Dal karkadè, il Bagamoyo wine 

Tra fiori e un tocco di pili pili


A Bagamoyo, località tanzaniana sull’Oceano Indiano il cui
nome significa «deponi il tuo cuore», per ricordare gli schiavi che da lì partivano
verso i paesi arabi fino alla fine del XIX secolo, una donna, Teddy Davis,
compie la sua lotta quotidiana per l’emancipazione: ha fondato una piccola
attività agroalimentare. I suoi prodotti sono una miscela di fiori, creatività
e impegno sociale.

Teddy Davis, è originaria di Moshi, nel Nord del Tanzania, si è
trasferita a Bagamoyo dove ha inaugurato la Smoke House Store: una
piccola azienda a gestione familiare. Fino a qualche anno prima dirigeva un
piccolo fast food, ma gli affari non andavano bene e, complice la
necessità di cercare nuovi stimoli, ha deciso di creare qualcosa di originale:
il vino di choya.

Vino dai petali di un
fiore

Rimboccatasi
le maniche, si è dedicata a coltivare la terra. Teddy è determinata e
ottimista, senza falsa modestia ammette di non essere una brava contadina:
sopperisce con l’impegno. In origine coltivava ananas, ma i ripetuti furti
nottui l’hanno presto scoraggiata, e la necessità di trovare in fretta una
soluzione le ha acceso la lampadina: «A nessuno verrebbe in mente di rubare un
fiore!». La pianta di choya cresce spontanea e selvaggia in molte zone
del Tanzania. Gli inglesi la chiamano roselle o red sorrel, il
suo nome scientifico è hibiscus sabdariffa, ai più è nota semplicemente
come karkadè. Inutile al ladruncolo di tuo, redditizia e gustosa dopo
un’adeguata lavorazione. Il succo di karkadè è apprezzato come bevanda da
gustare fredda o come tisana calda. Fonti storiche ricordano che in Italia,
durante il periodo fascista, nonostante vigesse l’obbligo di consumare solo
prodotti italiani, l’uso di karkadè era abituale in quanto prodotto delle
colonie italiane d’Etiopia ed Eritrea (karkadè deriva da karkadeb,
termine dialettale etiope che indica la pianta dell’ibisco).

Fin
qui nulla di nuovo quindi, se non fosse che Teddy, dai petali di questo fiore,
ha iniziato a produrre vino e marmellate.

Un vulcano di gusto

Nel
tentativo di evitare l’afa, di buon’ora passeggiamo verso l’azienda agricola
poco lontana dalla sua abitazione. Il terreno, circa tre ettari, permette a
Teddy un paio di raccolti all’anno che integra con acquisti presso altri
coltivatori. Il suo sogno è di prendere in gestione altri terreni fino a
coltivae nove ettari. Coglie alcuni fiori di hibiscus, con un punteruolo
separa il bulbo dai petali caosi che sono la parte più peculiare del fiore.
Essi possono essere utilizzati freschi per preparare la marmellata, oppure
lasciati essiccare su una grata, esposti alla luce diretta del sole, per gli
infusi. La bevanda dal colore rosso rubino ha preziose proprietà terapeutiche:
lenitiva, digestiva, antinfiammatoria. Utilizzata come antisettico urinario ed
efficace anche contro la stipsi cronica per l’elevata presenza in essa di acidi
organici.

Dall’infuso
al vino il passaggio non è così breve: i petali freschi vengono lasciati
fermentare sei mesi in botti con lievito, acqua e zucchero. La cantina di Teddy
è alquanto artigianale, ma funzionale: produce un vino di karkadè con una
gradazione alcolica pari al 14%.

Alla Smoke
House Store
si produce anche una salsa piccante di hibiscus con il pili
pili
, peperoncino che tanto piace ai tanzaniani per condire pollo e
patatine. Teddy ha rivisitato la ricetta classica arricchendo la salsa con
aglio e zenzero. Ci racconta il simpatico aneddoto di quando ha dovuto ritirare
la salsa dai mercati della zona dopo aver ricevuto una chiamata allarmata: «La
salsa inizia a scoppiare». Il prodotto era infatti stato preparato senza
conservanti. Dopo quell’episodio Teddy ha dovuto accantonare le sue lodevoli
intenzioni di mantenere il prodotto genuino e, per poterlo commercializzare, si
è dovuta adeguare alle norme. Oggi ogni prodotto della Smoke House Store
possiede etichetta e informazioni su ingredienti, data di preparazione e
scadenza.

