Missione difficile, Presidente

Il paese tra
corruzione e deficit

Joyce Banda è la seconda
presidente donna dell’Africa. Già militante nella società civile, è chiamata a
guidare il suo paese fuori dal guado di corruzione e crisi economica. Scoppia
però l’ennesimo scandalo e tutto l’esecutivo viene licenziato. Intanto si
avvicinano le elezioni generali di maggio.

Da subito è indicata come la figura più adatta a
riformare la disastrata economia nazionale e far fronte alla corruzione
endemica nel suo paese quando, ad aprile 2012, diventa presidente del Malawi
Joyce Banda, la seconda donna a raggiungere la massima carica di uno stato in
Africa dopo Ellen Johnson Sirleaf in Liberia.

Il
Malawi è un paese senza sbocchi sul mare, chiuso tra Tanzania, Mozambico e
Zambia, in cui più della metà della popolazione vive al di sotto della soglia
di povertà e che, in base alle statistiche delle Nazioni Unite, risulta il
settimo più povero al mondo. Il 10% dell’intera popolazione nazionale è affetto
dall’Aids ma gli ospedali sono costretti a chiudere perché non hanno i soldi
per acquistare le medicine più banali come gli antibiotici.

Dopo
il decesso improvviso del suo predecessore Bingu wa Mutharika, Joyce Banda
diventa presidente ad interim con il benestare
della comunità internazionale che la vede in grado di lottare contro un sistema
in cui la corruzione è una pratica all’ordine del giorno a tutti i livelli
dell’amministrazione pubblica e l’economia dipende dagli aiuti economici
estei.

Da attivista a
presidente

Il
cammino di Joyce Banda per arrivare alla guida di questo paese dell’Africa
australe è legato soprattutto alla coincidenza di essere stata chiamata nel
2009 da Mutharika a ricoprire la carica di sua vicepresidente, dopo tre anni al
dicastero degli Affari esteri di Lilongwe, più che altro nel ruolo di una
figura di rappresentanza da mostrare sulla scena politica internazionale.

La morte di Mutharika, dopo otto anni di governo, e la
capacità di Joyce Banda di mostrarsi intenzionata a proseguire il mandato
istituzionale, hanno contribuito a fare di lei quel volto di cui necessitava il
paese per continuare ad avere il sostegno internazionale.

In politica dal 1999, Joyce Banda è stata ministro per la
Parità di genere nel secondo governo democraticamente eletto del Malawi,
guidato fino al 2004 dall’allora presidente Bakili Muluzi, dopo una carriera
passata in diverse organizzazioni della società civile impegnate per
l’emancipazione della donna. La sua storia e le sue prime dichiarazioni da
presidente, come quelle relative a un maggiore impegno nel raggiungimento degli
Obiettivi di sviluppo del Millennio in favore di una maggiore legittimazione
del ruolo delle donne e dell’istruzione universale, ottengono subito il plauso
del presidente statunitense Barack Obama e dell’allora Segretario di Stato
Hillary Clinton.

Tra le sue prime azioni una volta salita al potere dopo
la morte del suo predecessore, i media enfatizzano subito la vendita dell’aereo
presidenziale e il dimezzamento del suo stipendio come esempi lampanti del suo
impegno a ridurre le spese della classe politica.

Corruzione in agguato

Nonostante
ciò, alcuni scandali recenti legati ancora una volta alla corruzione cominciano
a offuscare la sua immagine, coinvolgendo anche diversi ministri e alti
funzionari governativi. Alcuni di questi sono ora sotto processo proprio a
ridosso delle elezioni generali che si terranno il prossimo 20 maggio, le
quinte organizzate in Malawi dopo la svolta democratica del 1999.

Tutto
è cominciato lo scorso settembre con il fermo, durante un controllo della
polizia stradale di un impiegato ministeriale, il cui stipendio si aggira
intorno ai 100 dollari al mese. Nel bagagliaio della sua auto sono state
rinvenute valigie piene di banconote per un totale di 25.000 dollari. Pochi
giorni dopo, il direttore del bilancio presso il ministero delle Finanze ha
subito un’aggressione e rimanendo gravemente ferito da diversi colpi di
pistola: i giornali locali hanno sostenuto che era sul punto di recarsi dalla
polizia per denunciare una serie di frodi e pratiche di corruzione che
avrebbero sottratto almeno 80 milioni di dollari alle casse dello stato,
coinvolgendo direttamente una settantina tra funzionari, uomini politici e
imprenditori.

La
presidente Banda ha agito con prontezza sospendendo immediatamente tutta la
squadra di governo, chiedendo a ciascuno che dimostrasse la propria estraneità
ai fatti e licenziando in tronco il ministro della Giustizia e quello delle
Finanze, che oggi risultano peraltro essere tra i più invischiati nelle
pratiche di malgoverno e nel tentato omicidio del dirigente ministeriale.

Uno
scandalo di tale portata non poteva non riflettersi su colei che solo due anni
prima era stata salutata come salvatrice della patria. Il «Cashgate»,
questo è il nome che i giornali locali hanno dato allo scandalo di corruzione e
al processo in corso, è infatti solo la punta di un iceberg. Secondo gli
investigatori del governo, negli otto anni di presidenza di Bingu wa Mutharika
la cifra finita indebitamente nelle tasche di politici, imprenditori e
funzionari corrotti sarebbe di gran lunga superiore ai 500 milioni di dollari.
La quasi totalità dei quali proveniente dai fondi concessi da donatori
inteazionali quali il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, la
Banca africana di sviluppo, l’Unione europea e la Gran Bretagna, che
garantiscono ogni anno più del 40% delle necessità del bilancio statale del
Malawi e che, dopo la scoperta dello scandalo, hanno deciso di sospendere i
pagamenti.

Banda sotto accusa

Come
fosse un pendolo in oscillazione da un estremo all’altro, Joyce Banda che solo
all’inizio del 2013 era stata definita dalla rivista statunitense Forbes la
donna più potente dell’Africa si è trovata, alla fine dello stesso anno,
costretta a rispondere alla comunità internazionale e ai suoi stessi
concittadini del fallimento della sua azione di governo. Le accuse più aspre
provengono dalle organizzazioni per i diritti civili del Malawi. In
un’audizione fatta di fronte al parlamento di Lilongwe, il presidente della
Commissione Giustizia e Pace della Chiesa cattolica, Peter Chinoko, ha definito
la presidente: «II più grande ladro del mondo», sostenendo che lei fosse «parte
integrante e fondamentale» del Cashgate e
che la genesi dello scandalo fosse da rintracciare nel tentativo della Banda e
dei suoi sostenitori di raccogliere fondi in vista delle prossime elezioni.

Il
rapporto più duro sulle dimensioni della corruzione in Malawi è probabilmente
uno studio intitolato «Licenza di rubare» e pubblicato lo scorso novembre da
Allan Ntata, un avvocato di Lilongwe che ora vive in Gran Bretagna, ex
consulente giuridico della presidenza della Repubblica del Malawi. In 67 pagine
l’avvocato elenca laconicamente decine di episodi di corruzione, molti dei
quali avvenuti durante il periodo della sua consulenza, e ricostruisce lo
schema tipico delle frodi.

In
sostanza, i funzionari utilizzavano un computer collegato al sistema centrale
dell’amministrazione pubblica per trasferire i fondi a società di comodo per
servizi mai resi, preoccupandosi poi di cancellare tutti i dati relativi alle
società stesse di modo che fosse impossibile risalire a esse. Un procedimento
tutto sommato semplice, che induce Ntata alla seguente considerazione: «La
corruzione è una pratica endemica perpetrata dal potere esecutivo, che si
occupava deliberatamente di come coprire lo schema utilizzato per sottrarre il
denaro».

Taglio dei fondi

Numerosi
sono però i commenti che vedono la sospensione del sostegno finanziario
internazionale al Malawi come una decisione affrettata, sostenendo come il
problema centrale sia sistemico e che il compito di riformare l’economia
nazionale e combattere la corruzione che Joyce Banda aveva assunto non sia
un’azione che si possa portare a termine dall’oggi al domani.

Lo
scrittore somalo Hassan Abukar sul portale d’informazione African
Arguments, curato dalla prestigiosa Royal
African Society, e l’economista sudafricano Greg Mills sul
quotidiano di Johannesburg Business Day
sono, per esempio, solo due tra le tante autorevoli voci che in Africa hanno
cercato di inquadrare la figura di Joyce Banda all’interno di una visione più
ampia della storia del suo paese per comprenderne meglio il ruolo a pochi mesi
dal voto con il quale i cittadini del Malawi dovranno eleggere il loro futuro
presidente, rinnovare i 194 parlamentari all’Assemblea nazionale e, per la
prima volta dopo 14 anni, anche i rappresentanti presso i consigli
amministrativi locali.

Mezzo
secolo dopo l’indipendenza ottenuta il 6 luglio 1964, il reddito pro capite in
Malawi è oggi pari a poco più di 230 euro all’anno – superiore solo a quello di
Burundi e Repubblica democratica del Congo – con un’economia prevalentemente
basata sull’agricoltura, in cui è impiegato oltre il 90% dell’intera forza
lavoro. Su una popolazione che supera di poco i 16 milioni di abitanti, sono
ancora più di otto persone su dieci coloro che vivono nelle zone rurali del
paese. Tuttavia proprio l’agricoltura, che è fortemente dipendente dai sussidi
concessi all’uso di fertilizzanti, contribuisce solo per circa un terzo alla
formazione della ricchezza nazionale, ed è subordinata al prezzo sui mercati
inteazionali del tabacco, il quale rappresenta più della metà delle
esportazioni del paese.

Economia in
difficoltà

Il
Malawi è un importatore netto, dai prodotti alimentari a quelli petroliferi.
Infatti nel 2012 la sua bilancia commerciale ha registrato un saldo negativo di
poco inferiore al miliardo di dollari. La fine nel 1994 del regime di Hastings
Banda (nessuna parentela con l’attuale presidente), che aveva governato il
paese dall’indipendenza dalla Gran Bretagna, e il passaggio a un regime
democratico non si sono tradotti automaticamente in quei cambiamenti che gli
abitanti del Malawi si aspettavano.

«La
transizione alla democrazia fu gestita male – ha scritto Greg Mills – il minore
controllo di polizia sull’opposizione e l’aumento delle libertà civili non vide
un corrispondente miglioramento della capacità politica delle istituzioni,
mentre sul versante economico le poche industrie esistenti dovettero soccombere
in seguito alle liberalizzazioni e al diminuito protezionismo. Aumentavano le
aspettative dei cittadini, allo stesso tempo cresceva anche il numero
complessivo dell’intera popolazione e i partiti politici si trovavano nella
necessità sempre più incombente di trovare fondi per mantenere la loro base di
sostenitori».

È in
un sistema come questo che si manifesta la corruzione: un’economia politica
fatta di intermediari che pretendono la loro parte sulle importazioni, sui
contratti governativi, sulle aste del tabacco. La presidente Banda si è
ripromessa di portare avanti un programma ambizioso di riforme: in primo luogo
delle stesse istituzioni dello stato che nessun leader del Malawi prima di lei
si era sognato di realizzare, diminuendo la dipendenza finanziaria dall’estero
e interrompendo quel circolo vizioso di contratti governativi, mazzette,
importazioni gonfiate, manovre politiche e interessi economici. Ma per
riuscirvi dovrebbe essere rieletta il prossimo 20 maggio. Joyce Banda sembrava
essere cosciente della sfida quando, in un incontro lo scorso dicembre, poco
prima della fine dell’anno, con un gruppo di giornalisti stranieri, dichiarava:
«Non è soltanto una questione di corruzione – riferendosi in particolare alla
questione della chiusura degli ospedali – ma è qualcosa che riguarda più da
vicino noi in quanto cittadini del Malawi e le priorità che vogliamo darci».

Nei
primi 50 anni dopo l’indipendenza, il Malawi è diventato ancora più dipendente
dall’estero in termini economici.

Michele Vollaro


Contenzioso con la
Tanzania per le prospezioni petrolifere

Il lago che dà vita,
e non solo

Per decenni ha interessato direttamente solo i
pescatori del Malawi e della Tanzania, che del lago Niassa o Malawi si
contendevano le risorse ittiche. Ma da quando nel 2011 il governo di Lilongwe
ha assegnato una licenza per l’esplorazione petrolifera dei suoi fondali, la
questione ha assunto un’altra ampiezza. Il lago è infatti al centro di una
disputa sempre più accesa tra i due paesi, che ne sono bagnati insieme al
vicino Mozambico, sulla posizione precisa della linea di confine reciproca.
Subito dopo la concessione della licenza esplorativa alla britannica Surestream
Petroleum
e le proteste della Tanzania, infatti, si sono svolti una serie
di incontri bilaterali per rivedere i fatti associati alla disputa e
individuare una soluzione che fosse accettabile per entrambe le parti. Ma i
colloqui si sono risolti in un nulla di fatto e a gennaio 2013 i due governi si
sono dovuti rivolgere al Forum degli ex
capi di stato e di governo della Comunità di sviluppo dell’Africa australe

(Sadc). Anche questo tentativo di mediazione sembra però essere arrivato a uno
stallo e non è ancora chiaro se la questione sarà affrontata direttamente al
prossimo vertice della Sadc dagli attuali capi di governo oppure riferita alla
Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite.

È evidente però che il Malawi non è in alcun
modo intenzionato a lasciarsi scappare la possibilità di trarre beneficio
economico dalla presenza di greggio nel sottosuolo e perciò lo scorso gennaio
ha reso noto di aver rinnovato le autorizzazioni ambientali alla Surestream
per portare avanti le operazioni esplorative, mentre negli stessi giorni la
società britannica ha dichiarato di stare effettuando dei sondaggi sismici e
geologici nelle acque del lago già dallo scorso novembre. Il Malawi rivendica
infatti come proprie tutte le acque del lago, sulla base di un accordo del 1890
tra le allora potenze coloniali di Gran Bretagna e Germania. La Tanzania si
appella invece alla pratica consuetudinaria che in diritto internazionale
utilizza la linea media delle acque intee per stabilire i confini tra due
paesi, oltre a richiamarsi a presunte evidenze storiche successive alla
sconfitta della Germania durante la seconda guerra mondiale e le perdite delle
sue colonie in Africa.

Michele
Vollaro

Michele Vollaro




Speriamo non arrestino il batterista

Diario di un anno nella pastorale migranti


Da qualche tempo i missionari della Consolata in Corea del
Sud sono impegnati nella pastorale migranti. Un breve affresco di vita
comunitaria e missionaria ci restituisce gli entusiasmi, le difficoltà,
l’umanità delle relazioni, le fragilità dei progetti di vita dei migranti.

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Alla fine di gennaio 2013 mi
sono ritrovato catapultato nella comunità di Tong du cheon a Nord Ovest di
Seoul, vicino alla Corea del Nord. Luogo in cui sono concentrate molte piccole
fabbriche che possono sopravvivere solo con manodopera straniera.

Un
mondo nuovo per me, quello della pastorale dei migranti. L’impressione che ho
avuto del nostro lavorare in questo ambito la esprimerei con la parola «rete» (network).
Tutto quello che facciamo infatti non sarebbe possibile senza una grande rete
di solidarietà e di volontari che moltiplica i nostri pochi pani e pesci in
questo paese tutt’altro che amichevole coi migranti.

Un
po’ di tempo dopo, partecipando all’incontro nazionale della pastorale dei
migranti, sono rimasto sorpreso dal grande numero di coreani coinvolti.
Considerando che i 200 presenti all’incontro erano solo i delegati,
rappresentanti di altre migliaia che in tutta la nazione aiutano i lavoratori
immigrati, e che questo paese per motivi storici e sociologici non è molto
amichevole verso gli stranieri, mi sono sentito come dentro un miracolo
culturale che comincia dalla Chiesa cattolica.

Accogliere

Ogni
tanto, per qualche caso speciale, ci viene richiesto di accogliere un migrante
in difficoltà, di solito per motivi di salute.

Quest’anno
abbiamo ospitato per un paio di mesi, nella nostra comunità, Andi, un cubano
che aspettava di tornare al suo paese. La moglie coreana l’aveva portato qui,
in Corea del Sud, ma poi si era stufata di lui e l’aveva mandato via da casa.
Mentre aspettava i documenti del divorzio, Andi non aveva un posto in cui stare
e non mangiava regolarmente. Allora lo invitavamo a mangiare con noi, e tra le
pastasciutte e i risotti siamo riusciti a fargli mettere su qualche chilo per
renderlo presentabile a sua madre, quando l’avesse riabbracciato. Preparavo
sempre cibo per una persona in più, e lui con innocenza infantile ogni volta mi
chiedeva: «Posso finire tutto?».

Dal Kenya per i peruviani in Corea

Ad
aprile anche padre Clement Gacoka del Kenya è stato destinato a questa comunità.
Lui per il momento continua a studiare coreano e ad aiutare nella pastorale dei
peruviani a Yokkok. Ci aiuta a mantenere la casa come uno specchio, e adesso
stiamo cercando una parrocchia dove possa fare un tempo di immersione totale nella
lingua locale.

Padre
Tamrat Defar, un etiope che è qui da sei anni, con pazienza e costanza è
riuscito a radunare un gruppo di Filippini e Nigeriani (ma anche americani e
coppie di nazionalità mista) per una messa domenicale in lingua inglese. Adesso
abbiamo un numero costante di una quarantina di fedeli regolari, ma la quantità
sembra crescere e calcoliamo che siano più di 100 quelli che hanno partecipato
alle nostre celebrazioni una o più volte. Tutto questo grazie anche al parroco
di Tong du cheon che ci presta i locali e ci dà un appoggio incondizionato.

Non di sole telenovelas
(coreane)

Assieme
ai migranti e al centro della parrocchia di Nog Yang che cornordina la nostra
zona pastorale organizziamo anche giornate di ricreazione. Quest’anno con due
autobus siamo andati a visitare un’isola fluviale, famosa per delle telenovelas
coreane girate in loco. Ci sono posti come: il ponte su cui i protagonisti si
sono dati il primo bacio e la panchina su cui lui ha detto a lei che l’amava.
Le nostre giovani filippine, tutte entusiaste, non facevano più di 100 metri
senza scattare una foto.

Verso
la fine dell’estate siamo anche andati in piscina, in più di 200 persone dai
vari centri della zona. Mentre a ottobre abbiamo organizzato il grande bazar al
centro di Nog Yang con vendita di vestiti usati e di cibi tradizionali dei vari
gruppi etnici. Nigeriani, Filippini, Vietnamiti, Cambogiani, Thailandesi erano
i gruppi più consistenti. I Cambogiani e Thailandesi, benché non siano
cristiani, sono assidui frequentatori del centro e ricevono aiuto grazie ad
alcune donne di quelle nazioni che parlano un po’ di coreano.

Qui
al centro chiunque può trovare aiuto medico, grazie a una specie di
assicurazione a cui tutti contribuiscono, ma anche grazie ad aiuti generosi in
occasione di grosse operazioni chirurgiche. C’è anche un aiuto legale e la
possibilità di trovare rifugio in casi di violenza familiare.

Una pastorale fluttuante

La
nostra è una pastorale, per così dire, «fluttuante». Siamo venuti in questa
zona per assistere la comunità peruviana, che però ormai è quasi sparita. Al
contrario invece la comunità di lingua inglese sta crescendo. A volte i nostri
fedeli preferiscono andare in altri centri dove si radunano i loro amici, così
il loro numero in quei casi diminuisce improvvisamente.

In più
ogni tanto gli agenti dell’immigrazione fanno un raid a caccia di
immigrati illegali e qualcuno dei nostri fedeli viene rispedito in patria. In
questo modo cinque mesi fa abbiamo perso il chitarrista della messa, Danny, un
caro amico che con la moglie aveva animato la messa della comunità filippina
per quasi 20 anni. Il nuovo direttore del coro è molto bravo, ma anche lui
illegale, come l’80% di tutti gli altri. Speriamo che non ce lo arrestino.

«Senza di voi sarebbe dura»

Un giorno, in un incontro, una signora filippina con le
lacrime agli occhi ci diceva: «Grazie, senza l’aiuto che i coreani e voi ci
date, per noi la vita sarebbe veramente troppo dura!».

