Punti di non ritorno sui quali ritornare continuamente

In margine al
convegno di Sacrofano
È calato il sipario
sul convegno di Sacrofano (20-23 Novembre 2014) e tutti siamo tornati a casa,
nelle rispettive Chiese locali con il desiderio di poter iniziare cammini ed
esperienze nuove. Probabilmente ci stiamo ancora chiedendo cosa fare, da dove
iniziare e con chi. Il convegno ha restituito alcuni punti di non ritorno per
vivere la Missione.

Vale la pena di sottolinearli, in un momento nel quale c’è
chi è tentato di rimetterli in discussione e noi stessi corriamo il rischio di
perderli di vista, non considerandoli importanti. In questa prospettiva
proviamo a fare alcune considerazioni e proporre alcuni orientamenti per tenere
vivo l’interesse su Sacrofano e incentivare la ricerca di strade nuove. Per
tenere vivo il «fuoco della missione» che il convegno ha contribuito a
riaccendere.

VANGELO ED
EVANGELIZZAZIONE

Il primo punto di non ritorno è «Vangelo e evangelizzazione», cioè la centralità del riferimento a Gesù, da una parte, e alla
responsabilità di tutti i battezzati, dall’altra. Questo richiede di coltivare
una famigliarità con la Parola di Dio tale da regalarci l’esperienza della
presenza misericordiosa del Maestro nella nostra vita e da stanarci dalle
nostre chiusure verso le periferie, chiamandoci alla sequela e alla ricerca.
Senza questa esperienza di amore non è possibile praticare una condivisione
cordiale e allo stesso tempo mantenere una resistenza evangelica, per cui
diventa anche troppo facile arrendersi alla logica mondana dell’affermazione,
del potere e del risentimento.

Solo così il Vangelo potrà alimentare un dinamismo di uscita
verso «il mondo» con uno sguardo di simpatia e di speranza. Da una parte
l’incarnazione del Figlio e, dall’altra, lo stile di Gesù ci regaleranno la
gratitudine e la fiducia necessarie per intraprendere il cammino al quale siamo
chiamati. È un andare (itineranza) che implica l’esperienza dell’ospitalità,
che prima di essere offerta sarà richiesta confidando sul buon cuore di chi
incontreremo. In ogni caso sarà un’itineranza che ci porterà all’incontro con i
poveri. Essi accoglieranno il Vangelo e a loro volta ci evangelizzeranno,
secondo quella regola dell’evangelizzazione per la quale chi dona il Vangelo lo
riceve di nuovo e in modo nuovo da coloro ai quali lo ha donato.

LA NATURA MISSIONARIA
DELLA CHIESA

Il secondo punto di non ritorno riguarda «la Chiesa e la sua natura
missionaria». «La missione non serve alla Chiesa,
piuttosto la Chiesa serve alla missione», scrive il teologo Gianni Colzani. La
Chiesa esiste, cioè, per la missione e la missione è per il bene dell’umanità.

Oltre a richiamare una rinnovata teologia del Regno di Dio, dove
tutti e tutte siamo impegnati nel servizio reciproco, la natura missionaria
della Chiesa pone la questione del «popolo di Dio» come soggetto
dell’evangelizzazione. Di «carismi e ministeri» non parliamo più da tempo. Del sensus fidei ricominciamo a parlare
adesso, con lo stupore di chi si chiede come abbiamo potuto dimenticare tanto a
lungo un «magistero» così importante (e che il Concilio ci aveva indicato).
Esso domanda con urgenza di imparare di nuovo a vedere l’opera dello Spirito di
Gesù nelle esistenze concrete della gente che incontriamo («segni dei tempi»),
dentro e fuori la Chiesa.

Con due caratteristiche: la Chiesa nel mondo è minoranza che sperimenta la fragilità.
Minoranza

La Chiesa è oggi una minoranza (piccolo gregge o lievito nella
pasta) nel nostro mondo. Questo suscita reazioni diverse. Non sono pochi coloro
che si percepiscono sotto assedio e rimpiangono ancora i bei tempi passati.
Sembra che il lutto per la fine della «civiltà cattolica» non sia stato ancora
elaborato.

Da qui la metafora della «comunità sotto
assedio» e dei tre diversi comportamenti che in teoria si possono assumere quando
si è sotto assedio. Il primo è arrendersi, o venire a patti, trattare la
resa. Il secondo comportamento è resistere. Attrezzarsi per resistere
all’infinito, sviluppando tutti i vissuti tipici della persona sotto assedio:
vittimismo, chiusura, incapacità di cogliere i nuovi contesti e le diverse
occasioni di interazione con essi, dogmatismo, ecc. Il terzo atteggiamento è uscire, sortire dall’assedio,
aprire le porte, abbattere le mura, correre il rischio di camminare su spazi
sconosciuti, avere il coraggio di affrontare nuove domande e nuove sfide,
lasciare il centro per rischiare la vita nelle periferie. Questo perché le
periferie sono il luogo antropologico e teologico decisivo per capire il
Vangelo, cioè chi è Dio e chi siamo noi, anche come Chiesa.

Fragilità

Un altro luogo antropologico e teologico significativo è quello
della fragilità. Le periferie ne sono spesso segnate. Anzi, alcune sono tali
proprio perché la esprimono al massimo (povertà materiali e culturali, peccati,
devianze, ecc.) e questo spiega anche il perché non ci si vada volentieri. Le
periferie che Gesù ha visitato e addirittura abitato erano rese o quantomeno
mantenute tali da un «centro» che si riteneva (anche con qualche ragione) a
posto, puro, perfetto.

La condizione per vivere un reale atteggiamento di uscita verso le
periferie che diventi condivisione  è
allora quella di farle diventare in qualche modo nostre. Anzi, di riconoscerle
già presenti nella nostra esperienza. Senza assunzione seria delle nostre
miserie non ci può essere da parte nostra alcuna autentica misericordia.

Se partiamo dal fatto che tutti siamo fragili, allora assumeremo
le nostre difficoltà e limiti non (solo) come ostacoli da superare, ma (anche)
come risorse per presentarci agli altri quali compagni di viaggio nel
ricercare, desiderare, costruire, sperare, amare… insieme!

Prospettive per la
nostra pastorale missionaria

Offro qualche indicazione, poco più di un elenco perché non ci
sono ricette o scorciatornie possibili. Ogni comunità dovrà fare la giorniosa
fatica del proprio concreto discernimento.

A) Centro e
periferie

Gesù fu un uomo delle periferie. «Ebreo marginale» lo chiama un
grande studioso della sua vicenda, John P. Meyer. Si mosse lontano da
Gerusalemme, passava per città e villaggi della Galilea, periferia dell’impero
romano, incontrava pagani, peccatori, malati, donne disprezzate e peccatrici,
povera gente. Proclamava beati i poveri. Affermava che prostitute e pubblicani
avrebbero preceduto tutti nel regno di Dio. Dalle periferie annunciò che il
Regno di Dio era in mezzo a noi e che iniziava a realizzarsi con lui. Al
banchetto del Regno Dio avrebbe riempito la sala con «poveri, storpi, ciechi,
zoppi» (Lc 14,21), «buoni e cattivi» (Mt 22,10), dopo il rifiuto dei primi
invitati. Morì maledetto come un malfattore con la morte peggiore per il suo
tempo, circondato da un piccolo gruppo di seguaci impauriti.

Ricollochiamo Gesù di Nazareth al centro della nostra vita
personale e comunitaria: tutto Gesù, quello pasquale e glorioso naturalmente,
ma anche quello cosiddetto pre-pasquale, messianico, liberatore. Messo Gesù al
centro, scopriremo subito che egli cederà volentieri il posto a coloro che
stanno ai margini: li metterà nel mezzo, farà loro spazio, concederà loro il
primo piano sulla scena, intercederà per loro!

Allora guardiamole queste periferie, cerchiamo di conoscerle e di
vedere in esse se e come lo Spirito sta agendo. Il «se» è certo; il come è da
disceere.

B) Sensus
fidei/fidelium

Quello che a livello istituzionale si fa
fatica a smuovere, bisogna tentare di cambiarlo con coraggio e serena
intraprendenza a livello di «popolo di Dio». Non perché non si ami
l’istituzione, ma proprio perché non possiamo abbandonarla a se stessa e alla
sua autoreferenzialità. La vogliamo diversa, più al servizio nostro e della
nostra missione. Ma dobbiamo essere in grado di dirle che cosa ci serve per
un’evangelizzazione maggiormente efficace, in un atteggiamento di dialogo e
ascolto.

Allora se ad alcuni non è dato il giusto
riconoscimento, riconosciamoli noi, in nome di un servizio, di frutti e di «profezie»
che abbiamo sperimentato e che possiamo raccontare. Li possiamo abilitare
prestando loro ascolto e facendo spazio a ciò che hanno da dire o da mostrare.

C) Sinodalità
(camminare insieme)

Abbiamo bisogno tutti, sempre, gli uni degli altri. Nessuno può
farcela da solo. Ma dobbiamo crescere nella capacità di vivere una vera alterità
che è fatta di differenze che collaborano e condividono lo stesso sogno. Nella
comunità di Gesù l’essere altro non sarà mai tolto, e anzi i doni dello Spirito
lo accentueranno. Questo richiede non solo una grande capacità di dialogo e
ascolto ma anche di intesa e mediazione. Non è per niente facile. Tuttavia non
si può evitare la fatica di intendersi, di cercare insieme, di collaborare
nella diversità di doni e carismi, pena la perdita della propria libertà e lo
svilimento del Vangelo. Anche qui dobbiamo elaborare atteggiamenti e buone
pratiche in modo tale da istruire le questioni sempre e solo con il consiglio
di molti. Arriveremo un giorno non solo a sopportare (quando va bene) i
consigli pastorali, ma addirittura a desiderarli? Non è la missio ad gentes
a dirci che «perdere» tempo a elaborare insieme le cose è stata la migliore
garanzia di risultati duraturi e degni del Vangelo?

D) Oltre il
rancore e il risentimento

Giona, il missionario tipo del convegno, non era affatto
desideroso di andare verso Ninive. Viviamo in un tempo in cui il rischio più
forte è lasciarsi prendere da quello che Zygmunt Bauman chiama il demone della
paura: ci sentiamo incerti, fragili, insicuri, incapaci di controllare la realtà,
pronti a trattare gli altri come nemici. La paura come nemica della speranza.
La paura che ci spinge a fare come Giona che «si mise in cammino per fuggire a
Tarsis, lontano dal Signore». Siamo attratti anche noi, spesso, dalle sirene di
Tarsis. Incapaci non tanto di uscire ma di farlo dalla parte giusta, nella
direzione di Ninive.

All’improvviso, però, Dio sconvolse il suo ordine irrompendo
nella sua vita come un torrente in piena, privandolo di ogni sicurezza e
comodità: lo (ri)inviò a Ninive, «la grande città», simbolo di tutti i reietti
ed emarginati, luogo di tutti i mali, per proclamare la sua Parola, per
ricordare a tutti gli uomini smarriti che le braccia di Dio erano aperte e che
Lui avrebbe offerto loro il suo perdono e la sua tenerezza.

La chiamata rivolta a Giona, risuona incessante anche per noi e
ripete l’invito a vivere l’avventura di Ninive, ad assumerci il rischio di
essere i protagonisti di una nuova missione, frutto dell’incontro con Dio.
Questo incontro è sempre una novità e ci sprona a rinunciare alle abitudini, a
metterci in marcia verso le periferie e le frontiere, là dove si trova l’umanità
più ferita e dove i giovani, dietro la loro apparenza di superficialità e
conformismo, non si stancano mai di cercare una risposta alle proprie domande
sul senso della vita. Aiutando i nostri fratelli a trovarlo, anche noi
comprenderemo, in modo rinnovato, il senso dell’azione e la gioia della
vocazione educativa, la ragione delle nostre preghiere e il valore della nostra
dedizione.

La soluzione peggiore consiste nel trincerarci nel nostro piccolo
mondo emettendo giudizi amari sulle condizioni in cui versa la società. Non ci è
permesso di trasformarci in «scettici» a priori. Dobbiamo invece lanciare
messaggi positivi: vivere noi per primi in pienezza e farci testimoni e
costruttori di un nuovo modo di essere uomini e donne. Ma questo non
succederà se perseveriamo nello scetticismo: bisogna convincersi che le cose non
solo «si possono» cambiare, ma che la rivoluzione di cui ci facciamo portatori è
una «imprescindibile necessità» (Cfr. Jorge Mario Bergoglio, Messaggio alle
comunità educative
, Buenos Aires 2007).

E) Uscire per
cambiare mentalità

Ormai abbiamo capito, dopo 50 anni di mancata applicazione del
Concilio, che il problema è la mentalità da cambiare (metànoia) e che
non basta un cambio di struttura (anche se a un certo punto è indispensabile).

Per questo occorre partire dalla missione. A mio avviso il
problema è quello di potere e sapere leggere la missione che lo Spirito sta già
suscitando adesso, con i suoi profeti e i suoi protagonisti, le sue pratiche,
le sue frontiere e periferie, i suoi incontri. Questo è un punto che dobbiamo
assolutamente credere! E su questa base vogliamo motivare una maggiore, più
decisa e meglio illuminata estroversione e animazione missionaria. Il nostro
problema principale è uscire, e la promessa che ne sostiene il dinamismo è che
così facendo ritroveremo la gioia del Vangelo e di conseguenza potremo anche
individuare passi di riforma della Chiesa. In poche parole: (re)imparare la
missione da ciò che accade, da coloro ai quali siamo inviati, dal lavoro dello
Spirito nel mondo.

L’accento mio è che solo guardando fuori e dicendosi (lasciandosi
dire) cosa si vede e si sperimenta, si capisce cosa fare di diverso e meglio
della nostra animazione. Per non correre il rischio di parlarci addosso. Per
una volta dimentichiamoci un po’ di noi e chiediamoci che cosa ci dona la città
(Ninive, la periferia) e di che cosa ha bisogno. Saremo allora capaci di vedere
tracce e odorare profumi di Vangelo intorno a noi e anche lontano da noi, ma
certo fuori di noi. Poi vedremo cosa possiamo fare e cosa cambiare. Se siamo
autoreferenziali, non si esce davvero. Se invece ci confrontiamo con qualcosa
di veramente altro, allora forse cominciamo a cambiare.

F)
Evangelizzati dai poveri

«I poveri sono i compagni di viaggio di una Chiesa in uscita,
perché sono i primi che essa incontra. I poveri sono anche i vostri
evangelizzatori, perché vi indicano quelle periferie dove il Vangelo deve
essere ancora proclamato e vissuto» (dal messaggio di Papa Francesco ai
partecipanti al convegno, 22/11/14).

Per stare al convegno e alle sue relazioni: Ninive e Dio
convertono Giona; i poveri e lo Spirito istruiscono Gesù; la missione e i suoi
profeti riorientano la nostra azione; la città e le sue risorse interpellano la
nostra animazione; il perdono ricevuto e la benevolenza divina ci aiutano a
trovare il volto amabile del mondo. Da qui possiamo eventualmente ripensare la
nostra responsabilità per la missione ed evangelizzazione.

Ogni giorno che passa mi convinco sempre di più che il nostro
mondo ecclesiale e missionario con i suoi schemi sta finendo. O forse è già
finito. È vero: alcune nostre proposte non passano o non sono mai passate, e
forse sarebbe opportuno rifarle; ma forse hanno fallito anche perché sono
esattamente sulla lunghezza d’onda (tipo l’ossessione per l’identità, la
collocazione, il ruolo, lo specifico…) di quelle realtà che ci tengono ai
margini. Occorre rischiare strade nuove. All’inizio sarà inevitabile sbagliare
e anche trovarsi un po’ confusi, ma quale sorpresa poi cominciare a intravedere
ciò che davvero appare nuovo. Credo che il convegno abbia tentato di mettere le
premesse per fare spazio e incoraggiato la creatività nel cercare e inventare
strade nuove nella missione.

G) Ninive è
la novità di Dio

Il convegno ha suscitato in noi almeno l’interesse per Ninive.
Lasciando allora che la città ci cambi con le sue domande e inquietudini,
disagi e ferite. Se posso essere anche più esplicito: dobbiamo decentrarci
perché ci deve stare a cuore Ninive (anche se non ne vogliamo proprio sapere)!
Perché i cambiamenti delle nostre comunità, dei gruppi, associazioni e istituti,
avverranno solo dopo aver raccontato quali segni di grazia vediamo in Ninive e
sul territorio e che cosa o chi infiamma il nostro cuore di nuova comprensione
dell’evangelo e di rinnovata responsabilità missionaria. Perché se di segni non
ne vediamo e di fiamme in cuore non ne abbiamo, avremmo davvero un grande
problema. A quel punto neppure la migliore delle riforme strutturali ci
servirebbe granché.

Perché Dio ci sta parlando nella «novità» di Ninive. E la novità ci
fa sempre un po’ di paura, perché ci sentiamo più sicuri se abbiamo tutto sotto
controllo, se siamo noi a costruire, a programmare, a progettare la nostra vita
secondo i nostri schemi, le nostre sicurezze, i nostri gusti.

E questo avviene anche con Dio. Forse non come Giona, ma spesso anche
noi Dio lo seguiamo, lo accogliamo, ma fino a un certo punto; ci è difficile
abbandonarci a Lui con piena fiducia, lasciando che sia lo Spirito Santo
l’anima, la guida della nostra vita, in tutte le scelte. Abbiamo paura che Dio
ci faccia percorrere strade nuove, ci faccia uscire dal nostro orizzonte spesso
limitato, chiuso, egoista, per aprirci ai suoi orizzonti. Ma, in tutta la
storia della salvezza, quando Dio si rivela porta novità – Dio porta sempre
novità -, trasforma e chiede di fidarsi totalmente di Lui.

Non è la novità per la novità, la ricerca del nuovo per superare
la noia, come avviene spesso nel nostro tempo. La novità che Dio porta nella
nostra vita è ciò che veramente ci realizza, ciò che ci dona la vera gioia, la
vera serenità, perché Dio ci ama e vuole solo il nostro bene. Domandiamoci
oggi: siamo aperti alle «sorprese di Dio»? O ci chiudiamo, con paura, alla
novità dello Spirito Santo? Siamo coraggiosi per andare per le nuove strade che
la novità di Dio ci offre o ci difendiamo, chiusi in strutture caduche che
hanno perso la capacità di accoglienza? (Cfr. Papa Francesco, piazza San Pietro
domenica 19 maggio 2013).

H) Tra
continuità e discontinuità

Il cambiamento avverrà in modo graduale. L’importante è che non
diventi un semplice prolungamento (e magari miglioramento) del presente, ma che
sia caratterizzata dall’irruzione di elementi sorprendenti, inattesi, che
determinano un sostanziale mutamento qualitativo.

Si tratta di imparare a contemplare l’oltre verso cui la
missione ad gentes deve protendersi. Il punto al quale noi siamo giunti,
nelle realtà e nei contesti in cui operiamo in Italia e nel mondo, non può
essere considerato come il modello di un perpetuo ritorno per rifare le stesse
cose, ma il semplice punto di partenza per qualcosa di nuovo che va oltre sia a
livello geografico che contenutistico.

Hannah Arendt ha scritto in Vita activa: «Il fatto che
l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso,
che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è
possibile perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo
qualcosa di nuovo nella sua unicità».

Sì, perché abbiamo ancora bisogno di utopia, abbiamo bisogno di
speranza e di fede, abbiamo bisogno di vivere amando anche ciò che non potremo
vedere realizzato. Questo amore è una potenza feconda e generante: è una forza
profetica che crea futuro, dà speranza, apre orizzonti di senso, dà forza per
vivere nella storia e nel mondo attendendo il regno di Dio, che è il fine della
storia e il futuro del mondo.

Concludo con l’accorato appello fatto da Papa Francesco ai
partecipanti al convegno: «Vi esorto a non lasciarvi rubare la speranza e il
sogno di cambiare il mondo con il Vangelo, con il lievito del Vangelo,
cominciando dalle periferie umane ed esistenziali. Uscire significa superare la
tentazione di parlarci tra noi dimenticando i tanti che aspettano da noi una
parola di misericordia, di consolazione, di speranza. Il Vangelo di Gesù si
realizza nella storia. Gesù stesso fu un uomo della periferia, di quella
Galilea lontana dai centri di potere dell’Impero romano e da Gerusalemme.
Incontrò poveri, malati, indemoniati, peccatori, prostitute, radunando attorno
a sé un piccolo numero di discepoli e alcune donne che lo ascoltavano e lo
servivano. Eppure la sua parola è stata l’inizio di una svolta nella storia,
l’inizio di una rivoluzione spirituale e umana, la buona notizia di un Signore
morto e risorto per noi. E noi vogliamo condividere questo tesoro».

