Silenzio su Ilham Tohti 

La lotta della
minoranza uigura.

Uiguro di famiglia musulmana,
professore universitario e blogger molto critico verso Pechino, Ilham Tohti è
imprigionato con l’accusa di «separatismo». Il suo caso dimostra (una volta di
più) che la Cina non si è ancora dotata di un sistema efficace per gestire il
dissenso. L’Occidente tuttavia non può dirsi esente da colpe, non avendo a sua
volta capito come trattare con il gigante asiatico.

Il 15 gennaio scorso una ventina di poliziotti fa
irruzione nel piccolo appartamento in cui Ilham Tohti, professore di economia
all’Università Minzu, vive con la moglie e due
figli piccoli, poco fuori dal campus universitario. Tohti viene prelevato e
scortato verso una destinazione ignota. Moglie, figli e anziana madre non hanno
più notizie. Dall’abitazione vengono portati via pc, cellulari, agende e 38
sacchi di appunti, tesi di laurea, compiti degli studenti e quant’altro. Sei
tra gli studenti a lui più vicini vengono portati in questura per essere
interrogati. Un documento rilasciato dal Dipartimento di pubblica sicurezza
della municipalità di Urumqi, che descrive il professore come una figura
pubblica che approfitta della sua posizione accademica per avvicinare studenti
e conoscenti a istanze separatiste e sovversive, è l’unica comunicazione
ufficiale sul caso. Tohti, che – in uno scritto del 2011 – aveva dichiarato di
aver dedicato la sua vita (e sacrificato quella della sua famiglia) alla lotta
per la libertà religiosa, la tutela della cultura, della lingua e del popolo
uiguro, è noto in Cina e all’estero per i suoi scritti e le sue attività di
sensibilizzazione sul Xinjiang. La notizia del suo arresto rimbalza da un sito
all’altro, si cominciano a raccogliere firme per la sua liberazione immediata.
Circola una petizione che, alla data del 18 febbraio, nonostante la
problematicità del caso, era già stata firmata da quasi 2.000 persone, cinesi e
straniere1.

Gli scontri del 2009

Il 5
luglio 2009, durante gli scontri scoppiati nel corso di una grande
manifestazione a Urumqi, la capitale del Xinjiang, quasi 200 persone rimangono
uccise, moltissime ferite. Le vittime sono per la maggior parte cinesi di etnia
han colpiti a morte da gruppi di uiguri. Altre manifestazioni e scontri
scuotono in quei giorni la regione, la attraversano da Nord a Sud e infiammano
Kashgar, zona di confine tra le più problematiche del Xinjiang. La regione
viene isolata, chiusa a giornalisti e stranieri, internet e telefonate
inteazionali vengono immediatamente bloccati. Comincia un passaparola
frenetico, un proliferare di voci sulle possibili cause di quello che viene
considerato il sommovimento potenzialmente più destabilizzante per la
Repubblica popolare dopo il 1989. Nur Bekri, presidente della regione autonoma,
appare sulla Cctv (China Central Television) facendosi portatore della
linea ufficiale: la causa delle rivolte va cercata all’estero, nelle attività
separatiste e terroriste del gruppo di Rebiya Kadeer (leggere MC, gennaio
2010, ndr
), e in quelle sovversive di alcune figure che operano entro i
confini cinesi, tra cui Ilham Tohti. Il suo blog Uighurbiz viene identificato
come una delle principali piattaforme online responsabili di aver istigato e
aiutato a organizzare la rivolta. Il sito viene chiuso, Nur Bekri e Wang Lequan
– l’allora segretario del partito del Xinjiang (che verrà sostituito un anno
dopo da Zhang Chunxian) – puntano il dito contro Ilham Tohti che, prima viene
arrestato, poi rilasciato ma confinato nei 50 metri quadrati del suo
appartamento nel campus universitario con la moglie e i due figli piccoli.

Nonostante
il supporto e l’affetto di studenti e amici, dal 2009 in poi l’esistenza di
Tohti si trasforma in un vero e proprio «calvario» fatto di visite e
interrogatori della polizia nei momenti più inaspettati, problemi per i
familiari a Pechino e in Xinjiang, beni e proprietà congelate (e lo stipendio
da professore che arriva solo saltuariamente), telefonate, email e lezioni
controllate e registrate. Più le maglie del controllo si stringono intorno a
lui, più le sue lezioni diventano popolari: aule in cui più di 200 studenti,
per la maggior parte uiguri provenienti da tutta la città, lo aspettano ogni
venerdì pomeriggio. Il tono delle sue analisi e dei suoi messaggi diventa
sempre più critico e tagliente. Il suo atteggiamento di sfida alle autorità non
passa però inosservato: il corso viene interrotto nel settembre 2011, «perché
non si raggiunge il numero di studenti necessari».

Un progressivo deterioramento

Infaticabile,
nonostante una forte depressione, i ripetuti ed estenuanti interrogatori, e una
serie di difficoltà per lui e la sua famiglia, Tohti continua a lottare, a fare
rete con amici e intellettuali a lui vicini e a sensibilizzare la comunità
internazionale attraverso le interviste che appaiono sui maggiori media (New
York Times, The Guardian, Wall Street Joual
). Ha in testa un progetto:
istituire un’università online dove raccogliere tutte quelle informazioni,
opere, materiale relativi al Xinjiang fino a quel momento sparsi nella rete. Il
governo cinese sostiene che Tohti si adopera per coinvolgere sempre più uiguri
a portare avanti azioni violente contro Pechino. Il suo carattere combattivo,
ma sempre più provato da anni di arresti domiciliari e di malattia, lo portano
a commentare le ormai frequenti esplosioni di violenza nel Xinjang con toni a
tratti discutibili, a volte acclamando l’attacco terrorista, altre
semplicemente individuando le politiche di Pechino e del governo regionale come
prime responsabili dell’escalation. Più i toni si surriscaldano, più
Tohti viene controllato, minacciato e intimidito.

Ormai
non c’è più spazio per le analisi lucide e attente sui cambiamenti sociali in
Xinjiang, sulle trasformazioni del mercato del lavoro e sulla transizione da
una società tradizionale a una modea, sulla situazione dei giovani in
Xinjiang e sulle aspirazioni delle comunità uigure, che erano state una sua
peculiarità. Quello che rimane è un uomo sempre più arrabbiato, rancoroso, e,
forse, sempre più solo.

Nel
febbraio 2013 viene prelevato all’aeroporto di Pechino, mentre – con la figlia
Jewher Ilham (nata da un precedente matrimonio) – è in procinto di imbarcarsi
per gli Stati Uniti per un incarico temporaneo presso l’Indiana University a
Bloomington. Jewher parte, lui viene messo ad arresti domiciliari ancora più
severi. Nonostante questo, continuano ad apparire interviste sui media
stranieri. Al telefono Tohti critica il governo, commenta l’attentato
dell’ottobre 2013 (vedere MC, gennaio-febbraio 2014) a Piazza Tiananmen
sostenendo che non ne è provata la matrice uigura e, allo stesso tempo, che non
si possano escludere in futuro «metodi estremi» utilizzati da gruppi di uiguri
per «proteggere i propri diritti».

Tutto
si ferma il 15 gennaio. Il professore viene scortato fuori dal suo appartamento
del campus dell’Università Minzu. Il luogo dove è detenuto è ancora
sconosciuto, le accuse che gli si muovono consistono in «separatismo» e «istigazione
alla violenza». Un coro di voci si alza in sua difesa: la blogger tibetana
Woeser, Wang Lixiong, giornalisti, avvocati e intellettuali cinesi e stranieri,
e tanti altri. Ma la figura di Tohti rimane controversa: i toni estremi e quasi
forzati delle dichiarazioni degli ultimi tempi non hanno prodotto il consenso
sperato. I suoi paragoni con altre situazioni, per esempio con quella dei
ceceni, erano spesso fuori luogo, e portavano alla luce una psiche provata.

Il caso Tohti rimane aperto. Si tende a spiegare il suo
arresto con campagne anticorruzione che coinvolgono alti funzionari in
Xinjiang, e che avrebbero come obiettivo ultimo i fedelissimi di Zhou Yongkang,
con il tentativo di altri funzionari di spostare l’attenzione o di un ennesimo
giro di vite sulle voci critiche in Cina da parte della nuova amministrazione
Xi, e con molto altro. Quello che resta da vedere è se la società civile
cinese, la comunità internazionale e il governo del Stati Uniti siano pronti a
sostenere una persona che, prima di essere un dissidente, è un uomo provato.

Pechino e la
«gestione del dissenso»

A
questo punto può essere utile comprendere la tragedia umana del prof. Tohti
alla luce del sistema politico cinese. Tutto ciò di cui è accusato è vero:
istigazione al terrorismo (durante le lezioni dichiarava apertamente, di fronte
a un gruppetto di poliziotti seduti tra gli studenti, che gli uiguri dovrebbero
ispirarsi ai ceceni); collegamenti con governi esteri (è appoggiato, e forse
anche finanziato, dal Consiglio di stato americano); incitazione alla violenza
(nelle sue interviste ha spesso sostenuto che l’unico modo per difendere i
diritti degli uiguri è la violenza). Nello stesso tempo, il modo in cui il suo
caso è stato trattato, almeno dal 2009, ha solo contribuito a peggiorare la
situazione. Lo stato mentale di Ilham si è compromesso, poiché viveva in un
piccolo appartamento senza poter più veramente lavorare, e per i continui
interrogatori e le intimidazioni. Se da un lato, quindi, la sua vicenda
personale può suscitare sentimenti di compassione e rispetto, dall’altro non si
può dire che il governo cinese, dal suo punto di vista, sbagli in toto. Del
resto, se in Italia una figura pubblica incoraggiasse a utilizzare metodi
terroristici, per realizzare – ad esempio – la separazione del Nord dal Sud,
sicuramente non passerebbe inosservata.

Il
governo cinese è attaccato da molti fronti: uno di questi è costituito dagli
oppositori interni. Esso non riesce a gestire il dissenso, perché in Cina manca
completamente un meccanismo che faccia da «regolatore» nei casi in cui gli
interessi del governo divergano da quelli di parti della popolazione, se si
esclude quello che si basa sull’intimidazione e la minaccia. Ci sarebbe bisogno
di maggiore democrazia, cioè di un coinvolgimento
delle voci dissidenti in una piattaforma di dialogo, che toerebbe molto utile
per evitare un’escalation dei problemi.

Nel frattempo, il 26 febbraio, si è appreso2 che a Ilham Tohti,
in carcere a Urumqi, è stata ufficializzata l’accusa di separatismo. Rischia
l’ergastolo o addirittura la pena di morte.

Alessandra Cappelletti*
Note
1 – NIl link della petizione: https://docs.google.com/spreadsheet/pub?key=0AsKDF8_HXe4IdGowdmRKcXAyd0REa2QxSFBtRjhlX1E&output=html.

2
– Cfr. la Bbc: www.bbc.com/news/world-asia-china-26333583.
* Già collaboratrice di MC, Alessandra Cappelletti è esperta
di questioni identitarie e minoranze etniche. Sinologa, ha un dottorato di
ricerca in studi sulla Cina contemporanea alla «University of China» e
all’Università degli studi di Napoli «L’Orientale». È editor di un nuovo sito
dedicato a Pechino: www.cinaforum.net.

Un ritratto di Ilham
Tohti:
Professore e
attivista

Nato e cresciuto in una famiglia benestante di mercanti di Artush,
villaggio del Xinjiang ai confini col Kyrgyzstan, nelle sue conversazioni con
gli amici Tohti ricorda spesso il padre, musulmano praticante, in partenza con
lunghe carovane di cammelli per oltrepassare i valichi montuosi alla volta di
Osh, centro commerciale kyrgyzo, e Samarcanda, in Uzbekistan. Una famiglia
allargata, un padre con mogli in diversi luoghi dell’Asia Centrale, commerci e
interessi nell’area, e una considerevole quantità di beni espropriati durante
la Rivoluzione culturale. Cresciuto dalla madre in un ambiente molto religioso,
negli anni ‘80 è un brillante studente di lingue all’Università Minzu, nel
nuovo clima di dialogo e apertura promosso dall’amministrazione di Hu Yaobang.
Tohti dimostra una notevole propensione agli studi, è sufficientemente
eclettico da cominciare un percorso interdisciplinare a cavallo tra l’economia
e la sociologia – con un occhio sempre attento a quello che succede nella sua
regione d’origine, che lo porterà a occupare velocemente una cattedra presso il
Dipartimento di economia dell’Università Minzu. Gli anni ‘90 e la prima metà
del 2000 rappresentano un periodo di formazione politica, un lavoro condiviso
con intellettuali cinesi e stranieri con formazioni e posizioni diverse,
attraverso lunghe discussioni sulle trasformazioni della società, dibattiti, e
un rapporto molto stretto con il gruppo di studenti che più lo segue. Tohti
comincia così a spostarsi dagli studi accademici all’attività politica: membro
del Pcc, è l’unico intellettuale uiguro che va oltre i confini dell’etnia,
confrontandosi e interagendo soprattutto con cinesi han, giornalisti,
intellettuali, artisti. Il suo lavoro diventa un’attività di sensibilizzazione
rispetto alle diseguaglianze economiche e sociali in Xinjiang, portato avanti
con studenti, amici, conoscenti e colleghi. Personalità carismatica e generosa,
gode di molto rispetto tra studenti e amici han, e non esita a parlare e
rilasciare interviste ai giornalisti stranieri.

Alessandra
Cappelletti


Pechino: L’Università
Minzu

Una casa per le minoranze
etniche

L’Università delle Minoranze etniche di Pechino, chiamata Università
Minzu (in seguito a una delibera degli organi accademici volta a evitare che il
termine minzu 民族,
«gruppo etnico», venisse tradotto con il politicamente connotato «nazionalità»),
è nuovamente sotto i riflettori. Istituzione accademica prestigiosa che
raccoglie la créme dei giovani appartenenti alle 55 minoranze etniche cinesi,
formandoli, insieme a una parte di studenti han, secondo una rigorosa
educazione di partito per prepararli a occupare posti più o meno rilevanti
nell’amministrazione pubblica e nel governo, il campus del quartiere di Haidian
ospita tibetani, uiguri, mongoli, hui, kazaki, kyrgyzi, e membri di quasi tutte
le altre minoranze. Inoltre è l’unica, a Pechino, a disporre di numerose mense
per gli studenti musulmani. Almeno due le occasioni recenti in cui questa
università ha fatto notizia in Occidente: le manifestazioni degli studenti
tibetani (marzo 2008 e ottobre 2010), e l’arresto di Ilham Tohti nel luglio del
2009. Docente di dinamiche economiche nelle aree abitate da minoranze,
all’epoca Tohti fu rilasciato grazie alla sua notorietà tra intellettuali e
studiosi cinesi e stranieri, e, soprattutto, grazie all’intercessione
dell’amministrazione Obama.

Ale.Cap.

Alessandra Cappelletti




Nel cuore dell’Africa 

Doruma: non solo Mission


Piccolo villaggio
vicino a un confine triplo nel centro dell’Africa. Isolato dal mondo per le
pessime strade. In una zona di incursioni da parte di milizie e popoli in
transito. Prossimo a campi di sfollati nei quali manca tutto. E reso famoso (o
quasi) dal reality show «Mission». Racconto
di un missionario originario di Doruma, tornato a casa per delle brevi vacanze.

Se si guarda la cartina del continente africano e
si cerca un ipotetico baricentro, si cade su un confine triplo, a Sud Ovest
della Repubblica Centrafricana (Rca), Nord della Repubblica Democratica del
Congo (Rdc) e Sud del Sud Sudan.

Proprio
qui, un puntino segnato sulla carta porta a fianco il nome di «Doruma». Ci
troviamo nella provincia Orientale del Congo, distretto Haut-Uélé (Alto Uélé) a
una decina di chilometri dal confine con il Sud Sudan e circa cinquanta, in
linea d’aria, con la Rca.

L’omonima
parrocchia si estende su una superficie di 14.046 chilometri quadrati
(superficie di una media regione italiana, ndr) e
conta 55.713 abitanti. Il clima è tropicale. Doruma fu la prima parrocchia dei
missionari della Consolata in questa zona nel Nord Est della Rdc. I primi ad
arrivarci furono i domenicani nel 1917 mentre la presenza dei missionari della
Consolata risale al 1973. Nel 2001 la parrocchia divenne diocesana.

La
stragrande maggioranza della popolazione è dedita a un’agricoltura di
sussistenza e all’allevamento di animali di piccola taglia (galline, capre).
Nella zona non esistono industrie. Più del 50% è analfabeta. La gente, così
come gli impiegati statali, si alimenta di ciò che coltiva. Le magre entrate
provengono dalla vendita dei prodotti agricoli nei mercati locali e sono
destinate all’acquisto di beni di prima necessità e per la scolarizzazione dei
bambini.

Da
anni il villaggio è isolato a causa dell’avanzato stato di degrado delle strade
e dell’insicurezza provocata dagli scontri armati. Gli scambi commerciali sono
quindi molto difficili. Solo nei momenti di tregua, in bicicletta o in moto, si
percorrono 500 – 700 km per l’approvvigionamento di petrolio (per le lampade),
sale, sapone, vestiti e altri manufatti. Ci sono scambi commerciali regolari
con le città sudsudanesi di Ezo, Yambio, e ugandesi Ariwara, Arua. Fino a
spingersi a Kampala, capitale dell’Uganda. Il Sud Sudan è diventato il luogo più
vicino per questi rifoimenti.