A volte non ci rendiamo conto dell’impatto delle nostre
azioni e sembra sempre troppo piccolo quello che facciamo. Padre Tamrat va a
tradurre all’ospedale o al centro legale. Un prete locale si preoccupa di avere
i fondi per le emergenze ospedaliere o perché tutti possano mangiare quando andiamo
in piscina. Noi mettiamo in contatto questo e quello con una certa signora che
aiuta gli immigrati per i documenti. La donna delle pulizie della nostra
parrocchia fa sempre trovare il caffè pronto per tutti. Una suora tiene la mano
a una mamma etiope all’ospedale: alcune cose non si possono comunicare a
parole, ma quella mamma ci ha fatto capire che si è sentita tanto aiutata e
compresa.

Noi
siamo piccoli, ma questa rete d’amore che si è creata fa meraviglie!
Abbiamo
anche altri sogni, ma ve li faremo sapere l’anno prossimo.
Per
ora ci limitiamo al coro della messa, per cui abbiamo comprato una batteria
elettronica… sperando che non ci arrestino il batterista!

Gian Paolo Lamberto


          Per andare avanti un’altra settimana                    

Ormai ogni diocesi ha il suo incaricato della pastorale
migranti e c’è una rete di centri di ascolto, con molti volontari anche non
cristiani, nei quali i migranti vanno a cercare aiuto per salari non pagati,
problemi medici e legali, scuole di lingua e cultura. Spesso cercano solo un
posto in cui trovarsi insieme tra loro, mangiare i loro cibi tradizionali e
sentire il calore della patria lontana. Tutti mandano soldi alla famiglia, per
costruire una casa, mandare i figli a scuola o semplicemente mantenerla. Vivono
in condizioni a volte disumane (ci sono casi di stranieri che vivono in
containers, gelidi d’inverno e torridi d’estate) e fanno gl’infami lavori delle
3 D, dirty, difficult and dangerous, ossia sporchi, difficili e pericolosi, che
ormai i coreani non vogliono più fare.

Qui la messa non è solo un motivo di aggregazione, ma un
vero momento di speranza, dove si ricaricano le forze nel Signore per andare
avanti un’altra settimana. La nostra messa è alle tre del pomeriggio perché
molti dei nostri fedeli lavorano di notte e noi cerchiamo di adeguarci ai loro
bisogni. A me piace guardare i loro volti quando cantiamo il Padre nostro: si
vede proprio la partecipazione del cuore. E sapete cosa è simpatico: alcuni dei
nostri leaders più fedeli sono ex seminaristi!

Nel nuovo panorama sociale da un po’ di anni c’è il fenomeno
delle famiglie multi culturali. Si parla di 260mila famiglie composte da un
marito coreano, solitamente proveniente dalla campagna, o da un povero, o
handicappato della città, e da una moglie proveniente da paesi come Cambogia,
Vietnam, Mongolia, Filippine, Cina, che vuole sfuggire la povertà o
semplicemente non ha altri mezzi al di là di questo per aiutare la famiglia.
Per questo motivo oltre ai centri di ascolto ci sono case rifugio per donne in
difficoltà, vittime di violenza domestica: poiché una gran parte di queste
unioni sono problematiche. Uno dei grandi problemi è l’integrazione nella
società dei bambini di queste famiglie miste. Siccome dalle madri non possono
imparare bene il coreano, e siccome sono diversi di aspetto dai coetanei,
trovano difficoltà a integrarsi nella scuola con gli altri bambini perché
questi li ostracizzano. Anche in tali casi le religiose intervengono con una
rete di piccoli doposcuola per i bambini e di centri di assistenza per le
mamme. Bisogna dire che anche il governo è cosciente della situazione e sta
facendo il possibile con campagne di sensibilizzazione perché i figli di coppie
miste siano accettati come coreani al 100 per 100. Fino a 20 anni fa il
ritornello era: «Noi coreani siamo una razza pura». Ma da 20 anni la natalità è
crollata a livelli più bassi di quelli italiani e ci si prepara a un grande
invecchiamento e diminuzione della popolazione.

Gian Paolo Lamberto
 

Gian Paolo Lamberto




L’Africa verso il futuro

OLTRE GLI STEREOTIPI


Quando si parla di Africa, si fa subito un diretto
riferimento al problema endemico della fame, al dramma della povertà, alle epidemie
infettive, al diffondersi dell’Aids, alle guerre etniche locali. Ma il grande
pubblico forse non è a conoscenza del fatto che il continente nero è in grado
di esprimere concretamente notevoli potenzialità di sviluppo sul piano
economico, finanziario, industriale e sociale. Rapporti redatti da organismi
come il Fondo monetario internazionale o la Banca mondiale mettono in luce come
l’Africa riservi al mondo delle sorprese per il futuro, quando si rivelerà un
continente in grado di competere con l’Occidente e le altre potenze economiche
del pianeta.

(Nairobi, Kenya, piazza della Holy Family Basilica)

La Cina e le banche

Il primo paese a rendersi conto delle potenzialità
insite nel continente africano, intraprendendo di conseguenza un accelerato
programma di sfruttamento, è stata la Cina. Immediatamente seguita dalle
multinazionali occidentali nei settori agroalimentare e delle
telecomunicazioni. Anche le banche e le agenzie petrolifere, insieme alle
imprese edili e delle infrastrutture, hanno fiutato il business e si
sono adoperate alacremente per agire in territorio africano. Fra le prime
banche a investire in Africa si menziona in particolare la russa Renaissance
Capital
. Essa ha aperto a partire dal 2005 sette ultramodei uffici in ben
sette capitali: Johannesburg, Lagos, Lusaka, Lubumbashi, Nairobi, Accra,
Harare. L’ente finanziario russo ha investito in questa gigantesca operazione
più di un miliardo di dollari, dando lavoro a 180 persone.

Un progresso economico senza precedenti

I
rapporti delle banche e degli istituti di ricerca confermano dunque che
l’Africa è il continente in cui l’economia globale attualmente in crisi può
rivitalizzarsi. Il Fondo monetario internazionale, per esempio, ha dichiarato
che l’area subsahariana vedrà crescere il Pil fino a quasi il 7%, la Nigeria
diventerà la locomotiva dell’Africa e i Brics (Brasile, Russia, India, Cina e
Sudafrica) investiranno sempre di più nel continente nero. Secondo un’indagine
eseguita dalla Banca mondiale (Africa’s Pulse), che ha analizzato lo
stato dell’economia della regione a Sud del Sahara, in questa zona si realizzerà
presto un progresso economico senza precedenti. Inoltre, sempre secondo le
stime del Fondo monetario internazionale, nell’arco di tempo che va dal 2013 al
2016 l’Africa potrà accogliere il 30% degli investimenti mondiali.

Le previsioni della Banca mondiale

Le
analisi effettuate dalla Banca mondiale confermerebbero che a medio termine le
prospettive di crescita in alcune aree dell’Africa rimarranno salde e saranno
rinvigorite e sostenute da un’economia mondiale in graduale miglioramento.
Secondo altri rapporti inteazionali, nel 2012 circa un quarto dei paesi
africani è cresciuto del 7%, mentre stati come Sierra Leone, Niger, Costa
d’Avorio, Burkina Faso, Ruanda, Liberia ed Etiopia hanno evidenziato un
fenomeno impressionante: la più rapida crescita al mondo. Le previsioni in
materia d’investimenti fanno pensare che, con i prezzi delle materie prime
costantemente elevati, gli utili e gli incrementi in infrastrutture regionali
risulteranno maggiori con relativa crescita del commercio e del business.
Quest’ipotesi di crescita è perlomeno verosimile, tanto più se si pensa che da
un punto di vista energetico l’Africa possiede il 10% delle riserve mondiali di
petrolio e l’8% di quelle di gas. La Banca mondiale, inoltre, in base alle
indagini effettuate in loco, ritiene che ad attestare un futuro positivo di
crescita per le economie africane ci siano i seguenti fattori: la ricchezza
mineraria e la crescita del consumo interno, senza contare l’aumento degli
investimenti privati. In effetti, le recenti scoperte di petrolio, gas
naturale, rame e altri minerali strategici, l’apertura e l’espansione di nuove
miniere in Mozambico, Niger, Sierra Leone e Zambia, laddove sono accompagnate
da una efficace governance politica ed economica, stanno favorendo una solida
crescita economica in tutto il continente. È opinione ancora della Banca
mondiale che, date le notevoli quantità di nuove entrate derivanti dai minerali
che si configureranno in tutta la regione, i paesi africani ricchi di risorse
dovranno investire con attenzione e con scrupolosità questi guadagni per
migliorare le condizioni sanitarie, l’istruzione e l’occupazione, ottimizzando
così le prospettive di sviluppo anche per le popolazioni locali. Inoltre,
sempre secondo stime della stessa Banca la popolazione giovanile dell’Africa
risulterà essere la più grande forza lavoro al mondo, sorpassando la Cina entro
il 2030 e l’India entro il 2040.

Telefonia mobile ed esportazioni

Un
progresso sostanziale si registra anche nel campo della telefonia mobile:
essendo assente la telefonia fissa, sarà possibile il boom dell’Information
and Communication Technology
. La telefonia mobile al momento serve 700
milioni di utenti su una popolazione che supera il miliardo di persone. In
questo settore specifico delle telecomunicazioni, l’Africa risulta il secondo
mercato in più rapida espansione al mondo (il primo è l’Asia). Altre notizie
incoraggianti provengono dal ramo delle esportazioni verso l’Africa. Nei primi
mesi del 2013 si è visto crescere in modo forte l’esportazione verso i mercati
subsahariani di macchine e attrezzature per costruzioni. Infatti, mentre nel
2012 essa rappresentava il 6% del mercato mondiale di quel settore, ora invece
rappresenta il 26%, e sono più che raddoppiate le macchine esportate in
Sudafrica (110%).

Questo
dato positivo, va bilanciato con quello negativo circa le macchine e
attrezzature per il movimento a terra (-22%) e quelle stradali (-4,9%) – che può
significare meno strade -; mentre la crescita delle esportazioni mondiali verso
l’Africa di gru a torre e di macchine perforatrici, rispettivamente del 18,2% e
del 7,6%, può indicare un aumento delle attività estrattive e minerarie con il
risvolto positivo delle maggiori entrate economiche e quello negativo del loro
impatto sull’ambiente.

Le contraddizioni dell’economia

Nonostante
queste notizie molto confortanti e incoraggianti che auspicano la ripresa
economica dell’Africa, non si nasconde che nelle pieghe dello sviluppo
economico e finanziario si insinuano le identiche contraddizioni che
caratterizzano il capitalismo finanziario occidentale, in quanto all’aumento
del Pil corrisponde quasi sempre una ingiusta distribuzione delle risorse. È il
motivo per cui i vescovi africani nel messaggio conclusivo della riunione del
cornordinamento Giustizia e pace del Secam (Simposio delle Conferenze
Episcopali di Africa e Madagascar), svoltosi a Bujumbura, in Burundi, nel
novembre 2013, hanno lanciato il grido «No alla miseria». Nel testo i vescovi
elencano chiaramente le cause della miseria in Africa e Madagascar, esprimendo
un «netto rifiuto dello sfruttamento dei più poveri e dei più deboli, della
riduzione in schiavitù, del traffico dei nostri bambini e dei loro organi».
Denunciano inoltre «l’insicurezza crescente in alcuni paesi e regioni del
continente», ricordando «le violenze e le vessazioni criminali in Centrafrica,
i conflitti ricorrenti nella Repubblica Democratica del Congo, il fanatismo e
l’estremismo religioso in Nigeria, Mali, Egitto, Somalia, Kenya e Tanzania».
L’obiettivo è dunque quello di porre fine allo «sfruttamento ingiusto delle
nostre risorse naturali, con l’industria mineraria che provoca conflitti
violenti e criminali». L’auspicio, invece, è che «gli Stati africani abbiano il
coraggio di scrivere e votare delle leggi che proteggano le rispettive risorse
naturali», in modo da realizzare un «buon governo», che escluda «tutte le forme
di corruzione e cattiva gestione».

Giampietro Casiraghi

Giampietro Casiraghi




Tra emigrazione e immigrazione

L’inversione di tendenza. Polonia meta d’immigrazione


Dopo decenni di emigrazione, la Polonia, negli ultimi anni,
registra un crescente numero di immigrati (un totale di mezzo milione a
febbraio 2013, per una popolazione di poco inferiore ai 40 milioni). L’ingresso
nell’Unione europea e la crescita economica stanno attraendo persone, aziende e
investimenti. E il governo cerca di far rientrare i «cervelli in fuga».

La Polonia è stata per lungo tempo un paese di
emigrazione. La Germania ospita la maggior parte degli emigranti polacchi, ed è
seguita dagli Stati Uniti e dall’Italia. Fra i motivi più ricorrenti di
soggiorno all’estero, al primo posto c’è sicuramente il lavoro, in particolare
nell’ambito della collaborazione domestica e famigliare, al secondo e al terzo
posto i ricongiungimenti famigliari e i motivi religiosi. I polacchi in Italia
sono concentrati soprattutto a Roma e nel Lazio.

Da paese di emigrazione…

I
primi polacchi stabilitisi nel nostro paese furono i 100.000 soldati del II
corpo d’armata che decisero di rimanere in Italia alla fine della seconda
guerra mondiale. Nel secondo dopoguerra i flussi possono essere divisi in due
grandi ondate: prima e dopo la caduta del muro di Berlino. Una terza fase è
stata poi inaugurata con l’ingresso della Polonia nell’Unione europea nel 2004.

Prima
della caduta del muro di Berlino, la maggior parte delle emigrazioni era a
carattere politico-ideologico, per fuggire al regime comunista. Spesso l’Italia
era solo una terra di passaggio verso i più ambiti Stati Uniti. Certamente
l’elezione a papa di Karol Wojtyla ha valorizzato l’Italia come sbocco per
l’emigrazione, non solo politica, ma anche religiosa. Inoltre nei primi anni
Ottanta la Polonia fu colpita da una profonda crisi economica, nel paese venne
promulgata la legge marziale e il sindacato Solidaosc fu messo al bando.
Questo favorì una nuova predisposizione positiva e sentimenti di accoglienza
nei confronti dei migranti polacchi da parte dei paesi non appartenenti al
blocco comunista. In quel periodo migrarono soprattutto intellettuali, docenti
universitari, medici e ingegneri. Secondo dati ufficiali di fonte polacca
riportati da uno studio del 2006, Polonia. Nuovo paese di frontiera. Da
migranti a comunitari
, di Caritas Italiana, nel corso degli anni 1981-1989
il 3,7% del totale degli emigranti polacchi definitivi e il 5,7% di quelli
temporanei scelsero l’Italia come paese di arrivo.

La
caduta del muro di Berlino ha dato il via alla seconda fase dell’emigrazione
polacca in generale, e dei flussi verso l’Italia in particolare: questi flussi
non erano più motivati da ragioni politiche bensì economiche. Aprendosi
all’economia di mercato la Polonia aveva, infatti, assistito a un aumento del
costo della vita e contemporaneamente della disoccupazione. Motivi che hanno
portato, non solo in Polonia, ma anche negli altri paesi del blocco ex
comunista, a un esodo di massa, di persone tra l’altro con livelli d’istruzione
molto diversi tra loro e molto spesso notevolmente più bassi di quelli dei
precedenti emigranti. Nel 2006, nonostante l’ingresso nell’Unione Europea, il
paese aveva ancora seri problemi occupazionali, con un tasso di disoccupazione
del 17,7%, ritrovandosi inoltre al 24° posto fra tutti i membri dell’Ue a 25
per Pil procapite.

L’ingresso
della Polonia nell’Unione europea ha portato sia a un perdurare delle
migrazioni per lavoro, facilitate appunto dalla libera circolazione dentro
l’area Schengen, sia a una massiccia emigrazione o, per meglio dire,
circolazione di giovani desiderosi di studiare all’estero, di realizzare
esperienze di studio e lavoro non per forza per rimanere stabilmente in Italia,
ma neanche per far ritorno stabilmente in Polonia: quello che negativamente
viene definito «fuga dei cervelli» ma che può anche essere valutato
positivamente come lo sviluppo di un flusso di giovani, realmente europei,
cosmopoliti, tesi verso orizzonti più ampi.

…a paese d’immigrazione?

Da
quando la Polonia è entrata nell’Unione europea nel 2004, però, anche
l’immigrazione e le richieste di cittadinanza da parte di stranieri sono
aumentate, non solo per ragioni di convenienza, ma anche perché il paese è
apparso, soprattutto nel corso degli ultimi anni, sempre più dinamico e in
rapido sviluppo. Da questo punto di vista, la situazione polacca ha molti
tratti di somiglianza con quella italiana di fine anni Settanta poiché, pur
perdurando una forte emigrazione, i flussi in entrata cominciano a diventare
sempre più significativi. Dopo la seconda guerra mondiale e fino all’ingresso
del paese nell’Unione europea, infatti, i flussi di ingresso sono rimasti molto
bassi, in media tra i 1.500 e i 3.000 ingressi annuali. Con la caduta del muro
di Berlino le cose hanno cominciato a cambiare facendo registrare nel 1989
l’arrivo di 4.124 immigrati, mentre nel 2001 il loro numero era quasi
raddoppiato, raggiungendo le 7.740 persone (Caritas Migrantes 2006). A febbraio
2013 il numero degli immigrati, provenienti prevalentemente da alcuni paesi ex
sovietici, tra i quali Ucraina, Russia, Georgia e Bielorussia, aveva ormai
raggiunto e superato il mezzo milione. Se è vero, inoltre, che in molti casi si
tratta di migrazioni di ritorno, è anche vero che l’immigrazione in Polonia si
può collocare nella tendenza globale dei nuovi flussi migratori, anche in
seguito alla crisi economica che ha colpito alcuni paesi europei, tra cui
l’Italia, a partire dal 2008.

L’immigrazione
rimane comunque ancora a bassi livelli in Polonia, nonostante il numero di
persone in arrivo sia in rapida crescita, anche perché la forte emigrazione di
polacchi ha portato ora alla mancanza e dunque alla richiesta di forza lavoro,
specialmente in alcuni settori come quello della cura e dell’assistenza agli
anziani. Come in molti altri paesi membri dell’Unione europea, la società
infatti sta invecchiando, e anche in Polonia serve qualcuno che si prenda cura
degli anziani. In un’intervista alla rivista europea online Cafè Babel,
realizzata nel 2012, Piotr Bystrianin della Fundacja Ocalenie
(Fondazione Salvezza), che si occupa di aiutare gli immigrati nei corsi di
lingua polacca e nella ricerca di lavoro, sostiene comunque che ci sia ancora
molto da fare prima di trasformare la Polonia nella «meta favorita» dei
migranti, perché la situazione nelle campagne è molto diversa da quella nella
capitale.

Lezioni da imparare

Essere
un paese di nuova immigrazione può rappresentare per la Polonia un vantaggio se
sarà in grado di apprendere dalle esperienze degli altri paesi già mete
storiche di immigrati.

Questo
è stato uno degli obiettivi della conferenza internazionale «Children
migrants and third culture kids. Roots and routes
» che si è svolta a
Cracovia, presso la Jagiellonian University, lo scorso giugno. Il focus della
conferenza in particolare era l’impatto delle migrazioni sui bambini, sia su
coloro che rimangono nei paesi di origine e sono costretti a separarsi da uno o
da entrambi i genitori, sia su coloro che seguono i genitori nel percorso
migratorio o, ancora, nel ritorno in patria dopo un periodo passato all’estero.

La
conferenza, coinvolgendo professionisti e ricercatori di paesi europei di più
antica immigrazione, è stata l’occasione per condividere esperienze e
riflessioni riguardanti le conseguenze delle migrazioni sui bambini e le
strategie migliori, le cosiddette best practices, per l’apprendimento (o
il riapprendimento) della lingua, l’inserimento nel contesto della società di
accoglienza, il mantenimento della propria cultura e della propria religione.
La conferenza è stata anche l’occasione, soprattutto per i politici, i
ricercatori e gli operatori delle associazioni che in Polonia si occupano di
migrazione e intercultura, di beneficiare della riflessione su punti di forza e
di debolezza delle esperienze già realizzate altrove. In particolare
l’esperienza italiana, per il comune background religioso e tratti
simili della storia migratoria, ha portato a interessanti riflessioni e
costruttivi confronti.

