Il lago che dà vita

Reportage dal Lago Mweru


Al confine tra Zambia e Congo Rd, il Lago Mweru è una
risorsa per decine di migliaia di persone. Ma negli ultimi anni i pesci sono
diminuiti, mentre i pescatori sono aumentati a dismisura. Occorre puntare su attività
alternative, come la piscicoltura. Mentre la Cina sta invadendo il mercato di
pesce surgelato.

Mweru significa «lago» in alcune lingue Bantu, per
questo, spesso, quando la gente del posto si riferisce al lago Mweru, lo chiama
semplicemente Mwelu (la pronuncia locale sostituisce la r con la l). Da sempre
le acque del lago, che fanno parte del bacino del fiume Congo, secondo per
portata d’acqua solo al Rio delle Amazzoni, hanno costituito un’immensa fonte
di ricchezza per gli abitanti dei due paesi confinanti: lo Zambia, sull’argine
meridionale e la Repubblica Democratica del Congo al Nord.

Nonostante la passata gloriosa ricchezza delle acque,
oggi pescatori, commercianti e contadini fanno tutti la stessa constatazione: «Nel
lago Mweru non ci sono più pesci».

La pesca dagli anni Settanta è diventata in queste zone
un’attività sempre più attrattiva. Essendo libera, perché non è richiesta
alcuna licenza, e priva di regolamentazione, il numero di pescatori è cresciuto
immensamente e nel 2011 sul lago se ne contavano oltre 22.000. Per contrastare
l’impoverimento delle acque dal 1986 lo Zambia ha attivato un periodo annuale
di divieto di pesca, che va dal primo dicembre al primo marzo, per permettere
ai pesci di riprodursi. Nel 2011 è stata anche promulgata una legge che
istituisce il reato della pesca illegale: chi durante il periodo di divieto
viene sorpreso a pescare o in possesso di pesce è sanzionabile con multe e con
la reclusione. Tuttavia, le autorità responsabili non hanno mezzi sufficienti
per garantire l’applicazione del divieto. Eest Ngula, del Dipartimento della
Pesca nel municipio di Nchelenge, lo dice chiaramente: «Le barche che abbiamo
per il pattugliamento sono vecchie, non abbiamo sufficiente benzina e non
sempre siamo scortati dagli agenti della polizia».

Risorse da condividere

Come ci spiega Joyce Nsamba, la
rappresentante per il ministero dell’Agricoltura e Allevamento dello Zambia
(che si occupa anche di pesca) nella provincia di Luapula, nel Nord del paese,
il fiume Luapula, che traccia il confine tra Zambia e Rd del Congo prima di
gettarsi nel lago Mweru, non è una vera frontiera. I pescatori di entrambi i
paesi ne traggono la loro unica fonte di sostentamento e lo attraversano
quotidianamente.

Sono numerosi i congolesi che vivono sul
versante dello Zambia. Pochi sono registrati ufficialmente, ma preferiscono
questo lato perché i servizi e le infrastrutture, malgrado siano scarse, sono
migliori che sull’altro versante. In generale non ci sono problemi di
convivenza, ma non ci sono neanche politiche di gestione comune, né un sistema
condiviso per raccogliere informazioni sullo stato delle risorse ittiche.

Lo stesso vale per il lago Mweru. Anzi, gli
approcci utilizzati sono molto distinti. Lo Zambia ha optato per una
co-gestione della pesca, ovvero un sistema dove vengono coinvolti in comitati
locali i pescatori, le autorità tradizionali e i funzionari del ministero, per
promuovere una gestione sostenibile delle risorse anche attraverso la
sensibilizzazione e la diversificazione delle fonti di reddito. In Congo,
invece, il sistema di controllo è gestito dall’esercito, spesso corrotto.

A inizio giugno, un pescatore dello Zambia è
stato ucciso dai militari perché trovato in acque congolesi mentre praticava la
pesca illegale. In passato, si sono spesso verificati casi di arresti e
detenzione, ma la morte del pescatore ha suscitato scalpore. Il presidente del
distretto di Nchelenge, Mudenda, spiega che adesso anche dal lato dello Zambia
arriveranno alcuni contingenti dell’esercito per aiutare nel controllo del lago
e per ridurre la pesca illegale. Malgrado sia necessaria una gestione più
uniforme ed efficace del lago, il rischio in questo modo è di promuovere una
militarizzazione delle acque.

La pesca è vita

I pescatori sono persone semplici e a basso
reddito, spesso la pesca è la loro unica fonte di sostentamento e con l’attuale
stato delle risorse ittiche, usare metodi illegali è diventato per loro il solo
modo per riuscire a sopravvivere. I metodi più diffusi sono l’utilizzo di reti
molto fini, come le zanzariere, per riuscire a catturare i pesci anche di
piccola taglia, ma si ricorre anche a esplosivi rudimentali e al veleno
chiamato localmente ububa. Di notte nel lago si possono vedere delle
tenui luci galleggianti: sono i pescatori che cercano di scappare ai controlli.

Il dottor Abila, esperto di risorse ittiche
che lavora nella Provincia di Luapula per fornire assistenza tecnica al
ministero dell’Agricoltura e Allevamento, è convinto che occorra insistere sul
principio di co-gestione della pesca e promuovere attività alternative per i
pescatori, in particolare l’acquacoltura: «Il pesce fa parte della dieta
locale, la domanda di questo prodotto è superiore all’offerta disponibile, e
per questo la pesca di allevamento ha potenziali enormi. Però occorre appoggio
tecnico, e un credito iniziale per avviare l’attività. Ci sono già oltre 2.000
vasche di allevamento nella regione, ma la produttività è bassa e poco
redditizia, specie per il costo degli alimenti da dare ai pesci. Stiamo
portando avanti il principio di allevamento integrato, ovvero associare
all’acquacoltura, la produzione agricola e l’allevamento di polli, galline e
maiali, perché gli scarti animali e vegetali sono un ottimo alimento per i
pesci. Ma ci va del tempo per avere risultati, e i cinesi sono già dietro
l’angolo con i loro pesci surgelati, pronti a invadere il mercato».

Attualmente infatti si calcola che l’80% del
pesce consumato in Zambia sia importato da Cina e Zimbabwe. In Cina la pesca
d’allevamento è sussidiata e i prezzi sono più competitivi, mentre in Zambia
l’acquacultura è ancora molto disorganizzata, non beneficia di economie di
scala e non riceve sufficiente supporto dalle politiche governative.
L’agricoltura è sempre stata sussidiata dallo stato, attraverso la
distribuzione di fertilizzanti e l’acquisto del mais a un prezzo sovvenzionato,
invece la pesca e l’allevamento non hanno beneficiato di analoghi incentivi.

Commercio al femminile

Se la pesca sul lago Mweru è attività
principalmente maschile, la commercializzazione dei pesci è riservata alle
donne. Si riuniscono all’alba sulle rive del lago e aspettano, armate di
bacinelle, l’arrivo delle piccole barche sgangherate dei pescatori, che sono
letteralmente prese d’assalto ancora prima di toccare terra. «Siamo troppe
commercianti, ormai è diventato durissimo ottenere il pesce da vendere. È una
vera lotta, ogni mattina. Non c’è abbastanza pesce per tutte» spiega Janet, del
quartiere di Queens, municipio di Nchelenge. Lei, insieme ad altre donne, fa
parte dell’Associazione della Pesca di Luapula. Hanno uno spazio dove fare il
mercato, i prezzi sono prestabiliti e la qualità è garantita.

Il principale prodotto del lago è la tilapia,
la comprano a unità, sei pezzi costano 50 kwacha (la valuta locale,
circa sei euro), e li rivendono a 60 kwacha. In media vendono circa
sessanta pesci a giornata, per un ricavo totale di 60 kwacha. I prezzi
variano in base alla stagione, ma il ricavato è abbastanza costante.

Poi c’è il periodo del divieto della pesca,
dove è proibito commercializzare il pesce fresco. Resta il pesce sotto sale e
affumicato che si conserva a lungo. Disposti sui banchi, infatti, si vedono
anche ordinati i pesciolini dorati e bianchi, conservati con delle tecniche
tradizionali tipiche degli isolani.

«I pesci secchi li preparano gli indigeni
delle isole, è da loro che li compriamo» ricorda Janet. Nel lago Mweru ci sono
varie isole flottanti, e sul versante dello Zambia due sono le più estese e
abitate da oltre 28.000 persone. Sulle due isole però non c’è alcun tipo di
servizio: né scuole, né ospedali, né elettricità. In queste comunità, la piaga
dell’Hiv è ancora preoccupante: l’alta mobilità dei pescatori, le relazioni di
potere con le commercianti, i flussi transfrontalieri e lo scarso accesso a
strutture sanitarie ne favoriscono la diffusione, malgrado si possa constatare
una generale consapevolezza e informazione sulla malattia.

Lungo la strada che costeggia il fiume Luapula
si vedono ragazzini con pesci in mano che cercano di vendere alle rare macchine
che passano. Chisela ha un sorriso fulminante mentre mostra la sua «preda»: è
un pesce gatto di oltre quattro chili. Il dottor Abila spiega che i pesci nella
stagione della pioggia, tra maggio e ottobre, risalgono dal lago il corso del
fiume dove si riproducono. «Vedendo pesci di questa taglia è difficile
affermare che ci sia un sovra-sfruttamento biologico delle risorse ittiche; è
invece più corretto parlare di sovra-sfruttamento economico delle acque dovuto
a una crescita sproporzionata del numero di pescatori, barche e reti. Oggi, per
darvi un dato chiaro, la resa della pesca annuale di un pescatore è di circa la
metà di quindici anni fa: si è passati da 1,3 tonnellate a 0,6».

Morgan, cornordinatore del comitato per la
gestione della pesca del villaggio di Chitondo lo dice chiaramente: «Mwelu non è
più quella miniera d’oro che era in passato; dobbiamo prendee atto, e
comportarci di conseguenza».

Ermina
Martini


Insieme per il lago

Nella regione di Luapula il ministero dell’Agricoltura e
l’Allevamento, supportato dai programmi di cooperazione  promossi da Finlandia e Giappone, ha
istituito 136 comitati di villaggio per la gestione della pesca. Sono gruppi di
volontari, in media otto per ogni comitato, eletti a livello di villaggio, che
hanno ricevuto formazioni specifiche e assumono la responsabilità di promuovere
il rispetto delle norme della pesca attraverso la sensibilizzazione e il
controllo.

Fare parte del comitato è vissuto come un onore, ma non
mancano le frustrazioni. Spesso i membri dicono di non avere nessuno strumento
per operare, e usare il controllo sociale e dare il buon esempio non sono
sufficienti.

Bisogna promuovere attività alternative per i pescatori, come
l’agricoltura e l’allevamento, ma il ministero manca dei mezzi. Nelle
sensibilizzazioni si parla anche dell’aspetto ambientale per prendere coscienza
di come il lago stia cambiando e del problema dell’Hiv.

E.M.

Ermina Martini




Lasciamoli in pace

La questione dei popoli incontattati.


Le tribù indigene
incontattate non sono un’invenzione degli ambientalisti. Che fare con esse?
L’esperienza storica dimostra che il contatto con l’uomo bianco per loro è
stato quasi sempre fatale. Per le malattie, la violenza o la prevaricazione. Il
nostro dibattito sul tema continua ospitando le riflessioni dell’organizzazione
internazionale «Survival».

Molti
ricorderanno le immagini della tribù amazzonica isolata fotografata alla fine
del maggio 2008 in Brasile, appena al di qua del confine peruviano. Nonostante
il tono sensazionalista con cui molte testate diffusero la notizia, le immagini
raggiunsero l’obiettivo di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica
mondiale sulla minaccia che gravava sui popoli della zona. L’esistenza delle
tribù incontattate non poteva più essere considerata una leggenda tipo quella
del mostro di Loch Ness, come affermavano l’allora presidente del Perú Alan
García e i portavoce della compagnia petrolifera di stato nel tentativo di
svicolare dalle proprie responsabilità. E nemmeno «un’invenzione degli
ambientalisti». Pochi mesi dopo, il giornale britannico The Observer,
responsabile di aver insinuato che le fotografie fossero una farsa e una
«bufala», dovette presentare le sue scuse ufficiali ai lettori e a Survival
per aver fornito una versione «menzognera e distorta» dei fatti.

A scattare quelle immagini aeree e ad affidarle a Survival
era stato José Carlos dos Reis Meirelles, un funzionario della Funai (il
dipartimento governativo agli affari indigeni del Brasile) preoccupato per il
drammatico esodo verso il Brasile di alcuni gruppi di indiani incontattati del
Perú. Le loro terre erano invase in modo crescente da taglialegna illegali e
compagnie petrolifere autorizzate dal governo peruviano a compiere prospezioni
e trivellazioni anche negli angoli più remoti della foresta, dimora ancestrale
di alcuni dei popoli più isolati del paese. Quelle attività rischiavano di
decimare o addirittura sterminare la tribù all’insaputa del resto del mondo,
com’era già accaduto troppe altre volte nel passato.

Quanti
sono i popoli incontattati contemporanei e quali minacce pendono sul loro
futuro? Secondo le nostre stime, i popoli indigeni che vivono senza alcun
contatto con il mondo esterno sono almeno un centinaio. La loro consistenza
numerica varia molto. Da un solo sopravvissuto, come nel caso «dell’uomo della
buca» individuato nel 2006 nello stato brasiliano di Rondônia, fino a cento o
duecento persone. Vivono in ambienti diversi: dagli angoli più remoti della
foresta amazzonica fino alle isole dell’Oceano indiano. Non è dato sapere
quanti esattamente siano, ma sappiamo con certezza che esistono: lo provano le
tracce che lasciano dietro di sé (utensili e case abbandonate frettolosamente sotto
l’avanzare degli invasori), e alcuni incontri fortuiti e fugaci.

In Asia li troviamo nelle Isole Andamane e in Nuova
Guinea. Nell’America del Sud, dove si ha la concentrazione maggiore, ci sono
almeno 60 tribù. Oltre 40 risiedono entro i confini del Brasile, 15 in Perú. Il
resto vive tra Bolivia, Colombia, Ecuador e Paraguay. Ognuno di questi popoli è
unico e le loro lingue, le loro culture e le loro visioni del mondo sono
insostituibili. Sono sicuramente i popoli più vulnerabili del pianeta.

Dei popoli incontattati si sa poco, se non che il loro
isolamento è sempre frutto di una scelta obbligata, compiuta per sopravvivere
alle invasioni. Molti di loro hanno sofferto la perdita dei loro cari per mano
dell’uomo bianco nel corso di decenni di massacri silenziosi o per effetto del
dilagare di epidemie. Sono proprio le malattie introdotte dall’esterno,
infatti, a costituire la principale causa di morte tra loro, perché non hanno
difese immunitarie contro virus da noi molto comuni come l’influenza, il morbillo
o la varicella.

Spesso, sono essi stessi dei sopravvissuti, o discendono
da sopravvissuti ad atrocità commesse in epoche precedenti. Violenze
raccapriccianti che hanno lasciato segni indelebili nella loro memoria
collettiva, inducendoli a rifuggire da ogni contatto con il mondo esterno. Gli
antenati degli attuali popoli amazzonici isolati furono sterminati dal fenomeno
brutale e devastante della schiavitù che accompagnò il boom del caucciù alla
fine del XIX secolo. Il 90% di loro morì. I popoli incontattati vivono tutti in
modo autosufficiente: di ciò che la foresta dona loro. Le loro vite sono
profondamente legate a quella del loro ambiente. Per questo, la protezione
delle terre che abitano e delle risorse che utilizzano è fondamentale per la
loro sopravvivenza. Spesso lo stile di vita nomade o seminomade (basato sulla
caccia, sulla pesca e sulla raccolta) è il risultato delle persecuzioni che
hanno sofferto, come nel caso degli Awá brasiliani. Si pensa infatti che un
tempo gli Awá fossero agricoltori stanziali, e che si siano solo
successivamente frammentati in gruppi di 20-30 persone sotto l’avanzata dei
bianchi, passando poi alla vita nomade, che offriva più alte possibilità di
sopravvivenza. Nessuno sa con esattezza quanti siano (probabilmente 460, di cui
un centinaio vive completamente isolato nelle foreste dello stato del
Maranhão), ma possono certamente essere considerati la tribù più minacciata
della Terra. Sette di loro morirono nel 1979, avvelenati con la farina intrisa
di un pesticida letale lasciata «in dono» dai coloni… Oggi sono assediati da
orde di taglialegna illegali che, quando li vedono, li uccidono. La maggior
parte dei popoli incontattati vive ancora oggi in fuga perenne. Cercano di
sopravvivere rifugiandosi in luoghi sempre più remoti. Tuttavia, l’avanzata
della cosiddetta «civilizzazione» sta rendendo sempre più difficile la loro
stessa sopravvivenza. In ogni paese del mondo sono circondati su tutti i
fronti: le compagnie petrolifere e di disboscamento invadono i loro territori
in cerca di risorse naturali, i coloni usurpano le loro terre e le convertono
in allevamenti di bestiame e aziende agricole. Le strade attraversano le loro
terre aprendo le porte a bracconieri, missionari fondamentalisti e turisti, e
introducendo il rischio di incontri violenti e malattie. Le foreste da cui
dipendono per il loro sostentamento vengono tagliate a ritmi vertiginosi; la
selvaggina è sempre più scarsa.

Alcuni pensano che i popoli tribali, in particolare
quelli incontattati, siano reliquie del passato, reperti archeologici destinati
inevitabilmente all’assimilazione culturale ed economica, oppure
all’estinzione. Ma non è così. Certamente, la loro estrema vulnerabilità alle
aggressioni estee è aggravata dal mancato riconoscimento del loro diritto
specifico all’isolamento volontario. Eppure, la storia dimostra che laddove le
loro terre vengono riconosciute legalmente e protette in modo adeguato, il loro
futuro è assicurato. Al contrario, il primo contatto forzato costituisce sempre
un’enorme minaccia e, quasi invariabilmente, qualsiasi sia la ragione per la
quale viene compiuto, si trasforma in una catastrofe fatta di impoverimento,
malattia, disperazione e morte.

In
Perú, padre Piovesan (vedere riquadro di pagina 28, ndr) – alla radio e
su altri mezzi di comunicazione – continua a porre ai suoi ascoltatori una
domanda solo apparentemente innocua: «Si salva un popolo se lo si isola o se lo
si integra? Si migliora una comunità mettendola a contatto con altri o
mantenendola isolata?». A lui Survival e tutti coloro che hanno a cuore la vita
dei popoli indigeni non possono che rispondere in un solo modo: «Se, come e
quando interagire con il mondo esterno è una decisione che spetta solo a loro,
e a nessun altro». Riconoscere e proteggere il diritto alla proprietà della
terra dei popoli indigeni, inclusi quelli incontattati, è la chiave della loro
sopravvivenza. Solo così potranno mantenere il controllo delle loro vite e
decidere autonomamente del loro futuro lasciandosi alle spalle secoli di
colonizzazione e patealismo. Il diritto alla terra e all’autodeterminazione
sono sanciti oggi anche dalla Convenzione Ilo 169, che è la legge
internazionale più importante in materia di popoli indigeni, e dalla
Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni e tribali approvata dall’Onu nel
settembre 2007. Non possiamo cambiare il passato ma possiamo certamente evitare
che la storia si ripeta semplicemente facendo rispettare la legge.

Francesca
Casella*

*
Dal 1989 Francesca Casella è direttrice della sede italiana di Survival Inteational.
Collaboratrice di varie testate giornalistiche, ha curato l’edizione nazionale
del volume Siamo tutti uno. Omaggio ai
popoli indigeni della Terra
. SITO: www.survival.it

Scheda ______________________

I popoli isolati del Perú


Basta un raffreddore

Nelle regioni più remote del Perú
vivono almeno 15 popoli isolati distinti. Alcuni entrarono in contatto con il
mondo esterno tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, durante il boom
del caucciù che li decimò e li spinse a scegliere l’isolamento per assicurarsi
la sopravvivenza. Altri gruppi, invece, potrebbero non essere mai entrati in
contatto con l’esterno. Tra i gruppi di cui si conosce il nome ci sono gli
Isconahua, i Capanahua, i Cacataibos, i Murunahua, i Mastanahua, i Machigengua,
i Nanti, gli Ashaninka e i Mashco-Piro.

Sono quasi
tutti cacciatori-raccoglitori nomadi e vivono di caccia e pesca. Amano le uova
di tartaruga, che raccolgono lungo le rive dei fiumi in primavera, quando le
acque si ritirano. Alcuni coltivano piccoli orti. Sono concentrati soprattutto
nel Perú Sud orientale, ma ci sono stati avvistamenti anche nel Nord-ovest,
vicino al confine con l’Ecuador, e a Nord-est, al confine con il Brasile. Tra i
fiumi più frequentati ci sono il Tahuamanu, il Las Piedras, il Los Amigos, il
Manu, il Purús, il Curanja, lo Yurua e il Serjali.

Oltre la metà
dei Nahua, che all’epoca erano incontattati, fu sterminata nei primi anni ’80,
quando iniziò l’esplorazione petrolifera nella loro terra. La stessa tragica
sorte toccò ai Murunahua a metà degli anni ’90, dopo il contatto con i
taglialegna che abbattevano illegalmente il mogano. Jorge è uno dei Murunahua
sopravvissuti, e ha perso un occhio durante il contatto. «Con i taglialegna
arrivò anche l’epidemia – ha raccontato a noi di Survival -. Prima non
sapevamo nemmeno cosa fosse un raffreddore. La malattia ci ha uccisi. La metà
di noi sono morti. Mia zia è morta, mio nipote è morto. È morta la metà del mio
popolo».