Fare il vino è
un’arte

Non
ci si improvvisa produttori di vino da un giorno all’altro. Teddy ha seguito un
corso presso il Sido (Small Industries Development Organization),
un’organizzazione parastatale sotto il diretto controllo del ministero del
Commercio, Industria e Marketing. Fra gli obiettivi del Sido c’è, per
l’appunto, quello di incentivare la creazione di piccole e medie imprese in
zone rurali, e vengono quindi organizzati periodicamente dei corsi di formazione
per gli interessati al settore agricolo alimentare. Teddy ci tiene a precisare:
«Al Sido ho imparato le tecniche per fare il vino con l’uva, ma io volevo
creare il mio vino di hibiscus. Fare il vino è un’arte!». Una scelta
coraggiosa. Esperienza e volontà fanno il resto. La produzione è ufficialmente
partita nel febbraio del 2011, in pochi anni di attività i risultati sono stati
più che soddisfacenti: Teddy ha ottenuto l’approvazione del Tfda (Tanzania
Food and Drugs Authority
) per commercializzare il prodotto, e la qualità
delle materie prime è stata certificata dai laboratori del Tbs (Tanzania
Bureau of Standards
). Ma c’è ancora tanta strada da fare: pur essendo il
vino di hibiscus ben diverso da quello conosciuto al grande pubblico, non può
ancora competere con quello di Dodoma o con quello d’importazione dal
Sudafrica. In più, il contesto di riferimento è povero: per la maggior parte
delle persone è impossibile permettersi un bene considerato di lusso. Teddy
spera di ampliare il bacino di utenza, strizza l’occhio alla metropoli Dar es
Salaam e alle città più vivaci del Tanzania. Questa piccola azienda dà lavoro a
quattro dipendenti impegnati nelle diverse fasi della produzione, ed è in grado
di rifornire il mercato locale. I prodotti, in zona, diventano sempre più
popolari: si possono reperire presso mercati, bar e resort turistici con
il marchio Bagamoyo Wine.

L’impegno
sociale

Ma le
sorprese non sono finite: il fiore all’occhiello di questa dinamica realtà è
l’impegno di Teddy nella promozione dell’imprenditoria e nell’emancipazione
femminile. Ha fondato un gruppo dal nome più che eloquente: Wake up women
group
(Gruppo «Svegliatevi donne»). Il progetto prevede l’apertura di uno showroom
al mercato cittadino, dove tutte le socie possano avere uno spazio per esporre
la propria mercanzia di prodotti artigianali e handmade (fatti a mano).
Parte dei profitti (20%) vengono reinvestiti in un fondo comune da utilizzare
per le esigenze del gruppo, compresi eventuali prestiti a socie in difficoltà:
una forma di microcredito mirato e strategico. Teddy mostra orgogliosa la lista
delle donne che hanno già aderito all’iniziativa e hanno versato una quota per
aprire un conto comune.

La
nostra interlocutrice non ha timore di esprimere giudizi, anche critici e
contrari al cliché della donna africana laboriosa sempre e comunque: «Tante
ragazze sono pigre e svogliate» o, ammette, «troppo succubi ai voleri dell’uomo».
E auspica un miglioramento economico delle sue «colleghe», migliori condizioni
di vita, nonché l’acquisizione di consapevolezza del determinante ruolo delle
donne come veri e propri pilastri di famiglia e società.