Andiamo avanti con speranza!
Antonio Rovelli

L’articolo è debitore in vari modi e forme alla relazione di
Aluisi Tosolini tenuta al Convegno e ad alcuni contributi e riflessioni di Luca
Moscatelli fatte in occasioni diverse.



Dio ama gratis
di Gustavo Gutiérrez

Evangelizzazione

Comincio commentando tre frasi. La prima di Paolo VI che
nella Evangelii Nuntiandi ha detto che «la Chiesa esiste per
evangelizzare
». Questa è la ragione d’essere della Chiesa, evangelizzare, e
(non si può dire che) la Chiesa esiste prima e evangelizza dopo. Esistenza e
impegno per l’evangelizzazione sono una sola cosa. Se la Chiesa non evangelizza
non esiste, non è Chiesa, è un gruppo di persone.

La seconda frase viene da papa
Francesco: evangelizzare è fare presente il regno di Dio nel mondo.
Semplicemente questo. È fare presente il regno che è il centro della
predicazione di Gesù. Gesù è venuto per questo, per dire (che) il regno è qui,
ma non pienamente. Questa definizione di evangelizzazione è molto ricca.

La terza è sempre di Francesco: la
motivazione dell’evangelizzazione è l’amore di Dio che noi abbiamo ricevuto
.
È una espressione dell’amore di Dio. Questa è la radice. Senza amore non c’è
evangelizzazione. Dobbiamo amare come Gesù ha amato. Nei Sinottici dice: noi
dobbiamo dare gratuitamente ciò che abbiamo ricevuto gratuitamente. Qui
l’accento è sulla gratuità dell’amore di Dio. Credo che qui abbiamo una
questione molto centrale in tutta la Bibbia, primo e secondo testamento:
l’amore di Dio è gratuito. Certamente quando dico gratuito non dico arbitrario.

Abbiamo visto questo parlando del
libro di Giona. Una perla. Quello che Giona non ha capito è la gratuità
dell’amore di Dio. Non ha saputo capire il senso dell’amore di Dio che ama
tutte le persone.

Nel Concilio abbiamo un documento, l’Ad gentes,
che ha ricuperato il senso globale della evangelizzazione. All’inizio del
documento dice che l’evangelizzazione della Chiesa è un prolungamento delle due
missioni, quella del Figlio e dello Spirito Santo. Questo è molto ricco, perché
lega la missione della chiesa alla missione della Trinità. Quella della chiesa è
una missione che viene da lontano. Questo testo risente della mano del padre
Yves Congar. È un punto teologico molto importante. La missione deve creare la
comunione con la Trinità, una comunione con il dio della nostra fede, una
comunione fra gli esseri umani e tra noi. È il senso di una parola importante
nella Bibbia: koinonia. Ha tre sensi. Koinonia fra le persone
divine. Koinonia sull’essere umano con Dio, La koinonia tra le
persone umane. La colletta per aiutare i poveri è chiamata koinonia.
[…]

Grazia e impegno

Giona è un credente ma
rifiuta di agire secondo la fede nell’amore gratuito di Dio, non ha capito che
Dio è un Dio di tutti. Questo è anche oggi, c’è chi rifiuta (questa verità).
Quando si dice il Dio del perdono. Per-dono: dono è regalo, per è
superlativo, (quindi) è un gran regalo. (Noi) dobbiamo comprendere che non c’è
un regalo senza una esigenza. Le beatitudini sono molto chiare in questo. Amare
come Gesù ci ha amato. Gesù ringrazia parecchie volte e allo stesso tempo è
molto presente al suo momento storico.

Accettare il dono di essere figli
di Dio non significa una chiamata a (diventare) suore, a fare amici, perché il
dono (è) … In tedesco c’è una espressione. Grazia si dice gaben,
obbligazione si dice ausgaben. (Così) dicono che la vita cristiana è tra
la gaben e la ausgaben, fra la grazia e l’esigenza. Mons. Romero
ha mostrato questo.

Le due grandi dimensioni della vita
cristiana sono la preghiera e l’azione per cambiare quello che non è degno
della persona umana. Cercare di capire che qui non c’è una opposizione (tra le
due) è molto importante per il credente nel Dio incarnato. Grazie.

_____________________

Dalla registrazione della conferenza
di Gustavo Gutiérrez
a Sacrofano. Nostra trascrizione, non rivista dall’autore.

 

Antonio Rovelli




Dove vita e morte danzano

Diario di un giovane
da Isiro

Un giovane di 22 anni
decide di fare un’esperienza di missione in Congo RD, a Isiro, con i missionari
della Consolata. Parte a settembre 2014, con la prospettiva di tornare in
Italia nel giugno 2015. Ciò che scopre è un mondo diverso, ma soprattutto se
stesso. 

Da subito inizia a condividere con gli amici su Facebook ciò che vive e
vede, senza l’idea di descrivere il Congo, ma semplicemente la sua esperienza.
Una piccola testimonianza fresca, divertente e riflessiva. Gli abbiamo chiesto
di potee pubblicare degli stralci. Eccoli.

16 settembre 2014

Ore
4.45 am, partenza. Sto per intraprendere un viaggio che non immagino
minimamente! Come prima cosa, leggo sul biglietto aereo una clausola che dice: «La
compagnia si riserva di rispondere a eventuali danni, ferite o morte» (Ah,
partiamo bene!).

Quando
arrivo a Isiro in un aeroporto senza finestre, una struttura fatiscente in
mezzo alla foresta, e vedo le strade di terra rossa e il verde infinito, penso:
«Questa sì che è la vera Africa!». Dopo un’accoglienza calorosissima di padre
Flavio (Pante), padre Rinaldo (Do) e Ivo (Lazzaroni – volontario laico), ci
avviamo alla missione: sono in un posto meraviglioso. L’aria che si respira è
carica di voglia di mettersi in gioco.

19 settembre

Oggi
prima mattinata passata a Gajen (il Gruppo d’appoggio a giovani e bambini
bisognosi), una realtà fatta di centro nutrizionale, scuola matea della
diocesi e il mitico foo! Senza dimenticarsi dello zoo di fratel Domenico
(Bugatti).

Il
centro nutrizionale accoglie i bambini malnutriti (portati generalmente dai
loro fratellini e sorelline) e le loro mamme (che arrivano in seguito), tra le
7 e le 8. Vengono dati un pasto alla mattina e uno per pranzo (inoltre vengono
fatte visite e somministrate medicine varie).

La
scuola matea è piena di bambini che mi chiamano già père Tommaso (qua
funziona così: bianco = missionario). Sono troppo belli quando ripetono in coro
ciò che imparano in francese, o quando mi studiano toccandomi le braccia e i
capelli, come fossi un alieno.

Arriviamo
al foo: è uno spettacolo! Vengono fatti pane e biscotti poi venduti per
strada. Stamattina mi hanno fatto fare l’impasto per i biscotti. Mi sono
divertito un sacco. Io ho sfoderato la mia «esperienza» da pasticcere e mi
hanno fatto i complimenti. Infine lo zoo di fratel Domenico: gattini,
cagnolini, polli, anatre, conigli e, colpo di scena, una scimmia. Credo che
diventeremo presto amici: oggi le lanciavo oggetti che lei prendeva al volo. Fa
troppo ridere!

Al
pomeriggio sono andato con il mitico padre Tarcisio (Crestani) a giocare a
pallavolo. Non l’avessi mai fatto: siamo arrivati in questo campo della
Consolata, dove tutti i pomeriggi si trovano dei giovani a giocare, e abbiamo
fatto una partita tiratissima, a dei ritmi da matti. Modestamente si sono
complimentati con me, ma ora sono a pezzi. Mi hanno chiesto di tornare anche
domani. Se non imparo in fretta a dire no, non sopravvivo più di un mese.

La
cosa che mi ha colpito di più oggi sono stati i bambini malnutriti. Dovete
sapere che la denutrizione si manifesta con un’eccessiva magrezza, oppure con
pance e piedi gonfi e capelli sbiaditi. Ma ciò che mi fa più impressione sono
quegli occhi grandi, spenti e profondamente vuoti. Questi bambini, che
sarebbero per eccellenza l’esuberanza e la vitalità, appaiono come prosciugati,
e si trascinano in giro come se anche la vita pesasse su di loro. Quello
sguardo che non reagisce a sorrisi, peacchie, scherzi e smorfie, è difficile
da mandare giù. Credo che mi dovrò «abituare», ma non credo che l’abitudine
toglierà il senso di angoscia e impotenza, e quella domanda: come può succedere
questo mentre c’è tanta ricchezza e spreco nel nostro mondo?

23 settembre

Il
mio servizio di questi mesi lo svolgerò la mattina al centro nutrizionale di
Gajen. Per la comunità invece curerò l’orto. Poi, per lo «svago», farò parte
della squadra di pallavolo. Mi ripeto che devo cercare di vivere giorno per
giorno, perché altrimenti vengo inghiottito dal tempo stesso.

Al
centro stamattina mi sono dovuto ancora confrontare (a volte con il groppo in
gola) con i bambini denutriti. Spesso dietro la malnutrizione si cela un
discorso molto più ampio di problemi a livello familiare, come quello delle
ragazze madri che non sanno gestire i figli, o devono ancora andare a scuola, o
quello dei figli nati da violenze.

C’è
un bambino, tra i più gravi, che lotta tra la vita e la morte, ricoperto di
piaghe. Anche se mangia, queste non guariscono. La madre ha una faccia talmente
rassegnata che potrebbe prendere da un momento all’altro e andarsene.

Oggi
sono andato anche in carcere. Bè, non che mi abbiano arrestato… per adesso.
Ogni due settimane viene portato un pasto, un pezzo di sapone e la celebrazione
della messa. La prigione è un capannone che non ha finestre, ma solo qualche
feritornia per la luce. Dentro questo unico spazio ci sono circa cinquanta
persone con una quindicina di letti in legno, stretti come delle cuccette, e
sparpagliati per la stanza che è anche sala da pranzo, gabinetto e quant’altro.
In questi giorni ho letto il «Diario» di Etty Hillesum, ebrea deportata nei
campi di concentramento, bè, quando sono entrato nella prigione mi è sembrato
di essere finito in un lager. Dopo la messa abbiamo distribuito il pasto. Non
nascondo di essermi messo vicino alla porta, pronto a scappare in caso di
necessità!

24 settembre

Mentre
sono perso nei miei pensieri sulla lontananza da casa, arrivo al centro e vengo
investito da un dolore a cui non sono preparato: sono grida di disperazione.
Vedo la mamma del bimbo con le piaghe inginocchiata fuori dalla cameretta.
Grida diverse parole. Ne riconosco una: Nzambe (Dio).

Non
ero pronto alla vita di questo posto, figuriamoci alla morte.

È
impossibile trattenere la commozione: vedo il padre sul letto del figlio, in
lacrime, mentre la madre raccoglie le poche cose che ha con sé (qualche
scodella, tazza e lenzuolino). La preghiera insieme davanti al corpicino del
bimbo. Vedo il padre che gli socchiude le palpebre e gli mette sul viso un
piccolo panno bianco, e poi esce dal cancello con il corpo del figlio avvolto
in un panno e fissato al petto. Per tornare a casa, con quel figlio come in
grembo, devono fare 25 Km a piedi. Non immagino la lunga agonia del viaggio di
ritorno.

Ho
potuto «solo» pregare, non sapevo fare altro.

Questa
è stata una mattina di pioggia a Gajen, pioggia dal cielo e dagli occhi. Eppure
in questo strano equilibrio in cui vita e morte danzano follemente, un’ora
dopo, tutto era tornato normale: di nuovo al lavoro per preparare il cibo ad
altri bambini.

Mi
sono confrontato con un mistero troppo grande e non so se mai lo comprenderò.

28 settembre

Sono
passati appena pochi giorni eppure è come se fossi qua già da mesi, come è
possibile? Qui la giornata sembra più lunga e piena forse perché si gusta
tutta, ora per ora, minuto per minuto: dalle cose semplici a quelle
straordinarie. Anzi, se si fa attenzione, sono le cose semplici a diventare
straordinarie. Qui le persone non hanno grandi programmi e si gustano la
giornata senza essere proiettati all’impegno della sera o del week end, senza
perdersi il presente.

Ieri
abbiamo disputato il primo match di pallavolo contro un’altra squadra. È stata
una partita combattuta. Io mi son guadagnato il soprannome di «Boucanier»,
perché faccio le schiacciate. Del resto i miei compagni si chiamano Mosè,
Messia, Geremia, Isacco, Elia, Miracolato (perché quando è nato non si sapeva
se ce l’avrebbe fatta), e Aristotele: non potrei essere in mani migliori.

Anche
questa domenica la messa in lingala, celebrata in un corridoio dell’ospedale, è
stata accompagnata da grida e lamenti di una trentina di persone a causa della
morte di qualcuno, così la morte quatta quatta mi si ripresenta come a dire: «Faccio
parte della vita, non puoi ignorarmi».

La
coppia fatta da fratel Domenico e padre Tarcisio fa morire dal ridere. Il
primo, per leggere lodi o vespri, usa la lente d’ingrandimento e si addormenta
ovunque; il secondo, per die una, si fa tostare il pane bello duro e poi lo
ammolla nell’acqua. Dopo pranzo, ma soprattutto la sera, mi metto a guardare la
«televisione» con padre Tarcisio: ci sediamo dietro al cancello e guardiamo
fuori, l’unico programma disponibile è la vita. Quante cose si vedono! Una
marea di gente che passa e saluta. Se ne vedono di tutti i colori (bè, in realtà
sono tutti neri, ma avete capito). Anche tante persone che vengono a chiedere
aiuto, e stanno lì fino a sera per avere 100 franchi (10 centesimi di Euro). Vi
racconto un aneddoto: avevo buttato uno spazzolino molto vecchio. Mentre siamo
sulla porta, arriva uno di quelli che lavorano in casa. Sta andando via e in
mano ha un sacchetto di pane in cui spicca qualcosa di blu… il mio spazzolino!
Cioè, capite che questa povertà non si può ignorare? Quante cose abbiamo noi e
ci lamentiamo? È vero, saremo in un momento di crisi, ma qui ci farebbero la
firma per essere nella nostra «crisi».

02 Ottobre

Sorella
morte ormai è di casa: è morta la sorella di una delle cuoche, inoltre un cuoco
(in servizio da 24 anni) si è ammalato gravemente. D’altra parte la vita, dal
canto suo, si fa sentire a gran voce con la sua più bella melodia: l’amore. Al
centro è arrivata una mamma sordomuta con il suo bimbo, è veramente commovente
guardare come se ne prende cura. Anche se non è riuscita (per ignoranza o
mancanza di beni) a dargli cibo correttamente, di sicuro l’ha fatto sempre
sentire amato. È un bimbo di dieci mesi bellissimo, sorride a tutti e mi saluta
sempre con la manina. Il caso di una mamma così è raro purtroppo: ci sono
troppi bambini nati da mamme troppo giovani, e magari abbandonate dal loro
uomo, che non sanno prendersene cura. La mancanza di amore provoca ferite
visibili quanto la malnutrizione.

In
questo vortice di vite intrecciate mi sono chiesto cosa potessi fare io. La
risposta l’ho trovata in un libro letto per «caso» (il caso è lo pseudonimo che
Dio usa quando non si firma personalmente): «Ama più ancora, e altri intorno a
te ameranno. Chi ama, fa amare». E allora mi son messo ad animare i bambini
malati, e soprattutto le loro sorelle più grandi con bans e giochi (dato che
non ci capiamo, vi lascio immaginare le risate) e, perché no, ho animato anche
le mamme che si fanno delle grandi risate. Non vi nascondo l’emozione nel
vedere alcuni bimbi che, pian piano, mi conoscono e mi cercano invece di
evitarmi o piangere. Forse almeno in un posto, sono riuscito a cambiare
l’immagine che la gente ha del bianco = soldi da chiedere.

Al
centro è arrivato un altro bimbo con grave malnutrizione. Sembra che le
medicine facciano effetto. Detto questo, non posso però ignorare le sue grida
di dolore, che mi risuonano nelle orecchie durante la giornata.

Malembe
malembe
(piano piano) imparo qualche cosa di lingala.


6 Ottobre

Stamattina
al centro abbiamo fatto gli auguri a un lavoratore che è diventato papà: lui ha
19 anni e la mamma 16! Quando mi hanno chiesto la mia età, è scattata la
domanda: quanti figli hai? Mi son scusato dicendo che ero un po’ indietro.

Sono
arrivati cinque nuovi bambini. Eritié (con grave malnutrizione) continua a
strillare, ma tra me e me penso che almeno è ancora vivo e anzi sta
migliorando, inoltre è tanto bello vedere tutta la famiglia (mamma, papà e
fratellino) che sta insieme a lui e non lo lascia mai solo.

Tra
tutti i bimbetti ce n’è uno particolarmente «aggressivo» che mi ha preso di
mira e mi insegue di continuo «picchiandomi». Si chiama Radis. Ho scoperto che
si comporta così perché non viene considerato, e allora, da quando ho iniziato
a stuzzicarlo, è diventato la mia ombra.

9 Ottobre

La
vita scorre tranquilla a Isiro, anche se la stagione delle piogge ogni tanto,
con la sua simpatia, smuove le cose. Ieri mattina c’era un gran caldo, poi nel
pomeriggio sono arrivati i nuvoloni neri e si è scatenata la fine del mondo,
acqua a secchiate e vento. Oggi al centro le mamme non arrivavano in orario e
ho chiesto come mai, mi hanno risposto che dipendeva da come si era ridotta la
loro casa, essendo fatte per lo più di terra e quattro pali, non è raro che
vengano distrutte dall’acqua.

Al
centro tutte le mattine un matto che sta alla porta mi accoglie come se fossi
il presidente, cantando e salutandomi in un misto di francese, inglese e
lingala. Il fatto è che continua per tutta la mattina, e mi urla addirittura «I
love you», facendo il saluto dei militari. E come dimenticarsi della grande coco
(significa nonna) che viene due volte alla settimana: è malata e sola, quindi
le diamo una mano. Passiamo i nostri venti minuti a parlare (lei in lingala e
io in italiano), mentre le dò una tazza di fagioli, una di riso, una di
zucchero, tre banane e mille franchi (un euro). Poi ci salutiamo e siamo
contenti così.

Oggi
ho provato la canna da zucchero! Praticamente si staccano dei morsi e si
succhia. Poi si sputa. Se non fosse che bisogna avere mascelle da cavallo per
mangiarla, è davvero buona!

Stamattina
è stato fatto il peso settimanale dei bambini. Quando ho visto una ragazza che
pesava 20 kg, le ho chiesto quanti anni avesse, e lei mi ha risposto 13.

Radis
continua a importunarmi.

Domattina
parto! Andrò a Bayenga, nella foresta equatoriale, per l’ordinazione di un
sacerdote. Ho preparato il mio zaino: oltre a vestiti e solite cose, dietro
consiglio dei più saggi, ho preso un rotolo di carta igienica, sapone e imodium
(consigli incoraggianti insomma).

14 Ottobre

Bayenga:
che avventura! Partiti venerdì alle 8, siamo arrivati alle 17. Per il ritorno
invece siamo partiti lunedì (ieri) alle 8 e siamo arrivati a mezzogiorno di
oggi.

Con
il senno di poi il viaggio di andata è stato buono, anche se mi rifiuto di
chiamare strade quelle che abbiamo attraversato: un campo arato in confronto è
il paradiso.

La
missione è bellissima, immersa nella foresta, uno spettacolo per gli occhi. Qui
viene in particolare seguito un programma con i Pigmei per sostenere la loro
cultura. Sì, anche qui c’è del razzismo: i Pigmei sono considerati inferiori e
sfruttati dalla altre tribù locali. Nel breve tempo a disposizione, ho visitato
un loro accampamento nella foresta. Piante curative, sistemi di caccia,
pitture, danze: qualcosa di così «antico» e puro non avrò la fortuna di
rivederlo. Ho già chiesto di tornare.

Mentre
tutti sono indaffarati nei preparativi della festa, io mi metto a giocare con i
bambini: io faccio la verticale e loro mi insegnano dei passi di danza.

Il
giorno della festa c’erano veramente tante persone! La messa è durata dalle 9
alle 13, ma con i canti della corale e i balletti dei bambini, non si è sentita
la lunghezza. Dopo c’è stato il pranzo, e a seguire, per tutto il pomeriggio, i
balli di gruppo e quelli dei pigmei. È stato un giorno pieno di sguardi, volti,
sorrisi, comunicazione, emozioni.