Nonostante
siano state create cinque riserve a uso esclusivo degli indiani isolati, i loro
territori continuano a essere invasi diffondendo violenze e malattie letali. La
situazione è particolarmente grave là dove si trovano alcune delle ultime
riserve di mogano rimaste al mondo: approfittando della mancanza di efficaci
controlli da parte dello stato, i taglialegna illegali saccheggiano le foreste
liberamente mettendo a repentaglio la vita dei popoli isolati che vi abitano.
Il governo peruviano ha anche autorizzato alcune compagnie petrolifere a
condurre prospezioni nelle terre di queste tribù, facilitando ulteriormente
l’ingresso di coloni e taglialegna in zone che un tempo erano remote. Altre
gravi minacce vengono dalla ricerca mineraria, dalla costruzione di nuove
strade e da missionari estremisti che vogliono entrare in contatto con gli
indiani isolati a qualsiasi costo.

Survival sta
cercando anche di fermare l’espansione del gigantesco progetto energetico
Camisea all’interno della Riserva Nahua-Nanti, promosso dalle compagnie
petrolifere Pluspetrol, Hunt Oil e Repsol. I lavori comporterebbero il
disboscamento di aree di foresta pluviale, la detonazione di migliaia di
cariche esplosive e la perforazione di pozzi. L’espansione viola sia le leggi
peruviane sia quelle inteazionali, ed è contestata anche dalla Commissione
Onu per l’eliminazione della discriminazione razziale (Cerd), che ha chiesto la
sospensione immediata del progetto.

Francesca
Casella

Opinione ________________________

Purús (Perú): Una lettera da «Survival Inteational»


Una questione di vita o di morte

I commenti di padre Miguel Piovesan
e monsignor Francisco González Heández – pubblicati da MC nell’ottobre 2013 (Senza
uscita
) – sono estremamente faziosi e omettono dettagli importanti sui
problemi che deriverebbero dalla costruzione di una strada di collegamento tra
le città di Puerto Esperanza e Iñapari. Vi scriviamo quindi per chiarire alcuni
punti e permettere ai Vostri lettori di comprendere meglio la vicenda.

Puerto
Esperanza è una comunità isolata del Perú sud-orientale, al confine con il
Brasile. Come molte altre città amazzoniche (anche grandi come Iquitos), Puerto
Esperanza non è raggiungibile su strada ma solamente via fiume o,
limitatamente, per via aerea. Una parte degli abitanti è costituita da coloni,
ed è soprattutto la loro voce che padre Miguel Piovesan e monsignor Francisco
González Heández hanno riportato nelle loro lettere. Tuttavia, l’80% della
provincia del Purús è abitata da diversi popoli indigeni che vivono sia
all’interno della città sia in insediamenti estei.

Non solo. In
questo angolo isolato del Perú vivono anche altri gruppi di persone. Sono gli
indiani incontattati: gruppi che non hanno alcun contatto pacifico con il mondo
esterno e attraversano frequentemente il confine tra Perú e Brasile. Si pensa
appartengano alla tribù dei Mashco-Piro e sono state raccolte molte prove della
loro esistenza proprio lungo il percorso proposto per la strada. Cancellarli
dal dibattito significa omettere la ragione principale per la quale questa
strada non può essere costruita, né legalmente né eticamente.

Gli indiani
incontattati sono tra i popoli più vulnerabili del pianeta. Non hanno difese
immunitarie verso le malattie portate dall’esterno e, spesso, è accaduto che in
pochissimo tempo almeno la metà di una tribù sia stata sterminata dalle
epidemie introdotte con il «primo contatto».

Oltre a
questi pericoli immediati dovuti al contatto, la costruzione della strada
provocherebbe anche la rapida distruzione della loro foresta. Prove evidenti si
trovano poco distante da lì, in Brasile, proprio a Est della strada proposta.
Le immagini satellitari mostrano quello che è definito l’effetto «a spina di
pesce» provocato dalla costruzione della strada BR 317: una volta aperto
l’accesso a terre un tempo remote, la regione è stata invasa da voraci
taglialegna e ampie zone di foresta sono state disboscate.

Secondo padre
Miguel Piovesan e monsignor Francisco González Heández, per la popolazione
del Purús la strada costituirebbe «la salvezza» poiché porterebbe, dichiarano,
lo «sviluppo» di cui hanno bisogno i poveri abitanti del luogo. È innegabile
che in quest’area vi sia una vergognosa mancanza di sostegno da parte del
governo. Allo stesso tempo, però, è indubbio che la strada porterebbe più
problemi che benefici non solo ai gruppi incontattati ma anche ai popoli
indigeni locali, la maggioranza dei quali si è detta fermamente contraria al
progetto.

Survival difende i diritti dei popoli
incontattati, in Perú e nel resto del mondo. Le tribù incontattate non possono
essere consultate sulla strada o su qualsiasi altro progetto di «sviluppo» che
li riguardi. Per loro, la strada proposta nel Purús causerebbe solo la
diffusione di malattie, la distruzione della loro terra e, in conclusione,
segnerebbe la loro fine. Sono gli abitanti originali di questa regione, com’è
possibile ignorare i loro diritti territoriali?

Padre
Piovesan ha definito gli indiani «arretrati» e tecnologicamente «preistorici».
Durante la sua trasmissione radiofonica settimanale, che si scaglia con
veemenza contro qualsiasi individuo o organizzazione si opponga alla «necessità
urgente» di costruire la strada, si è riferito agli indigeni del Purús
chiamandoli addirittura «porci e vermi»1. Ma è impossibile immaginare in
che modo questo progetto possa portare qualche tipo di «sviluppo» positivo agli
indiani incontattati del Purús. Per questi cacciatori-raccoglitori nomadi,
infatti, la terra non è solo sacra, ma è anche essenziale per la sopravvivenza.
Senza la foresta, cesserebbero semplicemente di esistere.

Infine, non
si deve dimenticare che la costruzione della strada sarebbe illegale sia
secondo la legge peruviana sia secondo quella internazionale, e che il progetto
è stato definito «impraticabile» e «incostituzionale» da tre ministri
peruviani. Se la strada venisse comunque approvata, le conseguenze sulle vite
di migliaia di indigeni sarebbero devastanti2. Per risolvere il problema
dell’isolamento della regione non si possono spazzare via interi popoli.

Rebecca
Spooner, Survival
Inteational*, Londra

Note
(1)  Radio Esperanza: riportato nel documento
dell’organizzazione indigena Feconapu, giugno 2012, pagina 2, punto 4 (leggere nota del direttore di MC
a pagina 29, ndr).
(2)  Per maggiori informazioni, consigliamo di
leggere il rapporto di «Global Witness»: www.globalwitness.org.

(*)
Fondata nel 1969, Survival aiuta
i popoli indigeni di tutto il mondo a difendere le loro vite, a proteggere le
loro terre e a decidere autonomamente del loro futuro. Con sedi e centri di
supporto in Europa e negli Stati Uniti, Survival lavora perché vengano
riconosciuti ai popoli indigeni i loro diritti fondamentali contro ogni forma
di violenza, persecuzione e genocidio. Apartitica e aconfessionale, lavora a
stretto contatto con le organizzazioni indigene locali offrendo loro assistenza
legale e un palcoscenico da cui rivolgersi direttamente al resto del mondo;
promuove campagne di informazione e pressione per il largo pubblico e porta
nelle scuole laboratori di educazione alla diversità e alla pace. Sito multilingue:
www.survivalinteational.org.

Nota di redazione ________________

Un reportage da Madre de Dios di
Paolo Moiola, pubblicato nei mesi di giugno, luglio e agosto 2012, ha suscitato
l’indignazione del parroco di Puerto Esperanza (Purús), p. Piovesan, che lo ha
letto solo nel 2013 tornando in Italia per una vacanza. Su sua richiesta
abbiamo riconosciuto al sacerdote il diritto di replica sulla rivista di
ottobre 2013. Nell’articolo p. Piovesan e il suo vescovo, mons. Heández,
accusano amaramente i «Wwf-ecologisti» di manipolare dal di fuori la
situazione, non per il bene della gente locale ma per i propri fini.
L’organizzazione Survival Inteational, coinvolta nella vicenda, ha chiesto a sua volta il diritto di
replica, che concediamo volentieri in questo numero, pur non condividendone
alcune parti troppo ad personam.

Per noi, come rivista MC, il
dibattito circa la strada del Purús finisce qui. Non vogliamo diventare veicolo
di scambio di accuse a distanza tra persone e organizzazioni (da noi stimate)
che, pur avendo a cuore la stessa realtà, hanno visioni molto diverse e, almeno
al momento, non sembrano molto disponibili ad ascoltarsi.

Gigi Anataloni, Direttore di MC

 

Francesca Casella




Jampi Wasi, la casa della salute

Il diritto alla salute in Perù / 2:


A Lima, come in quasi tutte le metropoli del mondo, ci sono
le periferie delle periferie. A Corona, Pradera e in altri «insediamenti umani»
le persone arrivano dalle zone intee del Perù per cercare un nuovo inizio. Si
installano su una terra desertica, dove manca tutto. Vi trovano però anche
Gianni Vaccaro e Nancy Ortiz, una coppia che, attraverso una associazione solidale,
li aiuterà con servizi per la salute, l’educazione e il lavoro. Rifuggendo ogni
patealismo.

Tablada de Lurín. Il taxi cholo1 è scomodo,
traballante e rumorosissimo, ma per muoversi a Tablada – città di 60 mila
abitanti – è perfetto. Ci facciamo lasciare ai piedi del Cerro de las
conchitas
, la «Collina delle conchiglie», un nome poetico per un luogo che
poetico certamente non è. Percorreremo a piedi un paio di chilometri fino alla
sommità. La via è una ripida strada di sassi e sabbia che s’inerpica lungo la
collina. Le abitazioni sono abbarbicate sul pendio polveroso. La maggior parte
sono costruite con materiali poveri: tavole di legno di recupero, onduline di
eternit, cartoni, teloni di plastica, pareti di esteras2. Tuttavia,
oggi – sono ormai molti anni che frequentiamo questo luogo – un numero
crescente, benché ancora esiguo, di case (pur rimanendo molto umili) è in
mattoni, cemento e finestre dotate di vetri.

Corona Santa Rosa – questo il nome dell’insediamento
umano (asentamiento humano) – si è sviluppato sopra e sotto la strada
sterrata. Vi abitano oltre 1.500 persone, discendenti di quelle che, negli anni
Settanta3, invasero queste terre desertiche in cerca di
un’esistenza più dignitosa.

Nonostante i dati del Perù da anni evidenzino una
crescita economica importante, una parte rilevante della popolazione continua a
vivere in povertà, nell’interno del paese o in periferie come questa. Mancanza
di un lavoro stabile, cattiva alimentazione, assenza di controlli sanitari
regolari, violenza intrafamiliare, bambini e adolescenti che crescono senza una
normale istruzione scolastica, ragazze che rimangono incinte in età
adolescenziale, questi sono i principali problemi che ancora oggi affliggono la
popolazione.

CINQUE SOLES DI SALUTE

Le persone che incrociamo lungo la strada
salutano la nostra guida con un amichevole «professor Gianni…». Gianni
Vaccaro, sposato con Nancy Ortiz, quattro figli maschi, qui è una vera
istituzione. Nel settembre 2001 ha fondato l’Asociación de Desarrollo
Solidario Yachay Wasi
, un’associazione che a Corona si occupa di salute,
educazione, microcredito ed ecologia. Negli ultimi 13 anni la condizione degli
abitanti di Corona è migliorata soprattutto per merito suo. Oggi infatti essi
possono usufruire di un centro di salute, un centro educativo, un laboratorio
tessile e servizi altrimenti inimmaginabili in luoghi come questo.

Ecco la sede di Jampi Wasi, la «Casa della
salute». Il nome è in quechua, perché questa è la lingua madre della
maggior parte degli adulti. Ma esso serve anche a chi è nato qui e parla
soltanto spagnolo. «È un modo semplice – spiega Gianni – per ricordare alle
nuove generazioni la cultura di provenienza».

Un portone in ferro introduce in una stanza
che è un poliambulatorio in miniatura: c’è una piccola farmacia, un banco con
prodotti naturali e la reception dove si pagano, tra l’altro, i 5 soles4 della
visita (un costo dimezzato rispetto ai centri più economici). E poi ci sono due
stanze: in una si pratica l’agopuntura, nell’altra si fanno le visite.

Spiega Gianni: «A Villa María del Triunfo, il
distretto urbano di appartenenza, abbiamo solo un ospedale del ministero della
Salute e quindi un centro medico come il nostro è necessario per creare una
rete d’assistenza che possa filtrare i casi non gravissimi. Inoltre, noi
cerchiamo di lavorare molto per formare una cultura della salute in persone
che, per povertà e per ritrosia, vanno
in un centro medico soltanto se stanno estremamente male».

Le pareti sono piene di manifesti: per
riconoscere i farmaci contraffatti, per difendersi dal dengue, in favore
dell’allattamento al seno, per incentivare la donazione di sangue e altro
ancora. L’informazione serve per far crescere una cultura della salute e quindi
della prevenzione. 

Come il programma denominato Cred – «Crecimiento
y Desarrollo
» (crescita e sviluppo) -, dedicato a bambini da 0 a 5 anni per
prevenire eventuali problemi di salute. Spiega Gianni: «Controllando per tempo
psicomotricità, vista, udito, linguaggio, possiamo scoprire eventuali problemi
e curarli con maggiori possibilità di successo».  

Entriamo nell’ambulatorio di Luz Arevalo, una
medico giovane e timida con lunghi capelli neri e un bellissimo sorriso.
Scambiamo qualche parola, anche se le sottili pareti di compensato non agevolano
la conversazione. «Molti dei miei pazienti sono vicini di casa – racconta la
dottoressa -. Questo mi piace molto». Le chiediamo quali siano i problemi
principali che si trova ad affrontare. «Sono le patologie respiratorie. E poi
anemia e denutrizione, soprattutto con riferimento ai bambini». Domandiamo cosa
pensi di una sanità pubblica che è a pagamento o per persone assicurate. «Per
fortuna – ricorda Luz – esiste il Sis5, che offre cure mediche gratuite ai più
poveri. Certamente, se potessi fare una richiesta ai politici, direi loro che
sarebbe importante ampliare l’offerta medica nei confronti della popolazione.
Troppe persone non vedono mai un dottore». In Perú ci sono abbastanza medici,
ma mancano gli specialisti. Per questo Luz lascerà (temporaneamente) il centro
per dedicarsi agli studi specialistici. «Spero in chirurgia», ci dice al
momento dei saluti.

Adiacente alla prima, il centro medico
possiede una seconda, piccola sede, caratterizzata da scritte e disegni dai
colori sgargianti che vivacizzano un panorama generale dominato dal grigio.
Tramite i disegni si raccontano i diritti della persona e si mostra – con la
piramide alimentare – quale sia l’alimentazione più corretta per i bambini. Qui
vengono ospitati alcuni ambulatori e un piccolo laboratorio di analisi.

Il centro medico Jampi Wasi è frequentato da
una media di 450 persone al mese. «Ma in questo numero – precisa Gianni con una
punta di orgoglio – non sono incluse le persone raggiunte attraverso le nostre
campagne». Le campagne mediche sono visite che per un giorno, normalmente una
domenica, si offrono gratuitamente a tutta la popolazione, chiamando
specialisti in varie discipline (pediatria, ginecologia, nutrizione, ecc.).

Solidarietà, dignità, responsabilità 

Lasciamo le strutture di Jampi Wasi e ci
incamminiamo verso la sommità del Cerro de las conchitas, poche decine
di metri più in alto, dove l’associazione gestisce altre due strutture con
finalità diverse.

Nel piccolo laboratorio tessile di taglio e
cucito –Taller La Corona si chiama – lavorano una decina di signore del
posto. Progettano e confezionano maglie, tovaglie, borse. E soprattutto
insegnano ad altre una professione che non sia quella – consueta per gran parte
di queste donne – di venditrice ambulante.

Sul costone più alto della collina, al
termine della strada, c’è l’edificio delle attività educative: Yachay Wasi,
ancora un’espressione quechua per indicare la casa (wasi) del sapere,
della cultura, della saggezza (yachay). Ospita un frequentatissimo asilo e un
doposcuola per bambini e ragazzi delle scuole primarie e secondarie. Qui
lavorano 16 persone tra insegnanti ed educatori.

Come si paga tutto questo?, chiediamo,
scusandoci con Gianni per l’arida concretezza della domanda. «Siamo finanziati
– ci spiega – da strutture laiche (come alcune Ong italiane) e da alcune entità
religiose (come la Conferenza episcopale italiana). E poi ci sono gruppi di
amici che si autotassano mensilmente, a dispetto della crisi».  

Salute, lavoro, educazione: l’Associazione di
sviluppo solidale opera a 360 gradi, perché l’obiettivo – molto ambizioso – è
lo «sviluppo integrale della persona».

Cosa spinge una persona con moglie e figli a
dedicare la propria esistenza agli emarginati? Gianni Vaccaro, che ha una
giovinezza da seminarista, è molto legato alla teologia della liberazione (nata
proprio in Perú).

«Nel nostro lavoro la applichiamo con la
scelta preferenziale dei poveri, nella lotta contro una povertà ingiusta,
escludente, che uccide di morte lenta. Sono per una Chiesa dove la missione
religiosa non possa essere disgiunta dalla missione sociale urgente. Secondo
me, essa è chiamata a mettersi al lato dei deboli e degli oppressi, lottando –
appunto – per la loro liberazione. Se Giovanni Paolo II pensava l’appartenenza
cattolica come identità contro il comunismo, papa Francesco sembra voler
privilegiare la problematica sociale come contesto per l’evangelizzazione».

Nelle attività di aiuto ai meno fortunati il
pericolo si nasconde soprattutto nel patealismo, ma anche nella
sopravvalutazione di sentimenti quali la compassione e la carità. Gianni e
Nancy hanno evitato di cadere in questi errori agendo sempre nel solco di tre
concetti forti: solidarietà, dignità, responsabilità. Questa filosofia ha una
traduzione concreta: ogni struttura costruita dall’associazione di Gianni e
Nancy è proprietà dell’insediamento umano Corona Santa Rosa, entità
giuridicamente riconosciuta. Inoltre, la gestione delle stesse avviene in forma
comunitaria, coinvolgendo il personale e i dirigenti dell’asentamiento. «Soltanto
in questo modo – chiosa Gianni – i poveri possono assumere il ruolo di soggetto
attivo della trasformazione sociale».

Polvere e speranza

Siamo in cima alla collina pietrosa di
Corona. In lontananza, sul fondovalle, s’intravvede la grande fabbrica di cemento
(accusata di arrecare seri danni alla salute dei residenti)6. A destra,
sulle aride pendici si vedono le prime umili abitazioni di Pradera,
insediamento più giovane e più povero. Poco sotto di noi c’è un campetto di
cemento dove stanno giocando un gruppo di ragazzi. Un venticello rinfrescante
ma inevitabilmente polveroso (considerato che siamo in un deserto) porta
sollievo. Mentre la luce del tardo pomeriggio rende meno aspro il paesaggio
circostante.   

Paolo Moiola
Note
 1 – Mototaxi, si tratta di veicoli a tre ruote, tipo Piaggio Ape.
Vengono chiamati popolarmente «taxi cholo» perché sono usati soprattutto dai cholos, i migranti di origine
andina e amazzonica.
2 – Le esteras sono stuoie e canne di bambù intrecciate.
3 – In particolare negli anni 1968-1975, durante il governo di Juan
Velasco Alvarado.
4 – Un euro vale 3,7 soles (ottobre 2013).
5 – Sis, «Seguro integral de salud». Ne abbiamo parlato nella prima
puntata.
6 – Cementos Lima (gruppo Unacem). La fabbrica nega qualsiasi
inquinamento. Secondo il Copdes (www.copdes.org), l’inquinamento dell’aria
prodotto dall’attività è invece molto grave.

Tra pubblico e privato


L’ospedale è «nella» parrocchia

Quando lo stato è assente o troppo debole, quando le risorse
private sono insufficienti, per molte persone l’esistenza diventa ancora più
precaria. A Tablada de Lurín la locale parrocchia offre servizi – medici,
giuridici,

Tablada de Lurín.
Se non fosse per il nome che campeggia sul muro – Parroquia San Francisco de Asis (Parrocchia San Francesco d’Assisi) – , si potrebbe
pensare che l’edificio sia un centro civico che ospita una serie di servizi:
medici, giuridici, assistenziali. L’entrata della chiesa omonima si affaccia
sulla piazza, recentemente sistemata, di Tablada de Lurín, nella parte
conosciuta come «zona antica». I molteplici uffici si trovano invece sulla via
laterale. A guidare la parrocchia è padre Stuart Flores, ma il lavoro è portato
avanti da laici e volontari, soprattutto donne. Come Ines Villanueva che
indossa una maglietta contro la violenza sulle donne, fenomeno molto diffuso: «Ferma
la mano – recita la scritta -. Il maschilismo uccide e maltratta la donna» (Para la mano. El machismo mata y maltrata a la mujer). O come Rosa Pajares che, entusiasta, ci vuole
mostrare il centro medico, di cui è cornordinatrice.

