Mukululu: Ricominciare, Sempre

 


Mukululu. Fratel Mukiri a quota 80: omaggio a un vecchio combattente che non molla mai.

(foto Gigi Anataloni e TWS)

La vecchia Land Rover arranca sui ripidi saliscendi della pista. Lasciato il campo base di Mukululu, ci dirigiamo nel cuore della foresta del Nyambene. L’autista, abbondanti capelli bianchi al vento, guida sicuro. Ogni tanto qualche parola per farmi notare un albero di canfora, una frana recente, un sentirnero che si perde nel verde, le tracce ingoiate dalla vegetazione di lavori iniziati quarant’anni fa. Il piccolo Raimondo, sul sedile posteriore, continua a parlare, sentendosi escluso dal gioco dei grandi.

La diga semivuota a marzo 2011

Arriviamo alla diga numero uno che tracima allegra. Un piccolo bacino quasi invisibile: acqua e foresta hanno lo stesso colore. Diga numero due, il laghetto si fonde col blu del cielo mentre una cascatella di schiuma bianca restituisce al torrente Ura l’acqua in sovrappiù. Ma per poco. Lasciata la strada, l’autista, bastone in mano, Raimondo che gli trotterella davanti e dietro, s’inerpica con passo lento ma sempre deciso su un sentirnero appena tracciato tra gli alberi. Poi la foresta finisce di colpo. Lavoro dell’uomo. Un ampio spazio è stato disboscato. Sullo sfondo, dove la valle si chiude come un imbuto, ci sono uomini al lavoro con picconi, pale e carriole. Una diga sta crescendo, anzi è a buon punto dopo un anno di lavoro. L’acqua si sta già raccogliendo nella parte più bassa del bacino. Grossi tubi la immettono nelle cistee di distribuzione dell’acquedotto di Tuuru. I lavori procedono spediti o quasi, a dispetto della mancanza di fondi e delle continue emergenze. Da una parte si scava, dall’altra s’innalza; qui si recupera l’argilla, là si compatta. Cordicelle, bastoncini e fili vari, tracciano un reticolo preciso per guidare i lavori. L’autista, che è il capomastro, ispeziona, controlla, rimbrotta, corregge, incoraggia. Mi ha portato a vedere il suo sogno, o parte di esso: un nuovo bacino in cui immagazzinare acqua a sufficienza per 250.000 persone, senza contare gli animali, per almeno un mese nel caso – probabilissimo – di una nuova siccità. Una diga a basso costo, essenziale, nell’attesa del grande sogno, la diga definitiva, capace di un milione di metri cubi, non solo 120.000 attuali, che risolverebbero per sempre la sfida di una vita.

La diga piena nel 2012, a gennaio

Era il 3 gennaio 2012. Ero ospite nella casa del «vecchio orso», amico carissimo dai miei primi anni di teologia, inizio anni Settanta. Fratel Giuseppe Argese, che gli amici chiamavano «ursus in silvis» (l’orso nella foresta), nonostante gli acciacchi, aveva voluto accompagnarmi personalmente a vedere il progresso della sua lunga battaglia per l’acqua, iniziata nel 1969 a Tuuru, nel Meru (Kenya), per il bene dei molti bambini poliomielitici. Non ho più scritto di quei giorni, perché il mio viaggio non si concluse come pianificato. Fu fratel Giuseppe stesso che dovette organizzare per me un avventuroso trasporto a un ospedale di Nairobi dopo che il 5 gennaio un infarto mi aveva atterrato sulla collina di Mekinduri. «Non lasciarmi anche tu», aveva detto mentre mi portavano via.

Scrivo ora, queste poche righe perché molte cose sono successe da allora. Mi aiuto con i messaggi flash di fratel Giuseppe.

«Da settembre 2010 razioniamo l’acqua. Le piogge (son) fallite. Sono sei mesi che mi angoscia questo problema. Sto preparando un terzo invaso nella foresta dalla capacità di 120.000 m3, anche se non so dove e come avere i soldi, ma la Divina Provvidenza ha sempre provveduto» (28/02/2011). Più di una volta in nostro Mukiri (il silenzioso) ha dovuto mandare il laconico messaggio: «Ho bisogno di soldi per pagare gli operai e il materiale della diga» (04/03/2012). «Ogni volta che andavo in foresta, (a) vedere la diga 2 vuota (a causa della siccità), mi sentivo stringere il cuore» (02/03/2012), aveva appena scritto. Da qui nasceva l’urgenza di catturare più acqua possibile durante le abbondanti piogge e accelerare i lavori. «Grazie a tutti gli amici. Tutto il 2011 (è stato) sotto pressione e angoscia, (costretto) a fermare tutto! (per mancanza di fondi). Abbiamo ancora bisogno del vostro aiuto, stiamo completando la diga» (05/04/2012).

I lavori sono andati avanti, ma non finiti. Mukiri ha dovuto fermarsi, e non solo per mancanza di quid. Non ce la faceva più, le gambe non reggevano, la salute traballava, gli anni si facevano sentire. È rimasto bloccato a Nairobi per oltre un mese, per rimettersi in sesto.

La distruzione della predan n. 3 a ottobre 2013

Il 13 ottobre 2012 ho ricevuto da Mukululu un file zippato, «Dam 3 disaster» (il disastro della diga 3). Poche foto di uno squarcio enorme: il bacino vuoto, l’acqua andata. Fratel Giuseppe era ancora a Nairobi. Mi è venuto un groppo alla gola. Solo due settimane dopo, finalmente una email dal fratello. «Vedi disastro diga 3. (Nella) notte 12/10/2012 dalle ore 7pm alle ore 3am (sono caduti) 178 millimetri di pioggia, volume in m3: 934.500 (nell’intero bacino). Sono tornato a Mukululu domenica 21 ottobre, sto benino anche se ho problemi di gamba destra. Intestino (: l’) operazione (ha) rimosso 7 polipi, (mi si è) riaperta ulcera duodeno, (ho) perso molto sangue, sono molto debole e giallo, pieno di guai. … Uniti nella preghiera, siamo nelle mani della Divina Provvidenza, poteva andare peggio. Non ci sono vittime, solo danni (là) dove il volume d’acqua è passato» (25/10/2012).

Due anni di lavoro spazzati via in una notte. Un terribile colpo basso anche per lui, vecchia guardia che non si arrende mai.

Alla mia risposta che balbettava incoraggiamento, scriveva: «Carissimo Gigi, grazie amicizia, ormai sono quasi solo a combattere. Non preoccuparti» (03/11/2012). Si era già messo in moto per ricominciare. Un milione di metri cubi di pioggia che ti scappano sotto il naso in una notte… ci deve essere il modo di domarli.

Il 10 novembre scorso è stato il suo compleanno: 80 anni. Non so se c’era voglia di far festa quel giorno a Mukululu. Immagino che se han tagliato una torta, la fetta più grossa sia andata al piccolo Raimondo. Ero là quando celebrò i 75, che coincisero anche con i suoi 50 anni di Africa. C’erano molti amici quel giorno. Oggi il vecchio orso della foresta è più solo. Forse quel giorno ha passato diverse ore nella quiete silenziosa della nuova bellissima chiesa costruita con pazienza certosina. L’impresa che lo vede lottare da mezzo secolo lo sta consumando. Ma non demorde. Lo spinge un’indistruttibile fiducia nella Divina Provvidenza. Quella stessa fede che tanti anni fa gli fece dire sì al vescovo che gli chiedeva acqua per i piccoli poliomielitici di Tuuru nonostante non avesse la minima idea di dove trovarla e con essa i soldi necessari. E il grande amore per la gente del Nyambene, la sua gente, con cui ha condiviso giornie e dolori, fatiche e speranze, fallimenti e grandi risultati realizzando insieme, colpo di machete dopo colpo, zappata dopo zappata, badilata dopo badilata, scarriolata dopo scarriolata un’opera titanica di grande impatto umano e ambientale che ha cambiato la vita di un’intera regione.

Vuoi dare una mano?

Gigi Anataloni

Nota:

Rimando a MC settembre 2010, pp. 17-23 e MC febbraio 2008, pp. 10-15 per una documentazione più ampia su fratel Argese e il progetto dell’acquedotto di Tuuru. Cerca «Argese» in questo stesso sito.

PER AIUTARE:

se pensi di poter dare una mano a completare il progetto puoi usare clicca sul link delle cornordinate bancarie nella home page. Oppure connettiti a «ilMioDono» e trovi una voce specifica per questo progetto.




CARLO E GERY, CUORE ASHÁNINKA

Lui è un prete e missionario, lei un’infermiera. Arrivarono in Perú dalla provincia di Caserta rispettivamente 32 e 25 anni fa. Lui opera nella selva
centrale, tra le popolazioni indigene (shipibo, asháninka ealtre) calpestate dallo stato e dalle multinazionali. Lei
lavora nella periferia urbana di Lima con la popolazione a rischio, bambini e
adolescenti soprattutto.Si chiamano Carlo e Geremia (Gery) Iadicicco, fratello e sorella. Questa è la
loro storia. Piena di sorprese.


Villa El Salvador. 
Sulla maglietta bianca scende un rosario di fattura indigena, sul viso
forte un vecchio paio di occhiali a goccia. Carlo Iadicicco, prete e missionario fidei donum, ha 67
anni, ma mette in mostra un fisico sportivo e un’energia coinvolgente che esce
prepotente dalla voce e dalla gestualità. 
Padre Carlo è di passaggio a Villa El Salvador, periferia di Lima. 

«Sono in Perú da 32 anni. A parte qualche
capatina in Italia, un breve periodo sulla costa e qui a Villa, la metà di
questi anni li ho trascorsi nella Cordigliera centrale delle Ande, in Ancasch.
Dal 1995 vivo invece nella selva subtropicale, conosciuta come bosco umido
amazzonico o selva bassa. Però, in quanto “missionario itinerante”, mi muovo in
un territorio vasto quanto l’Italia meridionale». Quell’Italia meridionale da
cui padre Carlo proviene: Bellona, provincia di Caserta. Mamma Anna e papà Ciro
Iadicicco hanno fatto le cose in grande: undici figli, di cui due emigrati in
Perú. Qualche anno dopo la sua partenza per il paese andino, Carlo è stato
infatti seguito dalla sorella Geremia detta Gery, maestra e infermiera, che a
Villa El Salvador vive e lavora.

DA GUSTAVO
GUTIÉRREZ AGLI INDIOS

«Erano gli anni Settanta ed io – racconta padre Carlo – ero
un giovane di belle speranze dentro il contesto della Chiesa. Ci fu un
terremoto devastante, che fece oltre 80 mila vittime. Io però cominciai a
interessarmi di Perú non soltanto a causa di quel tragico evento, ma anche
perché vi operava una Chiesa che faceva un cammino molto interessante,
capeggiata dal vescovo di Chimbote, mons. Bambarén1. A Chimbote c’erano le
prime conferenze di Gustavo Gutiérrez sulla teologia della liberazione2. Io ne
ero affascinato sia dal punto di vista intellettuale che umano. Qualche anno
dopo questi eventi, riuscii a farmi mandare in Perú».

Oggi padre Carlo lavora nel dipartimento di Ucayali, nella
zona centro-orientale del Perù, al confine con il Brasile. Ha una parrocchia
nella cittadina di Bolognesi, provincia di Atalaya. Tuttavia, egli si descrive
come un «missionario itinerante».

«La maggior parte della mia quotidianità la passo andando di
comunità in comunità. E ciò mi impedisce di avere una équipe pastorale, con la
quale sarebbe difficile muoversi. C’è stata anche una circostanza scatenante
che mi ha fatto pendere per questo stile di vita. È stato quando ho cominciato
a seguire un gruppo di indios – un sottogruppo di Nahua – che erano stati
cacciati dai luoghi dove vivevano da un’invasione di madereros (tagliaboschi).
Il mio primo contatto è stato invece – era il 1995 – con gli indigeni della
famiglia asháninka del Basso Urubamba e del Tambo. Da allora ho scoperto che io
potevo dare senso alla mia vita di missionario e di uomo sposando la causa
indigena». 

Per raggiungere i diversi villaggi, si muove specialmente
via lancia o canoa, percorrendo il grande Ucayali e i suoi affluenti. Oltre che
con gli Asháninka, padre Carlo lavora con gli Shipibo-Conibo, ma ha contatti
anche con gruppi di Yaminahua, Amahuaca e Cashinahua.

Spesso, almeno per le persone estranee alla tematica, gli
indigeni sono un’entità unica e omogenea. Non è così.

«Quello indigeno – spiega il missionario – è un mondo di
straordinaria ricchezza e varietà. Tuttavia, esiste una matrice comune che lo
attraversa e che lo rende differente dal nostro Occidente. Il mondo indigeno
non prevede un’esistenza fatta di accumulazione di beni. In secondo luogo, noi
occidentali, a partire dalla cultura greca e dalla filosofia socratica in
particolare, abbiamo diviso il mondo in Dio, uomini e natura. I popoli indigeni
non prevedono una divisione tanto meccanica. Al contrario, cercano una vita di
armonia con se stessi, con la natura e con gli spiriti».

Padre Carlo ha idee sue. Come quando nega l’esistenza dei
popoli isolati («un’esagerazione di etnologi e antropologi», sostiene) o quando
contesta il sistema delle Nazioni Unite sulla riduzione delle emissioni dovute
alla deforestazione3. Ma diventa serio e perentorio quando spiega le emergenze
attuali.

IL VIRUS E L’UTOPIA

«Il primo problema è il collasso dell’Amazzonia. Io non mi
iscrivo dentro il grande, rispettabile e ammirevole movimento ambientalista. Né
voglio fare del terrorismo ecologico. Io sono semplicemente un prete che vede
nella natura e nell’Amazzonia una creazione di Dio. A me interessa la vita, sia
essa umana, animale o vegetale. Il fatto certo è che la sopravvivenza delle
popolazioni indigene è legata in maniera indissolubile all’ambiente in cui esse
vivono. Tre quarti del territorio amazzonico del Perú è in concessione a
compagnie straniere che vanno ad operare direttamente su terre, territori e
risorse dei popoli indigeni».

Dal punto di vista dello sfruttamento petrolifero, la vasta
zona geografica dove opera padre Carlo corrisponde al Lotto 1264. Titolare
della concessione è la True Energy, società petrolifera a capitale canadese. «Si
sono piazzati con alcuni pozzi anche se il petrolio è di pessima qualità e
molto profondo. Con un prezzo oltre i 100 dollari al barile anche un prodotto
scadente genera profitti. Questi stanno rovinando tutto e non hanno nessun
contatto con le popolazioni indigene del luogo. Arrivano con l’elicottero,
usato per portare di tutto, fin’anche l’acqua in bottiglia per gli operai. La
mia avversione non è soltanto verso l’inquinamento ambientale, ma anche verso
un inquinamento che è etico, morale e civile».

La tracotanza delle compagnie minerarie è conosciuta. In Perú,
nulla è cambiato dopo i fatti di Bagua (i tragici scontri tra indigeni e
polizia)5 e dopo l’approvazione della legge di consultazione preventiva delle
popolazioni indigene6. Nel Perú della crescita economica su base estrattiva, il
«pericolo-tenaglia» è concreto: nel sottosuolo ci sono le risorse petrolifere,
sopra c’è il legname pregiato, in mezzo i popoli indigeni.

«Purtroppo – spiega padre Carlo -, si è diffuso un virus che
vede l’Amazzonia come un magazzino di beni da depredare. L’utopia è sempre
migliore della realtà. L’utopia ha mosso i grandi uomini, da san Francesco al
Mahatma Gandhi. La soluzione utopica sarebbe di rendere l’Amazzonia off-limits».

LA PASSIONE PER IL POSSIBILE

Se l’utopia non è praticabile (almeno per il momento), la
domanda è: cosa si può e deve fare?

