Bolivia 2: «Non c’è razzismo, soltanto diversità»

Intervista a Mons.
Julio María Elías Montoya.
Nelle
pianure amazzoniche del Beni, gli indigeni costituiscono una minoranza. Forse
anche per questo i candidati dell’opposizione prevalgono sempre nelle elezioni
per il governatore del dipartimento. Di
questo e altro ancora abbiamo parlato con il vicario apostolico della regione,
mons. Montoya.

Trinidad. La cattedrale sorge davanti alla piazza Generale José
Ballivian, cuore della città. La piccola facciata ha un grande rosone ed è
racchiusa ai lati da due solidi campanili a base quadrata. Gli uffici del vicariato
sono proprio a fianco, ospitati in una casa di cui s’intuisce l’antica ma
perduta bellezza. Il vicariato apostolico del Beni, creato nel 1917 da papa
Benedetto XV, include 6 delle 8 province che formano il dipartimento
amazzonico. Il vescovo si chiama Julio María Elías Montoya, francescano
spagnolo. Sacerdote dal 1968, l’anno seguente arriva in Bolivia. Nel 1974,
viene spostato dal Lago Titicaca a Trinidad. Nel 1987 è
promosso a vescovo. Mons. Montoya ha 67 anni, ma in testa ha meno capelli
bianchi del giornalista. Glielo facciamo notare e lui – divertito – ribatte con
una battuta: «Quando entrai nel noviziato, il superiore mi disse: “Vieni per
ricevere la prima comunione?”».

Monsignor Montoya, in Bolivia circa il 60 per cento della popolazione è
indigena e sono riconosciute almeno 36 differenti etnie. Com’è la situazione
nel Beni?

«Il vicariato
di cui sono responsabile ha una grande estensione territoriale ma una densità
abitativa molto bassa. Premesso questo, la maggioranza della sua popolazione è
composta da mestizos. I popoli indigeni sono una minoranza che penso non
raggiunga il 30 per cento del totale. Ci sono parecchie comunità, ma tutte
molto piccole. L’etnia più numerosa è quella dei moxeños, chiamati moxos ai tempi delle riduzioni gesuitiche».

A proposito di indigeni, nel confinante dipartimento di Santa Cruz, le
ex «riduzioni» dei gesuiti, sviluppatesi tra i chiquitos, sono molto conosciute, anche a livello turistico. Qui
cosa ha lasciato la storia delle missioni?

«Avrete
certamente notato che nel Beni tutte le cittadine hanno nomi di santi. La
ragione è che nel secolo XVII arrivarono qui i missionari gesuiti. Quasi tutti
i centri abitati sono nati dalle famose riduzioni. La prima missione gesuitica
fu fondata nel 1682 con il nome di Nuestra Señora de Loreto. Nel 1696 nacque
Trinidad e di seguito tutte le altre cittadine. Dopo la espulsione dei gesuiti
(nell’anno 1767), gli indigeni furono dispersi, ma sono loro ad aver preservato
le tradizioni cattoliche. Basti pensare alle celebrazioni durante le feste
religiose (Natale, settimana santa o feste patronali), celebrazioni attese da
tutti gli abitanti».

Raggiungere Trinidad e il Beni non è facilissimo, soprattutto nella
stagione delle piogge. Come giudica la situazione di questo dipartimento?

«Il
Beni è un po’ isolato rispetto a La Paz, Santa Cruz e Cochabamba, le principali
città del paese. Tuttavia, vivendo a Trinidad dal lontano 1974, posso dire di
aver visto progressi, anche se le difficoltà non mancano. Qui non ci sono
industrie. La nostra sola ricchezza è stata – almeno fino ad oggi –
l’allevamento di tipo estensivo».

A parte le condizioni del Beni, a suo giudizio, quali sono i principali
problemi della Bolivia?

«Al
primo posto c’è certamente la povertà. Mi spiego meglio: nella Bolivia di oggi
non manca da mangiare, ma si tratta sempre di un’economia di sussistenza. E poi
siamo carenti in tema di salute e educazione. Se ci si ammala, non è facile
curarsi. Allo stesso tempo manca anche un adeguato sistema educativo».

Nel 2014 ci saranno le elezioni presidenziali. Quando Evo Morales venne
eletto per la prima volta, nel dicembre 2004, c’erano molte aspettative.
Viaggiando per le pianure orientali abbiamo notato molta ostilità nei confronti
del presidente. Come lo spiega, monsignore?

«Con
l’elezione di Evo Morales c’è stata una grande speranza, che permane tuttora,
anche se la si trova soprattutto tra le popolazioni degli altipiani. Allo
stesso tempo, è vero che i cittadini di qui si sono sentiti un po’ colonizzati
dalla gente dell’Occidente».

Lei ritiene che ci sia una componente di razzismo in questa contesa tra
dipartimenti dell’Oriente (a maggioranza bianca e meticcia) e il resto del
paese (a maggioranza indigena)?

«No,
non credo che ci sia razzismo. Per esempio, il Beni è sempre stato aperto a
ricevere. Qui ci sono persone provenienti dagli altipiani e personalmente non
vedo razzismo nei loro confronti. D’altra parte, è altrettanto vero che
l’Oriente boliviano è diverso, culturalmente diverso dal resto del paese». 

Una diversità che è stata confermata anche nelle recenti elezioni per il
governatore del Beni. La candidata del presidente e del Mas è stata sconfitta –
per la seconda volta – dal candidato dell’opposizione. Che succederà ora? 

«Dopo il voto,
io ho detto pubblicamente che occorre collaborare tutti per l’interesse comune
del Beni. Con verità, giustizia, libertà, amore».

La sua è una visione carica di speranze…

«Passeremo per
crisi, per momenti dolorosi come la croce, ma io certamente rimango un uomo di
speranza. Sono – come diceva il papa Paolo VI – per costruire una civiltà
dell’amore».

La bellissima Costituzione boliviana del 2009 parla di «sagrada Madre
Tierra». Purtroppo, anche in questo paese, come nel resto del mondo, i problemi
ambientali stanno avanzando a un ritmo impressionante…

«È così vero
che, nel marzo 2012, i vescovi boliviani hanno presentato una lettera pastorale
– dal titolo El Universo, don de Dios para la vida – dedicata proprio
alle tematiche ambientali, al modello consumistico e alla crisi ecologica. Come
francescano, io ricordo che San Francesco parlava non soltanto di “Madre Terra”
ma di “Sorella Madre Terra”. Alla base del problema ambientale sta il fatto che
non si può pensare soltanto a noi stessi, ma occorre pensare a quelli che
verranno dopo di noi».

A proposito degli interventi della Chiesa boliviana, ritiene che
l’istituzione cattolica sia ancora ascoltata?

«Abbiamo voce
nella società boliviana e siamo rispettati dal popolo, che ci sente vicini.
Certi politici e governi pensano che vescovi e sacerdoti si debbano dedicare
soltanto alla salvezza dell’anima. Però non è così. L’evangelizzazione non è
soltanto per l’anima, ma per tutta la realtà della persona umana. Come
sacerdoti e vescovi non dobbiamo guardare al denaro, al potere o al piacere, ma
dobbiamo realmente metterci al servizio del prossimo».

Paolo
Moiola

Paolo Moiola




Nella rete col Vangelo

XLVII Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali
I nuovi media e i social networks modificano la vita quotidiana
dei singoli e del mondo intero, spesso entusiasmando, spesso intimorendo. Come
ogni realtà «rivoluzionaria» essi presentano molti rischi e grandi opportunità.
Soprattutto su queste ultime si sofferma il messaggio del papa per la giornata
mondiale delle comunicazioni sociali 2013 partendo da una considerazione
fondamentale: «Le reti sociali sono […] alimentate da aspirazioni radicate
nel cuore dell’uomo».

Se mai ci fosse qualche dubbio sull’importanza crescente che i
cosiddetti «nuovi media» hanno nella nostra vita, basterebbero due fatti per
eliminarlo. La sera dell’elezione del nuovo papa Francesco, il cardinale
protodiacono fa precedere la benedizione urbis et orbis dalla formula
con la quale è concessa l’indulgenza plenaria dicendo: «A quanti ricevono la
sua benedizione a mezzo della radio, della televisione e delle nuove tecnologie
di comunicazione…». Il secondo fatto, tratto da quella stessa sera, è piazza
San Pietro che diventa una distesa di punti luminosi per le fotografie scattate
a milioni con macchine digitali, tablet e smartphone: una scena
impensabile otto anni fa, all’elezione di papa Benedetto XVI. Otto anni
soltanto, che sembrano secoli.

Se la tecnologia avanza a passi da gigante, da sempre la Chiesa è
attenta alle sue ricadute sulla comunicazione, perché il Vangelo va comunicato
a uomini di ogni epoca e cultura.

Benedetto XVI e internet

Lo stesso Benedetto XVI, nel messaggio intitolato «Reti sociali:
porte di verità e di fede; nuovi spazi di evangelizzazione», reso noto lo
scorso 24 gennaio per la 47ª Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali, in
programma il 12 maggio, si soffermava sullo «sviluppo delle reti sociali
digitali che stanno contribuendo a far emergere una nuova “agorà”, una piazza
pubblica e aperta in cui le persone condividono idee, informazioni, opinioni, e
dove, inoltre, possono prendere vita nuove relazioni e forme di comunità». E
osservava: «Lo sviluppo delle reti sociali richiede impegno: le persone sono coinvolte
nel costruire relazioni e trovare amicizia, nel cercare risposte alle loro
domande, nel divertirsi, ma anche nell’essere stimolati intellettualmente e nel
condividere competenze e conoscenze. I network diventano così, sempre di più,
parte del tessuto stesso della società in quanto uniscono le persone sulla base
di questi bisogni fondamentali. Le reti sociali sono dunque alimentate da
aspirazioni radicate nel cuore dell’uomo».

L’ambiente digitale è ormai «parte della realtà quotidiana di
molte persone, specialmente dei più giovani. I network sociali sono il
frutto dell’interazione umana, ma essi, a loro volta, danno forme nuove alle
dinamiche della comunicazione che crea rapporti: una comprensione attenta di
questo ambiente è dunque il prerequisito per una significativa presenza
all’interno di esso. La capacità di utilizzare i nuovi linguaggi è richiesta
non tanto per essere al passo coi tempi, ma proprio per permettere all’infinita
ricchezza del Vangelo di trovare forme di espressione che siano in grado di
raggiungere le menti e i cuori di tutti. […] Una comunicazione efficace, come
le parabole di Gesù, richiede il coinvolgimento dell’immaginazione e della
sensibilità affettiva di coloro che vogliamo invitare a un incontro col mistero
dell’amore di Dio». Per questo, papa Ratzinger concludeva: «Quando siamo
presenti agli altri […] siamo chiamati a far conoscere l’amore di Dio sino
agli estremi confini della terra», anche e sempre di più, quindi, nel mondo di
Inteet.

Un nuovo assetto di uomo

Non a caso, lo scorso gennaio, mons. Cesare Nosiglia, Arcivescovo
di Torino, incontrando i giornalisti in occasione della festa di San Francesco
di Sales, loro patrono, ha ricordato che «anche i media entrano ormai
prepotentemente nella questione antropologica e dunque in quel nuovo assetto di
uomo che si sta delineando mediante la scienza e la cultura».

Chiunque accede ai social networks può aumentare le sue
conoscenze e migliorare la sua posizione all’interno di un gruppo (ci asteniamo
dal considerare qui la possibilità che qualcuno si presenti non per quello che è,
ma secondo quello che vorrebbe essere). Così, da un lato, queste tecnologie
rivoluzionano la comunicazione e la vita in tutti i settori, rendendo
possibili, ad esempio, lo scambio di informazioni e cultura, l’acquisto di
beni, o addirittura interventi chirurgici a migliaia di km di distanza. Ai
giovani, in particolare, i nuovi media consentono di «frequentare» corsi di
lingue, di fotografia e altro, di condividere gratuitamente la loro passione e
le loro competenze con altri «utenti», di scoprire (in mezzo a tanta «spazzatura»)
nuovi talenti musicali, artistici, culturali… Al punto che, soprattutto per
loro, i social networks sono non uno strumento, ma un’estensione delle
loro relazioni, «territori» sempre presenti, quasi una quarta dimensione della
vita. Dall’altro lato, questi media fanno nascere problemi sociali in milioni
di persone, ancora una volta soprattutto giovani, perché ne modificano la vita
e quindi la personalità. In un numero crescente di ragazzi la «dipendenza» dai social
networks
è paragonabile a quella creata dalla droga: quando non possono
collegarsi alla «rete», hanno «crisi di astinenza». I giovani (e non solo) si
imbevono, credono a quanto conoscono sui social networks, e le fonti non
sempre sono nitide. Occorre così aiutarli a disceere e abituarli a relazioni
personali reali: qualcuno fa persino l’amore in webcam.

Nello stesso tempo, la diffusione di commenti, notizie e
fotografie personali, talora all’insaputa del diretto interessato, porta anche
a epiloghi drammatici. Paradigmatico della fragilità e del cinismo spietato che
talvolta caratterizzano il vivere di tanti giovani è stato, alcuni mesi fa, il
caso di Amanda Todd, un’adolescente di Vancouver, Canada: un amico più grande di
lei la convince a inviargli una sua foto a seno nudo. Lei, all’epoca dodicenne,
non sa opporsi. Salvo accorgersi, tempo dopo, che la sua foto osé è diventata
di dominio pubblico: agli immancabili insulti si aggiungono perfidi consigli.
Alla fine lei, quindicenne, dà addio alla sua esistenza. La sua morte crea
un’ondata di moralismo ipocrita: si accusano la famiglia, la scuola, i
compagni, ma alla fine tutti ne escono (auto)giustificati.

Più chat meno
sentimento

Già nel «lontano» 1995, lo psicologo americano Daniel Goleman
parlava di «analfabetismo emotivo», intendendo con questa espressione da un
lato la mancanza di consapevolezza delle proprie emozioni e dei comportamenti a
esse associati, dall’altro l’incapacità a relazionarsi con le emozioni altrui e
con i relativi comportamenti, non riconosciuti e compresi. L’uso crescente dei
nuovi media favorisce la diffusione di relazioni mediate, e quindi la difficoltà
a riconoscere e capire le emozioni proprie e dell’altro. In ogni caso, «svelarsi»
in un social network non può appagare il desiderio di una relazione
personale «reale». Lo conferma Chiara Micheletti, psicologa e psicoterapeuta
del Centro di Sessuologia medica dell’Ospedale San Raffaele-Resnati di Milano: «Il
rapporto prolungato con lo schermo e la tastiera, le risposte telegrafiche,
superficiali, spesso schematiche e prive di contenuti, sono di ostacolo alla
riflessione e all’espressione delle proprie emozioni. La fretta della
comunicazione via chat toglie tempo al sentimento. È la solitudine,
l’insicurezza, la paura che inducono i ragazzi a preferire questo genere di
comunicazione “virtuale”. “Socializzare” via chat è molto più asettico e
meno impegnativo che incontrare [fisicamente] una persona, guardarla negli
occhi, relazionarsi con lei. E poi si può tranquillamente “bleffare” sulla
propria identità, inventarsi uno status sociale, far credere di essere diversi
da ciò che si è, per sentirsi grandi, affermati e gratificati».

L’americano Andy Braner, esperto di adolescenti, ritiene che
nonostante Facebook, Twitter, ecc., sostengano di rendere le
persone più unite, «se si chiede a un ragazzo chi veramente potrà essere vicino
a lui nei momenti difficili della sua vita, faticherà a dire il nome di
qualcuno».

Vita accessibile e
archiviabile

Come ha scritto Chiara Giaccardi su «Avvenire» (6.2.2013), «certamente
i giovani hanno poca consapevolezza degli effetti di ciò che scrivono, postano,
pubblicano in rete e di come queste informazioni siano accessibili,
archiviabili, conservabili e utilizzabili a scopi diversi. Aumentare il grado
di consapevolezza è opportuno e doveroso. Ma i rischi più gravi non sono tanto
quelli più comunemente paventati (l’abboccamento a scopo sessuale da parte di
singoli malintenzionati), quanto la raccolta di dati che possono essere
aggregati, rielaborati e venduti per la produzione di comunicazioni
pubblicitarie mirate e subdole o per forme di controllo sociale o censura
politica. La rete è un gigantesco sistema di produzione di dati, a cui ciascuno
di noi collabora spontaneamente, e quello dei “Big data” è uno dei temi più
caldi, e più interessanti per il business e la politica del futuro. Il
lupo cattivo è tanto più pericoloso perché indossa giacca e cravatta, e non è
interessato alla singola Cappuccetto Rosso».

Rischi, ma anche opportunità

Se i social networks presentano rischi per i giovani e per
gli adulti meno esperti, non bisogna demonizzarli. Un esempio. Padre Antonio
Spadaro, direttore de «La Civiltà Cattolica», studioso ed esperto della
comunicazione digitale, ha osservato che «le parole, i gesti e il magistero di
Ratzinger sono stati presenti nella vita dei fedeli in parte anche perché sono
stati condivisi – e non solo trasmessi – attraverso i media digitali. La sua
figura era già argomento della discussione sociale nei media digitali.
L’apertura di un suo profilo su Twitter ha poi dato forma a una sua
presenza diretta nella conversazione». E mons. Paul Tighe, segretario del
Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, ha osservato che «i nuovi
mezzi ci consentono di mantenere rapporti che, in altri tempi, non sarebbe
stato possibile mantenere. E questa è una benedizione. Ci permettono anche di
essere molto più informati sulle cose che accadono nel mondo, e questa è una
potenzialità importante. Nel suo messaggio per la Giornata mondiale delle
comunicazioni di quest’anno, papa Ratzinger ha parlato in termini molto
positivi della potenzialità dei mezzi per creare comunità e per aiutare i
giovani a mantenere e sviluppare amicizie. Mi sembra importante non dimenticare
questo aspetto, che è facile dare per scontato… Ma il papa ha anche detto loro
quanto sia importante non trascurare i loro valori personali, tra cui la fede.
Ha detto che questi mezzi possono essere usati per condividere la fede e altro,
sempre rapportandosi con rispetto alle persone con cui si sta dialogando».

Livio Demarie
Sacerdote salesiano, direttore dell’ufficio
per le comunicazioni sociali della diocesi di Torino.
 
CYBERTEOLOGIA
 

La
«Cyberteologia» è «l’intelligenza della fede al tempo della rete», il tentativo
di capire non tanto come usare bene la rete – anche col fine
dell’evangelizzazione -, quanto come vivere bene il nostro tempo impregnato
della «vita digitale».

È
un libro positivo quello di Antonio Spadaro, gesuita che, tra le altre cose, è
autore del blog cyberteologia.it, direttore de «La Civiltà Cattolica», docente
universitario e consulente dei Pontifici Consigli della Cultura e delle
Comunicazioni Sociali. Avviando la sua riflessione dalla constatazione che le
tecnologie digitali sono divenute presenti nella vita quotidiana di molti tanto
da essere oramai parte integrante, non separata, dell’ambiente di vita, Spadaro
sostiene che esse stiano cambiando il nostro modo di pensare, di conoscere la realtà,
di vivere le relazioni, e quindi anche di vivere la fede.

