Senza la poesia di Chagall

Ai confini dell’Europa (4): la Bielorussia


Indipendente dal 1991, la Bielorussia ha finora avuto un
solo presidente: Aljaksandr Lukašenka, da molti considerato «l’ultimo dittatore
d’Europa». L’economia del paese si sostiene grazie a un forte intervento
statale e ai rubli di Mosca. Alla quale Minks guarda con deferenza.

Marat fa
l’archeologo. O qualcosa del genere. Scava buche quadrate in campi di grano a
perdita d’occhio. Scava un quadrato di quattro metri di lato per 20 centimetri
di profondità, poi passa a un quadrato a fianco. Quando tutti i quadrati sono
allo stesso livello ricomincia dal primo scendendo di altri 20 centimetri. La
terra è nera come la pece, e morbida. Non è un lavoro poi così duro. Marat
scava le sue buche nella speranza di trovare qualche reperto che provi la
presenza di popolazioni stanziali in questa regione già nell’età del bronzo.
Non è una cosa da poco, perché dimostrerebbe che la civiltà bielorussa è antica
almeno quanto quella baltica. Marat e i suoi studenti volontari scavano già da
un paio di settimane, ma tutto quello che hanno trovato è un chiodo
arrugginito, difficilmente appartenente all’età del bronzo.

Marat ha meno di trent’anni. Insegna all’università a
Minsk, ma il suo campo archeologico è in un villaggio a nord, quasi al confine
con la Russia. Vive con 150 euro al mese e sogna città sepolte. «I professori
universitari guadagnano meno di tutti in Bielorussia», dice. «Sembra che di noi
qui non abbia più bisogno nessuno. Valgo meno di un cellulare o un computer».
Si infervora quando descrive ai suoi studenti la versione sovietica
dell’evoluzionismo (una teoria pseudoscientifica che rigetta il darwinismo) e
alla sera alza un po’ il gomito. Ecco, Marat è un po’ come il paese in cui
vive. Giovane e squattrinato, e costretto in un isolamento culturale che non è
mai venuto meno dalla caduta dell’impero sovietico. La Bielorussia guarda al
futuro, ma nello stesso tempo è appesantita dalla forza gravitazionale di un
passato di cui non si è mai del tutto liberata.

Lukašenko, padre e
padrone

La Bielorussia indipendente ha una storia di poco più di
vent’anni. Nata col crollo dell’Unione Sovietica non si è però mai distinta, a
differenza dei vicini paesi baltici, per una particolare voglia di indipendenza
da Mosca. Le ragioni sono molteplici e sicuramente legate alla vicinanza
storico culturale tra il popolo bielorusso e quello russo. Ma determinante è
stata la guida autoritaria assunta dal suo primo e tuttora unico presidente,
Aljaksandr Lukašenka (Aleksandr Lukašenko, nella traslitterazione dal russo)
che ha sin da subito impedito un’apertura della società civile all’Occidente.
Bene o male che sia, sembra che un torpore lungo due decenni affligga la
Bielorussia castrandone gran parte delle potenzialità.

Il regime di Lukašenka, che ama farsi chiamare batka, padre, ha
annullato sin da subito ogni opposizione politica, ridotto a zero la libertà di
stampa e soppresso sul nascere con la forza qualunque contestazione al suo
potere. Tutto in Bielorussia è accentrato nelle sue mani. Nonostante l’immagine
di uomo semplice e del popolo, a cui tiene tanto, è – secondo molte fonti –
l’uomo più ricco del paese. Un cablogramma dell’ambasciata americana a Minsk,
diffuso da Wikileaks, stima il suo patrimonio in 9 miliardi di dollari.

Covoni di paglia, boschi, isbe dai comignoli sbilenchi,
vacche per strada. Sono i paesaggi dipinti da Chagall, che proprio in questa
regione nacque e trascorse la sua infanzia. Paesaggi in cui gli amanti volano
tenendosi per mano e i violinisti suonano sui tetti. Ma non c’è più niente di
poetico, ora qui. Il villaggio dove scava Marat è a un tiro di schioppo da
Navapolatsk. Navapolatsk è una città artificiale. Fu fondata nel 1958 per dare
alloggio alle migliaia di lavoratori della raffineria che stava sorgendo tra i
campi di grano. Nata in un battibaleno grazie ai prefabbricati dell’edilizia
sovietica che si tiravano su come i Lego, oggi è una città di quasi 100mila
abitanti con ospedali, università e teatri. Ma la Naftan, il complesso
industriale che dà da vivere ai suoi abitanti, è persino più grande. Oltre alla
raffineria comprende una centrale elettrica e diversi stabilimenti dove
lavorano migliaia di persone. Come tutte le industrie bielorusse, la Naftan è
di proprietà dello stato. Così come la stragrande maggioranza delle terre
coltivate (secondo alcune fonti, oltre il 90%), ancora organizzata secondo un
sistema di collettivizzazione che non è cambiato dai tempi dell’Urss. Lo stato
in Bielorussia è tutto, e lo stato è batka.

Lukašenka è spesso definito l’ultimo dittatore d’Europa.
Alle ultime elezioni presidenziali del 2010 l’80% dei votanti ha scritto il suo
nome sulla scheda, relegando a un misero 2% il secondo candidato più votato,
Andrej Sannikov. L’esperienza è costata a Sannikov un anno di prigione, prima
di ricevere la grazia da Lukašenka. Ad ogni modo, batka può affrontare
serenamente le prossime elezioni del 2015 perché, anche se Sannikov è libero,
numerosi altri esponenti dell’opposizione riempiono le galere bielorusse. Le
elezioni che lo hanno confermato al potere per la quarta volta consecutiva, non
diversamente dalle precedenti, sono state giudicate dall’Osce lontane dagli
standard inteazionali. Per questo motivo, per aver azzerato l’opposizione
politica e per presunte gravi violazioni dei diritti umani, la Bielorussia di
Lukašenka è andata incontro alle sanzioni dell’Europa, che hanno colpito il
sistema di potere del presidente.

Un’economia di
miracoli e misteri

Un pulmino della Naftan porta Marat e i suoi studenti in
città per il giorno libero. È sgangherato e dimostra più anni di quelli che ha.
Forse è perché anche la Naftan è entrata nella lista delle sanzioni europee per
gli stretti legami con Lukašenka. Si va alla banja, la sauna russa.
Anche la banja è della Naftan, come gran parte delle strutture
ricreative di Navapolatsk. Potrebbe sembrare claustrofobica una città che vive
in funzione di uno stabilimento e in cui quasi tutto appartiene alla fabbrica, «ma
almeno qui tutti hanno un lavoro», dice Marat. È uno dei «miracoli» di batka, un tasso di
disoccupazione ufficiale che non arriva all’1%. Ma sono in molti, compresi
oppositori e critici al governo, a ritenere che la cifra reale sia molto più
alta. Comunque, andando in giro per il paese, la sensazione è quella di un
elevatissimo tasso di occupazione, soprattutto tra i giovani che, non appena
finiscono gli studi, ricevono spesso offerte di lavoro da enti pubblici. Lungi
dall’essere sintomo di una situazione florida, questa condizione è piuttosto
l’effetto di salari tra i più bassi d’Europa e di un’economia drogata, per
certi versi pianificata, che non si è mai realmente aperta al mercato. La
Bielorussia è, insieme al Kazakistan, parte della neonata «Unione economica
eurasiatica», guidata da Mosca. Dalla Russia Minsk dipende per un terzo delle
proprie esportazioni, per la metà degli investimenti esteri e per il 99% di
foiture di gas a un prezzo pari a quello praticato da Gazprom nel mercato
interno. Praticamente un regalo. Senza i rubli di Mosca, che oltre a finanziare
di fatto il mercato bielorusso ha recentemente iniettato liquidità per un
valore stimato in 3 miliardi di dollari sotto forma di prestito, il paese
guidato con pugno duro da Lukašenka rischierebbe il default.

In cambio, Lukašenka è da sempre il più fedele alleato di
Putin. Il primo a intravedere una forma di riunificazione con la Russia, il più
volenteroso a concedere suolo per le basi militari di Mosca, il più solerte a
favorire un’exit strategy dalla crisi in Ucraina offrendosi come mediatore tra il
Cremlino, Kiev e i separatisti del Donbass. E anche se, recentemente, ha fatto
un po’ la voce grossa con il suo mentore, criticando l’annessione della Crimea
e rifiutandosi di riconoscere l’autonomia delle regioni separatiste nell’Est
dell’Ucraina, il totale appiattimento sulla politica russa non è mai stato
messo in discussione.

Dopo le pianure, ecco
Minsk

L’autostrada che attraversa il paese da est a ovest è
noiosa come un mare in calma piatta. Pianure, pianure, pianure. E poi, dopo
ore, c’è Minsk. La capitale si staglia come una cattedrale sull’orizzonte
bielorusso. Una cattedrale laica fatta di asfalto e semafori. Minsk non è come
te l’aspetti. Non è come qualsiasi altra grande città ex sovietica a cui i
soldi hanno cambiato il volto: colori, insegne luminose, cartelloni
pubblicitari. Non è, per intenderci, una piccola Mosca. È piuttosto una
versione rimodeata di quella che è stata per decenni, dopo essere risorta
dalle macerie della Seconda guerra mondiale, la capitale della repubblica
socialista sovietica di Bielorussia. Edifici magniloquenti, larghi viali tesi
come rette, piazze d’armi.

Le insegne al neon ci sono, ma sono perlopiù stelle rosse
o medaglie al valore militare. I cartelloni pubblicitari inneggiano alla gloria
della patria e gli striscioni alla vittoria della Grande guerra patriottica
contro il nazifascismo. Lenin è lì, saldamente al suo posto e l’emblema
nazionale, presente su edifici pubblici e non, non è altro che lo stemma
sovietico cui è stata aggiunta la sagoma dei confini nazionali. E poi di tanto
in tanto sorge un edificio in vetro e cemento, tra il kitsch e il postmoderno,
come la biblioteca nazionale, un dodecarnedro ricoperto di led colorati che di
notte s’illumina come la cassarmonica alla festa di San Rocco. E ancora
scheletri di edifici nascosti dalle gru e progetti riprodotti in gigantografie
che danno a Minsk l’immagine di una città rampante e in evoluzione. E forse lo è.

Super ricchi, ma non
oligarchi

Il fatto che il News Café sia su via Karl Marx non
sembra impensierire nessuno dei suoi clienti. È quel tipo di locale che si
definisce esclusivo solo perché per entrare bisogna avere il portafogli ben
ripieno. Tutti gli altri sono esclusi. Un uomo in abito scuro e occhiali da
sole, seduto all’interno del locale, scherza con due ragazze belle come delle
veline. Loro lo adulano e ridono alle sue battute, e forse non è solo merito
della bottiglia di Moët & Chandon nel secchiello. Se un insegnante come Marat guadagna 150
euro al mese qui a Minsk c’è una sparuta ma solida élite che ne guadagna
150mila o forse più. La cosa non sarebbe né strana né di per sé disdicevole – e
anche comune a tutte le grandi città dell’ex Urss – se non fosse per il fatto
che gran parte della ricchezza è in mani pubbliche e che Lukašenka ha sempre
fatto della lotta ai super ricchi una sua bandiera. In questo la Bielorussia
non fa alcuna differenza con altri stati post sovietici come la Russia stessa o
l’Ucraina. Benché, però, una cerchia di miliardari ruoti attorno al capo del
paese, non si può propriamente parlare di oligarchi. Gli oligarchi russi e
ucraini hanno soldi e potere, i super ricchi bielorussi hanno tanti soldi, ma
il potere è saldo nelle mani di batka.

Davanti al palazzo del presidente, sotto un Lenin che non
sembra particolarmente a disagio, sorge uno dei più grandi centri commerciali
sotterranei d’Europa. Con tre piani di negozi e ristoranti lo Stolitsa shopping mall è
il posto più amato dai consumatori compulsivi di Minsk. Ma è un posto a modo
suo democratico, perché non ti chiede un rublo per ammirare le sue vetrine, i
suoi pavimenti di marmo, i suoi ascensori di vetro e i suoi bagni con la musica
di sottofondo. Tre piani più sopra, in superficie, la vita vera scorre sotto
forma di un ingorgo di macchine e anziane signore che gettano molliche di pane
ai colombi, come a ricordare che ci sono due città e due mondi, uno sotterraneo
e uno che si sforza di vivere ogni giorno alla luce del sole.

Eppur si muove

Non sono solo un paio di palazzi stravaganti e qualche
grattacielo a fare della Bielorussia un paese che guarda al futuro. Nonostante
tutto, nonostante la profonda crisi, un’economia rigida e poco competitiva, gli
ostacoli posti all’impresa privata e l’arretratezza dell’industria, c’è una
Bielorussia tecnologica che cerca di venire fuori come un germoglio
dall’asfalto. Non lontano dal dodecarnedro luminescente della biblioteca sorge un
complesso molto più sobrio ma decisamente più all’avanguardia. Il Belarus Hi-Tech Park ambisce
a essere una specie di Silicon Valley bielorussa, un incubatore di giovani menti informatiche
che lì hanno la possibilità di sviluppare le proprie idee. Qualcosa come 140
imprese ad alto contenuto tecnologico sfoano software e servizi informatici
per clienti sparsi in 50 paesi. E attirano persino soldi dall’estero. Il merito
del Belarus Hi-Tech
Park non è solo di un guizzo di lungimiranza dei
consiglieri di Lukašenka, ma anche e soprattutto di una generazione di giovani
che assorbe il meglio di un sistema d’istruzione (con molte pecche) e che si dà
da fare per essere al passo con i coetanei dei paesi più avanzati.

Visto da qui, il mondo di Marat sembra lontano anni luce,
e forse lui lo sa. Per questo alla sera, quando alza un po’ il gomito, va fuori
sotto un cielo stellato e lancia il suo grido ai satelliti artificiali: «Sputnik!».

Danilo Elia

Danili Elia




Rádio Monte Roraima, Microfoni Liberi

Storie e volti di radio / 4


Nata nel 2002, Rádio Monte Roraima è un’emittente di Boa
Vista, capitale dello stato brasiliano di Roraima. Il suo obiettivo è di
informare con qualità, etica e imparzialità. E avendo un’attenzione particolare
verso i meno fortunati, i diritti umani e l’ambiente. Come dimostra il suo
appoggio alla lotta contro «Bem Querer», la centrale idroelettrica che dovrebbe
sorgere sul Rio Branco.

Boa Vista. Sarà per il cielo terso o per il fatto di essere all’equatore, ma la
luce del giorno è intensissima. Il sole scalda, però risulta ancora piacevole.
Siamo a pochi passi dal Rio Branco e a lato della chiesa Madre (igreja Matriz) della città. Su un muretto di cinta sono disegnati, a tinte pastello,
il logo e il nome di Rádio Monte Roraima. Mentre una targa in tre lingue
ricorda ai visitatori che l’edificio in cui stanno per entrare è stato
costruito nel 1920 ed è dedicato a Giovanni XXIII.

L’entrata, ariosa e semplice, ha pareti color azzurro
intenso. Di lato un piccolo busto ricorda il beato Giuseppe Allamano, fondatore
dei missionari della Consolata. Poco più in là, appesi uno accanto all’altro,
ci sono due quadretti in cui la radio si presenta. Costituiscono una sorta di
biglietto da visita e una dichiarazione d’intenti, chiara e completa. In uno si
raccontano visione e missione, nell’altro si elenca, punto per punto, la linea
editoriale che l’emittente si è data.

Rádio Monte Roraima vuole – si legge – «essere un
riferimento per una comunicazione di qualità nello stato di Roraima.
Contribuire alla trasformazione sociale attraverso una programmazione
credibile, aperta, diversificata e partecipativa, in difesa della giustizia
sociale, dell’ambiente, dei diritti umani e della fede cattolica. Privilegiare
il servizio in favore della vita e della cittadinanza. Dare voce ai meno
favoriti. Produrre e diffondere informazione, formazione e intrattenimento con
qualità, etica e imparzialità. Contribuire al progresso sociale, culturale,
artistico e religioso della società».

La creazione di RádioMonte Roraima non è stata né facile
né rapida. Sulla necessità di disporre di un mezzo d’informazione aveva infatti
iniziato a ragionare mons. Aldo Mongiano, vescovo di Roraima dal 1975 al
1996.

«Negli ultimi anni a Roraima – scrive Mongiano nella sua
autobiografia -, pensai che una radio sarebbe stata utile per la Diocesi,
affinché costituisse un’alternativa ai mezzi di comunicazione locali,
totalmente nelle mani del potere politico. Parlai con persone competenti che mi
suggerirono di costituire una fondazione culturale educativa, che sarebbe stata
responsabile della radio, senza esporre la Diocesi ed il vescovo agli attacchi
degli ascoltatori»1.

Nel febbraio del 1991 la diocesi di Roraima costituisce
la «Fondazione educativa culturale Giuseppe Allamano», che tra i suoi obiettivi
ha anche la radiodiffusione. Finalmente, 12 anni dopo, il 29 dicembre del 2002,
nasce «Rádio Monte Roraima Fm 107,9».

Oggi l’emittente è una realtà consolidata forte di un
numero crescente di ascoltatori. Il suo direttore è una giovane giornalista di
nome Janaina Souza. «Nella radio la maggioranza dei collaboratori sono uomini e
dunque avere un direttore donna è una sfida ancora maggiore», ci dice con un
sorriso.

Non soltanto
informazione

Con la formazione e l’intrattenimento, l’informazione è
uno dei tre pilastri della programmazione di Rádio Monte Roraima. Ci sono due
radiogiornali al giorno – Joal
da manhã e Joal da tarde – prodotti da un piccolo
gruppo di giornalisti. Inoltre, l’emittente trasmette un notiziario nazionale (Joal Brasil hoje) in
collegamento con Rádio Aparecida, un’emittente di San Paolo che lo produce per la Rede Católica de Rádio, un
network di radio cattoliche brasiliane.

«Oltre ai radiogiornali – spiega Janaina -, abbiamo
programmi educativi e culturali, ma anche di intrattenimento. Siamo inoltre
l’unica radio dello stato che ha un programma per bambini, Cantinho da criança
(L’angolo dei bambini), trasmesso il sabato. Il lunedì abbiamo invece un
programma, A voz dos povos indígenas (La voce dei popoli indigeni), dedicato agli indigeni».

Dom Roque Paloschi, vescovo di Roraima, ha un programma
di 5 minuti ogni mattina dal lunedì al venerdì: Palavra de vida (Parola
di vita). Padre Gianfranco Graziola affronta invece le tematiche sociali nel
programma Justiça e paz (Giustizia e pace).