I cristiani a Doruma

La
parrocchia di Doruma appartiene alla diocesi di Dungu-Doruma ed è gestita da
due sacerdoti diocesani locali, appoggiati dalle suore agostiniane, anche loro
congolesi, impegnate nel campo della pastorale, della salute, dell’educazione e
promozione sociale. Oltre il 90% della popolazione è costituita da cristiani
cattolici. Sono inoltre presenti anche altre confessioni cristiane, in
particolare le Eglises du réveil
(chiese del risveglio) d’ispirazione evangelica.

La pratica della vita cristiana non è così diversa da
altre parrocchie della diocesi. È diffusa, anche da parte dei cristiani, la
pratica di ricorrere a elementi di religioni tradizionali, quali feticci e
stregoneria. La pastorale è organizzata e animata, secondo le indicazioni
diocesane, dalle varie commissioni parrocchiali e dai gruppi apostolici che
annunciano e insegnano la parola di Dio ai fedeli. Ogni giorno è prevista la
celebrazione delle messe anche se l’affluenza infrasettimanale è molto bassa.
La partecipazione è invece massiva in occasione delle grandi feste.

L’edificio
della chiesa è quasi centenario: risale al 1920. Il suo stato fatiscente non
passa inosservato e il pericolo che crolli sulla testa dei fedeli è reale. Da
tempo, a livello parrocchiale, è stata lanciata l’iniziativa di una raccolta
fondi per costruire una nuova chiesa e ciascuno dà il suo piccolo contributo.
Ma data la situazione in cui versa il paese e la povertà economica della gente
diventa molto difficile riuscire nell’impresa.

Ribelli, assalitori e
profughi

Dal mese di settembre del 2008 tutta l’area del Nord Est
della Rdc è zona di incursioni dei ribelli fanatici ugandesi della Lord Resistance Army, (Lra,
si veda MC giugno 2012, ndr).
Il territorio di Doruma ne è particolarmente toccato.

L’area
è anche soggetta alle invasioni di mbororo,
pastori nomadi provenienti da Camerun, Rca e altri paesi in continuo movimento
e ricerca di pascoli. Le tensioni tra mbororo e
comunità locali sono frequenti perché gli allevatori occupano i campi degli
agricoltori congolesi per dare pascolo alle mandrie. Il governo ha smesso di
ricacciarli oltre confine e permette loro di installarsi in territorio
congolese. Così anche nella periferia di Doruma vive una loro comunità.

Ma il
vero flagello sono stati i sedicenti «ribelli» dell’Lra, ogni passaggio dei
quali ha lasciato dietro di sé desolazione, morti violente, distruzione di
scuole e strutture medico sanitarie, saccheggio di coltivazioni, mercati,
cappelle, strutture parrocchiali. La gente è stata costretta a spostarsi in
massa. Le donne, senza distinzione d’età, sono state violentate. Gruppi di
persone sono stati sequestrati e obbligati a trasportare il bottino rubato. I
giovani sono stati costretti ad arruolarsi al servizio di questi gruppi armati.

È difficile
porre rimedio a questa situazione che porta al tragico smarrimento della
popolazione.

Negli
ultimi mesi – un ultimo attacco si è verificato lo scorso dicembre – nella
regione è subentrata una calma relativa che ha permesso ad alcune organizzazioni
inteazionali di intervenire in diverse forme a favore degli sfollati e dei
rimpatriati della zona (Unhcr, l’organizzazione delle Nazioni Unite per i
rifugiati e alcune Ong inteazionali e italiane).


Le cappelle

Prima
dell’arrivo dell’Lra, la parrocchia era suddivisa in sei settori nei quali
erano presenti più di 60 cappelle. L’arrivo dei ribelli ha spinto la
popolazione a concentrarsi nei centri più grandi per difendersi, e alcune
cappelle sono state abbandonate dai cattolici. Una volta tornata la calma,
alcuni fedeli sono rientrati nelle loro comunità di origine. Attualmente nei
sei settori della parrocchia hanno ripreso vita 42 cappelle.

Ma
per poter visitare e animare con regolarità queste cappelle i sacerdoti
incontrano enormi difficoltà, non disponendo di grandi mezzi di trasporto per
raggiungerle. L’unico mezzo della parrocchia è una motocicletta vecchia e
malandata, e far fronte ai suoi continui guasti diventa una spesa proibitiva.

Gli sfollati di
Doruma

Fin
dal dicembre del 2008, a causa delle cruente incursioni di elementi della Lra,
un movimento massiccio della popolazione aveva cambiato l’ubicazione dei
villaggi in tutta la zona. Nel territorio circostante si sono creati almeno
nove centri di raccolta per gli sfollati, sei nel villaggio di Doruma (chiamati
Combattant, Bitabi, Banga, Nambili, Zigbi, Manvugo, Diangele), poi a 20 km i
siti di Gangala, Masombo (60 km a Nord ) e un sito a Naparka (60 km a Ovest).
In tutti i centri gli sfollati convivono con le popolazioni del posto. Dal 2009
al 2011, gli sfollati hanno ricevuto aiuti d’emergenza in termini di cibo,
ripari temporanei e cure mediche gratuite da varie organizzazioni
inteazionali. In questo momento invece gli sfollati interni e i rimpatriati
sono abbandonati a se stessi, senza alcun soccorso. Sul posto operano ancora
alcune Ong inteazionali, che intervengono su problematiche specifiche. Come
Medici Senza Frontiere, incaricata della lotta contro la tripanosomiasi
africana e Intersos (sostenuta dalla Conferenza Episcopale Italiana) impegnata
nella costruzione o il ripristino di alcune scuole elementari (a Masombo,
Diabakpa e Gangala).

Intersos
segue e assiste pure 400 bambini vulnerabili di nove scuole primarie,
distribuendo materiali scolastici e uniformi, pagando tasse scolastiche, creando
club per bambini in ogni scuola, provvedendo alla realizzazione di latrine e
pozzi d’acqua potabile per tre scuole elementari. Intersos offre anche un
appoggio psicosociale alle vittime di violenze sessuali, promuovendo piccoli
progetti per attività generatrici di reddito per il reinserimento socio
economico delle famiglie fatte oggetto di aggressioni e saccheggi.

Anche
le Nazioni Unite sono presenti con l’Unhcr, che ha l’incarico di monitorare il
territorio e la situazione in termini di sicurezza delle popolazioni e dei loro
spostamenti, individuare le emergenze umanitarie ed elaborare programmi di
sensibilizzazione e di accompagnamento su temi particolari quali le violenze
sessuali e i diritti umani.

Acqua, igiene e
salute

Sfollati
e rimpatriati vivono in condizioni molto difficili.

Nelle
strutture sanitarie (dispensari e centri di salute) mancano spazi per
accogliere i pazienti. La stessa sala ospita i neonati e gli ammalati colpiti
da diverse patologie. È il caso dei dispensari di Manyugo, Bakudangba, Gangala,
Masombo, Naparka, Nambili e Diebio. Tutte queste strutture sono a disposizione
degli sfollati e dei rimpatriati, anche se tutte mancano le sale parto e le
latrine.

I
villaggi di accoglienza degli sfollati non hanno pozzi e le fonti di acqua non
potabile si trovano nella boscaglia a un paio di chilometri dai centri abitati.
Quest’acqua però è la causa principale di molte malattie.

Sfollati
e rimpatriati non hanno accesso alle cure mediche per mancanza di mezzi
finanziari capaci di coprire i costi elevati delle medicine o dei ricoveri.
Questo obbliga la gente a ricorrere alle cure tradizionali. Alla lunga, le
malattie si aggravano e diventano un rischio per le comunità. Nella zona di
Doruma molti muoiono perché non sono curati. Anche i centri sanitari e i
dispensari mancano di una scorta di farmaci efficaci e adeguati per coprire il
fabbisogno della popolazione.

Aids, fame e case

L’Aids
è molto diffuso nella zona di Doruma. Ma per curarsi occorre andare
all’ospedale di Ezo in Sud Sudan (a 95 km) dove esiste un centro per la
prevenzione e il trattamento della malattia o in alternativa a Dungu in Rdc (a
210 km). Recarsi a Ezo significa sobbarcarsi anche le spese relative al visto
di entrata e di uscita. Alcuni ammalati di Aids hanno potuto trovare ospitalità
presso villaggi e famiglie sudsudanesi e usufruire di cure mediche gratuite.

L’assistenza psicosociale realizzata nel villaggio di
Doruma da organismi inteazionali dovrebbe includere un’attenzione
specifica agli ammalati di Aids con del personale specializzato, perché in
diversi casi si riscontra una forte aggressività.

Diversi
edifici scolastici usati per i bambini degli sfollati e dei rimpatriati sono
fatiscenti e pericolanti: è il caso delle scuole primarie di Ndolomo e Gurba.
Anche il liceo di Ndolomo è cadente. A Gangala e a Naparka le aule scolastiche
sono insufficienti per accogliere tutti i bambini delle elementari. Inoltre le
foiture scolastiche di base e i materiali didattici sono inesistenti. Un
altro grosso problema per i profughi è mangiare. Nei villaggi della zona manca
il cibo necessario e soprattutto i bambini patiscono la fame. La maggioranza
degli adulti coltiva dei piccoli orti nella boscaglia, lontano dai centri
abitati per il timore di nuovi attacchi.

Gran
parte degli sfollati trascorre la notte in cattive condizioni, riparandosi
dagli agenti atmosferici con materiali di scarto.

Il
problema è quello di aggiungere in sicurezza le zone più lontane della
boscaglia e reperire tronchi e rami necessari per realizzare capanne solide e
capaci di proteggere tutta la famiglia.

Inoltre,
gli sfollati sono stati costretti a spostarsi molte volte per sfuggire agli
attacchi violenti degli aggressori, perdendo di volta in  volta i raccolti, i propri beni e persino il
necessario per cucinare.

L’Italia e Mission

Nel
luglio 2013 la Rai ha realizzato a Doruma alcune riprese per il controverso reality
show
Mission, che poi è andato in onda nel gennaio di quest’anno. Ma
la gente del villaggio e le autorità non sono state interpellate, in
particolare oggi si lamentano di non aver visto le immagini prima che fossero
utilizzate nel programma e mandate in onda (e neppure dopo peraltro).

 

Dopo quattro anni di assenza ho trovato la situazione
socio-economica ancora difficile, nonostante un generale miglioramento della
sicurezza. Grazie allo stato di pace, anche se precaria, la popolazione può
lavorare nei campi e riesce a sopravvivere. Un grosso problema sono le strade
di accesso, completamente dissestate per cui la zona rimane isolata. Sulle
infrastrutture il governo dovrebbe prendersi le sue responsabilità.
Per
la gente di Doruma, nonostante i drammatici e disumani avvenimenti del recente
passato, il fatto di essere ancora vivi, di poter coltivare la terra o di
partire alla caccia, e soprattutto di rientrare e ritrovarsi in famiglia dopo i
lunghi spostamenti del giorno, sono giornie che aiutano a superare la paura di
nuovi attacchi e i traumi lasciati dalle vessazioni subite. Nei discorsi degli
abitanti di Doruma c’è la speranza che finiranno le incursioni e che si potrà
lavorare tranquilli, assicurare un’educazione ai figli e la salute per tutti,
mangiare in santa pace il frutto del proprio sudore.

David Moke*
 

*Padre
David Bambilikpinga-Moke è missionario della Consolata originario di Doruma,
svolge il suo servizio a Roraima in Brasile ed è tornato per le vacanze al suo
villaggio tra dicembre 2013 e gennaio 2014

David Moke




Tra bellezza e problemi 

Prime impressioni
dopo anni di assenza.

Dopo sette anni di
assenza, a gennaio sono tornato brevemente in Ecuador. Mi è sembrato di essere
arrivato in un paese che non conoscevo, ben lontano dai ricordi che portavo
dentro di me. Con la gente invece è stato diverso. Mi sono incontrato con
persone che giorniosamente mi hanno scoperto ancora presente nella memoria e nel
cuore. Alla contentezza di ritrovarci si aggiungeva la pressione del richiamo
che mi animava «a tornare a casa», a stare con la gente che mi voleva bene.

Indigeni: una grande
storia, ma forestieri in casa propria

Sono tornato a rivedere le comunità indigene in cui avevo
prestato il mio servizio missionario fino al 2005 (da là ero poi andato per due
anni a Guayaquil, sulla costa, prima di rientrare in Italia). È stato un colpo
duro per me vedere che si sono svuotate e che gli anziani sembrano soltanto
guardiani di ricordi. A Naubug ai miei tempi c’erano 2500 persone. Ne sono
rimaste 500. A Guantul il numero arrivava a 1500, adesso è 300. Ogni comunità
aveva la sua scuola, che avevamo voluto come luogo di incontro tra maestri,
alunni, genitori e dirigenti, con l’obiettivo di riflettere sul vissuto per
trovare insieme modi nuovi per mantenere la propria cultura e affrontare, senza
evasioni e fughe e senza perdere la propria identità, il futuro. Mi ha dato una
grande pena vedere come sono state modificate. Sono pochissime le scuole con più
di 30 alunni. Licto contava 28 comunità e Flores 26, con un uguale numero dei
centri educativi. Ho avuto la sensazione che sia stata attuata una
cancellazione sistematica riducendo le comunità a luoghi disabitati, come dopo
una guerra.

Rivoluzione

La parola chiave del cambiamento è «rivoluzione». È
scritta sui tanti cartelli che abbondano lungo le strade. Questi gli slogan più
comuni:

• Siamo la generazione rivoluzionaria.
• È la rivoluzione della speranza.
• Rivoluzione è libertà.
• Rivoluzione è patria.
• Rivoluzione è educazione gratuita.
• Rivoluzione è salute gratuita.

Queste frasi tapezzano ogni cosa. Si vedono edifici
rimessi a nuovo con un cartellone in evidenza che recita: «La rivoluzione
cittadina ha finanziato questa opera».

Neanche le chiese sono risparmiate. Anche i lavori per
dare un aspetto nuovo alla chiesa di Licto mettono in risalto l’aiuto della
rivoluzione cittadina.

Anche le strade sono state rimesse a nuovo, belle larghe
e asfaltate. Frequenti cartelloni ricordano che «Abbiamo strade di prima qualità.
Abbiamo ponti che ci uniscono».

La parola «rivoluzione» è definita come la «promozione
della vera libertà». «La rivoluzione promuove case degne e educazione gratuita.
Le vie della rivoluzione portano a opere integrali, complete».

Slogan e cartelloni

I cartelloni sono davvero promotori di vita nuova e bella
e incoraggiano anche a essere vigilanti per il bene comune. «Se i bambini sono
ben nutriti, anche i loro sogni lo sono». «Se dai soldi per la strada, aiuti
soltanto ad aumentare l’accattonaggio». «Lo sviluppo equo è vera libertà».

Uno mostra un bimbo: «Il mio futuro è nelle tue mani,
paga le tasse».

Frequenti sono i quelli che invitano a responsabilizzarsi
per sradicare atteggiamenti socialmente pericolosi sulla strada:

• A chi non rispetta il ciclista togli la macchina.
• Ferma chi non usa il casco di sicurezza.

• Se vedi che l’autista ha bevuto, requisisci la
macchina.

• Se vedi uno che guida e usa il cellulare, fermalo.

• Se vedi che carica gente per la strada, non lasciarlo
proseguire.

Si insiste molto sulla parola patria: «Patria è il meglio
che c’è nel mio paese. Siamo la generazione che ricuperò la patria». Poi,
immancabile, lo slogan ufficiale: «Patria, andiamo avanti».

Cosa è diventato
l’Ecuador?

I governanti dicono di volere l’Ecuador come una patria
con piena libertà. Due parole che diventano sinonimi inscindibili per far
credere a persone e comunità che la libertà della patria si raggiunge solo col
progresso gestito da governanti garanti del potere sovrano (del popolo,
ovviamente). Tale progresso, sostengono, si raggiunge con organizzazione e
centralizzazione. Solo così, tutti insieme, si può costruire un paese bello,
moderno e davvero presentabile alla ribalta nazionale e internazionale, che
abbia infrastrutture atte a incrementare il turismo e gli scambi commerciali a
livello mondiale. Allora la loro retorica arriva ad affermare che è
indispensabile una classe dirigente stabile e capace, in grado di attuare e
mantenere i traguardi previsti per il bene di tutti, disposta anche a
modificare la costituzione per permettere al suo presidente di essere rieletto
per la terza volta e vicina a paesi come Cuba, Venezuela, Bolivia e Argentina,
paesi che cercano di affrancarsi dal dominio nordamericano.

A dispetto di questi limiti politici, in realtà l’Ecuador
è un paese meraviglioso.

Conseguenze
drammatiche

Mons. Leonidas Proaño, un grande vescovo dell’Ecuador,
diceva di aver creduto nell’uomo e nella comunità. La persona indigena è
essenzialmente ubicata nella comunità, che vive unita e compatta in un
territorio ben definito dove la terra ha confini e limiti che non possono
essere modificati da invasioni.

Il progetto di efficienza e centralizzazione propugnato
dal governo ha inciso drammaticamente nel vissuto degli indigeni. Anzitutto è
stata travolta la comunità educativa. Sono scomparse le scuole comunitarie per
creare nuove scuole centralizzate, complete dall’asilo all’università. È la «scuola
del millennio» che tutti devono frequentare in un luogo centrale. Gli indigeni
hanno allora dovuto abbandonare le loro case per permettere ai figli di andare
a scuola. Così le città di Riobamba e Quito si sono riempite di indigeni che
cercano di sopravvivere aprendo una miriade di piccoli negozi.

