L’oro del Karamoja

Sfruttamento intensivo del Nordest Uganda
Tra le ferite ancora aperte delle violenze armate degli anni passati, il rischio dello sfratto dalle proprie terre, la siccità che sembra
aumentare di anno in anno facendo crescere l’insicurezza alimentare.
Sui pendii del monte Moroto, nell’angolo più remoto del Nord
Est dell’Uganda, alcuni membri della tribù Karamojong, inclusi i bambini,
ricercano l’oro nell’arida terra rossa.

Un tempo allevatori di bestiame, i Karamojong
sperano di migliorare la loro situazione economica vendendo piccole quantità
d’oro che grattano dalla terra arida del Karamoja, regione a Nord Est
dell’Uganda, al confine con il Kenya e il Sud Sudan, considerata la più
emarginata del paese e una delle più povere del mondo. Terra di pastori
seminomadi, il Karamoja è stato teatro di un lungo ciclo di conflitti tra i
diversi clan di guerrieri per l’accaparramento del bestiame, la sopravvivenza,
e in lotta contro l’interferenza del governo.

Dal 2001, per un decennio, migliaia di soldati ugandesi
hanno condotto una brutale campagna di disarmo in tutta la regione. Con il
disarmo e la relativa riduzione dell’uso della pastorizia come fonte di
sostentamento principale, i Karamojong sono oggi costretti a reinventarsi in un
nuovo stile di vita, e a cercare nuove opportunità di sostentamento. A causa
degli effetti sempre più visibili del riscaldamento climatico, tra cui
l’aumento dei periodi di siccità, la vita in questa pianura semiarida diventa
sempre più difficile e l’agricoltura non può rappresentare l’unica risorsa
sostenibile. La popolazione locale si ritrova quindi con poche alternative per
sopravvivere. «L’oro è diventato ora ciò che prima le mucche rappresentavano per
noi», dice un anziano. Nonostante l’economia in Uganda abbia un enorme
potenziale di crescita per l’inaspettata scoperta del petrolio, il Karamoja
rimane una regione dimenticata ed esclusa.

Scavando a
mani nude sulle colline di Rupa

Per Lomilo, che lavora nella miniera di Rupa, la ricerca
d’oro è un business di famiglia. Ogni mattina dall’alba si reca con
moglie e figli sulle colline minerarie di Rupa per il lavoro nelle gallerie.
Lomilo passa le sue giornate scavando a mani nude profondi cunicoli nel terreno,
nei quali si cala per cercare terra sempre nuova. Regolarmente riemerge e passa
alla moglie Naduk bacinelle di terra preziosa. Naduk setaccia il raccolto
insieme alla figlia più grande, mentre allatta il piccolo e si prende cura
degli altri quattro figli. La loro giornata trascorre monotona con viaggi di 8
km a piedi per arrivare al pozzo e raccogliere l’acqua necessaria per
l’operazione di setaccio. Lavorando con strumenti primitivi e in condizioni
molto difficili, la ricerca dell’oro è un lavoro pericoloso e sfinente. Nessun
pasto è previsto durante la giornata, ci si potrà rifocillare la sera
rientrando nel villaggio, se la ricerca d’oro avrà dato qualche buon risultato.
Seduta sul bordo dello scavo, la figlia di Naduk è responsabile del lavaggio: un
lungo processo per cercare di trasformare i mucchi di terra raccolti dal padre
in qualche frammento d’oro. «Amo il mio lavoro», dice mentre lava la terra, «voglio
avere qualcosa per sopravvivere con la mia famiglia». Tutti i figli di Lomilo
sono coinvolti nella ricerca dell’oro. Il sistema scolastico in Uganda è a
pagamento, un lusso che solo il 10% della popolazione in Karamoja può
permettersi (contro il 70% a livello nazionale). È difficile andare a scuola e
studiare a stomaco vuoto, per cui molti bambini preferiscono lavorare alla
miniera e ottenere qualche spicciolo a fine giornata.

Al di sotto
dei 18 anni

Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo),
i lavoratori nelle miniere d’oro in Africa sono per un 30-40% bambini al di
sotto dei 18 anni. A causa della fame e della povertà i genitori li
incoraggiano a lavorare nelle miniere per poter comprare cibo e vestiti. Spesso
i bambini sono i più abili a muoversi negli stretti cunicoli sotto terra.
Inoltre, in tutto il continente africano si registrano alti indici di abbandono
scolastico negli istituti d’istruzione che si trovano nei pressi di giacimenti
minerari.

In Kaabong, distretto del Karamoja che registra elevati
tassi di malnutrizione e dove buona parte della popolazione si sta sempre più dedicando
al lavoro nelle miniere, l’assenteismo a scuola è un problema crescente. Il
lavoro nella miniera di Rupa è rischioso. Molte vite sono perse ogni anno a
causa del crollo di qualche tunnel. Lomilo indica uno scavo dove qualche
settimana prima ha perso un amico.

0,3 Euro al
grammo

«È un lavoro rischioso, ma non ho altra scelta per il
momento», spiega Lomilo. Il suo grande sogno, come per tutti i ricercatori
d’oro, è quello di trovare un giorno un grande pezzo d’oro, così da potersi
finalmente sistemare con la sua famiglia, mandare i figli a scuola e dedicarsi
nuovamente all’allevamento del bestiame, anch’essa attività oggi molto
rischiosa per le continue razzie da parte dei clan vicini.

A fine giornata Lomilo si reca al mercato per vendere la
polvere d’oro. Con 9 grammi guadagna 9.000 Scellini ugandesi, equivalenti a 2,7
Euro circa per una giornata di lavoro di un’intera famiglia. Anche la famiglia
di Lomilo rientra nella tanto discutibile categoria di «povertà estrema»,
definita in base al guadagno inferiore a un dollaro procapite al giorno, «the
dollar a day poverty line
». Al mercato dell’oro sono presenti numerosi
commercianti, arrivati dal Kenya o dalla capitale Kampala. Comprano
illegalmente l’oro da questi gruppi informali per rivenderlo alle grandi
compagnie minerarie, spesso multinazionali con sede all’estero. Lo scavo di
Lomilo è uno dei migliaia che ricoprono la collina di Rupa. Secondo fonti
locali sono circa 10.000 le persone che riescono a sopravvivere grazie a questa
miniera a cielo aperto. In totale, il triplo di questo numero dipende dalle
miniere d’oro in Karamoja, e la cifra non tiene conto dei lavoratori delle
miniere di marmo, gemme e pietre calcaree. La regione del Karamoja con i suoi
enormi depositi d’oro, potrebbe diventare la nuova frontiera di sfruttamento
minerario dopo il petrolio nell’Ovest dell’Uganda. Le comunità e i leader
locali temono che nuovi conflitti possano derivare dalla lotta per
l’accaparramento di queste risorse. Recentemente si stanno diffondendo notizie
di trafficanti d’oro che lavorano per conto di qualche industriale o politico
di primo piano, per lo sviluppo di un’industria mineraria nella regione.
Sfruttando la lontananza dalla capitale e il generale disinteresse politico e
mediatico per la regione, alcuni uomini d’affari potrebbero assicurarsi le zone
minerarie del Karamoja, utilizzando a proprio vantaggio i conflitti tra i vari
clan.

Comunità
locali a rischio di sfratto

L’ufficio della Ricerca Geologica e Mineraria si occupa di
concedere le licenze agli operatori interessati. Tuttavia, nonostante il
governo locale neghi la presenza di attività illegali, diverse organizzazioni
locali sostengono che l’industria aurifera manchi di trasparenza e che molti
operatori agiscano nella regione senza una vera e propria licenza o con una
concessione scaduta da anni. Secondo il Mining Act del 2003, un’azienda può
ottenere una licenza per tre anni. Il proprietario del terreno, la provincia e
il distretto, dovrebbero ricevere le royalties. Tuttavia sembra che i dividendi
dell’oro rimangano per molto tempo in una zona grigia. Nel frattempo, le
comunità locali vivono nell’incertezza e nella paura che qualcuno possa
cacciarli dalle loro terre, rinnovando il conflitto nella regione. Alla fine si
torna a un punto dolente per tutto il continente africano, e non solo per esso:
la ricchezza di pochi (i proprietari delle miniere e chi «li controlla», quasi
sempre corporazioni multinazionali senza scrupoli) accumulata con lo
sfruttamento di molti.

In un’Uganda
in piena crescita e con sempre nuovi problemi

E pensare che l’Uganda negli ultimi anni ne ha fatta di
strada da quando la ventennale guerra civile tra governo e ribelli dell’Lra (Lord
resistance army
, guidati dal famigerato Joseph Kony, cfr. MC giugno 2012),
terminata con gli accordi del 2008, non ha più depredato gli abitanti della
loro terra e della possibilità di vivere in serenità. Le famiglie sono tornate
nelle loro case, i bambini soldato (se ne stimano almeno 300mila nel mondo, che
porteranno per decenni i traumi dei combattimenti e dei soprusi) si sono man
mano reinseriti nell’ambiente originario, l’economia ha ricominciato a girare,
lentamente, in tutto il paese, che oggi registra 36 milioni di abitanti e un
tasso di crescita annuale del 3,3%. Mentre si spera che la situazione intea
rimanga tranquilla – nonostante la «sporca» corsa ai minerali -, si presenta un
nuovo problema per il Nord del paese, e in parte anche per il Karamoja: sono le
decine di migliaia di sfollati che scappano dal Sud Sudan, il più giovane stato
del mondo, staccatosi nel 2011 con un referendum dal Sudan ma da alcuni mesi in
preda, a sua volta, a un conflitto armato scatenato dall’ex vicepresidente
ribelle nei confronti dell’attuale premier. Conflitto nel quale, per ora, le
forze inteazionali stanno a guardare, ma che sta generando fughe di massa in
altri paesi, benché questi non abbiano strutture e strumenti adatti per
accoglierli, come l’Uganda.

Insicurezza
alimentare

Nel frattempo in Karamoja, oltre a quella delle miniere,
tiene banco da qualche mese la questione della sicurezza alimentare, messa a
dura prova non solo dagli eventi bellici del recente passato ma anche dalla
siccità che ogni anno sembra aumentare (nel 2013 si è calcolata una diminuzione
fino al 50% dei raccolti in tutta la regione). Il governo centrale ha lanciato
un piano speciale piuttosto originale per migliorare la situazione agricola del
Karamoja: a tutti i cittadini viene chiesto di creare un proprio orto
coltivando due generi alimentari, patate e tapioca. Nient’altro, perché questi,
spiegano le autorità, sono i cibi che resistono di più alla scarsità d’acqua.
La notizia non è stata accolta con calore dalla popolazione. Anzi, molti
mettono in dubbio l’efficacia di un’azione del genere, lamentandosi del fatto
che bisognava invece puntare sul bestiame, più redditizio. In attesa di sapere
quale sarà l’efficacia del piano governativo, Irin, l’agenzia informativa
legata all’Onu, ha comunicato che il Pam, Programma alimentare mondiale, ha
pianificato di consegnare cibo ad almeno 155mila persone da febbraio 2014, di
rafforzare azioni che da qualche anno stanno migliorando altri aspetti della
società locale, come il programma food for work (cibo in cambio di
lavoro) che comprende 390mila beneficiari, di mettere in atto una forte
iniziativa scolastica per 100mila bambini a rischio dispersione e un programma
di salute e nutrizione per 38mila giovani madri e i propri piccoli, di
raccogliere più scorte di cibo per almeno 25mila bambini denutriti.

Anche in questo caso, però, ci sono dei problemi: il Pam
ha reso noto che non sa se nel 2014 avrà i fondi per sostenere tutti i
programmi, una sorta di pre allerta a non fare troppo affidamento su di essi.
Una notizia negativa, che potrebbe essere controbilanciata solo da una
rivoluzione culturale: dalle miniere del Karamoja ai campi dei sette distretti
regionali, la voce del popolo spesso è univoca nel sostenere che non basta
indicare cosa coltivare e cosa no. È tutto l’approccio che deve cambiare.
Ovvero, bisogna mettere in grado le persone di gestire non solo la coltivazione
diretta ma anche la lavorazione del cibo dalla materia prima, l’acqua potabile,
le strutture sanitarie e la protezione sociale. Così facendo, la regione, e non
solo essa, farebbe quel salto di qualità che oggi manca e che proietterebbe la
gente del luogo verso un futuro migliore, più legato all’autonomia,
all’imprenditorialità e meno all’assistenzialismo.

Anna Giolitto e
Daniele Biella


Anna Giolitto e Daniele Biella




L’Ong Lvia in Burkina Faso: Una storia lunga 40 anni

L’Ong Lvia ha da poco festeggiato i 40 anni di presenza in Burkina
Faso. Fondata nel 1966 da don Aldo Benevelli, 7 anni dopo i primi volontari
giunsero nell’allora Alto Volta. Da quel giorno tante realizzazioni, ma soprattutto
storie di persone, incontri, relazioni. Scopriamo
questa storia positiva che lega Italia e Africa dalle parole dei protagonisti.

Riccardo Botta è tornato in Burkina Faso per
festeggiare i 40 anni di attività dell’Ong Lvia (Lay
volonteer inteational association, www.lvia.it) nel paese. Lui
è stato tra i pionieri, nel primo gruppo di volontari che con Lvia sono partiti
alla volta del Burkina Faso. A Donsè, Riccardo metteva le basi di una storia.
Erano gli anni Settanta.

«È
ancora vivo nella memoria il momento in cui nel lontano ’73, su richiesta del
cardinale Paul Zoungrana, mettemmo piede in Alto Volta, come allora era
chiamato il Burkina Faso. Trovammo un paese sconvolto dalla siccità. Partimmo
in cinque per dar vita, con la diocesi di Ouagadougou e i ministeri della Sanità
e dell’Agricoltura del Burkina Faso, al primo programma di cooperazione». Così
ricorda Riccardo Botta. Infermiere in pensione, quando era poco più che
ventenne entrava a far parte del gruppo di giovani Lvia che allora – era il
1966 – si stava costituendo sotto la guida di un carismatico don Aldo
Benevelli. Continua: «Don Aldo era un prete guru; schieratissimo contro la
guerra del Vietnam, il suo monito era “Cambiate le vostre spade in vomeri!”.
Erano anni di grande fermento, di ideali, di desiderio di prendere posizione e
attivarsi».

Anni ruggenti

«Il nascente gruppo Lvia era figlio del clima post
conciliare – spiega don Aldo Benevelli, che ricorda i primi passi dell’associazione.
Con il Concilio Vaticano II si faceva strada l’idea di una Chiesa nuova e a noi
interessava soprattutto il rinnovamento del cristiano, come uomo che sta vicino
all’uomo. Nasceva a Cuneo un gruppo di giovani eterogeneo, cattolici, laici, provenienti
dal mondo del sindacato e dell’università, ma con uno sguardo sul mondo basato
sui medesimi valori».

Nel 1972 iniziava la grande siccità nel Sahel che colpì
oltre 50 milioni di persone. Una tragedia umanitaria che per la prima volta
portava alla ribalta sui grandi mass media mondiali questa, allora poco
conosciuta, regione africana. Dal contatto tra don Aldo Benevelli e i padri
Camilliani in Burkina Faso, nasce l’impegno di Lvia nel paese per affrontare la
carestia. Continua Riccardo: «Partimmo con alcuni giovani di Ivrea, dove mons.
Luigi Bettazzi aveva fondato un gruppo come il nostro. Nel villaggio di Donsè
costruimmo la nostra sede, una modesta capanna; avevamo un solo motorino ed
eravamo distanti dalla capitale 35 km, da percorrere senza strade asfaltate.
Facevamo una vita spartana, bevevamo l’acqua del barrage (diga),
raccogliendola con i bidoni e filtrandola e mangiavamo un piatto a base di
miglio e foglie. Eravamo gli unici cooperanti in quell’area e volevamo portare
un messaggio di condivisione. Dovevamo vivere come gli altri. La differenza tra
noi e i cooperanti in capitale era abissale, tanto che eravamo soprannominati
“i mendicanti”».

Mons. Jean-Marie Untani Compaoré allora era responsabile
della Diocesi di Ouagadougou, il partner che accolse Lvia in Burkina Faso. Oggi
ancora vicino all’associazione, ricorda: «La venuta degli amici italiani era
stata annunciata nel 1972 in chiesa, nel quadro delle celebrazioni eucaristiche
in cui erano presentati i tre precursori della Lvia, dei “bianchi”. A seguito
di questa visita di conoscenza, i primi volontari cominciarono ad arrivare a
Donsè, ospitati presso il Centro di formazione dei catechisti. Non tardarono a
iniziare le attività». Cominciava così il primo programma agricolo-sanitario e
la costruzione del primo dispensario a Donsè, con due casette per il ricovero e
le consultazioni.

Africani: ruolo fondamentale

Negli anni ’80 e ‘90 le competenze locali aumentavano e le
istituzioni erano più presenti. Ezio Elia è partito per il Burkina Faso nel 1989:
«Conoscevo la Lvia da sempre, fin da bambino andavo a messa alla cappella dei
ferrovieri da don Aldo Benevelli. La mia destinazione è stata la città di
Ziniaré. Lavoravamo con le autorità governative ma anche con i villaggi. Molti
dei miei colleghi erano burkinabè e il loro ruolo era fondamentale per
accompagnare i villaggi nella scelta delle infrastrutture da costruire – una
scuola, un pozzo, un mulino – per aiutarci a capire le dinamiche in atto
indicandoci, ad esempio, se ci fosse in quel villaggio un gruppo abbastanza
coeso da poter gestire una futura struttura».

Era il 1993 quando, alla fine di un lungo programma di
sviluppo integrato promosso da Lvia, il gruppo di animatori impegnati nel
progetto decise di auto organizzarsi per proseguire e consolidare i risultati
raggiunti. Otto persone fondarono l’Associazione di Aiuto agli Agricoltori
(Ask, acronimo in lingua locale, il mooré), che oggi con 7.000 contadini associati è
un’organizzazione di riferimento per la regione del Plateau Central.