La diga «Bem Querer»

Da tempo a Roraima si discute della costruzione sul Rio
Branco della centrale idroelettrica denominata Bem Querer, che
significa «Ben Volere», un nome che suona ironico, considerando la grande
opposizione che l’opera sta incontrando tra la popolazione locale. La centrale
rientra nel Pac2 (Plano de Aceleração
do Crescimento, Piano di accelerazione
della crescita) del governo brasiliano e dovrebbe sorgere a Caracaraí, 125
chilometri da Boa Vista, in prossimità delle rapide (Corredeiras do Bem Querer)
dichiarate sito archeologico dall’«Istituto del patrimonio storico e artistico
nazionale» (Iphan)2. La sua costruzione avrebbe effetti pesanti su
popolazioni, ambiente e clima.

Poiché Rádio Monte Roraima ha tra i suoi obiettivi
dichiarati la difesa dell’ambiente, chiediamo un parere a Janaina. «Il Rio
Branco – spiega la direttrice – è il nostro fiume, quello dove tutti noi
facciamo il bagno. Oggi il progetto della diga lo pone in un pericolo serio.
Per questo moltissimi si stanno unendo per cercare di fermare quest’opera, a
cominciare dal movimento Puraké3, che è
anche il nome di una nostra trasmissione. Noi contestiamo che tutto sia stato
fatto in segreto, senza un coinvolgimento delle persone che saranno colpite
dalla sua costruzione. Chiediamo trasparenza».

Facciamo notare a Janaina che opporsi alla diga è una
scelta politica. «Rientra nei nostri compiti dare voce ai meno favoriti. E chi
sono i meno favoriti dalla costruzione della centrale? Sono i ribeirinhos, i
pescatori, gli indigeni, cioè tutti coloro ai quali la radio vuole dare voce»4.

La libertà fa
«audience»

Credibilità, imparzialità, indipendenza.
Praticamente ogni media afferma di possedere queste caratteristiche.

Chiediamo a Janaina se la radio abbia mai
avuto problemi con il potere politico, che a Roraima non ha mai brillato né per
onestà né per vicinanza ai più deboli. Lei tentenna. Forse preferirebbe evitare
di rispondere. Alla fine dice: «Sì, abbiamo avuto problemi, soprattutto durante
gli anni dell’omologazione della terra indigena Raposa Serra do Sol. Ci
minacciavano. Non volevano parlare con i nostri inviati».

La direttrice si riferisce agli eventi accaduti prima e
dopo il 2005, quando l’allora presidente Lula firmò il decreto di omologazione
di Raposa, ben 12 anni dopo l’identificazione dell’area, abitata dalle etnie
macuxi, wapixana, ingarikó, taurepang e patamona.

«Non è facile – conclude Janaina – essere una radio
slegata dal potere politico. Noi rispondiamo soltanto alla Fondazione Giuseppe
Allamano. Il pubblico è con noi e ci sta premiando con un ascolto sempre
maggiore».

A Rádio Monte Roraima la libertà costa, ma fa «audience».

Paolo Moiola*

Paolo Moiola




Storie africane di un chirurgo atipico 

Il ricordo emozionato di un uomo che realizzava i suoi sogni


La storia di un medico con il sogno di curare i più poveri
ed esclusi. La storia di quel sogno che si realizza oltre le aspettative tra
Eritrea, Kenya e Tanzania. E del sogno di chi gli è stato accanto fino
all’ultimo. Il dottor Giorgio Giaccaglia raccontato con passione da sua moglie,
compagna di una vita dedicata agli altri.

«All’età di sei anni volevo fare il dottore». Giorgio mi
raccontava spesso di quel sogno che piano piano era diventato realtà. Frequentò
l’università di Bologna e nel 1967 si laureò in medicina e chirurgia. Poi si
specializzò in anestesia e in chirurgia vascolare. Aveva sempre avuto la sana
ambizione di diventare un bravo medico, ma non era solo una questione di
lavoro. Era un modo etico di intendere la professione e anche la propria vita.
E non a caso guardava a modelli di grandi medici come i pionieri Albert
Schweitzer (1985-1965) a Lambaréné in Gabon e Giorgio Ambrosoli (1923-1987) in
Uganda.

L’Africa in ospedale

Ma fu solo a cavallo tra la fine degli anni Settanta e
l’inizio degli anni Ottanta, quando Giorgio lavorava nel grande centro
ospedaliero Malpighi di Bologna, che l’Africa fece irruzione con forza nella
sua vita. In quel tempo molti eritrei arrivavano a Roma e in Emilia Romagna per
farsi curare. Erano profughi in fuga dalla lunga guerra con l’Etiopia. Al
Malpighi, Giorgio ebbe l’opportunità di confrontarsi a lungo con loro, e si
appassionò alla loro causa. Una causa che lasciava molti morti e feriti dietro
di sé. E così accettò la proposta di partire per quella terra: un luogo
lontano, sconosciuto e in guerra che non aveva ancora istituzioni statali.

Partì verso un continente pieno di difficoltà, l’Africa,
con quel coraggio che lo ha sempre contraddistinto e con il desiderio di
aiutare gli altri.

Le ferite insanabili di
un bombardamento

Delle tante esperienze vissute durante quei viaggi che
portavano speranza e sollievo a molte persone, ce n’è una che più di altre
rimase nel cuore di Giorgio, e che lo accompagnò per tutta la sua vita. Una
mattina alcuni aerei bombardarono una scuola. Tante vite innocenti furono
spezzate: bambini devastati dalle schegge, corpi straziati che, in alcuni casi,
fu impossibile curare. Quelle bombe lasciarono una ferita profonda nell’animo
di Giorgio.

Dopo quell’episodio, ritoò ancora in Eritrea per qualche
missione, ma poi smise, e per lungo tempo lasciò l’Africa riprendendo il suo
lavoro in Italia. Per anni non pensò più di partire. Nel frattempo era
diventato primario all’Ospedale di Comacchio e poi del Delta, sempre nel
ferrarese.

Dove è facile toccare
il nulla

Nel 1997 qualcosa riprese ad agitarsi di nuovo nel suo cuore:
aveva bisogno di nuove risposte, sentiva di dover trovare qualcosa che ancora
mancava alla sua vita. Aiutato da don Tullio Contiero, un amico sacerdote a
Bologna, ebbe l’occasione di incontrare monsignor Ambrogio Ravasi, vescovo di
Marsabit. L’Africa quindi era tornata a bussare alla sua porta. E Giorgio
decise di aprirla. I sogni che aveva accarezzato da bambino e da ragazzo non
erano scomparsi. Rinati, con un animo nuovo, quei sogni erano pronti per essere
realizzati. Decise così di partire per il Kenya, destinazione Sololo, un posto
molto lontano da Nairobi, al confine con l’Etiopia. Là dove si entra in un
mondo diverso, nel quale è facile toccare il nulla e dove quel nulla è realtà.
Un luogo sperduto, dove solo il coraggio dei missionari aveva permesso alla
gente locale di cullare la speranza di una vita migliore. Giorgio si preparò al
meglio perché sapeva che avrebbe dovuto fare di tutto: l’anestesista, il
rianimatore, il chirurgo, il ginecologo, l’urologo. La gente arrivava da
lontano, di giorno e di notte, e portava i malati come poteva. Con carriole,
barelle fatte a mano, in braccio. Giorgio era sempre pronto a prestare
soccorso. E se la stanchezza si faceva sentire, ritrovava il vigore nella gioia
di aver salvato un’altra vita.

Realizzando un sogno

Un
giorno, andando verso Nord, Giorgio passò da Archer’s Post dove ero io,
missionaria laica. Era molto di fretta, prese un caffè e un bicchiere d’acqua.
Ci salutò e sparì dalla nostra vista. Lo aspettavano a Sololo dove non c’era
nessun altro medico in ospedale, e Giorgio sentiva su di sé tutta la
responsabilità di tanti malati che lo attendevano. In quel periodo decise che
si sarebbe fermato a Sololo per sei mesi. E solo l’asma lo costrinse a lasciare
il continente.

L’esperienza
africana, vissuta tra i più poveri, fu intensa. A ingenerare pensieri e
riflessioni contribuirono anche i grandi spazi, le notti silenziose, il cielo
tanto vicino alla terra da poter contemplare le miriadi di stelle che lo
popolano. Ma furono i lunghi momenti trascorsi insieme a parlare che gli
diedero l’opportunità di guardarsi dentro, di ascoltare il suo cuore, di
pensare alla sua vita. Scoprendo un tesoro nascosto da tanti anni dentro di sé.

Era
tempo di grandi decisioni. Ricordo che una volta, alla fine degli anni Novanta,
mentre lo accompagnavo a Isiolo, mi disse: «Voglio costruire un ospedale della
gioia e dell’amore, un ospedale per i bambini. Vederli curati e sorridenti.
Voglio curare tutti con le medicine giuste, usare tecniche d’avanguardia e fare
tutti i tipi di operazioni. Che ne pensi?», mi domandò, e io gli risposi che
era un bellissimo sogno. «Questo è ciò che hai nel tuo cuore, e sono contenta.
Ti penserò in questo tuo progetto».

Ma
non fu solo il suo progetto: ebbi infatti la possibilità e la gioia di
condividerlo con lui. E non solo il suo progetto ospedaliero, ma, in seguito,
anche la sua vita.

Il Tharaka hospital

Era il 1999 quando Giorgio incontrò padre Livio Tessari,
il missionario della Consolata, che gli propose di costruire un ospedale nel
Tharaka, in Kenya. Nella missione di Matiri c’era una piccola mateità diretta
da un’infermiera missionaria, Rita Drago, che si trovava in quella località da
diversi anni. Quando arrivavano i casi gravi, la regola era di correre con la
jeep per strade dissestate o distrutte dalla pioggia allo scopo di raggiungere
un ospedale. Ma non sempre si arrivava in tempo. Ecco perché padre Orazio
Mazzucchi, missionario a Matiri, chiese al confratello padre Tessari di
aiutarlo a risolvere il problema che lo angustiava. In quella difficile realtà
Giorgio si mise subito all’opera. Bisognava trovare i fondi per costruire un
grande ospedale e lui iniziò a coinvolgere amici, conoscenti e tanta gente che
voleva dare il proprio contributo. Ben presto altre associazioni si unirono al
progetto. E così nel 2001 iniziarono i lavori di costruzione. Tempo due anni, e
il 5 ottobre 2003 la struttura fu aperta. Due sale operatorie, sala parto, sala
raggi, ecografia, laboratorio analisi, reparti di degenza, farmacia, cucina, acqua
potabile per tutto l’ospedale, lavanderia. E più tardi anche la pediatria e
un’ambulanza. All’ospedale il personale era quello del posto, dall’Italia
venivano molti volontari e medici specialisti. A lavorare vennero anche le
suore Orsoline. Rita, l’infermiera missionaria, continuava la sua
evangelizzazione collaborando con Giorgio. Instancabile e grande organizzatore,
egli dava tutto se stesso, e la gente lo stimava molto. Si era preparato fin
dai tempi di Sololo a svolgere quel servizio. Non lasciava niente al caso,
conosceva bene le necessità della gente: malattie, operazioni, cesarei, morsi
di serpente. Prima di allora avevo visto molte persone morire per un morso di
serpente, nonostante l’uso del siero. Con Giorgio, invece, nessuno moriva,
perché lui aveva una tecnica tutta sua, che funzionava. Instancabile, giorno e
notte andava in ospedale. E quando mancava l’anestesista, faceva lui: metteva
un infermiere a controllare il paziente, operava e risvegliava. E dopo ore di
sala operatoria, visitava i malati gravi.

Miele, frutta,
galline per dire grazie

Al
Tharaka hospital Giorgio portò anche il progetto «Dream», della comunità di
Sant’Egidio, per la prevenzione e cura dei malati di Aids. Aprì una scuola per
i bambini ricoverati e per le neo mamme in difficoltà con latte e biberon.
Grazie all’ospedale nel villaggio aumentò il lavoro: tanti i chioschi nati, gli
alberghetti per accogliere i parenti, e i pulmini (matatu) che
trasportavano la gente. Ogni giorno file lunghissime di persone venivano
all’ospedale certe di poter trovare cure. E capitava che, per ringraziarlo,
portassero a Giorgio del miele, della frutta o una gallina. C’era tanta
gratitudine.

Lasciare ad altri e
ricominciare

Giorgio maturò un po’ per volta la consapevolezza che a
un certo punto sarebbe stato giusto «lasciare ad altri il compito di continuare»,
così mi disse, e insieme, nel 2006, decidemmo di lasciare l’ospedale di Matiri.
Andammo in Tanzania, a Mbweni, a vedere un health centre che funzionava
poco: bisognava risistemare tutto, pochi credevano che quella struttura potesse
riprendere vita. La sfida era grande e bisognava rimboccarsi le maniche, ma le
motivazioni che portavamo nel cuore erano ancora più grandi della sfida. I
lavori iniziarono a luglio, e il 5 ottobre 2006 aprimmo: in meno di un mese la
struttura era già piena. L’ospedale era attrezzato con macchinari per la
diagnostica e per le operazioni. Di nuovo capitava che Giorgio facesse
l’anestesista durante un parto: operava, risvegliava la paziente e rianimava il
neonato. Una situazione difficile che lo spinse ad assumere medici locali che
lo aiutassero, ma anche del personale specializzato, oltre alle suore presenti.
I pazienti aumentarono così tanto che decidemmo di avviare una seconda sala
operatoria.

«Sei musulmano?»

Spesso
andavo in ospedale da Giorgio. In genere era lui a cercarmi, e io sapevo che
quando erano le suore a chiamarmi era perché lui aveva nuovamente dato il
proprio sangue, in emergenza, prima di operare.

Lui
era così, sempre pronto a donare.

Ricordo
di un giorno in cui doveva operare un uomo appena conosciuto, di religione
musulmana. Sarebbe stata un’operazione difficile. Prima di farlo accomodare sul
tavolo operatorio, Giorgio chiese al paziente: «Sei musulmano?». E lui rispose
di sì. Lui allora gli disse: «Io sono cattolico. Tu prega il tuo Dio e io prego
il mio, in modo che guidi le mie mani». Insieme si fermarono a pregare.
L’operazione andò bene.

Tutti
avevano rispetto, stima, gratitudine per il «dottor George». Anche in questo
caso il villaggio trasse vantaggio dall’ospedale per il molto lavoro che si era
creato. C’erano molti «dala dala» che venivano e andavano, sempre carichi di
persone.

Storie africane di un
chirurgo atipico

A un
certo punto Giorgio e io capimmo quanto fosse cruciale insegnare quello che
sapevamo. Lo scopo era di rendere tutti capaci nel proprio lavoro, in modo che
sapessero svolgerlo bene. In primis i medici che dovevano operare, ma anche gli
altri, e per il personale analfabeta Giorgio pensò a una scuola.

Giorgio,
negli ultimi mesi prima di lasciarci nell’aprile del 2011, ha scritto un libro
dal titolo «Storie africane di un chirurgo atipico». Lo ha scritto perché in
quelle pagine ognuno possa ritrovare la sua presenza, il suo spirito, la sua
persona. E anche per incoraggiare chi, come lui, vuole aiutare i poveri della
terra. Ha anche voluto che la sua opera continuasse, e a tale scopo ha fondato
l’associazione che porta il suo nome («Giorgio Giaccaglia Stegagnini») per lo
sviluppo dell’urologia in Africa.

Lui
di talenti ne aveva ricevuti tanti. Sapeva di essere stato mandato in Africa da
qualcuno con la «Q» maiuscola, e voleva restituire i doni ricevuti con opere di
carità e con una grande fiducia nei tanti ai quali insegnava a lavorare in
ospedale e che desideravano, come lui, dedicarsi a curare gli ultimi.

Angela Trebeschi

Angela Trebeschi




Dal karkadè, il Bagamoyo wine 

Tra fiori e un tocco di pili pili


A Bagamoyo, località tanzaniana sull’Oceano Indiano il cui
nome significa «deponi il tuo cuore», per ricordare gli schiavi che da lì partivano
verso i paesi arabi fino alla fine del XIX secolo, una donna, Teddy Davis,
compie la sua lotta quotidiana per l’emancipazione: ha fondato una piccola
attività agroalimentare. I suoi prodotti sono una miscela di fiori, creatività
e impegno sociale.

Teddy Davis, è originaria di Moshi, nel Nord del Tanzania, si è
trasferita a Bagamoyo dove ha inaugurato la Smoke House Store: una
piccola azienda a gestione familiare. Fino a qualche anno prima dirigeva un
piccolo fast food, ma gli affari non andavano bene e, complice la
necessità di cercare nuovi stimoli, ha deciso di creare qualcosa di originale:
il vino di choya.

Vino dai petali di un
fiore

Rimboccatasi
le maniche, si è dedicata a coltivare la terra. Teddy è determinata e
ottimista, senza falsa modestia ammette di non essere una brava contadina:
sopperisce con l’impegno. In origine coltivava ananas, ma i ripetuti furti
nottui l’hanno presto scoraggiata, e la necessità di trovare in fretta una
soluzione le ha acceso la lampadina: «A nessuno verrebbe in mente di rubare un
fiore!». La pianta di choya cresce spontanea e selvaggia in molte zone
del Tanzania. Gli inglesi la chiamano roselle o red sorrel, il
suo nome scientifico è hibiscus sabdariffa, ai più è nota semplicemente
come karkadè. Inutile al ladruncolo di tuo, redditizia e gustosa dopo
un’adeguata lavorazione. Il succo di karkadè è apprezzato come bevanda da
gustare fredda o come tisana calda. Fonti storiche ricordano che in Italia,
durante il periodo fascista, nonostante vigesse l’obbligo di consumare solo
prodotti italiani, l’uso di karkadè era abituale in quanto prodotto delle
colonie italiane d’Etiopia ed Eritrea (karkadè deriva da karkadeb,
termine dialettale etiope che indica la pianta dell’ibisco).

Fin
qui nulla di nuovo quindi, se non fosse che Teddy, dai petali di questo fiore,
ha iniziato a produrre vino e marmellate.

Un vulcano di gusto

Nel
tentativo di evitare l’afa, di buon’ora passeggiamo verso l’azienda agricola
poco lontana dalla sua abitazione. Il terreno, circa tre ettari, permette a
Teddy un paio di raccolti all’anno che integra con acquisti presso altri
coltivatori. Il suo sogno è di prendere in gestione altri terreni fino a
coltivae nove ettari. Coglie alcuni fiori di hibiscus, con un punteruolo
separa il bulbo dai petali caosi che sono la parte più peculiare del fiore.
Essi possono essere utilizzati freschi per preparare la marmellata, oppure
lasciati essiccare su una grata, esposti alla luce diretta del sole, per gli
infusi. La bevanda dal colore rosso rubino ha preziose proprietà terapeutiche:
lenitiva, digestiva, antinfiammatoria. Utilizzata come antisettico urinario ed
efficace anche contro la stipsi cronica per l’elevata presenza in essa di acidi
organici.

