Isaac & Cristina oggi sposi

Portfolio:


Matrimonio coreano tra tradizione e modeità


(Clicca su una delle due foto qui sotto per vedere la fotogallery completa)


Anyong, Corea del Sud,
9 ottobre 2013

Amici cari, il 9 ottobre 2013 ho partecipato al
matrimonio (foto 1) di
Kim Soo-jong Cristina e Park Da-un Isaac. Cristina è figlia di una coppia di
amici molto impegnati a sostegno della nostra presenza missionaria in Corea.

La mamma di Cristina, Gloria, mi ha chiesto di fare alcune foto
stile freelance e così è stato. Vi lascio le migliori. Il momento più
bello da fotografare è stato quello della cerimonia tradizionale. Vedrete perché…

Il matrimonio religioso è stato celebrato nella chiesa del
convento dei Francescani a Seul. Prima del matrimonio, in una saletta
riservata, la sposa, seduta come una regina, aveva accolto tutti gli invitati
alla celebrazione. Eccola allora con i suoi genitori e il fratello (foto 2) e con lo sposo,
i suoceri e il cognato (foto 3).

Poi è cominciata la messa. È usanza che le mamme degli sposi entrino assieme indossando i
vestiti tradizionali (foto 4). Di seguito entra la sposa con il papà. La cerimonia è stata
semplice e sobria. Presieduta da padre Lee Seung-yon Pedro, responsabile degli
scout nella diocesi di Seul (foto
5
). Sia Cristina che Isaac, infatti, sono scout.

Prima della preghiera finale, lo sposo ha cantato una canzone
romantica alla sposa… seguito da alcuni amici che ci hanno deliziati con una
musica vivace e con tanto buon umore. Gli sposi sono usciti dalla chiesa tra
due ali festanti di scout (foto
6-8
).

Ci siamo quindi recati nel wedding hall, una stanza del
convento attrezzata per le feste di matrimonio (tutte le parrocchie cattoliche
ne hanno una). Lì è iniziata la cerimonia tradizionale alla quale hanno
partecipato solo i familiari più stretti: nonni, zii, genitori e fratelli. La
sposa è stata preparata con i vestiti di una volta, quelli dei tempi degli
imperatori, e per lo sposo è stato lo stesso, naturalmente (foto 9 e 10).

Una volta pronti per la cerimonia, si sono seduti di fronte a un
tavolino (foto 11) sul quale era stato preparato tutto il necessario: i frutti di tetchu
(un frutto secco agrodolce) ben ordinati, castagne, pasticcini e frutta secca,
e il contenitore e le tazzine per il tjong-jong, il tipico liquore di
riso simile al sakè giapponese.

Tradizionalmente i primi a ricevere l’omaggio sono i genitori
dello sposo. C’è prima una riverenza solenne (foto 12).

Poi gli sposi servono il liquore. I genitori di lui (foto 13) a loro volta
fanno un bel brindisi non senza prima dispensare buoni consigli (foto 14).

E qui arriva la parte più interessante: i genitori lanciano castagne
e tetchu come augurio di
fertilità alla coppia.

La raccolta, in un bellissimo drappo di seta, è stata in questo
caso fruttuosa e benaugurante (foto
15
). è poi la
volta della nonna dello sposo con alcune zie (foto 16), che non risparmiano i loro severi
consigli.

Seguono i genitori della sposa: si ripete con loro il rito, dopo
la riverenza solenne (foto 17), dell’ascolto dei consigli e dell’offerta del liquore. La
tradizione vuole che solo i genitori dello sposo lancino i frutti secchi della
fertilità. Ed eccoli tutti felici e contenti (foto 18).

I fratelli di entrambi, più giovani degli sposi, hanno concluso le
visite. Si sono scambiati le tazze con il liquore e hanno brindato alla salute
e felicità degli sposi novelli. Anche loro hanno detto parole di auguri (foto 19).

Finalmente tutti se ne vanno e gli sposi terminano il rituale da
soli.

Si servono liquore e lo bevono in allegria (foto 20 e 21) … e
poi mangiano i tetchu, i frutti secchi che, con le castagne,
simboleggiano fertilità. Ogni frutto raccolto, un figlio! Per fortuna i
genitori di lei non hanno preso parte al lancio (foto 22).

La cerimonia conclusiva è simpatica. Lo sposo prende la sposa
sulle spalle e fa un giro nella sala (foto 23)… senza lasciarla cadere,
chiaramente (dopo tutto quel tjong-jong!).

Mi è già capitato di assistere a un matrimonio nel quale per poco
la sposa non «volava».

Prima di uscire, gli sposi fan vedere a tutti le buste che i
parenti più vicini hanno offerto loro, belle piene, perché sono i soldi per la
luna di miele. A giudicare dai sorrisi, sarà un’ottima luna di miele!

Una ultima foto ai due sposi novelli (foto 24) e ditemi un po’
se questi costumi tradizionali non sono uno splendore!

E perché non succeda come nelle storie di una volta nelle quali
tutti si divertono e il raccontastorie rimane dimenticato dietro l’uscio, ecco
una foto in cui ci sono anch’io (foto 25).

Il giorno dopo Isaac e Cristina sono partiti per la Thailandia in
luna di miele. I migliori auguri a loro e a tutti gli sposi novelli.

Alvaro Pacheco

Alvaro pacheco




Sulla pelle dei siriani

 


(La Siria) È uno dei pochi paesi mediorientali dove è stata possibile la convivenza tra etnie e fedi religiose diverse. Dove esiste una Costituzione, un governo laico e in cui la donna ha un ruolo paritario. Da oltre 30 mesi questo paese è sconvolto da eventi tragici. Un paese in cui vari stati stranieri – mediorientali e occidentali – stanno combattendo per i propri interessi e dove si sono moltiplicate le bande jihadiste, incontrollabili e molto pericolose. Mentre tutto si svolge sempre e soltanto sulla pelle dei Siriani.
 


Da oltre 30 mesi la Siria è sconvolta da tragici eventi. Per cercare di districarsi è importante capire cosa sia quel paese, come sia strutturato, quali siano le differenze con gli altri paesi del Medio Oriente, soprattutto di quelli che si sono schierati a fianco dei ribelli.

Fino a oggi la Siria ha garantito la convivenza tra almeno 7 etnie e 17 fedi religiose diverse. In Siria il governo (laico) non distingue i cittadini in base all’appartenenza etnica o religiosa.

Tra mille contraddizioni, errori, limiti e, in alcune fasi della storia siriana, anche durezze e repressioni feroci, per quarant’anni la Siria è riuscita ad essere questo. È riuscita a costruire una società con uno stato sociale minimo garantito (sanità, scuole, università), con un ruolo paritario della donna, con diritti civili e sociali superiori alla media dei paesi mediorientali. Se si fa un sintetico raffronto con i paesi dell’area, emergono dati e situazioni a dir poco sconcertanti.

Ecco chi sono i paladini della democrazia?

La domanda è: paesi come l’Arabia Saudita, il Bahrein, il Qatar, il Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti come possono ergersi a paladini della democrazia – armando e finanziando le bande criminali e terroriste che stanno insanguinando la Siria e la sua popolazione -, quando a casa loro tutto ciò che invocano e pretendono da Damasco è totalmente negato o inesistente?

Questi paesi, in prima linea con gli Stati Uniti e gli altri paesi occidentali (Gran Bretagna e Francia in primis), nell’attaccare – mediaticamente, politicamente e militarmente – la società siriana, a casa loro negano qualsiasi tipo di diritto civile minimo alle minoranze etniche, religiose e politiche e non solo alle minoranze.

Sono paesi dove la condizione della donna è ferma al medioevo. Da decenni, in Siria le donne sono ministri, medici, docenti, giudici e anche ufficiali dell’esercito, normalmente.

Sono paesi dove la fede religiosa può essere solo quella dei regnanti e le altre non possono essere dichiarate o praticate. In Arabia Saudita, il più grande e fedele alleato degli Stati Uniti e dell’Occidente in quell’area, il solo fatto di portare una croce al collo può essere causa di arresto. In Siria sono riconosciute e sostenute dallo stato 17 fedi diverse, persino la sinagoga ebraica di Damasco è stata ristrutturata con i contributi del governo.

Sono paesi dove le minoranze etniche non hanno alcun diritto civile e non sono riconosciute. In Siria da decenni 7 etnie hanno medesimi diritti e doveri, e ogni cittadino è uguale davanti alla legge. La struttura statale è fondata su una rigida ripartizione delle cariche e dei funzionari. Per esempio, il 62% dei medici, degli ingegneri, dei giudici, degli insegnanti, sono sunniti, il 12% sono cristiani, il 7% alawiti, e poi armeni, curdi, drusi. Identica divisione percentuale si ha nell’esercito siriano.

Sono paesi dove i diritti sociali di lavoratori e immigrati non sono minimamente riconosciuti o praticabili. In questi paesi orari di lavoro, paghe, contratti, sicurezza sono a discrezione dei vari sceicchi e padroni, e, ove siano reclamati, si va incontro all’accusa di sedizione e sovversione, o al carcere. In Siria esistono vari sindacati di settore, legalmente riconosciuti con relativi diritti e relative proteste. Sono paesi dove non esistono opposizioni politiche e dove, come accaduto in Arabia Saudita o in Bahrein, pacifiche dimostrazioni popolari vengono schiacciate nel sangue da feroci repressioni con decine di morti nelle piazze, migliaia di arresti e decine di condanne a morte,  coprifuoco per settimane. In Siria qualsiasi manifestazione pacifica e non armata è legale; da sempre esiste una opposizione politica legale al governo, esistono partiti politici (anche due partiti comunisti), non allineati e critici al governo. E dopo la riforma del 2012 ci sono diciotto partiti nuovi legalizzati e nell’attuale governo del presidente Bashar al-Assad, due ministri appartengono all’opposizione.
Sono paesi dove il diritto allo studio, a essere curati, a migliorare la propria condizione sociale è esclusiva delle famiglie dei funzionari dello stato e dei clan regnanti, o discende dall’appartenenza alla fede religiosa dominante. In Siria ogni cittadino parte dalle stesse possibilità, qualsiasi sia la sua etnia, la sua fede religiosa, il suo ceto sociale.

Da ultimo, un aspetto che, se non avesse risvolti tragici, sarebbe comico: l’Arabia Saudita chiede modifiche e riforme della Costituzione siriana quando in quel paese non esiste una costituzione!

Ma c’è un altro paese dell’area mediorientale che sta fomentando questa guerra ed è storicamente coinvolto da oltre sessant’anni in tutti i conflitti di quell’area: Israele. Un paese che con forza e arroganza chiede il disarmo delle dotazioni chimiche dell’esercito siriano (in sè una cosa giusta, se valesse per tutti), ma che possiede ufficialmente – senza che alcun paese importante osi protestare – armi nucleari, armi di distruzione di massa e chimiche. Un paese che invoca il rispetto dei diritti umani in Siria, ma che ha la possibilità del cosiddetto «arresto amministrativo», la possibilità cioè di detenere una persona anche senza accuse specifiche, e che in questi decenni ha portato centinaia di migliaia di cittadini (ovviamente palestinesi) nelle carceri israeliane come forma di prevenzione. Un paese che ha la tortura legalizzata e praticata normalmente.

Insomma, viene da dire: da che pulpiti provengono le morali dirittumaniste per la Siria!

Le parole della minoranza cristiana e del Papa

Mons. Giuseppe Nazzaro, francescano, ex vicario apostolico di Aleppo, racconta: «Per come io la conosco, la Siria era il paese islamico più democratico di tutto il Medio Oriente (…). Quello che mi sta a cuore è che in Europa si sappia bene che cosa sta succedendo qui e in tutto il Medio Oriente e per colpa di chi. Questa è soprattutto una guerra di commercio. Siamo in una nuova colonizzazione che si traduce così: “Io vi dò le armi, voi vi autodistruggete e poi vengo io a ricostruire tutto”».  

«Io lancio un allarme per tutta la situazione che siamo obbligati a vivere oggi. I potenti della terra che l’hanno causata, la devono smettere, la devono finire. Noi stavamo benissimo. Vivevamo in pace. Ci hanno portato una guerra che è diventata guerra fratricida, che sta distruggendo un paese che era bellissimo, ricco di storia, ricco di civiltà».  

Un discorso che viene confermato dalla testimonianza di padre Daniel Maes, sacerdote cattolico belga del Monastero S. Giacomo di Qara: «Qualche anno fa, quando siamo venuti in Siria, non abbiamo incontrato una società politica perfetta, ma abbiamo incontrato una società prospera e sicura, e abbiamo anche sperimentato l’uguaglianza di tutti i gruppi religiosi.
C’era la libertà di religione, l’ospitalità e una sana e serena vita di famiglia. Nella vita pubblica, discriminazioni, furti e criminalità erano sconosciuti.
All’improvviso sono apparse le atrocità più orribili. Si massacra, si saccheggia e ci sono attentati in tutto il paese. Quella società abbastanza armonica si è trasformata in un incubo. I villaggi cristiani circostanti sono stati distrutti e tutti i fedeli che potevano essere catturati sono stati uccisi, secondo una logica di odio settario. Per decenni cristiani e musulmani hanno vissuto in pace in Siria. Il fatto che bande criminali possano scorrazzare e terrorizzare i civili, questo non è contro le leggi internazionali?… I giovani sono delusi, perché le potenze straniere dettano loro l’agenda. I musulmani moderati sono preoccupati, perché salafiti e fondamentalisti vogliono imporre una dittatura totalitaria di stampo religioso.
I cittadini sono terrorizzati perché vittime innocenti di bande armate». Parole isolate? Non proprio se anche Papa Francesco, durante l’Angelus dell’8 settembre 2013, ha detto: «Sempre rimane il dubbio se questa guerra di qua o di là è davvero una guerra o è una guerra commerciale per vendere queste armi o è per incrementare il commercio illegale. (…) Preghiamo perché cessi subito la violenza e la devastazione in Siria e si lavori con rinnovato impegno per una giusta soluzione del conflitto fratricida… Dire no all’odio fratricida e alle menzogne di cui si serve, alla violenza in tutte le sue forme, alla proliferazione delle armi e al loro commercio illegale. Questi sono nemici da combattere uniti e con coerenza, non seguendo altri interessi se non quelli della pace e del bene comune».

Trame e registi occulti (o indicibili)

Un’altra domanda da porsi è: chi sta dietro questa guerra? chi sono i registi occulti? Un dato emerge chiaramente: questa guerra è parte di disegni, strategie di cui la Siria è solamente un tassello, in realtà la partita si gioca su tutto il Medio Oriente nel suo insieme. Quella che segue è una sintetica e parziale documentazione, ma dà notevoli elementi di riflessione.

• Nel febbraio 1982 viene pubblicato A Strategy for Israel in the Nineteen Eighties, un saggio di Oded Yinon, allora alto funzionario del ministero degli Esteri di Israele, dove si indica un progetto strategico di disgregazione e frammentazione dell’intero Medio Oriente e paesi arabi, in parti le più minuscole possibili, fomentando e favorendo conflittualità su basi etniche e religiose, fino allo smantellamento di tutti gli stati vicini o ostili a Israele. Nell’articolo si indicano nello specifico, persino descrivendo le province e regioni di ciascun paese, dal Libano all’Iraq, dall’Egitto alla Siria, con Libia compresa. Per la Siria si descriveva – siamo nel 1982 – come andasse disgregata: dividerla su basi etnico-religiose in più stati (sulla costa uno stato alawita e sciita, nella regione di Aleppo sunnita, nella regione del Golan druso, eccetera). «Questo progetto è l’obiettivo prioritario di Israele a lungo termine, a breve nel frattempo l’obiettivo è la dissoluzione militare di questi stati (…). È un progetto alla nostra portata».

• Il 15 settembre 2001, a Camp David, subito dopo gli attentati alle Torri gemelle, dall’amministrazione Bush vengono pianificati una serie di attacchi: Afghanistan, Iraq, Somalia, Sudan, Libia e infine Siria e Iran. Lo rivela pubblicamente il generale Wesley Clark, a capo di una cordata di alti ufficiali che ritengono non sia interesse degli Usa fare queste guerre, sostenute da lobby filo-israeliane negli Stati Uniti. • Il 15 marzo 2005, il Washington Institute for Near East Policy (www.washingtoninstitute.org), un ramo molto influente della lobby israeliana, detta una strategia per la Siria, indicata da Robert Satloff, l’ebraico direttore dell’Istituto, che consigliava tre tipi di azioni:
1) la raccolta del massimo di informazioni sulle contraddizioni sociali ed etniche dentro la Siria;

2) cominciare ad agitare campagne sui temi della democrazia, dei diritti umani, sullo stato di diritto;

3) non offrire al regime siriano alcuna via d’uscita, a meno che Assad non sia disposto a recarsi in Israele per negoziare, o non espella tutte le forze anti-israeliane da lui protette e non rinunci alla «resistenza nazionale».

• Nel dicembre 2003 il Congresso Usa approva il Syrian Accountability Act, che dà il mandato al presidente Bush di preparare l’attacco alla Siria.

• Nel 2006 relazioni pubblicate da ex agenti dei Servizi segreti francesi, definiscono la politica statunitense in Medio Oriente fondata sulla «instabilità costruttiva», una strategia che, come essi dicono, «posa su tre principi: creare e gestire conflitti a bassa intensità, favorire lo spezzettamento politico e territoriale dell’area e promuovere il settarismo e la pulizia etnico-confessionale».

• Il 5 marzo 2007 sul New Yorker, Seymour Hersch rivela che Stati Uniti, Israele, Arabia Saudita, Fratellanza musulmana siriana e Hariri in Libano, hanno costituito, finanziato e armato frange di estremisti e fondamentalisti qaedisti per rovesciare la Siria e il Libano. 

Si potrebbe, anzi si dovrebbe, continuare con altri attori e burattinai occulti, di solito nascosti dietro fondazioni o istituti di ricerca nonprofit. Come il Canadian Centre for Responsibility to Protect  (www.ccr2p.org), l’Albert instein Foundation (www.aeinstein.org), la Freedom House (www.freedomhouse.org), l’Inteational Republican Institute (www.iri.org), il National Democratic Institute (www.ndi.org), la National Endowment Democracy (www.ned.org), o la lobby saudita dei Sudairi, ecc. Ma sarebbero necessarie molte più pagine di quelle disponibili.

La disinformazione strategica

Per poter perseguire questi obbiettivi vi è un’arma senza la quale, come stabilì il dipartimento di Stato Usa, non si possono più vincere le guerre: è la cosiddetta «Quarta Armata», la Disinformazione Strategica. Quella scienza cioè, che prepara, manipola, falsifica, occulta, inganna e orienta le opinioni pubbliche internazionali (a dire il vero, soprattutto quelle occidentali). Una vera e propria guerra mediatica scatenata contro popoli e paesi con le loro leadership, da aggredire e conquistare poi con le armi, anzi con le «guerre umanitarie».

La «Quarta Armata» funziona sulla base di uno schema ormai collaudato negli ultimi vent’anni, e con meccanismi di dispiegamento quasi fissi, passaggio dopo passaggio. Essa consiste in una serie di fasi:

• Una campagna mediatica martellante e incessante di Tv, giornali, radio, siti web, sui temi dei diritti umani, della democrazia, del regime, dei diritti di opposizioni ininfluenti o residenti all’estero, di minoranze etniche oppresse non sufficientemente tutelate. Una comunicazione ossessiva su quanto siano democratiche le forze di opposizione e la cosiddetta società civile, le Ong create ad hoc e su quanto sia importante finanziare questi attori per lottare contro il regime.

• Si passa poi a sanzioni ed embarghi contro i governi che non collaborino o non siano disponibili ad accettare i diktat.

• Terzo passaggio è la demonizzazione e criminalizzazione scientifica e incessante dei leader, dei partiti, forze locali «renitenti o recalcitranti», o non disponibili a svendere la loro politica e gli interessi nazionali o indipendenti. Nel mentre, se nel paese cominciano insorgenze militari, si inizia a paventare la «minaccia e la necessità di un intervento» o l’apertura di «corridoi umanitari e no fly zone».

• Scatta l’aggressione militare, naturalmente sotto la veste di  «guerra umanitaria», per portare democrazia e libertà in quel paese, e difendere i diritti umani.   Il paese recalcitrante viene occupato militarmente e affidato alle forze «nuove» garanti di un nuovo sistema libero e democratico come Al Qaeda in Libia o personaggi alla Quisling (nome di un noto collaborazionista norvegese, ndr) screditati dalle popolazioni locali (come Karzai in Afghanistan o Chalabi in Iraq), se non mafiosi (come in Kosovo). Nel frattempo le risorse di quel paese passano sotto la «tutela» delle varie multinazionali occidentali e vengono installate basi militari Nato o Usa.

Come abbiamo cercato sinteticamente di spiegare, l’uso dei media e della guerra mediatica per assopire le opinioni pubbliche occidentali, sono fondamentali e imprescindibili nel nostro tempo per qualsiasi aggressione e conflitto. Pensiamo quali tragedie umane e sociali e quali conseguenze hanno prodotto le ultime guerre umanitarie in Somalia, Afghanistan, Iraq, Kosovo, Libia. Sarà lo stesso per la Siria?

Preservare popoli, culture e fedi 

È necessario sottolineare e ribadire che a
essere contro la guerra in Siria e a chiedere la fine dell’aggressione, dell’ingerenza delle potenze occidentali e delle violenze delle milizie qaediste, non si difende un partito, un presidente, una ideologia, una fazione. Agendo così si difende la realtà di un popolo, di una società, di un sistema politico e sociale, fondati sulla laicità dello stato, la multireligiosità, la multietnicità, la multiculturalità. Si difende, in altri termini, la ricchezza di un mosaico di popoli, culture e fedi millenarie, l’equilibrio di un sistema unico in tutta l’area mediorientale.