Un seme che dà frutto

I
quarant’anni di Lvia sono stati anche l’occasione per celebrare i vent’anni di
esistenza dell’Ask. Marcel Koutaba, il suo fondatore, ha iniziato negli anni
Settanta a lavorare con Lvia come autista. Accompagnava nei villaggi gli animatori,
che si occupavano di seguire i produttori nella realizzazione delle attività
agricole: «Ho potuto approfondire il ruolo dell’agricoltura nello sviluppo
dell’Europa e ho capito che dovevamo proteggere i nostri agricoltori contro la
crescente urbanizzazione, che stava sradicando la nostra cultura agricola e che
avrebbe ostacolato lo sviluppo del paese. Il mio interesse alle questioni
agricole ha portato Lvia a formarmi e quindi impiegarmi come animatore. Insieme
ad altri sette colleghi che, come me, avevano lavorato con Lvia, ho fondato
l’Ask, nel 1993 a Donsè. Già negli anni Settanta, Lvia era impegnata per lo
sviluppo di queste aree rurali, dove la popolazione viveva in piccoli villaggi
privi dei servizi di base. Questi interventi, però, non si sono limitati alla
foitura di servizi, ma Lvia ha coinvolto la popolazione, creando maggiore
consapevolezza e competenza diffusa sul territorio. Queste competenze e lo
spirito associativo ci hanno supportato e ci hanno dato forza nella nostra
scelta di fondare l’Ask. Abbiamo cioè preso coscienza del nostro ruolo di
agricoltori e ci siamo resi conto di avere l’opportunità di rispondere ai
bisogni del nostro territorio, di unire gli sforzi per aiutare i nostri
connazionali a restare nel proprio paese vivendo del proprio lavoro».

Tra i
soci onorari dell’Ask, il presidente della federazione di Ong cristiane Focsiv
– Volontari nel mondo, Gianfranco Cattai, che da molto tempo conosce
l’associazione, riflette: «Grazie alla saggezza degli anziani, il dinamismo dei
giovani, il pragmatismo delle donne, durante questi vent’anni l’Ask ha
sviluppato l’economia locale, suscitando l’entusiasmo dei giovani, creando
opportunità di impegnarsi localmente e in molti casi evitando l’esodo verso la
città o l’emigrazione. L’Ask è un insieme di buone pratiche che noi in Italia
dovremmo conoscere, un percorso di persone che hanno creduto in loro stesse e
hanno avuto la speranza delle trasformazioni del loro territorio e della qualità
della vita della propria comunità».

Motivazione e passione

Oggi
l’équipe di Lvia in Burkina Faso è costituita da sedici burkinabè e quattro
cooperanti italiani. Una di loro è Cristina Daniele. Per lei l’Ong di Cuneo è
stata una scelta professionale. Ma c’è anche altro: «Ho colto l’opportunità del
servizio civile internazionale e sono partita con Lvia, facendo una prima
esperienza di cooperazione con cui ho potuto mettermi alla prova e capire se la
vita del cornoperante potesse fare per me. Ho scelto di restare. E nello
scegliere questa strada, c’è la consapevolezza che non si tratta solo di un
lavoro ma di una passione, di una forte motivazione, un credere nella
possibilità di generare cambiamento».

Dallo
stesso spirito sono mossi Emile, Ousmane, Jean Paul, Clémence e altri burkinabè
che non solo lavorano con l’Ong, ma sono protagonisti di questo movimento
associativo.

A
problemi globali, soluzioni locali. Il mondo è un tutto e ciò che si fa in
Burkina può influenzare gli stili di vita in Italia, le decisioni che si
prendono al Nord possono avere ripercussioni anche al Sud. Così, mentre lavora
in Burkina Faso per migliorare, ad esempio, sicurezza alimentare e ambiente, in
Italia Lvia cerca di sensibilizzare i cittadini a un consumo attento e
responsabile.

Marco
Alban è l’attuale responsabile di Lvia in Burkina Faso. Per lui, la
cooperazione non è solo una questione tecnica: «Lo sviluppo non è solo
realizzare, ad esempio, un pozzo. Il vero sviluppo è la dinamica che c’è dietro
questo pozzo, ciò che ha motivato e permesso la sua realizzazione, ciò che ne
garantirà la sua conservazione e sostenibilità. Si ha la tendenza a immaginare
l’Ong del Nord che viene a lavorare in un paese del Sud come se si trattasse di
un flusso unilaterale. Invece, Lvia ha sempre messo l’accento sulla reciprocità
nel suo cammino e, in questi anni di cooperazione, i legami e le relazioni tra
gli uomini restano uno dei patrimoni più importanti. C’è una grande differenza
tra considerare le popolazioni come beneficiarie e considerarle, a tutti gli
effetti, come partner. Non si tratta di svilupparle, ma di sostenere
un’iniziativa locale. Bisogna tirarsi su le maniche per lavorare e camminare
insieme. Per fare ciò, bisogna saper ascoltare, dialogare e darsi tempo per
comprendere. Si dice che conoscere un villaggio significhi conoscere il mondo …».

Lia Curcio*
* Lia Curcio lavora all’Ufficio
Stampa Lvia in Italia.

Tag: Burkina Faso, Lvia, cooperazione, volontariato

Lia Curcio




Storie e volti di Radio /1: Stella del Mare

Fondata nel 1982 da mons. Yse, la sua voce arriva fino
alle isole più piccole e remote dell’arcipelago di Chiloé. Con «Radio Estrella
del Mar» iniziamo un breve viaggio tra alcune emittenti latinoamericane. Tutte
con un Dna di servizio.

Castro (isola di Chiloé). La
sede sta a lato del Terminal rural, la
stazione da dove partono i micro
(minibus) per tutte le località dell’arcipelago. «Radio Estrella del Mar» occupa
una piccola casa, resa immediatamente riconoscibile dal suo colore arancione.
Mi accolgono Luis Eugenio Gonzáles e Clemente Becerra, locutores,
annunciatori o – per usare un termine ormai di uso comune – speakers. Mi
mostrano i locali dell’emittente mentre il tecnico di tuo mette in onda un
annuncio commerciale.

Entriamo
in studio. Andremo in onda dal vivo. Sono venuto per fare un’intervista invece
mi ritrovo intervistato. Parlo con il mio spagnolo carico di sintassi e accenti
italiani, ma ciò che importa è toccare con mano l’entusiasmo con cui Luis
Eugenio e Clemente fanno il loro lavoro. «A esta
hora compartiendo su mañana en Estrella del Mar» (condividendo la
mattinata con voi), ripete il jingle agli
ascoltatori della radio, che sono quelli di Chiloé, ma anche della Patagonia
cilena (province di Palena e Aysén).

Dare voce a chi non ha voce

Padre
José Contreras Riquelme è direttore dell’emittente dal 2011. «La nostra è una
radio che vuole essere voce di chi non ha voce. Tuttavia, essendo un’emittente cattolica,
essa ha come fine ultimo l’evangelizzazione». L’arcipelago di Chiloé è un luogo
particolare, con caratteristiche orografiche e antropologiche molto diverse da
quelle del resto del Cile. Padre Contreras, pur non essendo nativo del luogo,
conferma: «Sì, anche in ragione del nostro essere isole, abbiamo mantenuto
costumi e tradizioni differenti, a ogni livello: sociale, culturale e
religioso. La radio riflette queste peculiarità. Anche noi ovviamente siamo
stati obbligati a cambiare e a modeizzarci, però senza mai perdere la nostra
identità».

Anche
a Chiloé e nella Patagonia cilena i progressi della tecnologia hanno portato
internet, i canali televisivi satellitari, le comunicazioni via smartphone. C’è
ancora spazio per la radio?, chiediamo a padre Contreras. «Sì, ne sono sicuro.
La radio continua a essere un mezzo di comunicazione necessario e fondamentale.
La gente dice che “non esiste nulla come la radio”. In altre parole, nonostante
la grande quantità di mezzi di comunicazione esistenti la radio non può essere
sostituita. È uno strumento affidabile, attraverso il quale le persone possono
esprimersi, con interviste, domande, suggerimenti. Essa costituisce anche uno
strumento alla portata di tutti, cosa che non si può dire degli altri mezzi che
risultano disponibili per meno del 30% degli abitanti di Chiloé. In più la
nostra emittente unisce tutto l’arcipelago, arrivando fino alle isole più
remote».

Dalle lotte di mons. Yse

Radio
Estrella del Mar ebbe i natali negli anni della dittatura, quando ricopriva la
carica di vescovo mons. Juan Luis Yse de Arce, personalità di grande forza e
carisma, vincitore di prestigiosi premi. Nel 1976, il prelato aveva creato la «Fondazione
diocesana per lo sviluppo di Chiloé» (Fundechi). L’istituzione entrò presto in
contrasto con il governo militare. Soprattutto quando questo diede il proprio
sostegno a un megaprogetto giapponese (Proyecto
Astillas de Chiloé) che avrebbe voluto sfruttare (e quindi
distruggere) il prezioso bosco nativo dell’arcipelago. Da quella battaglia in
mons. Yse nacque l’idea di fondare un’emittente: Radio Estrella del Mar vide
la luce ad Ancud nell’anno 1982. Oggi è una rete di 8 emittenti: 4
nell’arcipelago di Chiloé (Castro, Ancud, Quellón e Achao), una nel piccolo
arcipelago di Guaitecas (Melinka) e 3 sul continente (Chaitén, Futaleufú e
Palena). Queste ultime in verità sono chiuse dal 2008 a seguito dell’eruzione
del vulcano Chaitén, ma c’è la volontà di riaprirle se si troveranno le
risorse.

Radio
Estrella del Mar è un impegno gravoso anche dal punto di vista economico. Come
sempre accade per le emittenti piccole e non commerciali, l’autofinanziamento
non riesce infatti a coprire le spese.

Lo
conferma mons. Juan María Agurto Muñoz che – nella sua veste di successore di
mons. Yse come vescovo di Ancud – è il proprietario della radio. «In questi
32 anni di vita ci sono stati momenti molto critici dal punto di vista
finanziario. Ancora oggi l’episcopato deve continuare a fare sforzi immensi per
trovare sovvenzioni attraverso iniziative intee e aiuti di organizzazioni
inteazionali, quali Adveniat (Ong
cattolica tedesca, ndr) e la Conferenza episcopale italiana. In ogni
caso, nonostante i problemi, la radio prosegue il suo cammino come mezzo di
informazione, formazione ed evangelizzazione».

Nell’anno 2014

A
Radio Estrella del Mar lavorano circa 20 persone tra annunciatori, giornalisti,
tecnici e amministrativi. Il palinsesto copre le 24 ore, 17 delle quali dal
vivo. Sono previsti programmi comuni (in rete), ma anche alcuni spazi gestiti
autonomamente da ogni singola stazione.

Dato
che il sostegno fondamentale arriva dalla Chiesa, la domanda è conseguente e
non può non essere evitata: in quanto radio cattolica, Estrella del Mar è
libera di esprimersi su qualsiasi argomento o, a volte, dove praticare una
sorta di autocensura? Padre Contreras risponde con decisione: «Alla radio non
si nasconde né si proibisce alcun tema. Noi chiediamo soltanto a giornalisti e
annunciatori di trattare le informazioni senza manipolarle. Dare le
informazioni, però sempre cercando di valorizzae gli aspetti positivi,
evitando morbosità e cattive intenzioni. In questo modo rispettiamo e siamo
rispettati».

Da
anni il Cile è tornato alla democrazia. Chiediamo se i rapporti con la politica
siano tranquilli. «Direi – risponde il direttore di Estrella del Mar – che non
abbiamo problemi particolari con i politici locali. Noi cerchiamo di essere
aperti a tutti e di essere giusti. Quando poi vediamo delle ingiustizie, le
denunciamo. Con chiarezza e con prove argomentate».

Paolo Moiola
(fine prima puntata – continua*)

Questa serie


La radio non muore mai

Nei primi mesi del 2014 abbiamo visitato alcune radio
latinoamericane. Tutte legate alle Chiese locali. Tutte piccole, ma fortemente
radicate sui rispettivi territori. Tutte con gli stessi problemi economici (la
mancanza di risorse). Tutte con la stessa forza propulsiva (l’entusiasmo dei
collaboratori). Noi cercheremo di raccontarle attraverso le storie e i volti
delle persone che le animano (inclusa un’intervista a Santiago García Gago,
autore del Manual para radialistas).

Già nel settembre 2009 Missioni Consolata aveva pubblicato
un dossier (Un mondo a misura di Radio) sulla realtà delle emittenti del Sud.

Sono trascorsi soltanto pochi anni, ma il mondo è stato
trasformato dalla rivoluzione digitale. Incluso il mondo delle radio, che oggi
si possono ascoltare anche in streaming, ossia sfruttando la rete internet. Lo
fanno pure le radio da noi visitate, anche se la maggior parte dei loro utenti,
soprattutto quelli che vivono lontani dalle città, le ascoltano nel modo tradizionale,
non avendo alcuna connessione web, ma soltanto un banale apparecchio radio.
Immortale, almeno fino a oggi.

Paolo Moiola

Tags: Cile, radio, media, comunicazione

Paolo Moiola




«Buon lavoro, Presidenta»

Viaggio in Cile / 1


Dallo scorso marzo, il palazzo della Moneda, sede della
presidenza, ospita di nuovo Michelle Bachelet. Nella capitale cilena abbiamo
incontrato il cardinale Ricardo Ezzati Andrello, che ci ha raccontato il «suo»
Cile: da Salvador Allende al generale Pinochet fino al ritorno della democrazia.
Con i suoi problemi: le troppe diseguaglianze, la questione dell’educazione, la
lotta dei Mapuche.

Santiago del Cile. Siamo arrivati in anticipo. C’è tempo per guardarsi attorno. La
zona è residenziale e la via alberata, dando coerenza al nome del municipio: Ñuñoa,
in mapudungún (la lingua mapuche), significa «luogo dell’iris». Al vicino
incrocio lo sguardo corre verso un grande cartello della recente campagna
elettorale. «Más áreas verdes. Todos con
Michelle», recita lo slogan scritto accanto al volto della signora
Bachelet, appena eletta presidenta. È ora di suonare il campanello. Entriamo in un curatissimo
giardino, posto tra una chiesetta in pietra e una casa a un solo piano,
elegante, ma molto semplice. È la residenza dell’arcivescovo di Santiago del
Cile, mons. Ricardo Ezzati Andrello, che ci accoglie con un ampio sorriso.

Attraversando l’Atlantico

Nato
in un piccolo paese del vicentino, all’età di 18 anni, sotto l’egida dei
salesiani, Ricardo Ezzati salpa dal porto di Genova alla volta del Cile. È il
1959. Dopo gli studi (Quilpué, Roma, Strasburgo)
e l’ordinazione sacerdotale, si muove tra Valdivia, Conceptión e Santiago, ricoprendo
vari incarichi e con sempre maggiori responsabilità. «La mia – racconta nel
salotto dove ci siamo accomodati – è stata una strada di pellegrino, avendo
dovuto cambiare tenda molto sovente»1. Il
suo lungo percorso cileno ci consente di toccare molti argomenti.

Negli
ultimi 50 anni il Cile è passato dalla breve stagione di Salvador Allende alla
lunga dittatura del generale Pinochet, fino al ritorno della democrazia. Il
paese ha ottenuto importanti successi economici, con elevati tassi di crescita
(4,2% anche nel 2013). Tuttavia, rimane uno dei più diseguali del mondo: l’1%
più ricco s’intasca il 31% dei redditi. La lista 2014 dei 1.645 miliardari
mondiali, stilata da Forbes2, conta 12 cileni, appartenenti all’oligarchia
storica (Fontbona, Horst, Matte, Falabella, Angelini Rossi, ma anche Piñera, il
presidente uscente).

«È
vero – conferma mons. Ezzati -: nel paese esiste un grande divario sociale tra
persone che non hanno niente e vivono nella povertà (se non proprio nella
miseria) e un gruppo minoritario di cileni che vive nell’abbondanza. Nel
settembre 2012, in una lettera pastorale3,
come vescovi abbiamo detto che lo sviluppo del Cile non può essere centrato
soltanto su valori economici e soprattutto che esso dovrebbe essere molto più
partecipato, più solidale, più giusto. Questo è un paese di molte speranze ma
anche di tantissime sfide».

Sfide
che dovranno essere affrontate da Michelle Bachelet, vincitrice delle ultime
elezioni con Nueva Mayoría, la
coalizione di centrosinistra. Alla fine del primo mandato, nel marzo del 2010,
lei aveva lasciato La Moneda con un alto indice di approvazione dei cittadini.
Oggi Bachelet ha più esperienza, ma anche più aspettative da soddisfare. Ha
affrontato la campagna elettorale sotto lo slogan Chile
de todos, promettendo più ospedali pubblici, più educazione pubblica, più
democrazia e diritti umani4.
Mons. Ezzati ha incontrato la presidenta
eletta il 16 dicembre. Che vi siete detti?, domandiamo.

«Dato
che la sua coalizione va dal partito comunista alla democrazia cristiana, le
abbiamo chiesto di non avere il timbro di un partito o di una determinata
ideologia, ma soltanto quello del bene comune. Le abbiamo chiesto che la sua
politica sia illuminata dai grandi valori dell’umanesimo. Le abbiamo chiesto di
essere presidente di tutte e tutti i cileni e di mettere il potere al servizio
dei poveri e di quelli che hanno più bisogno come gli anziani e i bambini.
Abbiamo infine parlato di temi molto concreti: la giustizia distributiva, la
famiglia, l’educazione».

Già,
l’educazione, tema caldo, caldissimo nel paese.