Dall’infuso
al vino il passaggio non è così breve: i petali freschi vengono lasciati
fermentare sei mesi in botti con lievito, acqua e zucchero. La cantina di Teddy
è alquanto artigianale, ma funzionale: produce un vino di karkadè con una
gradazione alcolica pari al 14%.

Alla Smoke
House Store
si produce anche una salsa piccante di hibiscus con il pili
pili
, peperoncino che tanto piace ai tanzaniani per condire pollo e
patatine. Teddy ha rivisitato la ricetta classica arricchendo la salsa con
aglio e zenzero. Ci racconta il simpatico aneddoto di quando ha dovuto ritirare
la salsa dai mercati della zona dopo aver ricevuto una chiamata allarmata: «La
salsa inizia a scoppiare». Il prodotto era infatti stato preparato senza
conservanti. Dopo quell’episodio Teddy ha dovuto accantonare le sue lodevoli
intenzioni di mantenere il prodotto genuino e, per poterlo commercializzare, si
è dovuta adeguare alle norme. Oggi ogni prodotto della Smoke House Store
possiede etichetta e informazioni su ingredienti, data di preparazione e
scadenza.

Fare il vino è
un’arte

Non
ci si improvvisa produttori di vino da un giorno all’altro. Teddy ha seguito un
corso presso il Sido (Small Industries Development Organization),
un’organizzazione parastatale sotto il diretto controllo del ministero del
Commercio, Industria e Marketing. Fra gli obiettivi del Sido c’è, per
l’appunto, quello di incentivare la creazione di piccole e medie imprese in
zone rurali, e vengono quindi organizzati periodicamente dei corsi di formazione
per gli interessati al settore agricolo alimentare. Teddy ci tiene a precisare:
«Al Sido ho imparato le tecniche per fare il vino con l’uva, ma io volevo
creare il mio vino di hibiscus. Fare il vino è un’arte!». Una scelta
coraggiosa. Esperienza e volontà fanno il resto. La produzione è ufficialmente
partita nel febbraio del 2011, in pochi anni di attività i risultati sono stati
più che soddisfacenti: Teddy ha ottenuto l’approvazione del Tfda (Tanzania
Food and Drugs Authority
) per commercializzare il prodotto, e la qualità
delle materie prime è stata certificata dai laboratori del Tbs (Tanzania
Bureau of Standards
). Ma c’è ancora tanta strada da fare: pur essendo il
vino di hibiscus ben diverso da quello conosciuto al grande pubblico, non può
ancora competere con quello di Dodoma o con quello d’importazione dal
Sudafrica. In più, il contesto di riferimento è povero: per la maggior parte
delle persone è impossibile permettersi un bene considerato di lusso. Teddy
spera di ampliare il bacino di utenza, strizza l’occhio alla metropoli Dar es
Salaam e alle città più vivaci del Tanzania. Questa piccola azienda dà lavoro a
quattro dipendenti impegnati nelle diverse fasi della produzione, ed è in grado
di rifornire il mercato locale. I prodotti, in zona, diventano sempre più
popolari: si possono reperire presso mercati, bar e resort turistici con
il marchio Bagamoyo Wine.

L’impegno
sociale

Ma le
sorprese non sono finite: il fiore all’occhiello di questa dinamica realtà è
l’impegno di Teddy nella promozione dell’imprenditoria e nell’emancipazione
femminile. Ha fondato un gruppo dal nome più che eloquente: Wake up women
group
(Gruppo «Svegliatevi donne»). Il progetto prevede l’apertura di uno showroom
al mercato cittadino, dove tutte le socie possano avere uno spazio per esporre
la propria mercanzia di prodotti artigianali e handmade (fatti a mano).
Parte dei profitti (20%) vengono reinvestiti in un fondo comune da utilizzare
per le esigenze del gruppo, compresi eventuali prestiti a socie in difficoltà:
una forma di microcredito mirato e strategico. Teddy mostra orgogliosa la lista
delle donne che hanno già aderito all’iniziativa e hanno versato una quota per
aprire un conto comune.

La
nostra interlocutrice non ha timore di esprimere giudizi, anche critici e
contrari al cliché della donna africana laboriosa sempre e comunque: «Tante
ragazze sono pigre e svogliate» o, ammette, «troppo succubi ai voleri dell’uomo».
E auspica un miglioramento economico delle sue «colleghe», migliori condizioni
di vita, nonché l’acquisizione di consapevolezza del determinante ruolo delle
donne come veri e propri pilastri di famiglia e società.

Francesco Cosentini*

*Nato a Novara nel 1984, ha
vissuto a Baronissi (Sa) fino a 19 anni. Trasferitosi a Roma per l’università
(Scienze Geografiche per la Salute e l’Ambiente), dal 2008 al 2012 ha abitato
in Tanzania. Durante questo periodo ha collaborato con Cesc Project di Roma per
il Servizio Civile all’Estero, ha cornordinato un progetto di microcredito con
Sicomoro Onlus di Milano e, insieme a Pamoja Onlus di Malonno (Bs), si è
occupato dell’amministrazione dell’ospedale Saint Joseph di Ikelu, nella
regione di Iringa. Durante il soggiorno in Tanzania, tra febbraio e giugno
2011, ha compiuto un viaggio in bicicletta da cui è nato il libro Pole Pole.
Pedalando in Tanzania e Malawi
(reperibile via web o nelle librerie
Feltrinelli). Attualmente lavora come operatore sociale in un centro per
persone senza fissa dimora a Napoli e, a novembre, è partito per l’Australia
con il working holiday visa.

Francesco Cosentini




Il Web… sei tu!

Giornata per le comunicazioni sociali 2014

Non bombardare di messaggi. Dialogare. E attenzione alla
velocità della comunicazione, che supera la capacità di riflessione e giudizio.
E può isolarci dal nostro prossimo. Questi sono alcuni degli spunti del
messaggio di papa Francesco. La nuova frontiera della comunicazione è il «Web 2.0».
Esso fornisce enormi potenzialità ma, come tutte le tecnologie, presenta molti
rischi e pericoli.
In queste pagine un rapido excursus di una persona che ha
fatto del Web 2.0 uno strumento imprescindibile per cooperazione e solidarietà.

«La testimonianza cristiana non si fa con il bombardamento di
messaggi religiosi». «Dialogare significa essere convinti che l’altro abbia
qualcosa di buono da dire, fare spazio al suo punto di vista. Non significa
rinunciare alle proprie idee, ma alla pretesa che siano uniche e assolute».
Questo coraggioso passaggio del messaggio del Papa per la Giornata delle
comunicazioni sociali 2014
(domenica primo giugno) sintetizza bene il
cambiamento profondo che in qualche modo sta vivendo tutto il mondo
dell’informazione, spesso contro la sua stessa volontà, a causa dello sviluppo
rapidissimo e pervasivo delle tecnologie digitali.

L’avvento del «web 2.0», di cui si parla da anni, è
stato prima di tutto una straordinaria rivoluzione culturale, non del tutto
compresa neanche oggi. Ormai lo sappiamo bene: il web 2.0 è il web dei
contenuti generati dagli utenti, quelli dei social network, dei blog, dei wiki
e di molto altro. Su Inteet il diritto di pubblicare informazioni è
distribuito «orizzontalmente» a tutti: a chi possiede una rete televisiva come
a chi ha soltanto un telecomando; al giornalista come al salumiere. Con i
vantaggi e i rischi che questo comporta. Il navigante 2.0 è Upa (User, author, publisher),
ovvero autore, editore, diffusore di se stesso; e ha a disposizione dei potentissimi
mezzi per promuovere le sue idee.

Informazione «collettiva»

Da Wikipedia in poi niente è più stato come prima:
l’informazione non è più unidirezionale ma si costruisce collettivamente, in un
processo che prosegue nel tempo e non è finito al momento della pubblicazione.
Come sostiene il giornalista americano Mathew Ingram: «La notizia si è
trasformata da prodotto a processo».

Ecco perché nell’epoca del web non ha più senso «bombardare
di messaggi» i nostri lettori, come dice il santo Padre, ma è necessario
dialogare, incessantemente, «attraverso la disponibilità a coinvolgersi
pazientemente e con rispetto». E, direi di più, non siamo di fronte a una
scelta etica o morale, ma una necessità per tutti perché la comunicazione
nell’epoca dei social network è intrinsecamente conversazione.

Ma se tutto questo è probabilmente molto chiaro ormai a
livello teorico, non lo è altrettanto nella vita quotidiana. Si verificano
resistenze profondissime, ad esempio da parte di molti giornalisti che si
sentono spodestati dal proprio ruolo di detentori della notizia e fanno
difficoltà a ridefinire il mestiere stando dentro il flusso delle informazioni
e accettando il contributo dei non professionisti. Ancora più sorprendenti sono
le resistenze nel mondo delle associazioni e del non profit, che dovrebbero
essere apparentemente le più votate a questo tipo di comunicazione. Come
sosteneva Paolo Ferrara, responsabile raccolta fondi dell’Ong Terres des Hommes, già
nel 2008: «La rete è quella piazza in cui le Ong possono recuperare il rapporto
con la gente e con il territorio, che negli anni hanno perso».

A inizio 2013, Ong 2.01 ha
realizzato una ricerca su tutte le Ong italiane registrate al ministero Affari
esteri. In sintesi i risultati hanno evidenziato che la maggior parte di esse
tende a usare siti, blog e social network come semplice vetrina delle proprie
attività, nel senso più tradizionale del marketing: cioè come «canale» per
informare o lanciare eventi e campagne, come si farebbe con uno spazio
pubblicitario in Tv. Molto meno si lasciano permeare da un nuovo modo di
lavorare che vede gli utenti protagonisti attivi e coproduttori di contenuti.

Dialogo continuo, online

«Non si tratta di promuovere prodotti vecchi attraverso
nuovi canali, ma di realizzare prodotti nuovi» sostiene Beth Kanter, guru del
web e autrice del libro «The networked non
profit». Come? Instaurando un dialogo continuo con la
propria comunità online fin dall’inizio della creazione di un progetto (e non
solo quando è già confezionato per chiedere soldi) rendendosi disponibili a
eventuali modifiche in base ai feedback ricevuti. Aggioando continuamente la «comunità»
sui risultati ottenuti o sulle difficoltà incontrate senza nascondere i
fallimenti. La trasparenza sul web è fondamentale e va decuplicata rispetto
all’offline (lavoro non sul web, ndr) per superare
l’inevitabile diffidenza dovuta al fatto di non incontrarsi di persona.

Esempio di grande successo in questo senso è una realtà
come Kiva.org, sito di microcredito online per i paesi poveri.
Attraverso la raccolta popolare di piccole quote di 25 dollari per sostenere
progetti dei contadini, ha raccolto in 9 anni quasi 550 milioni di dollari,
coinvolgendo oltre un milione e 150 mila donatori e realizzando migliaia di
progetti in 76 paesi del mondo. Con 243 partner sul terreno e il lavoro
volontario di 450 persone che traducono in 16 lingue e mettono online i
progetti dei piccoli imprenditori. Cosa ha fatto di nuovo Kiva.org? Il
microcredito esisteva da decenni nella cooperazione internazionale, Kiva ha
saputo però reinterpretarlo alla luce del web con una comunicazione diretta,
una mediazione ridotta all’osso, la trasparenza assoluta e il feedback continuo
sui risultati. Ha fatto sentire protagonisti gli utenti e diffuso il messaggio
con un ampio ricorso a strumenti virali (video, foto, testi accattivanti con
rapida diffusione sui social network, ndr).

Altro esempio internazionale molto rinomato è quello di Charity Water, Ong
americana non particolarmente innovativa nei progetti che realizza, ma
straordinariamente capace a comunicare sul web. Cosa ha fatto? Oltre ad avere
un sito graficamente accattivante, chiaro, semplice, in cui in ogni passo
coinvolge l’utente nelle attività della Ong, ha creato una sotto sezione «My Charity Water» dove
ogni navigatore con pochi click può crearsi un suo sito personale, con il suo
nome e la sua immagine allo scopo di far proprio e sostenere un progetto di Charity Water
diffondendolo sui propri social network e tra amici e parenti in occasione di
eventi familiari quali compleanni, feste, battesimi, diventando così
testimonial dell’associazione. Risultato: dal 2006 a oggi, in piena crisi,
11.621 progetti realizzati in 22 paesi.

Ma ci sono esempi anche più «nostrani», Action Aid Italia ha
lanciato la campagna «Dona il tuo profilo Facebook», ovvero per un tempo
determinato sostituisci alla tua foto e la tua descrizione sui tuoi social con
quella di una donna africana per far conoscere la sua storia ai tuoi amici. In
sostanza realizza il vecchio «voce a chi non ha voce», ma con sistemi nuovi.

Testimonial individuali

Un esercito di piccoli e grandi opinion leader,
persone comuni, che studiano, lavorano e comunicano non al grande pubblico, ma
a qualche decina di amici, parenti e conoscenti. Testimonial non pagati e, per
questo, molto più attendibili e influenti.

Certo, siamo abituati a immaginare i volontari come
quelli che partono per l’Africa o distribuiscono le colazioni ai senzatetto.
E per questo c’è chi ha distinto tra «soft» e «hard people raising»,
intendendo quest’ultimo il reclutamento di volontari disposti a rimboccarsi le
maniche: non solo infermiere al fronte, ma anche distributori di volantini e
venditori di azalee per finanziare la ricerca contro il cancro. Il «people
raising morbido», invece, è il reclutamento di volontari che alimentino il
passaparola, mettano una firma o promuovano il messaggio di una non profit o di
un politico «mettendoci la faccia». Tuttavia la distinzione tra i due si fa
sempre più sfumata e spesso una mobilitazione online ottiene risultati offline.

Come l’Ong Cefa di Bologna, che ha realizzato una pagina
Facebook del suo progetto «Africa Milk project» per la realizzazione di una
latteria in Tanzania, da quattro anni racconta passo passo il progetto
pubblicando foto, video, testimonianze, raccontando successi ma anche difficoltà
e fallimenti. Ha raccolto quasi 10 mila fan e attraverso Facebook ha trovato
nuovi volontari e partenariati per il progetto, ha realizzato una marcia di
solidarietà e raccolto fondi.

Relazioni virtuali

Ma la rete non cambia solo le tipologie di
comunicazione, cambia le nostre relazioni (una coppia su cinque oggi si conosce
in rete) e cambia anche l’economia.

Nel web sociale il valore economico si produce
attraverso la condivisione. L’esplosione della cosiddetta «sharing economy» ha
visto nascere centinaia di piattaforme per la condivisione del sapere, come «Insegnalo»
che permette di seguire e impartire video lezioni su vari argomenti, oppure «Neighborgood» per
lo scambio di attrezzi utili tra vicini di casa o ScambioCasa, Couchsurfing e
mille altri.

L’interessantissimo libro di Marina Gorbi «The Nature of the Future»
sintetizza con due neologismi il prossimo futuro. Il primo è «amplified
individual
»: indica la natura dell’essere umano «amplificato» dalla
tecnologia, dall’intelligenza collettiva e dall’appartenenza a innumerevoli
reti sociali. Il secondo è «socialstructing»: la creazione di una
economia fondata sui valori personali e relazionali, in cui i social network
sono di fatto la struttura portante.

Dice la Gorbi: «Nel futuro prossimo gli individui
amplificati dall’ubiquità della tecnologia costruiranno senso esistenziale e
valore economico in contesti social strutturati».

Anche le attività produttive si stanno ridisegnando in
rete, mentre il declino della grande industria sembra inesorabile, nascono
nuove forme di artigianato individuale grazie a tecnologie come le stampanti a
3D che permettono di «stampare» oggetti reali in qualunque parte del pianeta a
partire da file di progettazione multidimensionale. Il che apre anche nuovi
orizzonti per i paesi poveri, dalla «stampa» di protesi mediche in zone remote
(progetti già avviati in Sud Sudan e Kenya) a quella di pezzi di ricambio,
attrezzi agricoli e ogni genere di oggetti, anche organici (sono già stati
stampati in 3D interi aerei, case, pistole, cibo fino agli organi umani ricavati
da staminali).

Pericoli reali
Tutto bene dunque? Non proprio.

Ce lo illustra la storia di Sweetie, una bambina «virtuale»
realizzata da Terres des Hommes
Olanda, utilizzata come esca per studiare il fenomeno
pedofilia via web. Riporta il sito www.today.it: «In pochi mesi più di
20 mila utenti da tutto il mondo le hanno chiesto prestazioni sessuali on line.
Sweetie si presentava come una bambina filippina di dieci anni e gli utenti in
cambio di denaro le chiedevano delle prestazioni sessuali tramite la webcam. Mille di questi
sono stati identificati mentre si collegavano via chat. Le registrazioni video
delle conversazioni sono state consegnate all’Interpol. I risultati dello
studio hanno portato l’associazione per i diritti dei minori a lanciare un allarme
nei confronti di un fenomeno ancora poco conosciuto, quello del turismo
sessuale minorile via webcam, noto anche come Wcst (Webcam child sex tourism).
[…] Secondo Raffaele K. Salinari, presidente di Terre des Hommes
quest’esperimento “è la dimostrazione di come pedofili e sfruttatori di bambini
possano agire indisturbati nella rete, ma anche di come sia facile
rintracciarli”». E Terres des Hommes assieme ad Avaaz.org (noto
sito di petizioni online) hanno lanciato una raccolta firme per fare pressione
sui governi di tutto il mondo in tema di lotta contro il turismo sessuale
minorile tramite webcam».

Il caso di Sweete apre un ampio spazio di riflessione
sulla doppia faccia del web, se è un luogo che permette nuove forme di
coinvolgimento, protagonismo e azione sociale, ugualmente apre la porta a nuove
insidie, distorsioni relazionali non solo di natura sessuale. Come ricorda
ancora il Papa nel suo messaggio: «La velocità dell’informazione supera la
nostra capacità di riflessione e giudizio e non permette un’espressione di sé
misurata e corretta. L’ambiente comunicativo può aiutarci a crescere o, al
contrario, a disorientarci. Il desiderio di connessione digitale può finire per
isolarci dal nostro prossimo, da chi ci sta più vicino».