L’autore
illustra con la sua scrittura limpida e scorrevole come si possano trovare
punti di contatto fecondi tra la rete e la fede. La rete offre alla fede degli
spunti inediti per comprendere in modo più profondo Dio. Ad esempio illuminando
il tema del perdono che in un’epoca in cui tutto ciò che viene pubblicato su
Inteet non può essere cancellato, deve prescindere dall’oblio del male
commesso, e quindi porre l’accento sulla gratuità dell’amore che non dipende da
comportamenti giusti o sbagliati. Allo stesso tempo la fede può offrire
all’uomo in rete nuovi strumenti per dare senso alla sua vita, per camminare
verso Dio, anche nell’ambiente digitale.

È
contagiosa la speranza con cui padre Antonio Spadaro parla dei profondi
mutamenti dei nostri tempi. Non ignora i rischi, ma decide, come ha fatto il
papa nel suo messaggio per la giornata mondiale delle comunicazioni, di dare
ragione della speranza che Dio è presente e liberatore in ogni ambito della
vita dell’umanità, anche quando essa si sviluppa e spende nell’ambiente delle
nuove tecnologie digitali.

Luca
Lorusso

Livio Demarie




Frutta, Verdura e Solidarietà: Nuove povertà e volontariato 

Anche a Torino si fruga nei cassonetti. Per mangiare, per
cercare qualcosa da rivendere. Come in tutta Italia, le famiglie che non
arrivano a fine mese sono sempre di più. In assenza di politiche pubbliche
tocca alle associazioni di solidarietà e volontariato intervenire per cercare
di alleviare la povertà. A questo scopo, nel 2011, è nata l’associazione «Terza Settimana»,
in cui oggi operano – tra gli altri – 120 ragazze e ragazzi delle scuole
superiori. Lo scorso anno questi volontari hanno consegnato a centinaia di
famiglie qualcosa come 70 mila chilogrammi di frutta e verdura. Una bella
lezione per tutti.

Torino, la città che nel 2006 ha
ospitato le Olimpiadi invernali, vive oggi una profonda crisi condividendo la
situazione di molti altri grandi centri urbani italiani. Abbiamo cominciato ad assistere a episodi a cui non eravamo
preparati, come il rovistamento nei cassonetti per cercare qualche prodotto
commestibile o qualche «rifiuto» da rivendere o riciclare. D’altra parte, i
negozianti testimoniano che, prima del 20 del mese, le persone in difficoltà
economica cominciano a cercare prodotti in superofferta o le sottomarche. In
alcuni casi, quando i commercianti lo permettono, si acquista facendo debiti
anche per acquistare il pane.

Da alcuni anni i media hanno iniziato a commentare una nuova realtà
sociale: le difficoltà di un numero crescente di famiglie italiane a
raggiungere la fine del mese perché i soldi finiscono prima. Di povertà eravamo
abituati a parlare, ma non dell’indigenza di chi ha un reddito, la vera novità
di questi ultimi anni.

FAMIGLIE SENZA CIBO (A CASA NOSTRA)

Nel 2011, durante un incontro sulle nuove
povertà, con alcuni colleghi insegnanti di religione delle scuole superiori di
Torino abbiamo commentato con preoccupazione i dati sul fenomeno rilevati nel
nostro paese. A quel punto abbiamo deciso che dovevamo fare qualcosa. Abbiamo
così iniziato un dialogo con alcuni importanti centri torinesi che si occupano
di assistenza e sostegno dei più deboli: il centro «Due Tuniche» della Caritas
diocesana e l’«Ufficio Pio» della Compagnia di San Paolo. L’incontro ha
confermato i dati rivelando che molte persone si rivolgono ai centri di
assistenza anche per chiedere un aiuto in cibo. È emerso così come siano ormai
migliaia le famiglie che ricevono generi alimentari da parrocchie, enti,
associazioni di volontariato. Per soddisfare le richieste delle famiglie prese
in carico, i vari centri pagano le spese alimentari presso alcuni punti
commerciali. Dato che tra i prodotti più carenti spiccavano quelli freschi come
la frutta e la verdura, attorno a questi generi alimentari abbiamo avviato
l’attività dell’associazione «Terza Settimana».

L’«EMPORIO SOLIDALE»: GRATUITÀ E VOLONTARIATO

«Emporio Solidale» è il nome del primo progetto della notstra
associazione. Nasce a fine 2011 grazie alla Compagnia di San Paolo. Esso si
ispira alla legge n. 155, entrata in vigore nel luglio 2003, che disciplina la «Distribuzione
dei prodotti alimentari a fini di solidarietà sociale». L’iniziativa prevede la
distribuzione gratuita agli indigenti di prodotti alimentari ortofrutticoli.

La frutta e la verdura vengono foite gratuitamente, ogni
settimana, da un importante partner privato, specializzato nell’ortofrutta: la «Ortobra
srl». Con due furgoni ci rechiamo ai mercati generali per caricare patate,
carote, insalate, carciofi, pomodori, broccoli, cime di rapa, kiwi, meloni,
banane e quant’altro a seconda della stagione. I prodotti vengono quindi
scaricati nella sede dell’associazione dove i volontari provvedono a preparare
le cassette, riempiendole a seconda della consistenza numerica della famiglia
aiutata. Infine, le cassette di frutta e verdura vengono portate da altri
volontari al domicilio dei beneficiari. Nel 2012 i nostri volontari hanno
effettuato circa 6.020 consegne, per un quantitativo di circa 70.000 kg di
ortofrutta, a 450 nuclei familiari per un totale di circa 1.660 persone tra cui
più di 400 sono bambini di età inferiore ai 10 anni.

Le persone in stato di temporanea difficoltà
(chi ha perso il lavoro o coloro che sono stati colpiti da un evento spiazzante
come la malattia, la separazione,…) possono accedere alla spesa gratuita di
ortofrutta rivolgendosi direttamente ai centri (Caritas, Ufficio Pio della
Compagnia di san Paolo, Centri di ascolto parrocchiali…) che, attraverso una
piattaforma web, ci comunicano le informazioni necessarie.

Tutto avviene senza uso di denaro e senza commercializzazione dei
prodotti. I costi per lo svolgimento dell’attività sono sostenuti dagli enti
segnalanti. A ciascuna delle persone beneficiarie si assegna una particolare
card elettronica – foita gratuitamente dalla «Qui Foundation» – con la quale
si garantisce la tracciabilità del prodotto dalla nostra sede al beneficiario.

Con l’Emporio Solidale l’associazione Terza Settimana sperimenta
un percorso in cui privati e imprese affrontano insieme problematiche sociali.
E ciò nella convinzione che soltanto una responsabilità sociale condivisa a
ogni livello della società può elaborare risposte efficaci alla crisi, aprendo
nuove prospettive di collaborazione. In questo senso la crisi che stiamo
attraversando può essere vista come un’opportunità.

IL «SOCIAL MARKET»

La legge finanziaria del 2008 (all’art.1 c. 266-268) riconosce ai
cittadini la possibilità di creare dei «gruppi di acquisto solidali». Si tratta
di soggetti associativi senza scopo di lucro costituiti al fine di svolgere
attività di acquisto collettivo di beni e distribuzione dei medesimi – senza
applicazione di alcun ricarico -, esclusivamente agli aderenti, con finalità
etiche, di solidarietà sociale e di sostenibilità ambientale, in diretta
attuazione degli scopi istituzionali e con esclusione di attività di
somministrazione e di vendita.

Partendo da questa base normativa, nell’ambito
degli interventi messi in atto per arginare la povertà, a inizio 2013 abbiamo
aggiunto all’«Emporio Solidale» il progetto di un «Social Market», un gruppo di
acquisto collettivo denominato Rap, «Rete di acquisto partecipato».

Il Social Market è un esempio di quella che tecnicamente
viene chiamata Big society, che tradotto in slogan diventa «meno Stato, più
società» ovvero «fare di più con meno risorse e rendere i cittadini più
corresponsabili». Un supermercato solidale «fatto dalla gente per la gente».

La Rete di acquisto partecipato compera i prodotti attraverso
Terza Settimana presso le piattaforme da cui si rifoiscono i supermercati o,
quando possibile, direttamente dai produttori.

In questo modo abbiamo valutato che si può già ottenere un risparmio
medio complessivo del 20-30% rispetto ai prodotti venduti presso i supermercati
(dato ricavato dalla media dei prezzi di un paniere fisso confrontato con i
rivenditori più economici presenti sul mercato).

La filosofia del progetto dedica anche particolare
attenzione all’elaborazione di una forma di reciprocità proposta ai beneficiari
che, se lo vorranno, potranno «restituire» in termini di ore-volontariato da
effettuare nel supermarket o all’Emporio Solidale con un impegno di 4 ore al
mese. Naturalmente l’applicazione di questo principio avverrà qualora
disponibilità e condizioni dei beneficiari lo permettano.

Con il Social Market continua l’impegno di Terza Settimana per
camminare accanto alle persone che si trovano in difficoltà, sostenendole nella
loro situazione di riduzione del reddito con proposte che permettano loro di
non sentirsi escluse, anche se colpite dalla «trasformazione economica».
Insomma, il salto tra un reddito pieno e una sua diminuzione non deve essere
motivo di emarginazione sociale e disperazione.

LA CARICA DEI VOLONTARI

Il lavoro dell’associazione è reso possibile grazie a un folto
gruppo di volontari che fanno funzionare i due centri di Borgo San Paolo: 40
adulti e 120 ragazzi e ragazze delle scuole medie superiori nel 2012 hanno
svolto 4.800 ore di volontariato.

L’iniziativa ha raccolto intorno a sé un significativo numero di
persone che si sono presentate per offrire il proprio contributo.

Siamo poi rimasti favorevolmente stupiti dalla risposta ricevuta
dagli studenti delle scuole medie superiori. Tanti ragazzi e ragazze si
alternano – sono una ventina a settimana – per dare braccia e gambe al cuore:
preparano, caricano e scaricano, consegnano le derrate alimentari. Tutto con la
semplicità e l’allegria che li contraddistingue. Constatano direttamente i
frutti del proprio operato e questo li rende ancora più motivati.

Racconta Carlotta: «Quando prepariamo le cassette di frutta e
verdura per le famiglie, controlliamo quello che arriva selezionando un
prodotto da distribuire che sia il più possibile integro. Lo scarto che prima
gettavamo nei cassonetti della differenziata adesso lo appoggiamo all’esterno
del negozio e mi stringe il cuore quando si forma un silenzioso e costante
avvicinamento di persone che raccolgono quello che noi scartiamo».

Ed Eduardo: «Un venerdì pomeriggio ci fermiamo da una famiglia per
la consueta foitura di frutta e verdura. Una signora sola con quattri figli.
La signora ha cercato di mostrarsi non bisognosa di aiuti dicendo che se
avevamo qualcun altro a cui dare quei prodotti avremmo potuto farlo. La figlia
più grande da dietro le spalle della madre ci implorava a segni di non
ascoltarla perché ne avevano invece un’estrema necessità. Ho capito come sia
difficile accettare questa nuova condizione».

Tra gli studenti alcuni arrivano a causa di un provvedimento di
sospensione dalla scuola per motivi disciplinari. Arrivano spesso «imbronciati»,
forse per timore di vedersi giudicati, ma quando si accorgono di essere
considerati esattamente come ogni altro volontario sparisce la diffidenza e
inizia per loro la giornata di riscatto. Scoprendo qualcosa che non si
aspettavano.

Bruno
Ferragatta
docente di religione
presso il Liceo scienze umane Regina Margherita, a Torino. Nel 2011 è stato tra
i fondatori dell’associazione «Terza Settimana».

 
I dati del fenomeno

LA POVERTÀ
ARRIVA SENZA BUSSARE

In Italia, la povertà si sta
diffondendo a macchia d’olio. Pare incredibile, ma oggi milioni di persone
chiedono un pacco alimentare o un pasto gratuito.

Negli ultimi 3 anni, in tutti
i paesi ricchi le persone che non hanno disponibilità di cibo sufficiente per
alimentarsi correttamente sono aumentate del 7 per cento. Gli italiani poveri
che hanno chiesto un pacco alimentare o un pasto gratuito ai canali no profit
hanno toccato quota 3,3 milioni. È quanto emerge dai dati Agea, presentati in
occasione della Giornata mondiale dell’alimentazione (16 ottobre), che
evidenziano una situazione allarmante anche sul territorio nazionale dove gli
effetti della crescente disoccupazione e delle difficoltà economiche si sta
facendo sentire anche a tavola.

La spesa alimentare è
diventata il problema principale che quotidianamente debbono affrontare le
famiglie povere in Italia. La stragrande maggioranza dei poveri (circa il 69
per cento) ha infatti modificato la quantità e/o qualità dei prodotti
alimentari acquistati.

Anche l’Istat, nel suo ultimo
rapporto sulla povertà in Italia, rafforza questo allarme parlando di 8 milioni
di poveri. Nel 2011 (ultimo anno con statistiche ufficiali), l’11,1% delle
famiglie è stato relativamente povero e il 5,2% lo è stato in termini assoluti.
La soglia di povertà relativa per una famiglia di due componenti è pari a
1.011,03 euro. La povertà colpisce quasi un quarto delle famiglie al Sud con un
tasso di povertà relativa pari al 23,3% di cui l’8% è povero tra i poveri.

La sostanziale stabilità della
povertà relativa rispetto al 2010 deriva dalla compensazione del peggioramento
della povertà per le famiglie in cui non vi sono redditi da lavoro o vi sono
operai – spiega l’Istat – con la diminuzione della povertà tra le famiglie di
dirigenti o impiegati.

In particolare, l’incidenza
della povertà relativa aumenta dal 40,2% al 50,7% per le famiglie senza
occupati né ritirati dal lavoro e dall’8,3% al 9,6% per le famiglie con tutti i
componenti ritirati dal lavoro, essenzialmente anziani soli e in coppia. Tra
quest’ultime aumenta anche l’incidenza di povertà assoluta (dal 4,5% al 5,5%).

Decine di migliaia di utenti
ogni anno popolano i servizi pubblici e privati per chiedere un aiuto
economico. Purtroppo dal 2008 il trend di crescita ha registrato un incremento
del 25% annuo.

Continua a crescere la quota
di famiglie che «si sentono indifese nel far fronte a spese impreviste» (dal
32,0% del 2008 al 33,4% nel 2009), con tassi di crescita omogenei, anche se su
grandezze differenziate sul territorio nazionale.

Sintomo di un permanente e
accentuato senso di vulnerabilità e di fragilità della propria posizione
sociale. Crescono anche – concentrate al Nord e al Centro – le famiglie rimaste
indietro con il pagamento dei debiti diversi dal mutuo (dal 10,5% al 13,6%) e
le famiglie del Centro e soprattutto del Nord (dove si registra in assoluto la
crescita più forte di questo tipo di disagio, dal 4,4% al 5,3%) che dichiarano
di non avere avuto sufficienti «soldi per acquistare cibo», sintomo
estremamente preoccupante dell’irrompere della crisi, nei suoi aspetti più
severi come l’impatto sul regime alimentare, in aree tradizionalmente «forti»
dal punto di vista economico. Al Sud d’Italia l’impatto della crisi è stato
meno evidentemente percepibile e anzi, grazie al raffreddamento dei prezzi,
l’incidenza presenta una flessione. Non va però dimenticato che, nelle regioni
meridionali, questo tipo di disagio ha assunto da tempo carattere endemico.

Bruno Ferragatta
 
Entrarenel Social Market

Le persone che vogliono far
parte del Rap nel «Social Market» debbono avere alcuni requisiti di fondo:

• assenza di reddito o
drastica diminuzione di reddito o reddito incapiente;
• essere segnalati da un Ente
convenzionato.

L’Ente inviante durante l’operazione
di filtro dovrà stabilire quale può essere la quota di partecipazione del
beneficiario.

 
Associazione «Terza Settimana»

Anno fondazione: 31 marzo
2011.
Sedi: due, in Borgo San Paolo,
a Torino.
Telefono: 011.7650229.
Sito web: www.terzasettimana.org.
Soci: Giovanni Biano
(presidente), Mario Panza (responsabile cornordinamento giovani), Gian Mario
Ruggeri, Meck N’Dongala (riferimento organizzativo progetto Rap); Bruno
Ferragatta.
Partners principali: Ortobra
srl, Compagnia di San Paolo, Qui Foundation, Azienda territoriale casa di
Torino.
Collaborazioni: associazione «Amici
Missioni Consolata» (ogni mese effettua una raccolta alimentare che va a
incrementare le disponibilità; la prof. Silvia Perotti, ex presidente
dell’associazione, partecipa anche in veste di volontaria); Scuola media Meucci
di Torino; Istituto superiore Norberto Bobbio di Carignano; Forum del
Volontariato (garante con le scuole per gli aspetti assicurativi riservati agli
studenti); Sportello Scuola Volontariato; Idea Solidale; Cooperativa Di
Vittorio.

Bruno Ferragatta




(Papa) Francesco: dalla fine del mondo

Abbiamo chiesto a tre argentini (un vescovo dal
Sudafrica, un prete dal Kenya e una giornalista dall’Argentina) di raccontarci
cosa hanno provato alla notizia dell’elezione dell’arcivescovo di Buenos Aires
a vescovo di Roma e papa di tutta la Chiesa cattolica. Ecco le loro
testimonianze, molto concordanti.

PREMESSA

«[Essere nel conclave] non è un
gioco divertente. È [un’esperienza] molto intensa e che davvero ti svuota
emozionalmente perché ci pensi notte e giorno. [Pensi:] “Questa è una delle
cose più importanti che mai farò: votare per il prossimo successore di Pietro”.
Così c’è una grande intensità. Non so come spiegarlo. [A un certo punto] è come
se si percepisse la bellissima sensazione del gentile movimento dello Spirito
Santo. Non ci sono tuoni e lampi. Niente colpi di testa. Nessuno che cade da
cavallo. Ma pian piano cominci a sentire come un movimento [che orienta] verso
un uomo. Si prega duro. Si parla tanto con gli altri. E questa convergenza
cresce gradualmente. È stata una cosa che ha generato tanta gioia e serenità. […]
Quelli sono momenti meravigliosi. E poi c’è il silenzio! Gran parte del
conclave è silenzio. Non è un caucus di partito, non è una convention,
è quasi una liturgia, un’occasione di preghiera. C’è molta pace. È come se tu
stessi facendo un ritiro, dove hai un sacco di spazio per pensare, riflettere e
pregare». [Nostra traduzione della testimonianza di Timothy Dolan, cardinale
e arcivescovo di New York, rilasciata alla Cnn il 15.03.2013].

Tra i fiumi di parole scritti e
detti nei primi venti giorni di marzo, ho scelto questa breve testimonianza del
cardinal Dolan di New York, perché mi sembra esprima meglio di qualunque altra
testimonianza la realtà di quanto è accaduto nel conclave che ci ha dato il
nuovo papa Francesco. Senza negare tutte le possibili passioni umane, i diversi
punti di vista dei cardinali – uomini sono! -, alla fine l’elezione del papa è
stata soprattutto un’esperienza di fede e di Chiesa, nel senso più vero del
termine. A dispetto di tutte le speculazioni, è stato un avvenimento dello
Spirito, che ancora una volta ha saputo sorprenderci e ha dato l’uomo giusto al
momento giusto.

Papa Francesco ha davanti a sé
una lista di desiderata che non finisce più. Tutti si sono sentiti in
dovere di esprimergli i loro desideri, da quello di vendere la Basilica di san
Pietro e liquidare il Vaticano, a quello di aprire il sacerdozio alle donne…
Il cardinal Hummes gli ha detto
di «non dimenticare i poveri».

