Silenzio sulla guerra

Incontro con padre Pizzaballa


Di Siria si parla molto meno di qualche mese fa. Ma i
problemi generati dalla guerra civile sono ancora insoluti. In queste pagine
Piergiorgio Pescali parla della situazione siriana con padre Pizzaballa, francescano,
«custode di Terrasanta» dal maggio 2004. L’intervista è parte di un libro in
via di pubblicazione.

«Noi abbiamo fatto una scelta ben precisa: parlare il meno
possibile. Quindi io, ora, davanti a lei, sto contravvenendo a questa stessa
scelta».

Padre Pierbattista Pizzaballa sorride mentre si aggiusta il
saio francescano. Lui, «custode di Terrasanta», è impegnato a mantenere viva
l’attenzione verso la Siria. Lo abbiamo incontrato per porgli alcune domande*.

Dopo l’accordo per la distruzione delle armi chimiche di
Assad (settembre 2013), si è arrivati a scongiurare il pericolo di un
intervento militare internazionale diretto da parte dell’Europa e degli Usa
(che forse non erano neppure troppo convinti). Si è però assistito anche a un
allontanamento della Siria dall’attenzione mediatica. Questo da una parte ha
favorito l’incancrenirsi del conflitto, dall’altra ha permesso ai paesi
coinvolti – Turchia, Arabia Saudita, Qatar – di avere mano libera nelle loro
politiche di intervento. Padre Pizzaballa, cosa sta accadendo in Siria?

«In realtà in Siria non è cambiato molto rispetto ai
tempi in cui se ne parlava. Cambia sul territorio la forza dei vari movimenti a
seconda dei periodi, ma la situazione generale è immutata. Parte del territorio
è sotto controllo governativo, parte sotto quello dei ribelli. E i ribelli sono
una galassia indefinita di movimenti e sigle. A volte sono semplici bande
criminali che utilizzano varie coperture per compiere scorrerie e ruberie.

Risulta sempre più evidente che tra questi ribelli ci
sono frange di stampo fondamentalista, che creano problemi a tutto ciò che si
differenzia da loro. Ci sono, infine, milioni di profughi all’esterno e
all’interno del paese».

Le frange fondamentaliste sono formate da siriani o da
stranieri?

«In gran parte si tratta di stranieri. Provengono da
Cecenia, Pakistan, Egitto, Libia, Afghanistan. Sono persone abbruttite dalla
guerra, che hanno partecipato a tutti i conflitti di questi ultimi anni. Sono
persone abituate alla violenza, che è divenuta il loro pane quotidiano. Sono
persone che devono vivere, quindi saccheggiano; che devono fare sesso, quindi
stuprano.

All’inizio la rivolta non era questa: era una rivolta più
popolare, pacifica, politica. Poi è degenerata in violenza».

Chi sostiene, finanzia, appoggia queste frange
estremiste?

«Non posso dire con sicurezza chi siano le organizzazioni
e i governi che le appoggiano, ma possiamo sicuramente vedere da dove entrano:
dal Libano, forse anche dalla Giordania, ma soprattutto dal Nord, Turchia ed
Iraq.

Certamente godono dell’appoggio di Turchia, Arabia
Saudita, Qatar, ma anche di alcuni paesi occidentali, in particolare quelli che
hanno adottato la politica dell’anti-Assad a tutti i costi».

Come
sempre è il popolo che subisce le conseguenze di questi giochi politici. Come
vivono i siriani?

«Il
popolo è la prima vittima di una guerra entro la quale saranno ridefiniti gli
equilibri non solo della Siria, ma di tutta la regione mediorientale. Esiste,
certamente, una divisione anche tra la gente: c’è chi sta da una parte, chi sta
dall’altra. La maggioranza della popolazione vuole vivere tranquillamente la
propria vita quotidiana. Spesso, però, a causa della guerra si trova a dover
scegliere da che parte stare. Volente o nolente deve comunque fare una scelta.
Questa è la violenza della guerra siriana».

La separazione tra alauiti pro Assad da una parte e
salafiti-sunniti dall’altra rispecchia effettivamente l’attuale scacchiere
della guerra civile siriana?

«La
realtà siriana, come tutte quelle mediorientali, è una realtà complessa.
Possiamo, anzi, affermare che la complessità è ciò che caratterizza la vita di
tutti i mediorientali e, oggi in particolare, dei siriani. Quindi, tutte le
semplificazioni che, per vari motivi, vengono fatte hanno poco senso e
contengono imprecisioni e ingiustizie. È anche vero, però, che quando devi
presentare la complessità sei costretto a semplificare, altrimenti non riesci
più a farti capire. Diciamo, quindi, che grosso modo è così, anche se tra gli
alauiti ci sono persone che contrastano il regime e, viceversa, tra i sunniti
ci sono coloro che appoggiano Assad. Non è, come si può capire, facile
distinguere nettamente chi è da una parte e chi dall’altra».

Un embargo contro la Siria esiste di già, ma Europa e
Stati Uniti vorrebbero rafforzarlo. I francescani, così come la Chiesa
cattolica, sono sempre stati contrari all’embargo, e non solo della Siria.
Quale altro tipo di pressione è possibile fare?

«In genere l’embargo colpisce la popolazione povera, non
certo chi ha i mezzi e il potere. Siamo sicuramente favorevoli all’embargo
delle armi: se c’è gente che spara è perché qualcuno produce le armi, le vende
e le distribuisce. Siamo, invece, contrari all’embargo su alimentari,
medicinali, energia. Cos’altro si può fare, onestamente, non lo so. Non vedo
delle soluzioni semplici. La situazione è talmente degenerata, le ferite sono
talmente profonde che attualmente non vedo alcuna possibilità di pacificazione.
Spero, comunque, di sbagliare».

Israele
in questo contesto dove sta, cosa fa, cosa spera di ottenere?

«Credo che per Israele cambi poco. Chiunque andrà al
potere in Siria sarà comunque anti-israeliano».

Assad, comunque, al di là dei proclami, non ha mai dato
problemi a Israele. Quindi potrebbe, alla fin fine, rappresentare il male
minore.

«Assad è, per Israele, una bestia conosciuta. Penso che
qualcuno in Israele speri di continuare a confrontarsi con ciò che già conosce,
piuttosto che trovarsi a dover affrontare una nuova realtà».


E i cristiani in tutto questo dove stanno e come vivono?

«I
cristiani non sono un popolo a parte. Lo dico sempre. I cristiani sono siriani
come lo sono gli alauiti, i sunniti, i salafiti, gli sciiti. E, quindi, anche i
cristiani sono coinvolti nella guerra con tutte le sue sfaccettature. Ci sono
cristiani pro-Assad e cristiani contro Assad».

I cristiani sono comunque una minoranza all’interno della
Siria e sono concentrati in regioni, quelle settentrionali, dove i gruppi
estremisti di cui parlava in precedenza, sono più attivi. Sono, quindi, più
esposti alla violenza.

«Bisogna fare attenzione a non generalizzare. La guerra
distrugge tutto: chiese come moschee».

E i francescani?

«Noi abbiamo fatto una scelta ben precisa: parlare il
meno possibile (quindi io, ora, davanti
a lei, sto contravvenendo a questa stessa scelta). Non perché abbiamo paura.
Noi non abbiamo paura di niente e di nessuno, ma solo perché siamo di fronte a
una situazione talmente complessa che fare dichiarazioni, specie se di parte,
serve a poco. Abbiamo fatto semplicemente la scelta di stare con la nostra
gente e aiutarla nei bisogni quotidiani. In questa guerra non c’è una parte
giusta e una sbagliata. Abbiamo, quindi, scelto di stare al nostro posto: con
la popolazione. Non potremo forse portare la pace, ma potremo consolare
qualcuno».


Ci sono diversi religiosi nelle mani dei ribelli, tra cui
il vescovo ortodosso di Aleppo, Boulos al-Yazigi, il siriaco ortodosso Youhanna
Ibrahim e padre Paolo Dall’Oglio. Si sa qualcosa di loro?

«No, non sappiamo nulla di preciso. Quello dei ribelli
non è un gruppo omogeneo, ma una galassia indefinita ed è molto probabile che
si passino i prigionieri da un gruppo all’altro».

Il vescovo siro cattolico di Damasco, Ignace II Younan,
prima del rapimento, aveva criticato Paolo Dall’Oglio per le sue dichiarazioni
anti Assad, dicendo che – senza il partito Ba’ath (il partito del
presidente, ndr)
-, Mar Musa (il monastero di Dall’Oglio, ndr) non
sarebbe mai potuto esistere.

«Sono questioni complicate in cui è difficile entrare e
giudicare. Credo che ciascuno debba fare la sua parte. I religiosi devono fare
i religiosi. Il nostro compito non è quello di entrare in questioni politiche
perché verremmo trattati da politici. Il nostro ruolo è, l’ho già detto, stare
con la gente: aiutarla, sostenerla. Naturalmente non puoi essere cieco rispetto
a ciò che sta accadendo. Devi sempre parlare di rispetto, di giustizia… ma alla
fine in momenti così gravi qualunque cosa tu dica è sbagliata».

Tra il 2011 e il 2013 le organizzazioni umanitarie
cattoliche hanno raccolto 72 milioni di euro da mandare in Siria. Come è
possibile, in una situazione così caotica, gestire questi aiuti? Come possono i
donatori essere sicuri che questi aiuti raggiungano effettivamente le
popolazioni a cui sono diretti?

«I bisogni sono tanti e in questo momento di guerra non
puoi pensare al futuro, ma al presente, a come aiutare la gente a continuare a
esistere. Uno dei problemi principali è quello dei profughi sia all’interno del
paese sia all’esterno, nei campi, soprattutto in Giordania e Libano. Lì c’è
bisogno di tutto. Occorre provvedere per l’assistenza immediata: medicinali, cure
mediche, viveri, vestiti. All’interno della Siria i soldi vanno a tutte quelle
famiglie che, a causa della guerra, debbono spostarsi. Bisogna cercare loro il
luogo in cui andare, trovare nuove scuole, spesso i prezzi esplodono e c’è chi
ne approfitta. Le chiese sono impegnate a dare un aiuto a queste famiglie nella
maniera più cornordinata possibile. Uno dei principali problemi è quello di unire
e cornordinare i vari gruppi all’interno della Chiesa, ma anche tra le varie
organizzazioni umanitarie, tra le Ong. Altro non si può fare. Io, come
francescano, posso garantire che, per quanto riguarda noi, siamo abbastanza
precisi e ferrei tenendo presente che, prima o poi, qualcuno ci chiederà di
rendere conto di quello che è stato fatto».

I luoghi cristiani in Siria sono stati preservati?

«Tutti i luoghi sono stati colpiti; non solo quelli
cristiani, ma anche quelli musulmani. Al Nord in maniera molto più pesante che
al Sud. Non possiamo dire se siano stati colpiti intenzionalmente o no. Di
conseguenza è molto difficile dare un’interpretazione».

Un possibile scenario potrebbe prevedere la divisione
della Siria in un Sud alauita pro-Assad e un Nord sunnita-salafita filo-turco.
Se questa ipotesi si avverasse, lo spazio geopolitico della regione sarebbe
diviso nettamente in due: un Sud filo-iraniano confinante con Israele (e quindi
possibile teatro di scontro tra Tel Aviv e Teheran) e un Nord più radicale, ma
più vicino all’Europa e filo-turco.

«Non posso prevedere come evolverà la guerra. Si parla,
effettivamente, di questa possibile divisione e della creazione di una Grande
Turchia, ma è ancora presto per dirlo. Anche i programmi più cinici devono fare
i conti con il territorio. Quindi, in qualunque direzione si vada, non sarà mai
una soluzione facile e pacifica».

Piergiorgio Pescali

Tags: Siria, pace, guerra, ecumenismo, jihad, fondamentalismo, cristiani

Piergiorgio Pescali




«La morte non esiste»

Eugenio Susani, tra i «padri» della Cooperazione in Africa


Negli anni Sessanta nascevano le prime Ong in Italia. E
partivano i primi volontari. In quell’epoca si era un po’ pionieri della
cooperazione. Così è stato Eugenio Susani. Tra i primi a partire e cofondatore
di due importanti associazioni. Una vita dedicata all’Africa e al suo sviluppo.
Ma in modo non invasivo. Una figura, una storia, che ha ancora molto da
insegnarci.

«Eugenio Susani ci ha lasciato in una calda giornata di
agosto. Lo avevamo sentito al telefono qualche giorno prima; con voce
affaticata ma ferma ci aveva semplicemente detto: “Sto male. Speriamo di
poterci rivedere per la nostra solita passeggiata. Ma in questo momento non
sono in grado di prevedere nulla”. Poi le cose sono precipitate. In quelle
parole ritrovo tutta la personalità di Eugenio: la sua sobrietà, il suo odio
per la retorica, che non si smentisce neppure di fronte alle circostanze estreme.
Il suo stile asciutto, oggettivo, essenziale». Chi scrive è Riccardo Borghi,
già assessore alla cultura al comune di Opera e ora presidente della Unitre
locale. Borghi firma la postfazione del libro «All’ombra del baobab. Racconti
di un volontario in Africa», raccolta di storie vissute e pensieri di Eugenio
Susani.

Amico
dell’autore, ne fissa alcuni tratti essenziali: «Eugenio era uomo di grande
rigore intellettuale, ma altresì capace di grandi passioni civili. (…) Quando
ho conosciuto Eugenio, il primo pensiero è stato: “Ecco un vero illuminista”.
Tale era la sua volontà di conoscenza, la concretezza, l’entusiasmo per
l’azione razionale che trasforma la realtà, la propensione a trasmettere il
proprio sapere agli altri. Era, in verità, un’intuizione alquanto
approssimativa, ma che coglieva aspetti essenziali e nobili della sua
personalità, e dunque in qualche modo “vera”».

Tra i primi volontari

Eugenio
Susani, classe 1938, si interessò presto ai problemi del sottosviluppo e nel
1964 partecipò alla fondazione dell’Ong Mani Tese, per la quale in seguito fu
segretario nazionale (dal ’69 al ’70).

Ma è nel 1966 la scoperta
dell’Africa, quando Eugenio partì come volontario per l’Ong Coopi, fondata da
padre Vincenzo Barbieri. Arrivato a Kambia in Sierra Leone, per tre anni insegnò
lingua e letteratura francese al liceo Kolenten, gestito dai missionari
Saveriani. Erano gli anni in cui in Italia nascevano le Ong e la Cooperazione
internazionale, ai suoi albori, aveva ancora molto di militante e di
missionario. Erano i primissimi progetti al Sud ed Eugenio fu tra i primi a
partire. L’atmosfera era quella euforica della sperimentazione di qualcosa di
completamente nuovo.

Note di strada

Dai primi appunti di Eugenio
Susani da Kambia: «(…) come nel resto del paese, non esiste il municipio. Non
c’è un luogo dove il singolo cittadino possa rivolgersi per avere assistenza o
il semplice riconoscimento del proprio diritto. A dirla tutta, non ci sono
nemmeno diritti, perché tutto dipende dagli umori del momento di un’unica
persona (e dal grado di importanza del richiedente): il capo villaggio, lo chef coutumier, ossia colui che gestisce la
vita di tutti. Eppure la gente è tranquilla, serena. O almeno così pare…».

«Eugenio non smetteva di
stupirsi del fatto che, seppure nella povertà e talvolta nella miseria, gli
africani mostrassero serenità e gioia di vivere». Chi parla è Ferruccio Stella,
che fu stretto collaboratore di Susani nell’Ong Iscos (Istituto Sindacale per
la cooperazione allo sviluppo), l’organismo per la cooperazione del sindacato
Cisl. Susani ne è stato tra i fondatori nel 1983, e vi lavorò occupandosi dei
progetti in Africa fino al 1994, quando si ritirò.

Partecipazione e formazione

Ricorda Ferruccio: «Era un
grande contrattualista e negoziatore, riusciva a creare dei rapporti con i
locali di livello paritario. La sua sfida era sempre quella di convincere le
controparti africane ascoltando le loro idee e i loro problemi. Non imponeva
mai una sua logica di impostazione dominante, da finanziatore, anzi, il suo
credo era: “Coinvolgere il più possibile il partner locale, renderlo attore
primo delle attività e degli interventi di cooperazione nei progetti”. Lavorava
affinché gli africani diventassero non solo partecipi e paritari nella
preparazione dei progetti, ma anche autonomi in vista della continuazione
dell’attività dopo il progetto». Avvicinatosi a questo mondo grazie a Eugenio,
Ferruccio, oggi anche lui in pensione, svolse tre anni come volontario in
Senegal. Rientrato in Italia, continuò a lavorare in Iscos con Susani e ne
prese poi il testimone.

Continua
Ferruccio: «Un altro elemento fondante per Eugenio era la formazione. Non c’era
progetto senza un adeguato programma formativo, in tutti i sensi: gestione,
organizzazione, amministrazione, fino all’alfabetizzazione. Aveva il desiderio
che coloro che partecipavano e non avevano cultura scolastica, potessero
farsela grazie al progetto. Questo affinché la gente coinvolta fosse cosciente
e potesse poi gestire direttamente le attività».

Chi lo ha conosciuto ricorda
il suo «Amore per l’Africa», che non è «Mal d’Africa» sostiene Ferruccio. «Eugenio
era affascinato dalla lettura della cultura locale e aveva una capacità di
analisi delle cose africane che derivava dalla sua sensibilità nel cogliere la
realtà. E un talento nell’esprimere bene quello che lui riusciva a vivere».

