Senza dono, che Natale è?

Il rito dei doni a Natale è una furba trovata del capitalismo consumista, oppure, al contrario, una spina nel fianco del materialismo?

Una conversazione col teologo Roberto Repole.

Dopo il lungo mese di Novembre, quello in cui le giornate si accorciano drasticamente e inizia a fare freddo, in cui si sente una certa malinconia, ecco finalmente Dicembre, il mese del Natale.

Si accendono le luci colorate per le strade, in casa si crea spazio per il presepe e l’albero, quotidianamente i bimbi aprono le finestrelle del calendario dell’Avvento dietro cui si nascondono dei poco sobri cioccolatini. Chi ha una vita spirituale si confronta con la realtà dell’incarnazione di Dio, con le figure di Maria, Giuseppe, Gesù bambino, Elisabetta, e così via. E si pensa ai regali.

Spesso, proprio riguardo ai regali, capita di sentire una lotta interiore: la spinta spontanea al dono si scontra con la sensazione di essere usati dal mercato, di renderci complici della riduzione del Natale, delle nostre relazioni, del mondo intero a una corsa consumistica.

Ci è così tornato alla mente un piccolo libro dal titolo Dono, che parla proprio di questo dilemma, e abbiamo conversato con il suo autore: don Roberto Repole, classe 1967, sacerdote della diocesi di Torino che insegna alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e che, dal 2011, è presidente dell’Associazione teologica italiana.

Cominciando da Babbo Natale

Il primo capitolo del libro di Repole si apre proprio con il racconto dell’attesa di una bimba per il suo regalo di Natale, e pone subito al lettore una domanda piuttosto provocatoria: il rito dei doni a Natale è una furba trovata del capitalismo consumista, oppure è, al contrario, una spina nel fianco del materialismo? Per arrivare alla conclusione che il dono (quello vero) è una spina nel fianco del materialismo consumista, il testo compie un percorso che inizia da un’interpretazione molto bella, a nostro modo di vedere, della figura di Babbo Natale. «Nell’era del capitalismo e del consumismo – ci dice don Repole -, anche una tradizione come quella del regalo natalizio rischia di essere assorbita dai dinamismi consumistici. Ciò non toglie però che l’atto di scambiarsi doni a Natale riveli la nostra resistenza umana proprio ai meccanismi del consumismo, perché dice che gli uomini non sono soltanto mercato. Ad esempio la figura di Babbo Natale, individuo che porta regali venendo da un luogo sconosciuto, rappresenta simbolicamente il fatto che la vita stessa ci è stata data da qualcuno, e arriva da lontano». Babbo Natale è un uomo anziano. Sembra più un nonno che un babbo. Don Roberto suggerisce che anche questo è un simbolo, quello del legame tra le generazioni: «Ciò di cui viviamo è frutto non soltanto di chi ci ha immediatamente preceduti, ma ci è donato da tutta l’umanità vissuta prima di noi. Cosa su cui non riflettiamo mai a sufficienza, soprattutto perché la logica capitalistica ci spinge a pensare che siamo noi gli unici protagonisti e artefici di noi stessi». Babbo Natale esprime una comunione più profonda di quella che i nostri occhi carnali possono vedere: «Siamo in comunione con tutte le generazioni che ci hanno preceduto, non fosse altro che per il fatto che loro hanno permesso a noi di vivere la nostra vita così come la viviamo. La consapevolezza del legame tra le generazioni andrebbe recuperata, perché in questo momento storico corriamo il rischio di mettere una generazione contro l’altra invece di sottolineare il debito che ciascuna ha nei confronti della precedente e la responsabilità nei confronti della successiva».

Il pranzo di Natale

Anche l’invito al pranzo di Natale o alla cena della vigilia, come la figura di Babbo Natale, ha un suo senso profondo che oltrepassa quello della gioia dello stare assieme: invitare qualcuno a un pasto singnifica donargli qualcosa di nostro allo scopo di nutrirlo, donare la vita. «Dal punto di vista del cristianesimo è fonte di grande riflessione il fatto che Gesù ci abbia consegnato la certezza della sua presenza proprio dentro un pasto. Il pasto ha per gli uomini qualcosa di altamente simbolico. Il bisogno di nutrirci non è soltanto a un livello biologico. Con il pasto esprimiamo la consapevolezza fondamentale che non ci diamo la vita da soli, e che abbiamo bisogno di prenderla da fuori. E il fatto stesso di mangiare insieme dice che noi umani riceviamo e nello stesso tempo offriamo la vita agli altri. L’invito al pasto, soprattutto in contesti di grande povertà, significa “io, per una volta, mi prendo cura della tua vita”».

Il dono contraffatto

Ma, domandiamo a don Roberto, la realtà del dono è sempre positiva? Pensiamo ad esempio ai regalini dei pacchetti di merendine, per nulla disinteressati, alle donazioni che i paesi ricchi fanno ai paesi poveri potenziando un circolo vizioso di dipendenza dei secondi dai primi, a un certo atteggiamento di «dispensare carità» che, con il donare ai poveri, certifica e rafforza la loro condizione di emarginazione invece di includerli. «Il dono può essere contraffatto nel momento in cui non si riflette a sufficienza su quello che c’è in gioco in esso. Ad esempio il dono diventa negativo quando è sempre e soltanto unidirezionale. In un caso del genere si crea una strutturale disuguaglianza tra gli uomini. Qualcuno dona e qualcuno riceve senza possibilità di scambiare i ruoli. Nel dono autentico invece, nel momento in cui doniamo riceviamo.
Quando faccio un dono a qualcuno, come minimo ricevo da lui la possibilità di fargli un dono. Sono attivo, ma nello stesso tempo anche passivo: tutti siamo insieme donatori e donatari».

Il mercato è una grande cosa

Don Roberto con la sua voce cordiale pronuncia le parole «dono autentico», ma a noi viene da chiederci se il dono vero sia possibile, soprattutto in un mondo che sembra sempre più ridotto a mercato, in cui la logica del mercato, dello scambio, sembra un destino a cui non possiamo sottrarci. Viviamo in un tempo in cui la speranza fatica a sopravvivere. «Il mercato è una grande cosa, ma è una realtà dentro un’altra realtà ben più grande che è la società umana. La crisi economica in cui oggi viviamo è solo una parte di una crisi più ampia: il concepire la società come fosse nient’altro che un mercato. In tutti i settori, l’educazione, la scuola, la salute, gli affetti, noi rischiamo di pensare secondo la logica del mercato, cioè secondo una logica del pareggio: io dò qualcosa per ricevere in contraccambio qualche cosa di uguale e contrario.
Quando riduciamo la società a questo, perdiamo qualcosa di fondamentale della nostra umanità. Mi pare che oggi abbiamo ridotto la società alla logica del pareggio, e reagiamo alla crisi prodotta da essa con la stessa logica. Incapaci di vedere che noi siamo ben altro».

Sembra quasi che la mancanza di speranza nella nostra epoca derivi in qualche modo dall’idea che il mercato sia una specie di destino inesorabile, contro cui non si può fare nulla. «È così! La speranza fiorisce laddove c’è l’imprevedibile. E il dono, la gratuità, è sempre qualcosa di imprevedibile perché non lo possiamo produrre noi, viene dalla generosità altrui, gratuita. La speranza secondo me invece muore laddove abbiamo ridotto la società soltanto a ciò che possiamo prevedere e governare».

La «banalità» del dono

Dalla conversazione con don Roberto sembra emergere che il dono sia una realtà meno banale di quanto sembri a prima vista. Ad esempio, nel suo libro dice che, mentre il mercato ha una logica dello scambio proporzionato tra dare e avere, il dono invece ha una logica dello scambio sproporzionato. Mentre il mercato elimina il rischio, la gratuità, la relazione, la libertà, la responsabilità; il dono li prevede tutti. «Il dono funziona secondo una logica della sproporzione. Quando io ricevo un dono, viene a crearsi un disequilibrio tra me e il donatore, tant’è che mi viene spontaneo dire “grazie, non dovevi, non era il caso”. Queste parole servono a dire che tra me e il donatore si è creato un disequilibrio che a sua volta esprime qualcosa di fondamentale, cioè l’assoluta libertà di chi fa il dono e la sua imprevedibile generosità. Lo squilibrio però non viene mantenuto perennemente. Io infatti posso contraccambiare, sempre secondo la logica del dono: non sarà qualcosa di dovuto, sarà qualcosa di libero e gratuito. All’affermazione della mia persona che c’è stata da parte di chi mi ha fatto il dono, rispondo con l’affermazione della persona dell’altro contraccambiando il dono». Si tratta di uno scambio, ma di uno scambio totalmente differente da quello economico. Perché legato alla gratuità, alla libertà, alla fiducia.

«Nella sproporzione, nella disuguaglianza che si crea donando, si afferma un interesse fondamentale: l’interesse alla persona dell’altro. Per questo mi sembra che una società umana sia radicata fondamentalmente, come dicono molti acuti sociologi, proprio in questa dimensione del dono».

E se il cuore di tutto fosse dono?

Siamo partiti da Babbo Natale e siamo arrivati a dire che l’umanità è fondata sul dono. Se una riflessione di questo tipo viene proposta da un teologo è probabile che in qualche modo c’entri anche Dio nella questione. Lo chiediamo a don Repole, ricordando che uno degli ultimi capitoli del suo libro si intitola «E se il cuore di tutto fosse dono?», cioè, se all’origine di tutto, quindi anche dell’uomo, ci fosse il dono?

«C’è tutta una tradizione che ci dice che a Natale è Gesù bambino a portare i doni. Non è un caso che proprio nel giorno di Natale, nella tradizione cristiana, abbiamo instaurato la prassi rituale del dono: in qualche modo è Gesù Cristo stesso, in quanto figlio di Dio fatto uomo, a parlare del dono che Dio ha fatto di se stesso all’umanità. Gesù, dono di Dio, è il fondamento dell’esistenza stessa del mondo e dell’umanità. Noi siamo purtroppo abituati in modo catechistico a pensare che dapprima c’è l’uomo, poi il suo peccato, poi di conseguenza arriva Gesù che ci salva dal peccato. Questo è vero, ma va inserito in un orizzonte ancora più grande: Dio crea il mondo pensando già a Gesù, ed è quando decide di farsi dono, di donare se stesso nel suo figlio all’umanità, che Dio crea l’umanità e il mondo. Dunque per certi aspetti la prima parola del cristianesimo è proprio “dono”, cioè “grazia”. La grazia è talmente rivelativa della vita di Dio che in quella grazia, in quel dono, cioè in Gesù, noi conosciamo che il dono fa parte della vita stessa di Dio. Ed è per questo che noi siamo impastati di dono. Ed è per questo che, pur in un orizzonte come quello del mondo contemporaneo in cui un’ipertrofia dell’economicismo e del mercato sembrerebbe farci smarrire ogni sentirnero di speranza, noi cristiani possiamo continuare a essere fiduciosi. L’umanità continua a essere altro, e prima o poi l’inquietudine verso un mondo che ci soffoca in cui tutto è ridotto a mercato, porterà, porta già ora, a una reazione positiva che fa emergere il meglio di noi».

Vivere con speranza in un mondo che l’ha smarrita

In una società che sembra aver smarrito completamente la speranza, la realtà del dono può aiutarci a rintracciarla.

«Io penso che sia una fonte di speranza vedere che, nonostante tutto, anche in questo nostro mondo, tantissima gente dona. Basta guardare alle cose più semplici che magari non siamo più abituati a vedere: ci sono ancora persone che generano figli e donano la vita. Ci sono dei nonni che si prendono cura dei nipoti. C’è molto volontariato. La nostra società si regge ancora in piedi, nelle cose grandi come in quelle piccole, grazie al fatto che tantissime persone donano tempo, energie, denaro. Scendendo in profondità, io credo che possiamo nutrire speranza nella misura in cui sentiamo una resistenza dentro di noi rispetto al mondo che si trasforma in mercato. Il fatto che ci siano delle persone, e sono sempre di più, che sentono soffocante questo mondo è un segno di speranza, perché significa che stiamo reagendo con i nostri anticorpi, cioè con la capacità e il desiderio di dono che contraddistinguono la nostra umanità».

A Natale doniamo la vita

Alla fine della nostra chiacchierata, alla luce di tutte le considerazioni fatte, chiediamo a don Repole di darci un consiglio per vivere al meglio la realtà del dono nel Natale che si avvicina. «I regali di Natale possono avere una consistenza enorme dal punto di vista umano e spirituale nella misura in cui sappiamo accogliere il dono guardando negli occhi chi ce lo fa. Vivere il regalo ricevuto come un segno della presenza di qualcuno che ci sta dando qualcosa di sé, e il regalo donato da noi come la promessa di volerci essere e donare per l’altro. I regali di Natale possono essere segnati dalla logica del peggior consumismo se ci soffermiamo a guardare solo cosa riceviamo o cosa doniamo, concentrando la nostra attenzione sulle cose in sé e sul loro valore economico, oppure possono diventare tutt’altro: quando guardiamo negli occhi chi ci dà un dono e valorizziamo la cosa più importante, cioè non il dono in sé, ma il fatto che lui/lei si stia consegnando a noi, così come quando, qualunque cosa noi impacchettiamo per qualcun altro, facendo un dono consegniamo la nostra vita».

Luca Lorusso



Dalla montagna del vento


 

Invasioni, epidemie, distruzioni. Davi Kopenawa, sciamano e voce internazionale del popolo yanomami, ha conosciuto e pagato sulla propria pelle l’incontro con l’uomo bianco. Con la forza della sua intelligenza è riuscito a non farsi fagocitare. Oggi è conosciuto in tutto il mondo e la causa indigena ha trovato in lui un rappresentante di grande spessore, rispettato e ascoltato. Lo abbiamo incontrato nella sede di Hutukara, a Boa Vista.

Boa Vista. La sede dell’associazione si trova in una via tranquilla. La si nota
immediatamente perché sul muro di cinta della casa che la ospita è stato
disegnato il suo logo multicolore. Il nome Hutukara rimanda al mito yanomami sull’origine del mondo, quando una parte della vecchia volta celeste cadde formando la terra attuale (Urihi).

Nella stanza d’entrata incrociamo un paio di persone che via
radio stanno comunicando con qualche villaggio indigeno. Di lì a poco compare il padrone di casa. Capelli neri e lisci, volto tondo, una collanina nera al collo, indossa una maglietta bianca con inserti verdi e dei pantaloncini a
scacchi, proprio come un bianco. Ma bianco non è, anche se ha spesso corso il
rischio di diventarlo o di apparire tale agli occhi degli altri. Lui è Davi
Kopenawa Yanomami, sciamano, presidente di Hutukara, ma anche noto portavoce internazionale del popolo yanomami. È arrivato nella capitale proveniente da Watoriki, il villaggio yanomami il cui nome significa «montagna del vento».

Davi non lesina sorrisi, in particolare all’amico Carlo Zacquini, un napë (non-Yanomami) conosciuto nel lontano 1977. Fratel Carlo ha
portato con sé The Falling Sky. Words of a Yanomami Shaman, l’edizione inglese del libro autobiografico scritto da Davi assieme all’antropologo francese Bruce Albert. Glielo consegna per farsi fare una dedica. Davi si siede al tavolino e inizia a scrivere. Lo fa lentamente scandendo a voce alta ogni parola scritta in lingua yanomae sulla pagina bianca.

Nel frattempo i nostri programmi subiscono un imprevisto rallentamento. Si presenta un giornalista di San Paolo, che naturalmente ha
fretta. Ci chiede di parlare per primo con Davi. «Soltanto pochi minuti», ci assicura. Ci facciamo da parte, pur sapendo di rischiare, con l’arrivo del tramonto, di fare foto e riprese senza la luce naturale (come infatti avverrà). Fratel Carlo ci fornisce immediatamente una lettura di quanto accaduto: «Oggi i bianchi lo cercano. Spesso lo adulano, o gli fanno proposte che per molti altri sarebbero allettanti. Per Davi non è facile».

Occupiamo il tempo a conversare con una delle persone intente a parlare via radio. Lucivaldo è tecnico d’infermeria e lavora al polo
base di Demini, che serve anche Watoriki. «È un lavoro – spiega Lucivaldo – che richiede molta disponibilità perché il territorio è di difficile accesso. Si lavora nella comunità per 30 giorni, lontani dalla propria famiglia. Poi si torna in città per 15 giorni». La comunità dove Lucivaldo lavora conta 190 indigeni, seguiti da un’équipe di 4 persone, un infermiere e 3 tecnici d’infermeria.

Dopo circa mezz’ora torna Davi, finalmente libero di conversare con noi. Ci sistemiamo all’aperto, in un cortiletto interno della casa.

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Tags: Yanomami, Roraima, Indios, Amazzonia, Indigeni

Paolo Moiola




Somaliland: Il paese che non c’è

Una storia coloniale
che lo divide dalla Somalia. Indipendente dal 1991 ma non riconosciuto dalla
comunità internazionale.

l Somaliland è riuscito a mantenere l’equilibrio tra
i clan e a evitare la frammentazione del territorio. Ha ottenuto una stabilità
e una pace invidiabili in Africa. Il bestiame e le rimesse sono le sue risorse.

Ma dove va il Somaliland?

«Nabad y Cano», «La pace e il latte». Ad Hargeisa, la capitale del
Somaliland, lo slogan è ribadito sui muri delle case, dà nome a negozi e
ristoranti, trionfa in bocca ai Somali che ti spiegano la distanza che passa
tra il loro paese, che non ha seggio all’Onu e formalmente non esiste, e la
Somalia, più a Sud, reale come possono esserlo delle macerie, o un buco nero di
aiuti inteazionali, o un titolo per l’ennesima conferenza internazionale.

«Pace
e latte», ovvero la stabilità politica e la prosperità. In realtà, nei 23 anni
passati da quando questo estremo lembo settentrionale di Somalia, affacciato
come una terrazza sul Golfo di Aden e sul Medio Oriente, proclamò
l’indipendenza, sia la stabilità che la prosperità sono stati soprattutto un
esercizio retorico e il prodotto di un esperimento politico che la comunità
internazionale non ha capito del tutto. O forse non ha voluto capire. Perché
altrimenti avrebbe dovuto ammettere che il Somaliland, un paese non
riconosciuto dal resto del mondo, e che pertanto non riceve aiuti
inteazionali, è riuscito laddove il legittimo governo somalo ha fallito:
impedire massacri tra fazioni, la radicalizzazione religiosa, la
balcanizzazione del territorio e una perenne emergenza umanitaria. L’immagine
plastica della sicurezza Hargeisa la dà nel centro città, dove schiere di
cambiavalute aspettano i clienti all’ombra di muraglie di banconote logore e
sbiadite, su cui troneggia il sigillo della Banca del Somaliland.

«Non vedresti nulla di simile a Mogadishu», dice
Abdirizak, un venticinquenne con la finanza sulla punta delle dita: scorre
rapidamente i biglietti consunti, li raggruppa in mazzette, li stringe tra le
nocche. «Questo è un dollaro», dice. I biglietti verdi arrivano dalle agenzie
di rimesse che costellano il centro, attorno all’hotel Oriental, all’inizio del
mese e durante le feste come Ramadan ed Eid. Le ricevute dei trasferimenti
monetari dall’estero disegnano una geografia di migrazioni e flussi su scala
globale, dal Kenya all’Inghilterra, da Dubai agli Stati Uniti. E poi più in là,
fino a Cina e India, da dove businessmen locali importano le merci che vengono scaricate nel
porto di Berbera, giovando della tassazione minima, e da lì raggiungono sulla
via dei contrabbandieri Etiopia e Gibuti.

Non
ci sono guardie, attorno all’hotel Oriental. I soldi arrivano in carriole piene
direttamente dalla banca centrale e sono usati per acquistare dollari in
eccesso: il metodo somalo anti inflazione. Ed è quasi una metafora del
Somaliland, dove istituzioni e privati stringono insieme il timone di questo
raffazzonato paese attraverso acque tormentate, verso l’agognato riconoscimento
internazionale.

Somalia o Somaliland?

Somaliland e Somalia non sono
solo i prodotti di diverse avventure coloniali, ma rappresentano due opposte
concezioni d’Africa agli occhi dei colonialisti, inglesi nel primo caso,
italiani nel secondo. Il Somaliland britannico era null’altro che un posto di
transito sulla rotta verso la perla dell’impero, l’India. Empori marittimi
protesi verso lo Yemen, con alle spalle solo una distesa riarsa, attraversata
da nomadi e soprattutto dalle loro mandrie. Per gli inglesi, il valore di
questo territorio di guerrieri indomabili stava per l’appunto nel bestiame e
nella posizione: il primo garantiva l’approvvigionamento dell’avamposto di Aden
e la seconda, da preservare a ogni costo, evitava che sul passaggio in India si
proiettasse l’ombra dei francesi, annidati a Gibuti, o degli italiani.
Coltivando rapporti con i leader tradizionali e religiosi, le autorità
coloniali britanniche preservarono i sistemi locali di governo ed esercitarono
un controllo indiretto sul territorio.

Tocco leggero britannico che
contrasta con il bisturi italiano nel Sud: la Somalia doveva essere l’ennesima
propaggine d’Italia, e per un periodo lo fu, tra le piantagioni di banane e i
fiumi Juba e Shabelle e la dolce vita di Mogadiscio, dove la borghesia
coloniale italiana di giorno si crogiolava sul Lido e la sera passaggiava su
via Roma. Una Versilia sull’Oceano Indiano in cui i nativi musulmani
scivolavano come ombre accanto a commendatori e signore. L’amministrazione
italiana rimescolò le carte: promosse dei leader e ne cancellò altri, fece
saltare senza accorgersene equilibri delicati e neutralizzò meccanismi
tradizionali di risoluzione dei conflitti che per secoli avevano consentito a
gruppi di pastori, amanti della poesia ma armati fino ai denti, di coabitare
nello stesso ambiente scarso d’acqua e di pascoli.