Persone, merci, capitali

Con
l’ingresso nell’Unione europea, oltre ai singoli migranti, anche molte aziende
hanno cominciato a installarsi in Polonia, tant’è vero che Varsavia è stata
considerata la seconda città, dopo Londra, più attrattiva per le imprese, come
riportato da un altro recente articolo di Cafè Babel. Insieme a
immigrati e aziende, sono arrivati massicci investimenti che hanno comportato,
per lo meno nelle grandi città, aumento dei salari, miglioramenti nello
standard di vita e crescita del ceto medio. Grande impulso allo sviluppo del
paese inoltre è stato dato con gli europei di calcio ospitati dalla Polonia
(insieme all’Ucraina) nel 2012, per i quali (o grazie ai quali) sono state
costruite diverse infrastrutture: una linea metropolitana, strade, hotel e uno
stadio. Oltre ai vantaggi economici, i campionati europei di calcio hanno
portato anche un vento di ottimismo e modeizzazione, sostenuto comunque dai
bilanci positivi degli ultimi anni. L’economia polacca sembra infatti l’unica a
ottenere risultati positivi in questo periodo di crisi finanziaria europea: nel
2010 il Pil della Polonia è cresciuto del 3,8%. Più velocemente che in
Germania.

Il rientro dei cervelli?

I
polacchi nel mondo hanno massicciamente contribuito allo sviluppo del paese e
al benessere delle famiglie rimaste in patria attraverso l’invio di rimesse,
che ogni anno ammontano a circa 900 milioni di dollari. Alcune ricerche hanno
anche evidenziato la tendenza crescente dei migranti Polacchi a rimpatriare per
investire in loco i risparmi accumulati all’estero. Oltre che dai rientri
spontanei dei migranti polacchi, la riduzione della cosiddetta «fuga dei
cervelli» è accompagnata anche dal governo che sta, da parte sua, tentando di
riportare a casa i propri giovani. Con il sostegno dei fondi stanziati
dall’Unione europea, infatti, la Polonia sta sostenendo iniziative per
agevolare i giovani ricercatori nell’avviare una carriera in patria. Un esempio
è il programma Homing Plus della Fondazione di Ricerca Polacca (Fnp). Il
problema di programmi come questo è però che esso risulta essere molto limitato
e può coinvolgere solo un piccolo numero di ricercatori, dato che le borse di
studio a disposizione sono ogni anno solo 15. Un altro interessante progetto,
attivato nel 2007, è il sito powroty.gov.pl che vede più di 10.000
accessi settimanali. Il sito offre diversi servizi tra cui numerose
informazioni per coloro che vogliono rientrare in patria.

Religiosità in emigrazione

La
migrazione polacca così come l’intero paese sono caratterizzati da una profonda
religiosità, a forte impronta nazionalista. Forse anche questo determina la
scelta di Roma, tra le città italiane, come meta privilegiata. La maggior parte
degli immigrati polacchi in Italia dichiara infatti di coltivare e mantenere
rapporti con una struttura religiosa in Italia (Caritas Migrantes 2006). Per
gli immigrati polacchi i luoghi di culto non sono solo importanti per le
attività liturgiche e spirituali, ma diventano anche importanti centri di
ritrovo e di trasmissione ai figli della cultura di origine, ovvero punti di
riferimento non solo religioso, ma anche (e soprattutto) identitario.

Viviana Premazzi

Viviana Premazzi




Acqua, nuove battaglie

Dai forum dei movimenti per l’acqua ai forum per i beni
comuni.
Dopo i risultati del referendum del 2011 sull’acqua come
diritto umano, i movimenti si organizzano ed estendono la battaglia ad altri
beni comuni e alla democrazia. Il rifiuto della mercificazione della vita, il
recupero della responsabilità delle autorità pubbliche, la domanda di nuovi
spazi di partecipazione politica. Lavorando sul locale senza perdere la visione
globale.

Giugno 2011: gli Italiani si pronunciano contro la privatizzazione dei
servizi idrici, rivitalizzando, con sorpresa di molti, il referendum come
strumento di partecipazione politica. A quasi tre anni di distanza da quel
voto, a che punto siamo? La battaglia referendaria sull’acqua appare da diversi
punti di vista una vittoria mutilata.

Senza dubbio il referendum ha contribuito a rappresentare
e affermare il vasto consenso popolare esistente in merito al fatto che l’acqua
deve essere considerata un diritto umano e bene comune, legittimando
giuridicamente e politicamente la gestione pubblica dei servici idrici. A
questi principi si richiamano ormai, almeno a parole, anche quei politici e
rappresentanti delle istituzioni che in passato guardavano con favore a un
ruolo più incisivo del mercato nella gestione dei servizi idrici. In virtù del
risultato referendario, l’acqua in molti casi è rimasta fuori dai processi di
privatizzazione e di cessione di quote delle società pubbliche di gestione dei
servizi locali, come i rifiuti e i trasporti. Anche se non sono mancati
tentativi da parte del governo Berlusconi e poi di quello Monti di ribaltare il
risultato referendario, introducendo alcune disposizioni che di fatto
riproponevano le norme abrogate dal referendum.

Stop ai privati

Dal punto di vista tecnico e giuridico, il primo dei due quesiti
referendari ha eliminato l’obbligo per gli enti locali, introdotto nel 2008 dal
cosiddetto Decreto Ronchi, di mettere a gara la gestione dei servizi idrici
entro la fine del 2011 per affidarla a società pubbliche, private o miste. La
normativa ora in vigore è quella europea, che prevede anche la gestione «in
house
», ovvero da parte di Spa a intero capitale pubblico, la formula al
momento più diffusa in Italia, che il Decreto Ronchi intendeva invece superare.

Dal punto di vista politico, tuttavia, per il Forum italiano dei movimenti per l’acqua, l’indicazione emersa dal referendum è quella dell’affermazione
di una gestione squisitamente pubblica dei servizi idrici, che dovrebbe passare
per il superamento della forma dell’Spa, anche se interamente pubblica, in
quanto governata comunque dal diritto privato e orientata alle logiche del
profitto e della massimizzazione degli utili. Questa convinzione ha ispirato
diversi percorsi di ripubblicizzazione dei servizi idrici, promossi dal
movimento e da alcuni rappresentanti degli enti locali in diverse città
italiane. Il caso più conosciuto è quello di Napoli, dove il sindaco Luigi de
Magistris, all’indomani del referendum, ha nominato Alberto Lucarelli e Ugo
Mattei – giuristi estensori dei quesiti referendari – rispettivamente Assessore
ai Beni Comuni e Vice presidente di Arin Spa, la società di gestione del
servizio idrico napoletano. Il loro lavoro ha portato alla trasformazione di
Arin in azienda speciale di diritto pubblico, Abc Napoli (Acqua Bene Comune).
Nell’ottica di una gestione più partecipata e democratica, che superi i vizi
delle precedenti esperienze di gestione pubblica, la nuova azienda prevede
anche un’assemblea di indirizzo in cui siedono rappresentanti dei lavoratori,
degli utenti e dei movimenti ambientalisti.

A Reggio Emilia, è stato invece istituito un forum provinciale cui
partecipano i rappresentanti delle istituzioni locali e dei movimenti, con il
mandato di ridefinire l’assetto della gestione dei servizi idrici alla luce del
risultato referendario.

Questo percorso ha portato alla revoca a fine 2012 della
concessione della gestione del servizio idrico a Iren, società multi-utilities
che opera nella gestione di acqua, energia e rifiuti in Piemonte, Liguria ed
Emilia. Il nodo da sciogliere resta quello della natura del nuovo soggetto che
gestirà il servizio idrico: azienda speciale sul modello di Napoli, come
chiedono i movimenti, o Spa «in house», come preferiscono gli
amministratori locali, preoccupati di non appesantire troppo i bilanci dei loro
comuni accollandosi anche le spese del servizio idrico. Percorsi analoghi sono
stati attivati in tutta Italia – Torino, Palermo, Imperia, Savona, Varese, Forlì,
Piacenza – attraverso raccolte firme e proposte di delibere di iniziativa
popolare per la ripubblicizzazione del servizio idrico, presentate nei consigli
comunali e provinciali.

Profitti sull’acqua

Il secondo quesito referendario, in nome del principio «fuori i
profitti dall’acqua!» ha invece sancito l’eliminazione della quota di
remunerazione del capitale investito, fissata per legge ad un tasso del 7%, dal
calcolo della tariffa del servizio idrico. All’indomani del referendum,
tuttavia, le Autorità d’ambito territoriale ottimale (Aato, le istituzioni che
governano il servizio idrico integrato) non hanno adeguato le tariffe al
risultato referendario, preoccupate dalla necessità di continuare a pagare gli
interessi dei capitali presi a prestito per realizzare gli investimenti nel
settore idrico. Nel 2012 il governo Monti ha affidato all’Authority per
l’Energia elettrica e il Gas (Aeeg) le funzioni di regolazione e di controllo
dei servizi idrici, con il mandato di definire il nuovo metodo tariffario.

Il Forum dei movimenti per l’acqua ha espresso un giudizio
negativo sulle proposte dell’Aeeg, accusandola di far rientrare dalla finestra
nel nuovo calcolo della tariffa i profitti per i gestori, sotto la
denominazione «costo della risorsa finanziaria». Insieme a Federconsumatori, il
Forum ha promosso diversi ricorsi presso il giudice di pace e i Tar (in
Lombardia, Toscana, Emilia Romagna), per ribadire l’illegittimità delle scelte
delle Aato e dell’Aeeg. Il Forum ha anche lanciato una «Campagna di Obbedienza
Civile», che invita i cittadini a farsi interpreti in prima persona della
traduzione pratica del secondo quesito referendario, attraverso un’autoriduzione
della bolletta pari alla componente relativa alla remunerazione del capitale
investito.

«Democrazia dei beni comuni»

Nella visione del Forum dei movimenti per l’acqua, le azioni per
la piena realizzazione dei risultati referendari hanno finito per assumere il
significato politico più ampio di denuncia della crisi della democrazia
rappresentativa e dei canali tradizionali di partecipazione politica, partiti
in primis, considerati ormai impermeabili alle istanze della società e incapaci
di tradurre in politiche concrete l’espressione della volontà popolare.

In risposta a questa crisi, il riferimento ai
beni comuni orienta anche l’auto rappresentazione del movimento stesso,
suggerendo nuove forme di partecipazione politica attraverso quella che alcuni
militanti come Marco Bersani definiscono «la democrazia dei beni comuni».
L’idea è che un soggetto politico impegnato a battersi per la difesa dei beni
comuni, non può essere ispirato alle logiche verticistiche, elitarie o
addirittura personalistiche che negli ultimi tempi hanno caratterizzato i
partiti politici. Di qui, le caratteristiche organizzative scelte dal Forum dei
movimenti per l’acqua: una base di militanti volontari e non professionisti, il
rifiuto di leadership carismatiche, il ricorso al metodo del consenso
per prendere le decisioni, una struttura orizzontale e decentrata, fondata su
comitati locali gelosi della propria autonomia, per cui anche la semplice
istituzionalizzazione della segreteria operativa del Forum a Roma è stata
interpretata da alcuni come tentativo di centralizzare e mettere il cappello
sulla mobilitazione. In virtù del successo referendario e
della capacità di imporre la formula «acqua bene comune» nel dibattito
pubblico, la mobilitazione per l’acqua pubblica si è così trasformata in
battaglia paradigmatica per i beni comuni e la democrazia, contro la
privatizzazione e la mercificazione della politica e della vita. Ciò sembra
esser confermato dal riferimento sempre più frequente alla categoria dei beni
comuni anche nell’ambito di altri movimenti sociali. L’intento è quello di
sottolineare la loro connessione con i temi dell’acqua o di adottare strategie
e pratiche d’azione analoghe a quelle del Forum, con l’auspicio di replicarne
il successo.

In molti casi, la diffusione della narrazione dei beni comuni e
delle pratiche a essa collegate sviluppate nell’ambito della battaglia per
l’acqua avviene per osmosi, attraverso le esperienze di militanti attivi sia
nel movimento per l’acqua che in altri contesti.

Ad esempio, Domenico Finiguerra, sindaco tra i più attivi nel
movimento per l’acqua, è tra i fondatori del Forum dei movimenti per la terra e
il paesaggio. Luca Martinelli, giornalista di Altreconomia e Marco Bersani di
Attac sono tra gli animatori del Forum per una nuova finanza pubblica e
sociale.

I rappresentanti della Cgil-Funzione pubblica che militano anche
nel movimento per l’acqua, come Corrado Oddi, contribuiscono a introdurre il
vocabolario dei beni comuni nelle attività del sindacato. Giuristi come Ugo
Mattei partecipano alla riflessione su come tradurre l’idea di beni comuni in
pratiche concrete nel contesto delle occupazioni del Teatro Valle a Roma e
della Torre Guelfa a Milano.

Tre istanze

Per quanto eterogenee in termini di soggetti coinvolti, temi,
durata nel tempo ed efficacia, queste battaglie sembrano accomunate da tre
istanze manifestate attraverso il richiamo ai beni comuni. Innanzitutto il
rifiuto della mercificazione della vita, ovvero dell’estensione delle logiche e
degli strumenti del mercato, della concorrenza e della competitività ad ambiti
sempre più estesi della nostra quotidianità.

In secondo luogo la richiesta di una riassunzione di responsabilità
da parte delle autorità pubbliche, che inverta la rotta della privatizzazione o
dell’estealizzazione di competenze le quali vengono invece individuate come
costitutive del bene comune e strategiche per il governo del territorio. Infine
la domanda e la pratica di nuovi e più ampi spazi di partecipazione politica,
attraverso l’adozione di nuove forme di attivismo che contribuiscano a
ridefinire identità e appartenenze.

In questa prospettiva, affinché il movimento per l’acqua continui
a svolgere un’azione pionieristica di elaborazione culturale e politica, due
appaiono come i principali nodi da sciogliere. In primo luogo quello dei rischi
legati alla «giuridizzazione» della battaglia: per influenza dei saperi tecnici
coinvolti nel movimento e per la natura stessa delle questioni di attualità sul
tavolo, l’azione del movimento negli ultimi anni si è tradotta soprattutto in
iniziative e rivendicazioni di natura giuridica, dalle vertenze legali
all’enfasi sulla natura del soggetto gestore: azienda pubblica vs Spa.

Infatti, per loro natura, i beni comuni richiedono la pratica
dell’interdisciplinarietà, che di sicuro potrebbe giovare al movimento
nell’affrontare in maniera più organica le principali questioni legate alla
gestione del ciclo dell’acqua, come ad esempio il dissesto idro-geologico del
territorio italiano.

In secondo luogo, l’enfasi sull’attuazione a livello locale dei
referendum rischia di far trascurare la dimensione internazionale del tema
acqua. Una delle originalità del movimento per l’acqua, nato alla fine degli
anni ‘90 su impulso dei Social forum, del Contratto Mondiale sull’Acqua
proposto dall’economista Riccardo Petrella, e dal lavoro di educazione alla
cittadinanza globale delle Ong di cooperazione internazionale allo sviluppo è
proprio quello di esser riuscito a tenere insieme la dimensione locale del tema
con quella globale. I movimenti europei per l’acqua sono stati i primi a
utilizzare in Europa il nuovo strumento dell’Iniziativa dei cittadini
europei
introdotto dal Trattato di Lisbona, raccogliendo l’anno scorso le
firme per presentare una proposta di legge sul riconoscimento del diritto umano
all’acqua. I seguiti di questa campagna potranno aiutare la riscoperta della
dimensione internazionale del tema, oltre che contribuire a riempire di
contenuti il dibattito su identità, ruolo e prospettive dell’Europa.

Emanuele Fantini
 

Il libro

«Si scrive Acqua…
Attori, pratiche e discorsi nel
movimento italiano per l’acqua bene comune»,

a cura di Chiara Carrozza e Emanuele Fantini.
aAccademia University Press, 2013, pp. 136, Euro12,00.

Senza inseguire leadership carismatiche, ignorato
dall’establishment politico e mediatico, il movimento Acqua bene comune ha
saputo coinvolgere e tenere insieme una coalizione vasta e plurale, riferendosi
a principi morali e diritti fondamentali, adottando un’ottica non solo locale
ma anche globale, e portando avanti una battaglia paradigmatica per la
democrazia e il bene comune. Il libro nasce dalla volontà di riflettere sugli
elementi e le pratiche che hanno reso possibile questa esperienza e sul suo
significato politico più ampio.

Il volume, oltre a essere acquistabile in versione cartacea,
è scaricabile gratuitamente dal sito dell’editore.
www.aaccademia.it/siscriveacqua.

 

Emanuele Fantini




Nel nome della libertà

In povertà e in ricchezza / 2
«Lo chiedono i mercati», «Non ci sono soldi», «Lo stato sociale
è un lusso», e poi – per chiudere la discussione – «La questione è molto più
complessa». In un’epoca dominata dall’iperinformazione, l’economia vive di
bugie vendute come dogmi. I risultati sono drammatici e vengono pagati con l’erosione
quotidiana della democrazia. Esistono alternative a un sistema sempre più
ingiusto? Una cosa è certa: così non si può proseguire. «L’infelicità degli
altri ci riguarda», anche perché – ragionando egoisticamente – «il tuo
malessere minaccia la mia tranquillità».

Anno 2001: al culmine della
crisi argentina, Buenos Aires è percorsa giorno e notte da 40mila cartoneros,
che recuperano cartoni e qualsiasi rifiuto utile alla loro sopravvivenza.

Anno 2014: l’Italia, nona potenza
mondiale1, vive il settimo anno di una crisi che pare senza fine. Di questi
tempi il fatto che la grande maggioranza degli italiani continui a non
praticare la raccolta differenziata2 diventa una fortuna. In tal modo, tra l’immondizia, si trovano più
rifiuti da recuperare: cibo, materiali riciclabili (plastica, alluminio, legno,
carta, vetro), cose riutilizzabili (vestiti, oggetti, giochi).

A tutte le ore del giorno e della
notte, donne e uomini setacciano con cura i cassonetti delle nostre città.
Difficile non accorgersi del loro numero in aumento anno dopo anno. Le persone
più organizzate girano con attrezzi utili allo scopo: un uncino di ferro per
aprire i sacchetti o agganciare qualcosa, una torcia per vedere meglio
all’interno dei cassonetti, un carrellino con le rotelle per trasportare ciò
che viene recuperato, oppure una vecchia bicicletta con un cestino capiente.

Un tempo la pratica era esclusiva di
rom e stranieri, oggi non è più così: ci sono anche gli italiani, nella maggior
parte dei casi persone anziane, quasi sempre sole. D’altra parte le statistiche
fanno rabbrividire. Nel 2012 la povertà relativa ha riguardato il 15,8% della
popolazione italiana (pari a 9 milioni 563 mila persone), quella assoluta l’8%
(4 milioni 814 mila persone)3. La disoccupazione ha superato il 12%, quella giovanile
addirittura il 40%.

«Un italiano su sei – scrive Sbilanciamoci!
nel suo rapporto 2014 – non trova lavoro e, tra chi lavora, uno su quattro ha
un lavoro precario. […] Con il degrado sociale crescono le spinte razziste e
xenofobe, aumentano i reati, si allarga l’economia criminale»4. La situazione italiana è ormai
insostenibile e potenzialmente esplosiva5. Anche per l’assenza di uno
strumento d’emergenza quale il «reddito minimo garantito» e la presenza di «problemi
genetici» (evasione fiscale, economia criminale e corruzione; vedere box),
molto gravi e apparentemente insolubili.

Le tasse (non progressive) e
la fuga dei capitali

L’economia – la «scienza triste»6 – ci spiega che le crisi sono
cicliche. Nessuna obiezione al riguardo. Tuttavia, essa evade (almeno) tre
domande: perché a pagare sono sempre gli stessi soggetti? Perché, nelle crisi,
a salvarsi o spesso a guadagnarci sono sempre i soliti? Perché, in presenza di
una crescita della ricchezza complessiva, le diseguaglianze crescono, nel Nord
come nel Sud del mondo? Le contraddizioni del sistema economico vigente sono
diventate talmente palesi (e pericolose) che hanno iniziato ad ammetterlo
addirittura le organizzazioni economiche inteazionali (come l’Fmi7) e i media allineati con l’ortodossia
della globalizzazione neoliberista.