Incontro
indimenticabile

Mi ha fatto impressione l’accoglienza della gente. Dopo
nove anni di assenza mi riconoscevano ancora. La commozione era visibile e
piena di tenerezza. Come quando tornai a casa e non trovi niente delle cose che
avevi lasciato, ma ci sono le persone che ti vogliono bene. E ti ricordano che
la missione non è la costruzione, ma la gente con cui hai camminato, diventata
capace di vivere bene nonostante i guai e i cambiamenti. È questo che da
speranza: crollano i monumenti ma le persone ci sono e hanno voglia di vivere
la propria vita nonostante le macerie e oltre le macerie.

Sono andato in Ecuador come addormentato nei ricordi di
tanti anni e di tante opere; intorpidito da una abitudine missionaria che aveva
dato senso e significato a un certo percorso, perché la credibilità
tradizionale del missionario doveva avere la sua visibilità
nelle opere.

Un cartello mi ha commosso: «Mi sono svegliato e ho
voglia di sognare l’incredibile».

Giuseppe Ramponi

Giuseppe Ramponi




Missione difficile, Presidente

Il paese tra
corruzione e deficit

Joyce Banda è la seconda
presidente donna dell’Africa. Già militante nella società civile, è chiamata a
guidare il suo paese fuori dal guado di corruzione e crisi economica. Scoppia
però l’ennesimo scandalo e tutto l’esecutivo viene licenziato. Intanto si
avvicinano le elezioni generali di maggio.

Da subito è indicata come la figura più adatta a
riformare la disastrata economia nazionale e far fronte alla corruzione
endemica nel suo paese quando, ad aprile 2012, diventa presidente del Malawi
Joyce Banda, la seconda donna a raggiungere la massima carica di uno stato in
Africa dopo Ellen Johnson Sirleaf in Liberia.

Il
Malawi è un paese senza sbocchi sul mare, chiuso tra Tanzania, Mozambico e
Zambia, in cui più della metà della popolazione vive al di sotto della soglia
di povertà e che, in base alle statistiche delle Nazioni Unite, risulta il
settimo più povero al mondo. Il 10% dell’intera popolazione nazionale è affetto
dall’Aids ma gli ospedali sono costretti a chiudere perché non hanno i soldi
per acquistare le medicine più banali come gli antibiotici.

Dopo
il decesso improvviso del suo predecessore Bingu wa Mutharika, Joyce Banda
diventa presidente ad interim con il benestare
della comunità internazionale che la vede in grado di lottare contro un sistema
in cui la corruzione è una pratica all’ordine del giorno a tutti i livelli
dell’amministrazione pubblica e l’economia dipende dagli aiuti economici
estei.

Da attivista a
presidente

Il
cammino di Joyce Banda per arrivare alla guida di questo paese dell’Africa
australe è legato soprattutto alla coincidenza di essere stata chiamata nel
2009 da Mutharika a ricoprire la carica di sua vicepresidente, dopo tre anni al
dicastero degli Affari esteri di Lilongwe, più che altro nel ruolo di una
figura di rappresentanza da mostrare sulla scena politica internazionale.

La morte di Mutharika, dopo otto anni di governo, e la
capacità di Joyce Banda di mostrarsi intenzionata a proseguire il mandato
istituzionale, hanno contribuito a fare di lei quel volto di cui necessitava il
paese per continuare ad avere il sostegno internazionale.

In politica dal 1999, Joyce Banda è stata ministro per la
Parità di genere nel secondo governo democraticamente eletto del Malawi,
guidato fino al 2004 dall’allora presidente Bakili Muluzi, dopo una carriera
passata in diverse organizzazioni della società civile impegnate per
l’emancipazione della donna. La sua storia e le sue prime dichiarazioni da
presidente, come quelle relative a un maggiore impegno nel raggiungimento degli
Obiettivi di sviluppo del Millennio in favore di una maggiore legittimazione
del ruolo delle donne e dell’istruzione universale, ottengono subito il plauso
del presidente statunitense Barack Obama e dell’allora Segretario di Stato
Hillary Clinton.

Tra le sue prime azioni una volta salita al potere dopo
la morte del suo predecessore, i media enfatizzano subito la vendita dell’aereo
presidenziale e il dimezzamento del suo stipendio come esempi lampanti del suo
impegno a ridurre le spese della classe politica.

Corruzione in agguato

Nonostante
ciò, alcuni scandali recenti legati ancora una volta alla corruzione cominciano
a offuscare la sua immagine, coinvolgendo anche diversi ministri e alti
funzionari governativi. Alcuni di questi sono ora sotto processo proprio a
ridosso delle elezioni generali che si terranno il prossimo 20 maggio, le
quinte organizzate in Malawi dopo la svolta democratica del 1999.

Tutto
è cominciato lo scorso settembre con il fermo, durante un controllo della
polizia stradale di un impiegato ministeriale, il cui stipendio si aggira
intorno ai 100 dollari al mese. Nel bagagliaio della sua auto sono state
rinvenute valigie piene di banconote per un totale di 25.000 dollari. Pochi
giorni dopo, il direttore del bilancio presso il ministero delle Finanze ha
subito un’aggressione e rimanendo gravemente ferito da diversi colpi di
pistola: i giornali locali hanno sostenuto che era sul punto di recarsi dalla
polizia per denunciare una serie di frodi e pratiche di corruzione che
avrebbero sottratto almeno 80 milioni di dollari alle casse dello stato,
coinvolgendo direttamente una settantina tra funzionari, uomini politici e
imprenditori.

La
presidente Banda ha agito con prontezza sospendendo immediatamente tutta la
squadra di governo, chiedendo a ciascuno che dimostrasse la propria estraneità
ai fatti e licenziando in tronco il ministro della Giustizia e quello delle
Finanze, che oggi risultano peraltro essere tra i più invischiati nelle
pratiche di malgoverno e nel tentato omicidio del dirigente ministeriale.

Uno
scandalo di tale portata non poteva non riflettersi su colei che solo due anni
prima era stata salutata come salvatrice della patria. Il «Cashgate»,
questo è il nome che i giornali locali hanno dato allo scandalo di corruzione e
al processo in corso, è infatti solo la punta di un iceberg. Secondo gli
investigatori del governo, negli otto anni di presidenza di Bingu wa Mutharika
la cifra finita indebitamente nelle tasche di politici, imprenditori e
funzionari corrotti sarebbe di gran lunga superiore ai 500 milioni di dollari.
La quasi totalità dei quali proveniente dai fondi concessi da donatori
inteazionali quali il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, la
Banca africana di sviluppo, l’Unione europea e la Gran Bretagna, che
garantiscono ogni anno più del 40% delle necessità del bilancio statale del
Malawi e che, dopo la scoperta dello scandalo, hanno deciso di sospendere i
pagamenti.

Banda sotto accusa

Come
fosse un pendolo in oscillazione da un estremo all’altro, Joyce Banda che solo
all’inizio del 2013 era stata definita dalla rivista statunitense Forbes la
donna più potente dell’Africa si è trovata, alla fine dello stesso anno,
costretta a rispondere alla comunità internazionale e ai suoi stessi
concittadini del fallimento della sua azione di governo. Le accuse più aspre
provengono dalle organizzazioni per i diritti civili del Malawi. In
un’audizione fatta di fronte al parlamento di Lilongwe, il presidente della
Commissione Giustizia e Pace della Chiesa cattolica, Peter Chinoko, ha definito
la presidente: «II più grande ladro del mondo», sostenendo che lei fosse «parte
integrante e fondamentale» del Cashgate e
che la genesi dello scandalo fosse da rintracciare nel tentativo della Banda e
dei suoi sostenitori di raccogliere fondi in vista delle prossime elezioni.

Il
rapporto più duro sulle dimensioni della corruzione in Malawi è probabilmente
uno studio intitolato «Licenza di rubare» e pubblicato lo scorso novembre da
Allan Ntata, un avvocato di Lilongwe che ora vive in Gran Bretagna, ex
consulente giuridico della presidenza della Repubblica del Malawi. In 67 pagine
l’avvocato elenca laconicamente decine di episodi di corruzione, molti dei
quali avvenuti durante il periodo della sua consulenza, e ricostruisce lo
schema tipico delle frodi.

In
sostanza, i funzionari utilizzavano un computer collegato al sistema centrale
dell’amministrazione pubblica per trasferire i fondi a società di comodo per
servizi mai resi, preoccupandosi poi di cancellare tutti i dati relativi alle
società stesse di modo che fosse impossibile risalire a esse. Un procedimento
tutto sommato semplice, che induce Ntata alla seguente considerazione: «La
corruzione è una pratica endemica perpetrata dal potere esecutivo, che si
occupava deliberatamente di come coprire lo schema utilizzato per sottrarre il
denaro».

Taglio dei fondi

Numerosi
sono però i commenti che vedono la sospensione del sostegno finanziario
internazionale al Malawi come una decisione affrettata, sostenendo come il
problema centrale sia sistemico e che il compito di riformare l’economia
nazionale e combattere la corruzione che Joyce Banda aveva assunto non sia
un’azione che si possa portare a termine dall’oggi al domani.

Lo
scrittore somalo Hassan Abukar sul portale d’informazione African
Arguments, curato dalla prestigiosa Royal
African Society, e l’economista sudafricano Greg Mills sul
quotidiano di Johannesburg Business Day
sono, per esempio, solo due tra le tante autorevoli voci che in Africa hanno
cercato di inquadrare la figura di Joyce Banda all’interno di una visione più
ampia della storia del suo paese per comprenderne meglio il ruolo a pochi mesi
dal voto con il quale i cittadini del Malawi dovranno eleggere il loro futuro
presidente, rinnovare i 194 parlamentari all’Assemblea nazionale e, per la
prima volta dopo 14 anni, anche i rappresentanti presso i consigli
amministrativi locali.

Mezzo
secolo dopo l’indipendenza ottenuta il 6 luglio 1964, il reddito pro capite in
Malawi è oggi pari a poco più di 230 euro all’anno – superiore solo a quello di
Burundi e Repubblica democratica del Congo – con un’economia prevalentemente
basata sull’agricoltura, in cui è impiegato oltre il 90% dell’intera forza
lavoro. Su una popolazione che supera di poco i 16 milioni di abitanti, sono
ancora più di otto persone su dieci coloro che vivono nelle zone rurali del
paese. Tuttavia proprio l’agricoltura, che è fortemente dipendente dai sussidi
concessi all’uso di fertilizzanti, contribuisce solo per circa un terzo alla
formazione della ricchezza nazionale, ed è subordinata al prezzo sui mercati
inteazionali del tabacco, il quale rappresenta più della metà delle
esportazioni del paese.

Economia in
difficoltà

Il
Malawi è un importatore netto, dai prodotti alimentari a quelli petroliferi.
Infatti nel 2012 la sua bilancia commerciale ha registrato un saldo negativo di
poco inferiore al miliardo di dollari. La fine nel 1994 del regime di Hastings
Banda (nessuna parentela con l’attuale presidente), che aveva governato il
paese dall’indipendenza dalla Gran Bretagna, e il passaggio a un regime
democratico non si sono tradotti automaticamente in quei cambiamenti che gli
abitanti del Malawi si aspettavano.

«La
transizione alla democrazia fu gestita male – ha scritto Greg Mills – il minore
controllo di polizia sull’opposizione e l’aumento delle libertà civili non vide
un corrispondente miglioramento della capacità politica delle istituzioni,
mentre sul versante economico le poche industrie esistenti dovettero soccombere
in seguito alle liberalizzazioni e al diminuito protezionismo. Aumentavano le
aspettative dei cittadini, allo stesso tempo cresceva anche il numero
complessivo dell’intera popolazione e i partiti politici si trovavano nella
necessità sempre più incombente di trovare fondi per mantenere la loro base di
sostenitori».

È in
un sistema come questo che si manifesta la corruzione: un’economia politica
fatta di intermediari che pretendono la loro parte sulle importazioni, sui
contratti governativi, sulle aste del tabacco. La presidente Banda si è
ripromessa di portare avanti un programma ambizioso di riforme: in primo luogo
delle stesse istituzioni dello stato che nessun leader del Malawi prima di lei
si era sognato di realizzare, diminuendo la dipendenza finanziaria dall’estero
e interrompendo quel circolo vizioso di contratti governativi, mazzette,
importazioni gonfiate, manovre politiche e interessi economici. Ma per
riuscirvi dovrebbe essere rieletta il prossimo 20 maggio. Joyce Banda sembrava
essere cosciente della sfida quando, in un incontro lo scorso dicembre, poco
prima della fine dell’anno, con un gruppo di giornalisti stranieri, dichiarava:
«Non è soltanto una questione di corruzione – riferendosi in particolare alla
questione della chiusura degli ospedali – ma è qualcosa che riguarda più da
vicino noi in quanto cittadini del Malawi e le priorità che vogliamo darci».

Nei
primi 50 anni dopo l’indipendenza, il Malawi è diventato ancora più dipendente
dall’estero in termini economici.

Michele Vollaro


Contenzioso con la
Tanzania per le prospezioni petrolifere

Il lago che dà vita,
e non solo

Per decenni ha interessato direttamente solo i
pescatori del Malawi e della Tanzania, che del lago Niassa o Malawi si
contendevano le risorse ittiche. Ma da quando nel 2011 il governo di Lilongwe
ha assegnato una licenza per l’esplorazione petrolifera dei suoi fondali, la
questione ha assunto un’altra ampiezza. Il lago è infatti al centro di una
disputa sempre più accesa tra i due paesi, che ne sono bagnati insieme al
vicino Mozambico, sulla posizione precisa della linea di confine reciproca.
Subito dopo la concessione della licenza esplorativa alla britannica Surestream
Petroleum
e le proteste della Tanzania, infatti, si sono svolti una serie
di incontri bilaterali per rivedere i fatti associati alla disputa e
individuare una soluzione che fosse accettabile per entrambe le parti. Ma i
colloqui si sono risolti in un nulla di fatto e a gennaio 2013 i due governi si
sono dovuti rivolgere al Forum degli ex
capi di stato e di governo della Comunità di sviluppo dell’Africa australe

(Sadc). Anche questo tentativo di mediazione sembra però essere arrivato a uno
stallo e non è ancora chiaro se la questione sarà affrontata direttamente al
prossimo vertice della Sadc dagli attuali capi di governo oppure riferita alla
Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite.

È evidente però che il Malawi non è in alcun
modo intenzionato a lasciarsi scappare la possibilità di trarre beneficio
economico dalla presenza di greggio nel sottosuolo e perciò lo scorso gennaio
ha reso noto di aver rinnovato le autorizzazioni ambientali alla Surestream
per portare avanti le operazioni esplorative, mentre negli stessi giorni la
società britannica ha dichiarato di stare effettuando dei sondaggi sismici e
geologici nelle acque del lago già dallo scorso novembre. Il Malawi rivendica
infatti come proprie tutte le acque del lago, sulla base di un accordo del 1890
tra le allora potenze coloniali di Gran Bretagna e Germania. La Tanzania si
appella invece alla pratica consuetudinaria che in diritto internazionale
utilizza la linea media delle acque intee per stabilire i confini tra due
paesi, oltre a richiamarsi a presunte evidenze storiche successive alla
sconfitta della Germania durante la seconda guerra mondiale e le perdite delle
sue colonie in Africa.

Michele
Vollaro

Michele Vollaro




Speriamo non arrestino il batterista

Diario di un anno nella pastorale migranti


Da qualche tempo i missionari della Consolata in Corea del
Sud sono impegnati nella pastorale migranti. Un breve affresco di vita
comunitaria e missionaria ci restituisce gli entusiasmi, le difficoltà,
l’umanità delle relazioni, le fragilità dei progetti di vita dei migranti.

_________________________________________________________________________________________

Alla fine di gennaio 2013 mi
sono ritrovato catapultato nella comunità di Tong du cheon a Nord Ovest di
Seoul, vicino alla Corea del Nord. Luogo in cui sono concentrate molte piccole
fabbriche che possono sopravvivere solo con manodopera straniera.

Un
mondo nuovo per me, quello della pastorale dei migranti. L’impressione che ho
avuto del nostro lavorare in questo ambito la esprimerei con la parola «rete» (network).
Tutto quello che facciamo infatti non sarebbe possibile senza una grande rete
di solidarietà e di volontari che moltiplica i nostri pochi pani e pesci in
questo paese tutt’altro che amichevole coi migranti.

Un
po’ di tempo dopo, partecipando all’incontro nazionale della pastorale dei
migranti, sono rimasto sorpreso dal grande numero di coreani coinvolti.
Considerando che i 200 presenti all’incontro erano solo i delegati,
rappresentanti di altre migliaia che in tutta la nazione aiutano i lavoratori
immigrati, e che questo paese per motivi storici e sociologici non è molto
amichevole verso gli stranieri, mi sono sentito come dentro un miracolo
culturale che comincia dalla Chiesa cattolica.

Accogliere

Ogni
tanto, per qualche caso speciale, ci viene richiesto di accogliere un migrante
in difficoltà, di solito per motivi di salute.