Disintossicarsi dal web

È emblematico il fatto che nel 2010 sia stato aperto
all’ospedale Molinette di Torino il primo centro per la «disintossicazione da
Inteet» per videodipendenti cronici da giochi e social network. «Le nuove
dipendenze – spiega il professor Donato Munno, responsabile del centro,
intervistato da La Stampa – sono quelle senza droga. Il rischio è il distacco
dalla realtà: tra i casi segnalati, ci sono quelli di persone che arrivano
tardi al lavoro perché non riescono a spegnere il computer attraverso il quale
dialogano a distanza. Oppure uomini e donne che soffrono di deprivazione del
sonno, che sviluppano un isolamento dal resto della famiglia, figli compresi».

Dietro la dipendenza da Inteet, come dietro la
dipendenza da ogni droga, stanno il disagio esistenziale ma anche enormi
interessi economici. Per dare un’idea secondo i dati di Socialnomics nel
2013 i giocatori online nel mondo hanno comprato prodotti virtuali per 6
miliardi di dollari, più del doppio dei 2,5 miliardi di dollari di prodotti
reali (popco, patatine, ecc.) consumati dagli spettatori dei cinema. Un
mercato iper miliardario e in piena espansione spinge in tutti i modi le
persone a vivere vite parallele in rete.

Tutti controllati

C’è poi il problema, serissimo, del controllo dei nostri
dati. Tutto quello che scriviamo, postiamo e alleghiamo sui nostri social è
materiale prezioso per aziende e multinazionali che ci profilano pubblicità
mirata sulla base dei nostri interessi. Ma anche per governi o centri di potere
che intendono controllarci.

Sul tema della sicurezza la questione maggiore è senza
dubbio quella relativa ai cosiddetti «Big Data», un termine che va di
moda per indicare quello che fanno le aziende nella raccolta e nell’analisi di
fiumi di informazioni su Inteet con lo scopo di ottenere indizi sui
consumatori, prodotti o modi migliori per gestire un business. Negli ultimi
tempi si è poi aggiunto un altro fenomeno che va di pari passo col travolgente
sviluppo delle connessioni mobili e cioè le aziende che raccolgono informazioni
sui dati di localizzazione estratti da smartphone o tablet.

C’è chi prevede che il condizionamento culturale ed
economico passerà sempre più da Inteet, così come per molti decenni è passato
dall’azione persuasiva della Tv e degli altri mass media, ma avrà ancora
maggiore capillarità e pervasività per arrivare a essere «controllo globale».

La doppia faccia del mondo digitale rispecchia, nei
fatti, la doppia faccia di tutte le conquiste tecnologiche, aprono nuovi
orizzonti e straordinarie possibilità e insieme rischi e pericoli di enorme
gravità. Il problema è l’uso che si fa della tecnologia, chi la controlla e
quali sono i centri di potere dominanti, non la tecnologia in sé. Oggi
possibilità di azione ci sono ancora, la rete continua a essere lo spazio più
libero che abbiamo a disposizione e lo dimostrano i casi dei regimi
dittatoriali che trovano come unica soluzione estrema per contrastare i
movimenti popolari quella di disconnettere Inteet o di spegnere specifici
social network. Per questo dobbiamo essere preparati e coscienti delle
potenzialità e dei rischi. L’uso che ne prevarrà in futuro è ancora tutto da
vedere.

Silvia Pochettino*
 

________________
*Silvia Pochettino, giornalista, è direttrice
della testata Volontari per lo
Sviluppo  e
fondatrice di Ong 2.0.


La campagna di Ong 2.0


Ripensare la cooperazione

La testata «Volontari per lo Sviluppo»
lancia la campagna #cooperazionefutura e chiede di immaginare la cooperazione
internazionale di domani, partendo dalla piattaforma di Ong 2.0. Un nuovo
spazio online che sarà il punto di partenza per informare, formare e connettere
esperienze sull’uso dell’innovazione sociale e delle nuove tecnologie nella
cooperazione.

Telemedicina, applicazioni per
l’agricoltura, droni per le emergenze, big data… ma anche social
business
e sharing economy stanno ridisegnando le relazioni tra
paesi. E il Sud del mondo si scopre, in molti casi, più avanti di noi nell’uso
creativo della tecnologia e dei nuovi sistemi di economia sociale.

Così i vecchi schemi dell’aiuto
allo sviluppo appaiono sempre più superati, mentre diventa possibile
coinvolgere le popolazioni rurali attraverso semplici sms, attuare scambi
economici attraverso i social network o mappare in tempo reale situazioni di
crisi con software gratuiti.

Ong 2.0, progetto nato tre anni fa
dall’équipe di Volontari per lo Sviluppo, edito da Focsiv, Cisv e altre 12 Ong,
è oggi una testata e un centro di formazione e servizi online sulle nuove
tecnologie per la cooperazione. Nell’ultimo anno ha formato attraverso i webinar
(seminari online) oltre 2.500 persone in tutto il mondo.

Ora è allo
studio una nuova piattaforma e una app di Ong 2.0 che aiuti a connettere
le esperienze e realizzare progetti sperimentali tra Nord e Sud anche con la
finalità di facilitare l’entrata dei giovani nella cooperazione internazionale.
Per questo la campagna #cooperazionefutura: conoscere le idee, le necessità
e le difficoltà di chi vive, o vorrebbe vivere, la cooperazione internazionale
oggi.

Si può inviare la propria idea sul
form della campagna di Ong 2.0 (www.ong2zero.org) oppure con
un tweet a @rivistavps, una foto o un post sul canale Facebook 
(https://www.facebook.com/cambiareilmondoconilweb) utilizzando l’hashtag
#cooperazionefutura.

Messaggio di papa Francesco per la Giornata della Comunicazioni Sociali
– keggetelo su vatican.va il sito del Vaticano

tags: media, comunicazione, web, dipendenza,web 2.0, internet, informazione, dialogo, relazioni

Silvia Pochettino




Voce allo spirito

Incontro con il capo supremo del Vodù
«Siamo spirito e tendiamo all’eccellenza. Perché siamo una
piccola particella di Dio». Il capo della religione più temuta della storia, ma
anche malintesa e bistrattata, si racconta. Lui, uno scienziato della Sorbona,
è da 40 anni anche sacerdote vodù. Con sorrisi e gentilezza ci racconta le sue ultime
battaglie, contro persecuzioni e calunnie, per dare alla religione degli
haitiani il posto che le spetta.

Un cartello segnala casa sua, il Péristyle de Mariani, ovvero il
tempio vodù (anche detto hounfor) di Mariani, cittadina nei sobborghi Sud di Port-au-Prince. Qui,
Max Gesner Beauvoir ha fondato nel 1974 un luogo di culto della religione vodù,
tuttora molto attivo.

Classe
1939, ingegnere chimico, ha studiato a New York per poi specializzarsi in
biochimica con un dottorato alla Sorbona a Parigi. Ha lavorato a lungo negli
Usa, specializzandosi sui poteri curativi delle piante, ottenendo anche un
brevetto. Ma la sua vita cambia nel 1973, quando, sul letto di morte, il nonno,
famoso sacerdote vodù, lo indica come suo successore.

Max Beauvoir diventa un hougan (sacerdote), e ben
presto strenuo difensore della religione vodù i cui adepti sono da sempre
perseguitati. Nel 2005 nasce l’idea di fondare la Federazione nazionale dei voduisti haitiani, che nel 2007 diventa Confederazione (in creolo: Konfederasyon Nasyonal Vodou Ayisyen). Max Beauvoir viene eletto capo supremo, ovvero «Ati nasyonal» del
vodù haitiano.

Ci
riceve nel cortile di casa sua, una costruzione molto particolare, nella quale
ogni dettaglio, dagli scuri alle grate delle finestre, alle pietre che
compongono i muri, ricorda simboli mistici.

Seduti
intorno a un tavolo, conversiamo con questo distinto signore dai capelli
bianchi, gentile e tranquillo. Stentiamo a credere che sia il capo di una
religione che spesso incute timore.

Un sentimento lungo secoli

Dopo il terremoto del 2010 c’è chi ha dato la
colpa di tale evento al vodù. «Un predicatore americano, Pat Robertson, ha
dichiarato che questo disastro naturale è dovuto al fatto che nel paese si
serve Satana1. Ma questi sentimenti sfortunati trasmettono
l’amarezza che alcuni hanno nel loro cuore, dovuta al fatto che gli haitiani
avevano vinto la loro guerra d’indipendenza contro l’armata di Napoleone. E non
solo. Il governo degli Usa dell’epoca aveva preso parte per il re di Francia, e
così gli statunitensi avevano preso molto male la disfatta francese. Ma nella
realtà ne avevano anche beneficiato, perché la Francia aveva dovuto vendere
grande parte del Mississippi agli Usa, per appena 10 cent all’ettaro. E questo
ha quasi raddoppiato il territorio statunitense. L’amarezza degli europei in
generale era tale che alcuni decenni dopo l’Europa ha invaso il continente
africano fino a dividerlo come una torta2. Così piccoli paesi come il Belgio hanno avuto il controllo di enormi
regioni vaste come il Congo».

Max Beauvoir ci descrive gli strumenti usati
dagli Usa per creare un’atmosfera «negativa» intorno alla religione haitiana. «Sono
sentimenti profondi e molto cattivi, e non sono mai finiti da quell’epoca,
continuano ancora oggi. È per questo che gli Usa hanno messo in piedi una
struttura particolare, chiamata Hollywood, che ha fatto tutta la sua fortuna
sull’anti haitianismo, contro la cultura haitiana e contro il vodù. Ha prodotto
e diffuso un grande numero di film sul vodù, tradotti in decine di lingue, al
fine di penetrare la coscienza di tutto il mondo. Anche gli europei, che
sarebbero i più scientifici e disinteressati, in modo incosciente sono
influenzati da tutta questa “campagna”.

Più tardi qualcuno di Hollywood diventa
candidato alla presidenza. È Ronald Reagan che fa una campagna elettorale
ancora sulle spalle dei voduisti. Infatti è parlando del «voodoo economics»3 che fa
ridere tutti del vodù e degli haitiani. E Reagan viene eletto, fa due mandati e
diventa uno dei più potenti presidenti degli Usa di tutti i tempi.

Questo sentimento profondo contro l’haitiano
e la sua cultura esiste nel cuore di molte persone nel mondo, quindi le parole
del predicatore statunitense non ci hanno stupiti. Sottolineo che Haiti non è
il paese che ha subito più terremoti. Esistono paesi molto più sismici, come
Cile, Giappone e gli stessi Usa, con
Los Angeles, sono terra di terremoti».

Così dopo il sisma una volta di più ci sono
state persecuzioni anti vodù contro praticanti e sacerdoti.

Anche l’epidemia di colera, il cui bacillo è
stato portato da alcuni nepalesi del contingente dei caschi blu dell’Onu
(Minustah)4, ha dato adito a uccisioni. «Persone che si
dicono molto formate, hanno imparato la biologia, hanno detto che gli haitiani
sono in grado di fabbricare il vibrione del colera. E così avrebbero diffuso la
malattia a tutti. Per questo motivo hanno ucciso molti voduisti, sacerdoti e
praticanti, accusandoli di fabbricare il colera. Occorre ricordare che nel nome
di Gesù, che dice di amare tutti, 13 volte nei 200 anni di storia di Haiti5, sono stati perseguitati hougan e mambo. Sono stati pogrom anti vodù, di cattolici e protestanti insieme, in
modo ecumenico, per uccidere migliaia di voduisti. Sono andati da loro, hanno
presi i loro beni personali, quello che non volevano lo hanno bruciato, hanno
inviato molti oggetti rituali alle università americane, penso in particolare a
Yale.

Ma per loro era il lavoro di Cristo, uccidere
le persone, e potevano farlo come volevano. Parlo di cristiani di tutte le
confessioni».

L’anima degli haitiani

Max Beauvoir ci racconta: «Sotto il regime di Duvalier nello
spirito dei cristiani haitiani c’era la convinzione che tutti i voduisti
appoggiassero Duvalier, e che lui e il vodù fossero la stessa cosa. Occorreva
uccidere tutti i voduisti perché erano duvalieristi. Sostenevano che solo loro
avevano tutti i diritti. I ton ton
macoute6 erano necessariamente voduisti. Per provarlo entravano nei templi
e trovavano abiti blu, che era l’uniforme dei ton ton macoute, ma è pure la divisa di cousin Zaka, il loa (spirito) del lavoro. Lo chiamiamo Zaka mede, il lavoro divinizzato. Dio vi dice:
avete la vita, la salute, ma in più dovete lavorare perché dal lavoro arrivano
dignità e onore».

Gli chiediamo se il feroce dittatore François Duvalier, abbia
strumentalizzato la religione.

«Non realmente. Ma non ha fatto nulla per promuovere la religione
vodù. Lui ha piuttosto promosso i gruppi di protestanti. Quando François
Duvalier è arrivato al potere c’erano sette gruppi protestanti, quando è andato
via erano 3.000 gruppi diversi.

Sono piuttosto i giornalisti che hanno strumentalizzato il
rapporto Duvalier-religione. Era molto comodo dire che Duvalier era voduista:
la sua anima quindi parlava con voce nasale, come un morto, come baron Samedi (il loa dei cimiteri, ndr). Tutto falso».

Il leader religioso spiega l’essenza del vodù. «È molto triste che
il vodù non sia stato promosso, perché il vodù è l’anima stessa degli haitiani.
È a causa del vodù che un haitiano è haitiano. Tutte le abitudini che abbiamo,
i nostri usi e costumi sono vodù. Tutta la saggezza degli haitiani è rinchiusa
nella tradizione e nei termini vodù, e soprattutto nelle parabole vodù. È in
queste che troviamo il modo in cui comportarci non solo l’uno con l’altro, ma
con gli stranieri. Grazie a esse conosciamo il nostro posto nel mondo: con il
sole, la luna, le stelle, gli alberi, gli animali, il mare, tutto quello che ci
circonda. È nel vodù che troviamo tutte queste relazioni.

Perseguitando o anche non valorizzando la religione «hanno
impedito al paese di svilupparsi. Perché non ci si può sviluppare che a partire
da se stessi, da ciò che si è, non a partire da un altro. È come lo sviluppo
della persona umana, che avviene da se stessa. Ma bisogna essere in forma, è
così che si va avanti nella vita. Bloccando questa crescita hanno fermato il
paese e la sua evoluzione».

Gli errori degli europei

Prima dell’arrivo degli europei, sull’isola vivevano indigeni e
non africani. I loa non erano presenti.

«Gli spiriti vodù non possono venire che con le persone vodù, sono
sempre le persone a fare da veicolo. C’è stata una serie di errori commessi da
Cristoforo Colombo. Ad esempio nel credere che ad Haiti vivesse una razza
diversa, che hanno chiamato “pelle rossa”. Uno dei più grandi errori della
storia: non c’è mai stata una razza dalla pelle rossa. C’era gente che abitava
qui, in un clima tropicale. C’erano zanzare, e così si cospargevano di un
unguento ricavato dai semi rossi di una pianta locale. Questo li proteggeva.
Solo molti anni più tardi si è scoperto che sulla terra e nell’universo c’è una
sola razza, detta la “razza umana” e anche quelli che parlano di neri, bianchi
e gialli hanno solo creato categorie che non esistono, a uso e consumo dei
razzisti. Sempre Colombo voleva provare che la terra è rotonda. Ma in Africa lo
sapevamo da lungo tempo. Avevamo pure degli strumenti, il laye, che è rotondo. Laye, vuole dire universo in lingua
yoruba in Nigeria, ma è della stessa radice di Ayi da cui deriva Ayiti (Haiti in creolo). Ayi vuol dire la
terra, Ayi-ti, ovvero questa terra è nostra. Il popolo fon in Benin, ha lo stesso termine. E
abbiamo anche delle divinità: la madre dell’universo è mambo Delayi».

Spiritualità e razionalità

Da ingegnere chimico a capo supremo del vodù7. Sembra difficile conciliare una
parte così razionale con una spirituale e irrazionale.

«Siamo qui in quattro persone, ma nel vodù diciamo che siamo qui
in quattro spiriti: sono i nostri spiriti a essere seduti a questa tavola.
Possiamo dire che ci sono i nostri corpi; ma tutto il lavoro che facciamo, ad
esempio il video che state girando, è una produzione spirituale. Il vostro
corpo non fa altro che aiutarvi in questa produzione. La mano tiene la
telecamera, il cervello aiuta lo spirito. Riflette sulle cose poi le realizza.
E i nostri spiriti sono ben più grandi di quello che vediamo seduto sulla
sedia. O ancora: una persona che rispettiamo, ci saluta, ci dà la mano, saluta
la nostra dignità, ovvero lo spirito, non il corpo. Abbiamo diritto al rispetto
perché è una particella dello spirito di Dio che abbiamo nelle mani. Siamo
spiriti. Si veda Dambala-Wèdo, il dio serpente. Il suo vévé8 rappresenta due serpenti: è proprio per ricordare che siamo
spiriti. E come il serpente, lasciamo il nostro corpo “in dietro”
periodicamente, ma la nostra vita continua. Siamo figli di Dio: come è
possibile che un figlio di Dio possa morire? Dio è la perfezione. Prima di
tutto lavoriamo per diventare perfetti. Per questo ci ha dato un corpo
imperfetto, ma noi ci impegniamo per aiutarlo nel suo lavoro, la grande opera
di Dio che è la creazione. Mantenere vivente tutto quello che c’è intorno a
noi, il sole la luna, le stelle, gli alberi, il mare: il mondo. È per questo
che siamo qui. Siamo stati creati da Dio che è perfetto.

Ci serviamo delle nostre imperfezioni per migliorarci in
continuazione, in modo da diventare un po’ come lui. Anche se mentiamo,
rubiamo, ecc. Questi sono errori di “prima nascita”, ma ci miglioriamo con
l’esperienza. Riusciremo, siamo figli di Dio. Tutti vanno in paradiso. Bruciare
gli spiriti non è possibile, le anime non hanno sostanza».

Nel vodù un ruolo centrale è giocato dai sacerdoti: hougan (o hungan) gli uomini e mambo le donne.

«Si diventa hougan solo attraverso l’iniziazione. Il che vuol dire prendere
coscienza che si è spirito. Che si può vivere come persona, come faccio in
questo momento, oppure è il mio spirito che prende il posto e tutto diventa più
grande, più straordinario. Ognuno di noi ha i suoi spiriti, io ho i miei, voi
avete i vostri. Qui ad Haiti conosciamo questi spiriti, ma negli altri paesi,
come in Europa, si impara a evitare gli spiriti, a non riconoscerli, e si pensa
che sia il corpo a fare tutto e che il cervello sia come un computer. Questo
per noi non è vero: tutto il corpo è al servizio dello spirito ed è lo spirito
la cosa importante di noi, ci rende belli, grandi, formidabili. Ci permette di
dire che coltiviamo l’eccellenza, qualsiasi cosa facciamo, che siamo artista o
prete. Questo per cercare di avvicinarci a Dio il più possibile».