«Capisco gli studenti»

Il
Cile ha conosciuto molte riforme dell’educazione. Quella di Allende – si
chiamava «Scuola nazionale unificata» (Escuela
nacional unificada, Enu) – non vide mai la luce. Poi ci furono le
riforme di Pinochet – del 1981 e del 1990 (quest’ultima approvata nell’ultimo
giorno della dittatura) -, che portarono a una privatizzazione dell’istruzione.
Infine, nel 2006 Michelle Bachelet varò una riforma (legge 20370 o Lge) che,
nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto porre rimedio ai guasti delle precedenti.
Senza però riuscirvi. Oggi la situazione è questa: la qualità dell’educazione
pubblica è scarsa, mentre l’educazione privata è molto cara (e spesso
inadeguata). Questo ha portato a un sistema educativo diseguale in cui molti
studenti (e le loro famiglie) debbono indebitarsi per poter studiare.

Ecco
spiegato perché in Cile, in questi anni, le uniche, vere proteste sociali sono
nate proprio tra gli studenti. Prima (era il 2006) tra i giovani degli istituti
superiori, poi (2011) tra quelli universitari.

La
Chiesa cattolica cilena ha un ruolo rilevante nel sistema educativo del paese.
Vogliamo capire se questo suo essere parte in causa costituisca un impedimento
per prendere posizione. Mons. Ezzati, lei condivide le proteste studentesche? «Senz’altro.
Magari con qualche distinguo sulle loro modalità. Una riforma del sistema
educativo è però necessaria».

Ezzati
conosce bene il mondo dell’educazione, essendo stato rettore del collegio
salesiano di Conceptión e poi professore alla facoltà di teologia della «Pontificia
Università cattolica del Cile», un’istituzione con 26mila iscritti5 di cui oggi è gran cancelliere. «Noi
crediamo – precisa subito – che il diritto all’educazione sia un diritto
essenziale, ma è un diritto che riteniamo vada di pari passo con il diritto
alla libertà di educazione. Ogni persona ha cioè il diritto ad avere
un’educazione di qualità ma, insieme a questo, ha anche il diritto di scegliere
il tipo di educazione – di base, superiore o universitaria – in accordo con la
propria concezione di vita».

Anche
Michelle Bachelet considera fondamentale la riforma educativa e l’ha posta tra
le priorità del proprio programma di governo. Un programma ambizioso in cui si
parla anche di un debito storico dello Stato e della società cilena nei
confronti dei popoli indigeni. Questi – secondo i dati del censimento 2012 –
costituiscono l’11% della popolazione totale (1,8 milioni su 16,3)6. L’etnia prevalente è quella mapuche con
oltre 1,5 milioni di persone.

La lotta del popolo mapuche

Nel
settembre 2010, mons. Ezzati, all’epoca arcivescovo di Conceptión, accetta il
ruolo di mediatore nel conflitto tra oltre 30 Mapuche – incarcerati con
l’accusa di terrorismo e in sciopero della fame per protestare contro
l’applicazione della legge antiterrorismo varata all’epoca di Pinochet – e il
governo centrale.

«Io
preferisco il termine di “facilitatore del dialogo”. I Mapuche mi chiesero di
intervenire e il governo di Piñera accettò. Ebbi dialoghi lunghissimi con i
capi mapuche. All’epoca la crisi si risolse, ma la situazione tra indigeni e
governo rimane ancora oggi delicata, con manifestazioni di protesta e incendi
nei casi più gravi. La mia esperienza mi ha fatto scoprire che tra gli indigeni
ci sono due anime, due visioni. Quella predominante è pacifica e contemplativa
vedendo nella natura il riflesso di Dio. I Mapuche assistono con grande
preoccupazione alla scomparsa delle coltivazioni tradizionali per far posto a
pini ed eucalipti utilizzati nella produzione di cellulosa per carta. Ma non
basta. Con le coltivazioni tradizionali spariscono anche le erbe medicinali, su
cui si basa l’autorità delle machi, le
guide spirituali mapuche (che in gran parte sono donne)».

Cosa
occorre fare, dunque, per risolvere il conflitto tra indigeni e governo
centrale? «La prima cosa di cui c’è necessità è il riconoscimento politico dei
Mapuche come popolo con la sua cultura e identità. E poi va risolto lo storico
problema della terra».

Se in
territorio mapuche la terra è finita in mano alle imprese della cellulosa
(soprattutto quelle delle famiglie cilene Angelini e Matte), anche lo
sfruttamento di altre ricchezze naturali ha generato problemi. Come ad esempio
nell’Aysén, regione della Patagonia cilena, in cui un consorzio internazionale
(formato da Endesa-Enel e da una società della famiglia Matte) vorrebbe
sfruttare le enormi risorse idriche per la produzione di energia elettrica. Al
progetto si oppone la maggioranza delle popolazioni locali, guidata da mons.
Luis Infanti della Mora, italiano di Udine, vicario apostolico dell’Aysén7.

«La
battaglia di mons. Infanti nella regione di Aysén è una battaglia etica più che
economica. Ci sono istituzioni che lo appoggiano e altre che lo criticano.
Tuttavia, anche nelle correnti di pensiero ecologico ci sono posizioni diverse.
Il tema energetico è un tema forte. L’acqua sembra – dico sembra perché non
sono un tecnico – dare la possibilità di produrre energia in forma più pulita.
In Cile abbiamo molte centrali a carbone, che sono veramente inquinanti. Sono
vissuto per tre anni a Conceptión dove siamo riusciti a fermare la costruzione
di una nuova centrale termoelettrica a carbone, quella sì veramente inquinante.
L’acqua è un bene comune che deve essere difeso opportunamente. D’altra parte,
abbiamo anche bisogno di risolvere il problema energetico».

«Francesco è un dono»

Mons.
Ezzati non vuole parlare soltanto del suo ruolo pubblico. Vuole essere anche e
soprattutto un uomo di Chiesa. «Perché – spiega – è una condizione in cui mi
sento comodo e felice. Quella cilena non è una chiesa clericale, ma una chiesa
di popolo, dove la partecipazione dei laici è molto forte. Qui a Santiago
abbiamo una scuola di formazione dei laici (Instituto
Pastoral Apóstol Santiago, ndr)8 che
io ho seguito da vicino quando ero vescovo ausiliario della capitale, cui
partecipano migliaia di persone. Sono tutti volontari che, dopo il lavoro, alla
sera dedicano alcune ore alla propria formazione per essere attivi nelle
rispettive comunità. E poi un secondo aspetto molto bello della chiesa cilena
sono le espressioni della religiosità popolare, che costituiscono una ricchezza
straordinaria, trasmessa di generazione in generazione. Ricordo, tanto per fare
un esempio, la festa del Cuasimodo9 a Pasqua».

Da un
anno al Vaticano c’è un papa argentino. «Io ho avuto occasione di conoscere il
cardinale Bergoglio in alcune riunioni del Celam (Consejo
episcopal latinoamericano, ndr)10, ma
soprattutto durante l’assemblea di Aparecida – era il maggio del 2007 -, dove
eravamo nella stessa commissione, lui come presidente e io come membro. Dunque,
ho potuto conoscere abbastanza bene questo dono di Dio alla Chiesa universale.
Ho conosciuto un uomo molto umile, rispettoso del lavoro degli altri, un uomo
di una spiritualità semplice ma allo stesso tempo molto profonda. Una persona
di grande fede e dal tratto umano veramente squisito. Considero veramente una
grazia del Signore che lui sia il vescovo di Roma. Anche perché papa Francesco
porta alla Chiesa universale il respiro di una Chiesa che, dopo 500 anni di
storia, può offrirci molto».

Una
Chiesa, quella latinoamericana, che ha proposto, tra l’altro, una teologia
tanto affascinante quanto foriera di discussioni interminabili, polemiche
feroci, separazioni dolorose. Ci riferiamo alla teologia della liberazione. «Come
tutte le teologie, anche quella della liberazione ha una propria storia. I
documenti della Congregazione per la dottrina della fede parlano di una
teologia della liberazione necessaria e di una influenzata da idee
sociopolitiche. Dico questo senza voler fare una critica, perché da sempre la
storia della salvezza s’incarna nella storia concreta delle persone e dei
popoli. Io credo che la teologia della liberazione, quella più autentica, abbia
dato un apporto significativo alla Chiesa universale».

Le ferite del passato

La
teologia della liberazione si diffuse nei primi anni Settanta. Proprio negli
anni in cui ci fu, tra l’altro, il golpe di Augusto Pinochet contro il governo
socialista di Salvador Allende.

Mons. Ezzati
non si tira indietro quando gli chiediamo di commentare quel periodo storico. «Io
posso dire che, durante gli anni di Unidad
Popular11,
c’erano grossi problemi. Quando ci fu il colpo di stato si pensava che sarebbe
durato pochi giorni. Invece si trasformò in una dittatura, dove i diritti umani
furono calpestati e si generò molta ingiustizia. Allora ero un giovane e
insignificante prete di periferia, ma anch’io vissi momenti difficili. Nel
1978, con un gruppo di preti elaborammo dei testi scolastici di educazione
religiosa. Fummo denunciati come “nemici della patria e marxisti” semplicemente
perché un libro, destinato alla scuola superiore, parlava del cristiano nel
mondo facendo riferimento a problemi molto concreti: diritti umani, giustizia
distributiva, armamenti. Quel periodo è passato, anche se ci sono ferite che
rimangono e che soltanto con il tempo si potranno rimarginare».

Paolo Moiola
(fine prima puntata – continua*)
Note

1 – Questa intervista a mons. Ezzati si è svolta a Santiago del Cile
prima che si conoscesse la sua nomina a cardinale, avvenuta lo scorso 22
febbraio.
2 – L’annuale lista di Forbes, uscita nel marzo 2014,
quest’anno comprende 1.645 persone. Si veda: www.forbes.com/billionaires.
3 – La lettera pastorale, uscita il 27 settembre 2012, è titolata Humanizar
y compartir con equidad el desarrollo de Chile
. Essa è scaricabile dal sito
della Conferenza episcopale cilena: www.iglesia.cl.
4 – Il programma di governo di Michelle Bachelet si può scaricare da:
michellebachelet.cl/programa.
5 – I siti corrispondenti: Università cattolica, www.uc.cl; Università
del Cile, www.uchile.cl; Collegio salesiano di Conceptión,
www.salesianoconcepcion.cl.
6 – Tutti i dati del censimento 2012 sono scaricabili dal sito:
www.censo.cl. Va notato che sui numeri dei popoli indigeni (sono 9 quelli
riconosciuti), e in particolare dei Mapuche, non c’è concordia.

7 – Si legga: Luis Infanti de la Mora, Dacci oggi la nostra acqua quotidiana, Emi, Bologna 2010.
8 – Il sito: www.inpas.cl.
9 – Originaria dell’epoca della colonia, la festa di Cuasimodo si
celebra la domenica successiva alla Pasqua.
10 – Il sito: www.celam.org.
11 – Nome della coalizione dei partiti di sinistra che portò alla
presidenza Salvador Allende.

 
Biografia essenziale


Cardinale Ricardo Ezzati Andrello
 

• 1942 – Nasce a Campiglia dei Berici, in provincia di
Vicenza.

• 1959 – Arriva per la prima volta in Cile per studiare a
Quilpué (Valparaíso) nel noviziato dei salesiani.

• 1970, marzo – Viene ordinato sacerdote.

• 1971-1990 – Ricopre vari incarichi all’interno della
Congregazione salesiana in Cile.

• 1991-1996 – È in Vaticano alla Congregazione per la vita
consacrata.

• 1996, settembre – Viene ordinato vescovo di Valdivia,
capitale della regione meridionale de Los Ríos.

• 2001, luglio – Viene nominato vescovo ausiliare di
Santiago del Cile.

• 2006, dicembre – Viene nominato arcivescovo di Conceptión,
capitale della regione del Biobío.

• 2007, maggio – Partecipa alla Conferenza di Aparecida,
dove lavora a stretto contatto con il cardinale Bergoglio, futuro papa
Francesco.

• 2010, settembre-ottobre – È «facilitatore del dialogo»
nello scontro tra i Mapuche e il governo centrale.

• 2010, dicembre – Viene nominato arcivescovo di Santiago
del Cile e presidente della Conferenza episcopale.

• 2014, 22 febbraio – Papa Francesco lo nomina cardinale.

Cile / 1: la
cronologia essenziale

Il ritorno di
Michelle

Nel bene e nel male, alcuni dei protagonisti della storia
cilena: Spagna, popolo Mapuche, Salvador Allende, Augusto Pinochet, Milton
Friedman e Chicago boys, Giovanni Paolo II, Sebastián Piñera, Michelle
Bachelet.

1810

Inizia il processo d’emancipazione dal dominio spagnolo. Il
Cile dichiarerà l’indipendenza il 12 febbraio del 1818.
1879 febbraio.Le truppe cilene occupano l’allora porto boliviano di
Antofagasta. Poco dopo l’azione, ad aprile, inizia la «guerra del Pacifico»,
che si concluderà nel 1883 con la vittoria cilena su Perù e Bolivia. Le
conseguenze di quel conflitto si fanno sentire ancora oggi.

1883

Termina la secolare «Guerra de Arauco». Le terre dei Mapuche
sono occupate in via definitiva dall’esercito cileno. La perdita è all’origine
di un conflitto mai più sanato.

1970 novembre.

Le elezioni sono vinte da Salvador Allende, medico e
socialista.

1973 settembre.

Il generale Augusto Pinochet guida un colpo di stato contro
il presidente Salvador Allende. La Moneda, il palazzo presidenziale dove
Allende è asserragliato, viene bombardata. Allende muore, forse per suicidio.
Il golpe ha l’appoggio concreto di Washington e di Henry Kissinger, il potente
segretario di stato Usa. È l’altro «11 settembre» della storia, il primo (ma
meno conosciuto e riconosciuto).

1975 marzo.

Il prof. Milton Friedman, economista statunitense, fondatore
della «Scuola di Chicago», visita per una settimana il Cile e incontra il
generale Pinochet. Nello stesso anno i cosiddetti «Chicago boys» (cileni
graduati alla scuola di Friedman) entrano nel governo di Pinochet, mettendo in
atto un forte piano di riforme economiche liberiste.

1987 aprile.

Papa Giovanni Paolo II visita il paese. Saranno 6 giorni
difficili e controversi.

1989 dicembre.

Dopo 17 anni di dittatura, si tengono elezioni democratiche.
Vince la coalizione di centro-sinistra (Concertación
de partidos por la democracia
), che goveerà ininterrottamente il Cile
fino al 2010. I presidenti saranno: Patricio Aylwin, Eduardo Frei, Ricardo
Lagos e Michelle Bachelet, prima donna presidente della storia cilena.

2006

È l’anno della prima rivolta studentesca, quella denominata
«rivoluzione pinguina» (a causa delle tipica divisa degli studenti: giacca blu
e camicia bianca). Nel 2011 ne seguirà una seconda, questa volta guidata dagli
studenti universitari.

2010 marzo.

Inizia il mandato presidenziale di Sebastián Piñera,
rappresentante della destra (Coalición por el cambio) e miliardario.

2013 novembre.

Camila Vallejo, la più conosciuta leader del movimento
studentesco, viene eletta deputata nelle liste del Partito comunista, alleato
di Nueva Mayoria, la coalizione di centro-sinistra guidata da Michelle
Bachelet.

2013 dicembre.

Al ballottaggio per le presidenziali vince la candidata
Michelle Bachelet, al suo secondo mandato.

2014 marzo.

L’11 del mese assume la presidenza Michelle Bachelet. Anche
la seconda carica del paese, la presidenza del Senato, è nelle mani di una
donna: Isabel Allende Bussi, figlia dell’ex presidente Salvador Allende.

Paolo Moiola

 

Cile / 2: una mappa riassuntiva


Le questioni principali

politica

La Costituzione cilena è, con poche modifiche, ancora quella
promulgata l’11 marzo 1981 durante la dittatura del generale Augusto Pinochet.
Nel programma di governo della presidenta Bachelet, pubblicizzato sotto lo
slogan «Chile de Todos», è prevista (pagg. 30-35) una nuova Magna carta in cui
democrazia e diritti umani siano più tutelati. Ma raggiungere questo obiettivo
non sarà facile.

economia

Il Cile è uno dei paesi al mondo che più sono cresciuti
negli ultimi 25 anni. Le diseguaglianze sociali permangono però molto ampie:
l’1% dei cileni incamera il 31% del prodotto nazionale (contro – ad esempio –
il 21% degli Stati Uniti). Il tasso di povertà è del 14,4%, che corrisponde a
2,5 milioni di cileni (dati Casen 2011). Le fortissime disparità economiche
sono riassunte nell’alto valore dell’Indice Gini (52,1, secondo i dati della
Banca mondiale e della Cia), che pone il paese ai primi posti nel mondo per
diseguaglianza. Il salario minimo, fissato ad agosto 2013, è pari a 210.000 pesos
cileni, pari a circa 270 euro.

salute ed educazione
Il problema dell’educazione pubblica – inefficiente, di
scarsa qualità e soppiantata da quella privata – ha generato le due rivoluzioni
studentesche nel 2006 e nel 2011. Il programma della presidente Bachelet
prevede una riforma radicale basata sul principio che l’educazione non è un
bene di consumo. Il problema della sanità pubblica è riassumibile in due dati:
il Cile è agli ultimi posti tra i paesi dell’Ocse come spesa sanitaria (7,5%
del Pil) e uno dei tre – assieme agli 
Stati Uniti e al Messico – in cui la spesa sanitaria privata supera
quella pubblica.

ambiente

La questione ambientale è legata alle conseguenze dello
sfruttamento delle risorse del sottosuolo (ad esempio, il progetto Pascua-Lama
nella regione di Atacama), dell’acqua (regione dell’Aysén, Patagonia cilena),
delle risorse forestali (soprattutto in terra mapuche) e delle risorse ittiche
(in particolare con riferimento alla pesca del salmone nelle acque
dell’arcipelago di Chiloé).

popolo mapuche

Mapuche – il principale gruppo indigeno del Cile e il terzo
per numero in America Latina – reclamano la restituzione delle loro terre a Sud
del fiume Bío-Bío (erano circa 100mila kmq), terre finite in mano a
latifondisti e compagnie forestali. Le loro azioni di lotta (dalla
disobbedienza civile agli incendi) sono punite con l’applicazione della Legge
anti-terrorismo 18.314 emanata nel maggio 1984 da Pinochet. Contro di essa si
levano non soltanto le proteste dei Mapuche, ma anche quelle delle
organizzazioni inteazionali per i diritti umani e dell’Onu.

relazioni
inteazionali

Il Cile ha due contenziosi territoriali aperti, sia con il
Perù che con la Bolivia. In entrambi i casi si tratta di conseguenze della
cosiddetta Guerra del Pacifico che – tra il 1879 e il 1883 – vide contrapporsi
il Cile all’alleanza tra Perù e Bolivia. I due paesi andini uscirono sconfitti
dal conflitto: il Perù perse la regione di Arica e la Bolivia il suo unico
sbocco al mare, sul litorale del deserto di Atacama. Di recente (27 gennaio
2014) la Corte internazionale di giustizia de L’Aia (Paesi Bassi) ha deciso sul
contenzioso tra Cile e Perù riducendo la sovranità del primo sul mare
antistante i due paesi di un’area pari a circa 38mila km quadrati. Anche la
Bolivia aspetta per il 2015 una decisione della Corte internazionale che le
permetta di riacquistare uno sbocco al mare.