«Facciamo un esempio – spiega -, comparando la situazione
del Canada e della Svezia a quella dell’Amazzonia. Da secoli il Canada e la
Svezia riescono a vendere i propri pini senza compromettere i loro boschi,
perché il Perú non potrebbe vendere il cedro e il mogano senza distruggere le
proprie foreste? Ecco, almeno uno sviluppo sostenibile di questo tipo andrebbe
perseguito. Certamente non è facile, considerando che queste imprese
transnazionali sono più forti degli stati, soprattutto di stati come il Perú».

Padre Carlo è un uomo di cultura: sa spaziare con cognizione
di causa dalla Bibbia a Gramsci. Ma è anche e soprattutto un uomo pratico che,
al cospetto della realtà, vuole poter agire concretamente. «Con Gery, ho sempre
sostenuto che la nostra filosofia deve essere dettata dalla “passione per il
possibile”. Che significa: facciamo quello che possiamo fare, partendo da
relazioni microsociali. Se cerchiamo lo scontro, dobbiamo sapere che
storicamente i poveri e dunque anche gli indigeni hanno quasi sempre perso.
L’importante è ricordare che gli indigeni non sono relitti storici. Né sono
quelli descritti da Rousseau con il mito del buon selvaggio7. Faccio un esempio
banale: se dai a un indigeno un cellulare, puoi essere certo che non se lo
scollerà dall’orecchio finché vive. Oppure si guardi ai giovani indios che
studiano in città. Quando tornano al villaggio, passano con totale disinvoltura
dall’indossare scarpe e occhiali a camminare a piedi nudi e con le frecce in
mano. Io li chiamo “pendolari della cultura”».

LA CAUSA INDIGENA È CAUSA DELL’UMANITÀ

Chiediamo a padre Carlo se, a suo parere, la causa indigena
non finisca per interessare soltanto a ristretti gruppi di persone come, ad
esempio, antropologi, etnologi e ambientalisti.

«Non lo credo. Gli indigeni sono essenziali per il mondo non
soltanto a motivo dell’ecosistema in cui essi si muovono ma anche per le
alternative di vita e di modello economico che portano avanti. Per questo ne ho
la certezza: la causa indigena non riguarda soltanto i popoli indigeni ma tutta
l’umanità».

Geremia detta Gery ha ascoltato in rispettoso silenzio la
nostra conversazione con il vulcanico fratello missionario. Ma anche lei ha
molte cose da raccontare (la sua storia qui sotto)8. Una, la più
bella tra tutte, le siede accanto. Sono Shany e Gery, sorelline asháninka, che
lei ha adottato e che ora si stringono attorno allo zio Carlo. Prete italiano
dal cuore asháninka.

Paolo Moiola
 

Note

1 – Sulla figura di mons. Bambarén si legga l’intervista La
vita prima del debito (MC, maggio 2000), a cura di Paolo Moiola.

2 – Su Gustavo Gutiérrez si leggano le interviste Gli esclusi
non si arrenderanno (MC, febbraio 1998) e Ma i giovani statunitensi mi dicono
che… (MC, dicembre 2003), entrambe a cura di Paolo Moiola.

3 – Si tratta del programma delle Nazioni Unite denominato «Redd».
Il sito ufficiale: www.un-redd.org.

4 – Sulla questione dei lotti in cui è stato suddiviso il
Perú, si legga: Paolo Moiola, Splendori e miserie del lotto 122, MC, novembre
2011.

5 – Gli scontri avvennero il 5 giugno 2009. Lasciarono sul
terreno almeno 33 morti, tra indigeni e poliziotti. Il numero reale di vittime
potrebbe però essere stato maggiore.

6 – Si tratta della Legge 29785, del 6 settembre 2011, dal
titolo di: «Ley del derecho a la consulta previa a los pueblos indígenas u
originarios, reconocido en el convenio 169 de la Organización inteational del
trabajo (Oit)».

7 – Secondo il «mito del buon selvaggio», in origine l’uomo è
un animale buono e pacifico, corrotto successivamente dalla società e dal
progresso.

8 – Le foto di questo reportage e la foto della copertina
del numero sono di Annalisa Iadicicco e Marlon Krieger:  www.annalisaiadicicco.com.

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Box:

Geremia Iadicicco
A VOLTE, LE FAVOLE SI AVVERANO

Dagli ospedali dell’Italia ai centri di salute della selva
amazzonica. Dalle scuole italiane a quelle di Villa El Salvador. Un percorso professionale
ma soprattutto di vita.

Villa El Salvador. Non diremo l’età di Geremia detta Gery
perché non sta bene. Diremo soltanto che porta benissimo i suoi anni. Quando ha
poco meno di 18 anni, parte da Bellona, provincia di Caserta, per andare a lavorare
al Nord, in Liguria, con il suo diploma di maestra sotto il braccio. Lavora
come maestra-educatrice per 5 anni in vari istituti dove, prima della riforma
della scuola, si tenevano i bambini con qualche problema. Dopo la riforma,
questi istituti vengono chiusi e Geremia decide di frequentare una scuola per
infermieri professionali all’ospedale Galliera di Genova. Ottenuta la
qualifica, per 13 anni rimane fedele al suo ruolo di infermiera-caposala. Poi
la svolta.

«In quegli anni – racconta – maturai il desiderio di
viaggiare e inserirmi in un altro contesto sociale e politico, per darmi
l’opportunità di vivere, in una forma più coerente e autentica, i miei ideali
cristiani, politici e sociali. Scelsi il Perú perché lì viveva da molti anni
mio fratello Carlo, sacerdote e missionario, con cui condividevo molti di
quegli ideali».

Gery parte da Genova 25 anni fa con la Ong Mlal (Movimento
laico America Latina), inserita in un progetto di «Salute comunitaria», che si
svolge alla periferia di Lima, in una città in costruzione chiamata Villa El
Salvador, dove tuttora vive. Negli anni successivi, lavora per diversi progetti
sociali e di sviluppo, sempre all’interno di gruppi  professionali impegnati con i settori della
popolazione più a rischio, come bambini e adolescenti. Trova aiuto e supporto
in molte persone: «Sono stata costantemente accompagnata – ricorda lei con
riconoscenza – da persone di alto valore morale e grande sensibilità sociale,
sia peruviani che italiani. Mio fratello Carlo, la mia famiglia, amiche e amici
inseparabili hanno fatto e fanno il possibile per aiutarmi – non soltanto dal
punto di vista economico – nella realizzazione dei progetti a cui mi sono
dedicata e ancora oggi mi dedico».

Gery trascorre tre dei suoi venticinque anni in Perú nella
selva amazzonica, accompagnando il fratello nella sua missione dedicata ai
nativi di varie etnie. Lavora in un piccolo progetto di salute, con i promotori
di varie comunità indigene, asháninka soprattutto. Condivide le proprie
conoscenze della medicina occidentale, ma impara anche i fondamenti della
medicina indigena.

«Questi anni vissuti nella selva furono per me i piú
significativi, soprattutto sul piano umano e personale. Dalla selva infatti
portai a Villa El Salvador il regalo più bello: una bimba asháninka a cui demmo
il nome di Shany. Aveva solo un anno, ora ne ha 16 ed è stata raggiunta dalla
sorellina Gery di 11 anni, che vive con noi da 6».

A vivere con loro c’é anche la nipote Paola, che collabora
nel programma di cui Geremia Iadicicco è responsabile. Si tratta di un progetto
educativo che si svolge nella periferia di Villa El Salvador. «Circa 13 anni fa
– racconta -, al ritorno dalla selva, insieme ad un gruppo di persone iniziammo
un lavoro con bambini e adolescenti della zona periferica della città. Era la
zona più povera, abitata da una popolazione emarginata ed esclusa. Creammo due
programmi. Il primo è formale: una scuola matea, “Arenitas del Mar”, che
adesso è anche elementare. Il secondo è invece un doposcuola comunitario –
l’abbiamo chiamato “Escuela Deporte y Vida” (Scuola sport e vita) -, aperto a
tutti i bambini, bambine ed adolescenti, che cercano uno spazio dove poter
risolvere le loro necessità: fare i compiti, stare insieme facendo sport, arte,
manualità, così come dice il nome». Questi programmi sono gestiti dal Cedec («Centro
de educación y desarrollo comunitario»), un’associazione senza scopo di lucro
di cui Gery è presidente. 

I progetti di Geremia Iadicicco e del fratello Carlo hanno
trovato l’entusiastico appoggio di molti abitanti di Bellona, loro paese
natale. Tanto che, nella cittadina casertana, sono nate due associazioni di
supporto, la recente «Pachacamac» e soprattutto «Alas de Esperanza»1.
Quest’ultima è nata come gruppo musicale che suona musica andina con strumenti
tipici della tradizione musicale latinoamericana. Quando una favola diventa
realtà, anche la musica deve essere all’altezza.

Paolo Moiola
 
Nota:1 – Il sito ufficiale dell’associazione e gruppo musicale «Alas
de Esperanza» (Ali di speranza): www.alasdeesperanza.it. Sul sito è possibile
ascoltare brani della loro musica.

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Paolo Moiola




UNA STORIA AFFASCINANTE! 25 anni di presenza in Corea del Sud per gli IMC

I Missionari della Consolata celebrano 25 anni di presenza in Corea del Sud.
Arrivati in Corea del Sud il 20 gennaio 1988, i primi quattro
missionari della Consolata iniziarono l’evangelizzazione tra i ceti sociali più
poveri e l’animazione missionaria nella Chiesa locale.

Con  l’arrivo di altro personale la
loro missione si caratterizzò per
il dialogo con le grandi religioni e, da ultimo, per il lavoro tra gli
immigrati stranieri. Fiore all’occhiello sono i 6 coreani entrati nella
nostra famiglia missionaria e già operanti in altri continenti.


Per uno sciopero all’aeroporto di Roma, arrivammo a Seoul con un
giorno e mezzo di ritardo, di notte, senza nessuno che ci aspettasse. Eppure potemmo
fin dall’inizio assaggiare la gentilezza e l’organizzazione perfetta del popolo
coreano. La ragazza del Centro di Informazioni prese con un bel sorriso il
numero di telefono dei Francescani che le porgevamo, li chiamò per capire bene
la nostra destinazione, fece arrivare il taxi all’uscita dell’aeroporto e, in
meno di un’ora, eravamo alla casa dei frati in centro Seoul. Era mezzanotte. «Ben
arrivati in Corea – ci accolse padre Beitia, superiore spagnolo dei Francescani
-. Siete a casa vostra!».

Così cominciò, il 20 gennaio
1988, la storia dei missionari della Consolata in Corea. Guardandola
all’indietro, 25 anni dopo, si dimostra una storia «affascinante».

Coreano, kimchi e
fantasia

L’aria era
satura dei lacrimogeni che la polizia usava in dosi generose per fronteggiare
le dimostrazioni quasi giornaliere degli studenti contro un governo che si
dichiarava democratico, ma che della democrazia cominciava solo a balbettare le
prime sillabe; e noi, tappandoci la bocca con il fazzoletto e asciugandoci le
lacrime che ci inondavano gli occhi, raggiungevamo la nostra classe per la
lezione di coreano, all’Università Yonsei. Ci chiedevamo dove fossimo capitati.

Le speranze e le attese
dell’Istituto per l’inizio assoluto della sua missione in Asia erano grandi.
C’erano stati accesi dibattiti prima che il Capitolo Generale del 1987
decidesse l’apertura all’Asia e scegliesse la Corea del Sud.

La nostra preparazione, era stata
più spontanea che altro: due mesi nella casa generalizia a Roma per conoscerci
e frateizzare, leggere articoli sulla situazione sociale, politica, culturale
e religiosa della Corea, avviare contatti epistolari con il vescovo della
diocesi di Incheon che ci avrebbe accolti… in attesa del sospirato visto per
la Corea. Insieme alla Direzione Generale di allora, soprattutto, «sognavamo».

Sognavamo una chiara e decisa «scelta
dei poveri», per fare con loro e per loro grandi cose. Sognavamo di offrire
alla Chiesa locale la nostra bella testimonianza di vita consacrata, con uno
stile comunitario vero, intriso di comunione, preghiera e fratellanza.

Sognavamo l’incontro con le
grandi religioni dell’Asia, di cui avevamo qualche idea superficiale, ma i cui
nomi ci riempivano di misteriosa curiosità: buddismo, confucianesimo,
sciamanesimo. Sognavamo di diventare un possibile «ponte» verso la grande e, in
quel momento, inaccessibile Cina. Sognavamo, soprattutto, di dare una buona
mano alla Chiesa locale, che allora contava solo il 3% della popolazione, per
farla crescere in numero e qualità.

Sognavamo, ma ora, tra l’odore
acre dei lacrimogeni, ci chiedevamo dove fossero finiti i nostri sogni.

La lingua coreana si rivelò
subito un osso più duro del previsto; per sentirci sufficientemente a nostro
agio ci vollero 4-5 anni di sforzo costante. Anche l’adattamento a cibo, agli
usi e costumi coreani richiese molta buona volontà: dopo 25 anni posso dire che
è buono anche il kimchi (cavoli piccanti).

Il Paese era in pieno boom
economico e i poveri stavano «sparendo» velocemente dall’orizzonte. La Chiesa,
piccola ma ben strutturata e organizzata, contava già forze pastorali
sufficienti per le sue parrocchie, i laici impegnati erano numerosi e i
seminari erano strapieni di candidati. Non c’erano parrocchie da affidare a
missionari stranieri. Dove eravamo capitati? Qual era il nostro posto da
missionari in Corea? Missione in Asia sì, ma «quale» missione?

Noi siamo  per i non cristiani!

La nostra prima esperienza tra i
poveri fu a Man-sok-dong, un «villaggio della luna» di Incheon, come sono
chiamati in Corea i quartieri periferici delle città, specie di baraccopoli
dove si ammassavano i poveri; quartieri che già allora stavano sparendo,
inghiottiti dai grattacieli dei progetti di ri-costruzione delle città. Visto
che la Chiesa locale non aveva bisogno di noi come parroci (anche se aiutavamo
molto nelle parrocchie); dato che l’assistenza sociale nel paese era ben
strutturata ed efficiente (con suore in prima linea in un numero impressionante
di centri per portatori di handicap, orfanotrofi, ospedali, case per anziani) e
la società non aveva bisogno di noi per costruire scuole e ospedali, scavare
pozzi e fare opere di sviluppo… constatato che la nostra immagine tradizionale
di missione era impossibile da realizzare andammo in crisi!

Una crisi molto benefica,
peraltro; capimmo e accettammo che Qualcuno ci stava purificando, tagliando i
rami secchi: i «nostri» progetti e sogni, per renderci più liberi e disponibili
a seguire i Suoi! Privati del nostro stile classico di missione, riscoprimmo
tutta la bellezza e validità del carisma trasmessoci dal beato Giuseppe
Allamano: «Voi siete per i non cristiani».

Si trattava solo di cercare il «come»
essere per i non cristiani. E non fu facile. Lo Spirito Santo, però, al momento
opportuno ci venne in aiuto, come sempre ha fatto. Così il discernimento è
diventato il mezzo naturale per cercare di scoprire cosa e dove e come il
Signore volesse da noi nella missione. L’allora superiore generale, padre
Giuseppe Inverardi, ci offrì fino alla fine vicinanza e appoggio «affettivi»,
assieme a una preziosa libertà di pensiero e di opzione. La visita di uno dei
consiglieri di allora, padre Ramon Cazallas, ci aiutò a rompere gli indugi e a
decidere la nostra prima opzione missionaria: creare una «comunità
d’inserimento» nel quartiere di Man-sok-dong. Si trattava di «vivere assieme ai
poveri», più che fare qualcosa per loro.