Indipendenza: strano paese

Il paese
che l’Italia consegnò all’indipendenza, nel 1960, era una strana creatura di
ufficiali cresciuti nei carabinieri ma ben radicati nei clan d’appartenenza e
partiti modellati sulla Democrazia Cristiana e con una pericolosa vocazione
autoritaria. La Somalia italiana e il Somaliland britannico diventarono
l’indipendente Repubblica somala. Ma secoli di migrazioni avevano disseminato
comunità somale per tutto il Coo d’Africa, nel Kenya Nord orientale e
nell’Haud etiope. Le tensioni tra la neonata Somalia e i paesi vicini
iniziarono all’indomani dell’indipendenza, con l’insurrezione degli irredentisti
somali in Kenya, repressa nel sangue da Jomo Kenyatta. Per riscattare l’onore
violato della democrazia somala sconfitta, il generale Siad Barre, «bocca larga»,
come era chiamato, prese il potere e virò il timone verso il campo sovietico,
lanciando una sedicente rivoluzione socialista per secolarizzare il paese sul
modello della Turchia di Ataturk.

Negli anni ’70, però, la
guerra contro l’Etiopia per ricongiungersi ai fratelli somali in Ogaden fece
deragliare la rivoluzione, l’alleanza con l’Urss (che prese le parti
dell’Etiopia di Menghistu) e la Somalia intera.

Perso lo sponsor sovietico,
la Somalia si affidò sempre di più agli aiuti inteazionali, che negli anni
‘80 fluirono nel paese per sparire nelle tasche dei papaveri del regime, tutti
legati allo stesso clan Darod di Siad Barre.

La secessione

La politica dei clan, mai
scomparsa del tutto, era riemersa nelle crepe delle istituzioni democratiche e,
nel Nord del paese, era stata abbracciata dagli Isaaq, famiglie di commercianti
e allevatori, insofferenti all’accentramento in mani Darod. Il Somali National Movement (Snm) nacque
all’inizio come forza politica per rivendicare maggiore autonomia, ma la feroce
repressione del regime lo trasformò durante gli anni ’80 in movimento di
guerriglia. Nell’88, Siad Barre autorizzò bombardamenti a tappeto su Hargeisa
per domare i rivoltosi (e per puntellare il consenso attorno al suo ormai
decrepito regime). Migliaia di profughi si riversarono in Etiopia, ma
Mogadiscio non riuscì a completare la distruzione: nel ’91 il regime somalo
collassò e una miriade di fazioni se ne contese le spoglie (e, col passare del
tempo, gli aiuti umanitari in arrivo). Lo stesso anno, i leader dell’Snm
proclamarono la resurrezione dell’ex Somaliland britannico, stavolta come
Repubblica del Somaliland.

La guerra civile dell’88 fu
l’atto di mutilazione dal resto della Somalia. Nel cuore di Hargeisa, la
carneficina è raccontata in un murales sul monumento iconico della città, un
piedistallo su cui è issato un Mig somalo, abbattuto dalla contraerea dell’Snm.
Il sangue versato alimentò l’aspirazione all’indipendenza. Il nuovo Somaliland
emerse da una conferenza durata quasi un anno a Borama, una città
nell’entroterra, dove leader religiosi, capiclan e politici navigati si riunirono
per discutere l’assetto da dare al nuovo paese. Ne emerse un sistema ibrido,
che riunisce istituzioni politiche di stampo occidentale, un parlamento di
rappresentanti e uno di anziani, e poi diversi meccanismi giuridici a vario
livello. Questa complessa architettura, non priva di tensioni, è per molti la
chiave che spiega la relativa stabilità del Somaliland. Sistema in cui gli
assetti interni furono decisi fin dall’inizio in consultazioni locali, e non in
conferenze inteazionali come in Somalia.

Il primo presidente Egal, già
uomo forte del regime di Mogadiscio caduto in disgrazia con Siad Barre e rinato
come padre dell’indipendenza del Somaliland, giocò la carta della supremazia
Isaaq, in effetti maggior clan del nuovo stato. Ma ciò alienò i clan Darood
dominanti nelle regioni orientali, sul confine con il Puntland, altro brandello
di Somalia scampato al caos, ma privo di velleità indipendentiste. È qui, nelle
regioni di Sol e Sanaag, che la politica si fa ancora mitra in mano e, per
quanto le elezioni del 2011 si siano concluse regolarmente secondo gli
osservatori inteazionali, la tensione resta alta. Tanto più da quando
circolano voci sulla presenza di petrolio nella zona. A Las Canood, capitale di
Sol, i leader Dulbahante e Warsangeli, i sottoclan più influenti, immaginano già
una nuova Dubai sul Coo d’Africa.

Bestiame e rimesse

Per il
momento, il «petrolio» del Somaliland consiste in due risorse: quella
principale è il bestiame, cammelli, bovini e capre, che da qui, e dalla zona di
confine con l’Etiopia, fluisce verso l’Arabia Saudita e lo Yemen attraverso il
porto di Berbera: una ricchezza che vale quasi il 30% del prodotto interno
lordo (appena un miliardo e quattrocento milioni di dollari, il quarto più
basso del mondo per reddito procapite) e impiega circa il 25% della forza
lavoro, sia uomini che donne, ma che è estremamente dipendente da variabili
estee. Così, il bando imposto tra il 2001 e il 2009 dall’Arabia Saudita
all’importazione di bestiame per motivi sanitari fu un duro colpo per l’economia
del paese. Oggi, i casi di Mers (Middle east respiratory syndrome) rilevati nella penisola Arabica e legati ai
cammelli fanno temere un giro di vite sulle esportazioni future. Anche l’altra
risorsa cruciale, le rimesse inteazionali, che tiene a galla il paese,
dipende dagli equilibri inteazionali.

Il
gigante locale nel settore, Dahabshiil, fondato negli anni ’70 da Mohamed Duale
e oggi guidato dal figlio Abdirashid, è una delle avventure imprenditoriali
d’Africa di successo. Da qui transitano gran parte dei circa 500 milioni di
dollari (cifra stimata) inviati dai migranti per sostenere famiglie e business.
Per operare in Europa, tuttavia, le agenzie di rimesse devono appoggiarsi a
un’istituzione bancaria riconosciuta. Nel 2013, la banca Barclays, che consente
a Dahabshiil di operare in Gran Bretagna, aveva annunciato la chiusura dei
conti per incapacità di monitorare le transazioni. Solo dopo una mobilitazione
di massa di intellettuali e attivisti la misura è stata revocata.

«Anche
se non siamo riconosciuti, il Somaliland è un paese davvero globale», dice
Mohamed Behi Yonis, il ministro degli Esteri. «In tanti qui hanno doppio
passaporto. Vanno in Europa o negli Stati Uniti, acquisiscono la cittadinanza e
poi tornano indietro». In effetti, pur dalla sua posizione marginale, il
Somaliland non ha nulla da invidiare all’Etiopia per quanto riguarda le
comunicazioni. Tutt’altro: le telefonate inteazionali dal Somaliland sono le
più economiche del mondo, e il settore delle telecomunicazioni, da cui dipendono
i rapporti con la diaspora, è particolarmente dinamico e innovativo. Ma il tema
del riconoscimento internazionale ricorre nelle conversazioni al mercato del
bestiame Mahmoud Haybe o nei chioschi dove i Somali masticano khat, uno stimolante leggero che arriva ogni mattina dall’Etiopia. Il
desiderio di essere uno stato come gli altri si scontra contro il dogma delle
frontiere coloniali a cui l’Unione Africana è aggrappata, nonostante le
sanguinose eccezioni degli ultimi decenni (da ultimo, il Sud Sudan). Maggiori
sono i progressi della Somalia, minori sono le prospettive che il Somaliland
conquisti un seggio all’Onu. Perfino la Turchia, uno dei maggiori partner del
governo di Hargeisa, è allergica ai separatismi. «Stiamo lavorando a livello
diplomatico per dimostrare che il Somaliland può essere un prezioso partner
internazionale», dice ancora Behi Yonis. «Siamo riusciti a evitare la guerra e
a contenere il terrorismo. Possiamo contribuire al bene della Somalia. Ma il
nostro futuro è l’indipendenza».

Gianluca Iazzolino

Questo servizio è la
prima puntata dell’inchiesta sul mobile money intitolata: «Riuscirà
il denaro del futuro a rendere la povertà un problema del passato?
».

L’inchiesta è finanziata
nell’ambito del programma Innovation Development Reporting dell’European
Joualism Centre
. www.joualismgrants.org.

Inchiesta «mobile
money» – Denaro virtuale / 1

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L’inchiesta
Cos’è il denaro
elettronico, al secolo «mobile money»

Dare un conto in «banca»
a tutti

Servizi finanziari per i più poveri: questa la formula
magica che agenzie inteazionali dello sviluppo ripetono con crescente
frequenza. La visione tecnocratica dell’accesso al credito mutua il linguaggio
dell’industria bancaria e cavalca l’innovazione tecnologica: il telefono cellulare,
il «silver bullet» come dicono, o lo strumento definitivo per veicolare
prodotti finanziari nelle aree più remote dei paesi in via di sviluppo.

Così, il mobile money,
ovvero il denaro mobile, è diventato il fenomeno del momento nella comunità di
esperti dello sviluppo. Punto di convergenza degli interessi di compagnie
telefoniche, organizzazioni inteazionali e Ong, che stanno già cominciando a
usare piattaforme accessibili da telefoni cellulari per pagare stipendi e
muovere fondi.

Al momento 233 servizi di mobile
money
sono disponibili nel mondo, soprattutto in Africa subsahariana e in
Asia meridionale.

M-Pesa, la piattaforma lanciata da
Safaricom in Kenya nel 2008, ha fatto scuola: il successo del servizio, che
conta oggi oltre 23 milioni di utenti, ovvero il 73% della popolazione adulta
kenyana, e muove ogni mese quasi 150 miliardi di scellini kenyani (1,25
miliardi di euro), è stato un’iniezione di fiducia per multinazionali
desiderose di conquistare il cosiddetto «fondo della piramide», ovvero i
consumatori più poveri.

Secondo il Cgap (Consultative groupe to assist the
poor
), un centro di ricerca che promuove l’inclusione finanziaria nel Sud
del mondo, la telefonia mobile è oggi la tecnologia fondamentale per spalancare
le porte delle banche – banche senza muri – ai 2,7 miliardi di persone nel
mondo che non hanno accesso ai servizi finanziari. Così come la telefonia
mobile ha scavalcato la necessità della telefonia fissa, il denaro mobile può
permettere un salto a piè pari delle infrastrutture bancarie tradizionali. Ecco
perché le compagnie telefoniche dubitano che nel Nord del mondo, affollato di
carte di credito, conti online e altri prodotti bancari, il denaro mobile possa
attecchire. Mentre nel Sud la crescente mobilità, sia legale che illegale, fa
della smaterializzazione del contante un vantaggio in termini di sicurezza e
flessibilità. Resta la domanda: di chi è il vero ritorno? E chi sono i nuovi
esclusi?

Abbiamo provato a rispondere a
questi quesiti nel corso di un viaggio che comincia in Somaliland e ci porterà
fino in Nepal, passando da Haiti e Burkina Faso. Dove negli ultimi anni il
denaro mobile ha consentito a centinaia di migliaia di persone di diventare per
la prima volta titolari di un conto bancario, sia pure «nella nuvola» (nel cloud,
ovvero virtuale).

Gianluca
Iazzolino e Marco Bello


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La diffusione del mobile money
in Somaliland
Il denaro virtuale nel
paese inesistente

Abdirizak non si separa mai dal suo telefono cellulare. Lo stringe
in pugno mentre si aggira tra mandrie di cammelli, parlando rapidamente con gli
altri mercanti, finché si ferma e dà la mano a uno di loro. Le loro parole sono
coperte dal rumore di fondo di versi animali e voci umane. I due nascondono la
stretta di mano sotto un panno bianco, e la contrattazione ha inizio. Le cifre
sono espresse in silenzio, sulla punta delle dita. Dita che si toccano e si
stringono: pizzicare l’indice altrui significa rilanciare di mille, afferrare
l’intera mano è una richiesta da 5.000.

Attoo, i curiosi tentano di
prevedere l’andamento della contrattazione mentre l’oggetto dell’interesse, un
esemplare femmina di cammello, rumina beato a due passi. Quando i due
raggiungono un accordo, la stretta di mano è rotta con enfasi. Poche frasi per
definire l’affare, quindi la parola torna alle dita, stavolta sulla tastiera
dei cellulari. Non c’è contante, né documenti da firmare. Abdirizak digita
rapidamente sul suo telefono e, quando il cellulare dell’altro squilla, la
cammella ha un nuovo padrone.

Scene simili si ripetono senza sosta nel mercato di
bestiame Mahamud Haybe, alla periferia della capitale del Somaliland, Hargeisa.
Questo è il cuore economico di un paese inesistente e reale al tempo stesso,
dove flussi di cammelli, bovini e capre uniscono le aree rurali a quelle
urbane, il corno d’Africa alla penisola arabica. Questo è il luogo in cui i
cambiamenti entrano in sintonia con l’anima del Somaliland.

In passato, i pagamenti sarebbero
stati effettuati con una lettera firmata per ritirare il dovuto presso una
delle tante agenzie di rimesse che costellano Hargeisa. Oggi, invece, è bastato
Zaad, una piattaforma di denaro elettronico lanciata nel 2009 da Telesom, il
maggiore operatore di telefonia mobile del paese. Da allora, il servizio si è
diffuso dappertutto, conquistando 380.000 iscritti e 275.000 utenti attivi su
una popolazione di 3,8 milioni di abitanti.

La Gsma, l’associazione che
riunisce gli operatori di telefonia mobile, l’ha definito un «Mobile Money
sprinter
» e l’ha accolto come un motore d’inclusione finanziaria. L’impatto
di Zaad sull’economia del Somaliland balza all’occhio: i numeri di conto
spiccano sui muri, su cartelli appesi in negozi e ristoranti o anche solo su
semplici fogli bianchi in cima alle pile di denaro dei cambiavalute.

In un paese privo di banche commerciali e tagliato fuori dai
circuiti bancari inteazionali, Zaad permette agli utenti, siano commercianti,
studenti o pastori, di conservare i risparmi in un portafogli elettronico ed
effettuare pagamenti a distanza. Le agenzie di rimesse continuano a dominare il
campo delle transazioni inteazionali, ma negli ultimi anni hanno senza dubbio
perso terreno nei confronti di Zaad all’interno del Somaliland. Non è stata
un’impresa facile per Telesom, una compagnia telefonica fondata da Sheik
Ahmed-Nour Mohamed Jimale nel 2002 e oggi divisa tra una miriade di azionisti.

Creato sul modello di Safaricom
M-Pesa in Kenya, il più celebre e studiato sistema di denaro elettronico al
mondo, Zaad è stato adattato a un contesto che non ha eguali. Anche se la
moneta locale è lo scellino del Somaliland, il sistema opera con dollari
americani, la valuta che olia il commercio locale e dà la misura della bilancia
commerciale in profondo rosso del paese.

Lanciato inizialmente tra
imprenditori e commercianti, Zaad non ha spese aggiunte. «All’inizio, la gente
era piuttosto diffidente a caricare denaro nel sistema» ricorda Abdikarim
Mohamed Eid, il direttore generale di Telesom. «Dovevamo conquistare la loro
fiducia. Così siamo riusciti a convincere i datori di lavoro a pagare gli
stipendi attraverso Zaad e abbiamo plasmato un ecosistema. Sapevamo che se
tutti avessero accettato Zaad, l’uso sarebbe schizzato alle stelle». Entro un
anno, così è stato. Nel 2010, il tasso di iscritti si è impennato. In quanto
principale operatore mobile del paese, Telesom ha fatto leva su un effetto
network: i pagamenti si possono effettuare solo tra sim Telesom, una strategia
che ha aumentato il divario con gli altri concorrenti nello stesso campo. Anche
senza applicare tariffe di servizio, Telesom è riuscita ugualmente a fare
affari d’oro fidelizzando i clienti.

Nel 2011 ha lanciato Salaam Bank, una banca
islamica i cui servizi sono accessibili dalla piattaforma Zaad, servizi che
includono non solo conti correnti, ma anche piccoli prestiti. Il fenomeno Zaad
ha cominciato ad attirare l’attenzione degli attori dello sviluppo
internazionale, evocando la morte del contante.

Basta una passeggiata nel cuore di
Hargeisa per rendersi conto che non è proprio così. Montagne di cartamoneta
aspettano di essere tramutate in dollari o smaterializzate in sms. «Zaad ha
cambiato il nostro lavoro», dice Abdullahi, un cambiavaluta. «Trasformiamo
denaro di carta in denaro elettronico, così chiunque può viaggiare tranquillo
con la sua scorta di dollari».

Il problema è che quelli che
possono riempirsi il portafogli elettronico di denaro Zaad sono quelli che già
vengono pagati in dollari, ovvero dipendenti del settore privato, espatriati e
destinari di rimesse. «Noi dipendenti pubblici siamo pagati in scellini»,
confida Wali Dauud Egal, funzionario al ministero delle finanze. «Accelerando
la dollarizzazione dell’economia, Zaad non fa che gonfiare i prezzi e questo ha
delle ricadute su di noi in particolare».

Il governatore della Banca centrale
del Somaliland, Abdi Diriir Abdi esprime la stessa preoccupazione, venata di
toni nazionalisti: «Telesom è al di là della nostra portata; non sappiamo
quanti soldi incassano e, di conseguenza, come regolarci con le tasse. Inoltre,
Zaad provoca inflazione e offende la dignità della nostra moneta. In Kenya o
Tanzania, le compagnie di telefonia mobile usano la valuta locale. Perché qui
no?».

A dire la verità, non esistono
studi che leghino Zaad all’inflazione. Ma è un dato di fatto che Zaad sia
esplosa in un vuoto di regole. Quando Abdikarim Mohamed Eid discusse per la
prima volta l’idea di denaro mobile con il precedente governatore centrale,
l’accordo fu di sviluppare un regolamento strada facendo. Zaad applicò delle policies
in linea con le norme inteazionali anti riciclaggio, ma, con il nuovo
governatore, la discussione si arenò. Lo strapotere di Zaad non sfugge agli
abitanti del Somaliland i quali, pur facendone largo uso, ammettono che il
controllo di Telesom sull’economia nazionale potrebbe essere negativo nel lungo
termine.

Eppure, mentre la Banca centrale è incapace di imporre
l’uso degli scellini, gran parte dei somali continua a preferire i dollari per
mettersi al riparo dall’inflazione. Inoltre, lo scontro tra Telesom e la Banca
centrale riflette le contraddizioni di un sistema in cui non esiste un confine
netto tra politici e uomini d’affari. Adesso, la linea sfumata è anche tra
operatori telefonici e istituzioni finanziarie. Il vero avversario di Telesom è
infatti Dahabshiil, pronto a entrare nel campo del denaro mobile con la
piattaforma E-Dahab. Allo stesso tempo, Zaad si prepara a varcare i confini del
paese e, dopo aver stretto un accordo con Tawakal e WorldRemit, due agenzie di
rimesse inteazionali, anuncia una rivoluzione nel settore delle transazioni
inteazionali. Mentre la competizione imperversa, la mancanza di regole sta
mettendo a nudo l’incapacità dello stato di guadagnare da questo lucrativo giro
d’affari, o anche solo di monitorarlo. Il che potrebbe rivelarsi un boomerang,
proprio per l’accesso ai servizi finanziari.

Tradendo l’aspirazione al
riconoscimento internazionale, molti commercianti dicono che la vera inclusione
finanziaria si realizzerà solo quando il paese sarà integrato nei circuiti
bancari globali. Ma per Safyia, una consulente all’Inteational Labour
Organization
(Ilo) che forma donne imprenditrici, il problema è soprattutto
quello delle donne nelle aree rurali, dove l’economia è di sussistenza: «Non
hanno garanzie per chiedere prestiti, nè in contanti nè in formato elettronico
– dice -. E spesso non possono neppure aprire un conto Zaad perché non hanno
una carta d’indentità. L’inclusione finanziaria dovrebbe andare di pari passo
con l’inclusione politica». 

Gianluca
Iazzolino e Marco Bello

(Fine prima
puntata – continua) 

Marco Bello e Gianluca Iazzolino




Comedor rosa nell’isola dei pirati

Diario di viaggio e
incontri / 1

Claudia, con il tocco
leggero della sua prosa familiare, ci guida sulle strade del Nicaragua. Incontriamo
persone diverse nel loro quotidiano, ne condividiamo la vita, i sogni, le
speranze e le difficoltà. Dai loro racconti emerge il ritratto vivo di un paese
che fa ancora fatica a trovare la sua strada, condizionato com’è da vicini invadenti.

Managua. Arriviamo nella capitale del
Nicaragua alla sera. Un taxi ci porta in città nel buio, su arterie bordate da
casupole e capannoni. Aspettiamo la mattina per capire dove siamo. La luce, il
sole, la brezza che tempera il calore, mi confortano. Siamo nello spazio sereno
di un patio antico con fontana e giardino, nel quartiere più tranquillo.