Quest’anno
abbiamo ospitato per un paio di mesi, nella nostra comunità, Andi, un cubano
che aspettava di tornare al suo paese. La moglie coreana l’aveva portato qui,
in Corea del Sud, ma poi si era stufata di lui e l’aveva mandato via da casa.
Mentre aspettava i documenti del divorzio, Andi non aveva un posto in cui stare
e non mangiava regolarmente. Allora lo invitavamo a mangiare con noi, e tra le
pastasciutte e i risotti siamo riusciti a fargli mettere su qualche chilo per
renderlo presentabile a sua madre, quando l’avesse riabbracciato. Preparavo
sempre cibo per una persona in più, e lui con innocenza infantile ogni volta mi
chiedeva: «Posso finire tutto?».

Dal Kenya per i peruviani in Corea

Ad
aprile anche padre Clement Gacoka del Kenya è stato destinato a questa comunità.
Lui per il momento continua a studiare coreano e ad aiutare nella pastorale dei
peruviani a Yokkok. Ci aiuta a mantenere la casa come uno specchio, e adesso
stiamo cercando una parrocchia dove possa fare un tempo di immersione totale nella
lingua locale.

Padre
Tamrat Defar, un etiope che è qui da sei anni, con pazienza e costanza è
riuscito a radunare un gruppo di Filippini e Nigeriani (ma anche americani e
coppie di nazionalità mista) per una messa domenicale in lingua inglese. Adesso
abbiamo un numero costante di una quarantina di fedeli regolari, ma la quantità
sembra crescere e calcoliamo che siano più di 100 quelli che hanno partecipato
alle nostre celebrazioni una o più volte. Tutto questo grazie anche al parroco
di Tong du cheon che ci presta i locali e ci dà un appoggio incondizionato.

Non di sole telenovelas
(coreane)

Assieme
ai migranti e al centro della parrocchia di Nog Yang che cornordina la nostra
zona pastorale organizziamo anche giornate di ricreazione. Quest’anno con due
autobus siamo andati a visitare un’isola fluviale, famosa per delle telenovelas
coreane girate in loco. Ci sono posti come: il ponte su cui i protagonisti si
sono dati il primo bacio e la panchina su cui lui ha detto a lei che l’amava.
Le nostre giovani filippine, tutte entusiaste, non facevano più di 100 metri
senza scattare una foto.

Verso
la fine dell’estate siamo anche andati in piscina, in più di 200 persone dai
vari centri della zona. Mentre a ottobre abbiamo organizzato il grande bazar al
centro di Nog Yang con vendita di vestiti usati e di cibi tradizionali dei vari
gruppi etnici. Nigeriani, Filippini, Vietnamiti, Cambogiani, Thailandesi erano
i gruppi più consistenti. I Cambogiani e Thailandesi, benché non siano
cristiani, sono assidui frequentatori del centro e ricevono aiuto grazie ad
alcune donne di quelle nazioni che parlano un po’ di coreano.

Qui
al centro chiunque può trovare aiuto medico, grazie a una specie di
assicurazione a cui tutti contribuiscono, ma anche grazie ad aiuti generosi in
occasione di grosse operazioni chirurgiche. C’è anche un aiuto legale e la
possibilità di trovare rifugio in casi di violenza familiare.

Una pastorale fluttuante

La
nostra è una pastorale, per così dire, «fluttuante». Siamo venuti in questa
zona per assistere la comunità peruviana, che però ormai è quasi sparita. Al
contrario invece la comunità di lingua inglese sta crescendo. A volte i nostri
fedeli preferiscono andare in altri centri dove si radunano i loro amici, così
il loro numero in quei casi diminuisce improvvisamente.

In più
ogni tanto gli agenti dell’immigrazione fanno un raid a caccia di
immigrati illegali e qualcuno dei nostri fedeli viene rispedito in patria. In
questo modo cinque mesi fa abbiamo perso il chitarrista della messa, Danny, un
caro amico che con la moglie aveva animato la messa della comunità filippina
per quasi 20 anni. Il nuovo direttore del coro è molto bravo, ma anche lui
illegale, come l’80% di tutti gli altri. Speriamo che non ce lo arrestino.

«Senza di voi sarebbe dura»

Un giorno, in un incontro, una signora filippina con le
lacrime agli occhi ci diceva: «Grazie, senza l’aiuto che i coreani e voi ci
date, per noi la vita sarebbe veramente troppo dura!».

A volte non ci rendiamo conto dell’impatto delle nostre
azioni e sembra sempre troppo piccolo quello che facciamo. Padre Tamrat va a
tradurre all’ospedale o al centro legale. Un prete locale si preoccupa di avere
i fondi per le emergenze ospedaliere o perché tutti possano mangiare quando andiamo
in piscina. Noi mettiamo in contatto questo e quello con una certa signora che
aiuta gli immigrati per i documenti. La donna delle pulizie della nostra
parrocchia fa sempre trovare il caffè pronto per tutti. Una suora tiene la mano
a una mamma etiope all’ospedale: alcune cose non si possono comunicare a
parole, ma quella mamma ci ha fatto capire che si è sentita tanto aiutata e
compresa.

Noi
siamo piccoli, ma questa rete d’amore che si è creata fa meraviglie!
Abbiamo
anche altri sogni, ma ve li faremo sapere l’anno prossimo.
Per
ora ci limitiamo al coro della messa, per cui abbiamo comprato una batteria
elettronica… sperando che non ci arrestino il batterista!

Gian Paolo Lamberto


          Per andare avanti un’altra settimana                    

Ormai ogni diocesi ha il suo incaricato della pastorale
migranti e c’è una rete di centri di ascolto, con molti volontari anche non
cristiani, nei quali i migranti vanno a cercare aiuto per salari non pagati,
problemi medici e legali, scuole di lingua e cultura. Spesso cercano solo un
posto in cui trovarsi insieme tra loro, mangiare i loro cibi tradizionali e
sentire il calore della patria lontana. Tutti mandano soldi alla famiglia, per
costruire una casa, mandare i figli a scuola o semplicemente mantenerla. Vivono
in condizioni a volte disumane (ci sono casi di stranieri che vivono in
containers, gelidi d’inverno e torridi d’estate) e fanno gl’infami lavori delle
3 D, dirty, difficult and dangerous, ossia sporchi, difficili e pericolosi, che
ormai i coreani non vogliono più fare.

Qui la messa non è solo un motivo di aggregazione, ma un
vero momento di speranza, dove si ricaricano le forze nel Signore per andare
avanti un’altra settimana. La nostra messa è alle tre del pomeriggio perché
molti dei nostri fedeli lavorano di notte e noi cerchiamo di adeguarci ai loro
bisogni. A me piace guardare i loro volti quando cantiamo il Padre nostro: si
vede proprio la partecipazione del cuore. E sapete cosa è simpatico: alcuni dei
nostri leaders più fedeli sono ex seminaristi!

Nel nuovo panorama sociale da un po’ di anni c’è il fenomeno
delle famiglie multi culturali. Si parla di 260mila famiglie composte da un
marito coreano, solitamente proveniente dalla campagna, o da un povero, o
handicappato della città, e da una moglie proveniente da paesi come Cambogia,
Vietnam, Mongolia, Filippine, Cina, che vuole sfuggire la povertà o
semplicemente non ha altri mezzi al di là di questo per aiutare la famiglia.
Per questo motivo oltre ai centri di ascolto ci sono case rifugio per donne in
difficoltà, vittime di violenza domestica: poiché una gran parte di queste
unioni sono problematiche. Uno dei grandi problemi è l’integrazione nella
società dei bambini di queste famiglie miste. Siccome dalle madri non possono
imparare bene il coreano, e siccome sono diversi di aspetto dai coetanei,
trovano difficoltà a integrarsi nella scuola con gli altri bambini perché
questi li ostracizzano. Anche in tali casi le religiose intervengono con una
rete di piccoli doposcuola per i bambini e di centri di assistenza per le
mamme. Bisogna dire che anche il governo è cosciente della situazione e sta
facendo il possibile con campagne di sensibilizzazione perché i figli di coppie
miste siano accettati come coreani al 100 per 100. Fino a 20 anni fa il
ritornello era: «Noi coreani siamo una razza pura». Ma da 20 anni la natalità è
crollata a livelli più bassi di quelli italiani e ci si prepara a un grande
invecchiamento e diminuzione della popolazione.

Gian Paolo Lamberto
 

Gian Paolo Lamberto




L’Africa verso il futuro

OLTRE GLI STEREOTIPI


Quando si parla di Africa, si fa subito un diretto
riferimento al problema endemico della fame, al dramma della povertà, alle epidemie
infettive, al diffondersi dell’Aids, alle guerre etniche locali. Ma il grande
pubblico forse non è a conoscenza del fatto che il continente nero è in grado
di esprimere concretamente notevoli potenzialità di sviluppo sul piano
economico, finanziario, industriale e sociale. Rapporti redatti da organismi
come il Fondo monetario internazionale o la Banca mondiale mettono in luce come
l’Africa riservi al mondo delle sorprese per il futuro, quando si rivelerà un
continente in grado di competere con l’Occidente e le altre potenze economiche
del pianeta.

(Nairobi, Kenya, piazza della Holy Family Basilica)

La Cina e le banche

Il primo paese a rendersi conto delle potenzialità
insite nel continente africano, intraprendendo di conseguenza un accelerato
programma di sfruttamento, è stata la Cina. Immediatamente seguita dalle
multinazionali occidentali nei settori agroalimentare e delle
telecomunicazioni. Anche le banche e le agenzie petrolifere, insieme alle
imprese edili e delle infrastrutture, hanno fiutato il business e si
sono adoperate alacremente per agire in territorio africano. Fra le prime
banche a investire in Africa si menziona in particolare la russa Renaissance
Capital
. Essa ha aperto a partire dal 2005 sette ultramodei uffici in ben
sette capitali: Johannesburg, Lagos, Lusaka, Lubumbashi, Nairobi, Accra,
Harare. L’ente finanziario russo ha investito in questa gigantesca operazione
più di un miliardo di dollari, dando lavoro a 180 persone.

Un progresso economico senza precedenti

I
rapporti delle banche e degli istituti di ricerca confermano dunque che
l’Africa è il continente in cui l’economia globale attualmente in crisi può
rivitalizzarsi. Il Fondo monetario internazionale, per esempio, ha dichiarato
che l’area subsahariana vedrà crescere il Pil fino a quasi il 7%, la Nigeria
diventerà la locomotiva dell’Africa e i Brics (Brasile, Russia, India, Cina e
Sudafrica) investiranno sempre di più nel continente nero. Secondo un’indagine
eseguita dalla Banca mondiale (Africa’s Pulse), che ha analizzato lo
stato dell’economia della regione a Sud del Sahara, in questa zona si realizzerà
presto un progresso economico senza precedenti. Inoltre, sempre secondo le
stime del Fondo monetario internazionale, nell’arco di tempo che va dal 2013 al
2016 l’Africa potrà accogliere il 30% degli investimenti mondiali.

Le previsioni della Banca mondiale

Le
analisi effettuate dalla Banca mondiale confermerebbero che a medio termine le
prospettive di crescita in alcune aree dell’Africa rimarranno salde e saranno
rinvigorite e sostenute da un’economia mondiale in graduale miglioramento.
Secondo altri rapporti inteazionali, nel 2012 circa un quarto dei paesi
africani è cresciuto del 7%, mentre stati come Sierra Leone, Niger, Costa
d’Avorio, Burkina Faso, Ruanda, Liberia ed Etiopia hanno evidenziato un
fenomeno impressionante: la più rapida crescita al mondo. Le previsioni in
materia d’investimenti fanno pensare che, con i prezzi delle materie prime
costantemente elevati, gli utili e gli incrementi in infrastrutture regionali
risulteranno maggiori con relativa crescita del commercio e del business.
Quest’ipotesi di crescita è perlomeno verosimile, tanto più se si pensa che da
un punto di vista energetico l’Africa possiede il 10% delle riserve mondiali di
petrolio e l’8% di quelle di gas. La Banca mondiale, inoltre, in base alle
indagini effettuate in loco, ritiene che ad attestare un futuro positivo di
crescita per le economie africane ci siano i seguenti fattori: la ricchezza
mineraria e la crescita del consumo interno, senza contare l’aumento degli
investimenti privati. In effetti, le recenti scoperte di petrolio, gas
naturale, rame e altri minerali strategici, l’apertura e l’espansione di nuove
miniere in Mozambico, Niger, Sierra Leone e Zambia, laddove sono accompagnate
da una efficace governance politica ed economica, stanno favorendo una solida
crescita economica in tutto il continente. È opinione ancora della Banca
mondiale che, date le notevoli quantità di nuove entrate derivanti dai minerali
che si configureranno in tutta la regione, i paesi africani ricchi di risorse
dovranno investire con attenzione e con scrupolosità questi guadagni per
migliorare le condizioni sanitarie, l’istruzione e l’occupazione, ottimizzando
così le prospettive di sviluppo anche per le popolazioni locali. Inoltre,
sempre secondo stime della stessa Banca la popolazione giovanile dell’Africa
risulterà essere la più grande forza lavoro al mondo, sorpassando la Cina entro
il 2030 e l’India entro il 2040.

Telefonia mobile ed esportazioni

Un
progresso sostanziale si registra anche nel campo della telefonia mobile:
essendo assente la telefonia fissa, sarà possibile il boom dell’Information
and Communication Technology
. La telefonia mobile al momento serve 700
milioni di utenti su una popolazione che supera il miliardo di persone. In
questo settore specifico delle telecomunicazioni, l’Africa risulta il secondo
mercato in più rapida espansione al mondo (il primo è l’Asia). Altre notizie
incoraggianti provengono dal ramo delle esportazioni verso l’Africa. Nei primi
mesi del 2013 si è visto crescere in modo forte l’esportazione verso i mercati
subsahariani di macchine e attrezzature per costruzioni. Infatti, mentre nel
2012 essa rappresentava il 6% del mercato mondiale di quel settore, ora invece
rappresenta il 26%, e sono più che raddoppiate le macchine esportate in
Sudafrica (110%).

Questo
dato positivo, va bilanciato con quello negativo circa le macchine e
attrezzature per il movimento a terra (-22%) e quelle stradali (-4,9%) – che può
significare meno strade -; mentre la crescita delle esportazioni mondiali verso
l’Africa di gru a torre e di macchine perforatrici, rispettivamente del 18,2% e
del 7,6%, può indicare un aumento delle attività estrattive e minerarie con il
risvolto positivo delle maggiori entrate economiche e quello negativo del loro
impatto sull’ambiente.

Le contraddizioni dell’economia

Nonostante
queste notizie molto confortanti e incoraggianti che auspicano la ripresa
economica dell’Africa, non si nasconde che nelle pieghe dello sviluppo
economico e finanziario si insinuano le identiche contraddizioni che
caratterizzano il capitalismo finanziario occidentale, in quanto all’aumento
del Pil corrisponde quasi sempre una ingiusta distribuzione delle risorse. È il
motivo per cui i vescovi africani nel messaggio conclusivo della riunione del
cornordinamento Giustizia e pace del Secam (Simposio delle Conferenze
Episcopali di Africa e Madagascar), svoltosi a Bujumbura, in Burundi, nel
novembre 2013, hanno lanciato il grido «No alla miseria». Nel testo i vescovi
elencano chiaramente le cause della miseria in Africa e Madagascar, esprimendo
un «netto rifiuto dello sfruttamento dei più poveri e dei più deboli, della
riduzione in schiavitù, del traffico dei nostri bambini e dei loro organi».
Denunciano inoltre «l’insicurezza crescente in alcuni paesi e regioni del
continente», ricordando «le violenze e le vessazioni criminali in Centrafrica,
i conflitti ricorrenti nella Repubblica Democratica del Congo, il fanatismo e
l’estremismo religioso in Nigeria, Mali, Egitto, Somalia, Kenya e Tanzania».
L’obiettivo è dunque quello di porre fine allo «sfruttamento ingiusto delle
nostre risorse naturali, con l’industria mineraria che provoca conflitti
violenti e criminali». L’auspicio, invece, è che «gli Stati africani abbiano il
coraggio di scrivere e votare delle leggi che proteggano le rispettive risorse
naturali», in modo da realizzare un «buon governo», che escluda «tutte le forme
di corruzione e cattiva gestione».

Giampietro Casiraghi

Giampietro Casiraghi




Tra emigrazione e immigrazione

L’inversione di tendenza. Polonia meta d’immigrazione


Dopo decenni di emigrazione, la Polonia, negli ultimi anni,
registra un crescente numero di immigrati (un totale di mezzo milione a
febbraio 2013, per una popolazione di poco inferiore ai 40 milioni). L’ingresso
nell’Unione europea e la crescita economica stanno attraendo persone, aziende e
investimenti. E il governo cerca di far rientrare i «cervelli in fuga».

La Polonia è stata per lungo tempo un paese di
emigrazione. La Germania ospita la maggior parte degli emigranti polacchi, ed è
seguita dagli Stati Uniti e dall’Italia. Fra i motivi più ricorrenti di
soggiorno all’estero, al primo posto c’è sicuramente il lavoro, in particolare
nell’ambito della collaborazione domestica e famigliare, al secondo e al terzo
posto i ricongiungimenti famigliari e i motivi religiosi. I polacchi in Italia
sono concentrati soprattutto a Roma e nel Lazio.

Da paese di emigrazione…

I
primi polacchi stabilitisi nel nostro paese furono i 100.000 soldati del II
corpo d’armata che decisero di rimanere in Italia alla fine della seconda
guerra mondiale. Nel secondo dopoguerra i flussi possono essere divisi in due
grandi ondate: prima e dopo la caduta del muro di Berlino. Una terza fase è
stata poi inaugurata con l’ingresso della Polonia nell’Unione europea nel 2004.