Francesco Cosentini*

*Nato a Novara nel 1984, ha
vissuto a Baronissi (Sa) fino a 19 anni. Trasferitosi a Roma per l’università
(Scienze Geografiche per la Salute e l’Ambiente), dal 2008 al 2012 ha abitato
in Tanzania. Durante questo periodo ha collaborato con Cesc Project di Roma per
il Servizio Civile all’Estero, ha cornordinato un progetto di microcredito con
Sicomoro Onlus di Milano e, insieme a Pamoja Onlus di Malonno (Bs), si è
occupato dell’amministrazione dell’ospedale Saint Joseph di Ikelu, nella
regione di Iringa. Durante il soggiorno in Tanzania, tra febbraio e giugno
2011, ha compiuto un viaggio in bicicletta da cui è nato il libro Pole Pole.
Pedalando in Tanzania e Malawi
(reperibile via web o nelle librerie
Feltrinelli). Attualmente lavora come operatore sociale in un centro per
persone senza fissa dimora a Napoli e, a novembre, è partito per l’Australia
con il working holiday visa.

Francesco Cosentini




Il Web… sei tu!

Giornata per le comunicazioni sociali 2014

Non bombardare di messaggi. Dialogare. E attenzione alla
velocità della comunicazione, che supera la capacità di riflessione e giudizio.
E può isolarci dal nostro prossimo. Questi sono alcuni degli spunti del
messaggio di papa Francesco. La nuova frontiera della comunicazione è il «Web 2.0».
Esso fornisce enormi potenzialità ma, come tutte le tecnologie, presenta molti
rischi e pericoli.
In queste pagine un rapido excursus di una persona che ha
fatto del Web 2.0 uno strumento imprescindibile per cooperazione e solidarietà.

«La testimonianza cristiana non si fa con il bombardamento di
messaggi religiosi». «Dialogare significa essere convinti che l’altro abbia
qualcosa di buono da dire, fare spazio al suo punto di vista. Non significa
rinunciare alle proprie idee, ma alla pretesa che siano uniche e assolute».
Questo coraggioso passaggio del messaggio del Papa per la Giornata delle
comunicazioni sociali 2014
(domenica primo giugno) sintetizza bene il
cambiamento profondo che in qualche modo sta vivendo tutto il mondo
dell’informazione, spesso contro la sua stessa volontà, a causa dello sviluppo
rapidissimo e pervasivo delle tecnologie digitali.

L’avvento del «web 2.0», di cui si parla da anni, è
stato prima di tutto una straordinaria rivoluzione culturale, non del tutto
compresa neanche oggi. Ormai lo sappiamo bene: il web 2.0 è il web dei
contenuti generati dagli utenti, quelli dei social network, dei blog, dei wiki
e di molto altro. Su Inteet il diritto di pubblicare informazioni è
distribuito «orizzontalmente» a tutti: a chi possiede una rete televisiva come
a chi ha soltanto un telecomando; al giornalista come al salumiere. Con i
vantaggi e i rischi che questo comporta. Il navigante 2.0 è Upa (User, author, publisher),
ovvero autore, editore, diffusore di se stesso; e ha a disposizione dei potentissimi
mezzi per promuovere le sue idee.

Informazione «collettiva»

Da Wikipedia in poi niente è più stato come prima:
l’informazione non è più unidirezionale ma si costruisce collettivamente, in un
processo che prosegue nel tempo e non è finito al momento della pubblicazione.
Come sostiene il giornalista americano Mathew Ingram: «La notizia si è
trasformata da prodotto a processo».

Ecco perché nell’epoca del web non ha più senso «bombardare
di messaggi» i nostri lettori, come dice il santo Padre, ma è necessario
dialogare, incessantemente, «attraverso la disponibilità a coinvolgersi
pazientemente e con rispetto». E, direi di più, non siamo di fronte a una
scelta etica o morale, ma una necessità per tutti perché la comunicazione
nell’epoca dei social network è intrinsecamente conversazione.

Ma se tutto questo è probabilmente molto chiaro ormai a
livello teorico, non lo è altrettanto nella vita quotidiana. Si verificano
resistenze profondissime, ad esempio da parte di molti giornalisti che si
sentono spodestati dal proprio ruolo di detentori della notizia e fanno
difficoltà a ridefinire il mestiere stando dentro il flusso delle informazioni
e accettando il contributo dei non professionisti. Ancora più sorprendenti sono
le resistenze nel mondo delle associazioni e del non profit, che dovrebbero
essere apparentemente le più votate a questo tipo di comunicazione. Come
sosteneva Paolo Ferrara, responsabile raccolta fondi dell’Ong Terres des Hommes, già
nel 2008: «La rete è quella piazza in cui le Ong possono recuperare il rapporto
con la gente e con il territorio, che negli anni hanno perso».