Mentre Paco Lopez (spagnolo) e
Alvaro Yepes (colombiano) restavreno nella casa presa in affitto a Yok-kok,
nostro quartiere generale, Luiz Emer (brasiliano) e io ci spostammo, il
mercoledì delle ceneri del 1992, in una casetta esattamente come tutte le altre
di Man-sok-dong, dando inizio alla seconda comunità in Corea, dedita
all’evangelizzazione dei poveri urbani.

Angeli, amici e benefattori

L’arrivo nel quartiere di un
gruppo di preti stranieri (e la nostra presenza nelle parrocchie vicine) suscitò
molta curiosità nei cattolici. Le visite a casa si susseguivano: gruppi di
catechisti, donne della Legio Mariae; membri dei cori parrocchiali;
persone singole o gruppetti di amici. Quante volte dovemmo rispondere, nel
nostro coreano ancora incerto, a domande da interrogatorio di quarto grado: sì,
siamo ognuno di un paese diverso; sì, viviamo assieme e di solito non
litighiamo; sì, anche in Europa ci sono le quattro stagioni e le angurie; sì,
ci piace il kimchi (anche se allora era una bugia).

Monica, una signora della parrocchia,
si metteva spesso a nostra disposizione con la sua auto per fare le spese,
accogliere i visitatori all’aeroporto, per portarci nel luogo scelto per le
nostre vacanze comunitarie estive. Pundo, un signore che faceva il taxista, era
a nostra disposizione per i problemi tecnici concreti quotidiani. Francesca,
Sofia e tante altre catechiste, erano sempre a disposizione per correggere il
testo in coreano delle nostre omelie. E tante altre persone ci passavano
accanto: veri angeli del Signore per accompagnarci nel cammino e aiutarci a
credere che Lui non ci lasciava soli.

Tale situazione offriva una
preziosa opportunità per l’animazione missionaria. Cominciammo con un incontro
mensile di formazione per chi lo volesse; poi qualche ritiro spirituale; incontro
mensile missionario per gli alunni del catechismo delle elementari e medie.

Il «Gruppo amici» era fondato!
Quel fenomeno di Alvaro, destreggiandosi nei meandri della burocrazia locale,
riuscì a ottenere un numero di conto corrente «ufficiale», con grande sorpresa
di altre comunità religiose che non c’erano ancora riuscite. Così anche le
offerte degli amici cominciarono ad affluire costanti e generose.

Da quel momento le cose si sono
molto evolute; prima di tutto costruimmo la nostra casa-madre a Yok-kok. In
questa circostanza l’angelo inviato da Chi continuava a purificarci ma sempre
con un occhio di riguardo, rispondeva al nome di Kim Joseph. Questi, esperto di
costruzioni, si fece carico di «sorvegliare» la costruzione al posto nostro.
Essa ci pareva enorme a quei tempi, mentre adesso è diventata un nanerottolo,
schiacciato dai grattacieli nel frattempo sorti accanto.

Fin
dall’inizio ci preoccupammo di avere gli spazi necessari per l’animazione
missionaria e per altre eventuali attività non ancora previste. C’era infatti
un giovanotto che ci si era avvicinato e ci «annusava» con curiosità e
interesse, finché un giorno prese il coraggio a due mani e ci chiese se fosse
potuto anche lui «diventare come noi». Iniziò così anche il discorso del
discernimento vocazionale e quello più complesso della formazione. A quel Paolo
ne seguì un altro, poi altri giovani ancora. Purtroppo, in fasi diverse della
loro formazione, quei primi candidati coreani missionari della Consolata
uscirono tutti, ma ebbero il merito di aprire il cammino, di farci riflettere
su come agire con gli studenti coreani, quale formazione attuare con loro, come
meglio proseguire con le attività di formazione e animazione missionaria.

Il discernimento, illuminato
anche da padre Piero Trabucco, l’allora superiore generale, ci convinse a
pubblicare una rivista missionaria ad gentes per la Corea. Essa sarebbe
stata di forte aiuto per la nostra cerchia di amici, un prezioso mezzo di
animazione vocazionale, per attirare altri giovani alla bellezza della
vocazione missionaria, e un forte stimolo per la Chiesa coreana, molto attiva
nell’annunciare il Vangelo ai vicini, ma molto meno nel farlo ai lontani.

«La Consolata» in coreano

Anche questa
volta il discernimento ci spinse a lanciarci in una nuova avventura. Era il
1995. Nel frattempo erano arrivati altri missionari: Gianpaolo Lamberto,
italiano, e Antonio Domenech, spagnolo, nel 1992; Rafael, argentino, e
Benjamin, colombiano, nel 1994; per il 1996 era previsto l’arrivo di Alvaro
Pacheco, portoghese, e Juan Pablo, colombiano. Crescendo il nostro numero,
aumentava anche la capacità di lavoro. L’angelo di tuo questa volta si
chiamava Choi Marino, giornalista di professione; era seriamente ammalato, ma
ci diede ugualmente un aiuto decisivo, insieme a Shin Ki-jin, protestante, ma
amico fedelissimo, che da quasi 20 anni continua ad essere l’editore della
nostra rivista «La Consolata», naturalmente con caratteri coreani.

L’esperienza di Marino, mancato
purtroppo nel gennaio del 2000, si dimostò utile per indurci a pubblicare,
accanto alla rivista, una serie di sussidi di formazione missionaria che ebbero
il loro momento di gloria, e per riorganizzare il Gruppo degli Amici, secondo
la classica struttura coreana.

Grazie a questo, abbiamo iniziato
a organizzare «pellegrinaggi di esperienza missionaria», prima alle radici
dell’Istituto in Italia, poi alle missioni in Kenya, alle nostre presenze in
Spagna, in Portogallo e in Mongolia.

A tali iniziative si aggiungono i
problemi per trasmettere un autentico spirito missionario ad gentes alle
persone, per accrescere il numero dei benefattori, per diffondere la rivista…
ed altri ancora. Nonostante gli enormi sforzi fatti dalla nostra équipe
di Animazione missionaria vocazionale, non siamo ancora riusciti a formare un
gruppo giovanile missionario stabile. Anche in Corea le vocazioni alla vita
religiosa e missionaria sono drasticamente scese di numero. Eppure siamo
convinti che il Padrone della Vigna sia ancora al lavoro, magari sotto traccia,
per noi.

Finalmente, gli «altri»

«Mi rifugio nel santo Buddha, mi
rifugio nella santa dottrina, mi rifugio nella santa comunità dei monaci». È la
classica «professione di fede» buddista, cantilenata al ritmo del mok-tak
(un tamburello di legno concavo) dalla monaca che guida la solenne
celebrazione, mentre l’intera assemblea si profonde in rispettosi inchini a
ogni invocazione. Sono alla cerimonia pubblica per la festa della nascita di
Buddha; vi partecipo su esplicito invito del vescovo di Tae-jon, mons. Ryu
Lazzaro, che porta alla comunità buddista gli auguri della Chiesa cattolica. I
molti monaci, di vari ordini buddisti, e la grande folla ascoltano con
attenzione quando il vescovo legge loro il messaggio augurale ufficiale,
pubblicato ogni anno per l’occasione dal Pontificio consiglio per il dialogo
interreligioso.

Già ai tempi di Man-sok-dong
avevo avuto la possibilità di avvicinare qualche mu-dang (donna
sciamana) e di assistere a qualcuno dei loro rumorosissimi riti. Così pure, fin
dal nostro arrivo in Corea, avevamo visitato numerosi templi buddisti,
meravigliandoci al vedere una religione «viva» che guidava la vita di milioni
di persone.

Il grande sogno d’incontrare le
religioni non cristiane del paese, coltivato ancor prima di arrivare in Corea,
pur sempre vivo, era stato a lungo dilazionato a causa di altre necessità della
nostra missione, così come si stava sviluppando. Solo padre Antonio, arrivato
con la seconda ondata, dotato di sensibilità particolare in questo campo,
intrecciava le prime relazioni con monaci buddisti e membri di altre religioni.
Ma a dare la carica fu la visita di padre Alberto Trevisiol, allora vice
superiore generale: in un nuovo discernimento fu deciso di assumere il dialogo
interreligioso come dimensione costitutiva della nostra missione in Corea,
espressione chiara del nostro essere «per i non cristiani». Correva l’anno di
grazia 1995.

La decisione formale, però, prima
di diventare effettiva, ebbe bisogno di un lungo iter di preparazione.
Accompagnando Antonio, che aveva cominciato a studiare Religioni Comparate
all’Università cattolica di So-gang, cominciai anch’io a frequentare gli «altri»,
a partecipare a seminari di presentazione delle varie religioni per capire
meglio la loro fede e vita, a «pellegrinaggi interreligiosi» per visitare i
loro luoghi sacri, a tessere relazioni con i fedeli delle «religioni dei nostri
vicini», come si chiamano in Corea le «religioni non cristiane», espressione
molto significativa.

Fu costruito un piccolo centro
per il dialogo interreligioso a Ok-kil-dong, non lontano dalla base di Yok-kok,
completato e inaugurato nell’aprile del 1999 dal nostro vescovo, mons.
McNaughton, alla presenza del nunzio, mons. Morandini, con la partecipazione di
amici di diverse tradizioni religiose e di un buon numero di Amici Imc. Era
nata la terza presenza della nostra missione in Corea.

Dopo un primo periodo esaltante,
pieno di incontri e attività, grazie anche alla «Catena della pace», gruppo di
dialogo di candidati leaders religiosi, che aveva preso il nostro centro
come loro base di operazioni, seguì un periodo di delusione e fatica: la Catena
della pace sciolta, ci fu qualche crisi vocazionale intea… ma non abbiamo
mai mollato! Fin dal 2002 fummo chiamati dalla Conferenza episcopale coreana a
far parte della Commissione per il dialogo ecumenico e interreligioso; più
tardi entrammo nella Commissione per il Dialogo della Conferenza coreana delle
religioni per la Pace (Kcrp), partecipazioni «ufficiali» ci diedero molta
visibilità nel campo del dialogo interreligioso, anche perché ero l’unico
partecipante «straniero».

Con alcuni dei nostri cattolici
facemmo molte visite a gruppi e centri delle «religioni dei nostri vicini»;
eravamo riusciti a creare relazioni stabili con un gruppo di fedeli buddisti di
un tempio vicino (2005-2006), grazie all’interesse e accoglienza del loro
monaco guida; ma quando questi fu spostato in un eremo sulle montagne, tutto il
processo fu interrotto. Poi intervenne il Padrone della vigna, tramite il
governo coreano questa volta: per fare spazio a un complesso di case popolari,
espropriò tutti coloro che vivevano nell’area dove c’era il nostro centro.

Nuova crisi e nuovo
discernimento. Ma l’esperienza accumulata ci permise di costruire un nuovo
centro in un’altra zona, più adatto al tipo di dialogo che nel frattempo
avevamo maturato: un dialogo di base tra fedeli di varie religioni, da
prolungare nel tempo e non ridotto a qualche sporadico incontro; un dialogo
fatto attraverso lo scambio dell’esperienza religiosa, che fosse di
arricchimento per tutti.

Nella nuova zona, nella diocesi
di Tae-jon, nel centro della Corea, il vescovo ci accolse a braccia aperte,
esclamando: «Anche noi a Tae-jon abbiamo bisogno di consolazione! E in quanto
al terreno, non preoccupatevi. Dio ha già scelto il luogo adatto per voi: si
tratta solo di trovarlo!».

Era vero. Il Padrone della vigna
ci aveva riservato un bel posto, e il solito angelo delle nostre costruzioni,
il signor Kim Joseph, accompagnato dal figlio Matteo, provvide a completare la
costruzione in tempo per celebrare i 25 anni di nostra presenza in Corea.

Burroni e vette

Dopo vari
anni di presenza a Man-sok-dong, dove l’ammodeamento dell’area diventava
sempre più concreto, cominciammo a riflettere sul senso, stile e forma di presenza
in quel «quartiere della luna», finché la comunità decise che era ora di
cambiare. Nel 2001, una comunità di tre missionari, si stabilì in un altro
quartiere di poveri, a Ku-ryong-maul, nella stessa capitale Seoul. Lo spazio
della nostra abitazione era limitatissimo, ma trovammo un’altra casetta accanto
e l’adibimmo a doposcuola per i ragazzi del quartiere e per altre attività.

Della
comunità di Ku-ryong-maul faceva parte anche il keniano Joseph Otieno. Ci
viveva felice, facendo, secondo le sue stesse parole, «le piccole cose che
c’erano da fare»: riparazioni nella casa di alcune nonnine del luogo, fare la
spesa e altri servizi per le stesse nonnine, assistenza e pratica dell’inglese
per i ragazzi del doposcuola… Era anche un vero atleta, tanto da iscriversi a
un gruppo sportivo che partecipava alle corse amatoriali. Il 18 dicembre 2005,
stava partecipando con il suo gruppo sportivo a una mezza maratona, organizzata
per raccogliere fondi a favore dei bambini sofferenti di cuore… quando il suo
cuore si fermò nei primi chilometri della corsa. Aveva 31 anni. Lo shock fu
tremendo e la crisi altrettanto dura. Non ci restava che aggrapparci alla fede
con tutte le forze. Anche perché, all’inizio dello stesso anno orribile, in un
incidente d’auto, avevamo perso David, seminarista di 29 anni. Dopo questi
fatti si prospettava una nuova evoluzione: anche la nostra presenza a
Ku-ryong-maul stava perdendo un po’ di significato. Avevamo scoperto che, da
qualche anno, i «più poveri dei poveri» in Corea erano gli immigrati stranieri,
entrati nel paese, spesso illegalmente, in cerca di lavoro. Inizialmente la
Chiesa coreana stentò a rendersi conto del fenomeno, ma poi rispose con grande
generosità e organizzazione, tipiche del popolo coreano.

Anche noi decidemmo di collaborare
con la Chiesa locale nell’opera di assistenza e accoglienza dei lavoratori
stranieri. Nell’ottobre 2007 ci siamo stabiliti anche a Tong-du-cheon, città a
nord est di Seoul, diocesi di Ui-jong-bu. Ben presto la nuova casa diventò un
punto di riferimento sicuro per i molti immigrati stranieri che vivevano nella
zona. Ed è l’espressione attuale dell’evoluzione che la famosa «opzione per i
poveri» ha avuto nella nostra storia. 

Tra avvicendamenti e nuovi arrivi
di missionari il lavoro continua, grazie anche agli «angeli», moltiplicati e
diversificati, mandati dal Signore per accompagnare il nostro cammino.

«Non vi sembra un caso
straordinario che i due primi missionari della Consolata coreani ad essere
ordinati sacerdoti abbiano tutti e due lo stesso nome: Han Gyeong-ho?» proclamò
estasiato il vescovo di Incheon, all’ordinazione di Pietro e Martino, l’8
ottobre 2009; e la numerosissima assemblea rispose con un «oh!» di meraviglia,
stretta con affetto attorno ai due novelli sacerdoti. «Sono destinati uno al
Brasile e l’altro alla Spagna – proseguiva il vescovo – inviati anche dalla
nostra Chiesa coreana come missionari ad gentes».

Sì, il Padrone della vigna, oltre
a farci sperimentare la sofferenza dei «burroni», ci dava finalmente anche la
gioia di gustare l’ebbrezza delle «vette». E il dono si è ripetuto più volte.
Nel gennaio 2011 fu la volta di Kim Joseph (ora in Colombia) e nel gennaio 2012
quella di Lee Benigno (ora in Kenya). In occasione della festa della Consolata
2012 è stato ordinato diacono Kim Giuseppino, che riceverà la consacrazione
sacerdotale all’inizio del 2013, in concomitanza con il 25° della nostra
presenza in Corea.

In dirittura di arrivo c’è anche
Marco, per ora in formazione in Argentina. Intanto continuiamo a sperare che il
Padrone della vigna mandi altri giovani decisi a offrire generosamente la loro
vita per la missione ad gentes.