Prima
della caduta del muro di Berlino, la maggior parte delle emigrazioni era a
carattere politico-ideologico, per fuggire al regime comunista. Spesso l’Italia
era solo una terra di passaggio verso i più ambiti Stati Uniti. Certamente
l’elezione a papa di Karol Wojtyla ha valorizzato l’Italia come sbocco per
l’emigrazione, non solo politica, ma anche religiosa. Inoltre nei primi anni
Ottanta la Polonia fu colpita da una profonda crisi economica, nel paese venne
promulgata la legge marziale e il sindacato Solidaosc fu messo al bando.
Questo favorì una nuova predisposizione positiva e sentimenti di accoglienza
nei confronti dei migranti polacchi da parte dei paesi non appartenenti al
blocco comunista. In quel periodo migrarono soprattutto intellettuali, docenti
universitari, medici e ingegneri. Secondo dati ufficiali di fonte polacca
riportati da uno studio del 2006, Polonia. Nuovo paese di frontiera. Da
migranti a comunitari
, di Caritas Italiana, nel corso degli anni 1981-1989
il 3,7% del totale degli emigranti polacchi definitivi e il 5,7% di quelli
temporanei scelsero l’Italia come paese di arrivo.

La
caduta del muro di Berlino ha dato il via alla seconda fase dell’emigrazione
polacca in generale, e dei flussi verso l’Italia in particolare: questi flussi
non erano più motivati da ragioni politiche bensì economiche. Aprendosi
all’economia di mercato la Polonia aveva, infatti, assistito a un aumento del
costo della vita e contemporaneamente della disoccupazione. Motivi che hanno
portato, non solo in Polonia, ma anche negli altri paesi del blocco ex
comunista, a un esodo di massa, di persone tra l’altro con livelli d’istruzione
molto diversi tra loro e molto spesso notevolmente più bassi di quelli dei
precedenti emigranti. Nel 2006, nonostante l’ingresso nell’Unione Europea, il
paese aveva ancora seri problemi occupazionali, con un tasso di disoccupazione
del 17,7%, ritrovandosi inoltre al 24° posto fra tutti i membri dell’Ue a 25
per Pil procapite.

L’ingresso
della Polonia nell’Unione europea ha portato sia a un perdurare delle
migrazioni per lavoro, facilitate appunto dalla libera circolazione dentro
l’area Schengen, sia a una massiccia emigrazione o, per meglio dire,
circolazione di giovani desiderosi di studiare all’estero, di realizzare
esperienze di studio e lavoro non per forza per rimanere stabilmente in Italia,
ma neanche per far ritorno stabilmente in Polonia: quello che negativamente
viene definito «fuga dei cervelli» ma che può anche essere valutato
positivamente come lo sviluppo di un flusso di giovani, realmente europei,
cosmopoliti, tesi verso orizzonti più ampi.

…a paese d’immigrazione?

Da
quando la Polonia è entrata nell’Unione europea nel 2004, però, anche
l’immigrazione e le richieste di cittadinanza da parte di stranieri sono
aumentate, non solo per ragioni di convenienza, ma anche perché il paese è
apparso, soprattutto nel corso degli ultimi anni, sempre più dinamico e in
rapido sviluppo. Da questo punto di vista, la situazione polacca ha molti
tratti di somiglianza con quella italiana di fine anni Settanta poiché, pur
perdurando una forte emigrazione, i flussi in entrata cominciano a diventare
sempre più significativi. Dopo la seconda guerra mondiale e fino all’ingresso
del paese nell’Unione europea, infatti, i flussi di ingresso sono rimasti molto
bassi, in media tra i 1.500 e i 3.000 ingressi annuali. Con la caduta del muro
di Berlino le cose hanno cominciato a cambiare facendo registrare nel 1989
l’arrivo di 4.124 immigrati, mentre nel 2001 il loro numero era quasi
raddoppiato, raggiungendo le 7.740 persone (Caritas Migrantes 2006). A febbraio
2013 il numero degli immigrati, provenienti prevalentemente da alcuni paesi ex
sovietici, tra i quali Ucraina, Russia, Georgia e Bielorussia, aveva ormai
raggiunto e superato il mezzo milione. Se è vero, inoltre, che in molti casi si
tratta di migrazioni di ritorno, è anche vero che l’immigrazione in Polonia si
può collocare nella tendenza globale dei nuovi flussi migratori, anche in
seguito alla crisi economica che ha colpito alcuni paesi europei, tra cui
l’Italia, a partire dal 2008.

L’immigrazione
rimane comunque ancora a bassi livelli in Polonia, nonostante il numero di
persone in arrivo sia in rapida crescita, anche perché la forte emigrazione di
polacchi ha portato ora alla mancanza e dunque alla richiesta di forza lavoro,
specialmente in alcuni settori come quello della cura e dell’assistenza agli
anziani. Come in molti altri paesi membri dell’Unione europea, la società
infatti sta invecchiando, e anche in Polonia serve qualcuno che si prenda cura
degli anziani. In un’intervista alla rivista europea online Cafè Babel,
realizzata nel 2012, Piotr Bystrianin della Fundacja Ocalenie
(Fondazione Salvezza), che si occupa di aiutare gli immigrati nei corsi di
lingua polacca e nella ricerca di lavoro, sostiene comunque che ci sia ancora
molto da fare prima di trasformare la Polonia nella «meta favorita» dei
migranti, perché la situazione nelle campagne è molto diversa da quella nella
capitale.

Lezioni da imparare

Essere
un paese di nuova immigrazione può rappresentare per la Polonia un vantaggio se
sarà in grado di apprendere dalle esperienze degli altri paesi già mete
storiche di immigrati.

Questo
è stato uno degli obiettivi della conferenza internazionale «Children
migrants and third culture kids. Roots and routes
» che si è svolta a
Cracovia, presso la Jagiellonian University, lo scorso giugno. Il focus della
conferenza in particolare era l’impatto delle migrazioni sui bambini, sia su
coloro che rimangono nei paesi di origine e sono costretti a separarsi da uno o
da entrambi i genitori, sia su coloro che seguono i genitori nel percorso
migratorio o, ancora, nel ritorno in patria dopo un periodo passato all’estero.

La
conferenza, coinvolgendo professionisti e ricercatori di paesi europei di più
antica immigrazione, è stata l’occasione per condividere esperienze e
riflessioni riguardanti le conseguenze delle migrazioni sui bambini e le
strategie migliori, le cosiddette best practices, per l’apprendimento (o
il riapprendimento) della lingua, l’inserimento nel contesto della società di
accoglienza, il mantenimento della propria cultura e della propria religione.
La conferenza è stata anche l’occasione, soprattutto per i politici, i
ricercatori e gli operatori delle associazioni che in Polonia si occupano di
migrazione e intercultura, di beneficiare della riflessione su punti di forza e
di debolezza delle esperienze già realizzate altrove. In particolare
l’esperienza italiana, per il comune background religioso e tratti
simili della storia migratoria, ha portato a interessanti riflessioni e
costruttivi confronti.

Persone, merci, capitali

Con
l’ingresso nell’Unione europea, oltre ai singoli migranti, anche molte aziende
hanno cominciato a installarsi in Polonia, tant’è vero che Varsavia è stata
considerata la seconda città, dopo Londra, più attrattiva per le imprese, come
riportato da un altro recente articolo di Cafè Babel. Insieme a
immigrati e aziende, sono arrivati massicci investimenti che hanno comportato,
per lo meno nelle grandi città, aumento dei salari, miglioramenti nello
standard di vita e crescita del ceto medio. Grande impulso allo sviluppo del
paese inoltre è stato dato con gli europei di calcio ospitati dalla Polonia
(insieme all’Ucraina) nel 2012, per i quali (o grazie ai quali) sono state
costruite diverse infrastrutture: una linea metropolitana, strade, hotel e uno
stadio. Oltre ai vantaggi economici, i campionati europei di calcio hanno
portato anche un vento di ottimismo e modeizzazione, sostenuto comunque dai
bilanci positivi degli ultimi anni. L’economia polacca sembra infatti l’unica a
ottenere risultati positivi in questo periodo di crisi finanziaria europea: nel
2010 il Pil della Polonia è cresciuto del 3,8%. Più velocemente che in
Germania.

Il rientro dei cervelli?

I
polacchi nel mondo hanno massicciamente contribuito allo sviluppo del paese e
al benessere delle famiglie rimaste in patria attraverso l’invio di rimesse,
che ogni anno ammontano a circa 900 milioni di dollari. Alcune ricerche hanno
anche evidenziato la tendenza crescente dei migranti Polacchi a rimpatriare per
investire in loco i risparmi accumulati all’estero. Oltre che dai rientri
spontanei dei migranti polacchi, la riduzione della cosiddetta «fuga dei
cervelli» è accompagnata anche dal governo che sta, da parte sua, tentando di
riportare a casa i propri giovani. Con il sostegno dei fondi stanziati
dall’Unione europea, infatti, la Polonia sta sostenendo iniziative per
agevolare i giovani ricercatori nell’avviare una carriera in patria. Un esempio
è il programma Homing Plus della Fondazione di Ricerca Polacca (Fnp). Il
problema di programmi come questo è però che esso risulta essere molto limitato
e può coinvolgere solo un piccolo numero di ricercatori, dato che le borse di
studio a disposizione sono ogni anno solo 15. Un altro interessante progetto,
attivato nel 2007, è il sito powroty.gov.pl che vede più di 10.000
accessi settimanali. Il sito offre diversi servizi tra cui numerose
informazioni per coloro che vogliono rientrare in patria.

Religiosità in emigrazione

La
migrazione polacca così come l’intero paese sono caratterizzati da una profonda
religiosità, a forte impronta nazionalista. Forse anche questo determina la
scelta di Roma, tra le città italiane, come meta privilegiata. La maggior parte
degli immigrati polacchi in Italia dichiara infatti di coltivare e mantenere
rapporti con una struttura religiosa in Italia (Caritas Migrantes 2006). Per
gli immigrati polacchi i luoghi di culto non sono solo importanti per le
attività liturgiche e spirituali, ma diventano anche importanti centri di
ritrovo e di trasmissione ai figli della cultura di origine, ovvero punti di
riferimento non solo religioso, ma anche (e soprattutto) identitario.

Viviana Premazzi

Viviana Premazzi




Acqua, nuove battaglie

Dai forum dei movimenti per l’acqua ai forum per i beni
comuni.
Dopo i risultati del referendum del 2011 sull’acqua come
diritto umano, i movimenti si organizzano ed estendono la battaglia ad altri
beni comuni e alla democrazia. Il rifiuto della mercificazione della vita, il
recupero della responsabilità delle autorità pubbliche, la domanda di nuovi
spazi di partecipazione politica. Lavorando sul locale senza perdere la visione
globale.

Giugno 2011: gli Italiani si pronunciano contro la privatizzazione dei
servizi idrici, rivitalizzando, con sorpresa di molti, il referendum come
strumento di partecipazione politica. A quasi tre anni di distanza da quel
voto, a che punto siamo? La battaglia referendaria sull’acqua appare da diversi
punti di vista una vittoria mutilata.

Senza dubbio il referendum ha contribuito a rappresentare
e affermare il vasto consenso popolare esistente in merito al fatto che l’acqua
deve essere considerata un diritto umano e bene comune, legittimando
giuridicamente e politicamente la gestione pubblica dei servici idrici. A
questi principi si richiamano ormai, almeno a parole, anche quei politici e
rappresentanti delle istituzioni che in passato guardavano con favore a un
ruolo più incisivo del mercato nella gestione dei servizi idrici. In virtù del
risultato referendario, l’acqua in molti casi è rimasta fuori dai processi di
privatizzazione e di cessione di quote delle società pubbliche di gestione dei
servizi locali, come i rifiuti e i trasporti. Anche se non sono mancati
tentativi da parte del governo Berlusconi e poi di quello Monti di ribaltare il
risultato referendario, introducendo alcune disposizioni che di fatto
riproponevano le norme abrogate dal referendum.

Stop ai privati

Dal punto di vista tecnico e giuridico, il primo dei due quesiti
referendari ha eliminato l’obbligo per gli enti locali, introdotto nel 2008 dal
cosiddetto Decreto Ronchi, di mettere a gara la gestione dei servizi idrici
entro la fine del 2011 per affidarla a società pubbliche, private o miste. La
normativa ora in vigore è quella europea, che prevede anche la gestione «in
house
», ovvero da parte di Spa a intero capitale pubblico, la formula al
momento più diffusa in Italia, che il Decreto Ronchi intendeva invece superare.

Dal punto di vista politico, tuttavia, per il Forum italiano dei movimenti per l’acqua, l’indicazione emersa dal referendum è quella dell’affermazione
di una gestione squisitamente pubblica dei servizi idrici, che dovrebbe passare
per il superamento della forma dell’Spa, anche se interamente pubblica, in
quanto governata comunque dal diritto privato e orientata alle logiche del
profitto e della massimizzazione degli utili. Questa convinzione ha ispirato
diversi percorsi di ripubblicizzazione dei servizi idrici, promossi dal
movimento e da alcuni rappresentanti degli enti locali in diverse città
italiane. Il caso più conosciuto è quello di Napoli, dove il sindaco Luigi de
Magistris, all’indomani del referendum, ha nominato Alberto Lucarelli e Ugo
Mattei – giuristi estensori dei quesiti referendari – rispettivamente Assessore
ai Beni Comuni e Vice presidente di Arin Spa, la società di gestione del
servizio idrico napoletano. Il loro lavoro ha portato alla trasformazione di
Arin in azienda speciale di diritto pubblico, Abc Napoli (Acqua Bene Comune).
Nell’ottica di una gestione più partecipata e democratica, che superi i vizi
delle precedenti esperienze di gestione pubblica, la nuova azienda prevede
anche un’assemblea di indirizzo in cui siedono rappresentanti dei lavoratori,
degli utenti e dei movimenti ambientalisti.

A Reggio Emilia, è stato invece istituito un forum provinciale cui
partecipano i rappresentanti delle istituzioni locali e dei movimenti, con il
mandato di ridefinire l’assetto della gestione dei servizi idrici alla luce del
risultato referendario.

Questo percorso ha portato alla revoca a fine 2012 della
concessione della gestione del servizio idrico a Iren, società multi-utilities
che opera nella gestione di acqua, energia e rifiuti in Piemonte, Liguria ed
Emilia. Il nodo da sciogliere resta quello della natura del nuovo soggetto che
gestirà il servizio idrico: azienda speciale sul modello di Napoli, come
chiedono i movimenti, o Spa «in house», come preferiscono gli
amministratori locali, preoccupati di non appesantire troppo i bilanci dei loro
comuni accollandosi anche le spese del servizio idrico. Percorsi analoghi sono
stati attivati in tutta Italia – Torino, Palermo, Imperia, Savona, Varese, Forlì,
Piacenza – attraverso raccolte firme e proposte di delibere di iniziativa
popolare per la ripubblicizzazione del servizio idrico, presentate nei consigli
comunali e provinciali.

Profitti sull’acqua

Il secondo quesito referendario, in nome del principio «fuori i
profitti dall’acqua!» ha invece sancito l’eliminazione della quota di
remunerazione del capitale investito, fissata per legge ad un tasso del 7%, dal
calcolo della tariffa del servizio idrico. All’indomani del referendum,
tuttavia, le Autorità d’ambito territoriale ottimale (Aato, le istituzioni che
governano il servizio idrico integrato) non hanno adeguato le tariffe al
risultato referendario, preoccupate dalla necessità di continuare a pagare gli
interessi dei capitali presi a prestito per realizzare gli investimenti nel
settore idrico. Nel 2012 il governo Monti ha affidato all’Authority per
l’Energia elettrica e il Gas (Aeeg) le funzioni di regolazione e di controllo
dei servizi idrici, con il mandato di definire il nuovo metodo tariffario.

Il Forum dei movimenti per l’acqua ha espresso un giudizio
negativo sulle proposte dell’Aeeg, accusandola di far rientrare dalla finestra
nel nuovo calcolo della tariffa i profitti per i gestori, sotto la
denominazione «costo della risorsa finanziaria». Insieme a Federconsumatori, il
Forum ha promosso diversi ricorsi presso il giudice di pace e i Tar (in
Lombardia, Toscana, Emilia Romagna), per ribadire l’illegittimità delle scelte
delle Aato e dell’Aeeg. Il Forum ha anche lanciato una «Campagna di Obbedienza
Civile», che invita i cittadini a farsi interpreti in prima persona della
traduzione pratica del secondo quesito referendario, attraverso un’autoriduzione
della bolletta pari alla componente relativa alla remunerazione del capitale
investito.

«Democrazia dei beni comuni»

Nella visione del Forum dei movimenti per l’acqua, le azioni per
la piena realizzazione dei risultati referendari hanno finito per assumere il
significato politico più ampio di denuncia della crisi della democrazia
rappresentativa e dei canali tradizionali di partecipazione politica, partiti
in primis, considerati ormai impermeabili alle istanze della società e incapaci
di tradurre in politiche concrete l’espressione della volontà popolare.

