L’ACQUA…
UN BENE PREZIOSO»

Per il 2013 la fondazione mago Sales ha
assunto due progetti dei missionari della Consolata in Kenya, entrambi relativi
all’acqua. Il primo riguarda la costruzione di vasche di raccolta di acqua
piovana a Karare, Marsabit, nel Nord, zona desertica in cui lavora suor
Serafina: già finanziato nel 2012, il progetto è solo all’inizio. Il secondo,
noto ai nostri lettori (si veda MC gen.-feb. 2013, p. 29) e agli
estimatori di fratel Argese, riguarda la costruzione di una diga per
raccogliere acqua utile in caso di siccità nell’area di Mukululu, nel Nyambene,
Meru.

«Nel mondo ogni sei secondi muore un bambino
di fame o di sete. Seicento bimbi ogni dieci minuti: un aereo che cade al
suolo. È una cosa che dipende da noi: una distribuzione più giusta delle
risorse.

Poi l’acqua è legata a Gesù: quando dice “avevo
sete”, si riferisce a questo».


UN PO’
COME LA MALARIA

Concludiamo l’intervista chiedendo a don
Mantelli chi glielo fa fare di lavorare con tanta intensità a 68 anni. Lui ride
soione. Negli occhi si accende un guizzo di ironia: «Forse è una malattia, un
po’ come la malaria, che quando ti entra rimane latente… La pensione è come
l’anticamera del Paradiso. “Finalmente, dopo aver lavorato e faticato, sei in
pensione, ti puoi riposare!”, assomiglia a preghiere come: “L’eterno riposo…”.
Che monotonia! Io mi auguro che il Paradiso non sia così. Sarebbe una rottura».
Poi ritornando un po’ più serio, aggiunge: «Quando smetterò di fare spettacoli
mi metterò a scrivere e a leggere… e a pregare. Ho un compagno che si chiama
don Lajolo, anche lui vive come me fuori comunità. Ha messo su tre case per i
tossicodipendenti. Da un anno ha mollato tutto per vivere ad Assisi come un
eremita: la preghiera è la sua vita. Ho pensato che ha fatto bene. Non so, sarà
una mia tentazione…». Il mago Sales nel corso del nostro incontro ha già parlato
della preghiera: «È un punto su cui sto facendo un esame di coscienza» ci ha
detto. «A un certo punto, quando sei sempre in mezzo alla gente, vorresti
chiudere un po’ il sipario». Forse per lui andare in «pensione» sarebbe come
chiudere un’ultima volta il sipario e rimanervi dietro definitivamente. Una
condizione ambivalente: da un lato desiderata, dall’altro temuta, come quando
si cerca la verità su se stessi. «Il backstage è il momento in cui
rifletti! La crisi di molti che fanno rappresentazioni è questa: chiudi il
sipario, e nel backstage cos’hai? Se non si ha qualcosa dentro, come la
preghiera… c’è chi si butta nella droga, nell’alcornol. Dopo gli applausi, arriva
il momento in cui devi fare i conti non con quello che presenti, ma con quello
che sei».

Luca Lorusso

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Luca Lorusso




Piccole schiave (tra le mura domestiche) La lotta di una piemontese contro il lavoro minorile

Possono avere anche soltanto 5 anni.
Preparano il cibo, fanno le pulizie, le compere, l’assistenza. Lavorano per
15-18 ore al giorno, senza alcuna paga, alle dipendenze di «padroni» senza
cuore e senza scrupoli. Come se ciò non bastasse, subiscono anche le attenzioni
particolari dei maschi di casa. Le chiamano «lavoratrici domestiche», ma in
realtà sono «piccole schiave». In Perù pare siano un esercito di 120-150 mila
persone. Da oltre 30 anni, una piemontese lotta al fianco di queste
bambine-donne, vittime della società e degli adulti. Siamo andati a trovare
Vittoria Savio a Cusco, nella casa dove lei le accoglie. Ecco cosa ci ha
raccontato.

Cusco. Una grande
zucca tagliata a metà sta in mezzo al tavolo, pronta per essere pulita e
sminuzzata. A Cusco, città andina a 3.400 metri d’altezza1, le minestre sono un piatto sempre ben accetto.
Vittoria, la padrona di casa, ha fisico asciutto e folti capelli bianchi. Il
suo volto, segnato da rughe profonde, è come un’opera d’arte che cresce di
valore con il passare del tempo. Parla con voce rauca, probabilmente segnata
dalle sigarette che fuma una appresso all’altra. Un vizio personale che lei
difende senza indugio.