Scrive Borghi: «(…) nel
complesso, credo che raramente un occidentale abbia dimostrato una così totale
capacità di immergersi e immedesimarsi nella cultura profonda di popoli
lontani. Eugenio, che non amava le ostentazioni di antimperialismo ideologico
cui tanti intellettuali da salotto ci hanno abituato, con la sua vita e i suoi
scritti ci ha lasciato un esempio alto di antimperialismo vissuto, di amore
integrale per gli oppressi del mondo, di dedizione a un ideale pratico di
giustizia e di emancipazione. In lui il gusto della vita semplice, l’amore per
gli uomini si fa spesso poesia».

Mai imporre

Come operatore della
cooperazione, come occidentale che porta conoscenze e finanziamenti per
realizzare progetti nel Sud del mondo, Eugenio si trovava spesso di fronte al
dilemma di come intervenire per migliorare la situazione nel rispetto della
cultura locale, senza imporre una cultura «altra». «Eugenio aveva il massimo
rispetto delle culture e non voleva imporre niente. Intervenire senza
distruggere la cultura tradizionale, se possibile dando strumenti per vivere
meglio la loro cultura locale. Questo è un grande insegnamento che mi ha dato e
che è sempre valido per i giovani di oggi» ricorda Ferruccio.

Forse anche per questo era
molto apprezzato dagli africani: «Non ho mai sentito critiche osservazioni
contro il suo atteggiamento, anche quando c’erano dei conflitti. Eugenio
affrontava il conflitto con caparbietà e con l’obiettivo di risolverlo
attraverso il confronto e la discussione per trovare una soluzione concordata.
Il conflitto veniva superato e i locali lo rispettavano molto per questa sua
capacità di negoziatore e di affrontare il problema senza lasciarlo in sospeso.
Talvolta optava per lasciare passare un po’ di tempo, ma non voleva mai imporre
soluzioni».

Continua Ferruccio Stella: «Spesso
nei progetti di sviluppo, chi ha un ruolo di responsabilità o potere nel
territorio in cui si lavora cerca di orientare le risorse per soddisfare i
propri interessi. Su questo Eugenio era rigido e ciò era causa di conflitti con
funzionari e capi villaggio. Il suo insegnamento è stato di combattere
qualsiasi realizzazione che non andasse nel senso di una totale correttezza
nell’utilizzo dei fondi».

Racconta
l’imprenditore Luciano Cervone, coinvolto in un progetto in Senegal: «Ricordo
di Eugenio le sorde e diutue battaglie per garantire l’onesta e l’appropriata
utilizzazione dei fondi stanziati, sottraendoli alle manomissioni e alle
pretese delle locali burocrazie.

Dopo i suoi incontri-scontri
con i vertici locali diceva: “La battaglia si combatte sempre per l’enveloppe (letteralmente la busta, cioè i
fondi, ndr) e per chi deve gestirla”. Ma non l’ho mai visto scoraggiato anzi
era sempre animato da una fiducia e da una perseveranza che mostravano il suo
“amore evangelico” per quelle popolazioni e per quel continente».

Scelte di vita

Liviana Susani, moglie di
Eugenio, ci racconta come in famiglia fecero scelte coraggiose e generose. «Decidemmo
di fare un’adozione e nel 1981 partimmo per l’Ecuador. Qui Manuel entrò a far
parte della nostra famiglia. Mi ricordo che il paese era in guerra con il Perù,
per cui le preoccupazioni non mancarono. Ma poi tutto andò bene. Anche in
seguito».

Una volta ritirato dal lavoro
nella cooperazione internazionale, Eugenio non si allontanò dalla lotta per i
diritti civili. A Opera dove viveva, divenne l’anima di un movimento contro
l’azienda Jelly Wax che stoccava rifiuti tossici sul territorio comunale. La
società interruppe l’attività. In seguito si candidò e fu eletto consigliere
comunale, ruolo che ricoprì per una legislatura (2003-08).

La sua
ultima impresa fu la fondazione, insieme ad alcuni intellettuali di Opera, tra
cui sua moglie e lo stesso Riccardo Borghi, della sezione locale della
Università delle tre età (Unitre). Era il 2006. In questo ambito teneva lezioni
sull’Africa: tradizioni, problemi socio-economici e politici, colonialismo e
neocolonialismo, guerre, aiuti umanitari, cooperazione. Ferruccio Stella: «Quello
che sapeva non se lo teneva per sé. Cercava in tutti i modi di trasmetterlo
agli altri, ai giovani. Lo ha sempre fatto. E con la Unitre rese questa dote
ancora più concreta».

Secondo Borghi, Eugenio aveva
una: «“Concezione quasi sacra dell’istruzione” e della cultura, l’impossibilità
di vedere la teoria disgiunta dall’azione con essa coerente, l’atteggiamento
antidogmatico e, nello stesso tempo, il grande rispetto per le tradizioni
radicate nel tempo e nell’adesione popolare. Eugenio vede l’immobilismo che
soffoca il continente, lotta per il cambiamento e il progresso, ma
“l’importante – pensa – è che il cambiamento avvenga senza sciupare quei valori
di fondo, che rendono ancora oggi così vitale la società africana”. In questo
passaggio è racchiuso il senso della vita e della politica di Eugenio».

Dentro la cultura

Eugenio amava penetrare nella
cultura africana, cercare di capire. E spesso i suoi «maestri» erano vecchi
saggi, che lui si prendeva il tempo di ascoltare. Come il vecchio Assane, che
racconta nel suo libro. «Passiamo qualche tempo in silenzio, poi chiedo: “Cos’è
la morte per te, Assane?”. “La morte non esiste” è la sua risposta. “Allora la
tua storia non è vera” lo provoco. “I miti sono miti, amico mio. Servono a
rendere la vita più sopportabile alla gente. Talvolta servono per dire una
verità. Ma, in genere, non bisogna prenderli troppo sul serio”. “Eppure la
gente muore. Perché dici che la morte non esiste?”. Assane, i gomiti appoggiati
sulle ginocchia, la testa tra le mani, resta di nuovo in silenzio. Poi riprende
col tono di sempre, la voce lenta, pesando le parole come se parlasse a se
stesso, forse vedendo qualcosa che io non vedo. “Muoiono i corpi. Non le
persone. La realtà è più grande di quello che vedono gli occhi”».

Marco Bello

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Tags: volontariato, cooperazione, Susani

Marco Bello




Passione per Gesù e il suo popolo

Celebrare cent’anni di chiesa locale e un nuovo vescovo.

Il 27 gennaio scorso a Manzini, città principale
del regno dello Swaziland e sede dell’unica diocesi cattolica, c’è stata una
doppia celebrazione: si sono ricordati i cento anni dall’arrivo dei primi
missionari, ed è avvenuta l’installazione del nuovo vescovo, mons. José Luis
Ponce de Leon, missionario della Consolata. Seguiamo l’avvenimento con gli
occhi dello stesso vescovo.

La
preparazione

Alla fine del 2013 sono stato nominato vescovo della diocesi di
Manzini, nel regno dello Swaziland, di cui ero amministratore, dalla morte del
vescovo Ncamiso Ndlovu il 27 agosto 2012. La diocesi è la «mamma» del vicariato
di Igwavuma di cui ero vescovo, e subito mi ero reso conto che a genanio 2014
sarebbero stati cento anni dall’inizio dell’evangelizzazione cattolica del
regno, un’occasione eccellente per rinnovare l’impegno missionario della
diocesi. I preparativi per le celebrazioni erano già avviati quando è arrivata
anche la notizia della mia nomina. Passato il primo momento di panico, con i
miei collaboratori abbiamo pensato che la celebrazione del centenario avrebbe
ospitato anche la mia installazione.

Così abbiamo iniziato a organizzare e a mandare inviti, cominciando
dai vescovi del Sudafrica, che non solo hanno accettato di partecipare ma hanno
anche deciso di fare a Manzini l’incontro annuale di tutta la Conferenza
episcopale proprio la settimana prima. Naturalmente sono state invitate le
autorità, e anche sua Maestà il re Mswati III. Il primo ministro e diversi
ministri hanno accettato.

I giornali locali ci hanno aiutati a far conoscere a tutti la buona
notizia e la televisione Swazi si è impegnata a trasmettere dal vivo la
celebrazione. L’avvenimento stava diventando sempre più grande e importante,
creando seri problemi logistici. Fino a ottobre sembrava chiaro che tutto si
sarebbe svolto nella cattedrale. Ma dopo le prime adesioni ci siamo resi conto
che troppa gente sarebbe rimasta fuori a guardare il cielo. Per questo abbiamo
spostato tutto nel salone polifunzionale del «Bosco Youth Centre», un grande
spazio coperto, quasi un palazzetto dello sport. Volevamo essere tutti
insieme, al coperto, anche se, essendo così grande, non pensavamo certo di
riempirlo.

Il libretto
del centenario

Per aiutare la preparazione abbiamo stampato un libretto, nel quale si
evidenziavano alcuni punti importanti della storia della Chiesa swazi. Ne
riporto alcuni.

«Cento anni fa, il 27 gennaio 1914, i primi missionari cattolici
arrivarono in Swaziland. Erano membri dell’Ordine dei Servi di Maria (Osm)
mandati come gli apostoli a condividere la gioia del Vangelo, portando in cuore
una profonda passione per Gesù e per il suo popolo.

Lo sguardo sulla nostra Chiesa di oggi e il ricordo dei nostri inizi
ci richiama subito alcune immagini evangeliche:

* il seme di senape che è il più piccolo di tutti i semi (Mc 4,31-32);
* i cinque pani e i due pesci che permisero a migliaia di persone di
mangiare a sazietà (Mc 6,34-44);
* e soprattutto il Signore che “lavorava con loro e confermava la
parola con i segni che l’accompagnavano” (Mc 16,20), manifestando così la sua
presenza e guida.

«La celebrazione di questi primi cento anni è l’occasione per tutti noi
di ricordare con gioia tantissimi momenti del cammino fatto. Quanto è scritto
in questo libretto è davvero ben poca cosa rispetto a quanto celebriamo. Allo
stesso tempo ci ricorda che “è di vitale importanza che oggi la Chiesa continui
a predicare il Vangelo a tutti, in tutti i posti, in ogni occasione, senza
esitazione, riluttanza o paura. La gioia del Vangelo è per tutti: nessuno ne
deve restare escluso” (Evangelii Gaudium 23).

Ricordando e celebrando noi rinnoviamo il nostro impegno a essere
Buona Notizia per tutti in ogni angolo del nostro paese e in tutto il mondo».

Mbabane, dove tutto è cominciato

La celebrazione del centenario si è svolta a Manzini, un posto
centrale. Ma ciascuno qui sa bene che «tutto è cominciato a Mbabane». I primi
missionari arrivarono in Swaziland dal Sudafrica e andarono a Mbabane dove,
alcuni giorni dopo il loro arrivo, ottennero il posto chiamato oggi «Mater
Dolorosa».

Per ricordarlo, abbiamo organizzato un pellegrinaggio di tutti i
vescovi del Sudafrica proprio là. Venuti a Manzini per la loro assemblea
annuale (la prima in assoluto mai fatta nel regno), li abbiamo invitati a fare
una visita a Mbabane, la città capitale del regno. Nessuno è rimasto indietro.
Accolti dal Consiglio Pastorale, dopo la foto di rito, siamo andati in chiesa
per pregare e ringraziare. Abbiamo cominciato con l’inno God’s Spirit is in
my heart
e dopo che il vescovo Jabulani Nxumalo (Oblato di Maria Immacolata
– Omi, di Bloemfontain) ha presentato tutti, abbiamo ascoltato il testo di Mt
28,16-20: il mandato missionario in cui Gesù dice ai suoi «Andate e fate
discepoli di tutte le nazioni. (…) Sono con voi per sempre». E abbiamo pregato
così: «Signore, che mandasti i tuoi apostoli a proclamare il Vangelo a tutto il
mondo e che hai guidato i missionari nella tua vigna in Swaziland, ti chiediamo
di continuare a guidare la tua Chiesa pellegrina e missionaria nel proclamare
il Vangelo a tutti. Attraverso lo Spirito Santo che ha animato gli apostoli
all’inizio della tua santa Chiesa, guidala oggi e sempre perché il tuo
messaggio d’amore possa raggiungere le orecchie dei poveri e dei ricchi per
farli diventare docili al tuo Santo Spirito, e il Regno di Dio nel tuo amore
giunga al suo compimento. Amen».

Cammino non
processione

Con la televisione che trasmetteva in diretta dovevamo essere
assolutamente puntuali, così il 26 gennaio, domenica mattina, alle 9.00,
preceduti dalle majorette della St. Theresa’s School e dalla Salesian
Band
, siamo andati a piedi dalla cattedrale al Bosco Youth Centre.
Non era una processione. Non c’era un ordine preciso: i chierichetti sì
marciavano dietro la banda, ma tutti gli altri – vescovi, preti, laici e
religiosi – camminavamo insieme, fianco a fianco.

In verità molto prima dell’inizio della messa il palazzetto era già
pieno all’inverosimile, e, nonostante fossero state aggiunte un migliaio di
sedie, molti erano rimasti fuori. L’interno era decorato in modo splendido con
striscioni fatti dalle diverse parrocchie, associazioni e gruppi religiosi. Un
modo davvero creativo per dire: «Siamo qui, anche noi celebriamo il nostro
cammino nel regno dello Swaziland».

Entro le 9.30 noi preti e vescovi eravamo indaffarati a vestirci e
prepararci per la celebrazione. Ho approfittato del momento per salutare i
sacerdoti arrivati dal Vicariato di Ingwavuma (dove ero stato vescovo fino a
quel giorno e di cui sono ancora amministratore) e da altre parti del
Sudafrica. Allo scoccare delle 10 siamo entrati in processione accolti da
un’esplosione di gioia.

Chiamato a
servire in un’altra diocesi

La celebrazione è stata presieduta dall’arcivescovo di Johannesburg,
mons. Buti Tlhagale, Omi. Era affiancato da mons. Stephen Brislin, arcivescovo
di Cape Town e presidente della Conferenza episcopale del Sudafrica, e dal
cardinal Wilfrid Napier, arcivescovo di Durban. Mi hanno fatto sedere in mezzo
agli altri vescovi a lato dell’altare.

L’arcivescovo Tlhagale ha ricordato che era la prima volta nella
storia della diocesi che il nuovo vescovo non era consacrato a Manzini, ma solo
installato. Ha continuato citando una frase di papa Francesco ai preti: «Questo
vi chiedo: siate pastori con l’odore delle pecore».

The Swazi Observer, il giornale nazionale,
ha così sintetizzato il suo discorso d’apertura: «Durante la messa per la
celebrazione del centenario [dell’arrivo] dei Cattolici Romani [in Swaziland]
al Bosco Youth Centre domenica scorsa, l’arcivescovo di Johannesburg
Buti Tlhagale ha sintetizzato ne “l’essere per servire” lo spirito che
distingue la Chiesa, quando ha detto all’assemblea che si augurava che il nuovo
vescovo José Ponce de Leon fosse davvero un buon pastore. Ha poi aggiunto che
un buon pastore deve sempre “puzzare come il suo gregge”, il che era come dire
che il vescovo deve sempre identificarsi col popolo di cui è guida. Puzzare
come il proprio gregge
significa diventare uno con la gente. Quando le tue
pecore hanno fame, tu patisci la fame con loro, e quando condividono un buon
raccolto anche tu giornisci con loro. Puzzare come il gregge significa diventare
parte del tutto, piangendo con esso nei momenti di dolore e danzando con esso
quando c’è da celebrare. Tu diventi parte del gregge a tal punto da essere
sufficiente farti annusare per far sapere quello che sei.

Questo spirito è probabilmente lo stesso vissuto da Gesù durante il
suo tempo sulla terra. Ed è molto incoraggiante vedere che la Chiesa cattolica
romana vive di questo supremo ideale, in uno sforzo di semplificazione dei miti
della religione, e aprendo nello stesso tempo le porte a tutti, per dimostrare
che tutti sono benvenuti.

La Chiesa cattolica romana è stata veramente esemplare in tutto ciò, e
i suoi missionari hanno vissuto questo ideale fin dall’inizio. Questa è la
ragione che probabilmente spiega la facilità con cui loro hanno vinto i cuori
del popolo».

Quando è stato letto il Mandato papale, sono stato invitato a sedere
sulla «cattedra» (la sedia che nella cattedrale solo il vescovo in carica può
occupare). Una volta seduto mi hanno consegnato il pastorale. Non uno nuovo,
non l’ho voluto, ma quello del mio predecessore, mons. Ncamiso Ndlovu, vescovo
di Manzini dal 1985 al 2012.

I vescovi sono poi venuti uno a uno a salutarmi mentre la segretaria
generale della Conferenza episcopale, suor Hermenegild Makoro, li presentava ai
fedeli di Manzini. Di seguito sono venuti i sacerdoti, i religiosi e i laici (i
presidenti dei consigli pastorali delle 15 parrocchie) per dare il benvenuto al
loro nuovo vescovo e promettere di lavorare con lui.

A ciascuno ho dato una copia dell’esortazione apostolica Evangelii
gaudium
di papa Francesco che tratta dell’impegno di annunciare il Vangelo
nel mondo di oggi. Essendo la celebrazione centrata sul centenario
dell’evangelizzazione in Swaziland, mi è sembrato che l’esortazione fosse lo
strumento migliore per cominciare i prossimi cento anni.

Una volta installato, è toccato a me presiedere la celebrazione, come
nuovo padrone di casa. Le letture sono state proclamate in portoghese (la
lingua dei molti immigrati e rifugiati dal Mozambico), inglese e siswati (la
lingua locale), come si usa da queste parti durante le celebrazioni più
importanti.