Managua
fu rasa al suolo da uno spaventoso terremoto nel 1972. In quello che era il
centro storico ora ci sono baracche dal tetto di lamiera e pochi edifici
governativi. La cattedrale rimane isolata, di fronte al palazzo Nazionale, in
grandioso stile déco. È una chiesa esagerata, annerita dagli incendi e ferita
dal sisma, chiusa da inferriate, che si affaccia sul vuoto del piazzale con lo
stendardo nazionale.

Dall’altura
dove abitiamo si ha l’impressione che la città sprofondi nel verde. Sono rari
gli edifici alti più di un piano. La nuova cattedrale, geniale progetto di un
architetto messicano, circondata da un vasto giardino con palme altissime, non è
lontana. Tutta in cemento lavorato ad arte, presenta una copertura formata da
numerose cupole, dal sapore esotico. Anche l’interno affascina per l’uso
sapiente dei colori e della luce, che dona leggerezza al grande edificio, pur
invitando al raccoglimento. Una targa ricorda i donatori, quasi tutti
statunitensi.

Co Island, l’isola
dei pirati.


6 Gennaio

Paolo
Jacob lavora a Managua da due anni per un progetto sui bambini lavoratori
finanziato dall’Unione europea. Ama il suo lavoro per la Rete, una Ong
torinese, ed è impegnato anche fino a sera tardi e nei fine settimana. Chiedo
che mi parli delle sue esperienze precedenti: Erasmus in Islanda, laurea a
Torino, master in educazione in Olanda. Paolo ha poi lavorato in Australia,
Romania e Albania, sempre a contatto con la povertà. Su suo consiglio
prenderemo un volo per Co Island, al largo della costa del Caribe, dove ha
trascorso le vacanze di Natale. Sorvoliamo la regione più selvaggia del paese,
dove dense foreste sono solcate da fiumi che scendono verso l’oceano Atlantico.
Pare che negli ultimi anni la zona verde si sia molto ridotta, a causa del
disboscamento illegale. Noto vaste lagune costiere e rari villaggi, dove vivono
i Miskito, popolazione risultato dell’incontro di indigeni e africani.

Co
Island, o isola del mais, ha la forma di un teschio ed è stata rifugio di
pirati. Morgan ne aveva fatto la sua roccaforte e i suoi discendenti vi hanno
tuttora le proprietà e le attività principali. Qui la cultura è inglese, perché
tutta la regione orientale del Nicaragua rimase protettorato inglese fino a
fine ‘800, poi gli americani subentrarono, fino al 1970.

Gli
italiani invece sono arrivati per occuparsi di accoglienza e cucina, attività
in cui restano imbattibili.

Alessandro
e Caterina hanno sempre amato viaggiare: sono stati tra i primi a visitare la
Cina, ma la loro vera passione è il mare. Dalla Nuova Caledonia a Zanzibar,
hanno visitato tantissime isole e, quando hanno deciso di andare in pensione,
si sono fermati qui. La Princesa de la Isla è un piccolo complesso,
circondato da prati soffici, in riva al mare. Un tempo qui era un albergo, che
fu distrutto dal tifone del ’88, che lasciò intatte solo le mura di madrepora e
cemento. I sandinisti poi ne fecero un campo, con camerate e servizi comuni.
Diciassette anni fa la simpatica coppia romana decise di comprare la proprietà
e fae la loro casa. Alcuni anni dopo una delle loro tre figlie li ha
raggiunti col marito avvocato, stanco dello stress della vita romana e
appassionato di cucina. In un ambiente così famigliare, mi trovo bene, ma la
notte il rumore del mare vicino è inquietante, dovrò abituarmi.

9 Gennaio

Stamattina
alle sei siamo già sulla strada che porta in paese. Lungo la spiaggia dove
cresce anche l’erba, ci sono mucche che pascolano. Il locale sul porto apre
alle sette e serve per colazione il gallo pinto, riso condito da fagioli
scuri e uova strapazzate. È arrivato un piroscafo da Bluefields, stanno
scaricando a mano sacchi di zucchero. Noto uno strano personaggio dalla pelle
scura, grande naso e un’enorme chioma, bianchissima e crespa, che lo rende
speciale. Chiedo se posso fotografarlo, lui, Denis, sorride compiaciuto e mi
presenta la giovanissima moglie e il figlioletto, cui sta dando il biberon
pieno di Fanta.

La
popolazione dei territori orientali del Nicaragua è il frutto di immigrazioni
da tutti i continenti. Quando nel 1502 Cristoforo Colombo, durante il suo
quarto viaggio, sbarcò a Co Island, le isole erano abitate dai Kukra,
popolazione indigena ora estinta. I primi contatti con europei si ebbero a
partire dal 1660, con l’arrivo di pirati francesi, olandesi e inglesi, che
iniziarono a portare schiavi africani della Giamaica per lavorare nei campi di
mais. Altri schiavi fuggirono dalle navi negriere e, unendosi alle tribù
locali, diedero vita a una popolazione creola di lingua inglese.

In
poche ore incontreremo molte persone, di varie nazionalità, tra le quali una
famiglia con due bimbi, residenti a Moncalieri, Torino, che da anni lavorano
per una Onlus impegnata nella costruzione di asili nella capitale.

Questa
volta hanno portato un bagaglio pieno di Lego per i bambini adottati a
distanza. Miriam è architetto, Mario è un ingegnere con vasta esperienza
internazionale. Ora stanno pensando di trasferirsi in questo paese, dove lo zio
di Miriam vive da parecchi anni e dove pare ci siano buone possibilità di
lavoro e spazio per investimenti.

10 Gennaio

Abbiamo
fatto il giro dell’isola con uno dei taxi che girano continuamente e raccolgono
chiunque abbia bisogno di un passaggio. Noto numerose chiese, molto
frequentate. Quella cattolica apre la domenica e il giovedì sera, ma il prete
arriva da Bluefields solo a Natale, Pasqua e per comunioni e cresime. Le case
sono di legno, col tetto in lamiera, a parte le ville dei «ricchi». Numerose le
pensioni e i piccoli hotel, ma la nostra sistemazione mi pare la migliore. La
sera arrivano altri ospiti, una bella famiglia spagnola, con tre figli.
Francisco a Saragozza aveva frequentato i missionari della Consolata ed era partito
missionario laico per il Sud America. Ora lavora per le Nazioni Unite e, tra le
molte esperienze, questa è la più dura. L’estate scorsa i due ragazzini hanno
preso la dengue, malattia che può essere mortale, specie tra i piccoli. Quando
piove, le strade di Managua sono difficili da percorrere, in pochi minuti si
arriva a un metro d’acqua.

In
questo viaggio potrò sentire diverse opinioni sulla situazione politica del
paese. Francisco non approva l’opera del presidente Ortega che, pur avendo
militato con i sandinisti, si comporta ora come un tipico dittatore centro
americano, non molto diverso dai Somoza. L’opposizione è stata praticamente
soppressa, la stampa zittita, chi critica viene eliminato. Per poter rimanere
al potere è riuscito a cambiare la Costituzione. Gli intellettuali che avevano
sostenuto i sandinisti, ora prendono le distanze da questo governo. Le scuole e
gli ospedali sono di infimo livello e le nazioni che offrivano cooperazione
allo sviluppo del paese se ne stanno andando. I primi sono stati i paesi
scandinavi.

Si fa
molto tardi, parlando, e i due bambini si sono già addormentati nelle amache.

11 Gennaio
Siamo
andate a nuotare presso il relitto e mi hanno rubato occhiali, costume e
zainetto. Forse per la gente dell’isola, come ho notato in molte altre intorno
al mondo, questo non è furto. Quello che trovano è loro, ossia di tutti.
Alessandro ha chiamato la polizia, sono venuti tre giovani in divisa a
interrogarmi, parlano inglese perché sono di Bluefields. Poi Alessandro ha
fatto la sua indagine personale, perché nel quartiere vicino conosce tutti. È
uscito il nome di un ragazzo, che è stato visto allontanarsi con lo zainetto
blu sotto braccio. Ora aspettiamo che si faccia vivo, prima di denunciarlo.

Qui
la gente è povera, abita capanne su palafitte circondate da maialini
grufolanti, ma di notte le luci accendono i colori e le vivaci decorazioni.

Gli
anziani passano il tempo a guardare i ragazzi che giocano a baseball, le donne
hanno tanti bambini, come Barbara, che lavora da noi e ha sei figlie femmine.
Tre hanno già una bimba, e tutte vivono insieme, in una casupola circondata da
alberi esotici, a pochi minuti dalla nostra «Principessa dell’Isola».

Alcuni
isolani lavorano nella fisheries dei Morgan, discendenti del famoso
pirata, o sui pescherecci. Stanno via un mese per la pesca di aragoste e
ritornano con qualche centinaio di dollari, che spendono subito per saldare i
debiti, giocare e bere al bar. A volte raccolgono in mare sacchi di cocaina,
gettati dalle barche dei trafficanti colombiani, quando sono intercettati dalla
polizia.

12 Gennaio

Con
qualche dollaro ho recuperato gli occhiali, grazie ai buoni rapporti di
Alessandro con i vicini. Sua figlia Costanza per anni ha passato le vacanze qui
con i genitori, quindi ha visto l’evolversi della situazione nella società
nicaraguense. Non vuole criticare Ortega, anche se si sente parlare molto di
arricchimenti esagerati dei suoi famigliari. «Questo governo si sta muovendo,
vediamo che prende decisioni per migliorare la vita degli abitanti. Sta
formandosi una classe media, che prima di Ortega non esisteva».

Sono
arrivati altri ospiti. Luca è un giovane ingegnere di Colonia in vacanza con la
moglie medico. Sono stanchi per il viaggio, perché stressati dal lavoro. In
ospedale si lavora 9 ore al giorno e, una volta la settimana, 24 ore. La crisi
colpisce anche la Germania, Luca aveva perso il suo lavoro e ora che ne ha
trovato un altro viene sottoposto a tensioni e orari punitivi.

Stasera
ceniamo insieme nel Comedor di Francis White, con la cucina aperta sulla
strada dell’aeroporto, dove le grasse donne di casa preparano pietanze
sostanziose. I quattro fratelli White sono nerissimi e corpulenti, hanno
ciascuno quattro figli e i due nipotini più piccoli sgambettano tra i tavoli.
Dopo aver gustato un ottimo pesce con salsa caribeña, mi vogliono
mostrare le grandi foto di famiglia, nel salottino dalle tende di pizzo rosa. I
nonni erano arrivati da Puerto Cabeza, un postaccio sulla costa caraibica da
dove provengono quasi tutti i poveri abitanti dell’isola, in cerca di lavoro.
Pochissimi ce la fanno a rimanere, questi invece sembrano ben organizzati.

13 Gennaio

Yellow
tail
è un centro diving (immersioni) molto spartano, con un comedor
che serve gallo pinto e birra e due casette per ospiti, controllate da
due grosse oche. La barriera corallina si trova a cento metri dalla riva, e
nella laguna si possono vedere massi di corallo e pesci tropicali. Gli uragani
ricorrenti devastano anche le barriere e i colori stentano a riprendersi.

Parleremo
della tragedia del 1988 la sera, a casa di Barbara, che ci ha invitato per
gustare un meraviglioso rondon, la zuppa di pesce con latte di cocco,
manioca, platanos (grosse banane), e il delicato frutto dell’albero del
pane. Nella stanzetta con le tende rosa e l’albero di natale di plastica sono
circondata da figlie e nipotine, davanti il piccolo televisore. In quella
accanto, minuscola, sono sistemate le amache per tutta la famiglia. Barbara al
tempo aveva 11 anni e si ricorda bene di quando furono evacuati in fretta su
una nave militare e portati in continente, a Masaya, in una scuola. Al ritorno
trovarono una distesa di fango al posto del villaggio, si affondava fino alle
ginocchia. La sua mamma, aiutata dal maggiore dei 9 figli, piantò pali nel
fango, vi appoggiò le assi e fece un riparo di foglie. Mancava tutto, cibo e
acqua, poi arrivarono gli aiuti con le navi da San Andrés, isola colombiana non
distante da Co, e dagli Usa.

16 Gennaio

Lasciamo
l’isola in un pomeriggio ventoso, con un mare forte che fa rullare i
pescherecci.

La
sera a Managua andiamo in pizzeria e conosciamo il proprietario, un romagnolo
che segue con attenzione i dipendenti. Subito chiarisce la sua situazione. «In
Italia non è possibile lavorare, non ci ritorno più, ho tolto i canali italiani
dal mio televisore». Anche lui ha una giovane moglie e una bambina, mentre il
figlio del primo matrimonio è arrivato da poco per lavorare nel ristorante.
Sono storie comuni in questi paesi, quelle di italiani che, stanchi di un
matrimonio sbagliato, di una moglie anziana e figli esigenti o problematici, si
trasferiscono e cambiano vita. Domani andremo verso Nord, a León, l’antica
capitale rivale di Granada.

 
Claudia Caramanti
(fine prima parte, continua)

Claudia Caramanti




Lenin abita a Tiraspol

Ai confini
dell’Europa / 1: la Transnistria

Regione separatista
della Moldavia, indipendente de facto, la Transnistria è uscita da 23 anni
d’invisibilità in seguito alla guerra in Ucraina e all’annessione della Crimea
alla Russia. Tra la popolazione i sentimenti filorussi sono prevalenti. Mosca
lo sa e per questo non molla la presa.

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Lo scalcinato minibus corre sulla strada rotta. In un cigolio di sospensioni porta ogni giorno i lavoratori da una parte all’altra del fiume Nistru (o Dnestr, in russo). Il ponte sulla strada principale per Tiraspol però non si può percorrere. C’è un blindato della 14.ma Armata russa: la forza di interposizione che da 23 anni sorveglia questo confine inesistente. Il bus deve fare un giro tortuoso prima di arrivare a un posto di frontiera che non dovrebbe esserci. Controlli veloci, divise sovietiche d’antan con grossi cappelli, un timbro con falce e martello sul visto. Quando la frontiera scompare in una nuvola di smog, siamo in Transnistria. E il «paese che non c’è» prende forma in tutta la sua realtà. Un mondo concreto, fatto di case e strade, e di gente che ci vive.

Un oblio lungo 23 anni

Non serve cercarla sulla mappa, perché non c’è. La Pridnestrovskaja Moldavskaja Respublika, per brevità chiamata Transnistria, non è riconosciuta da alcun governo al mondo, eppure ha una sua bandiera, una capitale, una moneta a corso legale e un Soviet supremo. È una sbavatura nella linea retta della storia. Nei giorni in cui l’impero sovietico cominciava a vacillare, una cittadina di provincia della Moldova (Moldavia), Tiraspol, si proclamava capitale di una nuova repubblica socialista sovietica, la sedicesima dell’Urss. Era il 1990, al Cremlino sedeva Gorbaciov e i problemi non gli mancavano. Il presidente fece preparare un decreto di scioglimento della neonata repubblica, ma rimase sulla sua scrivania insieme a mille altre carte. Dopo qualche mese l’Urss non esisteva più. Mentre milioni di ex cittadini sovietici si ubriacavano di libertà e capitalismo, la Transnistria issava la bandiera con falce e martello, la stessa che sventola oggi. La Moldova, anch’essa appena divenuta stato indipendente, ci mise un anno ad accorgersi che quel pezzo di terra oltre il fiume non le apparteneva più. Prima che potesse riprendersela, l’Armata rossa - che non aveva mai abbandonato la regione - imbracciò le armi al fianco degli oltre 300mila russi che vi abitavano. Fu una guerra lampo, morirono alcune decine di persone, poi tutto rimase così com’era. La Moldova non riconobbe mai l’indipendenza della Transnistria. E un lungo oblio avvolse quest’ultima per più di vent’anni. Fino a oggi.

Lo scoppio della rivoluzione in Ucraina ha sottratto di colpo la Transnistria all’invisibilità, portandola all’attenzione dei media inteazionali. Il colpo di mano in Crimea e i ripetuti proclami del Cremlino in difesa della diaspora russa sparpagliata per il mondo post-sovietico, hanno fatto subito guardare a questa piccola repubblica de facto abitata da mezzo milione di persone.

Goveata per vent’anni dallo stesso uomo, Igor Smiov, un politico di provenienza sovietica con due grosse sopracciglia brežneviane, la Transnistria due anni fa ha sorpreso tutti mandandolo in pensione ed eleggendo un giovane presidente, Yevgen Ševčuk. Ex presidente del Soviet supremo, eletto col 75% dei voti, considerato un riformatore, egli rappresenta per molti una speranza di cambiamento. Non sembrano però esserci passi avanti per una soluzione del problema con la Moldova. A dicembre dello scorso anno, all’inizio delle manifestazioni in Ucraina e dei passi di avvicinamento della Moldova all’Europa, Ševčuk ha presentato al Soviet supremo una proposta di riforma costituzionale per importare nel piccolo paese l’intero corpus legislativo russo. Un passo importante per portare «la Transnistria all’interno di un unico mondo russo che favorisca gli interessi geopolitici della Russia per la stabilità in tutta la regione», secondo le sue parole. Già nel 2006 il popolo transnistriano si era espresso in favore dell’unione con la Russia in un referendum plebiscitario: i sì erano stati più del 97%. È chiaro che il referendum di marzo in Crimea (e la sua successiva annessione da parte della Russia) abbia risvegliato gli animi anche a Tiraspol.

Mamma Russia è interessata

Il minibus scarica i suoi passeggeri davanti alla stazione. Tiraspol si trova sulla linea ferroviaria tra Chişinău e Odessa, un tragitto pensato prima che nuove frontiere rendessero il viaggio uno stillicidio di fermate e controlli. Sono pochi gli stranieri che si avventurano fino qui, a parte nostalgici dell’Urss e amanti di viaggi insoliti. Di norma li trovi tutti alla caffetteria Seven Fridays, sulla via intitolata alla Rivoluzione d’ottobre. Nonostante la posizione centrale, non c’è da fare la fila per una tazza di tè. I camerieri sono più dei clienti ed è difficile che le cose cambino finché lo stipendio medio continuerà a essere tra i più bassi d’Europa, inferiore ai 100 dollari. Una fetta di torta vale una giornata di lavoro. E la Moldova non se la passa meglio. È chiaro che, se l’Europa appare lontana, la Russia sembra l’Eldorado. Così, la voce che in Crimea si sono visti raddoppiare lo stipendio da un giorno all’altro dopo l’annessione corre veloce fino a Tiraspol.

Di recente le visite del rappresentante speciale del Cremlino per la Transnistria, Dmytri Rogozin, si sono intensificate. «Noi non solo seguiamo la situazione: ma in base al suo sviluppo prenderemo le misure necessarie. Vi abbiamo aiutato e vi aiuteremo», ha detto durante l’ultima parata del Gioo della Vittoria (la più grande festa russa, in cui si celebra la vittoria contro i nazifascisti durante la Seconda guerra mondiale) che si è tenuta a Tiraspol. Ma per il momento il paese non è riconosciuto dalla comunità mondiale. E l’unico organismo internazionale di cui fa parte - insieme all’Abcasia e all’Ossezia del Sud - è una comunità degli stati non riconosciuti, anch’essa priva di alcuno status giuridico.

Falce e martello

Tiraspol interpreta il ruolo di capitale con un pizzico di pretenziosità. È una cittadina sonnolenta che tra i suoi problemi non ha certamente il traffico né la frenesia della vita modea. La sua architettura piatta e anonima è animata da una magniloquente retorica pseudosocialista, che non la ha mai abbandonata dai tempi sovietici. Un busto di Lenin davanti alla Casa dei Soviet, su cui sventola il bicolore con falce e martello; un tazebao con le foto degli eroi locali, cosmonauti, generali dell’Armata rossa, alti papaveri della nomenclatura - c’è anche l’ex presidente Smiov - di fronte all’hotel «Amicizia»; e un grande Lenin di granito, solido e filante come un supereroe dei fumetti, che sembra prendere il volo davanti al palazzo presidenziale. A parte queste, non ci sono poi tante attrattive turistiche a Tiraspol, se non si vuole considerare tale la gloriosa distilleria di brandy «Kvint», riprodotta con orgoglio sulle banconote da cinque rubli.

Due grosse bandiere, una transnistriana e una russa, coprono la facciata del palazzo dell’Università di stato. Qui i nomi delle strade sono in tre lingue: russo, romeno che si parla in Moldova e romeno trascritto in cirillico come su usava ai tempi dell’Urss. Ma la lingua che si sente parlare per strada è il russo, e nelle scuole non si insegna quasi più il romeno. La Transnistria ha avuto il suo momento di notorietà in Italia grazie al film di Gabriele Salvatores Educazione siberiana, tratto dal best seller dello scrittore transnistriano - naturalizzato italiano - Nicolai Lilin. Nel suo libro Lilin racconta un paese sotto il controllo dei criminali, con una polizia violenta e corrotta e bande in continua lotta tra loro. È difficile dire quanto ci sia di vero, anche se, al di là del romanzesco, le polizie di mezzo mondo conoscono la Transnistria come «il buco nero d’Europa». Certo è che i vent’anni di regno di Smiov hanno garantito una gestione oscura della cosa pubblica, ed è immaginabile come uno stato al di fuori di tutte le reti inteazionali e a metà strada tra Europa e Russia possa diventare crocevia di traffici illeciti.

La quasi totalità delle attività commerciali è monopolizzata da un’unica società, la Sheriff, che possiede supermercati e distributori di benzina, tivù e alberghi, oltre che la locale squadra di calcio e il nuovissimo stadio da 160 milioni di euro (www.fc-sheriff.com). La Sheriff è uno stato nello stato, i suoi vertici sono membri del Soviet e la società stessa ha finanziato per due decenni Smiov, prima di decidee la caduta appoggiando Ševčuk. Uno dei primi provvedimenti del nuovo presidente è stato però quello di abolire tutti i privilegi della Sheriff, il che lascia intuire il livello di commistioni e lotte tra il potere politico e quello economico.