Conclusione

Lunga e
affascinante la nostra storia in Corea. Molte altre cose sono successe in
questi 25 anni, ma non sono state scritte, perché ci vorrebbero troppi libri
per contenerle. Posso però affermare con certezza: è affascinante scoprire che,
dietro a ogni avvenimento, grande o piccolo che sia, c’è la mano di Colui che è
«protagonista» della missione a pieno titolo. È Lui che guida la storia e le
storie, che dà significato agli eventi, che attira tutto a Sé, in maniera a
volte evidente, a volte nascosta e discreta, come sotto traccia, ma sempre
certa.

È
affascinante scoprire come la missione non la facciano gli eventi o i momenti
importanti, che pure ci sono ogni tanto, ma le piccole cose, la vita d’ogni
giorno, che sembra non dire e non fare niente di eccezionale, ma poi si scopre
essere il tessuto di una storia intera che, vista globalmente e da giusta
distanza, si rivela come un arazzo bellissimo.

È affascinante, infine, scoprire
come la missione, l’annuncio della Buona Notizia agli altri, diventi esperienza
personale di vangelo, di fede autentica nel Signore, che di giorno in giorno si
va purificando, approfondendo, diventando linfa vitale.

A risentirci per il 50°!
 
Diego Cazzolato

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Diego Cazzolato




Haiti: La perla perduta

Incontro con il giornalista haitiano Gotson Pierre. A tre anni dal devastante
terremoto che sembrava cambiare le sorti del paese, la politica fa passi
indietro. Il presidente Joseph Martelly
governa con autoritarismo, senza curarsi della Costituzione. Mentre
clientelismo e corruzione sono in aumento.Ma il movimento sociale manifesta il suo malcontento e la tensione
cresce.Il punto di vista di un osservatore privilegiato.

(Foto Marco Bello e AFP)

Gotson Pierre, haitiano, fa il
giornalista da oltre 30 anni. Ha lavorato, tra l’altro, alla creazione di una
rete di radio rurali e nel 2001 ha fondato il Groupe Médialternatif,
un’associazione di media che vuole essere voce critica della società e dei
movimenti sociali. Tra le altre attività, Médialternatif gestisce
l’agenzia online altepresse.org che ha acquistato una grande
credibilità in patria e all’estero.

Da
maggio 2011 Haiti ha un nuovo presidente: il discusso cantante Michel Joseph
Martelly.
Quali
sono le caratteristiche del governo Michel Martelly?

«È un’amministrazione che cambia profondamente dalla
precedente. Un governo che comunica molto. Una comunicazione che invade tutto,
che quasi rimpiazza l’azione politica. Diventa l’azione politica. Ogni giorno
arrivano numerosi comunicati dal primo ministro, dai ministeri, dalla
presidenza. Una macchina di comunicazione efficiente in tutte le istituzioni
dello stato.

Però
è un flusso d’informazione governativa unidirezionale, che rende conto di
quello che vuole il governo. Il potere concede interviste a media selezionati.
Un’amministrazione che pare voler comunicare con il pubblico attraverso i
media, ma allo stesso tempo limita l’accesso dei giornalisti all’informazione.

È
una comunicazione persuasiva, per dire “vedete che le cose stanno cambiando”.
Martellano su alcuni concetti: siamo molto vicini alla propaganda.

Si
avvalgono di compagnie private di comunicazione. La società spagnola che ha
gestito la campagna elettorale di Martelly è ora al servizio della presidenza,
e ha messo un esperto latino americano a capo della comunicazione».

E
dal punto di vista politico?

«Non
è cambiato nulla in realtà. È un presidente che non vuole negoziare con
nessuno, si vuole imporre, anche se non ha i rapporti di forza che gli
servirebbero. Non ha i numeri in Parlamento dove è in larga minoranza. Martelly
spinge l’autoritarismo a un livello visto solo sotto la dittatura militare.

Lui
parte dal principio che il presidente può fare quello che vuole: è la
concezione del capo supremo della nazione, la stessa che avevano i Duvalier
(padre e figlio dittatori sanguinari dal ’57 all’86, ndr). Per lui il
presidente è a capo di tutti i poteri. Il principio di separazione tra
esecutivo, legislativo e giudiziario non esiste. Pensa di avere potere su tutto
quello che succede ad Haiti e vuole imporre le sue decisioni.

Ha
ricevuto le organizzazioni dei media per dire loro cosa devono fare. Ma il
Parlamento non ci sta e questo porta sempre a un braccio di ferro, a un blocco
istituzionale. Talvolta si risolve all’ultimo momento per le pressioni della
comunità internazionale o arriva a crisi di governo. È successo così con le due
nomine dei primi ministri.

Oggi
c’è in gioco la formazione del Consiglio elettorale permanente (Cep), organo
che organizza le elezioni e starà in carica nove anni. Influenzerà quindi la
dirigenza politica delle prossime due legislature.

Ma
i parlamentari vogliono far valere il fatto che oggi il Senato non può
scegliere i membri del Cep perché la Costituzione vuole due terzi dei senatori
presenti, ma oggi la camera alta ha un terzo scaduto, quindi è impossibile
avere il quorum.

Occorre
fare un Consiglio elettorale provvisorio per completare il Parlamento con
elezioni e poi passare al permanente.

Il
presidente ha influenzato il potere giudiziario imponendo la sua volontà, per
la scelta di tre membri per il Cep, poi Martelly ha scelto altri tre membri,
come esecutivo. In questo modo ha imposto un consiglio di sei membri, e gli ha
fatto prendere funzioni ufficialmente. Ma la Costituzione ne prevede nove:
mancano quelli nominati dal legislativo».

 C’è
un ritardo sulle elezioni?

«Le
elezioni senatoriali e municipali sono in ritardo di almeno un anno. E non si
sa cosa succederà, perché non si trova una soluzione.

È uno stile di funzionamento politico che non vuole
chiarire le cose, tanto meno rinforzare le istituzioni. Si pensava che fosse
incapacità, ma ora alcuni osservatori dicono ci sia dietro una strategia. Ad
esempio qualcuno ha paura di una volontà di sciogliere il Parlamento. I mandati
dei parlamentari vanno verso la fine, rimanderà ancora le elezioni? È un male
minore per Martelly.

Sono
a rischio anche il decentramento e l’autonomia dei poteri locali. I sindaci
hanno terminato il loro mandato, e malgrado avesse promesso di mantenerli fino
alle prossime elezioni, il presidente li ha rimpiazzati con persone nominate
dall’esecutivo. Sta centralizzando il potere.

Il
processo democratico è seriamente minacciato da questi comportamenti. Non
riconosce le organizzazioni politiche e non incoraggia la strutturazione
politica. È piuttosto il clientelismo che aumenta. Se non sei con lui, sei un
nemico della patria, come con il fascismo».

Ma
esiste una vera opposizione e da chi è costituita?

«C’è
un’opposizione che si mostra sempre più. Una critica all’azione del governo. Ma
la strutturazione e l’organizzazione di questa opposizione è ancora da farsi
nonostante esistano attori sociali capaci di condurre un insieme di azioni.

Le
debolezze e le derive di Martelly hanno alimentato l’opposizione e abbiamo
visto una serie di manifestazioni di protesta, con partecipazione di
organizzazioni della società civile e di partiti politici. Criticano questo
approccio politico e la gestione della cosa pubblica. Il cattivo uso dei fondi
pubblici è evidente anche per il posto occupato dalla sua famiglia nella
macchina amministrativa. Normalmente la moglie del presidente non occupa delle
funzioni. Invece la moglie di Martelly è stata da lui nominata a presiedere una
commissione di cui fanno parte rappresentanti di ministeri. Il figlio è
responsabile di una struttura al di sopra del ministero della Gioventù e dello
Sport e gestisce un programma di realizzazione di stadi o spazi sportivi nel
paese, con molti fondi a disposizione. Mentre il ministero non ha alcun
controllo su questo. Criticare Martelly, o rifiutare la sua pratica politica,
non vuole però necessariamente dire che si sceglie un’opzione in linea con la
rivolta del 1986 (quando fu cacciato Duvalier, ndr) e la partecipazione
popolare alla democrazia. Nel movimento sociale c’è molta gente critica verso
Martelly. Un certo numero di associazioni vogliono rompere con tutte le
esperienze di autoritarismo che lui rappresenta, altre no. Chi porta avanti
questo discorso sono piccole organizzazioni che non hanno ancora un rapporto di
forza favorevole a livello del paese. Possono avere un’alternativa da proporre,
ma non hanno peso per farla valere. Ad esempio sono nati due piccoli partiti
della sinistra popolare e democratica».

Allora
cosa stanno facendo i partiti politici di opposizione?

«Oggi
c’è un insieme di dodici partiti, alcuni storici e due nascenti, che hanno
fatto una convenzione e stanno portando avanti una riflessione su come fare
opposizione. Ci sono dentro anche i partiti degli ex presidenti Aristide (Fanmi
Lavalas
) e Préval (Inite). L’altro partito storico, l’Opl
(Organizzazione del popolo in lotta) non ne vuole far parte perché è molto
critico con queste ultime due formazioni. Sta puntando su una “terza via”.
Ricordiamo che Martelly ha pochissimi deputati dalla sua parte. Ha inoltre
fondato un suo partito: Parti tet kale (partito testa pelata, ndr)».

Che
peso ha nel gioco politico la comunità internazionale?

«Alla
comunità internazionale fa comodo la situazione attuale. Non vuole problemi:
meglio consolidare quello che c’è fino alle prossime elezioni presidenziali.
Martelly afferma che non ha paura di un colpo di stato perché la comunità
internazionale è presente e sorveglia la situazione attraverso la Minustah
(Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione di Haiti, composta da
circa 10.000 uomini tra soldati e poliziotti, ndr). L’Onu lascia capire
che hanno bisogno di altri 4-5 anni affinché sia formata una forza di polizia
capace in Haiti.

La
comunità internazionale vuole che i termini delle elezioni siano rispettati: un
presidente sia eletto e sia al potere fino alle prossime elezioni. Il resto non
è un suo problema. Secondo loro un susseguirsi di elezioni porterà alla
stabilità, anche se le gravi questioni degli haitiani permangono irrisolte.

Se
Martelly non riesce a calmare la situazione, allora loro intervengono per
dirgli cosa fare. Ad esempio Usa, Francia e Unione europea vogliono sia formato
il Cep, nella logica della stabilità. Quindi sono intervenuti e hanno fatto
pressioni. La Minustah ha detto che il Parlamento si deve sbrigare a nominare i
tre membri di sua competenza. La comunità internazionale vuole che le
istituzioni esistano, per loro è un criterio importante di stabilità».

La
situazione rischia di esplodere a livello sociale?

«Il
movimento sociale organizzato non è forte, ma l’espressione del rifiuto, a
livello sociale, inizia a farsi vedere. Questo è sfociato nella serie di
manifestazioni in diverse città del paese, contro il carovita, la corruzione,
il traffico di droga. Fenomeni in aumento.

Abbiamo
assistito a manifestazioni organizzate, ma non c’è dietro necessariamente una
struttura sociale forte. Sono dei movimenti di protesta che si organizzano.
Un’esplosione non è da scartare.

Martelly
vuole fare di testa sua, ma su molti piani non è efficace, non riesce a dare
risposte ai problemi. La corruzione dilaga. Le persone che sono al potere,
prima di tutto vogliono guadagnare molti soldi. Al di là di mettere in piedi
dei programmi di ricostruzione o sviluppo.

Ho
raccolto testimonianze sul fatto che nell’esecuzione di un progetto
governativo, come quelli per la costruzione di case, occorre prevedere un 30%
in più per commissioni varie.

Inoltre
lo stato acquista servizi da persone nelle aree di influenza del presidente e
della sua famiglia. È scoppiato uno scandalo perché sono stati attribuiti
lavori di ricostruzione per 400 milioni di dollari a imprese che sono in buona
parte del senatore dominicano Bautista. Il fatto è che i lavori sono stati dati
senza alcuna gara d’appalto o controllo. E questo accompagnato con buone dosi
di tangenti.

Martelly
avrebbe ricevuto soldi da Bautista durante la campagna elettorale, ma anche
dopo aver prestato giuramento come presidente. Tutto ciò resta nell’impunità
totale».

Lo
Stato sta mettendo in opera dei programmi per migliorare le condizioni di vita
della gente?

«Un
primo problema nella messa in opera dei programmi è la corruzione e il
clientelismo. Questo fa sì che i beneficiari finali non siano numerosi, ma
diventino quasi il pretesto per fare il progetto.

L’altro
aspetto è l’orientamento dei progetti realizzati. Sono impostati per migliorare
la situazione nel breve termine ma non hanno un impatto sociale durevole. È il
caso dei programmi sociali governativi orientati alle famiglie. Alcuni si
ispirano ai programmi brasiliani contro la fame, ma ad Haiti sono gestiti dalla
presidenza ed è più un modo per acquisire seguaci.

È
difficile capire quali sono le realizzazioni e verificare i risultati di ogni
programma. Ce ne sono cinque o sei che fanno la stessa cosa: per ridurre la
fame danno cibo alla gente.

Si
tratta di fondi multilaterali, ovvero di cooperazione tra stati, e altri del
tesoro pubblico.

Ci
sono ancora i progetti di emergenza a tre anni dal
sisma?

«L’umanitario
è sempre presente ad Haiti. Ci sono, da un lato, le agenzie dell’Onu, che
tentano di lavorare con il governo, e dall’altro le Ong che fanno i loro
programmi. I progetti di emergenza hanno un limite: lavorano sull’immediato,
sulle conseguenze di un insieme di problemi, ma non sulle loro cause.

Purtroppo
neppure il governo ha messo in piedi un meccanismo per attaccare queste cause.

Ad
esempio gli interventi su bacini versanti, la pulizia dei canali, la
riforestazione non sono stati fatti. Così arrivano gli uragani come Sandy e
causano morte e distruzione.

Le
sfide della situazione haitiana attuale sono tante, e allo stesso tempo, la
gente che ha votato Martelly vorrebbe vedere qualche segno di miglioramento. Ma
non c’è nulla che si manifesta in questo senso, se non la comunicazione. Vedo
quindi una certa disillusione in una parte dell’elettorato di Martelly. Mentre
altri continuano a difenderlo strenuamente. Poi ci sono gli oppositori che lo
criticano alla radio e gli fanno perdere consensi. Alcuni analisti sostengono
che il presidente non vuole le elezioni adesso perché ha paura di perdere.
Mentre lui vuole avere tutti i dieci posti da senatore e tutti i sindaci».

E
questo programma di sviluppo del Nord?

«Nel paese ci sono ancora molti problemi e non si sente
la volontà a risolverli. Nonostante alcuni eventi spettacolari, come
l’inaugurazione del parco industriale di Caracol.

L’idea è di fare al Nord del paese un polo economico.
Questo tramite tre elementi: un aeroporto a Cap Haitien (seconda città del
paese, ndr), che è diventato internazionale, una zona industriale nella
baia di Caracol e il progetto di un porto non lontano.

Sviluppare l’economia nel Nord attraverso l’industria
manifatturiera e turismo. La zona industriale inaugurata dovrebbe impiegare
37.000 persone in 3 anni. Adesso sono 1.000 i posti di lavoro creati. Oltra a
tutto questo hanno attivato una sezione universitaria del Nord che dipende
dall’Università di stato.

Le critiche sono che l’opzione della manifatturiera per
sviluppare il Nord non può essere sul lungo termine. Inoltre per fare la zona
industriale sono state cementificate terre agricole, togliendole alla
produzione di cibo e, d’altro lato, non è stata presa alcuna misura sui rischi
sociali e ambientali che un’operazione di questa portata può avere. Ad esempio
la creazione di bidonville, che si sono sempre formate nei pressi di
queste strutture.

Quali
sono i punti deboli della classe politica haitiana?