Religioni unite?

Oggi i voduisti hanno creato con le altre religioni haitiane la
piattaforma «Religioni per la pace»9 che ha assunto un ruolo «politico» di mediazione nell’impasse che vede contrapporsi il presidente
della Repubblica, Michel Martelly e il parlamento. I tempi delle persecuzioni
sembrano lasciati al passato.

«Abbiamo creato insieme “Religioni per la pace”, tutte le
religioni insieme. Io sono amico dei vescovi. Lavoriamo insieme. Non siamo
ancora arrivati a portare questo approccio fino al livello della base, in modo
che il piccolo pastore lasci tranquilla la piccola mambo. Ma lavoriamo verso questo, vogliamo
arrivarci. C’è sempre chi pensa: “Bisogna farvi morire, sparire, perché siete
emissari del diavolo”, ma sono cose che sostengono perché non riescono a
spiegare la nostra esistenza. Si tratta di razzismo cattivo, criminale e
assassino».

Anche per difendere la religione e i suoi spazi Max Beauvoir fonda
la Confederazione nazionale dei voduisti haitiani (Konfederasyon Nasyonal Vodou Ayisyen)10.

Gli chiediamo: «Lei è presidente?». Risposta: «No, Ati si dice. Quando i voduisti hanno
voluto mettersi insieme abbiamo cercato un titolo, e abbiamo rifiutato
presidente e direttore generale. Abbiamo scelto Ati, come Legba che è Ati bon. Nel vodù vuol dire il grande albero
della foresta che protegge i piccoli alberi e permette loro di crescere.
Attraverso le sue azioni diventa un modello che permette ai piccoli di
svilupparsi e di esprimersi. Questa è la mia funzione.

Nel 2007, ci siamo resi conto che i cristiani sono insieme, hanno
formato l’ecumenismo, sempre anti vodù. Ma siamo in un paese vodù, e loro hanno
occupato tutte le funzioni e tutti i posti di rilievo. Quindi stiamo solo
reclamando il nostro spazio su questa terra che è nostra».

Questa religione oggi sta migliorando la sua immagine nel mondo. «Osservo
molta curiosità per il vodù, e non solo ad Haiti. I giovani mi scrivono delle
mail. C’è un riconoscimento generale del fatto che il vodù è un’espressione
culturale normale, valida e spirituale. E i giovani haitiani praticano il vodù».

«Sono il capo del vodù haitiano. È una carica molto pesante e
difficile da portare. Ci sono delle forze negative nel paese. Sono forze
straniere e portano molti soldi per corrompere il cuore della gente e per
impedire che gli haitiani siano autentici e veri. Vengono sotto forma di Ong,
che non sono negative di per sè, ma funzionano negativamente. Vengono per fare
certe cose, ma quando si trovano nel paese non c’è coesione, ognuna fa per
conto suo». Un po’ sorpresi chiediamo all’Ati
nasyonal: «Anche prima del terremoto?». E lui: «Sì, dal 1804».

Marco Bello
 


Note

1 – Devin Dwyer, Pat Robertson blames
earthquake on pact haitians made with Satan, ABCnews, 13 gennaio 2010.2 – Riferimento alla conferenza di Berlino (1884-85) durante la quale
le potenze europee si spartirono l’Africa.

3 – Voodoo economics fu il
nome dato al piano economico proposto da Ronald Reagan alle primarie contro
George W. Bush nel 1980. Reagan vinse e in seguito fu eletto presidente.
4 – Cfr. MC gennaio 2011 e gennaio 2012.
5 – Dall’indipendenza, il primo gennaio 1804.6 – I ton ton macoute erano la
milizia privata di Duvalier, che non si fidava neppure dell’esercito. Furono i
principali responsabili di assassini politici e torture.

7 – Marlise Simons, Power of
voodoo, preached by sorbonne scientist, New York Times, 15 dicembre 1983.
8 – Vévé, disegno simbolico
raffigurante gli attributi di un loa, utilizzato nelle cerimonie.
9 – Réligions pour la paix, piattaforma composta da cattolici, protestanti e voduisti per
mediare una riconciliazione nazionale.
10 – Marc Lacey, A Us-trained entrepreneur
becomes voodoo’s Pope, New York Times, 5 aprile 2008.


Glossario


Vodù in pillole

Vodù
(o vudù)
: religione sincretica che trae le sue
origini dalla spiritualità africana e si evolve ad Haiti. Da non confondere con
il vudù praticato in paesi come Benin (Dahomey) e Nigeria, da cui si origina,
ma si differenzia per l’evoluzione creola e i legami con i santi cristiani. Nei
paesi anglofoni si scrive voodoo, in quelli francofoni vaudou, in
creolo vodou.

Loa: sono le divinità e gli spiriti che fanno
parte del pantheon vodù. Ne esistono un’infinità e sono in continua evoluzione.
I principali, riconosciuti da tutti, hanno origini africane; gli altri sono
creoli, meno potenti, ma fondamentali. Gli uomini chiedono ai loa
protezione e questi li «posseggono» durante i riti. I loa sono capaci
del bene e del male e collegano il visibile con l’invisibile.
I diab sono gli spiriti cattivi. Molti loa sono associati a santi
cristiani.

Rada, petro, kongo e gli altri: i primi due sono i riti principali del vodù
haitiano secondo i quali si classificano i loa. Nel rada si ritrovano
alcuni spiriti del Dahomey; il petro ha spiriti più vendicativi e utilizzati
nella magia. Il kongo ha origini bantu, prevede sacrifici e riti più violenti.
Esistono altre innumerevoli classificazioni, ma nessuna universale. Ogni
categoria ha ritmi di tamburo, strumenti, danze, profumi e saluti propri.

Mambo e hungan: sacerdotessa e prete
vodù (questo chiamato anche boko) sono i maestri dei riti.

Damballah-wèdo: è il dio serpente,
vive sugli alberi e nei corsi d’acqua. È una delle divinità più popolari del
vodù haitiano.

Tratto da: Sodò, la cascata dei miracoli, MC,
luglio-agosto 2001
.

La bibliografia è vasta. Il classico in italiano è: Métraux,
Vodu haitiano, Einaudi Paperbacks, 1971.

Tags: Haiti, vudù, Max Beauvoir, religione, hogan, loa

Marco Bello e Gianluca Iazzlino




Tanzania: Tribe «No Name»


I watoto wa mateso, figli del dolore, sono una «tribù» composta da più di 1600 persone, confinata da circa ottant’anni a 2400 metri, sulle montagne dell’Udzungwa. Isolati e cacciati dalla regione di Iringa perché affetti da una forma di epilessia rarissima, sconosciuta quanto loro. A causa dalla malattia venivano considerati posseduti dal demonio.

 

Mi sveglia l’odore della terra bagnata. Piove da giorni ma la notte ne viene giù così tanta che sembra voler sfondare i mabati (le lastre di lamiera che coprono la casa). Ascolto i ragazzi cantare mentre puliscono il cortile, io decisamente meno attiva di loro riesco a pensare solo a un caffè che mi tiri su la pressione. Accendo il computer e inizio la battaglia con la Vodacom nella speranza di aprire la casella di posta elettronica e di leggere un minimo di news.

Arriva Richard, il veterinario, con dei nuovi casi da conoscere. Sono riuscita a coinvolgerlo a tal punto che adesso si sente uno zelante missionario. Non è semplice raggiungere il villaggio, per via delle strade che sembrano aver inghiottito delle saponette tanto si scivola. Sotto la solita pioggia saluto uomini, donne e bambini con le zappe sulla testa che camminano verso i campi.

Incontro Niky, solo, sul ciglio della strada con lo sguardo perso nel suo mondo. Sono stati proprio quegli occhi spudoratamente inespressivi a colpirmi, a tal punto da decidere di studiare questa malattia con il fine di aiutarli. Non mi risponde, è disorientato e non ha preso la medicina. La madre è nella shamba (campo) e lui probabilmente è scappato. Mi chiede un lecca lecca. La prima volta che mi vide era spaventato e non voleva farsi toccare, però alla vista della strana caramella caddero tutte le barriere, e da allora, quando mi incontra mi prende la mano cercando la caramella. Lo accompagno a casa affidandolo alla vicina, e noi proseguiamo. Ci inoltriamo in sentieri nascosti dal mahindi (mais) già alto. La vegetazione sembra aver risucchiato il paesaggio. Il profumo della terra bagnata mi accompagnerà per questi mesi.

Al cospetto del capo

Seguo Richard con passo svelto su e giù per i sentieri, affollati da case nascoste dal verde. Il sole si sveglia all’improvviso. È forte, tipico segno che pioverà ancora. Come una lucertola mi lascio bruciare la pelle ingrigita dalla pioggia.

Arriviamo alla dimora del capo villaggio. Un impasto di fango e terra rossa ricopre la casa imbiancata da disegni e scritte di ringraziamento. Babu (nonno) Aldo Kahemela è seduto a far asciugare le ossa bagnate dall’umidità delle montagne. Ultra ottantenne, con sguardo curioso ci dà il benvenuto nel suo villaggio e ci presenta la grande famiglia. Figli, nipoti e pronipoti di tutte le età ci accerchiano con sorrisi e offerte di ogni tipo, dalla polenta al pombe, il tipico fermentato alcolico ricavato dalla canna da zucchero o dal mais. L’ospite, anche inatteso, qui è visto come una benedizione.

Janeth mi saluta porgendomi la sua unica mano ricoperta da calli, l’altra è ridotta a un moncherino bruciato che sembra un uncino. È babu Aldo a parlare per primo: «Lei è mia nipote, la figlia di mio fratello. Ha iniziato a cadere quando era una ragazzina. Abbiamo capito che era quella malattia perché la kifafa è la maledizione delle nostre montagne. E negli anni Janeth è peggiorata, tanto da cadere più volte al giorno». «Ho avuto un attacco così forte che sono caduta nel fuoco e quello che resta di questa mano ne è il risultato. Non mi hanno portata in ospedale perché era troppo lontano ma mi ha cucita il guaritore tradizionale del villaggio» continua Janeth. «Se prendo le medicine mi accorgo quando sto per avere una crisi. Una ventata di calore m’invade tutta, ogni parte del corpo inizia a tremare e la testa gira così forte che perdo i sensi. In quei momenti, se sono cosciente, cerco di sdraiarmi a terra per non cadere e non farmi male e se sono vicina al fuoco mi allontano». Janeth è visibilmente ustionata in più parti del corpo, ogni bruciatura racconta un giorno della sua vita senza medicina. In Tanzania ogni forma di epilessia viene curata con il phenobarbitone, un antidepressivo che consente agli epilettici di condurre una vita quasi normale, riducendo notevolmente gli attacchi senza però badare alle controindicazioni.

Il phenobarbitone è considerato una medicina salva-vita e il ministero della salute ne aveva previsto la distribuzione gratuita, ma i dispensari e l’ospedale non ne hanno mai, e raramente viene distribuito ai malati. Stranamente però lo si può comprare nelle duke (negozi).

Malattia di origini incerte

Parlo con la dottoressa responsabile dell’unico ospedale della provincia e anche lei sembra non conoscere le percentuali troppo alte dei malati.

«Io riconduco tutto al parassita del maiale, perché questo tipo di epilessia è diffusa solo qui. Sulla costa, dove non hanno i maiali per via del caldo intenso, non ci sono così tanti malati. E i casi riscontrati presentano una forma di epilessia causata da malaria, febbre e convulsioni. Qui non c’è famiglia che non allevi maiali. Quando giro per villaggi insisto che devono pulire la zona dove stanno gli animali, che devono cucinarne bene la carne. E invece i maiali li vedi gironzolare come fossero cani. Questo parassita non si trova solo nella carne non cotta ma anche nei luoghi dove transitano e defecano i quali sono, il più delle volte, gli stessi in cui va la gente.

Le ustioni, le malformazioni gravissime, che vedi sul corpo delle persone, sono dovute al fatto che per cultura e freddo qui c’è sempre il fuoco acceso e loro, in preda alle crisi, incoscienti ci cadono dentro. Le ustioni non sono curate se non con erbe e il risultato sono  infezioni gravi e quindi amputazioni».

Questa è anche la tesi di Richard, effettivamente comprovata in moltissimi casi.

Generalmente i primi attacchi di kifafa compaiono dopo i dieci anni, invece nei bambini sono di origine genetica, causa di una vecchia consanguineità o perché figli di donne che hanno abusato di alcol durante la gravidanza.

Su queste montagne la piaga del bere pombe per riempire lo stomaco, per combattere il freddo o per noia, è diffusissima. Solo una percentuale ridotta di persone ha sviluppato la malattia in seguito a un trauma cranico, a malaria o meningite.

Mungu mwema (Dio buono)

Questa popolazione della foresta vive la quotidianità in una lotta ancestrale per la vita. È una «lotta di preghiera». Sono uomini e donne, la cui cultura è scandita dall’appartenenza a ritmi tribali che regolano ogni azione. Una tribù che lotta e prega per avere un buon raccolto e contro malattie come la kifafa che portano via il cervello, non fanno più ragionare.

Vivendo con loro si respira il rispetto e la fiducia che ripongono nel «Dio buono», la certezza che Dio cammini insieme a loro. Raccontano di un Dio che è amore e non è mai violento.

È interessante ascoltare anche il loro concetto di amore decisamente diverso dal nostro. L’amore coincide con Dio ma è sinonimo di rispetto, bontà, sostegno reciproco, forza, coraggio, fiducia. Sono gli spiriti buoni e gli spiriti cattivi a determinare, invece, le azioni positive e negative. Non è mai Dio a volere cose negative perché lui è il creatore. Certamente si deve un grande «grazie» ai missionari e alle missionarie che instancabilmente hanno girato queste montagne per far conoscere Dio. E la gente ha integrato la parola di Dio nelle proprie credenze.

Reportage «faticoso»

Potrei continuare a scrivere dei tanti sguardi e corpi spaventati, sorridenti, ubriachi, ustionati, deformi che ho incontrato, del mio senso d’impotenza davanti a una popolazione così malata, a volte rassegnata, però sempre serena nell’animo, ma non riesco a evitare di chiedermi come mai anche questa parte d’Africa lontana e scomoda sia frequentata solo dai missionari e dalle missionarie. In Tanzania le associazioni nazionali e internazionali, grandi e piccole di volontariato e di assistenza sono ovunque con progetti ambiziosi. Ho letto di una società che sembra sia venuta per impiantare gratuitamente la fibra ottica in tutto il paese. La installeranno insieme ai canali per l’acqua che ancora non ci sono?

Già negli anni settanta molti medici sottoposero all’attenzione internazionale questa diffusione stranamente massiccia di epilettici, tanto da coinvolgere il governo tanzaniano in una politica sanitaria adeguata. Ma mai nessuna associazione di prevenzione e sostegno ha realmente studiato le cause e gli effetti di queste forme di epilessia e proposto un programma sanitario.

In Italia, secondo la Lega Italiana contro l’epilessia (Lice), ogni anno circa 500.000 persone vengono colpite, ma i malati avendo la possibilità di curarsi, conducono vite normali.

In Tanzania invece, la convinzione generalizzata delle grandi Ong è che l’epilessia sia una malattia causata da scarsa igiene o da antichi riti e usanze tribali. Non destando l’attenzione internazionale come invece accade per l’Aids, si ritiene che non sia utile investire in piani di prevenzione e cura.

Questo reportage, «Tribe no name», è faticoso fisicamente ed emotivamente. È una protesta nei riguardi di chi è complice della triste realtà che nel 2014 in Tanzania, ci siano ancora troppe persone che muoiono di epilessia, che non hanno diritto a una vita normale perché viene negata loro una pastiglia salva vita.

Romina Remigio
 

 Questo splendido reportage fotografico di Romina Remigio ha vinto il «Silver award», categoria Storia, al Fiof Awards Contest 2014 di Orvieto. Clicca sul simbolo a destra per vederlo sul nostro sito. Clicca qui per vederlo su sito della Fiaf.

Tags: epilessia, discriminazione, malattia, emarginazione, pregiudizi sociali, Tanzania

 

Romina Remigio

 



Le guerre dei Mari Orientali

L’espansionismo cinese


La fame d’energia della Cina non conosce pause.
Per esaudirla Pechino non si ferma davanti a nulla. Lo sanno tutti i paesi
confinanti che si affacciano sul Pacifico: Vietnam, Giappone, Filippine,
Malesia, Indonesia, Taiwan. Con essi la superpotenza fa la voce grossa
pretendendo le isole Paracel, Spratly e Senkaku. Sotto i mari meridionali e
orientali si celano riserve di idrocarburi, che Pechino vuole tutte per sé.

Dalla fine degli anni Ottanta lo sviluppo
economico della Cina sembra inarrestabile. Per sostenere questa crescita ed i
consumi del suo miliardo e mezzo di abitanti la nazione è costretta a cercare
continuamente nuove fonti di approvvigionamento energetico e, conseguentemente,
a sviluppare la propria sfera di influenza.

Nel
2009 un rapporto della Iea (Inteational Energy Association) ha
evidenziato che la Repubblica Popolare era divenuta il maggior consumatore al
mondo di energia sorpassando gli Stati Uniti e le proiezioni riportano che
entro il 2030 la richiesta raddoppierà.

Nonostante
la crisi della centrale giapponese di Fukushima, la dirigenza del Partito
comunista non ha ritoccato i propri programmi nucleari: i 20 reattori in funzione
ed i 28 in costruzione porteranno l’energia fissile prodotta a coprire il 6%
del fabbisogno energetico nazionale entro il 2020, mentre gli impianti eolici
colmeranno il 12% delle richieste.

In
attesa che l’energia prodotta da fonti rinnovabili, di cui Pechino è strenuo
sostenitore, possa influire significativamente sulla sua politica industriale,
l’economia del paese deve sorreggersi sui derivati fossili.

Il
carbone, però, che attualmente sopperisce al 69% della domanda energetica, crea
enormi problemi sia dal punto di vista ambientale che sociale a cui si dovrà
trovare rimedio a breve termine.

Il
petrolio e il gas naturale, che soddisfano il 22% del consumo energetico,
sembrano essere, almeno a breve termine, la soluzione meno invasiva e più a
portata di mano. Myanmar, Bhutan, Nepal, Laos sono stati dei serbatorni
energetici che hanno sopperito alla fame di megawatt dell’industria cinese, ma
la mastodontica macchina economica, che dagli anni Novanta marcia ad un ritmo
impressionante di sviluppo, necessita di ben altro.