La mano di
Dio al lavoro

Durante la predica ho insistito sull’idea che ora tocca a noi
continuare quello che altri hanno iniziato. Siamo noi a venire chiamati da Gesù
a essere «buona notizia», luce per chi cammina nelle tenebre e pescatori di
uomini e donne. Ho ricordato poi che tantissimi anni prima, quando ero ancora
un seminarista, un prete aveva detto in una predica che «Solo i matti credono
nelle coincidenze». «No – ho continuato -, noi non crediamo in coincidenze. Noi
crediamo nella mano di Dio al lavoro nelle nostre vite. Non ho scelto le
letture di oggi. Sono quelle ordinarie di sempre, che ogni cattolico può
ascoltare oggi in tutto il mondo. Eppure, sembrano proprio fatte per questo
giorno. Non è coincidenza, è la mano di Dio al lavoro tra noi oggi.

«Pensateci:

* Nel vangelo di Matteo
(4,12-23) Gesù comincia il suo ministero predicando la Buona Notizia,
insegnando e guarendo – e qui noi celebriamo e ricordiamo l’inizio dello stesso
ministero nel regno dello Swaziland a opera dei primi missionari cattolici
arrivati cento anni fa.

*  Vediamo Gesù che chiama
Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni perché lo seguano e diventino pescatori di
uomini – e noi qui ricordiamo i nomi di coloro che Gesù fece pescatori di
uomini per noi: i padri Gratl, Mayer e Bellezze e fratel Obeleitner, missionari
Serviti.

*  Vediamo Gesù andare in giro nella Galilea toccando la vita di ognuno – e
noi ricordiamo e celebriamo chi ha accolto quei primi missionari da Mbabane a
Mzimpofu, da Bulandzeni a Hluthi, da Piggs Peak a Siteki. Ricordando i primi,
vogliamo anche ricordare tutti gli altri missionari che li hanno seguiti: altri
Serviti, le monache Benedettine, le suore Mantellate, le Domenicane di Cabra e
di Montebello, i Salesiani, le suore di Madre Cabrini, le suore Servite dello
Swazi, le suore missionarie del Perpetuo Soccorso, … e con loro anche tutti i
sacerdoti diocesani che dal 1964 hanno cominciato a servire le nostre comunità.

Ma la Missione non è compito solo di preti e suore. Come Gesù nel
Vangelo, anche i primi missionari chiamarono altri a camminare con loro per
essere preparati e mandati a evangelizzare: i catechisti. I pochi preti e le
suore che hanno servito nel paese agli inizi, non avrebbero potuto ottenere i
risultati raggiunti senza l’aiuto dei catechisti».

Ho detto anche molte altre cose, troppe da
riprodurre qui. Ne riporto ancora una. «Oggi siamo qui per ricordare.
Ricordando celebriamo. Celebrando ringraziamo Dio per tutto quello che ha fatto
per noi in questi anni. Ma… voi sapete bene quello che dico sempre: Questo
non è un museo!
Non siamo qui solo per ricordare. Noi qui vogliamo
rinnovare il nostro impegno a continuare quello che abbiamo sentito nel Vangelo
di oggi. Noi ci impegniamo non solo a proclamare (con le parole) la “Buona
Notizia”, ma a essere (coi fatti) “Buona Notizia”. Di parole ne diciamo troppe!
Noi vogliamo essere riconosciuti come discepoli di Gesù. Discepoli missionari
che vanno fuori e con la loro vita toccano la vita degli altri».

Tutto bene

Durante l’offertorio ho scambiato poche parole con padre Sakhile
Mswane, il cerimoniere. Ero davvero preoccupato per il sovraffollamento. Avevo
paura che potesse succedere qualcosa. Lui mi ha rassicurato: tutto sarebbe
andato bene. E così è stato!

I vescovi sono stati lieti di distribuire la comunione, mentre io ero
felicissimo di essere mandato nel punto più lontano dall’altare. Restare al
posto centrale non mi piaceva proprio, preferivo andare fra quelli che erano «più
lontani». E mi hanno accontentato. La gente aveva obbedito all’invito di non
scattare fotografie durante la celebrazione. Tutti erano stati fin troppo bravi
fino a quel momento. Ma quando si sono trovati il vescovo in mezzo a loro, la
tentazione è stata troppo forte!

Prima della benedizione finale ci sono stati i discorsi con
particolari ringraziamenti al Vicariato di Ingwavuma per aver donato il nuovo
vescovo allo Swaziland. Il primo ministro Sibusiso Dlamini ha ricordato il
grande contributo della Chiesa allo sviluppo del paese, e il principe Simelane,
che rappresentava il re Mswati III, ha sottolineato la scelta preferenziale dei
poveri, dei disabili, dei rifugiati (in particolare dalle aree attorno ai
Grandi Laghi, ndr) come una delle caratteristiche particolari dei
cattolici e li ha elogiati per avere delle scuole che accettano chiunque senza
distinzione di merito e di ceto sociale, dando a tutti la possibilità di avere
un’educazione di base.

Per concludere ho fatto distribuire la preghiera di S. Francesco: «Fa’
di me uno strumento di pace». «Ditela tutte le mattine. La prima cosa da fare!
Imparatela a memoria. “Fa’ di me”: è il mio impegno. Non delego ad altri.
Ditela ogni sera. Sia guida per l’esame di coscienza: ho perdonato, amato,
consolato, ascoltato? Sono stato luce, pace e speranza? Preghiera la mattina,
verifica la sera. Senza scoraggiarci. Non dipende solo da noi. C’è l’aiuto di
Dio. Niente è impossibile per Lui».

José
Luis Ponce de Leon
*

* Missionario della Consolata argentino, nato nel 1961, ordinato
prete nel 1986 e vescovo dal 2009.
_________________________

Testo tradotto e adattato da
Gigi Anataloni da bhubesi.blogspot.com


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José Luis Ponce de Leon




Minoranza serba sotto attacco

I giorni della spiritualità e del raccoglimento nel Kosovo martoriato.

Chiese ortodosse bruciate, cimiteri serbi vandalizzati,
libertà di movimento limitata, identità e cultura negate. La minoranza serba in
Kosovo, costretta in una condizione di apartheid, vede i propri diritti fondamentali
violati. Segno di un paese che, nonostante l’avallo internazionale, rimane
distante dagli standard minimi della democrazia.

Dopo l’intervento militare della Nato nel 1999, la
regione del Kosovo è stata posta sotto amministrazione Onu (Unmik). Il
controllo è stato assunto dalla maggioranza albanese, e la popolazione serba è
fuggita in gran parte in Serbia. Le minoranze rimaste vivono attualmente in
piccole enclaves protette dalle forze inteazionali. Il 17 febbraio
2008 il Kosovo si è proclamato indipendente ottenendo il riconoscimento da
parte di 106 stati, tra cui gli Usa che vi hanno insediato una importante base
militare (Camp Bondsteel). Il 22 luglio 2010 la Corte internazionale di
Giustizia ha dichiarato che la proclamazione d’indipendenza del Kosovo non era
stata un atto contrario al diritto internazionale. La Serbia non riconosce la
secessione di un territorio che rappresenta la culla della sua cultura. La
dichiarazione della Corte è stata riconosciuta dall’Assemblea Generale dell’Onu
nel settembre del 2010 (Incipit tratto da deagostinigeografia.it).

Un narcostato nel
cuore dell’Europa

Nonostante
siano passati 15 anni dai bombardamenti scatenati dalla Nato e dall’inizio del
processo di secessione e indipendenza della regione kosovara dalla Repubblica
di Serbia, la «questione Kosovo» continua a essere un nodo irrisolto. La
comunità internazionale occidentale pensava che con la cosiddetta «indipendenza»
si sarebbero assopite le forme di resistenza del popolo serbo kosovaro e delle
altre minoranze perseguitate in quel territorio. Ma non è stato così. E lo
dimostrano i quotidiani episodi di violenza e persecuzione, le vessazioni e i
soprusi. Il Kosovo indipendente, scosso da conflittualità e turbolenze, dopo
quindici anni di cosiddetta «democrazia e libertà» è stato definito dalla Dea
(Agenzia Antidroga Usa) un «narcostato nel cuore dell’Europa». Esso si regge su
due stampelle: una militare, cioè la presenza delle forze Nato-Eulex (European
Union Rule of Law Mission in Kosovo
), l’altra economica, cioè la
proliferazione di attività criminose di ogni genere, dal traffico di eroina, a
quello delle donne, degli organi e delle armi.

Feste serbe e apartheid

A cavallo tra la fine di un anno e l’inizio di quello
nuovo in Kosovo Metohija (così viene chiamata la regione del Kosovo dalla
popolazione serba, ndr) i serbi vivono le ricorrenze cristiane, come la
memoria dei morti, a novembre, e il Natale ortodosso, il 7 gennaio, con una
particolare intensità. Nella tradizione e nella cultura slava non c’è molta
differenza tra credenti e laici in quei giorni. Tutti vivono le celebrazioni
con coinvolgimento. Di questo siamo testimoni oculari, avendole vissute insieme
a sacerdoti, ferventi credenti, militanti politici, patrioti, integerrimi
sindacalisti. Diversi tra loro per visioni di società o idee politiche, ma
accomunati dalla medesima situazione. Ciascuno possiede radici spirituali
profonde e salde.

Anche questo, piacendo o non piacendo a taluni esperti
di Serbia virtuale, è il popolo serbo. Ed è probabilmente anche grazie a queste
radici che esso resiste alle aggressioni straniere. E forse in modo ancora più
profondo, le radici culturali e spirituali aiutano la resistenza dei serbi del
Kosovo nella loro tragica realtà: essere prigionieri di una modea forma di apartheid
nelle enclavi in cui nessuno dei diritti fondamentali dell’uomo viene
rispettato, e ancor meno quelli sanciti nei primi dieci articoli della
Convenzione sui diritti dell’infanzia.

Nello stesso momento in cui il Consiglio europeo
discute, minaccia, sanziona circa i diritti umani in Siria, nel Kosovo
Metohija, stato considerato da molti artificiale e illegale, avvengono gravi
violazioni dei diritti fondamentali, tra cui, non ultimo, il diritto di credo,
con quotidiani attacchi, profanazioni, vandalizzazioni, distruzioni di tombe di
famiglia, di luoghi sacri, di monasteri e siti spirituali.

Così è
stato nel novembre scorso, nel giorno dedicato al ricordo dei propri cari scomparsi.


Cimiteri off limits, maiali e profanazioni

La realtà dei cimiteri e dei luoghi sacri nel Kosovo
Metohija è paradigmatica della vita quotidiana dei serbo kosovari.

Il «diritto» per un serbo di visitare le tombe dei
propri cari, dal 2013 è passato da due volte all’anno a una sola volta. Dal
2008 (anno della secessione illegale dalla Serbia) i serbi visitano i propri
cimiteri sotto scorta militare e, spesso, tra le ingiurie dei locali albanesi.
Nell’arco dell’anno vi crescono erbacce e rovi, e vi vengono lasciati pascolare
maiali provocatoriamente. Non è raro che le tombe e le lapidi vengano spaccate
e violate a colpi di mazza.

Nel cimitero del paese di Istok (in cui sono rimaste
alcune famiglie serbe), oltre 100 tombe e lapidi sono state distrutte.

Il cimitero di Peć, uno dei più grandi cimiteri ortodossi
in Kosovo, è stato trasformato in una discarica. I vandali hanno distrutto non
solo le lapidi in marmo, ma anche le bare, e molti corpi e ossa dei defunti
sono stati estratti e portati via.

A Prizren, nel locale cimitero ortodosso, 50 tombe sono
state profanate nel corso degli ultimi mesi. Lo ha denunciato un sacerdote
della diocesi locale, aggiungendo che la profanazione è avvenuta appena una
settimana dopo un fatto simile accaduto nel cimitero ortodosso di Kosovo Polje.
Altre tombe sono state profanate a Klokot, 27 sono state distrutte. A Milosevo,
Plemetina e Priluzje è stato usato dell’esplosivo per far saltare pietre
tombali appartenenti a famiglie serbe locali.

Ferite all’identità e
all’unità

Anche questi avvenimenti fanno parte della realtà dei
serbi resistenti nella propria terra kosovara. Anche queste umiliazioni sono
pane quotidiano. L’obiettivo è quello di ferire, violentare e annientare la
loro identità spirituale e religiosa, che qui più che altrove si fonde con la
loro identità nazionale e culturale.

Nell’ultimo viaggio di solidarietà organizzato dalla
nostra associazione Sos Yugoslavia abbiamo raccolto le denunce dei serbo
kosovari. Nei loro racconti veniva sottolineato il pericolo delle divisioni
intee alla comunità serba in Kosovo. Dopo anni di umiliazioni e vessazioni,
infatti, alcuni hanno deciso di portare i resti dei propri cari in Serbia;
mentre altri ritengono che fare questo significhi la resa totale, la consegna
dei propri luoghi sacri, della propria anima, della propria storia, identità, e
radici, sancendo la resa al terrorismo, all’arroganza, all’ingiustizia.

I piromani a
protezione del patrimonio incendiato

Nel Kosovo Metohija, in quattordici anni di «democrazia e
libertà» oltre 200 chiese, monasteri e luoghi sacri sono stati vandalizzati e
distrutti. Alcuni di essi sono patrimonio dell’Unesco vincolati a precisi
obblighi inteazionali contenuti nella Convenzione sulla protezione del
patrimonio culturale mondiale, adottata alla Conferenza delle Nazioni Unite di
Vancouver nel 1976. L’articolo 9 dice: «Il diritto di ciascun paese è quello di
essere, con la piena sovranità, l’erede dei propri valori culturali che sono il
frutto della sua storia, ed è suo dovere fae tesoro come valori che
rappresentano una parte inseparabile del patrimonio culturale dell’umanità».
Evidentemente per la Serbia questo non vale.

Nel frattempo, ad agosto 2013 il responsabile della
Kosovo Spu (la polizia del Kosovo) ha annunciato che membri di una unità detta
Kosovo Security per il patrimonio culturale e religioso serbo, avrebbe assunto
il ruolo di protezione del Patriarcato di Peć e di altri 24 siti religiosi – il
monastero di Decani è invece ancora protetto dalle forze inteazionali,
essendo ad alto rischio di attacchi -, così, dopo le oltre 200 chiese ortodosse
serbe già ricordate distrutte dal 1999, i piromani vengono messi a proteggere
le case incendiate. Queste Unità speciali della cosiddetta polizia multietnica
in Kosovo conta circa 200 agenti agli ordini del noto criminale di guerra Agim
Ceku (nel periodo 1992-1995 generale dei secessionisti croati, coinvolto nel
genocidio dei serbi della Krajina), grande amico e legato strettamente a Stati
Uniti e Germania.

Il Natale nelle enclave

Così sono state vissute le giornate di novembre dedicate
ai morti in quel lembo di mondo, e in modo simile sono passate le giornate
della Natività.

Va ricordato che la Chiesa serba celebra le sue festività
secondo il calendario giuliano, risalente al 46 a.C., di 14 giorni in ritardo
rispetto a quello Gregoriano (usato dalla Chiesa cattolica). I serbi
festeggiano quindi il Natale il 7 gennaio.

In Kosovo Metohija oggi anche il Natale viene celebrato
in condizioni molto diverse da quelle in cui è festeggiato in qualsiasi altro
luogo del mondo. Esso è inserito nella vita dei ghetti, nella realtà delle enclave,
aree protette e delimitate materialmente, all’interno delle quali si svolge
tutta la vita delle persone. Fuori da lì è territorio ostile e nemico. Chi osa
uscire rischia la vita. In una vita priva di opportunità, dei diritti umani
fondamentali, compreso quello di movimento, i cristiani serbi non possono dare
seguito nemmeno alla loro tradizione, detta badnjak, che prevederebbe di
andare nei boschi per tagliare il loro «albero di Natale», il yule log,
ossia un pezzo di quercia giovane, a forma di tronchetto.

Il badnjak è un elemento centrale nella
tradizionale celebrazione del Natale serbo. È un simbolo che la famiglia
abbatte nel primo mattino della vigilia, porta solennemente in casa e mette sul
fuoco la sera, perché bruci fino al giorno dopo. La combustione del log è
accompagnata da preghiere in cui si domandano per l’anno nuovo felicità, amore,
fortuna, ricchezza e cibo. Poiché oggi molti vivono in città, il badnjak
è simbolicamente rappresentato da ramoscelli di quercia con delle foglie,
acquistati in mercatini o ricevuti nelle chiese. Gli studiosi indicano
l’origine del badnjak in pratiche ereditate dalla vecchia religione
slava.

Sassate, permessi
rifiutati, espulsioni, arresti

Il 6 gennaio un autobus serbo è stato preso a sassate da
manifestanti albanesi. Il mezzo trasportava alcuni serbi kosovari che negli
anni passati erano fuggiti da Djakovica per rifugiarsi in Serbia, e che in
occasione del Natale stavano tornando a visitare il loro paese d’origine e la
locale chiesa dell’Assunzione, in passato anch’essa attaccata e danneggiata.
L’automezzo, con vetri spaccati e passeggeri feriti è dovuto andare sotto scorta
della polizia al monastero di Decani, protetto dalle forze inteazionali.

Questo fatto è solo uno degli ultimi di una lunga serie:
ogni anno la celebrazione del Natale in Kosovo viene usata dai separatisti
albanesi per dimostrare che i serbi non possono sentirsi liberi nel proprio
paese e non hanno diritto di celebrare la più giorniosa festa cristiana.