L’ingresso è poco appariscente,
segnalato da una piccola targa che ricorda soltanto gli orari di apertura. Ma
dietro quella porta si scopre – con sorpresa del cronista – un piccolo mondo
fatto di ambulatori, medici, infermieri e naturalmente di pazienti. Sulle
pareti ci sono una pluralità di manifesti che pubblicizzano le vaccinazioni per
i bambini, ma anche per gli adulti: antipolio, antitetanica, quelle contro
epatite B, febbre gialla, morbillo, papilloma virus e altre ancora. Vicino alla
cassa, un avviso ricorda che le visite mediche costano 10 soles. Il centro
medico offre servizi di medicina generale, ostetricia, odontorniatria,
psicologia.

Rosa
ci apre le porte di alcuni ambulatori. Ecco le infermiere con un camice bianco
su cui è ricamato un San Francesco. Ecco il dentista che – impegnato su un
paziente – ci fa con la testa un segno di saluto.

Il
centro medico della parrocchia di San Francesco funziona e merita parole
d’elogio. Tuttavia, l’inadeguatezza, se non l’assenza, dello stato fanno
riflettere. Per troppi peruviani le cure mediche non sono un diritto acquisito
ma una conquista individuale da strappare ogni giorno. Con i denti, le unghie e
una buona dose di fortuna.

Paolo Moiola
 

Paolo Moiola




Pastori: non mollate il gregge

Parla monsignor Philippe Ouedraogo



Dalle stragi di Lampedusa all’integralismo islamico in
Africa. Dalla crisi di valori nella società burkinabè alle sfide della sua
Chiesa. Dall’impegno dei cattolici in politica alla formazione delle coscienze.
Colloquio con l’arcivescovo metropolitano di Ouagadougou.

Monsignor Philippe Ouedraogo è arcivescovo di Ouagadougou
dal 2010. Fin dal 1996 è stato vescovo di Ouahigouya, città nel Nord, a grande
maggioranza islamica. Lo incontriamo nel salone dell’arcivescovado, proprio
mentre nelle strade della capitale si festeggia la vittoria calcistica del
Burkina Faso sull’Algeria.

(Clicca sulla foto o sul simbolo per ascoltare l’intervista in francese su Youtube)

Monsignor Ouedraogo, come legge il dramma di Lampedusa?

«Oggi se si parla di Africa in Europa si parla di
Lampedusa. Un giornalista ha confrontato le migliaia di africani periti
nell’Atlantico a causa della tratta degli schiavi con i morti della migrazione
dall’Africa all’Europa. Forse è un po’ forzato come paragone. Le motivazioni
non sono le stesse e la situazione neppure.

Il Papa ha denunciato la mondializzazione
dell’indifferenza. In questo l’Europa è colpevole e ha anche delle
responsabilità: la colonizzazione, poi le indipendenze. Ora siamo in una
situazione catastrofica di povertà, di insicurezza a causa delle guerre, e
tutto questo contribuisce a far partire le persone. Ma noi, gli africani, cosa
abbiamo fatto per rendere vivibili i nostri stati? I responsabili si sono
riuniti ad Addis Abeba in questi giorni, hanno passato il tempo a parlare della
loro sicurezza, rispetto alla Corte penale internazionale, ma hanno trascurato
questo problema che è il più importante. Se i nostri governanti rubano, bisogna
giudicarli. L’autorità non è niente altro che un servizio. Se i dirigenti non
realizzano che sono in quella posizione per fare il bene del popolo, per il
bene comune, se saccheggiano le magre risorse, occorre giudicarli, a qualsiasi
livello.

Questa situazione di miseria che si perennizza, è sfida
enorme, e la responsabilità è grande sia a livello di chi governa sia della
popolazione. Bisogna lavorare, avere iniziativa, prendere il nostro destino in
mano. Dunque le responsabilità sono condivise».

Lo scorso luglio voi vescovi del Burkina Faso avete
scritto una lettera pastorale (box) critica nei confronti
dell’istituzione del Senato, voluto dal presidente. Una presa di posizione
coraggiosa.

«I vescovi sono dei pastori, dei servitori del popolo di
Dio. Se la situazione sociale, umana, sanitaria, alimentare, educativa, di sicurezza
della gente non interessasse noi pastori sarebbe una vera catastrofe. Abbiamo
una responsabilità comune e dobbiamo essere la voce dei senza voce. Siamo in
mezzo al popolo, siamo solidali con esso, abbiamo quotidianamente delle sfide
da affrontare, sulla povertà e sull’avvenire di questa gente. Siamo dei
cittadini come gli altri, e penso che abbiamo voce in capitolo. “Alla parola in
famiglia è convocato ogni membro della famiglia – diciamo in moore – al
lavoro della famiglia devono essere convocati tutti i membri della famiglia”,
compresi i vescovi: siamo anche noi membri della famiglia. Se la gente ci
rifiuta il diritto di parlare e vuole che stiamo confinati nelle nostre
sacrestie noi non siamo d’accordo, siamo qui e abbiamo una missione da compiere.
Abbiamo sottolineato che noi non abbiamo un ruolo politico, un ruolo
deliberativo, ma abbiamo un contributo da portare e teniamo a salvaguardare la
nostra neutralità e la nostra libertà per poter comunicare il Vangelo al
servizio di tutti gli uomini. È  per
questo che abbiamo preso la parola, perché ci sono quelli che non riescono a
farsi sentire, i poveri e i dannati della terra, gli analfabeti, chi vive in
campagna. Poi c’è la minoranza di coloro che vivono nell’agio e hanno tutto in
mano. Bisogna riequilibrare le cose, in modo che tutti abbiano, ognuno al
proprio livello, una parte irrinunciabile nel costruire il bene comune, a
cominciare dai responsabili».

Le parole di papa Francesco vanno un po’ in questo
senso. Hanno influenzato la vostra iniziativa?

«In Africa e in Burkina Faso siamo stati molto contenti
ed entusiasti dell’elezione di papa Francesco. Il fatto di essere un non
europeo è un segno molto forte. La Chiesa è universale, occorre un cambiamento
di mentalità, in particolare che i cristiani d’Europa cambino, a cominciare dal
Vaticano. E il papa ha centrato il problema. Qui abbiamo un’opzione pastorale
fondamentale: “Chiesa famiglia di Dio”. Il sinodo speciale per l’Africa del
1994 ha generalizzato questa opzione fondamentale per tutta la chiesa africana:
costruire la Chiesa famiglia di Dio attraverso le piccole comunità cristiane di
base. Siamo contenti che questo papa arrivi dall’altro lato del mondo e abbia
un’esperienza e una sensibilità particolare, che porterà qualcosa alla Chiesa.

Sono stato a Roma recentemente, ho partecipato
all’udienza del mercoledì, e sono anche andato ad Assisi e ho concelebrato con
il papa. Questo uomo è straordinario! Il fatto stesso che abbia scelto il nome
Francesco è un segno forte: riportare la Chiesa al Vangelo. Come dice Charles
de Foucault: “Se non viviamo il Vangelo, Gesù non vive in noi”. Costruire
insieme, come ha detto Bergoglio, una Chiesa al servizio, una Chiesa umile,
fratea. Io sono in profonda comunione con lui e quando l’ho potuto salutare all’udienza
gli ho detto: “Santo Padre noi vi amiamo”. E lui: “Pregate per me”».

Come è stata accolta la lettera pastorale nelle
parrocchie?

«La lettera è stata letta nelle chiese. Un uomo politico è
venuto da me a lamentarsi perché dopo la lettura la gente ha applaudito:
scandalo! “La Chiesa fa politica. Non mi ritrovo più in questa Chiesa”. Gli ho
detto: “Calmati, il prete ha letto la lettera, non ha chiesto alle persone di
applaudire. Voi organizzate le manifestazioni, e forse le persone vi
partecipano perché le pagate. Ma ci sono altre manifestazioni a cui la gente
partecipa senza essere pagata”. Questo significa che le persone si sono
ritrovate nelle parole della lettera.

Non tutti l’hanno apprezzata, i cristiani non hanno tutti
la stessa sensibilità politica. Alcuni sono furiosi contro il loro pastore: “Si
immischiano in cose che non li riguardano” pensano. Oppure: “Dovevano dare la
lettera a Blaise (Compaoré, presidente del Burkina Faso, ndr), senza
pubblicarla”. La Chiesa ha la sua maniera di lavorare. Noi vogliamo assumere il
nostro ruolo morale e spirituale, non politico. Per questo rifiutiamo di andare
all’Assemblea Nazionale a deliberare, ma se ci sono delle istanze di
concertazione, siamo disponibili. Sempre restando nella prospettiva della
dottrina sociale della Chiesa: la dignità della persona, il bene comune, la
solidarietà e il principio della sussidiarietà. La lettera va in questo senso.
I sacerdoti l’hanno accolta e l’hanno distribuita al popolo di Dio. La
parrocchia universitaria ne ha diffuso 20.000 copie. Non vogliamo l’unanimità
totale. Abbiamo alimentato il dibattito, la gente si interroga, e penso questo
possa contribuire alla maturazione politica.

Non abbiamo scritto la lettera per fare la lezione alle
altre confessioni. Abbiamo letto su Inteet: “Anche i musulmani e i
protestanti devono pronunciarsi”. Ma non abbiamo la stessa organizzazione o lo
stesso metodo di lavoro. Noi siamo in armonia con loro».

E qual è stata la reazione a livello del governo?

Sono stati piuttosto discreti. Mesi fa avevamo dato la
nostra posizione rispetto alla modifica dell’articolo 37 della Costituzione, e
loro hanno scritto contro di noi. Noi non abbiamo replicato. Ma questa volta
non ci sono stati scritti che ci attaccavano. Siamo stati convocati dal
presidente, al quale abbiamo spiegato il perché della lettera: non è per creare
problemi al paese, al contrario. Si può dare un’altra lettura, ma il nostro
obiettivo non è la sovversione, non è rovesciare Blaise, ma contribuire al bene
comune, alla pace e alla coesione sociale, che è una delle nostre ricchezze».

Ci sono esperienze di dialogo interreligioso a livello
nazionale o della sua diocesi?

«A livello della conferenza episcopale esiste una
commissione per il dialogo interreligioso, organizzata con gruppi nelle diocesi
e nelle parrocchie. Nell’arcidiocesi di Ouagadougou abbiamo una commissione
diocesana. In Vaticano c’è un Consiglio pontificio per il dialogo
interreligioso. Ogni anno produce una lettera rivolta ai musulmani, noi la
trasmettiamo ai nostri fratelli islamici che la leggono alla preghiera o
talvolta durante le feste.

In tutte le famiglie c’è una certa tolleranza. I legami
di sangue sono più forti dei legami di religione. Inoltre ci sono dei matrimoni
interetnici e questa è una fortuna per noi e in Burkina Faso non abbiamo
problemi. Nella mia famiglia la maggioranza è musulmana, poi ci sono cristiani,
e chi segue la religione tradizionale. Ci ritroviamo per gli avvenimenti felici
e tristi. A Natale i cristiani offrono da mangiare ai musulmani, e viceversa
per le feste islamiche.

In questi ultimi anni vediamo crescere un certo
integralismo, ma è davvero recente e noi lottiamo per salvaguardare la
tolleranza tra differenti comunità religiose ed etnico culturali.

Da parte mia tentiamo di avere relazioni fratee:
conoscersi, stimarsi reciprocamente. I musulmani non sono indifferenti a
questo.

Ogni anno durante la festa islamica della Tabaski vado
alla preghiera alla grande piazza della Nazione. Tra Natale e Capodanno il
presidente della comunità musulmana, il grande imam e una decina di imam
sono venuti qui a salutarmi. Questo ha provocato la reazione di alcuni giovani
integralisti, che sono andati ad assediare il grande imam per chiedergli
conto della sua visita all’arcivescovo. Chi c’è dietro a questi giovani? Ma
capi religiosi hanno scritto una lettera molto chiara nel senso del dialogo
interreligioso e noi andiamo nello stesso senso, perché è un’opzione della
Chiesa. Gli integralisti hanno
mandato a dirmi di non andare più alle feste islamiche. Ma io ci andrò a causa
di Gesù. È un po’ come diceva Martin Luther King per l’apartheid: “Voi
potete umiliarci e gettarci in prigione, ucciderci, ma non potrete mai
impedirci di amarvi”. Questa è la forza del Vangelo: la forza di amarsi.

Esiste un documento del Consiglio pontificio, “Dialogo
ed evangelizzazione”. Non si tratta di proselitismo, ma non ci dimentichiamo
che abbiamo anche noi un messaggio da proporre».

Nei paesi confinanti, Mali e Niger, c’è la guerra e il
pericolo Al Qaeda.

«I contesti sono simili ma diversi. Ad esempio la
proporzione di musulmani è molto più elevata in Mali e Niger. In Niger 95%, in
Mali 90%. In Burkina le statistiche ufficiali dicono che ci sarebbe il 60% di
musulmani, il 19-20% di cattolici, 5% di protestanti e il resto di religioni
tradizionali. Ma non sappiamo come hanno fatto queste stime. Quel che è certo è
che non si deve dare troppa importanza a questi dati, altrimenti si rischia di
scivolare nel confronto etnico-religioso. Anche in Niger e a livello delle
famiglie c’è la stessa configurazione di solidarietà di qui anche se l’islam è
maggioritario. L’islam sub sahariano è diverso da quello dell’Africa del Nord,
dove nella stessa famiglia non si tollera la conversione, mentre qui si accetta
che l’altro sia differente, di un’altra religione».

Il Burkina può essere considerato una frontiera per
l’integralismo islamico?

«Ci rendiamo conto che l’equilibrio è fragile: quello
che succede nei paesi vicini potrebbe anche arrivare qui: al Qaeda, Ansar Dine,
Boko Haram (vedi MC novembre 2012). Anzi, è possibile che ci siano già.
Dobbiamo essere molto vigili e lavorare insieme a livello delle diverse
confessioni e delle autorità per promuovere una cultura di tolleranza, a
partire dalla scuola e anche dalle prediche. La reazione dei giovani agli
auguri degli imam per Natale ha avuto un risvolto positivo, perché ha
causato una presa di coscienza nei musulmani, e nelle prediche hanno parlato a
favore della tolleranza e contro l’integralismo.

Siamo di fronte a delle sfide importanti, non solo a
livello di Burkina, ma a livello mondiale. Occorre cornordinare gli sforzi di
tutti per una cultura di tolleranza, come direbbe papa Giovanni Paolo II: “La
civiltà dell’amore”. Se non arriviamo a rispettarci di più, amarci, vivere come
fratello e sorella, sarà una catastrofe. E in questo la Chiesa ha un ruolo
unico perché ha un messaggio insostituibile per il bene dell’umanità: il
Vangelo».

In Burkina Faso esiste una frattura sociale tra la città
e la campagna?

«Non sono scompartimenti stagni. C’è chi vive in città,
ma ha la mentalità rurale. Poi i legami famigliari sono tali per cui il
cittadino resta in osmosi permanente con i parenti in campagna. Un funzionario
non può isolarsi rispetto alla famiglia al villaggio.

Nonostante questo, ci sono problemi. Dovremmo fare di più
per accompagnare i giovani. C’è analfabetismo, ignoranza, Aids. Tutto questo ha
delle conseguenze nefaste per la vita dei giovani. Poi il problema della
mancanza di lavoro. Chi è in campagna è più stabile di chi vive in città e non
ha nulla da fare. La tentazione è il banditismo. Ci sono delle nuove povertà in
città alle quali dobbiamo far fronte. I mendicanti, i bambini di strada. Stiamo
cercando di organizzarci per queste situazioni che non troviamo in villaggio,
dove c’è più solidarietà famigliare. La Chiesa non è sempre attenta o
attrezzata. Ma se non è la Chiesa dei poveri non è la Chiesa di Gesù Cristo.
Dobbiamo avere occhi e cuore aperti e attenti a queste situazioni vissute da
una grande parte della nostra popolazione.

In campagna c’è una grande mancanza di servizi di base,
come l’acqua potabile. Ma ci sono famiglie in città che non possono avere il
loro pasto ogni giorno e l’acqua nei quartieri periferici non c’è. Occorre
vedere caso per caso».

I vescovi del Burkina parlano della necessità di una
trasformazione profonda della società. Qual è il ruolo della Chiesa?

«La scuola è il luogo della trasformazione della mentalità.
I media, la televisione: la gente vede immagini da tutto il mondo con le
antenne paraboliche. Come Chiesa cerchiamo di essere al servizio di una società,
con queste grandi sfide. Non abbiamo la pretesa di risolvere tutti i problemi,
ma vogliamo essere presenti, un po’ come il buon samaritano che ha pietà del
povero ferito al bordo della strada. Ci sono molte donne e uomini feriti al
bordo della strada, e cerchiamo di portare quello che possiamo. A livello di
scuole primarie, secondarie e università. Abbiamo due università cattoliche
(Ouagadougou e Bobo-Dioulasso) e un istituto superiore a Kaya. Nella sanità
abbiamo l’ospedale Paul VI che ha difficoltà, ma rende servizio alla
popolazione. Nelle parrocchie ci sono i comitati di salute per la visita dei
malati. Inoltre esistono molte associazioni parrocchiali per aiutare i meno
abbienti. Tutto questo è modesto e insufficiente rispetto all’ampiezza delle
sfide».

Come vede l’impegno dei cattolici in politica in Burkina
Faso?

«È complesso. Due anni fa ho fondato la parrocchia
dell’università. Ha il compito di seguire le scuole superiori, circa 100 sulle
300 di Ouaga, le scuole professionali e le università. Io credo nella pastorale
dei gruppi sociali, ovvero la pastorale tra pari. I medici sono organizzati con
i Camilliani, ci sono gli uomini d’affari cattolici, i banchieri, i
parlamentari e un’organizzazione parrocchiale che forma l’élite intellettuale
alla dottrina sociale. L’idea è di contribuire alla formazione dei decisori
della nostra società».

Perché parlate di giustizia, riconciliazione, pace?

«Il riferimento è al Sinodo per l’Africa del 2009.
Queste restano le grandi sfide per tutta l’Africa. Anche per il Burkina Faso:
abbiamo bisogno di una società più riconciliata, abbiamo la nostra storia, con
la rivoluzione, le ferite profonde, e non è sicuro che esse siano guarite. Se
c’è stata una reazione forte dei vescovi rispetto alla creazione del Senato è
per salvaguardare la pace sociale: se un’istituzione deve essere creata e far
scoppiare l’insieme della società, qual è il bene di questa istituzione? È una
priorità?».

Marco Bello
Burkina Faso: mosse politiche del presidente padrone

 
Rotta verso il 2015: tempi difficili

In sella da 26 anni Blaise Compaoré le studia tutte per
restare al potere. Adesso sta creando un Senato alle sue dipendenze. Ma il
popolo non ci sta. E le manifestazioni di piazza sfociano nella violenza.

Il Burkina Faso si prepara a giorni travagliati in vista
del 2015, anno delle elezioni presidenziali. In quella data, infatti «scadrà»
Blaise Compaoré, al potere indiscusso dal quel lontano 15 ottobre 1987, quando
fece assassinare il presidente Thomas Sankara e 12 suoi stretti collaboratori.
Blaise, così viene chiamato in Burkina, è passato indenne attraverso elezioni,
multipartitismo, assassinii politici eccellenti del suo regime (come quello del
giornalista Norbert Zongo, ucciso il 13 dicembre 1998), lotte intee del suo
partito, il Cdp (Congresso per la democrazia e il progresso), modifiche
costituzionali. Ed è proprio la Costituzione del 1991, modificata nel 2005, che
ha ridotto la durata della presidenza da 7 a 5 anni, e imposto il limite a due
mandati. Compaoré rieletto nel 2005 e 2010, sarebbe, il condizionale è
d’obbligo, al suo ultimo mandato. Ma da mesi ormai, il presidente e i suoi
lavorano per cambiare quel famoso articolo 37 della Costituzione, che limita i
mandati presidenziali.

L’ultima trovata è la creazione di un Senato, che
porterebbe il Parlamento a un sistema bicamerale (attualmente si basa
sull’Assemblea Nazionale di 111 membri). Creazione anacronistica, visto che in
altri paesi della regione, come in Senegal, il Senato è stato soppresso per
tagliare i costi della politica. Così il 21 maggio scorso i deputati hanno
approvato la legge sul Senato che sarà composto da 89 senatori, di cui 29
nominati direttamente dal presidente, 39 eletti o designati dalla collettività
territoriali e 21 indicati dalla società civile.

Il calcolo politico è chiaro: con un Senato sotto il suo
controllo, il Cdp avrebbe con tutta probabilità la maggioranza qualificata di
due terzi dei parlamentari per modificare l’articolo 37.

Ma i burkinabè, popolo mite e tollerante, questa volta
sembrano non essere d’accordo. L’idea del Senato manda in ebollizione la società
del paese. Diverse manifestazioni investono le strade della capitale
Ouagadougou e di altre città del paese, a maggio, giugno e luglio. Alcune, in
particolare condotte dagli studenti, sfociano in atti violenti come sequestro e
distruzione di vetture di passaggio,  e
chiedono le dimissioni di Blaise. I giovani, il 59,1% dei burkinabè è sotto i
20 anni, diventano la spina nel fianco del presidente.