Il
principale problema, però, è che il 52% del petrolio importato dalla Cina
proviene dal Medio Oriente, regione continuamente sconvolta dalle continue
tensioni politiche. Ciò ha indotto il governo di Pechino a cercare altre fonti
di approvvigionamento che permettano di guardare con più tranquillità al
proprio futuro.

Il
reperimento di queste nuove fonti energetiche deve necessariamente passare
attraverso una maggiore incisività politica e diplomatica che, per la dirigenza
cinese, si traduce in un rafforzamento del proprio apparato militare per
rendere le nuove rotte commerciali sicure e, al contempo, allargare la propria
sfera di influenza.

Una
delle principali e naturali valvole di sfogo di questa politica sono i mari che
si aprono ad est delle coste cinesi.

Il
controllo di queste distese d’acqua chiamate comunemente Mar cinese orientale e
Mar cinese meridionale (ma sempre più spesso queste denominazioni vengono
contestate dai paesi che nutrono gli stessi interessi della Cina) e delle
minuscole isolette che si ergono sulla superficie marina sono oggi più che mai
oggetto di contenzioso tra la Cina e gli stati confinanti.

Non
importa quanto grandi siano queste isole – a volte si tratta solo di semplici
scogli o affioramenti inadatti anche a costruirvi un minuscolo monolocale –
l’importante è piantarvi la propria bandiera nazionale per stabilire la
sovranità e poter sfruttare le risorse energetiche e ittiche entro le acque che
le circondano.

Secondo
la United Nations Convention on the Law of the Sea (Unclos), ogni
nazione ha esclusivo diritto di sfruttare le risorse comprese entro 200 miglia
nautiche (320 km) dalle proprie coste.

Ma
cosa accade quando i limiti di queste 200 miglia nautiche si sovrappongono con
quelle di altre nazioni? Non vi è una specifica legge internazionale che regola
la questione e il problema viene demandato ai rapporti dei singoli stati che,
come è logico prevedere, non hanno facile risoluzione.

È il
caso delle rivendicazioni nel Mar cinese orientale, dove Cina, Taiwan e Giappone
reclamano l’amministrazione delle isole Senkaku/Daiyou (anche il nome delle
isole varia a seconda dello stato che le reclama) e nel Mar Cinese Meridionale
dove gli arcipelaghi delle Paracel e delle Spratly sono contesi da ben sette
nazioni (Vietnam, Cina, Taiwan, Filippine, Brunei, Malesia, Indonesia).

Il
Mar cinese (sia orientale che meridionale) è considerato una vera e propria
autostrada del mare, dove, stando ai dati foiti dalla Casa Bianca, ogni anno
passano 5,3 trilioni di tonnellate di merci, di cui il 23% statunitensi. Il
sottosuolo dei suoi fondali conterrebbe 11 miliardi di barili di petrolio (nel
mondo si stima ve ne siano un totale di 1,47 trilioni) e 190 trilioni di metri
cubi di gas naturale (su un totale mondiale di 6,7 quadrilioni). Numeri
impressionanti, che fatichiamo a quantificare, ma che danno l’idea della posta
in gioco.

Le isole Paracel

La
disputa più incancrenita, ma, almeno sulla carta, anche la più “semplice” da
risolvere, perché ha solo due contendenti, è quella dell’arcipelago delle
Paracel, disputato tra il Vietnam, che lo chiama Hoàng Sa, e la Cina per la
quale sono le isole Xisha.

Le
Paracel sono un gruppo di isole al largo delle coste vietnamite e a sud di
Hainan. Le quindici isole principali sono divise in due insiemi: il gruppo
Amphitrite a Est ed il gruppo Crescent a Ovest a cui se ne aggiungono altre tre
più lontane, sebbene facenti parte della stessa regione geografica. L’isola più
grande, Woody Island, è lunga 1,8 km e larga 1,2.

Per
secoli, a causa delle loro ridotte dimensioni, le Paracel sono sempre state
evitate dalle rotte marittime e nessuna delle due nazioni che oggi le
contendono ha mai rivendicato alcun diritto di amministrazione.

Solo
nel 1816 l’imperatore Gia Long, della dinastia vietnamita Nguyen, cominciò a
interessarsene con lo scopo di accaparrarsi le merci delle navi che,
malauguratamente, naufragavano sulle loro coste senza, però, stabilire alcuna
guaigione a difesa del territorio. Nel 1902 la dinastia cinese Qing cominciò
ad accampare pretese di sovranità e nel 1974, approfittando degli Accordi di
Parigi e dell’imminente caduta del Vietnam del Sud, il cui governo controllava
le Paracel, Pechino occupò le isole stabilendo su Woody Island un avamposto
militare e costruendovi anche un aeroporto.

A
nulla sono valse le proteste di Hanoi per riavere il controllo dell’arcipelago:
i caccia cinesi da Woody Island possono raggiungere le coste vietnamite in
pochi minuti di volo e dalla postazione militare cinese risulta più facile
intercettare ogni tipo di segnale radio.

Da
parte sua il Vietnam continua a trivellare i fondali marini attorno
all’arcipelago provocando continue ritorsioni della Cina: la PetroVietnam, la
compagnia petrolifera nazionale, ogni anno estrae da tre giacimenti situati
all’interno dell’area 24,4 milioni di tonnellate di petrolio, il 26% della
produzione totale del Vietnam e negli ultimi anni ha condotto una sessantina di
esplorazioni geologiche per cercare nuovi depositi offshore. Nel 2011 si
è sfiorata la crisi diplomatica quando due navi militari cinesi hanno tranciato
i cavi di esplorazione della nave vietnamita Binh Minh.

Ma
chi subisce maggiormente le conseguenze delle tensioni tra Hanoi e Pechino sono
i pescatori. Dal 1999 la Cina ha formalmente proibito la pesca entro le sue
acque territoriali alle navi straniere, ma la mancata formalizzazione
internazionale dello status delle Paracel rende nullo il divieto. Almeno
secondo la tesi vietamita. Dal 2005 la marina militare cinese ha sequestrato 63
pescherecci battenti bandiera di Hanoi con 735 membri d’equipaggio e, per far
rispettare il bando, entro il 2015 Pechino vuole pattugliare la zona mettendo a
disposizione del comando locale 16 aerei e 350 navi.

Le isole Spratly

Più
complicata è la questione delle isole Spratly. Immaginate di avere un isolotto
di 5 kmq (circa 2,5 chilometri di lunghezza per 2 chilometri di larghezza) e di
dividerlo in 750 minuscoli pezzetti sparpagliandoli su un’area di 410.000
chilometri quadrati al largo delle coste del Boeo e delle Filippine. Ecco,
queste sono le Spratly. L’isola più grande, Taiping, è una striscia di sabbia
lunga 1,4 km e larga 400 metri su cui Taiwan ha costruito un aeroporto. I
minuscoli affioramenti delle Spratly sono contesi da Taiwan, Cina, Vietnam,
Malesia, Indonesia, Brunei e Filippine rendendo la controversia uno dei più
complicati rompicapi diplomatici al mondo.

Sono
state queste acque, più che quelle delle Paracel, a veder fronteggiarsi le
marine militari delle nazioni coinvolte nella disputa.

Dapprima
l’incidente dello scoglio di Johnson: nel 1988 tre navi vietnamite vennero
affondate e 74 marinai furono uccisi da uno scontro con la marina cinese. Poi,
nel 1995, a Mischief Reef tre navi cinesi ingaggiarono una battaglia di 90
minuti con una nave filippina. Infine,
nel 2012, fu lo scoglio di Scarborough, 160 km dalle coste filippine e 800 da
quelle cinesi, a essere conteso tra Manila e Pechino. In Cina si scatenarono
manifestazioni pubbliche culminate con il boicottaggio dei prodotti filippini
che causarono, per le sole banane, una perdita di 34 milioni di dollari alle
casse del governo Aquino.

Tra
questi tre incidenti più gravi, se ne sono consumati altre decine coinvolgendo
tutte le nazioni interessate. Giacarta ha lamentato che dal 2009 ben 180 pescherecci
malesi, filippini e vietnamiti sono stati scoperti a pescare abusivamente in
acque territoriali indonesiane, mentre compagnie petrolifere straniere, dal
2011, hanno effettuato 15 esplorazioni geologiche al largo dell’isola di
Palawan per contro del governo filippino, scatenando le proteste di Pechino e
di Kuala Lumpur.

La
battaglia delle Spratly si consuma anche a colpi di toponimi: dal 2011, dopo
che navi militari cinesi avevano compiuto una serie di incursioni in acque
territoriali filippine, il governo di Manila ha cominciato a chiamare le acque
a occidente delle sue coste Mar filippino occidentale.

A
complicare ancor di più la già ingarbugliata situazione, è recentemente
subentrata anche l’India, anch’essa interessata alle perforazioni marittime e
sostenitrice del Vietnam nel contenzioso. Dopo che l’India’s Oil and Natural
Gas Corp.
(Ongc) ha iniziato ad esplorare tratti di Mar cinese meridionale,
la Cina ha inviato continui segnali di insofferenza verso i carghi indiani che
solcano le acque antistanti il Vietnam.

Senkaku: tra Cina e Giappone

Più a
Nord dello scacchiere sudest asiatico un’altra questione è balzata alla ribalta
di recente: quella tra Giappone, Cina e Taiwan su quelle che Tokyo chiama isole
Senkaku, Pechino isole Daioyu e Taipei isole Daiyoutai. Le Senkaku/Daioyu sono
5 isolette disabitate per un totale di 5,17 kmq tra Cina, Taiwan e l’isola
giapponese di Okinawa, a cui amministrativamente appartengono.

Nel
1885 il Giappone avrebbe acquisito i diritti di sovranità di questo minuscolo arcipelago
dopo essersi assicurato che nessun altro stato le reclamava. La guerra
sino-giapponese conclusasi proprio nel 1885 con il trattato di Shimonoseki e la
cessione di Formosa (oggi Taiwan) al Giappone escludeva le isole Senkaku perché
queste, secondo quanto affermato da Tokyo, erano già state annesse all’impero,
quindi non facevano parte dell’isola cinese. In questo modo il trattato che
imponeva la restituzione di Formosa alla Cina dopo la fine della seconda Guerra
mondiale avrebbe escluso il ritorno delle Senkaku al governo cinese.

L’arcipelago
è stato ignorato da Pechino e Taiwan fino all’11 settembre 2012 quando Konioki
Kurihara, un giapponese di Saitama e proprietario di tre dei cinque isolotti,
li ha venduti al governo di Tokyo per 2,05 miliardi di yen. La pescosità delle
acque attorno all’arcipelago e la ricchezza in idrocarburi del sottosuolo hanno
ingolosito Pechino, che ha reclamato le isole in quanto farebbero parte della
piattaforma continentale cinese prima che questa sprofondi nell’oceano per
2.300 metri per formare il canale di Okinawa.

L’alterco
tra Cina e Giappone (Taiwan, dopo un iniziale protesta si è defilata dal
diverbio perché non ha argomenti che appoggino le sue richieste), è sfociato in
un confronto militare ed economico che ha coinvolto la recente storia coloniale
e i rispettivi movimenti nazionalisti.

Le
proteste popolari che si sono scatenate nelle città cinesi hanno convinto
aziende come la Panasonic, la Honda, la Toyota e la Canon a sospendere
temporaneamente la produzione nei loro stabilimenti cinesi e causando una
contrazione degli investimenti giapponesi.

La
questione Senkaku ha permesso al governo di Shinzo Abe di aprire la porta per
un possibile cambio degli articoli costituzionali che impediscono al Giappone
di intervenire militarmente al di fuori del proprio territorio. Nel 2013, per
la prima volta in undici anni, il budget militare del Giappone ha avuto un
incremento dello 0,8% rispetto all’anno precedente, raggiungendo una spesa di
51,7 miliardi di dollari. A questo va a sommarsi il più cospicuo aumento (1,8%)
concesso alla Guardia costiera.

Aspirazioni e flotte militari

I
contenziosi nel Mar Cinese sono anche una scuola di diplomazia per le inesperte
classi politiche asiatiche. Sapendo che singolarmente gli stati coinvolti non
riusciranno a spuntarla con il colosso cinese, tutti gli incontri con le
delegazioni cinesi vengono svolti tramite l’Asean, l’Associazione delle Nazioni
del Sud Est Asiatico.

Pechino
ha sempre cercato di risolvere la questione territoriale tramite incontri
bilaterali. È per questo motivo che la richiesta di arbitrato internazionale
presentata nel gennaio 2013 al tribunale de L’Aia dalle Filippine ha colto di
sorpresa la dirigenza cinese, che ha reagito con irritazione anche
all’incontro, avvenuto a Manila nel febbraio 2014, tra esperti di questioni
marittime di Vietnam, Malesia e Filippine per preparare un piano comune contro
la Cina.

Tutto
questo sommovimento politico e diplomatico porta anche ad un aumento
esponenziale delle spese militari in tutta la regione.

Nel
maggio 2013 il Giappone ha venduto 10 navi di pattuglia alla Guardia costiera
filippina per 110 milioni di dollari mentre – secondo il Sipri (Stockholm
Inteational Peace Research Institute
) – il Vietnam ha aumentato il
proprio budget militare del 70% dal 2011, e la Cina, dal 2003, del 175%.

Sono
proprio le forze armate di Pechino, e in particolare la marina, a sfruttare a
proprio vantaggio la delicata situazione creatasi nel Mar Cinese. Una politica,
quella dell’ampliamento dell’influenza marittima della Repubblica Popolare,
nata già negli anni Ottanta sotto la guida di Liu Huqing, comandante della
marina militare dal 1982 al 1988. Liu, che si era formato in Unione Sovietica,
aveva sviluppato la strategia della doppia linea di difesa: la debole marina
cinese degli anni Ottanta si sarebbe limitata a proteggere le coste nazionali
per poi spostare il proprio fronte marittimo lungo la prima catena di isole (la
fase attuale che vede l’assestarsi della flotta nel Mar Cinese). L’ultimo
gradino nella scala di potenziamento sarebbe il prossimo passo: spostare la
linea di difesa della flotta oltre le Filippine per contrastare l’egemonia
statunitense.

Il
potenziamento e la modeizzazione delle unità navali cinesi servirà anche a
controllare la marina Usa dopo la doppia umiliazione del dicembre 1995 e del
marzo 1996, quando a Washington bastò l’invio di due portaerei, la Nimitz
e la Independence, per dissuadere Pechino dal continuare a rivendicare
le acque territoriali ai danni di Taiwan.

Da
quell’offesa i generali cinesi hanno tratto lezione e, dopo aver varato quattro
nuove classi di sottomarini e sei nuove classi di incursori, nel settembre 2012
è stata inaugurata la Liaoning, la prima portaerei della flotta a cui ne
seguirà una seconda da 50-60.000 tonnellate entro il 2015 e, nel 2020, una
terza a propulsione nucleare.

Ma
una marina forte serve a poco se non si ha la strada aperta per entrare nelle
zone strategicamente nevralgiche per il controllo del Pacifico. E la Cina,
attualmente, ha solo due porti adatti ad ospitare con sufficiente copertura la
propria flotta e permettere, al contempo, l’accesso immediato al mare aperto:
la base di Xiaopingdao, nel Mar Giallo, e l’isola di Hainan.

Le
isole Paracel saranno dunque indispensabili per proteggere la base di Hainan,
mentre le isole Spratly faranno da sentinella e protezione per l’accesso della
flotta all’oceano Pacifico.

Piergiorgio Pescali

Tags: isole contese, Cina, Vietnam, Filippine, Giappone, zone a rischio, guerra, tensioni inteazionali, energia, petrolio, Paracel, Senkaku, Spratly

Piergiorgio Pescali




Il peso della memoria

Viaggio in Cile / 2


Uccisioni, sparizioni, prigionia, tortura, persecuzioni. I
costi umani della dittatura del generale Pinochet sono stati molto alti. A Santiago abbiamo
visitato il «Museo della memoria e dei diritti umani». Un’opera con cui il Cile
ha voluto abbattere i muri della negazione e dell’occultamento. Per costruire
il proprio futuro senza dimenticare il passato.

Santiago
del Cile. La si nota appena dal metro si esce su Avenida Matucana. È una
costruzione color verde smeraldo a forma di parallelepipedo che sovrasta una
piazza ad anfiteatro, costruita sotto il livello stradale. La struttura del
«Museo de la memoria y los derechos humanos» è modea, ma anche sobria come si
conviene a un luogo che racchiude la memoria di 17 anni di dolore e sofferenza.

Inaugurato
l’11 gennaio del 2010, il Museo è infatti uno spazio destinato a dare visibilità
alle violazioni dei diritti umani commesse dallo stato cileno tra l’11
settembre 1973 e il 10 marzo 1990, durante il governo del generale Augusto
Pinochet.

L’entrata
è dalla piazza «interrata», Plaza de la memoria, che a sua volta ospita una
serie di grandi pannelli in cui si raccontano, con testi e immagini, le lotte
dei popoli latinoamericani contro le dittature. Dall’Argentina al Guatemala:
mai dimenticare che praticamente tutti i paesi del continente hanno conosciuto
regimi repressivi, spesso legati in un’unica trama (il Plan Condor)1.

La parete delle vittime

Il
museo offre ai visitatori un panorama completo di quegli anni attraverso
immagini, giornali e documenti video dell’epoca, testimonianze audio,
interviste ai sopravvissuti.

Il
cuore «emozionale» della struttura è però un balcone interno che si trova al
secondo livello. Ha pareti di vetro e candele elettriche che delimitano i suoi
lati. Davanti a esso si apre una vasta parete su cui sono state collocate
migliaia di foto in bianco e nero, piccole e grandi, nitide o meno: sono i
ritratti delle vittime della dittatura. Che però (e per fortuna) non rimangono
volti anonimi e senza voce. Al centro del balcone è stato infatti posto un
leggio elettronico attraverso il quale qualsiasi visitatore può conoscere nome,
cognome e storia di ogni persona ritratta nelle immagini appese.