Paolo Moiola

Tags: Cile, Mapuche, Ezzati Andrello, chiesa e società, cardinali

Paolo Moiola




Silenzio sulla guerra

Incontro con padre Pizzaballa


Di Siria si parla molto meno di qualche mese fa. Ma i
problemi generati dalla guerra civile sono ancora insoluti. In queste pagine
Piergiorgio Pescali parla della situazione siriana con padre Pizzaballa, francescano,
«custode di Terrasanta» dal maggio 2004. L’intervista è parte di un libro in
via di pubblicazione.

«Noi abbiamo fatto una scelta ben precisa: parlare il meno
possibile. Quindi io, ora, davanti a lei, sto contravvenendo a questa stessa
scelta».

Padre Pierbattista Pizzaballa sorride mentre si aggiusta il
saio francescano. Lui, «custode di Terrasanta», è impegnato a mantenere viva
l’attenzione verso la Siria. Lo abbiamo incontrato per porgli alcune domande*.

Dopo l’accordo per la distruzione delle armi chimiche di
Assad (settembre 2013), si è arrivati a scongiurare il pericolo di un
intervento militare internazionale diretto da parte dell’Europa e degli Usa
(che forse non erano neppure troppo convinti). Si è però assistito anche a un
allontanamento della Siria dall’attenzione mediatica. Questo da una parte ha
favorito l’incancrenirsi del conflitto, dall’altra ha permesso ai paesi
coinvolti – Turchia, Arabia Saudita, Qatar – di avere mano libera nelle loro
politiche di intervento. Padre Pizzaballa, cosa sta accadendo in Siria?

«In realtà in Siria non è cambiato molto rispetto ai
tempi in cui se ne parlava. Cambia sul territorio la forza dei vari movimenti a
seconda dei periodi, ma la situazione generale è immutata. Parte del territorio
è sotto controllo governativo, parte sotto quello dei ribelli. E i ribelli sono
una galassia indefinita di movimenti e sigle. A volte sono semplici bande
criminali che utilizzano varie coperture per compiere scorrerie e ruberie.

Risulta sempre più evidente che tra questi ribelli ci
sono frange di stampo fondamentalista, che creano problemi a tutto ciò che si
differenzia da loro. Ci sono, infine, milioni di profughi all’esterno e
all’interno del paese».

Le frange fondamentaliste sono formate da siriani o da
stranieri?

«In gran parte si tratta di stranieri. Provengono da
Cecenia, Pakistan, Egitto, Libia, Afghanistan. Sono persone abbruttite dalla
guerra, che hanno partecipato a tutti i conflitti di questi ultimi anni. Sono
persone abituate alla violenza, che è divenuta il loro pane quotidiano. Sono
persone che devono vivere, quindi saccheggiano; che devono fare sesso, quindi
stuprano.

All’inizio la rivolta non era questa: era una rivolta più
popolare, pacifica, politica. Poi è degenerata in violenza».

Chi sostiene, finanzia, appoggia queste frange
estremiste?

«Non posso dire con sicurezza chi siano le organizzazioni
e i governi che le appoggiano, ma possiamo sicuramente vedere da dove entrano:
dal Libano, forse anche dalla Giordania, ma soprattutto dal Nord, Turchia ed
Iraq.

Certamente godono dell’appoggio di Turchia, Arabia
Saudita, Qatar, ma anche di alcuni paesi occidentali, in particolare quelli che
hanno adottato la politica dell’anti-Assad a tutti i costi».

Come
sempre è il popolo che subisce le conseguenze di questi giochi politici. Come
vivono i siriani?

«Il
popolo è la prima vittima di una guerra entro la quale saranno ridefiniti gli
equilibri non solo della Siria, ma di tutta la regione mediorientale. Esiste,
certamente, una divisione anche tra la gente: c’è chi sta da una parte, chi sta
dall’altra. La maggioranza della popolazione vuole vivere tranquillamente la
propria vita quotidiana. Spesso, però, a causa della guerra si trova a dover
scegliere da che parte stare. Volente o nolente deve comunque fare una scelta.
Questa è la violenza della guerra siriana».

La separazione tra alauiti pro Assad da una parte e
salafiti-sunniti dall’altra rispecchia effettivamente l’attuale scacchiere
della guerra civile siriana?

«La
realtà siriana, come tutte quelle mediorientali, è una realtà complessa.
Possiamo, anzi, affermare che la complessità è ciò che caratterizza la vita di
tutti i mediorientali e, oggi in particolare, dei siriani. Quindi, tutte le
semplificazioni che, per vari motivi, vengono fatte hanno poco senso e
contengono imprecisioni e ingiustizie. È anche vero, però, che quando devi
presentare la complessità sei costretto a semplificare, altrimenti non riesci
più a farti capire. Diciamo, quindi, che grosso modo è così, anche se tra gli
alauiti ci sono persone che contrastano il regime e, viceversa, tra i sunniti
ci sono coloro che appoggiano Assad. Non è, come si può capire, facile
distinguere nettamente chi è da una parte e chi dall’altra».

Un embargo contro la Siria esiste di già, ma Europa e
Stati Uniti vorrebbero rafforzarlo. I francescani, così come la Chiesa
cattolica, sono sempre stati contrari all’embargo, e non solo della Siria.
Quale altro tipo di pressione è possibile fare?

«In genere l’embargo colpisce la popolazione povera, non
certo chi ha i mezzi e il potere. Siamo sicuramente favorevoli all’embargo
delle armi: se c’è gente che spara è perché qualcuno produce le armi, le vende
e le distribuisce. Siamo, invece, contrari all’embargo su alimentari,
medicinali, energia. Cos’altro si può fare, onestamente, non lo so. Non vedo
delle soluzioni semplici. La situazione è talmente degenerata, le ferite sono
talmente profonde che attualmente non vedo alcuna possibilità di pacificazione.
Spero, comunque, di sbagliare».

Israele
in questo contesto dove sta, cosa fa, cosa spera di ottenere?

«Credo che per Israele cambi poco. Chiunque andrà al
potere in Siria sarà comunque anti-israeliano».

Assad, comunque, al di là dei proclami, non ha mai dato
problemi a Israele. Quindi potrebbe, alla fin fine, rappresentare il male
minore.

«Assad è, per Israele, una bestia conosciuta. Penso che
qualcuno in Israele speri di continuare a confrontarsi con ciò che già conosce,
piuttosto che trovarsi a dover affrontare una nuova realtà».


E i cristiani in tutto questo dove stanno e come vivono?

«I
cristiani non sono un popolo a parte. Lo dico sempre. I cristiani sono siriani
come lo sono gli alauiti, i sunniti, i salafiti, gli sciiti. E, quindi, anche i
cristiani sono coinvolti nella guerra con tutte le sue sfaccettature. Ci sono
cristiani pro-Assad e cristiani contro Assad».

I cristiani sono comunque una minoranza all’interno della
Siria e sono concentrati in regioni, quelle settentrionali, dove i gruppi
estremisti di cui parlava in precedenza, sono più attivi. Sono, quindi, più
esposti alla violenza.

«Bisogna fare attenzione a non generalizzare. La guerra
distrugge tutto: chiese come moschee».

E i francescani?

«Noi abbiamo fatto una scelta ben precisa: parlare il
meno possibile (quindi io, ora, davanti
a lei, sto contravvenendo a questa stessa scelta). Non perché abbiamo paura.
Noi non abbiamo paura di niente e di nessuno, ma solo perché siamo di fronte a
una situazione talmente complessa che fare dichiarazioni, specie se di parte,
serve a poco. Abbiamo fatto semplicemente la scelta di stare con la nostra
gente e aiutarla nei bisogni quotidiani. In questa guerra non c’è una parte
giusta e una sbagliata. Abbiamo, quindi, scelto di stare al nostro posto: con
la popolazione. Non potremo forse portare la pace, ma potremo consolare
qualcuno».


Ci sono diversi religiosi nelle mani dei ribelli, tra cui
il vescovo ortodosso di Aleppo, Boulos al-Yazigi, il siriaco ortodosso Youhanna
Ibrahim e padre Paolo Dall’Oglio. Si sa qualcosa di loro?

«No, non sappiamo nulla di preciso. Quello dei ribelli
non è un gruppo omogeneo, ma una galassia indefinita ed è molto probabile che
si passino i prigionieri da un gruppo all’altro».

Il vescovo siro cattolico di Damasco, Ignace II Younan,
prima del rapimento, aveva criticato Paolo Dall’Oglio per le sue dichiarazioni
anti Assad, dicendo che – senza il partito Ba’ath (il partito del
presidente, ndr)
-, Mar Musa (il monastero di Dall’Oglio, ndr) non
sarebbe mai potuto esistere.

«Sono questioni complicate in cui è difficile entrare e
giudicare. Credo che ciascuno debba fare la sua parte. I religiosi devono fare
i religiosi. Il nostro compito non è quello di entrare in questioni politiche
perché verremmo trattati da politici. Il nostro ruolo è, l’ho già detto, stare
con la gente: aiutarla, sostenerla. Naturalmente non puoi essere cieco rispetto
a ciò che sta accadendo. Devi sempre parlare di rispetto, di giustizia… ma alla
fine in momenti così gravi qualunque cosa tu dica è sbagliata».

Tra il 2011 e il 2013 le organizzazioni umanitarie
cattoliche hanno raccolto 72 milioni di euro da mandare in Siria. Come è
possibile, in una situazione così caotica, gestire questi aiuti? Come possono i
donatori essere sicuri che questi aiuti raggiungano effettivamente le
popolazioni a cui sono diretti?

«I bisogni sono tanti e in questo momento di guerra non
puoi pensare al futuro, ma al presente, a come aiutare la gente a continuare a
esistere. Uno dei problemi principali è quello dei profughi sia all’interno del
paese sia all’esterno, nei campi, soprattutto in Giordania e Libano. Lì c’è
bisogno di tutto. Occorre provvedere per l’assistenza immediata: medicinali, cure
mediche, viveri, vestiti. All’interno della Siria i soldi vanno a tutte quelle
famiglie che, a causa della guerra, debbono spostarsi. Bisogna cercare loro il
luogo in cui andare, trovare nuove scuole, spesso i prezzi esplodono e c’è chi
ne approfitta. Le chiese sono impegnate a dare un aiuto a queste famiglie nella
maniera più cornordinata possibile. Uno dei principali problemi è quello di unire
e cornordinare i vari gruppi all’interno della Chiesa, ma anche tra le varie
organizzazioni umanitarie, tra le Ong. Altro non si può fare. Io, come
francescano, posso garantire che, per quanto riguarda noi, siamo abbastanza
precisi e ferrei tenendo presente che, prima o poi, qualcuno ci chiederà di
rendere conto di quello che è stato fatto».

I luoghi cristiani in Siria sono stati preservati?

«Tutti i luoghi sono stati colpiti; non solo quelli
cristiani, ma anche quelli musulmani. Al Nord in maniera molto più pesante che
al Sud. Non possiamo dire se siano stati colpiti intenzionalmente o no. Di
conseguenza è molto difficile dare un’interpretazione».

Un possibile scenario potrebbe prevedere la divisione
della Siria in un Sud alauita pro-Assad e un Nord sunnita-salafita filo-turco.
Se questa ipotesi si avverasse, lo spazio geopolitico della regione sarebbe
diviso nettamente in due: un Sud filo-iraniano confinante con Israele (e quindi
possibile teatro di scontro tra Tel Aviv e Teheran) e un Nord più radicale, ma
più vicino all’Europa e filo-turco.

«Non posso prevedere come evolverà la guerra. Si parla,
effettivamente, di questa possibile divisione e della creazione di una Grande
Turchia, ma è ancora presto per dirlo. Anche i programmi più cinici devono fare
i conti con il territorio. Quindi, in qualunque direzione si vada, non sarà mai
una soluzione facile e pacifica».

Piergiorgio Pescali

Tags: Siria, pace, guerra, ecumenismo, jihad, fondamentalismo, cristiani

Piergiorgio Pescali




«La morte non esiste»

Eugenio Susani, tra i «padri» della Cooperazione in Africa


Negli anni Sessanta nascevano le prime Ong in Italia. E
partivano i primi volontari. In quell’epoca si era un po’ pionieri della
cooperazione. Così è stato Eugenio Susani. Tra i primi a partire e cofondatore
di due importanti associazioni. Una vita dedicata all’Africa e al suo sviluppo.
Ma in modo non invasivo. Una figura, una storia, che ha ancora molto da
insegnarci.

«Eugenio Susani ci ha lasciato in una calda giornata di
agosto. Lo avevamo sentito al telefono qualche giorno prima; con voce
affaticata ma ferma ci aveva semplicemente detto: “Sto male. Speriamo di
poterci rivedere per la nostra solita passeggiata. Ma in questo momento non
sono in grado di prevedere nulla”. Poi le cose sono precipitate. In quelle
parole ritrovo tutta la personalità di Eugenio: la sua sobrietà, il suo odio
per la retorica, che non si smentisce neppure di fronte alle circostanze estreme.
Il suo stile asciutto, oggettivo, essenziale». Chi scrive è Riccardo Borghi,
già assessore alla cultura al comune di Opera e ora presidente della Unitre
locale. Borghi firma la postfazione del libro «All’ombra del baobab. Racconti
di un volontario in Africa», raccolta di storie vissute e pensieri di Eugenio
Susani.

Amico
dell’autore, ne fissa alcuni tratti essenziali: «Eugenio era uomo di grande
rigore intellettuale, ma altresì capace di grandi passioni civili. (…) Quando
ho conosciuto Eugenio, il primo pensiero è stato: “Ecco un vero illuminista”.
Tale era la sua volontà di conoscenza, la concretezza, l’entusiasmo per
l’azione razionale che trasforma la realtà, la propensione a trasmettere il
proprio sapere agli altri. Era, in verità, un’intuizione alquanto
approssimativa, ma che coglieva aspetti essenziali e nobili della sua
personalità, e dunque in qualche modo “vera”».

Tra i primi volontari

Eugenio
Susani, classe 1938, si interessò presto ai problemi del sottosviluppo e nel
1964 partecipò alla fondazione dell’Ong Mani Tese, per la quale in seguito fu
segretario nazionale (dal ’69 al ’70).

Ma è nel 1966 la scoperta
dell’Africa, quando Eugenio partì come volontario per l’Ong Coopi, fondata da
padre Vincenzo Barbieri. Arrivato a Kambia in Sierra Leone, per tre anni insegnò
lingua e letteratura francese al liceo Kolenten, gestito dai missionari
Saveriani. Erano gli anni in cui in Italia nascevano le Ong e la Cooperazione
internazionale, ai suoi albori, aveva ancora molto di militante e di
missionario. Erano i primissimi progetti al Sud ed Eugenio fu tra i primi a
partire. L’atmosfera era quella euforica della sperimentazione di qualcosa di
completamente nuovo.

Note di strada

Dai primi appunti di Eugenio
Susani da Kambia: «(…) come nel resto del paese, non esiste il municipio. Non
c’è un luogo dove il singolo cittadino possa rivolgersi per avere assistenza o
il semplice riconoscimento del proprio diritto. A dirla tutta, non ci sono
nemmeno diritti, perché tutto dipende dagli umori del momento di un’unica
persona (e dal grado di importanza del richiedente): il capo villaggio, lo chef coutumier, ossia colui che gestisce la
vita di tutti. Eppure la gente è tranquilla, serena. O almeno così pare…».

«Eugenio non smetteva di
stupirsi del fatto che, seppure nella povertà e talvolta nella miseria, gli
africani mostrassero serenità e gioia di vivere». Chi parla è Ferruccio Stella,
che fu stretto collaboratore di Susani nell’Ong Iscos (Istituto Sindacale per
la cooperazione allo sviluppo), l’organismo per la cooperazione del sindacato
Cisl. Susani ne è stato tra i fondatori nel 1983, e vi lavorò occupandosi dei
progetti in Africa fino al 1994, quando si ritirò.

Partecipazione e formazione

Ricorda Ferruccio: «Era un
grande contrattualista e negoziatore, riusciva a creare dei rapporti con i
locali di livello paritario. La sua sfida era sempre quella di convincere le
controparti africane ascoltando le loro idee e i loro problemi. Non imponeva
mai una sua logica di impostazione dominante, da finanziatore, anzi, il suo
credo era: “Coinvolgere il più possibile il partner locale, renderlo attore
primo delle attività e degli interventi di cooperazione nei progetti”. Lavorava
affinché gli africani diventassero non solo partecipi e paritari nella
preparazione dei progetti, ma anche autonomi in vista della continuazione
dell’attività dopo il progetto». Avvicinatosi a questo mondo grazie a Eugenio,
Ferruccio, oggi anche lui in pensione, svolse tre anni come volontario in
Senegal. Rientrato in Italia, continuò a lavorare in Iscos con Susani e ne
prese poi il testimone.