Arriviamo
così al viaggio di ritorno, su cui potrebbe essere girato un film. Siamo
partiti alle 8, e dopo 15 minuti ci siamo fermati per un camion impantanato,
rimanendo ad aspettare fino alle 14. A quel punto, data l’assenza di progressi,
abbiamo pagato dei ragazzi che stavano lì seduti a guardare (e che non
aspettavano altro). Hanno letteralmente costruito la strada. Prima hanno tolto
l’acqua a secchiate, poi hanno spalato il fango, sono andati con il macete a
tagliare dei tronchi in foresta per metterli a terra, e infine ci hanno buttato
sopra della terra asciutta e dura. Alle 18 siamo riusciti a partire. Un ragazzo
che era lì ad aspettare come noi mi ha detto: «Questa è la sofferenza del
Congo. I congolesi sono abituati a soffrire».

Dunque
il viaggio riprende mentre cala la notte. Ci ritroviamo in un buio pesante, in
un rettilineo nel mezzo della foresta. Incontriamo l’ennesima buca e ci
blocchiamo. Scendiamo dalla macchina che ora è in obliquo. Dalle 19 a
mezzanotte si susseguono spalate e tentativi dell’autista di uscire dal fango.
A condire il meraviglioso buio ci sono i suoni della foresta che di notte non
sono troppo incoraggianti. Decidiamo di dormire. Naturalmente incomincia a
piovere e quindi ci rifugiamo tutti dentro l’auto. Ero pronto a dormire in
macchina, ma non in una macchina mezza rovesciata nel fango! Il mio posto è
dietro al conducente nel lato opposto a quello affondato, quindi per non cadere
addosso agli altri sto tutto il tempo attaccato al finestrino mezzo aperto con
un braccio di fuori. In più tra noi c’è un autentico russatore. Verso le 5,30
inizia ad albeggiare. Alle prime luci dell’alba vedo dall’altra parte della
strada alcune capanne. Dunque io mi chiedo: ma nelle 5 ore in cui abbiamo fatto
una confusione tremenda tra grida, frizione dell’auto a manetta, vangate, ecc.,
nessuno poteva alzarsi e venire a vedere cosa succedeva? Mah!

In
ogni caso, la gente spunta fuori e arriva come se già sapesse di doverci
aiutare (dietro ricompensa ovviamente). Questa volta riusciamo a liberarci
verso le 7, e ripartiamo. Dopo dieci minuti l’auto si spegne, ma ripartiamo
dopo mezz’ora. Poco più avanti si spegne di nuovo, e questa volta sembra che il
motore non voglia proprio sapee. Mentre qualcuno prova a cercare aiuto, il
motore, non si sa come, riparte (a detta dell’autista e di tutti gli altri è un
miracolo). Ripartiamo per l’ennesima volta e, dopo un altro lungo pezzo di
strada e un altro stop con relativo aiuto (dietro compenso) di alcuni giovani,
finalmente arriviamo a casa.

21 Ottobre

Bula,
Bula, Bula
! Pioggia, pioggia, pioggia! Molti prodotti
alimentari non arrivano, e i prezzi di quelli locali schizzano alle stelle.

È la
seconda notte che non dormo, causa matanga dei vicini. La matanga
è una sorta di veglia funebre, ma in pratica è un’occasione per spolpare la
famiglia in lutto che deve offrire da bere e mangiare. La povertà arriva a
intaccare anche i valori, e anche la morte diventa occasione per mettere
qualcosa sotto i denti.

La
malattia attuale più grande non è l’ebola o la malaria, ma il sentimento di
essere indesiderabile, disprezzato e abbandonato. Mi rendo conto di come la
ricchezza e la povertà rendano ciechi (la prima per superbia e egoismo, la
seconda per disperazione e logoramento) davanti alla grande verità che solo un
essere umano può rendere felice un altro essere umano. Infatti l’idea che
traspare dai nostri paesi più ricchi è che la felicità la fanno le cose e i
soldi. Questa logica malata purtroppo inquina anche questi luoghi, dove la
gente brama il denaro per imitarci. E così, oltre a rovinare noi stessi,
roviniamo anche quei popoli che avrebbero tanto da insegnarci.

Eritié
è migliorato e non peotta più al centro. Radis continua a menarmi, ma in
fondo l’ho conquistato: a volte viene e appoggia la testa sulle mie gambe.

26 Ottobre

Prima
di partire non avrei mai immaginato che avrei vissuto il razzismo sulla mia
pelle. Sono in un paese sconosciuto, da solo e non conosco la lingua. Ma
soprattutto sono mundele (bianco). Qui sembra che l’unica relazione
possibile con i bianchi sia finalizzata ad avere soldi. Mi ritrovo a girare per
strada a testa bassa, perché non è facile sostenere quegli sguardi, alcuni dei
quali ti giudicano. E come biasimarli del resto? Io sono ricco, ho un sacco di
possibilità. Non posso non sentirmi in colpa, benché, effettivamente, che colpa
posso avere?

Spesso
mi metto a osservare la gente che passa: questo popolo non avrà da mangiare, ma
è sempre in cammino. Non si lascia paralizzare dalle difficoltà. Sembra dire: «Non
ci sto a rimanere con la faccia nella polvere, comunque vada c’è qualcosa che
quasi nessuno può togliermi: la vita».

29 Ottobre

Qua a
Isiro l’istruzione risente, come tutto il resto, della povertà. Se avessi fatto
questa esperienza anni fa, avrei riconosciuto il vero valore della scuola.

Girando
per strada vedo sempre studenti con zappe e macete. Allora un giorno ho chiesto
loro il perché. Dunque dovete sapere che gli stipendi statali degli insegnanti
non arrivano mai. Quindi vengono tolti dei soldi dalla tassa di iscrizione
(molto cara), e in più, diversi docenti fanno lavorare gli studenti nei campi e
a casa loro.

Questa
settimana a Gajen ho seguito la scuola matea. Ovviamente i bambini stavano la
maggior parte del tempo girati verso di me invece di seguire l’insegnante. A
parte qualche balletto e canzoncina la mattina, per il resto non esistono
attività o giochi. Durante le lezioni i bambini ripetono a macchinetta e in
coro quello che dice l’insegnante, anche perché devono imparare il francese.
Comunque io mi sono divertito un mondo! Facevo le smorfie e, da bravo studente,
ripetevo in coro con loro canzoncine e poesie. Una frase dice: «L’anima
guarisce stando con i bambini». Cavolo, è proprio vero!

Per
il resto tutto bene. Volente o nolente il lingala lo sto assorbendo. Sono
sempre stato abituato a fare e fare, ma in questo momento mi viene chiesto «solo»
di vivere: sono due cose diverse e non è per niente facile comprenderlo.

Novità
delle ultime ore. Domani partirò per la missione di Neisu di nuovo nella
foresta, quindi pronti per una nuova avventura.

Tommaso degli Angeli*
(1 – continua)

*
Dopo aver studiato all’Istituto tecnico agrario, ho conseguito la laurea
triennale presso la Facoltà di Tecnologie alimentari a Bologna. Ho 22 anni.
Abito a Bagnarola di Cesenatico (Forlì-Cesena). Ho conosciuto la Consolata
grazie a padre Francesco Giuliani. Dopo aver fatto insieme a lui e altri
giovani un percorso di animazione missionaria e due brevi viaggi (Gibuti nel
2011, Kinshasa, Congo Rd nel 2013), è nato in me il desiderio di vivere
un’esperienza più lunga e intensa. Allora ho deciso di prendermi un tempo per
riflettere su me stesso e sulla mia vita mettendomi al servizio del prossimo.
Padre Francesco mi ha suggerito Isiro, e a settembre 2014 sono partito. Ciò che
faccio è principalmente aiutare il centro nutrizionale di Gajen.
Il
diario è nato dall’idea che è importante scrivere le cose per rendere materiale
ciò che vivo nel cuore (e per essere testimone).
Tra
le motivazioni del viaggio, la più importante è la fede: mi sentivo chiamato a
vivere lo stile di vita missionario, così mi sono buttato, senza tante
sicurezze, spinto dallo Spirito che me lo suggeriva.

Tags: Gajien, laici missionari, volontariato, vita missionaria, testimonianze, CongoRD, Tommaso

Tommaso Degli Angeli




Divinamente Acqua

Feste e riti nell’India induista

Nelle religioni
l’acqua è uno degli elementi simbolici più forti. L’acqua è vita, è
purificazione, è unione con il divino. In India è l’acqua del Gange, fiume
sacro per antonomasia, ad attrarre milioni di persone. Proviamo a spiegare il
significato di questo rapporto che è fisico e spirituale.

Parlare e scrivere di India non è semplice, considerata la complessità
culturale e filosofica del paese asiatico. Pur tra innumerevoli contrasti, esso
rimane la più grande democrazia al mondo, intrisa ancora di una profonda
dimensione spirituale, dove si percepisce un «intimo» rapporto tra l’uomo e le
forze divine, tra il microcosmo e il macrocosmo. Un misticismo che sopravvive
in maniera diffusa, sebbene l’influsso di alcune tendenze culturali, tipiche
dell’Occidente, stia scompaginando antiche tradizioni e valori millenari, come
a suo tempo rilevato dall’orientalista Giuseppe Tucci, quando scrisse che «l’India
ha cambiato più in quindici anni che in quindici secoli». Un’affermazione che
riguardava il periodo tra il 1925 e il 1940, epoca in cui si potevano già
scorgere diversi episodi di mera imitazione di modelli stranieri. Tuttavia,
andando oltre le mode di Bollywood e le avanguardie tecnologiche di Bangalore,
l’India rimane una terra avvolta da una profonda devozione, al di là di
avvenimenti caratterizzati da intolleranza religiosa, che in molti casi
nascondono motivazioni politiche e questioni intee di potere.

Nel subcontinente indiano, materia ed energia, uomo e
infinito s’incontrano a un livello molto sottile, osservabile nella vita
quotidiana di milioni di abitanti, da Nord a Sud. Infatti, l’induismo (San?tana-Dharma, Legge
eterna) si manifesta attraverso un’ortoprassi che consiste in una serie di
norme che regolano ogni aspetto dell’esistenza di un devoto, a cominciare dalle
abluzioni del mattino sino alle p?j? (offerte di fiori, frutta, foglie, riso, dolci e
acqua) alle divinità. Soprattutto nei luoghi considerati sacri, come Varanasi
(Benares) e Haridwar, si tocca con mano proprio questa profonda spiritualità,
in particolare, se ci si avvicina al Gange.

L’acqua
metafora della vita

Nell’antico testo induista Taittir?ya-Sa?hit? si legge: «L’acqua è la più grande nutrice ed è quindi
come una madre». I fiumi in India sono considerati le dimore degli dei. L’acqua
è simbolo di vita, oltre che di purificazione e di guarigione per molti popoli
(si pensi, per esempio, all’acqua benedetta della sorgente della Grotta di
Lourdes che alimenta le fontane, il cammino dell’acqua e il bacino destinato
alle piscine). Nel subcontinente indiano la centralità dell’elemento acqua
assume risvolti singolari ed è oggetto di una devozione che probabilmente non
ha eguali altrove.

Per i fedeli indù tutti i fiumi indiani sono avvolti da
un alone di sacralità: la loro corrente, simbolo del flusso della vita, si
rinnova dalla sorgente sino all’oceano, dove incontra le altre acque,
perdendosi in esse. Una metafora ben descritta dal poeta e mistico indiano Tuls?d?s
con queste parole: «Quando confluisce nell’acqua dell’oceano, l’acqua del fiume
s’acquieta, come l’anima quando trova il Signore». L’esistenza della corrente
del fiume è transitoria, proprio come la vita degli esseri umani, ma è
bagnandosi alla sorgente dei fiumi che l’essere umano trova la sua sorgente
spirituale. L’importanza in India dei corsi d’acqua è anche testimoniata dal
fatto che, spesso, un luogo di pellegrinaggio viene definito t?rtha, ovvero «guado» o
ancora t?rtha-y?tr?, «guado sacro».

Il fiume più venerato è il Gange, che incarna l’energia
divina ed è esso stesso divinità, onorato da milioni di indiani, in quanto
fonte di vita, non soltanto punto di transito da una città a un’altra, ma anche
canale di interconnessione fra la terra e i cieli. È così importante che gli
indiani hanno composto un’ode, il Gangastothra-sata-namavali, dove
vi sono ben 108 nomi attribuiti al fiume Gange (come viene raccontato
dall’ecologista Vandana Shiva nel libro Le guerre dell’acqua).

Nei luoghi sacri lambiti dal Gange si vedono, in
particolari momenti della giornata, uomini e donne di ogni età intenti nelle
abluzioni. In riva al fiume, sui larghi scalini (chiamati gh??) di pietra, grazie ai quali si discende nelle acque, si
osserva il fermento devozionale: sfilate di fedeli compiono il rito della p?j?, con offerte di
coloratissimi fiori profumati e lumini accesi. Bagnarsi nelle acque del Gange,
secondo gli induisti, permette di rimuovere tutte le impurità dell’anima,
generate da azioni non virtuose. Immergersi in esso significa essere accolti
dalla divinità. Un atto compiuto per rigenerarsi, eliminando dal proprio karma qualsiasi forma di
negatività.

Quando
la realtà si confonde col mito

La devozione che gli induisti nutrono verso i fiumi si
percepisce soprattutto in occasione del Kumbha-mel?. Si tratta di un evento che
si svolge, secondo precisi cicli astronomici, in quattro diverse località
indiane: Haridwar, Nashik, Ujjain e Allahabad (chiamata anche Prayag, parola
che significa «confluenza dei due fiumi», infatti qui confluiscono il Gange e
lo Yamuna). Luoghi che si rifanno alla mitologia induista. Per comprendere ciò
che avviene in occasione del Kumbha-mel? è infatti necessario ritornare al mito: senza di esso ciò
che accade sarebbe impenetrabile.

Questo racconto mitologico – riportato nelle antichissime
scritture vediche chiamate Purana e nel testo epico Mah?bh?rata – è strettamente collegato
al mito induista della creazione dell’universo. Si narra che Vi??u, una
delle tre divinità (Trim?rti) induiste più importanti insieme a Brahm? e a ?iva,
riuscì a riconciliare dèi (Deva) e anti-dèi (Asura), dopo un’aspra lotta, in
cambio della loro partecipazione alla creazione del mondo. Deva e Asura si
unirono, e servendosi del monte Mandara appoggiato sul dorso della tartaruga Ak?para,
presero il serpente V?suki come corda e iniziarono ad agitare l’oceano cosmico.
Ne ricavarono l’ám?ta, il nettare dell’immortalità, racchiuso
all’interno di una brocca (kumbh). Al momento della creazione dell’universo nacquero
creature, esseri celesti, la luna e altro ancora. Ma il patto iniziale fra Deva
e Asura si spezzò innescando un altro scontro per il possesso del nettare di
lunga vita. Durante questa lotta, che durò per 12 giorni e 12 notti, alcune
gocce di ám?ta caddero sulla Terra, in corrispondenza di alcuni
fiumi e città.

Secondo il mito l’ám?ta toccò le città, divenute
sacre, di Nashik, Ujjain, Haridwar e Allahabad. Questi sono i quattro siti dove
ogni 12 anni, a rotazione, ha luogo il grandioso raduno del Kumbha-mel?.

Questo intervallo ciclico si spiega con la credenza
secondo cui 12 anni per l’uomo corrispondono a 12 giorni per le divinità. Da
qui l’usanza di celebrare questo festival ogni 12 anni in ognuno dei quattro
luoghi sacri, lungo le rive del fiume Godavari a Nashik, del fiume Kshipra a
Ujjain, del Gange a Haridwar, e alla confluenza tra Gange, Yamuna, e il
Saraswati a Allahabad.

Tra la
moltitudine dei fedeli

Il Kumbha-mel? è la festa più mistica di tutto il subcontinente
indiano, a cui accorrono milioni di fedeli (si parla di 10 milioni). Le
immersioni sacre vengono effettuate secondo un calendario specifico, le cui
date sono scelte in base a precisi calcoli astrologici, stabiliti considerando
sia la posizione del Sole, sia quella del pianeta Giove, che caricano l’acqua
di energie positive. Grazie a queste «irradiazioni benefiche», l’immersione nel
fiume permette al fedele di ritrovare salute, prosperità e il suo karma viene purificato da
ogni contaminazione. Chi compie le abluzioni rituali durante il Kumbha-mel? può
raggiungere inoltre la liberazione (mok?a o anche mukti), interrompendo il
ciclo delle morti e rinascite.

Questa impressionante riunione di fedeli, è l’occasione
migliore per capire l’essenza spirituale dell’India.

Si vede una folla immensa di uomini e donne che
inneggiano a ?iva e ad altre divinità indiane, pronte poi a immergersi a tuo
nella corrente tumultuosa.

Ad Haridwar, si possono scorgere nitidamente le catene
collegate lungo i gh?? o
penzolanti dai ponti, a cui si appigliano i pellegrini per non venire travolti
dalle acque del Gange, spesso impetuose. Durante i Kumbha-mel?
s’incontrano poi personaggi solitamente irraggiungibili e questo è uno degli
elementi centrali che rendono questa festa un evento unico, eccezionale.
Soltanto in questi giorni si possono vedere i misteriosi e talvolta inquietanti
Naga, in genere nascosti negli anfratti impervi dei monti himalayani. Un
rifugio che abbandonano soltanto in particolari circostanze. Sono uomini votati
all’eremitaggio, che si mostrano di rado, completamente nudi, per testimoniare
il loro distacco totale dal mondo e dagli attaccamenti terreni, coperti solo da
una coltre di cenere, simbolo dello stadio ultimo dell’esistenza. Oltre a loro
sono numerosi i s?dhu, gli asceti, e i samny?sin, monaci erranti che hanno
abbandonato ogni bene materiale per vivere solo di pura spiritualità.

Haridwar,
la porta divina


Haridwar rimane una delle città più sacre dell’India del
Nord, protetta dalla trinità indù: Brahm?, ?iva e Vi??u. La
città, sorta alle pendici dell’imponente catena montuosa dei Shivalik, è detta
la «porta del Gange», poiché è il primo luogo dove il sacro fiume incontra la
pianura, dopo essere sceso dalle vette dell’Himalaya.

La vita ad Haridwar pullula attorno al Gange; non a caso,
la struttura urbana si distende lungo le sue rive, dove si trovano i gh??, che permettono di raggiungere le acque. Il più
importante è situato accanto al tempio dove, narra la leggenda, è custodita
l’impronta del piede di Vi??u. Ad Haridwar, essendo una delle città più sacre
dell’India, si radunano migliaia di devoti per i riti di abluzione, o per
adempiere alle cerimonie di cremazione dei defunti. Qui si percepisce la forte
sensazione di essere parte di un immenso flusso esistenziale. Lungo le rive del
fiume il ciclo della vita e della morte si intreccia con la potenza dei quattro
elementi della natura, in occasione dei riti funebri: il fuoco lentamente
consuma il corpo, la terra sostiene il feretro, il vento alimenta le fiamme e
l’acqua trasporta le ceneri nella corrente eterna scandita da un inizio e da
una fine.

La
sacra confluenza

In tempi antichi, era conosciuta con il nome di Prayag,
che in sanscrito significa «luogo del sacrifico», ma è più comunemente chiamata
Allahabad, anch’essa città santa per gli indù. La sua peculiarità è quella di
essere situata alla confluenza dei fiumi Gange e Yamuna, oltre che, narra la
mitologia, del Saraswati, improvvisamente scomparso, che tuttavia ancora
scorrerebbe, invisibile, sotto il suolo e si unirebbe alle altre due correnti
sacre.

Questo importante centro spirituale è talmente rispettato
che il 12 febbraio 1948 furono versate parte delle ceneri del Mahatma Gandhi
proprio alla convergenza dei tre fiumi. «Coloro che si bagnano alla confluenza
dei corsi d’acqua vanno in cielo; coloro il cui spirito è saldamente eretto e
che muoiono qui, raggiungono l’immortalità», si legge nei Rig Veda, uno dei quattro
libri che compongono i Veda, antichi testi rivelati dagli dèi ai ??i, gli uomini saggi. Ad Allahabad, proprio come a
Haridwar, sembra che le differenze tra ricchi e indigenti si annullino,
nell’istante in cui i devoti s’immergono nella sacralità delle acque.