PRIGIONIERE (E LA NASCITA DEL CAITH) 

Nata in Piemonte nel 1934, insegnante di matematica al
Liceo classico di Carmagnola, nel 1979 Vittoria Savio decide di lasciare tutto
e partire. «Sarei voluta andare in Nicaragua ad aiutare la rivoluzione
sandinista. Invece mi ritrovai in Perú con il Mlal, un’organizzazione di
volontariato allora molto attiva».

Trascorre i primi anni a Puno. Poi, a causa della
presenza di Sendero luminoso, il Mlal è costretto a chiudere i progetti.
Mentre quasi tutti i suoi colleghi rientrano in Italia, Vittoria decide di fermarsi
a Lima. Qui conosce il fenomeno delle ragazze che, lasciati i villaggi di
campagna e le poverissime famiglie, si trasferiscono in città per lavorare come
domestiche nelle case dei più benestanti. Rimane così colpita dal dramma umano
che sta dietro questo tipo di lavoro domestico, che decide di andare in
provincia per capire e soprattutto per tentare di fare qualcosa. Dato che il
console italiano non le consente di andare ad Ayacucho, lei sceglie Cusco, dove
inizia a lavorare da sola. Nel 1994, con l’arrivo di Josefina e Ronald, i due
primi soci, il progetto si formalizza nella nascita del «Centro di appoggio
integrale per la lavoratrice domestica» (Centro de apoyo integral a la
trabajadora del hogar,
Caith).

Il Caith nasce come luogo di assistenza e accoglienza
temporaneo. Ma il fenomeno è più grave di quanto inizialmente pensato. «Capimmo
– racconta Vittoria – che il maggior problema era ed è quello delle bambine che
lavorano in casa. Piccole che possono avere anche soltanto 5 anni! Modificammo
quindi lo statuto dell’associazione per superare il vincolo della temporaneità
e consentirle di ospitare le bambine fino all’età di 14 anni. E successivamente
aiutarle a reinserirsi nel mondo del lavoro».

Vittoria racconta un mondo di vera e propria schiavitù. «La
bambina non può andare a scuola, non può uscire. Dipende totalmente dalla
famiglia in cui lavora. È a disposizione dei suoi membri 24 ore al giorno. Se
alle due del mattino, la signora si mette in testa di volere un tè, la bambina
si deve alzare, preparare la bevanda e portargliela».

Ricorda il caso di una bambina che bussò alla porta
all’una e trenta del mattino: « “So che qui date da dormire alle donne che
lavorano in casa…”. Faceva impressione sentire parlare di donne da lei che
era alta un metro e dieci e aveva soltanto 8 anni. Raccontò di essere stata
licenziata alle 11.30 della notte. “Ho cominciato a camminare per le strade e
poi mi è venuto in mente che c’eravate voi”».

Voi è il «Centro Yanapanakusun» che, dal 2001, ha
inglobato il Caith, svariate attività educative, un centro di produzione
agricola, e alcuni programmi di turismo responsabile.

«COME UNA FIGLIA»

In lingua quechua, Yanapanakusun significa «aiutiamoci».
Un verbo coniugato in vari modi da Vittoria e collaboratori. Ad esempio, mandando
le ospiti più piccole a scuola e le più grandi a lavorare con un contratto
stilato in base ai principi della legge peruviana sul lavoro domestico2
e sottoscritto anche da Vittoria, in qualità di direttrice del centro. Ma la
strada è lunga.

Il ministero del lavoro stima che in Perú ci siano circa
700 mila lavoratori domestici, in gran parte donne (trabajadoras del hogar).
Di queste almeno 120 mila sarebbero bambine3. A Cusco,
dove Vittoria e i suoi collaboratori lavorano, si parla di 5.000 piccole schiave.

Il modo in cui una bambina diventa una lavoratrice
domestica è una storia che nasce dalla povertà e dallo sfruttamento.

«La persona, di solito una donna, va nei villaggi più
poveri a cercare le bambine – racconta Vittoria -. Quando ne trova qualcuna, promette
a lei e alla famiglia che la manderà a scuola e che la tratterà come una figlia».
La bambina arriva in città, dove – non conoscendo nessuno – rimane subito
isolata dal mondo. Quello nuovo, ma anche quello vecchio.