Sì, papa Franceso, non
dimenticare i poveri e non permetterci di dimenticarli. Tu che vieni «dalla
fine del mondo» aiutaci ad aprirci al mondo, soprattutto al Sud del mondo e
alla sua Chiesa povera e fedele. Dacci dei pastori che abbiano il cuore e la
libertà di Cristo, non funzionari senza amore e senza misericordia. Aiutaci a essere
santi, veri santi, grandi santi. Facci gustare la faccia misericordiosa e viva
di Dio, celebrata nell’amore che si fa prossimo e nella festa, nella gioia,
nella semplicità di una liturgia che tocchi il cuore degli uomini e non sia
inbalsamata nel ritualismo ricco e barocco di chi ama più le pietre inerti che
le «pietre vive» della Chiesa.

Papa
Francesco, nel febbraio 2012 hai detto che «tutta l’attività ordinaria della
Chiesa si è impostata in vista della missione. Questo implica una tensione
molto forte tra centro e periferia, tra la parrocchia e il quartiere. Si deve
uscire da se stessi, andare verso la periferia. Si deve evitare la malattia
spirituale della Chiesa autoreferenziale: quando lo diventa, la Chiesa si
ammala. È vero che uscendo per strada, come accade a ogni uomo e a ogni donna,
possono capitare degli incidenti. Però se la Chiesa rimane chiusa in se stessa
[…], invecchia. E tra una Chiesa accidentata che esce per strada, e una
Chiesa ammalata di autoreferenzialità, non ho dubbi nel preferire la prima» (da
«La Stampa», 14.03.2013, pag. 7).

Guidaci col
tuo esempio sulla strada della nuova evangelizzazione. Incoraggia la nostra
debolezza!

Gigi Anataloni

Un Pastore da imitare

Nel mese di aprile del 2011 andai
in Argentina per le vacanze. Tra le tante cose che volevo programmare c’era
anche un incontro con l’arcivescovo di Buenos Aires, il cardinale Jorge
Bergoglio, non soltanto perché sono nato nella sua arcidiocesi, ma anche perché
volevo fargli sapere che un bambino di quella arcidiocesi, da grande era
diventato vescovo in Sudafrica.

Mi avevano
detto: «Se chiami alle 7 del mattino, egli stesso risponde al telefono». Poiché
non mi conosceva, decisi di scrivergli una email per presentarmi. Mi
rispose che aveva un calendario pieno di impegni, ma che sicuramente avrebbe
trovato il tempo. Concluse la email con le stesse parole che abbiamo
sentito nel suo primo giorno di pontificato: «Per favore, ti chiedo di pregare
per me». Ci incontrammo un pomeriggio nel suo ufficio per una mezz’ora. Con
semplicità condividemmo molte cose in pochissimo tempo. Poi mi accompagnò fino
in strada e mi disse: «Grazie per essere venuto a trovarmi. Te ne sono
veramente grato». Per quanto mi riguardava, gli dissi di apprezzare il fatto
che offrisse una nuova immagine di arcivescovo (era famoso perché a Buenos
Aires viaggiava in autobus o in metropolitana e perché viveva in modo
semplice), e i segnali che ci aveva regalato nel corso degli anni, soprattutto
il Giovedì Santo quando usciva dalla cattedrale per lavare i piedi delle
persone con Aids, degli anziani e delle donne in gravidanza. Credo che questo
uscire dalla cattedrale sia stato il segno visibile della sua pastorale
missionaria nella diocesi. Era la testimonianza di quello che voleva si vivesse
come Chiesa a Buenos Aires.

L’incontro mi segnò
personalmente. Tanto che, da due anni, nel vicariato affidatomi, il Giovedì
Santo lasciamo la Cattedrale e andiamo a celebrare in altre comunità, in modo
che tutti abbiano la possibilità di partecipare (il Vicariato di Ingwavuma, in
Sudafrica, si estende su una superficie di più di 200 km di lunghezza).

Ci rimane però ancora la sfida
culturale di fare la celebrazione fuori dal tempio e con uomini e donne,
giovani e vecchi…

Un altro aspetto del cardinal
Bergoglio che ho sempre tenuto ben presente è la sua disponibilità di cui avevo
sentito e letto in qualche giornale: quando un sacerdote aveva bisogno di
vederlo, il cardinale faceva l’impossibile per incontrarlo il giorno stesso
senza farlo aspettare. In questi anni, sia nel Vicariato di Ingwavuma che nella
Diocesi di Manzini (Swaziland) ho sempre cercato di mantenere un atteggiamento
similare e ho insistito sul fatto che i sacerdoti non si preoccupassero di
correre da un posto a un altro per incontrarmi, ma che, quando avessero avuto
bisogno di me, sempre sarei stato disponibile.

Qui il mio televisore riceve
soltanto canali sudafricani e per di più il segnale non è buono. Grazie a
Facebook ho appreso che era uscita la fumata bianca e grazie a Inteet sono
riuscito a seguire l’annuncio. È stata una grande sorpresa e una grande
emozione. Forse perché è la prima volta che come vescovo ho incontrato il papa.
Dopo l’elezione del papa il mio telefono non ha mai smesso di suonare e sono
stato inondato di messaggi email, segno della grande gioia del popolo,
sia in Sudafrica che in Swaziland.

Tutti sono stati colpiti dal nome
che il papa ha scelto (chi non conosce san Francisco d’Assisi?) e dai suoi
primi gesti: la semplicità, l’aver mantenuto la croce pettorale e l’anello;
l’essersi inchinato davanti al popolo di Dio affinché questi in silenzio
pregasse per Lui.

Le sue parole, il cammino del
popolo e del pastore compiuto assieme, il desiderio di costruire in comunione
il futuro: parole e gesti che hanno toccato i cuori di molti e che sembrano
ripetere ciò che è stato il suo servizio episcopale a Buenos Aires.

Spero che il Papa possa
continuare a regalarci questi piccoli segnali che sono come il seme di senape,
il quale, una volta piantato, produce molto frutto, perché essi parlano a
tutti. Senza riguardo per l’età, il colore della pelle o la fede di ognuno.

José Luis Ponce de León
Missionario della Consolata argentino, Vicario Apostolico di Ingwavuma,
Sudafrica.

 E’ LUI!

Appena dopo l’elezione del nuovo
papa ho ricevuto l’invito da padre Gigi a scrivere alcune righe sul nostro caro
cardinale Bergoglio, o semplicemente monsignor Bergoglio. Non voglio mancare di
rispetto, ma è così che noi lo chiamavamo. Jorge Mario Bergoglio, sacerdote
gesuita (Sj), ora possiamo chiamarlo papa Francesco! E perché non… papà
Francesco?

Padre Gigi mi ha chiesto di fare
parlare il cuore più che la mente. Grazie! Perché se dovessi far parlare la
mente dovrei mettermi a studiare, far delle ricerche, invece il cuore parla «in
diretta».

Nei giorni che hanno preceduto il
conclave leggevo la stampa internazionale per vedere se lo metteva in primo
piano. Ma nei pochi giornali che arrivano qui, non avevo trovato niente.
D’altra parte pensavo che avesse già la sua età, anche se era stato detto che
il card. Bergoglio era stato uno degli eletti quando il cardinal Ratzinger era
diventato Benedetto XVI. Solo su un giornale argentino era apparso come colui
che stava guadagnando il beneplacito di molti dopo alcuni suoi interventi.

È stato con grande gioia che ho
ricevuto un messaggio con la notizia della sua elezione. Son rimasto incredulo.
Ma, accesa la Tv, eccolo lì! Sì! Era lui! Anche se un po’ più grassottello di
come lo ricordavo. E subito ho visto il suo nome: Francesco! Da quel momento il
mio cellulare non ha più smesso di suonare: messaggi, chiamate, chi mi ripeteva
la notizia, chi si complimentava (non sono molti gli argentini in Kenya!), chi
voleva sapere le mie reazioni. E subito la mia risposta: «Ora vedete che c’è un
santo in Argentina!».

A dir la verità, non ho mai avuto
contatto diretto con lui, ma ovviamente so bene chi è. Mentre lo sentivo
parlare e poi salutare la gente radunata in San Pietro, mi son detto: «Sì, è
proprio lui!». Sorridente, piacevole, senza protocollo, umile… invitando a
pensare agli altri (al suo predecessore Benedetto XVI), inchinando il suo capo
di fronte alla gente per chiedere la loro benedizione (nella messa facciamo il
contrario, noi preti chiediamo alla gente di inchinare il capo), e il ripetuto
invito alla fratellanza. Sì, semplice come Francesco, Fratello Francesco!

In Argentina monsignor Bergoglio
era il vescovo missionario che camminava, e invitava i suoi colleghi vescovi a
camminare, verso le periferie, le baraccopoli… parlando con la gente,
ponendosi accanto ai poveri, non rimanendo nel «tempio». Coerentemente
incoraggiava i preti e i laici a organizzare «carpas misioneras», cioè delle
tende in città, negli incroci delle strade e nelle piazze, nella diaspora, dove
si trovano quelli che vanno in chiesa e quelli che non ci vanno proprio. Dove,
soprattutto, si può capire che il nostro Dio non è un Dio che si trova solo nel
tempio, ma è Emmanuele, il Dio con noi, tutti i giorni, in ogni momento, in
ogni luogo. Un Dio che cammina con l’uomo.

Il cardinal Bergoglio dimostrava
la sua semplicità girando in città coi mezzi pubblici: autobus, metropolitana,
treno… e vivendo in un appartamento molto sobrio vicino alla cattedrale.

Era vicino alla gente, in
particolare ai giovani in deversi momenti, come durante il pellegrinaggio
nazionale giovanile al santuario della nostra patrona, Nostra Signora di Luján.
I giovani marciano a piedi quasi 70 km, e lui molte volte li aspettava per
accoglierli e presiedere l’eucaristia, incoraggiandoli nella vita quotidiana.
In diverse occasioni ha presieduto la messa in onore di S. Gaetano, patrono per
noi del pane e del lavoro. Coinvolto in situazioni di Giustizia e Pace, in
situazioni sociali in favore dei poveri, papà Francesco, può aiutare il mondo e
la Chiesa a vivere i rapporti sulla base del rispetto e della corresponsabilità,
con serietà e gioia allo stesso tempo. Gioia che è frutto della speranza,
speranza certa che Cristo è vivo, e la Chiesa è sua!

Forse Francesco ha ravvivato la speranza
nella Chiesa. Preghiamo per lui, perché possa essere semplicemente uno
strumento di Dio nel mondo di oggi.

Daniel Bertea
Missionario della Consolata argentino, parroco del Consolata
Shrine in Nairobi, Kenya.

ORTODOSSO E PROGRESSISTA

Papa Francesco è la persona che il
mondo ha visto nei primi giorni del suo pontificato. E pare proprio che i
protocolli vaticani non riusciranno a impedirgli di mischiarsi alla gente.
D’altra parte, come arcivescovo di Buenos Aires, egli chiedeva ai suoi
sacerdoti di uscire dalle sacrestie e andare per le strade.

La sua semplicità, i suoi
comportamenti umili, il suo rifuggire dai lussi, sempre lo hanno
contraddistinto. Uomo dalla vita semplice, tanto che chi viaggia sui mezzi
pubblici di Buenos Aires lo poteva incontrare. Porteño (termine con cui si
indicano gli abitanti originari di Buenos Aires, ndr), amante del tango,
tifoso di calcio, peronista (come lo definiscono i vecchi militanti). Era
solito cucinarsi quello che mangiava. Ha viaggiato per il Conclave con un paio
di scarpe nuove regalategli da alcuni amici dopo aver notato che quelle che
indossava erano un po’ logore. Ma è certo che lui avrebbe preferito consumarle
del tutto.

Il «Bergoglio padre» è lo stesso
che i giornalisti hanno visto viaggiare in classe economica verso il Conclave,
lasciare da solo l’aeroporto di Fiumicino, trascinare la sua piccola valigia, e
poi, nei giorni precedenti l’elezione, raggiungere a piedi i luoghi delle
riunioni. Semplicità e austerità. Una sensazione strana per il Vaticano che di
solito mostra il contrario.

Se il linguaggio del corpo dice
qualcosa, allora Francesco ha già detto tutto quando, appena eletto papa, di
fronte ai fedeli, si è inchinato davanti a loro chiedendo la benedizione di Dio
su di lui. «Pregate per me» è una sua richiesta abituale.

Francesco è ciò che dice e come
lo dice. Persona affabile ma ferma. Ortodossa nella morale, progressista nel
sociale. Egli ha già dato segnali di ciò che vorrebbe, con parole semplici e
tono sereno: «Oh, come vorrei una Chiesa povera e dei poveri», ha detto. Che
altro ci si poteva aspettare dal primo papa latinoamericano, se non mettere in
cima alle scelte «l’opzione preferenziale per i poveri»?

A Buenos Aires, l’arcivescovo
Bergoglio ha creato il «Vicariato delle baraccopoli» (in Argentina si chiamano villas
miserias
, ndr) dando ai preti che lavorano lì una visibilità
speciale all’interno della Chiesa locale. E ha aperto la Casa San Giovanni
Bosco, nel bel mezzo di Villa 31 (quartiere tra i più emblematici), per
accogliere le vocazioni che sarebbero uscite dai bassifondi. Ha camminato,
lavorato e partecipato in drammi sociali come la tratta di esseri umani e il
lavoro forzato, offrendo rifugio, anche in prima persona, alle vittime di
questi flagelli. A lui, come a tutta la Chiesa argentina, sono arrivate accuse
di collaborazionismo, per azione o omissione, nell’ultima dittatura militare
(dal 1976 al 1983, ndr). Le ombre sulla Chiesa argentina di quel periodo
sono molte e hanno fondamento. Tuttavia, vari esperti in diritti umani sono
intervenuti in difesa di Francesco. Altri si sono limitati a ricordare che egli
è un esponente di una «Chiesa che oscurò il paese», come ha commentato la
presidente (Estela de Carlotto, ndr) delle «Nonne di Piazza di Maggio». È
certo che le ferite di quel tempo non si chiuderanno facilmente, anche se si
tratta di un papa.

La sua elezione ha anche causato
sorpresa tra le fila del governo di Cristina Feandez Kirchner, che ha sempre
considerato l’arcivescovo come «il leader dell’opposizione». È famosa la dura
battaglia dell’arcivescovo contro la legge sui matrimoni omosessuali, battaglia
persa, nonostante la chiamata in piazza dei cattolici argentini. Per tutto
questo, la prima reazione della presidente alla notizia arrivata da Roma
dell’elezione a papa del cardinal Bergoglio è stata fredda e distante (salvo
poi volare a Roma per incontrare il papa e presenziare all’inaugurazione del
papato, il 19 marzo, ndr). Francesco, il papa argentino, non era nei
piani della politica locale. La nomina di Bergoglio, inattesa e non sperata, ha
scosso fortemente sia il governo che l’opposizione, in un anno elettorale.

Per quanto mi riguarda, ho visto
padre Bergoglio ogni 11 febbraio, in occasione della festa di Nostra Signora di
Lourdes, nel «nostro quartiere» di Flores, dove papa Francesco è nato e
cresciuto. Confesso che io vi andavo soltanto per la sua presenza. Proprio
quest’anno non ci sono stata. Tuttavia, quello stesso giorno una vicina di casa
mi ha raccontato che, quando l’arcivescovo ha parlato delle dimissioni di
Benedetto XVI, la gente lo ha acclamato gridando: «Che Dio ti faccia papa». E
così è stato.

Alba Piotto
Gioalista
e scrittrice di Buenos Aires, vive a Flores, il quartiere nativo di papa
Francesco.

A cura di Gigi Anataloni




Myanmar/Birmania: Cambiamento è anche progresso?

La rivoluzione democratica in Birmania
Un tempo Birmania, oggi Myanmar, la nazione divenuta sinonimo di
dittatura e isolamento, sta ora vivendo i primi passi di una nuova stagione di
libertà e rinnovamento a una velocità frenetica. I rischi sono molti, ma non si
può fermare il tempo. La speranza è che il cambiamento porti reale pace e armonia
in un popolo che deve reinventare la propria identità senza perderla.

Con maestria il pescatore affonda
la propria rete conica nelle acque basse del lago Inle e, manovrando la barca
con un solo remo avvinghiato alla gamba, estrae dalla nassa un paio di
guizzanti pesci argentei: anche stasera la cena per la famiglia è assicurata e
l’uomo guadagna la strada di casa remando nel modo tradizionale degli Intha, il
gruppo etnico tibeto-birmano che da secoli abita questo incredibile ecosistema
lacustre. Osservare i movimenti lenti e armoniosi dei pescatori Intha che
tornano alle proprie semplici palafitte, nell’atmosfera serena e avvolgente del
tramonto, rende difficile pensare che la Birmania stia attraversando uno dei
momenti più significativi di cambiamento della sua storia secolare.

La Birmania deriva il suo nome dal gruppo etnico di maggioranza, i
Bamar; assunse la denominazione Union of Burma dopo essersi smarcata
dall’impero anglo-indiano e aver raggiunto una fragile indipendenza nel 1948.
La disgregazione sociale e i contrasti tra le varie etnie insanguinarono il
paese per lunghi anni del secolo scorso, finché nel 1988 un colpo di stato da
parte della giunta militare guidata dal generale Saw Maung instaurò un nuovo
regime autoritario e repressivo. Fu nel 1989 che la giunta militare al potere
cancellò d’ufficio il nome Birmania, sostituendolo con Myanmar (secondo i
militari più rappresentativo delle diverse etnie presenti nel paese e
soprattutto completamente differente dal vecchio nome che richiamava il passato
coloniale) e spostando addirittura la capitale nel 2006 da Yangon a Naypyidaw,
luogo meno accessibile e quindi più irraggiungibile per le manifestazioni di
dissenso popolari.

Ma la voce di tale dissenso proruppe lo stesso, in particolare dalla
esile figura di Aung San Suu Kyi, figlia dell’eroe dell’indipendenza Bogyoke
Aung San e paladina della libertà. Divenuta leader della Lega Nazionale per la
Democrazia, venne posta agli arresti in occasione delle finte elezioni indette
nel 1989, il cui risultato, una schiacciante vittoria per il partito di San Suu
Kyi, non venne mai riconosciuto dai militari al potere. Durante gli anni della
prigionia la donna ricevette numerosi premi inteazionali, tra cui il Nobel
per la Pace nel 1991, e non abbandonò mai la propria paziente attività di
mediazione e contemporaneamente di lotta, grazie anche all’opera clandestina di
tanti sostenitori nel paese e al sostegno pubblico di importanti personalità
della scena internazionale, tra cui l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu.