«È tristemente facile – ha scritto ad
esempio lo statunitense Time – imbattersi in statistiche secondo cui i
ricchi stanno diventando sempre più ricchi mentre la classe media e i poveri
stanno a guardare»8. E l’inglese The Economist: «Ci hanno pensato le
privatizzazioni (ma non erano la panacea di tutti i mali?, ndr) a
indebolire ulteriormente la ricchezza dei lavoratori».

In questo desolante panorama c’è
dunque qualcosa di buono: finalmente anche in alto si è iniziato a mettere in
discussione il sistema. Una volta a farlo erano soltanto i movimenti
altermondialisti9, spesso demonizzati.

Le libertà economiche «divinizzate»
dalla globalizzazione neoliberista stanno riducendo o compromettendo i diritti
della grande maggioranza della popolazione mondiale: dal diritto a un lavoro
dignitoso ai diritti sociali (sanità, educazione, previdenza) fino ai diritti
ambientali delle generazioni future.

«Nel nome della libertà – ha scritto
Ronald Dore della London School of Economics -, non vi è solo più
diseguaglianza, ma anche una maggiore tolleranza delle diseguaglianze»10. Secondo Joseph Stiglitz, la stessa
democrazia è in pericolo, perché i governi non sono più liberi di usare il
fisco, strumento prioritario per ridurre le diseguaglianze. Scrive il premio
Nobel per l’economia: «Quella che viene chiamata competizione fiscale – la gara
tra i diversi sistemi politici per la minore imposizione fiscale – limita
infatti le possibilità di una tassazione progressiva. Le imprese minacciano di
andarsene se le tasse sono troppo alte. E lo stesso fanno gli individui ricchi»11.

Per inquadrare la situazione, è
sufficiente un dato sui movimenti di capitali «non produttivi», una vergogna
mondiale cui il sistema non vuole porre rimedio. Secondo Tax Justice Network,
almeno 21 mila miliardi di dollari sarebbero depositati in paradisi fiscali, un
valore quasi pari al Pil di Stati Uniti e Giappone12.

Concentrazione versus
distribuzione

Dagli Stati Uniti alla Cina, il mondo
è stato unificato sotto un’unica filosofia economica, quella della
globalizzazione neoliberista. Tuttavia, a dispetto di questo denominatore
comune, i paesi – come vedremo – non sono tutti eguali.

La disparità nella distribuzione dei
redditi (e della ricchezza) è misurabile con l’«indice Gini»: si tratta di un
indice di concentrazione il cui valore può variare tra zero e uno (o tra 0 e
100 se si ragiona in termini di percentuale). Valori bassi indicano una
distribuzione abbastanza omogenea, valori alti una distribuzione più disuguale,
con il valore 1 (o 100) che corrisponderebbe alla concentrazione di tutto il
reddito del paese nelle mani di una sola persona.

Nella classifica dell’indice Gini
(calcolato negli anni tra il 2004 e il 2011), tra i paesi con la peggiore
distribuzione dei redditi troviamo la gran parte dei paesi africani, tre paesi
latinoamericani (Haiti con un valore pari a 59,2, la Colombia con 58,5 e il
Guatemala con 55,1), e ben tre grandi potenze mondiali (la Cina con 47,4, gli
Stati Uniti – in progressivo peggioramento13 – con 45, e la Gran Bretagna con 40,
anch’essa in peggioramento e ultima tra i paesi europei). Alcuni paesi
latinoamericani, conosciuti per le loro diseguaglianze, negli ultimi anni sono
migliorati, pur rimanendo molto diseguali: il Brasile (passato da 55,3 a 51,9),
la Bolivia (da 57,9 a 53), il Messico (da 53,1 a 48,3) e soprattutto il
Venezuela (da 49,5 a 39). Infine, i paesi del mondo con la migliore
distribuzione sono tutti europei: la Svezia (23), la Norvegia (25), la Finlandia
(26,8), l’Austria (26,3) e la Germania (27).

Quanto
all’Italia – con un indice di 34 (era 27) – è al secondo posto nell’Unione
europea per livello di disuguaglianza nella distribuzione dei redditi,
preceduta soltanto dalla Gran Bretagna14.

Si tratta di numeri soggetti a
interpretazioni e contestazioni, ma sono significativi e disegnano un mondo in
linea con la realtà quotidiana15.

I meccanismi sacralizzati del
sistema

Tra le tante analisi sulla situazione economica
mondiale, c’è quella di papa Francesco. Si trova nella Evangelii Gaudium,
l’esortazione apostolica uscita nel novembre 2013. «Non è compito del papa –
scrive Bergoglio – offrire un’analisi dettagliata e completa sulla realtà
contemporanea», ma in realtà, l’analisi del pontefice è tanto chiara nelle
parole quanto esplicita nelle critiche al sistema.

«La maggior parte degli uomini e delle donne del nostro
tempo – si legge nel capitolo secondo – vivono una quotidiana precarietà, con
conseguenze funeste. Aumentano alcune patologie. Il timore e la disperazione si
impadroniscono del cuore di numerose persone, persino nei cosiddetti paesi
ricchi. La gioia di vivere frequentemente si spegne, crescono la mancanza di
rispetto e la violenza, l’inequità diventa sempre più evidente. Bisogna lottare
per vivere e, spesso, per vivere con poca dignità».

Le
parole del papa nascono (anche) dall’esperienza diretta. Durante la devastante
crisi argentina il cardinale Bergoglio era arcivescovo di Buenos Aires e in
quella veste aveva avuto parole di fuoco contro il sistema, parlando di un «vero
terrorismo economico finanziario»16.

«Oggi
– prosegue la Evangelii Gaudium – tutto entra nel gioco della
competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più
debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si
vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di
uscita». «In questo contesto, alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta
favorevole”, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero
mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale
nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime
una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere
economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel
frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare». Parole tanto forti da
provocare la reazione (risentita) dell’Economist, che accusa il papa di
riflettere una posizione ideologica di sinistra17.

«Mentre i
guadagni di pochi crescono esponenzialmente – si legge ancora nell’esortazione
apostolica al numero 56 -, quelli della maggioranza si collocano sempre più
distanti dal benessere di questa minoranza felice. Tale squilibrio procede da
ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione
finanziaria. Perciò negano il diritto di controllo degli stati, incaricati di
vigilare per la tutela del bene comune. Si instaura una nuova tirannia
invisibile, a volte virtuale, che impone, in modo unilaterale e implacabile, le
sue leggi e le sue regole».

Sono affermazioni sorprendenti per un
papa? Non proprio. Già nella Caritas in Veritate, l’enciclica del 2009
di papa Benedetto XVI, si affrontavano con chiarezza i temi imposti
dall’economia globalizzata: lo sviluppo, le disparità crescenti, la precarietà,
i diritti dei lavoratori18.

Nel capitolo secondo si legge, ad
esempio: «L’esclusivo obiettivo del profitto, se mal prodotto e senza il bene
comune come fine ultimo, rischia di distruggere ricchezza e creare povertà».

Si parla dei «nuovi poveri», della
riduzione dell’intervento redistributivo dello stato e dei sindacati: «Cresce
la ricchezza mondiale in termini assoluti, ma aumentano le disparità. Nei paesi
ricchi nuove categorie sociali si impoveriscono e nascono nuove povertà. […]
le politiche di bilancio, con i tagli alla spesa sociale, spesso anche promossi
dalle istituzioni finanziarie inteazionali, possono lasciare i cittadini
impotenti di fronte a rischi vecchi e nuovi; tale impotenza è accresciuta dalla
mancanza di protezione efficace da parte delle associazioni dei lavoratori».

Ancora più forte – siamo nell’ambito
di un’enciclica papale – risulta essere l’affermazione successiva: «L’insieme
dei cambiamenti sociali ed economici fa sì che le organizzazioni sindacali
sperimentino maggiori difficoltà a svolgere il loro compito di rappresentanza
degli interessi dei lavoratori, anche per il fatto che i governi, per ragioni
di utilità economica, limitano spesso le libertà sindacali o la capacità
negoziale dei sindacati stessi».

Tutto ciò si riflette negativamente
sulla condizione dei lavoratori: «Quando l’incertezza circa le condizioni di
lavoro, in conseguenza dei processi di mobilità e di deregolamentazione,
diviene endemica, si creano forme di instabilità psicologica, di difficoltà a
costruire propri percorsi».

Felicità privata e infelicità pubblica

In un’epoca dominata dalla filosofia
(e dalla pratica) individualista, risulta (ancora) più difficile parlare di
interessi collettivi, etica pubblica, solidarietà. Diventa così indispensabile
far leva sull’interesse personale per raggiungere (almeno) l’obiettivo minimo
della convivenza civile. «Il tuo malessere minaccia la mia
tranquillità», sintetizza Ronald Dore19.

Il professor Bruni amplia il
ragionamento. «C’è oggi – scrive – troppa ricerca di felicità private, che,
come tutti i beni privati, sono rivali e a “somma zero” (cioè la maggiore
felicità dell’uno è a scapito di quella degli altri). […] La pubblica felicità
ci dice invece qualcosa di diverso e di opposto: non si può essere felici da
soli, e l’infelicità degli altri ci riguarda, soprattutto l’infelicità civile,
come quella dovuta alla disoccupazione, che non è mai faccenda privata ma
sempre pubblica essendo il lavoro al centro del patto sociale. Se riduciamo
questa infelicità pubblica, aumentiamo la felicità di tutti e di ciascuno»20.

Un altro professore di economia
politica, Leonardo Becchetti, conclude affermando che «il progresso dell’uomo
sta nella capacità di accettare limiti alla “libertà di” quando questa rischia
di provocare danni ai propri simili»21. Limiti che la globalizzazione neoliberista – introdotta dagli
Stati Uniti negli anni Settanta – ha via via ridotto o cancellato (deregulation,
si chiama in inglese), per lasciare spazio – è stato spiegato – alla libera
espressione del mercato, foriero di maggiore benessere per tutti. I risultati
di questa scelta sono davanti agli occhi di chi vuole vedere.

Paolo Moiola
 
        Italia / Vita da Call centers                        
La linea è precaria

Manca poco alle 20,00. Sono appena tornato dal lavoro e sto
per mettermi a tavola. Squilla il telefono. Vado a rispondere di malavoglia.
Dall’altra parte risuona una voce femminile con inflessione straniera. «No,
ancora un call center», penso subito tra me e me.

– In famiglia chi si occupa della linea telefonica?, mi
chiede la donna.

– Guardi, non voglio essere antipatico, anche perché
immagino che nel suo lavoro sia costretta a sentire molti insulti senza neppure
poter replicare. Però non voglio cambiare operatore. Mi spiace.

– Mi dica soltanto – continua la telefonista -, qual è la
velocità della sua linea internet?

– Non ricordo, ma mi basta perché io non scarico film dalla
rete.

– Questa è un’offerta unica! Non può perderla, insiste la
donna.

– No, mi spiace. Mi lasci andare a mangiare, per favore. So
che questo mio rifiuto le farà perdere una provvigione, ma la proposta non mi
interessa.

– È sicuro, sicuro? La chiamo tra qualche giorno?
– Faccia lei. Adesso però la saluto. Buon lavoro.

Buon lavoro? Mi rendo conto che possa sembrare una presa in
giro. Le indagini raccontano che i dipendenti dei call centers sono in
maggioranza donne, che quasi tutti posseggono un diploma o addirittura una
laurea e che guadagnano – a seconda del contratto, quand’esso esista e sia
veritiero (di solito le ore contrattuali sono inferiori a quelle reali) – tra i
250 e i 600 euro al mese più una percentuale a seconda dei contratti che
riescono a far sottoscrivere ai clienti (le cosiddette «attivazioni»). Un
settore che occupa almeno 100mila persone, ma che è sempre a rischio «delocalizzazione».
Già oggi molti call centers italiani sono stati spostati in Albania, Romania,
Tunisia. Là i salari costano ancora meno e in più non si rischia un controllo
della Guardia di finanza. Eccola la competizione esasperata imposta dal sistema
neoliberista e soprattutto giocata sulle spalle dei più deboli.

A volte penso che potrei chiedere di essere liberato
dall’invadenza dei call centers. C’è una via facile e legale per impedire che
venga chiamato il proprio numero. Tuttavia, subito dopo questo pensiero, mi
ricredo. Se si togliessero tutti, è probabile che molte persone rimarrebbero anche
senza questa occupazione, pur precaria e malpagata. No, meglio continuare a
farsi disturbare. Forse un giorno risponderò di sì a una proposta. Magari
soltanto per sentirmi meno colpevole.

Paolo Moiola
Note
1 – Nel 2013 l’Italia è stata superata dalla Russia. Questa la classifica: Stati Uniti, Cina, Giappone, Germania, Francia, Brasile, Gran Bretagna, Russia, Italia.
2 – Nel 2012 la percentuale di raccolta differenziata ha raggiunto la misera cifra del 39,9%. E probabilmente il dato è sovrastimato. Fonte: rapporto Ispra 2013.
3 – Fonte: dati Istat del 17 luglio 2013 (www.istat.it).
4 – «Rapporto Sbilanciamoci! Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace, l’ambiente, 2014», a cura di Sbilanciamoci!, pag. 12. Il sito da cui scaricare il pregevole rapporto: www.sbilanciamoci.info.
5 – La cosiddetta «rivolta dei forconi» del dicembre 2013 ne è un esempio.
6 – Si attribuisce la definizione – the dismal science – allo storico inglese Thomas Carlyle (1795-1881). Da più parti sono stati sollevati dubbi anche sul fatto che l’economia sia una scienza.
7 – Nel suo report Fiscal Monitor, Taxing Times dell’ottobre 2013, il Fondo monetario internazionale (Fmi) arriva a suggerire una maggiore tassazione dei redditi più alti e dei patrimoni, una cosa impensabile fino a qualche anno fa.
8 – Si legga: Marx’s revenge: how class struggle is shaping the world (La vendetta di Marx: come la lotta di classe sta plasmando il mondo), Time, 25 marzo 2013. Riprodotto anche dal settimanale Internazionale, n. 1027 del 22 novembre 2013.
9 – Si intende la galassia dei movimenti inteazionali per i quali «un altro mondo è possibile».
10 – Ronald Dore, Il lavoro nel mondo che cambia, Il Mulino, Bologna 2005.
11 – Joseph E. Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza, Einaudi, Torino 2013, pag. 227.
12 – Il sito dell’organizzazione: www.taxjustice.net.
13 – Secondo il prof. Emmanuel Saez, dell’Università di Berkeley, nel periodo 2009-2012 l’1% degli statunitensi ha visto il proprio reddito aumentare del 31,4% contro lo 0,4% degli altri cittadini (3 settembre 2013).
14 – In Italia l’indice Gini è peggiorato sensibilmente nel corso degli anni. Era pari a 27,3 fino al 1995. Fonte: Barbara Bisazza, Distribuzione dei redditi, Italia seconda in Europa per disparità, in Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2013. Per le indagini più recenti si veda: www.gini-research.org.
15 – Per evitare possibili contestazioni (del tipo «queste sono considerazioni ideologiche»), abbiamo ricavato questi dati da una pubblicazione di un’istituzione ufficiale, appartenente cioè al sistema e non a esso alternativa: The World Factbook della Central Investigation Agency (Cia), i servizi segreti statunitensi (www.cia.gov).
16 – Si legga l’intervista concessa al mensile 30 Gioi nel 2002. E soprattutto la Lettera della Conferenza episcopale argentina del 17 novembre 2001 (Carta al pueblo de Dios), un mese prima delle rivolte di piazza e delle dimissioni del presidente Feando De La Rua.
17 – «But the same cannot be said about the sections of the document which deal with global economics. In these sections, the ideological position is clear. The passages reflect a particular school of left-wing thought, and they are full of left-wing insights and left-wing blind spots». La frase si può leggere nell’articolo Left, right, left, left del 28 novembre 2013 (www.economist.com).
18 – Caritas in Veritate, Libreria editrice vaticana, giugno 2009. Si veda, in particolare, il capitolo secondo Lo sviluppo umano nel nostro tempo (pag. 29 e seguenti). L’enciclica è facilmente reperibile in rete.
19 – Ronald Dore, Il lavoro nel mondo che cambia, Il Mulino, Bologna 2005, pag. 15.
20 – Luigino Bruni, Economia con l’anima, Emi, Bologna 2013, pagg. 146-147.
21 – Leonardo Becchetti, C’era una volta la crisi, Emi, Bologna 2013, pag. 91.

 

FONTI BIBLIOGRAFICHE
Rapporti:

• Sbilanciamoci!, Rapporto
Sbilanciamoci! Come usare la spesa pubblica per i diritti, la pace, l’ambiente
/ 2014
, Roma, 10 novembre 2013.

• Censis, 47° Rapporto
sulla situazione sociale del Paese / 2013
, Roma, dicembre 2013.

Rapporti Caritas:

• Caritas italiana, Dati
e politiche sulla povertà in Italia
, Roma, 17 ottobre 2013.

• Caritas italiana, Rapporto
2012 sulla povertà e l’esclusione sociale in Italia. I ripartenti. Povertà
croniche e inedite. Percorsi di risalita nella stagione della crisi
, Roma,
17 ottobre 2012.

Saggi recenti:

• Zygmunt Bauman, «La
ricchezza di pochi avvantaggia tutti». Falso!,
Laterza 2013.

• Luciano Gallino, Il
colpo di stato di banche e governi
, Einaudi 2013.

• Federico Rampini, Banchieri.
Storie dal nuovo banditismo globale
, Mondadori 2013.

• Joseph E. Stiglitz, Il
prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro
futuro
, Einaudi 2013.

• Alessandro Volpi, La
globalizzazione dalla culla alla crisi. Una nuova biografia del mercato globale
,
Altreconomia 2013.

• Maurizio Franzini, Ricchi
e poveri. L’Italia e le disuguaglianze (in)accettabili
, Università Bocconi
Editore 2010.

• Maurizio Franzini, Disuguaglianze
inaccettabili. L’immobilità economica in Italia
, Laterza 2013.

Saggi recenti della
Emi:

• Leonardo Becchetti, C’era
una volta la crisi
, Emi, Bologna 2013.

• Luigino Bruni, Economia
con l’anima
, Emi, Bologna 2013.

Papa Francesco:

• Papa Francesco, Guarire
dalla corruzione
, Emi, Bologna 2013.

• Papa Francesco, Evangelii
Gaudium
, 6 novembre 2013 (esortazione apostolica scaricabile – in formato Pdf – dal sito www.vatican.va).

Paolo Moiola




Ogni giorno è Ashura

La ricorrenza sciita


Ogni anno gli sciiti ricordano
l’eccidio di Ashura del 680 nel quale Hussein, nipote di Maometto, e altri 72
furono uccisi a Karbala, nell’attuale Iraq. La ricorrenza è occasione di
manifestazioni di popolo, in cui la commemorazione raggiunge altissimi livelli
di partecipazione. Il coinvolgimento emotivo delle folle è stato cavalcato più
di una volta per i propri fini politici dal clero sciita iraniano, che oggi
teme di perdere il controllo.

Sulla tribuna installata in un sobborgo di Teheran alcuni
rappresentanti delle autorità osservano la processione di uomini in nero che si
battono il petto in ricordo dei tragici fatti di Karbala, città dell’attuale
Iraq, a 100 km a Sud Ovest di Baghdad, in cui nel 680 Hussein, nipote di
Maometto, e altri 72 suoi familiari e compagni furono uccisi dalle truppe del
califfo Yazid. In tutto il mondo sciita i primi dieci giorni del mese arabo di muharram
sono dedicati alla commemorazione di quell’eccidio. La ricorrenza segue il
calendario lunare, quindi si sposta a ritroso lungo quello solare, che ha più
giorni. Nel 2013 ha avuto luogo tra il 5 e il 14 novembre; nel 2014 si terrà
tra il 25 ottobre e il 3 novembre.