Quest’anno, se si esclude il fatto di Djakovica, si
potrebbe dire che il Natale sia trascorso bene, senza risse o spari. Ma il
cosiddetto stato di Kosovo ha trovato altri modi, ancora più sottili, per
dimostrare ai serbi e alla Serbia in quale direzione va il loro futuro: prima
hanno rifiutato la richiesta del presidente della Serbia Nikolic di partecipare
il 7 gennaio alla liturgia di Natale nel monastero di Gracanica, poi il giorno
di Natale il responsabile dell’ufficio per il Kosovo Metohija del governo
serbo, Vulin, ha dovuto abbandonare la provincia su richiesta della polizia
kosovara, per l’alto rischio di incidenti. Nel frattempo la stessa polizia kosovara
ha arrestato, dopo la liturgia, dieci giovani serbi che si trovavano con Vulin.
«È chiaro che si tratta di una provocazione, di una grave violenza. Ho saputo
ufficiosamente che stanno tentando di accusarli di disturbo dell’ordine e della
quiete pubblica, addirittura di trasgressione dell’ordinamento costituzionale.
Quando l’accusa è così vaga, e quando tutto è possibile, sapete che si tratta
di pura ingiustizia», ha dichiarato in seguito Vulin.

Forse sarebbe il tempo di rivendicare i temi della libera
celebrazione del Natale, della libera visita ai cimiteri, ai monasteri o alle
proprie terre, perché il Kosovo è l’unico territorio in Europa in cui non
esiste la libertà di movimento. Ma dicono che è democratico.

Bambini invisibili

Tuttavia, nonostante le condizioni disumanizzanti, ai
bambini non manca la gioia per festeggiare il Natale. Essi sono invisibili per
la cosiddetta «Comunità internazionale» occidentale e per la sua opinione
pubblica. A loro basta poco per lenire la barbarie delle loro vite negate
dentro le enclave: è sufficiente una festa, una ricorrenza, un piccolo dono, e
si rafforza la loro voglia di vivere comunque, nonostante terroristi, vandali,
criminali sostenuti dai nostri governi, di qualsiasi colore essi siano. E sono
i bambini, i loro sorrisi, i loro semplici gesti di riconoscenza e affetto che
danno ancora a noi la forza dell’impegno per una solidarietà concreta. Che ci
danno, insieme alle loro famiglie resistenti, il senso della vita, in questo
occidente opulento e perso dietro virtualità e inutilità esistenziali. Sono
loro che ci aiutano a tenere accesa la fiammella della speranza in un mondo
migliore, con le loro famiglie che difendono le proprie radici, i diritti, i
costumi e le tradizioni.

Enrico Vigna
Presidente di SOS Yugoslavia – SOS Kosovo Methoija
www.sosyugoslaviakosovo.com

A quindici anni dalla guerra


Il Kosovo Metohija oggi

Dopo l’intervento Nato del 1999, ecco la situazione del Kosovo di
oggi, secondo le fonti Onu, Osce, Kfor, Unmik, e alcuni mass media
inteazionali:

– 400mila militari Nato e Kfor si
sono avvicendati in quattordici anni. Di essi 150 sono morti, senza
contare quelli deceduti per l’uranio
impoverito (circa 50 italiani). Tutto ciò ha avuto fino a ora un costo di 1,6
miliardi di dollari l’anno;

– dei 461mila abitanti non albanesi
(su 1.378.980) che popolavano la provincia serba, oggi (su una popolazione
stimata per il 2012 in 1.815.606 abitanti) ne sono rimasti circa 100mila, di
cui la stragrande maggioranza concentrata nell’area di Mitrovica, nel Nord. I
profughi di tutte le etnie, compresi migliaia di albanesi, sono circa 250mila
scappati dalle pulizie etniche;

– dei 55mila (su 125mila abitanti)
serbi, rom e altri che vivevano fino al 1999 nel capoluogo Pristina, oggi ne
sono rimasti 38 (di cui 7 bambini); assediati e rinchiusi in un palazzo;

– 70% di disoccupazione;

– scoperte continuamente sedi di
traffici di droga, armi, donne, organi;

– attività produttive quasi
completamente inesistenti;

– agricoltura ridotta del 60% (una
volta vini, frutta, ortaggi andavano in tutta la Jugoslavia);

– miniere ferme o chiuse;

– l’economia «sommersa» però
determina il 96% d’importazioni e il 4% di esportazioni, quella che si
definisce un’economia «drogata»;

– 148 chiese, monasteri, luoghi
sacri ortodossi, distrutti, devastati o bruciati;

– 140mila case di serbi, rom e
altre minoranze bruciate;

– centinaia di attentati o violenze
contro serbi e rom (uno ogni 120 ore);

– secondo fonti della Kfor, vi sono
attualmente in circolazione o depositate nel Kosovo, almeno 400mila armi di
vario tipo, bombe, mine, ecc. (La Stampa, 6 maggio 2013);

– l’Onu ha denunciato che l’82% dei
finanziamenti dati al parlamento di Pristina risulta speso per Bmw, Mercedes,
cellulari satellitari, uffici privati. In otto anni sono stati versati 3
miliardi di euro (di cui 2 dalla Ue);

– la mortalità infantile è del
3,5%, la più alta d’Europa;

– oltre 2.500 serbi rapiti e/o
assassinati (di cui 1.953 civili) dalla pulizia etnica dell’Uck, cui si
aggiungono 361 albanesi pro jugoslavia e centinaia di rom, considerati
collaborazionisti;

– molti dei
diritti fondamentali dell’uomo, sanciti dalla Carta dell’Onu sono negati alle
minoranze non albanesi rimaste: lavoro, casa, studio, sanità, diritti sociali,
acqua, luce, riscaldamento; diritti civili, religiosi, politici;

– la popolazione non albanese in
Kosovo, scampata alla pulizia etnica, vive attualmente in «enclavi», aree circoscritte
assediate e sorvegliate dai militari Kfor: un vero e proprio apartheid;

– i diritti dei bambini, sanciti
dalla Convenzione Onu del 1989, sono negati alle minoranze non albanesi;

– scienziati e fondazioni
ambientaliste inteazionali hanno denunciato il territorio del Kosovo come il
più uranizzato d’Europa;

– 1000 acri di terra
(corrispondenti a circa 400 ettari, 800 campi da calcio) confiscati fino al
2099 per Camp Bondsteel: la più grande base americana dai tempi del Vietnam.
Essa può ospitare fino a 50mila persone; al suo interno ci sono 25 chilometri
di strade, 300 edifici, 14 chilometri di barriere in cemento e terra, 84
chilometri di filo spinato, 11 torrette di controllo. Nel suo perimetro esterno
sono compresi 320 chilometri di strade e 75 ponti. Tutto questo per difendere
cosa?

In questa situazione l’ex mediatore
Onu Athisaari consegnò al Consiglio di Sicurezza Onu un rapporto che arrivava
alla conclusione (su pressioni di Usa e Germania, con l’Italia di supporto) che
nel Kosovo esistevano standard minimi di democrazia e sicurezza, per concedere
l’indipendenza. I paesi che finora hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo
sono 106.

Enrico Vigna

Enrico Vigna




L’asino muoia, ma il carico arrivi

Ritornare in Tanzania con appena 62 anni di missione sulle spalle.

Ottantasette anni compiuti il 5 febbraio scorso, padre Giovanni Giorda, originario di Piossasco (To), missionario della Consolata, ci conduce in un duplice viaggio: nella storia della Chiesa tanzaniana e nella sua esperienza missionaria iniziata 62 anni fa.

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«Nel 2000 in diocesi vi fu un pellegrinaggio della croce. Nella parrocchia di Tosamaganga era programmato per 14 giorni. Un giovane, come risposta a un mio commento sulla fatica di accompagnare la Croce di Gesù per due settimane attraverso tutte le 17 succursali della parrocchia (avevo 73 anni), mi disse: “Punda afe, mzigo ufike”, “l’asino muoia, ma il carico giunga a destinazione”. Anche la gente aveva capito che quell’asino ero io, e il carico era la Croce di Gesù da portare a destinazione, cioè ai poveri, agli ammalati, agli orfani, ai catecumeni». La sua voce ci accompagna in luoghi e tempi lontani. Ci pare di essere di fronte non a una singola persona, ma a un’intera nazione, la Tanzania, e a un’intera Chiesa, quella locale iniziata nella seconda metà dell’Ottocento. Ci sembra di stare di fronte alle generazioni che si sono avvicendate - anche a quelle vissute prima del suo arrivo - nelle terre in cui padre Giovanni Giorda ha speso più di 60 anni di sacerdozio. Abbiamo la netta impressione che tutte le esperienze vissute in più di mezzo secolo stiano lì, vivide dietro le sue palpebre, scalpitanti dietro le sue labbra, ansiose di lasciarsi conoscere. Forse per questo padre Giovanni tende ad aggirare le nostre domande per seguire un suo filo. Il suo racconto è irrefrenabile, con un suo formulario ben definito, un suo percorso sicuro, affinato da una probabile consuetudine a proporlo e riproporlo con il medesimo intreccio narrativo. La storia in questo modo assume una dimensione quasi epica, che viene suffragata dal volto solcato da rughe profonde, dagli occhi consumati e brillanti allo stesso tempo, da una gestualità insolitamente contenuta per un italiano. Quello che padre Giovanni Giorda ci trasmette è l’esperienza di un Dio che accompagna il suo popolo, i poveri, gli ammalati, i giovani della Tanzania, nel susseguirsi dei decenni, delle storie personali e famigliari, comunitarie e nazionali.
Padre Giovanni, puoi dirci qualcosa di te?
«Sono stato ordinato sacerdote diocesano il 29 giugno 1950 nel duomo di Torino dal cardinal Fossati insieme ad altri ventidue compagni. Oggi siamo rimasti in cinque, gli altri sono in paradiso che pregano per noi. In seminario ho sempre preso parte ai circoli missionari. Dopo l’ordinazione, com’era consuetudine per i preti giovani, sono andato a stare nel Convitto della Consolata. È stato in quel periodo che mi sono deciso, e il 16 luglio 1951, con altri due preti, uno di Mondovì che è poi diventato vescovo in Colombia, mons. Cuniberti, e padre Franco Cravero, originario di Torino, siamo andati alla Certosa di Pesio (Cn) per fare il noviziato dai missionari della Consolata. Il 16 luglio 1952 abbiamo fatto i voti, e quel giorno padre Cravero e io abbiamo ricevuto la lettera con la destinazione: Tanganika (l’attuale Tanzania). Il 9 dicembre 1952 siamo partiti. In treno fino a Venezia, poi in motonave per 14 giorni fino a Dar es Salaam. Sbarcati la vigilia di Natale, abbiamo proseguito via terra per Tosamaganga, a 500 km. Qui abbiamo cominciato la missione».
Quindi Tosamaganga, che è la missione in cui tutt’ora lavori, è stata la tua prima destinazione?
«No. Appena arrivato lì, sono partito per la missione di Malangali, Itengule, a 150 km a Sud, per tre mesi. Poi un padre della missione di Ujewa si è ammalato, e sono andato lì a sostituirlo: era la Pasqua del 1953. Per visitare i villaggi inizialmente andavo a piedi, poi in bicicletta. La zona di Ujewa appartiene alla tribù dei Wasangu. Si trova a un’altitudine di mille metri, ma fa molto caldo, a differenza della zona di Tosamaganga, che è a 1500 metri. La zona del Tanganika del Sud dove ho trascorso tutta la mia vita missionaria si chiama Southe Mainland Province, la zona degli altipiani del Sud, in cui clima e agricoltura sono molto buoni. Ciò che viene coltivato lì serve anche per le altre regioni che sono più secche. Alla fine del 1953 il vescovo mi ha chiesto di andare a insegnare in seminario. Così sono tornato a Tosamaganga. Questa volta per rimanerci diversi anni insegnando filosofia e teologia. Parecchi miei studenti sono diventati sacerdoti e vescovi. Alcuni sono già in paradiso e pregano anche per me».
Puoi raccontarci qualcosa della chiesa locale?
«Per il Tanzania del Sud, Tosamaganga è stata la base dell’evangelizzazione. La chiesa cattolica in Tanganika è entrata nel 1868 con i padri missionari dello Spirito Santo che, arrivando dalle isole Réunion e passando da Zanzibar, sono sbarcati a Bagamoyo. A loro era stata affidata la parte Nord del paese - ricordo che nel 1968, quando ero a Kilolo, una missione nella regione di Iringa a circa 1800 metri di altitudine, al freddo, abbiamo festeggiato i 100 anni della chiesa cattolica Tanzaniana -. Dieci anni dopo, nel 1878, sono arrivati dall’Uganda i missionari d’Africa, i cosiddetti padri Bianchi. A loro era stato affidato tutto il Tanganika dell’Ovest. Rimaneva scoperto il Tanganika del Sud. Così nel 1888, dalla Germania, sono arrivati i missionari benedettini. La loro prima missione è finita male: arrivati a Dar es Salaam si sono messi a liberare gli schiavi, e gli arabi che facevano affari con il commercio degli schiavi sono saltati loro addosso uccidendone diversi. La seconda spedizione è avvenuta nel 1891. Questa volta è andata meglio, e nel 1896 sono arrivati a Tosamaganga i primi due missionari. Per quella regione del paese il governo colonizzatore tedesco aveva messo il proprio quartier generale a Iringa, che è attualmente la capitale della regione omonima di Iringa. Lì, ai tempi, c’era il sultano dei Wahehe. I due benedettini, arrivati nella zona proprio per evangelizzare i Wahehe si sono stabiliti su una collina, non troppo vicini e nemmeno troppo lontani dal quartier generale dei tedeschi, distante circa 12 km. Il 1° gennaio 1897 la stazione missionaria di Tosamaganga è stata inaugurata. In quello stesso anno ci sono stati i primi otto battesimi - nell’ufficio parrocchiale conserviamo ancora i registri di quei tempi -, e i benedettini hanno anche fondato un’altra missione per evangelizzare i Wasangu a Madibira, a 150 km a Sud. Nel 1898-99 sono arrivate le suore benedettine. Delle prime quattro, morte giovanissime, si conservano ancora le tombe nel cimitero di Tosamaganga. In seguito i benedettini hanno fondato diverse altre missioni anche a Nord e a Est».  
E i Missionari della Consolata quando sono arrivati?
«Poi è iniziata la prima guerra mondiale. Dal Kenya, colonia britannica, gli inglesi sono scesi in Tanganika per attaccare i tedeschi, e li hanno vinti. I missionari dello Spirito Santo e i padri Bianchi non sono stati toccati, perché non erano tedeschi, ma i benedettini nel 1918 sono stati radunati a Dar es Salaam ed espulsi. Il vescovo del vicariato apostolico di Dar es Salaam, che a quei tempi comprendeva anche il territorio di Iringa, sapeva che in Kenya c’erano dei missionari italiani, e ha scritto una lettera a mons. Filippo Perlo, missionario della Consolata, per chiedergli un “prestito” di personale. È stato così che i primi quattro missionari della Consolata sono partiti per il Tanganika, e sono arrivati a Tosamaganga il 26 maggio 1919. Mons. Perlo li aveva mandati senza interpellare il beato Allamano, e nemmeno il papa. Solo a cose fatte ha scritto una lettera in cui diceva: “In genere, quando uno ha bisogno di aiuto, si rivolge ai ricchi, non ai poveri. Si sono rivolti a noi poveri, per un aiuto. E noi abbiamo risposto di sì, cercando di fare un’opera di carità”». Si commuove padre Giorda ricordando la lettera di mons. Filippo Perlo. La voce gli trema. Quelle parole lo toccano. Le sente sue. «Noi missionari della Consolata siamo arrivati in Tanzania in prestito. E ci siamo ancora. Ora siamo una sessantina senza contare le suore, e siamo presenti in diverse diocesi. Sparsi per il mondo ci sono anche una quarantina di missionari della Consolata nativi del Tanzania. La prefettura apostolica di Iringa è stata eretta nel 1922, separandone il territorio dalla prefettura di Dar es Salaam, e in quell’anno è partita la prima spedizione di missionari della Consolata direttamente dall’Italia, non più dal Kenya: preti, fratelli e suore, arrivati a fine gennaio 1923. Il superiore di quella spedizione era mons. Francesco Cagliero, di Castelnuovo don Bosco, che ha retto quella prefettura dal ’23 al ’35, fondando diverse stazioni missionarie. Morto per incidente stradale, gli è subentrato nel ’36 mons. Attilio Beltramino, che ho assistito all’ultima sua messa il 3 ottobre 1965, quando è morto per infarto. Beltramino in 30 anni ha avviato quasi 30 stazioni di missione. Nel frattempo la diocesi di Iringa è stata divisa in due, con la nascita della diocesi di Njombe. Zone in cui la popolazione era pagana e dove il cristianesimo è stato accolto. Dai missionari della Consolata sono nati anche altri istituti religiosi: mons. Cagliero nel 1931 ha fondato l’istituto delle suore africane di Santa Teresa del Bambino Gesù. Oggi sono circa 400 consacrate. Alcune sono missionarie in Sicilia, altre in Haiti. Mons. Beltramino durante la seconda guerra mondiale ha dato inizio, assieme a padre Ghiotti, alla congregazione dei fratelli africani Servi del Cuore Immacolato di Maria. Oggi una congregazione fiorente presente in diverse zone del Tanzania».
Tornando a te. Dopo Itengule e Ujewa nel 1953, sei andato a insegnare al seminario di Tosamaganga. Quanto sei rimasto lì, e cosa hai fatto dopo?
«Dopo la morte di mons. Beltramino nel 1965, ho lasciato Tosamaganga per andare in una missione appena aperta, Kilolo, dove sono stato fino alla fine del 1969, incaricato della parrocchia e dei fratelli africani. Dal ‘70 sono stato parroco a Tosamaganga. Dopo 10 anni sono ritornato nella zona di Ujewa in cui ero stato all’inizio, nella parrocchia di Chosi, 265 Km a Sud di Iringa, dall’80 all’89. Lì ho patito il caldo come mai in vita mia. Nell’89 sono tornato a Tosamaganga, dove sono stato parroco fino al 2007, quando ho compiuto 80 anni! Da allora sono coadiutore del nuovo parroco, p. Giacomo Rabino».  
Ci puoi parlare dell’aspetto spirituale della tua esperienza missionaria?
«Ormai sono più di 60 anni che vivo in Tanzania. Sono più tanzaniano che italiano. In questi anni ci sono stati alcuni punti forti nella mia vita spirituale. Ne vorrei elencare quattro. Il primo è il motto del beato Giovanni XXIII: “Obbedienza e pace”. Con l’obbedienza si acquista la pace del cuore. Un secondo punto l’ho scoperto nel 1987. Ero venuto in Italia per la mia mamma ammalata. Ritornando in Tanzania ho fatto tappa un paio di giorni ad Addis Abeba. La provvidenza ha voluto che in quei giorni Madre Teresa di Calcutta fosse lì. Ricordo ancora l’incontro che ho avuto con lei. Abbiamo parlato un quarto d’ora. Poi lei mi ha dato un’immagine che raffigurava Gesù flagellato, con le parole del Salmo 69: “L’insulto ha spezzato il mio cuore e mi sento venir meno. Mi aspettavo compassione, ma invano, consolatori, ma non ne ho trovati”. E di suo pugno ha scritto: “Be the one”, “Sii tu quello” (che consola Gesù). Terzo punto, nel 1996. Sulla rivista Jesus ho letto il teologo Hans Urs von Balthasar che spiegava la messa: “Abbiamo ridotto il ‘fate questo in memoria di me’ all’invito a ripetere un rito, ma l’eucaristia presenta Gesù che dà la vita, e quindi quando dice ‘fate questo in memoria di me’, dice ‘fatelo anche voi’, ‘date la vita per i vostri fratelli come io l’ho data’”. Con il quarto punto arriviamo al 2000: ero parroco a Tosamaganga, che allora contava 17 succursali distanti anche 15-20 km. La diocesi di Iringa aveva programmato il pellegrinaggio della croce, che a Tosamaganga è durato 14 giorni. Io ho detto ai giovani che per me sarebbe stata una grande fatica girare per due settimane in tutte le succursali, e un ragazzo mi ha risposto: “Padre, non avere paura”. E poi ha aggiunto: “Punda afe, mzigo ufike”, cioè “l’asino muoia, il carico giunga a destinazione”. L’asino ero io. E il carico era la croce di Gesù. Un proverbio africano che non avevo mai sentito. Anche Gesù dice: “Se il chicco di grano muore porta frutto”. Però io non sono ancora morto, nonostante in questi 60 anni ne abbia corso diverse volte il pericolo. Nel 1982, ad esempio, mi hanno portato all’ospedale di Tosamaganga per la malaria. Una suora mi ha assistito per tutta la notte perché era convinta che io “partissi”. Un’altra volta, nel 1958, sono caduto in un burrone con un camion, ma non mi sono fatto niente… Quello che è importante per me, e per tutti i missionari, è far sì che il carico, cioè Gesù, la sua grazia, il suo perdono, la sua misericordia, la sua bontà giungano alla gente. Facendo quello che faceva Gesù stesso: predicare il Vangelo, curare gli ammalati, insegnare».
Qual è lo stato attuale della Tanzania?
«Abbiamo moltissimi orfani. Alcuni di questi sono sieropositivi. Noi cerchiamo di aiutarli con il cibo, con le spese per la scuola. A Tosamaganga seguiamo almeno una ventina di scuole attraverso i nostri catechisti diffusi sul territorio che ci segnalano le situazioni di difficoltà. Riguardo al cibo, aiutiamo attraverso le nostre piantagioni: abbiamo mais, fagioli, girasoli. Dobbiamo dire grazie ai benefattori italiani che, nonostante la crisi, continuano a dare le loro offerte. Pochi giorni fa un giovane tanzaniano che ora è a Dodoma per studiare all’università mi ha scritto una mail. È un ragazzo orfano che riceve un contributo dal governo, ma che deve pagare una parte delle spese. Mi ha chiesto aiuto, e io gliel’ho promesso».
Che differenze ci sono tra la Tanzania del ‘52 e quella di oggi?
«I ragazzi di allora erano addormentati. Oggi sono vivaci quasi come i nostri italiani. Dal punto di vista politico, oggi c’è un sistema con più partiti, nonostante ci sia al potere sempre il vecchio partito, quello di Julius Nyerere che ha portato all’indipendenza nel 1961 e che, dopo l’unione del Tanganika con Zanzibar nel 1964, ha preso il nome di Ccm (Partito della rivoluzione). Questo è ancora al governo nonostante sia pieno di corruzione. Vedremo cosa succederà quando nel 2015 ci saranno le elezioni. La gente del Tanzania è gente calma, che sopporta e sta in silenzio. Negli ultimi anni però non sopporta più. C’è una nuova generazione che ha studiato. Le università sono piene di giovani che capiscono la situazione e iniziano a dimostrare».
Ci sono problemi di radicalismi religiosi.
«Non molti, ma dobbiamo stare all’erta perché, specialmente a Zanzibar, dove la popolazione è quasi tutta musulmana, c’è un gruppo di estremisti denominato Uamsho (Risveglio) che due anni fa ha ucciso un prete cattolico. Ogni tanto si sente di questi gruppi che bruciano le chiese. Un anno fa nella zona di Arusha c’è stato un attentato contro il vescovo e il nunzio apostolico che dovevano inaugurare una chiesa: è passato un uomo in moto e ha gettato una bomba. Ci sono stati tre morti. Dall’ultimo censimento sembra che in Tanzania vivano tra i 42 e i 45 milioni di persone. Tutte le denominazioni cristiane: cattolica, luterana, anglicana, ecc. contano più del 50% della popolazione. I cattolici sono poco meno del 30%. In seguito ai fatti di violenza religiosa che da almeno un anno destabilizzano il Tanzania, tutte le chiese cristiane si sono incontrate per riflettere su cosa fare».
Quindi il dialogo con le altre chiese cristiane è positivo. Ma con i musulmani come va?
«I musulmani sono al massimo il 30%. Sono concentrati soprattutto sulla costa, verso la quale da molti anni c’è una continua migrazione di cristiani dall’interno del paese: Dar es Salaam oramai ha almeno 50-60 parrocchie. Le relazioni tra i fedeli delle due religioni sono buone. Il problema sono gli estremisti che vogliono coinvolgere sempre più persone. Nel territorio di Tosamaganga c’è qualche gruppo di musulmani, ma sono tranquilli. A Iringa ci sono diversi musulmani, e alcuni di questi vanno all’università cattolica».
Come viene percepito il nuovo pontefice nella chiesa tanzaniana?
«Noi missionari siamo molto contenti. Lo Spirito santo ha lavorato per l’elezione di papa Francesco. Qualcuno è preoccupato perché va troppo in mezzo alla gente, e così facendo si prende dei rischi. Ma sopra eventuali malfattori con cattive intenzioni c’è il Signore, c’è lo Spirito Santo che li tiene a bada, e che aiuteranno il papa a portare avanti tutte le riforme che presenta. Noi siamo contenti perché Francesco mostra uno stile di chiesa che noi missionari un pochino avevamo già: andare in mezzo ai poveri, agli ammalati, aiutarli». Parlando del papa e dei poveri padre Giorda si commuove di nuovo. È bello ascoltare la sua voce rotta dall’emozione di un’intera vita dedicata alla missione.