Kumbha-mel?
2015

Nel 2015 Giove e il Sole sono nel segno zodiacale del
Leone e quindi il Kumbha-mel? sarà celebrato a Nashik. Le celebrazioni più importanti
si terranno dal 14 luglio sino al 25 settembre. Situata nel Maharashtra,
nell’India centro-occidentale, a circa 200 km da Mumbai, la città è
attraversata dal sacro fiume Godavari, lungo il quale vi sono templi e gh??. Ma il luogo forse più santo per i fedeli è
Trimbakeshwar, uno dei 12 Jyotirlingas dell’India, ovvero uno dei simulacri della
manifestazione di ?iva nella sua forma di luce infinita. Si narra anche che sia
il luogo in cui nacque Ganesha (chiamato anche Ganapati), il famoso dio
raffigurato come essere umano dalla testa di elefante: una rappresentazione
dell’unità del piccolo essere (microcosmo) che è l’uomo e il grande essere
(macrocosmo) simboleggiato dall’elefante. È proprio a Trimbakeshwar che si
svolgono i rituali principali del Kumbha-mel? 2015, in particolare presso
Kushavarta. Secondo le credenze locali, bagnarsi in questo luogo significa
annullare i propri peccati. Da qui le folle di devoti che si immergono nelle
acque del Godavari. Una scena che si ripete lungo i gh?? di Ujjain, Haridwar e Allahabad. Le moltitudini di
fedeli che accorrono ai Kumbha-mel? e ad altre celebrazioni sacre indiane esprimono qualcosa
che va oltre la dimensione religiosa. Sono eventi di importanza sociale i
pellegrinaggi, poiché ad essi possono partecipare tutti, bambine, bambini,
giovani, anziani, donne, uomini, senza alcuna distinzione di casta.

Silvia C. Turrin

 

Nell’archivio MC: Piergiorgio Pescali,
Donna, è colpa tua, agosto-settembre 2014.

Silvia C. Turrin




Sulle Sponde del Gila River

Le missionarie della
Consolata aprono in una riserva indiana

Molti italiani
conoscono l’Arizona, il Gila River e gli indiani Pima più che altro attraverso
le pagine di Tex Willer, uno dei più longevi fumetti italiani. Quattro suore,
inossidabili nella loro passione per il Vangelo, da meno di un anno stanno
scrivendo una nuova avventura missionaria proprio in quelle assolate terre.

Dal primo agosto 2014, abbiamo iniziato la nostra
missione in una riserva indiana, Gila River Indian Community, in
Arizona, 60 chilometri a Sud Est di Phoenix, nel Sud Ovest degli Stati Uniti.
La riserva si trova nella diocesi di Phoenix, che da alcuni anni assicura la
celebrazione dell’eucarestia domenicale grazie al servizio volontario di alcuni
preti in pensione che coadiuvano il direttore diocesano del Native American
Ministry
, Fr. Gregory Rice, un missionario Mill Hill che è stato in
Pakistan per diciassette anni.

Nella
riserva ci sono sei suore Franciscan Sisters of Charity di Manitowoc,
Wisconsin, che gestiscono esclusivamente la scuola cattolica di St. Peter,
dedicata all’educazione elementare e media dei bambini nativi.

Questa
comunità di religiose è ciò che rimane del gruppo missionario che si è speso al
servizio pastorale ed educativo alla popolazione nativa dal 1896.
Francescani/e, le suore di St. Joseph of Carondelet, di St. Joseph of Orange e
i Fratelli delle Scuole Cristiane si sono susseguiti nel prestare il loro
servizio religioso-educativo fino al 1990. Il famoso collegio St. John’s
High School
, che ha educato migliaia di bambini e giovani, non esiste più.
Rimasto inabitato, è stato più volte vandalizzato e anche dato alle fiamme.

La
popolazione, di circa ventimila persone, appartiene alle tribù A’kimel O‘odham
(Pima) e Pee-Posh (Maricopa). Il territorio copre 1.512 km2
circa, diviso in sette distretti. Gli uffici dell’amministrazione tribale si
trovano a Sacaton, dove la nostra comunità risiede. La comunità tribale
gestisce la propria compagnia telefonica ed elettrica, ospedale, clinica, e
pubblica mensilmente il proprio giornale.

Sfortunatamente, la riserva ha uno dei più alti tassi di
diabete, tipo 2, nel mondo, circa il 50%. Per questo motivo, la comunità ha
contribuito a testare dati importanti per la ricerca in questo campo,
partecipando anche a studi approfonditi su questa malattia. Il tasso così alto è
dovuto anche all’alimentazione a base di molti grassi, carboidrati e cosiddetti
fast food. Infatti, l’obesità è altissima e l’indice di mortalità tra
giovani adulti è impressionante.

La gente è molto affabile e ci ha accolto con tanto
calore. Infatti, la prima domanda che ci hanno fatto è stata: «Siete qui per
rimanere?». Per anni una o due religiose hanno prestato un servizio volontario,
ma rimanevano uno o due anni e poi, per vari motivi, ritornavano alle loro
comunità.

I
bambini sono quelli che rubano il cuore. Dopo alcune domeniche di presenza
nelle loro piccole e povere cappelle sorridono al vederci spuntare e se
arrivano tardi a messa, cosa che succede tutte le domeniche, senti le loro
braccia intorno alla vita con quel bel sorriso e con quegli occhietti birichini
che sembrano dirti «Tardi, ma sono qui».

Per
ora partecipiamo all’Eucaristia domenicale in quattro missioni: St. Anthony,
St. Ann, Holy Family e Our Lady of Victory (vedi mappa qui sotto).
Collaboriamo all’educazione religiosa di bambini e adulti che si preparano ai
sacramenti, visitiamo gli ammalati, e assistiamo a tutti gli eventi a cui la
gente ci invita. Questo ci permette di entrare adagio e con semplicità nella
loro vita e conoscere il loro costume.

 

Consideriamo il nostro servizio tra i membri di
questa comunità nativa un onore e l’essere le prime missionarie della Consolata
assegnate a lavorare nella Gila River Reservation un privilegio.
Infatti, i nativi sono il gruppo etnico più dimenticato. La storia di
oppressioni e umilianti leggi ha contribuito a rendere questa popolazione
invisibile, per questo, generalmente, la gente ha una stima di sé bassissima.
Si attribuisce a questo l’alta percentuale di suicidi giovanili, l’alcolismo,
la droga, studenti rinunciatari (64%) e la partecipazione in gangs.

Noi
viviamo in questo spazio che è pur sempre sacro perché qui cammina la persona
umana e Gesù. Egli ci invita a contemplare il suo volto nei giovani
rinunciatari, nelle ragazze madri che lasciano i piccoli alla cura della nonna,
nelle donne vittime di violenze e abusi, e nelle vittime della droga e
alcolismo, e ad essere fra di loro una presenza rispettosa di consolazione.

Vogliamo,
come spesso esorta Papa Francesco, essere «pastore con lo stesso odore delle
pecore», per comunicare loro quanto siano preziose e care.

Riccardina Silvestri

tags: MdC, missione, Indians, popoli indigeni

Riccardina Silvestri




Adorabile Factotum

Ricordando Giancarlo?Pegoraro

Meccanico, idraulico,
muratore, carpentiere, falegname, camionista, ma anche animatore: Giancarlo
Pegoraro è stato un grande missionario laico. Un suo ricordo nelle parole di
Paolo
Deriu, amico e compagno di missione.

 

Giancarlo arrivò a Milaico
(Missionari laici della Consolata) di Nervesa della Battaglia, in provincia di
Treviso, nell’aprile del 1998, per formarsi e prepararsi a partire per l’Africa
o il Sudamerica, come missionario laico della Consolata.

Uomo
di opinioni forti e dalla voce potente, non passava inosservato. Con sé, portò
una ventata di entusiasmo e voglia di impegnarsi. Aveva fatto tanti mestieri:
camionista, elettricista, meccanico d’auto, muratore, operaio di calzificio.
S’intendeva di motori aeronautici e gli piaceva fare il pasticciere, senza
dimenticare che era anche boy scout e suonatore di «basso tuba» nella banda del
suo paese. Un personaggio, insomma.

A
Milaico si impegnò senza risparmio come animatore missionario e si dedicò ai
molti lavori di manutenzione che una casa grande come quella di Nervesa
richiedeva, per esempio, riparare le imposte, sistemare l’impianto elettrico o
quello idraulico. Soprattutto, divenne il nostro cuoco. Tra le sue specialità,
quelli che chiamava i «piatti da meditazione», passati di verdura e altro ben
spessi, che richiedevano un certo tempo di digestione, utili appunto per
riflettere sulla propria vita interiore.

Oltre
a essere un grande lavoratore, aveva una inesauribile voglia di imparare. Non
sapeva nulla di informatica, ma seguì con passione le nostre lezioni, poi
continuò a formarsi da solo, così che «superò i maestri» e divenne un esperto.

Come destinazione, inizialmente, ci venne indicato
il Kenya. Così il buon Giancarlo si diede di buona lena ad imparare l’inglese e
in breve lo sentimmo pronunciare le prime frasi in questa lingua, rispondendo
ad un registratore. Tuttavia, cambiò il paese di destinazione e nella primavera
del 1999, finalmente si concretizzò la partenza per una missione in Mozambico,
nell’Africa meridionale. Dopo qualche mesetto in Portogallo, per perfezionare
la lingua portoghese, Giancarlo prese l’aereo per Maputo, la capitale, e – in
attesa che arrivassi anch’io, una settimana dopo -, si fece conoscere come
factotum nella Casa Regionale Imc di quella città.

Arrivammo
a Mecanhelas (nella regione del Niassa, Mozambico settentrionale), la nostra
missione, la notte del 10 maggio. Trovammo padre Franco Gioda, padre Rogelio
Alarcòn e le bambine dell’«infantàrio» (centro nutrizionale), che ci accolsero
con canti, danze e torte da loro preparati.

Il
giorno dopo ci fecero conoscere la parrocchia, i suoi animatori e i suoi
operai. Tutta la missione contava circa 60 mila abitanti e 170 comunità
cristiane. Giancarlo venne nominato responsabile tecnico: si sarebbe occupato
dei mille lavori che una missione comporta e anche della formazione
professionale di manovali e operai specializzati. Il suo campo d’azione divenne
l’officina, che provvedeva alla manutenzione degli autoveicoli e dei mulini.

La
veneranda Land Rover dei missionari aveva le portiere che si chiudevano con le
corde e i freni ad azione ritardata (a volte nulla). Il camion, invece,
bisognava spingerlo, perché si mettesse in moto.

Oltre
ai veicoli, Giancarlo, o Genki come amava essere chiamato, cominciò a
preoccuparsi dei mulini a motore della parrocchia (frequentati da una numerosa
clientela, poiché non sottraevano farina durante la macinatura dei cereali, a
differenza di altri mulini di proprietà privata). Uno dei mulini perdeva circa
un litro d’olio al giorno, che si spandeva sul pavimento. Gli sforzi di
Giancarlo per insegnare al mugnaio a inserire una lamiera che raccogliesse le
gocce di lubrificante prima che cadessero a terra furono leggendari. Solo dopo
varie settimane, con le orecchie piene delle urla del nostro missionario laico,
il mugnaio si convinse che non era il caso di raccattare con le mani l’olio
disperso sul pavimento per rimetterlo nella macchina.

Un
discorso a parte furono i diversi progetti per costruire scuole, centri di
catechesi, cappelle e ambulatori, sparsi un po’ per tutta la missione.
Giancarlo era frequentemente richiesto per andare in giro a sovrintendere a
tutti i cantieri edili. Un suo sogno era un bel camion-laboratorio, con tutti
gli ultimi ritrovati della tecnologia, purtroppo era un po’ troppo caro per
riuscire a renderlo realtà.

Nelle sue peregrinazioni, Giancarlo non passava
inosservato. La gente lo vedeva transitare di buon mattino con il suo «passo da
alpino» (era, in effetti, un appassionato di montagna) diretto alla fuoristrada
o a un autobus, caricando un enorme zaino pieno di utensili e ricambi e
commentava: «Che grinta, sembra un soldato, chissà come è forte».

Un’altra
meta dei suoi viaggi era il Malawi, dove si recava a caccia di parti di
ricambio decenti. Approfittava di questi viaggi per dare uno strappo ai malati
della parrocchia, che avevano bisogno di cure specialistiche per cataratta agli
occhi, eie, varie forme tumorali. Quando invece andava nella città di
Nampula, in Mozambico, a oltre 400 Km dalla parrocchia, se poteva, caricava
malati di mente, diretti al locale ospedale psichiatrico.

Giancarlo
infatti non si occupava solo di risolvere guasti tecnici o di dirigere lavori
edili. Si preoccupava dei più deboli, tra cui appunto i malati, e gli stavano
molto a cuore anche i bambini del Centro nutrizionale con cui trascorreva i
momenti della sera o la domenica. I bambini erano molto contenti di averlo con
loro, avevano bisogno di un punto di riferimento maschile, essendo le
educatrici tutte donne.

Importante
per Giancarlo era la formazione professionale dell’équipe di meccanici,
falegnami, muratori e manovali (erano circa 70 lavoratori) con cui lavorava.
Abituato a un approccio sincero con la gente e a parlare forte e chiaro, per
Giancarlo fu difficile, all’inizio, comprendere un particolare tratto culturale
del popolo Makua, che ci aveva accolti. Ai Makua, infatti, non piace dire di «no»
a una domanda di un ospite straniero, perché non vogliono causargli un
dispiacere. Quindi poteva capitare che i lavoratori-alunni rispondessero sempre
di «sì», durante la formazione, alle domande di Giancarlo, anche se magari non
avevano capito un bel niente. Quando durante le esercitazioni pratiche veniva
fuori la verità, il poveretto aveva un bel sgolarsi per ripetere i concetti.

Comunque,
con il tempo, l’équipe tecnica di Mecanhelas imparò a dialogare con Giancarlo
(anche familiarizzando con espressioni del dialetto mantovano che il nostro
tanto amava) e ad apprezzae la professionalità.

Rientrato
da Mecanhelas nell’aprile 2002, Giancarlo rimase per un anno come animatore
missionario e factotum a Milaico, poi rispose di nuovo al richiamo della
missione e, nel 2003, rientrò in Mozambico dove riprese a lavorare come
meccanico, idraulico, muratore, falegname, camionista nelle missioni del Nord e
del Centro e ovunque lo chiamassero per riparare auto, installare generatori,
scavare pozzi. La sua ultima missione è stata Nova Mambone, dove sovrintendeva
alle saline, importante fonte di reddito della locale missione.

 

Missionario senza secondi fini o ipocrisie,
Giancarlo diceva chiaramente quello che pensava e dedicava ogni sua energia nel
lavoro di manutenzione e direzione tecnica e in quello di evangelizzazione.
Prendeva molto a cuore ogni suo impegno e soffriva quando temeva di non
riuscire a risolvere qualche problema, ma la sua perseveranza faceva sì che
questo succedesse di rado.

Nella
sua stanza, si poteva trovare la Bibbia, come anche utensili e parti di
ricambio, sistemati anche sotto il suo letto, giacché la sera o il mattino
presto, non erano per lui necessariamente tempi di riposo. Ci teneva a rimanere
in contatto con le realtà dei missionari laici della Consolata, soprattutto in
Portogallo e partecipava volentieri alle assemblee che venivano organizzate.

La
sua salute non era delle migliori. Al mattino, a colazione, ci comunicava il «bollettino
medico» della notte trascorsa, tra spifferi, dolorini e altro. Ma non era uno
che si lamentasse e ne parlava con allegria. Purtroppo, all’improvviso, il 31
gennaio scorso, la malattia ha vinto, ma solo sul suo corpo. Giancarlo continua
a vivere nel ricordo della gente di Mecanhelas e delle altre missioni in cui ha
servito, tra coloro che ha formato come specialisti e quelli con cui ha
condiviso giornie e dolori della vita. Senza mai chiudere la porta in faccia a
nessuno.

Paolo Deriu

Tags: laici, volontariato, missione, Pegoraro, Milaico

Paolo Deriu




Per un pezzo di terra

L’antisionismo degli Ebrei
Ortodossi
Non tutti gli ebrei
sono favorevoli allo stato di Israele. L’antisionismo si può incontrare, ad
esempio, tra molti ebrei ortodossi. Quelli aderenti ai movimenti «Satmar»,
«Agudat Yisrael», «Bund», «Edah Haredit» e «Neturei Karta» sono forse i più
intransigenti. Si tratta di un fenomeno poco conosciuto, ma presente, la cui importanza
è destinata a crescere.

Nel 1896 Theodor Herzl (1860 – 1904)
ripropose all’attenzione del mondo ebraico un’idea non certamente nuova, ma che
alla fine del XIX secolo cominciava a prendere piede tra le comunità
israelitiche: la creazione o, come disse lo stesso Herzl, la «restaurazione» di
uno stato che potesse ospitare giudei da tutto il mondo.

Prendendo spunto dal caso Dreyfuss (Francia, 1894, ndr) e dai moti antisemiti che
sconvolgevano l’Europa in quegli anni, Herzl sosteneva che «invano siamo leali
patrioti […] invano facciamo gli stessi sacrifici […] che fanno i nostri
connazionali; invano contribuiamo a incrementare la fama della nostra terra
natia nelle scienze e nelle arti o ad arricchirla con il commercio. Nei paesi
dove viviamo da secoli continuiamo ad essere considerati stranieri».

Secondo Herzl era dunque necessaria la creazione di uno
stato ebraico: «Garantiteci un pezzo di terra grande a sufficienza per
costruirci una nazione; penseremo noi a mantenerci».

In verità Herzl non propose il ritorno in Palestina.
Anzi, al primo Congresso sionista, svoltosi a Basilea nel 1897, indicò l’Uganda
come possibile luogo in cui insediare il popolo ebraico.

Il piano di insediamento avrebbe dovuto essere sviluppato
dalla Società degli ebrei e dalla Jewish Company che avrebbero
cornordinato la liquidazione degli interessi ebrei negli stati d’origine, il
trasferimento nella nuova terra, gli aspetti logistici dei nuovi insediamenti. «I
poveri dovranno andare per primi per disboscare terreni e coltivare i campi […]
costruiranno strade, ponti, ferrovie, telegrafi; regoleranno i letti dei fiumi
e costruiranno le loro case».

Nascita
dell’antisionismo: l’Agudat Yisrael

La
proposta fu quasi subito contrastata da alcuni gruppi di ebrei ortodossi
tedeschi, ungheresi e polacchi che, nel 1912 fondarono l’Agudat Yisrael (o
Agude), opponendosi alla secolarizzazione proposta dal sionismo. L’Agude era il
movimento più in vista della galassia antisionista ebraica: altre
organizzazioni, nate dopo quella teorizzata da Herzl, come il Bund (un
movimento socialista ebraico), avversavano la fondazione di uno stato ebraico
e, con esso, l’aliyah, la migrazione degli ebrei verso la Terra
Promessa (Eretz
Yisrael).

Attoo
ai gruppi antisionisti gravitavano pensatori autonomi che, con il loro
contributo, davano spessore filosofico e culturale all’antisionismo.

Uno di
questi, e anche uno dei primi a criticare il sionismo, fu Hermann Cohen
(1842-1918), filosofo tedesco neokantiano e contemporaneo di Friedrich Nietzsche,
secondo cui l’unica possibilità che le comunità ebraiche avrebbero avuto per
sopravvivere sarebbe stata quella di perseguire una politica di «integrazione
nella modea nazione-stato». Insomma, rimanere nei paesi in cui si trovavano
cercando di partecipare, a diversi livelli, alle attività politiche, sociali ed
economiche degli stessi. Cohen negava, dunque, la necessità di possedere una
terra che ospitasse gli ebrei, contrapponendosi alla tesi di Herzl.

Ma se
Hermann Cohen basava la sua tesi su una visione prettamente pragmatica e non
discostando il suo pensiero dal secolarismo, un suo seguace, Steven
Schwarzschild (1924-1989), sviluppando le sue tesi pacifiste attraverso un
intenso dialogo con Thomas Merton, spostò il dibattito sull’ambito religioso.

Schwarzschild
presagì, come la filosofa e scrittrice Hannah Arendt (1906 – 1975), che la
nascita di Israele avrebbe rischiato di portare un insanabile conflitto con i
palestinesi e avrebbe contribuito a far prevalere la concezione secolare di
stato su quella religiosa. In questo modo, secondo il filosofo e rabbino
tedesco, il sionismo avrebbe allontanato pericolosamente gli ebrei da Dio.