Nell’essere dalla parte della Siria e del suo popolo, si stabilisce che il presidente Assad e il governo siriano sono e devono essere un problema dei siriani che vivono in quel paese. Scelte e decisioni sul presente e sul futuro di quel paese spettano soltanto a loro.

EnricoVigna*

(*) Enrico Vigna è presidente di «Sos Yugoslavia Onlus», associazione di solidarietà che, a dicembre 2012, ha ricevuto a Belgrado il «Premio Novosti», il più alto riconoscimento della Serbia. È autore di numerosi saggi. Il suo ultimo lavoro è: Le Chiese d’Oriente e il “regime” siriano, prefazione di padre Haddad, Zambon Editore, Francoforte 2013 (www.zambon.net).

 

 


INTERVISTA _____________________________________________

Incontro con mons. Haddad della Chiesa cattolica greco-melchita


Il paese strappato e la guerra importata

Il mosaico religioso della Siria è stato infranto da una guerra importata. Mercenari pagati dai paesi sunniti (Arabia Saudita, in primis) e armati dai paesi occidentali (Stati Uniti e Francia in testa), stanno distruggendo l’unico paese arabo in cui la convivenza interconfessionale era una pratica quotidiana, l’unico dotato di una Costituzione laica. Da quest’intervista esce un quadro molto diverso da quello dipinto dalla maggior parte dei media internazionali.

A Roma mons. Mtianos Haddad è rettore della Basilica di Santa Maria in Cosmedin. La chiesa sorge in piazza Bocca della Verità. Proprio sotto il portico della chiesa è collocato – dall’anno 1632 – il notissimo mascherone in marmo dove tutti introducono la mano per dimostrare che non mentono. «E anch’io oggi dirò la verità, signor Paolo», aggiunge con un sorriso il prelato (*). Siriano, archimandrita della Chiesa cattolica greco-melchita a Roma, mons. Haddad appare come una persona pacifica e gioviale, ma con idee molto chiare sull’«amata Siria», un paese dilaniato da una guerra importata da siriani espatriati e da gruppi islamici foraggiati dai soldi di alcuni paesi sunniti (in primis, Arabia Saudita e Qatar) e dalle armi vendute dai paesi occidentali.

Mons. Haddad, la Siria è un paese dalle molte confessioni religiose.

«La Siria è una culla della cristianità. I cristiani e gli ebrei sono lì da ben prima dell’islam. Dopo 600 anni sono arrivati anche i musulmani. Un mosaico religioso, ben vissuto e ben accettato, che è diventato una ricchezza. Prima di questi ultimi 32 mesi, “maledetti” (mi scuso del termine, ma è così), la Siria era un esempio della convivenza e convivialità tra cristiani (cattolici, ortodossi, protestanti), musulmani e comunità ebraiche. Come prova di quanto affermo, ricordo che, da tanti anni, il governo ha cancellato la voce “religione” dalla carta d’identità, cosa impensabile negli altri paesi arabi. Così, al momento di iscriversi all’Università, nessuno ti chiederà quale sia la tua fede. Ma c’è di più. Nelle scuole pubbliche, che sono gratuite, pure le differenze sociali tra ricchi e poveri sono state azzerate introducendo per ogni studente la stessa uniforme. Anche in questo modo il governo ha aiutato tutti noi a essere semplicemente cittadini siriani. Io sono orgoglioso di essere siriano».

Si potrebbe però obiettare che le decisioni di governo sono prese da un solo partito…

«Con tutte le cose che possiamo dire sul Bath – partito unico, dittatore e altro -, dobbiamo ammettere che esso ha dato stabilità alla Siria. Ricordo che Michel Aflaq (1910-1989, ndr), il suo fondatore, era un cristiano. Egli riteneva che con un unico partito laico si sarebbe potuti andare oltre le differenze dell’appartenenza religiosa. Ricordo che, prima dell’avvento del Bath, la vita media di un governo non superava gli 11 mesi. Oggi si protesta contro la lunga permanenza al potere di Assad, dimenticandosi che in Germania Angela Merkel è appena stata eletta per il terzo mandato».

Dal marzo 2011 in Siria c’è un conflitto. Come spiegarlo?

«Hanno iniziato a dire che in Siria era arrivata la primavera araba e che il governo doveva andarsene. Vediamo cos’è successo negli altri paesi. In Egitto, si è tornati a prima della primavera: un fallimento. In Iraq, la maggior parte della popolazione e delle minoranze rimpiange i tempi del dittatore. I giornali non ne parlano più, ma la pace di oggi costa (almeno) 60 vittime al giorno. In Libia, la liberazione è costata migliaia di morti e adesso il paese è diviso tra tribù. Io come cristiano non posso andare in Arabia Saudita con la bibbia e con la croce. In quel paese le donne non possono neppure guidare un’automobile! L’esempio della Siria era pericoloso per i paesi del Golfo. Pertanto, hanno cominciato a lavorare per distruggere il modello siriano. E non dimentichiamo la confinante Turchia. Quando era in amicizia con Israele, era contro la Siria. Poi, dopo l’incidente della “Freedom Flotilla per Gaza” (maggio 2010, ndr), i due paesi si sono riavvicinati. Adesso le cose sono di nuovo cambiate, dato che Erdogan sogna di far rivivere il califfato ottomano».

Per questo lei parla di una guerra importata…

«Per abbattere il governo sono arrivati in Siria combattenti jihadisti da 17 paesi! Si parla di 80-100 mila uomini armati stranieri nel paese. Sono mercenari, jihadisti per vocazione o fanatici. Un esempio. Sono arrivati nella bellissima Aleppo, città di cultura e commerci, e si sono impossessati di un quartiere. Ebbene, questi personaggi hanno imposto la sharia nella zona conquistata. Hanno usato le persone come scudi umani, hanno ucciso bambini davanti ai familiari. Altri fanatici jihadisti hanno attaccato (settembre 2013, ndr) il villaggio cristiano di Malula1».

Abbiamo parlato dei paesi arabi. Vediamo adesso il comportamento dei paesi occidentali.

«È stato negativo. Si pensi alla Francia. È andata in Mali a combattere al-Qaeda. Adesso la stessa Francia vuole abbattere – assieme ad al-Qaeda – il governo siriano. Dunque, per Parigi al-Qaeda è un diavolo in Mali e un santo in Siria. Dato che non può essere così, è evidente che si tratta soltanto di una questione di interessi. Vediamo ora gli Stati Uniti, che predicano la democrazia dei popoli. Perché vanno contro un governo eletto dal popolo siriano? E infine non dimentichiamo Israele».

Già, non possiamo dimenticare Israele…

«Prima di tutto, io voglio distinguere tra lo stato di Israele e la popolazione ebraica. In Siria, l’ho già ricordato, viviamo bene con le comunità ebraiche. Se gli Stati Uniti vogliono essere gli arbitri o i garanti della giustizia internazionale, allora debbono occuparsi anche del popolo arabo palestinese, privo dei suoi diritti dal 1948. Questa ingiustizia è una spina nel fianco di tutto il mondo arabo. Israele e gli Stati Uniti ne sono responsabili. Ma c’è dell’altro. Perché non si parla mai del nucleare israeliano? Perché non si parla delle emissioni radioattive della centrale di Dimona2?».

Mons. Haddad, diciamo due parole anche sui paesi più vicini alla Siria
come la Russia e l’Iran.

«La Russia è sempre stata legata alla Siria per questioni strategiche e commerciali (il grano e il gas, ad esempio). L’Iran – vedendo questa coalizione di paesi sunniti contro la Siria –  ha pensato di aiutare Assad per riequilibrare la situazione nella regione. Un esempio tra i tanti possibili: l’ex presidente egiziano Morsi, esponente dei Fratelli musulmani, ha fatto chiudere l’ambasciata siriana al Cairo (giugno 2013, ndr)».

Lei nega che quella siriana sia una guerra tra sunniti e sciiti.

«Certamente. In Siria abbiamo tra il 60 e il 65 per cento di sunniti. Hanno il 60 per cento dei posti nell’amministrazione e nell’esercito oltre che una parte rilevante della ricchezza. Se fosse stata una guerra tra sunniti e sciiti, il governo di Assad avrebbe potuto resistere soltanto alcune settimane».

Come sono le relazioni con il Libano dopo i conflitti degli anni passati?

«È una bella storia di vicinanza. La Siria ha bisogno del Libano per accedere al mare, al tempo stesso il Libano ha bisogno della Siria. La guerra iniziò da uno scontro con i palestinesi (aprile 1975, ndr) e poi da alcuni comportamenti dell’esercito siriano che era andato lì per ripristinare la pace. Quel conflitto si trasformò in una trappola per Damasco, come quando fu accusata di aver ucciso il primo ministro Hariri (14 febbraio 2005, ndr). Tuttavia, i nostri popoli sono rimasti in ottimi rapporti come dimostrano i numerosi matrimoni tra cittadini dei due paesi. Durante la guerra in Libano molti si rifugiarono in Siria, mentre adesso avviene il contrario».

Chi sono i ribelli? E soprattutto chi sono i loro capi che parlano dalle capitali europee?

«Abbiamo già detto che la quasi totalità dei combattenti non sono siriani. Poi ci sono alcune persone che hanno lasciato la Siria perché avevano problemi con il governo (per esempio, non volevano fare il servizio militare) e che sono fuori del paese da oltre 20 anni. I loro figli neppure sanno dove sia la Siria! Io non li giudico (molti di loro hanno lasciato il paese per la paura – legittima – delle guerre), ma vogliono decidere le sorti del paese senza averne più diritto.

Io rispetto l’opposizione siriana che dialoga con il governo per cambiare le cose, ma non quella che chiede l’intervento di eserciti stranieri per colpire il paese. Questo è un tradimento. Questi personaggi (che spesso vivono in hotel a 5 stelle) non mi rappresentano. Adesso sono stati chiamati a partecipare alla conferenza di “Ginevra 2”3, ma non ci vogliono andare perché pretendono di imporre le loro condizioni. Il governo al contrario non ne ha poste. A Obama hanno dato il premio Nobel della pace prima che facesse qualcosa. Vediamo se adesso saprà meritarselo».

Dell’opposizione siriana non armata si parla poco. Ci dica lei qualcosa al riguardo.

«Nell’attuale governo di Damasco ci sono 2 ministri dell’opposizione siriana pacifica. Uno è ministro della riconciliazione4. È una dimostrazione della serietà del governo, che vuole ascoltare i bisogni dei suoi cittadini, lavorando per la pace. Anche la Costituzione è stata cambiata: nell’articolo 8 non si parla più di partito unico».

Il presidente Assad viene quasi sempre dipinto come un dittatore sanguinario e senza scrupoli.

«Assad non è nato nell’esercito. È un uomo di cultura, che parla bene le lingue. È un medico oculista. È un uomo che rimane umile anche nella sua vita personale. Quando fummo ricevuti come rappresentanti della Chiesa melchita, ci salutò uno a uno dialogando con ognuno. È un presidente laico e di fede. Va a pregare nelle festività musulmane, va a porgere gli auguri ai patriarchi5 nelle festività cristiane. È stato detto che Assad ha accettato la soluzione sulle armi chimiche perché ha avuto paura. E se invece fosse soltanto un uomo di buona volontà? Per questo e altro Assad è un presidente che non può fare paura».

Come si fa per uscire da questa situazione di guerra e ricostruire un paese distrutto.

«La prima cosa è chiedere l’aiuto dell’Onu. La seconda è rispedire a casa ogni jihadista affinché nel paese rimangano soltanto i siriani».

Un bel proposito, ma come fare per realizzarlo?

«Occorre chiudere i rubinetti: quando non arriveranno più soldi, i jihadisti se ne andranno. Agli oppositori non armati che chiedono cambiamenti va ripetuto: parliamoci. Adesso i siriani hanno perso la fiducia. Occorre riconquistarla. Senza armi sarà molto più facile arrivare a una riconciliazione. Una riconciliazione che sia fondata sulla giustizia e sulla dignità».

 Paolo Moiola
Note

1 – Il villaggio siriano di Malula è molto noto in quanto vi si parla ancora l’aramaico, lingua antichissima diffusa nel Medio Oriente prima di essere soppiantata dall’arabo.
2 – La centrale di Dimona è anche famosa per l’incredibile vicenda di Mordechai Vanunu, il tecnico rapito e imprigionato per aver osato svelare i segreti del nucleare israeliano.
3 – Conferenza di pace sulla Siria alla presenza di Onu, Usa e Russia.
4 – Ali Haidar, medico, è stato nominato ministro per la riconciliazione nazionale nel giugno 2011, pochi mesi dopo lo scoppio della guerra.
5 – La capitale siriana Damasco ospita i patriarchi di alcune chiese cristiane, sia cattoliche che ortodosse.

(*) Questa intervista – riprodotta soltanto nei suoi passaggi essenziali – nasce da due incontri con mons. Haddad. Il secondo di questi è integralmente visibile su YouTube (clicca qui).

Gli anti-Assad

Esercito siriano libero: nato nel luglio 2011, è stata la prima formazione anti-Assad, ora molto indebolita dalle defezioni.
Esercito islamico: il Jaysh al-Islam è nato a fine settembre 2013, include 43 gruppi islamisti.
Alleanza islamica: nato a metà settembre 2013, include 13 gruppi islamisti, tra cui il Jabhat
al-Nusra e Ahrar al-Sham.
Consiglio nazionale siriano: nato nell’agosto 2011, è un’autorità politica anti-Assad con sede
a Istanbul.

Sponsors politici e/o finanziari degli anti-Assad:

Paesi sunniti mediorientali (Arabia Saudita, Qatar, Turchia), Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Israele.

Fonti mediatiche anti-Assad:

Osservatorio siriano per i diritti umani (Londra), al-Jazeera (Qatar), al-Arabiya (Arabia Saudita).

L’OPINIONE_________________________________

La Chiesa Ortodossa Russa: Una «sinfonia» contro i fanatismi

La Chiesa ortodossa russa non è solo la più grande delle Chiese ortodosse nel mondo, ma anche quella che storicamente non è mai stata sotto una dominazione musulmana. Questa combinazione le ha permesso lungo i secoli di difendere gli interessi dei cristiani ortodossi perseguitati, in particolar modo quelli del Medio Oriente. Oggi, il sostegno al popolo siriano, espresso attraverso la preoccupazione per la minoranza cristiana a rischio in Siria, trova le dichiarazioni dei portavoce del patriarcato di Mosca e dello stato russo tanto concordi che è difficile distinguere da chi vengano gli appelli, nonostante negli ultimi anni ci sia stata una coerente pratica di non interferenza nelle rispettive sfere di competenza: si vede qui realizzato il principio di «sinfonia» tra Chiesa e Stato che ha caratterizzato per oltre un millennio l’Impero romano (il riferimento è all’Editto di Tessalonica del 27 febbraio 380 con cui si proclama il cristianesimo niceno religione ufficiale dell’Impero, ndr). Le campagne di raccolte di aiuti per i cristiani in Siria nelle chiese ortodosse del Patriarcato di Mosca, e le prese di posizione del governo russo per scongiurare un intervento armato straniero in territorio siriano (nonché l’appoggio statunitense a bande di ribelli islamisti che di siriano non hanno nulla) sono ben più di un’alleanza per fini politici comuni: sono un esempio di rappresentazione della volontà popolare che avrebbe qualcosa da insegnare alle nostre «democrazie».

L’accordo tra leader di stato e di fede è ancor più sorprendente quando si pensa che da poco più di un ventennio la Russia è uscita da una lunga esperienza di ateismo di stato. Curiosamente, la diffidenza verso il fanatismo di matrice musulmana sembra andare di pari passo con la diffidenza verso il fanatismo laicista nel mondo occidentale. La Russia un tempo ufficialmente atea dimostra un grado di democrazia maggiore di quello del mondo cosiddetto libero, rispettando la volontà della stragrande maggioranza della popolazione più di quanto facciano i regimi occidentali, sia in tema di intervento militare (che vede l’opposizione di una maggioranza della popolazione in tutti i paesi), sia in tema di introduzione di false leggi di «tolleranza», forme di suicidio anti-cristiano non sostenute dalle popolazioni locali, sia in Russia che in Occidente.

Padre Ambrogio , Chiesa ortodossa russa di Torino (*)

(*)  Padre Ambrogio (al secolo Andrea Cassinasco) è dal 2001 il parroco della chiesa ortodossa del Patriarcato di Mosca a Torino. Il Patriarcato di Mosca (noto anche con il nome di Chiesa ortodossa russa) è rappresentato in Italia da oltre una cinquantina di parrocchie e comunità. Sito web: www.ortodossiatorino.net.

 



Sotto il cielo di Corumbá

 


Nella cittadina brasiliana di Corumbá un missionario salesiano, nativo del Veneto, ha fondato un’organizzazione che segue neonati, bambini e ragazzi di famiglie bisognose. Da 0 a 18 anni, centinaia di giovani entrano nelle tre strutture di padre Pasquale Forin. Per crescere attraverso il gioco, l’istruzione e una sana alimentazione. Un’organizzazione efficiente che vive grazie al volontariato e alle donazioni internazionali. E alla perseveranza del suo fondatore. Ecco cosa abbiamo visto e cosa lui ci ha raccontato.

 

Corumbá. Ci avviciniamo a una fermata di mototaxi. Fa caldo, caldissimo. «No, oggi non è
caldo», ci spiegano i conduttori. Prima di infilare il casco, proviamo a convincerci che hanno ragione loro. Partiamo.

Sulla scia di Ernesto Sassida

Le strade di Corumbá, cittadina di 100 mila abitanti nello stato brasiliano del Mato Grosso del Sud, sono comode e poco trafficate. Le moto avanzano veloci.
Passiamo davanti alla Citade Dom Bosco, la Città Don Bosco, una grande struttura – comprende scuole, centri ricreativi e assistenziali – fondata da padre Ernesto Sassida, salesiano sloveno scomparso nel marzo 20131. Sulla stessa Rua Dom Aquino sta la parrocchia São João Bosco, nostro luogo di destinazione. La chiesa è una costruzione moderna, semplice ed elegante ad un tempo. Davanti all’ingresso campeggia un grande quadro con il volto inconfondibile di san Giovanni Bosco. Ci accoglie il parroco. Lui si chiama Pasquale Forin, missionario salesiano nato nella provincia di Padova, «ma – precisa – con familiari in Piemonte, a Nizza Monferrato e Alessandria». Veneto o piemontese poco importa ormai: padre Pasquale è in Brasile da 53 anni e a Corumbá da 26.
Corumbá è sorta a lato del fiume Paraguay e del Pantanal, una grande pianura alluvionale dalle caratteristiche uniche (leggere riquadro). «Forse a causa delle mie origini contadine – spiega padre Pasquale -, fin dal mio arrivo ho sempre accompagnato il cammino delle comunità rurali del Pantanal». Il missionario segue gli insediamenti contadini per un totale di 1.500 famiglie, comprese quelle degli indigeni guató. L’appoggio va dall’assistenza legale per difendere la terra dagli appetiti altrui fino al microcredito.
Basterebbe il lavoro svolto con le comunità rurali per qualificare come fuori dell’ordinario l’opera del salesiano. Ma esso non è che un aspetto della sua attività. Con la parrocchia padre Pasquale ha dato vita a tre progetti: un ospedale diurno per bambini denutriti (Casa de Recuperação infantil padre Antonio Müller, Cripam); un centro di doposcuola per ragazzi dai 7 ai 18 anni (Centro de Apoio Infanto Juvenil, Caij); una struttura per bambini abbandonati (Casa Irma Marisa Pagge). Per capirne la portata occorre visitarli.

 

Via dalla strada, via dalle tentazioni

Il bairro (quartiere) si chiama Cristo Redentor. Il Caij è in un’ampia costruzione circondata da mura color verde pallido.
«Non è una scuola – ci spiega padre Pasquale -, ma un centro d’accoglienza per ragazzi dai 7 ai 18 anni provenienti da famiglie povere e con problemi. Arrivano da noi quando non c’è scuola. È un modo per evitare che stiano sulla strada, dove ci sono molti pericoli, soprattutto quelli legati alla droga (consumo e spaccio). Come in tutto il Brasile, anche qui si può comprare una dose di crack, maconha o cola con un solo real2».
Il Caij ospita 560 ragazzi, a cui viene offerto tutto: lo svago, i pasti, l’assistenza. E poi un aiuto scolastico in accordo con gli istituti. Un impegno notevole, come dimostrano le 30 persone che vi lavorano.
Entriamo. Una targa affissa al muro ricorda che il padiglione del Caij è stato costruito con risorse provenienti da Spagna, Italia, Slovenia e Belgio.
Le aule sono state costruite attorno a un campetto sportivo, protetto da una copertura e dotato anche di una piccola tribuna. È occupato da un folto gruppo di ragazze e ragazzi che, divisi in gruppi, stanno gareggiando accompagnati dal sottofondo musicale regalato da un’orchestrina. «Gli istruttori sono ragazzi cresciuti qui dentro, che ora sono diventati volontari», spiega padre Pasquale.
Entriamo nel refettorio. La cucina è divisa dalla sala mensa da un semplice muretto. Tre donne – Maria, Cristiane e un’altra Maria – stanno preparando il cibo per l’imminente pranzo. Tutto è ordinato e pulitissimo. Sui fornelli, posti al centro della cucina, bollono alcune pentole: carne, verdure, gli immancabili fagioli. Una cuoca è intenta a spellare cipolle e spicchi di aglio. Un’altra sta preparando un impasto. «Se vuoi punire un ragazzo, digli che andrà a casa senza pranzo» racconta sorridendo padre Pasquale. Il comune di Corumbá offriva il cibo fino a gennaio 2013, poi ha smesso per – così è stato spiegato – problemi di bilancio.
Accanto al Caji, c’è la struttura del Cripam. Si tratta di un ospedaletto diurno per minori denutriti da 0 a 6 anni. Uno dei pochi esistenti in Brasile.
Entriamo in una stanza dove ci sono una quindicina di bambini, alcuni dei quali con problemi psicomotori. Stanno giocando sotto lo sguardo vigile delle maestre. «Andiamo a prenderli ogni mattina con un pullmino. E la sera li riportiamo alle loro case» spiega padre Pasquale.
Nelle stanze a fianco, disposte in file ordinate, ci sono una trentina di culle di colore bianco. Ventilatori al soffitto, pareti rallegrate con disegni colorati, giochi. Non manca nulla.
È ora di mangiare. Le maestre mettono i più piccoli sui seggioloni e i più grandicelli sulle sedie attorno al tavolo. Un paio debbono essere presi in braccio a causa dei problemi fisici.
Prima di uscire, c’è tempo per un’altra sorpresa. Scopriamo che in una sala si preparano gelati. «È un modo per autofinanziarci», spiega padre Pasquale. I gelati si chiamano Sabor da solidariedade, il sapore della solidarietà.