Vent’anni duri

Durante questa paziente e tenace resistenza, riconosciute virtù
asiatiche, le condizioni di vita del popolo birmano conobbero un ventennio di
drastico peggioramento. La giunta militare si preoccupò principalmente di fare
affari con grandi potenze quali la Cina e la Russia, a cui praticamente regalò
parte delle immense ricchezze naturali del paese (materie prime, giacimenti
minerari, pietre preziose), e con una rete di baroni locali dediti al
contrabbando di droga e alla creazione di imperi personali. In questo scenario,
la popolazione urbana e quella rurale subirono le conseguenze peggiori: la
prima vide soffocato ogni tentativo di libertà d’espressione, di organizzazione
sindacale, di sciopero e manifestazione del dissenso, di stampa, di contatti
con l’estero; la seconda, distante dai giochi del potere politico ed economico,
fu costretta a occuparsi solo della propria mera sopravvivenza quotidiana,
priva di qualsiasi sostegno statale e pubblico, terrorizzata dal possibile intervento
militare in caso di protesta per le proprie misere condizioni. Le rivolte di
fine Novecento ebbero come protagonisti gli studenti delle grandi città e i
monaci, le uniche fasce di popolazione sufficientemente istruite per
intercettare e manifestare la protesta. Esse furono soffocate nel sangue grazie
anche al ripristino della legge marziale.

In questa fase, l’embargo attuato dagli Stati Uniti e dall’Europa
nacque con intenzioni forse condivisibili (tagliare i rifoimenti economici e
finanziari al regime per indurlo alla trattativa e alla apertura), ma all’atto
pratico intaccò solo superficialmente il potere militare ed ebbe gravi
conseguenze sulla vita della maggioranza dei birmani. L’isolamento
internazionale tagliò fuori il paese dai flussi economici, dallo scambio di
informazioni (la rete Inteet non funzionava, le e-mail erano soggette
a controlli e censura, i visti non erano rilasciati a giornalisti e operatori
dei mass media) e dal progresso sociale.

Tra passato e presente

Chi ha avuto l’opportunità di viaggiare come turista nella
Birmania dell’inizio del Ventunesimo secolo è stato facile testimone di una
realtà sospesa tra passato e presente, caratterizzata dalla mancanza di un
sistema educativo e scolastico obbligatori, dall’assenza di una rete sanitaria
a livello nazionale, dalla presenza di infrastrutture desuete risalenti per la
maggior parte all’epoca coloniale britannica. Visitare la Birmania in quegli
anni significava attraversare il tempo e ritrovarsi in un passato quasi del
tutto dimenticato in Occidente: i bambini al lavoro nei campi con i genitori,
gli anziani a fumare serenamente i propri cheerot (grossi sigari fatti a
mano) e ad attendere il tramonto, paesaggi rurali rigogliosi, ricchi di colori
e profumi, impreziositi da pagode e stupa secolari, giovani
monaci buddisti in meditazione o in fila per la ciotola di riso quotidiana:
nell’estrema povertà, i birmani mantenevano una grande dignità e una timidezza
curiosa, che inevitabilmente sfociava in un bel sorriso. La terra delle pagode e
dei sorrisi: sorrisi semplici, sinceri, genuini. Viaggiare in Birmania in
quegli anni consentì inoltre di aprire una minuscola crepa nel guscio in cui i
generali avevano rinchiuso il paese. Nell’indifferenza dei grandi poteri, le
spese dei visitatori mantennero in vita uno strato sociale di persone dedite al
turismo, tra cui guide, autisti, camerieri, addetti alle pulizie, facchini,
piccoli ristoratori, e lo alimentarono con idee, immagini, racconti di sistemi
politici e sociali differenti, ma anche con aiuti economici concreti. Ma il
dilemma morale del viaggiatore (non voler contribuire con tasse, permessi,
gabelle varie ad arricchire un regime sanguinario) restava per molti un nodo
irrisolto e un ostacolo etico.

Lo stato si ricordava dei suoi cittadini solo quando questi
alzavano coraggiosamente la testa e protestavano per le condizioni di vita
misere in cui si trovavano a sopravvivere. In quei momenti scattava la
rappresaglia, dura e silenziosa, contro studenti, monaci e gente comune di
Yangon e Mandalay.

La latitanza dell’istituzione centrale in tutti gli altri campi,
in particolare delle politiche sociali, economiche e culturali, venne in parte
colmata da alcune figure eccezionali per abnegazione e tenacia: i sostenitori
clandestini dell’opposizione democratica e i seguaci di San Suu Kyi non
cessarono mai di tramare alle spalle del regime, di tessere la rete dei
contatti e delle idee e di esprimere il dissenso anche in forme d’arte meno
palesi, ma altrettanto efficaci (come la musica degli Iron Cross, che nella
grande tradizione del rock sfidò le istituzioni repressive con il proprio motto
Rock the junta). I monaci buddisti giocarono un ruolo fondamentale nella
circolazione delle idee e della cultura, accogliendo nei propri monasteri molti
bambini e giovani e insegnando loro la lettura, la scrittura, le lingue e le
strutture del pensiero filosofico. Infine i sacerdoti missionari cristiani, non
rappresentarono in quegli anni solo figure di riferimento spirituale, ma anzi
tradussero il Vangelo in azioni concrete di pura solidarietà e amore per il
prossimo, aiutando i bisognosi in ogni campo, in ogni remoto angolo del paese.

Padre John

Un esempio su tutti è padre John Aye Kyaw,
un instancabile sacerdote cattolico che ha trascorso un po’ di tempo in
Vaticano e ha imparato qualche parola di italiano. Quando viene a conoscenza di
qualche gruppo di turisti di passaggio a Mandalay si sobbarca tuttora almeno
sette ore di viaggio lasciando il suo villaggio nella remota campagna birmana
per venire a incantare tutti con i suoi racconti di prete di frontiera. Le sue
parole pennellano una realtà drammatica fatta di povertà e miseria, che preti
come lui combattono istruendo i bambini del villaggio, dando loro rudimentali
nozioni scolastiche nella scuola che lui stesso ha costruito, confortando gli
ammalati, distribuendo vestiti ai bisognosi, impugnando gli aesi da lavoro e
contribuendo alla costruzione di una paratia contro le alluvioni monsoniche,
effettuando visite mediche e assegnando farmaci, addirittura aiutando giovani
donne a partorire. Padre John è l’esempio più emblematico dell’assenza dello stato in
Birmania. Solo la sua instancabile opera di coinvolgimento dei viaggiatori nei
suoi progetti ha consentito a molti abitanti del posto di ricevere aiuti
concreti dall’estero.

Cambiamento

Verso la fine del primo decennio del Duemila, l’acuirsi delle
sanzioni inteazionali indussero il regime ad allentare gradualmente la presa
autoritaria, con mosse spesso di facciata ma che sancirono l’inizio di
un’inevitabile fase di riforma in direzione democratica. Nel 2010 si tennero le
prime elezioni dopo 20 anni dalle ultime e vennero promulgate leggi sul lavoro,
sull’associazionismo sindacale, sui diritti civili e sull’apertura a
un’economia mista. Il cambiamento era in atto e le riforme aprirono una nuova
fase politica di riconciliazione nazionale, segnata dalla lieta liberazione di
San Suu Kyi nel novembre di quell’anno e dalla vittoria della sua Lega
Nazionale per la Democrazia alle elezioni generali del primo aprile 2012, in cui
però si distribuiva solo una piccola parte dei seggi in Parlamento, dato che la
maggioranza veniva sempre attribuita a ufficiali nominati dalla giunta
militare. Oggi, il processo nato come una timida democratizzazione sta
assumendo sempre più i contorni di un evento epocale: la recente visita del
presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama ha definitivamente fatto
puntare i riflettori dei media inteazionali sulla Birmania, dopo anni di
isolamento la procedura di ottenimento dei visti turistici è stata resa più
semplice e un flusso sempre più consistente di viaggiatori inteazionali e
soprattutto asiatici affolla gli alberghi e i siti turistici.

Con impressionante rapidità l’inflazione è cresciuta, i banchetti
di souvenir si sono coperti di magliette con il volto di San Suu Kyi, Inteet è
più veloce e le e-mail arrivano a destinazione in tempo reale. Persino i
telefoni cellulari cominciano a diffondersi, mentre le banche cambiano la
valuta straniera senza più necessità del mercato nero clandestino e gli
alberghi 5 stelle di Yangon sono costantemente affollati di businessmen
in cerca di affari.

Nuovo ottimismo

La gente è in fermento, ottimista, speranzosa: vuole godere
appieno dei nuovi, inediti spiragli di libertà. Fino a pochi mesi fa, la gente
comune viveva con la preoccupazione di essere controllata nelle proprie azioni
e nell’espressione del proprio pensiero. Il regime non aveva mai riempito le
strade e i luoghi pubblici di militari in divisa, ma aveva creato un clima di
paura e diffidenza, una sorta di cappa che gravava minacciosa su ciascun
cittadino. Ora il più significativo segno del cambiamento, al di là dei piccoli
seppur importanti progressi pratici quotidiani, è proprio il dissolvimento di
questa cappa di paura e oppressione. Prima era meglio tenere per sé le proprie
idee, magari quel signore all’angolo in attesa dell’autobus era un militare in
borghese che sarebbe potuto intervenire se insospettito da una qualche forma di
dissenso… ora invece il timore e il sospetto di essere controllati è svanito,
la libertà è soprattutto psicologica, è uno stato mentale.

Nuovi rischi

Chi ha visitato il paese anni fa e vi torna ora non riconosce più
la Birmania di un tempo, soprattutto nelle città: i ritmi tranquilli e gli
atteggiamenti sottomessi di un passato recente lasciano spazio a ingorghi
stradali e attività frenetiche. Molte persone che si trovano a sperimentare per
la prima volta una forma seppur acerba di libertà, confondono questo nuovo
status con la possibilità di fare ciò che pare a loro. Il passo indietro del
regime oppressivo è interpretato come assenza di autorità e molti ignorano le
regole perché tanto non c’è più chi le fa rispettare rigidamente. La gente
comincia a vedere i visitatori stranieri non più con occhio curioso e timido,
ma come una risorsa da cui trarre guadagno. E i sorrisi appaiono un pochino
meno genuini di una volta, anche il fascino delle pagode di Bagan sfuma
lentamente mentre grandi bus scaricano decine di turisti thailandesi, coreani e
cinesi. In un tempo molto breve si è passati da 300mila ingressi annuali in
Birmania per turismo a quasi un milione di visitatori nel 2012.

Ci si può chiedere se il cambiamento, soprattutto quando è così
repentino, sia sempre sinonimo di progresso: la giunta militare tuttora al
potere è in grado di traghettare il paese verso il futuro limitando gli
strappi, le ingiustizie e gli effetti negativi che tali eventi (che rimandano
al crollo dell’Unione Sovietica) portano sempre con sé? Non bisogna dimenticare
che il processo di apertura è stato voluto e guidato dall’alto, grazie agli
elementi più illuminati tra le fila dei dirigenti militari: questi hanno
captato i segnali di una crescente insofferenza intea e internazionale ai
metodi di governo autoritari e, dopo una severa fronda intea, hanno scelto la
strada delle concessioni e delle riforme graduali. Gli esempi dell’Iraq, della
Libia, dell’Egitto, della Tunisia, della Siria devono aver pesato sulla scelta
di gestire dall’alto il cambiamento anziché di combatterlo frontalmente. Il
rischio è che la giunta, una volta attivato il processo dirompente di
democratizzazione, cerchi quantomeno di accaparrarsi una bella fetta del potere
economico prima di lasciare le briciole ai birmani più svelti e intraprendenti.

La speranza è che il carattere mite e semplice di questo popolo ne
esca rafforzato, e non stravolto, nella propria identità. Sono interrogativi e
questioni a cui solo il tempo potrà rispondere. Intanto, il pescatore Intha
gira i suoi pesci sulla brace e scruta l’orizzonte, mentre gli ultimi raggi di
sole scintillano sulle acque placide del lago Inle.

Andrea Mapelli e Daniele Biella

Andrea Mapelli e Daniele Biella




Che le tue Mani aiutino il Volo

La scomparsa del dottor
Giuseppe Meo.
Mi è rimproverata una parzialità acritica a favore dei poveri, degli
ultimi. Ebbene, può darsi, anzi è vero: non sono obiettivo, non sono
imparziale, sono schierato dalla loro parte. Non solo: non saprei essere
diverso, sono sempre stato così. E non mi interessa cambiare. È la scelta preferenziale
dei poveri in quanto portatori degnissimi di diritti. Vorrei che li mettessimo al centro, impostare
tutto a partire dai loro bisogni. Non una forma qualsiasi di solidarietà.

Il dottor Giuseppe Meo, Pino, ci ha lasciati
il 28 gennaio scorso a 75 anni. Un male incurabile, scoperto a giugno durante
una sua ennesima missione chirurgica in Sud Sudan, gli è stato fatale. L’ultimo
intervento sulle pagine di MC lo fece per l’indipendenza del Sud Sudan (MC,
marzo 2011). Vogliamo ricordarlo nella sua semplicità, ma pure nella sua
grandezza di medico, di uomo, di formatore, di pioniere. Un riferimento, anche
per chi, pur non essendo chirurgo, cerca quotidianamente di mettere insieme le
forze per lottare a favore dei più poveri. E non sempre trova l’energia necessaria.

Ma la storia di Pino Meo continua. Lascia un metodo, la «chirurgia
povera», e lascia un’organizzazione, il Comitato Collaborazione Medica, che
porta avanti la sua opera. E il suo sorriso disarmante e un po’ malinconico continuerà ad
accompagnarci.

Abbiamo pensato di ricordarlo attraverso le sue parole, stupende,
raccolte nel libro «Africa Malata. Memorie di chirurgia povera in Sudan», una
perla di rara profondità e umanità, di cui proponiamo alcuni brani.

Grazie Pino.
La redazione MC
 

Dopo tanti anni nella
memoria rimane indelebile il ricordo dei «miei malati», un’antologia di tenere
immagini imbevuta di compassione, un diario visivo di ritratti intensi. Sono
esistenze che non si riescono ad archiviare. Le loro sofferenze ti penetrano. È
una compassione che nasce dal privilegio della condivisione diretta. Il tema
del «malato povero» è intrecciato con un’altra condizione precaria e un’altra
sofferenza, quella della chirurgia «povera». Tale secondo attore non è il
protagonista, è subalterno al primo, non ha vita propria, vive per il malato,
da lui riceve la tensione emotiva che gli è essenziale e gli dà senso. È una
seconda proiezione diversa e sovrapposta alla prima, quella dei malati, una
doppia ottica. Il Sud Sudan ha un fascino misterioso che gli deriva dai suoi
forti contrasti: il senso della dignità delle persone e la loro povertà
estrema, le siccità e le piogge furiose, le grandi mandrie e le carestie,
l’amore per i bambini e gli orrori della guerra. Sta di fatto che il Sudan è
teatro di molti ricordi perché è diventato «casa mia» e la sua gente è «la mia
gente». Si racconta [in questo libro], fra l’altro, di personaggi, episodi e «missioni
sul campo», nella speranza di rendere più comprensibile la testimonianza di
questi due mondi intrecciati l’uno all’altro: il mondo dei poveri, abisso di
sofferenze e di umiliazioni, ma anche rete di vite umane bellissime e piene di
dignità, e il mondo in crisi della cooperazione internazionale, ingarbugliato e
pieno di contraddizioni, ma colmo di sacrifici personali.

Tigania, Kenya, 1969

Scopro il valore inestimabile delle cure chirurgiche di base in
Africa. La tempestività e l’efficacia della chirurgia di urgenza, la sua
capacità di essere inderogabilmente definitiva hanno del miracoloso. È un lampo
che mi cambia la vita. Mi invento la decisione di fare della chirurgia per i
paesi a basso reddito l’asse portante della mia attività professionale, della
cura del povero del Terzo Mondo il tema della mia vita. È anche il rifiuto di
una vita incanalata, garantita, assicurata, sempre uguale, a favore di un
mestiere che ti sfida, ti preoccupa e ti tiene costantemente impegnato.

«Che le tue mani aiutino il volo, ma non si permettano mai di
sostituire le ali» invitava Helder Camara, l’arcivescovo brasiliano precursore
della Teologia della Liberazione. Mai l’aspetto tecnico sacrifichi la relazione
personale e la dimensione ideale dell’agire. Scopro la preghiera del chirurgo
inglese, per avere «gentilezza nelle mani, intelligenza nella mente, simpatia
nel cuore, che sappia fare onore al mio lavoro che guarisce». La preoccupazione
che la dimensione tecnica non prevalga su quella personale e sociale riguarda
non soltanto il lavoro chirurgico, ma tutta l’attività di cooperazione. I tre
elementi personale, ideale e tecnico non hanno senso se non sono in sinergia
fra loro. La dignità delle persone non è mai negoziabile.

Il rispetto del malato non ammette eccezioni, è un imperativo
etico assoluto. La chirurgia sul campo, in particolare in Sud Sudan, sarà il
filo conduttore del mio impegno di medico in Africa.

Il volontariato medico nei paesi poveri regala momenti di vera
serenità, di pace piena con se stessi e con gli altri. Paiono frammenti della «gioia
perfetta del pellegrino in cammino», pezzetti di una felicità data in premio
discreto e silenzioso. Carlo Maria Martini ricorda che «gioia perfetta non
vuole dire non condividere il dolore per l’ingiustizia, per la fame nel mondo; è
una gioia più profonda, dalla quale ci dispensiamo troppo facilmente pensando
che non sia per noi…».

È imbarazzante parlare di sé, è difficile trovare il giusto tono
per confessare vissuti coinvolgenti. In effetti, la mia è una gioia che non
teme di piegarsi sulle sofferenze altrui, ma – lo riconosco – ne rimane
trascinata perché fortemente condizionata dalla salute dei miei pazienti. Con
la loro sofferenza ho sempre avuto un rapporto appassionato ma appeso al filo
tagliente della domanda: «Guarirà? Ce la farà?».

La chirurgia richiede di mescolare coraggio e umiltà, ardimento e
paura. Quale intervento sceglieremmo se, invece di essere i chirurghi, noi
fossimo i pazienti?

L’abisso fra ricchi e poveri

Il mondo dei poveri è così lontano dal nostro che tutti gli
indicatori di questa inaccettabile disuguaglianza e tutte le immagini della
loro sofferenza, pur così frequenti sui media, finiscono col non dirci più
nulla. Il lavoro in Sud Sudan ci ha insegnato molto sulla sofferenza degli
oppressi. Il confronto con una realtà di bisogno gravissimo, in un ambiente di
inimmaginabile arretratezza e isolamento e di precarietà assoluta dei servizi
sanitari è stato oltremodo istruttivo. Il Sudan ci ha fatto incontrare la fame
e le carestie che uccidono, le capanne buie e spoglie, la mancanza di tutto, la
lebbra e le malattie tropicali, la tubercolosi e le polmoniti, le giovani donne
che muoiono di rottura di utero e i bambini in coma per malaria cerebrale. La
salute non è un diritto individuale, ma un bene indivisibile dell’intera umanità.
Nel villaggio globale il collasso di una parte del mondo non può non
riflettersi sul suo intero. Questo tema chiama tutti a un impegno concreto che
deve partire dalla consapevolezza delle disuguaglianze, delle loro cause e dei
loro meccanismi. La comunità scientifica è chiamata ad analizzare e a
diffondere i temi dell’equità, dello sviluppo sostenibile, della difesa della
dignità umana e della vita delle persone. Noi, operatori sanitari sul campo,
abbiamo il dovere perentorio della denuncia, perché di questi fenomeni siamo testimoni
diretti e l’informazione e la sensibilizzazione sulle problematiche del
sottosviluppo sono nostri compiti istituzionali.