Continua
Ferruccio: «Un altro elemento fondante per Eugenio era la formazione. Non c’era
progetto senza un adeguato programma formativo, in tutti i sensi: gestione,
organizzazione, amministrazione, fino all’alfabetizzazione. Aveva il desiderio
che coloro che partecipavano e non avevano cultura scolastica, potessero
farsela grazie al progetto. Questo affinché la gente coinvolta fosse cosciente
e potesse poi gestire direttamente le attività».

Chi lo ha conosciuto ricorda
il suo «Amore per l’Africa», che non è «Mal d’Africa» sostiene Ferruccio. «Eugenio
era affascinato dalla lettura della cultura locale e aveva una capacità di
analisi delle cose africane che derivava dalla sua sensibilità nel cogliere la
realtà. E un talento nell’esprimere bene quello che lui riusciva a vivere».

Scrive Borghi: «(…) nel
complesso, credo che raramente un occidentale abbia dimostrato una così totale
capacità di immergersi e immedesimarsi nella cultura profonda di popoli
lontani. Eugenio, che non amava le ostentazioni di antimperialismo ideologico
cui tanti intellettuali da salotto ci hanno abituato, con la sua vita e i suoi
scritti ci ha lasciato un esempio alto di antimperialismo vissuto, di amore
integrale per gli oppressi del mondo, di dedizione a un ideale pratico di
giustizia e di emancipazione. In lui il gusto della vita semplice, l’amore per
gli uomini si fa spesso poesia».

Mai imporre

Come operatore della
cooperazione, come occidentale che porta conoscenze e finanziamenti per
realizzare progetti nel Sud del mondo, Eugenio si trovava spesso di fronte al
dilemma di come intervenire per migliorare la situazione nel rispetto della
cultura locale, senza imporre una cultura «altra». «Eugenio aveva il massimo
rispetto delle culture e non voleva imporre niente. Intervenire senza
distruggere la cultura tradizionale, se possibile dando strumenti per vivere
meglio la loro cultura locale. Questo è un grande insegnamento che mi ha dato e
che è sempre valido per i giovani di oggi» ricorda Ferruccio.

Forse anche per questo era
molto apprezzato dagli africani: «Non ho mai sentito critiche osservazioni
contro il suo atteggiamento, anche quando c’erano dei conflitti. Eugenio
affrontava il conflitto con caparbietà e con l’obiettivo di risolverlo
attraverso il confronto e la discussione per trovare una soluzione concordata.
Il conflitto veniva superato e i locali lo rispettavano molto per questa sua
capacità di negoziatore e di affrontare il problema senza lasciarlo in sospeso.
Talvolta optava per lasciare passare un po’ di tempo, ma non voleva mai imporre
soluzioni».

Continua Ferruccio Stella: «Spesso
nei progetti di sviluppo, chi ha un ruolo di responsabilità o potere nel
territorio in cui si lavora cerca di orientare le risorse per soddisfare i
propri interessi. Su questo Eugenio era rigido e ciò era causa di conflitti con
funzionari e capi villaggio. Il suo insegnamento è stato di combattere
qualsiasi realizzazione che non andasse nel senso di una totale correttezza
nell’utilizzo dei fondi».

Racconta
l’imprenditore Luciano Cervone, coinvolto in un progetto in Senegal: «Ricordo
di Eugenio le sorde e diutue battaglie per garantire l’onesta e l’appropriata
utilizzazione dei fondi stanziati, sottraendoli alle manomissioni e alle
pretese delle locali burocrazie.

Dopo i suoi incontri-scontri
con i vertici locali diceva: “La battaglia si combatte sempre per l’enveloppe (letteralmente la busta, cioè i
fondi, ndr) e per chi deve gestirla”. Ma non l’ho mai visto scoraggiato anzi
era sempre animato da una fiducia e da una perseveranza che mostravano il suo
“amore evangelico” per quelle popolazioni e per quel continente».

Scelte di vita

Liviana Susani, moglie di
Eugenio, ci racconta come in famiglia fecero scelte coraggiose e generose. «Decidemmo
di fare un’adozione e nel 1981 partimmo per l’Ecuador. Qui Manuel entrò a far
parte della nostra famiglia. Mi ricordo che il paese era in guerra con il Perù,
per cui le preoccupazioni non mancarono. Ma poi tutto andò bene. Anche in
seguito».

Una volta ritirato dal lavoro
nella cooperazione internazionale, Eugenio non si allontanò dalla lotta per i
diritti civili. A Opera dove viveva, divenne l’anima di un movimento contro
l’azienda Jelly Wax che stoccava rifiuti tossici sul territorio comunale. La
società interruppe l’attività. In seguito si candidò e fu eletto consigliere
comunale, ruolo che ricoprì per una legislatura (2003-08).

La sua
ultima impresa fu la fondazione, insieme ad alcuni intellettuali di Opera, tra
cui sua moglie e lo stesso Riccardo Borghi, della sezione locale della
Università delle tre età (Unitre). Era il 2006. In questo ambito teneva lezioni
sull’Africa: tradizioni, problemi socio-economici e politici, colonialismo e
neocolonialismo, guerre, aiuti umanitari, cooperazione. Ferruccio Stella: «Quello
che sapeva non se lo teneva per sé. Cercava in tutti i modi di trasmetterlo
agli altri, ai giovani. Lo ha sempre fatto. E con la Unitre rese questa dote
ancora più concreta».

Secondo Borghi, Eugenio aveva
una: «“Concezione quasi sacra dell’istruzione” e della cultura, l’impossibilità
di vedere la teoria disgiunta dall’azione con essa coerente, l’atteggiamento
antidogmatico e, nello stesso tempo, il grande rispetto per le tradizioni
radicate nel tempo e nell’adesione popolare. Eugenio vede l’immobilismo che
soffoca il continente, lotta per il cambiamento e il progresso, ma
“l’importante – pensa – è che il cambiamento avvenga senza sciupare quei valori
di fondo, che rendono ancora oggi così vitale la società africana”. In questo
passaggio è racchiuso il senso della vita e della politica di Eugenio».

Dentro la cultura

Eugenio amava penetrare nella
cultura africana, cercare di capire. E spesso i suoi «maestri» erano vecchi
saggi, che lui si prendeva il tempo di ascoltare. Come il vecchio Assane, che
racconta nel suo libro. «Passiamo qualche tempo in silenzio, poi chiedo: “Cos’è
la morte per te, Assane?”. “La morte non esiste” è la sua risposta. “Allora la
tua storia non è vera” lo provoco. “I miti sono miti, amico mio. Servono a
rendere la vita più sopportabile alla gente. Talvolta servono per dire una
verità. Ma, in genere, non bisogna prenderli troppo sul serio”. “Eppure la
gente muore. Perché dici che la morte non esiste?”. Assane, i gomiti appoggiati
sulle ginocchia, la testa tra le mani, resta di nuovo in silenzio. Poi riprende
col tono di sempre, la voce lenta, pesando le parole come se parlasse a se
stesso, forse vedendo qualcosa che io non vedo. “Muoiono i corpi. Non le
persone. La realtà è più grande di quello che vedono gli occhi”».

Marco Bello

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Tags: volontariato, cooperazione, Susani

Marco Bello




Minoranza serba sotto attacco

I giorni della spiritualità e del raccoglimento nel Kosovo martoriato.

Chiese ortodosse bruciate, cimiteri serbi vandalizzati,
libertà di movimento limitata, identità e cultura negate. La minoranza serba in
Kosovo, costretta in una condizione di apartheid, vede i propri diritti fondamentali
violati. Segno di un paese che, nonostante l’avallo internazionale, rimane
distante dagli standard minimi della democrazia.

Dopo l’intervento militare della Nato nel 1999, la
regione del Kosovo è stata posta sotto amministrazione Onu (Unmik). Il
controllo è stato assunto dalla maggioranza albanese, e la popolazione serba è
fuggita in gran parte in Serbia. Le minoranze rimaste vivono attualmente in
piccole enclaves protette dalle forze inteazionali. Il 17 febbraio
2008 il Kosovo si è proclamato indipendente ottenendo il riconoscimento da
parte di 106 stati, tra cui gli Usa che vi hanno insediato una importante base
militare (Camp Bondsteel). Il 22 luglio 2010 la Corte internazionale di
Giustizia ha dichiarato che la proclamazione d’indipendenza del Kosovo non era
stata un atto contrario al diritto internazionale. La Serbia non riconosce la
secessione di un territorio che rappresenta la culla della sua cultura. La
dichiarazione della Corte è stata riconosciuta dall’Assemblea Generale dell’Onu
nel settembre del 2010 (Incipit tratto da deagostinigeografia.it).

Un narcostato nel
cuore dell’Europa

Nonostante
siano passati 15 anni dai bombardamenti scatenati dalla Nato e dall’inizio del
processo di secessione e indipendenza della regione kosovara dalla Repubblica
di Serbia, la «questione Kosovo» continua a essere un nodo irrisolto. La
comunità internazionale occidentale pensava che con la cosiddetta «indipendenza»
si sarebbero assopite le forme di resistenza del popolo serbo kosovaro e delle
altre minoranze perseguitate in quel territorio. Ma non è stato così. E lo
dimostrano i quotidiani episodi di violenza e persecuzione, le vessazioni e i
soprusi. Il Kosovo indipendente, scosso da conflittualità e turbolenze, dopo
quindici anni di cosiddetta «democrazia e libertà» è stato definito dalla Dea
(Agenzia Antidroga Usa) un «narcostato nel cuore dell’Europa». Esso si regge su
due stampelle: una militare, cioè la presenza delle forze Nato-Eulex (European
Union Rule of Law Mission in Kosovo
), l’altra economica, cioè la
proliferazione di attività criminose di ogni genere, dal traffico di eroina, a
quello delle donne, degli organi e delle armi.

Feste serbe e apartheid

A cavallo tra la fine di un anno e l’inizio di quello
nuovo in Kosovo Metohija (così viene chiamata la regione del Kosovo dalla
popolazione serba, ndr) i serbi vivono le ricorrenze cristiane, come la
memoria dei morti, a novembre, e il Natale ortodosso, il 7 gennaio, con una
particolare intensità. Nella tradizione e nella cultura slava non c’è molta
differenza tra credenti e laici in quei giorni. Tutti vivono le celebrazioni
con coinvolgimento. Di questo siamo testimoni oculari, avendole vissute insieme
a sacerdoti, ferventi credenti, militanti politici, patrioti, integerrimi
sindacalisti. Diversi tra loro per visioni di società o idee politiche, ma
accomunati dalla medesima situazione. Ciascuno possiede radici spirituali
profonde e salde.

Anche questo, piacendo o non piacendo a taluni esperti
di Serbia virtuale, è il popolo serbo. Ed è probabilmente anche grazie a queste
radici che esso resiste alle aggressioni straniere. E forse in modo ancora più
profondo, le radici culturali e spirituali aiutano la resistenza dei serbi del
Kosovo nella loro tragica realtà: essere prigionieri di una modea forma di apartheid
nelle enclavi in cui nessuno dei diritti fondamentali dell’uomo viene
rispettato, e ancor meno quelli sanciti nei primi dieci articoli della
Convenzione sui diritti dell’infanzia.

Nello stesso momento in cui il Consiglio europeo
discute, minaccia, sanziona circa i diritti umani in Siria, nel Kosovo
Metohija, stato considerato da molti artificiale e illegale, avvengono gravi
violazioni dei diritti fondamentali, tra cui, non ultimo, il diritto di credo,
con quotidiani attacchi, profanazioni, vandalizzazioni, distruzioni di tombe di
famiglia, di luoghi sacri, di monasteri e siti spirituali.

Così è
stato nel novembre scorso, nel giorno dedicato al ricordo dei propri cari scomparsi.


Cimiteri off limits, maiali e profanazioni

La realtà dei cimiteri e dei luoghi sacri nel Kosovo
Metohija è paradigmatica della vita quotidiana dei serbo kosovari.

Il «diritto» per un serbo di visitare le tombe dei
propri cari, dal 2013 è passato da due volte all’anno a una sola volta. Dal
2008 (anno della secessione illegale dalla Serbia) i serbi visitano i propri
cimiteri sotto scorta militare e, spesso, tra le ingiurie dei locali albanesi.
Nell’arco dell’anno vi crescono erbacce e rovi, e vi vengono lasciati pascolare
maiali provocatoriamente. Non è raro che le tombe e le lapidi vengano spaccate
e violate a colpi di mazza.

Nel cimitero del paese di Istok (in cui sono rimaste
alcune famiglie serbe), oltre 100 tombe e lapidi sono state distrutte.

Il cimitero di Peć, uno dei più grandi cimiteri ortodossi
in Kosovo, è stato trasformato in una discarica. I vandali hanno distrutto non
solo le lapidi in marmo, ma anche le bare, e molti corpi e ossa dei defunti
sono stati estratti e portati via.

A Prizren, nel locale cimitero ortodosso, 50 tombe sono
state profanate nel corso degli ultimi mesi. Lo ha denunciato un sacerdote
della diocesi locale, aggiungendo che la profanazione è avvenuta appena una
settimana dopo un fatto simile accaduto nel cimitero ortodosso di Kosovo Polje.
Altre tombe sono state profanate a Klokot, 27 sono state distrutte. A Milosevo,
Plemetina e Priluzje è stato usato dell’esplosivo per far saltare pietre
tombali appartenenti a famiglie serbe locali.

Ferite all’identità e
all’unità

Anche questi avvenimenti fanno parte della realtà dei
serbi resistenti nella propria terra kosovara. Anche queste umiliazioni sono
pane quotidiano. L’obiettivo è quello di ferire, violentare e annientare la
loro identità spirituale e religiosa, che qui più che altrove si fonde con la
loro identità nazionale e culturale.

Nell’ultimo viaggio di solidarietà organizzato dalla
nostra associazione Sos Yugoslavia abbiamo raccolto le denunce dei serbo
kosovari. Nei loro racconti veniva sottolineato il pericolo delle divisioni
intee alla comunità serba in Kosovo. Dopo anni di umiliazioni e vessazioni,
infatti, alcuni hanno deciso di portare i resti dei propri cari in Serbia;
mentre altri ritengono che fare questo significhi la resa totale, la consegna
dei propri luoghi sacri, della propria anima, della propria storia, identità, e
radici, sancendo la resa al terrorismo, all’arroganza, all’ingiustizia.

I piromani a
protezione del patrimonio incendiato

Nel Kosovo Metohija, in quattordici anni di «democrazia e
libertà» oltre 200 chiese, monasteri e luoghi sacri sono stati vandalizzati e
distrutti. Alcuni di essi sono patrimonio dell’Unesco vincolati a precisi
obblighi inteazionali contenuti nella Convenzione sulla protezione del
patrimonio culturale mondiale, adottata alla Conferenza delle Nazioni Unite di
Vancouver nel 1976. L’articolo 9 dice: «Il diritto di ciascun paese è quello di
essere, con la piena sovranità, l’erede dei propri valori culturali che sono il
frutto della sua storia, ed è suo dovere fae tesoro come valori che
rappresentano una parte inseparabile del patrimonio culturale dell’umanità».
Evidentemente per la Serbia questo non vale.

Nel frattempo, ad agosto 2013 il responsabile della
Kosovo Spu (la polizia del Kosovo) ha annunciato che membri di una unità detta
Kosovo Security per il patrimonio culturale e religioso serbo, avrebbe assunto
il ruolo di protezione del Patriarcato di Peć e di altri 24 siti religiosi – il
monastero di Decani è invece ancora protetto dalle forze inteazionali,
essendo ad alto rischio di attacchi -, così, dopo le oltre 200 chiese ortodosse
serbe già ricordate distrutte dal 1999, i piromani vengono messi a proteggere
le case incendiate. Queste Unità speciali della cosiddetta polizia multietnica
in Kosovo conta circa 200 agenti agli ordini del noto criminale di guerra Agim
Ceku (nel periodo 1992-1995 generale dei secessionisti croati, coinvolto nel
genocidio dei serbi della Krajina), grande amico e legato strettamente a Stati
Uniti e Germania.

Il Natale nelle enclave

Così sono state vissute le giornate di novembre dedicate
ai morti in quel lembo di mondo, e in modo simile sono passate le giornate
della Natività.

Va ricordato che la Chiesa serba celebra le sue festività
secondo il calendario giuliano, risalente al 46 a.C., di 14 giorni in ritardo
rispetto a quello Gregoriano (usato dalla Chiesa cattolica). I serbi
festeggiano quindi il Natale il 7 gennaio.

In Kosovo Metohija oggi anche il Natale viene celebrato
in condizioni molto diverse da quelle in cui è festeggiato in qualsiasi altro
luogo del mondo. Esso è inserito nella vita dei ghetti, nella realtà delle enclave,
aree protette e delimitate materialmente, all’interno delle quali si svolge
tutta la vita delle persone. Fuori da lì è territorio ostile e nemico. Chi osa
uscire rischia la vita. In una vita priva di opportunità, dei diritti umani
fondamentali, compreso quello di movimento, i cristiani serbi non possono dare
seguito nemmeno alla loro tradizione, detta badnjak, che prevederebbe di
andare nei boschi per tagliare il loro «albero di Natale», il yule log,
ossia un pezzo di quercia giovane, a forma di tronchetto.

Il badnjak è un elemento centrale nella
tradizionale celebrazione del Natale serbo. È un simbolo che la famiglia
abbatte nel primo mattino della vigilia, porta solennemente in casa e mette sul
fuoco la sera, perché bruci fino al giorno dopo. La combustione del log è
accompagnata da preghiere in cui si domandano per l’anno nuovo felicità, amore,
fortuna, ricchezza e cibo. Poiché oggi molti vivono in città, il badnjak
è simbolicamente rappresentato da ramoscelli di quercia con delle foglie,
acquistati in mercatini o ricevuti nelle chiese. Gli studiosi indicano
l’origine del badnjak in pratiche ereditate dalla vecchia religione
slava.