 

Volontarie

L’ultima tappa del nostro tour all’interno dell’organizzazione fondata da padre Pasquale è alla Casa Irma Marisa Pagge, così chiamata in ricordo di una suora italiana dell’Operazione Mato Grosso3. Come le precedenti, anche questa è una bella costruzione, con tre case indipendenti collegate da un giardino molto curato, con alberi in fiore e altalene.

Nella struttura sono ospitati bambini da 0 a 6 anni che sono stati abbandonati o che sono stati tolti, per gravi motivi, alle famiglie d’origine. «Rimangono qui – spiega il padre – finché saranno reinseriti in famiglia oppure dati in adozione».

Due targhe poste all’entrata ricordano i principali benefattori: varie città italiane (Torino, Alessandria, Valenza, Pietra Ligure, Desenzano, Borghetto) e l’associazione Rotary. Anche in questo caso i soldi raccolti sembrano stati impiegati al meglio. Il luogo appare molto accogliente, pulitissimo e funzionale.

Incontriamo due volontarie internazionali: Venus è un’insegnante di Londra che si fermerà un anno; Maria Vicenta è basca ed è qui da 5 anni, pur avendo figli e nipoti in Spagna. Maria ci accompagna nella stanza dove, nelle culle, stanno dormendo due bambini di pochi mesi, un maschio e una femmina. La bambina è stata portata al Centro perché la mamma è una consumatrice di droghe. «Nella quasi totalità dei casi i bambini – ci viene spiegato – provengono da famiglie composte dalla sola mamma».

Pane e liberazione

«Non riesco a parlare di Dio a chi non ha da mangiare», confessa padre Pasquale. Pare un’affermazione della teologia della liberazione, un mondo a cui i salesiani – per scelta e per tradizione – non sono mai stati molto vicini. «Questa – spiega convinto il missionario – è la vera teologia della liberazione. Quella di Hélder Câmara e Luciano Mendes». In verità, poco importa incasellare l’azione di padre Pasquale Forin. Mai come nel  suo caso vale il detto popolare: «Più delle parole contano i fatti». Fatti che a Corumbá si possono vedere e toccare con mano.

Paolo Moiola
  Note             

1 – Padre Eesto Sassida è morto il 13 marzo 2013 all’età di 93 anni.
2 – Il crack è un sottoprodotto della coca; la maconha è la marijuana; la cola è la colla; il real (reais, al plurale) è la moneta brasiliana. Un euro vale 2,7 reais (quotazione a giugno 2013).
3 – Nome di un movimento di volontariato nato nel 1967, legato ai salesiani.



     Il bioma del Pantanal                                                  

Uno?scrigno?sotto?assedio

Il Pantanal, la più grande zona umida del mondo, è in pericolo. Il cambio climatico sta modificando l’alternanza delle stagioni secca e piovosa. Le monocolture e le mandrie bovine distruggono la vegetazione e uccidono i fiumi. A?pagae le conseguenze, è l’intero ecosistema. E gli abitanti più poveri.

Corumbá. Dalla terrazza si ammira il corso placido del Rio Paraguay e dietro di esso un’estensione verde e piatta che si perde all’orizzonte. È la pianura del Pantanal, con la sua vegetazione a prevalenza di arbusti e manto erboso. Il Pantanal – che in portoghese significa «palude» – ha una superficie di circa 210 mila chilometri quadrati distribuiti su tre paesi: la Bolivia, il Paraguay e soprattutto il Brasile. È infatti quest’ultimo che ospita quasi il 70% del bioma. Precisamente nel sud dello stato di Mato Grosso e nel nord-est dello stato di Mato Grosso do Sul.

Durante la stagione delle piogge (da ottobre a marzo), l’acqua defluisce dagli altipiani circostanti alle terre basse del Pantanal ingrossando i fiumi che straripano inondando gran parte del territorio. Durante la stagione secca, l’acqua si ritira nei letti dei fiumi, le lagune e i piccoli canali (corixos) si riducono o addirittura scompaiono. A causa delle sue peculiarità, il Pantanal è un santuario della biodiversità, ospitando un campionario di animali, pesci, uccelli e piante che non ha eguali nelle Americhe. Oggi anche questo bioma unico è in pericolo.

I rischi e i danni ambientali arrivano dal cambio climatico (che ha prodotto inondazioni devastanti o siccità), ma anche e soprattutto dalle attività umane sugli altipiani circostanti, nel Mato Grosso e nel Mato Grosso do Sul: l’espansione delle attività agroindustriali (con annesse deforestazioni e uso di prodotti agrochimici, soprattutto per la coltivazione della soia), la crescita esponenziale dell’allevamento bovino1 (con un enorme impatto ambientale), le attività minerarie (estrazione aurifera in testa) hanno contaminato le acque che arrivano nel Pantanal; la costruzione di dighe ha modificato, ampliato o reso permanenti una parte delle zone inondate.

Con oltre 25 anni di permanenza nel Pantanal padre Pasquale Forin può testimoniare personalmente i cambi avvenuti nell’ecosistema naturale e umano.  «In alcune colonie – racconta il missionario -, prima si arrivava in barca, adesso si cammina per ore e ore dal fiume fino alle case. In questi anni io ho visto le trasformazioni del Rio Taquari, uno degli affluenti principali del Rio Paraguay: il suo corso naturale è stato deviato, il suo letto ridotto dai sedimenti, la vita nelle sue acque ammazzata dai fertilizzanti chimici». I mutamenti nel Rio Taquari sono testimoniati da un dato impressionante: nel corso dell’ultimo decennio, la pesca nel fiume è diminuita di sette volte, passando da 485 tonnellate all’anno a soltanto 622.

I cambi nell’ecosistema si sono riflessi pesantemente anche sugli abitanti del Pantanal. Relativamente pochi (poco più di 200 mila, 2 per chilometro quadrato), essi si distinguono in Pantaneiros (compresi alcuni gruppi indigeni: Kadiwéu, Guató, Terena, Umutina, Bororo, spesso composti da poche decine di individui) e in assentados. Questi ultimi sono arrivati con le assegnazioni di terra da parte dell’Istituto per la riforma agraria (Incra)3.

«Ai contadini assegnatari di terra hanno dato un contentino – si lamenta padre Pasquale -. La misura minima doveva essere 25 ettari. Qui l’Incra ha dato 13-16 ettari. E la terra è quella del Pantanal, che non è fertile come quella di altri stati brasiliani. Dopo uno-due anni la terra non è più produttiva, soprattutto in presenza di acqua calcarea, non adeguata per le coltivazioni. Da coltivatori i coloni diventano allevatori. Ma lo spazio necessario è di due ettari di terra per ogni capo di bestiame. Si prendono così capi di bestiame di qualità inferiore per produrre un po’ di latte per l’autoconsumo o per il mercato. Noi interveniamo per costruire pozzi e cisterne per l’acqua potabile e con progetti di microcredito, per consentire l’acquisto di sementi o di strumenti di lavoro. Tuttavia, in questa situazione di precarietà molti giovani lasciano gli insediamenti rurali, dove rimangono soltanto i vecchi a coltivare manioca in attesa di raggiungere l’età della pensione. Senza dire di quelle famiglie che, a causa di un’inondazione, hanno perso tutto e hanno dovuto indebitarsi o abbandonare la terra».

Poi ci sono – in Brasile non mancano mai – i latifondisti (terratenientes), proprietari delle fazendas. L’ultimo rapporto redatto dalla Commissione pastorale della terra (Cpt)4, encomiabile come sempre, segnala numerosi conflitti per la terra tra latifondisti e gruppi indigeni locali negli stati del Mato Grosso e Mato Grosso do Sul.

Come in tutto il Brasile, anche nel Pantanal ci sono famiglie o gruppi indigeni che si tramandano la terra da generazioni, ma che spesso non ne hanno la proprietà formale. Di questa situazione cercano di approfittare i latifondisti attraverso la pratica del grilagem5.

«Anche noi abbiamo dovuto – racconta padre Pasquale – difendere molte famiglie dai latifondisti perché non fossero sfrattate da un giorno all’altro. E abbiamo rischiato la vita: questa è gente che non scherza. Arrivavano con i trattori per buttare giù le loro case. E le donne con i bambini si mettevano davanti ai mezzi. Mi hanno raccontato di un grileiro che ordinò all’autista di passare sopra alle persone che si opponevano e che questi era sceso dal trattore rispondendo “Se vuole, lo faccia lei”. Oggi, per fortuna, la maggioranza delle famiglie da noi seguite ha il titolo di proprietà».

Nell’anno 2000 dichiarato dall’Unesco Patrimonio naturale dell’umanità e riserva della biosfera, il Pantanal ha accresciuto in questi anni la propria visibilità, richiamando un numero crescente di turisti. Come si sa il turismo è un’attività economica non esente da rischi, anche gravi. Tuttavia, se gestito in maniera adeguata, può essere la scelta meno impattante per preservare un bioma unico ma fragilissimo.

Paolo Moiola
   Note                 
 1 – I dati sulle mandrie bovine sono impressionanti. Il Mato Grosso, con una popolazione di appena 3,1 milioni di abitanti, ha 28,6 milioni di capi bovini (dati 2012, fonte Indea Mt). Il Mato Grosso do Sul, con una popolazione di soli 2,5 milioni di abitanti, conta 21,5 milioni di capi bovini (dati 2012, fonte Ibge).
2 – «Instituto Nacional de Colonização e Reforma agrária». Il sito: www.incra.gov.br.
3 – Dati dell’«Instituto de Preservação e Control ambiental» diffusi da Embrapa Pantanal: www.cpap.embrapa.br.
4 – Comissão Pastoral da Terra (Cpt), Conflitos no Campo Brasil 2012, aprile 2013. Il sito: www.cptnacional.org.br.
5 – Termine con cui si indica una falsificazione di documenti per divenire proprietari di una terra.
 

 

Il volontario                                        

«Per fare la mia parte»

Giorgio Roz, di Chieri (Torino), arrivò a Corumbá con l’«Operazione Mato Grosso». Da quel giorno sono trascorsi 12 anni.

Corumbá. «Anche a Madonna di Fatima, il bairro dove abito, gira molta droga. Fino a qualche mese fa c’era una boca – un punto di vendita – anche vicino a casa mia. Il problema della droga deriva spesso da altre questioni, sia sociali che personali. Giovani e adolescenti entrano in quel mondo perché alle spalle non hanno una struttura familiare forte. A sua volta questa mancanza è conseguenza della povertà che sovente porta a una destrutturazione della famiglia».

Giorgio Roz, 47 anni ben portati, è un volontario di Chieri, comune non lontano da Torino. È arrivato a Corumbá tramite l’«Operazione Mato Grosso», un movimento fondato nel 1987 da alcuni missionari salesiani1 che operavano nella regione brasiliana2. Il movimento, diffuso in tutta Italia, ha come obiettivo la crescita dei giovani attraverso il lavoro gratuito in favore dei più poveri.

«Sono cresciuto – racconta Giorgio – in ambienti di parrocchia, con i salesiani ma anche con i gesuiti. Il gruppo cui appartenevo era in contatto con padre Pasquale Forin, missionario a Corumbá, che ci visitava a ogni suo rientro in Italia. Un giorno, come avevano fatto altri amici, decisi di tentare anch’io un’esperienza di volontariato. Dopo due periodi (uno di un anno e un altro di un mese), al terzo – era l’ottobre del 2000 – decisi di fermarmi».  Perché?, gli domandiamo. «Per fare la mia parte», risponde Giorgio con invidiabile semplicità. «All’epoca il Mato Grosso era una regione di povertà totale, materiale e spirituale. Quando arrivai qui, in molte zone della periferia c’erano soltanto capanne e baracche fatte con materiale di recupero. La necessità principale era quella di alimentarsi».

Da allora le cose sono cambiate. Il Brasile è divenuto la sesta potenza mondiale. «Ma – osserva Giorgio -, se vediamo certe zone, è ancora Terzo mondo. Il Brasile è il paese dei contrasti, delle contraddizioni assurde. Si passa dalla ricchezza estrema alla povertà estrema. Oltre alla questione della distribuzione della ricchezza, io credo che il problema maggiore sia quello dell’educazione (il paese è agli ultimi posti nel mondo), seguito da quello sanitario. Esistono poche strutture sanitarie pubbliche, mentre quelle private non sono accessibili da parte dei poveri».

Chiediamo a Giorgio della riforma agraria, che avrebbe dovuto costituire un punto qualificante della presidenza del Partito dei lavoratori (Pt), prima con Lula e oggi con Dilma. «A Corumbà – spiega -, da 15 anni fa a oggi, sono stati distribuiti molti lotti di terra nella zona rurale. Peccato che non siano stati foiti anche i mezzi per coltivarla. Oltre tutto si tratta di terreni di piccola dimensione. Succede così che una parte dei coloni, quella che sputa sangue, riesce a tirare fuori il proprio sostentamento, mentre gli altri sopravvivono male. Per contro, anche qui esistono latifondi lunghi decine di chilometri dove vengono usati trattori enormi guidati dal Gps e vengono sparsi diserbanti con piccoli aerei».

Nel Mato Grosso do Sul la crescita economica è rilevante3 ma i problemi, le contraddizioni e le ingiustizie del sistema sono ben visibili come in tutto il paese. Per i volontari come Giorgio Roz il lavoro e le sfide di certo non mancano.

Paolo Moiola
       Note                

1 – I padri Pietro Melesi, Luigi Melesi e Ugo De Censi. Il movimento, oltre che in Mato Grosso, opera in Ecuador, Perù e Bolivia. Il sito
ufficiale dell’Operazione Mato Grosso: www.operazionematogrosso.it.
2 – Nel 1979 lo stato del Mato Grosso venne diviso in due entità indipendenti: il Mato Grosso e il Mato Grosso do Sul.
3 – Ad aprile 2013, il governatore del Mato Grosso do Sul,?André Puccinelli, è stato in tour in Italia per incontrare imprenditori disposti a
investire nello stato brasiliano. Puccinelli ha parlato di grandi opportunità e di forti incentivazioni fiscali per gli investitori.


 



Il gigante lusofono

Il grande produttore di greggio,
tra passato e futuro.

L’Angola ha vissuto una guerra
civile lunga 33 anni che ha disintegrato la società. Ma oggi registra un Pil in
crescita a due cifre. E la ricostruzione è visibile. Anche il rispetto dei
diritti umani registra dei progressi. Saranno
i benefici dell’oro nero e del rapporto stretto con la Cina? Intanto il presidente
José Eduardo dos Santos continua a regnare.

L’Angola è oggi uno dei giganti
africani. Con 20 milioni di abitanti, una superficie quattro volte l’Italia, è
il secondo produttore di petrolio del continente, dopo la Nigeria. Importanti
sono anche i giacimenti di diamanti, mentre l’agricoltura è in rapido sviluppo.
Il suo Pil ha visto una crescita a due cifre dal 2004 al 2008 (17,3% di media)
toccando il 22,6% nel 2007. Indicatore che poi ha frenato segnando 3,9% nel 2011.

Eppure
il suo passato è tragico. Nel
1961 inizia la guerra contro i coloni. Alla proclamazione dell’indipendenza,
nel 1975, il conflitto continua sotto forma di guerra civile, che sarà la più
lunga del continente. Si contrappongono l’Mpla (Movimento popolare di
liberazione dell’Angola) guidato da José Eduardo dos Santos e appoggiato dal
blocco dei paesi socialisti, e l’Unita (Unione nazionale per l’indipendenza
totale dell’Angola), appoggiata da Sud Africa e coloni portoghesi. Solo nel
2002, con la morte di Jonas Savimbi, capo storico dell’Unita, si raggiunge una
vera pacificazione. Il paese è in ginocchio, le zone rurali devastate, le
infrastrutture distrutte, la struttura sociale annullata, 4,5 milioni di
sfollati, ancora diversi milioni di mine antiuomo nascoste ovunque. Dos Santos,
divenuto presidente nel 1979, alla morte di Agostino Neto (padre della patria),
è tuttora in carica ed è stato rieletto per cinque anni nell’agosto del 2012.

Grazie
alle proprie risorse e al partenariato strategico con la Cina, l’Angola si
configura come una delle potenze africane di oggi e di domani. Mettiamo
a confronto il punto di vista di un intellettuale angolano e quello di un
cornoperante italiano che ha vissuto e lavorato tre anni nel paese.

Il Sociologo Angolano

Il professor José Feandes, è agronomo e sociologo, con un master in psicologia sociale. Da
oltre 22 anni lavora nel campo dello sviluppo sociale e umano, e vanta
un’esperienza sia nel governo del suo paese (nel ministero dell’Agricoltura),
sia in varie Ong. Attualmente è consulente indipendente, nell’area dello
sviluppo sostenibile, da circa otto anni. Si focalizza sullo sviluppo umano e
appoggia strutture governative per sviluppo locale. È inoltre docente
universitario, in sociologia della stratificazione, disuguaglianza e classi
sociali, sociologia del cambiamento e conflitti sociali e sociologia della
cultura. Gli abbiamo chiesto di darci un quadro del suo paese oggi.

L’Angola è una delle economie del mondo a crescita più veloce, ma
molti angolani vivono ancora in condizioni di povertà. Perché persistono queste
grandi disuguaglianze sociali?

«L’Angola sta crescendo economicamente, ma solo dal punto di vista
macroeconomico. In termini di microeconomia, il paese ha ancora molti problemi.
Le limitazioni nell’accesso ai beni, opportunità e servizi: sono la radice
principale della disuguaglianza. Il contesto sociale è caratterizzato dalla
nascita di una nuova élite, che è presente in tutte le aree sociali: politica,
economica, culturale, scientifica e tecnologica, dei trasporti. Questo non
permette un processo di inclusione sociale perché si tratta di un piccolo
gruppo che controlla tutte le aree, e che ha accesso a beni, servizi e
opportunità.

Un’altra questione chiave è il concetto meritocratico, che non è
ancora una realtà alla base dell’occupazione di posti nella struttura sociale.
Le competenze sociali e professionali, non sono ancora considerate come valori
chiave. Quello che conta è il clientelismo o l’appartenenza a una famiglia.
Esistono dunque disuguaglianze profonde e ben visibili tra i cittadini angolani
che possiedono e quelli che non hanno nulla o quasi».

La gran parte del Pil angolano è fornito dal petrolio. Come sono
gestite queste risorse dal potere? Sono investite in infrastrutture e in qualità
della vita per la popolazione?

«L’economia dell’Angola ha come principali fonti di reddito il
petrolio e il gas, insieme al settore diamantifero. Ma anche altri settori come
l’agricoltura cominciano ad avere un peso nel contributo al Pil. I proventi del
settore petrolifero e diamantifero sono stati usati soprattutto per la
costruzione di infrastrutture di base, come strade, scuole e ospedali. Il
programma di ricostruzione del paese è visibile e questo fa sì che la qualità
della vita del cittadino in generale migliori poco a poco. Tuttavia le sfide
restano grandi e importanti, e l’investimento dei fondi provenienti da questi
settori potrebbero essere usati in modo più efficace per creare benefici
diretti alla popolazione. In passato non c’era chiarezza sull’utilizzo di
questi soldi, mentre oggi la più grande impresa petrolifera dell’Angola, la
Sonangol, rende pubblici i propri bilanci, il che è un notevole passo avanti.
Dall’altro lato, le infrastrutture sono importanti, ma non è da meno
l’investimento nel capitale umano, e la diversificazione dell’economia, come
l’aumento dell’investimento nell’agricoltura, tanto a livello famigliare che
delle grandi fattorie».

L’Angola è il secondo fornitore mondiale di petrolio della Cina.
Può parlarci degli interessi della 
potenza asiatica in questo paese? Come descriverebbe il partenariato
Angola – Cina?

«La Cina ha una strategia chiara sull’Angola, come su molti altri
paesi africani, ad esempio Namibia, Mozambico, Sud Africa. Questo interesse è
reciproco, perché anche l’Angola ha bisogno della Cina, in questa fase di
costruzione e ricostruzione del paese.