«A volte i genitori vanno a trovarle, ma i padroni hanno
svariati metodi per fare sì che essi desistano velocemente. Ad esempio, la
prima volta dicono loro: “Tua figlia non è in casa”. La seconda: “Tua figlia si
vergogna di te”. Il padre – che già ha complessi d’inferiorità (perché parla quechua,
perché è povero, perché viene dalla campagna) – se ne va, convinto che la
figlia lo rifiuti. A quel punto la signora dice alla bambina: “Guarda i tuoi
genitori che razza di persone sono: sei qui da mesi, ma non sono mai venuti a
trovarti». Dunque, la violenza è doppia: le bambine sono sfruttate dalla
famiglia in cui vivono e allontanate dalla famiglia d’origine. Non ci si deve
stupire se in molte subentra un sentimento di rabbia su cui Vittoria e
collaboratori cercano di lavorare.

«Quando arrivano qui, per prima cosa noi cerchiamo di
ricostruire un concetto di famiglia, dicendo: “Guarda che i tuoi genitori ti
hanno mandata a lavorare perché speravano o si illudevano che saresti stata
meglio”. Ricordiamoci che le famiglie mandano le figlie nella convinzione che –
perlomeno – esse avranno un’esistenza migliore della loro».

Perché la vita in molti villaggi rurali di questo Perú
profondo, lontano dalle rotte turistiche, è di una durezza estrema. A tal punto
che, la maggioranza delle bambine, pur confessando di aver sofferto molto, dice
che non ritoerebbe nei campi. «Occorre riconoscere – avverte Vittoria – che
non c’è soltanto il fenomeno del reclutamento, ma può esserci anche un
allontanamento volontario per scappare alla povertà e alla violenza familiare».

Al Centro, le bambine possono arrivare in tre modi: o
perché mandate dal tribunale, o perché si presentano spontaneamente dopo essere
scappate dalla loro prigione, o perché portate da altre bambine.

Dal 1994 al 2012, al Caith sono passate circa 1.500 lavoratrici
domestiche all’anno. Attualmente vi risiedono 27 minori e alcune maggiorenni.
Ma una parte consistente del lavoro del Centro si svolge in periferia. «Noi
lavoriamo in 30 comunità con 14 promotori sociali ed educatori. Qui cerchiamo
di fare un’opera di sensibilizzazione con i genitori delle bambine, ma anche
con insegnanti e alunni».

Sensibilizzare sulla problematica del lavoro domestico
infantile è un obiettivo fondamentale. «Le famiglie che reclutano bambine –
spiega Vittoria – non sono necessariamente ricche. La signora individua una
piccola di una famiglia povera o almeno più povera della sua. Sa che quella è
manodopera non qualificata ma che non costa nulla. Tante volte mi sono chiesta:
“È meglio essere disprezzati da chi ha una faccia diversa dalla tua o da chi ha
la stessa faccia di tua madre?”. Purtroppo, capita spesso – lo vedo ad esempio
al mercato – che ci siano ex lavoratrici domestiche che si vendicano su altre
bambine di quanto esse stesse hanno sofferto da piccole. Ho chiesto una volta a
una di loro perché non mandasse la bambina a scuola. Lei mi ha risposto: “Perché
dovrei? Io non ci sono mica andata”. Non è raro che l’oppresso, appena si
presenti l’occasione, diventi oppressore».

IL GARZONE E IL LATTAIO

Vittoria e collaboratori lavorano soltanto con donne e
bambine, ma esiste anche un problema declinato al maschile.

«I maschietti che lavorano in casa sono ancora più
vilipesi perché fanno un lavoro considerato da femmina e di conseguenza – in un
paese machista come il Perú – senza valore. Per questo, quando riusciamo
ad incontrarli, si vergognano a parlarne. Ci sono poi i ragazzini che lavorano
la notte. Per esempio, i garzoni dei foai. C’era una bambino di nemmeno nove
anni che portava qui la gerla del pane alle tre e mezza del mattino».

Eppure, anche nell’ambito del lavoro minorile, c’è chi
sta peggio: sono i minori che non hanno neppure una famiglia. «Dormono per
strada o nei dormitori. Se non lavorano (o non sono capaci di rubare), loro non
mangiano. In questo, i bambini lavoratori che vivono in famiglia risultano meno
sfortunati: sono costretti a lavorare però, per quanto male possa andare,
almeno hanno un tetto e qualcosa da mangiare».

Per tutto questo, Vittoria e collaboratori hanno aperto
la loro scuola, inizialmente pensata per le sole lavoratrici domestiche, anche
ai ragazzi lavoratori.

«Il giovane che ci porta il latte, oggi avrà 17 anni, è
totalmente analfabeta. Quando ci porta il conto, dice a me di leggerlo».