Oggi si riconosce che la logica del profitto e la globalizzazione
del mercato hanno prevalso sulla globalizzazione dei diritti e che le
istituzioni finanziarie inteazionali Banca Mondiale e Fondo Monetario
Internazionale, sostituitesi di fatto all’Organizzazione Mondiale della Sanità
(Oms) nel guidare la politica sanitaria, hanno aggravato le disuguaglianze,
perché hanno indicato la stessa come una variabile dipendente della crescita
economica. Come condizione per accedere ai prestiti e aiuti inteazionali sono
stati imposti «aggiustamenti strutturali» quali la liberalizzazione del
commercio, il taglio della spesa sociale, l’introduzione di ticket e delle
assicurazioni private e la privatizzazione dei servizi con il risultato di
smantellare i servizi sanitari nazionali. Il Rapporto della Commissione
Macroeconomia e Salute dell’Oms del 2001 riconosce che la prima causa del disastro
sanitario che colpisce gran parte dell’umanità è la povertà estrema e che la
salute dipende anche, come noto da decenni, da agricoltura, alimentazione,
accessibilità all’acqua salubre, istruzione. Il Rapporto considera
principalmente una strategia consistente in interventi sanitari essenziali e
afferma che l’investimento nella salute deve essere prioritario, non secondario
agli interventi economici. In quanto strumento di lotta alla povertà, può
salvare milioni di vite umane, indurre di per sé sviluppo economico e
promuovere sicurezza globale, ma la comunità internazionale deve investire
molto di più. La cooperazione internazionale con i paesi poveri non è un dono
munifico dei paesi sviluppati, bensì un loro dovere preciso sancito dalla
legislazione internazionale e ratificato dai membri delle Nazioni Unite.

Programmi sanitari poverissimi

Il Ccm (Comitato Collaborazione Medica, vedi
riquadro), proprio sulla base della sua esperienza di lavoro in Sudan e della
consapevolezza che la povertà sopravvivrà di certo per molti decenni, ritiene
che si debba prendere coscienza della necessità di un progetto nuovo che
inventi una medicina diversa, applicabile anche agli ambienti più arretrati.
Non la medicina a tecnologia sofisticata, «neocoloniale», che crea dipendenza
dai paesi ricchi, ma quella a tecnologia povera, a misura d’uomo, che in virtù
della sua semplicità di uso può essere adoperata da molti. Una medicina che sia
scambio di culture e di conoscenze diverse. Inventare una medicina che trovi
una sua dignità nel servizio alle comunità, nell’essere esercitata dalla sua
gente senza istruzione.

È chiaro che lo sviluppo di questi popoli non
passa attraverso l’imitazione di modelli occidentali, irraggiungibili, e per di
più estranei alla cultura e alla storia locali. Gli aiuti inteazionali e le
Ong non devono alimentare il narcisistico scimmiottamento dei paesi
industrializzati, che sono visti dai Pvs (Paesi in via di sviluppo, ndr)
come modelli di riferimento proprio perché depositari di beni tecnologici.

Importante è lo sforzo di dare dignità alle
persone insegnando loro un mestiere, perfezionando le competenze professionali.
Il gergo della cooperazione lo definisce «costruzione di capacità». La
ricchezza più importante che i programmi sanitari devono portare è la capacità
di curare i malati. I volontari di villaggio impiegati con sorprendente
successo nelle nostre campagne sanitarie sono esempi di quali importanti
risultati si possano raccogliere anche fra le persone con basso tasso di
scolarizzazione e nei contesti lavorativi culturalmente più miseri.

Costruzione di capacità, partecipazione comunitaria e tecnologia
appropriata sono, intrecciati fra loro, i principali strumenti per raggiungere
in futuro l’indipendenza dall’aiuto esterno, il cosiddetto «sviluppo
sostenibile».

Qualunque intervento nelle situazioni di povertà estrema è non
soltanto attuabile, ma ha una sua grandezza come atto di rispetto verso i più
poveri, cui è offerto per alleviare le loro sofferenze e come opportunità di
riscatto dalla miseria. Gli inaccettabili squilibri fra Nord e Sud del mondo
sono destinati a perpetrare, per molti decenni ancora, la tragedia dei milioni
di persone che soffrono e muoiono di fame e malattie prevenibili, fra promesse
non mantenute e aiuti insufficienti. Il nostro intervento, inoltre,
contribuisce a donare dignità alle povertà locali, umane e materiali, alle
persone e alle loro misere cose.

Nonostante il timore di penetrare, senza avee legittimazione né
titolo, nel territorio accademico della chirurgia ufficiale, la nostra ormai
lunga esperienza sul campo ha originato un’identità nuova che si potrebbe
chiamare «chirurgia povera».

La tragedia sanitaria dell’Africa ha una gravità inaccettabile. Il
continente ha un carico di malattia pari al 24% del totale mondiale, ma dispone
soltanto del 3% del personale e dell’1% delle risorse finanziarie mondiali. Si
stima che l’Africa subsahariana manchi di un milione di operatori sanitari. I
chirurghi sono molto pochi. Una soluzione, almeno a breve termine, è addestrare
«non dottori» a fornire servizi chirurgici di base a livello distrettuale.

Missionari

A Yirol (Sud Sudan, ndr) ero ospitato dalla missione
comboniana. Numerosi missionari e suore comboniani, soprattutto italiani,
continuano a spendere la vita intera in Sud Sudan per alleviare le sofferenze e
portare istruzione. I missionari di Yirol, monsignor Cesare e i padri Giuseppe
e Mario, che mi ospitavano nei miei primi viaggi in Sudan, erano capaci di un
calore umano e di una spontaneità eccezionali. La bontà e la correttezza erano
stampate sui loro volti di persone semplici. Erano, sono, tipici rappresentanti
di quell’universo di missionari che «a piedi nudi», nella discrezione,
percorrono il mondo in soccorso degli umiliati, spendendo interamente se stessi
senza enfasi e senza riconoscimenti.

«Queste persone, che si ignorano, che giustificano chi fa loro del
male, che preferiscono che abbiano ragione gli altri, stanno salvando il mondo»
recita un aforisma di Borges. In effetti, sono loro, che pure hanno scelto la
mitezza, la virtù dei perdenti, (…) che hanno salvato il mondo dalla scomparsa
della religione, dall’eclissi del sacro, che i progressi della
secolarizzazione, avvenuta nel corso del XX secolo, facevano presagire si
sarebbe estesa dall’Europa a tutto il mondo. In futuro la maggior parte dei
cristiani non sarà in Europa, ma in Africa, Asia e America Latina, proprio per
effetto dell’azione della chiesa missionaria, che non si è data soltanto il
compito di salvaguardare lingue e tradizioni, ma ha saputo incarnarsi nella
vita della gente e inserirsi nelle culture locali mediante un processo
autentico di «inculturazione».

Questo «nuovo» cristianesimo del Sud del mondo, ha ben altra
vitalità e coscienza della propria forza rispetto al cristianesimo occidentale
euro centrico a cui si sostituisce. Non potrà non influenzare di sé
l’occidente.

Se aiuto un uomo

Sono amico dell’uomo soltanto quando ne aiuto qualcuno. La
parzialità è precondizione dell’efficacia dell’azione. Concentrare l’azione in
un’area permette di non cadere in sterili slanci retorici. La solidarietà
efficace è un’azione portata là dove serve, focalizzata in alcune aree
geografiche precise e a sfere circoscritte di relazioni umane. Allora fare
volontariato in Africa significa incontrare l’altro, il nostro prossimo che
vive lontano. Non evasione, ma ricerca dell’altro per soccorrerlo.

Se riusciamo a salvare la vita di un solo bambino non è forse un
atto di valore universale?

Avere per amici, oltre alle persone vicine, altre lontane e avere
una seconda patria, una patria «del cuore», a distanza di migliaia di
chilometri (geografia «affettiva») significa dare concretezza alla solidarietà
e, nello stesso tempo, ampliare il proprio universo al di fuori di noi stessi,
oltre i confini delle frontiere e delle razze.

Amiamo il contatto diretto con le comunità e
con le persone, la solidarietà della presenza, la condivisione, anche se
limitata nel tempo, delle tribolazioni che loro vivono ogni giorno, perché
questa prossimità ci assimila e ci dà capacità di ascolto e un minimo diritto
di confronto. Ne ricaviamo il privilegio di una vita «mischiata» alla gente,
lontana da ogni potere e da ogni ricchezza, che ti mette in una rete di
fratellanze e ti permette di collaborare umilmente, senza alzare alcuna
bandiera, a un’opera di giustizia «affinché la modestia dei deboli abbia la
meglio sull’arroganza dei forti». Allora si stabilisce un legame che ha
qualcosa di sacro. Dobbiamo coltivarlo in noi, pur consci della piccolezza
della nostra azione di fronte alla grandezza della dignità del povero, per
disegnare un pezzetto della trama della sua vita.

L’Africa ci può consegnare un ideale pieno di dignità, qualcosa più
grande di noi per cui vivere. Percorrerò questa strada una sola volta: che
questa mia vita abbia un minimo di senso, anche se nascosto a molti.

Giuseppe Meo
 
Biografia


Una Storia Esemplare

Dal primo viaggio di conoscenza in Africa nel 1969,
all’ultimo, a Bunagok, Sud Sudan, giugno 2012. 
Quarantatré splendidi anni al servizio dei più poveri. Chi era Giuseppe
Meo. Nato nel 1938, laureatosi a Torino nel 1962, e poi
specializzatosi in chirurgia d’urgenza e toracica, fondò nel 1968 con un gruppo
di amici e colleghi il Comitato Collaborazione Medica (Ccm) di Torino, Ong
dedicata allo sviluppo sanitario.

Dopo il suo primo periodo di lavoro medico in un ospedale
rurale in Kenya negli anni 1970-1972 con la moglie Carla e i figli Alberto,
Antonella e Daniela, la pratica della medicina e della chirurgia in Africa
divenne il motivo profondo della sua vita.

Fece numerose missioni chirurgiche in diversi paesi, Sud
Sudan, Uganda, Mozambico, Etiopia, accanto al lavoro come chirurgo
nell’ospedale di Cuneo in Italia, da cui si dimise nel 2000 per dedicarsi
completamente all’attività nel Ccm. Grazie al prof. Meo l’Ong cominciò la sua
attività in Sud Sudan nel 1984, nella città di Wau nello Health Training
Institute, e dal 1991, a seguito di una richiesta del Splm (Sudan people
liberation mouvement), nelle zone liberate del Sud Sudan durante la guerra,
fondando e costruendo, insieme alle comunità locali e alle autorità Splm gli
ospedali rurali e i centri di salute di Yirol, Billing, Adior, Turalei,
Bunagok, ricostruendo e rimettendo in attività l’ospedale di Rumbek dopo la
distruzione della guerra e facendo numerose missioni chirurgiche in aree
remote. Il prof. Meo con il Ccm è stato accanto al popolo sudanese in tutti gli
anni di guerra. Durante una di queste missioni nel 1995 fu catturato
dall’esercito governativo del Sudan in Upper Nile e tenuto prigioniero per 55
giorni.

Nel corso degli anni il destino del prof. Meo (chiamato
Mayodit in Sud Sudan) si è fuso con il destino del popolo sud sudanese. Il
motivo dominante della sua incessante attività, in Sud Sudan e in Italia, è
stato «portare le cure chirurgiche a quelli che ne hanno più bisogno, i poveri
e le comunità rurali, anche nelle condizioni più difficili».

I tre principi operativi a cui si è ispirato il suo lavoro
sono stati costantemente: la partecipazione della gente, della comunità locale;
la formazione e la crescita del personale locale; la tecnologia appropriata,
perché le risorse sono poche e bisogna sfruttarle nel modo più efficace ed
economico. Con questi principi il prof. Meo ha dato un grande contributo a
estendere la chirurgia di base in aree molto remote, fino ad allora mai
servite.

Ha anche dato dignità scientifica a questo lavoro,
presentandolo in convegni e riviste mediche inteazionali, rendendolo noto
alla comunità chirurgica internazionale. Era orgoglioso, negli ultimi mesi, di
aver contribuito al Southe Sudan Medical Joual, e la morte l’ha colto
mentre aveva progetti di estendere questa preziosa collaborazione.

Il popolo sudanese, insieme al Ccm, perde un grande amico e
compagno di viaggio. Il prof. Meo ci lascia con la sua vita e la sua attività
un forte messaggio: si può lavorare con buoni risultati anche nelle condizioni
più difficili, se si rispetta la dignità di ogni uomo.

Francesco Torta
 
Il libro
 
«Africa Malata. Memorie di chirurgia povera in Sudan».


L’Harmattan Italia, 2010, pagg. 296, € 35.
 
Il libro può essere acquistato presso il Ccm, per info: tel. 011.6602793 www.ccm-italia.org.

Da questa pubblicazione sono stati tratti i brani usati in
questo articolo.

Giuseppe Meo




I Warao: gente da canoa

Situazione economica e culturale degli amerindi Warao
Vivono sul delta del fiume Orinoco, nel Venezuela orientale; in
maggioranza abitano in case con tetto di paglia sopra palafitte, al riparo
dalle fluttuazioni delle maree; vivono di pesca, caccia e raccolta dei frutti
della foresta: sono i Warao, popolazione amerinda unica nel suo genere per
storia e cultura millenaria. Ma il confronto con il mondo occidentale moderno
sta minacciando di disintegrare la loro cultura insieme alla loro
organizzazione economica e sociale.

Da una decina d’anni un gruppo di
missionari e missionarie della Consolata condividono la vita, annunciando il
Vangelo di Cristo, con i Warao, un’etnia amerinda che da molti secoli vive
sulle sponde delle numerose ramificazioni del Delta dell’Orinoco, nel Nord Est
del Venezuela.

Proprio qui, alle foci
dell’Orinoco, giunsero Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci nel loro terzo
viaggio, nel 1498-1499, e chiamarono questa terra Venezuela, ossia Piccola
Venezia. Giunto a queste sponde il 5 agosto 1498, Colombo scrisse nel suo
diario: «Divisé unas tierras – las más hermosas del mundo – y muy poblada…
Corrí esta costa hasta el cabo de la sierra y me ha encantado la belleza de su
vegetación… Artísticas frondes cubren el piedemonte costero… Grandes
indicios son estos del Paraíso terrenal… Esta es una tierra de gracias
».

Qui vivono i Warao

L’Orinoco è il fiume più grande
del Venezuela e il terzo dell’America del Sud. È uno dei fiumi più ricchi
d’acqua del mondo, con una media annua di 38 mila litri al secondo.
Attraversata Ciudad Guayana, il fiume si dirige verso l’Oceano Atlantico,
trasformandosi in una complessa rete idrografica, dividendosi in numerosi rami,
lagune, zone allagate, che si intrecciano tra loro fino a raggiungere l’Oceano
dopo oltre 200 km. Tutta questa regione si chiama Delta Amacuro o Delta del Río
Orinoco, con una superficie approssimativa di 22.000 km quadrati.

Gli ecosistemi terrestri e
acquatici sono caratterizzati da una grande diversità biologica. L’area
terrestre è ricoperta da una fitta foresta tropicale che conta più di 2.000
specie di piante catalogate. Inoltre, ricchezza di uccelli (464 specie),
rettili (76 specie), anfibi (39 specie), mammiferi (151 specie), pesci (410
specie), e infine una grande quantità di invertebrati. Le terre del Delta sono
abitate da tempi remoti dall’etnia indigena dei Warao.

Il termine warao ha molti
significati. In primo luogo significa «abitante dell’acqua», «gente di curiara»
(di canoa) e anche «gente di spiaggia». Allo stesso tempo, warao
semplicemente significa gente o persona in opposizione ad altri esseri non
umani.

La storia orale warao racconta
che gli antenati arrivarono al Delta dell’Orinoco camminando, dall’isola di
Trinidad, in un’epoca in cui esisteva un ponte terrestre tra questa isola e il
continente. Esitono parecchie teorie sulla provenienza di questo popolo; la più
accettata, però, è quella che li vede arrivare dalle Ande Peruviane molti
millenni fa. Per i loro tratti somatici non si esclude neanche un’origine
asiatica. Il loro vivere sui fiumi, in prossimità del mare, in zone di così
difficile accesso, si determinò in seguito, per fuggire da altre tribù più
guerriere.

Il censimento dell’anno 2001
registrava circa 40 mila indigeni di questa etnia, ma di certo sono molto più
numerosi. Dopo i Wayúu dello stato Zulia, i Warao rappresentano la seconda
etnia indigena più numerosa del Venezuela.

Per poter conoscere il popolo
warao è necessario partire dai vari elementi che costituiscono la sua
organizzazione socio-culturale, politica, economica e religiosa; organizzazione
influenzata e condizionata dall’ambiente in cui vivono, caratterizzato da tutta
una rete di fiumi grandi e piccoli, che circondano lingue di terra totalmente
inondate o pantanose, ricoperte da una esuberante vegetazione tropicale. Il
viaggio è molto bello: tutto in curiara (canoa), unico mezzo per
raggiungere questo popolo, attraversando paesaggi di una bellezza meravigliosa.

Aspetto socio-economico

La prima cosa che colpisce dei
Warao sono le loro case: palafitte, chiamate janoko (luogo dell’amaca)
disposte in fila lungo la sponda del fiume. Generalmente esse sono aperte, il
tetto ricoperto con foglie di palma, o, per i più fortunati, con lamiere.
Alcuni hanno iniziato a chiuderle con pareti di tavole di legno o, per chi non
ha i mezzi economici, con le stesse foglie della palma.

La durata di queste case è molto
ridotta: è normale per un warao ricostruire la casa ogni 8-10 anni.
L’arredamento è molto essenziale: l’amaca per dormire e per riposare, ceste o
borse appese con i vestiti e altri effetti personali; un angolo della casa è
adibito per cucinare a legna.

Le famiglie warao generalmente
sono molto numerose, non solo perché hanno molti figli, ma anche perché,
secondo la loro cultura, le figlie, quando si sposano, portano in casa il
marito.

Le famiglie del villaggio sono unite
fra loro da forti legami di solidarietà e mutuo aiuto. La comunità, un tempo,
era prettamente di carattere familiare, «comunità-famiglia», non stabile in un
luogo, ma itinerante, alla ricerca di zone capaci di soddisfare i bisogni
alimentari. Ora, con l’introduzione dei lavori salariati, dell’agricoltura e
della scuola, là dove è presente, c’è maggiore stabilità e apertura della
comunità a diversi gruppi familiari.

Tradizionalmente per i Warao il
lavoro serviva a sopravvivere, cioè soddisfare la fame, conservare la salute e
la vita. Essi si fabbricano la maggior parte dei loro utensili: amache (chinchorros),
ceste, capanne, curiare (canoe), arponi e reti per la pesca, ecc. Oggi possono
contare su qualche motore fuori bordo, anche se costituisce per loro un
articolo di lusso, a causa delle spese di manutenzione.

Il mezzo di trasporto
fondamentale rimane la curiara, ricavata scavando tronchi di alcuni tipi
di alberi e poi impermeabilizzata al fuoco. Usare la canoa e nuotare sono tra
le prime cose che un bambino impara.

Questi strumenti semplici di loro
fabbricazione, combinati alla loro profonda e dettagliata conoscenza dei
diversi ecosistemi e ambienti del delta, permettono ai Warao di vivere e
approfittare delle risorse delle aree fluviali, dei boschi inondabili e delle
zone litorali. Le attività tradizionali per la sussistenza erano, e lo sono
ancora per un buon numero di comunità, la pesca, la caccia e la raccolta di
frutta silvestre, realizzate solo per il consumo quotidiano. Quando ci si
procurava più del necessario era logico, e per molti lo è ancora, condividerlo.