Nostalgia e speranze

Sotto il monumento ad Alexander Suvorov, il generale russo che fondò la città nel 1792, alcune vecchie babushke (nonne) vendono su teli stesi per terra poveri oggetti di casa: un centrino, dei mestoli di legno, un paio di scarpe logore, qualche vecchia medaglia sovietica. Gli anziani sono probabilmente la classe sociale che se la passa peggio in Transnistria. Le pensioni sono ridotte al lumicino e lo stato sociale è insufficiente a garantire il loro benessere. Non possono emigrare, come hanno fatto e continuano a fare in molti, né andare a lavorare a Chişinău ogni giorno. È soprattutto tra queste anziane donne - chissà perché tutte sopravvissute ai loro mariti - che si radica il più profondo sentimento filorusso, che nasce soprattutto dalla nostalgia per il passato mista al ricordo di un livello di vita migliore.

Alcuni ragazzini fanno lo slalom tra le mercanzie con i loro skateboard. I giovani, in fondo, non se la passano tanto meglio. La vita qui non è il massimo, gli svaghi sono pochi e a sera la città cala in un buio silenzioso. Alcuni si ritrovano nella pizzeria Andy’s. Una margherita costa 70 rubli transitriani, bisogna dividerla e farla durare. Anna lavora qui, ma vorrebbe andare a vivere in Europa. «Adesso forse potrò, ora che per i cittadini moldavi non c’è più bisogno di visto. Lavoro, metto i soldi da parte e poi si vedrà». Anna ha il passaporto moldavo, ma non solo. Ne ha anche uno russo e uno transnistriano, ma quest’ultimo è poco più di un souvenir, proprio come i rubli che stampa la banca centrale di Tiraspol. «Non serve a niente, non è buono per nessun paese».

Anna si dice russa, perché russi sono i suoi genitori e russa la sua lingua. È una condizione comune a molti: il primo passaporto lo hanno avuto con l’indipendenza della Moldova dall’Urss, poi quello transnistriano dopo la breve guerra civile, infine quello russo per diritto di sangue. È un lungo filo rosso che lega Tiraspol a Mosca. Alle scorse elezioni presidenziali in Russia, quando furono aperti dei seggi anche qui, Ševčuk invitò i transnistriani con passaporto russo a votare per Putin, «per il rafforzamento dell’unione tra la Transnistria e la grande Russia».

Se il piccolo stato al di là del Nistru diventerà parte della grande Federazione russa, si chiuderà un capitolo rimasto aperto dal crollo dell’Urss, ma l’Europa si troverà ad affrontare una nuova annessione di Mosca. Con la Russia alle porte dell’Unione europea, la strada del dialogo sarà tortuosa ma obbligata.

Danilo Elia*

* Danilo Elia, giornalista, collabora con «Osservatorio Balcani e Caucaso» e con altre testate. Si occupa di spazio postsovietico con particolare attenzione all’area slava, Russia, Bielorussia e Ucraina. Autore inoltre di libri di viaggio, ha recentemente pubblicato Intoo al Mare per Mursia. Cura il blog www.daniloelia.it e twitta da
@daniloeliatweet.

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Scheda
Osservatorio Balcani e Caucaso (Obc)

Nato nel 2000, con sede a Rovereto (Trento), l’«Osservatorio Balcani e Caucaso» (Obc) si occupa dei paesi del Sudest europeo e di quelli appartenenti all’area post-sovietica. Segue in totale 26 stati attraverso 50 corrispondenti in loco, che vanno ad aggiungersi a giornalisti, ricercatori e studiosi. L’approccio di lavoro è multimediale e multilingue. Il suo portale web raggiunge un pubblico di oltre 130.000 visitatori unici ogni mese. Oltre ai riconosciuti meriti d’informazione e ricerca, l’Obc presenta altre due peculiarità di rilievo: è finanziato da entità pubbliche (in primis dalla Provincia autonoma di Trento) e lavora in modalità Copyleft.

****

La redazione di MC ringrazia l’Osservatorio per aver accettato la proposta di collaborazione giornalistica sui paesi di un’area tanto culturalmente lontana quanto geograficamente vicina. Con la serie «Ai confini dell’Europa» MC si propone di offrire un’informazione completa e attendibile. Obiettivo ambizioso in un’epoca caratterizzata dall’iperinformazione e troppo spesso da un basso livello qualitativo.

Il sito web di Obc:
www.balcanicaucaso.org

Il sito è in lingua italiana, inglese e serbocroata.

Scheda geopolitica


Transnistria

Una
striscia di terra abitata da moldavi, russi e ucraini.

La Transnistria è una sottile striscia di terra in
territorio moldavo, lunga circa 400 chilometri, delineata a Ovest dal fiume
Nistru/Dnestr e a Est dal confine con l’Ucraina. A chiamarla Transnistria
siamo   solo noi stranieri, perché il suo
nome ufficiale è Pridnestrovskaja Moldavskaja Respublika, cioè «Repubblica
Moldava del Dnestr» o, abbreviato, Pridnestrovie. È uno stato
indipendente de facto dal 1990, anno in cui dichiarò l’indipendenza
dall’Unione Sovietica. È abitata da circa mezzo milione di persone di diversa
etnia. Secondo i dati del censimento effettuato dalle autorità del paese nel
2004, l’ultimo disponibile, la sua popolazione è composta per il 32,1% da
moldavi, il 30,3% da russi, il 28,8 da ucraini, oltre che da minoranze bulgare,
gagauze, ebraiche e polacche. La sua capitale è Tiraspol, situata proprio sul
confine conteso con la Moldova. La sua moneta è il rublo transnistriano, che si
può spendere o cambiare solo all’interno del paese.

L’indipendenza della Transnistria non è stata riconosciuta
da nessun paese al mondo. Insieme all’Abcasia e all’Ossezia del Sud ha
costituito una comunità degli stati privi di riconoscimento. Da oltre vent’anni
si trascinano negoziati di pace con la Moldova, ma nessun passo in avanti è
stato fatto. In Transnistria è tuttora di stanza la 14° Armata russa che svolge
compiti di forza di interposizione. La recente firma dell’Accordo di
associazione della Moldova con l’Unione europea ha fatto riemergere
prepotentemente il problema del piccolo stato ribelle.

Il suo ex presidente, Igor Smiov, che ha guidato il
paese verso l’indipendenza e per i successivi venti anni, aveva dichiarato che
il suo compito si sarebbe esaurito con il riconoscimento internazionale della
Transnistria, ma non ha fatto in tempo a mantenere la sua parola. Il suo
successore, tuttora in carica, Yevgen Ševčuk, si è spinto oltre, dichiarando più volte di voler
favorire l’unione della Transnistria con la Federazione russa. Dopo lo scoppio
della crisi in Ucraina e l’annessione della Crimea da parte della Russia, il percorso
verso l’unificazione ha avuto un’accelerazione. Da ultimo, lo scorso marzo,
alcuni membri del Soviet supremo (il parlamento nazionale) hanno formalmente
fatto richiesta di entrare a far parte della Federazione russa.

Da.El.

La situazione religiosa


Con lo sguardo in alto

(al Patriarcato di
Mosca)

Oltre il 90% della popolazione della Transnistria è di
religione cristiano-ortodossa, appartenente al Patriarcato di Mosca. Una
minoranza cattolica è presente soprattutto nel Nord del paese, dove vive una comunità
di origine polacca. Inoltre è presente anche una piccola comunità ebraica di
corrente chassidica.

Ufficialmente la Transnistria
riconosce la libertà di culto, sancita nella sua Costituzione. La legge prevede
l’obbligo di registrazione per le comunità religiose. Secondo il Dipartimento
di Stato statunitense però le minoranze religiose sono soggette a
discriminazioni e si vedono negata la registrazione. In particolare
rappresentanti della Chiesa battista e dei Testimoni di Geova hanno più volte
denunciato attacchi e discriminazioni da parte delle autorità transnistriane.
Una proposta di legge in senso più liberale nel 2004 è stata fortemente
ostacolata dal vescovo di Tiraspol, Savva.

Periodicamente si verificano anche
atti di intolleranza ai danni della comunità ebraica. Il piccolo cimitero
ebraico di Tiraspol è stato più volte vandalizzato, mentre nel 2004 la sinagoga
è stata data alle fiamme.

Il territorio separatista coincide
con la diocesi di Tiraspol e Dubašari, fondata nel 1998 per riorganizzare la
Chiesa ortodossa nella regione a seguito dell’indipendenza del paese. La
diocesi di Tiraspol e Dubašari fa comunque riferimento al metropolita di Chişinău e di tutta la Moldova, Vladimir (Nicolae Cantarean). È
suddivisa in 104 distretti e due monasteri. Lo scorso anno il patriarca di
Mosca, Kirill, è stato in visita nel paese dove ha incontrato il vescovo Savva
e il presidente Ševčuk.
In quell’occasione ha ricordato il sostegno della Chiesa di Mosca
all’indipendenza della Transnistria.

Da.El.


Tags: Russia, Putin, separatismo, indipendenza, annessione, Patriarcato di Mosca, ortodossi, stati ombra, Transnistria, Moldavia

Danilo Elia




Qualcosa di magico

Storie e volti di radio
/ 2

Gioalista spagnolo,
autore di un noto manuale di comunicazione radiofonica, Santiago García Gago da
oltre 15 anni percorre l’America Latina – Venezuela, Perù, Ecuador, Guatemala –
per fare e insegnare radio in ambito comunitario e indigeno. 

Con una missione:
contrastare gli oligopoli dell’informazione facendo conoscere e diffondendo liberamente
la tecnologia.


Il
manuale di chi vuole fare radio è scaricabile gratuitamente da internet: Manual para radialistas analfatécnicos, che si può tradurre con «Manuale per operatori radio
senza cognizioni tecniche». Il libro è strutturato su 100 domande e risposte
che vogliono servire ad alfabetizzare tecnicamente chi desidera fare radio. Si
tratta di una panoramica completa che spazia dalla spiegazione del suono alla
differenza tra radio Am e radio Fm, dalla descrizione del mixer alla
digitalizzazione dell’audio, dalle nuove tecnologie alla radio online.

Il manuale è nato per aiutare chi è meno rappresentato,
chi non riesce a emergere nell’arena dei grandi mezzi di comunicazione. Per
questo esso ha trovato l’appoggio prestigioso dell’Unesco, l’organizzazione
delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura.

Il suo autore si chiama Santiago García Gago, spagnolo di
Salamanca, da oltre 15 anni vagabondo dell’etere in vari paesi latinoamericani:
Venezuela, Perù, Ecuador e oggi Guatemala, sempre al servizio di emittenti
comunitarie e indigene. È membro dell’associazione Radialistas apasionadas y
apasionados
, una ong latinoamericana (con sede a Quito) il cui obiettivo è
democratizzare l’informazione, in particolare quella radiofonica. Lo abbiamo
raggiunto per rivolgergli qualche domanda.

Santiago, che
significa per te lavorare in radio?

«Più che un lavoro, la radio è una passione. In verità è
un mezzo che mi è piaciuto fin da bambino. Ho sempre desiderato essere un
giornalista. Ho finito per legarmi alla radio, non tanto per la parte parlata
quanto piuttosto per i controlli e la tecnologia. La cosa appassionante di essa
è che ti permette di essere molto più creativo rispetto ad altri mezzi di
comunicazione come la televisione o la carta stampata. In televisione si vede
tutto e dunque c’è poco spazio per l’immaginazione. Anche la carta ha molto
poco margine di manovra. Al contrario la radio possiede qualcosa di magico.

Puoi far parlare un cestino della spazzatura per educare
alla pulizia delle città. Puoi trasmettere dal vivo facendo partecipare molte
persone allo stesso tempo».

Nell’epoca di
internet e della televisione via satellite, gli abitanti dell’America Latina
ascoltano ancora la radio?

«Sì, e anche molto. Non fosse altro perché ancora oggi,
nel continente latinoamericano, l’accesso a internet è un privilegio che
riguarda soltanto il 30-35% della popolazione. La radio tradizionale è
gratuita. Alcune batterie possono durare un anno e consentire alla radio di
tenere compagnia per tutto il giorno. A parte il discorso economico, la radio
presenta alcuni vantaggi rispetto agli altri mezzi di comunicazione. In primo
luogo, essendo eminentemente locale, può adattarsi alle esigenze delle
popolazioni che abitano contesti differenti e parlano lingue diverse. Proprio
per questo si ascolta molto, principalmente in zone isolate e rurali. Si può
dedicare tempo alle notizie locali, parlare la lingua del posto, soprattutto se
le popolazioni sono indigene. Al contrario, le televisioni e internet sono
pensate più per un pubblico di massa e nazionale.

Altro fattore importante è l’accesso al mezzo. Così, ad
esempio, mentre è impossibile o molto difficile portare la televisione o
internet in un autobus (anche quando esista connessione, gli abbonamenti al web
sono ancora molto costosi), la radio ti può sempre accompagnare».

Santiago, proviamo a
parlare della qualità dell’informazione. Oggi il pericolo è quello di un
eccesso di informazione (conosciuto come «information overload», sovraccarico
informativo) e – allo stesso tempo – un pericolo di superficialità. Mi
riferisco in particolare al ruolo assunto e giocato dalle reti sociali (social
networks) come Facebook, Twitter, YouTube, etc. Qual è la tua opinione al
riguardo?

«Credo che i buoni giornalisti continuino ad esserlo
anche nell’epoca dell’informazione digitale. Ciò che invece accade è che i
cattivi giornalisti hanno oggi più opportunità di mettersi in mostra e di farlo
in maniera più importante. Mi spiego. Davanti a una illazione, un giornalista
serio investiga, fa confronti e verifiche prima di lanciare la notizia. I mezzi
digitali consentono di fare informazione in maniera più rapida e profonda. I
cattivi giornalisti – che nell’era predigitale si affrettavano a raccontare la
voce senza verificarla – adesso fanno lo stesso però in maniera più
generalizzata utilizzando le reti sociali. La loro mancanza di professionalità
raggiunge un pubblico ancora più vasto.

Io non credo che il problema sia nelle nuove tecnologie,
ma piuttosto nel modo in cui esse vengono utilizzate. Faccio un esempio.

In precedenza, per conoscere la storia, si faceva ricorso
a una enciclopedia scritta da un gruppo di persone a cui si credeva. Adesso
possiamo cercare in Wikipedia, l’enciclopedia digitale, e avere versioni
differenti di quanto accaduto. Ci sarà chi si accontenterà di quanto racconta
l’articolo di Wikipedia e non cercherà altre fonti, come quelli che prima
leggevano l’enciclopedia e lì si fermavano.

Però coloro i quali già prima, oltre all’enciclopedia,
andavano a consultare altri libri, oggi andranno a cercare i collegamenti verso
altre fonti e i rimandi degli articoli per approfondire di più.

In definitiva, internet aiuta a essere più superficiali
coloro che già lo erano. Allo stesso tempo, aiuta chi
realmente vuole investigare, approfondire, comprendere. Mai nella storia
dell’umanità si è avuta tanta informazione a propria disposizione. L’uso che di
essa facciamo dipende da ognuno». 

Nonostante la
proliferazione dei mezzi informativi, persiste la tendenza alla concentrazione
dei mezzi più influenti in poche mani (oligopoli). Esiste uno spazio reale per
i mezzi di comunicazione alternativi?

«Come si può parlare di libertà di espressione o di
democrazia in America Latina quando nella maggioranza dei paesi il 90% dei
mezzi di comunicazione appartiene a una fetta minuscola della popolazione? Questa
concentrazione è stata smisurata però si stanno intravvedendo cambiamenti
promettenti. In vari paesi, nel corso degli ultimi 10 anni, sono state
approvate norme di legge che favoriscono l’accesso di comunità e organizzazioni
alle frequenze di radio e televisione. Oggi, tra gli altri, Argentina, Uruguay,
Bolivia, Venezuela, Ecuador, Colombia hanno leggi che riservano o dividono lo
spettro radioelettrico tra i diversi mezzi di comunicazione: comunitari,
pubblici e privati.

Questo ha consentito a molte radio e televisioni
comunitarie di accedere a una frequenza. Tuttavia manca ancora molto. Ribaltare
tanti anni di oligopolio in così poco tempo non è facile. La cosa buona è che i
paesi riformatori non stanno abbandonando questa linea».

I mezzi di
comunicazione piccoli o alternativi quasi sempre hanno problemi economici. Cosa
si può fare?

«Credo che questa domanda se la pongano ogni giorno tutti
i mezzi alternativi. Non è facile dare una risposta. È certo che queste radio
sono nate senza fini di lucro. Questo però non significa che esse non possano
trasmettere pubblicità e fare “commercio”, perché di qualcosa debbono pur
vivere, almeno per riuscire a pagare le bollette della luce.

Credo che i mezzi alternativi debbano utilizzare gli
stessi metodi per raccogliere denaro di qualsiasi altra radio. Soltanto gli
scopi per cui lo fanno debbono rimanere distinti. Però questo esige che le
radio alternative e i piccoli comunicatori entrino in una logica di competizione,
che pare suscitare paura. Qualcuno ha messo nella testa di questi mezzi di
comunicazione che non debbano competere, che non debbano entrare nella logica
“commerciale”. Io non sono d’accordo. Da quando abbiamo preso in mano il
trasmettitore siamo entrati in competizione con le altre radio per raggiungere
più ascoltatori. Perché non farlo anche sul terreno pubblicitario? Ovviamente
ci saranno clienti commerciali, come Monsanto, che non ci interesserà
pubblicizzare. Per questo si dovrà lavorare ragionando su una base etica e
coerente, ma pur sempre muovendosi in una direzione di competizione, anche
commerciale. L’idea è fare soldi affinché il nostro mezzo possa pagare le
fatture. Non per produrre profitti, ma semplicemente per sopravvivere».

Che ruolo possono
avere le radio alternative nel campo dei diritti umani e dei popoli originari?

«I gruppi di potere che posseggono la maggioranza dei
mezzi di comunicazione nel mondo non sono interessati ai diritti umani o ai
popoli originari. Le loro priorità sono altre: l’obiettivo è fare denaro. Oltre
a possedere i mezzi d’informazione, questi gruppi di potere posseggono le
banche o sono amici delle multinazionali (dei semi, del petrolio o delle
miniere). Imprese – e ci sono centinaia di casi che lo dimostrano – che passano
sopra la testa della gente pur di fare soldi. Ciononostante i mezzi
d’informazione commerciali non si interessano di queste ingiustizie e non le
riportano. Men che meno danno voce ai contadini, agli indigeni, alle donne. Gli
unici mezzi che aprono i loro microfoni a queste persone sono le radio
alternative. Senza di esse, i silenziati del sistema non avrebbero canali per
farsi sentire».  

Nel prologo del tuo
manuale José Ignacio López Vigil (autore, tra l’altro, di un altro conosciuto
manuale per le radio) parla di «democratizzare la tecnologia». È questo lo
scopo del tuo volume?

«Quando lavoravo a Puerto Ayacucho, nella regione
amazzonica del Venezuela, mi resi conto che il tema della tecnologia stava
avanzando molto rapidamente. Vidi che, se prima era il tecnico della radio che
conosceva e sistemava i retroscena tecnici, adesso giornalisti e annunciatori
lavoravano con la tecnologia tutto il tempo. Usando la console, editando i loro
audio, navigando in internet. Il problema era che – se succedeva qualcosa –
essi non sapevano cosa fare. Per questi motivi mi decisi a scrivere il manuale:
per avvicinare alla tecnologia la gente della radio in generale, non soltanto i
tecnici. Per raggiungere lo scopo ho cercato di scrivere un testo molto chiaro
ma allo stesso tempo piacevole».

Sul prezioso sito di Radialistas
ho trovato, tra le tante cose, una serie radiofonica dedicata a una rilettura
del Vangelo. Che cosa puoi raccontarci al riguardo?

«Rispetto a “Un tale Gesù” (Un Tal Jesús),
la serie ideata e scritta dai fratelli María e José Ignacio López Vigil, io non
ricordo molto dato che a quei tempi ero piccolo e vivevo ancora in Spagna. Fui invece più vicino a Maria e José durante la
“seconda parte” di quella serie, quella che essi titolarono “Un altro Dio è
possibile” (Otro Dios Es Posible). La prima serie fu molto perseguita
dalla gerarchia della Chiesa cattolica. Era l’inizio degli anni Ottanta, i
tempi della Teologia della liberazione e del Vaticano II in pieno vigore. I
fratelli Vigil dovettero ritirarsi dalla Chiesa perché la loro visione
rinnovatrice e di liberazione contrastava con quella della gerarchia. Entrambi
servivano in luoghi poveri e umili e credevano che questo Gesù giusto, vicino,
divertente e di caagione scura (moreno) poteva aiutare la gente a
uscire dalla miseria. Quella non era però la forma in cui la gerarchia
intendeva il Regno. I fratelli Vigil abbandonarono quindi gli abiti religiosi
che indossavano (José Ignacio era un gesuita, Maria una suora, ndr). La
loro serie radiofonica Un Tal Jesús provocò la chiusura del Serpal (Servicio
Radiofónico para América Latina
). La cosa che più dava fastidio era che Gesù
era descritto fuori dai canoni consueti: con la pelle scura e come una persona
scherzosa, divertente, ballerina. Secondo me, quella serie racchiude un
profondo sentimento teologico liberatore. È un Gesù nel quale si può credere.
Un dato va ricordato: ancora oggi le 144 puntate del programma vengono
scaricate quotidianamente dal web e la gente continua ad avvicinarsi al moreno».