«Uno dei problemi centrali ad Haiti è che uomini e donne
politici haitiani, al potere o all’opposizione, non riescono ad analizzare,
constatare e accettare i rapporti di forza. Ma questo è necessario per il
dialogo politico. Se si avesse questa coscienza, si potrebbero fare sforzi per
costruire qualcosa, anche negoziando. E si prenderebbero disposizioni per
migliorare la propria posizione di forza, facendo un lavoro sul terreno.

Anche per questo motivo i partiti politici ad Haiti non
si costruiscono alla base, ma tramite l’accesso ai media: parlando alla radio. Invece
il partito va costruito con un lavoro di militanti, mettendo in piedi le
strutture, organizzando la base. La comunicazione è qualcosa in più che
permette di esprimersi; non organizza, piuttosto anima».

Cosa
bisognerebbe fare oggi ad Haiti?

«Vedo
la via di uscita in questo senso: strutture che accettino di costruirsi con un
lavoro sul terreno, e solo in un secondo tempo sviluppare le influenze a
livello pubblico.

Un
leader carismatico non risolve i problemi. È vero, occorre una voce
credibile che abbia séguito, ma anche costruire una militanza dalla base.

Uno
dei ruoli essenziali per i partiti politici, movimenti sociali e le strutture
popolari, è riprendere il lavoro di educazione popolare e di educazione civica.
Quanto era stato fatto prima del 1986. Dopo le crisi tutte le risorse sono
andate perdute, in particolare con il colpo di stato del ‘91, buona parte dell’élite
popolare è stata uccisa o è andata in esilio. Possiamo dire che abbiamo perso
quel lavoro.

Bisogna
ricominciare a riorganizzare i contadini, i partiti popolari, a educare la
gente sulle ideologie politiche. Cos’è la destra, cos’è la sinistra. Perché sul
terreno oggi non c’è alcun riferimento ideologico o a dei valori.

È
un ruolo importante, alcune associazioni lo stanno assumendo, ma non è la
tendenza dominante. L’incertezza economica, la precarietà hanno influito sui
settori sociali, hanno fatto si che tutti siano preoccupati di cosa succederà
domani.

I
movimenti sociali continuano a esistere e vedo una nuova cornordinazione tra
organizzazioni contadine, tra quelle delle donne e tra sindacati. Anche la
nascita di questi piccoli partiti politici: sono tutti segnali interessanti».

Marco Bello

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Marco Bello




Guatemala: Non è arrivata, la fine del mondo


Cosa
porterà la fine del 13mo b’aqtun.
Pace, armonia, giustizia, equilibrio
interiore. Tutto questo, dicono le guide spirituali, dovrebbe portare con sé
la fine dell’era prevista dal calendario Maya. Dipenderà però dalla nostra
coscienza.Perché il cambiamento deve essere dentro di
noi
.
(foto Simona Rovelli)

Mentre
gran parte del mondo attendeva con curiosità, trepidazione, speranza o terrore
(a seconda delle differenti visioni), il
21 dicembre 2012, in Guatemala – cuore pulsante dell’universo Maya, dove ancora
una maggioranza della popolazione, in particolare gli Ajq’ijab (le guide
spirituali, in lingua Maya K’iché) mantengono viva la millenaria
tradizione spirituale originaria – in realtà tutto taceva.

Ha
fatto eccezione l’industria del turismo che, in un paese splendido ma
zoppicante sotto moltissimi aspetti, ha cercato di sfruttare al meglio, in
termini di immagine e di business, il bonus piovuto dal cielo,
organizzando eventi in tema e sfoando i più disparati pacchetti turistici,
essenzialmente per stranieri e spesso escludendo dall’organizzazione e
partecipazione la stessa popolazione di etnia maya.

Si
è scritto e detto ormai di tutto circa questa fatidica data, citata come la
fine del «tredicesimo b’aqtun» del calendario Maya, a partire dalla
distruzione del mondo con o senza giorno del giudizio, passando per il
profetico arrivo di un fantomatico «Pianeta X», la caduta di una cometa o
asteroide che sia, il ritorno degli alieni, l’inversione dei poli magnetici e
svariati – nefasti o benefici a seconda delle interpretazioni – allineamenti
tra centro della galassia, Sole, Terra e alcuni pianeti. Ognuna di queste
teorie si basa, nella migliore delle ipotesi, su libere interpretazioni e
connessioni un po’ fantasiose e forzose tra gli elementi più disparati e, nella
peggiore, su un intenzionale desiderio di creare confusione e panico, per
trae svariati benefici.

La profezia

Ma cos’è un b’aqtun ed esiste davvero una profezia maya a
riguardo del tredicesimo?

I Maya nei secoli hanno sviluppato grandi doti di astronomi e,
studiando il movimento di diversi corpi celesti tra cui ad esempio Marte e
Venere, idearono almeno venti calendari che regolavano ciascuno diversi aspetti
della vita, dalla semina alla nascita di un essere umano. Il parallelismo tra «Cielo»
e «Terra» deriva dalla loro peculiare «cosmovisione» (ovvero come concepiscono,
percepiscono e vivono il senso dell’esistenza dell’intero universo, ne spiegano
la creazione e il funzionamento), per cui le energie che governano i corpi
stellari devono trovare il loro riscontro negli eventi terrestri.

Il b’aqtun è un periodo di tempo riferito a uno di questi
calendari, nella fattispecie quello denominato della Cuenta Larga,
ovvero il calendario che stabilisce il computo di tempi estremamente lunghi e
che sarebbe vigente, senza interruzioni, dai tempi della Creazione
(originatasi, come indicato nella stele 1 di Cobá, Messico, milioni di anni
fa). Per l’esattezza il b’aqtun è un multiplo di 20 (numero sacro per i
Maya, corrispondente al ciclo minimo del calendario Cholq’ij, che regge
il susseguirsi delle energie umane) secondo questo semplice schema:

-1 giorno è detto kin,
– 20 kines fanno un winaq (20 giorni),

– 18 winales sono un tun (che significa «pietra»:
360 giorni),

– 20 tunes corrispondono a un k’atun (7.200 giorni),

– 20 k’atunes un b’aqtun (144.000 giorni),

– 20 b’aqtunes un piktun (2.880.000 giorni). E così
via…

La prima osservazione è che il calendario maya, così come alcuni
erroneamente affermano, non termina affatto con il tredicesimo b’aqtun,
(periodo di 1.872.000 giorni), ma prosegue, ipoteticamente fino all’infinito.
Esiste per esempio una data scolpita nel tempio delle Iscrizioni di Palenque,
Messico, che daterebbe il 13 Ottobre 4.772 d.C., così come esistono date
antecedenti al b’aqtun 1 di questa era, come per esempio indicato in
Quiriguá, Guatemala, dove tra le tante date si può individuare l’8.238 a.C.

Termina un’era

Perché dunque tanto clamore rispetto al tredicesimo b’aqtun
e alla data del 21 dicembre 2012?

La data (4 Ajpu / 3 Kank’in, secondo il calendario
della Cuenta Larga) viene indicata in differenti steli di
svariati siti archeologici del Guatemala e del Messico, semplicemente come fine
di un’era, venendo maliziosamente strumentalizzata come data della fine del
mondo. Infatti, seppur considerando che i b’aqtunes arrivano fino a 20
formando un piktun, è doveroso ricordare che secondo i Maya ogni 13 di
essi si concluderebbe un ciclo completo, corrispondente a un’era del mondo, e
questo passaggio sarebbe segnato normalmente da un sostanziale cambiamento,
preceduto da eventi più o meno significativi. In questo caso si tratterebbe
propriamente della chiusura del terzo ciclo dall’inizio della creazione che,
stabilendo un parallelismo con il calendario Gregoriano, andrebbe dal 6
Settembre 3.114 a.C. (inizio del nuovo ciclo, con il primo giorno del primo b’aqtun),
al 21 dicembre 2012 d.C., ultimo giorno dell’attuale b’aqtun, appunto il
tredicesimo, iniziato nel 1.618. 
Inoltre, secondo vari studi compiuti in Guatemala da antropologi e Ajq’ijab,
la data indicherebbe sia la fine dell’era precedente che l’inizio della nuova,
indicando infatti il giorno 0 (zero) – concetto non contemplato nel calendario
gregoriano – del nuovo ciclo.

Evidenziamo che in nessun caso si parla di fine del mondo, ma di
alcuni eventuali cambiamenti importanti.

Altri citano erroneamente il Chilam Balam (uno dei
pochi testi profetici maya salvatisi dalla furia colonizzatrice), il quale però
descriverebbe alcune catastrofi durante il 13 k’atun Ajaw (e non
13 b’aqtun!). Per approfondimento, secondo la nomenclatura della tavola
degli Ajpú, definita dal missionario Diego de Landa nel libro «Relaciones
de las cosas de Yucatán» agli inizi dell’epoca coloniale, il 13 k’atun Ajaw
si sarebbe concluso il 2 novembre 1.539. Quale catastrofe peggiore, per i Maya,
della conquista spagnola? Attualmente, secondo la suddetta tavola staremmo tra
l’altro vivendo il b’aqtun 6, in numero cardinale, che sarebbe il
tredicesimo in numero ordinale. Il «nome» del b’aqtun (in questo caso
sei) viene infatti definito dall’energia iniziale (che accompagna sempre un Ajpú),
la quale di ciclo in ciclo non segue un ordine crescente. Per capire questo
concetto è necessario addentrarsi profondamente nella cosmovisione Maya e in
calcoli complicati, uscendo inoltre dalla logica calendarica occidentale.

La spiritualità viva

Ma una volta stabilito cosa indicano le steli
e i testi sacri Maya, è estremamente importante analizzare la spiritualità viva
e pulsante attraverso le parole delle guide spirituali (Ajq’ijab),
coloro che hanno la responsabilità di tramandarsi, per lo più oralmente, le
antichissime tradizioni.

Non esiste un consenso generalizzato a riguardo, se non nel deciso
rifiuto delle infondate posizioni catastrofiste. Molte «abuelas y abuelos»
Maya (nonne e nonni letteralmente, così come poeticamente vengono definite le
persone che hanno acquisito una certa saggezza) ritengono che energeticamente
si entrerà in una nuova era che favorirà pace, armonia, unione, giustizia,
equilibrio tra gli esseri umani e tra questi e Madre Natura (così come
profetizza anche il Chilam Balam, per il 4 k’atun che
inizierà questo dicembre). Il tutto si raggiungerà attraverso il ritrovamento
di un vero equilibrio interiore, che nella cosmovisione maya è fondamentale per
poter concretizzare i passi successivi. Alcuni si spingono a dichiarare che
tanta sarà l’armonia da permettere la comunicazione attraverso la trasmissione
del pensiero. Altri invece pensano che, nonostante l’energia propizia, il
cambiamento sarà molto più lento e graduale e dipenderà molto dal grado di
risveglio delle nostre coscienze. Per altri ancora, tutto risiede nel nostro
libero arbitrio e il destino del pianeta Terra, con i suoi equilibri e i suoi
abitanti, non è prestabilito.

Il cambiamento sta dentro di
noi

Cosa ne è della speranza nell’arrivo di alieni che spazzino via la
feccia dell’umanità, facendo piazza pulita delle negatività? Una visione troppo
comoda, che affida a un «miracolo» esterno e senza impegno il cambiamento che
ciascuno di noi, con coscienza e sforzo, dovrebbe intraprendere nel suo piccolo
per mutare radicalmente il corso della storia umana, piagata da tante
ingiustizie e prossima a subire e far subire, in particolare ai più deboli e
alle generazioni future, le conseguenze del cambio climatico. Tra quelli che
seguono la spiritualità maya, non vi è attenzione, né tantomeno preoccupazione
rispetto a una eventuale venuta, e piuttosto ci si concentra sulla propria
crescita personale e comunitaria.

E la paura di catastrofi naturali e dell’eventualità che la
popolazione umana possa essere decimata da eventi disastrosi (o dagli alieni
stessi)? Solo chi ha paura di vivere tutte le sfumature dell’esistenza, chi
sente di non aver tentato in ogni istante tutto il possibile per offrire il
meglio di sé, chi non accetta che vita e morte sono parte di una necessaria e
utile ciclicità, chi si attacca al proprio ego senza ricordare il senso del
passaggio sulla Terra, ha una profonda paura di morire, che sia in una
catastrofe o per mano degli alieni.

Nelle terre maya, dove si vive in ogni istante la precarietà della
vita, ci si concentra sul presente con umiltà, semplicità, intensità e
determinazione, consci di essere una goccia di Infinito nell’Universo.

Simona Rovelli

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Simona Rovelli




Questione di vita o di morte

La lotta per l’acqua nel semiarido Nordeste brasiliano

Con il termine sertão viene indicata una vasta regione semiarida, estesa su molti stati del nordeste brasiliano, battuta da un sole feroce e siccità cronica. Per rispondere a tale emergenza, un missionario della Consolata, da 20 anni, scava pozzi e costruisce cistee, lottando contro la rassegnazione della gente e la corruzione dei politici.