A inizio 2013, Ong 2.01 ha
realizzato una ricerca su tutte le Ong italiane registrate al ministero Affari
esteri. In sintesi i risultati hanno evidenziato che la maggior parte di esse
tende a usare siti, blog e social network come semplice vetrina delle proprie
attività, nel senso più tradizionale del marketing: cioè come «canale» per
informare o lanciare eventi e campagne, come si farebbe con uno spazio
pubblicitario in Tv. Molto meno si lasciano permeare da un nuovo modo di
lavorare che vede gli utenti protagonisti attivi e coproduttori di contenuti.

Dialogo continuo, online

«Non si tratta di promuovere prodotti vecchi attraverso
nuovi canali, ma di realizzare prodotti nuovi» sostiene Beth Kanter, guru del
web e autrice del libro «The networked non
profit». Come? Instaurando un dialogo continuo con la
propria comunità online fin dall’inizio della creazione di un progetto (e non
solo quando è già confezionato per chiedere soldi) rendendosi disponibili a
eventuali modifiche in base ai feedback ricevuti. Aggioando continuamente la «comunità»
sui risultati ottenuti o sulle difficoltà incontrate senza nascondere i
fallimenti. La trasparenza sul web è fondamentale e va decuplicata rispetto
all’offline (lavoro non sul web, ndr) per superare
l’inevitabile diffidenza dovuta al fatto di non incontrarsi di persona.

Esempio di grande successo in questo senso è una realtà
come Kiva.org, sito di microcredito online per i paesi poveri.
Attraverso la raccolta popolare di piccole quote di 25 dollari per sostenere
progetti dei contadini, ha raccolto in 9 anni quasi 550 milioni di dollari,
coinvolgendo oltre un milione e 150 mila donatori e realizzando migliaia di
progetti in 76 paesi del mondo. Con 243 partner sul terreno e il lavoro
volontario di 450 persone che traducono in 16 lingue e mettono online i
progetti dei piccoli imprenditori. Cosa ha fatto di nuovo Kiva.org? Il
microcredito esisteva da decenni nella cooperazione internazionale, Kiva ha
saputo però reinterpretarlo alla luce del web con una comunicazione diretta,
una mediazione ridotta all’osso, la trasparenza assoluta e il feedback continuo
sui risultati. Ha fatto sentire protagonisti gli utenti e diffuso il messaggio
con un ampio ricorso a strumenti virali (video, foto, testi accattivanti con
rapida diffusione sui social network, ndr).

Altro esempio internazionale molto rinomato è quello di Charity Water, Ong
americana non particolarmente innovativa nei progetti che realizza, ma
straordinariamente capace a comunicare sul web. Cosa ha fatto? Oltre ad avere
un sito graficamente accattivante, chiaro, semplice, in cui in ogni passo
coinvolge l’utente nelle attività della Ong, ha creato una sotto sezione «My Charity Water» dove
ogni navigatore con pochi click può crearsi un suo sito personale, con il suo
nome e la sua immagine allo scopo di far proprio e sostenere un progetto di Charity Water
diffondendolo sui propri social network e tra amici e parenti in occasione di
eventi familiari quali compleanni, feste, battesimi, diventando così
testimonial dell’associazione. Risultato: dal 2006 a oggi, in piena crisi,
11.621 progetti realizzati in 22 paesi.

Ma ci sono esempi anche più «nostrani», Action Aid Italia ha
lanciato la campagna «Dona il tuo profilo Facebook», ovvero per un tempo
determinato sostituisci alla tua foto e la tua descrizione sui tuoi social con
quella di una donna africana per far conoscere la sua storia ai tuoi amici. In
sostanza realizza il vecchio «voce a chi non ha voce», ma con sistemi nuovi.