Santiago, per
chiudere questa nostra conversazione, che cosa vorresti fare per migliorare le
radio e il loro ruolo nell’ambito della comunicazione?

«In questo momento siamo molto impegnati nel tentativo di
far comprendere alle radio e ai mezzi alternativi l’importanza di internet e
delle nuove tecnologie. E stiamo lottando perché esse siano libere. Anche per
questo abbiamo aperto il sito radioslibres.net. Un progetto che cerca di
discutere e formare in software libero. E cerca di spingere le radio a utilizzarlo
e allo stesso tempo a diffondere la filosofia della cultura libera e della
conoscenza aperta. Per dirla in altri termini, stiamo tentando di trarre
vantaggio dalle nuove tecnologie partendo da un’idea di libertà».

Paolo Moiola
(fine
seconda puntata – continua)
Siti per radio (e ascoltatori) alternativi:
www.radialistas.net
www.radioteca.net
www.analfatecnicos.net
www.radioslibres.net
 

Da questi siti è scaricabile l’audio di moltissimi programmi
radio. Sono inoltre scaricabili gratuitamente sia il Manual para radialistas
analfatécnicos che la versione scritta dei programmi radiofonici
Un
tal Jesús. La Buena Noticia contada al pueblo de América Latina e Otro Dios es posible. I tre volumi sono in formato PDF e in lingua
spagnola.


Tags: informazione, radio, oligopoli informativi, mezzi di comunicazione, nuove
tecnologie, radio comunitarie, radio indigene, software libero

Paolo Moiola




Forse Darwin piangerebbe

Viaggio in Cile / 3

Anche a Chiloé il
modello del libero mercato è stato deleterio. Il supersfruttamento del mare ha
prodotto pesanti conseguenze sulla fauna ittica e sui pescatori artigianali,
schiacciati dalle grandi imprese. Ecco perché, se Charles Darwin tornasse a visitare
l’arcipelago cileno, forse non ne sarebbe entusiasta.


Ancud (Chiloé). Era il giugno del 1834 quando nel piccolo porto di Ancud attraccò
il «Beagle», un veliero della marina militare britannica che trasportava un
giovane naturalista inglese destinato a grande fama, Charles Darwin1.

Ancud
è la prima cittadina che s’incontra dopo aver attraversato il canale di Chacao.
Dai tempi della visita di Darwin questi luoghi sono rimasti relativamente
tranquilli. Ciò che, in quasi due secoli, è cambiato in toto (e in peggio) è
l’ecosistema, sia sulla terraferma che in mare.

Il mare depredato

Nel
porticciolo sono ormeggiate alcune imbarcazioni. La maggioranza sono barche a
motore di piccole dimensioni. Di solito il loro equipaggio è composto di
quattro uomini: tre vanno sott’acqua e uno rimane a bordo. Alcune imbarcazioni
sono appena rientrate in porto. Le operazioni sono veloci. Si scaricano a terra
i sacchi carichi di mariscos (frutti di mare, ndr) che vengono
subito pesati.

Un
uomo robusto, con barba e occhiali s’aggira per il porto. Osserva, parla con
tutti. Scopriamo subito che è il principale acquirente di prodotti ittici di
Ancud.

Ci
presentiamo e lui risponde con gentilezza, pur non smettendo mai di seguire le
attività che si svolgono attorno. Si chiama Alejandro Meda.

«Compro
tutto ciò che arriva in porto – racconta -: mariscos oppure luga roja
(un tipo di alga, ndr)2 come
questa che vedete nel camion. È molto richiesta, soprattutto dall’estero. Gli
Stati Uniti ad esempio ne comprano in gran quantità. Le acque di Ancud non
offrono tanto. Per pescare dell’altro, occorre andare al largo, dove si trova
il merluzzo».

Alejandro
è un commerciante e dà l’impressione di saperci fare, ma appena gli facciamo
una domanda sulla situazione della pesca dipinge un quadro a tinte fosche. «Il
mare non sta offrendo molto perché è stato sfruttato troppo. Un tempo le
imbarcazioni arrivavano piene di pesce. Ora arrivano con molto meno, forse un
terzo. Per questo i pescatori artigianali stanno diminuendo. Non occorrono
tante ricerche: basta guardare al numero di barche in porto, che è in costante
riduzione».

Con
il nostro accompagnatore entriamo nel magazzino dove sono raccolti sacchi di almejas
(vongole, ndr), che a noi profani sembrano giganti. «Anche la quantità
di almejas raccolte – ci spiega Alejandro – si è ridotta drasticamente
nel corso degli ultimi anni. In questo periodo poi il loro prezzo è raddoppiato
a causa dello sciopero contro la nuova legge sulla pesca». Secondo la
maggioranza dei piccoli pescatori artigianali la legge del febbraio 2013, lungi
dal migliorare la sostenibilità dell’attività, continua invece a favorire le
imprese industriali.

Lasciamo
Alejandro Meda e Ancud per dirigerci più a Sud, verso Castro.

I disastri della
salmonicoltura

Davanti alla banchina del piccolo porto di Dalcahue, a pochi
chilometri da Castro, incontriamo Victor. Giovane e gentile, ha una piccola
bancarella di choritos (Mytilus chilensis, un tipo di mollusco, ndr)
posta quasi sull’uscio di casa sua. È un pescatore artigianale, ma i mitili in
vendita non li ha pescati lui. «La mia barca è lì sotto», dice indicando con la
mano la spiaggetta sottostante. Victor ci parla del salmone e dei danni che la
sua produzione intensiva ha provocato. Dopo la crisi del 2007, dovuta alla
diffusione del virus Isa, le imprese – quasi tutte straniere (norvegesi,
canadesi e giapponesi) – hanno licenziato migliaia di lavoratori. «Oggi la
produzione è in ripresa, ma i problemi rimangono. A cominciare
dall’uso scandaloso degli antibiotici», spiega Victor.

I dati confermano la gravità della situazione. È stato calcolato
che nel 2013 le industrie salmoniere del Cile hanno utilizzato tra i 150 e i
230 grammi di antibiotici per tonnellata di salmone prodotto. Nelle imprese
norvegesi e canadesi la media normale è tra i 5 e i 50 grammi per tonnellata3.

Tutto torna. Qualche anno fa, durante un altro viaggio a Chiloé,
riuscimmo a visitare in mare aperto, a poche miglia dalla costa, un impianto di
salmonicoltura. Era una struttura galleggiante composta da vasche delimitate da
reti in cui il salmone veniva allevato e ingrassato (queste strutture sono
chiamate balsas-jaulas). In quell’impianto vedemmo sacchi di cibo per
l’ingrasso dei pesci ma anche borse di antibiotici pronti a essere gettati in
acqua. Senza essere esperti, capimmo subito le potenziali conseguenze negative
di queste «fattorie di salmoni». Enormi quantità di cibo, farmaci, feci si
disperdono nelle acque con effetti devastanti sull’ambiente marino.

Dopo aver accettato di mangiare (con qualche timore, in verità) un
chorito crudo offerto da Victor, lo salutiamo. Pochi passi e incontriamo
un altro pescatore, che sta facendo ordine su un piccolo peschereccio. Si
chiama Milo. Capelli biondi e occhi azzurri, l’uomo racconta di avere origini
russe. Pare assai meno coinvolto di Victor. La sua visione critica si limita al
proprio orto. Milo dice che è stanco di lavorare così e che in mare ci sono
troppi incidenti. Vorrebbe imbarcarsi su una grande nave da pesca. «Per girare
il mondo. E poi ti pagano 1.500-2.000 dollari al mese e non hai spese», spiega.

A Castro incontriamo Mauricio Muñoz, giornalista presso il
quotidiano La Estrella. Mauricio ci conferma quanto finora raccolto. «Oggi
le salmoneras hanno ripreso a lavorare. I controlli sono molto più
severi di un tempo, ma la minaccia di problemi sanitari è sempre latente».

Dopo la Norvegia, il Cile è il secondo produttore mondiale di
salmone. La domanda di questo prodotto è in costante crescita e dunque
l’attività della salmonicoltura risponde alle richieste del mercato. Un settore
che muove miliardi di dollari non si ferma davanti a problemi ambientali o
sanitari, per quanto gravi essi possano essere. Come quasi sempre accade quando
si lascia carta bianca all’economia di mercato, la questione dell’allevamento
dei salmoni si è trasformata in una lotta tra poveri, in questo caso tra
salariati delle salmoneras e pescatori artigianali. «Capisco gli uni e
gli altri – conclude Mauricio -. D’altra parte, quando butti in mare quantità
di alimenti artificiali per ingrassare i salmoni, si produce contaminazione. E
l’effetto domino è assicurato».

La speranza sta nella balena

Nel 1859, nella prima edizione del celeberrimo «L’origine delle
specie», Charles Darwin parlò anche delle balene, che potè ammirare proprio
durante i suoi viaggi nei mari del Sud America.

Oggi, proprio sul passaggio di questi splendidi cetacei, nelle
acque dell’arcipelago di Chiloé si è sviluppato un turismo naturalistico di
grande attrazione (e molto redditizio). Come al parco marino di Puñihuil, a 30
chilometri da Ancud. Queste attività turistiche potrebbero fungere da
catalizzatore dell’opinione pubblica internazionale sui problemi del mare e del
suo sfruttamento insensato.

In altre parole, alla fine un aiuto insperato potrebbe venire da
pinguini, delfini e balene, che ancora frequentano i mari di Chiloé. Almeno
fino ad oggi.

 
Paolo Moiola
(terza e ultima puntata)
 
Note
1 – Il diario di viaggio di Charles Darwin è raccontato nel libro The Voyage of the Beagle, pubblicato nel 1839.

2 – La luga roja – il cui nome scientifico è «Gigartina skottsbergii» – trova impiego in svariati
campi, dall’alimentare alla cosmetica.

3 – Dati riportati dalla «Fundación Terram» (www.terram.cl).

Breve cronologia di Chiloé

1553 – Il capitano Francisco de Ulloa, dietro comando di Pedro
de Valdivia, il conquistatore del Cile, tocca le isole dell’arcipelago di Chiloé.

1558, 28 febbraio
– García Hurtado de Mendoza prende
possesso delle isole per conto della Corona di Spagna.

1767 – 1771 – I gesuiti, primi evangelizzatori di Chiloé e ideatori
delle tipiche chiese in legno, vengono espulsi dalle Americhe e da Chiloé
(1767). Nel 1771 il loro posto viene preso dai francescani.
1826
Ben 8 anni dopo l’indipendenza del
Cile (1818), anche Chiloé si unisce alla repubblica cilena.

1834, giugno – Charles Darwin arriva per la prima volta a Chiloé.
Il «Beagle» getta l’ancora nel porto di Ancud.
1960, maggio – Si verifica il più
forte terremoto mai registrato sulla Terra. Noto come «terremoto di Valdivia»,
ha una magnitudo superiore a 9 gradi.
2000 – L’Unesco dichiara 16
chiese in legno di Chiloé «Patrimonio dell’umanità».
2007, giugno – Gli allevamenti di
salmone di Chiloé vengono colpiti dal virus Isa (Infectious salmon anemia),
provocando il crollo della produzione e dell’industria collegata.

2013, 9 febbraio – Entra in vigore la
nuova legge sulla pesca (n. 20.657). Anche a Chiloé ci sono proteste dei
pescatori artigianali.
2013, maggio – In varie parti
dell’arcipelago si tengono manifestazioni popolari per chiedere un sistema di
salute dignitoso.
2014, 28 aprile – La comunità huilliche
ricorre alla giustizia contro la costruzione del megaponte che – attraverso il
canale di Chacao – dovrebbe unire il continente (Puerto Montt) con Chiloé.

A colloquio con mons.
Juan María Agurto Muñoz

Da patrimonio di
Chiloé a patrimonio dell’umanità

Le chiese in legno
dell’arcipelago di Chiloé sono divenute un simbolo a livello internazionale. Ma
testimoniano anche un forte retaggio culturale, ricordando a tutti quanto può
apportare la collaborazione gratuita di una comunità (nota come «minga»). Di
questo e di altro abbiamo parlato con mons. Juan María Agurto Muñoz, vescovo di
Ancud.

Ancud (Chiloé). L’appuntamento è presso l’ex Convento
dell’Immacolata Concezione. Qui ha sede la
«Fondazione Amici delle Chiese di Chiloé» (Fundación Amigos de las Iglesias
de Chiloé
). Nella ex cappella l’organismo ha allestito un piccolo ma
prezioso museo dove i visitatori possono capire la storia e le tecniche della
scuola di architettura in legno di Chiloé, da cui sono nate le chiese
dell’arcipelago.

Mons. Juan María
Agurto Muñoz è vescovo dal 2002: prima come coadiutore di mons. Juan Yse de
Arce, poi dal 2005 come vescovo titolare. Per l’intervista si accomoda in un
contesto molto appropriato: davanti a una parete su cui sono appese una sequela
di foto delle chiese di Chiloé. Oggi nell’arcipelago sopravvivono – stando ai
dati della Fondazione – circa 70 chiese in legno, 16 di esse sono state
dichiarate «patrimonio dell’umanità».

Monsignore, il nome di Chiloé deriva
da un termine huilliche. Cosa rimane oggi dei popoli originari di questo
arcipelago?

«Una volta era
vergognoso ammettere le proprie radici indigene, oggi per fortuna è vero il
contrario. Quando gli spagnoli arrivarono a Chiloé, c’erano dei popoli
originari: Chonos, Cuncos e soprattutto gli Huilliches, che vengono considerati
i Mapuches del Sud, quelli relazionati con il mare (anche se – a essere sinceri
– molti Huilliches non vogliono essere assimilati ai Mapuches). Purtroppo
questa diversità culturale non è stata ancora accettata dalla nostra
Costituzione. Sarebbe un passo fondamentale per la riconciliazione e
l’eguaglianza nel paese. Per dirla con uno slogan, occorre coniugare la
diversità nell’unità. Per quanto mi riguarda, io sono un meticcio, una mescola
di sangue spagnolo e mapuche».

In un arcipelago come quello di
Chiloé le problematiche della salute e dell’educazione sono ancora più sentite
che nel resto del paese…

«Chiloé è
frammentata in un insieme di isole. Per chi vive nelle isole più piccole andare
ai centri di salute è una grande sfida, soprattutto nella stagione fredda. Debbono recarsi agli ospedali di Castro o di
Ancud o a Puerto Montt, sul continente, se c’è necessità di un controllo
particolare. Nel maggio 2013, a Quellón, ci sono state proteste per reclamare
una sanità degna. A partire da lì si sono organizzate manifestazioni in tutta
l’isola. Quanto all’educazione, qui abbiamo strutture universitarie minime. La
maggior parte dei nostri giovani debbono andare via da Chiloé per poter
studiare. E poi magari non ritornano più. Sicuramente nell’arcipelago c’è la
necessità di migliorare in maniera sostanziale i servizi per la salute e
l’educazione».

In questo edificio è ospitato il
museo e il centro visitatori delle chiese in legno di Chiloé. Ironia del
destino la cattedrale di Ancud è una costruzione modea…

«Nel maggio
1960 qui ci fu il più forte terremoto mai registrato sulla terra: con una
magnitudo superiore a 9 gradi (terremoto di Valdivia o Grande terremoto cileno,
ndr). La cattedrale di Ancud, che era stata costruita nel 1907, fu tanto
danneggiata che si preferì raderla al suolo. Le tragedie naturali hanno
influito sul carattere cileno, abituandolo a reagire, come accadde ad esempio
con il regime militare».

La natura è certamente
imprevedibile, ma troppo spesso i disastri ambientali hanno cause umane. Com’è
la situazione dell’arcipelago?

«Sulla fine
degli anni Settanta il
vescovo Juan Yse de Arce riuscì a far sì che la comunità fermasse un progetto
di disboscamento (denominato Astillas) che avrebbe reso desolata l’isola. Ancora oggi i boschi
di Chiloé sono troppo sfruttati, addirittura come legna da riscaldamento.
Purtroppo, il rinnovo del patrimonio boschivo è molto più lento del consumo.
Quanto al mare, alcuni anni fa abbiamo sofferto di una grave crisi nella
coltivazione del salmone provocata da un virus. Per questo oggi esigiamo una
salmonicoltura che abbia un maggiore rispetto dell’ambiente marino. Detto
questo, la coscienza civica deve crescere in tutti. Quando faccio le mie visite
pastorali nelle isole, vedo spiagge piene di materiale plastico».

Rimanendo in tema di mare, qui ad
Ancud ma anche a Dalcahue e a Castro abbiamo parlato con piccoli pescatori.
Sono tutti arrabbiati, delusi, preoccupati…

«Capisco i
pescatori. Quando li incontro nelle feste – per esempio in quella di San Pedro
Pescador, il 29 di giugno -, mi raccontano i loro problemi. La legge sulla
pesca riformata prevede quote per ciascuna specie ittica e divieti periodici (vedas)
per preservarle. Il problema fondamentale è che c’è stato un supersfruttamento
da parte dei grandi pescherecci, sia stranieri che cileni. I piccoli pescatori
artigianali hanno problemi a trovare pesci. Adesso poi, con la introduzione di
nuovi limiti e divieti, i piccoli si sentono ancora più vessati e per questo
protestano. Va pure ricordato che l’attività della pesca è anche intimamente
legata al tesoro di Chiloé».

Si riferisce alle chiese?

«Certo. Esse
sono state costruite con la tecnica dei falegnami che fanno le imbarcazioni.
Provate a guardare la volta del tetto: è come il fondo di una barca capovolta».

La loro storia parte da lontano…

«Le chiese
nacquero con la prima evangelizzazione a partire dal 1600: i gesuiti prima, i
francescani poi. Si costruivano come le case cioè utilizzando il legno nativo (alerce,
ciprés de las Guaitecas, coigüe
) e le tecniche di costruzione locali.
Nell’anno 2000 l’Unesco dichiarò 16 di esse “patrimonio dell’umanità”. Si badi
che l’agenzia delle Nazioni Unite non dà denaro: si limita al riconoscimento e
alla certificazione. Dato che ai visitatori non facciamo pagare un biglietto
d’ingresso alle chiese, il nostro autofinanziamento è per ora limitato alla
vendita di ricordini o piccoli servizi ai turisti. I restauri vengono quindi
pagati dallo stato cileno, che si è assunto il compito di proteggere il
patrimonio».

Per lei cosa rappresentano le chiese
di Chiloé?

«Sono un segno
della fede, ma anche dello sviluppo sociale e culturale dell’arcipelago. Esse
sono state costruite attraverso la minga cioè con la collaborazione
gratuita delle comunità. La minga, parola indigena, può riguardare la
costruzione della casa, l’effettuazione del raccolto o una battuta di pesca. Ma
anche la costruzione di una chiesa».

Un’ultima curiosità, monsignore. La
chiesa di San Francisco, a Castro, ha un colore giallo, che definire acceso è
quasi riduttivo. Quella di Tenaun è blu, quella di Caguach rossa. Come si
spiegano queste scelte cromatiche?

«In tanti se
lo chiedono, ma la spiegazione è molto semplice. Dato che qui, per gran parte
dell’anno, dominano il colore grigio delle nuvole e verde intenso della natura,
gli abitanti hanno sempre voluto colori molto vivi per le loro case e anche per
le chiese. Si sono scelti colori contrastanti che risaltino molto. Un ennesimo
esempio di come quella di Chiloé sia una comunità più viva che mai».

Paolo Moiola


Tags: Chiloé, Unesco, pesca, chiese, patrimonio umanità, Charles Darwin, vescovo, Ancud, Juan María
Agurto Muñoz, inquinamento marino, neoliberismo, inquinamento, Cile

Paolo Moiola




Il convento dei rifugiati

Bangui: una
straordinaria storia di accoglienza

Il paese nel cuore dell’Africa
vive una stagione di persecuzioni e caccia all’uomo. Dopo alcuni mesi di
governo dei ribelli Seleka, si sono formate milizie di reazione. In mezzo i
civili, siano essi cristiani o musulmani. Obbligati a nascondersi o fuggire, lasciare
la loro terra. Oppure a morire sotto i colpi di un connazionale. 

Nella
capitale, donne, bambini e uomini si rifugiano dove possono.
Ed ecco che il
convento dei Carmelitani Scalzi si trasforma in uno dei campi profughi più
grandi e meglio gestiti. E i frati diventano dei grandiosi operatori di vita e
di speranza.


di Federico Trinchero, Marco Bello e Silvia C.
Turrin
________________________________________________

Bangui, 5 Dicembre 2013

Come penso abbiate già
saputo, oggi la situazione a Bangui è improvvisamente precipitata. Anche per
noi qui è difficile capire cosa stia veramente succedendo. Ci sono stati spari,
morti e saccheggi in quasi tutti i quartieri.

Al Carmel (il convento dei
Carmelitani) stiamo ospitando più di 500 persone. È difficile contarli tutti.
Provengono da diversi quartieri. La maggior parte sono bambini piccoli con le
loro mamme. Ma ci sono anche tanti ragazzi.

Siamo riusciti a dare un po’
di cibo caldo a quasi tutti. Gli studenti e i novizi si sono dati da fare senza
tregua. Ora la gente sta dormendo nel cortile tra la chiesa e il refettorio.
Sappiamo che la situazione è analoga in altre parrocchie e comunità religiose
della capitale.