Tra i Warao non esiste la
mentalità di accumulare, si vive alla giornata, si giornisce quando si ha e si
spera in un futuro migliore quando non si ha. Sono molto semplici e accolgono
sempre con grande cordialità; non chiamano mai chi li visita «straniero o
forestiero», ma «dake» o «daka» (fratello, sorella).

La natura è per loro una madre
provvidente e per questo la rispettano. Essa è colei che dà loro la vita,
l’alimento, le medicine. Fondamentale per la sussistenza è la palma «moriche»
(Mauritia flexuosa L), che fornisce la materia prima per vari manufatti
e vari alimenti come la frutta o palmito;
inoltre, dal tronco si estrae una specie di farina chiamata yuruma con
cui fabbricano un tipo di casabe che è il pane degli indigeni. Dalla
fermentazione della yuruma si fa, inoltre, una bevanda chiamata nojobo.
Dentro il tronco delle palme si sviluppano dei lombrichi di coleotteri, il Rhynchophonis
palmarum
, che costituiscono per i nativi un piatto squisito. I frutti sono
pure usati per la preparazione di bevande o sono consumati secchi e
abbrustoliti. Le radici hanno per i Warao molte applicazioni nella medicina
casalinga e per la fabbricazione di collane e braccialetti.

Ugualmente importante per loro è
la palma manaca (Euterpe oleracea Mart.). Occorre far notare che
i Warao sono i soli, tra gli aborigeni del continente americano, che ancora
estraggono il sagù (yuruma) dalla palma moriche. La selva
fornisce inoltre molti altri tipi di frutta.

L’attività agricola fu introdotta
a poco a poco nel secolo scorso. Gli anziani ricordano ancora quella che fu per
loro una novità: seminare e piantare alimenti.

Cambiamenti radicali

A partire dalla metà del secolo
scorso, l’influsso dei Creoli (venezuelani) si fece presente nei territori dei
Warao, provocando cambi radicali nella loro situazione socio-economica; uno di
essi fu l’introduzione dell’agricoltura. Infatti questa attività obbligò
centinaia di comunità indigene ad abbandonare la propria vita transumante di
pescatori e raccoglitori nei morichales (zone intee dove si trovano le palme
di moriche), e ad adattarsi a una vita sedentaria di orticoltori e pescatori
stanziati nelle aree litorali dei canali del Delta.

L’agricoltura esercitata in
piccole aree (conuchi), si basa sulla coltivazione dell’ocumo cinese
(pianta erbacea con tubercoli commestibili). Essa produsse una buona fonte
alimentare e questo, insieme alla buona fonte di proteine ottenute con la
pesca, permise un sostanziale incremento sia nel numero dei villaggi come degli
abitanti in ciascuno di essi.

lavoro itinerante
salariato

Man mano che i Warao andavano
incorporando elementi della cultura creola (strumenti di metallo, nailon per la
pesca, fucili, tessuti, motori fuori bordo, benzina, ecc.) si creò per loro la
necessità di introdursi nell’economia monetaria. Il primo passo si effettuò con
la produzione di articoli artigianali che venivano venduti in Barrancas e
Tucupita, le due città creole della terra- ferma più vicine, che davano pure la
possibilità di acquistare prodotti commerciali.

Attualmente i Warao, specialmente
le donne, elaborano una buona quantità di oggetti di piccolo artigianato
(amache, ceste, borse in fibra di moriche, collane e braccialetti, ecc.)
che vendono nei centri urbani. L’apparizione delle barche a motore fece
aumentare le spese, ma facilitò le attività commerciali, riducendo il tempo dei
viaggi dal Basso Delta ai centri di Barrancas e Tucupita, da più giorni a sole
8-9 ore, ora anche meno.

A partire dagli anni ‘80 alcuni
membri di comunità warao iniziarono a lavorare come salariati alle dipendenze
dei creoli, quando questi aprirono attività industriali nell’Alto e Basso
Delta, come iniziative agropecuarie, pesca di acqua dolce e marina, segherie e
anche una fabbrica di palmito. Tutte attività poi fallite, lasciando
danni all’ambiente e impoverendo i Warao, in generale mal pagati.

Tuttavia la circolazione del
denaro cominciò a influire sulle relazioni tra le famiglie e gli stessi
villaggi: prima di tutto è iniziato a rompersi quel sistema di unione e
collaborazione reciproca che fino ad allora aveva mantenuto unite
affettivamente ed economicamente le famiglie estese di uno stesso villaggio.

Le donne cominciarono a perdere
il loro potere amministrativo nelle famiglie, dato che il sostentamento della
famiglia dipendeva ormai dagli uomini, i quali decidevano come spendere le
entrate. Il denaro causò la nuclearizzazione della famiglia estesa, crebbe
sempre più la compra-vendita dei servizi necessari alla vita quotidiana (cibo,
trasporti, costruzione di abitazioni, taglio e preparazione dei conuchi
o aree coltivabili, ecc.).

Cambia il sistema tradizionale di autorità

Nel tentativo di soccorrere la
situazione dei Warao, il governo, tramite i governatori locali, favorì la
creazione di vari incarichi con salario in ogni comunità: commissario,
poliziotto, incaricato del trasporto degli studenti, responsabile della
centrale elettrica del villaggio (un semplice gruppo elettrogeno). Inoltre,
nelle scuole rurali e nei dispensari medici uomini e donne poterono lavorare
come maestri, infermieri, cuochi, ecc…

Nonostante i benefici economici
portati da queste nuove fonti di entrate, tale cambiamento produsse seri
problemi nell’ambito della gerarchia e dell’autorità tradizionale. La direzione
e il controllo della comunità era, da sempre, affidata al fondatore del
villaggio, il più anziano, chiamato «Aldamo», il quale esercitava il suo
potere in quanto considerato un uomo saggio, capace di prendere decisioni
corrette a favore di tutta la comunità.

Ora, col nuovo sistema, il potere
era affidato a un affiliato del partito politico che era al governo. Questa
nuova situazione a livello di commissario politico e polizia, è risultata
estremamente delicata e minaccia sempre più l’unione della famiglia
tradizionale. La politica è sempre meno al servizio del popolo e del suo bene,
ma approfitta dell’immagine indigena per i propri interessi economici.

Infine, con astuzia o per
legittime ragioni, i warao impiegati del governo debbono trasferirsi ogni 15
giorni a Tucupita, per riscuotere il salario. Naturalmente questo sistema
garantisce ai commercianti di Tucupita delle buone entrate, perché quegli
impiegati sono obbligati a fermarsi là per più giorni e di conseguenza devono
spendere gran parte del salario in vitto, alloggio e viaggio…

L’Educazione

Nella tradizione warao le
conoscenze culturali venivano trasmesse da parte degli anziani ai bambini e ai
giovani attraverso il racconto di miti e storie vissute, mentre i vari lavori,
l’uso di attrezzi, le rotte navigabili dei fiumi non venivano e non vengono
tutt’ora insegnati attraverso spiegazioni orali, ma si imparano attraverso
l’osservazione e l’esperienza personale.

L’educazione scolastica arrivò
nel Delta solo negli anni ‘30 con i missionari Cappuccini che fondarono due
collegi. Negli anni ‘50 questi religiosi costruirono in varie comunità piccole
scuole e dispensari affidandoli a donne warao, preparate nei collegi di cui
sopra. Alcuni anni più tardi il governo si prese carico di queste strutture.

Purtroppo le scuole in queste
zone sono molto poche e piccole rispetto al numero dei bambini, e assicurano
solo il ciclo elementare. Le condizioni in cui si studia sono molto precarie:
non ci sono banchi, i bambini, seduti per terra, non hanno che il loro quaderno
e la matita.

Fortunatamente adesso i maestri
sono quasi esclusivamente warao; però, nonostante la buona volontà, mancano
spesso di metodologia e soprattutto di materiale didattico da consultare e
usare per rendere le lezioni meno pesanti e più proficue. Purtroppo i programmi
scolastici sono quelli nazionali, perciò non conformi alla realtà di un popolo
indigeno né rispettosi della sua cultura.

Lo studio superiore è stato
sempre privilegio di pochi: da alcuni anni sono iniziati tre licei in tre zone
diverse del Basso Delta. E anche lì ci sono problemi: mancanza di strutture e
libri, assenteismo di professori creoli, che devono venire da Tucupita. Inoltre
la maggioranza degli insegnanti non ha una adeguata formazione professionale.

L’educazione scolastica, pur
essendo un bene e un diritto, ha rappresentato un altro elemento di rottura nel
modo di vivere tradizionale, in quanto, dovendo andare a scuola, i bambini non
possono andare al conuco, a pescare, a cacciare, a raccogliere legna o
frutta con i genitori e così imparare a fare questi lavori e conoscere i
segreti della foresta. Di conseguenza, insieme ad altri motivi, i genitori sono
restii a inviare costantemente i bambini alla scuola. 

Per quel che riguarda la salute,
ci sono pochissimi centri a cui ci si possa rivolgere per visite e cure.

Aspetti culturali-religiosi

Pur vivendo cambiamenti
culturali, il popolo warao non ha perso le sue credenze religiose sempre ben
radicate, che determinano la sua cosmo-visione. Si crede negli spiriti e in una
autorità religiosa. Per i Warao la natura è abitata da spiriti, padroni dei
diversi elementi come acqua e selva: entrambi hanno il proprio spirito. Ne
consegue che uno non può entrare in una selva e tagliare gli alberi così come
gli pare, perché, se lo fa, può venire castigato dallo spirito della foresta.

Ci sono poi gli spiriti degli
antenati e un essere supremo chiamato Kanobo (nostro nonno). Un elemento
culturale importante è senza dubbio la celebrazione del rito Najanamu,
un importante appuntamento religioso tra le comunità warao, perché mette in
evidenza la relazione tra la comunità e questo essere supremo, Kanobo,
che ha il potere di proteggere i membri stessi della comunità, allontanando le
disgrazie che possono colpirla.

L’autorità religiosa propria è il
wisidatu, il medico tradizionale. Egli ha il potere di proteggere dagli
spiriti cattivi, e allontanarli, quando entrano in un corpo provocando le
malattie, attraverso il canto e il suono della maraca (strumento
musicale). La morte è naturale se avviene dopo una lunga esistenza, altrimenti è
causata dagli spiriti, che si impadroniscono del corpo in conseguenza del
mancato rispetto delle regole culturali o della natura o, più spesso, in
conseguenza di un malocchio causato da qualcuno che vuole procurare danno alla
persona.

Alcune comunità formate da
ex-studenti dei collegi dei Cappuccini hanno accolto anche la fede cristiana,
ma il cammino di evangelizzazione è ancora lungo.

Un popolo in migrazione

La cultura creola (venezuelana)
appare agli occhi dei giovani più affascinante e provoca, conseguentemente,
mancanza di interesse per i propri valori culturali e tradizioni, iniziazione
ad altri costumi e nuove esigenze. È questa una delle ragioni che porta molti
Warao a emigrare a Barrancas e Tucupita. Lì vivono ai margini della città,
cercando lavori saltuari, diventando scaricatori di porto o raccoglitori di
lattine o rifiuti. Molti però, specialmente le donne, si sono dati
all’accattonaggio nelle città, come Puerto Ordaz, Puerto La Cruz, Valencia e
Caracas, tra le più gettonate. Ma per un warao si tratta di una nuova maniera
di vivere, meno faticosa: la città rappresenta una foresta più facile a cui
accedere e con maggior varietà di alimenti.

Tutto ciò crea una grande
preoccupazione soprattutto per i bambini che nascono in tale situazione, perché,
mentre la maggior parte degli adulti riesce in qualche modo a scegliere dove e
come vivere, un bambino nato in Barrancas o Tucupita mancherà in futuro della
capacità necessaria per vivere nei canali e pantani del Delta. Non avrà la
minima idea di come e dove pescare, di di dove e come seminare e piantare, di
quali alberi producono materiale combustibile o frutta. Una volta cresciuti,
questi giovani, se non verranno incorporati nell’economia creola con una certa
dignità, saranno condannati a vivere una vita miserabile da mendicanti.

Dal 2010 la diocesi di Tucupita
ha incluso nel suo progetto pastorale indigenista l’organizzazione di un «Simposio
indigeno warao» sul tema «Movilización y migración del pueblo Warao»
(mobilitazione e migrazione del popolo Warao) per studiare questo fenomeno e
per cercare cammini di speranza per queste comunità che vivono tutt’ora in
stato di abbandono da parte del governo.

 
Giuseppe Bono e Ivana Cavallo

Giuseppe Bono e Ivana Cavallo




Uomo Nero, Torna A Casa Tua

Reportage da Israele:
la dura vita dei richiedenti asilo africani.
A migliaia,
fuggiti da conflitti africani, si ritrovano in Israele dopo un viaggio impossibile.
Ma per i richiedenti asilo l’integrazione è molto difficile. Non esiste una
legge che li tuteli. I politici di destra al governo li considerano una
minaccia. Le associazioni denunciano: immigrazione gestita su base religiosa.

Corre per oltre 250 chilometri il susseguirsi di reti e
muri che dividono il deserto del Sinai da Israele. Tel Aviv ha deciso la
costruzione di queste barriere per bloccare il flusso di migranti che negli
ultimi anni arriva sempre più copioso dall’Africa sub-sahariana. Sono i figli
dell’Africa nera: eritrei, somali, sudanesi, congolesi, nigeriani, ivoriani che
scappano dai loro paesi dilaniati da guerre, tanto lunghe quanto cruente.
Attraversano il deserto del Sahara e in molti scelgono di proseguire per
l’Egitto e la Libia, i più «fortunati» s’imbarcheranno per il tragico viaggio
verso Lampedusa. Una parte minoritaria decide di continuare a piedi attraverso
il deserto del Sinai, verso quella che in Europa definiamo «l’unica democrazia
del Medioriente». Israele accetta di malavoglia i richiedenti di asilo
politico. Sono decine le denunce di associazioni umanitarie, israeliane e
inteazionali, che parlano di soldati che sparano contro uomini e donne mentre
questi tentano di superare il confine tra Israele ed Egitto.

Respinti a fucilate

Yaki ha finito il servizio militare da qualche anno e ora studia
in una grande città europea. Per oltre dodici mesi ha pattugliato il confine
meridionale israeliano: «Da lì entrano i terroristi. Sono quelli che hanno
fatto scoppiare gli autobus negli anni passati». Yaki non è un estremista di destra, né uno
sprovveduto facilmente influenzabile dalla propaganda governativa. Nato e
cresciuto in una famiglia israeliana della media borghesia, a 18 anni è stato
catapultato in 36 mesi di servizio militare obbligatorio. «Personalmente –
continua l’ex militare – non ho mai sparato contro i migranti, ma ho negli
occhi l’immagine di una notte in cui una pattuglia ha iniziato a fare fuoco
contro un gruppo di donne. Non ci sono stati morti, ma quando abbiamo parlato
con loro ci hanno raccontato che erano state tutte rapite e violentate per mesi
dai beduini nel deserto». Le donne di cui racconta Yaki, come la maggioranza
degli africani che arrivano in Israele attraversando il Sinai, sono state
trasferite in un centro di detenzione nel deserto nel Neghev, Sud del paese,
per essere identificate, seguendo lo stesso principio dei Cie (Centro di
identificazione ed espulsione) e Cara (Centri di accoglienza richiedenti asilo)
in Italia.

Dal maggio 2012 a Tel Aviv è stato messo in funzione un nuovo
centro di detenzione che, a pieno regime, potrà ospitare fino a 16mila persone
nel Neghev. È stato definito, dai pochi a cui è stato permesso l’accesso, «un’immensa
prigione di tende e prefabbricati nel deserto». Da ottobre la polizia di
frontiera ha iniziato a respingere nel deserto del Sinai i rifugiati africani,
un’altra triste analogia con la politica di contenimento all’immigrazione
attuata dall’Europa.

La storia di Oscar

Tel Aviv è la città simbolo della nascita
dello stato ebraico, un agglomerato urbano dove vivono circa tre milioni di
persone, quasi la metà della popolazione israeliana. Le prime case spuntarono a
inizio anni ’40, come periferia di Jaffa, uno dei più antichi e conosciuti
porti arabi del Mediterraneo. Con la creazione dello Stato ebraico, nel 1948,
si costruirono velocemente i grandi palazzi sulla spiaggia, che tutt’ora
ospitano i più rinomati alberghi d’Israele, costituendo uno skyline
simile a una grande città della Florida.

Le case degli arabi residenti a Jaffa, per lo
più scappati durante la guerra del ’48, vennero inglobate nel grande processo
di urbanizzazione. Dopo 60 anni Tel Aviv è diventata una delle città più care
al mondo per acquistare casa. Si sono concentrati qui soprattutto i giovani e
la parte meno religiosa d’Israele, lasciando Gerusalemme agli ultra-ortodossi.

A Tel Aviv sorge il più importante aeroporto
d’Israele, l’unico che fa atterrare i voli di linea inteazionali. Ed è qui
che diciotto anni fa atterrò l’aereo di Oscar Oliver, 45 anni, congolese. Oscar
scappava da un conflitto lungo e sanguinoso come solo le guerre civili sanno
essere. Era portavoce del sindacato studentesco e per le sue idee venne
arrestato e perseguito. Scappò dal Congo all’Egitto «ma non mi andava di
passare da una dittatura a un’altra» quindi chiese e ottenne un visto
lavorativo per arrivare in Israele. Ora è uno dei 60mila africani richiedenti
asilo politico residenti in Israele senza documenti. Oscar vive in clandestinità
con sua figlia, 9 anni, nata a Tel Aviv, ma senza la residenza israeliana. «Il
problema – spiega Oscar – è che le autorità gestiscono l’immigrazione su una
base religiosa. Non ci sono leggi che regolamentino l’ingresso di persone in
pericolo, questo è il cuore della questione: non c’è una legge per accogliere
chi non è ebreo». Dal punto di vista legale, Israele ha firmato la Convenzione
di Ginevra, che sancisce i diritti delle vittime di guerra e più in generale il
diritto internazionale umanitario, ma si rifiuta di riconoscere lo status di
rifugiato.

Oscar, come circa l’ottanta percento dei
richiedenti asilo africani, vive in una bolla di Tel Aviv, il quartiere di Neve
Sha’an, che sorge attorno all’enorme stazione dei bus. In Israele non c’è un
sistema ferroviario efficiente, gran parte della popolazione si muove con
modei bus verdi. I prezzi sono bassi e le rotte coprono tutto il paese. Come
in ogni grande centro urbano il quartiere accanto alla stazione è uno dei più
degradati della città: case fatiscenti, pochi servizi e ancor meno sicurezza.
Il picco del degrado è certamente il parco Levinsky, un paio di ettari in pieno
centro a Tel Aviv, esattamente alle spalle della stazione degli autobus. Qui
dorme ogni notte qualche migliaio di persone, tutte africane, buona parte delle
quali in Europa sarebbero inserite nel processo di richiesta di asilo politico.

Infiltrati o rifugiati?

Ci sono in Israele circa 60mila rifugiati
africani, di cui circa 40mila sono eritrei, altri 15mila vengono dal Sudan, metà
dei quali sono cristiani provenienti dal Sud Sudan mentre l’altra metà arriva
dal Darfur e sono musulmani. Fino alla scorsa primavera c’erano circa 2mila
persone originarie della Costa d’Avorio, ma negli ultimi mesi sono state in gran
parte deportate.