Sassate, permessi
rifiutati, espulsioni, arresti

Il 6 gennaio un autobus serbo è stato preso a sassate da
manifestanti albanesi. Il mezzo trasportava alcuni serbi kosovari che negli
anni passati erano fuggiti da Djakovica per rifugiarsi in Serbia, e che in
occasione del Natale stavano tornando a visitare il loro paese d’origine e la
locale chiesa dell’Assunzione, in passato anch’essa attaccata e danneggiata.
L’automezzo, con vetri spaccati e passeggeri feriti è dovuto andare sotto scorta
della polizia al monastero di Decani, protetto dalle forze inteazionali.

Questo fatto è solo uno degli ultimi di una lunga serie:
ogni anno la celebrazione del Natale in Kosovo viene usata dai separatisti
albanesi per dimostrare che i serbi non possono sentirsi liberi nel proprio
paese e non hanno diritto di celebrare la più giorniosa festa cristiana.

Quest’anno, se si esclude il fatto di Djakovica, si
potrebbe dire che il Natale sia trascorso bene, senza risse o spari. Ma il
cosiddetto stato di Kosovo ha trovato altri modi, ancora più sottili, per
dimostrare ai serbi e alla Serbia in quale direzione va il loro futuro: prima
hanno rifiutato la richiesta del presidente della Serbia Nikolic di partecipare
il 7 gennaio alla liturgia di Natale nel monastero di Gracanica, poi il giorno
di Natale il responsabile dell’ufficio per il Kosovo Metohija del governo
serbo, Vulin, ha dovuto abbandonare la provincia su richiesta della polizia
kosovara, per l’alto rischio di incidenti. Nel frattempo la stessa polizia kosovara
ha arrestato, dopo la liturgia, dieci giovani serbi che si trovavano con Vulin.
«È chiaro che si tratta di una provocazione, di una grave violenza. Ho saputo
ufficiosamente che stanno tentando di accusarli di disturbo dell’ordine e della
quiete pubblica, addirittura di trasgressione dell’ordinamento costituzionale.
Quando l’accusa è così vaga, e quando tutto è possibile, sapete che si tratta
di pura ingiustizia», ha dichiarato in seguito Vulin.

Forse sarebbe il tempo di rivendicare i temi della libera
celebrazione del Natale, della libera visita ai cimiteri, ai monasteri o alle
proprie terre, perché il Kosovo è l’unico territorio in Europa in cui non
esiste la libertà di movimento. Ma dicono che è democratico.

Bambini invisibili

Tuttavia, nonostante le condizioni disumanizzanti, ai
bambini non manca la gioia per festeggiare il Natale. Essi sono invisibili per
la cosiddetta «Comunità internazionale» occidentale e per la sua opinione
pubblica. A loro basta poco per lenire la barbarie delle loro vite negate
dentro le enclave: è sufficiente una festa, una ricorrenza, un piccolo dono, e
si rafforza la loro voglia di vivere comunque, nonostante terroristi, vandali,
criminali sostenuti dai nostri governi, di qualsiasi colore essi siano. E sono
i bambini, i loro sorrisi, i loro semplici gesti di riconoscenza e affetto che
danno ancora a noi la forza dell’impegno per una solidarietà concreta. Che ci
danno, insieme alle loro famiglie resistenti, il senso della vita, in questo
occidente opulento e perso dietro virtualità e inutilità esistenziali. Sono
loro che ci aiutano a tenere accesa la fiammella della speranza in un mondo
migliore, con le loro famiglie che difendono le proprie radici, i diritti, i
costumi e le tradizioni.

Enrico Vigna
Presidente di SOS Yugoslavia – SOS Kosovo Methoija
www.sosyugoslaviakosovo.com

A quindici anni dalla guerra


Il Kosovo Metohija oggi

Dopo l’intervento Nato del 1999, ecco la situazione del Kosovo di
oggi, secondo le fonti Onu, Osce, Kfor, Unmik, e alcuni mass media
inteazionali:

– 400mila militari Nato e Kfor si
sono avvicendati in quattordici anni. Di essi 150 sono morti, senza
contare quelli deceduti per l’uranio
impoverito (circa 50 italiani). Tutto ciò ha avuto fino a ora un costo di 1,6
miliardi di dollari l’anno;

– dei 461mila abitanti non albanesi
(su 1.378.980) che popolavano la provincia serba, oggi (su una popolazione
stimata per il 2012 in 1.815.606 abitanti) ne sono rimasti circa 100mila, di
cui la stragrande maggioranza concentrata nell’area di Mitrovica, nel Nord. I
profughi di tutte le etnie, compresi migliaia di albanesi, sono circa 250mila
scappati dalle pulizie etniche;

– dei 55mila (su 125mila abitanti)
serbi, rom e altri che vivevano fino al 1999 nel capoluogo Pristina, oggi ne
sono rimasti 38 (di cui 7 bambini); assediati e rinchiusi in un palazzo;

– 70% di disoccupazione;

– scoperte continuamente sedi di
traffici di droga, armi, donne, organi;

– attività produttive quasi
completamente inesistenti;

– agricoltura ridotta del 60% (una
volta vini, frutta, ortaggi andavano in tutta la Jugoslavia);

– miniere ferme o chiuse;

– l’economia «sommersa» però
determina il 96% d’importazioni e il 4% di esportazioni, quella che si
definisce un’economia «drogata»;

– 148 chiese, monasteri, luoghi
sacri ortodossi, distrutti, devastati o bruciati;

– 140mila case di serbi, rom e
altre minoranze bruciate;

– centinaia di attentati o violenze
contro serbi e rom (uno ogni 120 ore);

– secondo fonti della Kfor, vi sono
attualmente in circolazione o depositate nel Kosovo, almeno 400mila armi di
vario tipo, bombe, mine, ecc. (La Stampa, 6 maggio 2013);

– l’Onu ha denunciato che l’82% dei
finanziamenti dati al parlamento di Pristina risulta speso per Bmw, Mercedes,
cellulari satellitari, uffici privati. In otto anni sono stati versati 3
miliardi di euro (di cui 2 dalla Ue);

– la mortalità infantile è del
3,5%, la più alta d’Europa;

– oltre 2.500 serbi rapiti e/o
assassinati (di cui 1.953 civili) dalla pulizia etnica dell’Uck, cui si
aggiungono 361 albanesi pro jugoslavia e centinaia di rom, considerati
collaborazionisti;

– molti dei
diritti fondamentali dell’uomo, sanciti dalla Carta dell’Onu sono negati alle
minoranze non albanesi rimaste: lavoro, casa, studio, sanità, diritti sociali,
acqua, luce, riscaldamento; diritti civili, religiosi, politici;

– la popolazione non albanese in
Kosovo, scampata alla pulizia etnica, vive attualmente in «enclavi», aree circoscritte
assediate e sorvegliate dai militari Kfor: un vero e proprio apartheid;

– i diritti dei bambini, sanciti
dalla Convenzione Onu del 1989, sono negati alle minoranze non albanesi;

– scienziati e fondazioni
ambientaliste inteazionali hanno denunciato il territorio del Kosovo come il
più uranizzato d’Europa;

– 1000 acri di terra
(corrispondenti a circa 400 ettari, 800 campi da calcio) confiscati fino al
2099 per Camp Bondsteel: la più grande base americana dai tempi del Vietnam.
Essa può ospitare fino a 50mila persone; al suo interno ci sono 25 chilometri
di strade, 300 edifici, 14 chilometri di barriere in cemento e terra, 84
chilometri di filo spinato, 11 torrette di controllo. Nel suo perimetro esterno
sono compresi 320 chilometri di strade e 75 ponti. Tutto questo per difendere
cosa?

In questa situazione l’ex mediatore
Onu Athisaari consegnò al Consiglio di Sicurezza Onu un rapporto che arrivava
alla conclusione (su pressioni di Usa e Germania, con l’Italia di supporto) che
nel Kosovo esistevano standard minimi di democrazia e sicurezza, per concedere
l’indipendenza. I paesi che finora hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo
sono 106.

Enrico Vigna

Enrico Vigna




L’asino muoia, ma il carico arrivi

Ritornare in Tanzania con appena 62 anni di missione sulle spalle.

Ottantasette anni compiuti il 5 febbraio scorso, padre Giovanni Giorda, originario di Piossasco (To), missionario della Consolata, ci conduce in un duplice viaggio: nella storia della Chiesa tanzaniana e nella sua esperienza missionaria iniziata 62 anni fa.

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«Nel 2000 in diocesi vi fu un pellegrinaggio della croce. Nella parrocchia di Tosamaganga era programmato per 14 giorni. Un giovane, come risposta a un mio commento sulla fatica di accompagnare la Croce di Gesù per due settimane attraverso tutte le 17 succursali della parrocchia (avevo 73 anni), mi disse: “Punda afe, mzigo ufike”, “l’asino muoia, ma il carico giunga a destinazione”. Anche la gente aveva capito che quell’asino ero io, e il carico era la Croce di Gesù da portare a destinazione, cioè ai poveri, agli ammalati, agli orfani, ai catecumeni». La sua voce ci accompagna in luoghi e tempi lontani. Ci pare di essere di fronte non a una singola persona, ma a un’intera nazione, la Tanzania, e a un’intera Chiesa, quella locale iniziata nella seconda metà dell’Ottocento. Ci sembra di stare di fronte alle generazioni che si sono avvicendate - anche a quelle vissute prima del suo arrivo - nelle terre in cui padre Giovanni Giorda ha speso più di 60 anni di sacerdozio. Abbiamo la netta impressione che tutte le esperienze vissute in più di mezzo secolo stiano lì, vivide dietro le sue palpebre, scalpitanti dietro le sue labbra, ansiose di lasciarsi conoscere. Forse per questo padre Giovanni tende ad aggirare le nostre domande per seguire un suo filo. Il suo racconto è irrefrenabile, con un suo formulario ben definito, un suo percorso sicuro, affinato da una probabile consuetudine a proporlo e riproporlo con il medesimo intreccio narrativo. La storia in questo modo assume una dimensione quasi epica, che viene suffragata dal volto solcato da rughe profonde, dagli occhi consumati e brillanti allo stesso tempo, da una gestualità insolitamente contenuta per un italiano. Quello che padre Giovanni Giorda ci trasmette è l’esperienza di un Dio che accompagna il suo popolo, i poveri, gli ammalati, i giovani della Tanzania, nel susseguirsi dei decenni, delle storie personali e famigliari, comunitarie e nazionali.
Padre Giovanni, puoi dirci qualcosa di te?
«Sono stato ordinato sacerdote diocesano il 29 giugno 1950 nel duomo di Torino dal cardinal Fossati insieme ad altri ventidue compagni. Oggi siamo rimasti in cinque, gli altri sono in paradiso che pregano per noi. In seminario ho sempre preso parte ai circoli missionari. Dopo l’ordinazione, com’era consuetudine per i preti giovani, sono andato a stare nel Convitto della Consolata. È stato in quel periodo che mi sono deciso, e il 16 luglio 1951, con altri due preti, uno di Mondovì che è poi diventato vescovo in Colombia, mons. Cuniberti, e padre Franco Cravero, originario di Torino, siamo andati alla Certosa di Pesio (Cn) per fare il noviziato dai missionari della Consolata. Il 16 luglio 1952 abbiamo fatto i voti, e quel giorno padre Cravero e io abbiamo ricevuto la lettera con la destinazione: Tanganika (l’attuale Tanzania). Il 9 dicembre 1952 siamo partiti. In treno fino a Venezia, poi in motonave per 14 giorni fino a Dar es Salaam. Sbarcati la vigilia di Natale, abbiamo proseguito via terra per Tosamaganga, a 500 km. Qui abbiamo cominciato la missione».
Quindi Tosamaganga, che è la missione in cui tutt’ora lavori, è stata la tua prima destinazione?
«No. Appena arrivato lì, sono partito per la missione di Malangali, Itengule, a 150 km a Sud, per tre mesi. Poi un padre della missione di Ujewa si è ammalato, e sono andato lì a sostituirlo: era la Pasqua del 1953. Per visitare i villaggi inizialmente andavo a piedi, poi in bicicletta. La zona di Ujewa appartiene alla tribù dei Wasangu. Si trova a un’altitudine di mille metri, ma fa molto caldo, a differenza della zona di Tosamaganga, che è a 1500 metri. La zona del Tanganika del Sud dove ho trascorso tutta la mia vita missionaria si chiama Southe Mainland Province, la zona degli altipiani del Sud, in cui clima e agricoltura sono molto buoni. Ciò che viene coltivato lì serve anche per le altre regioni che sono più secche. Alla fine del 1953 il vescovo mi ha chiesto di andare a insegnare in seminario. Così sono tornato a Tosamaganga. Questa volta per rimanerci diversi anni insegnando filosofia e teologia. Parecchi miei studenti sono diventati sacerdoti e vescovi. Alcuni sono già in paradiso e pregano anche per me».
Puoi raccontarci qualcosa della chiesa locale?
«Per il Tanzania del Sud, Tosamaganga è stata la base dell’evangelizzazione. La chiesa cattolica in Tanganika è entrata nel 1868 con i padri missionari dello Spirito Santo che, arrivando dalle isole Réunion e passando da Zanzibar, sono sbarcati a Bagamoyo. A loro era stata affidata la parte Nord del paese - ricordo che nel 1968, quando ero a Kilolo, una missione nella regione di Iringa a circa 1800 metri di altitudine, al freddo, abbiamo festeggiato i 100 anni della chiesa cattolica Tanzaniana -. Dieci anni dopo, nel 1878, sono arrivati dall’Uganda i missionari d’Africa, i cosiddetti padri Bianchi. A loro era stato affidato tutto il Tanganika dell’Ovest. Rimaneva scoperto il Tanganika del Sud. Così nel 1888, dalla Germania, sono arrivati i missionari benedettini. La loro prima missione è finita male: arrivati a Dar es Salaam si sono messi a liberare gli schiavi, e gli arabi che facevano affari con il commercio degli schiavi sono saltati loro addosso uccidendone diversi. La seconda spedizione è avvenuta nel 1891. Questa volta è andata meglio, e nel 1896 sono arrivati a Tosamaganga i primi due missionari. Per quella regione del paese il governo colonizzatore tedesco aveva messo il proprio quartier generale a Iringa, che è attualmente la capitale della regione omonima di Iringa. Lì, ai tempi, c’era il sultano dei Wahehe. I due benedettini, arrivati nella zona proprio per evangelizzare i Wahehe si sono stabiliti su una collina, non troppo vicini e nemmeno troppo lontani dal quartier generale dei tedeschi, distante circa 12 km. Il 1° gennaio 1897 la stazione missionaria di Tosamaganga è stata inaugurata. In quello stesso anno ci sono stati i primi otto battesimi - nell’ufficio parrocchiale conserviamo ancora i registri di quei tempi -, e i benedettini hanno anche fondato un’altra missione per evangelizzare i Wasangu a Madibira, a 150 km a Sud. Nel 1898-99 sono arrivate le suore benedettine. Delle prime quattro, morte giovanissime, si conservano ancora le tombe nel cimitero di Tosamaganga. In seguito i benedettini hanno fondato diverse altre missioni anche a Nord e a Est».  
E i Missionari della Consolata quando sono arrivati?
«Poi è iniziata la prima guerra mondiale. Dal Kenya, colonia britannica, gli inglesi sono scesi in Tanganika per attaccare i tedeschi, e li hanno vinti. I missionari dello Spirito Santo e i padri Bianchi non sono stati toccati, perché non erano tedeschi, ma i benedettini nel 1918 sono stati radunati a Dar es Salaam ed espulsi. Il vescovo del vicariato apostolico di Dar es Salaam, che a quei tempi comprendeva anche il territorio di Iringa, sapeva che in Kenya c’erano dei missionari italiani, e ha scritto una lettera a mons. Filippo Perlo, missionario della Consolata, per chiedergli un “prestito” di personale. È stato così che i primi quattro missionari della Consolata sono partiti per il Tanganika, e sono arrivati a Tosamaganga il 26 maggio 1919. Mons. Perlo li aveva mandati senza interpellare il beato Allamano, e nemmeno il papa. Solo a cose fatte ha scritto una lettera in cui diceva: “In genere, quando uno ha bisogno di aiuto, si rivolge ai ricchi, non ai poveri. Si sono rivolti a noi poveri, per un aiuto. E noi abbiamo risposto di sì, cercando di fare un’opera di carità”». Si commuove padre Giorda ricordando la lettera di mons. Filippo Perlo. La voce gli trema. Quelle parole lo toccano. Le sente sue. «Noi missionari della Consolata siamo arrivati in Tanzania in prestito. E ci siamo ancora. Ora siamo una sessantina senza contare le suore, e siamo presenti in diverse diocesi. Sparsi per il mondo ci sono anche una quarantina di missionari della Consolata nativi del Tanzania. La prefettura apostolica di Iringa è stata eretta nel 1922, separandone il territorio dalla prefettura di Dar es Salaam, e in quell’anno è partita la prima spedizione di missionari della Consolata direttamente dall’Italia, non più dal Kenya: preti, fratelli e suore, arrivati a fine gennaio 1923. Il superiore di quella spedizione era mons. Francesco Cagliero, di Castelnuovo don Bosco, che ha retto quella prefettura dal ’23 al ’35, fondando diverse stazioni missionarie. Morto per incidente stradale, gli è subentrato nel ’36 mons. Attilio Beltramino, che ho assistito all’ultima sua messa il 3 ottobre 1965, quando è morto per infarto. Beltramino in 30 anni ha avviato quasi 30 stazioni di missione. Nel frattempo la diocesi di Iringa è stata divisa in due, con la nascita della diocesi di Njombe. Zone in cui la popolazione era pagana e dove il cristianesimo è stato accolto. Dai missionari della Consolata sono nati anche altri istituti religiosi: mons. Cagliero nel 1931 ha fondato l’istituto delle suore africane di Santa Teresa del Bambino Gesù. Oggi sono circa 400 consacrate. Alcune sono missionarie in Sicilia, altre in Haiti. Mons. Beltramino durante la seconda guerra mondiale ha dato inizio, assieme a padre Ghiotti, alla congregazione dei fratelli africani Servi del Cuore Immacolato di Maria. Oggi una congregazione fiorente presente in diverse zone del Tanzania».
Tornando a te. Dopo Itengule e Ujewa nel 1953, sei andato a insegnare al seminario di Tosamaganga. Quanto sei rimasto lì, e cosa hai fatto dopo?
«Dopo la morte di mons. Beltramino nel 1965, ho lasciato Tosamaganga per andare in una missione appena aperta, Kilolo, dove sono stato fino alla fine del 1969, incaricato della parrocchia e dei fratelli africani. Dal ‘70 sono stato parroco a Tosamaganga. Dopo 10 anni sono ritornato nella zona di Ujewa in cui ero stato all’inizio, nella parrocchia di Chosi, 265 Km a Sud di Iringa, dall’80 all’89. Lì ho patito il caldo come mai in vita mia. Nell’89 sono tornato a Tosamaganga, dove sono stato parroco fino al 2007, quando ho compiuto 80 anni! Da allora sono coadiutore del nuovo parroco, p. Giacomo Rabino».  
Ci puoi parlare dell’aspetto spirituale della tua esperienza missionaria?
«Ormai sono più di 60 anni che vivo in Tanzania. Sono più tanzaniano che italiano. In questi anni ci sono stati alcuni punti forti nella mia vita spirituale. Ne vorrei elencare quattro. Il primo è il motto del beato Giovanni XXIII: “Obbedienza e pace”. Con l’obbedienza si acquista la pace del cuore. Un secondo punto l’ho scoperto nel 1987. Ero venuto in Italia per la mia mamma ammalata. Ritornando in Tanzania ho fatto tappa un paio di giorni ad Addis Abeba. La provvidenza ha voluto che in quei giorni Madre Teresa di Calcutta fosse lì. Ricordo ancora l’incontro che ho avuto con lei. Abbiamo parlato un quarto d’ora. Poi lei mi ha dato un’immagine che raffigurava Gesù flagellato, con le parole del Salmo 69: “L’insulto ha spezzato il mio cuore e mi sento venir meno. Mi aspettavo compassione, ma invano, consolatori, ma non ne ho trovati”. E di suo pugno ha scritto: “Be the one”, “Sii tu quello” (che consola Gesù). Terzo punto, nel 1996. Sulla rivista Jesus ho letto il teologo Hans Urs von Balthasar che spiegava la messa: “Abbiamo ridotto il ‘fate questo in memoria di me’ all’invito a ripetere un rito, ma l’eucaristia presenta Gesù che dà la vita, e quindi quando dice ‘fate questo in memoria di me’, dice ‘fatelo anche voi’, ‘date la vita per i vostri fratelli come io l’ho data’”. Con il quarto punto arriviamo al 2000: ero parroco a Tosamaganga, che allora contava 17 succursali distanti anche 15-20 km. La diocesi di Iringa aveva programmato il pellegrinaggio della croce, che a Tosamaganga è durato 14 giorni. Io ho detto ai giovani che per me sarebbe stata una grande fatica girare per due settimane in tutte le succursali, e un ragazzo mi ha risposto: “Padre, non avere paura”. E poi ha aggiunto: “Punda afe, mzigo ufike”, cioè “l’asino muoia, il carico giunga a destinazione”. L’asino ero io. E il carico era la croce di Gesù. Un proverbio africano che non avevo mai sentito. Anche Gesù dice: “Se il chicco di grano muore porta frutto”. Però io non sono ancora morto, nonostante in questi 60 anni ne abbia corso diverse volte il pericolo. Nel 1982, ad esempio, mi hanno portato all’ospedale di Tosamaganga per la malaria. Una suora mi ha assistito per tutta la notte perché era convinta che io “partissi”. Un’altra volta, nel 1958, sono caduto in un burrone con un camion, ma non mi sono fatto niente… Quello che è importante per me, e per tutti i missionari, è far sì che il carico, cioè Gesù, la sua grazia, il suo perdono, la sua misericordia, la sua bontà giungano alla gente. Facendo quello che faceva Gesù stesso: predicare il Vangelo, curare gli ammalati, insegnare».
Qual è lo stato attuale della Tanzania?
«Abbiamo moltissimi orfani. Alcuni di questi sono sieropositivi. Noi cerchiamo di aiutarli con il cibo, con le spese per la scuola. A Tosamaganga seguiamo almeno una ventina di scuole attraverso i nostri catechisti diffusi sul territorio che ci segnalano le situazioni di difficoltà. Riguardo al cibo, aiutiamo attraverso le nostre piantagioni: abbiamo mais, fagioli, girasoli. Dobbiamo dire grazie ai benefattori italiani che, nonostante la crisi, continuano a dare le loro offerte. Pochi giorni fa un giovane tanzaniano che ora è a Dodoma per studiare all’università mi ha scritto una mail. È un ragazzo orfano che riceve un contributo dal governo, ma che deve pagare una parte delle spese. Mi ha chiesto aiuto, e io gliel’ho promesso».
Che differenze ci sono tra la Tanzania del ‘52 e quella di oggi?
«I ragazzi di allora erano addormentati. Oggi sono vivaci quasi come i nostri italiani. Dal punto di vista politico, oggi c’è un sistema con più partiti, nonostante ci sia al potere sempre il vecchio partito, quello di Julius Nyerere che ha portato all’indipendenza nel 1961 e che, dopo l’unione del Tanganika con Zanzibar nel 1964, ha preso il nome di Ccm (Partito della rivoluzione). Questo è ancora al governo nonostante sia pieno di corruzione. Vedremo cosa succederà quando nel 2015 ci saranno le elezioni. La gente del Tanzania è gente calma, che sopporta e sta in silenzio. Negli ultimi anni però non sopporta più. C’è una nuova generazione che ha studiato. Le università sono piene di giovani che capiscono la situazione e iniziano a dimostrare».
Ci sono problemi di radicalismi religiosi.
«Non molti, ma dobbiamo stare all’erta perché, specialmente a Zanzibar, dove la popolazione è quasi tutta musulmana, c’è un gruppo di estremisti denominato Uamsho (Risveglio) che due anni fa ha ucciso un prete cattolico. Ogni tanto si sente di questi gruppi che bruciano le chiese. Un anno fa nella zona di Arusha c’è stato un attentato contro il vescovo e il nunzio apostolico che dovevano inaugurare una chiesa: è passato un uomo in moto e ha gettato una bomba. Ci sono stati tre morti. Dall’ultimo censimento sembra che in Tanzania vivano tra i 42 e i 45 milioni di persone. Tutte le denominazioni cristiane: cattolica, luterana, anglicana, ecc. contano più del 50% della popolazione. I cattolici sono poco meno del 30%. In seguito ai fatti di violenza religiosa che da almeno un anno destabilizzano il Tanzania, tutte le chiese cristiane si sono incontrate per riflettere su cosa fare».
Quindi il dialogo con le altre chiese cristiane è positivo. Ma con i musulmani come va?
«I musulmani sono al massimo il 30%. Sono concentrati soprattutto sulla costa, verso la quale da molti anni c’è una continua migrazione di cristiani dall’interno del paese: Dar es Salaam oramai ha almeno 50-60 parrocchie. Le relazioni tra i fedeli delle due religioni sono buone. Il problema sono gli estremisti che vogliono coinvolgere sempre più persone. Nel territorio di Tosamaganga c’è qualche gruppo di musulmani, ma sono tranquilli. A Iringa ci sono diversi musulmani, e alcuni di questi vanno all’università cattolica».
Come viene percepito il nuovo pontefice nella chiesa tanzaniana?
«Noi missionari siamo molto contenti. Lo Spirito santo ha lavorato per l’elezione di papa Francesco. Qualcuno è preoccupato perché va troppo in mezzo alla gente, e così facendo si prende dei rischi. Ma sopra eventuali malfattori con cattive intenzioni c’è il Signore, c’è lo Spirito Santo che li tiene a bada, e che aiuteranno il papa a portare avanti tutte le riforme che presenta. Noi siamo contenti perché Francesco mostra uno stile di chiesa che noi missionari un pochino avevamo già: andare in mezzo ai poveri, agli ammalati, aiutarli». Parlando del papa e dei poveri padre Giorda si commuove di nuovo. È bello ascoltare la sua voce rotta dall’emozione di un’intera vita dedicata alla missione.