E la Chiesa non sta a guardare: il 15 luglio i vescovi
del Burkina Faso, che già si erano espressi in passato contro la modifica
dell’articolo 37, diffondono una Lettera pastorale dai toni pacati ma fermi,
che critica le nuove mosse del potere (vedi box).

Usa e Francia vorrebbero mantenere il paese nella
stabilità, vista la turbolenza che ha investito tutta la regione da circa due
anni (guerra in Mali, attentati qaedisti in Niger, gruppi integralisti in
Nigeria, ecc.). C’è chi dice che anche Blaise voglia farsi da parte (e per lui
si cerca una posizione di prestigio in una organizzazione internazionale), ma
il suo partito non è pronto e si scatenerebbe una guerra di successione. In
prima fila il fratello minore, François Compaoré, testa calda e implicato, tra
l’altro, nell’assassinio del giornalista Norber Zongo.

Marco Bello


La lettera pastorale dei vescovi del Burkina Faso
L’avvenire pieno di pericoli

Basta con clanismo, clientelismo e corruzione. Il Burkina ha
bisogno di una maggiore redistribuzione di ricchezza, trasparenza ed etica. I
vescovi prendono la parola contro la polveriera sociale.

Il 15 luglio scorso, i 16 vescovi
del Burkina Faso pubblicano una lettera pastorale sulla situazione del paese.
Esplicita sul malgoverno, è una presa di posizione forte. Nel testo, i prelati,
espongono la loro preoccupazione per la situazione politico-sociale del paese e
per le tensioni e agitazioni che lasciano trasparire un «malessere della società
burkinabè». Facendo un’istantanea la lettera descrive una società profondamente
cambiata, in cui l’alfabetizzazione e le conoscenze sono raddoppiate (dal 16%
al 32%), con un maggiore accesso all’informazione, grazie alle nuove tecnologie
e una maggiore presa di coscienza delle donne. Ma la «frattura sociale» sta
aumentando, con la base della povertà che si allarga, mentre il potere politico
ed economico interessa un gruppo sempre più ristretto. La lettera denuncia la «Crisi
di valori» con il denaro diventato valore di riferimento, più importante della
famiglia, della nazione, di Dio. I giovani sono sempre più emarginati e
rigettano e sfiduciano chi governa. Il malcontento profondo e il sentimento di
ingiustizia sfocia in un aumento della violenza.

«In questo contesto di grande
povertà e bisogno essenziali di base non coperti, quali salute, educazione,
lavoro, casa, cibo, che valore aggiunto fornisce il Senato?» si chiedono i
vescovi. Secondo l’opposizione, la camera alta costerebbe allo stato tra i 5 e
7,5 milioni di euro all’anno. «Le istituzioni sono legittime se sono
socialmente utili», continuano i vescovi.

La denuncia al potere assume
termini forti: «clanismo, clientelismo, corruzione finanziaria», da sostituire
con «democrazia consensuale, consultativa e inclusiva», perché «una democrazia
senza valori etici si trasforma facilmente in totalitarismo dichiarato o
soione in dispotismo legale». Il documento porta la proposta della Chiesa: «Affinché
il Burkina Faso non diventi una polveriera sociale occorre ricercare la
giustizia sociale, operare per una trasformazione sociale e democratica
profonda promuovere i valori cardinali di solidarietà e sussidiarietà. Questa
deve essere la preoccupazione di chi governa». E le raccomandazioni: «Più equità
nella distribuzione della ricchezza, più trasparenza nella gestione degli
affari pubblici, più etica nei comportamenti sociali e politici».

Marco Bello



Mons Philippe Ouedraogo è stato creato cardinale da papa Francesco il  22 febbraio 2014.

Marco Bello




Voglia di tenerezza

Tra i vari richiami di papa Benedetto XVI in riferimento
all’attuale situazione, ricordo quanto disse ai vescovi italiani: «In vaste
zone della terra la fede corre il pericolo di spegnersi come una fiamma che non
trova più alimento. Siamo davanti a una profonda crisi di fede, a una perdita
del senso religioso che costituisce la più grande sfida per la Chiesa di oggi.
Il rinnovamento della fede deve quindi essere la priorità dell’impegno della Chiesa
intera ai nostri giorni».

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Fede non limitata all’aspetto dottrinale, ma fede come vita, preghiera, celebrazione, trasmissione ad altre persone. Chi incontra veramente il Signore sente il bisogno di comunicarlo ad altri. I primi annunciatori sono coloro che hanno avuto gli occhi e il cuore pieni della visione del Cristo Risorto, come i discepoli di Emmaus, che possono considerarsi i cristiani di oggi: dubitano, sono delusi, ascoltano magari distratti, camminano con lui, mangiano insieme, lo riconoscono, ne restano abbagliati e corrono a dirlo agli altri discepoli. Così Matteo, la Samaritana, la Maddalena e le donne che corrono al sepolcro. Tutti dicono: «Abbiamo visto il Signore». È così sempre, fino a oggi.

Il racconto del cieco Bartimeo indica un cammino di fede: non si accontenta di correre da Gesù per essere risanato dalla sua cecità, ma rimane con lui, cammina sulla sua strada, lo segue, percorre il suo stesso cammino: «Getta via il mantello e balza in piedi» (Mc 10, 46-52).

Il problema grave del nostro tempo è che chi è stato avviato alla fede a volte si ferma, rimane a una fede bambina, del tempo del catechismo. O, peggio ancora, ritorna indietro, i suoi genitori non l’hanno fatto battezzare, rinviando tutto al solito ritornello che cioè toccherà a lui decidere quando sarà adulto, senza nessuna educazione religiosa (eppure è sempre prevista una educazione civile e umana). Magari sta alla porta della Chiesa, ma non vi entra, come dissero qualche anno fa i nostri vescovi, che sono ben consapevoli di questo fatto. Tuttavia, come scriveva Giovanni Paolo II all’inizio del nuovo millennio, anche le persone «del nostro tempo, magari non sempre consapevolmente, chiedono ai cristiani non solo di parlare a loro di Cristo, ma in certo senso di farlo vedere» (Novo millennio ineunte, 16).

Ci è di esempio e ci incoraggia in modo molto umano e sorridente la testimonianza di papa Francesco, la quale è chiaramente fondata sulla riscoperta dei contenuti veri della fede, perché diventi sempre più viva, solida e in crescita, essere «testimoni credibili e giorniosi del Signore risorto, capaci di indicare alle tante persone in ricerca la porta della fede» (Nota Pastorale per l’Anno della Fede). Senza gioia non si comunica nulla, non si dona nulla, ma si rifiuta qualsiasi dono, anche il più bello e il più costoso.

Impegno nuovo

È questo, per molti aspetti, un impegno nuovo chiesto ai cristiani di oggi. Perché? Cosa c’è di tanto nuovo nel nostro mondo da costringerci a cercare una nuova via di comunicazione della fede? In che senso è così diverso il mondo di oggi da quello di ieri, di non tanto tempo fa?

La prima novità è la cosiddetta globalizzazione. Messaggi di posta elettronica entrano a fiotti ormai nelle nostre case, e il mondo giovanile ne è affascinato. La crisi economica, e soprattutto culturale e religiosa, circola ovunque. Non abbiamo più nessuna identità, se non quella che ci offrono i massmedia, che danno di tutto ma un po’ di tutto, soprattutto una certa mentalità circa la politica, la famiglia, il mondo e le sue pazzie (che ci rendono sempre meno ottimisti e più depressi e ci mandano in tilt).

Viviamo in un villaggio globale, dove si parla di tutto nel bene e nel male. Praticamente nessun luogo dista più di un giorno di viaggio. Forse il frutto peculiare della globalizzazione è nel non sapere dove noi e il mondo stiamo andando. In quale direzione vada la nostra storia e la nostra società. Oggi si parla di un «mondo che cambia» (A. Giddens), di «modeità liquida» (Zygmunt Bauman) nel senso che tutto è relativo, che tutto è accettabile; che come l’acqua ci infiliamo dappertutto senza meta fino a impantanarci. Il guru di Tony Blair, Antony Giddens, lo chiama «mondo inafferrabile». La storia sembra ormai al di fuori del nostro controllo. La nostra mente non è più in grado di cogliere tutto, di capire tutto quanto avviene attorno a noi (pensate al telefonino, a Google, a Facebook, a Twitter, a Youtube, e ai milioni e milioni che li usano), come avveniva un tempo non molto lontano nel nostro villaggio, in cui in fondo si condivideva la direzione verso la quale si andava. I socialnetwork rendono davvero globale l’accesso alla cultura, che diventa comunicazione di massa, su vasta scala, che da one to many (da uno a molti) diventa una comunicazione da many to many (da molti a molti).

Nel mondo passato i rischi del vivere erano certo molti: epidemie, cattivi raccolti, tempeste, siccità, invasioni di popoli stranieri. Tuttavia erano rischi in gran parte estei a noi, fuori controllo. Oggi abbiamo inventato nuovi rischi, quelli derivati dalla nostra civiltà: surriscaldamento globale, sovrappopolamento, inquinamento, instabilità dei mercati finanziari (contro cui papa Francesco si è pronunciato come causa della crisi e dell’aumento della forbice della povertà mondiale, invitando il 16 maggio 2013 gli Ambasciatori non residenti presso la Santa Sede a farsi governare non dall’idolatria del denaro, ma dall’etica e dalla solidarietà per non ridurre l’uomo a mero bene di consumo).

Sapienza e ottimismo

Di fronte a questo mondo in fuga, quello che i cristiani possono offrire non è conoscenza, ma sapienza e ottimismo, la sapienza della destinazione ultima dell’umanità, la meta del Regno di Dio per noi indicato da Gesù. Senza meta non si va avanti. E il mondo globalizzato, pur ricco di conoscenza e informazione, è scarso di sapienza, quella dell’ultimo destino e del valore della vita. La sapienza del fine e della fine cui siamo chiamati ci libera dall’ansietà e dalla paura. Il fine è il regno di Dio, Gesù Cristo è stato colui che ce ne ha parlato. Importante in questo frangente mettere al centro Gesù Cristo, il suo messaggio, la sua parola, le sue scelte, più che le istituzioni che ne sono derivate, sempre fallibili, perché umane (Ecclesia semper reformanda est, la Chiesa è sempre da riformare).

Nella lettera agli Efesini Paolo parla e invita a «ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra» (Ef 1, 9-10). I cristiani sono un segno del Regno; per esserlo vale non ciò che si fa o si possiede, ma ciò che si è, ciò che sono io per me e per gli altri. Nell’essere non solo per me, ma anche per altre persone, io scopro una nuova identità. Non è facile, richiede fedeltà.

Dialogo e rispetto

Il mondo che cambia porta con sé anche molti cambiamenti nella vita religiosa, e per conseguenza nel nostro cristianesimo. Per prima cosa è inevitabile il confronto con altre religioni: scontro o dialogo? I cristiani sono invitati a scegliere il dialogo, pensando alla storia religiosa dell’Europa e del mondo intero che ha interpretato e vissuto questo incontro come lotta e guerra di religione, per far prevalere il proprio Dio, che è poi il Dio di tutti. È comunque inevitabile il confronto con una, due, tre e tante altre religioni o pseudo-religioni, presenti nel nostro mondo. Questo spiega i diversi cambiamenti di fede e religione che si verificano anche in Italia e l’innalzamento di templi di religioni diverse da quella che riteniamo la «nostra», come quelli dell’Islam (le moschee).

Il relativismo di cui parlava Benedetto XVI contagia ormai non poche coscienze, sempre più spaesate nell’attuale clima d’incertezza morale, economica e culturale. Il rischio è che questo clima porti a ritenere che non ci sia più nulla di valido nella nostra esistenza umana e religiosa, o, all’opposto, a guardare alla dimensione religiosa come a un rifugio con la conseguenza di una vita spirituale intimistica, al limite dell’integralismo. Ci rifugiamo in chiesa di fronte a questo nostro mondo che non capiamo più, che ci travolge e ci spaventa.

Domande nuove

Si aprono domande nuove che nessuno può ignorare, domande esistenziali, che nascono dall’esperienza dell’uomo e che reclamano risposte. Come per esempio quella della evoluzione umana, della sua complessità e del suo rapporto con la creazione biblica. L’uomo, «una scimmia nuda», l’uomo, «una scimmia intelligente». Definizioni come queste lasciano spazio a tutto quanto si vuole nel campo della vita e del suo valore, della biologia e della scienza: vecchiaia, clonazione, eutanasia, donazioni di organi...

Nel 2012 in Belgio ci sono stati 1492 casi di eutanasia. La tendenza a livellare l’uomo al piano animale o a elevare la scimmia a quello umano è ricorrente, e secondo alcuni troverebbe supporto nella teoria dell’evoluzione. Certo, la religiosità e la spiritualità dell’uomo non sono misurabili con metodi empirici o scientifici.

Inoltre la cultura assume una grande importanza nel rapporto dell’uomo con l’ambiente. Mediante la cultura l’uomo è in grado di modificarlo, di trasformarlo per renderlo adatto alle sue necessità, ma anche per distruggerlo. Non mancano scienziati che ritengono il pensiero un puro prodotto dell’attività cerebrale. Un pensiero e la coscienza si possono misurare e come?

Anche il rito viene ritenuto il lato debole della fede. Per questo il rito, la messa domenicale, può essere tranquillamente tralasciato come un involucro ingombrante. Non si riconosce più nel rito un momento incisivo della propria fede. Svincolato dal fondamento della fede, il rito è al massimo un fattore oamentale e non offre i veri contenuti della fede, come è per esempio la celebrazione della messa domenicale. La celebrazione domenicale e l’esperienza viva della fede ci permettono di iniziare a credere e vivere e crescere in una dimensione autentica di fede insieme a tutti i credenti. Non si è muti ed estranei spettatori, ma la liturgia chiede sempre una partecipazione attiva. La liturgia attualizza qui, oggi per noi, il mistero di Cristo fatto uomo. In essa Dio parla da uomo, parla la lingua dell’uomo, e a sua volta l’uomo parla a Dio nella sua lingua insieme a tutta la comunità cristiana.

Stereotipi

Scattano così le accuse contro la Chiesa: inquisizione, nemica della scienza, maschilista, vuole solo la sofferenza, i protestanti sono più modei, è contro il sesso. Sono questi alcuni stereotipi molto diffusi. Ad essi si devono aggiungere numerosi libri polemici contro il Vaticano: I segreti del Vaticano di Corrado Augias (Mondadori), o, l’ultimo, Vaticano massone di Giacomo Galeazzi e Ferruccio Finotti (Piemme). Ma è anche uscito ultimamente un libro dal titolo La grande meretrice a cura di Lucetta Scaraffìa, che chiarisce dal punto di vista storico alcuni di questi stereotipi (edito dalla Libreria Editrice Vaticana). Sono tanto diffusi e indiscussi, questi stereotipi, che chi li legge non tenta neppure un minimo controllo: «Sanno tutti che è così» e basta, senza discussione.

Quale risposta?

Come inserirsi da cristiani in questo mondo che cambia? Limitarsi ad aggiungere il volto di Cristo alla folla di volti che bombardano il nostro mondo, la nostra televisione e la nostra stampa, non è sufficiente. Potrebbe magari essere cosa buona, ma certo non sufficiente, se la Walt Disney trasformasse in cartoni animati i Vangeli. Molte chiese fanno pubblicità all’esterno dei loro edifici, con cartelli che recano espressioni evangeliche, in concorrenza con gli annunci pubblicitari. Può essere cosa ammirevole, ma imbarazzante vedere la propria fede messa all’asta.

La sfida è come possiamo comunicare la fede ai non credenti, a coloro che dubitano o sono scandalizzati da quanto accade nella Chiesa: pedofilia (perfino di un cardinale), la banca vaticana, lo sfarzo dei cardinali, la mediocrità di certi parroci, la predicazione che fa pena, il modo poco umano e poco cristiano di trattare chi è separato e risposato, e così via. Come però possiamo comunicare loro la bellezza della nostra fede? Come possiamo mostrare loro il volto di Dio, quello vero, quello dei Vangeli, quello di Gesù?

La bellezza del volto di Dio

Intanto, invece di maledire il buio è meglio accendere una candela. Il Vangelo colloca la bellezza del volto di Dio nell’amore e non altrove (per esempio nelle tante devozioni spesso devianti).

Il Medioevo è passato, ora la gente è più istruita e crede nella scienza e nella medicina più che nei miti del passato. Specialmente i giovani sono permeati da questo nuovo orientamento, ma come scriveva già Marco Fabio Quintiliano (35-95 d.C.): «I giovani non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere».

Ma non basta! Che cosa vuol dire la dimostrazione dell’amore di Dio per noi e tutta l’umanità? Dio si svela sulla croce come amore totale e unico, in un uomo morente e abbandonato! È una idea tanto scandalosa al punto da essere già messa in evidenza da Paolo con particolare vigore: «Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1, 23-24; Gal 5, 11). L’assoluta bellezza irresistibile di Dio splende nella sua povertà, nel suo abbassamento, nel suo essere servo per noi, nella lavanda dei piedi (ricordiamo papa Francesco nella Pasqua 2013). Dicono che a inventare il presepe sia stato Francesco d’Assisi, segno di Dio che per amore abbraccia la nostra povertà. Questa è la sfida nel villaggio globale, che è il nostro mondo: mostrare la bellezza di Dio povero e impotente.

Segni di risurrezione

Come mostrarla? Attraverso i nostri atti di trasformazione interiore, di cambiamento del cuore, come intendeva fare Gesù: cambiare il cuore dell’uomo in profondità. Lo dice ancora Paolo nella lettera ai Galati: «Siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri». Li aiuta in questo lo Spirito del Signore. «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è legge» (Gal 5, 13-23). In tal modo il cristiano raggiunge la vera libertà e di conseguenza la totale liberazione dal dominio della legge e del proprio egoismo. Sono questi i segni della Risurrezione che irrompe in noi e nel mondo globalizzato con gesti di liberazione e trasformazione.

Ildegarda di Bingen (1098-1179), una mistica tedesca del secolo XII, proclamata da Benedetto XVI Dottore della Chiesa (7 ottobre 2012), preferiva parlare non di croce ma di Risurrezione del Signore, come scoperta, come primavera, come nuova nascita, luce, risveglio, liberazione, come amore, speranza, riconciliazione, dono, fede (vedi pag. 79).

Voglia di tenerezza

Infine, il nostro cristianesimo è sovente accusato o almeno sospettato d’indottrinamento e di arroganza. In ogni caso la nostra società è profondamente scettica verso ogni certezza di verità. Succede anzi che la verità oggi è quello che ci fanno apparire sullo schermo. L’enciclica Fides et ratio del 1998 di Giovanni Paolo II afferma che «Si può definire l’essere umano… come colui che cerca la verità» (n. 28). L’oggetto della nostra verità, ossia della nostra fede, non sono le nostre parole o le nostre verità, ma è amare e conoscere Dio, o come diceva Galileo: la scienza insegna come vada il cielo non come si vada in cielo. Noi non possediamo la verità, né la padroneggiamo.

Di fronte alla scienza, alla ricerca, ma anche di fronte alla fede e alle affermazioni di altre religioni, dobbiamo mantenere una profonda umiltà. Proclamiamo un mistero, il mistero di Dio fatto uomo e non è facile spiegarlo nella sua realtà. Ognuno di noi non possiede tutta la verità; anch’io ho bisogno della verità degli altri. Sono un mendicante della verità, come tutti gli uomini di questo mondo. Dobbiamo perciò stare attenti al nostro facile chiacchiericcio sul Vangelo e sulla fede. Solo così possiamo distruggere le false immagini di Dio che potremmo essere tentati di adorare, e liberarci dalle trappole dell’ideologia e dell’arroganza circa la verità e la nostra fede, altrimenti anche noi rischiamo di cadere nel fondamentalismo religioso.

È la testimonianza dell’amore vissuto che conquista i cuori e la mente. Tu non credi; non preoccuparti, è Dio che crede in te. Non importa quante cose fai, ma quanto amore metti in ogni cosa che fai. «Non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili» (Rosario Levantino). Predicazione, catechesi, liturgie vengono dopo. Lo sottolinea papa Francesco: «Non siamo funzionari. Abbiamo tutti bisogno di tenerezza». Voglia di tenerezza è il titolo di un film del 1983 di T. L. Brooks.

Giampietro Casiraghi

Giampietro Casiraghi




Remolino: l’utopia resiste (seconda parte)

Viaggio nell’Amazzonia Colombiana, Là dove il cacao fa fatica a rimpiazzare la Coca.
Arriviamo finalmente a Remolino dove p. Giacinto Franzoi aveva
lanciato il sogno del Caquetà senza coca. Il sogno non è morto, ma certo
richiede un grandissimo coraggio a tutti coloro che vi si impegnano di persona.
Rimpiazzare la coca con il cacao è un’impresa ardua in un territorio dove
mancano le strade, e i trasporti sono costosissimi.

Ci fermano a un posto di blocco
vicino a un villaggio chiamato Km 52, perché lì, fino a poco tempo fa,
terminava la strada. L’esercito, non soddisfatto dal semplice controllo del
passaporto, perquisisce l’auto. I militari sono tutti molto giovani, tra i 18 e
24 anni, e per la maggior parte di origine afro. Sono gentili ma ci fa effetto
vederli con quei mitra indosso e le dita sul grilletto pronti a sparare.