In risposta a questa crisi, il riferimento ai
beni comuni orienta anche l’auto rappresentazione del movimento stesso,
suggerendo nuove forme di partecipazione politica attraverso quella che alcuni
militanti come Marco Bersani definiscono «la democrazia dei beni comuni».
L’idea è che un soggetto politico impegnato a battersi per la difesa dei beni
comuni, non può essere ispirato alle logiche verticistiche, elitarie o
addirittura personalistiche che negli ultimi tempi hanno caratterizzato i
partiti politici. Di qui, le caratteristiche organizzative scelte dal Forum dei
movimenti per l’acqua: una base di militanti volontari e non professionisti, il
rifiuto di leadership carismatiche, il ricorso al metodo del consenso
per prendere le decisioni, una struttura orizzontale e decentrata, fondata su
comitati locali gelosi della propria autonomia, per cui anche la semplice
istituzionalizzazione della segreteria operativa del Forum a Roma è stata
interpretata da alcuni come tentativo di centralizzare e mettere il cappello
sulla mobilitazione. In virtù del successo referendario e
della capacità di imporre la formula «acqua bene comune» nel dibattito
pubblico, la mobilitazione per l’acqua pubblica si è così trasformata in
battaglia paradigmatica per i beni comuni e la democrazia, contro la
privatizzazione e la mercificazione della politica e della vita. Ciò sembra
esser confermato dal riferimento sempre più frequente alla categoria dei beni
comuni anche nell’ambito di altri movimenti sociali. L’intento è quello di
sottolineare la loro connessione con i temi dell’acqua o di adottare strategie
e pratiche d’azione analoghe a quelle del Forum, con l’auspicio di replicarne
il successo.

In molti casi, la diffusione della narrazione dei beni comuni e
delle pratiche a essa collegate sviluppate nell’ambito della battaglia per
l’acqua avviene per osmosi, attraverso le esperienze di militanti attivi sia
nel movimento per l’acqua che in altri contesti.

Ad esempio, Domenico Finiguerra, sindaco tra i più attivi nel
movimento per l’acqua, è tra i fondatori del Forum dei movimenti per la terra e
il paesaggio. Luca Martinelli, giornalista di Altreconomia e Marco Bersani di
Attac sono tra gli animatori del Forum per una nuova finanza pubblica e
sociale.

I rappresentanti della Cgil-Funzione pubblica che militano anche
nel movimento per l’acqua, come Corrado Oddi, contribuiscono a introdurre il
vocabolario dei beni comuni nelle attività del sindacato. Giuristi come Ugo
Mattei partecipano alla riflessione su come tradurre l’idea di beni comuni in
pratiche concrete nel contesto delle occupazioni del Teatro Valle a Roma e
della Torre Guelfa a Milano.

Tre istanze

Per quanto eterogenee in termini di soggetti coinvolti, temi,
durata nel tempo ed efficacia, queste battaglie sembrano accomunate da tre
istanze manifestate attraverso il richiamo ai beni comuni. Innanzitutto il
rifiuto della mercificazione della vita, ovvero dell’estensione delle logiche e
degli strumenti del mercato, della concorrenza e della competitività ad ambiti
sempre più estesi della nostra quotidianità.

In secondo luogo la richiesta di una riassunzione di responsabilità
da parte delle autorità pubbliche, che inverta la rotta della privatizzazione o
dell’estealizzazione di competenze le quali vengono invece individuate come
costitutive del bene comune e strategiche per il governo del territorio. Infine
la domanda e la pratica di nuovi e più ampi spazi di partecipazione politica,
attraverso l’adozione di nuove forme di attivismo che contribuiscano a
ridefinire identità e appartenenze.

In questa prospettiva, affinché il movimento per l’acqua continui
a svolgere un’azione pionieristica di elaborazione culturale e politica, due
appaiono come i principali nodi da sciogliere. In primo luogo quello dei rischi
legati alla «giuridizzazione» della battaglia: per influenza dei saperi tecnici
coinvolti nel movimento e per la natura stessa delle questioni di attualità sul
tavolo, l’azione del movimento negli ultimi anni si è tradotta soprattutto in
iniziative e rivendicazioni di natura giuridica, dalle vertenze legali
all’enfasi sulla natura del soggetto gestore: azienda pubblica vs Spa.

Infatti, per loro natura, i beni comuni richiedono la pratica
dell’interdisciplinarietà, che di sicuro potrebbe giovare al movimento
nell’affrontare in maniera più organica le principali questioni legate alla
gestione del ciclo dell’acqua, come ad esempio il dissesto idro-geologico del
territorio italiano.

In secondo luogo, l’enfasi sull’attuazione a livello locale dei
referendum rischia di far trascurare la dimensione internazionale del tema
acqua. Una delle originalità del movimento per l’acqua, nato alla fine degli
anni ‘90 su impulso dei Social forum, del Contratto Mondiale sull’Acqua
proposto dall’economista Riccardo Petrella, e dal lavoro di educazione alla
cittadinanza globale delle Ong di cooperazione internazionale allo sviluppo è
proprio quello di esser riuscito a tenere insieme la dimensione locale del tema
con quella globale. I movimenti europei per l’acqua sono stati i primi a
utilizzare in Europa il nuovo strumento dell’Iniziativa dei cittadini
europei
introdotto dal Trattato di Lisbona, raccogliendo l’anno scorso le
firme per presentare una proposta di legge sul riconoscimento del diritto umano
all’acqua. I seguiti di questa campagna potranno aiutare la riscoperta della
dimensione internazionale del tema, oltre che contribuire a riempire di
contenuti il dibattito su identità, ruolo e prospettive dell’Europa.

Emanuele Fantini
 

Il libro

«Si scrive Acqua…
Attori, pratiche e discorsi nel
movimento italiano per l’acqua bene comune»,

a cura di Chiara Carrozza e Emanuele Fantini.
aAccademia University Press, 2013, pp. 136, Euro12,00.

Senza inseguire leadership carismatiche, ignorato
dall’establishment politico e mediatico, il movimento Acqua bene comune ha
saputo coinvolgere e tenere insieme una coalizione vasta e plurale, riferendosi
a principi morali e diritti fondamentali, adottando un’ottica non solo locale
ma anche globale, e portando avanti una battaglia paradigmatica per la
democrazia e il bene comune. Il libro nasce dalla volontà di riflettere sugli
elementi e le pratiche che hanno reso possibile questa esperienza e sul suo
significato politico più ampio.

Il volume, oltre a essere acquistabile in versione cartacea,
è scaricabile gratuitamente dal sito dell’editore.
www.aaccademia.it/siscriveacqua.

 

Emanuele Fantini




Nel nome della libertà

In povertà e in ricchezza / 2
«Lo chiedono i mercati», «Non ci sono soldi», «Lo stato sociale
è un lusso», e poi – per chiudere la discussione – «La questione è molto più
complessa». In un’epoca dominata dall’iperinformazione, l’economia vive di
bugie vendute come dogmi. I risultati sono drammatici e vengono pagati con l’erosione
quotidiana della democrazia. Esistono alternative a un sistema sempre più
ingiusto? Una cosa è certa: così non si può proseguire. «L’infelicità degli
altri ci riguarda», anche perché – ragionando egoisticamente – «il tuo
malessere minaccia la mia tranquillità».

Anno 2001: al culmine della
crisi argentina, Buenos Aires è percorsa giorno e notte da 40mila cartoneros,
che recuperano cartoni e qualsiasi rifiuto utile alla loro sopravvivenza.

Anno 2014: l’Italia, nona potenza
mondiale1, vive il settimo anno di una crisi che pare senza fine. Di questi
tempi il fatto che la grande maggioranza degli italiani continui a non
praticare la raccolta differenziata2 diventa una fortuna. In tal modo, tra l’immondizia, si trovano più
rifiuti da recuperare: cibo, materiali riciclabili (plastica, alluminio, legno,
carta, vetro), cose riutilizzabili (vestiti, oggetti, giochi).

A tutte le ore del giorno e della
notte, donne e uomini setacciano con cura i cassonetti delle nostre città.
Difficile non accorgersi del loro numero in aumento anno dopo anno. Le persone
più organizzate girano con attrezzi utili allo scopo: un uncino di ferro per
aprire i sacchetti o agganciare qualcosa, una torcia per vedere meglio
all’interno dei cassonetti, un carrellino con le rotelle per trasportare ciò
che viene recuperato, oppure una vecchia bicicletta con un cestino capiente.

Un tempo la pratica era esclusiva di
rom e stranieri, oggi non è più così: ci sono anche gli italiani, nella maggior
parte dei casi persone anziane, quasi sempre sole. D’altra parte le statistiche
fanno rabbrividire. Nel 2012 la povertà relativa ha riguardato il 15,8% della
popolazione italiana (pari a 9 milioni 563 mila persone), quella assoluta l’8%
(4 milioni 814 mila persone)3. La disoccupazione ha superato il 12%, quella giovanile
addirittura il 40%.

«Un italiano su sei – scrive Sbilanciamoci!
nel suo rapporto 2014 – non trova lavoro e, tra chi lavora, uno su quattro ha
un lavoro precario. […] Con il degrado sociale crescono le spinte razziste e
xenofobe, aumentano i reati, si allarga l’economia criminale»4. La situazione italiana è ormai
insostenibile e potenzialmente esplosiva5. Anche per l’assenza di uno
strumento d’emergenza quale il «reddito minimo garantito» e la presenza di «problemi
genetici» (evasione fiscale, economia criminale e corruzione; vedere box),
molto gravi e apparentemente insolubili.

Le tasse (non progressive) e
la fuga dei capitali

L’economia – la «scienza triste»6 – ci spiega che le crisi sono
cicliche. Nessuna obiezione al riguardo. Tuttavia, essa evade (almeno) tre
domande: perché a pagare sono sempre gli stessi soggetti? Perché, nelle crisi,
a salvarsi o spesso a guadagnarci sono sempre i soliti? Perché, in presenza di
una crescita della ricchezza complessiva, le diseguaglianze crescono, nel Nord
come nel Sud del mondo? Le contraddizioni del sistema economico vigente sono
diventate talmente palesi (e pericolose) che hanno iniziato ad ammetterlo
addirittura le organizzazioni economiche inteazionali (come l’Fmi7) e i media allineati con l’ortodossia
della globalizzazione neoliberista.

«È tristemente facile – ha scritto ad
esempio lo statunitense Time – imbattersi in statistiche secondo cui i
ricchi stanno diventando sempre più ricchi mentre la classe media e i poveri
stanno a guardare»8. E l’inglese The Economist: «Ci hanno pensato le
privatizzazioni (ma non erano la panacea di tutti i mali?, ndr) a
indebolire ulteriormente la ricchezza dei lavoratori».

In questo desolante panorama c’è
dunque qualcosa di buono: finalmente anche in alto si è iniziato a mettere in
discussione il sistema. Una volta a farlo erano soltanto i movimenti
altermondialisti9, spesso demonizzati.

Le libertà economiche «divinizzate»
dalla globalizzazione neoliberista stanno riducendo o compromettendo i diritti
della grande maggioranza della popolazione mondiale: dal diritto a un lavoro
dignitoso ai diritti sociali (sanità, educazione, previdenza) fino ai diritti
ambientali delle generazioni future.

«Nel nome della libertà – ha scritto
Ronald Dore della London School of Economics -, non vi è solo più
diseguaglianza, ma anche una maggiore tolleranza delle diseguaglianze»10. Secondo Joseph Stiglitz, la stessa
democrazia è in pericolo, perché i governi non sono più liberi di usare il
fisco, strumento prioritario per ridurre le diseguaglianze. Scrive il premio
Nobel per l’economia: «Quella che viene chiamata competizione fiscale – la gara
tra i diversi sistemi politici per la minore imposizione fiscale – limita
infatti le possibilità di una tassazione progressiva. Le imprese minacciano di
andarsene se le tasse sono troppo alte. E lo stesso fanno gli individui ricchi»11.

Per inquadrare la situazione, è
sufficiente un dato sui movimenti di capitali «non produttivi», una vergogna
mondiale cui il sistema non vuole porre rimedio. Secondo Tax Justice Network,
almeno 21 mila miliardi di dollari sarebbero depositati in paradisi fiscali, un
valore quasi pari al Pil di Stati Uniti e Giappone12.

Concentrazione versus
distribuzione

Dagli Stati Uniti alla Cina, il mondo
è stato unificato sotto un’unica filosofia economica, quella della
globalizzazione neoliberista. Tuttavia, a dispetto di questo denominatore
comune, i paesi – come vedremo – non sono tutti eguali.

La disparità nella distribuzione dei
redditi (e della ricchezza) è misurabile con l’«indice Gini»: si tratta di un
indice di concentrazione il cui valore può variare tra zero e uno (o tra 0 e
100 se si ragiona in termini di percentuale). Valori bassi indicano una
distribuzione abbastanza omogenea, valori alti una distribuzione più disuguale,
con il valore 1 (o 100) che corrisponderebbe alla concentrazione di tutto il
reddito del paese nelle mani di una sola persona.

Nella classifica dell’indice Gini
(calcolato negli anni tra il 2004 e il 2011), tra i paesi con la peggiore
distribuzione dei redditi troviamo la gran parte dei paesi africani, tre paesi
latinoamericani (Haiti con un valore pari a 59,2, la Colombia con 58,5 e il
Guatemala con 55,1), e ben tre grandi potenze mondiali (la Cina con 47,4, gli
Stati Uniti – in progressivo peggioramento13 – con 45, e la Gran Bretagna con 40,
anch’essa in peggioramento e ultima tra i paesi europei). Alcuni paesi
latinoamericani, conosciuti per le loro diseguaglianze, negli ultimi anni sono
migliorati, pur rimanendo molto diseguali: il Brasile (passato da 55,3 a 51,9),
la Bolivia (da 57,9 a 53), il Messico (da 53,1 a 48,3) e soprattutto il
Venezuela (da 49,5 a 39). Infine, i paesi del mondo con la migliore
distribuzione sono tutti europei: la Svezia (23), la Norvegia (25), la Finlandia
(26,8), l’Austria (26,3) e la Germania (27).

Quanto
all’Italia – con un indice di 34 (era 27) – è al secondo posto nell’Unione
europea per livello di disuguaglianza nella distribuzione dei redditi,
preceduta soltanto dalla Gran Bretagna14.

Si tratta di numeri soggetti a
interpretazioni e contestazioni, ma sono significativi e disegnano un mondo in
linea con la realtà quotidiana15.

I meccanismi sacralizzati del
sistema

Tra le tante analisi sulla situazione economica
mondiale, c’è quella di papa Francesco. Si trova nella Evangelii Gaudium,
l’esortazione apostolica uscita nel novembre 2013. «Non è compito del papa –
scrive Bergoglio – offrire un’analisi dettagliata e completa sulla realtà
contemporanea», ma in realtà, l’analisi del pontefice è tanto chiara nelle
parole quanto esplicita nelle critiche al sistema.

«La maggior parte degli uomini e delle donne del nostro
tempo – si legge nel capitolo secondo – vivono una quotidiana precarietà, con
conseguenze funeste. Aumentano alcune patologie. Il timore e la disperazione si
impadroniscono del cuore di numerose persone, persino nei cosiddetti paesi
ricchi. La gioia di vivere frequentemente si spegne, crescono la mancanza di
rispetto e la violenza, l’inequità diventa sempre più evidente. Bisogna lottare
per vivere e, spesso, per vivere con poca dignità».

Le
parole del papa nascono (anche) dall’esperienza diretta. Durante la devastante
crisi argentina il cardinale Bergoglio era arcivescovo di Buenos Aires e in
quella veste aveva avuto parole di fuoco contro il sistema, parlando di un «vero
terrorismo economico finanziario»16.

«Oggi
– prosegue la Evangelii Gaudium – tutto entra nel gioco della
competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più
debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si
vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di
uscita». «In questo contesto, alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta
favorevole”, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero
mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale
nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime
una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere
economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel
frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare». Parole tanto forti da
provocare la reazione (risentita) dell’Economist, che accusa il papa di
riflettere una posizione ideologica di sinistra17.

«Mentre i
guadagni di pochi crescono esponenzialmente – si legge ancora nell’esortazione
apostolica al numero 56 -, quelli della maggioranza si collocano sempre più
distanti dal benessere di questa minoranza felice. Tale squilibrio procede da
ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione
finanziaria. Perciò negano il diritto di controllo degli stati, incaricati di
vigilare per la tutela del bene comune. Si instaura una nuova tirannia
invisibile, a volte virtuale, che impone, in modo unilaterale e implacabile, le
sue leggi e le sue regole».

Sono affermazioni sorprendenti per un
papa? Non proprio. Già nella Caritas in Veritate, l’enciclica del 2009
di papa Benedetto XVI, si affrontavano con chiarezza i temi imposti
dall’economia globalizzata: lo sviluppo, le disparità crescenti, la precarietà,
i diritti dei lavoratori18.

Nel capitolo secondo si legge, ad
esempio: «L’esclusivo obiettivo del profitto, se mal prodotto e senza il bene
comune come fine ultimo, rischia di distruggere ricchezza e creare povertà».

Si parla dei «nuovi poveri», della
riduzione dell’intervento redistributivo dello stato e dei sindacati: «Cresce
la ricchezza mondiale in termini assoluti, ma aumentano le disparità. Nei paesi
ricchi nuove categorie sociali si impoveriscono e nascono nuove povertà. […]
le politiche di bilancio, con i tagli alla spesa sociale, spesso anche promossi
dalle istituzioni finanziarie inteazionali, possono lasciare i cittadini
impotenti di fronte a rischi vecchi e nuovi; tale impotenza è accresciuta dalla
mancanza di protezione efficace da parte delle associazioni dei lavoratori».