Luca Lorusso

CRONOLOGIA:
  • 9 dicembre 1952: partenza da Venezia
  • 24 dicembre 1952: arrivo a Dar es Salaam e partenza per Tosamaganga
  • Fine 1952-Pasqua 1953: missione di Malangali, Itengule
  • Pasqua 1953-fine 1953: Ujewa
  • 1954-1965: Tosamaganga seminario
  • 1965-1969: a Kilolo parroco
  • 1970-1980: parroco a Tosamaganga
  • 1981-1988: a Chosi
  • 1989-2007: parroco a Tosamaganga
  • 2007-oggi: coadiutore a Tosamaganga.




Nel mondo dei rasta: Le lunghe trecce

Religioni nella Bahia/1.

«Voglio muovere il cuore di ogni uomo nero perché tutti gli
uomini neri sparsi nel mondo si rendano conto che il tempo è arrivato, ora,
adesso, oggi, per liberare l’Africa e gli africani. Uomini neri di tutto il
mondo, unitevi come in un corpo solo e ribellatevi: l’Africa è nostra, è la
nostra terra, la nostra patria (…). Ribellatevi al mondo corrotto di Babilonia,
emancipate la vostra razza, riconquistate la vostra terra». (Bob Marley)

La parola «Rastafari» ci fa venire in mente subito tre immagini: la
musica reggae di Bob Marley, le lunghe trecce, i dreadlock, e le manifestazioni degli anni ’70
per i diritti degli afrodiscendenti nel continente americano.

In
Bahia è molto comune incontrare rasta che
suonano o vendono artigianato nel Pelorinho, il quartiere tipico di Salvador, o
lungo l’Orla marittima. Ci sono diverse comunità anche nei piccoli paesi del
litorale bahiano: si tratta di giovani e adulti che vivono in modo frugale, nel
rispetto dell’ambiente, in case costruite con criteri eco compatibili, come
Gabriel e la sua compagna italiana, a Diogo de Mata de Sâo Joâo; o Carlos,
proprietario di un risto-bar attento ai segnali della natura, ostile al
consumismo e agli sprechi; o Marquinho, che vive nel mezzo del mato,
nella foresta, in una casina di adobe (mattoni
di fango e paglia, ndr), circondato da animali,
piante e sorgenti, dedicandosi a creare magnifiche collane, anelli e bracciali
di metallo incastonato di pietre; o Sidney Rocha, teologo e artista, che passa
molto tempo fuori dal caos di Salvador, a pescare, meditare e a scrivere
poesie.

Per
ognuno di loro, natura, impegno sociale, politico e ambientale sono elementi
che non si disgiungono dalla fede religiosa in Jah
(Jahwé) e in una profonda consapevolezza del proprio posto nel mondo. La loro
lotta contro «Babilonia», il «male», il «sistema oppressore», le «istituzioni»
corrotte in cui non si riconoscono, è realizzata nella quotidianità della realtà
in cui vivono.

Ovviamente,
a fianco dei rasta impegnati e coscienti, ci sono altri che, pur apparentemente
simili – dreadlocks, abbigliamento
colorato, musica – si dedicano ad attività meno educative, ciondolando per le
strade o nelle spiagge, pieni di alcornol e macogna (marijuana,
ndr). «Non sono veri rasta», spiega con una punta di
fierezza e severità Sidney Rocha, «sono emarginati, poveracci che stanno
distruggendo la propria vita, vittime di un sistema sociale e politico che crea
miseria e alienazione».

«In
Brasile, il rastafarismo, ovvero “Legione Rasta”, iniziò a diffondersi tra la
fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 – racconta il teologo -. Siamo
stati molto perseguitati, perché la Chiesa non ha mai accettato la nostra
storia. Dentro il movimento ci sono tante correnti, gruppi: Twelve
Tribes of Israel, i Nyabinghi, i Bobo
Ashanti e gli Ortodossi, sono alcune. La nostra è una religione, ma non nel
senso occidentale del termine. Per noi la religione è vita. Ci si riunisce per
la cerimonia della preghiera comunitaria, con suoni di tamburi e canti, il
Nyabinghi (Ni-uh-bin-gee), per leggere la Bibbia e fumare marijuana, il cui
uso, tuttavia, non è obbligatorio. Quest’ultima è usata come rituale».

Hailé Selassié, il
Leone di Giuda

Anche
nel resto del mondo il rastafarismo è diventato particolarmente famoso negli
anni ’70 -’80, attraverso la musica e la vita di Bob Marley, il grande autore
giamaicano. Ha tuttavia una storia di religione organizzata che risale agli
anni Trenta, con l’ascesa al trono dell’imperatore di Etiopia Hailé Salassié
(al secolo Tafari Makonnen Woldemikael) nel 1930, e una mitologia molto più
antica, che arriva all’epoca del Re Salomone.

Filiazione
sincretica di giudaismo e cristianesimo, e con alcuni aspetti presi, ma anche
foiti, all’islam, questo movimento politico e religioso affonda le radici, la
propria dottrina e fede nelle religioni semitiche monoteistiche e patriarcali
del Vicino e Medio Oriente.

Spiega
ancora Rocha: «Il termine rastafari deriva dal nome proprio dell’imperatore
etiope, Tafari, preceduto da Ras (capo), che, asceso al trono, prese quello di
Hailé Selassié, cioè “Potenza della Trinità”: egli era considerato erede della
dinastia salomonide, originante dall’unione del re Salomone con Makeda, la
regina di Saba, da cui nacque il capostipite Ebna la-Hakim (poi Menelik I), re
d’Etiopia. Tafari salì al potere con il titolo di Re dei Re (Negus Neghesti),
Eletto di Dio, Luce del Mondo, Leone Conquistatore della tribù di Giuda».

Egli è
considerato la seconda incarnazione di Gesù, ma in gloria e potenza, non più
come l’Agnello di Giuda ma come il Leone, secondo una tradizione profetica,
in quanto discendente di Hakim-Malik, e dunque membro della tribù di Giuda.

Dottrina e fondamenti

Una
parte della dottrina del rastafarismo si basa sulla vita e sugli insegnamenti
di Hailé Selassié I, – in quanto la sua figura rappresenta il Cristo
(l’Illuminato) ritornato in Gloria, l’incarnazione di Jah, Dio, sceso sulla
Terra per portare la liberazione alle popolazioni nere -, su quelli teologici e
morali di Gesù, e della tradizione etiopica ortodossa.

Nel
loro credo sono contemplate la divinità di Gesù Cristo, la Trinità, la
resurrezione della carne, l’immortalità dell’anima, tutti i dogmi stabiliti
dalla Chiesa ortodossa etiope, e il millenarismo, la parusia (presenza divina, ndr) di
Cristo e il suo Regno terreno prima della fine dei tempi, e il giudizio
universale, secondo l’Apocalisse di Giovanni. Hailé Selassié I si manifesta nel
mondo per realizzare questa profezia.

I
rastafariani credono che si possa giungere alla salvezza mediante la fede nel
divino e il rispetto della morale naturale, qualunque sia la propria religione
o teologia, per questa ragione rispettano gli altri culti, considerati da
Selassié «vie del Dio vivente», che non è possibile giudicare. Essi, pertanto,
avversano il settarismo religioso.

Inoltre,
credono che l’imperatore Tafari non sia morto, ma si sia volontariamente
occultato – qui mostrando analogie con Mahdismo sciita – agli occhi degli
uomini, in quanto rappresenta il Cristo ritornato glorioso in terra, morto una
sola volta e risorto per sempre. Dunque, la sua seconda discesa nel mondo
rappresenta non più il sacrificio per la redenzione degli uomini, ma il tempo
del Regno glorioso.

Nazionalismo e
africanismo

La
questione dell’Africa, in quanto continente impoverito e sfruttato da secoli di
colonialismo occidentale, per i rastafari è di grande e prioritaria importanza.
«Il rastafari non è solo una religione – aggiunge Rocha -, ma anche un
movimento politico nazionalista, che si ispira ai discorsi di Marcus Mosiah
Garvey». E a quelli dell’etiopismo.

L’etiopismo
è un movimento nazionalista che vede la luce ai primi dell’800, nel tentativo
di organizzare e liberare, sotto l’emblema della monarchia dell’Etiopia, i
popoli neri dell’Africa colonizzata. La liberazione doveva passare attraverso
un percorso di cambiamento spirituale, culturale, economico e politico. Guidati
da Garvey, considerato dai rastafari come una sorta di «precursore» – come
Giovanni Battista – del ritorno del Cristo maestoso nella persona di Hailé
Selassié, i membri del movimento fecero dell’Etiopia il centro del loro
messianismo, in quanto il ritorno del popolo nero alla patria africana
(schiavizzati e loro discendenti) sparsi nella Diaspora è parte integrante
della visione millenarista dell’etiopismo, su cui il rastafari basò il proprio
sviluppo politico.

Tale
movimento, a partire dal 1800, cominciò a diffondersi sia tra le popolazioni
africane sia tra le comunità nere in America, sostenendo la lotta per la dignità
nazionale e culturale avendo come punto di riferimento l’Etiopia.

Fu
dopo l’incoronazione di Selassié che gli etiopisti riconobbero in lui il Messia
che ritornava potente, vittorioso e liberatore.