Intanto osserviamo le case, baracche di legno con tetto di
lamiera, cani, galline, il recinto per i maiali, e la gente, che si muove a
cavallo e con il laccio, e la piccola scuola che, come tutte le altre
intraviste lungo il tragitto, è dipinta di azzurro.

Arriviamo a Cartagena del Chairà, dove termina la strada sterrata.
Abbiamo viaggiato tutto il giorno arrivando alla casa dei missionari per cena.
Lì ci raggiunge p. Emilio. Arriva direttamente da Bogotá dopo aver affrontato
un lunghissimo viaggio in pullman attraverso le Ande e la pianura. P. Emilio ha
29 anni: il più giovane prete del Vicariato apostolico di San Vicente. Si è
appena laureato e, malgrado la stanchezza, ci accoglie con un sorriso limpido e
solare. Lui è responsabile della parrocchia di Remolino, villaggio lungo il
fiume Caguan, a circa 200 km di distanza, raggiungibile in barca in quasi
cinque ore di fiume. Remolino è la nostra prossima meta.

A tutta velocità sul fiume

Partiamo verso le dieci del mattino dal piccolo porto fluviale
presidiato da numerosi militari, che controllano di nuovo documenti e bagagli.
Il biglietto costa l’equivalente di 40 euro, una cifra sproporzionata rispetto
al costo della vita in questi posti. Ma non c’è alternativa per raggiungere i
villaggi della foresta. All’ora fissata per la partenza il lizador (la
motobarca veloce) ha ancora parecchi posti vuoti per cui si attendono
pazientemente i passeggeri ritardatari. Alla fine non solo i quindici posti
sono tutti occupati, ma aggiungendo i bambini in piedi e quelli in braccio
siamo venticinque persone più il bigliettaio in equilibrio sulla prua. Alcuni
passeggeri chiedono a p. Emilio di dire una preghiera per affidare il viaggio
e, sotto lo sguardo stupito di un giovane militare armato di fucile, preghiamo
tutti insieme. Si parte!

La navigazione è pericolosa: il nostro pilota fa lo slalom tra
gorghi, banchi di sabbia, reti da pesca, tronchi e altro materiale che
galleggia sull’acqua. I naufragi sono
frequenti, tanto che il vicariato ha dovuto proibire ai sacerdoti, essendone già
annegati due, di pilotare personalmente l’imbarcazione della parrocchia.

Durante il viaggio non ci siamo mai stancati di osservare le rive:
il paesaggio ondulato ha ben presto lasciato il posto alla pianura. Zone
disboscate, alcune coltivate a palmeto, altre tagliate di recente e adibite a
pascolo si alternano alla selva; alberi ad altissimo fusto, fitto sottobosco,
bianchi uccelli che al tramonto paiono fosforescenti; la laguna è molto varia!
Vi dimorano tartarughe che si mimetizzano perfettamente sui tronchi e diverse
specie di pesci tra cui una della famiglia dei piraña, commestibile. Di tanto
in tanto palafitte isolate o raggruppate in piccoli villaggi. Gli spostamenti
avvengono esclusivamente via acqua, a cavallo o a piedi attraverso la selva,
percorrendo distanze spesso lunghissime. I colonos vivono praticamente
isolati in grandi famiglie, dove è sempre la donna a farsi carico di
responsabilità e fatiche. Frequentemente l’uomo abbandona la famiglia per
andare a formae una nuova, o si ubriaca di birra o auguardiente, una
bevanda alcornolica che sa vagamente di anice.

Sulla barca non c’è la possibilità di muovere un muscolo, teniamo
gli zaini appoggiati sui piedi. Ma c’è molta collaborazione: ci si scambia
sorrisi, chiacchiere e cibo; ci si aiuta per i bagagli; i giovani cedono i
posti più agevoli agli anziani. Dopo alcune fermate dove scendono e salgono
nuovi passeggeri (in modo che il lizador sia sempre stracarico)
attracchiamo a Piñacolorada, il posto di blocco dell’esercito. Sbarchiamo tutti
lasciando i bagagli a bordo perché possa essee verificato il contenuto: altro
controllo di documenti e perquisizione. Sulle pareti della casermetta sul fiume
sono incollati gli avvisi di taglia dei guerriglieri ricercati e gli elenchi
delle sostanze trasportabili per le quali non si può superare un certo
quantitativo: benzina, cemento, medicinali a uso veterinario, cioè tutti quei
prodotti chimici che potrebbero essere adoperati per ricavare la cocaina,
proibita dal governo e prodotta e trafficata dai guerriglieri per finanziarsi.

Remolino

Finalmente ci reimbarchiamo e raggiungiamo la nostra destinazione.
Allo sbarco, un altro controllo da parte di un giovanissimo soldato. Ci avviamo
per un sentirnero melmoso; ovunque uomini armati: il rapporto è di un militare
per abitante. Lo stato presidia questo luogo perché qui c’erano ben 18
laboratori attrezzati per la produzione della coca. Tuttavia più di 10 anni di
presidio militare non hanno fermato il narcotraffico, che si è spostato più
all’interno fino a raggiungere il bacino dell’Orinoco nel Potumayo. Lo si è
reso solo un po’ più difficoltoso. Questo spiega anche perché la strada finisca
a Cartagena del Chairà: l’unica via fluviale è molto più controllabile.

Anche se ora sembra impossibile, nei primi anni ‘90 Remolino era
molto popolato e il giorno di mercato i dollari giravano a sacchi. Piccoli
aerei privati atterravano a decine in piazza per caricare la pasta di coca. La
situazione era pesante. Per questo nel 1989 l’allora parroco, p. Giacinto
Franzoi, lanciò un progetto per liberare i suoi parrocchiani dalla schiavitù
della coca. Con lo slogan «No alla coca, sì al cacao» iniziò la prima
distribuzione di sacchetti di semi di cacao e di caucciù. L’obiettivo era di
sostenere i colonos nel passare ad una coltivazione alternativa di
prodotti che sono ricchezza di vita della foresta, ma il cui ricavato è
purtroppo decisamente inferiore a quello della coca. (vedi MC ottobre 1996,
numero monografico «Non di sola coca»
)

Per sostenere il progetto p. Giacinto e gli altri missionari del
vicariato apostolico chiesero aiuto a tanti amici. Così, nel 1996, un gruppo di
italiani si recò in quelle zone per conoscere e valutare. Al rientro in Italia
iniziarono una grande campagna denominata «Non di sola coca – quando impegnarsi
serve» per far conoscere i retroscena del narcotraffico e, in particolare, la
drammatica situazione dei campesinos. I risultati dell’iniziativa furono
incoraggianti. Nacque così l’associazione Impegnarsi Serve Onlus che,
ancora oggi, continua a collaborare con la chiesa locale colombiana.

Remolino oggi

A Remolino molte cose sono cambiate da allora. Il progetto non è
morto, ma certo ha incontrato molte difficoltà. Molta gente se n’è andata. Oggi
i 300 abitanti rimasti vivono – si fa per dire – piantonati dai soldati, che a
loro volta non vivono ma guardano gli altri vivere. La presenza dell’esercito
non ha solo lo scopo di tenere a bada i guerriglieri, che ormai si sono
ritirati sulle montagne, ma piuttosto di mantenere una sorta di equilibrio
instabile laddove si sono subite violenze tali da innescare una catena infinita
di vendette.

Ciò nonostante qualcuno crede ancora che si possa vivere senza
coca e prova ad andare avanti, come la famiglia che la sera del nostro arrivo
ci ha invitato a cena con p. Emilio. Sono papà e mamma e cinque figli, insieme,
per amore, hanno accettato di vivere qui e hanno aperto una piccola attività
commerciale e provano a resistere. Lo stesso vale per Miguel che si è
trasferito a Remolino da Piñacolorada: ha un bimbo piccolo e gestisce una
drogheria. Si dedica al volontariato e spera che le cose cambino in meglio.
Incontrando queste persone comprendiamo come sia importante non abbandonarli a
se stessi.

Cammino comunitario

A Remolino la corrente elettrica è disponibile solo per qualche
ora alla sera. Perciò nel presidio medico non si possono conservare i
medicinali, come i sieri antiveleno. Anche conservare il cibo a queste
temperature è un grosso problema con conseguenti malattie intestinali
soprattutto nei bambini. Per la stessa ragione la fabbrica di cioccolato Chocaguan,
fiore all’occhiello del progetto alternativo alla coca, è operativa solo per
quelle poche ore serali e non riesce a smaltire la grande quantità di chicchi
di cacao che arrivano dai contadini.

L’aspetto positivo è che quando c’è l’elettricità molti della
comunità si ritrovano nelle «case-bar» per chiacchierare, bere e sentire musica
ad alto volume. In tali occasioni, attraverso un altoparlante, sono comunicate
anche le decisioni che riguardano la comunità, prese da un comitato che si
consulta continuamente con tutti.

Funziona magnificamente l’Aldea, una casa fattoria dove
ragazzi e ragazze delle superiori sono ospitati dalle suore perché possano
frequentare la scuola pubblica (provengono tutti da villaggi sparsi nella
foresta). Vengono seguiti nell’apprendimento e dedicano alcune ore alla
coltivazione dei campi e alla cura degli animali (le 40 mucche da latte
permettono la produzione di 50 kg di formaggio al giorno). Imparano così un
mestiere, ma soprattutto sono formati a resistere alla violenza. In queste
realtà, infatti, la violenza è considerata una normalità. Per questo occorrono
testimonianze tangibili che la nonviolenza, il perdono e la riconciliazione
pagano. Nella finca (i campi) della fattoria oltre agli ortaggi si
coltivano caucciù e cacao. Per quest’ultimo è in atto una sperimentazione con
l’università in modo da creare ibridi di qualità superiore per resistenza e
produzione.

Una valutazione

1. Quali sono le attività principali che caratterizzano la lotta
contro la coca in Remolino?

Il Vicariato di San Vicente ha avviato un notevole lavoro di rete
con le istituzioni locali, per portare avanti piste alternative. Con lo stato,
per esempio, ha concordato la possibilità di inserire il Chocaguan (il
cioccolato prodotto a Remolino) nel piano alimentare per le scuole, favorendone
la diffusione. Con l’Università Amazzonica Colombiana ha implementato un piano
di studio sui semi del cacao per individuare quelli di miglior qualità e
produzione. La collaborazione con tale università è già ben avviata e le piante
nate dai nuovi innesti sono già visibili nella finca. Per cui il colono è
aiutato dalla popolazione locale per il disboscamento e la preparazione del
terreno; i tecnici dell’Università lo assistono per le nuove sementi e
controllo della crescita delle nuove piante, il progetto Chocaguan
garantisce il pagamento del prodotto.

2. Quali i risultati raggiunti?

Il risultato principale è la creazione di una nuova mentalità
almeno nei contadini direttamente coinvolti nel progetto, il cui numero però
non ci è stato possibile verificare.

3. Quali le difficoltà da risolvere?

Una è la carenza di energia elettrica. Il problema principale però
rimane il costo del trasporto fluviale, che incide moltissimo e rende il
prodotto finale (cioccolato) non competitivo con quello delle grandi
multinazionali.

4. Quali sono le prospettive?

Purtroppo il cacao e il caucciù, a Remolino, non saranno mai competitivi
rispetto alla coca. Ma ciò non significa che non ci sia speranza. Si sta
lavorando sulle nuove generazioni perché possano crescere con una mentalità
differente, con una migliore capacità professionale sul piano agricolo, con
accesso a una varietà maggiore di prodotti e una più profonda coscienza e
conoscenza dell’impatto ambientale del loro lavoro. Se i giovani crescono, fin
da bambini, in questo clima e ambiente, ci sarà un futuro per questo progetto e
questa utopia.

5. Vale la spesa investire ancora nel progetto o è una battaglia
perduta?

Eccome! Perdere la speranza è come perdere la vocazione. Per
questo il vicariato sta investendo moltissimo nel creare rete e nell’approccio
polivalente (governo, università, sostenitori inteazionali, volontariato) al
progetto. Apparentemente tale lavoro non porta grossi miglioramenti immediati e
non genera grandi ritorni economici, in realtà porta i cambiamenti più radicali
e profondi, quelli che creano una nuova mentalità.

6.
Chi altro dovrebbe essere coinvolto nel progetto?

Cacao e caucciù non saranno economicamente più allettanti della
coca fino a che non ci sarà un grande cambiamento di mentalità, non solo nei campesinos,
ma soprattutto nei consumatori a livello internazionale. La militarizzazione
del territorio non risolve i problemi. Una soluzione a lungo termine richiede
di investire in strade, trasporti e infrastrutture che sostengano i contadini
che davvero vogliono un’Amazzonia senza coca.

7. La Chiesa locale crede ancora nel progetto o lo subisce?

Qualcuno lo subisce, ma per fortuna l’équipe del vicariato è una
sorgente di vita e di speranza che non smette di mettersi in ascolto della
realtà per affrontarla ascoltando il soffio dello Spirito. In particolar modo
il vescovo Munera, vero uomo di Dio.

Stefania Biagini
 
_____________________

Per
le foto ringraziamo:
Angelo Casadei, Fabio Vasini, Marta Faccaro e Giacomo Lazari.

___________________

Sulla
tematica coca e cacao vedi:

Angelo Casadei, Rinascere si può,
MC 6/2008;
Semana, Un prete per la pace, MC, 6/2006;
F. Rezzadore, Viaggio
in Caquetà
, MC 12/2005;
Francesco Beardi, Amico, non essere oca, MC
5/1998;
Carlos Garcia Perez, Il Coraggio della sfida, MC 4/1997;
Aa.Vv.,
Colombia: non di sola coca, MC 9-10/1996, numero monografico.

Clicca sulla copertina
del numero monografico
per andare alla versione sfogliabile
nella collezione storica della rivista.

Clicca sull’icona qui a destra
per vedere il video documentario
di P. Angelo Casadei, imc,
sulla coca e il progetto cacao.

Stefania Biagini




Bolivia. La speranza abita sugli altipiani

Tra gli indigeni degli altipiani boliviani,
a 3.000-4.000 metri d’altezza, Evo Morales ha raccolto gran parte del proprio
consenso elettorale. La povertà è diminuita grazie ai programmi governativi.
Tuttavia, i problemi e le contraddizioni non mancano. La foglia di coca è
giustamente difesa, ma Morales è ambiguo sulla lotta al narcotraffico. E la brutta vicenda del Tipnis, un parco nazionale
e indigeno di inestimabile valore, macchia fortemente le credenziali
indigeniste e ambientaliste del presidente.

La Paz. Maxima
Machaca ha un negozio di artigianato in Calle Linares, una via popolarmente conosciuta come
«strada delle streghe». Sua sorella Ilaria è venuta a trovarla da El Alto. Ha un cappello bianco in testa e quasi
non parla spagnolo, ma anche senza tante parole risulta subito simpatica. Forse
perché, al contrario della sorella, lei non è in contatto con stranieri e
dunque è rimasta indigena anche negli atteggiamenti. Muovendosi tra pile di
maglie in lana di alpaca1, coperte colorate e borse in cuoio, buttiamo
lì qualche domanda di politica. Le due sorelle sono per Evo. «È uno di noi»,
dice Maxima senza alzare lo sguardo, mentre Ilaria annuisce con un sorriso.

Entriamo in un negozio molto diverso. Uno di quelli che
giustificano il nome di «strada delle streghe»: all’entrata sono esposti feti
di lama, usati dai locali come offerta alla Pachamama2;
all’interno, gli scaffali sono ricolmi dei rimedi erboristici più strani, ritenuti
capaci di risolvere ogni problema del fisico e dello spirito. Accanto a ciò, ci
sono poi i prodotti a base di coca: farina, unguento, liquore e altro ancora.
Perché la coca è nella storia e nella quotidianità della Bolivia.

UOMINI E COCA  

Un gruppo di persone, quasi tutte indigene, è
riunito in circolo a pochi metri dalla chiesa di San Francisco, nello spiazzo
costruito davanti al Mercado Lanza, un moderno (e brutto) centro
commerciale. Al centro,
per terra, c’è una coperta a strisce colorate su cui sono adagiate delle foglie
di coca.

Le donne stanno tra loro, sedute per terra,
avvolte nei loro abiti colorati e con in testa una bombetta nera o marrone. Gli
uomini sono in piedi. Chi vuole parlare fa un passo avanti. Parlano tutti con tono monocorde, senza
gestualità. Non si esprimono in spagnolo, ma in lingua aymara. Chiediamo
a uno spettatore quale sia l’argomento: la produzione della coca e le relazioni
con il governo.
Una persona gira tra il pubblico con un
bicchiere e una bottiglia di Coka Quina, una delle alternative locali
alla Coca Cola3: la serve a chiunque ne voglia. Tra i presenti alcuni evidenziano un
rigonfiamento su una guancia, quasi avessero in bocca una pallina. È la storica
pratica della masticazione delle foglie di coca, nota come acullico, che
soltanto da poco le Nazioni Unite hanno dichiarato legale all’interno della
Bolivia4.

Sulla questione della coca le relazioni tra
la Bolivia di Evo Morales e la comunità internazionale sono da tempo tese.
Trovare una soluzione che rispetti le esigenze (e gli interessi) di tutti pare
un’impresa ai limiti dell’impossibile. In Bolivia, l’importanza della coca è
addirittura sancita nella carta costituzionale del 2009. L’articolo 384 recita
infatti: «Lo Stato protegge la coca nativa e ancestrale come patrimonio
culturale, come risorsa naturale rinnovabile della biodiversità della Bolivia e
come un fattore di coesione sociale. Nel suo stato naturale essa non è uno
stupefacente. La rivalutazione, la produzione, la commercializzazione e
l’industrializzazione della stessa saranno regolate tramite legge».

Alcune province del paese – le due dello
Yungas (nel dipartimento di La Paz) e soprattutto quella del Chapare (nel
dipartimento di Cochabamba) – vivono grazie all’economia della coca. Per la
coca i confini tra legalità e illegalità, tra interessi locali e interessi
inteazionali sono alquanto labili. Di certo, a causa della coca, il
presidente Morales ha commesso un grosso errore. È successo nella vicenda –
tuttora insoluta – del Tipnis, un territorio naturale e indigeno di
inestimabile valore attraverso il quale il governo – incurante della Madre
Terra e dei diritti degli indigeni (leggere riquadro) – vorrebbe far
passare una strada. Una strada che risponderebbe alle richieste dei cocaleros
del confinante Chapare, bramosi di nuove terre per le loro coltivazioni.

Al riguardo, non va dimenticato che lo
stesso Evo Morales è un ex cocalero del Chapare ed è tuttora presidente
del sindacato dei produttori, che lo hanno rieletto nel luglio 2012, dando
buoni motivi a chi parla di conflitto d’interessi.

Anche i numeri della coca sono controversi.
Secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite5, gli ettari coltivati a coca sono 27.200. Di questi
12.000 servono per soddisfare la domanda di acullico (compresa la coca
che viene assorbita da produzioni industriali). Dove finisce la restante
produzione se non nel circuito del narcotraffico? Una cosa è drammaticamente
certa: in tutti i paesi confinanti la droga rappresenta un’emergenza nazionale.
In particolare, in paesi come il Brasile e l’Argentina, invasi da sottoprodotti
della cocaina come il crack e la pasta basica, venduti a prezzi
molto bassi e dunque accessibili a chiunque.

GLI INDIGENI E LA DIGNITÀ RICONQUISTATA

Da plaza San Francisco a plaza Murillo sono
10-15 minuti a piedi. Qui si trovano il Congresso, la Presidenza della
repubblica e la cattedrale. Il giardino che è al centro della piazza, attorno
alla statua di Murillo, è luogo di ritrovo soprattutto per chi ama i piccioni,
presenti in gran numero.

Tre donne indigene, sedute sui gradini che
guardano verso la cattedrale, stanno gustandosi un gelato tra una chiacchiera e
l’altra. In Bolivia ci sono 5 milioni di indigeni su 10 milioni di abitanti:
dopo il Guatemala, è il paese latinoamericano con più popolazione indigena. Le
etnie principali sono, in ordine decrescente: i Quechua, gli Aymara, i Chiquitano, i Guaraní e i Moxeño6. È opinione diffusa che qui stia il principale successo
della presidenza Morales: il riscatto della dignità per ampie fette di
popolazione indigena. Sugli altipiani, dove gli indigeni sono in larga
maggioranza, la speranza è che, dopo aver riportato la dignità, il governo
riesca anche a vincere la povertà. Infatti, nonostante i progressi degli ultimi
anni (leggere intervista alle pagine seguenti), circa la metà dei
boliviani continua a vivere in povertà (relativa o estrema), soprattutto nelle
aree rurali.

UNA DURA ESISTENZA

Il micro (minibus) partirà soltanto a
pieno carico: 10 persone più l’autista. Il tempo passa e mancano ancora due
passeggeri. Siamo in tensione perché dobbiamo arrivare a Desaguadero, al
confine con il Perù. Sul lato peruviano c’è un bus a lunga percorrenza per
Lima, che però non aspetta i ritardatari.

Finalmente il minibus è pieno: si può
partire. Per il piccolo automezzo la salita per raggiungere El Alto sembra un
ostacolo insormontabile. Affronta i ripidissimi tornanti con una lentezza esasperante,
ma procede senza intoppi fino ai 4.000 metri di El Alto.