Luca Lorusso

CRONOLOGIA:
  • 9 dicembre 1952: partenza da Venezia
  • 24 dicembre 1952: arrivo a Dar es Salaam e partenza per Tosamaganga
  • Fine 1952-Pasqua 1953: missione di Malangali, Itengule
  • Pasqua 1953-fine 1953: Ujewa
  • 1954-1965: Tosamaganga seminario
  • 1965-1969: a Kilolo parroco
  • 1970-1980: parroco a Tosamaganga
  • 1981-1988: a Chosi
  • 1989-2007: parroco a Tosamaganga
  • 2007-oggi: coadiutore a Tosamaganga.




Nel mondo dei rasta: Le lunghe trecce

Religioni nella Bahia/1.

«Voglio muovere il cuore di ogni uomo nero perché tutti gli
uomini neri sparsi nel mondo si rendano conto che il tempo è arrivato, ora,
adesso, oggi, per liberare l’Africa e gli africani. Uomini neri di tutto il
mondo, unitevi come in un corpo solo e ribellatevi: l’Africa è nostra, è la
nostra terra, la nostra patria (…). Ribellatevi al mondo corrotto di Babilonia,
emancipate la vostra razza, riconquistate la vostra terra». (Bob Marley)

La parola «Rastafari» ci fa venire in mente subito tre immagini: la
musica reggae di Bob Marley, le lunghe trecce, i dreadlock, e le manifestazioni degli anni ’70
per i diritti degli afrodiscendenti nel continente americano.

In
Bahia è molto comune incontrare rasta che
suonano o vendono artigianato nel Pelorinho, il quartiere tipico di Salvador, o
lungo l’Orla marittima. Ci sono diverse comunità anche nei piccoli paesi del
litorale bahiano: si tratta di giovani e adulti che vivono in modo frugale, nel
rispetto dell’ambiente, in case costruite con criteri eco compatibili, come
Gabriel e la sua compagna italiana, a Diogo de Mata de Sâo Joâo; o Carlos,
proprietario di un risto-bar attento ai segnali della natura, ostile al
consumismo e agli sprechi; o Marquinho, che vive nel mezzo del mato,
nella foresta, in una casina di adobe (mattoni
di fango e paglia, ndr), circondato da animali,
piante e sorgenti, dedicandosi a creare magnifiche collane, anelli e bracciali
di metallo incastonato di pietre; o Sidney Rocha, teologo e artista, che passa
molto tempo fuori dal caos di Salvador, a pescare, meditare e a scrivere
poesie.

Per
ognuno di loro, natura, impegno sociale, politico e ambientale sono elementi
che non si disgiungono dalla fede religiosa in Jah
(Jahwé) e in una profonda consapevolezza del proprio posto nel mondo. La loro
lotta contro «Babilonia», il «male», il «sistema oppressore», le «istituzioni»
corrotte in cui non si riconoscono, è realizzata nella quotidianità della realtà
in cui vivono.

Ovviamente,
a fianco dei rasta impegnati e coscienti, ci sono altri che, pur apparentemente
simili – dreadlocks, abbigliamento
colorato, musica – si dedicano ad attività meno educative, ciondolando per le
strade o nelle spiagge, pieni di alcornol e macogna (marijuana,
ndr). «Non sono veri rasta», spiega con una punta di
fierezza e severità Sidney Rocha, «sono emarginati, poveracci che stanno
distruggendo la propria vita, vittime di un sistema sociale e politico che crea
miseria e alienazione».

«In
Brasile, il rastafarismo, ovvero “Legione Rasta”, iniziò a diffondersi tra la
fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 – racconta il teologo -. Siamo
stati molto perseguitati, perché la Chiesa non ha mai accettato la nostra
storia. Dentro il movimento ci sono tante correnti, gruppi: Twelve
Tribes of Israel, i Nyabinghi, i Bobo
Ashanti e gli Ortodossi, sono alcune. La nostra è una religione, ma non nel
senso occidentale del termine. Per noi la religione è vita. Ci si riunisce per
la cerimonia della preghiera comunitaria, con suoni di tamburi e canti, il
Nyabinghi (Ni-uh-bin-gee), per leggere la Bibbia e fumare marijuana, il cui
uso, tuttavia, non è obbligatorio. Quest’ultima è usata come rituale».

Hailé Selassié, il
Leone di Giuda

Anche
nel resto del mondo il rastafarismo è diventato particolarmente famoso negli
anni ’70 -’80, attraverso la musica e la vita di Bob Marley, il grande autore
giamaicano. Ha tuttavia una storia di religione organizzata che risale agli
anni Trenta, con l’ascesa al trono dell’imperatore di Etiopia Hailé Salassié
(al secolo Tafari Makonnen Woldemikael) nel 1930, e una mitologia molto più
antica, che arriva all’epoca del Re Salomone.

Filiazione
sincretica di giudaismo e cristianesimo, e con alcuni aspetti presi, ma anche
foiti, all’islam, questo movimento politico e religioso affonda le radici, la
propria dottrina e fede nelle religioni semitiche monoteistiche e patriarcali
del Vicino e Medio Oriente.

Spiega
ancora Rocha: «Il termine rastafari deriva dal nome proprio dell’imperatore
etiope, Tafari, preceduto da Ras (capo), che, asceso al trono, prese quello di
Hailé Selassié, cioè “Potenza della Trinità”: egli era considerato erede della
dinastia salomonide, originante dall’unione del re Salomone con Makeda, la
regina di Saba, da cui nacque il capostipite Ebna la-Hakim (poi Menelik I), re
d’Etiopia. Tafari salì al potere con il titolo di Re dei Re (Negus Neghesti),
Eletto di Dio, Luce del Mondo, Leone Conquistatore della tribù di Giuda».

Egli è
considerato la seconda incarnazione di Gesù, ma in gloria e potenza, non più
come l’Agnello di Giuda ma come il Leone, secondo una tradizione profetica,
in quanto discendente di Hakim-Malik, e dunque membro della tribù di Giuda.

Dottrina e fondamenti

Una
parte della dottrina del rastafarismo si basa sulla vita e sugli insegnamenti
di Hailé Selassié I, – in quanto la sua figura rappresenta il Cristo
(l’Illuminato) ritornato in Gloria, l’incarnazione di Jah, Dio, sceso sulla
Terra per portare la liberazione alle popolazioni nere -, su quelli teologici e
morali di Gesù, e della tradizione etiopica ortodossa.

Nel
loro credo sono contemplate la divinità di Gesù Cristo, la Trinità, la
resurrezione della carne, l’immortalità dell’anima, tutti i dogmi stabiliti
dalla Chiesa ortodossa etiope, e il millenarismo, la parusia (presenza divina, ndr) di
Cristo e il suo Regno terreno prima della fine dei tempi, e il giudizio
universale, secondo l’Apocalisse di Giovanni. Hailé Selassié I si manifesta nel
mondo per realizzare questa profezia.

I
rastafariani credono che si possa giungere alla salvezza mediante la fede nel
divino e il rispetto della morale naturale, qualunque sia la propria religione
o teologia, per questa ragione rispettano gli altri culti, considerati da
Selassié «vie del Dio vivente», che non è possibile giudicare. Essi, pertanto,
avversano il settarismo religioso.

Inoltre,
credono che l’imperatore Tafari non sia morto, ma si sia volontariamente
occultato – qui mostrando analogie con Mahdismo sciita – agli occhi degli
uomini, in quanto rappresenta il Cristo ritornato glorioso in terra, morto una
sola volta e risorto per sempre. Dunque, la sua seconda discesa nel mondo
rappresenta non più il sacrificio per la redenzione degli uomini, ma il tempo
del Regno glorioso.

Nazionalismo e
africanismo

La
questione dell’Africa, in quanto continente impoverito e sfruttato da secoli di
colonialismo occidentale, per i rastafari è di grande e prioritaria importanza.
«Il rastafari non è solo una religione – aggiunge Rocha -, ma anche un
movimento politico nazionalista, che si ispira ai discorsi di Marcus Mosiah
Garvey». E a quelli dell’etiopismo.

L’etiopismo
è un movimento nazionalista che vede la luce ai primi dell’800, nel tentativo
di organizzare e liberare, sotto l’emblema della monarchia dell’Etiopia, i
popoli neri dell’Africa colonizzata. La liberazione doveva passare attraverso
un percorso di cambiamento spirituale, culturale, economico e politico. Guidati
da Garvey, considerato dai rastafari come una sorta di «precursore» – come
Giovanni Battista – del ritorno del Cristo maestoso nella persona di Hailé
Selassié, i membri del movimento fecero dell’Etiopia il centro del loro
messianismo, in quanto il ritorno del popolo nero alla patria africana
(schiavizzati e loro discendenti) sparsi nella Diaspora è parte integrante
della visione millenarista dell’etiopismo, su cui il rastafari basò il proprio
sviluppo politico.

Tale
movimento, a partire dal 1800, cominciò a diffondersi sia tra le popolazioni
africane sia tra le comunità nere in America, sostenendo la lotta per la dignità
nazionale e culturale avendo come punto di riferimento l’Etiopia.

Fu
dopo l’incoronazione di Selassié che gli etiopisti riconobbero in lui il Messia
che ritornava potente, vittorioso e liberatore.

Il
movimento fece proselitismo in Africa, nel continente americano, nelle Indie
occidentali (le Antille, ndr), in Inghilterra,
espandendosi poi anche in altre parti del mondo, sia attraverso il Kebra
Nagast, il loro libro sacro, sia attraverso la musica, il reggae, che ne
diffonde il messaggio religioso e politico.

Etica
internazionale basata sull’autodeterminazione dei popoli, sull’uguaglianza dei
diritti e sulla non ingerenza, e sul riconoscimento di un ordine sovranazionale
che rigetti guerre e conflitti: questi sono alcuni dei principi politici
inteazionali del rastafarismo, per il quale, insiste il teologo Sidney: «È
anche necessario costruire sistemi “liberali e democratici” che rifiutino ogni
ideologia totalitaria, di destra o sinistra che siano, che deviano il cammino
diretto verso Dio, Jah, dell’essere umano».

Il
loro ideale di stato prevede che esso, seppur laico, debba garantire la libertà
religiosa.