Le previsioni dell’Istituto nazionale di ricerche spaziali (Inpe) già diversi anni fa non erano affatto incoraggianti per il Nordeste del Brasile: la regione sarebbe stata colpita da una grande siccità, che si sarebbe estesa dal 2006 al 2011. Purtroppo tali previsioni si sono avverate e il periodo è già passato: dei 400 municipi della Bahia, 186 hanno dichiarato lo stato di emergenza.
Padre Moratelli Vidal, missionario della Consolata, da 20 anni affronta la questione dell’acqua nei municipi di Jaguararí e Monte Santo, a 300 km da Salvador, capoluogo dello stato di Bahia; egli è convinto che, per convivere nel territorio semiarido, prima di tutto sia necessario superare la mentalità della dipendenza tanto religiosa che politica.
lotta alla rassegnazione
«Dopo tante sofferenze e tanti fallimenti nelle semine e nell’allevamento del bestiame, ingannata dalle promesse dei politici, la gente del sertão si è rassegnata a subire la situazione: un’attitudine che toglie la forza per organizzarsi e protestare», afferma il missionario e fa notare come l’espressione più frequente della gente sia: «Se Dio vuole, pioverà». E continua: «Sarebbe più conveniente dire: aiutati che Dio ti aiuta, nel senso che Dio manda la pioggia, ma la gente deve usare il proprio cervello per sviluppare progetti e rivendicare i propri diritti, spronando l’amministrazione pubblica a fare il suo dovere».
La situazione è grave, ma non tragica come era anticamente, quando molti contadini dovettero abbandonare la campagna. Oggi ci sono molte più risorse che in passato, come la pensione, il sussidio mensile del governo per le famiglie più povere per l’acquisto di prodotti alimentari di base (bolsa família) e per la scuola (bolsa escola), assicurazioni e microcredito bancario per fattorie a conduzione familiare (bolsa safra), costruzione di cistee per l’acqua, estensione della rete elettrica con il programma «luce per tutti» e altre forme di aiuto.
Grazie a tali benefici la gente si sente soddisfatta e magari non esige più riforme strutturali per una soluzione definitiva. E per quanto riguarda la siccità, gli specialisti dicono che è quasi impossibile eliminarla. Allora non rimane altro che darsi da fare e imparare a convivere con il clima semiarido, caratterizzato da 300-750 millimetri di pioggia l’anno.
Chiesa e siccità
Ne è un esempio la parrocchia di San Giovanni Battista di Jaguararí, formata da 80 piccole comunità e, dal 1985, affidata ai missionari e missionarie della Consolata. In quella zona sono stati già perforati centinaia di pozzi artesiani e poste tubature per decine di chilometri. Oltre a questo, il Centro culturale della parrocchia ha già costruito più di 800 cistee per l’acqua potabile e per l’uso agricolo.
Il gruppo missionario è composto da tre padri e quattro suore. I progetti, iniziati dal padre Vidal, continuano con il sostegno del Centro culturale e del municipio e sono cornordinati da 45 associazioni locali, legate a una Associazione centrale con sede in Jacobina che assicura l’assistenza tecnica.
Un’altra zona in cui l’acqua è questione di vita o di morte è il territorio della parrocchia di Monte Santo con oltre 140 comunità, assistita dai missionari della Consolata dal 1987. Attualmente vi lavorano tre preti e un diacono. Uno di essi è padre Moratelli, specialista nella prospezione del sottosuolo (rabdomanzia), da tutti conosciuto come il «padre dell’acqua».
Egli spiega che la regione si trova in un sistema geologico semiarido causato dall’essere umano, che ha disboscato il suolo senza controllo. Il processo di desertificazione si trova in uno stadio tale che la natura non riesce a ricuperare da sola. Nonostante piova fino a 700 mm l’anno, il suolo non è in grado di trattenere l’acqua.
Secondo il parere del missionario è urgente «immagazzinare l’acqua nei periodi piovosi e costruire sbarramenti, una specie di piccole dighe per gli animali». Egli suggerisce ancora che in tutti i centri abitati «il governo investa in pozzi artesiani e trasformi l’acqua salata in acqua potabile, mediante strumenti desalinizzatori, con la partecipazione della comunità locale. Per tale collaborazione si potrebbe ricorrere a una tessera elettronica, con cui ognuno pagherebbe per la quantità di acqua processata». Inoltre, ogni fattoria dovrebbe avere il suo pozzo artesiano per il bestiame: «Tale investimento valorizzerebbe la proprietà e salverebbe il bestiame».
siccità è… potere
L’Aquifero Tucano, riserva d’acqua sotterranea, seconda per grandezza in tutto il Brasile, è a 100 km da Monte Santo. Le comunità chiedono al governo di fare investimenti in un progetto d’acqua potabile sicuro e permanente, con tubature che rifoiscano la città e i centri abitati. «Tale progetto eviterebbe che l’acqua, elemento vitale per l’essere umano e gli animali, diventi causa di malattie come sta capitando al momento. L’acqua che si utilizza attualmente non è adatta al consumo», ammonisce padre Vidal.
«La pubblicazione del numero dei municipi in stato di emergenza è stata accolta con esultanza, come un’occasione per ricevere molto denaro pubblico, invece di vederla come motivo di vergogna per il disinteresse e la mancanza di organizzazione nel superare tali situazioni critiche che si ripetono anno dopo anno. Mentre alcuni portano in processione immagini sacre sul santuario della Santa Croce, altare del sertão, altri, in città, rubano a piene mani» afferma indignato il missionario.
L’elettrificazione rurale è stata una grande impresa del governo. L’energia elettrica ha portato benefici alla campagna e aumentato il commercio. «Perché la questione dell’acqua non è trattata con altrettanto impegno e serietà?» domanda padre Moratelli; e commenta: «Il fatto è che la siccità continua a essere l’asse di briscola per la carriera dei politici che gestiscono autobotti in cambio di potere. L’intervento di un progetto governativo abolirebbe le autobotti, cosa che per i politici locali sarebbe un pessimo affare per tutto ciò che ruota attorno all’industria della siccità».
Tale tesi è convalidata dagli abitanti di Monte Santo. Una fonte, che preferisce non essere identificata, afferma che la regione è un’arena elettorale del deputato dello stato di Bahia; ogni potere è in mano sua. «Mentre era solo segretario del sindaco, questo deputato ha speso 5 milioni di reali per la campagna elettorale e dopo la sua elezione ha continuato ad arricchirsi: in 64 anni di vita, è stato il primo impiegato statale che ho visto diventare milionario» afferma e accusa: «La siccità è la situazione che permette maggiori guadagni. Le autobotti valgono voti; c’è un controllo integrato di tutti i poteri. Le denunce non vanno avanti e chi denuncia è intimidito. L’amministrazione è una fonte d’impieghi; chi non vi lavora, ha qualche parente impiegato e non vuole che perda il posto, per cui tace».
mistica dell’acqua
Un altro personaggio che si distingue nella lotta per l’acqua è il padre Nelson Nicolau, originario di Chapecó (Stato di Santa Caterina), che da 20 anni lavora nel municipio di Cansanção, 35 km da Monte Santo. «È necessario sviluppare e preservare la mistica dell’acqua – afferma -. Quando la vita è minacciata dalla siccità, la Chiesa deve agire per difenderla. Per questo i cristiani devono coinvolgersi nella lotta per l’acqua».
Grazie alla sua opera di coscientizzazione nelle comunità, negli anni ‘90 fu creata l’Arpa, (Associazione regionale pro-acqua), che riunisce quattro parrocchie (Queimadas, Cansanção, Nordestina e Monte Santo) e cornordina iniziative e progetti a tutto campo. Con l’aiuto della Caritas sono stati comprati i macchinari per la perforazione dei pozzi; per mezzo delle autorità regionali l’Arpa ha ricevuto una retro-scavatrice e un camion con cassone ribaltabile per la pulizia e costruzione di piccole dighe. Al tempo stesso si è riusciti a costruire una rete di tubi per portare l’acqua in città e a piccole comunità rurali.
acqua per tutti
La professoressa Maria da Gloria Cardoso, cornordinatrice della pastorale dell’infanzia e membro dell’Arpa, dice che «la questione dell’acqua è trattata con molta approssimazione: i politici non la prendono mai sul serio. Tutto diventa manipolazione politica. C’erano progetti per la costruzione di cistee e per macchine perforatrici, ma sono fermi. Il suolo ha una crosta dura e occorrono strumenti adeguati per perforarla. Venti anni fa con l’aiuto della Banca mondiale furono costruite molte cistee, ma fu un lavoro malfatto e la maggior parte è andata in rovina», ricorda.
A Monte Santo la Commissione dell’Arpa, che raggruppa rappresentanti della Chiesa, del Sindacato dei lavoratori rurali, dell’Asa (Organizzazione del semiarido) e dell’amministrazione pubblica, fa rilevamenti ed elabora progetti, ma il lavoro procede con lentezza. «Negli anni passati facemmo un progetto, chiedendo di destinare il 3% del bilancio municipale alle risorse idriche. Il progetto fu approvato nel consiglio comunale, ma al momento di elaborare il calcolo di bilancio, questa voce non comparve. La gente, poi, è anche molto passiva, aspetta sempre che Dio mandi la pioggia e la siccità continua ad apparire come un castigo meritato», lamenta Maria da Gloria.
Secondo Anna Maria Campos de Oliveira, assessore all’agricoltura di Monte Santo, municipio con 53 mila abitanti, la situazione si è aggravata negli ultimi sei mesi. La strategia del comune è pulire le fontane, perforare e ricuperare pozzi e distribuire «borse basiche» (alimenti di prima necessità) alle famiglie più bisognose. Per questo il sindaco ricevette l’aiuto del governo federale per il valore di 60 mila reali (25 mila euro).
D’altra parte ci sono molte critiche riguardanti le autocistee, che rappresentano la maggiore fonte di corruzione. Nel municipio ci sono 53 autobotti affittate e pagate dall’Esercito tramite il governo federale, al costo di 500 mila reali al mese (200 mila euro). Secondo alcune informazioni, ci sono camion che ricevono mensilmente da 12 a 17 mila reali (5-7 mila euro). La maggior parte è controllata dai consiglieri comunali. Oltre a ciò, l’acqua trasportata non è di buona qualità. La segretaria chiarisce che il prezzo mensile per camion varia da 3 a 10 mila reali (1.220-6.000 euro).
«Il prezzo è alto, ma il municipio non riceve alcun soldo; tutto è fatto attraverso l’Esercito», commenta Anna Campos e confessa, al tempo stesso, che è difficile controllare l’approvvigionamento. Essa stessa ha già sporto varie denunce. «Ma non posso portare le prove concrete, perché non ho informazioni esatte su queste autobotti».
Anna Campos osserva che nel municipio non c’è più posto da cui estrarre l’acqua potabile. Le autocistee dovrebbero trasportarla da Quinjigue, ma recentemente l’analisi di un campione ha rivelato che l’acqua portata a una comunità era inadatta al consumo umano. «Ho già ricevuto perfino minacce di morte per aver controllato l’acqua attinta a un deposito per il bestiame e distribuita per il consumo umano», rivela.
Evaristo Rodrigues de Lima, un rappresentante della Commissione dell’acqua, collabora con «Articolazione del semiarido-ASA», istituzione non governativa che lavora insieme alle diocesi e ad associazioni locali. Egli spiega che dal 2002 furono costruite nel municipio circa 3 mila cistee da 16 mila litri ciascuna. Si prevede che per il 2014 ne saranno costruite almeno altre 5 mila per portare a tutti l’acqua potabile. «Il lavoro è fatto in forma collettiva per non favorire nessuno. È una risorsa per tutti», sottolinea.
Inoltre, ci sono anche cistee riservate per gli allevamenti di bestiame e produzione di ortaggi. «Nel 2011 ne furono costruite 40, da 50 mila litri ciascuna. In questi progetti abbiamo coinvolto le famiglie. Ciò garantisce la produzione degli ortaggi. Li stanno ancora vendendo», commenta Evaristo con soddisfazione.
La signora Olivia Gonçalves de Carvalho della comunità «Fattoria vecchia» ha investito 7 mila reali (3 mila euro) in una cisterna per coltivazione, con recinto e aiuole per la produzione di ortaggi. «La cisterna è una terapia, perché per estrarre l’acqua devo azionare la pompa e col movimento fisico mi sento meglio; poi, con i miei ortaggi non mangio veleno. Gli animali non berranno più acqua sporca. È una benedizione! Magari ogni famiglia avesse una di queste cistee!» esclama.
La vita nel sertão gira attorno all’acqua, che normalmente è gestita dalla donna. Oggi la gente si rende conto che è importante avere una cisterna a portata di mano, per garantire la buona qualità dell’acqua e conseguentemente della vita. L’acqua accanto a casa risparmia lunghe camminate e allevia il lavoro della donna, che così può dedicarsi di più ai figli e alla propria casa.
I pozzi danno sicurezza alle famiglie nel lavoro dei campi e le cistee rendono possibile la coltivazione di piccoli orti familiari. Con tutto ciò si riscontra una diminuzione delle malattie nei bambini e anziani.
Jaime C. Patias

BOX
Dionisia: donna forte del sertão

Il giorno 8 marzo, Giornata internazionale della donna, gli abitanti di Barreira, Pedra Vermelha, villaggio della parrocchia di Monte Santo, si sono riuniti per celebrare i 112 anni della signora Dionisia, simbolo della resistenza del sertão. La nipote, Martinha das Neves Nascimento, racconta la storia della donna più vecchia della regione.
Dionisia Maria nacque nella fattoria Serra de Lopes, Monte Santo; fu registrata all’anagrafe l’8 marzo del 1900; si sposò con José das Neves dal quale ebbe 14 figli (due dei quali morti, una figlia in tenera età, un’altra da adulta).
Oggi Dionisia vive con una delle figlie: ha 102 nipoti vivi, circa 245 bisnipoti e 46 trisnipoti. Ebbe una vita molto difficile, arrivando fino a patire la fame con tutta la famiglia. Durante la grande siccità del 1932 aveva già tre figli ed era in attesa del quarto. Il marito andava a lavorare a giornata nei campi dei fazendeiros; con la paga giornaliera (2 reali, meno di un euro) poteva comprare due chili di farina.
Dionisia restava con i figli senza niente da mangiare. Allora prendeva i bambini, un machete, una zappa e andava nel campo; tagliava un licuri, palma tipica del sertão, ne estraeva il palmito (cuore di palma) e lo dava da mangiare ai bambini. Essi mangiavano il palmito, bevevano acqua e andavano a giocare, mentre essa puliva la piantagione della manioca. Alle 11 prendeva il machete, tagliava il tronco del licuri, lo portava su una lastra di pietra e lo batteva fino a ridurlo in polvere; poi tornava a casa, mescolava la farina in una padella e faceva una specie di focaccia. I bambini mangiavano fino a saziarsi e andavano a dormire tranquilli.
La sera, quando il marito tornava, le domandava:
– Dove sono i bambini? Sono già morti di fame?
– No, stanno già dormendo, rispondeva.
– Che cosa hanno mangiato?
– Palmito, focaccia di licuri e acqua: sono a pancia piena.

In quei tempi lunghi e difficili i fratelli di Dionisia se ne andarono in cerca di altre terre e di condizioni migliori, abbandonando i vecchi genitori; ma essa diceva fiduciosa: «Accada quello che deve accadere, io non abbandonerò mai i miei genitori». Li assistette fino alla fine. Dice che è viva perché non ha abbandonato i suoi genitori: i suoi fratelli sono già tutti morti; è rimasta solo lei per raccontae la storia.

Per la nipote Martinha, insegnante a Barreira, nonna Dionisia è una grande donna che si adattò a qualsiasi servizio per nutrire i suoi figli, fino a lavorare a giornata, ripulendo il terreno. «Con la sua forza d’animo, oggi, nonna Dionisa ci trasmette un’esperienza di vita, di amore e saggezza. Lo dico perché abbiamo imparato tanto dai suoi esempi; essa non ha mai frequentato la scuola, ma la scuola della vita gli ha insegnato molte attività. È stata una grande artigiana. Faceva reti di cotone: essa stessa filava gli spaghi e intrecciava le reti; era una delle sue specialità. Faceva oggetti di creta: pignatte, brocche, scodelle. Con le fibre della palma licuri confezionava stuoie, borsette, cappelli, cose che ancora oggi riesce a fare con maestria, magari solo per regalarle ad amici e parenti. Oltre a essere madre, nonna, bisnonna e trisavola, Dionisia è anche madre di tanti bambini che aiutò a entrare nella vita. Infatti, un’altra attività da lei svolta per molti anni fu quella di levatrice: migliaia di bambini sono nati con il suo aiuto; ci furono alcuni casi difficili, ma con l’aiuto di Dio, medicina naturale, orazioni e tanta fede nel Signore di Bonfim, nella Madonna Addolorata e nei santi protettori, le riuscirono tutti con successo. Fu anche un’eccellente santona: era ricercatissima per i casi di disgrazie e di malocchio».
Una volta, Dionisia con un bimbo in braccio andò a chiedere un po’ di latte a un vicinato; ma questi glielo rifiutò. Toata a casa, venne a sapere che la mucca gli aveva rovesciato il secchio con un calcio. Tale fatto segnò la sua vita e produsse in lei l’istinto della solidarietà. Contro una concezione banale del dono della vita, donna Dionisia è il simbolo della lotta per la sopravvivenza feconda di molte vite. Nel sertão, dove difficoltà e sofferenze sono maggiori, lei rappresenta la donna tenace, che non si arrende mai.

Jaime Patias

Jaime C. Patias




A ognuno la sua sfida

Intervista a padre Francesco Beardi

A distanza di 35 anni, padre Francesco Beardi è tornato in Tanzania un anno e mezzo fa; dopo una breve esperienza pastorale è stato chiamato a lavorare nel Centro di Animazione missionaria di Bunju (Dar Es Salaam) e a dirigere la rivista in swahili Enendeni (Andate), un lavoro in cui è maestro e in una posizione privilegiata per osservare le sfide della società e della chiesa in Tanzania.