Passata la città, costeggiata la zona
archeologica di Tiahuanaco, l’altipiano appare in tutta la sua vastità e, se
così possiamo dire, nella sua nudità, dato che, a causa dell’altitudine, quasi
non ci sono alberi. Sullo sfondo s’intravvedono le cime innevate. Mentre lungo
la strada asfaltata si susseguono una miriade di minuscoli villaggi dove
l’esistenza è scandita dai tempi di un’agricoltura di sussistenza. Al contrario
che in altre zone, qui il reddito non può essere integrato dalla coltivazione
della coca, che a queste altitudini non cresce.

SUL CONFINE DI DESAGUADERO

Ecco finalmente Desaguadero, un brutto paese
che vive dei traffici con il confinante Perù. Tra le due frontiere è un
andirivieni di persone e cose. In direzione Perù biciclette-risciò a tre ruote
trasportano persone che vogliono attraversare la frontiera. Verso il lato
boliviano si dirigono invece carretti stracolmi di prodotti agricoli. Cerchiamo
un posto per cambiare i soldi. Lo fanno, in maniera informale ma sicura, una
fila di indigene sedute a lato del posto di controllo peruviano. Vestite
secondo tradizione, queste donne  hanno
lasciato i campi per un lavoro «moderno», ma senza rinnegare le proprie
origini.

Una donna con bombetta nera e treccia sulla
schiena ci cambia i bolivianos
avanzati in soles peruviani. Con la nuova moneta nelle tasche ci
avviamo alla fermata del bus.

Paolo Moiola
(seconda puntata – fine)7
Note

1 – L’alpaca è un mammifero
della famiglia dei camelidi originario dell’America Latina. Ne fanno parte
anche il lama, la vigogna e il guanaco.
2 – Indica la «Madre terra» in
lingua aymara e quechua.
3 – Le altre alternative
boliviane alla Coca Cola sono la Coca Colla e la Mendocina.
4 – Il 10 gennaio 2013 l’Onu
ha riammesso la Bolivia nella Convenzione di Vienna, legalizzando la pratica
del «masticato di coca» (acullico). Hanno votato a favore 168 paesi,
mentre 15 si sono dichiarati contrari.
5 – Unodc, Estado
plurinacional de Bolivia. Monitoreo de cultivos de coca 2011
, settembre 2012.
6 – Cepal, Los pueblos
indígenas de Bolivia: diagnóstico sociodemográfico a partir del censo del 2001
,
Santiago del Cile 2005.
7 – La prima puntata è stata
pubblicata sul numero di maggio 2013.

La vicenda del Tipnis

 

LA PACHAMAMA TRADITA

Il Tipnis è in pericolo. Il
governo vuole costruirvi una strada. Nessun dubbio sulle conseguenze: una
strada determinerebbe la fine del parco. Non lo dicono soltanto le associazioni
ambientaliste e indigene, ma anche un durissimo rapporto redatto dalla Chiesa
cattolica boliviana.

Il Tipnis – acronimo di
«Territorio Indigena Parque Nacional Isiboro Secure» – è un territorio indigeno
e parco nazionale di inestimabile valore naturale ed etnico. Localizzato nel
cuore della Bolivia, tra i dipartimenti di Cochamamba e Beni e soprattutto tra
le province cocalere di Yungas e Chapare, il Tipnis ha un’estensione di circa
1,2 milioni di ettari1. Da tempo il governo centrale spinge per costruire una
strada di 200 chilometri che dovrebbe attraversare il parco per unire Villa
Tunari (Cochabamba) e San Ignacio de Moxos (Beni). Evo Morales e il Mas
(partito Movimiento al Socialismo) sostengono che l’opera è necessaria per lo
sviluppo della regione e per semplificare i collegamenti tra i dipartimenti
coinvolti. Da più parti si sostiene invece che il vero obiettivo è aprire quel
territorio alla colonizzazione, soprattutto da parte dei cocaleros del Chapare
(sempre alla ricerca di nuove terre), ma anche di allevatori, boscaioli,
petrolieri e minatori. Qualunque sia l’obiettivo, è sicuro che una strada
decreterebbe la fine del parco, della sua straordinaria biodiversità e dei
gruppi indigeni ivi residenti (sul cui effettivo numero si litiga – si parla di
69, 58 e 42 – aumentando la confusione)2.

Il governo ha fatto leva sul
concetto di «intangibilità» del Tipnis, previsto dalla Legge 180, presentandolo
in maniera subdola alle comunità indigene: se vi appellerete all’intangibilità
– è stato detto loro -, non potrete più svolgere alcuna attività all’interno
del parco (né caccia, né pesca, né attività boschive). Una incredibile trappola
interpretativa, che non fà onore al governo di Evo Morales.

Infine, per ampliare il
consenso e dare una parvenza di legalità e democrazia, il governo ha indetto
una consultazione tra le comunità indigene del Tipnis. La consultazione –
svolta tra il 29 luglio e il 7 dicembre 2012 – avrebbe decretato, stando ai
dati ufficiali, che la maggioranza delle comunità indigene approvano la
costruzione della strada. Tuttavia, sia il risultato che le modalità di
consultazione sono fortemente contestate. Anche dalla Chiesa cattolica
boliviana e dall’Assemblea permanente per i diritti umani. Dal 29 novembre al
13 dicembre una commissione delle due organizzazioni ha visitato 36 comunità
del Tipnis. Il rapporto che ne è uscito è duro e circostanziato, parlando di
gravi violazioni nel processo consultivo, di mancanza di informazioni
sull’impatto della strada, di regali e minacce alle comunità per influenzare la
loro decisione e infine di risultati completamente falsati. Delle 36 comunità
indigene visitate dalla commissione soltanto 3 si sono espresse a favore
dell’opera3.

Per un ambientalista – e chi
scrive è tra costoro – leggere la Costituzione della Bolivia o alcune delle sue
leggi sulla Madre Terra è come leggere la descrizione di un mondo ideale in cui
uomo e natura convivono. La realtà mostra però altre facce. Anche nella Bolivia
di Evo Morales.

Paolo Moiola
Note

1 – Un’estensione di poco
inferiore a quella del Trentino Alto Adige.
2 – Fonti dei dati: Huellas,
La Paz, febbraio 2012; Mojón 21, Santa Cruz, novembre 2012.
3 – Il rapporto, presentato il
17 dicembre 2012, è reperibile sul web: www.cedib.org/documentos.

Incontro con il prof.
Francesco Zaratti
«NÉ INDIGENISTA, NÉ AMBIENTALISTA. EVO SENZA MASCHERA»

La presidenza Morales ha
ottenuto alcuni  significativi successi. Tuttavia,
l’attaccamento al potere e l’invasività governativa stanno producendo gravi
danni.  Le critiche (severe, ma  circostanziate) di  Francesco Zaratti, intellettuale conosciuto e
rispettato. La Paz. L’appuntamento è
davanti alla torre della Umsa, l’Universidad Mayor de San Andrés.
Francesco Zaratti vi ha insegnato fisica dal 1974. Oggi è professore emerito e
direttore del Laboratorio di fisica dell’atmosfera. Tuttavia, nonostante i
meriti professionali, la sua notorietà tra il grande pubblico non è nata in
ambito accademico, bensì dal suo incarico di assessore durante la presidenza di
Carlos Mesa1, editorialista di numerosi quotidiani (La Prensa, La
Razón, Página Siete, El Día
, ecc.) e oggi volto televisivo di Cadena A. In
ogni caso, Francesco Zaratti è un grande conoscitore della realtà boliviana.

Professor Zaratti, qualche anno fa lei disse che la vittoria elettorale
di Evo Morales rappresentava un’opportunità unica per il paese2.
Dopo 7 anni di presidenza, la sua opinione è cambiata?

«La presidenza di Evo Morales
era inevitabile o quasi. C’era troppa insofferenza sociale nelle classi
contadine ma anche in quelle medio-basse per una situazione che non cambiava. O
meglio: cambiavano i presidenti, ma non la situazione. I governi precedenti non
avevano avuto né la volontà politica né le risorse per fare riforme vaste e
profonde, soprattutto per il problema principale: l’estrema povertà della
popolazione. Evo Morales era l’unico condidato con proposte veramente
rivoluzionarie. Per questo, nel dicembre 2005, vinse con il 54% dei voti: una
cosa mai successa. Da quel momento è cominciata anche la fortuna di Morales.
Parlo di fortuna perché alcune delle sue idee ha potuto realizzarle grazie a
una bonanza economica mai vista, dovuta principalmente alla vendita del gas
boliviano al Brasile e all’Argentina».

Sui giornali e in televisione lei è un critico severo del governo.

«Con tutta evidenza lo sono.
Tuttavia, questo non mi ha impedito e non mi impedisce di riconoscere alcuni
successi che esso ha ottenuto. Una delle cose più interessanti è stata
l’inclusione sociale, che tutti – anche gli oppositori più intelligenti – gli
riconoscono. Evo è riuscito a fare in modo che anche le classi di etnia
indigena potessero accedere al potere. Adesso si può trovare un ministro o un
viceministro di discendenza aymara, cosa prima rarissima. C’è poi stata una
redistribuzione economica attraverso i sussidi (i cosiddetti bonos) che si
danno a settori poveri della popolazione, compresi anziani e donne con bambini.
Sono pochi soldi ma, se utilizzati bene, servono, soprattutto nei piccoli
villaggi. Oltre a ciò, ci sono stati investimenti nei municipi (scuole, strade,
infrastrutture), pur in presenza della corruzione».

Detto questo, cosa contesta a Evo Morales?

«Questo governo ha un
obiettivo principale: quello di rimanere al potere. Tutto è subordinato a
questo, compresa l’economia, che però ha tempi più lunghi, non coincidenti con
quelli delle elezioni. Succede così che gli
investimenti dall’estero siano praticamente nulli. I pochi che si sono
azzardati, si sono scottati. Nessuno vuole investire: è un segno di sfiducia
verso un paese dove non ci sono o non si rispettano le regole».

Professore, lei ha parlato di una bonanza economia fondata sullo
sfruttamento del gas. Come esperto in materia energetica, come valuta la
situazione?

«Allo stato va piú del 50% del
valore alla fonte. Nelle casse pubbliche entrano tanti soldi, ma la Bolivia
continua ad essere uno stato estrattivista senza un modello sostenibile di
sviluppo: estrae la ricchezza dalla terra (gas, ma anche stagno, zinco,
argento) e la esporta. Quando le riserve saranno esaurite, che faremo? Non si
fanno investimenti. Non si fanno esplorazioni per ricercare nuovi giacimenti e
non si industrializza responsabilmente il gas. La compagnia statale Ypfb
è inadeguata. Per parte loro, le compagnie petrolifere straniere che operano in
Bolivia (Petrobras, Repsol, ecc.) non fanno investimenti in esplorazione
perché non si fidano».

All’estero il presidente Morales è molto conosciuto per le sue origini
indigene e per le sue posizioni ambientaliste.

«Evo ha il volto indigeno, ma
non la cultura. Lui è un cocalero. Ha lavorato nel Chapare muovendosi
nell’ambito culturale del sindacato e non certo in quello indigeno. Un esempio
concreto: per gli indigeni è inconcepibile che un capo sia una persona non
sposata. Ed Evo non è sposato. Lui si giustifica dicendo che si sacrifica per
il bene pubblico e che non ha tempo per una famiglia. Sia come sia, il suo
indigenismo è soltanto di facciata. Quanto all’Evo ambientalista, è un ruolo
che prima non aveva mai vestito. Lo hanno introdotto i suoi collaboratori per
fare di lui un difensore della natura. Alla prima grande prova è stato però
smentito: voleva fare una strada nella foresta del Tipnis. Insomma, anche
questa è una maschera ad uso e consumo degli stranieri e degli europei in
particolare».

La coca viene coltivata in Chapare e Yungas. Ci spiega dove sta il
confine tra produzione legale e illegale?

«Chapare e Yungas sono
territori molto diversi. In Chapare ci sono più raccolti annuali, ma si  produce una foglia di coca che non serve per
l’acullico. Tanto che i contadini del Chapare masticano la coca dello Yungas.
Ora, se per l’acullico ci vogliono 12.000 ettari e se gli ettari
coltivati sono circa 30.000, allora la domanda è: dove va la coca eccedente? E
ancora: come utilizzare la produzione del Chapare? Hanno cercato di fare
prodotti industriali: mate di coca, dentifricio di coca, spaghetti di coca e
quant’altro3. Stringi stringi non si tratta però di volumi
importanti, soprattutto perché questi prodotti non si possono esportare a causa
delle convenzioni inteazionali4. Dunque, tutta la produzione
eccedente va al narcotraffico, un affare che muove milioni di dollari».

La Dea, l’agenzia statunitense per la lotta alla droga, è stata espulsa
dalla Bolivia nel 2008, così come l’ambasciatore Philip Golberg. Come si
combatte allora il narcotraffico? 

«Con la cooperazione
internazionale, ma non con le modalità che erano state imposte dagli Stati Uniti.
L’accordo antidroga con il Brasile e gli Usa (firmato il 20 gennaio 2012) è una
buona cosa. Inteamente invece il governo sbaglia. Dato che i cocaleros sono
suoi alleati, non fa alcuna azione repressiva. Soprattutto se si tratta di cocaleros
affiliati al sindacato del Chapare».

Esiste ancora un progetto camba? In altri termini, il
separatismo della Mezza Luna è un’istanza ancora viva?

«In Santa Cruz, ci sono almeno
2 settori – curiosamente agli antipodi – che appoggiano Evo. Uno è quello delle
classi popolari, il secondo è quello dei grandi industriali. Questi ultimi
furono i grandi avversari del presidente. I gruppi separatisti dell’Oriente –
con i loro pregiudizi razzisti – erano finanziati dall’oligarchia di Santa
Cruz. Avendo perso, si sono accordati con il governo centrale. In fondo,
l’unica vera ideologia dell’oligarchia cruceña era quella di fare i
soldi. Se si fanno i soldi, allora “Viva Evo”».

Proprio in Santa Cruz e Beni, abbiamo incontrato persone che ci hanno
parlato di questo paese come di una dittatura. La Bolivia è una democrazia?

«È una democrazia perché ha
strutture democratiche. Però è una democrazia sui generis, dato che il potere
esecutivo controlla il parlamento, la giustizia, la polizia, l’esercito, i
sindacati. Se le elezioni fossero oggi, vincerebbe Evo Morales senza problemi,
anche perché non c’è una figura significativa dell’opposizione».

Professore, la Costituzione boliviana del 2009 è un testo di
straordinario valore. Come lo sono altre leggi. Ad esempio, quella sui diritti
della Madre Terra (legge 71 del 2010) e quella sulla Madre Terra e sullo
sviluppo integrale per il benvivere (legge 300 dell’ottobre 2012). Lei è
critico anche su queste?

«Su questo ha ragione: si
tratta di leggi interessanti, ben fatte, modee. Purtroppo, sono anch’esse
delle maschere. Come accaduto con la Costituzione, il governo di Evo Morales ha
fatto approvare delle belle normative, che però vengono immediatamente messe da
parte quando si scontrano con i piani politici. La vicenda del Tipnis è lì a
dimostrarlo».

Paolo
Moiola

Note

1 – Carlos Mesa è stato
presidente dall’ottobre 2003 al giugno 2005.
2 – Si fa riferimento a
un’intervista con Francesco Zaratti pubblicata su Missioni Consolata nel marzo
2006.
3 – La coca industrializzata
non raggiunge l’1 per cento della coca prodotta legalmente.
4 – In particolare, le
convenzioni Onu del 1961 e di Vienna del 20 dicembre 1988. Nel gennaio 2013 il
governo di Evo Morales ha espresso la volontà di chiedere alla comunità
internazionale la possibilità di esportare la coca industrializzata (prodotti
alimentari e medico-farmaceutici).

Paolo Moiola




La verità sono io

Libertà di stampa a rischio


Dopo 15 anni di guerra civile,
dal 2005 il potere è in mano a una fazione di ex guerriglieri hutu. E da subito
si nota una tendenza alla deriva autoritaria. Ma è nel 2010 che le cose si
complicano. Il partito del presidente Nkurunziza occupa quasi totalmente il
potere. E tende a restringere ogni spazio di espressione.

Il Burundi, piccolo paese
dell’Africa centrale, schiacciato tra i due giganti Congo (Rd) a Est e Tanzania
a Ovest, e il fratello-gemello scomodo a Nord, il Rwanda, che da sempre ne
influenza la storia. Con una superficie pari a quella della Sicilia e 10
milioni di abitanti soffre di sovrappopolamento e, di conseguenza, di una
progressiva mancanza di terra per sfamare i suoi abitanti.

«Le
sue colline verdi, il clima ideale. Il Burundi è sempre un paese molto bello,
soprattutto adesso che non c’è più la guerra» ricorda una volontaria di vecchia
data. Vero, la guerra non c’è più. Si può dire che sia finita con gli ultimi
accordi di pace, quelli tra Cndd-Fdd (Consiglio nazionale per la difesa della
democrazia – Forze per la difesa della democrazia) e Fnl (Fronte nazionale di
liberazione). L’Fnl è stato l’ultimo gruppo armato a deporre le armi nel 2008
(si veda MC maggio 2011). Da alcuni anni però, la situazione dei diritti
umani nel paese è in rapido peggioramento.

Giro di vite sulla stampa

Il 3 aprile scorso è stata approvata dall’Assemblea Nazionale
(camera bassa del parlamento) la nuova legge sulla stampa che sostituirà, una
volta passata al Senato, quella del 2003. Una legge che Reporter senza
frontiere
, organizzazione per la difesa dei giornalisti, definisce «liberticida»
lanciando un appello: «Chiediamo al Senato di non votare questo testo, che
porta il marchio della frangia più dura del partito al potere e riduce molto il
margine di manovra dei giornalisti e dei media» dichiara. «Minacciata da questo
testo (…) la stampa burundese rischia di non poter giocare il suo ruolo nel
dibattito democratico».

Anche l’Unione burundese dei giornalisti (Ubj), per nome del
presidente Alexandre Niyungeko, denuncia una «volontà di chiudere i media
indipendenti».

La nuova legge pone restrizioni all’accesso alla professione
(occorrerà avere una laurea); obbliga il professionista a rivelare le fonti
d’informazione nei casi di «sicurezza dello Stato e difesa» e limita la
diffusione di informazioni o documenti sugli stessi temi e sulla moneta o il
sistema del credito pubblico. Aumenta, inoltre, il valore delle multe fino a
3.000 euro per diffamazione (un giornalista in Burundi ne guadagna da 80 a 150
al mese). E potenzia le prerogative del Consiglio nazionale delle comunicazioni
(Cnc) – il nemico numero uno dei giornalisti – che può rilasciare o ritirare
(temporaneamente o definitivamente) la tessera stampa ai professionisti anche
in casi di «ingiuria e diffamazione».

Ma questo è solo l’ultimo duro scontro tra il regime al potere in
Burundi e i media del paese.

Un conflitto lungo 15 anni

L’inizio della guerra civile in Burundi si
può datare con l’ottobre 1993, quando il neo eletto presidente Melchior
Ndadaye, di etnia hutu, voluto dalla maggioranza della popolazione, viene
assassinato. All’epoca le leve del potere, e soprattutto l’esercito, sono
saldamente in mano ai tutsi. Gli accordi di Arusha (2000) e di Pretoria (2003)
portano, non senza difficoltà, alla pace e a una nuova Costituzione. Le
elezioni generali con «il nuovo corso» si tengono nel 2005, quando l’Fnl tende
ancora imboscate e uccide all’interno del paese. Il Cndd-Fdd (movimento ribelle
hutu) vince e Pierre Nkurunziza, diventa presidente della Repubblica. Ma i veri
problemi sorgono alle elezioni del 2010. Dopo la prima tornata di maggio
(amministrative), i partiti di opposizione accusano brogli e si ritirano dalla
competizione. Intanto la tensione aumenta. Il Cndd vince in solitaria e
ottiene, questa volta, un controllo quasi totale di parlamento, governo e
presidenza della repubblica. La deriva autoritaria è garantita.

Diritti umani, no grazie

Nel 2010 si registra una «forte riduzione
dello spazio democratico» denuncia l’associazione statunitense Human Rights
Watch
(Hrw), che osserva il forte aumento di violenza politica tra fine
2010 e il 2011, con decine di assassini politici, impunità quasi totale dei
responsabili, atti di intimidazione e molestie verso militanti della società
civile e giornalisti. Il sistema giudiziario resta molto debole.

Già in campagna elettorale aumentano arresti
arbitrari e torture. Il partito Fnl si spacca, e il presidente Agathon Rwasa
fugge all’estero. Molte personalità politiche e giornalisti scelgono la stessa
via dell’esilio.

«Lo stato non riesce a proteggere i propri
cittadini e non reprime violazioni e crimini» incalza Hrw e si assiste a un «impasse
politico tra partito al potere e partiti di opposizione».

È di questo periodo la comparsa di nuovi
gruppi armati: alcuni membri del Fnl riprendono le armi e iniziano a fare
attacchi contro i membri del partito al potere e autorità locali. Il timore del
ritorno alla guerra civile è palpabile. Nel 2011 si assiste a un picco di
assassini. Molti sono gli scontri tra Cndd-Fdd e gruppi sedicenti alleati del
Fnl. Il potere utilizza a questo scopo polizia, servizi segreti e anche la sua
lega dei giovani, gli Imbonerakure.