Lo
schermo tattile riproduce la parete con tutte le sue foto e l’elenco dei nomi.
Scegliamo a caso. Al tocco dello schermo si apre una finestra con la foto
ingrandita e le informazioni sulla vittima. Leggiamo qualche storia: «David
Silberman Gurovich, 35 anni, ingegnere, comunista, sparito dal 4 ottobre 1974»;
«Eugenia del Carmen Martínez Heández, 25 anni, operaia tessile, sparita a
Santiago il 24 ottobre 1974»; Ida Amelia Vera Alamarza, 30 anni, architetto,
membro del Mir2,
sparita il 19 novembre 1974»; «Jorge Humberto Nuñez Canelo, 27 anni,
commerciante ambulante, sparito a Santiago il 30 settembre 1973»; «Rosa Elena
Morales Morales, 46 anni, del partito comunista, sparita 18 agosto 1976 a
Santiago»; «María Cecilia Magnet (Mapu) Ferrero, 27 anni, sociologa, sposata
con il medico argentino Guillermo Tamburini (Mir), spariti il 16 luglio 1976 a
Buenos Aires». Persone comuni di diversa età, provenienza, condizione sociale
la cui esistenza fu spezzata dal regime. «Nessuno può negare, disconoscere,
minimizzare o banalizzare la tragedia dei diritti umani in Cile. Ci
saranno differenti interpretazioni circa le cause della frattura democratica.
Ci saranno distinte interpretazioni sull’eredità del regime autoritario. Però
sul costo umano che il Cile pagò, non dovrebbero esserci divergenze». Sono
parole pronunciate da Michelle Bachelet il giorno della posa della prima pietra
del museo, nell’ottobre 2008. Al contrario di molti politici, la presidente può
parlare con cognizione di causa. Suo padre Alberto morì in carcere, sua madre e
lei stessa passarono per Villa Grimaldi, uno dei principali luoghi di
detenzione e tortura del regime3.

Pro e contro

La Chiesa cattolica non si oppose – almeno inizialmente – al golpe
del generale Pinochet. Troppe erano le paure rispetto all’ideologia socialista
di Salvador Allende e troppi i legami tra Vaticano e Stati Uniti. Il generale
poi era un cattolico e un devoto alla Madonna. Nell’aprile 1987, durante la
visita di papa Giovanni Paolo II, il dittatore si fece fotografare sul balcone
de La Moneda assieme al papa. Tuttavia, il fronte pro-Pinochet non fu mai
monolitico: una parte della Chiesa cilena contrastò da subito il golpe.

Il museo dedica ampio spazio ad alcune di queste persone. La
figura più conosciuta fu il cardinale Raúl Silva Henríquez, arcivescovo di
Santiago durante la breve esperienza di Salvador Allende e nei primi 10 anni
della dittatura. Era il cardinale che provava «una profonda ribellione contro
la menzogna, la violenza, l’ingiustizia, l’arroganza e la mancanza di rispetto
dei diritti umani»4. Fu soprattutto il cardinale che fondò prima, con altre 5
denominazioni religiose, il «Comitato per la
pace in Cile» (Comité para la Paz en Chile) e, immediatamente
dopo lo scioglimento dell’organismo ecumenico (avvenuto il 31 dicembre 1975),
la «Vicaria della solidarietà» (Vicaria
de la solidaridad
)5, espressione della sola Chiesa cattolica. Questa concentrò il
proprio lavoro su due aree: la difesa dei diritti umani e la loro promozione,
compiti assolti con la concretezza che l’urgenza storica esigeva. Nel primo
numero di quello che in seguito diventerà un rapporto mensile, la Vicaria
scriveva: «È evidente che in un paese non possono sparire persone. (…) Il
Goveo ha l’obbligo pubblico di dare una risposta circa la situazione degli
“scomparsi”». E nel paragrafo seguente: «La tortura esiste ed è deplorevole per
il nostro paese»6.

L’ultimo
responsabile dell’organizzazione fu mons. Sergio Valech, che la guidò fino alla
sua chiusura, nel 1992. Proprio a causa della sua opera in favore dei diritti
umani, nel 2003 mons. Valech fu chiamato a presiedere la «Commissione nazionale
sulla prigionia politica e la tortura», che lavorò (in due periodi distinti)
per colmare le lacune lasciate dalla Commissione Rettig. Il suo secondo
rapporto, uscito nell’agosto 2011, è quello che – almeno fino a oggi – fornisce
i dati più aggioati sulla dittatura di Pinochet: le persone morte o scomparse
furono 3.065, le vittime di abusi 40.018.

Meno in vista dei prelati, ma non meno importanti, furono due
semplici sacerdoti, che – per opporsi al regime – persero la vita: Juan (Joan)
Alsina e André Jarlan.

Padre
Alsina, spagnolo, fu fucilato a Santiago il 19 settembre del 1973, appena una
settimana dopo il golpe di Pinochet. La frase che disse al suo carnefice è
rimasta negli annali: «Mátame de frente porque quiero verte para darte el perdón»
(Uccidimi di fronte perché voglio vederti per concederti il perdono).

Anche
il sacerdote francese André Jarlan viveva a Santiago, nel quartiere de La
Victoria, roccaforte antigovernativa. Rimase ucciso il 4 settembre 1984 durante
una retata dei carabineros. Tristemente famosa è la foto che ritrae il
suo corpo senza vita seduto alla scrivania, con il capo colpito da un
proiettile e reclinato sulla Bibbia, aperta sul Salmo 129.

Il Museo è una scuola

Quando si toccano argomenti delicati come i diritti umani, è
difficile commentare senza correre il rischio di cadere nella retorica o,
peggio, nell’ipocrisia. Per questo è importante che esistano luoghi come il
Museo della memoria e dei diritti umani. Su una parete di cemento, nei pressi
della sua entrata, sta scritto a lettere cubitali: «El museo es una escula»
(il museo è una scuola). Una frase apparentemente banale ma certamente vera. Al
di là delle possibili, differenti visioni della storia (non soltanto cilena),
mettere in luce le sofferenze e le miserie umane, le vittime e i carnefici non è
mai un esercizio inutile.

Paolo Moiola
(fine seconda puntata – continua*)
Note

1 – Con Plan Condor s’intende una complessa (e
oscura) operazione di politica estera degli Stati Uniti volta ad impedire l’instaurarsi di governi di sinistra
nei paesi latinoamericani. Ebbe luogo tra l’inizio
degli anni Settanta e l’inizio degli anni Novanta. Riguardò soprattutto Cile,
Argentina, Bolivia, Brasile, Perù, Paraguay e Uruguay.
2 – Mir: Movimiento
de Izquierda Revolucionaria; Mapu: Movimiento
de Acción Popular Unitaria.
3 – Su Michelle Bachelet si veda il
relativo capitolo nel libro di Paolo Moiola-Angela Lano, Donne
per un altro mondo, Il Segno dei Gabrielli editori, 2008,
pagg. 262-267.
4 – «Una profunda rebeldía ante la
mentira, la violencia, la injusticia, la prepotencia y la falta de respeto a
los derechos humanos». La presidente Bachelet ha ricordato questa frase sia in
occasione della posa della prima pietra (10 dicembre 2008) sia in occasione
della inaugurazione del Museo (11 gennaio 2010).
5 – Un’interessante
lettura del pensiero del cardinale si può avere in: Guillermo Sandoval, Heán
Sepúlveda, Rodolfo Bonifaz, El Cardenal de los
trabajadores, Centro di Estudios Laborales Alberto
Hurtado, Santiago 2000. Il libro è scaricabile gratuitamente da internet.
6 – Pagina 10 de Reflexion
1, febbraio 1976. Reperibile sul sito:
wwww.archivovicaria.cl. 

A colloquio con mons. Luis Infanti
de la Mora


Acqua, terre, mari,
minerali: «Basta con la svendita
delle risorse»

A differenza del suo primo mandato, la presidenta
Bachelet non potrà proseguire sulla strada del neoliberismo, dimenticando equità
ambientale e sviluppo sostenibile. Oggi è fondamentale porre un freno a imprese
invasive e irresponsabili. E la Chiesa non deve farsi comprare dai poteri
economici e politici. Mons. Luis Infanti de la Mora, combattivo vescovo
dell’Aysén, ragiona secondo una prospettiva teologica, ma senza perdere di
vista la concretezza.

Nato in provincia di Udine, Luis Infanti de la Mora
arriva in Cile nel 1973, all’età di 19 anni, come seminarista dell’Ordine dei
Servi di Maria. Dopo gli studi all’Università cattolica di Santiago, è a
Cochabamba, in Bolivia, per 8 anni. Ordinato sacerdote, nel 1995 arriva a
Coyhaique, capoluogo dell’Aysén, la Patagonia cilena. Nel dicembre del 1999 è
nominato vescovo del vicariato apostolico di Aysén.

Mons. Infanti
guadagna notorietà internazionale quando si schiera contro il megaprogetto
HidroAysén, lottando a fianco delle popolazioni locali e di «Patagonia senza
dighe» (Patagonia sin represas), un movimento popolare simile a quello «NoTav»
degli albori. Una scelta di campo tutt’altro che banale: un vescovo di origini
italiane si oppone a un’opera che vede proprio l’Italia in prima fila,
considerando che l’attore principale di HidroAysén è l’Enel, azienda in cui lo
stato italiano è l’azionista più importante.

Mons. Infanti, sul web si legge che HidroAysén – il consorzio tra
Enel-Endesa e Colbún (della famiglia cilena Matte) – avrebbe ridimensionato di
molto il proprio megaprogetto idroelettrico sui fiumi Baker e Pascua della Patagonia
cilena. Ciò risponde al vero o si tratta di malainformazione?

«In Aysén
l’impresa HidroAysén (italiana e cilena) da vari anni ha progettato 5 grandi
dighe per produrre energia idroelettrica in favore delle miniere di rame al
nord del Cile, a quasi 3.000 chilometri di distanza. Il megaprogetto di
HidroAysén è stato finora paralizzato per l’opposizione di grandi settori della
popolazione. Oggi ci sono molti segnali che indicano la sua imminente morte,
anche perché il nuovo governo di Michelle Bachelet sembra contrario alla sua
realizzazione. Ricordo che, nel febbraio-marzo del 2012, l’indignazione
popolare portò a paralizzare per 40 giorni tutta la regione, unendo in un’unica
voce di protesta Patagonia sin represas (Patagonia senza dighe),
pescatori, commercianti, studenti, autotrasportatori. In tutto ciò la Chiesa
dell’Aysén ha avuto un ruolo rilevante». 

In che modo?

«Affiancando
le varie organizzazioni e i settori sociali che si sono espressi contro questo
progetto. Pubblicando una lettera pastorale Danos hoy el agua de cada dia
(Dacci oggi la nostra acqua quotidiana), in cui, oltre a presentare con
argomentazioni precise i motivi del rifiuto di questa iniziativa
imprenditoriale, noi abbiamo messo in discussione la proprietà dell’acqua
nell’Aysén e in Cile. Con una visione etica e spirituale, abbiamo aiutato a
prendere coscienza della sua importanza come elemento vitale di sempre maggior
rilievo in tutto il mondo. Abbiamo infine evidenziato una sorta di nuova
colonizzazione dei paesi del Nord verso i paesi del Sud, una colonizzazione che
trasforma l’acqua in una merce emarginando grandi settori della popolazione,
condannandoli alla povertà se non addirittura alla morte».

Lei parla di «merce» e non di «bene pubblico»…

«Il tema della
privatizzazione dell’acqua (proprietà e gestione monopolistica dell’Enel,
attraverso la controllata Endesa Chile) è entrato come tema prioritario nella
società cilena e sta dando impulso anche a un movimento per cambiare l’attuale
Costituzione politica dello Stato, approvata nel 1980, in piena dittatura di
Pinochet e quindi antidemocratica».

Gran parte della crescita economica del Cile è fondata sullo
sfruttamento delle proprie risorse naturali: risorse minerarie, foreste, acqua,
risorse ittiche. Si tratta di uno sfruttamento «sostenibile»? E ancora: è
realisticamente possibile avere uno sfruttamento «sostenibile» o si tratta di
una contraddizione in termini?

«La politica
neoliberista in Cile ha aperto le porte alla svendita delle risorse naturali
alle imprese multinazionali, le quali fanno i loro interessi e si preoccupano
solo dei propri guadagni. E certamente non delle necessità delle popolazioni.
La cosiddetta “responsabilità sociale delle imprese” non ha una efficacia reale
nei territori e con le comunitá in cui le imprese operano. Prova di ciò sono le
continue proteste in tutto il Cile contro imprese invasive e irresponsabili,
appoggiate da legislazioni che le avallano».

Il programma di governo di Michelle Bachelet parla – alla pagina 126 –
di «equità ambientale» e di «sviluppo sostenibile». La presidenta riuscirà in
questo o si tratta soltanto di mera propaganda?

«Nel suo
governo precedente Michelle Bachelet ha dato numerosi esempi di voler
approfondire il sistema liberista portato avanti dai tempi della dittatura di
Pinochet: la “equidad ambiental” e il “desarrollo sustentable” non sono state
dunque tra le sue priorità. Nell’attuale gestione di governo non potrà fare lo
stesso. Perché la coscienza, le esigenze, l’intervento e la partecipazione
della popolazione cilena la obbligheranno a tenere fede agli impegni presi nel
suo nuovo programma di governo».

Lo stato – in Cile come in Italia e nella maggior parte dei paesi – non
sembra voler capire che la difesa dell’ambiente è una questione cruciale per il
presente e il futuro. Tuttavia, troppo spesso i cittadini sono i primi a non
rispettare l’ambiente. È d’accordo con questa affermazione? Se sì, cosa
occorrerebbe fare per porvi (rapidamente) rimedio?

«La difesa
dell’ambiente e le nostre relazioni di comunione con esso incontrano sempre
maggiore coscienza nei cittadini, anche se non sempre si traducono in
atteggiamenti e stili di vita nella quotidianità.

In questi
tempi in cui anche la Madre Terra lancia profonde grida di sofferenza come
“dolori di parto”, in qualità di religiosi, noi abbiamo una gran responsabilità
nell’annunciare, vivere e celebrare la nostra fede in Dio Creatore, che ha dato
vita ad ogni creatura affinché cresca e si sviluppi con pienezza. Diventa
allora responsabilità essenziale dell’essere umano – con la sua saggezza, la
sua scienza, il suo amore, la sua lungimiranza – impegnarsi per costruire “i
cieli nuovi e la terra nuova”. Percepisco che la spiritualità biblica del Dio
Creatore e Redentore ha profonda sintonia con la spiritualità vissuta da San
Francesco d’Assisi e anche con le modalità di vita dei popoli indigeni e di chi
rispetta, ama e lotta per promuovere la comunione e la bellezza di ogni essere
creato, soprattutto dell’essere umano».

Secondo lei, i popoli indigeni hanno – mediamente – un rispetto maggiore
della natura o questo è un luogo comune per enfatizzare il loro ruolo?

«Fatte salve
le differenze tra uno e l’altro, tutti i popoli indigeni hanno una cultura
profondamente spirituale di comunione e di incontro con la Divinità attraverso
le creature e specialmente attraverso la natura (acqua, boschi, clima, vento,
fuoco…). Ciò li porta a un profondo rispetto e condivisione dei beni naturali,
che sentono come parte intimamente unita alla loro vita. Quando sono invasi e privati del loro ambiente,
come succede con sempre maggiore frequenza nella società consumista, si sentono
violentati fisicamente, spiritualmente e moralmente. Offesi nel loro stesso
stile di vita».

Una parte della Chiesa cattolica e della gerarchia in particolare ha
timore a schierarsi dalla parte degli ambientalisti, perché li considera troppo
vicini a posizioni ideologiche di sinistra, spesso viste come antitetiche
rispetto ai dettami evangelici. Si tratta di un timore fondato?

«Tra gli
ambientalisti ci sono varie linee ispiratrici e varie posizioni, come anche
nella Chiesa cattolica e in ogni organizzazione umana.

La dottrina,
oggi, merita un maggior approfondimento della fede nel “Dio Creatore” e nella
proclamazione originaria del popolo della Bibbia che “la terra è di Dio”,
contrapponendola a certe persone e organizzazioni umane che si sentono signori
e padroni dei beni comuni. Se questo approfondimento teologico e pastorale
della Chiesa porta a posizioni e decisioni simili a qualche gruppo o movimento
o partito o organizzazione, non deve destare alcun timore.

Grazie anche
agli ultimi papi, la Chiesa cattolica sta prendendo più coscienza del tema
ambientale e dei suoi gravi problemi (terra, acqua, alimenti, estrattivismo,
cambiamento climatico, …) e della povertà come struttura sociale imposta dai
poteri depredatori della vita. Mi pare che oggi la sua scelta di campo sia
dalla parte degli impoveriti, degli emarginati, dei silenziati, facendo la
stessa opzione di Cristo».

I poteri economici sanno essere molto persuasivi. Secondo lei, è
possibile resistervi?

«La Chiesa,
compresa la gerarchia, soprattutto in America Latina, sempre con maggior
evidenza non si lascia comprare dai poteri economici e politici che la
vorrebbero tenere come alleata per silenziare la sua missione profetica di
fedeltà a Cristo e all’umanità. Le strategie del potere, del dolce e gentile
potere, molte volte hanno uno spirito diabolico. Preghiamo sempre per non
cadere in questa pericolosa tentazione».

Paolo Moiola
Siti web:
www.patagoniasinrepresas.cl
www.hidroaysen.cl
 
Libri:

• Luis Infanti de la Mora, Dacci
oggi la nostra acqua quotidiana
, Emi, Bologna 2010.
• Patricio Rodrigo S. – Juan Pablo
Orrego S. (a cura di), Patagonia chilena sin represas, Ocho Libros
Editores, Santiago 2007. Questo (bellissimo) volume è scaricabile gratuitamente
dal sito di Patagonia sin represas.

 

La
Chiesa cilena e Pinochet

DAL «BALCONE» AL MARTIRIO

• padre Juan (Joan) Alsina – Sacerdote spagnolo, fucilato a
Santiago il 19 settembre del 1973, una settimana dopo il golpe di Pinochet.

• padre André Jarlan – Sacerdote francese, ucciso dai carabineros
il 4 settembre del 1984 a La Victoria, durante la repressione di una
manifestazione contro la dittatura.

• cardinale Raúl Silva Henríquez – Nel 1973 fu cofondatore del «Comité
para la Paz en Chile». Dopo la sua chiusura forzata, il 1 gennaio 1976 fondò la
«Vicaría de la Solidaridad», organismo di assistenza sociale e legale alle
vittime della giunta del generale Pinochet. Nonostante pressioni e minacce,
l’organismo lavorò fino alla caduta della dittatura.

• monsignor Sergio Valech Aldunate – Fu l’ultimo responsabile (dal 1987
al 1992) della «Vicaría de la Solidaridad». Fu presidente della «Commissione
sulla carcerazione politica e la tortura» (Commissione Valech). 

Diritti umani in Cile


Dalla violazione al riscatto

• 1973, 11 settembre – 1990, 10 marzo: Dittatura del
generale Augusto Pinochet.• 1990, aprile – 1991, febbraio: Lavoro della «Comisión
Nacional de Verdad y Reconciliación». Il risultato finale è l’«Informe Rettig»,
che sarà giudicato insoddisfacente.