La Cina possiede un know how di cui l’Angola ha bisogno per
crescere. Nel settore ad esempio delle costruzioni esiste una forte cooperazione
tra i due paesi. Occorre dire che quando l’Angola aveva bisogno di fondi per
iniziare il processo di ricostruzione del paese, tutte le istituzioni come Bm,
Fmi, impedirono che si organizzasse una conferenza di donatori per l’Angola. La
Cina fu l’unico paese che si offrì di finanziare questo processo mettendo a
disposizione prestiti. È chiaro che in questo senso i cinesi si sentono
privilegiati nello sfruttamento del petrolio dell’Angola. Si tratta di uno
scambio commerciale sulla base di interessi reciproci».

José Eduardo dos Santos, dopo 33 anni come
presidente della repubblica, è stato rieletto per altri 5 anni nell’agosto
2012. Come vedono i diversi settori sociali la non alternanza al potere? C’è
opposizione politica in Angola?

«La questione dell’alternanza al potere in Angola deve essere
analizzata tenendo conto di variabili politiche, militari, sociali e
soprattutto culturali. Il popolo angolano non pensa come il popolo occidentale
o orientale. Per questo l’analisi dell’elezione del presidente dos Santos, ha
il suo inquadramento sociologico e politico basato su due aspetti: il primo è
associato all’esistenza di un sistema monopartitico dal 1975 al 1991. Questo
vuol dire che dal 1979 (anno in cui dos Santos accede al potere) fino al 1991
(firma degli accordi di Bicesse), non esisteva la possibilità di elezioni.

Nel 1992 furono realizzate le prime elezioni, nelle quali dos
Santos fu eletto come primo e più votato, ma senza avere la maggioranza che lo
consacrasse presidente. Poi si ritoò alla guerra civile, che fece retrocedere
il paese rispetto ai progressi democratici. È importante dire che fu l’Unita a
riprendere la guerra. Il secondo aspetto è associato al processo di pace
interno e alla necessità di consolidarlo. Passarono ancora dieci anni, dal 1992
al 2002, per arrivare finalmente alla pace.

Come realizzare elezioni ed eleggere un nuovo presidente in uno
scenario di guerra reale, passato dal contesto rurale a quello dei principali
centri urbani? Così passarono 23 anni dal 1979 al 2002. I primi 6 anni di pace
furono impiegati nella pacificazione degli animi e in una gestione del governo
condiviso con l’Unita, chiamato Gu (Goveo di unità e riconciliazione
nazionale), sulla base degli accordi di pace. Obiettivamente solo nel 2012, con
la nuova Costituzione, si arrivò alla seconda vera elezione presidenziale nel
paese. La questione chiave è che il presidente dos Santos non avrebbe, di
fatto, potuto lasciare il potere prima del 2012. Se non per un golpe o per
rinuncia».

Dos Santos è un leader amato dalla popolazione?

«Come tutti i leader che stanno molto tempo al potere, in un paese
all’inizio della costruzione democratica, dos Santos è amato da alcuni,
idolatrato da altri e odiato da altri ancora. In ogni caso è riconosciuto come
persona che ha condotto il paese verso la pace e questo aiuta molto a
equilibrare la sua immagine. D’altro lato, l’Mpla è il partito politico con
maggior numero di sostenitori in Angola, il che significa
che la maggioranza degli angolani appoggia dos Santos e si riconosce nelle sue
politiche. Questo non vuol dire che non esistano contestatori, soprattutto
rispetto ad alcune politiche in relazione con il processo di inclusione
sociale. Ma globalmente lui ha tanti supporter».

Cosa
ci può dire rispetto alla società civile in Angola?

«La società civile è emergente in Angola. In questi anni
iniziano a nascere istituzioni che lavorano su temi specifici, per esempio i
diritti umani, l’uguaglianza sociale, gli obiettivi del millennio, la riduzione
della povertà. Storicamente la società civile pensava di essere contro il
governo e agiva in modo non allineato e disarticolato con le necessità della
popolazione, a diversi livelli. Questo generava diversi conflitti, e faceva in
modo che il governo non le desse spazio per condurre le proprie attività
normalmente. Oggi la società civile inizia a essere in linea con le attese
della popolazione e si è creato uno spazio di dialogo con il governo. Ad
esempio è grazie all’intervento delle associazioni che il governo ha creato un
segretariato dei diritti umani. Vediamo così segnali positivi nelle
realizzazioni della società civile».

Ci
parli allora del rispetto dei diritti umani in Angola? C’è libertà di stampa?

«I
diritti umani stanno evolvendo in Angola, per esempio la pena di morte è stata
abolita da parecchio tempo. Una parte dei diritti civili iniziano a essere
riconosciuti: come il diritto alla casa, alla salute, all’educazione, alla cura
dei figli e degli anziani, che sono la parte più vulnerabile di ogni società.
Iniziano a esserci investimenti e anche alcuni progressi a livello di
legislazione che regola alcune questioni del cittadino. Si osserva un
miglioramento. Intanto però continuano violazioni di alcuni diritti di base,
come il diritto a manifestare, molte volte represso dalla polizia. Questo
condiziona i progressi registrati. Si deve intendere la questione dei diritti
umani come un processo e soprattutto un mutamento di mentalità da parte di chi
detiene il potere politico.

Per
quanto riguarda la libertà di stampa dipende dal livello di analisi. Ad esempio
esistono vari giornali privati, radio e canali di televisione. Il più grande
partito di opposizione, l’Unita, ha una radio che è autorizzata a Luanda
24h/24. Ma questo non significa che tutto sia perfetto, come per i diritti
umani. È necessario lavorare di più per migliorare la libertà di stampa. Ad
esempio nella radio e nella televisione pubblica o statale, alcuni programmi
sono censurati. Ma esistono segnali di miglioramento nel trattamento di questi
temi da parte del governo».

Ci
sono problemi di libertà religiosa in Angola?

«No,
in Angola non esistono problemi di libertà religiosa. Il 90% della popolazione è
cristiana e sono state costruite alcune moschee che stanno funzionando,
svolgono il culto e non hanno mai avuto problemi. Probabilmente esiste troppa
libertà, perché ogni giorno che passa nascono nuove sette religiose, che creano
grande confusione nel cittadino comune».

Marco Bello 

Sull’Angola
MC ha pubblicato «Piedi a mollo nel petrolio», febbraio 2010.


        Testimonianza / La voce del cornoperante italiano                   


Gente forte, con cicatrici profonde

«In Africa un leader lo è dalla nascita. Non viene messo in discussione.
C’è qualcosa di magico. La guerra ha distrutto le famiglie. Ha messo fratelli
contro fratelli. In campagna mancava tutto. Ma oggi vedo solo voglia di
riscatto. Nessuna vendetta».

Simone Teggi ha lavorato in Angola tra il 2003 e il 2006 per
circa tre anni. I suoi progetti erano in aree rurali, soprattutto in zone
dell’Unita: Kuito Bié e Mavinga. Ci racconta come la gente comune che ha
conosciuto vede il presidente dos Santos.

«La gente vede dos Santos come un regnante piuttosto che un
presidente. Dalla parte Unita, la gente continuava ad aspettare Jonas Savimbi,
che nelle zone di sua influenza era considerato una figura magica, un
immortale. Ogni due tre mesi girava la voce che Savimbi stava tornando e la
luce della speranza per molti si riaccendeva.

È strano, ma come in molti altri posti d’Africa, il
presidente è legato a un aspetto magico. Il leader è leader di nascita, e
quindi non può essere spodestato, perché ha la protezione dei fetiseros (stregoni). La gente, non ha
quasi mai un’ideologia chiara e sicuramente questa non contrappone Mpla e
Unita. La popolazione vive assieme, e accetta la propria guida quasi per
vocazione. La magia tradizionale in Angola è fortissima e la realtà spesso si
mescola alla fantasia. La rassegnazione al leader fa il resto».

Anche nei partiti politici di opposizione c’è stata una
certa assimilazione. «Qualcuno ha cercato di creare nuovi partiti di opposizione,
ma come per magia i loro leader scomparivano dopo pochi mesi. Inoltre i
generali Unita, poco a poco sono stati comprati con i diamanti da dos Santos,
perché li metteva a gestire le miniere, o li lasciava fare. Dopo la guerra, gli
accordi di pace prevedevano una divisione del potere amministrativo tra i due
partiti, ma poco a poco i capi dell’Unita si sono piegati alla volontà del Mpla
e ai soldi del petrolio e dei diamanti».

Petrolio, diamanti e
morti di fame

Simone ha vissuto e lavorato in zone rurali e ha anche visto
una grande differenza con le città. «I proventi del petrolio non si sentivano nelle campagne.
C’era Luanda, Benguela, Lobito (le grandi città) da un lato e il resto del
paese dall’altro. La gente in Angola era abituata a vivere bene, prima della
guerra. I servizi di base erano garantiti. Poi la distruzione e l’assenza,
almeno nelle campagne, del governo. E l’inesistenza di una struttura economica.
Si vedevano enormi cornoperative agricole distrutte. A metà anni 2000, l’unica
moneta erano il baratto o i diamanti, nell’interno del paese. Ci sono i ricchissimi (molto oltre i nostri ricchi) e chi
muore di fame. Niente borghesia, e gli stessi portoghesi a volte facevano i
meccanici, a volte avevano un chiosco o un piccolo bar».

Ma la gente si organizzava in associazioni? Si può parlare
di una società civile? «Gli angolani, hanno la tempra da leoni, sono forti, ma 30
anni di guerra, tra fratelli, blocca e distrugge ogni forma di società civile.
Le associazioni erano abbastanza assenti dopo la guerra, ma in poco tempo si
stavano ricostituendo. Io lavoravo per il rafforzamento di una associazione di
donne nata nel 1995. Ma la cosa interessante è che era continuata a crescere a
livello locale, mentre si era dissolta a livello di associazione. Quando è
finita la guerra, è bastato mettere in contatto i vari gruppi e ne è nata una
organizzazione a livello nazionale, abbastanza forte e con buone prospettive».

Angolani: persone
splendide

Simone si è trovato bene con gli angolani, nel lavoro e
nella quotidianità dei rapporti sociali. «La gente è calda, animata e dei gran
bevitori. Ma sono anche persone che hanno vissuto un conflitto interminabile.
Non vogliono più guerre, e per questo si sono inchinati alla morte di Savimbi. Ho
conosciuto persone splendide, che nascondono cicatrici e dolori immensi, che
spesso si riflettono sulla voglia di riscatto. Due aneddoti. Una delle donne
con cui lavoravo, un giorno, parlando della sua famiglia, mi fa vedere la
schiena, piena di cicatrici. Mi racconta che di sera mentre la sua famiglia era
in casa (Otto fratelli e i due genitori) sono stati bombardati. Lei è l’unica
superstite, ma non esiste pianto né commiserazione, solo voglia di riscatto per
la loro vita. La seconda storia riguarda il logista dell’Ong per cui lavoravo.
Un giorno mangiamo e beviamo assieme, eravamo rimasti soli. A un certo punto
lui, un omone tranquillo e apparentemente sereno, si mette a piangere. Dice: “Non
volevo farlo, non capisco come mi sia trasformato in una bestia”. Poi mi
racconta di quando faceva il militare. Quando vedeva morire i suoi amici, e
arrivava a conquistare un villaggio, l’unica idea era riprendere la vita di
altre persone, per soffocare il dolore della perdita dei suoi cari. Stupri,
gente tagliata a pezzi, insomma orrore.

A Kuito Bié, cittadina in cui ci sono stati 8 mesi di
conflitto, la gente di una stessa famiglia in parte era presa dall’Unita,
mentre il resto era preso dall’Mpla. Quindi la gente combatteva il giorno,
fratelli contro fratelli, e la sera si ritrovavano per mangiare insieme. Qui
una parte sostanziosa della popolazione era senza gambe, faceva impressione. Ma
con il trascorrere dei mesi,  sembrava
quasi normale».

Città e campagna

Le città e le campagne hanno vissuto la guerra in modo
diverso. «La città non ha mai vissuto la guerra e imprese, bianchi e ricchi si
installavano là, tra prostituzione, lusso e menefreghismo verso il resto del
paese. La situazione era incredibile. In campagna nessuno sapeva
cos’erano elettricità e acqua. La gente di campagna che andava in città,
pensava che con i soldi si potesse fare tutto, anche scappare da un paese che
per anni ha conosciuto solo l’inferno».

Distruzione del
tessuto sociale

Simone assiste alla profonda disgregazione sociale: «Come
Mao aveva fatto in Cina, in Angola le famiglie erano state distrutte, così
l’unica referenza era il comandante. Una volta a Kuito, incontro un ragazzo che
da 26 anni non vedeva nessuno della sua famiglia. Aveva circa 34 anni. Era
arrivato per cercarla, con un’emozione e paura enorme. Ma nel suo villaggio non
aveva trovato più nessuno, solo desolazione, e qualche zio.

Un giorno andiamo in un villaggio, e uno dei leader è un
personaggio ambiguo. Mi spiegano che era un cecchino. Ognuno sapeva dire che
membro della famiglia gli aveva ucciso. Rimango perplesso: la gente, dopo
trent’anni di distruzione ha imparato a perdonare e il miliziano era stato
accettatornin maniera incredibile».

Ricordi schioccanti: «La gente, soprattutto nel 2003,
saltava sulle mine ogni giorno. Contadini, bus pubblici scoppiavano, ma la
gente ne era abituata. Un giorno una donna è saltata per aria usando un ordigno
inesploso per pestare il mais nel mortaio. Un’altra volta un uomo che cercava
legna è saltato su una mina anti-uomo collegata a due mine anti-carro. È
rimasto solo un buco enorme.

Le mine erano nascoste ovunque, nelle scuole, lungo i ponti,
vicino alle fonti d’acqua e perfino negli alberi da frutta. A Kuito Bié,
durante la guerra la gente non poteva seppellire i propri cari e quindi lo
faceva nel giardino di casa. Mentre abitavo lì, avevano deciso di riesumare i
corpi. Più di 10.000 persone.

Ogni giorno, dei funerali rendevano l’atmosfera sempre più
pazza e, andando al lavoro, passavo attorno a fosse comuni in cui la
popolazione si scannava per identificare qualche cumulo di ossa come il proprio
caro».

Marco Bello

Marco Bello




Segni di risurrezione

Gruppo «fede e impegno» della parrocchia di Arvaiheer
Il tasso di disoccupazione è molto alto e il pericolo di cadere
nell’alcolismo è sempre in agguato; così durante l’inverno del 2012 nella
missione di Arvaiheer abbiamo formato con alcuni uomini il gruppo «fede e
impegno», offrendo loro un’opportunità di aggregazione basata sulla condivisione
di vita, sul lavoro manuale e la realizzazione di manufatti artigianali. Con
tali impegni dimenticano l’alcol e riacquistano la propria dignità.

Enkhamgalan (Amgaa per gli amici) è
un giovane medico dell’ospedale di Arvaiheer. Ci siamo conosciuti quando
insegnavo inglese alla biblioteca comunale. Da allora siamo rimasti in contatto
e nel tempo è nata una bella amicizia. Quando ne abbiamo bisogno, viene a
trovarci per consulti medici.

Così è stato anche pochi giorni
fa, mentre, fuori, il neonato gruppo di uomini stava lavorando a rimuovere lo
spesso strato di neve accumulata sotto le finestre. Finita la visita, Amgaa si è
fermato nell’ufficetto parrocchiale e abbiamo scambiato due parole. Gli ho
raccontato del gruppo itgel zutgel («Fede e impegno») e ne è rimasto
colpito.

Il lavoro fuori era ormai finito
e gli uomini entravano per salutare; allora ho pensato di trattenerli ancora un
poco per far fare loro conoscenza con Amgaa. In pochi minuti il piccolo ufficio
si è riempito: Boldoo, Renchin, Ganaa, Henchmedhev, Jigmedsuren e Chuka
siedevano intorno alla scrivania, mentre introducevo brevemente l’amico Amgaa.
Era la prima volta che ci trovavamo solo tra uomini, l’atmosfera era
interessante.

Dopo la mia
breve presentazione di Amgaa (troppo povera di elogi), lui stesso ha preso la
parola e subito la musica è cambiata: era iniziata una vera conversazione tra
mongoli, fatta di frasi brevi, quasi sbiascicate, spesso interrotte da suoni
rauchi e spezzati, come di chi aspira velocemente una consonante, bloccandola
in gola. È il loro modo di annuire. Amgaa raccontava la nostra amicizia dal suo
punto di vista e mi ha colpito quello che diceva: «Ho tanta stima di questa
gente straniera che è qui con voi; pur non essendo mongoli, per il vostro
cambiamento in meglio stanno facendo più loro che i nostri politici…». Poi ha
continuato: «Io non sono della stessa religione, ma non posso che restare
ammirato di quello che vedo: si prendono cura di voi, dei vostri bambini e
giovani; adesso vi hanno proposto questo radunarsi tra uomini: io ricordo le
facce di alcuni di voi, quando avete avuto bisogno del medico perché vi avevano
trovati ubriachi per strada» – e qui ha alzato il capo per la prima volta, dopo
esser rimasto chino sulle braccia appoggiate pesantemente su un angolo della
scrivania. Lo sguardo non era di critica, ma di compassione.

Nell’aria si sentiva che c’era
intesa tra loro: «Quando ho varcato lo spazio di questa staccionata ho visto
che vi davate da fare con la neve e ho riconosciuto le vostre facce. Siete
diversi, ve ne rendete conto?».

La frase, spezzettata varie
volte, è finita in crescendo e in risposta si sono elevati altri «tkhhhh» e
brevi cenni di assenso. «Se volete, potremmo pensare di vederci qualche volta,
per parlare di salute».

Questa infatti era la mia
proposta: invitare Amgaa e altri medici a parlare di temi legati alla salute,
per offrire momenti formativi. L’idea è piaciuta; ma è piaciuto ancora di più
il fatto di trovarsi insieme come uomini dignitosi, seduti compostamente al
termine di una giornata di lavoro. Cosa che quasi nessuno ricordava di aver
vissuto di recente.

Quando è squillato il telefono di
Boldoo e lui ha risposto: «Aspetta, sono in riunione», un altro gli ha fatto il
verso. Non erano abituati a sentirsi considerati.

Poi Amgaa è ritornato sul loro
cambiamento: «Io so cosa vuol dire avere in casa uno che beve. Mio padre ai
tempi del comunismo era responsabile di una brigata di costruttori. Quando il
sistema è crollato chi aveva un posto come lui ha trovato il modo di accaparrarsi
qualcosa, lui – che era molto onesto – no. Così in breve tempo si è trovato con
l’acqua alla gola. È andato giù di morale e ha cominciato a bere».

Il silenzio era palpabile; non
c’era artificio nel discorso di Amgaa. Diceva sempre che «nella vita di un uomo
prima o poi arriva il giorno in cui ti si apre la mente e capisci; per me quel
giorno dev’essere arrivato quando avevo 17 anni. Ho visto le mie tre sorelle
minori non mangiare nulla per 48 ore e mi son detto: non farò mai questo ai
miei figli».

Qualcuno
aveva gli occhi lucidi; nessuno lo ha interrotto. «Mio padre poi si è ripreso;
io sono andato all’università e sono diventato medico. Adesso che ho un bambino
di tre anni mi accorgo che lui ripete tutto quello che faccio e dico. Bisogna
che diamo un buon esempio ai nostri figli. I vostri figli e nipoti adesso
saranno contenti di vedervi così».

È sembrato un passaggio di testimone. è stato Renchin, il più anziano, a
prendere la parola: «Oggi è stato molto bello; abbiamo lavorato tutto il
giorno, non c’è stato il tempo neanche di pensare a bere. Io per anni ho
lavorato al teatro di Arvaiheer come cantante stabile. Poi ho cominciato a bere
e mi hanno buttato fuori. Dopo un po’ un conoscente mi ha dato un’altra
possibilità: andare a Ulaanbaatar, per entrare nel gruppo folkloristico di
stato. Mi hanno preso subito. Quello che guadagnavo
lo finivo subito con gli amici bevendo. Mi hanno cacciato anche di là».

Chuka, il nostro guardiano,
sembrava il più entusiasta: «Anch’io sotto il comunismo ero un capo, in una
piccola unità produttiva della campagna qui vicino. Lo scaffale era sempre
pieno di vodka. Anche ultimamente, da quando lavoro qui per la Chiesa, bevevo.
Poi, 10 mesi fa, mia madre mi ha detto: “Finché tua madre è in vita, non darle
questo dispiacere: smetti di bere. E io ho smesso”». Davvero, il suo è un caso eclatante; noi missionari ne siamo testimoni.
«Ho scoperto che si può anche fare a meno di bere e stai meglio, la gente ti
rispetta, riesci a lavorare – ha continuato Chuka -. Prima mio figlio, che
studia a Ulaanbaatar, al telefono chiamava solo mia moglie, chiedendole se papà
era ubriaco; adesso telefona direttamente a me! Capite? Mio figlio adesso
telefona direttamente a me!».

Piccoli segni di vera
risurrezione. «Anch’io ho lavorato a lungo per il teatro di stato, come attore.
Sono un buon pittore e ho decorato la stupa che si trova su quella
collina» ha detto Ganaa.

«Però, qui siete proprio tutti
artisti!» ha esclamato Amgaa. «Ebbene – ha continuato Ganaa -, quello che
ricordo è il trovarmi rannicchiato vicino alla porta, perché non riuscivo a
mettere le chiavi nella toppa. Sempre sbronzo. Adesso non bevo più; da quando
vengo qui le cose sono cambiate. Come gruppo vorremmo metterci a fare qualche
lavoretto, poi si vedrà».