Ancora più forte – siamo nell’ambito
di un’enciclica papale – risulta essere l’affermazione successiva: «L’insieme
dei cambiamenti sociali ed economici fa sì che le organizzazioni sindacali
sperimentino maggiori difficoltà a svolgere il loro compito di rappresentanza
degli interessi dei lavoratori, anche per il fatto che i governi, per ragioni
di utilità economica, limitano spesso le libertà sindacali o la capacità
negoziale dei sindacati stessi».

Tutto ciò si riflette negativamente
sulla condizione dei lavoratori: «Quando l’incertezza circa le condizioni di
lavoro, in conseguenza dei processi di mobilità e di deregolamentazione,
diviene endemica, si creano forme di instabilità psicologica, di difficoltà a
costruire propri percorsi».

Felicità privata e infelicità pubblica

In un’epoca dominata dalla filosofia
(e dalla pratica) individualista, risulta (ancora) più difficile parlare di
interessi collettivi, etica pubblica, solidarietà. Diventa così indispensabile
far leva sull’interesse personale per raggiungere (almeno) l’obiettivo minimo
della convivenza civile. «Il tuo malessere minaccia la mia
tranquillità», sintetizza Ronald Dore19.

Il professor Bruni amplia il
ragionamento. «C’è oggi – scrive – troppa ricerca di felicità private, che,
come tutti i beni privati, sono rivali e a “somma zero” (cioè la maggiore
felicità dell’uno è a scapito di quella degli altri). […] La pubblica felicità
ci dice invece qualcosa di diverso e di opposto: non si può essere felici da
soli, e l’infelicità degli altri ci riguarda, soprattutto l’infelicità civile,
come quella dovuta alla disoccupazione, che non è mai faccenda privata ma
sempre pubblica essendo il lavoro al centro del patto sociale. Se riduciamo
questa infelicità pubblica, aumentiamo la felicità di tutti e di ciascuno»20.

Un altro professore di economia
politica, Leonardo Becchetti, conclude affermando che «il progresso dell’uomo
sta nella capacità di accettare limiti alla “libertà di” quando questa rischia
di provocare danni ai propri simili»21. Limiti che la globalizzazione neoliberista – introdotta dagli
Stati Uniti negli anni Settanta – ha via via ridotto o cancellato (deregulation,
si chiama in inglese), per lasciare spazio – è stato spiegato – alla libera
espressione del mercato, foriero di maggiore benessere per tutti. I risultati
di questa scelta sono davanti agli occhi di chi vuole vedere.

Paolo Moiola
 
        Italia / Vita da Call centers                        
La linea è precaria

Manca poco alle 20,00. Sono appena tornato dal lavoro e sto
per mettermi a tavola. Squilla il telefono. Vado a rispondere di malavoglia.
Dall’altra parte risuona una voce femminile con inflessione straniera. «No,
ancora un call center», penso subito tra me e me.

– In famiglia chi si occupa della linea telefonica?, mi
chiede la donna.

– Guardi, non voglio essere antipatico, anche perché
immagino che nel suo lavoro sia costretta a sentire molti insulti senza neppure
poter replicare. Però non voglio cambiare operatore. Mi spiace.

– Mi dica soltanto – continua la telefonista -, qual è la
velocità della sua linea internet?

– Non ricordo, ma mi basta perché io non scarico film dalla
rete.

– Questa è un’offerta unica! Non può perderla, insiste la
donna.

– No, mi spiace. Mi lasci andare a mangiare, per favore. So
che questo mio rifiuto le farà perdere una provvigione, ma la proposta non mi
interessa.

– È sicuro, sicuro? La chiamo tra qualche giorno?
– Faccia lei. Adesso però la saluto. Buon lavoro.

Buon lavoro? Mi rendo conto che possa sembrare una presa in
giro. Le indagini raccontano che i dipendenti dei call centers sono in
maggioranza donne, che quasi tutti posseggono un diploma o addirittura una
laurea e che guadagnano – a seconda del contratto, quand’esso esista e sia
veritiero (di solito le ore contrattuali sono inferiori a quelle reali) – tra i
250 e i 600 euro al mese più una percentuale a seconda dei contratti che
riescono a far sottoscrivere ai clienti (le cosiddette «attivazioni»). Un
settore che occupa almeno 100mila persone, ma che è sempre a rischio «delocalizzazione».
Già oggi molti call centers italiani sono stati spostati in Albania, Romania,
Tunisia. Là i salari costano ancora meno e in più non si rischia un controllo
della Guardia di finanza. Eccola la competizione esasperata imposta dal sistema
neoliberista e soprattutto giocata sulle spalle dei più deboli.

A volte penso che potrei chiedere di essere liberato
dall’invadenza dei call centers. C’è una via facile e legale per impedire che
venga chiamato il proprio numero. Tuttavia, subito dopo questo pensiero, mi
ricredo. Se si togliessero tutti, è probabile che molte persone rimarrebbero anche
senza questa occupazione, pur precaria e malpagata. No, meglio continuare a
farsi disturbare. Forse un giorno risponderò di sì a una proposta. Magari
soltanto per sentirmi meno colpevole.

Paolo Moiola
Note
1 – Nel 2013 l’Italia è stata superata dalla Russia. Questa la classifica: Stati Uniti, Cina, Giappone, Germania, Francia, Brasile, Gran Bretagna, Russia, Italia.
2 – Nel 2012 la percentuale di raccolta differenziata ha raggiunto la misera cifra del 39,9%. E probabilmente il dato è sovrastimato. Fonte: rapporto Ispra 2013.
3 – Fonte: dati Istat del 17 luglio 2013 (www.istat.it).
4 – «Rapporto Sbilanciamoci! Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace, l’ambiente, 2014», a cura di Sbilanciamoci!, pag. 12. Il sito da cui scaricare il pregevole rapporto: www.sbilanciamoci.info.
5 – La cosiddetta «rivolta dei forconi» del dicembre 2013 ne è un esempio.
6 – Si attribuisce la definizione – the dismal science – allo storico inglese Thomas Carlyle (1795-1881). Da più parti sono stati sollevati dubbi anche sul fatto che l’economia sia una scienza.
7 – Nel suo report Fiscal Monitor, Taxing Times dell’ottobre 2013, il Fondo monetario internazionale (Fmi) arriva a suggerire una maggiore tassazione dei redditi più alti e dei patrimoni, una cosa impensabile fino a qualche anno fa.
8 – Si legga: Marx’s revenge: how class struggle is shaping the world (La vendetta di Marx: come la lotta di classe sta plasmando il mondo), Time, 25 marzo 2013. Riprodotto anche dal settimanale Internazionale, n. 1027 del 22 novembre 2013.
9 – Si intende la galassia dei movimenti inteazionali per i quali «un altro mondo è possibile».
10 – Ronald Dore, Il lavoro nel mondo che cambia, Il Mulino, Bologna 2005.
11 – Joseph E. Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza, Einaudi, Torino 2013, pag. 227.
12 – Il sito dell’organizzazione: www.taxjustice.net.
13 – Secondo il prof. Emmanuel Saez, dell’Università di Berkeley, nel periodo 2009-2012 l’1% degli statunitensi ha visto il proprio reddito aumentare del 31,4% contro lo 0,4% degli altri cittadini (3 settembre 2013).
14 – In Italia l’indice Gini è peggiorato sensibilmente nel corso degli anni. Era pari a 27,3 fino al 1995. Fonte: Barbara Bisazza, Distribuzione dei redditi, Italia seconda in Europa per disparità, in Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2013. Per le indagini più recenti si veda: www.gini-research.org.
15 – Per evitare possibili contestazioni (del tipo «queste sono considerazioni ideologiche»), abbiamo ricavato questi dati da una pubblicazione di un’istituzione ufficiale, appartenente cioè al sistema e non a esso alternativa: The World Factbook della Central Investigation Agency (Cia), i servizi segreti statunitensi (www.cia.gov).
16 – Si legga l’intervista concessa al mensile 30 Gioi nel 2002. E soprattutto la Lettera della Conferenza episcopale argentina del 17 novembre 2001 (Carta al pueblo de Dios), un mese prima delle rivolte di piazza e delle dimissioni del presidente Feando De La Rua.
17 – «But the same cannot be said about the sections of the document which deal with global economics. In these sections, the ideological position is clear. The passages reflect a particular school of left-wing thought, and they are full of left-wing insights and left-wing blind spots». La frase si può leggere nell’articolo Left, right, left, left del 28 novembre 2013 (www.economist.com).
18 – Caritas in Veritate, Libreria editrice vaticana, giugno 2009. Si veda, in particolare, il capitolo secondo Lo sviluppo umano nel nostro tempo (pag. 29 e seguenti). L’enciclica è facilmente reperibile in rete.
19 – Ronald Dore, Il lavoro nel mondo che cambia, Il Mulino, Bologna 2005, pag. 15.
20 – Luigino Bruni, Economia con l’anima, Emi, Bologna 2013, pagg. 146-147.
21 – Leonardo Becchetti, C’era una volta la crisi, Emi, Bologna 2013, pag. 91.

 

FONTI BIBLIOGRAFICHE
Rapporti:

• Sbilanciamoci!, Rapporto
Sbilanciamoci! Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace, l’ambiente
/ 2014
, Roma, 10 novembre 2013.

• Censis, 47° Rapporto
sulla situazione sociale del Paese / 2013
, Roma, dicembre 2013.

Rapporti Caritas:

• Caritas italiana, Dati
e politiche sulla povertà in Italia
, Roma, 17 ottobre 2013.

• Caritas italiana, Rapporto
2012 sulla povertà e l’esclusione sociale in Italia. I ripartenti. Povertà
croniche e inedite. Percorsi di risalita nella stagione della crisi
, Roma,
17 ottobre 2012.

Saggi recenti:

• Zygmunt Bauman, «La
ricchezza di pochi avvantaggia tutti». Falso!,
Laterza 2013.

• Luciano Gallino, Il
colpo di stato di banche e governi
, Einaudi 2013.

• Federico Rampini, Banchieri.
Storie dal nuovo banditismo globale
, Mondadori 2013.

• Joseph E. Stiglitz, Il
prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro
futuro
, Einaudi 2013.

• Alessandro Volpi, La
globalizzazione dalla culla alla crisi. Una nuova biografia del mercato globale
,
Altreconomia 2013.

• Maurizio Franzini, Ricchi
e poveri. L’Italia e le disuguaglianze (in)accettabili
, Università Bocconi
Editore 2010.

• Maurizio Franzini, Disuguaglianze
inaccettabili. L’immobilità economica in Italia
, Laterza 2013.

Saggi recenti della
Emi:

• Leonardo Becchetti, C’era
una volta la crisi
, Emi, Bologna 2013.

• Luigino Bruni, Economia
con l’anima
, Emi, Bologna 2013.

Papa Francesco:

• Papa Francesco, Guarire
dalla corruzione
, Emi, Bologna 2013.

• Papa Francesco, Evangelii
Gaudium
, 6 novembre 2013 (esortazione apostolica scaricabile – in formato Pdf – dal sito www.vatican.va).

Paolo Moiola




Ogni giorno è Ashura

La ricorrenza sciita


Ogni anno gli sciiti ricordano
l’eccidio di Ashura del 680 nel quale Hussein, nipote di Maometto, e altri 72
furono uccisi a Karbala, nell’attuale Iraq. La ricorrenza è occasione di
manifestazioni di popolo, in cui la commemorazione raggiunge altissimi livelli
di partecipazione. Il coinvolgimento emotivo delle folle è stato cavalcato più
di una volta per i propri fini politici dal clero sciita iraniano, che oggi
teme di perdere il controllo.

Sulla tribuna installata in un sobborgo di Teheran alcuni
rappresentanti delle autorità osservano la processione di uomini in nero che si
battono il petto in ricordo dei tragici fatti di Karbala, città dell’attuale
Iraq, a 100 km a Sud Ovest di Baghdad, in cui nel 680 Hussein, nipote di
Maometto, e altri 72 suoi familiari e compagni furono uccisi dalle truppe del
califfo Yazid. In tutto il mondo sciita i primi dieci giorni del mese arabo di muharram
sono dedicati alla commemorazione di quell’eccidio. La ricorrenza segue il
calendario lunare, quindi si sposta a ritroso lungo quello solare, che ha più
giorni. Nel 2013 ha avuto luogo tra il 5 e il 14 novembre; nel 2014 si terrà
tra il 25 ottobre e il 3 novembre.

Dalla tribuna si leva una voce che tenta di sovrastare il clamore
dei canti e dei tamburi con cui i fedeli accompagnano il proprio cordoglio: «In
questi giorni di lutto un pensiero particolare va ai nostri fratelli in Siria e
in Palestina. E ora riuniamoci tutti quanti per la preghiera». Un piccolo
gruppo si stacca dalla tribuna e marcia verso la moschea, guidato da alcuni mullah. Tuttavia, le migliaia di persone
radunate non si muovono, nessuno raccoglie quell’invito e gli uomini continuano
a sfilare, battendosi il petto, o fustigandosi con grappoli di catenelle. Tra
la folla non si vedono turbanti. Né bianchi, né neri. Il clero è completamente
assente dalla commemorazione. È un sentimento profondo e autenticamente
popolare quello che fa uscire gli iraniani nelle strade in questi giorni. Le
autorità temono simili manifestazioni spontanee, cercano di guidarle e
controllarle, sanno quale forza rivoluzionaria si può sprigionare da milioni di
persone radunate nelle piazze di città e villaggi a piangere la morte del loro
terzo santo Imam, quali sentimenti di emulazione, quale desiderio di martirio
la ricorrenza può suscitare. Basterebbe che d’improvviso si cominciassero a
scandire slogan diversi dal solito.


Lotte intestine nel nascente islam e l’eccidio di Ashura

Hussein era figlio di Fatima, figlia di Maometto, e di Ali, uno
dei primi e più fedeli compagni del Profeta. Ali sarebbe stato designato dallo
stesso Maometto, prima che questi morisse, a essere il suo successore, khalaf in arabo (da cui califfo). Ciò almeno
è quanto sostennero i suoi seguaci, in seguito definiti sciiti perché
costituivano il partito – in arabo shi’a – di Ali. Una successione che Ali aspettò per ventiquattro anni,
perché la maggioranza dei musulmani non gli riconosceva tale prerogativa e
altri tra i compagni del Profeta erano nel frattempo stati designati a guidare
la comunità islamica. Dopo l’uccisione del terzo califfo, Osman, nel 656, la
scelta cadde finalmente su Ali, ma il suo breve governo fu tormentato da
continue lotte intestine, che in parte riflettevano le divisioni claniche
esistenti all’interno della società araba. Tra i contendenti stava emergendo il
potente clan omayyade, cui appartenevano lo stesso Osman e Moawiya, il governatore
della Siria, cui la carica di califfo passò dopo la breve parentesi in cui
l’aveva esercitata Ali, ucciso nel 661.

Una volta morto Ali, i suoi seguaci riconobbero nel figlio
maggiore, Hassan, il proprio imam, o guida spirituale, e alla morte misteriosa
di questi – gli sciiti affermano che fu avvelenato dalla moglie su istigazione
di Moawiya – si rivolsero al secondogenito Hussein.

Nel 680 morì Moawiya, dopo aver designato a succedergli il figlio
Yazid, una successione da molti contestata perché avvenuta per discendenza e
non per elezione, com’era uso nella società araba. Insediatosi al governo di
Damasco, Yazid chiese a Hussein un giuramento di alleanza che questi si rifiutò
di fare, ritenendo il nuovo califfo un usurpatore che, con il suo
comportamento, corrompeva i valori dell’islam. Temendo rappresaglie, Hussein,
con la famiglia e alcune decine di compagni a lui fedeli, si mosse dalla Mecca
verso Kufa, città a Sud dell’odiea Baghdad, i cui abitanti gli avevano
promesso appoggio.

Giunta in prossimità di Karbala, località sulle rive dell’Eufrate,
ai primi di muharram dell’anno 58 dall’Egira, la carovana fu circondata da un numeroso
esercito mandato da Yazid per costringere Hussein e i suoi a giurargli fedeltà.
Sebbene privati di acqua e viveri, tormentati dalla sete che non tardò a farsi
sentire nel caldo soffocante del deserto, gli assediati non cedettero alle
richieste e il decimo giorno di muharram la carovana fu finalmente attaccata. Hussein, due dei suoi figli,
di cui uno di appena sei mesi, il fratello Abbas e tutti gli uomini che erano
con lui furono uccisi. Le donne e uno dei figli, che, gravemente malato, era
rimasto nella tenda e non si era presentato al combattimento, furono fatti
prigionieri e portati a Damasco.

Poiché l’uccisione di Hussein e dei suoi avvenne il decimo giorno
di muharram, l’intero episodio è ricordato col nome di Ashura («decimo», in
arabo).

La frattura: sciiti e sunniti

L’uccisione di Hussein approfondì la frattura all’interno
dell’islam tra coloro che si riferivano all’autorità spirituale degli imam e
coloro che riconoscevano nei califfi le proprie guide. Questa frattura non si è
più ricomposta e si perpetua fino ai nostri giorni nella divisione tra gli
sciiti (circa il 10% dei musulmani) e i sunniti. Questi ultimi considerano i
primi eretici e, quindi, meritevoli di morte, alla stregua degli infedeli. I più
intransigenti tra i sunniti ritengono che l’uccisione di uno sciita sia azione
meritoria, che aiuta a guadagnare il paradiso. Le cronache odiee, purtroppo,
registrano numerosi attacchi terroristici a comunità e moschee sciite, con
particolare frequenza in concomitanza con ricorrenze religiose nelle quali i
fedeli affollano i luoghi di culto. Ashura è una di queste e anche lo scorso
novembre le comunità sciite nel Sud dell’Iraq e in Pakistan hanno subito
attacchi sanguinosi.