Il
movimento fece proselitismo in Africa, nel continente americano, nelle Indie
occidentali (le Antille, ndr), in Inghilterra,
espandendosi poi anche in altre parti del mondo, sia attraverso il Kebra
Nagast, il loro libro sacro, sia attraverso la musica, il reggae, che ne
diffonde il messaggio religioso e politico.

Etica
internazionale basata sull’autodeterminazione dei popoli, sull’uguaglianza dei
diritti e sulla non ingerenza, e sul riconoscimento di un ordine sovranazionale
che rigetti guerre e conflitti: questi sono alcuni dei principi politici
inteazionali del rastafarismo, per il quale, insiste il teologo Sidney: «È
anche necessario costruire sistemi “liberali e democratici” che rifiutino ogni
ideologia totalitaria, di destra o sinistra che siano, che deviano il cammino
diretto verso Dio, Jah, dell’essere umano».

Il
loro ideale di stato prevede che esso, seppur laico, debba garantire la libertà
religiosa.

Essi si rifanno al movimento del panafricanismo e
all’esempio di Hailé Selassié I, considerato «Padre dell’Africa Unita» e
fondatore dell’Organizzazione dell’Unità Africana. In tutte le loro canzoni, e
in altre espressioni culturali, i rasta parlano del loro sogno di un continente
unito e libero dal dominio straniero, e del riscatto identitario. Per superare
la propria storia di schiavitù e oppressione, gli africani e i loro fratelli
sparsi nel mondo, devono ricordare e esaltare le proprie origini e dedicarsi a
tale causa. In questa prospettiva Selassié mise a disposizione un vasto
territorio in Etiopia per permettere, a chi volesse, di «ritornare» nella
patria africana.

Il Kebra Nagast, la gloria dei Re

È la «Bibbia
africana». Nel libro Kebra Nagast (la
Gloria dei Re), antico testo etiope, si racconta del trasferimento dell’Arca
dell’Alleanza, per mano di Ebna la-Hakim, da Gerusalemme al Regno di Saba. Tale
trasferimento è interpretato dai rastafari come un passaggio della discendenza
salomonica di Israele all’Etiopia, la cui antica dinastia, che giunge fino a
Hailé Selassié, è così considerata di tradizione «divina». Secondo la
tradizione raccolta nel Kebra Nagast, i rastafari credono che

l’Etiopia
sia la «Nuova Gerusalemme», la nazione destinata a custodire la cristianità
fino al secondo ritorno di Gesù Cristo, avvenuto nella persona dell’imperatore
Selassié.

Spiega
Rocha: «Il libro racconta, tra le altre vicende, l’incontro tra il Re Salomone
e la Regina di Saba (riportato da 1 Re, 10 e 2 Cronache, 9), la quale, colpita
dai racconti sulla grande saggezza del sovrano, va a Gerusalemme. Dalla loro
unione (cui però la Bibbia non fa alcun cenno) nascerà Ebna la-Hakim, poi
Menelik I, capostipite della dinastia regale etiopica. L’Etiopia avrà il
compito di custodire la purezza del cristianesimo, dopo il rifiuto del popolo
d’Israele, e la missione della discendenza davidica sino al ritorno glorioso di
Cristo. Secondo tale tradizione, l’Arca dell’Alleanza, portata da Menelik nel
paese, è la conferma del ruolo e dell’elezione dell’Etiopia».

Il Kebra
Nagast si rifà ai testi biblici ma, nelle redazioni successive, anche a
leggende etiopi, egiziane e copte, e a elementi coranici (la sura
dell’Ape, per esempio) e testi cristiani apocrifi. E, nello stesso tempo,
influenzò, insieme alle tradizioni giudaiche e cristiane, quella islamica.

I dreadlocks e il mito di Sansone

I
rasta sono noti per i dreadlocks, trecce posticce
attaccate ai capelli. «Si tratta di un’usanza diffusa – racconta Sidney Rocha
-, che rappresenta un voto biblico, il nazireato, di cui parla Numeri, 6, 5: “Tutto
il tempo del voto della sua consacrazione, il rasoio non passerà sul suo capo:
finché non sono compiuti i giorni per i quali si è consacrato all’Eteo, sarà
santo; lascerà che i capelli del suo capo crescano lunghi”».

Secondo
il Kebra Nagast, un
angelo apparve alla madre di Sansone, imponendole di non tagliare i capelli al
figlio, e di lasciarlo crescere puro. La storia tragica e coraggiosa di Sansone
la ricordiamo bene, ma la sua immagine di uomo forte, reso cieco e prigioniero,
senza capelli, per i rastafari rappresenta ciò che può capitare a chi esce dal
cammino divino e scende a compromessi con Babilonia, simbolo di male e
corruzione, denaro, avidità, tentazioni e passioni per donne malvagie (come la
filistea Dalila che sedusse Sansone). Dunque, i capelli lunghi sono un simbolo
di morale e di integrità, di cammino nel sentirnero stabilito da Dio.

Tuttavia,
è anche un’usanza che arriva dall’Africa orientale, dove guerrieri e membri di
varie tribù usano portare i dreadlocks.

Le
trecce rasta hanno iniziato a fare la loro comparsa durante le manifestazioni
per la rivendicazione identitaria in Giamaica. Per un rasta essere negro, con dreadlocks e barba,
significa assomigliare di più all’immagine storica di Gesù, Yeshua.

Negli
anni ’70 furono perseguitati in tutto il continente americano: furono
aggrediti, imprigionati, costretti al taglio delle trecce perché
rappresentavano una minaccia per il «sistema».

La donna e il
rastafarismo

Il
rastafari segue la millenaria tradizione delle religioni semitiche patriarcali
(giudaismo e islam), per le quali la femmina riveste un ruolo subordinato al
maschio, è impura e veicolo di tentazioni e peccato. Per i rastafari quindi il
compito principale della donna, appellata come «regina», è di occuparsi del «re»,
cioè del marito; essa è subordinata all’uomo e deve essergli fedele; deve
occuparsi della casa e della prole; non può essere un leader. L’uomo è il capo
spirituale della famiglia.

La
donna, inoltre, non deve indossare abiti o trucchi che la rendano un’attrattiva
sessuale per altri uomini o usare sostanze chimiche nei capelli.

Scrive
l’antropologo Livio Sansone in «Tendencias en blanco y negro: punk y
rastafarianismo», Revista de Estudios de Juventud, n. 30, 1988, Madrid,
pp.73-86: «La sessualità femminile è vista come dipendente: […]. La donna rasta
deve essere coperta dalla testa ai piedi, non deve mai sciogliersi i capelli di
fronte a nessun altro che non sia il suo “re”, poiché ella deve continuare a
essere ciò che il rastafarismo chiama “La Madre Terra Africana”».

Anche per pregare deve coprirsi i capelli, secondo quanto
stabilito nella 1 Corinzi, 11, 5: «E le donne che pregano o proclamano il
messaggio di Dio durante cerimonie pubbliche senza indossare nulla sul capo,
disonorano il proprio capo». E anche Efesini, 5, 22: «Le mogli siano sottomesse
ai loro mariti come al Signore».

Diversamente
dalla società matriarcale giamaicana, dove il rastafarianesimo si è sviluppato,
esso afferma la superiorità gerarchica dell’uomo sulla donna, «primo tra pari»,
perché la donna, come Eva, è causa dell’introduzione del male nel mondo, e
veicolatrice, con la sua sensualità, di tentazioni e peccato. Ella può
purificarsi solo nella relazione con il marito e nella sua fedeltà a esso, e
nella famiglia.

Quanto
a quest’ultima, spiega Sansone nel suo articolo: «Per il rastafari, la famiglia
si rivendica e si riscopre nella forma che essi considerano essere la loro
famiglia africana (basata sulla poligamia, ma praticata in Occidente)».

In
sintesi, nel rapporto uomo-donna, da parte del maschio vi è una ricerca
esplicita della sensualità, mentre quella femminile è repressa e dipendente
dalla relazione di esclusività con il marito.

L’erba del Giardino
dell’Eden

Nei
loro culti, i rastafari fanno uso di ganja-marijuana, in quanto mezzo
spirituale e rituale per ottenere doti di saggezza e chiaroveggenza, e come
erba medicinale. La marijuana è associata all’Albero della Vita e della
Saggezza del Giardino dell’Eden, che stava a fianco dell’Albero della
conoscenza del bene e del male.

«La ganja
– spiega Sansone – rappresenta per i rasta uno strumento per perfezionare la
percezione sensoriale, un dono del loro Dio Negro, qualcosa che i bianchi proibiscono,
precisamente, per impedire la conquista della coscienza da parte della
popolazione Negra».

Il reggae

Dagli
anni ’60, la Giamaica è una fucina di musica che si diffonde in tutto il mondo:
oltre alla sua coinvolgente melodia, il reggae veicola un messaggio religioso,
spirituale e politico.

Un
grande testimone di questa musica è stato Bob Marley, il cui talento e carisma
hanno portato il reggae a essere conosciuto e apprezzato a livello
internazionale, e così pure il rastafarismo.

Roots
reggae è il nome del genere di reggae rastafari: si tratta di un tipo di
musica spirituale, i cui testi elogiano Jah, e invitano alla resistenza contro
l’oppressione. «Nei testi di musica reggae s’incontra il termine “apocalisse” –
afferma Sansone -, ma più spesso la predizione dell’Armageddon: la battaglia
finale del giorno del Giudizio, nella quale senza dubbio, i rastafari usciranno
vincitori e potranno dirigersi con la testa alta verso un futuro radioso,
promossi come Nuovi Israeliti, nuovo Popolo Eletto».

L’abbigliamento. Scrive ancora Sansone: «[…] i vestiti del rasta sono colorati e vivaci; il
rasta vuole sembrare attraente nella sua naturale bellezza africana e
l’attenzione è rivolta a sottolineare armonia […]. Anche i passi di danza sono espressione della ricerca di armonia,
bellezza e plasticità (blu danza). […]
L’armonia della danza è omologa alla melodia della musica reggae, al suo carattere fluido, al suo
timbro basso e al suo insieme conciliante […]».

Un’altra
caratteristica rastafari è il tam,
copricapo con i colori della bandiera etiope.

Angela Lano
 
Il panafricanismo venuto dai Caraibi


Il profeta Marcus

I rasta considerano Marcus Mosiah Garvey un profeta, la cui
ideologia e filosofia ha fortemente influenzato il movimento. Garvey promosse
il «Nazionalismo nero» e il «Panafricanismo». Egli lavorò per la causa dei
popoli neri negli anni ’20 e ’30 e le sue idee influenzarono molto le classi
popolari in Giamaica e il rastafarismo stesso.

Il panafricanismo è un movimento che incoraggia la solidarietà
e l’unità tra i discendenti africani nella diaspora. La sua ideologia si basa
sul concetto che tutti i popoli africani siano interconnessi: «I popoli
africani, sia nel continente sia nella diaspora, non condividono solo una
storia comune ma anche un destino comune» (Minkah Makalani).

L’organizzazione politica panafricana più grande e
conosciuta è l’Unione Africana.

Angela Lano

«The Marcus Garvey and Universal Negro Improvement
Association Papers», vol. IX: Africa for the Africans, June 1921-December 1922.

 

Angela Lano




Migrazioni: mai in crisi

Caritas: presentato
il rapporto immigrazione 2013

La Caritas e
Migrantes presentano il nuovo rapporto sull’immigrazione. Il fenomeno a livello
globale è in aumento. Mentre la crisi economica tocca oggi anche gli stranieri.
Spingendo molti, per questo motivo, a incrementare la migrazione di ritorno. E
le famiglie riprendono a dividersi. Intanto sul fronte dell’integrazione la
strada da fare è ancora molta.

Il 5 febbraio a Torino, Caritas e Migrantes hanno
presentato il XXIII Rapporto immigrazione 2013. Il
tema prescelto quest’anno è: «Tra crisi e diritti umani. Connessione tra crisi
e irrinunciabile rispetto dei diritti umani». Il volume è ricco di dati, molto
utili per chiunque s’interessi di migrazione.

Dopo
aver presentato una sezione che riassume i principali avvenimenti riguardanti
l’immigrazione nel mondo, nel 2013, l’opera analizza il fenomeno migratorio, a
livello mondiale ed europeo, alla luce della crisi economica che ha colpito il
pianeta da ormai sei anni. Un contesto che nel 2012 ha visto oltre 232 milioni
di persone lasciare il proprio paese per andare a vivere in un’altra nazione.

Oltre
ai contributi su temi specifici, vengono presentati anche tematici su questioni
che riguardano i migranti (per esempio: l’acquisto della casa, l’istruzione) e
vari riquadri che illustrano alcune tra le diverse iniziative messe in campo
dalle diocesi in Italia per venire incontro ai bisogni dei migranti.


Non solo Italia

Nell’analisi
delle migrazioni inteazionali, un’attenzione particolare viene prestata alla
situazione nei paesi del Golfo Persico che negli ultimi decenni hanno visto
arrivare moltissimi lavoratori esteri, tanto che i migranti rappresentano in
media oltre un terzo della popolazione locale. Nel piccolo stato del Qatar i
cittadini stranieri sono addirittura oltre i tre quarti della popolazione
residente.

Per
quanto riguarda l’Italia, apprendiamo dal rapporto che proprio grazie agli
immigrati la popolazione italiana è in crescita: all’inizio del 2013, in Italia
risiedevano quasi 60 milioni di persone, di cui 4,4 milioni di cittadini
stranieri (il 7,4%). Grazie alle nascite, i cittadini stranieri sono
incrementati di oltre 334 mila unità.

L’Italia
è un paese in cui le famiglie di cittadini migranti hanno in media più figli di
quelle italiane, ma è anche un territorio di ingresso per nuovi migranti,
soprattutto quelli che si ricongiungono con familiari già presenti. Per molti
cittadini di altri paesi l’Italia è soprattutto luogo di transito per giungere
in altri stati europei in grado di offrire opportunità migliori di lavoro e di
inserimento sociale.

La crisi e i migranti

La
sezione «Leggere l’immigrazione» tratta in profondità la crisi economica in
Italia e la sua ricaduta sul mondo delle famiglie di migranti. Più «allenate»
degli italiani ad affrontare difficoltà e sacrifici, molte famiglie migranti
soffrono tuttavia lo stress della perdita del lavoro, che è solo la prima tappa
per il decadimento progressivo del tenore di vita. Spesso al licenziamento
segue il taglio delle foiture di luce e gas, lo sfratto, la miseria. Di
fronte a questa prospettiva, alcune famiglie decidono di ritentare la fortuna
emigrando nuovamente, possibilmente nei paesi del Centro Nord Europa. In altre famiglie,
i genitori decidono, con molta sofferenza, di separarsi dai propri figli (e
talvolta dai congiunti), anche in tenera età, per rimandarli (o mandare quelli
nati in Italia) nel paese d’origine, perché non sono più in grado di
mantenerli.

Un
altro tema cruciale che il rapporto affronta è quello dei migranti e della
casa. Non sono pochi i cittadini stranieri che si adattano a vivere in alloggi
precari e ristretti, a volte addirittura garage grossolanamente ristrutturati,
con i servizi igienici estei, con riscaldamento assente o insufficiente. Sono
i bambini a soffrire per queste situazioni, soprattutto per l’umidità e il
freddo che ristagnano in questo tipo di abitazioni.

Integrazione?

Importante è anche il discorso relativo all’integrazione
dei cittadini residenti in Italia, nella società che li ospita. Qui entrano in
gioco la scuola e leggiamo nel rapporto, che gli studenti stranieri sono in
genere orientati a una formazione che conduca all’ottenimento di un lavoro in
tempi brevi, per poter aiutare la famiglia. Sono quindi preferite le scuole
tecniche di formazione professionale. Sempre per quanto riguarda
l’integrazione, il rapporto tratta la questione della cittadinanza italiana per
gli stranieri, il cui iter è alquanto lungo e sofferto. Non manca un
approfondimento sui matrimoni cosiddetti misti e interconfessionali e su altri
aspetti che l’arrivo di religioni differenti da quella cattolica e cristiana
comporta per la società italiana.

Il
rapporto affronta anche la questione dei Cie (centri di identificazione ed
espulsione). Dubbi sono espressi sulla loro legalità, come anche sulla loro
ragione di essere. Paiono strumenti, peraltro costosi, elaborati per
tranquillizzare una opinione pubblica timorosa degli arrivi di nuovi migranti.

L’argomento
successivo riguarda la tratta e lo sfruttamento di esseri umani per
l’arricchimento di loro simili: un fenomeno variegato e in continua evoluzione,
che include la prostituzione, lo sfruttamento dell’accattonaggio, ma anche di
lavoratori impiegati in nero in agricoltura, pastorizia, edilizia, domestico.

Cosa succede sul
territorio

La
terza sezione, «La voce del territorio: la rete diocesana al servizio dei
migranti» illustra, per ognuna delle regioni italiane, la storia e la
situazione attuale del fenomeno migratorio. All’inizio di ogni capitolo
riguardante una regione vengono riportati grafici sui principali paesi
d’origine dei migranti e sugli alunni stranieri che frequentano le scuole fino
alle secondarie di secondo grado. Si spazia dalle grosse difficoltà che
l’accoglienza agli immigrati incontra in alcune regioni italiane, legate a
intoppi burocratici o a inefficienze, allo spirito di solidarietà espresso da
organizzazioni di volontariato, che riesce spesso ad attenuare problemi che
risulterebbero altrimenti esplosivi.

Il
rapporto si chiude con una appendice giuridica, che ci aggioa su temi quali
la cittadinanza, l’emersione dal lavoro irregolare, l’assistenza sanitaria,
ecc. È anche incluso un glossario con i principali termini in italiano e in
inglese, di uso comune nei testi che trattano di migrazione. In conclusione, il
Rapporto immigrazione
2013 è uno strumento estremamente utile per operatori, volontari,
studiosi, o semplici cittadini interessati che vogliano essere aggioati su un
tema in veloce evoluzione, come è quello della migrazione.

Paolo Deriu


Paolo Deriu