Gli altri non hanno parlato, ma
era come se l’avessero fatto. Mi è venuto spontaneo intervenire: «Dovete
ringraziare molto le vostre mogli, se adesso siete così; è la loro pazienza e
la loro fede che vi hanno tenuti in vita». Sorridevano approvando. Sono state le
donne ad avvicinarsi per prime alla Chiesa e poco alla volta li hanno cambiati.

Ho provato una sensazione molto
bella, quella di essere spettatore di un miracolo più grande di noi e dei
nostri sforzi; c’è Qualcuno che ha tessuto la trama di queste vite e ora le
porta verso di Sé. Nessuno avrebbe detto che questi uomini si sarebbero trovati
qui un giorno a raccontarsi la loro vita. Neanche noi missionari e missionarie.
È vero, abbiamo messo in opera certe iniziative, è necessario e giusto farlo;
ma quello a cui stiamo assistendo va ben al di là dei nostri sforzi. Forse
quello che conta allora non è tanto il nostro affannarci dietro le tante cose
da fare, correndo di qua e di là, ma l’accorgerci di questo passaggio dello
Spirito. Esserci, con fede e pazienza. Questo è ciò che ci è richiesto. Al
Signore è sufficiente per compiere la Sua opera.

Giorgio Marengo

Giorgio Marengo




Il medico che realizzava i sogni

2003-2013, Il decennale della scomparsa di Carlo Urbani

Il 29 marzo 2003, a Bangkok, moriva Carlo
Urbani, medico e infettivologo di Castelplanio (Ancona). Veniva ucciso dalla
Sars, il cui virus lui stesso aveva individuato. Abbiamo chiesto a Tommaso, figlio maggiore di
Carlo, di ricordare suo padre, il «babbo», come affettuosamente lo chiama. Ne è
uscito un ritratto speciale, vero e tenero a un tempo.

Negli ultimi mesi sono stato invitato spesso per ricordare
mio padre, per parlare di lui, come medico ma soprattutto come genitore. Sono
arrivato addirittura fino a Taiwan e in Vietnam. L’affetto e la riconoscenza
che ho trovato, anche in chi non lo conosceva, mi ha commosso.

Castelplanio

Per me non è un peso partecipare a queste
cerimonie. Non lo faccio solamente per ricordare, ma soprattutto per portare
avanti il suo, i suoi ideali. Gli ideali per i quali mio padre si è battuto
durante il corso della sua vita, gli ideali nei quali credeva fortemente. Penso
sia importante far conoscere alla gente la sua figura, per fare in modo che ce
ne possano essere altre, per dare uno stimolo e un appoggio a tutti coloro che,
ogni giorno, si battono per la difesa dei diritti umani e l’accesso alla
salute. Perché alla base dell’avventura di vita di mio padre c’erano questi
principi, coltivati sin da bambino, a Castelplanio. Spesso è stato ricordato il
suo impegno con Mani Tese, da ragazzo, o ancora la creazione, assieme ad
altri, del Gruppo solidarietà che si occupava e si occupa tuttora del
sostegno a persone disabili1. Iniziarono poi i primi viaggi all’estero. Insieme ad
alcuni amici raccoglieva medicinali per poi portarli in paesi africani, dove
l’accesso alla salute, alle cure sanitarie di base è un miraggio. Il suo era un
sogno, ma un sogno che doveva diventare un obiettivo: la sua realizzazione lo
avrebbe reso felice. Non accettava le condizioni nelle quali vivevano troppe
popolazioni, dimenticate e vulnerabili. Quindi lui doveva agire, doveva essere
in prima linea per aiutarli. Questo suo sogno lo realizzò quando iniziò a
collaborare con Medici senza frontiere (Msf) prima, e con l’Organizzazione
mondiale della sanità
(Oms) poi. Lo scrive lui stesso in una lettera a suo
fratello: «Sono cresciuto inseguendo i miei sogni, e ora credo di esserci
riuscito». Questa frase riassume un po’ lo spirito che ha accompagnato mio
padre nel corso degli anni, che lo ha portato a realizzarsi nel lavoro, come
nella vita.

Le Crocette sul Calendario  

Lavoro e vita: si tende a pensare che queste
due cose non possano convivere. Se si lavora troppo si rischia di trascurare la
propria vita, la propria famiglia, e viceversa. Per lui non era così. Mio padre
ha sempre avuto la grande capacità di portare avanti entrambe le cose. E non
superficialmente. Ogni minima cosa era fatta con passione. Ecco, questo è il
termine giusto: passione. Era appassionato del suo lavoro, della sua esistenza.

Nei primi anni della mia vita, almeno da
quando ricordo, lavorava a Macerata, collaborava con l’Oms e ogni tanto partiva
in missione. In quegli anni ancora non c’era stata l’esplosione di Inteet, i
voli last-minute non erano un’abitudine, e le comunicazioni erano
limitate… si scrivevano le lettere a mano! Insomma durante quelle missioni
c’era una corrispondenza epistolare in cui mi raccontava (allora ero ancora
figlio unico) il suo lavoro, la sua esperienza, e lo faceva con semplicità, la
semplicità con la quale un padre racconta una fiaba al figlio. Una volta prima
di una sua partenza ero arrabbiato, non volevo lasciarlo andare. Lui mi preparò
una caccia al tesoro, lasciando indizi sparsi in tutta la casa, che dovevo
completare con mia mamma una volta partito. Io non stavo più nella pelle,
aspettavo quindi con ansia la sua partenza.

Una volta trovato il premio però la nostalgia
ricominciava, e con mia madre mettevamo le crocette sul calendario ogni giorno,
aspettando il suo ritorno. Inutile dire la nostra gioia al suo rientro: ci
raccontava dettagliatamente il suo viaggio, con foto, aneddoti, e regalini.

Ricordo con gioia un ultimo giorno di scuola.
Ognuno doveva portare un dolce fatto in casa, una crostata, un ciambellone. Io
chiesi a mia mamma di fae uno, ma si offrì mio padre. Il pomeriggio del
giorno prima, ancora nulla… Iniziavo a preoccuparmi. Lui era in ospedale a
Macerata. La mattina, scendendo in cucina, trovai una casa fatta di biscotti e
marzapane, completamente decorata. Sembrava vera. Lui mi guardò e chiese: «Ti
piace?». Questo era mio padre.

In un modo o in un altro riusciva sempre a
non far pesare la sua mancanza, e devo riconoscere che ci riusciva davvero
bene!

Ricordo con piacere gli anni in cui lavorava
a Macerata, spesso quando si fermava a fare la notte lo raggiungevamo. Avevamo
un piccolo appartamento dove stare. Erano bei momenti, ero felice perché
eravamo tutti insieme. Semplici momenti di quotidianità che, come d’incanto, diventavano
magici.

Da Macerata a Phnom Penh

Quando – era il 1996 – arrivò la chiamata di
Msf per una missione in Cambogia, mio fratello Luca aveva appena un anno.

Mio padre ci propose questa «avventura». Come
risponderebbe un ragazzino di 9 anni se il padre gli chiedesse: «Volete venire
con me in Cambogia per un anno?». Non saprei. Ma so come risposi io. E come
risponderebbe una madre con un figlio appena nato? Probabilmente e
comprensibilmente con un «no». Io ero entusiasta, mia madre di meno. Ma ci
fidavamo di lui.

Quello che faceva mi coinvolgeva in qualche
modo, anche se non lo sapevo ancora. Allora lo vedevo come un viaggio in un
nuovo posto, una vacanza prolungata. D’altronde avevo solo 9 anni. Iniziai a
seguire dei corsi di lingua, là avrei frequentato la scuola francese. La sera a
casa mio padre mi interrogava, dovevo prepararmi al meglio. Ricordo ancora il
giorno della partenza. Un convoglio di amici e parenti ci accompagnò in
aeroporto a Falconara. E prendemmo il volo verso un nuovo mondo, una nuova
vita.

Il primo impatto non fu affatto facile: caldo
torrido, zanzare, scarafaggi, strade dissestate, spazzatura ovunque, tanta
povertà… In Cambogia erano ancora presenti i Khmer Rossi di Pol Pot, quindi la
situazione non era delle più rosee. Ci trovavamo a Phnom Penh, la capitale, e
inizialmente abitavamo nella casa famiglia di Msf. Non fu facile, lo ripeto. Ma
posso dire, dopo diversi anni, che la mia vita quell’anno cambiò. Mio padre mi
fece scoprire la povertà, quella vera, le condizioni nelle quali vivono troppi
bambini. Sembrano cose scontate, risapute, ma credo che non possano essere
capite se non vissute.

Superato l’impatto iniziale fu tutta un’altra
cosa. Dopo alcuni giorni di preparativi era arrivato il momento del colloquio
con il preside della scuola francese. Mi ero preparato minuziosamente il
discorso con mio padre, quindi ero pronto.

Entrammo nella scuola: palazzone giallo in
stile coloniale, campi da calcetto in terra, palme… poi l’ufficio. Il cuore mi
batteva a mille, mio padre cercava di tranquillizzarmi senza successo (mica
poteva far tutto!). Una volta dentro, il preside mi salutò e chiese come mi
chiamassi. Silenzio. Quanti anni hai? Silenzio. Al terzo silenzio intervenne
mio padre. Fu una tragedia. Una vergogna. Uscimmo entrambi sconvolti dalla mia debacle.
Eravamo increduli. Ma fu solo un episodio, poi mi integrai alla perfezione e
dopo un mese parlavo francese meglio del mio babbo! Tutto andava bene, la
scuola, mi ero fatto i primi amici stranieri, mia mamma faceva volontariato in un
orfanatrofio che ogni tanto visitavamo, mio fratello imparava il khmer, e babbo
era felice. Perché era riuscito a coinvolgerci nella sua avventura. Era
soddisfatto del suo lavoro, si assentava spesso per missioni sul campo, durante
le quali eravamo alquanto in apprensione. I Khmer Rossi pattugliavano le
periferie e le campagne, non era molto sicuro andare in giro. Ma era il suo
lavoro. A Phnom Penh c’era il coprifuoco la sera, ma di giorno giravamo
tranquillamente. Una delle cose che mi «eccitavano» di più erano le vacanze al
mare. Partivamo in convoglio con diverse Land Rover di Msf insieme ai colleghi
del mio babbo. Vivevo quei momenti quasi come un film. Ogni due settimane
andavamo a messa nella comunità cattolica francese, ed è lì che feci la mia
prima comunione. Ci venne a trovare anche mia nonna patea. Fu in
quell’occasione che mio padre organizzò un viaggio in macchina, in un altro
paese, il Vietnam. Ero ignaro di quello che sarebbe successo poi. Quel paese
pochi anni dopo sarebbe diventato la mia, la nostra casa. E lo è tuttora.
Ma torniamo alla Cambogia. Un bel periodo
dicevo, sì. Poi però, nel luglio 1997, scoppiò un colpo di stato2.

A Oslo e quel giorno senza Stampa

Quella mattina mio padre non c’era, era
fuori città, doveva tornare in aereo ma non lo facevano atterrare. L’aeroporto
era sotto assedio, e in città c’era la guerriglia. Ero a casa con mia mamma e
mio fratello e sentivamo le bombe esplodere, i carri armati sparare, i
proiettili volare. Uno scenario surreale, quello che sembrava essere un film
era realtà. Ma in quel momento l’unico mio pensiero era rivedere mio padre:
l’aereo riuscì ad atterrare e per fortuna toò a casa. Ci rifugiammo tutti in
un’abitazione vicina, insieme ai suoi colleghi che oramai erano diventati una
grande famiglia, la grande famiglia di Medici senza frontiere. I primi giorni
di attacchi e bombardamenti sembravano infiniti, le mura tremavano, si
sentivano le urla di paura e disperazione della popolazione, le tv
trasmettevano le immagini della città. Strade nelle quali camminavamo tutti i
giorni ricoperte di sangue e cadaveri. Uno spettacolo macabro. Io non capivo,
perché stava succedendo? E probabilmente, anzi sicuramente non mi rendevo
nemmeno conto della gravità della situazione. Un giorno addirittura chiesi a
mio padre di tornare nella nostra casa per prendere dei giochi che avevo
dimenticato. Un suo collega mi rimproverò: «Cosa ti salta in mente? Vuoi che
tuo padre si becchi un proiettile in testa per un gioco?». Ci rimasi male, ma
mi aiutò a rendermi conto che non si trattava di un divertimento. Dopo qualche
giorno i combattimenti finirono, mio padre e i suoi colleghi andavano in giro
per soccorrere eventuali feriti. Dopodiché ci evacuarono a Bangkok mentre la
situazione tornava alla normalità.

Qualcuno potrebbe pensare: «Ma chi è
quell’incosciente che porta la sua famiglia in guerra?». Non è così. Eravamo
una famiglia, lui non sarebbe partito senza di noi, e noi non gli avremmo
impedito di accettare quell’incarico.

Una volta in Italia si toò alla normalità.
Io a scuola a Castelplanio, mio babbo a Macerata, mio fratello all’asilo, mia
mamma al lavoro. Tutto normale, forse troppo. Grazie a mio padre avevo scoperto
nuovi orizzonti, quegli orizzonti che tanto aveva inseguito e raggiunto insieme
a noi. Quella vita mi stava stretta. Figuratevi a lui!

Dopo l’anno in Cambogia aveva capito che
poteva contare su di me per queste cose, un po’ meno su mia mamma. E come darle
torto, portare due figli in Cambogia non era stato di certo come fare una
passeggiata sul monte.

In quegli anni mio padre fu eletto
presidente della sezione italiana di Medici senza frontiere. E nel 1999
l’organizzazione vinse il premio Nobel per la pace. Lui andò insieme a tutti i
presidenti di Medici senza frontiere alla cerimonia di consegna, ad Oslo.
Purtroppo non se ne parlò molto in Italia di quel giorno speciale per Msf.

Non si parlò di quei medici che lottano per
assicurare un minimo di dignità e salute alle popolazioni dimenticate. Non se
ne parlò: quel giorno c’era lo sciopero della stampa.

Coalizzati… per convincere mamma 

Un giorno il mio babbo mi chiamò nel suo
studio. Aveva un libro in mano. C’era la foto di un lago con degli alberi
intorno e al centro un’isoletta con un tempio. «Tommy, questo è il lago di Hoan
Kiem.  Si trova ad Hanoi, la capitale del
Vietnam. La leggenda narra che al suo interno viva una tartaruga gigante, che
durante l’invasione cinese consegnò la spada all’imperatore vietnamita che
liberò il suo popolo dagli oppressori cinesi. Se ti dicessi che c’è la
possibilità di andarci a vivere?». Esplosi in un misto di gioia ed emozione,
non riuscivo a parlare, era tutto troppo bello per essere vero, mi sembrava di
vivere un sogno. La frase successiva fu: «Però devi aiutarmi a convincere mamma».

Nemmeno a farlo apposta, mia mamma era
incinta di Maddalena. Tempismo perfetto! Non fu semplice, ma mio padre con il
suo carisma (e il mio appoggio) riuscì nell’intento.

Mancava solo l’ufficialità. Per me era una
vera sofferenza non poter raccontarlo a nessuno (anche per un po’ di naturale
scaramanzia).

Un pomeriggio di autunno, tornando da scuola,
trovai mio padre seduto nel suo studio, serissimo. «Che è successo?», chiesi. «Non
sono stato scelto per il Vietnam». Sentivo tutta la sua delusione, che si
aggiunse alla mia. Raramente lo avevo visto così, un conto era vederlo
arrabbiato per qualche mio brutto voto a scuola, un altro era vederlo così. Poi
la sorpresa. Un suo collega della Cambogia, suo grande amico, gli aveva voluto
fare uno scherzo. In realtà ancora non s’era deciso nulla. Lo odiammo entrambi.

Arrivò il 6 gennaio 2000. Il giorno
dell’epifania, a Castelplanio, era usanza lanciare i palloncini dalla piazza
del comune, dopo la messa. Ero lì con mia mamma e mio fratello. Mio babbo era
rimasto a casa per lavorare.

Ad un certo punto lo vedo arrivare in
lontananza. Un sorriso a trentasei denti stampato in faccia. Capii al volo. Gli
corsi incontro e gli saltai addosso. «Andiamo in Vietnam, Tommy!». Non
dimenticherò mai quel giorno.

Sei mesi dopo partimmo tutti insieme, con un
passeggero in più, Maddalena, nata da due mesi.

La partenza fu diversa rispetto alla
Cambogia. Ad Hanoi mio padre aveva trovato una casa, e la situazione era
completamente diversa. Noi eravamo diversi. Eravamo pronti per questo nuovo cambiamento,
che sarebbe stato definitivo. Mio padre infatti, accettando l’incarico
dell’Oms, si era licenziato dall’ospedale rifiutando l’incarico di primario.

Hanoi e l’asilo di Maddalena

L’arrivo in Vietnam fu magico. Odori, rumori,
immagini che ho stampate in mente e nel cuore. Ogni volta che rimetto piede in
quel paese mi sento a casa. E questo grazie a mio padre.

Credo che in Vietnam raggiunse l’apice della
sua carriera. Era molto impegnato, come sempre, anzi forse più del solito. Ma
di nuovo faceva di tutto pur di farci essere felici. Non sto parlando di
benessere materiale, ma interiore.

Per noi era una gioia girare con lui. Non
erano dei banali giri turistici. Tutt’altro. Scoprivamo la cultura, le usanze,
i difetti di quel popolo (li adoro, ma i vietnamiti sono molto testardi!), ci
mescolavamo tra loro, condividevamo tutto con loro. Io e mio fratello
frequentavamo la scuola francese, mentre mia sorella era stata iscritta
all’asilo vietnamita. Bellissimo, anche se a casa avevamo bisogno dell’interprete,
dato che Maddalena parlava solo vietnamita.

Mio padre era fiero di tutto ciò. Era
riuscito in qualcosa di straordinario. E non sto parlando del lavoro. Ma della
famiglia. Era riuscito, attraverso il suo impegno nell’aiutare gli altri, a
farci capire cosa sia la vera felicità, il vero amore, la vera gratitudine. Che
troppo spesso pensiamo solo a noi stessi quando in troppi soffrono perché
perdono «la famiglia nella guerra, il raccolto nell’alluvione, il figlio per la
diarrea, i risparmi per un ladro», come scrisse in una lettera.

Era felice di vedere mia sorella parlare
vietnamita, mio fratello giocare con i vicini di casa, me che raccontavo le
birre di troppo prese con gli amici. I suoi sogni si erano avverati, realizzati
sia nella vita che nel lavoro. E in tutto questo era riuscito anche a crescere
i suoi figli.

Un Uomo, Un Medico (Ma non un Eroe)   

Tutti sanno cosa è successo il 29 marzo del
2003. Mi crollò il mondo addosso. A me, a mia madre Giuliana, a mio fratello
Luca (mentre – per fortuna – mia sorella Maddalena era ancora troppo
piccola).  A famigliari,
amici, colleghi. Mio padre è stato spesso chiamato «eroe». Non sono d’accordo.
Mio padre è stato un medico, un uomo che si è messo a disposizione dei più
bisognosi. Ma non è l’unico. In tutto il mondo ci sono persone che rischiano la
loro vita per aiutare i più deboli, i più sfortunati… questo non va
dimenticato.

In molti mi chiedono se, ogni tanto, rimprovero
mio padre per la scelta che ha fatto. Lui mi manca. Ci manca. Ma sono convinto
che, se dovesse rivivere quel periodo, mio padre farebbe esattamente le stesse
scelte. Era la sua vita, la sua passione. E nessuno glielo rimprovererà.

Sono passati dieci anni dalla sua morte,
eppure molti dei suoi insegnamenti li colgo solo ora. Cerco di impegnarmi nel
quotidiano per provare a rispettare i valori che egli ha difeso con tanta
passione e amore. E, come detto all’inizio di questo ricordo, continuo ad accettare
gli inviti che ricevo in Italia e nel mondo, per trasmettere il suo messaggio,
per ricordare la sua figura di medico e uomo.

Sono convinto che da lassù mio padre mi
guardi. E probabilmente, considerando l’ironia di cui era largamente provvisto,
si faccia pure due risate.

Tommaso
Urbani*

* Tommaso
Urbani, primogenito di Carlo Urbani, è studente universitario. Partito da Forlì
(Scuola interpreti), passato per Bruxelles (per un master), frequenta
attualmente l’Università di Trieste. Appassionato di musica, suona il sax.

       Note             
1 – Il Gruppo solidarietà ha sede a Moie di Maiolati. Questo
il suo sito: www.grusol.it.
2 – Ebbe luogo tra luglio e agosto del 1997. Si trattò di
una lotta intestina tra i due uomini forti del governo: Hun Sen e il principe
Norodom Ranariddh. Il primo ebbe la meglio.

 
           Carlo Urbani e Missioni Consolata                                                      


COME STA FATOU?

Carlo Urbani è stato un nostro amico e collaboratore. Fu lui
stesso a stabilire il titolo della sua rubrica: «Come sta Fatou? In viaggio tra
malattie e sottosviluppo». Il primo articolo uscìnel gennaio del 1999.

Conobbi Carlo nell’ormai lontanissimo 1988. Ci incontrammo
in un viaggio alternativo in India e Nepal che lui stesso guidava. Fu immediato
capire che persona fosse: ironica, estroversa, curiosa. Appassionato di
fotografia, ma anche di cibo. E poi c’era il Carlo-medico, gentile e
competente. Fu un viaggio unico, anche per gli inconvenienti occorsi. Ci
rivedemmo ancora sia a casa mia, in Trentino, che a Castelplanio. Nell’autunno
del 1998 gli chiesi se volesse curare una rubrica di medicina per Missioni
Consolata. Rispose subito di sì e propose anche il titolo: «Come sta Fatou? In
viaggio tra malattie e sottosviluppo». Curò la rubrica fino alla partenza per
Hanoi, dove nel marzo del 2003 si ammalò. Seppi della sua morte poche ore dopo
il fatto. Cinzia, una comune amica di Castelplanio, mi telefonò per avvertirmi.
Pensai subito che scherzasse, ma purtroppo mi sbagliavo.