Gli sciiti sono rimasti sempre una branca minoritaria dell’islam
assoggettata alla maggioranza sunnita, tranne che in Iran, ma anche in quest’ultimo
paese solo a partire dall’insediamento della dinastia safavide nel XVI secolo.

All’interno dell’islam sciita si sono originati diversi gruppi che
si differenziano principalmente per il numero di santi imam venerati. Gli
zaiditi si fermano ai primi cinque, gli ismailiti ne riconoscono sette e gli
sciiti duodecimani, i più numerosi, dodici. A differenza dei sunniti per i
quali il termine «imam» (come è comunemente conosciuto anche nel nostro paese)
indica colui che dirige la preghiera rituale in comune, nello sciismo imam
designa i diretti discendenti di Ali, e, quindi, del Profeta. La successione
degli imam sciiti si è interrotta nell’874 con la scomparsa del dodicesimo,
che, secondo la tradizione, non sarebbe mai morto, e si sarebbe «nascosto»,
occultato agli occhi degli uomini, per tornare alla fine dei tempi in compagnia
di Gesù e Maometto. Egli, tuttavia, non farebbe mai mancare la propria guida
spirituale a coloro che lo cercano con cuore sincero, gli unici ai quali
continuerebbe a manifestarsi.

Non potendo occupare cariche politiche, il ruolo degli imam era
rimasto eminentemente religioso. La loro missione era di guidare i credenti
sulla via della fede, interpretando correttamente le parole del Corano. Come i
primi tre, nessuno di loro morì di morte naturale, tranne il dodicesimo, come
si è detto. Morirono in prigionia, avvelenati, uccisi da emissari dei califfi.
Per gli sciiti furono tutti martiri che pagarono col sangue la propria fedeltà
al Corano e alla missione loro affidata: conservare intatta nel popolo la fede
ricevuta per tramite del Profeta. Si può dire che lo sciismo si fonda sul
sangue dei martiri, tra i quali Ali e Hussein sono senz’altro i più venerati.

La figura di Hussein

Il martirio di Hussein è diventato una storia esemplare che, da più
di mille e trecento anni, non solo è ricordata, ma è rivissuta dai fedeli. Il
racconto di Ashura parla di una straziante agonia e di una morte affrontate per
non tradire la verità della fede e per resistere al tentativo di asservire
l’islam a un interesse politico. I testi sciiti affermano che Hussein
conoscesse in anticipo quale sarebbe stata la propria sorte a Karbala, e che le
sia andato consapevolmente incontro. Venire a patti con Yazid, un despota
crudele che era stato indegnamente posto a capo della comunità islamica,
avrebbe voluto dire approvae il comportamento e, quindi, creare scandalo e
disorientamento tra i fedeli. Prima di morire Hussein avrebbe dichiarato: «Preferisco
che il mio corpo sia fatto a pezzi, purché la fede sia salva». Gli sciiti
sottolineano la natura tutta morale della sua opposizione a Yazid. Egli non
volle muovergli guerra con le armi, ma vincere il male resistendogli,
conservando la propria libertà interiore. Volle, così, indicare alle
generazioni successive quale fosse la strada da percorrere. Per questo Hussein è
diventato l’esempio del santo che offre la propria vita perché, attraverso il
sacrificio, gli uomini possano capire quale sia la vera fede e, quindi,
arrivare alla salvezza. A un cristiano la storia della sua morte riporta alla
mente la passione di Cristo e il suo sacrificio redentore.

Migliaia di versi sono stati scritti per ricordare l’eccidio di
Karbala. Nel tempo intorno al fatto storico sono fioriti racconti che avevano
lo scopo di suscitare negli ascoltatori commozione e rendere più intenso il
cordoglio. Le diverse comunità sciite hanno trovato modi diversi di commemorare
l’evento, ma ciò che accomuna tutti i credenti è che, nel mese di muharram, il loro strazio si rinnova, come se
si trattasse di fatti appena avvenuti. Lacrime di vero dolore scorrono sui loro
volti quando sentono narrare, non importa se per la centesima volta, la storia
del martirio; s’immedesimano a tal punto con le parole del racconto che la
distanza nel tempo si annulla e tutto riaccade davanti ai loro occhi.

La rappresentazione del martirio

Uno dei modi per far memoria dei tragici fatti di Karbala è la
sacra rappresentazione, proprio come nelle nostrane messe in scena della
passione di Cristo. Nelle piazze e nelle strade attori – improvvisati o
professionisti – fanno rivivere i diversi episodi che la tradizione associa
all’evento. Le storie sono tante e sono incentrate sui vari personaggi storici:
oltre a Hussein, i figli, il fratello Abbas, la sorella Zeinab, con le altre
donne testimoni impotenti della battaglia. I cattivi sono Moawiya, Yazid, con i
suoi ministri e comandanti, ma il cattivo che suscita maggiore ripugnanza nei
fedeli è Shemr, colui che avrebbe finito Hussein, decapitandolo. L’attore che
impersona questo personaggio deve essere pronto al peggio, perché accade alcune
volte che qualcuno tra il pubblico si lanci su di lui per impedirgli di
uccidere Hussein. Ogni anno si sente di uomini che, interpretando Shemr,
vengono presi a sassate, picchiati, finiscono all’ospedale. Abbiamo assistito a
tali rappresentazioni a Teheran, e in più occasioni abbiamo sentito gli
spettatori gemere, o addirittura singhiozzare, nei momenti di maggiore tensione
del racconto. Siamo stati indotti a distogliere gli occhi dalla scena per
osservare volti addolorati, rigati dalle lacrime. Durante i 10 giorni di lutto
gli uomini non si radono, c’è chi spalma di fango la propria automobile, o
scrive sulla carrozzeria frasi inneggianti ai santi imam. L’unica forma di
musica che non è bandita nei luoghi pubblici, nei negozi, o che giunge dai
finestrini abbassati delle auto, sono le litanie di Ashura, cantate da una voce
maschile e accompagnate dal suono ritmato di mani che battono i petti.

Quella del battersi il petto è la forma più comune per esprimere
la partecipazione al lutto. Uomini e donne, separatamente, si ritrovano in
luoghi prestabiliti e praticano questa forma di cordoglio collettivo, ma solo
quella degli uomini assume visibilità. Gli uomini, che indossano abiti neri, si
riuniscono in un salone, o sfilano per le vie, battendo all’unisono i palmi
delle mani contro i propri petti, con ritmi e movimenti che possono variare da
luogo a luogo, ma che sono rigorosamente sincronizzati, in una specie di danza.
Queste manifestazioni di dolore assumono a volte anche forme estreme. Alcuni si
battono a sangue, lacerandosi la pelle a forza di colpi, o fustigandosi con
pesanti catene. A mezzogiorno del decimo giorno, l’ora in cui Hussein fu
ucciso, c’è chi si procura ferite sul capo con armi da taglio, nel tentativo di
rendersi il più possibile simile a lui e in una sorta di anacronistico bisogno
di punirsi per non averlo difeso a Karbala. Tali pratiche sono ora vietate in
Iran, ma continuano clandestinamente. Per tutto il periodo di lutto, e in
particolar modo nei due giorni conclusivi, è molto diffusa l’usanza di
preparare cibo e bevande da distribuire alla gente: poveri, vicini di casa, o
semplici passanti. Lo si fa per impetrare una grazia, o in segno di
riconoscenza per una grazia ricevuta. I più organizzati preparano un vero e
proprio pasto: riso e stufato di carne, offerto in contenitori monouso, facili
da portar via.

«Morte allo scià»

Hussein riteneva proprio dovere di musulmano impedire che un
governante iniquo prevalesse sulla comunità dei fedeli, e tra gli sciiti il suo
martirio è assurto a simbolo della lotta contro l’ingiustizia e l’oppressione.
Riportiamo un discorso da lui pronunciato in opposizione a Yazid: «Al credente
che non interviene con parole o azioni quando vede un governante tirannico
violare le leggi di Allah e del suo Messaggero e opprimere il popolo, il
Profeta dell’islam assicura che Dio riserverà il meritato castigo. Non vedete
come tutto è corrotto, non vedete che la verità è tradita e la menzogna non ha
limiti? Per me la morte è solo la via per il martirio. Vivere tra i peccatori
sarebbe tormento e pena».

L’ayatollah Ruhollah Khomeini fece leva sul potenziale
rivoluzionario di queste parole quando il 3 giugno 1963 trasformò le
celebrazioni di Ashura in un’imponente manifestazione anti-scià. Nel sermone
pronunciato in quel giorno per ricordare la tragedia di Karbala egli equiparò
lo scià a Yazid, il nemico dell’islam, cui il popolo-Hussein avrebbe chiesto
conto del suo operato iniquo. Cosicché quando nelle piazze si cominciò a
gridare «morte a Yazid», tutti capivano quale fosse il vero significato di
quelle parole. Il giorno dopo Khomeini fu arrestato, ma l’effetto del
sentimento che era riuscito a destare nel popolo non tardò a farsi sentire:
Teheran e altre città entrarono in rivolta e lo scià fu costretto a intervenire
con l’esercito per ristabilire l’ordine. Il bilancio fu pesantissimo.

«Ogni giorno è Ashura, ogni terra è Karbala». È una frase rimasta
famosa, che intende indicare il valore sempre attuale del martirio di Hussein:
un vero musulmano deve essere pronto in ogni momento e circostanza a
sacrificare la propria vita per preservare la purezza della fede e resistere al
male. Khomeini e il clero sciita seppero rendere questo dovere religioso presente alla coscienza di ogni buon credente e
associarlo alla lotta contro il regime dello scià. L’operazione riuscì anche
grazie al sociologo Ali Shariati, che in quegli stessi anni predicava la forza
rivoluzionaria del martirio. «Muharram è il trionfo del sangue sulla spada»,
diceva Khomeini, «i martiri muovono la storia», faceva eco Shariati: non
importa se si è in pochi e disarmati contro un tiranno potente e crudele. Basta
non avere paura di morire per una causa giusta e, alla fine, la vittoria
arriverà.

Si arrivò, difatti, al 10 e 11 dicembre del
1978, il nono e decimo giorno di muharram, giorni
in cui milioni di persone sfilarono per le strade del paese battendosi e
gridando «morte allo scià». Erano disarmati, è vero, ma non erano più il
piccolo resto di Karbala. Erano in tanti, e pronti a morire. Il 16 gennaio del
1979 lo scià abbandonò l’Iran.

L’astuzia di Khomeini

La storia «politica» di Ashura in Iran, però, non finisce qui. La
rivoluzione aveva trionfato, ma perché essa fosse anche «islamica» Khomeini
dovette affrontare il dissenso interno di chi non vi aveva preso parte, e una
difficile guerra contro l’Iraq, che aveva improvvisamente invaso il Sud del
paese. Ashura ora gli serviva per consolidare la vittoria del suo islam, e
tutti quelli che gli si opposero divennero tanti Yazid: gli alleati di un
tempo, le potenze occidentali e, naturalmente, Saddam Hussein, che, indegno di
portare quel nome (tra l’altro assai scomodo da scandire quando se ne invocava
la morte nelle processioni di muharram), era stato prontamente ribattezzato «Saddam Yazid, l’infedele».
Khomeini aveva già sperimentato quale formidabile strumento di aggregazione
fossero le commemorazioni di Ashura, quando la gente si riuniva a piangere i
martiri di Karbala. Attraverso quelle adunanze si poteva mobilitare un intero
popolo intorno a un obiettivo: il male da combattere erano, ora, le forze che
intendevano distruggere il clero e la repubblica islamica. Il popolo doveva
essere incitato a versar lacrime sul sangue di Hussein, perché «da quei pianti
collettivi escono i giovani che vanno volontari al fronte in cerca di martirio,
e che si sentono infelici se non lo raggiungono… escono le madri che spingono i
figli ad andare in guerra e che, se poi questi non tornassero, desidererebbero
avee altri da mandare, o manderebbero quelli che hanno». Per Khomeini la
lezione di Karbala era chiara: in battaglia i numeri non contano, né si deve
temere il martirio quando si è dalla parte giusta. Anche se si avesse tutto il
mondo contro, la verità alla fine trionferà. Yazid era tutto il resto del
mondo, Hussein l’Iran di Khomeini.

Questo messaggio, diffuso da un clero opportunamente istruito, fu
così ben recepito dagli iraniani che, nonostante il grosso svantaggio iniziale
e l’isolamento internazionale, questi riuscirono in meno di due anni a
ricacciare l’esercito di Saddam oltre i confini. Ciò ebbe, com’è noto, un
grosso prezzo in vite umane. A questo punto, non sazio di vittoria, Khomeini
chiese al suo popolo di continuare a combattere e lo lanciò alla conquista
delle terre irachene, incitandolo ad arrivare fino a Karbala, fino a Israele… E
la guerra durò altri sei anni.

Ashura si ritorce contro la Guida Suprema?

E arriviamo alla più recente Ashura del 2009.
Anno in cui la controversa vittoria di Ahmadinejad alle elezioni presidenziali
di giugno aveva dato origine all’interno della società civile a un ampio
movimento di protesta, denominato Movimento Verde, che era sceso in piazza in
una serie di grandi dimostrazioni duramente represse dalle autorità. I leader
del movimento non si lasciarono sfuggire l’occasione di sfruttare il forte
significato simbolico di Ashura. In quel giorno, il 27 dicembre, le persone che
avevano accolto il loro appello marciarono scandendo slogan mai uditi prima: «Morte
a Khamenei», «morte al dittatore». Si era verificata un’inaspettata inversione
di ruoli: al posto del califfo Yazid c’èra la massima autorità dell’islam
sciita in Iran, la Guida Suprema della rivoluzione, l’ayatollah Ali Khamenei,
succeduto nel frattemo a Khomeini: il popolo-Hussein sfilava disarmato contro
di lui e il regime che rappresentava.

Quel giorno a Teheran e in altre città quindici vittime restarono
sulle strade dell’Iran-Karbala.

Maria Chiara Parenzo*

* Maria Chiara Parenzo, nome di fantasia,
vive tra l’Iran e l’Italia.

Archivio MC: Angela Lano, L’Ayatollah e
il presidente, Dossier, agosto-settembre 2013
.

            L’accordo sul nucleare              


Una vittoria di tutti

Quando l’attuale presidente dell’Iran, Hassan Rohani, è
stato eletto, il 14 giugno 2013, la gente si è messa a ballare per le strade.
Esprimeva, così, sia un senso di liberazione per essersi messi alle spalle gli
otto cupi anni della presidenza di Mahmud Ahmadinejad, sia la speranza che il
neoeletto presidente avrebbe portato l’Iran fuori dall’isolamento cui l’aveva
relegato la politica del suo predecessore. Tali, infatti, erano state le
promesse elettorali. Da anni una delle maggiori preoccupazioni degli iraniani
era il continuo peggioramento della situazione economica e uno dei mezzi per
invertire questa tendenza – lo sapevano tutti – era riaprire un dialogo con
l’Occidente sulla spinosa questione del nucleare.

Dal 2002, anno in cui era venuta alla luce l’esistenza di un
programma nucleare segreto, l’Iran è per l’Occidente un sorvegliato speciale.
Sebbene Teheran ne abbia sempre negato i fini militari, le sue reticenze nel
far conoscere gli effettivi progressi e l’entità del programma nucleare, le
reciproche diffidenze, alimentate da decenni d’inimicizia, hanno portato la
comunità internazionale a formulare un verdetto di presunta colpevolezza. Per
convincere la Repubblica Islamica a sospendere il processo di arricchimento
dell’uranio, tra il 2006 e il 2012 sono state adottate contro di essa diverse
misure sanzionatorie. Le sanzioni si sono inasprite dal 2010, causando in questi
ultimi anni una drammatica contrazione dell’economia. 

L’intenzione espressa da Rohani di cercare un dialogo con
l’Occidente ha trovato da subito conferma nella nomina a ministro degli esteri
di Mohammad Javad Zarif, formatosi nelle università americane, ambasciatore
dell’Iran alle Nazioni Unite dal 2002 al 2007 e abile negoziatore. Dallo scorso
agosto, data d’insediamento del nuovo governo, gli avvenimenti si sono
succeduti velocemente. A settembre c’è stata la storica telefonata tra Obama e
Rohani e a ottobre si sono aperti a Ginevra i negoziati tra l’Iran e i 5+1, i
paesi membri del Consiglio di Sicurezza, più la Germania. L’accordo è arrivato
il 24 novembre. Esso prevede la sospensione del programma nucleare iraniano per
sei mesi a fronte di un parziale alleggerimento delle sanzioni economiche
contro Teheran. Più che per la sua portata, come si vede alquanto circoscritta,
l’accordo è importante perché, come si auspica, prepara il terreno per più
consistenti trattative future. In Iran la riapertura del negoziato ha già avuto
ripercussioni positive sull’economia, con un abbassamento dell’inflazione e una
ripresa degli investimenti nel paese.

Ma anche la comunità internazionale ha tutto da guadagnare
dall’avvio di un vero processo di distensione. Solo i tradizionali alleati di
Washington in Medio Oriente: Israele, l’Arabia Saudita e gli altri stati arabi
del Golfo Persico, guardano con apprensione al fatto che Iran e Stati Uniti
abbiano ricominciato a parlarsi dopo anni di gelo, perché ciò potrebbe essere
foriero di un rimescolamento di equilibri nella regione.

M.C.P.
 

Maria Chiara Parenzo