Il movimento Satmar

Il
pensiero di Schwarzschild fu influenzato anche da un altro rabbino
antisionista: Joel Teitelbaum (1887-1979), fondatore del movimento Satmar,
il primo grande gruppo di ebrei ortodossi che si oppose (e che tuttora si
oppone) allo stato di Israele. Il Satmar, che deve il nome al villaggio della
Transilvania di Satu Mare, nacque l’8 settembre 1905. Teitelbaum fu, tra gli
ebrei ortodossi, il più radicale nel condannare il sionismo. Il punto di
partenza da cui il rabbino – e, in seguito, tutti i movimenti religiosi venuti
dopo il Satmar – prese le mosse per argomentare la sua contrarietà allo stato
israeliano fu la trattazione di un passo del Talmud (testo sacro dell’ebraismo, ndr) di Babilonia
(ketubot 111a) secondo cui il popolo ebraico, in passato, ebbe sigillato un
patto con il Signore in base al quale:

1. Israele
(Eretz Yisrael) non avrebbe «eretto un muro» (cioè non
avrebbe conquistato la terra promessa con la forza);

2.
Israele che non si sarebbe ribellato contro le nazioni del mondo (cioè gli
ebrei avrebbero obbedito ai governi del loro esilio);

3. i popoli
non ebrei non avrebbero oppresso troppo Israele.

Tradire
quel patto con la fondazione di uno stato di Israele avrebbe trasformato il
sionismo nella «più grande forma di impurità spirituale del mondo intero».
Sarebbe stato proprio questo peccato a scatenare le punizioni divine a cui gli
ebrei sarebbero stati sottoposti nel corso della storia, compresa, secondo
Teitelbaum, la shoah (l’olocausto, ndr). Questa tesi, cinica se vogliamo, è ancora oggi condivisa dalla
maggior parte dei Edah Haredit, le comunità ultra ortodosse che vivono
sia dentro che fuori Israele.

Il
rifiuto del sionismo da parte dei Satmar fu (ed è) pressoché totale e coerente:
nel 1959, per la visita di Joel Teitelbaum alla Terra Promessa, il movimento
organizzò un treno apposito privo di qualsiasi riferimento allo stato di
Israele, mentre dopo la Guerra dei Sei Gioi (1967) ai membri della comunità
che vivevano in Israele il movimento proibì di pregare davanti al Muro del
Pianto e in altri Luoghi Santi ebraici di Gerusalemme per evitare ogni
legittimazione dello stato israeliano. Persino la lingua parlata dai Satmar e
insegnata nelle loro scuole è l’yiddish (lingua
germanica parlata dagli Ebrei originari dell’Europa orientale e scritta con
l’alfabeto ebraico, ndr) e non ebraico moderno, il che isola
ulteriormente la comunità dal resto di Israele. Per aiutare socialmente i
119.000 aderenti a questa scuola ebraica, divisi principalmente tra il
quartiere di Williamsburg, a New York, e quello di Mea Shearim, a Gerusalemme,
sono state create fondazioni come la Bikur Cholim che si occupa del
campo sanitario e la Keren Hatzolah, che sovvenziona gli ebrei indigenti
residenti in Israele e le yeshiva (istituzioni
educative ebraiche, ndr).

Neturei Karta

La
seconda scuola ebraica ortodossa antisionista più nota è quella dei Neturei
Karta
, nome aramaico che significa «Guardiani della città», secondo un
passo talmudico in cui si afferma che i veri guardiani della città non sono i
soldati, bensì gli studiosi della Torah (la
fonte primaria dell’ebraismo, ndr). Meno numerosi dei Satmar, i
Neturei Karta furono fondati dal rabbi Aharon Katzenelbogen nel 1938
distaccandosi dall’Agudat Yisrael. Molti dei membri originari erano vecchi yishuv, «coloni», che vivevano in Palestina ancora prima della fondazione di
Israele sopravvivendo grazie alle donazioni della Diaspora ebraica. Dediti allo
studio della Torah, i Neturei Karta, così come la maggior parte
degli ebrei ortodossi, ebbero subito contrasti con i nuovi coloni ebraici
arrivati in Palestina dopo la fondazione di Israele. Questi ultimi, infatti,
che dovevano provvedere da soli al loro sostentamento lavorando duramente nei
campi, guardavano con disprezzo chi contrastava la loro patria rifiutando di
sostenerli e al tempo stesso evitava il lavoro manuale.

L’antisionismo
dei Neturei Karta oggi si spinge ben oltre agli altri gruppi ortodossi
arrivando anche a intrattenere rapporti con l’Iran e Hamas. Delegazioni di
questo gruppo ebraico, infatti, sono state più volte invitate in Iran (nel 2006
direttamente da Ahmadinejad per partecipare alla Conferenza sulla Revisione
dell’Olocausto a Teheran, in cui presenziavano anche negazionisti e
revisionisti della shoah), mentre nel 2005 alcuni membri
parteciparono alla Marcia per la Liberazione di Gaza.

Il
genero di rabbi Aharon Katzenelbogen, Moshe Hirsch (1923-2010), fu anche consigliere del ministro per
gli Affari ebraici del governo di Yasser Arafat.

L’antisionismo
dei Neturei Karta viene spesso espresso in piazza con manifestazioni. Quasi
tutte le fotografie proposte dai media che mostrano ebrei ortodossi con
striscioni antisionisti e bandiere palestinesi, ritraggono loro raduni. Il
sionismo, infatti, per loro è sinonimo di colonialismo, e quest’ultimo,
portando alla «perdita di vita e all’oppressione, è una profanazione della
volontà di Dio».

Sbaglia,
comunque, chi vede negli ebrei ortodossi un possibile alleato politico alla
causa palestinese: battersi per il diritto dei palestinesi di vivere nella loro
terra, infatti, non è, per loro, una questione di diritti umani o di politica
(entrambe espressione del secolarismo), ma una semplice risposta alla volontà
del Signore.

Da Gerusalemme a New
York

Altri
gruppi di Ebrei ortodossi completano la complessa e variegata galassia
antisionista ebraica. Quasi tutti si concentrano a
Gerusalemme nel quartiere di Mea Shearim, considerato da molti uno spaccato di
vita medioevale. È, naturalmente, un’esagerazione, ma è anche vero che chi si
addentra tra le vie di quest’area, così come in quella di
Williamsburg a New York, ha l’impressione di essere ricondotto a una società
tradizionale che si ritrova nelle fotografie precedenti la guerra. Il bianco e
il nero sono i colori che contraddistinguono queste comunità.

All’ingresso
del quartiere cartelli avvertono i turisti di «non passare con vestiti
immodesti e vanitosi», mentre altri manifesti denunciano Israele e il sionismo
specificando, di volta in volta, che «gli ebrei non sono sionisti», «i sionisti
non sono ebrei, ma razzisti», e che le varie comunità «pregano D-o (Dio)
affinché ponga immediatamente fine al sionismo e all’occupazione».

Lungo le
strade gli uomini coprono il capo con i shtreimel o kolpik a seconda del gruppo a cui appartengono, da cui penzolano i payot, i boccoli, lasciati crescere per rispettare il comandamento della
Torah tratto dal Levitico 19,27. Anche nei giorni più caldi molti indossano il bekishe, il soprabito nero o una giacca, sempre nera.

Le donne
devono vestire tzniyut, modestamente. Al sesso femminile è fatto
obbligo di indossare gonne che coprano il ginocchio sin dal compimento del
terzo anno d’età, e di coprire le altre parti del corpo con camicie a maniche
lunghe e colli allacciati. Dopo il matrimonio, un tichel avvolge il capo in modo da non mostrare i capelli. Tra i Satmar molte
donne si rasano addirittura il capo cosicché le ciocche non sporgano dal
foulard.

Le
comunità di Mea Shearim vivono in un mondo separato in cui l’unica legge
vigente è quella della Torah, rispettata, nel limite del possibile, alla
lettera. Durante lo shabbat (il riposo del sabato, ndr) nessun apparecchio elettrico può essere utilizzato, nessun mezzo a
motore può circolare, nessun negozio è autorizzato ad alzare le serrande.

Una vita tra studio e
famiglia

In
generale, sono chiamati Haredi (Haredim) gli ortodossi più conservatori.
Tra i media sono conosciuti come «ultra ortodossi». Gli uomini sono dediti allo
studio dei testi sacri, mentre le donne si occupano della famiglia,
generalmente molto numerosa. Questo porta a due conseguenze: la povertà diffusa
e l’altissimo incremento demografico, due temi che preoccupano moltissimo la
dirigenza israeliana.

Oggi gli
Haredi nello stato israeliano rappresentano l’11,7% della popolazione con un
tasso di incremento del 6-7% annuo. Spezzando la piramide demografica e
prendendo la fascia d’età al di sotto dei 5 anni, il 30% è composto da bambini
provenienti da famiglie ultraortodosse.

Lo
sconvolgimento nella società israeliana sarà enorme: già oggi la metà degli
studenti israeliani che frequenta le scuole primarie è inserito in strutture
ultraortodosse o arabe, entrambe antisioniste. Chi continua gli studi nelle yeshiva non avrà un’educazione economica adeguata ad affrontare le insidiose
regole del mercato rischiando di indebolire la classe manageriale israeliana e
lo stesso stato, che attualmente deve mantenere gran parte delle comunità
ultraortodosse mediante assegni di mantenimento. In un rapporto del 2010, la
Banca di Israele ha stimato che il 60% degli Haredi sono poveri e dipendono
unicamente dalle sovvenzioni statali o dagli aiuti provenienti dalle comunità
ebree residenti fuori Israele.

La questione del
servizio militare

Gli
ebrei ortodossi, inoltre, rifiutano di prestare servizio militare nelle Idf (Israelian
Defence Forces
), cosa che preoccupa i vertici militari e indigna il resto
della popolazione, obbligata a prestare servizio all’interno delle forze armate
per due anni, nel caso delle donne, e tre anni per gli uomini.

Nel
marzo 2014 la Knesset, il parlamento israeliano, ha dato il via libera al
processo di revisione della normativa sulla leva militare (la cosiddetta «legge
Tal») rendendola obbligatoria anche per gli studenti ortodossi e causando le
prevedibili proteste degli Haredi. La classe dirigente di Israele dovrà,
comunque, affrontare il problema dell’antisionismo all’interno della nazione la
cui esistenza futura è messa a repentaglio non da interventi estei, ma da una
parte importante del suo stesso popolo.

Piergiorgio Pescali

Piccolo dizionario

Il peso (e il senso)
delle parole


Ebreo, giudeo, israeliano, semita, antisemita, sionismo, sionista: molti
termini riferiti agli ebrei vengono confusi. Per ignoranza, per scelta
politica, per luogo comune. Proviamo a fare un
po’ di chiarezza partendo da una fonte affidabile.

Giudèo – In senso letterale, appartenente
alla tribù di Giuda (personaggio biblico, quarto figlio del patriarca
Giacobbe). In senso stretto, denominazione con cui sono stati indicati gli
Ebrei rimasti dopo la distruzione del regno d’Israele (722 a.C.), quando
l’intero popolo ebraico fu ridotto alla sola tribù di Giuda. Nell’uso comune,
giudeo è sinonimo generico di ebreo, soprattutto al plurale (ma con valore
spesso spregiativo): la religione, la comunità dei Giudei. 

Ebreo – Appartenente o relativo all’antico
popolo semitico degli Ebrei, che occupò la Palestina sin dalla seconda metà del
2° millennio a.C., costituendosi in unità nazionale e religiosa, e
distinguendosi dai popoli confinanti soprattutto per il carattere monoteistico
della sua religione.

Israeliano – Cittadino dell’odierno stato di
Israele.

Palestinese – In senso etimologico, indica una
persona abitante, originaria o nativa della Palestina, regione asiatica sud
occidentale estesa tra il mar Mediterraneo e l’altopiano giordano. In senso
stretto, oggi il termine palestinese indica la popolazione araba ivi residente.

Olocausto – Forma di sacrificio praticata
nell’antichità, specialmente nella religione greca e in quella ebraica, in cui
la vittima veniva interamente bruciata: offrire un agnello in olocausto;
celebrare un olocausto. Per estensione s’intende sacrificio totale, distruzione
di gruppi etnici o religiosi, di popolazioni, città (spesso come sinonimo di
massacro, martirio, genocidio): l’olocausto degli Armeni; l’olocausto nucleare
di Hiroshima. Nel linguaggio corrente, per antonomasia, l’olocausto (Shoah)
è quello degli Ebrei nei campi di sterminio nazisti durante la seconda guerra
mondiale.

Ortodosso – In senso generico, è colui che
accetta integralmente le dottrine religiose affermate come vere da una
determinata fede o Chiesa e ne osserva il culto.

Semita – Deriva dal nome Sem del figlio di
Noè, il quale, secondo la tradizione biblica, sarebbe stato il progenitore dei
popoli semitici. Il termine indica un appartenente alle popolazioni semitiche.

Semìtico – Relativo a un gruppo di lingue
(ebraico, arabo, etiopico, aramaico, accadico, fenicio, ecc.), parlate da
popolazioni antiche e modee dell’Asia sud-occidentale e dell’Africa
settentrionale, che un passo biblico (Genesi 10, 21-31) fa discendere, per la
maggior parte, da Sem figlio di Noè. Per estensione, si riferisce ai popoli
parlanti tali lingue, alla loro storia e civiltà.

Sionismo – Deriva da Siòn, nome di una
collina di
Gerusalemme e, per estensione, di Gerusalemme stessa. La parola è stata
coniata, nella forma Zionismus, dallo scrittore tedesco Nathan Bibaum
nel 1882. Sta ad indicare il movimento politico-religioso ebraico, espressione
di vari orientamenti ideologici, costituitosi a Basilea nel 1897 allo scopo di
creare in Palestina uno stato nazionale indipendente per il popolo ebraico, e
conclusosi nel 1948 con la proclamazione dello stato d’Israele. Nell’attuale
pubblicistica politica, il termine è passato a indicare, con connotazione
polemica, la politica di intransigente chiusura del governo di Israele nei
confronti del movimento per l’autodeterminazione del popolo palestinese.

Antisemitismo – Deriva dal termine tedesco Antisemitismus
coniato da Ch. F. Rühs nel 1816. Sta a indicare avversione e lotta contro gli
Ebrei, manifestatasi anticamente come ostilità di carattere religioso, divenuta
in seguito, specialmente nel XX secolo, vera e propria persecuzione razziale
basata su teorie pseudoscientifiche. 

Antisionismo – Atteggiamento culturale e politico
di opposizione e contrasto alle espressioni più radicali del sionismo.

Fonte: voci tratte ed elaborate dal «Dizionario
Treccani» (www.treccani.it) a cura di Paolo Moiola.

Tags: Israele, Ultraortodossi, Sionismo

 

Piergiorgio Pescali




«Annunzia quanto ti dirò» / 2 Convegno Nazionale Missionario – Sacrofano 2014

IV CONVEGNO MISSIONARIO NAZIONALE /2
Sacrofano (Roma) 20-23/11/2014

Seconda parte delle
«Linee e orientamenti pastorali per un rinnovato impegno missionario».
Testo
non ufficiale.


D. QUELLO CHE NOI
ABBIAMO NARRATO, ORA LO DESIDERIAMO

Spinti e stimolati dall’ascolto della Parola e dalle sue
declinazioni e implicazioni storiche, sociologiche, filosofiche, antropologiche
e culturali che la rendono Parola incarnata nel quotidiano, cerchiamo di
raccogliere alcune provocazioni da quanto è emerso dal nostro convegno. […]

DESIDERARE

Ciò che desideriamo non può «cadere dal cielo»: deve essere il
frutto dello sforzo di una Chiesa che si sente in cammino, e soprattutto in
uscita verso quelle periferie geografiche ed esistenziali tanto citate quanto,
spesso, ancora sconosciute.

•          Rimettere Gesù al centro.

Il primo grande desiderio emerso dal convegno e quello di
rimettere al centro del nostro annuncio Gesù morto e risorto e la gioia
dell’incontro personale con lui attraverso un contatto assiduo con la Parola di
Dio. Come uno slogan, la frase «Più Parola e meno dottrine» è stata gridata in
più occasioni e in molti modi.

Nelle parrocchie, ci si sente spesso privati del contatto diretto
con la Parola di Dio, sebbene siano passati ormai oltre cinquant’anni
dall’inizio del Concilio Vaticano II: rimettiamoci in ascolto della Parola,
attraverso tutte quelle forme (lettura popolare della Bibbia, gruppi biblici,
gruppi di ascolto, scuole della Parola) che puntano a restituirla quale
veramente è, ossia parola di Dio rivolta a tutto il suo popolo, e non solo a
una parte privilegiata di esso.

•          Metterci la testa.

Il secondo desiderio è quello di riuscire a «metterci più testa»
in ogni azione pastorale, in particolare in quella volta a fare della comunità
dei credenti una comunità missionaria.

Ci siamo scoperti deboli sulla capacità di individuare nuovi
cammini e nuove strategie perché deboli di pensiero; soprattutto, fatichiamo ad
avere un pensiero forte e arricchente intorno alla missione. Per riuscire ad
acquisirlo, abbiamo la necessità di essere accompagnati e aiutati a vari
livelli: mettiamoci, quindi, in cammino e aiutiamoci reciprocamente.

AIUTARE: I PRETI

Innanzitutto, il nostro clero.

Si è avvertita una stanchezza intorno alla dimensione missionaria
soprattutto nel nostro clero, a ogni livello. Aiutiamoci a essere vescovi e
sacerdoti missionari, sin dai primi istanti della nostra formazione.

•          Nei seminari.

Aiutiamoci a studiare la missione. Ciò può avvenire attraverso
l’obbligatorietà dell’istituzione e della frequentazione di corsi di
missiologia, ma più in generale con l’attenzione ai temi della mondialità e
dell’annuncio del Vangelo nelle varie culture.

È auspicabile che nelle equipe formative dei seminari sia presente
una figura (sacerdotale o laicale) di missionario rientrato.

Sono da incrementare le esperienze (soprattutto estive) che aprono
alla dimensione missionaria dell’annuncio, tanto «lontane» (esperienze di
missione in altre chiese) quanto ai lontani (esperienze caritative e di
frontiera nella nostra realtà italiana).

•          «Odorare di pecora».

Nelle nostre case canoniche, o comunque nel nostro stare in mezzo
alla gente, aiutiamoci a essere meno burocrati e funzionari del culto o
dell’amministrazione e a «odorare sempre di più di pecora», come ci ricorda
Papa Francesco.

•          Liturgia viva.

Nelle nostre celebrazioni liturgiche, in particolare
nell’Eucaristia domenicale, aiutiamoci a celebrare il Cristo Risorto attraverso
liturgie vive e non ingessate, che riescano a dire qualcosa alla nostra gente,
che coinvolgano il più possibile anche coloro che provengono da Chiese
cristiane sorelle distinte per rito o per confessione, che creino ministerialità
condivisa (cominciando dall’animazione), che possano essere celebrate anche
fuori dai confini del tempio parrocchiale, in quegli spazi della società in cui
non si sente mai un messaggio di vita e di speranza. Soprattutto che siano
memoriali vivi della Passione e Morte del Signore, nella frazione del Pane e
nella lavanda dei piedi, ossia nella comunione tra preghiera e carità, tra esse
inscindibili e capaci di condurre l’Eucaristia domenicale oltre il canto
finale.

Vivere l’Eucaristia come memoriale vivo di
carità significa fare memoria di tutta la vita di Gesù, del suo parlare,
del suo stile di vita d’incontro e di annuncio.

Aiutare: le comunità

È sul territorio che una Chiesa in uscita e missionaria ha bisogno
di far sentire la propria forza, in considerazione del fatto che la forza della
testimonianza viene dal laicato, dall’associazionismo, dalla realtà dei
movimenti e delle nuove comunità, e da quel mondo religioso, femminile e
maschile, spesso lasciato ai margini anche delle scelte e dell’agire pastorale.

•          Nelle parrocchie.

Aiutiamoci a «narrarci» nelle parrocchie e nel mondo della scuola
(a ogni livello e grado di istruzione), della cultura e del lavoro. Aiutiamoci
a raccontare, a dire senza paura ciò che abbiamo sperimentato soprattutto in
relazione ai contatti con altre culture e altri modi di vivere la fede.

In questo ambito sono fondamentali le figure dei missionari
rientrati, definitivamente o per periodi brevi, e di quei giovani di ritorno da
esperienze più o meno prolungate di missione. Come ha ricordato ancora Papa
Francesco incontrandoci in udienza durante il convegno: questo non si fa per
proselitismo, ma per comunicare la gioia dell’incontro con il Signore.

•          Nelle diocesi.

Aiutiamoci a non perdere lo spirito dell’ad gentes e, di
conseguenza, a continuare a mandare laici, religiosi, sacerdoti che – inviati
da una Chiesa a un’altra Chiesa – vivano un’esperienza di cooperazione e di
annuncio.

Non può essere che, dopo neppure sessant’anni dalla promulgazione
dell’enciclica Fidei Donum, questa figura di cooperazione missionaria
debba essere destinata a morire. Non può essere che (dopo una storia così
gloriosa come quella italiana) non esistano più vocazioni alla missione «ad
vitam»: se ciò avviene all’interno della Chiesa – che per sua nascita e natura è
missionaria – significa che c’è qualcosa da sanare alla radice.