Essi si rifanno al movimento del panafricanismo e
all’esempio di Hailé Selassié I, considerato «Padre dell’Africa Unita» e
fondatore dell’Organizzazione dell’Unità Africana. In tutte le loro canzoni, e
in altre espressioni culturali, i rasta parlano del loro sogno di un continente
unito e libero dal dominio straniero, e del riscatto identitario. Per superare
la propria storia di schiavitù e oppressione, gli africani e i loro fratelli
sparsi nel mondo, devono ricordare e esaltare le proprie origini e dedicarsi a
tale causa. In questa prospettiva Selassié mise a disposizione un vasto
territorio in Etiopia per permettere, a chi volesse, di «ritornare» nella
patria africana.

Il Kebra Nagast, la gloria dei Re

È la «Bibbia
africana». Nel libro Kebra Nagast (la
Gloria dei Re), antico testo etiope, si racconta del trasferimento dell’Arca
dell’Alleanza, per mano di Ebna la-Hakim, da Gerusalemme al Regno di Saba. Tale
trasferimento è interpretato dai rastafari come un passaggio della discendenza
salomonica di Israele all’Etiopia, la cui antica dinastia, che giunge fino a
Hailé Selassié, è così considerata di tradizione «divina». Secondo la
tradizione raccolta nel Kebra Nagast, i rastafari credono che

l’Etiopia
sia la «Nuova Gerusalemme», la nazione destinata a custodire la cristianità
fino al secondo ritorno di Gesù Cristo, avvenuto nella persona dell’imperatore
Selassié.

Spiega
Rocha: «Il libro racconta, tra le altre vicende, l’incontro tra il Re Salomone
e la Regina di Saba (riportato da 1 Re, 10 e 2 Cronache, 9), la quale, colpita
dai racconti sulla grande saggezza del sovrano, va a Gerusalemme. Dalla loro
unione (cui però la Bibbia non fa alcun cenno) nascerà Ebna la-Hakim, poi
Menelik I, capostipite della dinastia regale etiopica. L’Etiopia avrà il
compito di custodire la purezza del cristianesimo, dopo il rifiuto del popolo
d’Israele, e la missione della discendenza davidica sino al ritorno glorioso di
Cristo. Secondo tale tradizione, l’Arca dell’Alleanza, portata da Menelik nel
paese, è la conferma del ruolo e dell’elezione dell’Etiopia».

Il Kebra
Nagast si rifà ai testi biblici ma, nelle redazioni successive, anche a
leggende etiopi, egiziane e copte, e a elementi coranici (la sura
dell’Ape, per esempio) e testi cristiani apocrifi. E, nello stesso tempo,
influenzò, insieme alle tradizioni giudaiche e cristiane, quella islamica.

I dreadlocks e il mito di Sansone

I
rasta sono noti per i dreadlocks, trecce posticce
attaccate ai capelli. «Si tratta di un’usanza diffusa – racconta Sidney Rocha
-, che rappresenta un voto biblico, il nazireato, di cui parla Numeri, 6, 5: “Tutto
il tempo del voto della sua consacrazione, il rasoio non passerà sul suo capo:
finché non sono compiuti i giorni per i quali si è consacrato all’Eteo, sarà
santo; lascerà che i capelli del suo capo crescano lunghi”».

Secondo
il Kebra Nagast, un
angelo apparve alla madre di Sansone, imponendole di non tagliare i capelli al
figlio, e di lasciarlo crescere puro. La storia tragica e coraggiosa di Sansone
la ricordiamo bene, ma la sua immagine di uomo forte, reso cieco e prigioniero,
senza capelli, per i rastafari rappresenta ciò che può capitare a chi esce dal
cammino divino e scende a compromessi con Babilonia, simbolo di male e
corruzione, denaro, avidità, tentazioni e passioni per donne malvagie (come la
filistea Dalila che sedusse Sansone). Dunque, i capelli lunghi sono un simbolo
di morale e di integrità, di cammino nel sentirnero stabilito da Dio.

Tuttavia,
è anche un’usanza che arriva dall’Africa orientale, dove guerrieri e membri di
varie tribù usano portare i dreadlocks.

Le
trecce rasta hanno iniziato a fare la loro comparsa durante le manifestazioni
per la rivendicazione identitaria in Giamaica. Per un rasta essere negro, con dreadlocks e barba,
significa assomigliare di più all’immagine storica di Gesù, Yeshua.

Negli
anni ’70 furono perseguitati in tutto il continente americano: furono
aggrediti, imprigionati, costretti al taglio delle trecce perché
rappresentavano una minaccia per il «sistema».

La donna e il
rastafarismo

Il
rastafari segue la millenaria tradizione delle religioni semitiche patriarcali
(giudaismo e islam), per le quali la femmina riveste un ruolo subordinato al
maschio, è impura e veicolo di tentazioni e peccato. Per i rastafari quindi il
compito principale della donna, appellata come «regina», è di occuparsi del «re»,
cioè del marito; essa è subordinata all’uomo e deve essergli fedele; deve
occuparsi della casa e della prole; non può essere un leader. L’uomo è il capo
spirituale della famiglia.

La
donna, inoltre, non deve indossare abiti o trucchi che la rendano un’attrattiva
sessuale per altri uomini o usare sostanze chimiche nei capelli.

Scrive
l’antropologo Livio Sansone in «Tendencias en blanco y negro: punk y
rastafarianismo», Revista de Estudios de Juventud, n. 30, 1988, Madrid,
pp.73-86: «La sessualità femminile è vista come dipendente: […]. La donna rasta
deve essere coperta dalla testa ai piedi, non deve mai sciogliersi i capelli di
fronte a nessun altro che non sia il suo “re”, poiché ella deve continuare a
essere ciò che il rastafarismo chiama “La Madre Terra Africana”».

Anche per pregare deve coprirsi i capelli, secondo quanto
stabilito nella 1 Corinzi, 11, 5: «E le donne che pregano o proclamano il
messaggio di Dio durante cerimonie pubbliche senza indossare nulla sul capo,
disonorano il proprio capo». E anche Efesini, 5, 22: «Le mogli siano sottomesse
ai loro mariti come al Signore».

Diversamente
dalla società matriarcale giamaicana, dove il rastafarianesimo si è sviluppato,
esso afferma la superiorità gerarchica dell’uomo sulla donna, «primo tra pari»,
perché la donna, come Eva, è causa dell’introduzione del male nel mondo, e
veicolatrice, con la sua sensualità, di tentazioni e peccato. Ella può
purificarsi solo nella relazione con il marito e nella sua fedeltà a esso, e
nella famiglia.

Quanto
a quest’ultima, spiega Sansone nel suo articolo: «Per il rastafari, la famiglia
si rivendica e si riscopre nella forma che essi considerano essere la loro
famiglia africana (basata sulla poligamia, ma praticata in Occidente)».

In
sintesi, nel rapporto uomo-donna, da parte del maschio vi è una ricerca
esplicita della sensualità, mentre quella femminile è repressa e dipendente
dalla relazione di esclusività con il marito.

L’erba del Giardino
dell’Eden

Nei
loro culti, i rastafari fanno uso di ganja-marijuana, in quanto mezzo
spirituale e rituale per ottenere doti di saggezza e chiaroveggenza, e come
erba medicinale. La marijuana è associata all’Albero della Vita e della
Saggezza del Giardino dell’Eden, che stava a fianco dell’Albero della
conoscenza del bene e del male.

«La ganja
– spiega Sansone – rappresenta per i rasta uno strumento per perfezionare la
percezione sensoriale, un dono del loro Dio Negro, qualcosa che i bianchi proibiscono,
precisamente, per impedire la conquista della coscienza da parte della
popolazione Negra».

Il reggae

Dagli
anni ’60, la Giamaica è una fucina di musica che si diffonde in tutto il mondo:
oltre alla sua coinvolgente melodia, il reggae veicola un messaggio religioso,
spirituale e politico.

Un
grande testimone di questa musica è stato Bob Marley, il cui talento e carisma
hanno portato il reggae a essere conosciuto e apprezzato a livello
internazionale, e così pure il rastafarismo.

Roots
reggae è il nome del genere di reggae rastafari: si tratta di un tipo di
musica spirituale, i cui testi elogiano Jah, e invitano alla resistenza contro
l’oppressione. «Nei testi di musica reggae s’incontra il termine “apocalisse” –
afferma Sansone -, ma più spesso la predizione dell’Armageddon: la battaglia
finale del giorno del Giudizio, nella quale senza dubbio, i rastafari usciranno
vincitori e potranno dirigersi con la testa alta verso un futuro radioso,
promossi come Nuovi Israeliti, nuovo Popolo Eletto».

L’abbigliamento. Scrive ancora Sansone: «[…] i vestiti del rasta sono colorati e vivaci; il
rasta vuole sembrare attraente nella sua naturale bellezza africana e
l’attenzione è rivolta a sottolineare armonia […]. Anche i passi di danza sono espressione della ricerca di armonia,
bellezza e plasticità (blu danza). […]
L’armonia della danza è omologa alla melodia della musica reggae, al suo carattere fluido, al suo
timbro basso e al suo insieme conciliante […]».

Un’altra
caratteristica rastafari è il tam,
copricapo con i colori della bandiera etiope.

Angela Lano
 
Il panafricanismo venuto dai Caraibi


Il profeta Marcus

I rasta considerano Marcus Mosiah Garvey un profeta, la cui
ideologia e filosofia ha fortemente influenzato il movimento. Garvey promosse
il «Nazionalismo nero» e il «Panafricanismo». Egli lavorò per la causa dei
popoli neri negli anni ’20 e ’30 e le sue idee influenzarono molto le classi
popolari in Giamaica e il rastafarismo stesso.

Il panafricanismo è un movimento che incoraggia la solidarietà
e l’unità tra i discendenti africani nella diaspora. La sua ideologia si basa
sul concetto che tutti i popoli africani siano interconnessi: «I popoli
africani, sia nel continente sia nella diaspora, non condividono solo una
storia comune ma anche un destino comune» (Minkah Makalani).

L’organizzazione politica panafricana più grande e
conosciuta è l’Unione Africana.

Angela Lano

«The Marcus Garvey and Universal Negro Improvement
Association Papers», vol. IX: Africa for the Africans, June 1921-December 1922.

 

Angela Lano




Migrazioni: mai in crisi

Caritas: presentato
il rapporto immigrazione 2013

La Caritas e
Migrantes presentano il nuovo rapporto sull’immigrazione. Il fenomeno a livello
globale è in aumento. Mentre la crisi economica tocca oggi anche gli stranieri.
Spingendo molti, per questo motivo, a incrementare la migrazione di ritorno. E
le famiglie riprendono a dividersi. Intanto sul fronte dell’integrazione la
strada da fare è ancora molta.

Il 5 febbraio a Torino, Caritas e Migrantes hanno
presentato il XXIII Rapporto immigrazione 2013. Il
tema prescelto quest’anno è: «Tra crisi e diritti umani. Connessione tra crisi
e irrinunciabile rispetto dei diritti umani». Il volume è ricco di dati, molto
utili per chiunque s’interessi di migrazione.

Dopo
aver presentato una sezione che riassume i principali avvenimenti riguardanti
l’immigrazione nel mondo, nel 2013, l’opera analizza il fenomeno migratorio, a
livello mondiale ed europeo, alla luce della crisi economica che ha colpito il
pianeta da ormai sei anni. Un contesto che nel 2012 ha visto oltre 232 milioni
di persone lasciare il proprio paese per andare a vivere in un’altra nazione.

Oltre
ai contributi su temi specifici, vengono presentati anche tematici su questioni
che riguardano i migranti (per esempio: l’acquisto della casa, l’istruzione) e
vari riquadri che illustrano alcune tra le diverse iniziative messe in campo
dalle diocesi in Italia per venire incontro ai bisogni dei migranti.


Non solo Italia

Nell’analisi
delle migrazioni inteazionali, un’attenzione particolare viene prestata alla
situazione nei paesi del Golfo Persico che negli ultimi decenni hanno visto
arrivare moltissimi lavoratori esteri, tanto che i migranti rappresentano in
media oltre un terzo della popolazione locale. Nel piccolo stato del Qatar i
cittadini stranieri sono addirittura oltre i tre quarti della popolazione
residente.

Per
quanto riguarda l’Italia, apprendiamo dal rapporto che proprio grazie agli
immigrati la popolazione italiana è in crescita: all’inizio del 2013, in Italia
risiedevano quasi 60 milioni di persone, di cui 4,4 milioni di cittadini
stranieri (il 7,4%). Grazie alle nascite, i cittadini stranieri sono
incrementati di oltre 334 mila unità.

L’Italia
è un paese in cui le famiglie di cittadini migranti hanno in media più figli di
quelle italiane, ma è anche un territorio di ingresso per nuovi migranti,
soprattutto quelli che si ricongiungono con familiari già presenti. Per molti
cittadini di altri paesi l’Italia è soprattutto luogo di transito per giungere
in altri stati europei in grado di offrire opportunità migliori di lavoro e di
inserimento sociale.

La crisi e i migranti

La
sezione «Leggere l’immigrazione» tratta in profondità la crisi economica in
Italia e la sua ricaduta sul mondo delle famiglie di migranti. Più «allenate»
degli italiani ad affrontare difficoltà e sacrifici, molte famiglie migranti
soffrono tuttavia lo stress della perdita del lavoro, che è solo la prima tappa
per il decadimento progressivo del tenore di vita. Spesso al licenziamento
segue il taglio delle foiture di luce e gas, lo sfratto, la miseria. Di
fronte a questa prospettiva, alcune famiglie decidono di ritentare la fortuna
emigrando nuovamente, possibilmente nei paesi del Centro Nord Europa. In altre famiglie,
i genitori decidono, con molta sofferenza, di separarsi dai propri figli (e
talvolta dai congiunti), anche in tenera età, per rimandarli (o mandare quelli
nati in Italia) nel paese d’origine, perché non sono più in grado di
mantenerli.

Un
altro tema cruciale che il rapporto affronta è quello dei migranti e della
casa. Non sono pochi i cittadini stranieri che si adattano a vivere in alloggi
precari e ristretti, a volte addirittura garage grossolanamente ristrutturati,
con i servizi igienici estei, con riscaldamento assente o insufficiente. Sono
i bambini a soffrire per queste situazioni, soprattutto per l’umidità e il
freddo che ristagnano in questo tipo di abitazioni.

Integrazione?

Importante è anche il discorso relativo all’integrazione
dei cittadini residenti in Italia, nella società che li ospita. Qui entrano in
gioco la scuola e leggiamo nel rapporto, che gli studenti stranieri sono in
genere orientati a una formazione che conduca all’ottenimento di un lavoro in
tempi brevi, per poter aiutare la famiglia. Sono quindi preferite le scuole
tecniche di formazione professionale. Sempre per quanto riguarda
l’integrazione, il rapporto tratta la questione della cittadinanza italiana per
gli stranieri, il cui iter è alquanto lungo e sofferto. Non manca un
approfondimento sui matrimoni cosiddetti misti e interconfessionali e su altri
aspetti che l’arrivo di religioni differenti da quella cattolica e cristiana
comporta per la società italiana.

Il
rapporto affronta anche la questione dei Cie (centri di identificazione ed
espulsione). Dubbi sono espressi sulla loro legalità, come anche sulla loro
ragione di essere. Paiono strumenti, peraltro costosi, elaborati per
tranquillizzare una opinione pubblica timorosa degli arrivi di nuovi migranti.

L’argomento
successivo riguarda la tratta e lo sfruttamento di esseri umani per
l’arricchimento di loro simili: un fenomeno variegato e in continua evoluzione,
che include la prostituzione, lo sfruttamento dell’accattonaggio, ma anche di
lavoratori impiegati in nero in agricoltura, pastorizia, edilizia, domestico.

Cosa succede sul
territorio

La
terza sezione, «La voce del territorio: la rete diocesana al servizio dei
migranti» illustra, per ognuna delle regioni italiane, la storia e la
situazione attuale del fenomeno migratorio. All’inizio di ogni capitolo
riguardante una regione vengono riportati grafici sui principali paesi
d’origine dei migranti e sugli alunni stranieri che frequentano le scuole fino
alle secondarie di secondo grado. Si spazia dalle grosse difficoltà che
l’accoglienza agli immigrati incontra in alcune regioni italiane, legate a
intoppi burocratici o a inefficienze, allo spirito di solidarietà espresso da
organizzazioni di volontariato, che riesce spesso ad attenuare problemi che
risulterebbero altrimenti esplosivi.

Il
rapporto si chiude con una appendice giuridica, che ci aggioa su temi quali
la cittadinanza, l’emersione dal lavoro irregolare, l’assistenza sanitaria,
ecc. È anche incluso un glossario con i principali termini in italiano e in
inglese, di uso comune nei testi che trattano di migrazione. In conclusione, il
Rapporto immigrazione
2013 è uno strumento estremamente utile per operatori, volontari,
studiosi, o semplici cittadini interessati che vogliano essere aggioati su un
tema in veloce evoluzione, come è quello della migrazione.

Paolo Deriu


Paolo Deriu




Silenzio su Ilham Tohti 

La lotta della
minoranza uigura.

Uiguro di famiglia musulmana,
professore universitario e blogger molto critico verso Pechino, Ilham Tohti è
imprigionato con l’accusa di «separatismo». Il suo caso dimostra (una volta di
più) che la Cina non si è ancora dotata di un sistema efficace per gestire il
dissenso. L’Occidente tuttavia non può dirsi esente da colpe, non avendo a sua
volta capito come trattare con il gigante asiatico.