Nell’introdurre la sua rubrica – era il gennaio 1999 – Carlo
aveva scritto: «In questa rubrica (…) ci racconteremo qualcosa che riguarda
la salute, o meglio l’assenza di salute, in questo mondo dei più sfortunati,
dove povertà e malattia si generano a vicenda». Carlo non è morto a causa di
una delle malattie descritte nei suoi scritti, ma per la Sars, una patologia
fino ad allora sconosciuta il cui virus egli stesso aveva individuato.

Prima di chiedere a Tommaso di scrivere un ricordo di suo
padre, ci ho pensato molto. Mi sembrava di essere invadente, irrispettoso, come
sanno essere molti giornalisti. Poi ho capito che, dal giorno della sua
scomparsa, Carlo Urbani non è più soltanto un individuo ma un’icona pubblica,
un simbolo positivo. Di più: in questa Italia disastrata e senza speranza Carlo
Urbani rappresenta un esempio luminoso, un italiano di cui parlare ed essere
orgogliosi.

Paolo Moiola

Tommaso Urbani




Emozioni e sfide

Sulle orme di padre Witold Malej, missionario della Consolata nato
in Bielorussia
Nato in Bielorussia da famiglia polacca, padre Witold Malej
(1922-2006) è l’unico missionario della Consolata di nazionalità polacca.
Ordinato sacerdote nella diocesi di Varsavia, vi lavorò per vari anni, poi
chiese di entrare nell’Istituto. Emessa la professione religiosa, visitò
l’Africa e fu missionario per alcuni anni in Brasile. Poi chiese e ai superiori
e ottenne il permesso di ritornare in Bielorussia nel suo villaggio di origine
a Dzierkowszczyzna, dove fu parroco fino a quando le forze glielo permisero.
Oggi riposa nel cimitero di Alpignano.

Ho l’occasione di visitare la
Bielorussia grazie a un invito, come segretario della Pontificia unione
missionaria (Pum), a predicare una giornata di ritiro spirituale ai seminaristi
della diocesi di Grodno, insieme al mio collega don Bogdan Michalski,
segretario nazionale delle Pontificie Opere per la Propagazione della Fede e di
San Pietro Apostolo in Polonia.

Oltre a incontrare i seminaristi
ci diamo due obiettivi: cercare nel paese un compagno di seminario di don
Bogdan; cercare il villaggio nel quale nacque e lavorò il mio confratello padre
Witold Malej.

Uno sguardo sul paese

La Bielorussia ha una superficie
di 207.600 kmq e una popolazione di quasi 10 milioni di abitanti. Senza sbocco
al mare, conta 11 mila laghi. Viene attraversata da tre fiumi principali:
Neman, Pripyat e Dnepr.

La Bielorussia è relativamente
piatta e ricca di paludi. Il più grande territorio paludoso è Palesse. Il suo
punto più alto è la Dzyarzhynskaya Hara (Colle di Dzyarzhynsk), con 346 m,
mentre il punto più basso sul fiume Neman a 90 m. La capitale è Minsk. La
popolazione è cristiana: circa 80% ortodossa e 20% cattolica. Anche se le
statistiche mostrano un paese cristiano, in realtà è considerevole il numero di
persone atee.

Scopriamo che molto raramente è
parlato un idioma «puro» nel paese. Bielorusso e russo sono le lingue
ufficiali, ma a scuola si insegna più il russo che il bielorusso. Spesso queste
lingue sono mescolate con il polacco, il lituano e l’ucraino a seconda della
regione in cui ci si trova.

La lingua liturgica più amata dai
cattolici è il polacco. Nella cattedrale di Grodno, ad esempio, la domenica si
celebrano otto messe: una in russo, una in bielorusso e sei in polacco. Ciò
facilita il nostro incontro con i seminaristi, anche se don Bogdan parla russo
e io mi sono comprato un tascabile per le frasi elementari. Ma grazie a una
buona conoscenza del polacco ci si può capire anche con quelle persone che non
lo parlano per discendenza, perché parlano una lingua mescolata. L’alfabeto del
bielorusso e del russo è cirillico. La lingua ha molti suoni comuni alla lingua
polacca. La moneta corrente è il rublo bielorusso. Il cambio è di circa 11.000
rubli per 1 euro. È facile essere milionari in questo paese. Uno stipendio
medio di un insegnante si aggira sui 300 euro. La benzina costa poco: circa
8.000 rubli al litro (0,70 euro), ma bisogna fare attenzione a dove la si
compra perché a volte la qualità può essere scadente.

Per passare dalla Polonia alla
Bielorussia occorre il visa: infatti si esce dall’Unione europea e si entra
nella Confederazione degli stati russi. La strada che percorriamo è una delle
più frequentate dai camionisti. La coda di tir che si è formata oggi ci
impressiona. È lunga circa 25 km e il tempo di attesa per varcare il confine
come segnala un cartello è di ben 40 ore! Per fortuna le macchine vanno
spedite, ma parte di questi 25 km di coda è a una sola corsia così avanziamo
lentamente sorpassando quando si può.

Arrivati alla frontiera, troviamo
una lunga coda di auto targate Bielorussia, che subiscono un controllo
speciale. Per quelle con targa dell’Unione europea, come la nostra, non c’è
fila. I vari controlli (ne contiamo almeno cinque) ci prendono circa un’ora e
mezza. Un buon tempo tutto sommato, ci dicono dopo altri.

Il soldato polacco vedendo che
siamo sacerdoti si mostra particolarmente gentile e addirittura ci insegue per
qualche metro chiedendo preghiere per la sua famiglia. Gliele promettiamo e gli
regaliamo un’immagine della Consolata.

Dalla parte della Bielorussia,
dopo aver compilato altri documenti, incontriamo una giovane che si mostra
gentile, spiegandoci ciò che dobbiamo fare, al contrario del suo collega che in
modo sbrigativo ci indica i documenti da riempire.

Incontro con i seminaristi  e i preti di Grodno

Siamo in Bielorussia! Il
seminario che ci accoglie, a Grodno, è molto vicino alla frontiera e in meno di
un’ora arriviamo a destinazione. Padre Tadeusz, il direttore spirituale, ci
accoglie calorosamente insieme al rettore del seminario. Sono loro che hanno
scritto l’invito passato poi per il vescovo.

Abbiamo un’ora prima della cena e
dell’inizio dell’incontro con i seminaristi. Così accompagnati dal diacono
Paolo e lo studente Czeslaw, visitiamo brevemente Grodno. A dare il benvenuto
al visitatore è un carro armato sovietico posto su una colonna e rivolto verso
l’ovest. Segno di difesa.

Siamo ben impressionati da questa
città di circa 350 mila abitanti. È ordinata e pulita. I giovani passeggiano,
vanno al cinema o al teatro.

Ritorniamo in seminario; e dopo
cena incontriamo gli studenti, 40 circa, 10 di questi vivono nelle parrocchie.
Dopo la presentazione reciproca, introduciamo il tema raccontando delle nostre
esperienze di missione, vissute in Perù da Bogdan e da me in Tanzania, dando
così inizio al ritiro, che continuerà domani per tutta la giornata, scandita da
momenti di preghiera e da conferenze, tutte condite da un respiro missionario.

Troviamo nei seminaristi un clima
aperto e raccolto, attento a ciò che raccontiamo. Capiamo subito che per loro
sono esperienze pastorali totalmente nuove. La Bielorussia attualmente non ha
missionari al di fuori del proprio paese.

A tavola parliamo amichevolmente
con il rettore e i padri spirituali, che ci confermano che in questa diocesi (e
nel paese in generale) non c’è una tradizione precedente di incontro con i
missionari; tuttavia li troviamo aperti. Ogni anno essi mandano due seminaristi
agli incontri missionari in Polonia; proprio da uno di questi incontri è nato
l’invito a venire qui a Grodno.

Alla fine della giornata, dopo
avere avuto anche colloqui personali con i seminaristi, vediamo spuntare
germogli di speranza per il futuro missionario della diocesi: due studenti del
4° anno chiedono e ottengono il permesso di fare un’esperienza in missione
durante le vacanze estive e mi pregano di aiutarli a realizzare tale progetto;
un altro studente dell’ultimo anno di teologia, vuole fare un’esperienza
pastorale missionaria all’estero prima di ricevere l’ordinazione diaconale.

Con nostra grande sorpresa siamo
pregati di fermarci ancora un giorno per partecipare al ritiro mensile degli
oltre 100 sacerdoti della diocesi, che si tiene proprio nel seminario dove ci
troviamo, per dare la nostra testimonianza. Durante la messa presieduta dal
vescovo locale mons. Alessandro Kaszkiewicz, Bogdan fa l’omelia. Finita la
celebrazione, ho spazio per presentarmi e parlare dell’Istituto e, con
l’occasione, di padre Witold Malej nato in Bielorussia, in un’altra diocesi, e
divenuto poi nostro confratello.

Ci fermiamo ancora per il pranzo
e per un caffè con il vescovo, che ci accoglie frateamente e ci invita a
ritornare. Insomma, abbiamo avuto un surplus di animazione d’avvero
inaspettato. Ogni sacerdote ha ricevuto un’immagine della Consolata con la
preghiera e il nostro contatto.

Glebokie e Dzierkowszczyzna

Dopo i saluti e i ringraziamenti,
partiamo alla volta di Minsk, la capitale della Bielorussia. Il visa ci concede
ancora quattro giorni per stare nel paese e così ne approfittiamo per
conoscerlo. Minsk da Grodno dista quasi 300 km, che percorriamo senza problemi,
la strada è buona con poco traffico. Incontriamo diversi camion, ma poche
automobili private. Per tutta la lunghezza del viaggio vediamo solo boschi e
campi con chiazze di neve ancora intatta. Ogni tanto qualche piccolo villaggio
molto modesto costituito da poche case di legno.

Abbiamo in programma due
incontri: il primo con un collega di studi di Bogdan, don Mieczyslaw, che
proviene da Wroclaw in Polonia e che da oltre 20 anni lavora in Bielorussia; il
secondo incontro che vogliamo fare è con la comunità di padre Witold Malej, a
Dzierkowszczyzna. Non abbiamo molte informazioni sui luoghi che cerchiamo e non
sappiamo neanche dove siano precisamente.

A questo punto la Provvidenza ci
fa un regalo davvero grande. Scopriamo con gioia che don Mieczyslaw, l’amico di
Bogdan, è attualmente parroco e decano a Glebokie, a nord del paese, a circa
200 km da Minsk. Inoltre veniamo a sapere che la la sua parrocchia confina
proprio con Dzierkowszczyzna, il villaggio dove padre Malej nacque e lavorò,
mentre a Glebokie fece i primi studi scolastici.

A Glebokie la Provvidenza ci fa
incontrare un’altra persona importante: suor Lema, una giovane religiosa della
congregazione delle Suore Francescane della Santa Famiglia. Attualmente suor
Lema vive a Glebokie a fianco della parrocchia ma proviene da Dzierkowszczyzna.
Non solo. Padre Malej fu il parroco che le insegnò il catechismo; e ci confida
anche che, un po’ scherzando, padre Malej le predisse che sarebbe diventata
suora. Aveva avuto ragione!

Senza di lei non avremmo
conosciuto molto di padre Malej, dato che il parroco attuale poco sapeva delle
origini del suo predecessore missionario.

Memoria ancora viva

Guidati da suor Lema partiamo per
Dzierkowszczyzna. Raggiungiamo il villaggio percorrendo una strada a tratti
piena di buche e non asfaltata. Il villaggio è molto modesto e povero. Le case
sono tutte di legno eccetto alcune che sono state rinnovate. Qui vivono circa
1.000 persone, metà delle quali ortodosse e metà cattoliche.

Andiamo nella parrocchia dove ci
attende il giovane parroco don Witalii che vive qui da 4 anni. Visitiamo
l’esterno della chiesa costruita in pietra. Nel giardino dietro la chiesa è
sepolto lo zio di padre Malej, che era stato parroco. A fianco della tomba
dello zio, padre Malej aveva preparato la sua, ma è rimasta vuota, perché è
sepolto ad Alpignano (Torino).

Suor Lema ci guida per il
villaggio e ci porta nel punto in cui sorgeva la casa natale di Malej. Oggi è
solo una rovina. Poi andiamo al cimitero e visitiamo la tomba del papà di Malej
qui seppellito, mentre la moglie è sepolta in Polonia.

Poi prima di celebrare la Messa
facciamo visita dall’unico parente che vive ancora qui. È una persona anziana, Giovanni,
figlio di un cugino che vive con la moglie Anna. Anna racconta e si commuove
ricordando Malej. Ci dice che gli volevano tutti bene perché aiutava molte
persone, e che la gente fu dispiaciuta quando partì per l’Italia dopo aver
lavorato 11 anni qui come parroco.

Dopo l’incontro celebriamo la
Messa con un piccolo gruppo di anziane fedeli. Per l’occasione abbiamo portato
un quadro della Consolata che benediciamo e consegniamo alla comunità per mano
del parroco. Alla fine della celebrazione eucaristica canto il nostro inno «O
Consolata
». Lascio anche le immaginette della Consolata per tutti i fedeli
della parrocchia.

Tuttavia la Consolata era qui già
presente. Malej aveva molte immagini di lei. La più grande è in chiesa appesa a
un muro laterale, mentre altre sono nella casa parrocchiale ancora oggi nelle
stesse posizioni in cui erano ai suoi tempi. Troviamo anche i libri di padre
Candido Bona, con le lettere del Fondatore e la storia dell’Istituto.

Prima di salutarci facciamo cena
dalla signora Stanisława, che è la sacrestana della chiesa. Mentre apparecchia
la tavola, ci mostra le foto della tomba di padre Malej del cimitero di
Alpignano che ha ricevuto dall’Italia con la comunicazione della morte. Al
vedere le foto suor Lema si emoziona ed esclama: «Il mio parroco!».

Dialogando con la signora Stanisława
scopriamo che Malej ha una sorella ancora viva a Białystok in Polonia e nipoti
a Varsavia. Scriviamo il numero di telefono della sorella. 

Alla fine della giornata ci
congediamo. Il parroco ci invita a tornare. Questo luogo per noi è
significativo e in futuro terremo i contatti. Ma lasciamo al Signore guidare i
nostri passi, come chiaramente ci ha guidati in questi giorni. Volevamo
conoscere questo luogo, ma avevamo solo il nome del villaggio… e la Bielorussia
è grande. Anche Bogdan riesce a incontrare il suo vecchio compagno di studi.

Conclusione

Lasciando la Bielorussia dopo
quasi una settimana, passiamo in Lituania e ci fermiamo a Vilnius, la capitale
del paese. La distanza dalla Bielorussia è di poche decine di chilometri, ma le
differenze dello stile di vita sono grandi.

Ci sentiamo arricchiti da questa
missione breve e intensa. Abbiamo visto un paese che pur appartenendo
geograficamente all’Europa è notevolmente diverso da essa. Abbiamo chiara la
percezione di come la Provvidenza ci abbia guidato, soprattutto nella ricerca e
nell’incontro avuto con la comunità nativa di padre Witold Malej. Lasciamo che
la stessa Provvidenza continui a guidarci in questo cammino non facile, ma
affascinante, verso l’Est dell’Europa. Sfida che l’Istituto sente sua,
inviandoci in Polonia e continuando la missione.

Luca Bovio

Luca Bovio




Le bizze dei Kim non finiscono mai


Le minacce di Pyongyang, le strategie degli?altri Il giovane Kim Jong-un non è diverso dal padre e dal nonno: pensa e agisce da dittatore. Le necessità della politica intea esigono che il paese abbia un nemico esterno su cui far ricadere tutti i problemi e per compattare la popolazione attorno al presidente. L’alleato cinese osserva perplesso. Per parte loro, Corea del?Sud e Stati Uniti agiscono in maniera provocatoria con protratte esercitazioni militari.

 

Per settimane, tra marzo e aprile, tutto il mondo ha seguito con attenzione ogni comunicato dell’agenzia ufficiale nordcoreana Kcna. In alternativa c’erano i pezzi del Rodong Sinmun, l’organo ufficiale del Partito unico di regime. Erano i giorni della minaccia nucleare dei due missili a medio-raggio Musudan trasferiti sulla costa orientale in una località segreta  e capaci (ipoteticamente) di giungere fino alle basi statunitensi di Guam, oltre che a quelle in Corea del Sud e in Giappone. Un crescendo di toni belligeranti iniziato con il lancio del razzo Unha-3, nel dicembre 2012, in spregio alle risoluzioni Onu che vietano test balistici al regime e con il quale Pyongyang ha superato sul tempo i più modei cugini del Sud nella corsa a piazzare in orbita un satellite. I sudcoreani ci sarebbero riusciti con il Naro soltanto un mese dopo, al terzo tentativo. La crisi ha poi toccato il culmine con il test nucleare sotterraneo del 12 febbraio, costato a Pyongyang nuove sanzioni approvate anche con il via libera della Cina, storico alleato. E proprio nella dirigenza cinese è serpeggiata la presenza di funzionari favorevoli a prendere le distanze da un regime poco propenso a sentire i consigli dei «fratelli maggiori».

La sequenza degli eventi è stata scandita dalla minaccia di un attacco nucleare preventivo contro gli Usa il 7 marzo; il giorno seguente è avvenuto il taglio della linea di comunicazione d’emergenza di Panmunjom (il villaggio al confine tra le due Coree dove fu firmata la tregua) e infine il ripudio dell’armistizio che mise fine alla guerra del 1953 e che di fatto, in assenza di un trattato di pace, regola le relazioni all’interno della penisola coreana.

Kaesong

Un mese dopo la Corea del Nord prendeva la decisione forse più significativa della recente crisi: il ritiro dei suoi 53mila lavoratori da Kaesong, il complesso industriale inter-coreano nell’omonima città, una decina di chilometri a nord della zona demilitarizzata (cfr. Glossario). Kaesong è considerato uno dei frutti più duraturi della politica di distensione tra le due Coree dell’inizio degli anni Duemila. Una sorta di «canarino nella miniera» circa le relazioni tra Pyongyang e Seul, capace di resistere anche alle crisi più gravi come l’affondamento della corvetta Cheonan nel marzo di tre anni fa, nel quale persero la vita 46 marinai del Sud o il bombardamento sull’isola di Yeonpyeong nel novembre successivo, che fece quattro morti di cui due civili. Sopravvisse inoltre con buoni risultati economici ai cinque anni alla Casa Blu di Seul del presidente Lee Myung-bak, fautore di una linea intransigente contro il Nord.  I lavoratori nordcoreani sono impiegati da 123 piccole e medie imprese del Sud, ora messe sul lastrico dal blocco della produzione. Come ha spiegato una fonte intea al sito Daily Nk, vicino agli esuli nordcoreani,  il gesto è stato dettato da motivi  di propaganda. Quanti a Nord del 38esimo parallelo sarebbero stati disposti a credere all’eventualità che la Corea del Sud potesse attaccare il regime con Kaesong ancora in funzione? D’altra parte, se i sudcoreani hanno manodopera a basso costo, per il Nord, Kaesong rappresentava una fonte di guadagno e valuta. Il regime trattiene per sé parte dei salari dovuti agli operai, che vanno invece a rimpinguare le casse di Pyongyang. L’ultimo incasso sono stati i 10 milioni di dollari che il regime si è fatto consegnare per consentire di tornare a casa agli ultimi sette sudcoreani bloccati nell’impianto dopo che anche Seul aveva deciso di richiamare i suoi. Soldi che dovevano coprire gli stipendi di marzo e le tasse e che il Sud ha mandato in contanti, quasi fossero una sorta di riscatto.  

«Il 99 per cento della propaganda nordcoreana è rivolta a un pubblico interno – ha spiegato James Pearson, direttore a Seul del sito Nk News, da noi contattato -. Ci sono ovviamente eccezioni alla regola, come le recenti minacce dirette alle basi statunitensi nel Pacifico, ma il linguaggio estremo usato in questo periodo non è fuori luogo rispetto a quanto la stampa nordcoreana pubblica normalmente. Gli articoli della Knca riprendono normalmente quelli del Rodong, il principale quotidiano del paese. Sono pezzi scritti da esponenti del Partito per altre persone del Partito. Spesso gli autori temono per la loro sicurezza e legittimazione, perciò usano un linguaggio aggressivo e provocatorio».

È la propaganda nordcoreana intea, ha confermato Roger Cavazos, analista del Nautilus Institute. Secondo l’esperto internazionale la propaganda nordcoreana segue principalmente quattro direzioni: istituzionalizzare il carisma del leader, sostenere l’ideologia politica, cementare la successione dinastica della famiglia Kim oggi alla terza generazione con il trentenne Kim Jong-un, figlio del caro leader Kim Jong-il  (morto nel dicembre 2011) e nipote del fondatore dello Stato, Kim Il-sung (morto nel luglio 1994); convertire l’intero Paese alla sfera politica.

 

Una?nazione? «forte e?prospera»

Sul fronte esterno invece il regime di Pyongyang tende a volere creare situazioni di crisi, mostrarsi il più forte possibile per affrontare un ipotetico tavolo delle trattative. Soprattutto vuole gestire l’andamento della narrazione. Molti analisti concordano nel ritenere che l’ultima serie di minacce sia servita per forgiare la figura del giovane Kim Jong-un davanti ai militari che per anni sono stati accanto al padre nella gestione del potere, ha ricordato Pearson. «Deve essere considerata soprattutto in questi termini la recente escalation, non possiamo da un lato farci beffa della propaganda nordcoreana e dall’altro prenderla sul serio».