Dalla tribuna si leva una voce che tenta di sovrastare il clamore
dei canti e dei tamburi con cui i fedeli accompagnano il proprio cordoglio: «In
questi giorni di lutto un pensiero particolare va ai nostri fratelli in Siria e
in Palestina. E ora riuniamoci tutti quanti per la preghiera». Un piccolo
gruppo si stacca dalla tribuna e marcia verso la moschea, guidato da alcuni mullah. Tuttavia, le migliaia di persone
radunate non si muovono, nessuno raccoglie quell’invito e gli uomini continuano
a sfilare, battendosi il petto, o fustigandosi con grappoli di catenelle. Tra
la folla non si vedono turbanti. Né bianchi, né neri. Il clero è completamente
assente dalla commemorazione. È un sentimento profondo e autenticamente
popolare quello che fa uscire gli iraniani nelle strade in questi giorni. Le
autorità temono simili manifestazioni spontanee, cercano di guidarle e
controllarle, sanno quale forza rivoluzionaria si può sprigionare da milioni di
persone radunate nelle piazze di città e villaggi a piangere la morte del loro
terzo santo Imam, quali sentimenti di emulazione, quale desiderio di martirio
la ricorrenza può suscitare. Basterebbe che d’improvviso si cominciassero a
scandire slogan diversi dal solito.


Lotte intestine nel nascente islam e l’eccidio di Ashura

Hussein era figlio di Fatima, figlia di Maometto, e di Ali, uno
dei primi e più fedeli compagni del Profeta. Ali sarebbe stato designato dallo
stesso Maometto, prima che questi morisse, a essere il suo successore, khalaf in arabo (da cui califfo). Ciò almeno
è quanto sostennero i suoi seguaci, in seguito definiti sciiti perché
costituivano il partito – in arabo shi’a – di Ali. Una successione che Ali aspettò per ventiquattro anni,
perché la maggioranza dei musulmani non gli riconosceva tale prerogativa e
altri tra i compagni del Profeta erano nel frattempo stati designati a guidare
la comunità islamica. Dopo l’uccisione del terzo califfo, Osman, nel 656, la
scelta cadde finalmente su Ali, ma il suo breve governo fu tormentato da
continue lotte intestine, che in parte riflettevano le divisioni claniche
esistenti all’interno della società araba. Tra i contendenti stava emergendo il
potente clan omayyade, cui appartenevano lo stesso Osman e Moawiya, il governatore
della Siria, cui la carica di califfo passò dopo la breve parentesi in cui
l’aveva esercitata Ali, ucciso nel 661.

Una volta morto Ali, i suoi seguaci riconobbero nel figlio
maggiore, Hassan, il proprio imam, o guida spirituale, e alla morte misteriosa
di questi – gli sciiti affermano che fu avvelenato dalla moglie su istigazione
di Moawiya – si rivolsero al secondogenito Hussein.

Nel 680 morì Moawiya, dopo aver designato a succedergli il figlio
Yazid, una successione da molti contestata perché avvenuta per discendenza e
non per elezione, com’era uso nella società araba. Insediatosi al governo di
Damasco, Yazid chiese a Hussein un giuramento di alleanza che questi si rifiutò
di fare, ritenendo il nuovo califfo un usurpatore che, con il suo
comportamento, corrompeva i valori dell’islam. Temendo rappresaglie, Hussein,
con la famiglia e alcune decine di compagni a lui fedeli, si mosse dalla Mecca
verso Kufa, città a Sud dell’odiea Baghdad, i cui abitanti gli avevano
promesso appoggio.

Giunta in prossimità di Karbala, località sulle rive dell’Eufrate,
ai primi di muharram dell’anno 58 dall’Egira, la carovana fu circondata da un numeroso
esercito mandato da Yazid per costringere Hussein e i suoi a giurargli fedeltà.
Sebbene privati di acqua e viveri, tormentati dalla sete che non tardò a farsi
sentire nel caldo soffocante del deserto, gli assediati non cedettero alle
richieste e il decimo giorno di muharram la carovana fu finalmente attaccata. Hussein, due dei suoi figli,
di cui uno di appena sei mesi, il fratello Abbas e tutti gli uomini che erano
con lui furono uccisi. Le donne e uno dei figli, che, gravemente malato, era
rimasto nella tenda e non si era presentato al combattimento, furono fatti
prigionieri e portati a Damasco.

Poiché l’uccisione di Hussein e dei suoi avvenne il decimo giorno
di muharram, l’intero episodio è ricordato col nome di Ashura («decimo», in
arabo).

La frattura: sciiti e sunniti

L’uccisione di Hussein approfondì la frattura all’interno
dell’islam tra coloro che si riferivano all’autorità spirituale degli imam e
coloro che riconoscevano nei califfi le proprie guide. Questa frattura non si è
più ricomposta e si perpetua fino ai nostri giorni nella divisione tra gli
sciiti (circa il 10% dei musulmani) e i sunniti. Questi ultimi considerano i
primi eretici e, quindi, meritevoli di morte, alla stregua degli infedeli. I più
intransigenti tra i sunniti ritengono che l’uccisione di uno sciita sia azione
meritoria, che aiuta a guadagnare il paradiso. Le cronache odiee, purtroppo,
registrano numerosi attacchi terroristici a comunità e moschee sciite, con
particolare frequenza in concomitanza con ricorrenze religiose nelle quali i
fedeli affollano i luoghi di culto. Ashura è una di queste e anche lo scorso
novembre le comunità sciite nel Sud dell’Iraq e in Pakistan hanno subito
attacchi sanguinosi.

Gli sciiti sono rimasti sempre una branca minoritaria dell’islam
assoggettata alla maggioranza sunnita, tranne che in Iran, ma anche in quest’ultimo
paese solo a partire dall’insediamento della dinastia safavide nel XVI secolo.

All’interno dell’islam sciita si sono originati diversi gruppi che
si differenziano principalmente per il numero di santi imam venerati. Gli
zaiditi si fermano ai primi cinque, gli ismailiti ne riconoscono sette e gli
sciiti duodecimani, i più numerosi, dodici. A differenza dei sunniti per i
quali il termine «imam» (come è comunemente conosciuto anche nel nostro paese)
indica colui che dirige la preghiera rituale in comune, nello sciismo imam
designa i diretti discendenti di Ali, e, quindi, del Profeta. La successione
degli imam sciiti si è interrotta nell’874 con la scomparsa del dodicesimo,
che, secondo la tradizione, non sarebbe mai morto, e si sarebbe «nascosto»,
occultato agli occhi degli uomini, per tornare alla fine dei tempi in compagnia
di Gesù e Maometto. Egli, tuttavia, non farebbe mai mancare la propria guida
spirituale a coloro che lo cercano con cuore sincero, gli unici ai quali
continuerebbe a manifestarsi.

Non potendo occupare cariche politiche, il ruolo degli imam era
rimasto eminentemente religioso. La loro missione era di guidare i credenti
sulla via della fede, interpretando correttamente le parole del Corano. Come i
primi tre, nessuno di loro morì di morte naturale, tranne il dodicesimo, come
si è detto. Morirono in prigionia, avvelenati, uccisi da emissari dei califfi.
Per gli sciiti furono tutti martiri che pagarono col sangue la propria fedeltà
al Corano e alla missione loro affidata: conservare intatta nel popolo la fede
ricevuta per tramite del Profeta. Si può dire che lo sciismo si fonda sul
sangue dei martiri, tra i quali Ali e Hussein sono senz’altro i più venerati.

La figura di Hussein

Il martirio di Hussein è diventato una storia esemplare che, da più
di mille e trecento anni, non solo è ricordata, ma è rivissuta dai fedeli. Il
racconto di Ashura parla di una straziante agonia e di una morte affrontate per
non tradire la verità della fede e per resistere al tentativo di asservire
l’islam a un interesse politico. I testi sciiti affermano che Hussein
conoscesse in anticipo quale sarebbe stata la propria sorte a Karbala, e che le
sia andato consapevolmente incontro. Venire a patti con Yazid, un despota
crudele che era stato indegnamente posto a capo della comunità islamica,
avrebbe voluto dire approvae il comportamento e, quindi, creare scandalo e
disorientamento tra i fedeli. Prima di morire Hussein avrebbe dichiarato: «Preferisco
che il mio corpo sia fatto a pezzi, purché la fede sia salva». Gli sciiti
sottolineano la natura tutta morale della sua opposizione a Yazid. Egli non
volle muovergli guerra con le armi, ma vincere il male resistendogli,
conservando la propria libertà interiore. Volle, così, indicare alle
generazioni successive quale fosse la strada da percorrere. Per questo Hussein è
diventato l’esempio del santo che offre la propria vita perché, attraverso il
sacrificio, gli uomini possano capire quale sia la vera fede e, quindi,
arrivare alla salvezza. A un cristiano la storia della sua morte riporta alla
mente la passione di Cristo e il suo sacrificio redentore.

Migliaia di versi sono stati scritti per ricordare l’eccidio di
Karbala. Nel tempo intorno al fatto storico sono fioriti racconti che avevano
lo scopo di suscitare negli ascoltatori commozione e rendere più intenso il
cordoglio. Le diverse comunità sciite hanno trovato modi diversi di commemorare
l’evento, ma ciò che accomuna tutti i credenti è che, nel mese di muharram, il loro strazio si rinnova, come se
si trattasse di fatti appena avvenuti. Lacrime di vero dolore scorrono sui loro
volti quando sentono narrare, non importa se per la centesima volta, la storia
del martirio; s’immedesimano a tal punto con le parole del racconto che la
distanza nel tempo si annulla e tutto riaccade davanti ai loro occhi.

La rappresentazione del martirio

Uno dei modi per far memoria dei tragici fatti di Karbala è la
sacra rappresentazione, proprio come nelle nostrane messe in scena della
passione di Cristo. Nelle piazze e nelle strade attori – improvvisati o
professionisti – fanno rivivere i diversi episodi che la tradizione associa
all’evento. Le storie sono tante e sono incentrate sui vari personaggi storici:
oltre a Hussein, i figli, il fratello Abbas, la sorella Zeinab, con le altre
donne testimoni impotenti della battaglia. I cattivi sono Moawiya, Yazid, con i
suoi ministri e comandanti, ma il cattivo che suscita maggiore ripugnanza nei
fedeli è Shemr, colui che avrebbe finito Hussein, decapitandolo. L’attore che
impersona questo personaggio deve essere pronto al peggio, perché accade alcune
volte che qualcuno tra il pubblico si lanci su di lui per impedirgli di
uccidere Hussein. Ogni anno si sente di uomini che, interpretando Shemr,
vengono presi a sassate, picchiati, finiscono all’ospedale. Abbiamo assistito a
tali rappresentazioni a Teheran, e in più occasioni abbiamo sentito gli
spettatori gemere, o addirittura singhiozzare, nei momenti di maggiore tensione
del racconto. Siamo stati indotti a distogliere gli occhi dalla scena per
osservare volti addolorati, rigati dalle lacrime. Durante i 10 giorni di lutto
gli uomini non si radono, c’è chi spalma di fango la propria automobile, o
scrive sulla carrozzeria frasi inneggianti ai santi imam. L’unica forma di
musica che non è bandita nei luoghi pubblici, nei negozi, o che giunge dai
finestrini abbassati delle auto, sono le litanie di Ashura, cantate da una voce
maschile e accompagnate dal suono ritmato di mani che battono i petti.

Quella del battersi il petto è la forma più comune per esprimere
la partecipazione al lutto. Uomini e donne, separatamente, si ritrovano in
luoghi prestabiliti e praticano questa forma di cordoglio collettivo, ma solo
quella degli uomini assume visibilità. Gli uomini, che indossano abiti neri, si
riuniscono in un salone, o sfilano per le vie, battendo all’unisono i palmi
delle mani contro i propri petti, con ritmi e movimenti che possono variare da
luogo a luogo, ma che sono rigorosamente sincronizzati, in una specie di danza.
Queste manifestazioni di dolore assumono a volte anche forme estreme. Alcuni si
battono a sangue, lacerandosi la pelle a forza di colpi, o fustigandosi con
pesanti catene. A mezzogiorno del decimo giorno, l’ora in cui Hussein fu
ucciso, c’è chi si procura ferite sul capo con armi da taglio, nel tentativo di
rendersi il più possibile simile a lui e in una sorta di anacronistico bisogno
di punirsi per non averlo difeso a Karbala. Tali pratiche sono ora vietate in
Iran, ma continuano clandestinamente. Per tutto il periodo di lutto, e in
particolar modo nei due giorni conclusivi, è molto diffusa l’usanza di
preparare cibo e bevande da distribuire alla gente: poveri, vicini di casa, o
semplici passanti. Lo si fa per impetrare una grazia, o in segno di
riconoscenza per una grazia ricevuta. I più organizzati preparano un vero e
proprio pasto: riso e stufato di carne, offerto in contenitori monouso, facili
da portar via.

«Morte allo scià»

Hussein riteneva proprio dovere di musulmano impedire che un
governante iniquo prevalesse sulla comunità dei fedeli, e tra gli sciiti il suo
martirio è assurto a simbolo della lotta contro l’ingiustizia e l’oppressione.
Riportiamo un discorso da lui pronunciato in opposizione a Yazid: «Al credente
che non interviene con parole o azioni quando vede un governante tirannico
violare le leggi di Allah e del suo Messaggero e opprimere il popolo, il
Profeta dell’islam assicura che Dio riserverà il meritato castigo. Non vedete
come tutto è corrotto, non vedete che la verità è tradita e la menzogna non ha
limiti? Per me la morte è solo la via per il martirio. Vivere tra i peccatori
sarebbe tormento e pena».

L’ayatollah Ruhollah Khomeini fece leva sul potenziale
rivoluzionario di queste parole quando il 3 giugno 1963 trasformò le
celebrazioni di Ashura in un’imponente manifestazione anti-scià. Nel sermone
pronunciato in quel giorno per ricordare la tragedia di Karbala egli equiparò
lo scià a Yazid, il nemico dell’islam, cui il popolo-Hussein avrebbe chiesto
conto del suo operato iniquo. Cosicché quando nelle piazze si cominciò a
gridare «morte a Yazid», tutti capivano quale fosse il vero significato di
quelle parole. Il giorno dopo Khomeini fu arrestato, ma l’effetto del
sentimento che era riuscito a destare nel popolo non tardò a farsi sentire:
Teheran e altre città entrarono in rivolta e lo scià fu costretto a intervenire
con l’esercito per ristabilire l’ordine. Il bilancio fu pesantissimo.

«Ogni giorno è Ashura, ogni terra è Karbala». È una frase rimasta
famosa, che intende indicare il valore sempre attuale del martirio di Hussein:
un vero musulmano deve essere pronto in ogni momento e circostanza a
sacrificare la propria vita per preservare la purezza della fede e resistere al
male. Khomeini e il clero sciita seppero rendere questo dovere religioso presente alla coscienza di ogni buon credente e
associarlo alla lotta contro il regime dello scià. L’operazione riuscì anche
grazie al sociologo Ali Shariati, che in quegli stessi anni predicava la forza
rivoluzionaria del martirio. «Muharram è il trionfo del sangue sulla spada»,
diceva Khomeini, «i martiri muovono la storia», faceva eco Shariati: non
importa se si è in pochi e disarmati contro un tiranno potente e crudele. Basta
non avere paura di morire per una causa giusta e, alla fine, la vittoria
arriverà.

Si arrivò, difatti, al 10 e 11 dicembre del
1978, il nono e decimo giorno di muharram, giorni
in cui milioni di persone sfilarono per le strade del paese battendosi e
gridando «morte allo scià». Erano disarmati, è vero, ma non erano più il
piccolo resto di Karbala. Erano in tanti, e pronti a morire. Il 16 gennaio del
1979 lo scià abbandonò l’Iran.

L’astuzia di Khomeini

La storia «politica» di Ashura in Iran, però, non finisce qui. La
rivoluzione aveva trionfato, ma perché essa fosse anche «islamica» Khomeini
dovette affrontare il dissenso interno di chi non vi aveva preso parte, e una
difficile guerra contro l’Iraq, che aveva improvvisamente invaso il Sud del
paese. Ashura ora gli serviva per consolidare la vittoria del suo islam, e
tutti quelli che gli si opposero divennero tanti Yazid: gli alleati di un
tempo, le potenze occidentali e, naturalmente, Saddam Hussein, che, indegno di
portare quel nome (tra l’altro assai scomodo da scandire quando se ne invocava
la morte nelle processioni di muharram), era stato prontamente ribattezzato «Saddam Yazid, l’infedele».
Khomeini aveva già sperimentato quale formidabile strumento di aggregazione
fossero le commemorazioni di Ashura, quando la gente si riuniva a piangere i
martiri di Karbala. Attraverso quelle adunanze si poteva mobilitare un intero
popolo intorno a un obiettivo: il male da combattere erano, ora, le forze che
intendevano distruggere il clero e la repubblica islamica. Il popolo doveva
essere incitato a versar lacrime sul sangue di Hussein, perché «da quei pianti
collettivi escono i giovani che vanno volontari al fronte in cerca di martirio,
e che si sentono infelici se non lo raggiungono… escono le madri che spingono i
figli ad andare in guerra e che, se poi questi non tornassero, desidererebbero
avee altri da mandare, o manderebbero quelli che hanno». Per Khomeini la
lezione di Karbala era chiara: in battaglia i numeri non contano, né si deve
temere il martirio quando si è dalla parte giusta. Anche se si avesse tutto il
mondo contro, la verità alla fine trionferà. Yazid era tutto il resto del
mondo, Hussein l’Iran di Khomeini.

Questo messaggio, diffuso da un clero opportunamente istruito, fu
così ben recepito dagli iraniani che, nonostante il grosso svantaggio iniziale
e l’isolamento internazionale, questi riuscirono in meno di due anni a
ricacciare l’esercito di Saddam oltre i confini. Ciò ebbe, com’è noto, un
grosso prezzo in vite umane. A questo punto, non sazio di vittoria, Khomeini
chiese al suo popolo di continuare a combattere e lo lanciò alla conquista
delle terre irachene, incitandolo ad arrivare fino a Karbala, fino a Israele… E
la guerra durò altri sei anni.

Ashura si ritorce contro la Guida Suprema?

E arriviamo alla più recente Ashura del 2009.
Anno in cui la controversa vittoria di Ahmadinejad alle elezioni presidenziali
di giugno aveva dato origine all’interno della società civile a un ampio
movimento di protesta, denominato Movimento Verde, che era sceso in piazza in
una serie di grandi dimostrazioni duramente represse dalle autorità. I leader
del movimento non si lasciarono sfuggire l’occasione di sfruttare il forte
significato simbolico di Ashura. In quel giorno, il 27 dicembre, le persone che
avevano accolto il loro appello marciarono scandendo slogan mai uditi prima: «Morte
a Khamenei», «morte al dittatore». Si era verificata un’inaspettata inversione
di ruoli: al posto del califfo Yazid c’èra la massima autorità dell’islam
sciita in Iran, la Guida Suprema della rivoluzione, l’ayatollah Ali Khamenei,
succeduto nel frattemo a Khomeini: il popolo-Hussein sfilava disarmato contro
di lui e il regime che rappresentava.

Quel giorno a Teheran e in altre città quindici vittime restarono
sulle strade dell’Iran-Karbala.

Maria Chiara Parenzo*

* Maria Chiara Parenzo, nome di fantasia,
vive tra l’Iran e l’Italia.

Archivio MC: Angela Lano, L’Ayatollah e
il presidente, Dossier, agosto-settembre 2013
.

            L’accordo sul nucleare              


Una vittoria di tutti

Quando l’attuale presidente dell’Iran, Hassan Rohani, è
stato eletto, il 14 giugno 2013, la gente si è messa a ballare per le strade.
Esprimeva, così, sia un senso di liberazione per essersi messi alle spalle gli
otto cupi anni della presidenza di Mahmud Ahmadinejad, sia la speranza che il
neoeletto presidente avrebbe portato l’Iran fuori dall’isolamento cui l’aveva
relegato la politica del suo predecessore. Tali, infatti, erano state le
promesse elettorali. Da anni una delle maggiori preoccupazioni degli iraniani
era il continuo peggioramento della situazione economica e uno dei mezzi per
invertire questa tendenza – lo sapevano tutti – era riaprire un dialogo con
l’Occidente sulla spinosa questione del nucleare.