Che cosa hai provato tornando in Tanzania? Cosa ti ha sorpreso di più?
Risiedo in Tanzania da 15 mesi: troppo poco per esprimere giudizi e fare bilanci. Pertanto le mie considerazioni sono impressioni. Quanto scrivo oggi, domani potrebbe essere diverso, senza escludere che possa aver preso qualche grosso granchio…
Sono ritornato in Tanzania dopo 35 anni di assenza. Lasciai il paese nel 1976 e vi rimisi piede nel 2011. La mia prima presenza durò dal 1973 al 1976.
Sapevo che il reinserimento in Tanzania sarebbe stato complesso. Così è stato e così è: a cominciare dalla lingua swahili, che si è arricchita di tanti e nuovi vocaboli. Fra questi, changamoto (sfida). Per me tutto è «changamoto» a 360 gradi, perché il tanzaniano pensa, parla e agisce a «modo suo», in modo… sorprendente.
La prima sorpresa sono proprio i tanzaniani, oggi circa 44 milioni, mentre nel 1976 erano 14 milioni. Con loro ho la possibilità di «rinascere», passando però attraverso «le doglie del parto» dell’incontro-scontro culturale.
Sorprendente è il numero dei loro giornali quotidiani. Negli anni ‘70 erano due, oggi una ventina. Ma molto più sorprendente è qualche voce critica della stampa. «Ci siamo stufati della propaganda dei politici che non vogliono il cambiamento» titolava, il 23 marzo 2011, il quotidiano Mwananchi. The Citizen, il 12 dicembre 2011, stigmatizzava: 32 milioni di euro sono «sfumati» nella celebrazione del cinquantesimo dell’indipendenza della Tanzania (1961-2011). Le sorprese continuano: ad esempio, la pubblica denuncia di incesto subito da una figlia da parte del padre (programma radiofonico del 23-24 febbraio 2011). «Ai miei tempi» fatti del genere venivano sepolti nell’omertà generale.
Omertà che avvolge ancora l’aids. L’uomo della strada non ne parla. Qualcuno, incalzato da eventi tragici, incomincia ad alludervi come «malattia di questi giorni». La stampa si sofferma sulla vicenda di qualche sieropositivo, senza tuttavia raccontare come si contrae il virus. Però qualcuno incomincia a dire: «Sconfiggeremo l’aids se muteremo i nostri costumi sessuali».
Ricordo, infine, la nozione di «ovvio». Ciò che per me è «ovvio» non sempre lo è, e nella stessa misura, per il tanzaniano. L’«ovvio tanzaniano» è changamoto!
 
Come vedi il futuro della Tanzania?
Pensando al futuro, non bisogna avere fretta né, tanto meno, invocare colpi di bacchetta magica di fronte ai mali che affliggono la società tanzaniana. Ciò vale per tutti i paesi in ogni angolo del mondo. Chi può dire che la crisi economica italiana e mondiale finirà domani o dopo domani?
Personalmente scommetto nel futuro positivo della Tanzania. La buona volontà c’è; le risorse pure: gas naturale, ferro, oro, pietre preziose, uranio. Grandi le possibilità nel settore turistico. Per non parlare della risorsa di sempre: l’agricoltura, anche se in balia della pioggia. Però la ricchezza delle ricchezze sono i 44 milioni di tanzaniani e tanzaniane (soprattutto). Moltissimi sono giovani, che studiano.
Recita un proverbio swahili: elimu ni mali (la conoscenza è un capitale). Non basta il canto, il tamburo, la danza. Bisogna leggere, pensare, capire, scrivere e «formarsi»: soprattutto alla stregua del Vangelo. Carestie, guerre e aids sono emergenze crudeli. La «formazione» è prevenzione e cura di ogni miseria. Anche della «stregoneria».

Della stregoneria che dici?
Qual è il flagello dell’Africa subsahariana? La povertà generalizzata o la ricorrente siccità? La corruzione politica o la mancanza di progettazione? Oppure l’aids? «L’aids» sembrerebbe la risposta più immediata e pertinente oggi. Invece no. La grande calamità dell’Africa (e della Tanzania) è la stregoneria. Oggi come ieri. Lo sostiene Gabriel Ruhumbika, scrittore tanzaniano in Janga sugu la wazawa (La piaga contagiosa degli indigeni), un romanzo in swahili sulla stregoneria nella Tanzania contemporaneo e nella società africana in generale (vedi pag. 24). Il fenomeno non riguarda solo la gente comune, i disperati che voglio allontanare dalla loro vita il malocchio e la sfortuna; ma a consultare gli stregoni sono gente istruita, persone responsabili del mondo politico e finaziario, e perfino preti e suore, in cerca di un futuro migliore, di prestigio e ricchezza.
Il libro di Ruhumbika è stato scelto dal ministro dell’Educazione in Tanzania come testo di letteratura swahili per la scuola secondaria: speriamo che, oltre a insegnare la lingua nazionale, contribuisca a sconfiggere questo fenomeno irrazionale, ma molto radicato nella cultura africana. Ma ci vuole pazienza e costanza, anche da parte della Chiesa.
Come si sta muovendo la Chiesa locale?
La Chiesa gode di prestigio e di autorevolezza. Però preti e vescovi sono troppo assillati dal problema «soldi» per le loro attività. Le collette di denaro diventano sempre più frequenti: anche tre in una sola messa. I cattolici capiscono e rispondono bene, ma incominciano a essere stanchi, perché la vita è costosa, dato il costante aumento del prezzo dei generi alimentari.
Pure le feste religiose (ordinazioni di sacerdoti, consacrazioni di vescovi, giubilei, ecc.) sono esageratamente dispendiose. Non mancano i fedeli che si indebitano per partecipare a una celebrazione. Tuttavia c’è un aspetto positivo: di fronte a un’iniziativa della comunità, i cattolici non si tirano indietro, perché sanno che «la chiesa siamo noi».
In genere i messaggi dell’episcopato cattolico sono incisivi anche politicamente. Nel presente dibattito per la nuova costituzione politica, i vescovi ammoniscono: «Alcuni leaders politici, invece di impegnarsi a scrivere una costituzione che difenda i beni e i diritti di tutti, specialmente dei bisognosi, cercano di tutelare solo il loro interesse; inoltre, introducono nella nuova costituzione idee contrarie al piano di Dio».

Cosa ne pensano il cardinale Pengo e padre Massawe?
Attento e critico verso le forze politiche è, soprattutto, il cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar Es Salaam. Nel 2011, in occasione del cinquantenario di indipendenza del paese, dichiarò: «Durante questi 50 anni abbiamo ottenuto numerosi successi. Ora dobbiamo far sì che, quando celebreremo i 100 anni, non si dica: “Era meglio al tempo dei colonialisti!”. Oggi la nazione conta gruppi di traditori, egoisti, vanagloriosi, pronti anche a uccidere chi si oppone ai loro progetti» (cfr. Mwananchi 14-8-2011; MC. maggio 2012).
A proposito del cinquantenario, non meno forte è padre Lello Massawe, superiore dei missionari della Consolata in Tanzania, che dichiara: «In questi giorni, prima della festa dei 50 anni, sentiamo ripetere dalla radio e dalla televisione: “Abbiamo avuto coraggio, siamo capaci, andiamo avanti”. Sono parole frutto di una politica sporca. Io non vedo alcuna verità in esse. Abbiamo avuto il coraggio di far che cosa? Abbiamo avuto il coraggio di mungere la gente, abbiamo avuto il coraggio di rubare ai poveri più di quanto abbiamo loro dato per aiutarli ad uscire dalla povertà» (cfr. la rivista Enendeni, dicembre 2011).

Il rapporto con gli altri cristiani: luterani, anglicani, «salvati» (walokole)…
È un tema molto significativo per noi missionari. Cito ancora il cardinale Pengo, da me intervistato. Il presule ritiene che il rapporto fra cattolici, luterani e anglicani sia buono. Ad esempio, le «tre Chiese», nell’università di Dar Es Salaam, pregano nella stessa chiesa, come pure condividono la cappella dell’ospedale Muhimbili, sempre a Dar. Ma con il gruppo dei «salvati» (walokole) il discorso cambia: costoro vanno a caccia di fedeli dappertutto, da una chiesa all’altra, ingannando le persone. «Meglio il rapporto con i musulmani, perché sappiamo come sono».

Parliamo, allora, dei musulmani…
Molti musulmani rivendicano dallo stato la costituzione del «tribunale islamico» secondo la legge coranica. Però il presidente Jakaya Kikwestern, musulmano, ha risposto: «Se volete questo tribunale, costituitevelo voi stessi. Lo stato non può intervenire nei problemi religiosi delle varie religioni». Però tanti musulmani non accettano questa posizione e ritornano alla carica nello stesso parlamento.
Ciò che maggiormente preoccupa, secondo il cardinale Pengo, è il disprezzo verso i cristiani. Alcuni musulmani insultano i cattolici apertamente, anche di fronte alle forze dell’ordine, che fingono di non sentire. I cattolici, pro bono pacis, sopportano tutto in silenzio senza reagire. Fino a quando?

Che cosa fai a Bunju?
A Bunju opero nel Consolata Mission Centre, a metà strada tra Dar Es Salaam e Bagamoyo, con altri tre confratelli.
Il Centro viene additato come un faro che illumina presente e futuro, tutto e tutti. E veramente tutti ne usufruiscono: uomini e donne a livello personale o in movimenti, professori e studenti, catechisti e seminaristi, vescovi e preti. Tante le suore. Tantissimi i giovani, con prezzi scontati. La luce che il faro sprigiona è pure ecumenica, giacché il Centro ha aperto i cancelli anche a non cattolici: ai luterani, per esempio. Non mancano ambientalisti né leaders politici, tra cui musulmani.
Dopo una complessa gestazione, nel 2008 i missionari della Consolata diedero alla luce il Consolata Mission Centre: per pregare, pensare e cambiare. È un Centro che parla all’intera Tanzania, con la «missione» sempre protagonista.
Il Centro ospita pure la redazione della rivista Enendeni (Andate), di cui sono direttore. È modesta nella veste tipografica, ma si impegna ad essere propositiva nei contenuti, specialmente in tema di formazione evangelica, di giustizia e pace. L’editoriale di marzo scorso recita: «Se manchi di giustizia verso l’altro, le tue preghiere, i tuoi digiuni e le tue offerte della quaresima sono ipocrisia…».
È, però, paradossale che un mzungu (straniero), dallo swahili quasi indecente, diriga una rivista in tale lingua… Ancora una volta sono di fronte a un changamoto, una sfida: rinascere in Tanzania a quasi 70 anni, con i capelli bianchi e la schiena già incurvata dalle intemperie della vita.
Tuttavia ringrazio la Madonna Consolata.

Romina Remigio

Romina Remigio




La grande calamità

Stregoneria in Africa

Vero flagello dell’Africa bantu è la stregoneria: lo sostiene Gabriel Ruhumbika, scrittore tanzaniano di 73 anni, nel suo romanzo sociologico Janga Sugu la Wazawa (La piaga contagiosa degli indigeni). L’autore si addentra in uno dei meandri più affascinanti e inquietanti della cultura bantu: la stregoneria, appunto.
L’intera famiglia dell’anziano Ninalwo viene sterminata (misteriosamente) da eventi oscuri. A nulla servono i tradizionali riti propiziatori per arrestare un morbo crudele ed endemico come la peste. O le voraci cavallette.
«Stregoneria» è un termine astratto, dietro al quale si muovono, però, losche figure in carne e ossa, temute da tutti, eppure assai ricercate.
Eccolo «lo stregone» del romanzo di Ruhumbika. Non ha un nome solo, bensì tre: è nello stesso tempo padre Joni (prete cattolico), Alhaji Sheikh Isa (musulmano) e Simba Mbiti (presunto professore).
Joni è un giovane prete, troppo… disinvolto verso le donne. Però un giorno incontra una vergine che gli si oppone con veemenza, ferendolo in testa con la pietra con cui sta macinando la farina. Il prete, deriso da tutti, si vendica contro… la religione cattolica del papa di Roma: aderisce all’islam e si trasferisce in Senegal.
Nel nuovo contesto socio-religioso il personaggio non è più soltanto padre Joni, bensì il musulmano Alhaji Sheikh Isa. Gode di quattro mogli. La prima, la più importante, è ricca e bellissima. Però, con la menopausa, diventa brutta, cicciona e le spunta persino la barba. Il consorte si consola «passeggiando» con altre donne. Ma l’ex bella non accetta l’affronto: con l’ausilio di alcune esperte comari immobilizza il marito infedele, lo denuda e minaccia di castrarlo.
Padre Joni-Alhaji Sheikh, intimorito, abbandona il Senegal e ritorna in Tanzania, dopo aver derubato la facoltosa moglie di tutti i suoi quattrini. Ora padre Joni-Alhaji Sheikh è pure il professor Simba Mbiti, stregone potente, famoso e temuto, con un codazzo di manutengoli, assassini, che eseguono i suoi ordini malvagi. Ad esempio: attaccano la donna che, anni prima, ha svergognato il loro padrone; la uccidono e recano allo stregone, come trofeo, l’intero basso ventre della vittima. Misfatti del genere si susseguono a catena. Organi sessuali, cuori, nasi, orecchi e altre parti del corpo umano vengono venduti, a caro prezzo, dal losco stregone. Sono i suoi farmaci miracolosi, i suoi portafortuna infallibili, i suoi amuleti onnipotenti.
I clienti chi sono? Sono i pezzi da novanta del governo, della finanza, del commercio, delle miniere d’oro e diamanti, della polizia. Frequentano padre Joni-Alhaji Sheikh-Simba Mbiti per aumentare il loro prestigio: la loro ricchezza, soprattutto.

Il romanzo di Ruhumbika è anche uno specchio della società politica della Tanzania. Racconta che nel 1985 l’onesto Julius Nyerere lascia di sua volontà la presidenza della repubblica. Gli succede Hassan Mwinyi, proveniente dall’isola di Zanzibar. I tanzaniani del continente gli appioppano il termine ruksa (o rushwa): ossia «bustarelle», corruzione, denaro facile a palate. Chi è corruttore-corrotto affonda le mani nelle casse dello stato e le ritrae piene di bigliettoni. È anche così che sperpera il denaro pubblico. Al governo non restano che debiti.
Tra gli arricchiti spicca Joni-Alhaji Sheikh-Simba Mbiti, prete-musulmano-professore, che esercita «il commercio della stregoneria».  Questo traffico – scrive Ruhumbika – cresce nell’arricchire i personaggi del potere. Non sono molti, tuttavia determinano le sorti dell’intera comunità.
Però è un traffico molto rischioso. Tutto può repentinamente mutare: e si piomba nella povertà o si affoga in un mare di guai. A prescindere dal fatto che la stregoneria rappresenta una grave minaccia per la vita e la sicurezza della famiglia (Cf G. Ruhumbika, op. cit., p.187). Figli e figlie, mariti e mogli scompaiono «misteriosamente».
A lungo andare e dopo cocenti delusioni da parte dei clienti dello stregone, può scattare la caccia allo stesso stregone e la feroce vendetta.
Tale sorte non risparmia neppure padre Joni-Alhaji Sheikh-Mbiti Simba: stanato dal suo ufficio criminoso, viene linciato in pubblica piazza da alcuni suoi ex clienti, tragicamente delusi dal professore. Naturalmente gli astanti non vedono, non sentono, né sanno nulla (Ibidem, pp.173-175).
Contro il fenomeno della stregoneria – termina il romanzo di Ruhumbika – è in corso una lunga e complessa guerra psicosociale. Però la vittoria arriverà, perché il proverbio recita: penye nia pana njia (se c’è la volontà, c’è la strada). Così in Africa nascerà la famiglia della speranza. Ognuno potrà coricarsi alla sera e alzarsi al mattino senza il terrore dello stregone. Tutti potranno soddisfare il loro ideale di progresso: in pace, serenità e sicurezza.