6 Dicembre

La notte è passata abbastanza
bene per i nostri 600 graditissimi ospiti. Dopo la Messa delle 6 e 45 molti
ripartono per rientrare nelle loro abitazioni. Il coprifuoco è infatti
terminato. Provo a fare colazione, ma mi chiamano al portone d’ingresso. La
gente corre verso il convento. È il panico. Nel quartiere si spara. Li
accogliamo a braccia aperte. Li sistemiamo come meglio possiamo, anche se la
poggia, a un certo momento molto forte, rende tutto più difficile. Moltissimi,
ovviamente, sono bambini. Per fortuna c’è solo un ferito. Provo a contarli
discretamente, perché non vorrei mai che qualcuno pensasse che non ci sia posto
per lui. Sono quasi 2.000.

Telefoniamo all’arcivescovo,
in nunziatura, all’ambasciata francese per informarli della nostra situazione e
chiedere se ci possano dare una mano per nutrire la gente. Ma comprendiamo che
non siamo gli unici a vivere una situazione del genere. Attraversare la città
per venire qui da noi è difficile per tutti. Pazienza, ci organizzeremo
diversamente.

Verso le 10 due caccia
rombanti attraversano il cielo nuvoloso. Sono arrivati i francesi! La gente
applaude. Io quasi piango.

Poco dopo il cielo si
rischiara un po’. Gli uomini rientrano nei quartieri. Restano con noi le donne
e i bambini.

Non ho il coraggio di
chiedere a questa gente la loro storia e il motivo per cui sono qui. Chiedo ai
bambini il loro nome. Uno si chiama Shalom, l’altro Dieu Sauve
cosa volete di più? Le donne sono tutte concentrate a cucinare e a consolare i
loro bambini. I vecchi sono pochissimi. I volti più tristi sono quelli dei
giovani e degli uomini della mia età. Sono esausti. Che futuro li attende? Deve
essere insopportabile avere una voglia matta di ribellarsi e non poterlo fare.

In questi giorni non
riusciamo più a pregare secondo l’orario abituale. Inoltre la nostra chiesa è
ormai occupata da 300 bambini. Ci pensano loro a pregare al posto nostro. I
loro strilli e il loro pianto ininterrotto suppliscono abbondantemente alla
nostra salmodia. Dopo le 17 arrivano altri aerei. Siamo tutti con il naso
all’insù. I bambini non stanno più nella pelle e per qualche minuto dimenticano
la fame. Cose così le hanno viste soltanto nei film, e questa è realtà.

7 Dicembre

Alle cinque siamo quasi tutti
già svegli. Faccio un giro di perlustrazione. Trovo due famiglie nella sala del
capitolo. Poi vado in chiesa. Due bambini hanno pensato bene di mettersi a
dormire proprio sotto l’altare. Questo sì che è sensus fidei dei piccoli: non c’è posto più
protetto di quello. Altri sono addormentati sugli stalli del coro e pregano al
nostro posto. Gli uomini e alcune donne, come ieri, rientrano nei quartieri per
recuperare qualcosa, costatare i danni e, purtroppo, sapere chi è morto. C’è
una bambina che da due giorni cerca il suo papà e la sua mamma. Facciamo un
affido temporaneo alla cuoca che, con suo marito, nostra sentinella, abita
nella nostra concessione. Ha già tre figli e giusto qualche giorno fa le
chiedevo se pensava di fae un quarto. Eccola esaudita! C’è anche un papà con
un bambino di pochi mesi che da due giorni non trova sua moglie. Registriamo i
loro dati e spargiamo la voce. Alla sera il papà ritrova finalmente la moglie.

Alle 9 parte la «nettezza
urbana»… perché circa 2.000 persone che vivono insieme su uno spazio grande più
meno come un campo da calcio, hanno indubbiamente le loro esigenze e qualche
inconveniente. Se dobbiamo essere un campo profughi, lo dobbiamo fare bene. Con
i bambini ripuliamo tutta la zona. Poi in fila indiana ci si lava le mani e in
premio c’è una frittella. Nel frattempo la gente cucina, lava i bambini, fa il
bucato e stende i panni. Anche la rete del campo da pallavolo diventa un comodo
stenditornio. Organizziamo l’accesso all’acqua e ai wc; disinfettiamo con la
candeggina e delimitiamo le zone con la calce.

Cedric, il nostro medico da
campo continua a ricevere gente e distribuire medicine. I casi più gravi sono
nel noviziato. Continuano ad arrivare aerei,
ormai non li contiamo più. Verso le 15 arriva dal
vicario episcopale e dall’Unicef l’ordine di registrare tutti per ricevere
degli aiuti. Ci mettiamo subito al lavoro.

8 Dicembre

Abbiamo un po’ di paura per
gli uomini. Alcuni sono un po’ agitati e covano sentimenti di rancore. Inoltre,
pur essendo i più forti, sono i più minacciati. La Seleka li cerca e li vuole
eliminare. Qui da noi si sentono protetti.

Il numero dei nostri ospiti
supera ormai i 2.100. Per la precisione: 800 bambini con meno di 12 anni
(alcuni di pochi mesi); 600 donne (di cui non poche incinte…) e 700 uomini. Nel
pomeriggio si organizzano delle partite a calcio.

Arrivano anche i primi aiuti
dal nostro insuperabile Youssouf: un sacco di riso, uno di zucchero e un bidone
di olio. Per tutta la giornata andiamo avanti e indietro con la radio accesa
per capire cosa sta succedendo in città. Due elicotteri sorvolano la nostra
zona più volte. Dopo i pasti la nostra (com)unità di crisi fa il punto della
situazione. Condividiamo i problemi e le esigenze dei nostri ospiti,
distribuiamo gli incarichi, cerchiamo nuove soluzioni, moltiplichiamo tutto per
2.000 e speriamo che funzioni.

10 Dicembre

La Croce Rossa internazionale
ci informa che ci sono nella città una ventina di siti come il nostro. Anche
campi da più di 10.000 profughi. Cosa succede esattamente in città è per noi
difficile da capire. In alcuni quartieri è cominciato in modo capillare il
disarmo dei ribelli. Purtroppo ci sono già due vittime nell’esercito francese
venuto a liberarci. Ogni tanto non resisto alla tentazione e faccio un salto in
chiesa. L’altare è circondato da un giardino di visetti neri e occhioni
bianchi. Ma trovo anche Jean, 64 anni, il nostro profugo più anziano che ha
visto tutti i colpi di stato del Centrafrica. Tutti mi chiamano mon père, ma lui si è preso giustamente il
privilegio di chiamarmi mon fils. Ha un piede fasciato e cammina col bastone. Poco prima di cena
riesco a trovargli un letto, un materasso e un cuscino, e lo sistemo nella
stanza del capitolo. Da sei giorni andiamo avanti più o meno così. Stiamo
facendo una cosa che nessuno di noi aveva mai fatto e mai vissuto in vita sua.
Una Ong avrebbe fatto forse meglio, ma sicuramente più tardi. La Chiesa,
invece, è arrivata prima. Anzi: era già qui, non se ne è andata e quasi non si è
accorta di restare. E i poveri hanno capito che venire qui era fare la strada
più corta e andare nel luogo più sicuro.

13 Dicembre

La bella notizia è la visita
inaspettata del nostro coraggiosissimo arcivescovo Dieudonné Nzapalainga. Per
la nostra gente è come se fosse arrivato il papa in persona. Ci ha trovati al
lavoro: chi alla distribuzione del cibo, chi impegnato nella pulizia del campo,
chi intento a sistemare i teloni di plastica contro la pioggia, chi concentrato
a seguire i malati… Il vescovo, venuto con un imam, ha visitato il nostro
campo e poi ha fatto un breve ma forte discorso invitando tutti alla pace, alla
riconciliazione e al perdono. Anche l’imam ha fatto un discorso analogo. Come
potete ben capire, l’intento di questa visita è stato quello di gettare acqua
sul fuoco di uno scontro tra cristiani e musulmani che rischia di incendiare
l’intero paese. Vogliamo, possiamo e dobbiamo vivere in pace insieme. Il nostro
piccolo Carmel vorrebbe essere nient’altro che questo: una scintilla di pace in
un grande fuoco di violenza.

24 Dicembre

Purtroppo venerdì scorso ci
sono stati degli scontri molto violenti in città, in un quartiere piuttosto
vicino al nostro convento. Questo ha provocato un improvviso aumento dei nostri
profughi. Come ogni giorno, verso le 7, ci avviamo verso il luogo all’aperto
dove celebriamo la messa. Lungo il tragitto sentiamo diversi spari, alcuni
molto forti e vicini. Mi domando se non sia più opportuno non iniziare la
celebrazione per evitare il panico. Ma il canto d’ingresso è ormai iniziato.
Gli spari si susseguono senza sosta. Verrà qualcuno a farci del male? Celebro
la messa più lunga della mia vita. Ammiro tuttavia la compostezza
dell’assemblea. Quando gli spari sono più forti, c’è come un sussulto e un
gemito collettivo; ma i nostri fedeli non si schiodano da dove sono.
L’eucaristia che celebriamo è la nostra migliore protezione, uno scudo
impenetrabile. Davvero la nostra unica salvezza. La celebrazione continua, ma
un fiume di gente che corre impaurita, con poche masserizie sulla testa,
raggiunge il nostro sito e ci circonda. Che impressione e che sfida questa
eucaristia inerme nel pieno vortice della guerra! La celebrazione termina e, in
pochi istanti, ci accorgiamo che i nostri ospiti da 2.500 sono diventati circa
10.000. Inizialmente siamo un po’ spaventati e ci domandiamo come potremo
gestire una tale massa di gente. Ma, superato questo iniziale smarrimento e
sensazione di impotenza, comprendiamo che tutto quello che abbiamo vissuto
finora non è stato che un allenamento per l’avventura che ci sta davanti.


17 Gennaio 2014

L’avvenimento più importante è
stato, il 10 gennaio, quello delle dimissioni del presidente Michel Djotodia,
salito al potere con un colpo di stato lo scorso 24 marzo. In tutto il
Centrafrica c’è stato come un grande sospiro di sollievo collettivo. Ma, dopo
qualche ora di gioia e di speranza, la guerra si è di nuovo fatta sentire con
spari, morti, saccheggi e disordini in molti quartieri, alcuni dei quali molto
vicini al nostro convento. I nostri rifugiati, quindi, hanno preferito restare
con noi, in attesa di tempi migliori e di una pace più vera. Secondo le ultime
stime ufficiali un centrafricano su cinque – il che vuol dire quasi un milione
– è attualmente sfollato. Difficile non dare ragione a questa gente, ormai
toppo abituata ai giochi di prestigio della politica.

Restare qui è una forma di
protesta pacifica per esigere al più presto una pace vera e non una pace a metà.

Nel nostro campo rifugiati la
vita procede abbastanza normale… per quanto possa dirsi normale la vita di
migliaia di persone strette attorno ad un convento. È davvero interessante
osservare come la gente si è organizzata per sopravvivere in questa emergenza.
Si è creato addirittura un piccolo mercato di verdura, carne, generi alimentari
di ogni sorta e altre cose utili. Ci sono dei salon de coiffure, piccole farmacie, negozi di
articoli religiosi, una specie di gioco del lotto, buvette e bistrot sempre molto frequentati.

Abbiamo fatto addirittura un
regolamento per aiutarci a vivere meglio insieme di giorno e riposare un po’ di
più la notte. Non è del tutto e sempre rispettato, ma ha la sua utilità, tanto
che altri campi rifugiati l’hanno preso in prestito.

Un intraprendente comitato –
con tanto di presidente, vicepresidente, segretario generale, ecc. -assicura il
trait d’union tra la comunità dei frati e i rifugiati per il
cornordinamento delle attività. E, manco a farlo apposta, è sorto pure il
sindacato per i diritti dei rifugiati. Insomma: attorno al convento ora c’è un
Centrafrica in miniatura con tutti i suoi vizi e le sue virtù. E questa
coabitazione forzata mi ha permesso di conoscere meglio i primi e di apprezzare
di più le seconde.

Nel frattempo, oltre che ai
santi, ci affidiamo ai militari francesi, i quali stanno facendo un meticoloso
lavoro di disarmo e pacificazione tra i diversi gruppi ostili. Proprio pochi
giorni fa, una pattuglia è venuta a farci visita. Il sergente Thierry si è
fermato a parlare con noi per aggioarci sulla situazione. Purtroppo ci sono
ancora gruppi di ribelli che si nascondono attorno alla capitale… e attorno al
nostro convento; ma vi sono comunque segnali concreti di distensione. Speriamo
che abbia ragione. Ci assicura che sono qui per una missione di pace, anche se
hanno addosso degli strumenti che sembrano dire il contrario. Mi fa quasi
tenerezza questo giovane sergente! Prima di essere precipitato qui, tra Seleka
e anti Balaka, è stato in Afghanistan, in Libano e in Mali. Ci racconta che una
notte, su una strada di Bangui, ha dovuto assistere con la sua pattuglia al
parto di una donna: «Solitamente noi militari vediamo la gente morire, quando
non siamo noi stessi costretti a uccidere. Questa volta ci è invece capitato di
aiutare un bimbo a nascere». E poi, un po’ emozionato, mi rivela che da pochi
giorni è diventato lui stesso papà di due gemelli che non ha ancora visto.

13 Febbraio

Il nostro campo profughi ha
ormai superato abbondantemente i due mesi. Davvero, chi l’avrebbe immaginato,
che quelle porte, spalancate il mattino del 5 dicembre dello scorso anno,
sarebbero rimaste aperte per così tanto tempo e che i nostri ospiti si
sarebbero così affezionati al Carmel!

Evidentemente, se sono ancora
qui, sebbene diminuiti, un motivo c’è. La situazione, infatti, stenta a
migliorare in modo significativo. A Bangui non passa giorno, e soprattutto
notte, in cui non ci siano morti, saccheggi e regolamenti di conti. Ma la cosa
ancor più drammatica è che, da diverse settimane, è ormai quasi l’intero paese
a essere teatro di scontri e di violenze senza precedenti.

Se in capitale una certa
presenza militare, soprattutto francese, assicura una relativa tranquillità e
la possibilità di spostarsi senza rischiare troppo la vita, in provincia la
situazione è molto più complessa. Tutta la zona Nord occidentale del paese è
stata a più riprese oggetto di rappresaglie da parte ora dei Seleka ora degli
anti Balaka: saccheggi, uccisioni, tante case e mercati bruciati. Il paese è
entrato nel vortice di una violenza becera che sembra non arrestarsi. Quello
che all’inizio sembrava una lotta per il potere, si è ora trasformato in uno
scontro tra queste due fazioni che hanno avvelenato il paese e mietuto vittime
innocenti. Se i Seleka, e chi li ha sostenuti, sono indubbiamente all’origine
della situazione in cui ci troviamo, gli anti Balaka hanno dimostrato una
violenza pari, se non superiore, a chi li ha preceduti e provocati.

Gli anti Balaka, che non sono
musulmani, non possono dirsi cristiani. Se lo erano, le loro azioni dicono il
contrario. Più volte, infatti, i vescovi hanno denunciato questa violenta
reazione popolare, che i media hanno frettolosamente interpretato come
cristiana. Ma, poiché non sono musulmani, la confusione è stata inevitabile. Ci
consola la consapevolezza che, sebbene tutto ciò sia una vergogna, sono stati
centinaia, forse migliaia, i musulmani che hanno trovato rifugio nelle
parrocchie e nei conventi sparsi nel paese salvandosi la vita. Ma l’esodo di
questa minoranza è ormai cominciato. Tantissimi musulmani – e tra questi anche
alcuni nostri carissimi amici – sono stati costretti a lasciare il paese, pur
essendo nati qui. A ciò si aggiunge un effetto collaterale che renderà ancora
più difficile la già fragile economia del paese. Le poche attività commerciali
del paese – soprattutto, ma non solo, la vendita all’ingrosso e al dettaglio
dei generi alimentari di base – erano infatti in mano ai musulmani. Il futuro
del Centrafrica, anche quello economico, è quindi una vera incognita.

In questo quadro desolante c’è
stato, il 20 gennaio, un segnale di distensione: l’elezione di un nuovo
presidente nella persona di Cathérine Samba-Panza, ex sindaco di Bangui (vedi box). Tale nomina è stata salutata
positivamente dalla comunità internazionale. Cathérine Samba-Panza ha una cosa
alla quale i politici tengono molto e che faceva difetto a chi l’ha preceduta:
il favore popolare. Ciò non toglie che il compito che le sta davanti sia
difficile, quasi impossibile. È ancora presto, allora, per cantare vittoria e brindare
alla pace.

La nuova
presidente ha in seguito nominato un nuovo primo ministro il cui cognome è
tutto un programma: Nzapayeke, che significa «Dio c’è». Un ottimo tandem con il
vescovo di Bangui, il cui cognome, Nzapalainga, significa «Dio sa». Quindi: Dio
c’è e Dio sa. Queste due certezze, che non sembrano mai essere venute meno nel
cuore di tutti i centrafricani, siano essi cristiani o musulmani, sono più che
sufficienti per non scoraggiarci, sentirci al sicuro e andare avanti.

Nel
frattempo è nata una scuola d’emergenza, grazie anche all’iniziativa degli
insegnanti cattolici presenti tra i nostri rifugiati. È sorta nel giardino
delle suore, a pochi metri dal nostro cancello. Il giorno dell’inaugurazione,
seduto sulla poltrona principale, ho ricevuto gli onori degni di un direttore
scolastico di una popolatissima scuola con classi, purtroppo senza banchi e
sedie, che sfiorano i duecento allievi. Mi hanno dato la parola presentandomi
come padre Federico, papà di tutti i profughi del Carmel. In questi giorni, la
gioia più grande è vedere ogni mattina frotte di bambini che sciamano dal
nostro campo, con le loro cartelle griffate Unicef, per raggiungere le loro
classi profumate di plastica… per fare una cosa così normale, così bella e così
giusta come andare a scuola. Io, alla loro età, non mi ero accorto di essere
fortunato perché i giorni di scuola superavano quelli di vacanza. Qui, invece,
da alcuni anni, è purtroppo quasi il contrario.

Se i
bambini non mancano, la nostra fattoria ha subito un duro colpo a causa di
diversi furti. A Bangui i prezzi dei generi alimentari sono a volte addirittura
raddoppiati e la carne è diventata introvabile. Quanto a
bambini, al Carmel non ne sono più nati. In compenso è arrivato Geoffroy, di
circa 12 anni, proveniente da Bossangoa, una città situata a 400 Km a Nord di
Bangui. Geoffroy non ha fratelli, i suoi genitori sono morti a causa di una
granata, e la sua casa è stata incendiata. Accompagnato da militari è arrivato
fino a Bangui. Dopo aver trascorso qualche giorno nel campo profughi
dell’aeroporto – che ospita circa 100.000 sfollati – un moto taxi lo ho
lasciato davanti al cancello del nostro convento senza troppe spiegazioni. E
noi lo abbiamo lavato, vestito, nutrito, cercando di comprendere qualcosa del
suo passato e di trovare una soluzione per il suo futuro. Nel frattempo, senza
troppe difficoltà, Geoffroy si è adattato a usi e costumi del convento, forse
un po’ smarrito per tanta accoglienza da parte di 12 giovani frati, ma felice
di poter dormire in un luogo sicuro.

25 Marzo

Fino a
pochi giorni fa il numero dei nostri profughi si era stabilizzato intorno ai
5.000. Ma, dal momento che in diversi quartieri di Bangui si spara ancora, la
gente, anche quella che aveva provato a rientrare, spesso è costretta a ritornare
da noi. Attualmente potrebbero essere intorno ai 15.000 (il 40% dei quali sotto
i 15 anni). Nella capitale i siti che accolgono profughi sono ancora 59, alcuni
dei quali con molta più gente di noi.

5 Maggio

La guerra non è finita. Ogni
giorno, infatti, sappiamo di uccisioni e rappresaglie nei quartieri della città
o in altre zone del paese. Se la presenza dei militari impedisce che tali
episodi possano degenerare, la situazione resta comunque tesa e incerta. Anzi,
proprio durante la settimana santa, la Chiesa Cattolica si è trovata nel mirino
dei ribelli. A fae le spese è stato dapprima il vescovo di Bossangoa, una
diocesi a 400 Km da Bangui. Per fortuna è stato rilasciato il giorno seguente.
Il venerdì santo, invece, un sacerdote centrafricano, della medesima diocesi, è
stato barbaramente ucciso mentre stava raggiungendo in moto il villaggio di cui
era parroco.

Secondo l’ultimo censimento
effettuato da una Ong il numero dei nostri profughi è sceso e si è ormai
stabilizzato a 7.500. Siamo uno dei 5 campi profughi più grandi della capitale.
Vi sono state settimane nelle quali siamo stati molti di più. Ora tutti i
nostri ospiti hanno trovato rifugio sotto 79 tendoni di plastica, dove possono
abitare più famiglie insieme. Vi sono poi un centinaio di altre piccole
abitazioni. Il campo è diviso in 12 quartieri. Ogni quartiere ha un
responsabile coadiuvato da due consiglieri. Un comitato presiede e organizza
ogni attività. Ci sono un’équipe di vigilanza per la notte e un’altra per il
giorno; altre due squadre sono incaricate della pulizia dei servizi igienici,
del campo e della raccolta dell’immondizia. Un’altra squadra, formata di
giovani alquanto muscolosi, si occupa di scaricare i viveri. Ogni due
settimane, infatti, la Croce Rossa Internazionale deposita, in uno dei chiostri
del convento, tonnellate di riso, fagioli, 2.800 litri di olio e 12 grandi
sacchi di sale. Infine, un consiglio di 10 saggi – uomini e donne – svolge un
influente ruolo di controllo su tutte le attività. C’è poi uno spazio giochi
per i bambini, un ambulatorio medico e una scuola. In un cortile del convento è
stato installato un serbatornio da 10.000 litri di acqua che, dopo essersi
riempito durante la notte grazie alla nostra pompa, viene svuotato il mattino
seguente, in meno di un’ora, tramite 12 rubinetti.