Dal 2002, anno in cui era venuta alla luce l’esistenza di un
programma nucleare segreto, l’Iran è per l’Occidente un sorvegliato speciale.
Sebbene Teheran ne abbia sempre negato i fini militari, le sue reticenze nel
far conoscere gli effettivi progressi e l’entità del programma nucleare, le
reciproche diffidenze, alimentate da decenni d’inimicizia, hanno portato la
comunità internazionale a formulare un verdetto di presunta colpevolezza. Per
convincere la Repubblica Islamica a sospendere il processo di arricchimento
dell’uranio, tra il 2006 e il 2012 sono state adottate contro di essa diverse
misure sanzionatorie. Le sanzioni si sono inasprite dal 2010, causando in questi
ultimi anni una drammatica contrazione dell’economia. 

L’intenzione espressa da Rohani di cercare un dialogo con
l’Occidente ha trovato da subito conferma nella nomina a ministro degli esteri
di Mohammad Javad Zarif, formatosi nelle università americane, ambasciatore
dell’Iran alle Nazioni Unite dal 2002 al 2007 e abile negoziatore. Dallo scorso
agosto, data d’insediamento del nuovo governo, gli avvenimenti si sono
succeduti velocemente. A settembre c’è stata la storica telefonata tra Obama e
Rohani e a ottobre si sono aperti a Ginevra i negoziati tra l’Iran e i 5+1, i
paesi membri del Consiglio di Sicurezza, più la Germania. L’accordo è arrivato
il 24 novembre. Esso prevede la sospensione del programma nucleare iraniano per
sei mesi a fronte di un parziale alleggerimento delle sanzioni economiche
contro Teheran. Più che per la sua portata, come si vede alquanto circoscritta,
l’accordo è importante perché, come si auspica, prepara il terreno per più
consistenti trattative future. In Iran la riapertura del negoziato ha già avuto
ripercussioni positive sull’economia, con un abbassamento dell’inflazione e una
ripresa degli investimenti nel paese.

Ma anche la comunità internazionale ha tutto da guadagnare
dall’avvio di un vero processo di distensione. Solo i tradizionali alleati di
Washington in Medio Oriente: Israele, l’Arabia Saudita e gli altri stati arabi
del Golfo Persico, guardano con apprensione al fatto che Iran e Stati Uniti
abbiano ricominciato a parlarsi dopo anni di gelo, perché ciò potrebbe essere
foriero di un rimescolamento di equilibri nella regione.

M.C.P.
 

Maria Chiara Parenzo




Isaac & Cristina oggi sposi

Portfolio:


Matrimonio coreano tra tradizione e modeità


(Clicca su una delle due foto qui sotto per vedere la fotogallery completa)


Anyong, Corea del Sud,
9 ottobre 2013

Amici cari, il 9 ottobre 2013 ho partecipato al
matrimonio (foto 1) di
Kim Soo-jong Cristina e Park Da-un Isaac. Cristina è figlia di una coppia di
amici molto impegnati a sostegno della nostra presenza missionaria in Corea.

La mamma di Cristina, Gloria, mi ha chiesto di fare alcune foto
stile freelance e così è stato. Vi lascio le migliori. Il momento più
bello da fotografare è stato quello della cerimonia tradizionale. Vedrete perché…

Il matrimonio religioso è stato celebrato nella chiesa del
convento dei Francescani a Seul. Prima del matrimonio, in una saletta
riservata, la sposa, seduta come una regina, aveva accolto tutti gli invitati
alla celebrazione. Eccola allora con i suoi genitori e il fratello (foto 2) e con lo sposo,
i suoceri e il cognato (foto 3).

Poi è cominciata la messa. È usanza che le mamme degli sposi entrino assieme indossando i
vestiti tradizionali (foto 4). Di seguito entra la sposa con il papà. La cerimonia è stata
semplice e sobria. Presieduta da padre Lee Seung-yon Pedro, responsabile degli
scout nella diocesi di Seul (foto
5
). Sia Cristina che Isaac, infatti, sono scout.

Prima della preghiera finale, lo sposo ha cantato una canzone
romantica alla sposa… seguito da alcuni amici che ci hanno deliziati con una
musica vivace e con tanto buon umore. Gli sposi sono usciti dalla chiesa tra
due ali festanti di scout (foto
6-8
).

Ci siamo quindi recati nel wedding hall, una stanza del
convento attrezzata per le feste di matrimonio (tutte le parrocchie cattoliche
ne hanno una). Lì è iniziata la cerimonia tradizionale alla quale hanno
partecipato solo i familiari più stretti: nonni, zii, genitori e fratelli. La
sposa è stata preparata con i vestiti di una volta, quelli dei tempi degli
imperatori, e per lo sposo è stato lo stesso, naturalmente (foto 9 e 10).

Una volta pronti per la cerimonia, si sono seduti di fronte a un
tavolino (foto 11) sul quale era stato preparato tutto il necessario: i frutti di tetchu
(un frutto secco agrodolce) ben ordinati, castagne, pasticcini e frutta secca,
e il contenitore e le tazzine per il tjong-jong, il tipico liquore di
riso simile al sakè giapponese.

Tradizionalmente i primi a ricevere l’omaggio sono i genitori
dello sposo. C’è prima una riverenza solenne (foto 12).

Poi gli sposi servono il liquore. I genitori di lui (foto 13) a loro volta
fanno un bel brindisi non senza prima dispensare buoni consigli (foto 14).

E qui arriva la parte più interessante: i genitori lanciano castagne
e tetchu come augurio di
fertilità alla coppia.

La raccolta, in un bellissimo drappo di seta, è stata in questo
caso fruttuosa e benaugurante (foto
15
). è poi la
volta della nonna dello sposo con alcune zie (foto 16), che non risparmiano i loro severi
consigli.

Seguono i genitori della sposa: si ripete con loro il rito, dopo
la riverenza solenne (foto 17), dell’ascolto dei consigli e dell’offerta del liquore. La
tradizione vuole che solo i genitori dello sposo lancino i frutti secchi della
fertilità. Ed eccoli tutti felici e contenti (foto 18).

I fratelli di entrambi, più giovani degli sposi, hanno concluso le
visite. Si sono scambiati le tazze con il liquore e hanno brindato alla salute
e felicità degli sposi novelli. Anche loro hanno detto parole di auguri (foto 19).

Finalmente tutti se ne vanno e gli sposi terminano il rituale da
soli.

Si servono liquore e lo bevono in allegria (foto 20 e 21) … e
poi mangiano i tetchu, i frutti secchi che, con le castagne,
simboleggiano fertilità. Ogni frutto raccolto, un figlio! Per fortuna i
genitori di lei non hanno preso parte al lancio (foto 22).

La cerimonia conclusiva è simpatica. Lo sposo prende la sposa
sulle spalle e fa un giro nella sala (foto 23)… senza lasciarla cadere,
chiaramente (dopo tutto quel tjong-jong!).

Mi è già capitato di assistere a un matrimonio nel quale per poco
la sposa non «volava».

Prima di uscire, gli sposi fan vedere a tutti le buste che i
parenti più vicini hanno offerto loro, belle piene, perché sono i soldi per la
luna di miele. A giudicare dai sorrisi, sarà un’ottima luna di miele!

Una ultima foto ai due sposi novelli (foto 24) e ditemi un po’
se questi costumi tradizionali non sono uno splendore!

E perché non succeda come nelle storie di una volta nelle quali
tutti si divertono e il raccontastorie rimane dimenticato dietro l’uscio, ecco
una foto in cui ci sono anch’io (foto 25).

Il giorno dopo Isaac e Cristina sono partiti per la Thailandia in
luna di miele. I migliori auguri a loro e a tutti gli sposi novelli.

Alvaro Pacheco

Alvaro pacheco




Sulla pelle dei siriani

 


(La Siria) È uno dei pochi paesi mediorientali dove è stata possibile la convivenza tra etnie e fedi religiose diverse. Dove esiste una Costituzione, un governo laico e in cui la donna ha un ruolo paritario. Da oltre 30 mesi questo paese è sconvolto da eventi tragici. Un paese in cui vari stati stranieri – mediorientali e occidentali – stanno combattendo per i propri interessi e dove si sono moltiplicate le bande jihadiste, incontrollabili e molto pericolose. Mentre tutto si svolge sempre e soltanto sulla pelle dei Siriani.
 


Da oltre 30 mesi la Siria è sconvolta da tragici eventi. Per cercare di districarsi è importante capire cosa sia quel paese, come sia strutturato, quali siano le differenze con gli altri paesi del Medio Oriente, soprattutto di quelli che si sono schierati a fianco dei ribelli.

Fino a oggi la Siria ha garantito la convivenza tra almeno 7 etnie e 17 fedi religiose diverse. In Siria il governo (laico) non distingue i cittadini in base all’appartenenza etnica o religiosa.

Tra mille contraddizioni, errori, limiti e, in alcune fasi della storia siriana, anche durezze e repressioni feroci, per quarant’anni la Siria è riuscita ad essere questo. È riuscita a costruire una società con uno stato sociale minimo garantito (sanità, scuole, università), con un ruolo paritario della donna, con diritti civili e sociali superiori alla media dei paesi mediorientali. Se si fa un sintetico raffronto con i paesi dell’area, emergono dati e situazioni a dir poco sconcertanti.

Ecco chi sono i paladini della democrazia?

La domanda è: paesi come l’Arabia Saudita, il Bahrein, il Qatar, il Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti come possono ergersi a paladini della democrazia – armando e finanziando le bande criminali e terroriste che stanno insanguinando la Siria e la sua popolazione -, quando a casa loro tutto ciò che invocano e pretendono da Damasco è totalmente negato o inesistente?

Questi paesi, in prima linea con gli Stati Uniti e gli altri paesi occidentali (Gran Bretagna e Francia in primis), nell’attaccare – mediaticamente, politicamente e militarmente – la società siriana, a casa loro negano qualsiasi tipo di diritto civile minimo alle minoranze etniche, religiose e politiche e non solo alle minoranze.

Sono paesi dove la condizione della donna è ferma al medioevo. Da decenni, in Siria le donne sono ministri, medici, docenti, giudici e anche ufficiali dell’esercito, normalmente.

Sono paesi dove la fede religiosa può essere solo quella dei regnanti e le altre non possono essere dichiarate o praticate. In Arabia Saudita, il più grande e fedele alleato degli Stati Uniti e dell’Occidente in quell’area, il solo fatto di portare una croce al collo può essere causa di arresto. In Siria sono riconosciute e sostenute dallo stato 17 fedi diverse, persino la sinagoga ebraica di Damasco è stata ristrutturata con i contributi del governo.

Sono paesi dove le minoranze etniche non hanno alcun diritto civile e non sono riconosciute. In Siria da decenni 7 etnie hanno medesimi diritti e doveri, e ogni cittadino è uguale davanti alla legge. La struttura statale è fondata su una rigida ripartizione delle cariche e dei funzionari. Per esempio, il 62% dei medici, degli ingegneri, dei giudici, degli insegnanti, sono sunniti, il 12% sono cristiani, il 7% alawiti, e poi armeni, curdi, drusi. Identica divisione percentuale si ha nell’esercito siriano.

Sono paesi dove i diritti sociali di lavoratori e immigrati non sono minimamente riconosciuti o praticabili. In questi paesi orari di lavoro, paghe, contratti, sicurezza sono a discrezione dei vari sceicchi e padroni, e, ove siano reclamati, si va incontro all’accusa di sedizione e sovversione, o al carcere. In Siria esistono vari sindacati di settore, legalmente riconosciuti con relativi diritti e relative proteste. Sono paesi dove non esistono opposizioni politiche e dove, come accaduto in Arabia Saudita o in Bahrein, pacifiche dimostrazioni popolari vengono schiacciate nel sangue da feroci repressioni con decine di morti nelle piazze, migliaia di arresti e decine di condanne a morte,  coprifuoco per settimane. In Siria qualsiasi manifestazione pacifica e non armata è legale; da sempre esiste una opposizione politica legale al governo, esistono partiti politici (anche due partiti comunisti), non allineati e critici al governo. E dopo la riforma del 2012 ci sono diciotto partiti nuovi legalizzati e nell’attuale governo del presidente Bashar al-Assad, due ministri appartengono all’opposizione.
Sono paesi dove il diritto allo studio, a essere curati, a migliorare la propria condizione sociale è esclusiva delle famiglie dei funzionari dello stato e dei clan regnanti, o discende dall’appartenenza alla fede religiosa dominante. In Siria ogni cittadino parte dalle stesse possibilità, qualsiasi sia la sua etnia, la sua fede religiosa, il suo ceto sociale.

Da ultimo, un aspetto che, se non avesse risvolti tragici, sarebbe comico: l’Arabia Saudita chiede modifiche e riforme della Costituzione siriana quando in quel paese non esiste una costituzione!

Ma c’è un altro paese dell’area mediorientale che sta fomentando questa guerra ed è storicamente coinvolto da oltre sessant’anni in tutti i conflitti di quell’area: Israele. Un paese che con forza e arroganza chiede il disarmo delle dotazioni chimiche dell’esercito siriano (in sè una cosa giusta, se valesse per tutti), ma che possiede ufficialmente – senza che alcun paese importante osi protestare – armi nucleari, armi di distruzione di massa e chimiche. Un paese che invoca il rispetto dei diritti umani in Siria, ma che ha la possibilità del cosiddetto «arresto amministrativo», la possibilità cioè di detenere una persona anche senza accuse specifiche, e che in questi decenni ha portato centinaia di migliaia di cittadini (ovviamente palestinesi) nelle carceri israeliane come forma di prevenzione. Un paese che ha la tortura legalizzata e praticata normalmente.

Insomma, viene da dire: da che pulpiti provengono le morali dirittumaniste per la Siria!

Le parole della minoranza cristiana e del Papa

Mons. Giuseppe Nazzaro, francescano, ex vicario apostolico di Aleppo, racconta: «Per come io la conosco, la Siria era il paese islamico più democratico di tutto il Medio Oriente (…). Quello che mi sta a cuore è che in Europa si sappia bene che cosa sta succedendo qui e in tutto il Medio Oriente e per colpa di chi. Questa è soprattutto una guerra di commercio. Siamo in una nuova colonizzazione che si traduce così: “Io vi dò le armi, voi vi autodistruggete e poi vengo io a ricostruire tutto”».  

«Io lancio un allarme per tutta la situazione che siamo obbligati a vivere oggi. I potenti della terra che l’hanno causata, la devono smettere, la devono finire. Noi stavamo benissimo. Vivevamo in pace. Ci hanno portato una guerra che è diventata guerra fratricida, che sta distruggendo un paese che era bellissimo, ricco di storia, ricco di civiltà».  

Un discorso che viene confermato dalla testimonianza di padre Daniel Maes, sacerdote cattolico belga del Monastero S. Giacomo di Qara: «Qualche anno fa, quando siamo venuti in Siria, non abbiamo incontrato una società politica perfetta, ma abbiamo incontrato una società prospera e sicura, e abbiamo anche sperimentato l’uguaglianza di tutti i gruppi religiosi.
C’era la libertà di religione, l’ospitalità e una sana e serena vita di famiglia. Nella vita pubblica, discriminazioni, furti e criminalità erano sconosciuti.
All’improvviso sono apparse le atrocità più orribili. Si massacra, si saccheggia e ci sono attentati in tutto il paese. Quella società abbastanza armonica si è trasformata in un incubo. I villaggi cristiani circostanti sono stati distrutti e tutti i fedeli che potevano essere catturati sono stati uccisi, secondo una logica di odio settario. Per decenni cristiani e musulmani hanno vissuto in pace in Siria. Il fatto che bande criminali possano scorrazzare e terrorizzare i civili, questo non è contro le leggi internazionali?… I giovani sono delusi, perché le potenze straniere dettano loro l’agenda. I musulmani moderati sono preoccupati, perché salafiti e fondamentalisti vogliono imporre una dittatura totalitaria di stampo religioso.
I cittadini sono terrorizzati perché vittime innocenti di bande armate». Parole isolate? Non proprio se anche Papa Francesco, durante l’Angelus dell’8 settembre 2013, ha detto: «Sempre rimane il dubbio se questa guerra di qua o di là è davvero una guerra o è una guerra commerciale per vendere queste armi o è per incrementare il commercio illegale. (…) Preghiamo perché cessi subito la violenza e la devastazione in Siria e si lavori con rinnovato impegno per una giusta soluzione del conflitto fratricida… Dire no all’odio fratricida e alle menzogne di cui si serve, alla violenza in tutte le sue forme, alla proliferazione delle armi e al loro commercio illegale. Questi sono nemici da combattere uniti e con coerenza, non seguendo altri interessi se non quelli della pace e del bene comune».

Trame e registi occulti (o indicibili)

Un’altra domanda da porsi è: chi sta dietro questa guerra? chi sono i registi occulti? Un dato emerge chiaramente: questa guerra è parte di disegni, strategie di cui la Siria è solamente un tassello, in realtà la partita si gioca su tutto il Medio Oriente nel suo insieme. Quella che segue è una sintetica e parziale documentazione, ma dà notevoli elementi di riflessione.

• Nel febbraio 1982 viene pubblicato A Strategy for Israel in the Nineteen Eighties, un saggio di Oded Yinon, allora alto funzionario del ministero degli Esteri di Israele, dove si indica un progetto strategico di disgregazione e frammentazione dell’intero Medio Oriente e paesi arabi, in parti le più minuscole possibili, fomentando e favorendo conflittualità su basi etniche e religiose, fino allo smantellamento di tutti gli stati vicini o ostili a Israele. Nell’articolo si indicano nello specifico, persino descrivendo le province e regioni di ciascun paese, dal Libano all’Iraq, dall’Egitto alla Siria, con Libia compresa. Per la Siria si descriveva – siamo nel 1982 – come andasse disgregata: dividerla su basi etnico-religiose in più stati (sulla costa uno stato alawita e sciita, nella regione di Aleppo sunnita, nella regione del Golan druso, eccetera). «Questo progetto è l’obiettivo prioritario di Israele a lungo termine, a breve nel frattempo l’obiettivo è la dissoluzione militare di questi stati (…). È un progetto alla nostra portata».

• Il 15 settembre 2001, a Camp David, subito dopo gli attentati alle Torri gemelle, dall’amministrazione Bush vengono pianificati una serie di attacchi: Afghanistan, Iraq, Somalia, Sudan, Libia e infine Siria e Iran. Lo rivela pubblicamente il generale Wesley Clark, a capo di una cordata di alti ufficiali che ritengono non sia interesse degli Usa fare queste guerre, sostenute da lobby filo-israeliane negli Stati Uniti. • Il 15 marzo 2005, il Washington Institute for Near East Policy (www.washingtoninstitute.org), un ramo molto influente della lobby israeliana, detta una strategia per la Siria, indicata da Robert Satloff, l’ebraico direttore dell’Istituto, che consigliava tre tipi di azioni:
1) la raccolta del massimo di informazioni sulle contraddizioni sociali ed etniche dentro la Siria;

2) cominciare ad agitare campagne sui temi della democrazia, dei diritti umani, sullo stato di diritto;

3) non offrire al regime siriano alcuna via d’uscita, a meno che Assad non sia disposto a recarsi in Israele per negoziare, o non espella tutte le forze anti-israeliane da lui protette e non rinunci alla «resistenza nazionale».

• Nel dicembre 2003 il Congresso Usa approva il Syrian Accountability Act, che dà il mandato al presidente Bush di preparare l’attacco alla Siria.

• Nel 2006 relazioni pubblicate da ex agenti dei Servizi segreti francesi, definiscono la politica statunitense in Medio Oriente fondata sulla «instabilità costruttiva», una strategia che, come essi dicono, «posa su tre principi: creare e gestire conflitti a bassa intensità, favorire lo spezzettamento politico e territoriale dell’area e promuovere il settarismo e la pulizia etnico-confessionale».

• Il 5 marzo 2007 sul New Yorker, Seymour Hersch rivela che Stati Uniti, Israele, Arabia Saudita, Fratellanza musulmana siriana e Hariri in Libano, hanno costituito, finanziato e armato frange di estremisti e fondamentalisti qaedisti per rovesciare la Siria e il Libano. 

Si potrebbe, anzi si dovrebbe, continuare con altri attori e burattinai occulti, di solito nascosti dietro fondazioni o istituti di ricerca nonprofit. Come il Canadian Centre for Responsibility to Protect  (www.ccr2p.org), l’Albert instein Foundation (www.aeinstein.org), la Freedom House (www.freedomhouse.org), l’Inteational Republican Institute (www.iri.org), il National Democratic Institute (www.ndi.org), la National Endowment Democracy (www.ned.org), o la lobby saudita dei Sudairi, ecc. Ma sarebbero necessarie molte più pagine di quelle disponibili.