Il 15 gennaio scorso una ventina di poliziotti fa
irruzione nel piccolo appartamento in cui Ilham Tohti, professore di economia
all’Università Minzu, vive con la moglie e due
figli piccoli, poco fuori dal campus universitario. Tohti viene prelevato e
scortato verso una destinazione ignota. Moglie, figli e anziana madre non hanno
più notizie. Dall’abitazione vengono portati via pc, cellulari, agende e 38
sacchi di appunti, tesi di laurea, compiti degli studenti e quant’altro. Sei
tra gli studenti a lui più vicini vengono portati in questura per essere
interrogati. Un documento rilasciato dal Dipartimento di pubblica sicurezza
della municipalità di Urumqi, che descrive il professore come una figura
pubblica che approfitta della sua posizione accademica per avvicinare studenti
e conoscenti a istanze separatiste e sovversive, è l’unica comunicazione
ufficiale sul caso. Tohti, che – in uno scritto del 2011 – aveva dichiarato di
aver dedicato la sua vita (e sacrificato quella della sua famiglia) alla lotta
per la libertà religiosa, la tutela della cultura, della lingua e del popolo
uiguro, è noto in Cina e all’estero per i suoi scritti e le sue attività di
sensibilizzazione sul Xinjiang. La notizia del suo arresto rimbalza da un sito
all’altro, si cominciano a raccogliere firme per la sua liberazione immediata.
Circola una petizione che, alla data del 18 febbraio, nonostante la
problematicità del caso, era già stata firmata da quasi 2.000 persone, cinesi e
straniere1.

Gli scontri del 2009

Il 5
luglio 2009, durante gli scontri scoppiati nel corso di una grande
manifestazione a Urumqi, la capitale del Xinjiang, quasi 200 persone rimangono
uccise, moltissime ferite. Le vittime sono per la maggior parte cinesi di etnia
han colpiti a morte da gruppi di uiguri. Altre manifestazioni e scontri
scuotono in quei giorni la regione, la attraversano da Nord a Sud e infiammano
Kashgar, zona di confine tra le più problematiche del Xinjiang. La regione
viene isolata, chiusa a giornalisti e stranieri, internet e telefonate
inteazionali vengono immediatamente bloccati. Comincia un passaparola
frenetico, un proliferare di voci sulle possibili cause di quello che viene
considerato il sommovimento potenzialmente più destabilizzante per la
Repubblica popolare dopo il 1989. Nur Bekri, presidente della regione autonoma,
appare sulla Cctv (China Central Television) facendosi portatore della
linea ufficiale: la causa delle rivolte va cercata all’estero, nelle attività
separatiste e terroriste del gruppo di Rebiya Kadeer (leggere MC, gennaio
2010, ndr
), e in quelle sovversive di alcune figure che operano entro i
confini cinesi, tra cui Ilham Tohti. Il suo blog Uighurbiz viene identificato
come una delle principali piattaforme online responsabili di aver istigato e
aiutato a organizzare la rivolta. Il sito viene chiuso, Nur Bekri e Wang Lequan
– l’allora segretario del partito del Xinjiang (che verrà sostituito un anno
dopo da Zhang Chunxian) – puntano il dito contro Ilham Tohti che, prima viene
arrestato, poi rilasciato ma confinato nei 50 metri quadrati del suo
appartamento nel campus universitario con la moglie e i due figli piccoli.

Nonostante
il supporto e l’affetto di studenti e amici, dal 2009 in poi l’esistenza di
Tohti si trasforma in un vero e proprio «calvario» fatto di visite e
interrogatori della polizia nei momenti più inaspettati, problemi per i
familiari a Pechino e in Xinjiang, beni e proprietà congelate (e lo stipendio
da professore che arriva solo saltuariamente), telefonate, email e lezioni
controllate e registrate. Più le maglie del controllo si stringono intorno a
lui, più le sue lezioni diventano popolari: aule in cui più di 200 studenti,
per la maggior parte uiguri provenienti da tutta la città, lo aspettano ogni
venerdì pomeriggio. Il tono delle sue analisi e dei suoi messaggi diventa
sempre più critico e tagliente. Il suo atteggiamento di sfida alle autorità non
passa però inosservato: il corso viene interrotto nel settembre 2011, «perché
non si raggiunge il numero di studenti necessari».

Un progressivo deterioramento

Infaticabile,
nonostante una forte depressione, i ripetuti ed estenuanti interrogatori, e una
serie di difficoltà per lui e la sua famiglia, Tohti continua a lottare, a fare
rete con amici e intellettuali a lui vicini e a sensibilizzare la comunità
internazionale attraverso le interviste che appaiono sui maggiori media (New
York Times, The Guardian, Wall Street Joual
). Ha in testa un progetto:
istituire un’università online dove raccogliere tutte quelle informazioni,
opere, materiale relativi al Xinjiang fino a quel momento sparsi nella rete. Il
governo cinese sostiene che Tohti si adopera per coinvolgere sempre più uiguri
a portare avanti azioni violente contro Pechino. Il suo carattere combattivo,
ma sempre più provato da anni di arresti domiciliari e di malattia, lo portano
a commentare le ormai frequenti esplosioni di violenza nel Xinjang con toni a
tratti discutibili, a volte acclamando l’attacco terrorista, altre
semplicemente individuando le politiche di Pechino e del governo regionale come
prime responsabili dell’escalation. Più i toni si surriscaldano, più
Tohti viene controllato, minacciato e intimidito.

Ormai
non c’è più spazio per le analisi lucide e attente sui cambiamenti sociali in
Xinjiang, sulle trasformazioni del mercato del lavoro e sulla transizione da
una società tradizionale a una modea, sulla situazione dei giovani in
Xinjiang e sulle aspirazioni delle comunità uigure, che erano state una sua
peculiarità. Quello che rimane è un uomo sempre più arrabbiato, rancoroso, e,
forse, sempre più solo.

Nel
febbraio 2013 viene prelevato all’aeroporto di Pechino, mentre – con la figlia
Jewher Ilham (nata da un precedente matrimonio) – è in procinto di imbarcarsi
per gli Stati Uniti per un incarico temporaneo presso l’Indiana University a
Bloomington. Jewher parte, lui viene messo ad arresti domiciliari ancora più
severi. Nonostante questo, continuano ad apparire interviste sui media
stranieri. Al telefono Tohti critica il governo, commenta l’attentato
dell’ottobre 2013 (vedere MC, gennaio-febbraio 2014) a Piazza Tiananmen
sostenendo che non ne è provata la matrice uigura e, allo stesso tempo, che non
si possano escludere in futuro «metodi estremi» utilizzati da gruppi di uiguri
per «proteggere i propri diritti».

Tutto
si ferma il 15 gennaio. Il professore viene scortato fuori dal suo appartamento
del campus dell’Università Minzu. Il luogo dove è detenuto è ancora
sconosciuto, le accuse che gli si muovono consistono in «separatismo» e «istigazione
alla violenza». Un coro di voci si alza in sua difesa: la blogger tibetana
Woeser, Wang Lixiong, giornalisti, avvocati e intellettuali cinesi e stranieri,
e tanti altri. Ma la figura di Tohti rimane controversa: i toni estremi e quasi
forzati delle dichiarazioni degli ultimi tempi non hanno prodotto il consenso
sperato. I suoi paragoni con altre situazioni, per esempio con quella dei
ceceni, erano spesso fuori luogo, e portavano alla luce una psiche provata.

Il caso Tohti rimane aperto. Si tende a spiegare il suo
arresto con campagne anticorruzione che coinvolgono alti funzionari in
Xinjiang, e che avrebbero come obiettivo ultimo i fedelissimi di Zhou Yongkang,
con il tentativo di altri funzionari di spostare l’attenzione o di un ennesimo
giro di vite sulle voci critiche in Cina da parte della nuova amministrazione
Xi, e con molto altro. Quello che resta da vedere è se la società civile
cinese, la comunità internazionale e il governo del Stati Uniti siano pronti a
sostenere una persona che, prima di essere un dissidente, è un uomo provato.

Pechino e la
«gestione del dissenso»

A
questo punto può essere utile comprendere la tragedia umana del prof. Tohti
alla luce del sistema politico cinese. Tutto ciò di cui è accusato è vero:
istigazione al terrorismo (durante le lezioni dichiarava apertamente, di fronte
a un gruppetto di poliziotti seduti tra gli studenti, che gli uiguri dovrebbero
ispirarsi ai ceceni); collegamenti con governi esteri (è appoggiato, e forse
anche finanziato, dal Consiglio di stato americano); incitazione alla violenza
(nelle sue interviste ha spesso sostenuto che l’unico modo per difendere i
diritti degli uiguri è la violenza). Nello stesso tempo, il modo in cui il suo
caso è stato trattato, almeno dal 2009, ha solo contribuito a peggiorare la
situazione. Lo stato mentale di Ilham si è compromesso, poiché viveva in un
piccolo appartamento senza poter più veramente lavorare, e per i continui
interrogatori e le intimidazioni. Se da un lato, quindi, la sua vicenda
personale può suscitare sentimenti di compassione e rispetto, dall’altro non si
può dire che il governo cinese, dal suo punto di vista, sbagli in toto. Del
resto, se in Italia una figura pubblica incoraggiasse a utilizzare metodi
terroristici, per realizzare – ad esempio – la separazione del Nord dal Sud,
sicuramente non passerebbe inosservata.

Il
governo cinese è attaccato da molti fronti: uno di questi è costituito dagli
oppositori interni. Esso non riesce a gestire il dissenso, perché in Cina manca
completamente un meccanismo che faccia da «regolatore» nei casi in cui gli
interessi del governo divergano da quelli di parti della popolazione, se si
esclude quello che si basa sull’intimidazione e la minaccia. Ci sarebbe bisogno
di maggiore democrazia, cioè di un coinvolgimento
delle voci dissidenti in una piattaforma di dialogo, che toerebbe molto utile
per evitare un’escalation dei problemi.

Nel frattempo, il 26 febbraio, si è appreso2 che a Ilham Tohti,
in carcere a Urumqi, è stata ufficializzata l’accusa di separatismo. Rischia
l’ergastolo o addirittura la pena di morte.

Alessandra Cappelletti*
Note
1 – NIl link della petizione: https://docs.google.com/spreadsheet/pub?key=0AsKDF8_HXe4IdGowdmRKcXAyd0REa2QxSFBtRjhlX1E&output=html.

2
– Cfr. la Bbc: www.bbc.com/news/world-asia-china-26333583.
* Già collaboratrice di MC, Alessandra Cappelletti è esperta
di questioni identitarie e minoranze etniche. Sinologa, ha un dottorato di
ricerca in studi sulla Cina contemporanea alla «University of China» e
all’Università degli studi di Napoli «L’Orientale». È editor di un nuovo sito
dedicato a Pechino: www.cinaforum.net.

Un ritratto di Ilham
Tohti:
Professore e
attivista

Nato e cresciuto in una famiglia benestante di mercanti di Artush,
villaggio del Xinjiang ai confini col Kyrgyzstan, nelle sue conversazioni con
gli amici Tohti ricorda spesso il padre, musulmano praticante, in partenza con
lunghe carovane di cammelli per oltrepassare i valichi montuosi alla volta di
Osh, centro commerciale kyrgyzo, e Samarcanda, in Uzbekistan. Una famiglia
allargata, un padre con mogli in diversi luoghi dell’Asia Centrale, commerci e
interessi nell’area, e una considerevole quantità di beni espropriati durante
la Rivoluzione culturale. Cresciuto dalla madre in un ambiente molto religioso,
negli anni ‘80 è un brillante studente di lingue all’Università Minzu, nel
nuovo clima di dialogo e apertura promosso dall’amministrazione di Hu Yaobang.
Tohti dimostra una notevole propensione agli studi, è sufficientemente
eclettico da cominciare un percorso interdisciplinare a cavallo tra l’economia
e la sociologia – con un occhio sempre attento a quello che succede nella sua
regione d’origine, che lo porterà a occupare velocemente una cattedra presso il
Dipartimento di economia dell’Università Minzu. Gli anni ‘90 e la prima metà
del 2000 rappresentano un periodo di formazione politica, un lavoro condiviso
con intellettuali cinesi e stranieri con formazioni e posizioni diverse,
attraverso lunghe discussioni sulle trasformazioni della società, dibattiti, e
un rapporto molto stretto con il gruppo di studenti che più lo segue. Tohti
comincia così a spostarsi dagli studi accademici all’attività politica: membro
del Pcc, è l’unico intellettuale uiguro che va oltre i confini dell’etnia,
confrontandosi e interagendo soprattutto con cinesi han, giornalisti,
intellettuali, artisti. Il suo lavoro diventa un’attività di sensibilizzazione
rispetto alle diseguaglianze economiche e sociali in Xinjiang, portato avanti
con studenti, amici, conoscenti e colleghi. Personalità carismatica e generosa,
gode di molto rispetto tra studenti e amici han, e non esita a parlare e
rilasciare interviste ai giornalisti stranieri.

Alessandra
Cappelletti


Pechino: L’Università
Minzu

Una casa per le minoranze
etniche

L’Università delle Minoranze etniche di Pechino, chiamata Università
Minzu (in seguito a una delibera degli organi accademici volta a evitare che il
termine minzu 民族,
«gruppo etnico», venisse tradotto con il politicamente connotato «nazionalità»),
è nuovamente sotto i riflettori. Istituzione accademica prestigiosa che
raccoglie la créme dei giovani appartenenti alle 55 minoranze etniche cinesi,
formandoli, insieme a una parte di studenti han, secondo una rigorosa
educazione di partito per prepararli a occupare posti più o meno rilevanti
nell’amministrazione pubblica e nel governo, il campus del quartiere di Haidian
ospita tibetani, uiguri, mongoli, hui, kazaki, kyrgyzi, e membri di quasi tutte
le altre minoranze. Inoltre è l’unica, a Pechino, a disporre di numerose mense
per gli studenti musulmani. Almeno due le occasioni recenti in cui questa
università ha fatto notizia in Occidente: le manifestazioni degli studenti
tibetani (marzo 2008 e ottobre 2010), e l’arresto di Ilham Tohti nel luglio del
2009. Docente di dinamiche economiche nelle aree abitate da minoranze,
all’epoca Tohti fu rilasciato grazie alla sua notorietà tra intellettuali e
studiosi cinesi e stranieri, e, soprattutto, grazie all’intercessione
dell’amministrazione Obama.

Ale.Cap.

Alessandra Cappelletti




Nel cuore dell’Africa 

Doruma: non solo Mission


Piccolo villaggio
vicino a un confine triplo nel centro dell’Africa. Isolato dal mondo per le
pessime strade. In una zona di incursioni da parte di milizie e popoli in
transito. Prossimo a campi di sfollati nei quali manca tutto. E reso famoso (o
quasi) dal reality show «Mission». Racconto
di un missionario originario di Doruma, tornato a casa per delle brevi vacanze.

Se si guarda la cartina del continente africano e
si cerca un ipotetico baricentro, si cade su un confine triplo, a Sud Ovest
della Repubblica Centrafricana (Rca), Nord della Repubblica Democratica del
Congo (Rdc) e Sud del Sud Sudan.

Proprio
qui, un puntino segnato sulla carta porta a fianco il nome di «Doruma». Ci
troviamo nella provincia Orientale del Congo, distretto Haut-Uélé (Alto Uélé) a
una decina di chilometri dal confine con il Sud Sudan e circa cinquanta, in
linea d’aria, con la Rca.

L’omonima
parrocchia si estende su una superficie di 14.046 chilometri quadrati
(superficie di una media regione italiana, ndr) e
conta 55.713 abitanti. Il clima è tropicale. Doruma fu la prima parrocchia dei
missionari della Consolata in questa zona nel Nord Est della Rdc. I primi ad
arrivarci furono i domenicani nel 1917 mentre la presenza dei missionari della
Consolata risale al 1973. Nel 2001 la parrocchia divenne diocesana.

La
stragrande maggioranza della popolazione è dedita a un’agricoltura di
sussistenza e all’allevamento di animali di piccola taglia (galline, capre).
Nella zona non esistono industrie. Più del 50% è analfabeta. La gente, così
come gli impiegati statali, si alimenta di ciò che coltiva. Le magre entrate
provengono dalla vendita dei prodotti agricoli nei mercati locali e sono
destinate all’acquisto di beni di prima necessità e per la scolarizzazione dei
bambini.

Da
anni il villaggio è isolato a causa dell’avanzato stato di degrado delle strade
e dell’insicurezza provocata dagli scontri armati. Gli scambi commerciali sono
quindi molto difficili. Solo nei momenti di tregua, in bicicletta o in moto, si
percorrono 500 – 700 km per l’approvvigionamento di petrolio (per le lampade),
sale, sapone, vestiti e altri manufatti. Ci sono scambi commerciali regolari
con le città sudsudanesi di Ezo, Yambio, e ugandesi Ariwara, Arua. Fino a
spingersi a Kampala, capitale dell’Uganda. Il Sud Sudan è diventato il luogo più
vicino per questi rifoimenti.

I cristiani a Doruma

La
parrocchia di Doruma appartiene alla diocesi di Dungu-Doruma ed è gestita da
due sacerdoti diocesani locali, appoggiati dalle suore agostiniane, anche loro
congolesi, impegnate nel campo della pastorale, della salute, dell’educazione e
promozione sociale. Oltre il 90% della popolazione è costituita da cristiani
cattolici. Sono inoltre presenti anche altre confessioni cristiane, in
particolare le Eglises du réveil
(chiese del risveglio) d’ispirazione evangelica.

La pratica della vita cristiana non è così diversa da
altre parrocchie della diocesi. È diffusa, anche da parte dei cristiani, la
pratica di ricorrere a elementi di religioni tradizionali, quali feticci e
stregoneria. La pastorale è organizzata e animata, secondo le indicazioni
diocesane, dalle varie commissioni parrocchiali e dai gruppi apostolici che
annunciano e insegnano la parola di Dio ai fedeli. Ogni giorno è prevista la
celebrazione delle messe anche se l’affluenza infrasettimanale è molto bassa.
La partecipazione è invece massiva in occasione delle grandi feste.