Occorre principalmente da parte dei vescovi meno resistenza a
incoraggiare le partenze, perché un cristiano che lascia la propria diocesi per
annunciare il Vangelo non è perso, è donato.

In questo dinamismo, aiutiamo pure gli Istituti Missionari
a rimanere se stessi, fedeli all’azione missionaria ad gentes e ad
vitam.
Ben lungi dall’aver esaurito il proprio compito, essi devono
piuttosto avere ancor più ampia incidenza nella Chiesa come memoria della
missione, come stimolo di animazione missionaria, e come richiamo alla
responsabilità che la Chiesa tutta ha nell’evangelizzazione universale.

•          Oltre i confini.

Aiutiamoci anche da un punto di vista missionario a sentirci
Chiese locali «in rete», per creare collaborazioni missionarie che travalichino
i confini delle diocesi.

Soprattutto – ma non solo – nelle diocesi più piccole o nelle regioni
che fanno più fatica a sostenere da sole esperienze di cooperazione missionaria
ad gentes, si sperimentino e si incrementino esperienze interdiocesane
e/o interregionali di invio comune di laici, sacerdoti e religiose, magari con
il sostegno formativo ed economico di diocesi che storicamente hanno una
tradizione più assodata di invio missionario.

«Travalicare i confini» significa anche
creare un lavoro di rete con tutte quelle realtà che – pur non professando il
nostro stesso Credo religioso, o comunque non nelle nostre modalità –
condividono con noi la stessa speranza e la stessa carità. A partire dal
dialogo ecumenico e interreligioso, fino allo scambio sui valori condivisi con
gli uomini e le donne di ogni cultura. Puntiamo sempre più (nello spirito del
Concilio Vaticano II) alla ricerca della verità «in modo rispondente alla
dignità della persona umana e alla sua natura sociale, e cioè a una ricerca
condotta liberamente, con l’aiuto dell’insegnamento o dell’educazione, per
mezzo dello scambio e del dialogo […] con cui gli uni rivelano agli altri la
verità che hanno scoperta o che ritengono di avere scoperta», lavorando per la
costruzione di un mondo più giusto e di una società più fratea.

•          Nella formazione.

Aiutiamoci a corroborare con la dimensione missionaria la
formazione delle nostre comunità, soprattutto di quelle nelle quali si vive un
maggior impegno ecclesiale (in parrocchia, ma anche nelle piccole comunità
cristiane, nelle associazioni, nei movimenti, nelle nuove esperienze di Chiesa «di
strada» e di evangelizzazione di frontiera).

Tra i formatori e i catechisti, è bene iniziare a dare maggior
spazio anche a quei cristiani (e non sono pochi) che vivono nei nostri paesi e
nelle nostre città e provengono da Chiese di altri paesi in cui già erano
impegnati come catechisti, come ministri e come formatori o animatori
liturgici. Aiutiamoci prima di tutto a evitare pietismo e assistenzialismo nei
loro confronti, e a vederli come soggetti di testimonianza cristiana invece che
come oggetti di attenzione e di carità.

E insistiamo anche su cammini di formazione e informazione alla
mondialità e all’intercultura che aiutino i nostri cristiani a conoscere e
capire chi proviene da altri paesi per favorire sempre più una seria e onesta
cultura della reciproca integrazione.

•          Nella comunicazione.

È stato rimesso al centro il tema della comunicazione, offrendo ai
partecipanti un convegno dallo stile comunicativo efficace, attuale e
propositivo.

Aiutiamoci a cambiare il modo di fare comunicazione. Aiutiamoci a
cambiare il linguaggio comunicativo che utilizziamo nell’annuncio del Vangelo,
a partire dalla presa di coscienza che, come Chiesa, siamo ancora molto
indietro sotto questo aspetto rispetto al bombardamento mediatico che forma
mentre informa.

Non possiamo più comunicare solo frontalmente e verbalmente. Non
possiamo più guardare alle nuove strategie comunicative (rete, social
network
, chat e app) con diffidenza, paura e ostracismo. Il
linguaggio dell’immagine era stato compreso e attuato già dai nostri Padri
nella fede, quando costruivano chiese decorate di affreschi, mosaici e pitture.

Aiutiamoci a investire tempo, energie e risorse anche economiche
per ritrovare una strategia comunicativa efficace: l’idea di un portale web
unico per la comunicazione nel mondo missionario non può più essere messa da
parte.

•          Spazio ai giovani.

In questa assemblea di Sacrofano i capelli bianchi non erano in
prevalenza, pur costatando l’innalzamento dell’età media dei missionari
italiani. I giovani sotto i 35 anni presenti in sala erano oltre 200.

Se c’è ancora qualcosa che sa attirare in maniera accattivante i
giovani al discorso di fede e alla vita di Chiesa, o comunque all’amore per i
valori che contano, è proprio la missione, con il suo bagaglio di attenzione ai
poveri, agli ultimi, agli emarginati, ai lontani e ai diversi di ogni
categoria.

Aiutiamoci a mantenerci giovani. Aiutiamo i giovani a essere ciò
che sono, in altre parole il presente, e non il futuro della Chiesa e della
società. Non dobbiamo avere timore ad affidare loro compiti di responsabilità
anche a livello decisionale nelle nostre comunità: non dobbiamo avere paura di
perdere qualcuno di loro, se ci dice che vuole fare un’esperienza prolungata di
missione; non lesiniamo nell’aiuto, anche materiale, che possiamo dare loro per
attivare strategie di animazione missionaria o per creare attività caritative e
di apertura ai bisognosi e ai lontani.

E – come ci ha detto ancora una volta Papa Francesco – iniziamo da
subito: dai bambini (il termine «bambini» nel suo discorso è stato ripetuto sei
volte, tanto quanto il termine «missione»). «I bambini devono ricevere una
catechesi missionaria»: non possiamo più tirarci indietro da questo compito.

GUARDARE AVANTI

Molto bella e stimolante è stata l’assenza del classico «piagnisterno»
nostalgico dei tempi passati, quelli in cui «si era di più e si faceva meglio».

Si è invece percepito in maniera palpabile che c’è ancora tanta
voglia di mettersi in gioco, e che il fuoco della missione non si è
affatto affievolito. Possiamo quindi dire che il primo obiettivo del convegno («riaccendere
la passione dei singoli e delle comunità per la missio ad gentes e inter
gentes
») è stato già raggiunto.

L’entusiasmo avvertito è stato davvero grande. Da questo momento
in poi, dobbiamo decisamente puntare al raggiungimento del secondo obiettivo: «Studiare
nuovi stili di presenza missionaria nella nostra realtà
».

SULLE ALI  DELL’ENTUSIASMO

Lanciamo, allora, tre slogan finali che possano stimolare
concretamente a qualcosa di forte.Teniamo «in caldo» il convegno.

L’entusiasmo di questi giorni ci spinge a «battere il ferro mentre
è caldo», a «mantenere in caldo» il cibo di cui ci saziamo. Molti hanno
espresso il desiderio di non far passare un altro decennio prima di convocare
nuovamente la Chiesa Italiana alla missione: cercheremo di far tesoro di questa
indicazione. Ma al di là della frequenza del ritrovarci, ci sono molti altri
modi per mantenere alto l’entusiasmo.

•          Nel territorio.

Iniziamo, allora, a pensare a come far ricadere a livello locale
(regionale e diocesano) quanto vissuto a Sacrofano. Può essere attraverso
piccoli convegni locali, può essere nell’ordinaria programmazione degli
incontri regionali o diocesani, può essere attraverso momenti di riflessione e
approfondimento (magari anche con percorsi formativi su uno o più ambiti
affrontati al convegno, specie nei laboratori di interesse), dando priorità
alle urgenze della situazione locale. Le modalità sono molteplici, e crediamo
che vadano lasciate soprattutto alla stimolante inventiva di ognuno dei
partecipanti e di chi – rimasto a casa – ha potuto comunque seguire i nostri
lavori.

•          Nel «world wide web».

Non dimentichiamo che uno degli strumenti più validi per quest’opera
di «riscaldamento» e «attizzamento» del fuoco della missione rimane il mondo
del web, dei social network e di tutto ciò che la rete ci mette a
disposizione. Facciamo della rete un ambito
sempre più missionario!

•          Fare rete.

Da parte degli organismi che la Conferenza
Episcopale Italiana mette a disposizione della Chiesa in Italia per
l’animazione, la formazione e la cooperazione missionaria (l’Ufficio
Nazionale di Cooperazione Missionaria
, la Fondazione Missio e il Cum
di Verona), come da parte di tutti gli Istituti Missionari presenti in Italia,
viene ribadita la più ampia disponibilità a svolgere la propria funzione di
servizio in appoggio a qualsiasi iniziativa possa servire a mantenere vivo
questo entusiasmo e a individuare percorsi formativi e iniziative a carattere
missionario, sul territorio nazionale e non solo.

OSARE LA MISSIONE

Da qualche tempo molti sperimentano, in mille forme, esperienze di
animazione, formazione e cooperazione missionaria, che sono il segno di una
grande vivacità.

Il desiderio è di veder nascere cammini significativi dal
carattere spiccatamente missionario, tanto in favore della missio ad
gentes
quanto per la realtà dei lontani che vivono vicini alle nostre case.
Chi «osa» tali cammini, ne comunichi e condivida la bellezza. Sarebbe un modo
veramente molto concreto di realizzare quella «evangelizzazione attraverso la
vita» di cui Papa Francesco ci ha parlato in varie occasioni.

Uscire,
ascoltare,
annunciare

E riprendiamo il nostro cammino con due delle affermazioni più
belle che abbiamo ascoltato in questi giorni, entrambe pronunciate sabato 22
novembre. Una, il mattino, da Papa Francesco, e l’altra il pomeriggio, da padre
Gustavo Gutiérrez. Sono quelle frasi che aprono il cuore, fanno sognare,
mantengono acceso il desiderio di continuare a essere discepoli missionari,
testimoni del Dio della Vita e del Vangelo della Gioia.

«Gioo dopo giorno
[…]
scriviamo una teologia
incarnata, come una lettera d’amore a Dio da parte della sua Chiesa»
(Gustavo Gutiérrez).

«Le diverse realtà
che voi rappresentate nella Chiesa italiana indicano che lo spirito della missio ad gentes deve diventare lo
spirito della missione della Chiesa nel mondo: uscire, ascoltare il grido dei
poveri e dei lontani, incontrare tutti e annunciare la gioia del Vangelo»

(Papa Francesco).

________________________________

Il testo qui pubblicato non è ufficiale, ma provvisorio, con
adattamenti,
tagli e correzioni stilistiche, ortografiche e grammaticali a cura di Gigi
Anataloni e redazione MC.

a cura di Gigi Anataloni




Un grande paese, in cerca di sé

Dalla primavera araba
alla guerra al terrorismo
Grazie alla Primavera
araba, in Egitto aveva preso il potere un gruppo confessionale. La nuova
Costituzione si ispirava alla legge islamica. Ma gran parte della popolazione
si è ritrovata in disaccordo. E un nuovo golpe ha destituito il presidente. Altre
elezioni, un nuovo capo di stato. Con l’esercito sempre molto presente. Ma
l’economia stenta a risollevarsi.

Indice box:

Sinai: il buco nero
dell’Egitto

Egitto, Cronologia minima
Tutti i personaggi

È stato uno dei paesi protagonisti della stagione delle «Primavere arabe».
Oggi l’Egitto è quasi scomparso dai grandi media ed è poco presente sulla scena
politica internazionale. La caduta del presidente Mohamed Morsi e l’ascesa al
potere del generale Abdel Fattah al-Sisi sembra aver fatto calare una cappa di
silenzio sul paese. Ma qual è la situazione dell’Egitto? Quale direzione
politica ha imboccato? Qual è l’andamento dell’economia?

Momenti di svolta

Se guardiamo alla recente storia egiziana
sono stati tre i punti di svolta politica del paese: l’11 febbraio 2011, che
segna la caduta di Hosni Mubarak, al potere dal 1981; il 24 giugno 2012, con
l’elezione di Mohamed Morsi, primo presidente espressione della Fratellanza
musulmana; il 3 luglio 2013, con la caduta di Morsi. È intorno a queste tre
date che si delinea la parabola politica e istituzionale egiziana. «Per
comprendere le trasformazioni in atto – ci spiega un esponente della comunità
cristiana copta che chiede l’anonimato – bisogna fare un salto indietro. Negli
ultimi tempi della presidenza Mubarak esistevano solo due grandi formazioni
politiche: il Partito nazionale democratico (Pnd), legato al presidente, e la
Fratellanza musulmana, movimento nato nel 1928 in Egitto con l’intento di
promuovere i valori tradizionali islamici nella società. Con la caduta di
Mubarak, il suo partito è stato sciolto. Sulla scena è rimasta quindi un’unica
formazione: la Fratellanza. Non è un caso che nel 2012 sia stato eletto un
esponente di questo movimento alla presidenza. Ma l’Egitto, pur avendo
conosciuto una progressiva islamizzazione della società, non è mai stato
compatto dietro la Fratellanza. Molti musulmani non si riconoscono affatto
nelle posizioni del movimento e anzi guardano con sospetto alla svolta
confessionale. Se non si capisce questo, difficilmente si può comprendere
l’evoluzione successiva».

Ne è convinto anche Massimo Campanini,
storico del Medio oriente arabo e della filosofia islamica, secondo il quale la
Fratellanza ha commesso alcuni errori fondamentali. Il più grave è aver creduto
di poter accelerare l’islamizzazione della società impadronendosi del potere e
tenendo sotto controllo la magistratura. Nonostante questi tentativi
autocratici, va però detto che non ha avuto il tempo di impostare una politica
efficace. Morsi è stato proclamato presidente il 24 giugno 2012, quasi subito
sono scoppiate le rivolte anti presidenziali organizzate da un’opposizione
laica che non ha mai riconosciuto la regolare, legittima e democratica vittoria
elettorale dei Fratelli musulmani.

Un esercito molto
presente

Scomparso il Pnd, l’unica istituzione
organizzata che si è rivelata in grado di fronteggiare la Fratellanza musulmana
è stata l’esercito. A dire la verità gli uomini in grigioverde non avevano mai
abbandonato la scena politica. Militari erano Gamal Abdel Nasser, Anwar Sadat e
Hosni Mubarak. Militare era Mohammed Hoseyn Tantawi, il generale che, prese le
distanze da Hosni Mubarak, aveva rifiutato di reprimere le rivolte della
Primavera araba e aveva guidato la transizione fino alle elezioni che avevano
portato alle elezioni di Morsi.

I militari non sono solo un’istituzione
fondamentale dell’Egitto, ma hanno anche un peso determinante nell’economia del
paese. Secondo alcuni analisti, un quarto (ma qualcuno parla addirittura di un
terzo) dell’economia egiziana
è controllata dalle forze armate. Gennaro Gervasio, docente di
Politiche del Medio Oriente alla British University del Cairo, in un rapporto recente ha parlato del conflitto tra la
casta militare e un gruppo di imprenditori neoliberisti, guidati da Gamal,
figlio di Hosni Mubarak. Un conflitto che sarebbe stato tra le ragioni che
hanno scatenato la Primavera araba e che, per il momento, si sarebbe risolto a
favore degli ufficiali dell’esercito. Anche se gli imprenditori hanno ancora
una forte presa sull’economia egiziana.

Il nuovo presidente

È stato al-Sisi a farsi interprete del
malcontento della maggioranza della popolazione egiziana. Ma chi è al-Sisi? «al-Sisi
è tanti personaggi in uno solo – spiega Giuseppe Dentice, ricercatore Ispi,
Istituto per gli studi di politica internazionale, esperto di Egitto -. È
sicuramente un militare e, per questo motivo, ha un approccio pragmatico e
decisionista. Pensiamo al pugno di ferro imposto al paese per riportare
l’ordine. Al tempo stesso, però, si presenta come l’“uomo della Provvidenza”,
riprendendo cliché tipici della retorica nasseriana. al-Sisi quindi gioca su
due piani, anche emotivi, proponendosi come la figura di riferimento del paese.
È un uomo che si adegua alle situazioni, pur partendo da posizioni chiare e decise
che fanno parte del suo retroterra militare. Certo se noi guardiamo la
situazione politica egiziana dal punto di vista dei diritti umani non possiamo
dire che
l’Egitto sia un paese democratico. Ma adottare questa visione sarebbe limitante
perché non terrebbe presente le esigenze di sicurezza che l’Egitto deve
affrontare».

I piani di politica intea ed estera
dell’Egitto in questo periodo storico sono sovrapposti. Il minimo comune
denominatore tra le due situazioni è l’attenzione all’ordine pubblico e alla
sicurezza. al-Sisi sta perseguendo una politica puntata su un controllo
territoriale ferreo della Valle del Nilo e del distretto della capitale. In
queste regioni è più semplice anche perché in esse la situazione politica è
stabile. Sta invece incontrando difficoltà nel Sinai dove il controllo dello
stato è quasi completamente assente (vedi box).

Dal punto di vista della politica estera, la
Libia viene considerata «stretto vicinato» e, in quanto tale, questione di «sicurezza
intea dell’Egitto». I motivi sono facili da comprendere. Tra Egitto e Libia
corre un lunghissimo confine comune, attraverso cui c’è un continuo passaggio
di uomini, mezzi, armi. Spesso tra questi soggetti ci sono personalità legate a
vario titolo alla Fratellanza musulmana e anche terroristi. La scorsa estate
l’Egitto ha subito una serie di attentati su quella frontiera e quindi vede la
Libia come un pericolo sempre più concreto che potrebbe addirittura estendere
la propria crisi a territori egiziani. Per evitare questo, ha militarizzato il
confine occidentale. Sta poi cercando di attivarsi con interventi non ufficiali
nel paese vicino. I raid aerei della scorsa estate sulla Libia sono stati
condotti, secondo alcune ricostruzioni, da aviatori emiratini o libici che
hanno pilotato aerei egiziani partendo da basi egiziane. Il Cairo sostiene
apertamente il governo libico con sede a Tobruk e combatte gli islamisti che
dominano il governo di Tripoli. «Questo – continua Dentice – è giustificato
all’interno della logica di contenimento della minaccia islamista. In questo
senso per al-Sisi non c’è differenza tra Fratellanza e gruppi jihadisti. Per
lui chiunque faccia riferimento alla sfera islamista è un terrorista e, come
tale, deve essere eliminato o comunque contenuto. Per questo la politica estera
e quella intea si sovrappongono e si influenzano soprattutto in tema di
sicurezza e ordine pubblico».

In Siria e in Iraq, invece, l’Egitto, pur
facendo parte della coalizione dei volenterosi contro lo Stato islamico, non
fornisce uomini o mezzi per combattere
al Baghdadi, ma rimane in una posizione più defilata e attendista.

Diritti umani

La repressione intea è stata molto dura
nell’ultimo anno e mezzo. Le associazioni per la difesa dei diritti umani hanno
denunciato che, solo negli ultimi sei mesi del 2014, 40mila persone sono state
incarcerate per motivi politici (tra esse tre giornalisti di Al Jazeera, l’emittente del Qatar, accusati di sostenere la Fratellanza
musulmana) e 20mila civili sono stati giudicati da tribunali militari. Nel 2014
un centinaio di detenuti sono morti per le violenze subite in carcere. I
vertici della Fratellanza musulmana sono stati incarcerati. Chi è sfuggito alle
maglie della polizia, vive esule all’estero, principalmente in Turchia e in
Qatar, paesi da sempre alleati del movimento. «al-Sisi – commenta la nostra
fonte anonima – è riuscito a reprimere la Fratellanza perché godeva del
consenso di gran parte del paese. Sostenuto non solo dalla comunità cristiana,
che si era sentita emarginata dalla Fratellanza, ma anche dalla maggioranza dei
musulmani. Senza questo appoggio, al-Sisi non sarebbe stato in grado neanche di
dichiarare la Fratellanza “gruppo terroristico”». Per le future elezioni, al
partito della Fratellanza, Libertà e Giustizia, come ad altre formazioni
simili, sarà impedito candidarsi. «Dal punto di vista politico – osserva
Dentice – la Fratellanza è alle corde. Bisogna capire in che modo essa potrà
giocare un ruolo attivo in campo politico nel futuro. Attualmente non ci sono
spazi che facciano pensare a un ritorno alla legalità del movimento. Credo che
il dialogo dipenda non tanto dalla Fratellanza quanto dai militari dietro al
presidente. Sono loro che possono e devono ricreare le condizioni favorevoli a
un confronto».