L’INGIUSTIZIA  (TRA PENA E RABBIA)

Il Centro Yanapanakusun è oggi composto da
vari edifici, abitativi e di servizio. Su un muro esterno della struttura
centrale c’è una grande riproduzione del Quarto Stato, il celebre quadro
di Giuseppe Pellizza da Volpedo4. Per
Vittoria non è soltanto un omaggio all’arte e alla storia italiana tra le Ande
peruviane. «È la speranza. Guardate la donna che apre la fila: è una donna che
non copia l’uomo. Ha la gonna, ha un bambino in braccio e cammina con gli
uomini. Il messaggio è: una donna può essere utile alla società anche senza imitare
i maschi. Secondo me, questo quadro è più femminista che
proletario. Fossero stati rappresentati soltanto i proletari maschi, forse non
mi sarebbe interessato».

Il QuartoStato sintetizza la scelta di vita di Vittoria
Savio: lottare a fianco dei più deboli e in particolare delle donne, fino alle
bambine rese schiave tra mura domestiche.

«Mi arrabbio quando la gente ha pena dei
poveri. Le vittime dell’ingiustizia non debbono far pena, ma suscitare rabbia.
La pena è sterile. O serve soltanto a qualcuno per sentirsi più buono.
L’ingiustizia dovrebbe far scatenare la rabbia dentro le persone. Attraverso di
essa si potrebbe cambiare il mondo».

Paolo Moiola
 

Conoscenza e turismo responsabile


OLTRE MACHU PICCHU

Soltanto attraverso un’opera di sensibilizzazione sulle
situazioni e sulle problematiche è possibile far crescere un turismo diverso, «responsabile».
Per ora esso interessa percentuali esigue del movimento turistico globale.

Cusco. Per anni ha insegnato matematica in un liceo
piemontese. Se Vittoria Savio dovesse tornare davanti a una classe di studenti
come presenterebbe il Perú, suo paese d’adozione? «Agli studenti direi che il
Perú è una realtà interessantissima. Anche
perché fa riflettere su noi stessi». Il mondo attuale è un mondo in cui convive
una pluralità di canali e di strumenti informativi, ma la qualità
dell’informazione e della conoscenza lascia spesso a desiderare. Cosa
aggiungerebbe di politicamente scorretto la professoressa Vittoria? «Guardate,
direi agli studenti, che la difficile situazione in Perú e in generale nei
paesi del Sud del mondo è colpa vostra. Non soltanto vostra, ma di certo anche
vostra. Porterei l’esempio del voto. Quando gli italiani vanno a votare, essi
scelgono i candidati in base alle loro posizioni rispetto alle tasse, alla
casa, ai servizi pubblici. Quante persone votano valutando anche le idee di
politica estera dei candidati in lizza?».

Una conoscenza completa e corretta è fondamentale per fare
scelte responsabili. Anche nel campo dei viaggi e del turismo.

Il Centro Yanapanakusun si autofinanzia anche con programmi
di turismo responsabile. «La gente che viene da noi – spiega Vittoria – arriva
con delle domande in testa. Sono persone che, oltre a parlare di siti
archeologici, si interessano anche dell’umanità che vive qui. È vero che questo
turismo ci serve come strumento di autofinanziamento, ma è anche vero che è
parte della nostra filosofia mostrare un Perú diverso e altro, un Perú di gente
che soffre, che lotta quotidianamente per sopravvivere. Noi offriamo alle
persone visioni alternative, anche nelle comunità campesine. Ma – questo deve
essere chiaro – non per portare caramelle o altre cose materiali come fosse la
visita a uno zoo».

Pur in costante crescita, questo tipo di turismo rappresenta
ancora un’esigua percentuale rispetto al movimento turistico complessivo. «Sì, è
vero – conferma Vittoria -. Ma questi turisti responsabili (o
responsabilizzati) possono avere un’influenza importante. Ad esempio, io sono
convinta che un viaggio in Perú raccontato da queste persone ha un impatto
diverso rispetto a coloro che parlano soltanto di Machu Picchu».(Paolo Moiola)

 
PER SAPERNE DI PIÙ
Libri:
• Gisella Evangelisti, Perú.
Luna grande dietro le montagne
, Edizioni del Noce, 1999.
• Maite Rofes Chávez, “Estás
bien?”: Caith, la cultura del afecto con trabajadoras del hogar
, Lima 2002.
 
Documentari:
• Stefano Cavallotto, Yanapanakusun,
continuiamo a crescere insieme
, Settembre Film (Alba), 2009.
 
Siti internet:
• www.yanapanakusun.org
• www.caith.org
 
 

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Paolo Moiola