La disinformazione strategica

Per poter perseguire questi obbiettivi vi è un’arma senza la quale, come stabilì il dipartimento di Stato Usa, non si possono più vincere le guerre: è la cosiddetta «Quarta Armata», la Disinformazione Strategica. Quella scienza cioè, che prepara, manipola, falsifica, occulta, inganna e orienta le opinioni pubbliche internazionali (a dire il vero, soprattutto quelle occidentali). Una vera e propria guerra mediatica scatenata contro popoli e paesi con le loro leadership, da aggredire e conquistare poi con le armi, anzi con le «guerre umanitarie».

La «Quarta Armata» funziona sulla base di uno schema ormai collaudato negli ultimi vent’anni, e con meccanismi di dispiegamento quasi fissi, passaggio dopo passaggio. Essa consiste in una serie di fasi:

• Una campagna mediatica martellante e incessante di Tv, giornali, radio, siti web, sui temi dei diritti umani, della democrazia, del regime, dei diritti di opposizioni ininfluenti o residenti all’estero, di minoranze etniche oppresse non sufficientemente tutelate. Una comunicazione ossessiva su quanto siano democratiche le forze di opposizione e la cosiddetta società civile, le Ong create ad hoc e su quanto sia importante finanziare questi attori per lottare contro il regime.

• Si passa poi a sanzioni ed embarghi contro i governi che non collaborino o non siano disponibili ad accettare i diktat.

• Terzo passaggio è la demonizzazione e criminalizzazione scientifica e incessante dei leader, dei partiti, forze locali «renitenti o recalcitranti», o non disponibili a svendere la loro politica e gli interessi nazionali o indipendenti. Nel mentre, se nel paese cominciano insorgenze militari, si inizia a paventare la «minaccia e la necessità di un intervento» o l’apertura di «corridoi umanitari e no fly zone».

• Scatta l’aggressione militare, naturalmente sotto la veste di  «guerra umanitaria», per portare democrazia e libertà in quel paese, e difendere i diritti umani.   Il paese recalcitrante viene occupato militarmente e affidato alle forze «nuove» garanti di un nuovo sistema libero e democratico come Al Qaeda in Libia o personaggi alla Quisling (nome di un noto collaborazionista norvegese, ndr) screditati dalle popolazioni locali (come Karzai in Afghanistan o Chalabi in Iraq), se non mafiosi (come in Kosovo). Nel frattempo le risorse di quel paese passano sotto la «tutela» delle varie multinazionali occidentali e vengono installate basi militari Nato o Usa.

Come abbiamo cercato sinteticamente di spiegare, l’uso dei media e della guerra mediatica per assopire le opinioni pubbliche occidentali, sono fondamentali e imprescindibili nel nostro tempo per qualsiasi aggressione e conflitto. Pensiamo quali tragedie umane e sociali e quali conseguenze hanno prodotto le ultime guerre umanitarie in Somalia, Afghanistan, Iraq, Kosovo, Libia. Sarà lo stesso per la Siria?

Preservare popoli, culture e fedi 

È necessario sottolineare e ribadire che a
essere contro la guerra in Siria e a chiedere la fine dell’aggressione, dell’ingerenza delle potenze occidentali e delle violenze delle milizie qaediste, non si difende un partito, un presidente, una ideologia, una fazione. Agendo così si difende la realtà di un popolo, di una società, di un sistema politico e sociale, fondati sulla laicità dello stato, la multireligiosità, la multietnicità, la multiculturalità. Si difende, in altri termini, la ricchezza di un mosaico di popoli, culture e fedi millenarie, l’equilibrio di un sistema unico in tutta l’area mediorientale.

Nell’essere dalla parte della Siria e del suo popolo, si stabilisce che il presidente Assad e il governo siriano sono e devono essere un problema dei siriani che vivono in quel paese. Scelte e decisioni sul presente e sul futuro di quel paese spettano soltanto a loro.

EnricoVigna*

(*) Enrico Vigna è presidente di «Sos Yugoslavia Onlus», associazione di solidarietà che, a dicembre 2012, ha ricevuto a Belgrado il «Premio Novosti», il più alto riconoscimento della Serbia. È autore di numerosi saggi. Il suo ultimo lavoro è: Le Chiese d’Oriente e il “regime” siriano, prefazione di padre Haddad, Zambon Editore, Francoforte 2013 (www.zambon.net).

 

 


INTERVISTA _____________________________________________

Incontro con mons. Haddad della Chiesa cattolica greco-melchita


Il paese strappato e la guerra importata

Il mosaico religioso della Siria è stato infranto da una guerra importata. Mercenari pagati dai paesi sunniti (Arabia Saudita, in primis) e armati dai paesi occidentali (Stati Uniti e Francia in testa), stanno distruggendo l’unico paese arabo in cui la convivenza interconfessionale era una pratica quotidiana, l’unico dotato di una Costituzione laica. Da quest’intervista esce un quadro molto diverso da quello dipinto dalla maggior parte dei media internazionali.

A Roma mons. Mtianos Haddad è rettore della Basilica di Santa Maria in Cosmedin. La chiesa sorge in piazza Bocca della Verità. Proprio sotto il portico della chiesa è collocato – dall’anno 1632 – il notissimo mascherone in marmo dove tutti introducono la mano per dimostrare che non mentono. «E anch’io oggi dirò la verità, signor Paolo», aggiunge con un sorriso il prelato (*). Siriano, archimandrita della Chiesa cattolica greco-melchita a Roma, mons. Haddad appare come una persona pacifica e gioviale, ma con idee molto chiare sull’«amata Siria», un paese dilaniato da una guerra importata da siriani espatriati e da gruppi islamici foraggiati dai soldi di alcuni paesi sunniti (in primis, Arabia Saudita e Qatar) e dalle armi vendute dai paesi occidentali.

Mons. Haddad, la Siria è un paese dalle molte confessioni religiose.

«La Siria è una culla della cristianità. I cristiani e gli ebrei sono lì da ben prima dell’islam. Dopo 600 anni sono arrivati anche i musulmani. Un mosaico religioso, ben vissuto e ben accettato, che è diventato una ricchezza. Prima di questi ultimi 32 mesi, “maledetti” (mi scuso del termine, ma è così), la Siria era un esempio della convivenza e convivialità tra cristiani (cattolici, ortodossi, protestanti), musulmani e comunità ebraiche. Come prova di quanto affermo, ricordo che, da tanti anni, il governo ha cancellato la voce “religione” dalla carta d’identità, cosa impensabile negli altri paesi arabi. Così, al momento di iscriversi all’Università, nessuno ti chiederà quale sia la tua fede. Ma c’è di più. Nelle scuole pubbliche, che sono gratuite, pure le differenze sociali tra ricchi e poveri sono state azzerate introducendo per ogni studente la stessa uniforme. Anche in questo modo il governo ha aiutato tutti noi a essere semplicemente cittadini siriani. Io sono orgoglioso di essere siriano».

Si potrebbe però obiettare che le decisioni di governo sono prese da un solo partito…

«Con tutte le cose che possiamo dire sul Bath – partito unico, dittatore e altro -, dobbiamo ammettere che esso ha dato stabilità alla Siria. Ricordo che Michel Aflaq (1910-1989, ndr), il suo fondatore, era un cristiano. Egli riteneva che con un unico partito laico si sarebbe potuti andare oltre le differenze dell’appartenenza religiosa. Ricordo che, prima dell’avvento del Bath, la vita media di un governo non superava gli 11 mesi. Oggi si protesta contro la lunga permanenza al potere di Assad, dimenticandosi che in Germania Angela Merkel è appena stata eletta per il terzo mandato».

Dal marzo 2011 in Siria c’è un conflitto. Come spiegarlo?

«Hanno iniziato a dire che in Siria era arrivata la primavera araba e che il governo doveva andarsene. Vediamo cos’è successo negli altri paesi. In Egitto, si è tornati a prima della primavera: un fallimento. In Iraq, la maggior parte della popolazione e delle minoranze rimpiange i tempi del dittatore. I giornali non ne parlano più, ma la pace di oggi costa (almeno) 60 vittime al giorno. In Libia, la liberazione è costata migliaia di morti e adesso il paese è diviso tra tribù. Io come cristiano non posso andare in Arabia Saudita con la bibbia e con la croce. In quel paese le donne non possono neppure guidare un’automobile! L’esempio della Siria era pericoloso per i paesi del Golfo. Pertanto, hanno cominciato a lavorare per distruggere il modello siriano. E non dimentichiamo la confinante Turchia. Quando era in amicizia con Israele, era contro la Siria. Poi, dopo l’incidente della “Freedom Flotilla per Gaza” (maggio 2010, ndr), i due paesi si sono riavvicinati. Adesso le cose sono di nuovo cambiate, dato che Erdogan sogna di far rivivere il califfato ottomano».

Per questo lei parla di una guerra importata…

«Per abbattere il governo sono arrivati in Siria combattenti jihadisti da 17 paesi! Si parla di 80-100 mila uomini armati stranieri nel paese. Sono mercenari, jihadisti per vocazione o fanatici. Un esempio. Sono arrivati nella bellissima Aleppo, città di cultura e commerci, e si sono impossessati di un quartiere. Ebbene, questi personaggi hanno imposto la sharia nella zona conquistata. Hanno usato le persone come scudi umani, hanno ucciso bambini davanti ai familiari. Altri fanatici jihadisti hanno attaccato (settembre 2013, ndr) il villaggio cristiano di Malula1».

Abbiamo parlato dei paesi arabi. Vediamo adesso il comportamento dei paesi occidentali.

«È stato negativo. Si pensi alla Francia. È andata in Mali a combattere al-Qaeda. Adesso la stessa Francia vuole abbattere – assieme ad al-Qaeda – il governo siriano. Dunque, per Parigi al-Qaeda è un diavolo in Mali e un santo in Siria. Dato che non può essere così, è evidente che si tratta soltanto di una questione di interessi. Vediamo ora gli Stati Uniti, che predicano la democrazia dei popoli. Perché vanno contro un governo eletto dal popolo siriano? E infine non dimentichiamo Israele».

Già, non possiamo dimenticare Israele…

«Prima di tutto, io voglio distinguere tra lo stato di Israele e la popolazione ebraica. In Siria, l’ho già ricordato, viviamo bene con le comunità ebraiche. Se gli Stati Uniti vogliono essere gli arbitri o i garanti della giustizia internazionale, allora debbono occuparsi anche del popolo arabo palestinese, privo dei suoi diritti dal 1948. Questa ingiustizia è una spina nel fianco di tutto il mondo arabo. Israele e gli Stati Uniti ne sono responsabili. Ma c’è dell’altro. Perché non si parla mai del nucleare israeliano? Perché non si parla delle emissioni radioattive della centrale di Dimona2?».

Mons. Haddad, diciamo due parole anche sui paesi più vicini alla Siria
come la Russia e l’Iran.

«La Russia è sempre stata legata alla Siria per questioni strategiche e commerciali (il grano e il gas, ad esempio). L’Iran – vedendo questa coalizione di paesi sunniti contro la Siria –  ha pensato di aiutare Assad per riequilibrare la situazione nella regione. Un esempio tra i tanti possibili: l’ex presidente egiziano Morsi, esponente dei Fratelli musulmani, ha fatto chiudere l’ambasciata siriana al Cairo (giugno 2013, ndr)».

Lei nega che quella siriana sia una guerra tra sunniti e sciiti.

«Certamente. In Siria abbiamo tra il 60 e il 65 per cento di sunniti. Hanno il 60 per cento dei posti nell’amministrazione e nell’esercito oltre che una parte rilevante della ricchezza. Se fosse stata una guerra tra sunniti e sciiti, il governo di Assad avrebbe potuto resistere soltanto alcune settimane».

Come sono le relazioni con il Libano dopo i conflitti degli anni passati?

«È una bella storia di vicinanza. La Siria ha bisogno del Libano per accedere al mare, al tempo stesso il Libano ha bisogno della Siria. La guerra iniziò da uno scontro con i palestinesi (aprile 1975, ndr) e poi da alcuni comportamenti dell’esercito siriano che era andato lì per ripristinare la pace. Quel conflitto si trasformò in una trappola per Damasco, come quando fu accusata di aver ucciso il primo ministro Hariri (14 febbraio 2005, ndr). Tuttavia, i nostri popoli sono rimasti in ottimi rapporti come dimostrano i numerosi matrimoni tra cittadini dei due paesi. Durante la guerra in Libano molti si rifugiarono in Siria, mentre adesso avviene il contrario».

Chi sono i ribelli? E soprattutto chi sono i loro capi che parlano dalle capitali europee?

«Abbiamo già detto che la quasi totalità dei combattenti non sono siriani. Poi ci sono alcune persone che hanno lasciato la Siria perché avevano problemi con il governo (per esempio, non volevano fare il servizio militare) e che sono fuori del paese da oltre 20 anni. I loro figli neppure sanno dove sia la Siria! Io non li giudico (molti di loro hanno lasciato il paese per la paura – legittima – delle guerre), ma vogliono decidere le sorti del paese senza averne più diritto.

Io rispetto l’opposizione siriana che dialoga con il governo per cambiare le cose, ma non quella che chiede l’intervento di eserciti stranieri per colpire il paese. Questo è un tradimento. Questi personaggi (che spesso vivono in hotel a 5 stelle) non mi rappresentano. Adesso sono stati chiamati a partecipare alla conferenza di “Ginevra 2”3, ma non ci vogliono andare perché pretendono di imporre le loro condizioni. Il governo al contrario non ne ha poste. A Obama hanno dato il premio Nobel della pace prima che facesse qualcosa. Vediamo se adesso saprà meritarselo».

Dell’opposizione siriana non armata si parla poco. Ci dica lei qualcosa al riguardo.

«Nell’attuale governo di Damasco ci sono 2 ministri dell’opposizione siriana pacifica. Uno è ministro della riconciliazione4. È una dimostrazione della serietà del governo, che vuole ascoltare i bisogni dei suoi cittadini, lavorando per la pace. Anche la Costituzione è stata cambiata: nell’articolo 8 non si parla più di partito unico».

Il presidente Assad viene quasi sempre dipinto come un dittatore sanguinario e senza scrupoli.

«Assad non è nato nell’esercito. È un uomo di cultura, che parla bene le lingue. È un medico oculista. È un uomo che rimane umile anche nella sua vita personale. Quando fummo ricevuti come rappresentanti della Chiesa melchita, ci salutò uno a uno dialogando con ognuno. È un presidente laico e di fede. Va a pregare nelle festività musulmane, va a porgere gli auguri ai patriarchi5 nelle festività cristiane. È stato detto che Assad ha accettato la soluzione sulle armi chimiche perché ha avuto paura. E se invece fosse soltanto un uomo di buona volontà? Per questo e altro Assad è un presidente che non può fare paura».

Come si fa per uscire da questa situazione di guerra e ricostruire un paese distrutto.

«La prima cosa è chiedere l’aiuto dell’Onu. La seconda è rispedire a casa ogni jihadista affinché nel paese rimangano soltanto i siriani».

Un bel proposito, ma come fare per realizzarlo?

«Occorre chiudere i rubinetti: quando non arriveranno più soldi, i jihadisti se ne andranno. Agli oppositori non armati che chiedono cambiamenti va ripetuto: parliamoci. Adesso i siriani hanno perso la fiducia. Occorre riconquistarla. Senza armi sarà molto più facile arrivare a una riconciliazione. Una riconciliazione che sia fondata sulla giustizia e sulla dignità».

 Paolo Moiola
Note

1 – Il villaggio siriano di Malula è molto noto in quanto vi si parla ancora l’aramaico, lingua antichissima diffusa nel Medio Oriente prima di essere soppiantata dall’arabo.
2 – La centrale di Dimona è anche famosa per l’incredibile vicenda di Mordechai Vanunu, il tecnico rapito e imprigionato per aver osato svelare i segreti del nucleare israeliano.
3 – Conferenza di pace sulla Siria alla presenza di Onu, Usa e Russia.
4 – Ali Haidar, medico, è stato nominato ministro per la riconciliazione nazionale nel giugno 2011, pochi mesi dopo lo scoppio della guerra.
5 – La capitale siriana Damasco ospita i patriarchi di alcune chiese cristiane, sia cattoliche che ortodosse.

(*) Questa intervista – riprodotta soltanto nei suoi passaggi essenziali – nasce da due incontri con mons. Haddad. Il secondo di questi è integralmente visibile su YouTube (clicca qui).

Gli anti-Assad

Esercito siriano libero: nato nel luglio 2011, è stata la prima formazione anti-Assad, ora molto indebolita dalle defezioni.
Esercito islamico: il Jaysh al-Islam è nato a fine settembre 2013, include 43 gruppi islamisti.
Alleanza islamica: nato a metà settembre 2013, include 13 gruppi islamisti, tra cui il Jabhat
al-Nusra e Ahrar al-Sham.
Consiglio nazionale siriano: nato nell’agosto 2011, è un’autorità politica anti-Assad con sede
a Istanbul.

Sponsors politici e/o finanziari degli anti-Assad:

Paesi sunniti mediorientali (Arabia Saudita, Qatar, Turchia), Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Israele.

Fonti mediatiche anti-Assad:

Osservatorio siriano per i diritti umani (Londra), al-Jazeera (Qatar), al-Arabiya (Arabia Saudita).

L’OPINIONE_________________________________

La Chiesa Ortodossa Russa: Una «sinfonia» contro i fanatismi

La Chiesa ortodossa russa non è solo la più grande delle Chiese ortodosse nel mondo, ma anche quella che storicamente non è mai stata sotto una dominazione musulmana. Questa combinazione le ha permesso lungo i secoli di difendere gli interessi dei cristiani ortodossi perseguitati, in particolar modo quelli del Medio Oriente. Oggi, il sostegno al popolo siriano, espresso attraverso la preoccupazione per la minoranza cristiana a rischio in Siria, trova le dichiarazioni dei portavoce del patriarcato di Mosca e dello stato russo tanto concordi che è difficile distinguere da chi vengano gli appelli, nonostante negli ultimi anni ci sia stata una coerente pratica di non interferenza nelle rispettive sfere di competenza: si vede qui realizzato il principio di «sinfonia» tra Chiesa e Stato che ha caratterizzato per oltre un millennio l’Impero romano (il riferimento è all’Editto di Tessalonica del 27 febbraio 380 con cui si proclama il cristianesimo niceno religione ufficiale dell’Impero, ndr). Le campagne di raccolte di aiuti per i cristiani in Siria nelle chiese ortodosse del Patriarcato di Mosca, e le prese di posizione del governo russo per scongiurare un intervento armato straniero in territorio siriano (nonché l’appoggio statunitense a bande di ribelli islamisti che di siriano non hanno nulla) sono ben più di un’alleanza per fini politici comuni: sono un esempio di rappresentazione della volontà popolare che avrebbe qualcosa da insegnare alle nostre «democrazie».

L’accordo tra leader di stato e di fede è ancor più sorprendente quando si pensa che da poco più di un ventennio la Russia è uscita da una lunga esperienza di ateismo di stato. Curiosamente, la diffidenza verso il fanatismo di matrice musulmana sembra andare di pari passo con la diffidenza verso il fanatismo laicista nel mondo occidentale. La Russia un tempo ufficialmente atea dimostra un grado di democrazia maggiore di quello del mondo cosiddetto libero, rispettando la volontà della stragrande maggioranza della popolazione più di quanto facciano i regimi occidentali, sia in tema di intervento militare (che vede l’opposizione di una maggioranza della popolazione in tutti i paesi), sia in tema di introduzione di false leggi di «tolleranza», forme di suicidio anti-cristiano non sostenute dalle popolazioni locali, sia in Russia che in Occidente.

Padre Ambrogio , Chiesa ortodossa russa di Torino (*)

(*)  Padre Ambrogio (al secolo Andrea Cassinasco) è dal 2001 il parroco della chiesa ortodossa del Patriarcato di Mosca a Torino. Il Patriarcato di Mosca (noto anche con il nome di Chiesa ortodossa russa) è rappresentato in Italia da oltre una cinquantina di parrocchie e comunità. Sito web: www.ortodossiatorino.net.