Il ruolo dei
cristiani

In questo contesto, la comunità cristiana
(in maggioranza copto ortodossa) non ha alcun peso politico, nonostante conti
almeno un 10% della popolazione. Dopo aver subito il rischio di venire
progressivamente emarginata dalla Fratellanza musulmana, ha sostenuto al-Sisi.
Non è un caso che la sera in cui il generale ha annunciato la deposizione di
Morsi, al suo fianco c’erano Ahmed al Tayeb, l’imam di al Azhar (università,
massima istituzione del mondo islamico sunnita), e Tawadros II, il Papa copto. «Tawadros
– spiega Awad Baseet, giornalista cristiano e attento osservatore delle
dinamiche politiche egiziane – sostiene l’attuale regime ed è ricambiato. Tanto
è vero che la nuova Costituzione assicura alcuni posti ai cristiani. Temo però
che ciò non cambi la sostanza delle cose: ormai i copti non hanno più una forte
influenza sulla politica».

al-Sisi sta portando avanti la sua battaglia
anche in campo teologico. In un discorso tenuto all’università al Azhar nel
giorno della nascita del profeta Maometto, il presidente ha chiesto ai leader
religiosi musulmani «una rivoluzione per estirpare il jihad (la guerra santa, ndr)». E ha aggiunto: «La genesi del problema è in un pensiero che si
origina dal corpo di testi e idee che abbiamo consacrato negli anni, fino a
considerare impossibile distanziarsi da esse, con il risultato di provocare
l’ostilità del mondo […]. Non è possibile che 1,6 miliardi di musulmani
vogliano uccidere gli altri 6 miliardi di abitanti della Terra».

Ma al-Sisi non si sta muovendo solo su un
piano politico-militare. Conscio che le rivolte della Primavera araba erano
nate anche dalla crisi economica che aveva investito il paese, il generale ha
progettato ampi interventi per favorire la ripresa. In particolare ha
annunciato l’avvio di grandi opere pubbliche, tra le quali il raddoppio di una
parte del canale di Suez e la costruzione di centrali elettriche (molte delle
quali dovrebbero sfruttare le potenzialità del solare). Parallelamente ha
iniziato a ridurre i sussidi su carburanti, pane, zucchero, tè, ecc., che
drenavano circa l’8% del Pil nazionale. «Questo non basta – sostiene Baseet -,
servono riforme di più ampio respiro che permettano non solo a un mercato
bloccato di aprirsi, ma di garantire l’ingresso di attori stranieri. In questo
senso è allo studio un progetto di legge per cambiare l’attuale normativa sulla
proprietà. Le nuove norme dovrebbero permettere l’ingresso degli stranieri
nelle società egiziane come soci di maggioranza. Questo potrebbe essere utile,
ma è chiaro che rischia di essere un discorso fine a se stesso se il controllo
del territorio e dell’economia viene mantenuto dal blocco militare».

La stabilità assicurata da al-Sisi insieme
ai fondi che arrivano dai paesi del Golfo (30 miliardi di dollari l’anno per i
prossimi quattro anni) hanno però già portato alcuni risultati. Nel primo
trimestre 2014 il Pil è cresciuto del 2,5%, nel secondo trimestre di circa il
4%. «La produzione industriale – continua Baseet – sta riprendendo. Questo è un
dato positivo. Anche lo scambio con l’estero sta migliorando: nel 2014 si è
attestato intorno ai 17 miliardi di dollari contro i 15 del 2012. Ma ancora
lontano dai 36 del 2011. Il turismo sta lentamente risalendo la china. Nelle
località sul Mar Rosso e sul Mediterraneo le presenze stanno aumentando. Purtroppo
mancano all’appello i turisti nei luoghi storici. In questo senso paghiamo
ancora l’instabilità della Primavera araba».

Enrico Casale
______________

MC sull’Egitto:
Il gigante ha i piedi di sabbia (10/2010);
Sangue e orgoglio (3/2012);
La religione del potere (4/2012)
Prima e dopo la Primavera (6/2013);
Una primavera solo all’inizio
(7/2014).

Sinai: il buco nero
dell’Egitto

Intervista
all’esperto di terrorismo e fondamentalismo islamico

Per
l’Egitto il Sinai è una ferita aperta. Nella regione, terra di traffici
illegali e di basi di fondamentalisti islamici, il governo del Cairo fatica a
riportare l’ordine. Quando e perché la penisola è sfuggita al controllo? Ne
abbiamo parlato con Lorenzo Vidino, esperto di terrorismo e fondamentalismo
islamico. «Il Sinai è una zona ad alta concentrazione tribale. Rispetto al
resto dell’Egitto l’importanza dei clan è molto forte. A ciò va aggiunto che la
Penisola è da sempre stata maltrattata e marginalizzata dalle istituzioni egiziane.
Il risultato è che il Sinai è molto povero e vive di commerci e traffici
clandestini. Nel tempo si è creato quindi un humus di disagio e un sentimento
di avversione nei confronti delle forze armate egiziane e dello stato centrale.
Negli ultimi anni, è il fondamentalismo islamico a essersi fatto interprete di
questo astio. Ansar Beit al Maqdis («Partigiani di Gerusalemme»), il
gruppo più forte e più conosciuto del fondamentalismo islamico nel Sinai,
professa un jihadismo globale ma, allo stesso tempo, si caratterizza per un
forte legame con il territorio e porta quindi avanti istanze locali di
contrapposizione al Cairo».

Il governo come ha contrastato
questo fenomeno?

«Durante il periodo in cui l’Egitto
è stato in preda al caos post Mubarak, il Sinai è stato abbandonato a uno stato
di anarchia quasi totale. In seguito, Mohamed Morsi, un po’ per incompetenza,
un po’ per una certa simpatia ideologica, ha tollerato molto la crescita del
movimento islamista. Quando è caduto Morsi, la situazione, che era già critica,
è degenerata con attacchi sanguinosi a stazioni di polizia, caserme, posti di
blocco, colonne delle forze armate. L’attuale presidente Abd al-Fattah al-Sisi
ha dichiarato guerra al fondamentalismo, imponendo il coprifuoco per settimane
e lanciando operazioni militari. A questo il governo ha associato annunci di
politiche di sviluppo della regione per migliorare le condizioni di vita della
popolazione locale e per ridurre il bacino di malcontento dal quale pesca il
fondamentalismo. Anche se lo stato, avendo pochi fondi, difficilmente darà
seguito agli annunci».

Nel Sinai, oltre allo Stato
islamico, opera anche al Qaida?

«La componente egiziana di al Qaida è sempre
stata molto forte e si è rafforzata ulteriormente dopo che l’egiziano Ayman al
Zawahiri ne ha preso il controllo. Alcuni esponenti di Ansar Beit al Maqdis
sono storicamente vicini al movimento fondato da Osama bin Laden. Anche il
governo egiziano ha sempre cercato di associare il fondamentalismo del Sinai
all’estremismo di al Qaida (benché non sia sempre possibile verificare
quanto pesi la propaganda politica). In questi ultimi mesi, però, Ansar Beit
al Maqdis
ha scelto di aderire allo Stato islamico».

Chi sostiene questi gruppi
terroristici?

«Si sostengono da soli con proprie attività illegali. In
particolare con il racket (taglieggiando la popolazione locale), il
traffico di immigrati che provengono dall’Africa, il contrabbando verso la
striscia di Gaza, ecc.».

Oltre al Sinai, i gruppi jihadisti
potrebbero prendere il controllo anche delle regioni
occidentali?

«Attualmente le regioni libiche al confine con l’Egitto
sono controllate dal governo laico di Tobruk e quindi sono relativamente
sicure. L’esecutivo è però molto debole e, nel breve periodo, può correre il
rischio di essere abbattuto. In questa eventualità il Cairo potrebbe trovarsi a
fronteggiare milizie islamiche lungo un confine di migliaia di chilometri dai
quali possono facilmente infiltrarsi miliziani e armi. Già ora armi, munizioni
e uomini passano la frontiera, ma il pericolo è che la situazione degeneri».

E.C.
_________________

Per un ulteriore approfondimento
rimandiamo
al dossier Sventola bandiera nera, MC 1-2/2015.

 
Egitto
Cronologia minima
25 gennaio 2011 – Opposizioni e società civile proclamano la
«giornata della collera» contro la carenza di lavoro e le misure repressive del
governo. Le manifestazioni si protraggono per giorni.

11 febbraio 2011 – Sotto la pressione della piazza, Mubarak
si dimette. Il potere passa a una giunta militare presieduta dal
feldmaresciallo Mohamed Hussein Tantawi.

23-24 maggio e 16-17 giugno 2012 – Elezioni presidenziali.
Mohamed Morsi viene eletto presidente.

12 agosto 2012 – Mohammed Hoseyn Tantawi viene rimosso dalla
carica di ministro della Difesa e della Produzione militare. Gli subentra il generale
Abdel Fattah al-Sisi. Il presidente Morsi annuncia che la nuova Costituzione
favorirà l’adozione di norme ispirate alla Legge islamica. L’annuncio scatena
la reazione delle opposizioni, esasperate anche dalle crescenti difficoltà
economiche.

18 novembre 2012 – Si insedia

Tawadros II, il nuovo patriarca della Chiesa copta. Alla
cerimonia non prende parte Morsi.

30 giugno 2013 – A un anno dall’elezione di Morsi, Tamarrude
che è un movimento di opposizione, annuncia di aver raccolto oltre ventidue milioni
di firme per chiedere la destituzione del presidente e per ottenere elezioni
anticipate.

3 luglio 2013 – Morsi viene rimosso dalla carica da un golpe
messo in atto da Abdel Fattah al-Sisi. La sua destituzione da parte delle forze
armate è sancita con il parere favorevole del leader dell’opposizione laica
Mohamed el Baradei, dall’imam di al-Azhar, Ahmad al-Ayyib e dal papa copto
Tawadros II. Le proteste dei Fratelli musulmani vengono duramente represse.

28 maggio 2014 – Al-Sisi viene eletto presidente della
Repubblica ed entra in carica l’8 giugno.

E.C.
Tutti i personaggi

L’ingegnere, i
militari, il mufti e il patriarca

Mohamed Morsi – 63 anni, si laurea in Ingegneria chimica
all’università del Cairo e consegue un master e un dottorato di ricerca alla University
of Southe Califoia
. In Califoia lavora anche alla Califoia State
University
dal 1982 al 1985. Esponente di punta del partito Libertà e
Giustizia (formazione legata alla Fratellanza musulmana), è eletto presidente
nel 2012 ed è il primo ad assumere tale carica con elezioni democratiche. Il 3
luglio 2013 viene deposto da un colpo di stato militare ed è incarcerato.

Hosni Mubarak – 86 anni, dopo una brillante carriera militare
(durante la quale si distingue nella guerra del Kippur del 1973), si impegna in
politica. Alla morte di Anwar Sadat è eletto presidente dell’Egitto, carica che
ricopre per quasi trent’anni, a partire dal 14 ottobre 1981 fino all’11
febbraio 2011. Dopo la deposizione, viene arrestato e, nel 2012, è condannato
all’ergastolo. Il 29 novembre 2014 la Corte di Cassazione lo proscioglie dalle
accuse di omicidio e lo assolve da quelle di corruzione. Mubarak può essere
dunque scarcerato.

Abdel Fattah al-Sisi – 60 anni, frequenta l’Accademia militare egiziana e
poi corsi di specializzazione in patria, nel Regno Unito e negli Stati Uniti.
Pur essendo affascinato dall’ideologia panarabista e laica di Gamal Nasser, non
fa mistero di essere un musulmano devoto. Forse è proprio per questo motivo che
la Fratellanza musulmana lo sceglie come Capo di Stato maggiore della Difesa.
Nel 2013 però si contrappone al presidente Morsi fino a rovesciarlo. Le
elezioni dell’8 giugno 2014 lo consacrano sesto presidente della Repubblica
egiziana.

Tawadros II – 62 anni, si laurea in Farmacia e lavora per alcuni
anni in un’azienda statale prima di entrare nel monastero di San Bishoy a Wadi
Natrun. Ordinato sacerdote nel 1989, è consacrato vescovo nel 1997. Come tale
guida la diocesi di Beheira, a Sud Ovest di Alessandria. Il 4 novembre 2012 è
eletto 118º papa della Chiesa copta ortodossa e patriarca di Alessandria. Il 10
maggio 2013 si reca in visita ufficiale in Vaticano, con una delegazione di
vescovi, accolti da papa Francesco.

Ahmad Muhammad al-Tayyeb – 68 anni, studia e insegna nelle università della
Sorbona (Francia) e di Friburgo. Successivamente diventa professore di
Filosofia e Teologia nelle università di al-Azhar (Il Cairo), Qena e Assuan, in
Egitto, e di Islamabad, in Pakistan. Dal marzo al settembre 2003, ricopre la
carica di Gran Mufti d’Egitto e nel 2010 diventa Imam di al Azhar, nominato da
Hosni Mubarak. Non sostiene le sommosse che portano alla destituzione del
presidente e si contrappone alla Fratellanza musulmana quando questa prende il
potere. Considerato un moderato, sostiene il colpo di stato che porta alla
caduta di Mohamed Morsi.

E.C.
 

Enrico Casale




L’uomo, Dio e la natura

Incontro con il
popolo Nasa e la sua filosofia di vita
Nel villaggio di
Toribío la popolazione resiste da decenni alla guerra. Lo fa in modo pacifico e
recuperando la sapienza ancestrale del popolo Nasa. La spiritualità indigena
che dà un senso a ogni cosa e mette al centro la relazione uomo-natura-Dio. I
Nasa fanno la proposta del Buen vivir
al mondo. Valida per tutti, in ogni contesto.

Non
molto alti, un po’ tarchiati. Volti dai lineamenti indigeni. Uno di loro ha un
cappello di paglia sempre in testa e baffetti radi. Parla con un filo di voce e
si esprime soprattutto nella sua lingua, il
nasayuwe. L’altro, più giovane, spigliato, ha un’ottima parlantina in
spagnolo.

Elicerio Vitonas Talaga e Diego Feando Yatacue Ortega
provengono da Toribío, nel Sud Ovest della Colombia, dipartimento del Cauca.
Entrambi fanno parte del popolo indigeno Nasa, che rappresenta il 96% della
popolazione cittadina (circa 26.000 abitanti). Dagli anni ‘80 la zona è
divenuta uno dei principali scenari del conflitto armato tra i gruppi
guerriglieri, Forze armate rivoluzionarie colombiane (Farc) e milizie
paramilitari. Il popolo Nasa ha deciso di non abbandonare il territorio,
rafforzando la propria organizzazione e cercando di opporsi alle violenze e
alle intimidazioni attraverso una modalità di resistenza pacifica e negoziata
alla guerra.

Elicerio è un «Mayor», cioè un Maestro, un saggio,
custode delle tradizioni spirituali Nasa.In Colombia i popoli originari hanno sviluppato, nel
corso di migliaia di anni, una relazione profonda con la natura, imparando a
conoscee i segreti e a vivere in armonia con gli esseri viventi che ne fanno
parte.

Diego è direttore generale del Cecidic, il Centro di Educazione, Formazione e Ricerca per lo Sviluppo
Integrale della Comunità di ToribÍo. Ha ricoperto vari ruoli nei tre «cabildos
indigenas» (comunità indigene) di Toribío, Tacueyo, San Francisco, e a
beneficio del «Plan de vida» del popolo Nasa. Dopo aver diretto la Scuola
agroecologica indigena del Cecidic, da nove anni è il primo responsabile del
centro.

Li abbiamo incontrati durante una loro visita in Italia.
Il viaggio si è svolto nell’ambito del «Progetto Nasa» in appoggio alla scuola
agricola del Cecidic. Il progetto, che ha come obiettivo l’autonomia alimentare
ed economica della popolazione Nasa, vede coinvolta anche Missioni Consolata
Onlus, in partenariato con le Ong Cisv (Comunità impegno servizio volontariato)
e Msp (Movimento sviluppo e pace) di Torino. In effetti dal 1985 la parrocchia
di Toribío è gestita dai missionari della Consolata, i quali accompagnano il
popolo Nasa.

Abbiamo parlato con loro di Buen vivir.

Che relazione c’è tra
l’agroecologia e il Buen vivir?

«L’agroecologia, indipendentemente da dove abbia avuto
origine, ci sembra un approccio alla vita importante, interessante. Essa
coniuga non solo lo sviluppo umano con quello economico, ma anche con il
rispetto della natura. Sono i tre aspetti della politica agroecologica, che
raggruppa una serie di proposte e strategie e accomuna esperienze di svariati
popoli nel mondo.

L’agroecologia ha molte relazioni con le proposte del Buen vivir del
popolo Nasa. Innanzitutto perché l’agroecologia riprende il concetto di
conservazione (dell’ambiente in senso globale) molto forte nel popolo indigeno.
Ma, dato che la visione indigena è fortemente spirituale, il popolo Nasa rileva
nell’agroecologia proprio una prospettiva di spiritualità. Attenzione, con
spiritualità non intendiamo religione. Per noi la spiritualità consiste in una
profonda relazione con la natura.

Il Buen
vivir, nascendo dalla spiritualità indigena, si basa
su tre principi: il primo è che tutto ha uno spirito, che ci sono spiriti che
ci aiutano e che l’uomo deve relazionarsi anche con essi; un secondo principio è
l’importanza del rispetto per la natura, per la Madre Terra; un terzo punto è
la sovranità alimentare, la produzione di cibo per la gente.

Nella realtà di oggi, si viene ad aggiungere la necessità
di disporre di risorse economiche, ma nel rispetto di questi principi.

L’agroecologia è una parte della proposta politica del
popolo Nasa.

In ambito sociale è molto importante la relazione con
gli altri popoli, non solo indigeni, ma afro, contadini e società civile in
genere».

 
Il Buen vivir che proposta è?

«Più che una politica il Buen vivir è un
modo di vivere, che vuole dare una risposta non solo ai bisogni materiali
dell’uomo, ma anche a quelli spirituali. Se diamo risposte solo alle questioni
umane sviluppiamo unicamente il concetto di economia. Associare all’economia la
prospettiva spirituale, dà un senso più ampio al Buen vivir, che
non si basa sugli aspetti materiali, ma parte dal fatto che noi non siamo i
padroni del mondo, siamo parte del mondo. Inoltre non è una proposta politica
per un solo popolo, ma è piuttosto una proposta condivisa con altri popoli, per
questo tollera e rispetta la differenza. Condividiamo alcuni principi
fondamentali con molti popoli originari e organizzazioni della società civile,
che stanno cercando un’alternativa al modello di sviluppo dominante.

Direi che fa parte della proposta l’idea di “non andare
avanti”, almeno non come ci hanno abituati. Non come l’Occidente vede lo
scorrere del tempo, ovvero in modo lineare. Il Buen vivir ci impone di
fermarci nel cammino, o di andare avanti senza tanta fretta, per poter pensare oggi,
sognare il futuro, sempre ricordando e dando uno sguardo al passato. Quando
parliamo di spiritualità, in pratica stiamo richiamando il passato. Spiritualità
è anche chiamare gli spiriti della natura, i nostri antenati, i nostri
famigliari. Il Buen vivir ha una differenza con l’approccio occidentale: non
bisogna correre. Forse perché c’è una differenza di ideali di vita».

 

Una proposta
alternativa, ma come realizzarla?

«Anche tra la nostra gente c’è varietà di modi di
pensare. Si può dire un modo diverso per ogni persona. Ci sono due questioni
storiche di cui tenere conto. Da un lato l’esistenza del cattolicesimo, che ha
formato la maggioranza del nostro popolo, e dall’altro la modeità. I nostri
giovani sono molto coinvolti dalla tecnologia, dai mezzi di comunicazione.

Per questo per noi è fondamentale quello che chiamiamo
“fare coscienza”. Non è obbligare, perché altrimenti si ottiene il contrario,
ovvero una insensibilità a questa realtà. Si tratta di una costruzione
collettiva, nella quale insieme pensiamo, riflettiamo, e, sopra questo pensare
insieme, “facciamo coscienza” sull’importanza del Buen vivir. È
quindi un lavoro lento, dispendioso, e non convince in modo immediato tutti.
Per questo dico che c’è differenza di pensiero. Ma è importante la coscienza
collettiva, ovvero avere un gruppo di persone che rendono dinamico il Buen vivir.
Grazie a questo, molte altre persone si avvicineranno alla proposta. Comprese
alcune che sono di religione cattolica o evangelica.

Ci sono poi anche le appartenenze politiche. Noi siamo
apolitici come gruppo, ma possiamo affermare che ci sono compagni indigeni che
hanno posizioni politiche distinte. Quando parliamo del collettivo del Buen vivir,
sogniamo come ci vediamo nel futuro, come comunità, e penso che non ci sia
distinzione di colore politico o posizione religiosa. Diventa molto importante
la proposta filosofica che fa il popolo Nasa».