Federico Trinchero*

*Padre Federico Trinchero,
carmelitano scalzo, è missionario in Rca e superiore del convento Notre Dame du
Mont Carmel di Bangui.


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Dal golpe di Michel Djotodia
all’arrivo degli anti Balaka
Futuro incerto in Centrafrique


Gli spari sono forti e
chiari, singoli e vicini. Stiamo parlando al telefono con un conoscente. Lui è
a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, dove lavora per una Ong. «Aspettate,
vado a vedere che non siano troppo vicini». Poi torna la calma e la
conversazione riprende. In Rca è da oltre un anno e mezzo che si vive in
perenne stato di guerra, o di guerriglia. Nel dicembre 2012 furono i diversi
gruppi armati a maggioranza islamica che, coalizzati nella ribellione Seleka,
mettevano a rischio il regime decennale di François Bozize. Regime che
rovesciarono il 24 marzo dell’anno successivo, quando, presa la capitale,
Michel Djotodia, numero uno della coalizione, divenne presidente grazie a un
colpo di stato (si veda MC ottobre 2013). Così in un paese dove la
popolazione è cristiana all’85%, il governo e l’esercito diventarono a
schiacciante maggioranza musulmana. Di più: tra i comandanti, molti non erano
neppure centrafricani, ma sudanesi o ciadiani. La Seleka controllava tutto il
territorio nazionale, sebbene suddivisa in tante fazioni, non molto cornordinate,
mentre le istituzioni dello stato erano di fatto scomparse. Così i gruppi
ribelli dettavano legge, perseguitavano e taglieggiavano la popolazione.

«Gli anti Balaka hanno origine come meccanismo di
autodifesa contro i soprusi della Seleka – ci racconta una nostra fonte locale
– nascono a Bassangoa (nell’Est del paese a forte presenza cristiana, ndr)
poi si moltiplicano nelle altre città». Queste milizie, sedicenti cristiane,
diventano il nuovo elemento di instabilità. Combattono dapprima contro la
Seleka, ma iniziano subito a commettere persecuzioni e rappresaglie nei
confronti dei musulmani in genere. Il conflitto prende una piega
etnico-religiosa, tant’è che le Nazioni Unite mettono in guardia contro il
rischio «genocidio». Gli islamici lasciano in massa il paese. È il 5 dicembre
che gli anti Balaka attaccano la capitale. «Sono armati di armi “artigianali”,
machete, qualche arma da fuoco. Restano milizie non cornordinate tra loro, anche
nella stessa località si possono avere tanti gruppi diversi, poco collegati.
Sicuramente ci sono dentro banditi, qualcuno che ne approfitta. C’è poca
politica» continua la nostra fonte. Eppure i dubbi di un appoggio esterno ci
sono: secondo il Comitato per le sanzioni delle Nazioni Unite: «François Bozize
fornisce sostegno materiale e finanziario a delle milizie […] che cercano di
riportarlo al potere, ovvero gli anti Balaka, ed ex membri dell’esercito
centrafricano». Levy Yakété, vicino a Bozize prima del colpo di stato, è
accusato di organizzare distribuzione di machete a giovani cristiani
disoccupati, allo scopo di attaccare i musulmani. I due personaggi, insieme a
Nourredine Adam, numero due della Seleka, sono stati raggiunti da sanzioni
inteazionali dell’Onu.

La Francia decide di irrobustire la
sua presenza, fino a quel momento di 600 militari, arrivando a 2.000 e battezza
l’operazione Sangaris.

Diversi
scontri delle milizie cristiane si verificano anche con le truppe della Misca,
la missione di pace dell’Unione africana, circa 5.400 uomini, di cui fanno
parte 830 militari ciadiani. Ed è proprio contro questi che si accaniscono gli
anti Balaka, accusandoli di collusione con la Seleka.

Il presidente ciadiano Idriss Déby,
cambia atteggiamento rispetto alla crisi. Il Ciad è stato coinvolto fin
dall’inizio nel ruolo di mediatore, ma allo stesso tempo ha molti interessi in
campo, e ha appoggiato la Seleka (di cui diversi ufficiali sono ciadiani). Déby,
presidente di tuo della Cesac (Comunità economica degli stati dell’Africa
centrale), il 10 gennaio convoca un incontro di vertici a Njamena durante il
quale i presidenti dell’area decidono che Djotodia deve passare la mano. Così
il presidente Seleka «forzato alle dimissioni» abbandona e si trasferisce in
Benin per un esilio dorato (durante poco più di 9 mesi di potere è riuscito a
mettere da parte una discreta fortuna, grazie al commercio di pietre preziose).

Il Consiglio nazionale di
transizione (Cnt), parlamento provvisorio della Rca, composto da 135 membri,
elegge il sindaco di Bangui, Chathèrine Samba-Panza, nuovo presidente della
Repubblica ad interim, incaricata di organizzare le elezioni generali.
Nominato un nuovo primo ministro, André Nzapayéké, il 27 gennaio viene varato
un nuovo governo, molto simile al precedente, in cui entrano gli anti Balaka.
Ma gli scontri non si placano e, mentre Bangui resta in mano ai francesi della
Sangaris e alla Misca (dalla quale il Ciad ha ritirato i suoi uomini), le
truppe della Seleka ripiegano nelle loro zone di origine (a Nord Est) per
riorganizzarsi, mentre nel resto del paese imperversano gli anti Balaka.

Il 10 aprile il Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite vota l’invio di una forza di pace di 11.800
caschi blu, che però non arriverà prima del 15 settembre, mentre l’Unione
europea manderà un contingente di 500 uomini.

Benché sia ben accetta dalla
popolazione, la Samba-Panza ha poco margine di manovra. Nel paese ci sono
almeno 200.000 sfollati interni e 60.000 rifugiati oltre confine. Intanto
l’esodo dei musulmani, sia stranieri sia centrafricani, continua con ogni
mezzo. «La situazione è molto preoccupante – riprende il nostro interlocutore –
le milizie delle varie fazioni fanno tutto quello che vogliono e nessuno può
intervenire».

Marco Bello

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Incontro con il musicista Bibi Tanga


Note di pace

«Il
problema del mio paese è la classe dirigente che non sta assolutamente
dimostrando di essere impegnata, né è interessata a trovare una soluzione seria
a ciò che sta accadendo. L’attuale generazione politica non è all’altezza del
proprio compito e sta calpestando i nostri diritti».

Così denuncia l’artista centrafricano Bibi Tanga, nato
nel 1969 a Bangui, poi trasferitosi in Francia con la famiglia dopo aver girato
mezzo mondo. Cresciuto nella periferia parigina, ha sviluppato una doppia
cultura, conservando le proprie radici nella terra d’origine, la Repubblica
Centrafricana. «La maggior parte dei miei familiari – ci racconta – vive ancora
laggiù. In questa situazione così instabile e tormentata i miei rapporti con
loro sono quotidiani. Cerco di sentire telefonicamente i miei parenti ogni
giorno». Preoccupazione comprensibile, considerata l’involuzione
politico-sociale che sta attraversando questa nazione, da quando, nel marzo
2013, il presidente François Bozize è stato costretto a lasciare il paese per
l’incapacità di arginare gli scontri del gruppo ribelle chiamato Seleka. 

Compositore,
bassista, interprete eclettico ed estroso, Bibi Tanga ha vissuto in Russia,
negli Stati Uniti e in Belgio, seguendo il padre diplomatico e funzionario
della Repubblica Centrafricana. La passione per la musica si è rivelata in lui
molto presto. Non ancora adolescente, Bibi Tanga ha imparato il solfeggio,
dedicandosi poi allo studio del basso, ed è in Francia che ha iniziato la sua
formazione musicale, ascoltando in particolare Jacques Brel, Curtis Mayfield,
James Brown e Bob Marley. Il suo sguardo artistico spazia quindi dal soul al
reggae, dal funk alla chanson française, ma il richiamo dei suoni della
Madre Africa lo hanno ridestato. Si è avvicinato alla musica di Fela Kuti col
suo irresistibile e politicamente impegnato afrobeat: una scoperta artistica
che per Bibi Tanga diventa una rivelazione sorprendente. Attingendo a tutte
queste influenze, l’artista centrafricano ha pubblicato nel 2000 il suo primo
album dal titolo Le vent qui soufflé, cui seguono Yellow Gauze
(2006), Dunya (2009) e 40° Of Sunshine (2012). Dischi pieni di
contaminazioni e di fusioni, come lui stesso sottolinea: «La mia è una “musica
senza frontiere”. Una definizione, questa, che mi piace. In fondo, tutta l’arte
in generale vede l’incontro di molteplici influenze. Non ci sono solo i ritmi
africani nei miei lavori, ma molto altro». 

In
questo «altro» ritroviamo riferimenti sia alla vita di tutti i giorni, sia alla
situazione politico economica dell’Africa. Ritroviamo anche una mescolanza di
lingue – francese, inglese, sango – come pure il forte attaccamento alla terra
che gli ha dato i natali. «Il legame che nutro verso il mio paese è ancora più
intenso, considerato il dramma che sta vivendo. Ho voluto mantenere la
nazionalità centrafricana, talmente è forte l’affetto che provo per la mia città
d’origine. Bangui è stata sfigurata, distrutta dai recenti avvenimenti – spiega
con inquietudine l’artista – e la situazione continua a essere catastrofica. I
civili vengono massacrati, anche in altre zone del paese. Ma non voglio cadere
nella disperazione. È necessario pensare alla ricostruzione e a una soluzione.
Con la mia musica cerco di parlare di pace anche ai miei connazionali. Per
esempio, nel mio ultimo album intitolato Now ho inserito la canzone Ala
Za ï
che nella mia lingua matea, il sango, significa proprio pace».

E di pace ne avrebbe davvero bisogno la Repubblica
Centraficana, la cui storia, sin dall’indipendenza avvenuta nel 1960, è sempre
stata tormentata da colpi di stato e regimi dispotici. Anche se Bibi Tanga non è
stato contrario all’intervento francese in Centrafrica nel dicembre 2013,
l’artista attraverso la sua musica deplora l’uso delle armi. Nel brano «Ngombe»,
cantato sempre in sango e inserito nel nuovo album Now, denuncia chi
utilizza il fucile per avere ragione, per dimostrarsi il più forte, per avere
il diritto di parlare. «Cantare nella mia madrelingua è un modo per sentirmi
vicino ai miei familiari, ai miei connazionali e alla mia terra d’origine, per
la quale sogno un futuro senza più massacri, senza più bagni di sangue. Spero
che la mia musica possa cambiare le coscienze».

Silvia C.
Turrin

Tags: guerra, violenza
Seleka, Anti-Balaka, rifugiati, guerra civile, convento, Carmelitani,
insicurezza, accoglienza, Centrafrica, Bibi Tanga, pace, musica, Michel Djotodia, Chathèrine Samba-Panza

Federico Trinchero e altri




Duvalier: scomparso nell’impunità totale

Il presidente a vita è morto

Baby Doc è morto. Improvvisamente. Di morte naturale. Pochi
uomini hanno causato tanta sofferenza. E lui ha trascorso la sua vita nello
sfarzo. In totale impunità. L’uomo che, insieme al padre, ha più contribuito
alla dannazione di Haiti. La società civile lottava per procurargli un giudizio
terreno. E lui aveva in tasca un passaporto diplomatico. Restano il dovere di
memoria e il processo ai suoi complici.

Quattro ottobre 2014, il dittatore Jean-Claude Duvalier muore a 63
anni di attacco cardiaco. A casa sua, a Port-au-Prince.

Ma
facciamo un passo indietro.

Il 16 gennaio 2011, a un anno dal terremoto, Duvalier
atterra ad Haiti dopo un esilio (più che dorato) di 25 anni. È un duro colpo
per gli attivisti del movimento sociale haitiano e per famigliari e vittime
della dittatura duvalierista. Le associazioni di difesa dei diritti umani, il
movimento femminista, quello contadino, le organizzazioni ecclesiali di base,
gli intellettuali militanti nei partiti politici clandestini, avevano fatto un
fronte unico per cacciare Jean-Claude quello storico 7 febbraio del 1986.

Il
dittatore e i suoi collaboratori, protetti da Usa e Francia, riuscirono a
fuggire.

Il
movimento sociale a quel tempo aveva impiegato vent’anni a formarsi e
consolidarsi, ma restava comunque poco organizzato e non aveva una struttura e
un programma politico. Perseguiva un obiettivo: farla finita con ventinove anni
di terrore.

Jean-Claude, all’età di 19 anni, era succeduto al padre
François Duvalier, che aveva «regnato» nel terrore dal 1957 alla morte nel
1971. Le vittime del regime dei Duvalier sono almeno 30.000, ma alcune fonti
parlano del doppio, senza contare chi moriva sui barconi tentando di fuggire
dal paese (i boat people). Oltre alla scia di sangue che Jean-Claude aveva
lasciato dietro di sè, fuggendo aveva svuotato le casse dello stato: si parla
di un miliardo e mezzo di dollari. Emorragia di risorse che aveva trascinato
nel baratro la già debole economia haitiana e che ha pesanti conseguenze ancora
oggi sulla vita della popolazione.

Il
ritorno di Duvalier ad Haiti «è un disastro per le vittime e i loro famigliari,
per tutti coloro che hanno lottato contro la dittatura» ci confida nel gennaio
2011 padre Jean-Yves Urifié, un missionario francese in prima linea nella lotta
per la democrazia.

Le vittime denunciano

Passato lo sbigottimento
iniziale, le prime vittime sporgono denuncia contro il dittatore. Michèle
Montas, giornalista e già portavoce del segretario generale delle Nazioni unite
Ban Ki Moon, è tra le prime. «Occorre che la gente testimoni, per non
dimenticare» dichiara all’agenzia AlterPresse, mettendo l’accento sul dovere di memoria. Il 19 gennaio la
Montas sporge denuncia per crimini contro l’umanità, detenzione arbitraria,
esilio, distruzione di proprietà privata, tortura, violazione dei diritti
civili e politici. Moglie del noto giornalista Jean Dominique (assassinato il 3
aprile del 2000) sottolinea anche gli assalti del regime Duvalier alla libertà
di espressione e le violazioni al diritto dell’informazione. Radio Haiti Inter, di Dominique e Montas il 28
novembre 1980 era stata distrutta dalle milizie di Duvalier e dall’esercito e i
giornalisti arrestati, torturati ed esiliati.

Alcune
organizzazioni di difesa dei diritti umani si uniscono alle vittime e, nel
febbraio del 2011 fondano il «Collettivo contro l’impunità». Oltre a protestare
contro il ritorno del dittatore, l’obiettivo del Collettivo è fare in modo che
Duvalier sia giudicato per crimini contro l’umanità e crimini economici.

La storica associazione
femminista Kay Fanm cornordina il Collettivo, composto anche dal movimento donne
haitiane per l’educazione e lo sviluppo (Moufhed), il Centro ecumenico dei
diritti umani (Cedh) e la Rete nazionale di difesa dei diritti umani (Rnddh),
oltre che da 22 vittime che hanno presentato denuncia.

Lotta contro
l’impunità

Danièle Magloire, sociologa
di fama internazionale, membro di Kay Fanm, è la cornordinatrice del Collettivo.

L’incontriamo a
Port-au-Prince alcuni mesi prima della morte di Duvalier: «Ad Haiti le denunce
possono solo essere individuali, ma il Collettivo serve a essere più forti per
portare avanti i dossier e, in parallelo, continuare un lavoro di memoria, per
ricordare, soprattutto ai giovani che non l’hanno conosciuta, cosa ha fatto la
dittatura. E quindi per combattere i revisionisti. Per questo facciamo
commemorazioni: quest’anno per il 7 febbraio abbiamo lanciato un sito web:
“Haiti lotta contro l’impunità” (www.haitiluttecontre-impunite.org).

Abbiamo collaborato al film
del regista haitiano Aold Antonin, insieme a una cinquantina di vittime: Haiti le règne de l’impunité (Haiti il regno
dell’impunità)». «Il film presenta una serie di testimonianze di parenti delle
vittime, di vittime sopravvissute alla repressione e alle torture durante la
dittatura dei Duvalier» scriveva l’agenzia haitiana AlterPresse. «Queste testimonianze presentano
l’orrore generale di 29 anni di un regime feroce e pongono la questione
dell’impunità come uno dei mali più attuali della Repubblica di Haiti.
Contadini crocifissi sulla piazza pubblica, famiglie intere represse e
decimate, e che per anni hanno atteso o cercato parenti scomparsi, giornalisti
torturati, uccisi, esiliati».

Le attività del Collettivo
hanno dato origine a un altro gruppo, il «Comitato del dovere di memoria»,
composto da ex vittime e famigliari di vittime, che si dedica espressamente al
lavoro di memoria. C’era una collaborazione tra i due comitati, anche se il
primo si occupa maggiormente dell’aspetto giuridico.

Un lungo percorso

Il Collettivo ha subito
sollecitato la Commissione interamericana dei diritti umani (Cidh)
dell’Organizzazione degli stati americani, con sede a Washington, e ha ottenuto
un’udienza il 28 marzo del 2011. «All’epoca ad Haiti c’era il governo di René
Préval, che mandò un delegato. Quel governo era d’accordo sul fatto che lo
stato haitiano dovesse fare un’inchiesta sui delitti della dittatura. Fu
preparato un documento di accusa per crimini contro l’umanità e crimini
finanziari».

Gli avvocati di Duvalier si
sono fatti scudo a colpi di retorica, sostenendo che i «crimini contro l’umanità»
non esistono nel diritto haitiano. Danièle Magloire: «Effettivamente questo
termine non c’è, perché sono codici vecchi del XIX secolo. Ma occorre ricordare
che per il processo di Norimberga contro i nazisti, la Carta di Norimberga che
per la prima volta definiva, tra gli altri, i crimini contro l’umanità, fu
ratificata da 19 paesi tra i quali c’era Haiti. Alla creazione delle Nazioni
unite, e Haiti è paese fondatore, la Carta di Norimberga fu allegata alla
Dichiarazione universale dei diritti umani. I crimini contro l’umanità dunque
ci riguardano». Continua la sociologa, «Haiti è nata da una ricerca di umanità,
con la rivoluzione anti schiavista, contro il codice nero, la legge dei
francesi che ci relegava al ruolo di beni mobili e non di persone».

In seguito al documento di
accusa il giudice d’istruzione Carvés Jean ha fatto un’inchiesta molto leggera,
«ha sentito una volta Duvalier, ha ascoltato solo alcune vittime, non si è
mosso dall’ufficio», sostiene Magloire. «Questo giudice non è un duvalierista –
continua – ma era sotto pressione. Il contesto politico è cambiato». Nel 2011 è
stato eletto presidente Michel Martelly (si veda MC gennaio 2012) con una
grande spinta del governo degli Stati Uniti. «Martelly simpatizza apertamente
con i duvalieristi. Ha dichiarato pubblicamente che si dovesse amnistiare
Duvalier e voleva prenderlo nel suo gabinetto come consigliere politico. Ha poi
optato per suo figlio François
Nicolas Duvalier, il nipote di Papa Doc. In un paese che ha conosciuto una
feroce repressione, il capo di stato visita l’ex dittatore e lo invita alle
cerimonie ufficiali. È comprensibile la paura della gente verso il sistema».

Nel
gennaio 2012 il giudice d’istruzione di primo grado ha eliminato dall’accusa i
crimini contro l’umanità e derubricato i crimini finanziari a semplici delitti.
Il Collettivo ha contestato la decisione, lo stato invece no. A contestare il
risultato dell’istruttoria di primo grado c’era anche un altro gruppo di
vittime che ha presentato denuncia, ma non era parte del Collettivo.

Jean-Claude Duvalier ha
dichiarato che era un insulto verso la sua persona osare dire che abbia preso
un po’ di soldi.

I fondi scomparsi

Il governo Préval aveva
chiesto alla Svizzera di recuperare i 6 milioni di dollari residui dal
saccheggio perpetrato dai Duvalier. Ma il nuovo governo non ha più dato seguito
alla richiesta. Il Collettivo, invece, ha continuato a spingere il dossier in
collaborazione con associazioni svizzere fino ad ottenere il blocco dei fondi.
Nel dicembre 2013 la Svizzera, che ha fatto un’inchiesta molto precisa, ha
stabilito l’origine illecita dei fondi e deciso di toglierli a Duvalier per
restituirli allo stato haitiano, in quanto legittimo proprietario.

«Stiamo discutendo con le
autorità svizzere su come i fondi saranno trasmessi ad Haiti. Abbiamo fondati
timori sul loro utilizzo, perché ci sono molti duvalieristi nel governo. Lo
stesso ministro dell’Inteo, David Basile, è il capo del partito duvalierista
(Parti de l’Unité national). Un posto strategico, molto importante anche
per le future elezioni. Abbiamo fatto proposte che orientano l’uso dei fondi
verso il rafforzamento dei diritti umani, l’uguaglianza di genere, le prigioni.
Queste ultime non sono cambiate dai tempi della dittatura».