Al momento le autorità stanno cercando di
fare rimpatriare anche parte dei rifugiati fuggiti dal Sud Sudan. Le
espressioni usate per definire i richiedenti asilo politico sono al centro di
una campagna condotta dal governo israeliano: non vengono chiamati rifugiati,
ma infiltrati, quasi a richiamare il termine utilizzato per gli attentatori
palestinesi durante la seconda intifada. Il governo non parla di deportazioni,
termine troppo simile a quello usato in Europa negli anni ’30 e ’40, ma di
rimpatri volontari «anche se in molti – racconta Oscar – sanno che tornando nei
loro paesi d’origine troveranno i loro aguzzini ad aspettarli».

L’Ong Human Rights Watch ha accusato
il governo israeliano di contribuire a creare un’atmosfera negativa nei
confronti dei migranti. Secondo il sondaggio pubblicato a inizio novembre dal
quotidiano Israel Hayom, sembra che la strategia abbia funzionato: il
52% degli israeliani non vorrebbero come vicino di casa un lavoratore
straniero. Nell’ultimo anno ci sono state molte manifestazioni contro i
migranti africani organizzate da vari movimenti di destra sia a Tel Aviv che a
Gerusalemme. In una di queste marce Michael Ben Ari, un parlamentare
israeliano, ha incitato la folla urlando: «Io lo so, sono venuti per distruggere
il paese». Durante l’ultima estate si sono registrati attacchi fisici almeno
una volta alla settimana. Persino un asilo nido, frequentato per la maggioranza
da bambini eritrei, è stato dato alle fiamme.

I partiti di destra che governano il paese hanno una posizione
molto netta sui rifugiati africani e non perdono occasione per rimarcarla. Il
primo ministro Benjamin Netanyahu ha definito i migranti africani come una
minaccia all’identità dello stato ebraico. Elli Ishai, ex ministro
dell’Inteo, ha dichiarato a una tv israeliana: «La soluzione è chiara.
Neghiamo loro il permesso di lavorare, li imprigioniamo e li rimandiamo in
Eritrea». Miri Regev, già parlamentare: «I sudanesi sono un cancro nel corpo
della nostra nazione». Danny Dannon, parlamentare: «La soluzione è parlare
apertamente di deportazione. Dobbiamo deportare gli infiltrati».

«Gli africani che arrivano in Israele non sono alla ricerca di un
lavoro, ma di protezione» ripetono invece come un mantra gli attivisti e i
pochi politici che da anni lavorano per integrare i rifugiati nella società
israeliana. La possibilità di essere impiegati, se non in nero, è molto bassa,
perché lo stato ebraico non riconosce ai richiedenti asilo un permesso di
lavoro. Questa condizione spinge ancora più in basso i rifugiati, infatti molti
di loro sono stati costretti a pagare un riscatto per essere rilasciati, dopo
essere stati sequestrati in Sinai. I trafficanti chiedono fino a 10mila
dollari, una cifra enorme per i paesi dell’Africa sub-sahariana. Le famiglie
per aiutare i propri ragazzi s’indebitano, debito che ricade sulle spalle dei
richiedenti asilo.

Il lavoro dei Volontari

Israele è una nazione composta per l’ottanta percento da figli e
nipoti di rifugiati. Ed è proprio su questo punto che insistono i volontari di Levinsky
Soup
(La Zuppa di Levinsky), un gruppo di cittadini, che da febbraio dello
scorso anno aiuta gli africani che vivono nel parco. Iris ha studiato in Italia
due anni e ha una vaga idea di come funziona il programma di protezione per i richiedenti
asilo in Italia e in Europa: «Il problema qui è governativo ed è sicuramente
l’agenda per la quale il paese deve rimanere a maggioranza ebraica. È una cosa
razzista. Non vogliono aiutare o permettere ad altre persone di restare qui. Ma
non si prendono nemmeno il tempo di controllare se questi ragazzi hanno i
requisiti o meno per ottenere l’asilo politico». Mentre Iris parla si forma una
lunga coda, gli africani ordinatamente aspettano l’unico pasto caldo della
giornata. «La cosa che non ha senso – continua Iris – è che Israele è composto
per la maggior parte da seconde o terze generazioni di rifugiati
dell’Olocausto. Dobbiamo aiutare i rifugiati africani come obbligo verso i
nostri padri, che si sono salvati, che da rifugiati hanno creato uno stato».
Shlomo arriva al parco su una bici che traina uno strano carretto, ci sono
dentro due pentoloni: «Più di venti chili di riso bianco, la base dei nostri
pasti. Serviamo ogni sera tra i 500 e gli 800 piatti, più di qualsiasi ente di
solidarietà in Israele». Levinsky Soup è un gruppo informale di
cittadini che si è autorganizzato lo scorso inverno dopo la morte per ipotermia
di un rifugiato nel parco. «Non ci è sembrato possibile – spiega Shlomo mentre
scodella il riso – siamo rimasti scioccati e come singoli cittadini abbiamo
deciso di fare qualcosa. Questo è un paese accogliente, lo è stato con i nostri
genitori e noi dobbiamo esserlo con altri». Passeggiando per il parco si vedono
coperte e buste di plastica piene di vestiti incastrate all’incrocio dei rami
degli alberi. «Israele – continua Shlomo – ha già dovuto affrontare la
questione dell’immigrazione di massa. Abbiamo gestito quasi un milione di
arrivi con la disgregazione dell’Unione Sovietica, non posso credere che il
governo sia traumatizzato da 60mila rifugiati africani. Vorremmo vedere la
democrazia applicata per tutti e non solo per gli ebrei».

Per gli abitanti del parco, se un pasto caldo è quasi
un’eccezione, l’accesso ai servizi sanitari è praticamente impossibile. L’Ong Physician
for Human Rights
, Phr, (Medici per i diritti dell’uomo) è una delle poche
associazioni alla quale si possono rivolgere i rifugiati. «Il 59% dei nostri
pazienti – racconta Ran Cohen, operatore dell’Ong – ha subito torture e abusi,
anche di carattere sessuale, durante il passaggio in Sinai. Phr ha una sede con
ambulatorio a pochi minuti a piedi dal parco, nulla a che vedere a confronto
dei grandi ospedali privati della zona Sud di Tel Aviv, ma da qui passano ogni
settimana centinaia di richiedenti asilo. L’Ong lavora contrastando
quotidianamente le difficoltà di un lavoro «scomodo»: aiutare decine di
migliaia di persone che non sono benvenute a causa della provenienza, della
loro religione: «Aiutare i rifugiati – conclude Ran – è quasi un crimine in
Israele».

 Cosimo
Caridi

Cosimo Caridi




«Venerando Dio in te… Buongiorno!»

Esperienza di Dialogo Interreligioso in Corea: Alla scoperta del
«SOO-WOON-KYO», religione autoctona coreana.
La presenza dei missionari della Consolata in Corea del Sud è caratterizzata
dal dialogo interreligioso con le molte confessioni storiche e autoctone
presenti nel paese. Padre Diego ci racconta l’esperienza da lui vissuta con una
delle religioni nate di recente nel paese: un fine settimana con il
Soo-woon-kyo.

Lo spirito religioso in Corea
affonda da tempo immemorabile le sue radici nello sciamanesimo, nel buddismo e
nel confucianesimo. Su questa base preesistente, da poco più di 200 anni in qua
si è inserito con forza anche il cristianesimo. Oltre a queste religioni «maggiori»
però, esiste in Corea tutta una galassia di altre religioni molto più «piccole»,
ma non per questo meno importanti nel panorama religioso della nazione. Si
tratta delle cosiddette «religioni autoctone coreane».

Nate in
genere nella seconda metà del 1800 dall’illuminazione di fondatori che volevano
rispondere alla sofferenza e alla situazione di vera oppressione in cui versava
allora il popolo, queste religioni hanno trovato i loro migliori rappresentanti
nel ch’on-do-kyo (la religione della «Via del cielo») e nel buddismo-won
(buddismo nato in Corea); ma sono anche state sottoposte a un inarrestabile
processo di disgregazione, che ha portato alla nascita di innumerevoli altri
piccoli gruppi. Al momento della creazione, nel 1983, dell’Associazione delle
religioni autoctone coreane che le racchiude e rappresenta tutte, queste erano
ben 34! Anche se, da allora, diverse sono praticamente scomparse.

Nel
contesto del dialogo interreligioso, ho avuto una bella occasione per conoscere
e avvicinare, per la prima volta, una di queste piccole religioni autoctone,
chiamata «Soo-woon-kyo» (pronuncia: su-un-ghio), ed ecco che cosa
ho scoperto!

L’occasione

Dal 5 al 12 maggio si era
celebrata a Seoul, e per la prima volta in Corea, la «Settimana dell’Armonia
tra le religioni», sotto gli auspici della Conferenza coreana delle religioni
per la pace (Kcrp, Korean Conference of Religions for Peace), autentico
organo propulsore del dialogo interreligioso in Corea.

Il suo attuale presidente,
l’arcivescovo cattolico Igino Kim Hui-jung, e gli altri leaders delle 7
grandi religioni della Corea, avevano aperto solennemente la Settimana con un
grande «evento» nella centralissima piazza di Kwang-hwa-moon. Poi chiunque
avesse voluto, durante la settimana era invitato ad andare a visitare 7 «luoghi
santi» delle religioni in centro Seoul. A ogni luogo visitato, la persona
riceveva un timbro, che avrebbe poi dato diritto a partecipare al programma
seguente, pensato dalla Kcrp: un fine-settimana di «esperienza diretta» presso
qualcuna delle religioni della Corea. Vivendo ormai da quasi quattro mesi a
Dae-jeon, città a 170 km da Seoul, dove noi missionari della Consolata stiamo
costruendo il nostro nuovo Centro di dialogo interreligioso, avevo potuto
partecipare solo ai momenti più importanti della «Settimana dell’Armonia tra le
religioni», ma poi ho scoperto con piacere che uno dei fine-settimana di «esperienza»
delle altre religioni si sarebbe svolto proprio a Dae-jeon, e mi sono subito
iscritto per partecipare.

Si trattava di far visita,
conoscere e sperimentare, per quanto possibile, la religione Soo-woon-kyo. Non
ne avevo mai sentito parlare prima, e perciò ero particolarmente incuriosito.
Il fine-settimana in questione era da venerdì 13 a domenica 15 luglio. 

I partecipanti

Vivendo a soli 5 km dal quartier
generale del Soo-woon-kyo, sono arrivato presto al luogo del raduno, e ho
cominciato a salutare i presenti. Innanzitutto il segretario generale
dell’Associazione delle religioni autoctone coreane, di cui il Soo-woon-kyo fa
parte, il signor Kim Jae-wan, una simpatica persona di una certa età, che mi ha
preso subito a benvolere (ero l’unico straniero presente!) e che è rimasto con
noi per tutto il tempo. Ho salutato poi il professor Pak Kwang-su, del
Buddismo-won, un caro amico che non vedevo da molti anni, e altri ancora.
Infine è arrivato il pullman da Seoul, da cui è sceso un folto gruppo di
partecipanti, guidati dal professor Pyon Jin-hung, cattolico e segretario
generale della Kcrp.

Tra i partecipanti, conosciuti
poco a poco durante il fine settimana, c’erano una monaca e un monaco buddisti;
una signora confuciana; alcuni buddisti laici; altri non meglio identificati
(si trova un po’ di tutto nell’ambiente del dialogo interreligioso!); e un buon
gruppo di cattolici. Stranamente i protestanti, che di solito si trovano
dappertutto, hanno brillato per la loro assenza: hanno fatto solo una fugace
apparizione per qualche ora un prete anglicano e un pastore protestante che
partecipano regolarmente agli incontri della Kcrp. In tutti eravamo quasi una
trentina.

Ai partecipanti «estei», però,
bisogna aggiungere tutti i volontari del Soo-woon-kyo, che erano là ad accoglierci
e accompagnarci. Erano tutti vestiti, uomini e donne, con una classica
giacchettina coreana grigia, sulla quale spiccavano ben visibili le strisce di
5 colori che contrassegnano il Soo-woon-kyo: il giallo, il rosso, il verde, il
bianco e il nero, che simboleggiano l’universo. Tra di essi c’erano gli «esperti»
della religione, incaricati di spiegarcela e mostrarcela, i «sacerdoti» che
presiedono ai riti e le signore che, come da tradizione, si sono occupate della
cucina per tutti noi (radicalmente vegetariana!).

La prima cosa che tutti abbiamo
imparato dal Soo-woon-kyo è il modo di salutare. Non si dice semplicemente «buongiorno»,
ma si fa riferimento al Dio del cielo (ovviamente inteso in senso orientale,
non una entità «personale» come siamo abituati a pensarlo noi); un Dio presente
sia in me sia nella persona che mi sta davanti, viene «riconosciuto e venerato»
fin dal saluto. Perciò: «Venerando Dio in te… buongiorno!».

Visita ai luoghi sacri

Non c’è dubbio che i nostri
ospiti del Soo-woon-kyo abbiano dato fondo a tutta la loro fantasia, per
prepararci un programma da svolgere, che più «vario» non poteva essere.

Abbiamo cominciato con una visita
ai «luoghi sacri» della religione: questi sono immersi in un parco naturale
molto esteso e bellissimo, ai piedi del monte Kum-byong, pieno di alberi
secolari e di verde, campi coltivati a verdure e sentirneri che s’inoltrano nel
bosco. Abbiamo visitato innanzitutto il tempio centrale, To-sol-ch’on, che ci
ha rivelato subito la complessità di questa religione. Ci è stato spiegato che
un riquadro centrale dorato, al centro del tempio, rappresenta il «Dio del
cielo» (che non si vede e non si tocca); ma poi ci sono i simboli degli altri
personaggi che vengono venerati nella religione: Tan-gun (il mitico fondatore
della Corea); Buddha (nella sua versione «escatologica» di Amita-bul); e
Confucio. Questa religione infatti pretende di «unificare» in se stessa le
dottrine e i principi religiosi di Confucianesimo, Buddismo e Taoismo.

Accanto al tempio principale c’è
un altro tempietto che ospita l’immancabile campana, di cui ci sono state
spiegate le caratteristiche artistiche e di costruzione. La campana viene
suonata ogni mattina e ogni sera, ritmandone il suono alle invocazioni cantate
a Buddha. Infine il «Pop-hwe-dang», cioè il luogo dove si svolgono i
riti religiosi e la preghiera.

A tutto questo è da aggiungere
una costruzione modea, nella quale siamo stati ospitati e nella quale abbiamo
svolto tutte le attività del fine-settimana.

I riti

Il sabato mattino, alle 4.00,
eravamo tutti radunati nel luogo apposito per la preghiera. Fui colpito nel
vedere come ci fossero molti «sacerdoti», vestiti con un abito da cerimonia
molto particolare e in testa una specie di corona a cinque stadi. A tuo hanno
presieduto la preghiera, che consiste in una prima offerta solenne di incenso a
Buddha, seguita da una serie di prostrazioni profonde, e poi nella ripetizione
cantata del «credo» basico della religione; seguita da altri canti e
prostrazioni, durante le quali l’intera assemblea si gira tutta verso i quattro
punti cardinali. Il tutto è accompagnato dal suono ritmico del «mok-tak»,
tamburello di legno concavo, tipico strumento buddista. 

Anche la domenica abbiamo potuto
assistere alla celebrazione domenicale, questa volta per fortuna alle dieci del
mattino; celebrazione che si è svolta quasi uguale alla prima a cui avevamo
assistito, con l’aggiunta di una lettura dagli scritti del fondatore della
religione e una semplice spiegazione/omelia sulla parte letta; per l’occasione,
aveva a che fare con il non lasciarsi vincere dal desiderio della ricchezza.

La sera prima, pur sotto la
pioggia, avevamo partecipato a una processione davanti al tempio centrale,
lungo un «percorso sacro» segnato da pietre disseminate sull’immenso prato,
preceduti dai portatori di bandiere, e ciascuno avevamo in mano una candela
accesa… Il tutto mentre lassù in alto, dentro il tempio, un sacerdote faceva
le prostrazioni di rito e offriva incenso a Buddha.

Fui molto impressionato dalla
devozione che tutti i fedeli Soo-woon-kyo mostravano durante la preghiera. I
rituali sono precisi e complicati (retaggio del Confucianesimo); per fare la
prostrazione, per esempio, gli uomini devono mettere a terra per prima la mano
sinistra (le donne, quella destra) e appoggiare il piede sinistro sopra quello
destro (le donne al contrario), e così via… Le formule cantate, per me
incomprensibili, devono essere molto ripetute, perché tutti le sapevano a
memoria e le cantavano a occhi chiusi, con grande concentrazione.

Attività di contorno

A me, a dir
la verità, sarebbe piaciuta una spiegazione più calma e completa della «teologia»
della religione, ma evidentemente gli organizzatori del programma non devono
averla pensata come me, perché questa parte, pur importante, è stata coperta
con una conferenza di un’oretta, senza lasciare tempo a eventuali domande di
spiegazione e di approfondimento. Tenete presente che ogni religione ha il
proprio «linguaggio» che, per uno straniero come me, non sempre è facile da
capire. Molte altre ore sono state, invece, impiegate in attività di esperienza
della cultura tradizionale coreana, con la quale il Soo-woon-kyo (come tutte le
religioni autoctone coreane) ha profondi legami. Abbiamo così fatto un esercizio
di origami
: si trattava di piegare e ripiegare quattro fogli di carta
colorata per ottenee un han-bok, cioè un vestito classico coreano in
miniatura.

Poi un’iniziazione alla danza
sacra
con i cembali, di chiara matrice buddista, e anche molto faticosa
dal punto di vista fisico, perché non si tratta solo di suonare i cembali, ma
anche di ruotarli in aria mentre si eseguono alcuni passi di danza,
volteggiando su se stessi.

Poi la preparazione di un piatto
tradizionale coreano
: esperienza alla quale mi sono discretamente
sottratto, date le mie quasi nulle doti culinarie.

Infine ci siamo accaniti tutti, a
gruppetti, in una specie di gioco dell’oca, ricalcato su un gioco
tradizionale ancora molto in voga in Corea, ma «trasformato» in base alle
credenze del Soo-woon-kyo. Secondo il punteggio ottenuto, facendo rotolare un
grosso «dado» di legno, i giocatori passavano attraverso un percorso tortuoso,
complicatissimo e pieno di insidie, dal «mondo reale degli uomini» per arrivare
al «mondo intermedio» e infine raggiungere il «mondo del regno di Dio».

Ci è stato spiegato che i fedeli
prendono questo gioco molto sul serio, quando lo fanno nel giorno di capodanno,
in quanto credono che il loro percorso sulla carta-guida del gioco determini
davvero le vicende della loro vita di un anno intero. È poi successo che abbia
vinto proprio io, e questo fatto mi è valso una grande popolarità tra tutti i
presenti!

Per concludere

Tutto sommato, è stata una bella
esperienza, che ha arricchito di un altro tassello il mio cammino di impegno nel
campo del dialogo interreligioso.