Francesco Beardi

Francesco Beardi




Il paradiso degli orchi

Italiani e turismo sessuale

A Fortaleza e a Natal gli italiani sono disprezzati. E con ragione. I nostri connazionali hanno in mano il business sporco. Sono inoltre tra i turisti più assidui delle due città brasiliane. La stragrande maggioranza di loro non cerca però le spiagge, bensì la prostituzione, compresa  quella minorile. E, sull’aereo di ritorno a casa, se ne vanta. Senza neppure provare un minimo di vergogna…

Natal (Rio Grande do Norte). «Quella là non è il mio tipo: troppo bassa, troppo piatta». L’attenzione del gruppetto si concentra su una giovane brasiliana non molto alta e non troppo formosa.
L’autore dell’indagine anatomica è un italiano sulla sessantina, tracagnotto, dall’accento regionale marcato e dallo sguardo che saetta da una donna all’altra, tra le tante che affollano la sala d’attesa dell’aeroporto di Natal. Il resto dell’allegra brigata è formato da connazionali di varie età, tutti di ritorno da una «gita turistica» nel Nordest del Brasile.
Volano altri commenti e apprezzamenti per questa o quella, tra sgomitate e risate sguaiate.
Lo spettacolo è a tratti ridicolo, quando non del tutto indecente: il branco di italiani schiamazzanti e gesticolanti si racconta ad alta voce le prodezze sperimentate durante il viaggio alla scoperta delle bellezze locali, possibilmente giovanissime e a volte (o spesso?) minorenni, incuranti del fatto che qualcuno – italiano o brasiliano che sia – possa capire e scandalizzarsi. O, semplicemente, vergognarsi di loro e di condividere la stessa patria.
Ad un tratto, tra le sedie della sala d’aspetto, passa una bella ragazza dai capelli lunghi, in pantaloncini corti e maglietta aderente, e qualcuno della compagnia fa il gesto di tirare una manata sul sedere, ma è trattenuto dal vicino. «Ehi, vuoi che ti mettano dentro?», gli chiede ridacchiando il compagno.
Già, in Brasile la fama dei cacciatori di sesso facile italiani s’è ormai diffusa, e le misure contenitive e punitive si sono fatte sempre più severe, nel corso degli anni. Prostituzione, e droga, speculazione edilizia e altro ancora, in vaste aree del Nordest sono in mano ai nostri connazionali, che hanno pienamente contribuito a renderci odiosi alla popolazione locale. In certe città, dove essi si sono distinti per corruzione e sfruttamento, o utilizzo, della prostituzione, in particolare minorile, e spaccio di stupefacenti, il solo parlare in italiano può essere pericoloso, o, comunque, fortemente sconsigliato.
Il razzismo nei nostri confronti è, infatti, fortissimo, e motivato dalla diffusione delle attività sopracitate, in cui diversi nostri compatrioti si sono distinti particolarmente.

PARADISO PER CHI?
Fortaleza (Cearà), marzo 2012. Entriamo in un internet-caffè in una via a ridosso del lungomare, e ci sediamo nel dehors all’aperto. Ordiniamo dell’acqua di cocco e approfittiamo per chiedere, in portoghese, al proprietario come mai tutti i clienti, seduti a fumare e a bere caffè, parlino in italiano. Ci risponde che sono nostri connazionali – lui compreso – che lavorano in Brasile o che trascorrono qui le vacanze. «Questo Paese è il paradiso per noi – dice convinto -. Non toerei più in Italia, per nessuna ragione. Qui ho trovato la mia fonte di guadagno e di vita».
Ci guardiamo intorno: il locale è sgarrupato, fatiscente, con sedie e tavoli di plastica, sporchi, quattro o cinque computer vecchio modello, un bancone sovraffollato di cianfrusaglie e un cesso degno di questo nome… Possibile, ci chiediamo, che abbia trovato «l’America», con questo postaccio e vendendo connessioni internet lente, caffè, sigarette e acqua di cocco?
Mentre ci frullano in testa diverse domande che non osiamo rivolgergli, lui ci risponde da solo: intermedia l’affitto (a prezzi stratosferici, scopriremo dopo) di appartamenti per le vacanze – vacanze di tutti i tipi – per italiani che approdano in queste zone del Brasile, depresse, sporche ma dalle bellissime spiagge e con giovani donne povere e travestiti che si vendono in mezzo alla strada.
Da lì a poco, a foirci ulteriori risposte, arriva un gruppetto di nostri compatrioti accompagnato da un paio di rumorose ragazze locali, che salutano affabilmente il nostro ristoratore.
Non ci vuole molto a capire come Piero (nome di fantasia) abbia trovato il paradiso in Brasile. E come non sia il solo italiano ad essersi sistemato economicamente in questo modo, lo scopriremo nei giorni successivi, entrando in altri bar, ristoranti e internet-caffè, e osservando il traffico umano che vi si articola di giorno e di sera tardi davanti e all’interno.
Visitando altre zone della capitale dello Stato del Cearà, con minore presenza di italiani, e parlando con la gente, ci rendiamo conto di quanto siano disprezzati, se non addirittura odiati, i nostri connazionali che hanno fatto delle vacanze a scopo sessuale, o dello  sfruttamento stesso della prostituzione, il leit motif della loro vita. Ne arrivano a frotte, ancora adesso, nonostante i provvedimenti punitivi anche esemplari (nei casi di sfruttamento di minorenni), introdotti dalle autorità brasiliane. Semplicemente, si sono fatti più furbi… e spesso mascherano le loro avventure con lo sport – il surf va per la maggiore in spiagge da sogno o in altri paradisi naturali, così come il nuoto o le escursioni -, il business, i «fidanzamenti via internet».

ITALIANI, BRUTTA GENTE
Il quartiere degli italiani a Fortaleza si chiama Praia de Iracema: è un borgo degradato che l’amministrazione municipale sta ristrutturando, cercando di mandare via i nostri connazionali.
Gli italiani residenti nella città sono circa 20mila, ma altrettanti vivono in clandestinità.
La maggioranza è arrivata lì alla ricerca di sesso a buon mercato. Altri sono coinvolti nel giro della prostituzione, dello spaccio e degli affari loschi.
La nostra padrona di casa ci spiega che «forse tra gli italiani ci saranno anche persone oneste, ma non è questa l’esperienza che ci siamo fatti qua, con loro. Abbiamo incontrato solo gente terribile. Possiamo pensare, certo, che costoro appartengano alla fascia sociale più degradata del vostro Paese, ma qui essi rappresentano tutti voi, e lo fanno nel peggiore dei modi. Noi li evitiamo in tutte le maniere non vogliamo avere nulla a che fare con loro e con i loro traffici».
In un bar italiano sulla spiaggia e meta di nostri connazionali, apprendiamo che i proprietari e gli avventori residenti in città da tempo si ingegnano, con molta fantasia e astuzia, a frodare i nuovi arrivati in cerca di sistemazione abitativa, lavoro o, molto spesso, di sesso a pagamento. Questi confidano sul fatto che il locale è gestito e frequentato da italiani, che certamente offriranno aiuto e appoggio. Invece si ritrovano ingannati: vengono proposti loro appartamenti a costi altissimi, rispetto al mercato locale, e si ritrovano presto in giri illegali e di prostitute che cercano di spillare loro quanti più soldi possono.
Un italiano proprietario di una clinica e in Brasile da dieci anni ci spiega che, per non essere visto, tutte le mattine entra dalla porta di servizio, perché i pazienti – tutti della media borghesia brasiliana – non devono sapere di avere a che fare con uno che arriva dall’Italia. Smetterebbero, infatti, di fidarsi e sceglierebbero un altro centro medico.
Un altro nostro compatriota, con un’agenzia immobiliare, ci racconta che alcuni italiani andavano lì, compravano dei terreni, e facevano un progetto per la costruzione di un palazzo o di un grattacielo: i brasiliani, com’è consuetudine, acquistavano gli appartamenti sulla carta, dando una caparra e pagando delle rate fino alla fine della costruzione, ma si ritrovavano senza niente, imbrogliati e defraudati dei loro soldi. I costruttori, infatti, una volta vendute tutte le abitazioni, scappavano con il capitale raccolto facendo perdere le loro tracce.
Casi come questi – insieme a prostituzione, spaccio e altre illegalità – hanno contribuito a rendere il nostro popolo, la nostra lingua e cultura, oggetto di ostilità e razzismo.

INTERNET: FIDANZAMENTI E  PROSTITUZIONE
Ci sono ragazze fidanzate a decine di italiani contemporaneamente, e tutto via Facebook, email, Skype. Ce ne sono tante che vivono così, accalappiando uomini di ogni età e ceto sociale – meglio se danarosi, però – con l’aiuto – il know-how – di chi vive, malavitosamente, in Brasile da anni.
La giovane adesca una preda su internet, cerca di avviare una relazione amicale o sentimentale virtuale: nel giro di qualche settimana, lei si trasforma nella «mia ragazza in Brasile». Lo scopo, ovviamente, è una trappola: attirare qui il malcapitato credulone o depravato e spennarlo per bene. Lei lo raggirerà dicendo di essere molto povera e di aver bisogno di soldi per la famiglia o per cure mediche per una zia inesistente.
Per scoprire questo traffico basta sedersi per qualche giorno in alcuni internet-point della città e, facendo finta di essere impegnati in conversazioni via Skype, o letture di quotidiani online, osservare ogni movimento e ascoltare le conversazioni di queste fanciulle: un mondo di oscuri traffici, di raggiri, imbrogli vi si dispiegherà tutt’intorno.
Dall’altra parte, a 10mila chilometri di distanza, ciascun fidanzato, collegato in chat su Messenger, Fb o Skype, è certo che la dolce ed esotica brasileira sia solo per «lui», non sapendo di far parte di un nutrito gruppo di aspiranti amanti e di essere cascato in una armadilha, una trappola ben programmata, con attori e comparse, e con collaboratori italiani che lucreranno sulle sue disavventure.
Gestendo bene i tui di viaggio in Brasile, ognuna di queste prostitute invita ciascun fidanzato a passare del tempo con lei. Dopo un paio di settimane a Fortaleza, essi ritornano in Italia con il portafoglio vuoto e, probabilmente, con la carta di credito azzerata dai debiti, ma racconteranno agli amici di avere una meravigliosa morosa innamorata e in attesa della prossima vacanza insieme.
Tali e altre pratiche criminali sono ben note alla polizia federale, che spesso esegue controlli e blitz per individuare gli italiani coinvolti in questi giri e senza permesso di soggiorno.

«PORTATORI DI CRIMINALITÀ»
Non sono pochi i fogli di via e i rimpatri forzati dati ai nostri connazionali colti in flagrante attività illecita e senza documenti.
Le nostre leggi sull’immigrazione e i nostri media ci hanno abituati a scene di espulsione coatta ai danni di disperati giunti nel nostro Paese a bordo di barconi scassati, che noi identifichiamo come «portatori di criminalità», facendo di tutta l’erba un fascio, e confondendo clandestini senza permesso di soggiorno e delinquenti.
Qui, sulle coste nordestine del Brasile siamo noi, spesso, i clandestini, gli spacciatori, gli sfruttatori della prostituzione, gli adescatori di altri italiani, gli imbroglioni. I disprezzati. Siamo noi ad apparire nella cronaca giudiziaria dei giornali o dei Tiggì, e motivo di vergogna per altri connazionali onesti.

Angela Lano e Feando Lattarulo

Angela Lano e Feando Lattarulo




Contadini con i piedi per terra

L’agricoltura comunitaria e famigliare

Nelle società africane e latino americane esiste un movimento di contadini. Identità e tradizioni, ma anche approccio comunitario, sono le loro armi. Per un’agricoltura al servizio dell’uomo (e della famiglia), e non dell’arricchimento di pochi. Ecco il libro, imperdibile, che racconta queste storie.

«Noi siamo le nostre  risorse, le nostre tradizioni» sostiene lo storico leader dei contadini senegalesi Mamadou Cissokho – nel suo libro intitolato «Dio non è contadino» – proponendo all’Africa e alla sua anima rurale un percorso di riappropriazione della propria identità, in un mondo globalizzato che tende ad utilizzare gli agricoltori per scopi economici, espropriando loro terre, risorse e conoscenze.
Comunità, contro individualismo
«La comunità è la dimensione centrale della società pre-capitalistica ed è esattamente la dimensione che ci è stata sottratta dalla modeizzazione, che ha messo al suo centro l’individuo. Le organizzazioni contadine riescono talvolta a recuperare la dimensione comunitaria e occorre quindi definire le strategie che accompagnano questo tipo di azioni…» scriveva qualche anno fa il professor Enrico Luzzati, scomparso nel 2008, promotore di ricerche e riflessioni sulle realtà contadine africane e latinoamericane, e grande sostenitore di un modello di sviluppo rurale che abbia al centro la comunità e una via cornoperativistica alla produzione e al commercio (il professor Luzzati è stato collaboratore di MC sui temi dell’economia alternativa, ndr).
Costruire relazioni
I contadini come soggetto centrale, la ricerca, la cooperazione sul campo fatta dalle Ong – in particolare dalla Cisv di Torino -: il libro «Con i piedi per terra. Lavorare con le organizzazioni contadine nei progetti di cooperazione allo sviluppo» coniuga questi tre elementi con un approccio di ricerca-azione.
«Accompagnare le organizzazioni contadine del Sud del mondo vuol dire costruire prima di tutto, insieme ai progetti e alle azioni concrete, una vera relazione di partenariato, basata sul rispetto e l’autonomia»: ricordiamo nel libro (vedi box).
Il testo ha come filo conduttore un’idea politica forte: l’agricoltura familiare e cornoperativa, e le organizzazioni e i movimenti contadini a essa legati, costituiscono una chance per il futuro dell’umanità, in particolare quella più povera, e per la sostenibilità del pianeta.
L’approfondimento teorico del tema è presentato in un excursus sulle categorie e caratteristiche delle organizzazioni di agricoltori e sui modelli di produzione utilizzati; inoltre si trovano in esso un’analisi ed esempi concreti di modalità, metodi e approcci di accompagnamento del mondo contadino e del lavoro comune, anche al fine di migliorare l’efficienza, l’efficacia, la partecipazione, la sostenibilità e l’impatto dei progetti.
Storie di vita contadina
Ma la forza del libro è soprattutto nella narrazione della vita dei movimenti, della storia dei suoi leader, delle relazioni di scambio e collaborazione tra persone e popoli diversi. Nel volume «Con i piedi per terra» possiamo leggere le vicende, le fortune e le traversie storiche di diverse organizzazioni contadine, e come esse si sono rapportate nel dialogo e nella collaborazione con le Ong nei progetti di cooperazione.
Veniamo a conosceza della storia di Djibril Diao, figlio di contadini diventato lui stesso imprenditore agricolo, produttore di riso del villaggio di Ronkh nel Nord del Senegal, rappresentante e animatore dell’organizzazione Asescaw, che è arrivato fino a presiedere una tavola rotonda mondiale di contadini all’incontro di Terra Madre, vivendo concretamente uno scambio tra piccoli produttori di ogni continente.
La lunga carriera di Beard Lédéa Ouedraogo (MC ha presentato la sua storia, luglio-agosto 2010), attivissimo ancora a 85 anni e leader storico del movimento Naam in Burkina Faso, organizzazione che è riuscita a valorizzare un territorio arido, a mantenere i giovani nei villaggi a trasformare la propria realtà. Ancora, la storia di Felicité passata in 15 anni da animatrice di progetto a presidente di una cornoperativa per lo stoccaggio e la vendita del riso. E di Nazaria Tum, che in Guatemala ha condotto le Comunità di popolazioni in resistenza (Cpr della Sierra) attraverso anni di difesa nonviolenta nelle selve montagnose del Quiché. Mentre oggi anima un’organizzazione di donne indigene che lotta per i propri diritti e per non farsi espropriare le terre dagli interessi delle multinazionali minerarie e idroelettriche appoggiate dai governi.
Storie «con i piedi per terra» che ci raccontano del mondo rurale povero e delle possibilità che esso ha di diventare sempre più un riferimento per un’umanità che sta rovinando le risorse ed i rapporti sociali sulla terra; storie di legami di cooperazione dalle quali si traggono strumenti di lavoro per collaborare e per crescere nell’ambito dei progetti di cooperazione e sviluppo.

Federico Perotti

Federico Perotti