Nei giorni della crisi due erano i temi ricorrenti: gli armamenti nucleari e lo sviluppo economico. Le due priorità per costruire una nazione «forte e prospera», come recita lo slogan del giovane leader nel suo primo anno di potere.  Nella pratica, ricordano gli analisti, si tratta di linee guida vaghe che possono essere interpretate tanto in termini militari, economici o diplomatici. Non a caso negli stessi giorni in cui giornali, televisioni e radio di tutto il mondo aprivano le edizioni con le minacce di Pyongyang, il Rodong dedicava ampio spazio all’economia, mentre i nordcoreani, prima in stato di massima allerta, si preparavano alla stagione della semina.

Denuclearizzare: sogno realizzabile?

I gesti di Kim Jong-un e dei suoi generali non sono tuttavia catalogabili semplicemente alla voce, «tanto rumore per nulla». La macchina della diplomazia si è messa in moto. Il segretario di Stato americano, John Kerry è volato in Asia in un tour di tre tappe a Seul, Pechino e Tokyo per discutere della crisi con i principali attori coinvolti. Il tema caldo è stato rappresentato dalla denuclearizzazione della penisola, di cui Kerry ha discusso tanto con la presidentessa sudcoreana Park Geun-hye tanto con il presidente cinese Xi Jinping e il primo ministro giapponese Abe Shinzo. 

Si sono poi susseguite le visite nelle quattro capitali degli inviati speciali con particolare attenzione al cinese Wu Dawei dato a più riprese in partenza per Pyongyang per riportare il regime a più miti consigli. Mentre a volare nella capitale nordcoreana è stato per primo l’inviato nipponico Iijima Isao , forse per un canale di dialogo interrotto con il test di dicembre, sebbene i due Paesi non abbiano relazioni diplomatiche e nonostante i contrasti per le atrocità compiute dall’esercito imperiale durante l’occupazione della Corea nella prima metà del secolo scorso e per la questione dei giapponesi rapiti dai nordcoreani.

«La stampa internazionale ha ceduto alla tentazione di spaventarsi da sola. Il Nord non lancerà un attacco nucleare contro gli Stati Uniti o contro qualcun altro. Sicuramente non darà inizio ad alcuna guerra. I coreani tanto del Nord quanto del Sud la pensano così. Ciò che la crisi ha dimostrato è quanto il resto del mondo debba rimettersi al passo per capire la situazione nella penisola coreana», ha sottolineato Pearson. D’altra parte, è opinione comune che l’obiettivo del regime di Pyongyang non sia l’autodistruzione, ma perpetuare il proprio potere.

L’ideologia?del «juche»

Le minacce in qualche modo rientrano in un copione che si ripete di anno in anno in occasione di celebrazioni di primo piano per il regime.  Nei primi quattro mesi dell’anno si susseguono l’anniversario della nascita di Kim Jong-il, il 16 febbraio, quello della nascita di Kim Il-sung, il leader eterno celebrato nella festa del Sole, astro cui è paragonato, il 15 aprile, l’anniversario della fondazione dell’esercito, uno dei pilastri della Repubblica democratica popolare di Corea (nome ufficiale del Nord), il 25 aprile.

In queste occasioni il governo di Pyongyang non ha mancato in passato di fare sfoggio della propria forza con parate militari o come lo scorso anno con test balistici di scarso risultato, prima di quello di dicembre.

Il crescendo delle tensioni è coinciso anche con le annuali esercitazioni congiunte tra statunitensi e sudcoreani, questa volta andate avanti sino alla fine di aprile. Per gli Stati Uniti sono state occasione per far sfoggio di muscoli. Sui cieli coreani si sono visti volare i bombardieri B-52, ricordo del conflitto degli anni Cinquanta, i B-2 capaci di trasportare bombe nucleari e gli F-22, fiore all’occhiello dell’aviazione statunitense. Terminate le esercitazioni il 30 aprile, dopo due settimane di relativa calma durante le quali le minacce di Pyongyang si erano fatte sporadiche, a dare una nuova fiammata, seppur non ai livelli precedenti, è stato l’arrivo nelle acque coreane della portaerei della marina statunitense Uss Nimitz. Una «provocazione» secondo Pyongyang che per tutta la durata della crisi ha fatto leva sul senso di accerchiamento. C’è infine la questione diritti umani, con gli inviati Onu che hanno ricevuto mandato di indagare sulle violazioni nei campi di lavoro forzato dove si ritiene che i detenuti siano almeno 200mila. Uno smacco per Pyongyang tanto più che dei tre componenti la commissione nessuno può essere accostato ai nemici di sempre.

Si tratta infatti di un australiano, Michael Kirby, di un indonesiano, Marzuki Darusman, e di una serba, Sonja Biserko. «La lotta contro l’esterno richiede che ci sia qualcuno cui dare la colpa», ha spiegato Cavazos. Il principio è quello di riunire il popolo attorno ai propri leader, gli unici portatori dell’ideologia del juche, o autosufficienza come vien tradotto, memori anche di un passato in cui il Paese è stato mira delle grandi potenze, prima la Cina, poi il Giappone, poi stretto nello scontro tra i blocchi. «La Corea del Nord è fiera della propria indipendenza. Nessuno può dirle cosa fare», viene ricordato da Brian Reynolds Myers della Dongseo University di Pusan nella sua analisi della propaganda nordcoreana.

Il?ruolo?di?Pechino

E la Cina? Che l’influenza può esercitare Pechino sul riottoso alleato? In una recente analisi del Nautilus Insitute si usa la metafora dell’elefante (la Cina) che entra nel prato schiacciando l’erba. Questa è il timore di Pyongyang in termini di indipendenza. Per Pechino è invece una questione tanto di prestigio internazionale quanto di interesse nazionale. Accettando le sanzioni, aumentando i controlli alla dogana e con la decisione unilaterale della Bank of China di chiudere il conto domiciliato presso i propri sportelli della nordcoreana Foreign Trade Bank, accusata di finanziare il programma nucleare di Pyongyang, la Cina mostra al mondo di essere una potenza responsabile e manda allo stesso tempo un segnale all’alleato.

Il legame «di sangue» stretto ai tempi della guerra di Corea rischia di rivelarsi controproducente per Pechino. Le bizze della Corea del Nord sono un alibi per il mantenimento e per il potenziamento dell’apparato militare statunitense nella regione a sostegno degli alleati sudcoreani e nipponici. Gli Usa hanno già decretato l’Asia come il fulcro della propria attuale e futura strategia estera ed economica. Nelle stesse zone dove la Cina vuole far valere la propria influenza.

Andrea Pira*

 
             Le attività religiose                                                                           

Forze?ostili

L’articolo 68 della Costituzione nordcoreana garantisce la libertà di culto. La realtà mostra una situazione molto diversa. Come testimonia la vicenda del missionario evangelico Kenneth Bae, condannato a 15 anni di carcere.

Kenneth Bae è stato condannato per aver cercato di rovesciare il governo nordcoreano con attività religiose di propaganda, recita il comunicato dell’agenzia Knca.  Il caso del cittadino statunitense di origine sudcoreana fermato lo scorso novembre e a fine aprile condannato a 15 anni di lavori forzati dalla Corte suprema nordcoreana è corso di pari passo con la crisi nucleare nella penisola e i venti di guerra. Secondo quanto riferiscono i media ufficiali, la 44enne guida turistica, nota anche come Pae Jun-ho con il suo nome coreano, sarebbe la mente della cosiddetta «operazione Jericho» e avrebbe infiltrato nel Paese 250 studenti, spacciati per turisti e istruiti in quella che è considerata la base operativa nella città di Rason. Bae, scrive ancora l’agenzia, era stato inviato come missionario in Cina nel 2006 con  l’organizzazione evangelica Youth for a Mission. Gli sarebbe poi stata data la prospettiva di fare lo stesso a Nord del 38esimo parallelo sfruttando l’opportunità di ricevere inviti a visitare il paese per motivi turistici. La guida è così diventata una nuova pedina di scambio in mano a Kim Jong-un e ai suoi generali nelle ipotetiche trattative con Stati Uniti e Corea del Sud. Un appello diretto al «brillante leader» per la scarcerazione del cittadino statunitense è arrivato dall’ex campione di basket Dennis Rodman, di recente salito alle cronache per un abbraccio con il giovane dittatore dopo un incontro degli Harlem Globetrotters a Pyongyang organizzato dalla rivista Vice. Ancora prima, a gennaio il tentativo, senza risultati, di liberare Bae fu la motivazione ufficiale del viaggio umanitario del numero uno di Google, Eric Schmidt, in Corea del Nord, accompagnato dall’ex ambasciatore Usa all’Onu, Bill Richardson e da Tony Namkung, coreano-statunitense fautore di lunga data del dialogo tra Washington e Pyongyang.

Nello stesso mese la Corea del Nord si è classificata al primo posto per l’undicesimo anno consecutivo nell’indice sulla repressione religiosa stilato dall’organizzazione evangelica per le missioni cristiane «Open Doors». Secondo il rapporto, i cristiani sono considerati forze ostili e puniti con l’arresto, la detenzione e la tortura, se non con la pena capitale, o comunque catalogati all’ultimo gradino nella struttura castale nordcoreana: discriminati. Sempre secondo l’organizzazione, nel paese si starebbe sviluppando una rete di chiese sotterranee che conterebbe circa 400mila fedeli. L’articolo 68 della Costituzione nordcoreana, si legge nell’ultimo rapporto della Commissione statunitense per la libertà religiosa a livello internazionale, continua a garantire la libertà di culto. Tuttavia lo stesso articolo precisa che la religione non può essere usata per minacciare lo stato, riferendosi in particolare alle attività fuori dal controllo governativo.

Simbolo di questo controllo è la cattedrale di Changchung a Pyongyang,  ricostruita nel 1988 per dimostrare il rispetto del regime per la libertà religiosa, ma senza tuttavia avere alcun vescovo né tanto meno sacerdote. Lo stesso anno fu fondata anche l’Associazione dei cattolici romani di Corea, presieduta da Samule Chang Jae-on. Secondo i dati di Uca news, principale agenzia giornalistica cattolica in Asia, a Nord del 38esimo parallelo i cattolici sono almeno 3mila. Circa 200 partecipano alla messa la domenica nella cattedrale. Nel 1985 il vescovo Daniel Tjie Hak-soon di Wonju fu il primo prelato sudcoreano a visitare la capitale nordcoreana dalla fine del conflitto del 1953.  E dire che lo stesso fondatore della patria Kim Il-sung veniva da una famiglia di ferventi cristiani come rivelato nel 2011 da Kim Hyun-sik, disertore e all’epoca delle dichiarazioni visiting professor a Yale, dopo 38 anni passati al «Pyongyang College Professor».

 

Andrea Pira
 
Glossario

KAESONG: è il complesso industriale inter-coreano di Kaesong, nell’omonima città a una decina di chilometri a Nord della zona demilitarizzata che spacca la penisola. È considerato uno dei risultati più duraturi della politica di distensione tra le Coree avviata a cavallo tra gli anni Novanta del secolo scorso e i primi anni Duemila. Gli impianti furono aperti nel 2003. Nell’area industriale 123 piccole e medie aziende sudcoreane danno lavoro a 50mila nordcoreani. Gli operai sono pagati 128 dollari, gran parte dei quai vanno però a rimpinguare le casse di Pyongyang. Nel 2012, sottolinea il Financial Times, la produzione ha toccato i 470 milioni di dollari, in aumento del 17 per cento rispetto all’anno precedente.

KCNA: la «Korea Central News Agency» è l’agenzia giornalistica di Stato. Fondata nel 1946, è la voce ufficiale del Partito dei lavoratori, il partito unico al potere, e del governo nordcoreano. È accessibile all’indirizzo internet kcna.kp, con dominio coreano, o sul server giapponese all’indirizzo kcna.co.jp.

JUCHE: è l’ideologia alla base del regime. Il termine è tradotto come «autosufficienza». Elaborata da Kim Il-sung è assurta a ideologia grazie all’opera di propaganda del figlio e poi futuro leader Kim Jong-il. Mescola socialismo, maoismo e nazionalismo, spesso puntando l’accento su quest’ultimo ed enfatizzando l’immagine della Corea del Nord accerchiata da potenze straniere e capace di resistere con le proprie forze.

MUSUDAN: spostati sulla costa orientale sono stati lo spauracchio delle settimane di tensione nella penisola. Sono missili a media gittata capaci di coprire 3mila-4mila chilometri, quindi in teoria le basi Usa a Guam. Sono stati mostrati per la prima volta durante una parata militare del 2010. Non è chiaro se siano mai stati testati.

RODONG SINMUN: il quotidiano dei lavoratori è il giornale ufficiale del Partito dei lavoratori coreano e il principale del paese. Fu fondato nel 1945. È considerato una fonte ufficiale su molti temi della politica nordcoreana. Dal 1996 l’editoriale di Capodanno presenta le linee che il paese seguirà per i successivi dodici mesi.

 Andrea Pira
 



Una chiesa del laicato

Reportage dalle Filippine, una terra di contrasti.

Arcipelago di oltre 7 mila isole, 96 milioni di abitanti, le
Filippine è l’unico paese a maggioranza cattolica in Asia (insieme a Timor
Est). Paese di attrazioni turistiche e forti contrasti tra ricchi e poveri,
miseria e lusso, desolazione e speranza. Mons. Broderick Pabillo, ausiliare di
Manila parla di una chiesa vivace e attiva, grazie ai suoi laici impegnati, ma
anche con problemi e sfide per il futuro, come quella dei tossicodipendenti ed
emarginati, di cui si prende cura la «Fazenda da Esperança».

Manila, 7 dicembre 2012, ore 3 del
mattino: avevo lasciato Incheon, in Corea, con 10 gradi sotto zero e Manila mi
salutava con 27 sopra zero. Ho cominciato subito a sudare, tanto che nella
stanza della casa dei missionari Comboniani dove ero ospite ho dovuto accendere
l’aria condizionata per poter dormire, dopo una doccia fredda.

La
visita, che aveva lo scopo di raccogliere materiale per la nostra rivista
coreana La Consolata, è durata una decina di giorni, abbastanza per
avere alcune idee sui forti contrasti economici e sociali del paese e sui
problemi e speranze della Chiesa cattolica. 

Prime impressioni

In vita mia non avevo mai visto così tanti bambini! Tanti e belli.
Sono dappertutto, soprattutto nelle baraccopoli, sparse purtroppo in tutta
Manila, eccetto che in alcuni quartieri più recenti e benestanti. Mi ha
sorpreso vedere coppie giovanissime con tre o quattro bambini, tutti
piccolissimi. La miseria in cui vivono tanti di essi mi ha molto rattristato;
al tempo stesso sono rimasto impressionato dal loro sorriso, nonostante la
situazione in cui vivono.

La strada è il loro parco di divertimenti; la maggior parte delle
baraccopoli sono sovraffollate di baracche, senza spazio per poter giocare.
Moltissimi bambini stanno lì tutto il giorno, perché non hanno accesso alla
scuola.

Il degrado delle baraccopoli è più che impressionante. Sono
entrato tre volte in alcuni di questi quartieri poveri: in uno di essi per
intervistare una suora missionaria coreana; in un altro slum insieme a
padre David, missionario comboniano, portoghese e mia guida, quando si è recato
a benedire un piccolo negozio di un loro dipendente e quando è andato a
celebrare la messa in una chiesetta nel cuore di un altro quartiere. Il
contrasto tra baraccopoli e condomini chiusi o palazzi lussuosi è sconvolgente.

Il traffico è assolutamente caotico, sia perché le strade sono ben
poche sia per l’impressionante quantità di macchine. Tra i mezzi di trasporto,
si distinguono tre tipi ben caratteristici: i jeepney (vecchie jeep
dei soldati americani adattati per trasportare gente e merce), i tricicles
(moto o biciclette per il trasporto di persone) e i vecchi pullman senza
finestrini.

Meno male che padre David è un autista provetto, ma anche lui,
dopo nove anni di presenza nelle Filippine, ogni tanto si arrabbia, e con
ragione, per come guidano i filippini: davvero pazzesco! Dopo questo viaggio,
ho promesso a me stesso di non lamentarmi più del traffico in Corea. Però devo
confessare che mi sono stupito di non aver visto un solo incidente stradale!

Mi ha stupito anche la quantità di Suv, certamente acquistati con
i soldi arrivati da parenti che lavorano all’estero, dato che la disoccupazione
è molto alta nelle Filippine, ma anche segno di divisioni sociali.

Tali contrasti sono ancor più evidenti nei cosiddetti quartieri
chiusi: qui vivono i più ricchi circondati da muri, protetti da guardie armate,
in abitazioni di lusso. Quando abbiamo fatto un giro dentro uno di tali
quartieri di lusso mi sembrava di essere in un altro paese. Tale contrasto tra
lusso e miseria è anche un segno dell’alto livello di corruzione di cui è
impregnata la politica.

Un altro segno del contrasto tra ricchi e poveri sono i cimiteri:
mentre la gente di classe economica più bassa seppellisce i suoi defunti in
cimiteri comunali, alcuni tra i più ricchi costruiscono persino dei mausolei,
con curatori permanenti. Curiosamente, questi cimiteri sono anche usati da
tante persone per fare sport o 
passeggiare, perché i parchi pubblici a Manila sono quasi inesistenti.

Conseguenza di questo contrasto tra ricchi e poveri è
l’impressionante quantità di guardie di sicurezza, sempre ben armate. Sono
proprio dappertutto: banche, ristoranti (persino McDonald’s e altri
simili), negozi di ogni dimensione, oltre che nei cancelli di controllo dei
quartieri chiusi.

Impressionanti sono pure la quantità e la grandiosità dei centri
commerciali, sempre affollati. Siccome a Manila fa tanto caldo e l’umidità è
molto alta, tanti cittadini e famiglie intere vi spendono quasi tutto il week-end
per rilassarsi all’aria condizionata. Per questo tali centri offrono servizi di
ogni genere, come parrucchieri, dentisti… e persino la messa cattolica! Ne ho
visitato uno la domenica prima di tornare in Corea: vi sono state celebrate
quattro messe, oltre ad altre due in un salone per un gruppo carismatico.

Le messe sono molto partecipate, da fare invidia a tante delle
nostre parrocchie qui in Corea. Infatti la fede dei filippini è impressionante:
varie parrocchie hanno sette o otto messe ogni domenica e qualcuna persino 10!

Vangelo e Responsabilità sociale

Una delle sorprese più belle è
stato l’incontro con mons. Broderick Pabillo, ausiliare di Manila. Un vescovo
semplice e accessibile, al lavoro in un angusto ufficio dietro la chiesa del Santo
Niño
(Gesù Bambino), a cui ho posto alcune domande sulla Chiesa nelle
Filippine.

Mons. Pabillo ha cominciato
subito dicendo che la maggior parte dei filippini sono membri della Chiesa
cattolica, una Chiesa con un laicato molto attivo, che supplisce
all’insufficienza di clero. Tale mancanza favorisce il flusso di gruppi
evangelici.

Da parte dei fedeli, è molto
forte il senso di religiosità: il popolo filippino è desideroso di conoscere
Dio ed entrare in comunione con lui. In questi ultimi anni sono fioriti molti
movimenti tra i laici cattolici, specialmente i carismatici e le «coppie per
Cristo». Tutti questi movimenti aiutano il processo di evangelizzazione della
Chiesa.

Tuttavia, nonostante la
religiosità della gente e il numero dei cattolici, ci sono molti problemi nella
società, alcuni dei quali causati dai fedeli, specialmente politici e ricchi.
Molti cattolici ricchi mancano di responsabilità sociale, attratti dalla
globalizzazione e dai profitti, ignorando i bisogni dei più poveri. Anche per
questo il livello di disoccupazione è molto alto e alcune compagnie impiegano
la gente part-time, causando instabilità sociale e maggiore povertà.

Un altro problema è la crisi
ambientale, anch’essa causata dall’ingordigia e mancanza di coscienza sociale,
specialmente da parte di grandi compagnie minerarie; a questa crisi vanno
aggiunti i problemi di molti indigeni nelle varie isole, anch’essi molto
poveri.

Dall’altra parte, alcuni gruppi
laicali stanno crescendo verso una maggiore responsabilità sociale. L’azione
sociale della Chiesa nelle Filippine non è solo orientata ad aiutare le vittime
di povertà o calamità, come nel caso dei recenti tifoni, ma sta facendo lobby
(pressione) perché siano implementate leggi giuste, specialmente nel
riconoscimento dei diritti dei poveri.

Alcuni dei problemi più pressanti
cui mira l’azione sociale della Chiesa include le miniere, la riforma agraria,
uccisioni extragiudiziali, violazioni dei diritti umani, traffico di esseri
umani (specie di donne e bambini)… Altro problema pressante è l’aumento dei
malati di Aids: la Chiesa raccomanda fedeltà e responsabilità, mentre il
governo e alcune Ong insistono sui condom (preservativi). Un altro
argomento scottante è la legge sulla salute riproduttiva, che raccomanda
contraccezione ed educazione sessuale a scuola, oltre a provvedere condom
per i poveri, nel tentativo da parte del governo di frenare la crescita
demografica del paese.

«La soluzione della povertà sta
nel prendersi cura dei poveri – afferma mons. Pabillo -, piuttosto che nella
semplice distribuzione di contraccettivi».