Il 18 settembre 2011, domenica sera come tutte le altre. Un gruppo
di armati scatena l’inferno nel piccolo bar a Gatumba, località nei pressi
della frontiera con il Congo. È un massacro: 39 morti e 40 feriti. I colpevoli
restano sconosciuti. Fnl e servizi di sicurezza si accusano a vicenda. Il
governo applica una pressione mai vista affinché i media non parlino
dell’accaduto e nessuna inchiesta sia svolta. Hrw riporta che nel 2012 il
numero di assassini politici è sceso.

Media sotto tiro

Il «nuovo potere» in Burundi (Cndd-Fdd)
eredita dai precedenti regimi il cattivo rapporto con la stampa privata.

La radio è il principale mezzo
d’informazione per un paese in cui l’analfabetismo è ancora molto diffuso. Dal
1992 con la liberazione della stampa, si moltiplicano le radio private a fianco
di quella pubblica già esistente da tempo. Per i politici diventano il mezzo
per raggiungere le masse, fare propaganda, distruggere (verbalmente) i propri
nemici. «Ma è anche una tribuna di rivendicazione della società civile, in
particolare delle associazioni di difesa dei diritti umani, dell’opposizione e
della popolazione confrontata quotidianamente con problemi di ingiustizia»
scrive Gabriel Nikundana, giornalista radio e direttore del Centre de
formation des média
di Bujumbura. «Da qui il tentativo del potere attuale
d’imporre il silenzio a tutte le radio private che denunciano corruzione e
assassini selettivi. (…) Da quando i principali partiti di opposizione hanno
boicottato le elezioni nel 2010, il partito presidenziale ha occupato tutti gli
spazi di espressione. Le radio sono rimaste l’unica voce critica».

Il giornalista burundese, lui stesso
arrestato diverse volte e sottoposto a campagne denigratorie in passato per
aver dato voce a personaggi «scomodi» come i leader di diverse fazioni ribelli,
ha realizzato uno studio: «La repressione dei media in Burundi: deriva
professionale o deriva del potere attraverso il Cnc?». Nel lavoro Nikundana
analizza la repressione di radio e giornalisti negli ultimi anni ma cerca di
stabilire la correttezza deontologica di testate e giornalisti.

In Burundi la Radio Nazionale (Rtnb) è veicolo di propaganda
governativa. Nel variegato panorama delle radio private nascono tra fine anni
’90 e inizio 2000 tre importanti emittenti, che contendono alla Rtnb il livello
di ascolto: Radio Isanganiro, Radio Pubblica Africana (Rpa) e Radio Bonesha Fm.
Secondo Nikundana queste tre costituiscono un vero «contro potere», ed è per
questo che si innesca quella che lui chiama «la guerra dello stato ai media».

L’anno di tutte le
persecuzioni

Durante tutto l’arco del 2011 la Rpa, Isanganiro e Radio Bonesha
sono particolarmente colpite dalla Cnc e dai ministeri dell’Inteo e della
Comunicazione che sanzionano ripetutamente le tre radio. Molteplici i casi di
giornalisti e direttori convocati per spiegazioni, sia sui contenuti delle
trasmissioni, sia di carattere amministrativo. Molti reporter sono costretti a
mesi di reclusione senza processo nelle famigerate carceri burundesi.

Emblematico è il caso di Hassan Ruvakuki di Bonesha FM. Il
giornalista, anche corrispondente di Radio France Inteational, viene
arrestato il 28 novembre 2011. Dapprima accusato di «collaborazione con i
ribelli» durante il processo l’accusa diventa «partecipazione ad atti di
terrorismo». È quindi condannato all’ergastolo il 20 giugno 2012. Avrebbe
partecipato in Tanzania a riunioni di un nuovo movimento ribelle. In appello
gli viene ridotta la pena a tre anni di prigione (8 gennaio 2013). Ma il 6
aprile, pochi giorni prima della visita di Nkurunziza in Francia, Ruvakuki
viene improvvisamente scarcerato. Rsf, che ha condotto una campagna per la sua
liberazione, parla di «liberazione precaria, ufficialmente per “ragioni di
salute”». Mentre l’inquietudine resta perché: «Il giornalista è tutt’oggi
condannato a tre anni di prigione. Può essere ripreso in qualsiasi momento».

La Rpa resta la radio che ha avuto più problemi con il governo.

Molto gravi sono le accuse del ministro dell’Inteo, Eduard
Nduwimana in una lettera del 14 novembre 2011: «Lungi da essere uno strumento
di coesione sociale come dite, la vostra associazione utilizza la radio per discreditare
le istituzioni, delegittimare il potere giudiziario, condannare gratuitamente
gli individui, incitare la popolazione all’odio e alla disobbedienza, favorire
il culto della menzogna». Accuse non circostanziate, non viene segnalata la
trasmissione incriminata né le violazioni della legge. Il ministro chiede una
serie di controlli amministrativi, ma, di fatto, non da seguito alla vicenda.

Errori professionali?

«Molto spesso – ricorda Gabriel Nikundana – i richiami del Cnc o
dei ministeri sono imprecisi e non identificano chiaramente i passaggi o le
trasmissioni e impongono sanzioni non conformi alla legge». Inoltre: «Le
convocazioni a raffica di direttori e giornalisti hanno creato una forte
tensione nelle redazioni. Questo ha portato a considerare il governo come un
nemico. Ogni pretesto per discreditarlo era diventato valido, mentre
l’accuratezza nel verificare le informazioni è stata meno rigorosa. Così è
successo che l’informazione diventasse tendenziosa». I tre direttori,
intervistati da Nikundana, si difendono: sono consci di qualche bavure e
di mancanze al codice deontologico, ma dichiarano di aver punito loro stessi i
propri giornalisti.

«Abbiamo verificato alcuni errori professionali non sanzionati –
conclude Nikundana -. Questo a nostro parere dimostra che le intimidazioni
delle autorità pubbliche spingono i media all’errore. Il Cnc inoltre non è
neutro, in quanto i suoi membri sono nominati per decreto ministeriale. I
giornalisti spesso commettono degli errori, o non distinguono la militanza
politica dal giornalismo. Ma proprio questi sbagli non sono sempre identificati
dal Cnc che si concentra là dove vede un’opposizione politica al regime.

Marco Bello
___________________
 
MC ha trattato la libertà di stampa in Burundi nei servizi:
Va in onda la speranza, Marco Bello, maggio 1999;
Un mondo a misura di radio, dossier, Aa.Vv., settembre 2009;
Radio Incontro
, Marco
Bello, maggio 2011.


Marco Bello




«Lo hanno tradito un milione di volte»

Dopo la morte di Hugo Chávez e le elezioni del 14 aprile.
Il 5 marzo 2013 è morto Hugo Chávez.
Personalità forte e di enorme carisma, il presidente venezuelano ha segnato la
storia latinoamericana degli ultimi 15 anni. È stato un personaggio grandemente
amato e grandemente odiato. Dell’opera
di Chávez, della risicata vittoria del nuovo presidente Nicolás Maduro e dei
problemi del paese abbiamo parlato con padre Pablo Urquiaga, parroco in un
quartiere popolare di Caracas. Queste sono le sue risposte, appassionate e mai
banali.

Hugo Chávez Frias, presidente del Venezuela (Repubblica
bolivariana del Venezuela), è morto il 5 marzo 2013. È stato sconfitto da un
tumore all’età di 58 anni.

Personaggio unico e controverso, amato dalla maggioranza
del suo popolo, odiato dalle oligarchie di tutto il mondo, deriso e insultato
dai principali media inteazionali, Hugo Chávez si era imposto in tutte le
elezioni venezuelane a partire dal 1998. Nell’aprile del 2002 era stato deposto
da un colpo di stato guidato da Pedro Carmona Estanga, presidente di Federcameras
(la Confindustria locale), con l’appoggio di Washington e Madrid, delle
televisioni private del paese e della Chiesa cattolica venezuelana. A partire
da quegli eventi i rapporti del presidente Chávez, cattolico dichiarato, con la
gerarchia della Chiesa venezuelana sono sempre stati tesi, con vicendevole
scambio di accuse e parole forti.

Per discutere del ruolo avuto da Chávez nella storia
recente del Venezuela, dei principali problemi del paese e dei rapporti con la
Chiesa cattolica abbiamo conversato lungamente con padre Pablo Urquiaga Feández.
Nato nel 1945 a Pinar del Río, Cuba, dopo alcuni anni a Miami, nel 1968 Pablo
Urquiaga arriva in Venezuela. Conclude gli studi all’Università cattolica Andrés
Bello di Caracas. Nel 1975 viene ordinato sacerdote. Dopo 4 anni a Petare, nel
1980 diventa parroco della chiesa La Resurrezione del Signore, a
Caricuao, un quartiere di Caracas abitato da classi medio-basse.

Padre Pablo, in Europa e in generale nel mondo
occidentale il Venezuela di Hugo Chávez ha sempre goduto di una pessima stampa.
Ad esempio, in occasione delle elezioni di ottobre 2012, i principali
quotidiani italiani – Corriere della sera, La Stampa, la Repubblica
hanno fatto a gara per scrivere editoriali (a volte per mano di persone che mai
sono state in Venezuela) contro il presidente Chávez. Qualche anno fa Missioni
Consolata
pubblicò una serie di reportage sul paese e ci furono proteste
perché non si parlava male di Chávez. Da prete cattolico, come spiega questa
nomea?

«La mia opinione è che tutte queste persone non hanno
conosciuto il presidente Chávez. Lo ripeto ogni volta anche alla mia stessa
famiglia: voi vi accanite contro un “mostro virtuale” – che non esiste e che
non è mai esistito – chiamato “Chávez”. Questo mostro è stato costruito
attraverso i media che io definisco “perversi” in quanto strumenti di
manipolazione e confusione sociale, sottoposti a precisi interessi economici e
politici. Media creati dalle oligarchie per opprimere e sottomettere la povera
gente. Media non interessati a fare conoscere la vera immagine di Chávez.

Il vero Hugo Chávez, profeta e martire, si è visto il 5
marzo 2013, giorno in cui il Dio di Gesù lo ha glorificato e milioni di persone
hanno reso gloria a Dio per la sua vita. Persone che hanno dimostrato il loro
apprezzamento e il loro amore formando lunghe processioni davanti al suo
feretro esposto nella Scuola militare di Caracas. Code che sono durate 10
giorni lungo le 24 ore senza mai fermarsi. Siamo stati testimoni in prima
persona di un evento che nessun mezzo di comunicazione ha potuto nascondere. Io
ne sono convinto: il Dio di Gesù lo ha glorificato attraverso il suo popolo,
quello più umile e semplice».

Quando una persona viene colpita da una grave malattia,
ci dovrebbe essere più rispetto, più umana pietas o – come dovrebbe avvenire
per i credenti – più carità cristiana. Con Chávez non è stato così. Al
contrario, avversari in patria e fuori ne hanno approfittato per chiedere il
suo allontanamento. Quando infine è morto, molti hanno trattenuto a stento il
proprio compiacimento. Perché?

«È vero. In Venezuela e nel mondo molti hanno pregato per
la sua morte, credendo che egli fosse un vero mostro. Altri perché lo odiavano
come fu odiato Gesù di Nazareth, per invidia, vendetta e sete di potere. Hugo
Chávez era venuto ad “aprire gli occhi dei ciechi”, per far prendere coscienza
a un popolo sottomesso. Il presidente ne ha risvegliato la dignità. Tutto
questo non poteva essere accettato dai potenti, vale a dire da quelli che si
ritengono “migliori di tutti gli altri”.

Era accaduto lo stesso per Gesù di Nazareth e per
l’arcivescovo Romero 33 anni fa in Salvador, e ancora per Gandhi in India e
Martin Luther King negli Stati Uniti. Non dimentichiamo che una parte degli
oppositori non credevano che il presidente fosse malato, ritenendo la malattia
un imbroglio come quelli di cui essi sono normalmente artefici. Senza accennare
al fatto che molti tra noi hanno forti sospetti che il cancro del Presidente
sia stato indotto dai suoi stessi nemici, stranamente sempre molto ben
informati sull’evoluzione della malattia».

In Occidente si contesta la lunga permanenza di Chávez al
governo del Venezuela. Non interessa il fatto che il presidente sia sempre
stato scelto tramite libere elezioni, strumento principe della democrazia. Si
parla senza mezzi termini di «caudillismo» e spesso di dittatura. Cosa pensa al
riguardo?

«Hugo Chávez è stato il più grande democratico che questo
paese abbia avuto in tutta la sua storia repubblicana. Un capo o un dittatore è
colui che si impone  contro la volontà
popolare. Hugo Chávez è stato rieletto molte volte dal suo popolo, con elezioni
limpide e certificate, con un Consiglio nazionale elettorale pulito.

Il contrario di quanto normalmente avveniva nei
governatorati di Miranda e Zulia (i due stati con il più vasto bacino
elettorale), vinti più volte dall’opposizione tramite frode e compravendita dei
voti. Il popolo non avrebbe mai prevalso, se non attraverso un numero enorme di
voti, assai più difficile da adulterare. Proprio ciò che accadde nel dicembre
1998, quando Chávez conquistò per la prima volta la presidenza della Repubblica
bolivariana del Venezuela».

Nel 2009 un referendum popolare approvò – con scandalo e
clamore mondiali – il cambio degli articoli della Costituzione che vietavano la
rielezione. Quella stessa Costituzione che, con l’articolo 72, consente di
revocare tutte le cariche elettive dopo metà mandato. Un esempio straordinario
di democrazia che i paesi occidentali e i media hanno quasi sempre
dimenticato…

«È così. Con la nuova Costituzione, voluta da Chávez nel
1999, siamo andati oltre la “democrazia rappresentativa” in cui un eletto, dopo
essere stato votato, fa quello che vuole, in cui occorre aspettare cinque anni
per “cacciare dal potere” un rappresentante inadeguato o indegno con il rischio
di votare un altro con le stesse abitudini del precedente. La Costituzione
bolivariana ha creato una “democrazia partecipativa e protagonista”, dove la
gente non soltanto vota ma il “prescelto”, una sorta di portavoce del popolo,
deve rendere conto del suo operato. E se, dopo due anni, questo viene giudicato
insoddisfacente è possibile revocare il mandato. L’opposizione vuole salvare la
sua “democrazia”, mentre la gente comune vuole difendee “una diversa”, quella
istituita con la Costituzione del 1999. Questa è la differenza».

Il Venezuela è uno dei principali produttori mondiali di
petrolio. Lei ritiene che il governo abbia utilizzato bene le grandi entrate
petrolifere?

«La società Petróleos de Venezuela (Pdvsa), una
delle aziende più ricche e importanti del mondo, era proprietà privata di circa
40.000 famiglie. Ovvero 200.000 venezuelani erano i padroni della sola impresa
in grado di produrre ricchezza per il paese. Peccato che il Venezuela abbia 16
milioni di abitanti. Prima di Chávez, soltanto una piccola percentuale della
popolazione si avvantaggiava del Venezuela saudita. Con i miei occhi sono stato
testimone di questa spaventosa ingiustizia. Venezuelani che arrivavano a Miami
per comprare edifici di quattro piani e venti appartamenti pagando tutto in
contanti. Gli statunitensi rimanevano stupefatti perché nessun’altro agiva così.
Pensavano che tutti i venezuelani fossero ricchi. Per decenni un’esigua
minoranza ha sperperato la ricchezza petrolifera del paese. Oggi il petrolio
appartiene a tutte e tutti i cittadini del Venezuela».

Gran parte dei profitti derivanti dal petrolio sono stati
utilizzati per finanziare le cosiddette «misiones». I critici – più o meno
attendibili – parlano di spreco e di occasione persa per far progredire
l’economia del Venezuela.

«I proventi del petrolio – pur in presenza della
corruzione – sono stati messi a disposizione dei più bisognosi, attraverso gli
investimenti nelle missioni sociali.

Pensiamo ai servizi per la salute della Missione Barrio
Adentro. O alle missioni nel campo dell’istruzione: la Missione Robinson
attraverso la quale milioni di persone analfabete hanno imparato a leggere e
scrivere; la Missione Ribas, con la quale chi già aveva un diploma di scuola
primaria ha potuto accedere alla secondaria e ottenere un diploma; e infine la
Missione Sucre, attraverso la quale molti sono stati in grado di studiare
all’Università e si sono laureati in diverse specialità. Sogni diventati realtà
per molti emarginati. E ancora ricordo la Missione Negra Hipolita, attraverso
la quale gente senza fissa dimora è stata recuperata a un’esistenza dignitosa.
E poi la Missione Vivienda, con cui migliaia di famiglie hanno beneficiato di
una casa dignitosa, soprattutto coloro che erano rimasti danneggiati da eventi
naturali. Le missioni hanno aiutato le classi più povere, ma ovviamente sono
costate un sacco di soldi. In esse è stata investita la maggior parte degli
utili di Pdvsa, utili che prima finivano nelle mani dei privilegiati di questo
paese.

Questa è la verità che l’opposizione e i media
occidentali non vogliono riconoscere. Per costoro investire nel sociale è un
assurdo economico. “Perché sprecare denaro con persone che non producono?”,
affermano».

Al successo delle missioni fanno da contraltare gli
insuccessi in materia di sicurezza. Leggendo i giornali e alcune statistiche,
parrebbe che il Venezuela sia un paese con alti o altissimi livelli di
criminalità comune. È così?

«Purtroppo è così. Il problema dell’insicurezza peggiora
ogni giorno. È una questione che non è nata con Chávez, ma che deriva dal
deterioramento di un sistema capitalista corrotto ereditato dal passato. Non è
un problema risolvibile con la bacchetta magica. Per affrontarlo seriamente
occorre cambiare la “cultura della corruzione” che ancora domina il nostro
paese e tutto il mondo. Giudici e avvocati corrotti sono ancora in vendita per
denaro, l”idolo” che occorrerebbe distruggere. C’è la polizia abituata a farsi
corrompere. C’è il narcotraffico, che si è infiltrato nel governo e
nell’opposizione. Ma anche all’interno delle classi popolari, dove spesso i
bambini vengono arruolati come “muli”, cioè come trafficanti di droga
che – in quanto minori – non sono imputabili per i loro reati. In questo modo i
“colletti bianchi” non vengono mai toccati.

Il problema è serio e complesso. Il governo sta facendo
molti sforzi per affrontare la questione, ad esempio con una campagna per il
“disarmo”. Ha già raggiunto alcuni risultati, ma non quelli che ci
aspettavamo. In verità, abbiamo bisogno di “disarmarci nella mente e nel cuore”,
perché qui sta il problema principale. Noi della Chiesa, in forza del nostro
ruolo, stiamo lavorando in questa direzione».

Altra accusa mossa al Venezuela riguarda la libertà di
espressione. I proprietari dei media venezuelani sostengono di essere
danneggiati dal governo bolivariano con la legge sulle Tv e con la «cadena
nacional», cioè l’obbligo di trasmettere programmi o messaggi delle autorità
governative. Cosa risponde a queste critiche?

«Le “catene televisive” del presidente – e in
particolare il suo programma “Aló, Presidente” – hanno rappresentato
l’unico modo che il governo di Hugo Chávez aveva per comunicare con veridicità
tutto quello che stava facendo la rivoluzione bolivariana. Una verità
completamente occultata dai media privati.

Prima della rivoluzione in questo paese tutti i mezzi di
comunicazione erano in “mani private” ovvero nella totale disponibilità delle
oligarchie che manipolavano (e continuano a manipolare) le persone con le loro
bugie o “mezze verità” per confondere e favorire i propri esclusivi interessi.
Senza dubbio, i media privati, molto più forti e potenti in termini di qualità
e portata rispetto alla televisione pubblica, sono perennemente “in catena
nazionale”, cercando di distorcere la realtà 24 ore al giorno. In Venezuela
dobbiamo affrontare una vera e propria “guerra mediatica”».

Una guerra che ebbe il suo apice durante il golpe
dell’aprile 2002 quando i canali televisivi privati ebbero un ruolo di primo
piano nella (temporanea) destituzione del presidente Chávez.

«Appunto per questo, nel dicembre 2004, è stata emanata
la “Legge di responsabilità sociale nelle radio e in televisione” (nota con
l’acronimo di Resorte), che regola l’uso dei mezzi di comunicazione di
massa.

Mi ricordo che, dopo averla tenuta tra le mani e averla
letta attentamente, andai a trovare un amico e fratello, “dottore in Teologia
morale”. Gli chiesi la sua opinione sulla legge. Egli mi rispose: è così buona
che l’unica cosa che manca sono le “citazioni bibliche” a margine. Al ché io
gli ribattei: e perché voi non lo dite in pubblico? Mi rispose: se lo
dicessimo, direbbero che siamo “chavisti”, cioè partigiani di Chávez».

Oltre a quella legge, i media e l’opposizione contestano
la chiusura – nel maggio 2007 – del canale privato Radio Caracas de Television
(Rctv).

«In Venezuela non si è mai chiuso alcun media
dell’opposizione. Per quanto riguarda il caso di Rctv, la sua cessazione fu
determinata dal mancato rinnovo della concessione. Questa non fu rinnovata a
causa della violazione della legge e dell’uso improprio dell’etere, uno spazio
pubblico di cui – è bene ricordarlo – non si è mai proprietari, essendo esso un
bene di tutti».