Personalmente, lo ripeto, avrei
preferito meno attività di contorno e più incontri di «sostanza» con i
rappresentanti del Soo-woon-kyo. Trovo curioso che, più una religione è
piccola, più la sua «dottrina» si presenta complessa e di difficile
comprensione. La pretesa di unificare in una sola le tradizioni religiose di
Confucianesimo, Buddismo e Taoismo, mi appare eccessiva, specie vedendo come,
di fatto, la parte del leone sia fatta dal Buddismo: il fondatore del Soo-woon-kyo
era un ex-monaco buddista!

Allo stesso modo trovo
sorprendente il fatto che, nonostante la piccolezza della religione e il suo
profondo e perfino «esagerato» legame con la cultura tradizionale coreana, i
fedeli del Soo-woon-kyo siano convinti di avere una «missione universale» da
svolgere, per costruire il regno di Dio sulla terra. Una missione che sentono
come particolarmente affidata al «popolo coreano», visto quasi come un messia
per il mondo intero. Di fatto invece, a mio parere, la religione si trova
troppo «chiusa» nel mondo culturale coreano e non credo possa ancora vantare
nessun tentativo concreto di apertura reale al mondo.

Insomma, l’esperienza mi ha
lasciato in cuore un mucchio di domande sulle quali mi sarebbe piaciuto
dialogare con i fedeli del Soo-woon-kyo! Ad ogni modo, come ho detto a tutti al
momento della cerimonia di chiusura dell’esperienza stessa, il fatto che adesso
io abiti a pochi chilometri dal quartiere generale della religione mi offrirà
certamente, in futuro, altre occasioni di incontro e dialogo, che spero possa
diventare proficuo.

Un’ultima considerazione:
certamente un’occasione come questa era preziosa per il Soo-woon-kyo per farsi
conoscere e mettersi in mostra, ma ciò non toglie nulla al commovente impegno e
all’entusiasmo con cui molte persone si sono prodigate per noi, in molti e
diversi modi, in questo fine-settimana. Tutti noi partecipanti abbiamo
sottolineato questo aspetto e li abbiamo ringraziati di tutto cuore.

«Venerando Dio in voi…
arrivederci!», fratelli e sorelle del Soo-woon-kyo.

Diego Cazzolato

Diego Cazzolato




Senza Nazione né Confini

I Sami: ultimo ceppo indigeno presente in Europa.
I Sami (impropriamente detti Lapponi) sono una popolazione
indigena della penisola scandinava. Nonostante il secolare processo di
colonizzazione e assimilazione, hanno conservato lingua e cultura. Oggi contano
circa 75 mila unità, sparse nelle regioni più settentrionali della Norvegia,
Svezia, Finlandia e Russia. Popolo senza confini né nazione, godono di
determinate concessioni che permettono loro di rafforzare la propria identità e
preservae gli aspetti culturali e tradizionali.

«Ascolta fratello, ascolta sorella!
Ascoltate la voce della madre primordiale! La terra è la nostra madre; se le
rubiamo la vita, moriremo anche noi…». Le note della canzone di Mari Boine,
una delle cantanti Sami più conosciute, si diffondono nella casa di Ari
Kangasniemi, poco lontano da Rovaniemi. Qui, Ari assieme alla moglie Irene, si è
trasferito nel 1995 trasformando lo stile di vita lappone, in un vero lavoro.

Considerato un’icona vivente nel
mondo dell’artigianato locale, Ari lavora le coa di renna trasformandole in
oggetti d’arte: coltelli, lampadari, statuine. Irene, invece, fabbrica vestiti,
monili, scarpe dalle fatture tradizionali di un mondo perduto, di cui sente la
mancanza.

«La città non ci piace, siamo
fuggiti dalla città per restare qui, immersi nella natura. Se non la tradisci,
la natura, la terra ti accoglie e ti offre tutto quello di cui hai bisogno»
afferma Irene mentre, nella sua casa in legno, mi offre una torta fatta in casa
e un succo di mirtilli raccolti nel bosco.

Chi può dirsi sami?

Un po’ animista, un po’
ambientalista, Irene è la tipica lappone che potrebbe vivere senza supermercati
e senza elettricità. Adora la cultura Sami, come dimostrano i tappeti, i quadri
e i tamburi di cui sono tappezzate le stanze in cui abita. Però, sia lei che
Ari, sami non lo sono, anche se potrebbero esserlo. E anch’essi, come molti
altri finlandesi, norvegesi, svedesi che vivono in Lapponia, incespicano quando
chiedo loro quali caratteristiche occorre possedere per potersi definire sami.

Questa titubanza mi conforta: dopo
diverse settimane di soggiorno in Lapponia, non ho ancora capito cosa significa
essere sami e chi si può qualificare tale ed ero arrivato al punto di pensare
di non aver capito nulla di questo gruppo etnico, l’ultimo ceppo indigeno
presente in Europa. Tutte le persone che ho interrogato sull’argomento, mi
hanno offerto risposte variegate: è sami chi parla una delle nove lingue sami
(in questo caso, secondo i dati del parlamento sami svedese, il 70% di chi si
dichiara ufficialmente sami, non dovrebbe esserlo); è sami chi è nato da almeno
un genitore sami (dunque sarebbero sami anche l’attrice Renée Zellweger e la
cantante Joni Mitchell, nate rispettivamente da madre e padre sami); è sami chi
alleva le renne (i sami che vivono di pesca, allora, a quale gruppo
apparterrebbero?).

L’ambiguità si ripercuote anche
tra gli stessi rappresentanti politici. Egil Olli, presidente del Samediggi
(il parlamento sami) norvegese, fatica a trovare una descrizione adatta,
rimandandomi alla definizione ufficiale: «Una persona è considerata sami se
egli stesso si considera sami e se ha imparato a parlare sami avendo almeno un
genitore o un nonno che parla sami come madrelingua».

Storia di colonizzazione

La difficoltà nel codificare
questo gruppo etnico scandinavo è figlia della violenta storia di
colonizzazione di cui i Sami sono stati vittime a partire dal XVI secolo. Sino
ad allora i Fenni, come li aveva chiamati nel 98 d.C. Tacito nel suo Germania,
non hanno mai avuto bisogno di identificare se stessi, essendo vissuti praticamente
isolati e commerciando pacificamente con i finnici, con cui condividono il
ceppo linguistico ungro-finnico.

A parte il fugace accenno di
Tacito, i Sami rimasero pressoché sconosciuti nel continente europeo sino al
medioevo, quando Svezia, Danimarca e Russia iniziarono a contendersi la regione
settentrionale della penisola scandinava, imponendo tasse ai suoi pochi
abitanti. La necessità di procurarsi legname, di cui sono tuttora ricche le
terre del Nord, favorirono la colonizzazione da parte degli abitanti del sud:
norvegesi, russi, svedesi, finlandesi cominciarono a spostarsi oltre il Circolo
Polare Artico, appoggiati da numerosi decreti reali che favorivano gli
insediamenti e assegnavano terre «permanentemente disabitate appartenenti a Dio
e alla Corona Svedese e a nessun altro».

Poco importa se le terre «permanentemente
disabitate» erano, in realtà, già da millenni territori dei Sami: in quanto
pagani e idolatri, non avevano diritto a ciò che Dio aveva creato per i
cristiani.

L’alleanza tra Chiesa e stato, fu
una miscela esplosiva per la cultura sami: ossessionati dalla stregoneria, i
missionari luterani consideravano satanico tutto ciò che aveva un collegamento
con l’aldilà. Gli sciamani cominciarono a essere emarginati dai siida (i
villaggi), gli yoik, i canti tradizionali che identificavano ciascun
gruppo o addirittura il singolo individuo, vennero proibiti, mentre i tamburi
con i quali si cercava un passaggio nel mondo degli spiriti, furono distrutti,
tanto che i pochissimi esemplari superstiti sono gelosamente custoditi nei
musei.

L’obbligo della messa domenicale,
impose ai sami convertiti di organizzare dettagliatamente i loro spostamenti,
limitando il nomadismo e il collegamento con altri villaggi. La Chiesa, con i
suoi rituali e i suoi dogmi, giocò, quindi, un ruolo di primaria importanza
nella politica che lo stato perseguiva per sottomettere i Sami. Le varie case
reali (svedesi, danesi, russe) sfruttarono con abilità le avanguardie
missionarie perché preparassero il terreno a successive colonizzazioni.

«Oggi la Chiesa guarda in modo
differente la cultura locale» mi dice Erva Nittyvuopio, teologa finlandese
specializzata in cultura sami: «Le varie diocesi cercano di appoggiare la
società sami permettendo la pratica di usanze un tempo proibite, come il canto
dello yoik in chiesa o l’uso dei tamburi, sempre che siano finalizzate a
perpetuare la gloria di Dio».

A distruggere lo stile di vita
sami fu, però, il potere statale: la scoperta dell’argento a Nasafiaell e,
ancor più, di giganteschi giacimenti di ferro a Kiruna e a Gallivare, nel XVII
secolo, indusse la casa reale svedese a emanare la famigerata Lapland Bill,
la legge che, regolando l’uso della terra, toglieva ai Sami il diritto al suo
sfruttamento.

Ottant’anni più tardi, nel 1751,
la demarcazione dei confini tra il regno di Svezia-Finlandia e quello tra
Danimarca-Norvegia, segnò il definitivo colpo di grazia per i nativi lapponi.
Costretti a scegliere una nazionalità, venne loro tolto il diritto di migrare
nelle terre dei loro avi. «È questo, forse più di ogni altro decreto o più di
ogni altra imposizione religiosa, l’atto che segna il punto di svolta della
storia sami» spiega Evjen Bjorg, professore di sociologia al Centro di Studi
Sami dell’Università di Tromso.

Oggi i Sami sono divisi in
quattro nazioni: 50.000 vivono in Norvegia, 25.000 in Svezia, 7.500 in
Finlandia e 2.000 in Russia.

Ricerca di identità

Nel XIX secolo, vessati dallo
stato, emarginati dalla società, ostracizzati dalla Chiesa, i Sami cercarono di
trovare una propria identità aderendo al Laestadianismo. Creata da un
prete svedese, Lars Levi Laestadius, questa nuova dottrina cristiana cercò di
dare modo ai Sami di esplicitare la propria fede traendo esempio
dall’esperienza personale, veicolandola nella cultura locale minacciata
dall’alcol, dal materialismo e dal commercio.

Giunto sull’orlo di un collasso
esistenziale a causa delle sue tristi vicende famigliari (la morte della prima
moglie, dell’amato fratello Petrus e del suo primo figlio), Lars riuscì a
risalire la china grazie alla seconda moglie, Maria. Fu per merito di questa
donna, rimasta sempre in secondo piano, che Laestadius riprese vigore e fiducia
nella vita e nella fede, dedicandosi alla protezione della cultura sami. I suoi
sermoni, pronunciati nella chiesa di Karesuando, erano talmente pieni di pathos
che ogni domenica la chiesa si riempiva di indigeni.

«Il laestandianesimo si propagò
tra i Sami perché il suo fondatore fu uno dei primi preti a saper comunicare il
messaggio cristiano usando immagini e linguaggi che i Sami potevano facilmente
comprendere» dice Birgitta Simma, pastore della Chiesa Svedese presso la
comunità sami nella diocesi di Luleaa. Il modo di contestualizzare i riti, con
canti, danze, preghiere, letture, non era però approvato dalla Chiesa Svedese,
che vedeva nel laestandianesimo una forma di liikutuksia, un’estasi al
limite dell’eresia.

Da parte loro, anche i mercanti
norvegesi e svedesi cominciarono a lamentarsi: Laestadius aveva severamente
proibito l’alcornol, fedele alleato dei commercianti che lo utilizzavano per
obnubilare la mente dei Sami durante le contrattazioni.

Sobri e finalmente fieri della
loro natura, i Sami cominciarono a rifiutare le imposizioni estee. Il
laestadianesimo, che ormai veniva visto come una peculiarità dell’essere sami,
si diffuse rapidamente oltre che in Svezia anche in Norvegia, ma soprattutto in
Finlandia. Era ormai divenuto un pericolo sia per la Chiesa Svedese, che vedeva
l’eresia affondare radici sempre più profonde tra i Lapponi, sia per la Corona,
che riceveva resoconti allarmanti di sollevazioni nel nord del paese.

Sempre più oppressi da svedesi e
norvegesi, l’8 novembre 1852 un gruppo di sami laestadianisti organizzò una
rivolta a Kautokeino per abolire il commercio di liquori. Ben presto la
ribellione si trasformò in un movimento etnico che, imbracciati i fucili,
espresse le proprie frustrazioni uccidendo lo sceriffo, un mercante di liquori,
e dando fuoco alle loro case.

Sebbene sedata in poche ore, la
rivolta di Kautokeino divenne il simbolo di rivalsa dei Sami, come è stato ben
descritto in The Kautokeino Rebellion, il film del norvegese Nils Gaup,
egli stesso discendente di uno dei rivoltosi, poi impiccato.

La renna fonte di vita e cultura

Non è un caso che proprio in
questo minuscolo villaggio di 1.600 abitanti, sorga l’unica università sami
riconosciuta dall’ordinamento scolastico di Norvegia, Finlandia, Svezia e
Russia, le quattro nazioni in cui si dividono gli 85.000 sami. Tra le materie
studiate, vi è anche Allevamento delle renne: «Una delle tradizioni su
cui si basa tutta la struttura sociale sami
– spiega la professoressa Ellen Inga Turi -. L’adattamento dei Sami ai
cambiamenti politici, come la divisione del loro territorio secondo nazionalità,
e ai cambiamenti climatici in atto, potrebbe darci molte risposte al futuro
stesso dell’umanità. I Sami, per un certo verso, sono le nostre avanguardie del
mondo che verrà domani». L’importanza della renna nella vita sami si riflette
anche nel vocabolario: eallin, vita, si trasforma in eallu,
mandria, e, ancora, in eadni, madre.

Dopo che i Sami da pescatori si
convertirono in allevatori di renne, questo ruminante divenne la loro
principale fonte di sostentamento. La renna è l’animale che, letteralmente,
dona la vita: di lei non si butta nulla. La carne, magrissima e ricca di Omega
3, di ferro, selenio e calcio, viene fatta essiccare; la pelle si trasforma in
coperte, abiti, nei caratteristici goikkehat, gli stivaletti con la
punta rialzata, in cappelli; le coa e gli zoccoli vengono lavorati per fae
manici di coltello e oggetti di uso quotidiano che danno lavoro ad artigiani
come Ari Kangasniemi.

Dalla lavorazione della pelle,
abbiamo importato il termine nappa, vocabolo sami, così come sami è la
parola tundra. I Sami sono più vicini a noi di quanto pensiamo.
L’influenza della renna nella cultura sami è talmente evidente che anche un
architetto come Alvaar Alto ha disegnato l’urbanistica della città di Rovaniemi
riproducendo sul terreno la figura di una testa di renna con le coa.

Infine, le orecchie dei 120.000
cuccioli di renna che ogni anno nascono alla metà di maggio negli allevamenti
sami, vengono marchiati con segni distintivi durante una cerimonia a cui
partecipa tutto il villaggio. In quest’occasione anche i Sami che, per svariate
cause, hanno dovuto trasferirsi in città o al sud, tornano al loro siida,
rinsaldando così i legami tra le famiglie. «Ogni volta che too con la moglie
e i figli, i nostri genitori ci preparano il lavvu (la tenda Sami). È
qui che, abbandonando per qualche giorno le comodità della casa, ritrovo la mia
identità» mi confida Emel Perrtula, che dalle pendici del monte sacro Saana, a
Enontekio, si è trasferito a Helsinki, dove oggi lavora come ricercatore
chimico. «Mangiare in silenzio attorno al fuoco e dormire su brandine, permette
a tutti noi di unirci ai nostri antenati e non dimenticare dove affondano le
nostre radici».

Emel mi confida che sua moglie,
dopo aver avuto due figlie, pregava l’intervento di Jouksahkka, lo spirito che
permette al feto, che secondo le credenze sami all’inizio è sempre femminile,
di trasformarsi in sesso maschile. «So che è illogico e che la scienza nega
questa credenza, ma alla fine abbiamo avuto il desiderato bambino».

Fierezza ritrovata

La consapevolezza e, soprattutto,
l’orgoglio di appartenere al gruppo sami, sono rinati alla fine degli anni
Settanta, dopo che per secoli i governi svedese, finlandese e quello norvegese
con particolare accanimento, avevano cercato di smantellare la cultura indigena
per affermare l’unità dello stato sulla base di uno specifico gruppo nazionale
predominante. Le battaglie combattute dalle associazioni sami, spesso isolate
dai loro stessi consanguinei, hanno portato i loro frutti: nelle scuole si è
ricominciato a insegnare la lingua sami, la musica tradizionale viene
riscoperta e ci sono radio che trasmettono radiogiornali dalla Samiland,
programmi per bambini e per giovani. La Radio Sami Norvegese, la più
strutturata tra le tre esistenti in Scandinavia, trasmette anche circa 20 ore
di programmi televisivi al mese, mentre l’ufficio locale di Kiruna della
televisione nazionale svedese, ne trasmette dieci.

Politicamente i Sami hanno una
propria rappresentanza nei parlamenti nazionali, mentre in ognuno dei tre stati
scandinavi, vi sono parlamenti sami eletti ogni quattro anni, dove il governo
locale dibatte le questioni più spinose. Nei raduni ufficiali viene cantato il Sàmi
soga làvlla
, la Canzone dei Sami, l’inno nazionale dei Sami scritto da Isak
Saba. La fierezza del sentirsi sami la si vede girando nella Samiland dove, nei
giardini delle case sorgono le tipiche tende accanto alle quali sventola la Sàmi
leavga
, la bandiera disegnata da Astrid Bahl nel 1986.

In un territorio dove il sole e
la luna regnano sovrani alternando la propria presenza per sei mesi l’anno, è
naturale che questi due elementi vengano riprodotti anche nel simbolo
nazionale: su un campo cromaticamente variegato con i colori tradizionali,
sorge un cerchio, che simboleggia nella sua interezza il tamburo magico,
equamente diviso tra il rosso del sole e il blu della luna.

Rispetto per la natura

La preponderante presenza della
natura nella vita sami, esaltata dai fenomeni atmosferici del sole di
mezzanotte, della notte continua per diversi mesi e, soprattutto, dalle aurore
boreali, oggi spiegati scientificamente, sono stati i soggetti di un’epica
orale che, senza l’intervento della Chiesa sarebbe, probabilmente, perduta. «I
missionari cristiani possono aver commesso degli errori valutando le credenze
dei Sami, ma è ormai appurato che i primi testi tradotti in sami sono stati
redatti dalla Chiesa Svedese. Erano testi biblici, ma hanno permesso all’intera
letteratura sami di non andar perduta» chiarisce Birgitta Simma.

I sami più rispettati erano i taidis,
coloro, cioè, che possedevano il taidid, la capacità di adattamento e di
orientamento, che conferiva loro uno status superiore perché li poneva
perfettamente in simbiosi con la natura e con gli spiriti che l’abitavano.

Oggi, con l’avvento del Gps,
delle motoslitte, del goretex, forse il taidid non è poi più così
necessario per la sopravvivenza dei Sami, ma rimane comunque il fatto che la
rinnovata ricerca della semplicità, il ritorno a una vita più austera e in
linea con i cicli della natura forse permetteranno a questa civiltà millenaria
di superare anche le sfide del tempo e del progresso che tutto appiattisce.

Piergiorgio Pescali

Piergiorgio Pescali