L’edificio
della chiesa è quasi centenario: risale al 1920. Il suo stato fatiscente non
passa inosservato e il pericolo che crolli sulla testa dei fedeli è reale. Da
tempo, a livello parrocchiale, è stata lanciata l’iniziativa di una raccolta
fondi per costruire una nuova chiesa e ciascuno dà il suo piccolo contributo.
Ma data la situazione in cui versa il paese e la povertà economica della gente
diventa molto difficile riuscire nell’impresa.

Ribelli, assalitori e
profughi

Dal mese di settembre del 2008 tutta l’area del Nord Est
della Rdc è zona di incursioni dei ribelli fanatici ugandesi della Lord Resistance Army, (Lra,
si veda MC giugno 2012, ndr).
Il territorio di Doruma ne è particolarmente toccato.

L’area
è anche soggetta alle invasioni di mbororo,
pastori nomadi provenienti da Camerun, Rca e altri paesi in continuo movimento
e ricerca di pascoli. Le tensioni tra mbororo e
comunità locali sono frequenti perché gli allevatori occupano i campi degli
agricoltori congolesi per dare pascolo alle mandrie. Il governo ha smesso di
ricacciarli oltre confine e permette loro di installarsi in territorio
congolese. Così anche nella periferia di Doruma vive una loro comunità.

Ma il
vero flagello sono stati i sedicenti «ribelli» dell’Lra, ogni passaggio dei
quali ha lasciato dietro di sé desolazione, morti violente, distruzione di
scuole e strutture medico sanitarie, saccheggio di coltivazioni, mercati,
cappelle, strutture parrocchiali. La gente è stata costretta a spostarsi in
massa. Le donne, senza distinzione d’età, sono state violentate. Gruppi di
persone sono stati sequestrati e obbligati a trasportare il bottino rubato. I
giovani sono stati costretti ad arruolarsi al servizio di questi gruppi armati.

È difficile
porre rimedio a questa situazione che porta al tragico smarrimento della
popolazione.

Negli
ultimi mesi – un ultimo attacco si è verificato lo scorso dicembre – nella
regione è subentrata una calma relativa che ha permesso ad alcune organizzazioni
inteazionali di intervenire in diverse forme a favore degli sfollati e dei
rimpatriati della zona (Unhcr, l’organizzazione delle Nazioni Unite per i
rifugiati e alcune Ong inteazionali e italiane).


Le cappelle

Prima
dell’arrivo dell’Lra, la parrocchia era suddivisa in sei settori nei quali
erano presenti più di 60 cappelle. L’arrivo dei ribelli ha spinto la
popolazione a concentrarsi nei centri più grandi per difendersi, e alcune
cappelle sono state abbandonate dai cattolici. Una volta tornata la calma,
alcuni fedeli sono rientrati nelle loro comunità di origine. Attualmente nei
sei settori della parrocchia hanno ripreso vita 42 cappelle.

Ma
per poter visitare e animare con regolarità queste cappelle i sacerdoti
incontrano enormi difficoltà, non disponendo di grandi mezzi di trasporto per
raggiungerle. L’unico mezzo della parrocchia è una motocicletta vecchia e
malandata, e far fronte ai suoi continui guasti diventa una spesa proibitiva.

Gli sfollati di
Doruma

Fin
dal dicembre del 2008, a causa delle cruente incursioni di elementi della Lra,
un movimento massiccio della popolazione aveva cambiato l’ubicazione dei
villaggi in tutta la zona. Nel territorio circostante si sono creati almeno
nove centri di raccolta per gli sfollati, sei nel villaggio di Doruma (chiamati
Combattant, Bitabi, Banga, Nambili, Zigbi, Manvugo, Diangele), poi a 20 km i
siti di Gangala, Masombo (60 km a Nord ) e un sito a Naparka (60 km a Ovest).
In tutti i centri gli sfollati convivono con le popolazioni del posto. Dal 2009
al 2011, gli sfollati hanno ricevuto aiuti d’emergenza in termini di cibo,
ripari temporanei e cure mediche gratuite da varie organizzazioni
inteazionali. In questo momento invece gli sfollati interni e i rimpatriati
sono abbandonati a se stessi, senza alcun soccorso. Sul posto operano ancora
alcune Ong inteazionali, che intervengono su problematiche specifiche. Come
Medici Senza Frontiere, incaricata della lotta contro la tripanosomiasi
africana e Intersos (sostenuta dalla Conferenza Episcopale Italiana) impegnata
nella costruzione o il ripristino di alcune scuole elementari (a Masombo,
Diabakpa e Gangala).

Intersos
segue e assiste pure 400 bambini vulnerabili di nove scuole primarie,
distribuendo materiali scolastici e uniformi, pagando tasse scolastiche, creando
club per bambini in ogni scuola, provvedendo alla realizzazione di latrine e
pozzi d’acqua potabile per tre scuole elementari. Intersos offre anche un
appoggio psicosociale alle vittime di violenze sessuali, promuovendo piccoli
progetti per attività generatrici di reddito per il reinserimento socio
economico delle famiglie fatte oggetto di aggressioni e saccheggi.

Anche
le Nazioni Unite sono presenti con l’Unhcr, che ha l’incarico di monitorare il
territorio e la situazione in termini di sicurezza delle popolazioni e dei loro
spostamenti, individuare le emergenze umanitarie ed elaborare programmi di
sensibilizzazione e di accompagnamento su temi particolari quali le violenze
sessuali e i diritti umani.

Acqua, igiene e
salute

Sfollati
e rimpatriati vivono in condizioni molto difficili.

Nelle
strutture sanitarie (dispensari e centri di salute) mancano spazi per
accogliere i pazienti. La stessa sala ospita i neonati e gli ammalati colpiti
da diverse patologie. È il caso dei dispensari di Manyugo, Bakudangba, Gangala,
Masombo, Naparka, Nambili e Diebio. Tutte queste strutture sono a disposizione
degli sfollati e dei rimpatriati, anche se tutte mancano le sale parto e le
latrine.

I
villaggi di accoglienza degli sfollati non hanno pozzi e le fonti di acqua non
potabile si trovano nella boscaglia a un paio di chilometri dai centri abitati.
Quest’acqua però è la causa principale di molte malattie.

Sfollati
e rimpatriati non hanno accesso alle cure mediche per mancanza di mezzi
finanziari capaci di coprire i costi elevati delle medicine o dei ricoveri.
Questo obbliga la gente a ricorrere alle cure tradizionali. Alla lunga, le
malattie si aggravano e diventano un rischio per le comunità. Nella zona di
Doruma molti muoiono perché non sono curati. Anche i centri sanitari e i
dispensari mancano di una scorta di farmaci efficaci e adeguati per coprire il
fabbisogno della popolazione.

Aids, fame e case

L’Aids
è molto diffuso nella zona di Doruma. Ma per curarsi occorre andare
all’ospedale di Ezo in Sud Sudan (a 95 km) dove esiste un centro per la
prevenzione e il trattamento della malattia o in alternativa a Dungu in Rdc (a
210 km). Recarsi a Ezo significa sobbarcarsi anche le spese relative al visto
di entrata e di uscita. Alcuni ammalati di Aids hanno potuto trovare ospitalità
presso villaggi e famiglie sudsudanesi e usufruire di cure mediche gratuite.

L’assistenza psicosociale realizzata nel villaggio di
Doruma da organismi inteazionali dovrebbe includere un’attenzione
specifica agli ammalati di Aids con del personale specializzato, perché in
diversi casi si riscontra una forte aggressività.

Diversi
edifici scolastici usati per i bambini degli sfollati e dei rimpatriati sono
fatiscenti e pericolanti: è il caso delle scuole primarie di Ndolomo e Gurba.
Anche il liceo di Ndolomo è cadente. A Gangala e a Naparka le aule scolastiche
sono insufficienti per accogliere tutti i bambini delle elementari. Inoltre le
foiture scolastiche di base e i materiali didattici sono inesistenti. Un
altro grosso problema per i profughi è mangiare. Nei villaggi della zona manca
il cibo necessario e soprattutto i bambini patiscono la fame. La maggioranza
degli adulti coltiva dei piccoli orti nella boscaglia, lontano dai centri
abitati per il timore di nuovi attacchi.

Gran
parte degli sfollati trascorre la notte in cattive condizioni, riparandosi
dagli agenti atmosferici con materiali di scarto.

Il
problema è quello di aggiungere in sicurezza le zone più lontane della
boscaglia e reperire tronchi e rami necessari per realizzare capanne solide e
capaci di proteggere tutta la famiglia.

Inoltre,
gli sfollati sono stati costretti a spostarsi molte volte per sfuggire agli
attacchi violenti degli aggressori, perdendo di volta in  volta i raccolti, i propri beni e persino il
necessario per cucinare.

L’Italia e Mission

Nel
luglio 2013 la Rai ha realizzato a Doruma alcune riprese per il controverso reality
show
Mission, che poi è andato in onda nel gennaio di quest’anno. Ma
la gente del villaggio e le autorità non sono state interpellate, in
particolare oggi si lamentano di non aver visto le immagini prima che fossero
utilizzate nel programma e mandate in onda (e neppure dopo peraltro).

 

Dopo quattro anni di assenza ho trovato la situazione
socio-economica ancora difficile, nonostante un generale miglioramento della
sicurezza. Grazie allo stato di pace, anche se precaria, la popolazione può
lavorare nei campi e riesce a sopravvivere. Un grosso problema sono le strade
di accesso, completamente dissestate per cui la zona rimane isolata. Sulle
infrastrutture il governo dovrebbe prendersi le sue responsabilità.
Per
la gente di Doruma, nonostante i drammatici e disumani avvenimenti del recente
passato, il fatto di essere ancora vivi, di poter coltivare la terra o di
partire alla caccia, e soprattutto di rientrare e ritrovarsi in famiglia dopo i
lunghi spostamenti del giorno, sono giornie che aiutano a superare la paura di
nuovi attacchi e i traumi lasciati dalle vessazioni subite. Nei discorsi degli
abitanti di Doruma c’è la speranza che finiranno le incursioni e che si potrà
lavorare tranquilli, assicurare un’educazione ai figli e la salute per tutti,
mangiare in santa pace il frutto del proprio sudore.

David Moke*
 

*Padre
David Bambilikpinga-Moke è missionario della Consolata originario di Doruma,
svolge il suo servizio a Roraima in Brasile ed è tornato per le vacanze al suo
villaggio tra dicembre 2013 e gennaio 2014

David Moke




Tra bellezza e problemi 

Prime impressioni
dopo anni di assenza.

Dopo sette anni di
assenza, a gennaio sono tornato brevemente in Ecuador. Mi è sembrato di essere
arrivato in un paese che non conoscevo, ben lontano dai ricordi che portavo
dentro di me. Con la gente invece è stato diverso. Mi sono incontrato con
persone che giorniosamente mi hanno scoperto ancora presente nella memoria e nel
cuore. Alla contentezza di ritrovarci si aggiungeva la pressione del richiamo
che mi animava «a tornare a casa», a stare con la gente che mi voleva bene.

Indigeni: una grande
storia, ma forestieri in casa propria

Sono tornato a rivedere le comunità indigene in cui avevo
prestato il mio servizio missionario fino al 2005 (da là ero poi andato per due
anni a Guayaquil, sulla costa, prima di rientrare in Italia). È stato un colpo
duro per me vedere che si sono svuotate e che gli anziani sembrano soltanto
guardiani di ricordi. A Naubug ai miei tempi c’erano 2500 persone. Ne sono
rimaste 500. A Guantul il numero arrivava a 1500, adesso è 300. Ogni comunità
aveva la sua scuola, che avevamo voluto come luogo di incontro tra maestri,
alunni, genitori e dirigenti, con l’obiettivo di riflettere sul vissuto per
trovare insieme modi nuovi per mantenere la propria cultura e affrontare, senza
evasioni e fughe e senza perdere la propria identità, il futuro. Mi ha dato una
grande pena vedere come sono state modificate. Sono pochissime le scuole con più
di 30 alunni. Licto contava 28 comunità e Flores 26, con un uguale numero dei
centri educativi. Ho avuto la sensazione che sia stata attuata una
cancellazione sistematica riducendo le comunità a luoghi disabitati, come dopo
una guerra.

Rivoluzione

La parola chiave del cambiamento è «rivoluzione». È
scritta sui tanti cartelli che abbondano lungo le strade. Questi gli slogan più
comuni:

• Siamo la generazione rivoluzionaria.
• È la rivoluzione della speranza.
• Rivoluzione è libertà.
• Rivoluzione è patria.
• Rivoluzione è educazione gratuita.
• Rivoluzione è salute gratuita.

Queste frasi tapezzano ogni cosa. Si vedono edifici
rimessi a nuovo con un cartellone in evidenza che recita: «La rivoluzione
cittadina ha finanziato questa opera».

Neanche le chiese sono risparmiate. Anche i lavori per
dare un aspetto nuovo alla chiesa di Licto mettono in risalto l’aiuto della
rivoluzione cittadina.

Anche le strade sono state rimesse a nuovo, belle larghe
e asfaltate. Frequenti cartelloni ricordano che «Abbiamo strade di prima qualità.
Abbiamo ponti che ci uniscono».

La parola «rivoluzione» è definita come la «promozione
della vera libertà». «La rivoluzione promuove case degne e educazione gratuita.
Le vie della rivoluzione portano a opere integrali, complete».

Slogan e cartelloni

I cartelloni sono davvero promotori di vita nuova e bella
e incoraggiano anche a essere vigilanti per il bene comune. «Se i bambini sono
ben nutriti, anche i loro sogni lo sono». «Se dai soldi per la strada, aiuti
soltanto ad aumentare l’accattonaggio». «Lo sviluppo equo è vera libertà».

Uno mostra un bimbo: «Il mio futuro è nelle tue mani,
paga le tasse».

Frequenti sono i quelli che invitano a responsabilizzarsi
per sradicare atteggiamenti socialmente pericolosi sulla strada:

• A chi non rispetta il ciclista togli la macchina.
• Ferma chi non usa il casco di sicurezza.

• Se vedi che l’autista ha bevuto, requisisci la
macchina.

• Se vedi uno che guida e usa il cellulare, fermalo.

• Se vedi che carica gente per la strada, non lasciarlo
proseguire.

Si insiste molto sulla parola patria: «Patria è il meglio
che c’è nel mio paese. Siamo la generazione che ricuperò la patria». Poi,
immancabile, lo slogan ufficiale: «Patria, andiamo avanti».

Cosa è diventato
l’Ecuador?

I governanti dicono di volere l’Ecuador come una patria
con piena libertà. Due parole che diventano sinonimi inscindibili per far
credere a persone e comunità che la libertà della patria si raggiunge solo col
progresso gestito da governanti garanti del potere sovrano (del popolo,
ovviamente). Tale progresso, sostengono, si raggiunge con organizzazione e
centralizzazione. Solo così, tutti insieme, si può costruire un paese bello,
moderno e davvero presentabile alla ribalta nazionale e internazionale, che
abbia infrastrutture atte a incrementare il turismo e gli scambi commerciali a
livello mondiale. Allora la loro retorica arriva ad affermare che è
indispensabile una classe dirigente stabile e capace, in grado di attuare e
mantenere i traguardi previsti per il bene di tutti, disposta anche a
modificare la costituzione per permettere al suo presidente di essere rieletto
per la terza volta e vicina a paesi come Cuba, Venezuela, Bolivia e Argentina,
paesi che cercano di affrancarsi dal dominio nordamericano.

A dispetto di questi limiti politici, in realtà l’Ecuador
è un paese meraviglioso.

Conseguenze
drammatiche

Mons. Leonidas Proaño, un grande vescovo dell’Ecuador,
diceva di aver creduto nell’uomo e nella comunità. La persona indigena è
essenzialmente ubicata nella comunità, che vive unita e compatta in un
territorio ben definito dove la terra ha confini e limiti che non possono
essere modificati da invasioni.

Il progetto di efficienza e centralizzazione propugnato
dal governo ha inciso drammaticamente nel vissuto degli indigeni. Anzitutto è
stata travolta la comunità educativa. Sono scomparse le scuole comunitarie per
creare nuove scuole centralizzate, complete dall’asilo all’università. È la «scuola
del millennio» che tutti devono frequentare in un luogo centrale. Gli indigeni
hanno allora dovuto abbandonare le loro case per permettere ai figli di andare
a scuola. Così le città di Riobamba e Quito si sono riempite di indigeni che
cercano di sopravvivere aprendo una miriade di piccoli negozi.

Incontro
indimenticabile

Mi ha fatto impressione l’accoglienza della gente. Dopo
nove anni di assenza mi riconoscevano ancora. La commozione era visibile e
piena di tenerezza. Come quando tornai a casa e non trovi niente delle cose che
avevi lasciato, ma ci sono le persone che ti vogliono bene. E ti ricordano che
la missione non è la costruzione, ma la gente con cui hai camminato, diventata
capace di vivere bene nonostante i guai e i cambiamenti. È questo che da
speranza: crollano i monumenti ma le persone ci sono e hanno voglia di vivere
la propria vita nonostante le macerie e oltre le macerie.

Sono andato in Ecuador come addormentato nei ricordi di
tanti anni e di tante opere; intorpidito da una abitudine missionaria che aveva
dato senso e significato a un certo percorso, perché la credibilità
tradizionale del missionario doveva avere la sua visibilità
nelle opere.

Un cartello mi ha commosso: «Mi sono svegliato e ho
voglia di sognare l’incredibile».

Giuseppe Ramponi

Giuseppe Ramponi