In appello

Il secondo passaggio è stato
in Corte d’appello. In questo grado di giudizio le udienze sono pubbliche, al
contrario del primo grado. Il Collettivo si è battuto per far comparire
Jean-Claude Duvalier davanti al giudice. «È stato difficile ma ci siamo
riusciti. Simbolicamente è stato molto importante, per la lotta contro
l’impunità: mostrare alla gente che un capo di stato poteva venire a rispondere
davanti alla giustizia. Inoltre le vittime hanno potuto testimoniare. Questo ci
ha fatto vedere una diversità di persone che hanno subito le persecuzioni:
professionisti, cittadini, contadini. Molti abitanti della zona rurale di La
Tremblay, a Croix-de-Bouquet, che ha sofferto enormemente, dove centinaia di
loro furono massacrati. Alcuni furono imprigionati sotto François e restarono
in carcere sotto Jean-Claude. È stato importante registrare tutte le
testimonianze».

Duvalierismo senza
Duvalier

«I
Duvalier hanno marcato Haiti a ferro e fuoco durante trent’anni di sistema
totalitario, e hanno messo un macoute (qui inteso
come duvalierista, nda) nella testa di ogni haitiano» ha scritto
l’esperto Christophe Wargny. Si tratta forse di un’estremizzazione, ma la
corrente duvalierista esiste e i duvalieristi sono ancora forti. Dalla sua fuga
nel 1986 i diversi governi haitiani non hanno mai voluto fare un processo al
regime. Le strutture messe in piedi dal suo governo sono rimaste, per questo si
parla di duvalierismo senza Duvalier. «La figura simbolica non era presente, ma
la struttura era dormiente e tutto si è riattivato con il suo ritorno. E c’è
poi il revisionismo: “Non era una dittatura, non era così terribile, guardate
ora in che situazione si trova Haiti, sotto Duvalier non era così, era tutto
perfetto”. Si fabbricano delle contro verità: si fa credere che le vittime
fossero solo terroristi, che attaccavano lo stato, destabilizzavano il paese.
Invece tutti i documenti dimostrano il contrario. Senza dimenticare i boat people (fuga con i barconi verso gli Usa e le Bahamas, nda). Oppure i braceros in Repubblica Dominicana: Duvalier
guadagnava un tanto per ogni haitiano che andava a lavorare in semi schiavitù
per il taglio della canna da zucchero nei bateys. Ha
fatto sterminare tutti i maiali creoli distruggendo l’economia rurale. Ha fatto
commercio di cadaveri di sangue. I crimini sono molti».

Il 20 febbraio scorso, dopo
mesi d’inchiesta, la Corte d’appello ha rovesciato la sentenza del giudice di
primo grado: Duvalier è accusato di crimini contro l’umanità, occorre
approfondire le inchieste. Ha nominato un nuovo giudice d’istruzione, Durin
Duret, che deve interrogare le vittime e anche i collaboratori di Duvalier,
tutti quelli citati nel documento accusatorio. Sottolinea che questi crimini
non vanno in prescrizione.

«Jean-Claude Duvalier ha
contestato che esistiamo, che il Collettivo possa essere parte civile. Vuole
che si cambino i giudici, ma non dice perché. Il grosso lavoro lo facciamo noi
del Collettivo, perché il tribunale non è attrezzato. I giudici sono soli, non
possono fare le inchieste, poi ci sono tutti i problemi di corruzione e
incompetenze. Il Collettivo costituisce il dossier e cerca gli elementi per il
giudice, perché vogliamo che l’istruttoria vada avanti. Inoltre facciamo molta informazione, comunicati in quattro lingue. Ed è
tutto lavoro volontario. Anche gli avvocati che lavorano con noi. Abbiamo
un’assistenza giuridica e tecnica importante da parte dell’associazione
Avvocati senza frontiere Canada. Fokal (Fondazione conoscenza e libertà) ci ha
appoggiato a livello finanziario».

Molte vittime, poche
denunce

Nonostante
l’enormità del numero di vittime del regime, poche decine sono a oggi le
denunce ufficiali. «Sono pochi coloro che hanno denunciato perché la gente non
ha fiducia nel sistema della giustizia. Inoltre si sente che il governo non è
dalla parte delle vittime. Occorre essere coraggiosi e non ci sono neanche
tanti avvocati disponibili a difenderti. Ma il fatto di essere riusciti a far
presentare Duvalier in tribunale e che ci sia stata una decisione della Corte
spinge la gente a pensare che abbia senso denunciare. O almeno testimoniare
pubblicamente, il che è estremamente importante. È sempre così: c’è un nocciolo
duro all’inizio, poi altri si aggregano. Per me non è il numero che conta.

Alla fine dell’istruzione il
tribunale dovrà decidere se ci sarà un processo oppure no. Penso che a quel
punto altre persone si decideranno, perché vedranno che c’è una possibilità».

La comunità
internazionale

A livello internazionale non
c’è una volontà politica a giudicare Duvalier e non c’è neppure tanto aiuto per
questo. Ci sono state dichiarazioni di buone intenzioni. Ma il Collettivo ha
fatto una campagna, rispetto alla comunità internazionale, chiamando in causa
diversi paesi. Cosa che ha spinto alcune ambasciate a delegare delle persone per
seguire alcune udienze. «Bill Clinton era nelle braccia di Duvalier, gli Usa
non hanno detto nulla, la Francia non ha preso posizione. Solo dichiarazioni
dell’Onu. Ma tutti questi paesi potrebbero appoggiare il tribunale haitiano a
portare avanti l’inchiesta. E qualche dossier a livello dell’Alto commissariato
e della Minustah. Perché a livello internazionale si parla tutto il tempo di
democrazia mentre i paesi campioni di democrazia non si sono indignati per
questa situazione? Se parliamo di crimini contro l’umanità, il peso non può
essere su un individuo».

Le organizzazioni
inteazionali di difesa dei diritti umani non hanno aiutato il Collettivo.
Human Rights Watch e Amnesty Inteational hanno fatto le loro inchieste ma non
hanno messo risorse per l’istruttoria. Hanno mandato le loro delegazioni a
seguire le udienze, «ma questo non basta» sottolinea Danièle Magloire. «Gli Usa
hanno della documentazione, ma non ne consentono l’accesso. Abbiamo bisogno che
si faccia pressione. Noi, come Collettivo, abbiamo preso da soli il rischio di
denunciare. Ma non abbiamo alcuna protezione. I fans di Duvalier ci
aggrediscono al tribunale, più ci avviciniamo al processo, più sono nervosi e
aggressivi, la polizia non reagisce».

Muore l’ex presidente
a vita

La morte del dittatore
scatena il dibattito: funerali di stato oppure no? Una coalizione della società
civile si ribella all’idea di un oltraggio simile, e alla fine la cerimonia è
organizzata in forma privata, ma numerosi sono i suoi partigiani presenti.

«[…] Giudicare Jean-Claude
vorrebbe anche dire chiedere conto al regime duvalierista stesso, e una volta
arrivati alla “riconciliazione”, indicare anche le cosiddette “grandi famiglie”
haitiane che hanno partecipato a quel festino macabro. Come continuano a fare oggi.
Giudicare Jean-Claude Duvalier significherebbe mettere sotto processo le classi
dominanti globalmente. Meglio, significherebbe spiegare il ruolo degli
imperialisti. Dell’epoca … e di oggi» scrive l’organizzazione sindacale Batay
Ouvriye.

«La morte di Jean-Claude
Duvalier non mette fine al processo giudiziario contro il suo regime, le
vittime del quale hanno denunciato anche gli accoliti dell’ex dittatore»
dichiara Pierre Espéreance, direttore esecutivo della Rnddh e segretario
generale della Federazione internazionale delle leghe dei diritti dell’uomo
(Fidh).

Muore
l’uomo, ma non la storia. E le decine di migliaia di vittime di un regime che
ha segnato Haiti e ha contribuito a renderlo un paese tra i più poveri del
mondo, chiedono ancora verità e giustizia.

Marco Bello

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Marco bello




Pazzia: l’ultimo muro

Guarire di malattie mentali si può


I medici tendono a considerare la pazzia inguaribile. Da
tenere sotto controllo con la chimica. Forti sono le pressioni delle
multinazionali del farmaco. Ma guarire si può. Come dimostrano alcuni
psichiatri e le storie che hanno raccolto. Cosa vuol dire guarire da una
malattia psichiatrica? E quali sono i fattori determinanti per uscie? Alcune
risposte in questo servizio.

«La prima
volta che sentii le voci avevo 18 anni, ero da poco andata via di casa e vivevo
sola. L’episodio durò una settimana e non lo dissi a nessuno. Dopo varie
vicissitudini, quando avevo 42 anni mia madre morì; da allora le voci non mi
hanno più abbandonata per diversi anni». A parlare è Lia Govers, classe ’52, di
origine olandese ma residente in Italia dall’età di 20 anni. Settima di 11
figli, da piccola Lia assiste allo sfacelo familiare legato alla morte di un
fratellino: la mamma finisce per tre mesi in uno Spdc, Servizi psichiatrici di
diagnosi e cura (i cosiddetti «repartini», nda), il padre – dopo aver tentato di dissotterrare
il figlioletto al cimitero – si dà all’alcol. Lia e i suoi fratelli sono
trascurati e costretti a una vita di sacrifici. Lei, forse più fragile, patisce
fin da piccola un senso di abbandono, non sentendosi amata e accettata dalla
madre.

Una volta morta la mamma, e con lei la speranza di
ricucire il loro rapporto, si scatena la follia. «Le voci esistevano solo nella
mia testa ma per me erano reali, e in qualche modo mi tenevano compagnia. Con
il passare del tempo però perdevo sempre più il contatto con la realtà,
arrivando a separarmi da mio marito e da mio figlio 13enne, e a restare
disoccupata» racconta Lia, a cui verrà poi diagnosticata una schizofrenia paranoide.
«Mi sentivo perseguitata, ero convinta che tutti ce l’avessero con me, nei miei
deliri e allucinazioni mi vedevo rapita, stuprata, lasciata senza cibo…». A un
certo punto Lia si convince di essere la principessa russa Anastasia e, rimasta
senza lavoro, non ne cerca un altro perché crede che presto potrà riavere la
sua identità e le sue ricchezze. Inoltre non paga e non ritira più le bollette,
persuasa che nella cassetta postale ci sia una bomba pronta a esploderle in
mano. Vedendo ovunque nemici e ingiustizie, Lia presenta alla Procura ben 160
esposti, per cui il tribunale di Torino decide di affidare il suo caso allo
psichiatra Giuseppe Tibaldi.

«In un certo senso è da lì che è partita la mia “storia
di guarigione”» racconta Lia. «Il giorno dello sfratto (perché non pagavo
l’affitto), è arrivato Tibaldi proponendomi un ricovero in ospedale. Sono
scappata e lui mi ha inseguita per la città ma sono riuscita a seminarlo.
Fatica sprecata, perché l’indomani lui e due carabinieri mi hanno ritrovata e costretta
al Tso» (Trattamento sanitario obbligatorio, che prevede il ricovero coatto in
repartino psichiatrico, nda). Sono iniziate così le cure farmacologiche, seguite da
un lungo ricovero in comunità psichiatrica e da una psicoterapia durata 10
anni. «Nel 2002, d’accordo con il medico, ho smesso di prendere i farmaci, e
nel 2009 ho terminato anche la psicoterapia. Adesso non sento più le voci e mi
sono liberata completamente dai miei deliri. Un fattore importante è stato
esaminare ed elaborare dentro di me il rapporto irrisolto con mia madre, e in
seguito le difficoltà di relazione con mio marito e una mia sorella».

L’illusione del
clinico

Oggi Lia conduce una vita normale, è tornata con il
marito e fa volontariato come facilitatrice in un gruppo di auto mutuo aiuto.
Inoltre scrive e partecipa a convegni per sensibilizzare l’opinione pubblica
sulla possibilità di superamento della malattia mentale. Qualche anno fa ha
anche pubblicato la sua autobiografia su stimolo del dottor Tibaldi, impegnato
dal 2002 nel raccogliere le «Storie di guarigione»: questo il titolo del
concorso letterario da lui promosso, che dal 2008 a oggi ha raccolto quasi un
migliaio di testimonianze da tutta Italia (vedi box).

Ma perché questa ostinazione nel collezionare i casi
riusciti? «Ci ho messo un po’ ma, a un certo punto del mio percorso
professionale, ho capito che considerare i pazienti psichiatrici come persone
senza scampo è un grave errore, da combattere con ogni mezzo» spiega Tibaldi,
che cornordina il Centro Studi e Ricerche in Psichiatria dell’Asl To2 di Torino. «Gli
studi scientifici più accreditati degli ultimi 20 anni dimostrano infatti che
le percentuali di guarigione nei pazienti psicotici superano il 50% dei casi;
anche se per arrivarci possono occorrere diversi anni».

Dove nasce allora l’idea che la follia sia un «carcere a
vita»? «I motivi sono diversi» spiega Tibaldi, «uno di questi è il pessimismo
prognostico, cioè l’atteggiamento che si forma tra psichiatri e operatori
lavorando nei «repartini»: qui i malati arrivano nel momento dell’acuzie,
quando sono più scompensati, spesso in regime di Tso.

I clinici hanno continuamente sotto gli occhi i malati
vittime di ricadute o cronici, e tendono a estendere questa percezione a tutti
i pazienti con un disturbo psichiatrico: l’illusione del clinico – smentita
dalle evidenze scientifiche – è perciò che tutti i pazienti psichiatrici
restino tali a vita. Mentre le persone come Lia, ricoverate solo una volta o
due, spariscono dalla vista dei servizi e vengono dimenticate in fretta». «L’illusione
del clinico» è così radicata che, quando sentono di schizofrenici guariti,
molti operatori replicano contestando la diagnosi: «Se è guarito, vuol dire che
non era davvero schizofrenico».

Sostenere la guaribilità della malattia mentale, precisa
Tibaldi, non significa affermare che tutti i pazienti psichiatrici guariscano,
ma che le probabilità positive superano quelle negative. Si tratta di una «ragionevole
speranza», che oltre tutto può stimolare i pazienti (e le loro famiglie) a
impegnarsi maggiormente nei percorsi di riabilitazione. Come ha mostrato lo
psichiatra svizzero Luc Ciompi, le aspettative favorevoli condivise da
operatori, familiari e pazienti favoriscono un’evoluzione positiva della
malattia. Vale a dire: se la persona sofferente e quanti se ne prendono cura
hanno fiducia nella possibilità della guarigione, è più probabile che questa si
realizzi.

Interessi delle
multinazionali

Dietro l’idea che le malattie psichiatriche siano
condanne a vita sta anche la «vergognosa contaminazione delle multinazionali
del farmaco», come spiega Ugo Zamburru, psichiatra responsabile del Centro
Diuo Leoncavallo dell’Asl Torino 2, attivo promotore dei reinserimenti socio
lavorativi di pazienti ed ex pazienti. Le case farmaceutiche, ci dice, hanno interesse
a far si che la malattia mentale sia ritenuta cronica, così da poter continuare
a vendere i loro prodotti ai pazienti per tutta la vita, con la promessa non di
guarirli ma di aiutarli a tenere sotto controllo i sintomi più gravi e
disturbanti. «Le aziende sovvenzionano università e convegni, offrono viaggi,
cene e regali ai medici per spingerli a pubblicizzare e prescrivere i propri
farmaci». Il guaio è, come sottolinea anche Tibaldi, «che i ricercatori
finanziati da queste aziende finiscono per sostenere che l’unica causa della
malattia psichica sia da cercare nella biologia – sbandierando perciò come
unico trattamento valido quello farmacologico – ignorandone invece le
componenti psicologiche e sociali il cui peso è fondamentale».

Come ha rivelato il libro inchiesta di Robert Whitaker «Indagine
su un’epidemia» (vedi box), si assiste oggi a un inquietante paradosso. Se da
50 anni a questa parte si spende sempre più in psicofarmaci – in Usa oltre 25
miliardi di dollari l’anno vanno in antidepressivi e antipsicotici, cifra
superiore al Pil del Camerun – non si è però verificata, come ci si poteva
aspettare, una parallela riduzione di queste patologie. Al contrario, è in atto
una vera e propria «epidemia» di pazienti psichiatrici, da cui le aziende traggono
lauti guadagni.

Un esempio fra tutti la Eli Lilly: nel 1987 aveva un
giro d’affari di 2,3 miliardi di dollari, ottenuti dalla vendita di antibiotici
e medicine cardiovascolari; poi nell’88 iniziò la vendita di fluoxetina (un
antidepressivo) e nel ’96 di olanzapina (un antipsicotico, commerciato in
Italia con il nome Zyprexa): a fine 2000 questi due farmaci da soli garantivano
metà delle entrate dell’azienda, arrivate a 10,8 miliardi di dollari.

Il farmaco, un
salvagente

Ma quale nesso esiste tra farmaco e guarigione? «Il
farmaco da solo non guarisce nessuno» dichiara convinto Roberto Rolli. Lui,
oggi 65enne, ha combattuto per 25 anni contro una psicosi maniaco-depressiva
che l’ha portato a ben 16 ricoveri tra ospedali e strutture psichiatriche, in
una delle quali negli anni ’70 è stato anche sottoposto a elettrochoc senza
anestesia. «Il farmaco secondo me serve solo come stampella» dice Roberto, che
per sua scelta continua ad assumere uno stabilizzatore dell’umore anche se dal
’98 non ha più avuto quelle crisi e quei deliri maniacali che lo portavano a
gesti estremi, come entrare in casa sfondando la porta con la motosega o
buttarsi nel Po per ripescare i documenti gettati un attimo prima. «Ma la
guarigione dipende da altro, non dalle medicine. Nel mio caso, è stato
importante aver trovato un bravo psicoterapeuta (il dottor Zamburru, nda) e mettermi a
frequentare i gruppi di auto mutuo aiuto».

«Il farmaco funziona come un salvagente: se non lo usi,
rischi di affogare, ma se lo usi sempre, non impari a nuotare» spiega Tibaldi. «Guarire
è imparare a nuotare: quello che dovremmo fare noi specialisti sarebbe offrire
il corso di nuoto (e non solo il salvagente)». Ed è importante che gli iscritti
al corso, finché non sanno nuotare da soli, si attengano alle istruzioni di un
buon allenatore. «Fuor di metafora, succede spesso che i pazienti, quando
iniziano a sentirsi meglio, decidano di sospendere di colpo l’uso dei farmaci,
senza consultare nessuno: questa è una scelta controproducente, perché aumenta
il rischio delle ricadute. Il salvagente bisogna sgonfiarlo poco alla volta».

I fattori che aiutano
a guarire

Ma cosa significa guarire per un malato psichico? «La
guarigione è un percorso in cui la persona riprende in mano il controllo della
propria vita, acquisendo la chiara consapevolezza della propria esperienza
psicotica: Lia oggi sa che quelle erano “voci” e non sue doti telepatiche, come
credeva all’epoca» spiega Tibaldi. «Non è detto che scompaiano tutti gli
aspetti problematici di sé, ma l’esperienza passata (pensieri, ricordi,
sintomi) perde d’invasività, non è più lei a dominare la persona, come si vede
bene nel finale del film A beautiful mind». In un certo senso, non ci si libera mai della propria
depressione o della propria psicosi, ma la si integra in maniera «sana» entro
il proprio modo di esistere. «Non è un tumore che si toglie, ma una parte che
perde di peso e virulenza nella vita mentale della persona, acquistando un
diverso significato».

«Toando all’esperienza di Roberto, secondo i
protocolli inteazionali non lo si può dire “davvero” guarito perché continua
a usare farmaci, anche se per sua scelta» chiarisce Zamburru. «Ma più che di
guarigione – che in psichiatria è un concetto labile e sfumato, come quello di
malattia – interessa parlare di “qualità della vita”. Da questo punto di vista
Roberto sta decisamente bene: ha smesso di bere, non ha più le crisi, esercita
la sua professione di avvocato in maniera efficace, ha ripreso la vita
familiare con moglie e figli, ed è anche impegnato nel promuovere i diritti dei
malati». Ma quali sono i fattori che aiutano a guarire, o comunque a recuperare
una vita serena e dignitosa? «Intanto è di grande aiuto avere una famiglia che
ti sostiene, disposta a partecipare al percorso di cura, e avere degli amici:
uno studio degli anni ’90 ha mostrato che il rischio di ricadute è minore se si
ha una rete sociale di almeno sette persone di riferimento, contro il rischio
di isolamento» spiega Zamburru.

È poi importante stabilire una buona relazione tra il
malato e i medici che se ne prendono cura (la cosiddetta «alleanza terapeutica»).
Ed è utile poter contare sulle capacità e le competenze preesistenti nel paziente
prima della malattia. «Anche una situazione economica decente aiuta. Viceversa
la povertà, la crisi del lavoro ecc. possono essere fattori di rischio per la
salute mentale» dice Zamburru. Per questo nel 2008 ha deciso di fondare il Caffè
Basaglia, un circolo culturale e ricreativo che dà lavoro a ragazzi con
problemi psichici, impiegati in attività di cucina, servizio ai tavoli, ecc.
(www.caffebasaglia.org). «In base alla nostra esperienza la malattia è
superabile con l’accettazione sociale, dando alle persone dignità e
riconoscendo loro un ruolo, non solo episodico».

Per questo è importante «concedere delle seconde
possibilità e, se occorre, delle terze e delle quarte, anche ai pazienti malati
da tempo e per i quali si sono già tentati percorsi riabilitativi o
d’inserimento lavorativo» sostiene Tibaldi. «Non bisogna arrendersi, neanche
davanti alle situazioni che sembrano più disperate. Esistono casi come quello
di Ken Steele, un americano malato di schizofrenia dall’età di 14 anni, che è
guarito dopo 32 anni». Mai darsi per vinti, dunque. Come dice Tibaldi, «l’idea
dell’inguaribilità è l’ultimo muro del manicomio che ci resta da abbattere»

Stefania Garini

Stefania Garini