 

La vostra
organizzazione come fa per «fare coscienza»?

«Nei 30 anni in cui la comunità si è organizzata, si è
sempre parlato della coscienza della gente a partire dall’aspetto comunitario.
Voglio dire che abbiamo sempre fatto uno sforzo rivolto all’essere umano, alla
persona, che forma un collettivo. La missione del Cecidic si è concentrata
sull’educazione. Sviluppare proposte che generino questa coscienza collettiva,
da differenti punti di vista. Parlare dell’aspetto comunitario, vuol dire
parlare dello sviluppo dell’essere umano, del pensiero politico, delle
tradizioni. Per questo il Cecidic realizza corsi, spazi di formazione per i
giovani. Un corso importante è quello di agroecologia, nel quale abbiamo un
progetto con Cisv, Msp e Missioni Consolata onlus. Poi c’è il corso artistico e
culturale, quello di comunicazione, formazione politica, educazione e
pedagogia. Sono cinque componenti molto importanti per sviluppare il “Piano di
vita”. Anche se nello sviluppo del Piano di vita del Buen vivir ci
sono altre componenti necessarie oltre alle cinque elencate.

C’è molta partecipazione ai nostri corsi. Se avessimo
maggiori risorse economiche, riusciremmo a formare ancora più persone.
Annualmente accompagniamo più di 1.000 giovani in modo diretto. Invece
indirettamente il Cecidic ha un impatto ogni anno su 5.000 persone nel
territorio».

 

Quali contatti ci
sono tra il Buen vivir e la religione
cattolica? In particolare, un cattolico può perseguire questo cammino? In
America Latina esiste una teologia (cattolica) indigena, che promuove proprio
il Buen vivir?

«Nella nostra comunità ci sono indigeni che seguono la
spiritualità cristiana sia dei cattolici sia degli evangelici. Ma penso che la
riflessione da fare sia più profonda, ovvero tornare a principi che non pongano
l’uomo al di sopra di tutto. L’uomo in relazione con Dio e con la natura e non
unicamente in relazione con Dio. Come abbiamo detto è fondamentale nel Buen vivir
riconoscere l’esistenza della natura e di tutto quello che abbiamo intorno. E
vedere che tutto ha una spiritualità. Molti compagni indigeni lo fanno. È
quello che vive la maggioranza dei Nasa, come essere umano in relazione con la
natura. C’è poi il sincretismo con la religione cattolica, che si esprime con
la celebrazione di riti, come il battesimo o la comunione».

 

I Cristiani si
interessano della natura, parlano di salvaguardia del creato. Non solo l’uomo e
Dio, ma tutto l’ecosistema nel suo insieme.

«Per il popolo Nasa occorre andare in profondità:
studiare una proposta a partire da un’epistemologia indigena del pensiero
indigeno originario. Non si può negare che sia presente anche un pensiero
parzialmente non indigeno, formato da principi religiosi (occidentali, ndr), ma è importante
capire che esistono queste due concezioni. Ci sono fratelli indigeni che
praticano molti rituali, vivono la “comunitarietà” (vivere in comune, ndr) e il Buen vivir. I cui
principi non sono nella religione cattolica. Quello che stiamo proponendo nel
movimento indigeno è la ricerca dei principi del popolo Nasa.

Ad esempio: abbiamo subìto 500 anni di conquista
europea. Noi ci chiediamo come saremmo oggi se avessimo avuto 500 anni di
sviluppo non interrotto come popolo Nasa, senza religione cattolica. È una
riflessione molto profonda, e c’è spazio per ricercare e approfondire.

Alcune persone lavorano su questo tema, chiamandolo
“indigenismo”, ovvero prendere dalle origini la proposta indigena, in vari
settori. Ad esempio nell’ambito giuridico, quella che si chiama “giustizia
propria”, poi la “educazione propria”, la concezione della salute, ecc.

Si lavora molto con i “saggi ancestrali”, come don
Elicerio, che hanno esperienza con le questioni spirituali, e hanno una
profondità maggiore di quella degli indigeni cattolici. I guardiani della
“spiritualità propria” sono coloro che, nonostante i 500 anni di conquista,
sono riusciti a tenere tutte le conoscenze e la saggezza (saviduria)
ancestrale, trasmettendola di padre in figlio. È un’eredità che non abbiamo
perso.

Io ad esempio lavoro nell’educazione cercando di
realizzare pratiche pedagogiche e didattiche in direzione della cosiddetta
educazione propria. Io parto dalla conoscenza ancestrale».

Cosa intende per
educazione propria?

«È una proposta del popolo Nasa e di altri popoli
originari in America Latina. Sosteniamo che prima del sistema educativo dello
stato colombiano, prima della conquista europea, noi avevamo un’educazione
derivante dalla nostra maniera di vedere il mondo, la nostra “cosmovisione”.
Facciamo ricerca su come fosse questa educazione prima della conquista, grazie
a elementi che i saggi e le guide spirituali conservano, per partire da lì e
confezionare una proposta educativa nella realtà di oggi, per scuole, collegi,
università. Dal nostro punto di vista possiamo fare una proposta distinta e
focalizzata sui popoli indigeni.

Per fare un esempio: cambiare l’aula o i docenti, per
fare un corso non tra le mura ma nella natura. Chi insegna non è solo la
maestra, ma anche la natura stessa. Leggere in un’altra maniera.

L’educazione superiore che per gli occidentali è
l’università, per noi è un saggio della comunità. Per i parametri occidentali
don Elicerio non ha studiato, ha fatto la seconda elementare. Ma per noi ha una
conoscenza che va oltre a quella che ha un docente universitario. E la sua
sapienza giunge da molta esperienza e conoscenza. Non li possiamo confrontare,
ma vale la pena vedere la differenza».

Un europeo che vive
in Europa può cercare di vivere seguendo il Buen
vivir
? Per non indigeni che si ritrovano in quei principi, è possibile?

«Concretamente penso di sì. Perché se i popoli indigeni
sviluppano una proposta del Buen
vivir, altri popoli la sviluppano a partire dalla
loro visione. Non è una proposta per soli popoli originari americani nel loro
contesto. Il Buen vivir lo può ricercare ognuno di noi a partire da quello che è
e dai mezzi che ha.

Credo che popoli come gli europei che hanno camminato
molto nel mondo con il tempo lineare, dovrebbero iniziare a vedere il tempo in
modo diverso. Noi lo vediamo come una spirale, cioè stiamo andando avanti ma
sempre guardiamo ai nostri principi. Gli europei, inoltre, devono iniziare a
vedere il tempo con più lentezza, perché ricostruire una spiritualità richiede
di fermarsi a pensare. Così potrebbero imparare alcune cose da altri popoli,
come quelli indigeni. Ma è una costruzione che devono fare nel proprio popolo,
non copiando un modello, ma riflettendo. Come hanno fatto i Nasa e come io
faccio il mio Buen vivir, nel mio contesto, con il mio popolo, i miei costumi e
i miei principi. È fondamentale capire che ci sono differenze.

Il popolo indigeno non vuole influenzare tutti i popoli
e farli diventare uguali a sè, o fare sì che gli altri pensino come indigeni.
Ognuno parta dal suo contesto, ma che lo faccia considerando i principi
fondamentali. Come quello di non abbandonare la natura. Durante migliaia di
anni l’uomo ha cercato di uscire dalla natura, utilizzarla. Credo che debba
tornare un po’ verso di essa».

Marco Bello
______________

MC ha già pubblicato più volte sul Buen
vivir
, in particolare in MC 3/2012, p. 55 e nel dossier di MC 10/2014.

Tags: Buen Vivir, Popoli indigeni, agroecologia, spiritualità, Nasa

 

Marco Bello




Liberati dal crack

Lungo il Rio Branco.
Viaggio a Roraima / 4
La droga – il crack,
in particolare – ha raggiunto ogni angolo del Brasile. È un’epidemia che pare inarrestabile. A Iracema (Roraima)
abbiamo visitato una comunità terapeutica che fa parte della rete «Fazenda da
Esperança». Gli ospiti, in maggioranza giovani, stanno recuperando la loro
dignità con il lavoro e la vita comunitaria.

Br-174.
Lasciamo la desolata cittadina di Caracaraí per riprendere la strada federale,
sempre poco transitata.

Passiamo tenute agricole, aree verdi e praterie con
animali in libertà. Poi, in prossimità di Iracema, un cartello avverte che
siamo nei pressi della Fazenda da Esperança‚ una fattoria con caratteristiche particolari. «È una
comunità terapeutica per tossicodipendenti diffusa in tutto il Brasile», ci
spiega dom Roque Paloschi, nostra infaticabile guida.

La droga ha raggiunto ogni angolo del Brasile, compresa
l’Amazzonia. Anzi, dato che la regione confina con tutti e tre i grandi
produttori di coca (Colombia, Perù e Bolivia), essa è divenuta un importante
luogo di transito1, in particolare per la cocaina e i suoi sottoprodotti
(crack, óxi, merla)2.

Rafael e gli altri

La Fazenda è cresciuta proprio a lato della
strada, all’ombra di grandi alberi. Non facciamo in tempo a scendere dall’auto
che già si è formato un capannello di persone. Sono in maggioranza giovani, ma
tra loro c’è anche un signore con una maglietta di una squadra di calcio che
pare più avanti negli anni. Tutti hanno volti distesi e sorridenti, l’esatto
contrario di quelli segnati dalla droga o dall’alcol.

Nata nel 1983 su iniziativa di padre Hans
Stapel, missionario tedesco, e di Nelson Giovanelli Rosendo dos Santos, la
Fazenda da Esperança è oggi una realtà consolidata e soprattutto riconosciuta
nell’ambito del recupero dalla tossicodipendenza. Conta quasi 100 sedi
distribuite in tutto il Brasile e in altri 16 paesi.

La sede di Iracema porta il nome di Fazenda
Nossa Senhora de Guadalupe. Aperta nel dicembre del 2009, ospita una ventina di
«interni» (chiamati anche recuperandos, ma non
pazienti o ricoverati), tutti maschi. «Il più giovane ha 14 anni, il più
vecchio 41», ci dice Ednila, la segretaria.

Rafael, il responsabile, si offre di
mostrarci la struttura. Ci sono numerose casette dipinte con colori diversi
(azzurro, giallo, verde, rosso) e circondate da curatissime aiuole. Ognuna è
adibita a una specifica attività: l’ambulatorio, la palestra, le camere degli
interni, gli alloggi di coloro che già hanno fatto una parte del percorso, una
casa con la cucina comune (in cui lavorano alcuni interni), un’altra che ospita
una saletta per riunioni e video, la cappella Nostra Signora di Guadalupe. «E
quella là in fondo – indica Rafael – è la casa dei “padrini”. Cioè di coloro
che sono venuti per disintossicarsi e, una volta recuperati, si sono fermati
per aiutare gli altri».

Sono tanti coloro che, entrati come ospiti,
si sono in seguito fermati come volontari. È lo stesso percorso compiuto da
Rafael, ex tossicodipendente. «Sono entrato nella Fazenda nel 2005. Dopo il mio
recupero ho deciso di rimanere come volontario. Sono quindi uscito per qualche
anno, ma poi sono rientrato con mia moglie Erica. E oggi viviamo qui assieme ai
nostri due bambini»3.

Convivenza, lavoro, spiritualità

Nella Fazenda da Esperança non si entra per
caso. Al contrario, occorre seguire una precisa procedura.

Chi vuole provare questa esperienza deve in
primis
presentare una lettera scritta di proprio pugno in cui racconta se
stesso e spiega i motivi per cui chiede di entrare nella comunità. Quindi c’è
una sorta di precolloquio alla fine del quale alla persona vengono prescritti
una serie di esami fisici e psichici per capire il suo stato, «dato che –
precisa Rafael – la Fazenda non è una clinica, ma una comunità terapeutica». Se
gli esami medici mostrano la compatibilità del richiedente con la vita
comunitaria, viene fatto un colloquio finale durante il quale si valutano la
sua predisposizione personale e la sua volontà di recupero. Superato anche
questo colloquio, la persona può finalmente essere accolta per un percorso
della durata di almeno un anno.

I primi mesi sono i più duri. «Durante questo
periodo – spiega Rafael – i contatti con familiari e amici possono avvenire
soltanto per lettera».

La metodologia adottata dalla Fazenda da
Esperança si regge su tre pilastri: la convivenza, il lavoro e la spiritualità.
Quest’ultima nasce dalla lettura e dalla pratica quotidiana della parola
evangelica e rappresenta un elemento centrale ma non escludente. «La differenza
religiosa – precisa Ednila – non costituisce un ostacolo per entrare in comunità».
Nella Fazenda la convivenza è a un tempo indispensabile e inevitabile: assieme
si vive, si mangia, si lavora. Il lavoro, infine, è visto come processo
pedagogico e fonte di autostima.

La forma della
speranza

Alla Fazenda di Iracema il lavoro non manca. C’è molta
terra per coltivare e per allevare bestiame: i prodotti ottenuti contribuiscono
al sostentamento della comunità. All’agricoltura e all’allevamento si
affiancano poi due attività artigianali.

Ecco la casetta che ospita la fabbrica di sapone. Lungo
il muro ci sono alcune taniche e decine di bottiglie di plastica piene di un
liquido scuro. «È l’olio riciclato che usiamo per fare il sapone», ci spiega
Rafael. Poi, forse vedendo la nostra faccia interdetta, subito aggiunge: «È un
sapone molto buono, soprattutto per lavare i vestiti. Lo vendiamo a un real per barra».
Entriamo nei locali dove avviene la produzione. Orgoglioso, Rafael ci mostra
gli strumenti necessari alla fabbricazione e ci spiega le fasi del processo
produttivo. «Eccolo», grida Rafael mettendoci in mano una sorta di mattoncino
di color giallo pallido avvolto da una plastica trasparente su cui è posta
un’etichetta con la scritta Sabão
da Esperança. Un prodotto che è quasi
una metafora: il sapone elimina le scorie della vita precedente e offre la
speranza di un’esistenza diversa.

Storia di Bruno

Tuttavia, l’attività più redditizia per la Fazenda viene
dalla panetteria, ospitata in un’altra casa. Quando entriamo, due ragazzi
stanno lavorando su un tavolone in acciaio: tirano la pasta con un mattarello,
ne fanno dei rotolini che depongono in padelle oliate. I ragazzi ci mostrano il
foo e la macchina per impastare (amassadeira), comprata con i soldi
guadagnati dalla vendita del sapone.

Su una lavagna sono segnate le ricette dei vari tipi di
biscotti, tutti (giustamente) fatti con frutta locale: ci sono al coco, al cupuaçu, alla castanha, alla maracuja. Anche il pane
viene sfornato in alcune varietà: pane della casa, pane francese… Tutti i
prodotti sono infine accuratamente confezionati. «Vengono venduti nelle
parrocchie e poi dai volontari», ci spiegano.

Bruno, 22 anni, è di Boa Vista e non nasconde né la
propria storia di droga né l’attuale felicità. Confessa: «Quando sono arrivato
ero distrutto, fisicamente e spiritualmente». «Qui tutto è allegria e amore»,
aggiunge. Ma più delle parole a convincere è il suo sorriso.

Paolo Moiola

(fine
quarta puntata – continua)

Ragazzi di strada a
Manaus
Sotto il ponte di
Kako Caminha

 Una trentina di
giovani, tra cui molti minorenni, vivono sotto un ponte di Manaus. Intossicati
da colla e crack, temuti dalla popolazione, picchiati dalla polizia, ad aiutare
questi ragazzi sono rimasti soltanto alcuni volontari di «O Pequeno Nazareno».
Li abbiamo seguiti.

Manaus (Amazonas). Il ponte di Kako Caminha conduce
al bairro di São Jorge. Pare un normale ponte, attraversato ogni giorno
da centinaia di auto. Invece tanto normale non è. Per scoprirlo è sufficiente
spostarsi su un lato e andare sotto il viadotto. Lo facciamo con Tommaso
Lombardi, nostra vecchia conoscenza, che da tempo frequenta questo luogo
assieme alla moglie Elaine e altri volontari1.

L’igarapé,
un fiumiciattolo di acqua sporca e puzzolente, occupa soltanto una piccola
parte della larghezza del canale, il resto è una riva di terra e vegetazione.
Troviamo due vecchi divani, posti uno accanto all’altro. E poi stracci e cumuli
di rifiuti. «Qui sotto dormono e trovano riparo una trentina di giovani, alcuni
sono bambini di neppure 10 anni – ci spiega Tommaso -. Noi veniamo a cercarli
un paio di volte alla settimana. O per strada o al ponte».

Camminiamo
lungo la riva fino a uno spazio aperto. Eccoli: sotto alcuni alberi, raccolti
attorno a una pentola, ci sono i ragazzi. Tommaso saluta, e un paio di loro ci
vengono incontro. Sono Jean e Leandro, poco più che diciottenni. Il torso nudo
evidenzia la loro magrezza. Sorridono. Scambiamo qualche parola. Fa impressione
sapere che quella bottiglietta di plastica appesa al loro collo serve per
sniffare la colla o il crack.

Nel gruppo
notiamo una sola ragazza. «Sono molte meno, e di solito arrivano per la notte»,
spiega Tommaso, che aggiunge: «Nel gruppo c’è un alto tasso di omosessualità».

I ragazzi
sopravvivono e si procurano i soldi per la droga chiedendo l’elemosina ai
semafori, pulendo le scarpe, prostituendosi o facendo piccoli furti. «Alcuni –
aggiunge la nostra guida – commettono crimini maggiori, come furti nelle case o
assalti di autobus, abbastanza frequenti a Manaus».

Ogni volta che
la polizia interviene sotto il ponte di Kako Caminha per sgombrare l’accampamento
dei ragazzi, lo fa in maniera violenta. «Li picchia, li butta nell’igarapé,
li minaccia – racconta Tommaso -. Brucia le loro povere cose (materassi,
lenzuola, oggetti). Soltanto dopo le azioni più violente i ragazzi si sono
spostati. Ma mai per più di una settimana. Questa è la loro unica “casa”».

Tommaso è il
responsabile per Manaus di O Pequeno Nazareno, un’organizzazione
non governativa che si occupa di ragazzi di strada. «Quando li
incontriamo, facciamo loro la proposta di venire nella nostra casa
d’accoglienza, aperta per bambini e adolescenti dagli 8 ai 17 anni d’età».

«Con i
maggiori di 18 anni – spiega rammaricato – l’unica cosa che possiamo fare è
indirizzarli verso una casa di recupero dalla tossicodipendenza, tipo Fazenda
da esperança
».

«Criança não é de
rua»

In Brasile, le
dimensioni del fenomeno sono allarmanti. Un’indagine compiuta dalla campagna
nazionale Criança não é de rua («I bambini non sono di strada»),
lanciata e guidata da O Pequeno Nazareno, evidenzia dati drammatici2.

Tra le persone
che vivono in strada il 58,13% ha tra i 13 e i 17 anni, il 13,28% tra i 7 e i
12 anni e addirittura c’è un 4,69% che ha meno di 6 anni. Due terzi (64%) dei
bambini e adolescenti di strada usano il denaro raccolto per procurarsi droghe.
Meno di un terzo (23%) dicono di usare i soldi per comprarsi da mangiare e
appena un piccolo numero (5%) per aiutare la propria famiglia. Ben l’88% dei
ragazzi di strada dice di far uso di un qualche tipo di droga. Tra queste, la
più consumata risulta essere il crack (49%), seguito dalla colla (16%), dalla
marijuana (12%) e dalla cocaina (5%).

Lo slogan di O
Pequeno Nazareno
, tanto semplice quanto efficace, è racchiuso in una
domanda: «Che futuro potrà mai avere una società che nega ai propri bambini il
diritto al presente?»3. I ragazzi che vivono sotto il
ponte di Kako Caminha o nelle strade di centinaia di altre città meritano
un’esistenza diversa.

Paolo Moiola
 
Note

1 – Di
Tommaso Lombardi ed Elaine Elamid abbiamo parlato nel reportage João cresce con i libri, in MC dicembre 2012.

2 – I dati
sono riportati dall’indagine svolta dagli organizzatori della Campanha nacional «Criança Não é de Rua» (Campagna nazionale «I bambini non sono di strada»). L’indagine è
scaricabile dal sito: www.criancanaoederua.org.

3 –
Testuale: «Que futuro terá uma sociedade que nega à suas crianças o direito a
um presente?».

Tags: tossicodipendenze, droghe, recupero, ragazzi di strada

Paolo Moiola