Il Venezuela di Chávez ha ottimi rapporti con Cuba. Ciò
viene preso a pretesto dagli Stati Uniti per attaccarlo. Tuttavia, alcune
relazioni con paesi come l’Iran e la Bielorussia sono effettivamente
discutibili. Che strategia segue il Venezuela nel campo delle relazioni
inteazionali?


«La Repubblica bolivariana del Venezuela è una nazione
libera e indipendente e come tale ha il diritto di avere rapporti con tutti i
paesi che ritenga opportuno, senza alcun tipo di ingerenza straniera. Come
nazione noi desideriamo avere le migliori relazioni con tutti i paesi fratelli.
La sola cosa che pretendiamo è il rispetto per la nostra indipendenza e
sovranità. Condivido pienamente la politica internazionale esercitata dal
nostro presidente Hugo Chávez. Oggi il Venezuela è rispettato in tutto il mondo
anche per la sua capacità di aiutare i popoli più bisognosi. Ci siamo resi
conto che la nostra ricchezza – il petrolio – ci è stata donata dal Creatore
per servire le nazioni più povere e non per sfruttare gli altri o per regalarla
agli imperi di tuo, diventandone i servi. Abbiamo ottimi rapporti con paesi
di diverse culture e ideologie che ci rispettano e che non ci sfruttano come ha
fatto un tempo l’impero nordamericano. Ho la certezza che la politica
internazionale finora seguita continuerà anche con il nuovo presidente Nicolas
Maduro, che era stato cancelliere del presidente Chávez».

Nei suoi interventi pubblici, il presidente Chávez faceva
spesso riferimento alla propria fede, con citazioni dai testi sacri e
considerando Gesù Cristo un rivoluzionario ante litteram. Eppure, la
Chiesa cattolica, soprattutto la gerarchia venezuelana, è sempre stata un
durissimo avversario del presidente, tanto da dare il suo supporto al golpe
dell’aprile 2002. Come spiega questo atteggiamento?


«Io ho sempre creduto nella fede di Hugo Chávez, ma più
per quello che faceva che per quello che diceva. Ancora una volta mi permetto
di parafrasare il Vangelo secondo Matteo: “Dai suoi frutti l’ho conosciuto”.
Hugo Chávez, come un profeta, ha detto alcune verità a qualche alto esponente
della chiesa venezuelana (a volte io non ero d’accordo, non su quello che
diceva, ma come lo diceva). Costoro non erano abituati a sentirsi dire in
faccia, da qualcuno a quei livelli, alcune verità e ciò non è mai stato
perdonato. Il comportamento del presidente era interpretato come una “mancanza
di rispetto”. So che, in molte occasioni e in diversi modi, Chávez ha cercato
una riconciliazione o almeno un dialogo con loro. Inutilmente, in quanto alcuni
di essi si sono sempre opposti, trincerandosi dietro una posizione radicale
contro di lui, accusato di aver offeso la loro dignità. A quanto ho capito, è
questa la radice di un conflitto mai risolto».

Al di là delle sue personali speranze, secondo lei senza
Chávez la rivoluzione bolivariana potrà continuare?

«In varie occasioni il presidente Hugo Chávez disse: “Io
sono soltanto una semplice paglia mossa da questo uragano chiamato Rivoluzione
bolivariana”. Lui si considerava un servitore del popolo tanto da dire:
“Io non sono più Chávez. Chávez è tutto un popolo che grida: ‘Siamo tutti
Chávez’”».

Questo è lo slogan gridato dalla sua gente nei giorni
della morte…

«Questo non è un semplice “slogan”. È una realtà
diventata evidente in quelle lunghe file davanti alla sua bara di migliaia di
ammiratori che andavano a testimoniare la propria riconoscenza e le proprie
convinzioni. Il mondo ne è stato testimone. Sono convinto che lo spirito di Chávez
continuerà ad accompagnarci così come quello di Simón Bolívar che il presidente
seppe magistralmente “resuscitare dalla sua tomba”, dove i potenti
ipocritamente andavano a “onorare la sua memoria” e ad assicurarsi che l’eroe
continuasse “a riposare in pace e ben morto”. Vivo in questo paese da ben 45
anni e posso dire che questa rivoluzione si è generata nel popolo venezuelano
molti anni fa. Molti profeti popolari avevano già alzato la loro voce di
protesta (tra cui il famoso cantante popolare Ali Primera). Hugo Rafael, con molta
saggezza, ha saputo raccogliere l’ardore rivoluzionario del popolo venezuelano
e trasformarlo in un “potere sostanziale” attraverso un’assemblea costituente
(che funzionò da agosto a novembre del 1999, ndr) che ha prodotto la
migliore Costituzione delle Americhe (ma io direi del mondo)».

Le costituzioni sono fondamentali, ma spesso non si
traducono in fatti. Come vede il futuro del Venezuela, padre?

«Il futuro sarà l’occasione per approfondire
ulteriormente la nostra idea conosciuta come “Socialismo del Secolo XXI”».

Padre, lei vuole farmi licenziare! In questo mondo
parlare di socialismo è quasi una bestemmia, ancora di più se detto da un prete
cattolico…

«Ma è un socialismo molto diverso dagli esempi dei secoli
passati! Il passato è passato. Il socialismo alla venezuelana è più ispirato al
Vangelo di Gesù di Nazareth e alla spiritualità degli aymara della Bolivia; più
alle idee ecologiste e bolivariane che alle ideologie europee dalle quali
abbiamo comunque attinto alcuni elementi importanti e strategici. Questa è una
strada non soltanto per il Venezuela, ma per quella grande patria che è
l’America e per gli altri popoli del mondo, che desiderano unirsi. La
rivoluzione di Chávez, Bolívar, Martí, San Martín, Lincoln, Martin Luther King,
Gandhi continuerà con altri grandi spiriti che – io ne sono certo – sempre ci
accompagneranno. Il futuro è nostro finché non avremo bandito dalla terra la
fame, l’ingiustizia, lo sfruttamento e la malvagità».

Intanto, padre Pablo, nelle elezioni di domenica 14
aprile 2013 Nicolás Maduro ha vinto di stretta misura. Il nuovo presidente non
sembra avere né il carisma né la statura politica di Hugo Chávez.

«Non nego che quella del 14 aprile è stata una vittoria
amara. Mi sono venute in mente le parole di Gesù: “Io ti assicuro che oggi,
questa stessa notte, prima che il gallo canti due volte, tu mi avrai rinnegato
tre volte” (Mc 14,30). Chávez è stato tradito non tre, ma un milione di volte
(tanti sono i voti venuti a mancare, ndr). È stato un risultato doloroso
e triste, ma la rivoluzione non si ferma e la nostra democrazia ha vinto una
nuova battaglia. E tuttavia, se un milione di persone hanno tradito, sette
milioni e mezzo di venezuelani sono rimasti fedeli.

Quanto al carisma e alla statura di Maduro, il problema
non sussiste. Egli non deve inventare nulla dato che il presidente Chávez ha
lasciato il programma di governo per i prossimi anni (Piano della patria).
Il neo presidente dovrà soltanto metterlo in pratica, aiutato da una compagine
governativa di sicuro valore e dalla nostra democrazia partecipativa».

________________________

Henrique
Capriles, candidato dell’opposizione e governatore di Miranda, non ha
riconosciuto la vittoria di Maduro (50,78% contro 48,95%), fomentando un clima
di violenza che ha provocato morti e feriti. Confermando la propria serietà
(certificata dal Centro Carter), il Consiglio elettorale (Cne) ha accettato il
ricorso e ha ordinato il controllo dei voti espressi elettronicamente. È infine
interessante ricordare che, nel referendum del 2007, la proposta di riforma
costituzionale presentata da Chávez venne bocciata con il 50,7% di «no». Il
presidente riconobbe subito quella sconfitta, prima ed unica della sua storia
politica.

Paolo Moiola

Paolo Moiola




«Costruite il secolo del dialogo»

Il Dalai Lama a Trento e Bolzano


Coltivare la pace partendo da se stessi. È stato questo il
messaggio centrale del Dalai Lama durante la sua visita al Trentino Alto Adige.
Una terra di montagne e di frontiera proprio come il Tibet, nel quale però la
libertà, la cultura e la religione sono schiacciate dal pugno di Pechino. Con
pesanti conseguenze sul popolo tibetano.


Trento. Due terre
di autonomia, il Tibet e la regione Trentino Alto Adige. Il primo la chiede da
tempo, senza trovare ascolto presso il governo cinese, che sta conducendo una
sinizzazione forzata del «Tetto del mondo» nel nome dello sviluppo economico;
la seconda, invece, l’autonomia l’ha ottenuta alla fine della Seconda guerra
mondiale, sviluppandola progressivamente fino a diventare di fatto un
piccolo-grande modello di autogoverno, a cavallo fra Italia e mondo tedesco.
Sarà forse questo il legame fra le due terre di montagna, per altri versi così
distanti; un legame che ha spinto lo scorso aprile il Dalai Lama a venire in
visita per la quarta volta, in poco più di dieci anni, prima a Bolzano e poi a
Trento.

L’accoglienza della gente è stata come sempre molto
calorosa. Un segno anche questo, probabilmente, di come tante persone oggi
desiderino sentir pronunciare certe parole, indipendentemente dalle fedi e
dalle ideologie. Parole che invitano innanzitutto a coltivare la pace, partendo
da se stessi, dal proprio vissuto quotidiano, dalle proprie relazioni
familiari, e a superare la visione economicista della vita e del mondo che
sembra prevalere a ogni latitudine, tanto in Occidente quanto, ormai, in
Oriente.

Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama, premio Nobel per la
pace 1989, è oggi di fatto solo un’autorità
spirituale. Il suo ruolo di massimo rappresentante del governo tibetano
in esilio (che ha sede in India, a Dharamsala) è passato infatti nel 2011 a un
laico, Lobsang Shangay, di formazione accademica, eletto dalla comunità degli
esuli tibetani. Tuttavia, il Dalai Lama continua ad essere un punto di
riferimento imprescindibile per i tibetani e non solo per loro. A Trento, dove
ha tenuto un incontro pubblico presso il locale palasport, si è concentrato in
particolare sul tema della felicità, ma naturalmente anche con molti excursus
sulla situazione attuale del Tibet. Dal Dalai Lama è venuto in particolare un
forte appello ai giovani: «Spetta a voi – ha detto – far sì che il XXI secolo
non sia uguale a quello che lo ha preceduto. Il XX secolo è stato il secolo dei
conflitti. Anche qui in Italia ne avete avuto esperienza. Adesso le cose devono
cambiare. Questo deve essere il secolo del dialogo. Aumento della popolazione,
fino a 10 miliardi di persone, riscaldamento globale, tensioni di ogni genere
create dai populismi, dai flussi migratori, dal crescere abnorme delle città:
le sfide che le nuove generazioni hanno di fronte sono molteplici. Il passato
non si può cambiare ma possiamo costruire il futuro. Saranno le nuove
generazioni a doverlo fare, la mia è già passata. Sono i quindicenni che devono
impegnarsi, ora. Dobbiamo usare i conflitti come un’opportunità per generare
nuove idee, nuove soluzioni. È, questa, una grande occasione ma anche una
grande responsabilità».

A colloquio con il Dalai Lama

Santità, lei sostiene la causa di un’ampia autonomia per
il Tibet. Su quali basi dovrebbe poggiare?

«Sin dal 1951, quando abbiamo firmato un accordo
in 17 punti, era iniziata una collaborazione col governo cinese. Infatti nel
1954, quando ho incontrato Mao Zedong di persona e abbiamo avuto diversi
colloqui, nel primo di questi lui aveva detto che, come definito nei 17 punti,
si sarebbe costituita una Commissione d’inchiesta sul tema. Successivamente ha
deciso di introdurre l’autonomia per il Tibet e questa proposta era stata
accettata da tutti noi presenti all’incontro. Perciò nel 1956, quando siamo
tornati in Tibet, abbiamo costituito il governo autonomo per il Tibet e io ero
il capo del nuovo governo. Quando si parla di autonomia si parla di
autogestione. È una cosa molto pratica, decisa da Mao stesso, e questo è stato
portato avanti in Tibet fino al 1959 (anno dei moti tibetani, della grande repressione
che ne è seguita e della fuga del Dalai Lama in India, ndr).

Da tanti anni in Europa e anche qui in
Italia è praticata molto bene una autonomia “completa”. Anche noi tibetani
chiediamo una autonomia completa però rimanendo insieme: non stiamo chiedendo
la separazione dalla Cina. Sicuramente sarà molto utile imparare dalla vostra
esperienza (del Trentino Alto Adige, ndr), però la cosa importante da
considerare è che i cinesi vivono sotto un governo totalitario, senza la
democrazia, la libertà e la giustizia, mentre l’Italia è un paese democratico.
Per questo motivo anche l’autonomia in Italia è espressione di democrazia, e
questo fa la differenza».


Quali speranze ci sono quindi che la Cina
accetti di negoziare un’autonomia per il Tibet?

«I problemi del Tibet non si possono
risolvere nella maniera con cui si cerca di risolverli oggi. Sono un problema
anche per il governo cinese. Per esempio, diversi anni fa il ministro degli
Affari esteri del governo cinese aveva chiesto all’esecutivo di impegnarsi a
risolvere la questione tibetana a causa delle critiche che continuava a
ricevere dagli altri governi, che creavano disagio nelle relazioni
inteazionali e un ostacolo alla creazione di legami profondi e duraturi.
Questa è la realtà. Quindi i problemi del Tibet si devono risolvere in qualche
modo. Ma sicuramente questo modo non può essere la violenza, come pensano un
paio di ministri cinesi. Usando la violenza verso i tibetani non ci sarà mai
una soluzione.

Per questo motivo noi stiamo proponendo una
soluzione vantaggiosa per entrambe le parti, che consenta da un lato al governo
cinese di avere la pace in Tibet e dall’altro ai tibetani di non soffrire e di
assumersi le loro responsabilità in ordine alla preservazione della  nostra religione, della nostra cultura e del
nostro ambiente.

Si creerebbe una situazione “vincente” per
entrambi i lati. Una cosa importante da dire è che tanti cittadini cinesi –
soprattutto quelli con istruzione più alta – hanno sostenuto la posizione di
un’autonomia che consenta ad entrambe le parti di essere vincenti, coloro che
lottano per la giustizia e coloro che “cercano la realtà nei fatti” come ha
detto una volta Deng Xiaoping».

Nel frattempo l’esasperazione del popolo
tibetano cresce, e molti tibetani stanno scegliendo come estrema forma di
protesta la strada della autornimmolazione con il fuoco. Lei cosa ne pensa?

«È una cosa molto triste e che ti fa perdere
il cuore, un’azione causata da difficoltà estreme e dalla disperazione. Viene
da pensare come possano farlo e soprattutto cosa li spinga a un gesto tanto
estremo. Però questa azione estrema  non
garantisce che si possa risolvere il nostro problema. Sicuramente indica il
fallimento assoluto del governo cinese, della sua gestione della situazione
politica tibetana con il ricorso alla violenza per continuare a mantenere il
controllo. Devono pensare loro, innanzitutto, quelli che hanno creato il
problema, a come risolverlo. Noi da fuori comunque possiamo soltanto pregare».

Il mondo sta attraversando una fase di
grande incertezza, causata dalla crisi economica ma anche dall’assenza di punti
di riferimento stabili. In questo contesto, qual è la sua idea di felicità?
Quale insegnamento ci può dare riguardo all’essere felici?

«In generale si è puntato su uno sviluppo “esteriore”,
materiale. Anche i sistemi scolastici sono basati sul come sviluppare le cose
materiali o come curare le malattie del corpo, non viene mai data importanza
alla crescita mentale o alla felicità interiore. Sembra di fatto che non si
sappia proprio da dove viene questa sofferenza mentale, da cosa sia causata. Da
quando c’è l’ idea che tutte le cose possono essere risolte per la via
economica e che la felicità sia basata sulla crescita dell’economia, anche
affrontare una crisi come questa, non avendo un punto di riferimento stabile a
cui chiedere aiuto, causa molta sofferenza e tristezza.

In senso religioso il problema può essere
risolto tramite la fede. Ma quando parliamo di fede parliamo di fiducia senza
ricorrere alla ragione. Come ha detto il Papa precedente, dobbiamo cercare
anche di portare avanti la fede assieme alla ragione.

Questo può aiutare a trovare una strada “stabile”
per la mente e sconfiggere la sofferenza interiore. Un esempio può essere
questo: con l’attuale crisi economica le persone che hanno pensato solo ai
soldi stanno ovviamente soffrendo molto, però le persone che hanno amici o
buoni conoscenti dai quali si sentono amati o sostenuti moralmente e le persone
che hanno dato una certa importanza all’amore e alle relazioni umane
soffrono  di meno, anche se hanno gli
stessi problemi economici delle altre».

In quanto Premio Nobel per la pace, può
dirci come il cittadino comune può dare il suo contributo alla costruzione di
un mondo più pacifico?

«Ho sempre detto che la pace può essere
realizzata solo tramite la pace interiore. Siamo noi uomini che eliminiamo la
pace dalla nostra vita, non sono la natura o gli animali che distruggono la
pace. Per questo motivo le persone stesse devono prendersi la responsabilità di
creare la pace, eliminando cose come gelosia, cattiveria, pensiero negativo o
avidità dalla loro mente, che possono distruggere la pace interiore. Quando la
pace interiore è stata distrutta a causa di qualcosa si creano tutti i tipi di
litigi e di violenza tra le persone. Per avere la pace esteriore bisogna dunque
iniziare dalla pace interiore e per questa ragione è importante capire le cause
negative che possono disturbare la nostra mente. Questo può essere anche
raggiunto grazie alla religione, con la credenza nel paradiso o, nel buddismo,
coltivando la pace interiore al fine della liberazione dalla rinascita.

Comunque dobbiamo innanzitutto guardare ai
fatti di questo mondo e di questa vita, dove, grazie alla pace mentale,
possiamo aiutare e amare la nostra famiglia. Questo amore passa da una famiglia
all’altra e da una comunità all’altra, aumentando sempre, e alla fine si
espande in tutto il mondo.

La pace, comunque, non ha nessuna speciale
relazione con nessun tipo di fede o di religione. Se c’è la fede ben venga però
anche un ateo può capire l’importanza della gelosia e della cattiveria, e il
valore del buon cuore e della pietà verso gli altri.

Non avere la pace mentale può anche causare
molte malattie e non dà nessun frutto positivo. Per questo motivo la pace deve
essere oggetto di studio e di ragionamento. Come noi curiamo le nostre malattie
fisiche, dobbiamo curare anche i nostri problemi della mente». 

Marco
Pontoni

L’autore – Marco Pontoni è caporedattore all’Ufficio stampa
della Provincia autonoma di Trento. Ha realizzato reportages e documentari in varie parti del mondo, documentando
soprattutto iniziative di cooperazione allo sviluppo. Con Massimo Zarucco è
autore di Mozambico, l’orgoglio di un
popolo
, Valentina Trentini ed., 2005.
Ringraziamenti – L’autore ringrazia Tenzin Khando per la
traduzione dal tibetano.

Web Tv – I video dell’incontro con il Dalai Lama sono
visionabili sul sito: www.webtv.provincia.tn.it.

L’archivio
Sul Tibet si legga: Contro Pechino, a
costo della vita
, di Mauro Crocenzi (China
files
), MC, dicembre 2012.

 
Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama


Compassione e Reincarnazione

Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama, è nato nel 1935 a Taktser,
un villaggio dello sterminato altopiano tibetano, in una famiglia contadina. In
tenera età è stato riconosciuto come la reincarnazione del Dalai Lama, massima
autorità spirituale del buddismo tibetano, ovvero come la manifestazione
terrena di Avalokitesvara o Chenrezi, spesso definito in Occidente «il Buddha
della compassione». Nella religione tibetana questa carica (analogamente a
quella di altri Lama) non è elettiva né ereditaria, ma si basa appunto su un «riconoscimento»,
ovvero sull’individuazione di un bambino nel quale lo spirito del Dalai Lama
defunto si è reincarnato, perché mosso da compassione nei confronti degli
uomini e dal desiderio di aiutarli. Dopo il riconoscimento, Tenzin Gyatso ha
vissuto la sua giovinezza nella capitale del Tibet Lhasa, dimorando nel Potala,
il palazzo reale e venendo educato dai suoi precettori (come in parte
testimoniato da Heinrich Harrer nel suo fortunato libro di memorie Sette anni
in Tibet). Vive in esilio dal 1959, quando – in seguito all’occupazione cinese
del Tibet, e alla successiva repressione delle rivolte scoppiate nel «Paese
delle nevi» – molti tibetani hanno lasciato la loro terra stabilendosi un po’
ovunque nel mondo, in massima parte in India, dove, nella cittadina di
Dharamsala, è nato anche il governo tibetano in esilio. Premio Nobel per la
pace 1989, il Dalai Lama ha già visitato molte volte l’Italia (e quattro volte
il Trentino: nel 2001, 2005, 2009, 2013), portando il suo messaggio permeato
dai principi della nonviolenza, ma anche le ragioni di un popolo che continua a
rivendicare con determinazione un’autonomia per la sua terra. (Ma.Po.)

Marco Pontoni