Sognando una Chiesa più Missionaria

I momenti più sentiti nella vita
della Chiesa filippina sono: Natale, la Fiesta (celebrazione del santo
patrono) e la Settimana Santa. «In tali ricorrenze le chiese sono gremite di
fedeli – continua il vescovo -, ma sorge la domanda se si tratti di fede
autentica o di semplici pratiche religiose. È questa soprattutto la sfida della
nuova evangelizzazione: i nostri fedeli hanno bisogno d’imparare sempre più i
contenuti della fede e le conseguenze che ne derivano».

Nel 2021 la Chiesa cattolica
celebrerà il 500° anniversario dell’arrivo della fede nel paese. Per quella
data i vescovi filippini sperano che le loro comunità abbiano mandato più
missionari all’estero di quanti ne entrano nel paese. Una delle ragioni per cui
ci sono ancora pochi missionari filippini è il bisogno di personale e risorse
materiali della Chiesa locale. «Il rapporto è un prete per 8 mila e più fedeli,
e non ben distribuiti – spiega il vescovo -. Ciò significa che la Chiesa deve
essere più autosostenibile, anche perché le risorse e gli aiuti che vengono
specialmente dall’Europa sono diminuiti considerevolmente».

In molti paesi asiatici i vescovi
sono preoccupati per la pastorale giovanile. «A differenza di altri paesi –
continua mons. Pabillo -, qui la gioventù è coinvolta nella vita della Chiesa:
il problema è che ci sono pochi leader per organizzare e istruire la gioventù.
In alcune diocesi la pastorale giovanile è ben strutturata, mentre in altre c’è
la mancanza di personale o di mezzi materiali per la loro formazione».

Un’altra sfida per la Chiesa
nelle Filippine è il dialogo con l’islam. «Nel passato la maggior parte dei
musulmani era concentrata nella provincia di Mindanao – continua il vescovo -.
Ci sono commissioni d’ambo le parti (cattolica e musulmana) che si impegnano in
un dialogo positivo. Ma alcuni gruppi fondamentalisti, come Abu-Sayyaf, non
sono affatto interessati al dialogo».

Attualmente molti musulmani si
stanno spostando in altre province, inclusa Manila, e la maggior parte delle
diocesi non sono preparate per questo, così il dialogo è poco o nullo. Al tempo
stesso, questi gruppi islamici stanno ottenendo più convertiti, anche tra i
cristiani.

Per quanto riguarda i
protestanti, c’è qualche dialogo con loro, ma non con i piccoli gruppi di
evangelici che sono più fondamentalisti. «In un certo senso – conclude il
vescovo – questa sfida del dialogo provocherà maggiore pressione sul processo
di evangelizzazione della popolazione cattolica. E i leader devono essere
pronti ad affrontare queste sfide con speranza e perseveranza».

La Fattoria della Speranza

Una delle esperienze più
significative fatte durante il mio viaggio nelle Filippine è stata la visita
alla «Fazenda da Esperança», nell’isola di Masbate: è il primo centro di
riabilitazione in Asia, aperto nel 2003.

Conoscevo già
quest’organizzazione cattolica da quando fui in Brasile nel 2007. Fu fondata
nel 1983 dal francescano tedesco fra’ Hans Staple, parroco di Guaratinguetá (São
Paulo, Brasile), in una «fazenda» donatagli da un amico, per
l’accoglienza e il recupero di tossicodipendenti e vittime della prostituzione.
In pochi anni altre fattorie furono regalate arrivando a più di 60 in Brasile e
30 in altri paesi, incluse le Filippine. Attualmente sono circa 2.500 le
persone nelle varie fattorie sparse nel mondo, da cui sono uscite più di 20
mila persone, dopo aver compiuto un anno di riabilitazione.

Uno dei responsabili della Fazenda
per ragazzi a Masbate nelle Filippine è Richardson Silva, il quale mi ha
accolto nella sua casa e mi ha raccontato la sua storia. È brasiliano anche
lui, dello stato del Maranhão (Nord del Brasile); ha trascorso un anno in una Fazenda
per curarsi dalla dipendenza dalla droga. Dopo un altro anno di vita fuori
della Fazenda, ne è diventato un volontario.

«Sono stato tossicodipendente per
dieci anni – racconta Richardson -. Ebbi il primo contatto con alcol e droga a
15 anni, dopo il divorzio dei miei genitori. 
Sognavo una famiglia normale, unita, un gruppo di amici, tra i quali
cominciai a drogarmi, divenne la mia nuova famiglia. Mi sentivo bene, felice.
Credevo di di avere il controllo di me stesso, cioè, di poter lasciare la droga
in qualsiasi momento».

Ben presto Richardson divenne
sempre più estraneo alla sua famiglia; spendeva tutto per soddisfare la sua
tossicodipendenza; sperimentò la solitudine più nera, si sentiva sempre più
solo, misero e triste. Si sottomise inutilmente a cure mediche, finché uno zio
lo invitò ad andare in una «Fazenda da Esperança», di cui era venuto a
conoscenza tramite una trasmissione televisiva. Inizialmente il giovane non
diede retta al consiglio dello zio, ma poi decise di tentare l’esperimento.

«Entrato nella Fazenda
continuava Richardson -, fui stupito nel vedere che non c’erano medici,
cliniche o terapie scientifiche, ma soltanto dei cornordinatori missionari che mi
trattavano bene. I primi giorni furono terribili: crisi di astinenza,
allucinazioni, non riuscivo a dormire… Mi era difficile pregare e non capivo
perché dovessi ogni giorno andare alla messa; per la prima volta, a 25 anni, mi
trovavo a recitare il rosario e meditare sul Vangelo. Una volta, mentre ero in
crisi profonda, due cornordinatori trascorsero la notte accanto a me: quando
domandai loro come erano riusciti a sopportare i miei comportamenti, mi
risposero che in quel giorno il Vangelo li invitava ad amare il prossimo come
noi stessi… e io ero il loro prossimo».

Il programma di recupero,
infatti, è basato sul lavoro come fonte di auto sostentamento e sulla vita
comunitaria come strumento di crescita interiore alla luce della Parola di Dio.

Ben presto Richardson cominciò a
sperimentare una gioia intensa; il lavoro nella fattoria lo liberava
gradualmente e gli faceva sentire l’amore di Dio in una forma concreta e
serena. Terminato l’anno di recupero toò a casa, finché decise di ritornare
nella Fazenda di Maranhão come cornordinatore, felice di condividere con
altri ciò che aveva imparato, oltre all’esperienza personale dell’amore di Dio.

«Ho imparato pure a perdonare –
continua Richardson -, a quei giovani che arrivavano nella Fazenda con
atteggiamenti molto aggressivi. Sono riuscito a perdonare anche mio papà e
perfino a chiedergli perdono. Il perdono mi ha liberato e trasformato veramente».

Tale esperienza sconvolse
completamente i piani del giovane Richardson: pensava di continuare gli studi,
ma l’invito a continuare come volontario cornordinatore nella Fazenda lo
convinse a restare dove era veramente felice. Dopo un anno e sei mesi, i
responsabili gli proposero di andare nelle Filippine. Sposato nel frattempo con
Marineya, anche lei cornordinatrice delle ragazze, ora Richardson è uno degli
amministratori della Fazenda di Masbate, incaricato della produzione di
riso e responsabile di un gruppo di giovani in recupero.

«Nella Fazenda produciamo
anche latte, pane e vegetali, che poi vendiamo per il nostro sostenimento
economico. Non è certo facile vivere in una cultura diversa, ma sono contento, fino
a sentirmi padre di questi giovani, anche perché Marineya e io non abbiamo
figli. Questi sono i nostri figli. Infatti, non basta aiutare questi giovani a
riabilitarsi: dobbiamo amarli, aiutandoli a rinascere con la nostra amicizia e
condivisione di vita. E dobbiamo darli a Dio, con atti concreti di amore e di
vita nuova».

Alla fine del mio breve soggiorno
nelle Filippine, non posso dire di conoscere bene questo paese. Padre David mi
ha parlato anche dei problemi degli indigeni che lasciano le loro isole per
aumentare la popolazione degli slum di Manila. Tuttavia ho lasciato il
paese portando con me tante indimenticabili e giorniose realtà, soprattutto la
simpatia, ospitalità, generosità, fervore religioso e semplicità della gente e,
certo, la bellezza dei bambini e il loro sorriso. Questo è il ricordo più caro
che porto nel cuore.

Alvaro Pacheco

Alvaro Pacheco




Dove i contadini sono poeti

Sertão / Incontro con Zé Vicente,
Il sertão è una regione semiarida del Nord-est brasiliano. A Orós, nello stato di Ceará, abbiamo incontrato Zé Vicente, noto poeta e musicista, vicino alla Teologia della liberazione e alle Comunità ecclesiali di base. L’artista è anche ideatore di «Sertão vivo», un progetto di sviluppo alternativo che – partendo dall’arte, dall’educazione ambientale, dalla salvaguardia delle tradizioni contadine – cerca di costruire il bem-viver, il «buon vivere».

Orós (Ceará).
«Il problema del sertão non è la siccità ma il recinto
del padrone»1 recita un detto popolare del Nord-est
brasiliano. Ancora oggi è questa la realtà sociale della regione semi-arida del
Brasile, che Zé Vicente, poeta-contadino-ecologista, mistico, cantante e autore
di musica popolare celebrativa, descrive nelle sue composizioni. Rime e ritmi
che hanno le radici nella tradizione nordestina dei repentistas, maestri
dell’improvvisazione, e degli agricoltori poeti del Ceará, come Patativa de
Assaré, che trovava nel lavoro della terra i motivi della sua ispirazione.

Negli anni ’90, Zé Vicente ha ideato il progetto «Sertão
vivo», con questa convinzione: uno sviluppo alternativo è possibile e, nel caso
del sertão, significa imparare a con-vivere con la siccità, partendo dal
rispetto della natura, riscattando e valorizzando i saperi tradizionali. Contro
la logica delle grandi opere che devastano l’ambiente e sradicano dai loro
territori migliaia di persone.

Per intervistarlo siamo andati nel municipio di Orós,
centro-sud dello stato del Ceará, a 400 km dalla capitale Fortaleza, nel sitio2 Aroeiras, sede del «Sertão
vivo». Qui si realizzano attività di arte ed educazione ambientale rivolte agli
abitanti delle comunità vicine e si incontrano alternativamente teologi della
liberazione e operatori olistici, custodi delle sementi e «profeti della
pioggia» per apprendere e celebrare l’arte del bem-viver (buon vivere)
nel sertão.

Zé Vicente, innanzitutto vorrei chiederti
qual è la definizione che più ti si addice: artista, attivista/ecologista,
educatore popolare, mistico o piuttosto tutte queste cose insieme?

«Sono un essere umano, poeta-agricoltore, innamorato del
mio popolo e della mia terra, del pianeta e delle sue radici sacre. Vivo nella
costante ricerca di una dimensione superiore. Attraverso la poesia e la musica
solidarizzo con la mia gente e con tutti coloro, soprattutto i giovani, che
sono in cerca di una fede matura e impegnata di fronte alle profonde
trasformazioni sociali ed ecologiche del nostro tempo».

Zé, tu sei molto attivo in campo sociale
nello stato del Ceará ed in altri stati del Nord-est collaborando con le
Comunità ecclesiali di base (Cebs). Secondo te, che capacità ha oggi la Chiesa
brasiliana di negoziare con le istanze politiche del tuo paese legate a un
modello economico «sviluppista» che produce conseguenze ambientali irreparabili
e che aumenta le diseguaglianze sociali?

«Penso che stiamo attraversando un momento molto
delicato: la situazione della vita sulla terra e dello stesso pianeta desta
molta inquietudine e preoccupazione. Siamo in una situazione di emergenza. Di
fronte a tutto ciò le Chiese e le religioni, così come tutte le altre grandi
istituzioni economiche e politiche non possono restare a guardare ma al
contrario devono incoraggiare i popoli ad assumere le attitudini necessarie ad
affrontare questa situazione. Non bastano i grandi meeting, i congressi,
i documenti, i culti: c’è bisogno di intraprendere azioni che abbiano impatto
in tutti i campi della società. Anche noi artisti possiamo, anzi, abbiamo
l’obbligo di esprimere, attraverso l’arte, l’utopia e di dare voce alle
rivendicazioni del nostro tempo. Se poi le chiese rimarranno in silenzio, nuove
forze nasceranno per fare clamore e lottare.

Io credo che i settori rappresentativi della Chiesta
cattolica abbiano ancora la forza morale e l’obbligo etico di dialogare e far
pressione su tutte le istanze del potere e sui governi affinché prendano
decisioni in difesa della giustizia, della pace e della vita in tutti i settori
della società, specialmente in favore delle moltitudini di esclusi ed
emarginati dal sistema».

Zé, so che hai rapporti stretti con alcuni
esponenti della Teologia della liberazione: Marcelo Barros, Carlos Mesters, tra
gli altri. Ritieni che si tratti di una corrente ancora espressiva in Brasile?

«È vero, ho buone relazioni con gli amici e le amiche
della Teologia della liberazione. Credo che essa rappresenti ancora oggi un
riferimento vivo nella nostra “camminata”.

Devo dire però che mi sento ancora più legato alle
piccole pratiche quotidiane realizzate nella base e ai tanti leader
popolari che agiscono nell’ombra, lontano dai media. Sono loro che, a mio
parere, fanno la differenza. Sono giovani, lavoratrici e lavoratori, che
troviamo per le strade, nelle campagne, senza terra, senza tetto e senza molte
altre cose, ma pieni di volontà.

Finché esisterà una sola persona esclusa, oppressa, la
Teologia della liberazione avrà significato e dovrà vivere per annunciare la
buona novella della liberazione, che Gesù ci ha dato e che lo Spirito rivela
ogni momento».

Ho avuto l’opportunità di conoscere
personalmente il progetto di sviluppo alternativo che porti avanti nella tua
terra d’origine, il sertão cearanse. Un progetto basato sulla
sensibilizzazione, coscientizzazione e lavoro rivolto alla sostenibilità
economica, socio-ambientale e culturale a livello familiare e comunitario.
Potresti raccontarci la nascita e le finalità del progetto? Si tratta di un
caso isolato o può funzionare da modello di riferimento nella regione, nello
stato del Ceará e in altre zone del Brasile?

«L’esperienza che ha portato alla nascita del progetto
“Sertão vivo” è il segno più concreto della mia passione artistica, come poeta
e musicista, per la camminata del mio popolo. La mia arte sarebbe incompleta se
non sapessi creare nella mia famiglia e nella gente della mia regione
l’“incanto” per qualcosa di più immediato, più concreto, più vicino alla vita,
come la cura della terra, dell’ambiente e dell’essere umano.

Ogni mese da Fortaleza, città dove sono emigrato, too
nel sitio Aroeiras, nella casa dei miei genitori, per mantenere vivo il
legame con la mia famiglia, con gli antenati e sensibilizzare la mia comunità
attraverso le giornate di “Arte e Vita”: seminari sull’alimentazione naturale (na
roça e na comida sertão vivo com mais vida
3, lo slogan utilizzato
per questa giornata) e nuove pratiche agricole
e di preservazione della natura di cui siamo parte – per coltivare senza
bruciare il terreno e senza usare agrotossici, camminate ecologiche, laboratori
di musica, teatro, pittura, medicina naturale e alternativa, incontri con i
“custodi delle sementi e delle esperienze della pioggia”4,
senza trascurare le nostre feste tradizionali come San Giovanni, celebrata nel
mese di giugno, dove la gente, tra canti e danze, esprime una fede
profondamente radicata nella cultura. Tutte queste attività sono realizzate
utilizzando il linguaggio e l’essenza dell’arte come punto di partenza e di
arrivo e adottando una mistica di rispetto e dialogo con le differenze
culturali, politiche e religiose, cercando di riunire sempre più persone per la
grande mobilitazione che il presente e il futuro dell’umanità e del pianeta
richiedono.

Questo, in breve, è quello che realizziamo attraverso la
nostra micro esperienza. Non abbiamo la pretesa di essere un punto di
riferimento per altre iniziative, ma qualora accadesse ne saremo felici. Anche
se una maggiore visibilità comporta sempre sfide e rischi e questo mi preoccupa».

Come valuti lo stato di salute dei movimenti
sociali in Brasile e le manifestazioni che hanno percorso il tuo paese nei mesi
scorsi?

«Rispetto alla salute dei movimenti sociali e popolari,
tutto quel che accade in Brasile non è separato da quel succede in tutti gli
angoli del mondo. Stiamo in un momento di passaggio. Si parla di cambiamento
epocale, totale, planetario e, pertanto, abbiamo bisogno di molta ricerca,
studio, silenzio e impegno per comprendere e costruire nuovi cammini. Io voglio
continuare a dare il mio contributo, con la poesia e la musica, affinché la
gente alimenti la Speranza, la meraviglia di fronte allo spettacolo della vita
e l’allegria di lottare sempre per la vera trasformazione dell’umanità e della
terra». 

Quest’anno
(2013) Zé Vicente ha lanciato il suo ultimo album Zé Vicente da esperança,
nuovo nome del poeta ecologista e contadino, figlio del sertão, delle forze
della natura e del tenace popolo nordestino che non abbandona mai la speranza. «Perché
è la speranza – dice Zé Vicente -, che ci fa vincere il deserto e arrivare alla
terra dell’abbondanza, della giustizia, della pace».

Silvia
Zaccaria

Note:

1 – In portoghese: «O problema do sertão não è a seca,
mas a cerca do patrão». Il verso gioca sull’assonanza tra la parola seca
– siccità – e cerca – recinto.
2 –  «Piccola
proprietà», tenuta agricola, ma anche «locus amenus», ritiro, riparo.
3 –  «Nel campo e
nel piatto sertão vivo, con più vita».
4 – L’obiettivo dell’iniziativa è quello di mantenere
viva la tradizione, la memoria degli antenati che nei mesi di dicembre e
gennaio erano soliti fare previsioni sull’inverno che nel sertão indica la
stagione delle piogge. I partecipanti agli incontri sono contadini che, sin da
bambini, accompagnavano i nonni nelle loro esperienze di previsione delle
piogge, sulla base della direzione e potenza del vento e l’osservazione della
natura. L’incontro si chiude con scambio dei semi non transgenici con
l’obiettivo di creare una banca di semi nativi. 

 
         Il sertão, tra siccità e ingiustizie                       

Il sertão (dal portoghese «desertão»)
è una regione semi-arida che abbraccia gli stati del Nord-est brasiliano:
Bahia, Sergipe, Alagoas, Peambuco, Paraiba, Rio Grande do Norte, Piauí e Ceará
e il Nord dello stato di Minas Gerais. La vegetazione caratteristica di questa
regione è la caatinga, che consiste principalmente di cespugli bassi e
spinosi, capaci di adattarsi al suo clima estremo. Tra le specie originarie
della caatinga c’è il cactus mandacarù, i cui frutti rossi
spiccano nella macchia. La zona è soggetta periodicamente a secas
(siccità), causando spesso negli anni gravi carestie. Durante quella del 1877,
considerata la peggiore di tutte, solo nel Ceará morirono 500.000 persone,
dando origine al fenomeno dei retirantes, migranti che, abbandonato
tutto, andavano verso le grandi città costiere o verso il sud del paese in
cerca di fortuna e di migliori condizioni di vita. Una migrazione che non si è
mai fermata.

Questa regione ha ispirato una
ricca ed originale produzione letteraria e cinematografica, tra cui spiccano il
romanzo Grande Sertão di João Guimaraes Rosa e il film Deus e o diabo
na terra do Sol
(«Il dio nero e il diavolo biondo») di Glauber Rocha: in
una terra senza stato, dove vige la legge del più forte, vaccari e piccoli
contadini cercano di sfuggire alla miseria e allo sfruttamento dei padroni
mettendosi al seguito di santoni fanatici o dei banditi, i cangaçeiros.
La siccità e i retirantes, i movimenti millenaristi e l’epopea del cangaço
sono inoltre il tema ricorrente della letteratura di cordel (lett. «dello
spago») illustrata con la tecnica della xilografia, della musica e della poesia
popolare, di cui uno dei maggiori esponenti è stato il cearense Patativa do
Assaré (1909-2002). Zé Vicente si inserisce nella tradizione inaugurata da
Patativa, che conobbe da giovane e da cui, come dice lui stesso, fu
influenzato. La principale tematica dell’opera di Patativa è la seca,
problema cronico del sertão, mentre Zé Vicente addita un nemico ancora
più odioso: l’ineguale distribuzione delle terre e la mancanza di accesso
all’acqua.

Silvia Zaccaria

       TEMPO DI POESIA                            

«Per questo nostro tempo trafitto
dal dolore,
segnato dalla guerra,
di notti insonni
porto in me una meta:
la poesia concreta
esplicita
lucida
attraente
fatta corpo
emancipato
nella primavera della vita!

Ho qui nel mio petto
un progetto:
il nostro campo
un rifugio
da piantare
coltivare
ricreare
e raccogliere,
i fiori
e i frutti
del sogno vivo
divenuto alimento
cibo per gli sposi
e per le feste,
con sapore, intenso,
d’amore!

Metto sulle labbra
di questo giorno
qualcosa di più.

La certezza dell’incontro
della comunione,
superando l’indifferenza
colmando l’assenza,
lasciando che succeda
la più bella sapienza:
stare insieme
danzare insieme…

La canzone degli intenti
delle rime
dei riti
dei ritmi
del bene più grande
dell’allegria piena!

Il nostro canto!»

Zé Vicente*,
dicembre 1996
(inedita)

* Per leggere e ascoltare le poesie
di Zé Vicente:
www.letras.mus.br.

Silvia Zaccaria