• 1992, febbraio – 1994, febbraio: Lavoro della «Corporación
Nacional de Reparación y Reconciliación».
• 2003, settembre – 2004, novembre: Lavoro della «Comisión
Nacional sobre Prisión Política y Tortura», nota anche come «Comisión Valech»,
dal nome del suo presidente, mons. Sergio Valech.
• 2010, febbraio – 2011, agosto: Lavoro della seconda
Commissione Valech. Nel rapporto finale si riconosce che la dittatura di
Pinochet ha fatto 40.018 vittime e 3.065 persone morte o sparite.
• 2010, 11 gennaio: Apre a Santiago il «Museo de la Memoria
y los Derechos Humanos».

________________________________

Siti
internet:

www.museodelamemoria.cl
www.archivovicaria.cl
Ringraziamenti

Si ringraziano per l’aiuto e la disponibilità María Luisa Ortiz e Alejandra
Tapia, dirigenti del Museo della memoria di Santiago.

* Nella prossima puntata: l’incontro con i pescatori dell’isola di Chiloé;
l’intervista con il vescovo di Ancud, mons. Juan María Agurto Muñoz, e altro
ancora.

Tags: Cile, dittatura, memoria, Pinochet, Michelle Bachelet, Luis Infanti de la Mora, museo, Chiesa, acqua, risorse, Chiloé

Paolo Moiola




Passione per Gesù e il suo popolo

Celebrare cent’anni di chiesa locale e un nuovo vescovo.

Il 27 gennaio scorso a Manzini, città principale
del regno dello Swaziland e sede dell’unica diocesi cattolica, c’è stata una
doppia celebrazione: si sono ricordati i cento anni dall’arrivo dei primi
missionari, ed è avvenuta l’installazione del nuovo vescovo, mons. José Luis
Ponce de Leon, missionario della Consolata. Seguiamo l’avvenimento con gli
occhi dello stesso vescovo.

La
preparazione

Alla fine del 2013 sono stato nominato vescovo della diocesi di
Manzini, nel regno dello Swaziland, di cui ero amministratore, dalla morte del
vescovo Ncamiso Ndlovu il 27 agosto 2012. La diocesi è la «mamma» del vicariato
di Igwavuma di cui ero vescovo, e subito mi ero reso conto che a genanio 2014
sarebbero stati cento anni dall’inizio dell’evangelizzazione cattolica del
regno, un’occasione eccellente per rinnovare l’impegno missionario della
diocesi. I preparativi per le celebrazioni erano già avviati quando è arrivata
anche la notizia della mia nomina. Passato il primo momento di panico, con i
miei collaboratori abbiamo pensato che la celebrazione del centenario avrebbe
ospitato anche la mia installazione.

Così abbiamo iniziato a organizzare e a mandare inviti, cominciando
dai vescovi del Sudafrica, che non solo hanno accettato di partecipare ma hanno
anche deciso di fare a Manzini l’incontro annuale di tutta la Conferenza
episcopale proprio la settimana prima. Naturalmente sono state invitate le
autorità, e anche sua Maestà il re Mswati III. Il primo ministro e diversi
ministri hanno accettato.

I giornali locali ci hanno aiutati a far conoscere a tutti la buona
notizia e la televisione Swazi si è impegnata a trasmettere dal vivo la
celebrazione. L’avvenimento stava diventando sempre più grande e importante,
creando seri problemi logistici. Fino a ottobre sembrava chiaro che tutto si
sarebbe svolto nella cattedrale. Ma dopo le prime adesioni ci siamo resi conto
che troppa gente sarebbe rimasta fuori a guardare il cielo. Per questo abbiamo
spostato tutto nel salone polifunzionale del «Bosco Youth Centre», un grande
spazio coperto, quasi un palazzetto dello sport. Volevamo essere tutti
insieme, al coperto, anche se, essendo così grande, non pensavamo certo di
riempirlo.

Il libretto
del centenario

Per aiutare la preparazione abbiamo stampato un libretto, nel quale si
evidenziavano alcuni punti importanti della storia della Chiesa swazi. Ne
riporto alcuni.

«Cento anni fa, il 27 gennaio 1914, i primi missionari cattolici
arrivarono in Swaziland. Erano membri dell’Ordine dei Servi di Maria (Osm)
mandati come gli apostoli a condividere la gioia del Vangelo, portando in cuore
una profonda passione per Gesù e per il suo popolo.

Lo sguardo sulla nostra Chiesa di oggi e il ricordo dei nostri inizi
ci richiama subito alcune immagini evangeliche:

* il seme di senape che è il più piccolo di tutti i semi (Mc 4,31-32);
* i cinque pani e i due pesci che permisero a migliaia di persone di
mangiare a sazietà (Mc 6,34-44);
* e soprattutto il Signore che “lavorava con loro e confermava la
parola con i segni che l’accompagnavano” (Mc 16,20), manifestando così la sua
presenza e guida.

«La celebrazione di questi primi cento anni è l’occasione per tutti noi
di ricordare con gioia tantissimi momenti del cammino fatto. Quanto è scritto
in questo libretto è davvero ben poca cosa rispetto a quanto celebriamo. Allo
stesso tempo ci ricorda che “è di vitale importanza che oggi la Chiesa continui
a predicare il Vangelo a tutti, in tutti i posti, in ogni occasione, senza
esitazione, riluttanza o paura. La gioia del Vangelo è per tutti: nessuno ne
deve restare escluso” (Evangelii Gaudium 23).

Ricordando e celebrando noi rinnoviamo il nostro impegno a essere
Buona Notizia per tutti in ogni angolo del nostro paese e in tutto il mondo».

Mbabane, dove tutto è cominciato

La celebrazione del centenario si è svolta a Manzini, un posto
centrale. Ma ciascuno qui sa bene che «tutto è cominciato a Mbabane». I primi
missionari arrivarono in Swaziland dal Sudafrica e andarono a Mbabane dove,
alcuni giorni dopo il loro arrivo, ottennero il posto chiamato oggi «Mater
Dolorosa».

Per ricordarlo, abbiamo organizzato un pellegrinaggio di tutti i
vescovi del Sudafrica proprio là. Venuti a Manzini per la loro assemblea
annuale (la prima in assoluto mai fatta nel regno), li abbiamo invitati a fare
una visita a Mbabane, la città capitale del regno. Nessuno è rimasto indietro.
Accolti dal Consiglio Pastorale, dopo la foto di rito, siamo andati in chiesa
per pregare e ringraziare. Abbiamo cominciato con l’inno God’s Spirit is in
my heart
e dopo che il vescovo Jabulani Nxumalo (Oblato di Maria Immacolata
– Omi, di Bloemfontain) ha presentato tutti, abbiamo ascoltato il testo di Mt
28,16-20: il mandato missionario in cui Gesù dice ai suoi «Andate e fate
discepoli di tutte le nazioni. (…) Sono con voi per sempre». E abbiamo pregato
così: «Signore, che mandasti i tuoi apostoli a proclamare il Vangelo a tutto il
mondo e che hai guidato i missionari nella tua vigna in Swaziland, ti chiediamo
di continuare a guidare la tua Chiesa pellegrina e missionaria nel proclamare
il Vangelo a tutti. Attraverso lo Spirito Santo che ha animato gli apostoli
all’inizio della tua santa Chiesa, guidala oggi e sempre perché il tuo
messaggio d’amore possa raggiungere le orecchie dei poveri e dei ricchi per
farli diventare docili al tuo Santo Spirito, e il Regno di Dio nel tuo amore
giunga al suo compimento. Amen».

Cammino non
processione

Con la televisione che trasmetteva in diretta dovevamo essere
assolutamente puntuali, così il 26 gennaio, domenica mattina, alle 9.00,
preceduti dalle majorette della St. Theresa’s School e dalla Salesian
Band
, siamo andati a piedi dalla cattedrale al Bosco Youth Centre.
Non era una processione. Non c’era un ordine preciso: i chierichetti sì
marciavano dietro la banda, ma tutti gli altri – vescovi, preti, laici e
religiosi – camminavamo insieme, fianco a fianco.

In verità molto prima dell’inizio della messa il palazzetto era già
pieno all’inverosimile, e, nonostante fossero state aggiunte un migliaio di
sedie, molti erano rimasti fuori. L’interno era decorato in modo splendido con
striscioni fatti dalle diverse parrocchie, associazioni e gruppi religiosi. Un
modo davvero creativo per dire: «Siamo qui, anche noi celebriamo il nostro
cammino nel regno dello Swaziland».

Entro le 9.30 noi preti e vescovi eravamo indaffarati a vestirci e
prepararci per la celebrazione. Ho approfittato del momento per salutare i
sacerdoti arrivati dal Vicariato di Ingwavuma (dove ero stato vescovo fino a
quel giorno e di cui sono ancora amministratore) e da altre parti del
Sudafrica. Allo scoccare delle 10 siamo entrati in processione accolti da
un’esplosione di gioia.

Chiamato a
servire in un’altra diocesi

La celebrazione è stata presieduta dall’arcivescovo di Johannesburg,
mons. Buti Tlhagale, Omi. Era affiancato da mons. Stephen Brislin, arcivescovo
di Cape Town e presidente della Conferenza episcopale del Sudafrica, e dal
cardinal Wilfrid Napier, arcivescovo di Durban. Mi hanno fatto sedere in mezzo
agli altri vescovi a lato dell’altare.

L’arcivescovo Tlhagale ha ricordato che era la prima volta nella
storia della diocesi che il nuovo vescovo non era consacrato a Manzini, ma solo
installato. Ha continuato citando una frase di papa Francesco ai preti: «Questo
vi chiedo: siate pastori con l’odore delle pecore».

The Swazi Observer, il giornale nazionale,
ha così sintetizzato il suo discorso d’apertura: «Durante la messa per la
celebrazione del centenario [dell’arrivo] dei Cattolici Romani [in Swaziland]
al Bosco Youth Centre domenica scorsa, l’arcivescovo di Johannesburg
Buti Tlhagale ha sintetizzato ne “l’essere per servire” lo spirito che
distingue la Chiesa, quando ha detto all’assemblea che si augurava che il nuovo
vescovo José Ponce de Leon fosse davvero un buon pastore. Ha poi aggiunto che
un buon pastore deve sempre “puzzare come il suo gregge”, il che era come dire
che il vescovo deve sempre identificarsi col popolo di cui è guida. Puzzare
come il proprio gregge
significa diventare uno con la gente. Quando le tue
pecore hanno fame, tu patisci la fame con loro, e quando condividono un buon
raccolto anche tu giornisci con loro. Puzzare come il gregge significa diventare
parte del tutto, piangendo con esso nei momenti di dolore e danzando con esso
quando c’è da celebrare. Tu diventi parte del gregge a tal punto da essere
sufficiente farti annusare per far sapere quello che sei.

Questo spirito è probabilmente lo stesso vissuto da Gesù durante il
suo tempo sulla terra. Ed è molto incoraggiante vedere che la Chiesa cattolica
romana vive di questo supremo ideale, in uno sforzo di semplificazione dei miti
della religione, e aprendo nello stesso tempo le porte a tutti, per dimostrare
che tutti sono benvenuti.

La Chiesa cattolica romana è stata veramente esemplare in tutto ciò, e
i suoi missionari hanno vissuto questo ideale fin dall’inizio. Questa è la
ragione che probabilmente spiega la facilità con cui loro hanno vinto i cuori
del popolo».

Quando è stato letto il Mandato papale, sono stato invitato a sedere
sulla «cattedra» (la sedia che nella cattedrale solo il vescovo in carica può
occupare). Una volta seduto mi hanno consegnato il pastorale. Non uno nuovo,
non l’ho voluto, ma quello del mio predecessore, mons. Ncamiso Ndlovu, vescovo
di Manzini dal 1985 al 2012.

I vescovi sono poi venuti uno a uno a salutarmi mentre la segretaria
generale della Conferenza episcopale, suor Hermenegild Makoro, li presentava ai
fedeli di Manzini. Di seguito sono venuti i sacerdoti, i religiosi e i laici (i
presidenti dei consigli pastorali delle 15 parrocchie) per dare il benvenuto al
loro nuovo vescovo e promettere di lavorare con lui.

A ciascuno ho dato una copia dell’esortazione apostolica Evangelii
gaudium
di papa Francesco che tratta dell’impegno di annunciare il Vangelo
nel mondo di oggi. Essendo la celebrazione centrata sul centenario
dell’evangelizzazione in Swaziland, mi è sembrato che l’esortazione fosse lo
strumento migliore per cominciare i prossimi cento anni.

Una volta installato, è toccato a me presiedere la celebrazione, come
nuovo padrone di casa. Le letture sono state proclamate in portoghese (la
lingua dei molti immigrati e rifugiati dal Mozambico), inglese e siswati (la
lingua locale), come si usa da queste parti durante le celebrazioni più
importanti.

La mano di
Dio al lavoro

Durante la predica ho insistito sull’idea che ora tocca a noi
continuare quello che altri hanno iniziato. Siamo noi a venire chiamati da Gesù
a essere «buona notizia», luce per chi cammina nelle tenebre e pescatori di
uomini e donne. Ho ricordato poi che tantissimi anni prima, quando ero ancora
un seminarista, un prete aveva detto in una predica che «Solo i matti credono
nelle coincidenze». «No – ho continuato -, noi non crediamo in coincidenze. Noi
crediamo nella mano di Dio al lavoro nelle nostre vite. Non ho scelto le
letture di oggi. Sono quelle ordinarie di sempre, che ogni cattolico può
ascoltare oggi in tutto il mondo. Eppure, sembrano proprio fatte per questo
giorno. Non è coincidenza, è la mano di Dio al lavoro tra noi oggi.

«Pensateci:

* Nel vangelo di Matteo
(4,12-23) Gesù comincia il suo ministero predicando la Buona Notizia,
insegnando e guarendo – e qui noi celebriamo e ricordiamo l’inizio dello stesso
ministero nel regno dello Swaziland a opera dei primi missionari cattolici
arrivati cento anni fa.

*  Vediamo Gesù che chiama
Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni perché lo seguano e diventino pescatori di
uomini – e noi qui ricordiamo i nomi di coloro che Gesù fece pescatori di
uomini per noi: i padri Gratl, Mayer e Bellezze e fratel Obeleitner, missionari
Serviti.

*  Vediamo Gesù andare in giro nella Galilea toccando la vita di ognuno – e
noi ricordiamo e celebriamo chi ha accolto quei primi missionari da Mbabane a
Mzimpofu, da Bulandzeni a Hluthi, da Piggs Peak a Siteki. Ricordando i primi,
vogliamo anche ricordare tutti gli altri missionari che li hanno seguiti: altri
Serviti, le monache Benedettine, le suore Mantellate, le Domenicane di Cabra e
di Montebello, i Salesiani, le suore di Madre Cabrini, le suore Servite dello
Swazi, le suore missionarie del Perpetuo Soccorso, … e con loro anche tutti i
sacerdoti diocesani che dal 1964 hanno cominciato a servire le nostre comunità.

Ma la Missione non è compito solo di preti e suore. Come Gesù nel
Vangelo, anche i primi missionari chiamarono altri a camminare con loro per
essere preparati e mandati a evangelizzare: i catechisti. I pochi preti e le
suore che hanno servito nel paese agli inizi, non avrebbero potuto ottenere i
risultati raggiunti senza l’aiuto dei catechisti».

Ho detto anche molte altre cose, troppe da
riprodurre qui. Ne riporto ancora una. «Oggi siamo qui per ricordare.
Ricordando celebriamo. Celebrando ringraziamo Dio per tutto quello che ha fatto
per noi in questi anni. Ma… voi sapete bene quello che dico sempre: Questo
non è un museo!
Non siamo qui solo per ricordare. Noi qui vogliamo
rinnovare il nostro impegno a continuare quello che abbiamo sentito nel Vangelo
di oggi. Noi ci impegniamo non solo a proclamare (con le parole) la “Buona
Notizia”, ma a essere (coi fatti) “Buona Notizia”. Di parole ne diciamo troppe!
Noi vogliamo essere riconosciuti come discepoli di Gesù. Discepoli missionari
che vanno fuori e con la loro vita toccano la vita degli altri».

Tutto bene

Durante l’offertorio ho scambiato poche parole con padre Sakhile
Mswane, il cerimoniere. Ero davvero preoccupato per il sovraffollamento. Avevo
paura che potesse succedere qualcosa. Lui mi ha rassicurato: tutto sarebbe
andato bene. E così è stato!

I vescovi sono stati lieti di distribuire la comunione, mentre io ero
felicissimo di essere mandato nel punto più lontano dall’altare. Restare al
posto centrale non mi piaceva proprio, preferivo andare fra quelli che erano «più
lontani». E mi hanno accontentato. La gente aveva obbedito all’invito di non
scattare fotografie durante la celebrazione. Tutti erano stati fin troppo bravi
fino a quel momento. Ma quando si sono trovati il vescovo in mezzo a loro, la
tentazione è stata troppo forte!

Prima della benedizione finale ci sono stati i discorsi con
particolari ringraziamenti al Vicariato di Ingwavuma per aver donato il nuovo
vescovo allo Swaziland. Il primo ministro Sibusiso Dlamini ha ricordato il
grande contributo della Chiesa allo sviluppo del paese, e il principe Simelane,
che rappresentava il re Mswati III, ha sottolineato la scelta preferenziale dei
poveri, dei disabili, dei rifugiati (in particolare dalle aree attorno ai
Grandi Laghi, ndr) come una delle caratteristiche particolari dei
cattolici e li ha elogiati per avere delle scuole che accettano chiunque senza
distinzione di merito e di ceto sociale, dando a tutti la possibilità di avere
un’educazione di base.

Per concludere ho fatto distribuire la preghiera di S. Francesco: «Fa’
di me uno strumento di pace». «Ditela tutte le mattine. La prima cosa da fare!
Imparatela a memoria. “Fa’ di me”: è il mio impegno. Non delego ad altri.
Ditela ogni sera. Sia guida per l’esame di coscienza: ho perdonato, amato,
consolato, ascoltato? Sono stato luce, pace e speranza? Preghiera la mattina,
verifica la sera. Senza scoraggiarci. Non dipende solo da noi. C’è l’aiuto di
Dio. Niente è impossibile per Lui».

José
Luis Ponce de Leon
*

* Missionario della Consolata argentino, nato nel 1961, ordinato
prete nel 1986 e vescovo dal 2009.
_________________________

Testo tradotto e adattato da
Gigi Anataloni da bhubesi.blogspot.com


Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin-top:0cm; mso-para-margin-right:0cm; mso-para-margin-bottom:10.0pt; mso-para-margin-left:0cm; line-height:115%; mso-pagination:widow-orphan; font-size:11.0pt; mso-ascii- mso-ascii-theme- mso-hansi- mso-hansi-theme-}

José Luis Ponce de Leon