 



Sotto il cielo di Corumbá

 


Nella cittadina brasiliana di Corumbá un missionario salesiano, nativo del Veneto, ha fondato un’organizzazione che segue neonati, bambini e ragazzi di famiglie bisognose. Da 0 a 18 anni, centinaia di giovani entrano nelle tre strutture di padre Pasquale Forin. Per crescere attraverso il gioco, l’istruzione e una sana alimentazione. Un’organizzazione efficiente che vive grazie al volontariato e alle donazioni internazionali. E alla perseveranza del suo fondatore. Ecco cosa abbiamo visto e cosa lui ci ha raccontato.

 

Corumbá. Ci avviciniamo a una fermata di mototaxi. Fa caldo, caldissimo. «No, oggi non è
caldo», ci spiegano i conduttori. Prima di infilare il casco, proviamo a convincerci che hanno ragione loro. Partiamo.

Sulla scia di Ernesto Sassida

Le strade di Corumbá, cittadina di 100 mila abitanti nello stato brasiliano del Mato Grosso del Sud, sono comode e poco trafficate. Le moto avanzano veloci.
Passiamo davanti alla Citade Dom Bosco, la Città Don Bosco, una grande struttura – comprende scuole, centri ricreativi e assistenziali – fondata da padre Ernesto Sassida, salesiano sloveno scomparso nel marzo 20131. Sulla stessa Rua Dom Aquino sta la parrocchia São João Bosco, nostro luogo di destinazione. La chiesa è una costruzione moderna, semplice ed elegante ad un tempo. Davanti all’ingresso campeggia un grande quadro con il volto inconfondibile di san Giovanni Bosco. Ci accoglie il parroco. Lui si chiama Pasquale Forin, missionario salesiano nato nella provincia di Padova, «ma – precisa – con familiari in Piemonte, a Nizza Monferrato e Alessandria». Veneto o piemontese poco importa ormai: padre Pasquale è in Brasile da 53 anni e a Corumbá da 26.
Corumbá è sorta a lato del fiume Paraguay e del Pantanal, una grande pianura alluvionale dalle caratteristiche uniche (leggere riquadro). «Forse a causa delle mie origini contadine – spiega padre Pasquale -, fin dal mio arrivo ho sempre accompagnato il cammino delle comunità rurali del Pantanal». Il missionario segue gli insediamenti contadini per un totale di 1.500 famiglie, comprese quelle degli indigeni guató. L’appoggio va dall’assistenza legale per difendere la terra dagli appetiti altrui fino al microcredito.
Basterebbe il lavoro svolto con le comunità rurali per qualificare come fuori dell’ordinario l’opera del salesiano. Ma esso non è che un aspetto della sua attività. Con la parrocchia padre Pasquale ha dato vita a tre progetti: un ospedale diurno per bambini denutriti (Casa de Recuperação infantil padre Antonio Müller, Cripam); un centro di doposcuola per ragazzi dai 7 ai 18 anni (Centro de Apoio Infanto Juvenil, Caij); una struttura per bambini abbandonati (Casa Irma Marisa Pagge). Per capirne la portata occorre visitarli.

 

Via dalla strada, via dalle tentazioni

Il bairro (quartiere) si chiama Cristo Redentor. Il Caij è in un’ampia costruzione circondata da mura color verde pallido.
«Non è una scuola – ci spiega padre Pasquale -, ma un centro d’accoglienza per ragazzi dai 7 ai 18 anni provenienti da famiglie povere e con problemi. Arrivano da noi quando non c’è scuola. È un modo per evitare che stiano sulla strada, dove ci sono molti pericoli, soprattutto quelli legati alla droga (consumo e spaccio). Come in tutto il Brasile, anche qui si può comprare una dose di crack, maconha o cola con un solo real2».
Il Caij ospita 560 ragazzi, a cui viene offerto tutto: lo svago, i pasti, l’assistenza. E poi un aiuto scolastico in accordo con gli istituti. Un impegno notevole, come dimostrano le 30 persone che vi lavorano.
Entriamo. Una targa affissa al muro ricorda che il padiglione del Caij è stato costruito con risorse provenienti da Spagna, Italia, Slovenia e Belgio.
Le aule sono state costruite attorno a un campetto sportivo, protetto da una copertura e dotato anche di una piccola tribuna. È occupato da un folto gruppo di ragazze e ragazzi che, divisi in gruppi, stanno gareggiando accompagnati dal sottofondo musicale regalato da un’orchestrina. «Gli istruttori sono ragazzi cresciuti qui dentro, che ora sono diventati volontari», spiega padre Pasquale.
Entriamo nel refettorio. La cucina è divisa dalla sala mensa da un semplice muretto. Tre donne – Maria, Cristiane e un’altra Maria – stanno preparando il cibo per l’imminente pranzo. Tutto è ordinato e pulitissimo. Sui fornelli, posti al centro della cucina, bollono alcune pentole: carne, verdure, gli immancabili fagioli. Una cuoca è intenta a spellare cipolle e spicchi di aglio. Un’altra sta preparando un impasto. «Se vuoi punire un ragazzo, digli che andrà a casa senza pranzo» racconta sorridendo padre Pasquale. Il comune di Corumbá offriva il cibo fino a gennaio 2013, poi ha smesso per – così è stato spiegato – problemi di bilancio.
Accanto al Caji, c’è la struttura del Cripam. Si tratta di un ospedaletto diurno per minori denutriti da 0 a 6 anni. Uno dei pochi esistenti in Brasile.
Entriamo in una stanza dove ci sono una quindicina di bambini, alcuni dei quali con problemi psicomotori. Stanno giocando sotto lo sguardo vigile delle maestre. «Andiamo a prenderli ogni mattina con un pullmino. E la sera li riportiamo alle loro case» spiega padre Pasquale.
Nelle stanze a fianco, disposte in file ordinate, ci sono una trentina di culle di colore bianco. Ventilatori al soffitto, pareti rallegrate con disegni colorati, giochi. Non manca nulla.
È ora di mangiare. Le maestre mettono i più piccoli sui seggioloni e i più grandicelli sulle sedie attorno al tavolo. Un paio debbono essere presi in braccio a causa dei problemi fisici.
Prima di uscire, c’è tempo per un’altra sorpresa. Scopriamo che in una sala si preparano gelati. «È un modo per autofinanziarci», spiega padre Pasquale. I gelati si chiamano Sabor da solidariedade, il sapore della solidarietà.

 

Volontarie

L’ultima tappa del nostro tour all’interno dell’organizzazione fondata da padre Pasquale è alla Casa Irma Marisa Pagge, così chiamata in ricordo di una suora italiana dell’Operazione Mato Grosso3. Come le precedenti, anche questa è una bella costruzione, con tre case indipendenti collegate da un giardino molto curato, con alberi in fiore e altalene.

Nella struttura sono ospitati bambini da 0 a 6 anni che sono stati abbandonati o che sono stati tolti, per gravi motivi, alle famiglie d’origine. «Rimangono qui – spiega il padre – finché saranno reinseriti in famiglia oppure dati in adozione».

Due targhe poste all’entrata ricordano i principali benefattori: varie città italiane (Torino, Alessandria, Valenza, Pietra Ligure, Desenzano, Borghetto) e l’associazione Rotary. Anche in questo caso i soldi raccolti sembrano stati impiegati al meglio. Il luogo appare molto accogliente, pulitissimo e funzionale.

Incontriamo due volontarie internazionali: Venus è un’insegnante di Londra che si fermerà un anno; Maria Vicenta è basca ed è qui da 5 anni, pur avendo figli e nipoti in Spagna. Maria ci accompagna nella stanza dove, nelle culle, stanno dormendo due bambini di pochi mesi, un maschio e una femmina. La bambina è stata portata al Centro perché la mamma è una consumatrice di droghe. «Nella quasi totalità dei casi i bambini – ci viene spiegato – provengono da famiglie composte dalla sola mamma».

Pane e liberazione

«Non riesco a parlare di Dio a chi non ha da mangiare», confessa padre Pasquale. Pare un’affermazione della teologia della liberazione, un mondo a cui i salesiani – per scelta e per tradizione – non sono mai stati molto vicini. «Questa – spiega convinto il missionario – è la vera teologia della liberazione. Quella di Hélder Câmara e Luciano Mendes». In verità, poco importa incasellare l’azione di padre Pasquale Forin. Mai come nel  suo caso vale il detto popolare: «Più delle parole contano i fatti». Fatti che a Corumbá si possono vedere e toccare con mano.

Paolo Moiola
  Note             

1 – Padre Eesto Sassida è morto il 13 marzo 2013 all’età di 93 anni.
2 – Il crack è un sottoprodotto della coca; la maconha è la marijuana; la cola è la colla; il real (reais, al plurale) è la moneta brasiliana. Un euro vale 2,7 reais (quotazione a giugno 2013).
3 – Nome di un movimento di volontariato nato nel 1967, legato ai salesiani.



     Il bioma del Pantanal                                                  

Uno?scrigno?sotto?assedio

Il Pantanal, la più grande zona umida del mondo, è in pericolo. Il cambio climatico sta modificando l’alternanza delle stagioni secca e piovosa. Le monocolture e le mandrie bovine distruggono la vegetazione e uccidono i fiumi. A?pagae le conseguenze, è l’intero ecosistema. E gli abitanti più poveri.

Corumbá. Dalla terrazza si ammira il corso placido del Rio Paraguay e dietro di esso un’estensione verde e piatta che si perde all’orizzonte. È la pianura del Pantanal, con la sua vegetazione a prevalenza di arbusti e manto erboso. Il Pantanal – che in portoghese significa «palude» – ha una superficie di circa 210 mila chilometri quadrati distribuiti su tre paesi: la Bolivia, il Paraguay e soprattutto il Brasile. È infatti quest’ultimo che ospita quasi il 70% del bioma. Precisamente nel sud dello stato di Mato Grosso e nel nord-est dello stato di Mato Grosso do Sul.

Durante la stagione delle piogge (da ottobre a marzo), l’acqua defluisce dagli altipiani circostanti alle terre basse del Pantanal ingrossando i fiumi che straripano inondando gran parte del territorio. Durante la stagione secca, l’acqua si ritira nei letti dei fiumi, le lagune e i piccoli canali (corixos) si riducono o addirittura scompaiono. A causa delle sue peculiarità, il Pantanal è un santuario della biodiversità, ospitando un campionario di animali, pesci, uccelli e piante che non ha eguali nelle Americhe. Oggi anche questo bioma unico è in pericolo.

I rischi e i danni ambientali arrivano dal cambio climatico (che ha prodotto inondazioni devastanti o siccità), ma anche e soprattutto dalle attività umane sugli altipiani circostanti, nel Mato Grosso e nel Mato Grosso do Sul: l’espansione delle attività agroindustriali (con annesse deforestazioni e uso di prodotti agrochimici, soprattutto per la coltivazione della soia), la crescita esponenziale dell’allevamento bovino1 (con un enorme impatto ambientale), le attività minerarie (estrazione aurifera in testa) hanno contaminato le acque che arrivano nel Pantanal; la costruzione di dighe ha modificato, ampliato o reso permanenti una parte delle zone inondate.

Con oltre 25 anni di permanenza nel Pantanal padre Pasquale Forin può testimoniare personalmente i cambi avvenuti nell’ecosistema naturale e umano.  «In alcune colonie – racconta il missionario -, prima si arrivava in barca, adesso si cammina per ore e ore dal fiume fino alle case. In questi anni io ho visto le trasformazioni del Rio Taquari, uno degli affluenti principali del Rio Paraguay: il suo corso naturale è stato deviato, il suo letto ridotto dai sedimenti, la vita nelle sue acque ammazzata dai fertilizzanti chimici». I mutamenti nel Rio Taquari sono testimoniati da un dato impressionante: nel corso dell’ultimo decennio, la pesca nel fiume è diminuita di sette volte, passando da 485 tonnellate all’anno a soltanto 622.

I cambi nell’ecosistema si sono riflessi pesantemente anche sugli abitanti del Pantanal. Relativamente pochi (poco più di 200 mila, 2 per chilometro quadrato), essi si distinguono in Pantaneiros (compresi alcuni gruppi indigeni: Kadiwéu, Guató, Terena, Umutina, Bororo, spesso composti da poche decine di individui) e in assentados. Questi ultimi sono arrivati con le assegnazioni di terra da parte dell’Istituto per la riforma agraria (Incra)3.

«Ai contadini assegnatari di terra hanno dato un contentino – si lamenta padre Pasquale -. La misura minima doveva essere 25 ettari. Qui l’Incra ha dato 13-16 ettari. E la terra è quella del Pantanal, che non è fertile come quella di altri stati brasiliani. Dopo uno-due anni la terra non è più produttiva, soprattutto in presenza di acqua calcarea, non adeguata per le coltivazioni. Da coltivatori i coloni diventano allevatori. Ma lo spazio necessario è di due ettari di terra per ogni capo di bestiame. Si prendono così capi di bestiame di qualità inferiore per produrre un po’ di latte per l’autoconsumo o per il mercato. Noi interveniamo per costruire pozzi e cisterne per l’acqua potabile e con progetti di microcredito, per consentire l’acquisto di sementi o di strumenti di lavoro. Tuttavia, in questa situazione di precarietà molti giovani lasciano gli insediamenti rurali, dove rimangono soltanto i vecchi a coltivare manioca in attesa di raggiungere l’età della pensione. Senza dire di quelle famiglie che, a causa di un’inondazione, hanno perso tutto e hanno dovuto indebitarsi o abbandonare la terra».

Poi ci sono – in Brasile non mancano mai – i latifondisti (terratenientes), proprietari delle fazendas. L’ultimo rapporto redatto dalla Commissione pastorale della terra (Cpt)4, encomiabile come sempre, segnala numerosi conflitti per la terra tra latifondisti e gruppi indigeni locali negli stati del Mato Grosso e Mato Grosso do Sul.

Come in tutto il Brasile, anche nel Pantanal ci sono famiglie o gruppi indigeni che si tramandano la terra da generazioni, ma che spesso non ne hanno la proprietà formale. Di questa situazione cercano di approfittare i latifondisti attraverso la pratica del grilagem5.

«Anche noi abbiamo dovuto – racconta padre Pasquale – difendere molte famiglie dai latifondisti perché non fossero sfrattate da un giorno all’altro. E abbiamo rischiato la vita: questa è gente che non scherza. Arrivavano con i trattori per buttare giù le loro case. E le donne con i bambini si mettevano davanti ai mezzi. Mi hanno raccontato di un grileiro che ordinò all’autista di passare sopra alle persone che si opponevano e che questi era sceso dal trattore rispondendo “Se vuole, lo faccia lei”. Oggi, per fortuna, la maggioranza delle famiglie da noi seguite ha il titolo di proprietà».

Nell’anno 2000 dichiarato dall’Unesco Patrimonio naturale dell’umanità e riserva della biosfera, il Pantanal ha accresciuto in questi anni la propria visibilità, richiamando un numero crescente di turisti. Come si sa il turismo è un’attività economica non esente da rischi, anche gravi. Tuttavia, se gestito in maniera adeguata, può essere la scelta meno impattante per preservare un bioma unico ma fragilissimo.

Paolo Moiola
   Note                 
 1 – I dati sulle mandrie bovine sono impressionanti. Il Mato Grosso, con una popolazione di appena 3,1 milioni di abitanti, ha 28,6 milioni di capi bovini (dati 2012, fonte Indea Mt). Il Mato Grosso do Sul, con una popolazione di soli 2,5 milioni di abitanti, conta 21,5 milioni di capi bovini (dati 2012, fonte Ibge).
2 – «Instituto Nacional de Colonização e Reforma agrária». Il sito: www.incra.gov.br.
3 – Dati dell’«Instituto de Preservação e Control ambiental» diffusi da Embrapa Pantanal: www.cpap.embrapa.br.
4 – Comissão Pastoral da Terra (Cpt), Conflitos no Campo Brasil 2012, aprile 2013. Il sito: www.cptnacional.org.br.
5 – Termine con cui si indica una falsificazione di documenti per divenire proprietari di una terra.
 

 

Il volontario                                        

«Per fare la mia parte»

Giorgio Roz, di Chieri (Torino), arrivò a Corumbá con l’«Operazione Mato Grosso». Da quel giorno sono trascorsi 12 anni.

Corumbá. «Anche a Madonna di Fatima, il bairro dove abito, gira molta droga. Fino a qualche mese fa c’era una boca – un punto di vendita – anche vicino a casa mia. Il problema della droga deriva spesso da altre questioni, sia sociali che personali. Giovani e adolescenti entrano in quel mondo perché alle spalle non hanno una struttura familiare forte. A sua volta questa mancanza è conseguenza della povertà che sovente porta a una destrutturazione della famiglia».

Giorgio Roz, 47 anni ben portati, è un volontario di Chieri, comune non lontano da Torino. È arrivato a Corumbá tramite l’«Operazione Mato Grosso», un movimento fondato nel 1987 da alcuni missionari salesiani1 che operavano nella regione brasiliana2. Il movimento, diffuso in tutta Italia, ha come obiettivo la crescita dei giovani attraverso il lavoro gratuito in favore dei più poveri.

«Sono cresciuto – racconta Giorgio – in ambienti di parrocchia, con i salesiani ma anche con i gesuiti. Il gruppo cui appartenevo era in contatto con padre Pasquale Forin, missionario a Corumbá, che ci visitava a ogni suo rientro in Italia. Un giorno, come avevano fatto altri amici, decisi di tentare anch’io un’esperienza di volontariato. Dopo due periodi (uno di un anno e un altro di un mese), al terzo – era l’ottobre del 2000 – decisi di fermarmi».  Perché?, gli domandiamo. «Per fare la mia parte», risponde Giorgio con invidiabile semplicità. «All’epoca il Mato Grosso era una regione di povertà totale, materiale e spirituale. Quando arrivai qui, in molte zone della periferia c’erano soltanto capanne e baracche fatte con materiale di recupero. La necessità principale era quella di alimentarsi».

Da allora le cose sono cambiate. Il Brasile è divenuto la sesta potenza mondiale. «Ma – osserva Giorgio -, se vediamo certe zone, è ancora Terzo mondo. Il Brasile è il paese dei contrasti, delle contraddizioni assurde. Si passa dalla ricchezza estrema alla povertà estrema. Oltre alla questione della distribuzione della ricchezza, io credo che il problema maggiore sia quello dell’educazione (il paese è agli ultimi posti nel mondo), seguito da quello sanitario. Esistono poche strutture sanitarie pubbliche, mentre quelle private non sono accessibili da parte dei poveri».

Chiediamo a Giorgio della riforma agraria, che avrebbe dovuto costituire un punto qualificante della presidenza del Partito dei lavoratori (Pt), prima con Lula e oggi con Dilma. «A Corumbà – spiega -, da 15 anni fa a oggi, sono stati distribuiti molti lotti di terra nella zona rurale. Peccato che non siano stati foiti anche i mezzi per coltivarla. Oltre tutto si tratta di terreni di piccola dimensione. Succede così che una parte dei coloni, quella che sputa sangue, riesce a tirare fuori il proprio sostentamento, mentre gli altri sopravvivono male. Per contro, anche qui esistono latifondi lunghi decine di chilometri dove vengono usati trattori enormi guidati dal Gps e vengono sparsi diserbanti con piccoli aerei».

Nel Mato Grosso do Sul la crescita economica è rilevante3 ma i problemi, le contraddizioni e le ingiustizie del sistema sono ben visibili come in tutto il paese. Per i volontari come Giorgio Roz il lavoro e le sfide di certo non mancano.

Paolo Moiola
       Note                

1 – I padri Pietro Melesi, Luigi Melesi e Ugo De Censi. Il movimento, oltre che in Mato Grosso, opera in Ecuador, Perù e Bolivia. Il sito
ufficiale dell’Operazione Mato Grosso: www.operazionematogrosso.it.
2 – Nel 1979 lo stato del Mato Grosso venne diviso in due entità indipendenti: il Mato Grosso e il Mato Grosso do Sul.
3 – Ad aprile 2013, il governatore del Mato Grosso do Sul,?André Puccinelli, è stato in tour in Italia per incontrare imprenditori disposti a
investire nello stato brasiliano. Puccinelli ha parlato di grandi opportunità e di forti incentivazioni fiscali per gli investitori.