Testimonial individuali

Un esercito di piccoli e grandi opinion leader,
persone comuni, che studiano, lavorano e comunicano non al grande pubblico, ma
a qualche decina di amici, parenti e conoscenti. Testimonial non pagati e, per
questo, molto più attendibili e influenti.

Certo, siamo abituati a immaginare i volontari come
quelli che partono per l’Africa o distribuiscono le colazioni ai senzatetto.
E per questo c’è chi ha distinto tra «soft» e «hard people raising»,
intendendo quest’ultimo il reclutamento di volontari disposti a rimboccarsi le
maniche: non solo infermiere al fronte, ma anche distributori di volantini e
venditori di azalee per finanziare la ricerca contro il cancro. Il «people
raising morbido», invece, è il reclutamento di volontari che alimentino il
passaparola, mettano una firma o promuovano il messaggio di una non profit o di
un politico «mettendoci la faccia». Tuttavia la distinzione tra i due si fa
sempre più sfumata e spesso una mobilitazione online ottiene risultati offline.

Come l’Ong Cefa di Bologna, che ha realizzato una pagina
Facebook del suo progetto «Africa Milk project» per la realizzazione di una
latteria in Tanzania, da quattro anni racconta passo passo il progetto
pubblicando foto, video, testimonianze, raccontando successi ma anche difficoltà
e fallimenti. Ha raccolto quasi 10 mila fan e attraverso Facebook ha trovato
nuovi volontari e partenariati per il progetto, ha realizzato una marcia di
solidarietà e raccolto fondi.

Relazioni virtuali

Ma la rete non cambia solo le tipologie di
comunicazione, cambia le nostre relazioni (una coppia su cinque oggi si conosce
in rete) e cambia anche l’economia.

Nel web sociale il valore economico si produce
attraverso la condivisione. L’esplosione della cosiddetta «sharing economy» ha
visto nascere centinaia di piattaforme per la condivisione del sapere, come «Insegnalo»
che permette di seguire e impartire video lezioni su vari argomenti, oppure «Neighborgood» per
lo scambio di attrezzi utili tra vicini di casa o ScambioCasa, Couchsurfing e
mille altri.

L’interessantissimo libro di Marina Gorbi «The Nature of the Future»
sintetizza con due neologismi il prossimo futuro. Il primo è «amplified
individual
»: indica la natura dell’essere umano «amplificato» dalla
tecnologia, dall’intelligenza collettiva e dall’appartenenza a innumerevoli
reti sociali. Il secondo è «socialstructing»: la creazione di una
economia fondata sui valori personali e relazionali, in cui i social network
sono di fatto la struttura portante.

Dice la Gorbi: «Nel futuro prossimo gli individui
amplificati dall’ubiquità della tecnologia costruiranno senso esistenziale e
valore economico in contesti social strutturati».

Anche le attività produttive si stanno ridisegnando in
rete, mentre il declino della grande industria sembra inesorabile, nascono
nuove forme di artigianato individuale grazie a tecnologie come le stampanti a
3D che permettono di «stampare» oggetti reali in qualunque parte del pianeta a
partire da file di progettazione multidimensionale. Il che apre anche nuovi
orizzonti per i paesi poveri, dalla «stampa» di protesi mediche in zone remote
(progetti già avviati in Sud Sudan e Kenya) a quella di pezzi di ricambio,
attrezzi agricoli e ogni genere di oggetti, anche organici (sono già stati
stampati in 3D interi aerei, case, pistole, cibo fino agli organi umani ricavati
da staminali).

Pericoli reali
Tutto bene dunque? Non proprio.

Ce lo illustra la storia di Sweetie, una bambina «virtuale»
realizzata da Terres des Hommes
Olanda, utilizzata come esca per studiare il fenomeno
pedofilia via web. Riporta il sito www.today.it: «In pochi mesi più di
20 mila utenti da tutto il mondo le hanno chiesto prestazioni sessuali on line.
Sweetie si presentava come una bambina filippina di dieci anni e gli utenti in
cambio di denaro le chiedevano delle prestazioni sessuali tramite la webcam. Mille di questi
sono stati identificati mentre si collegavano via chat. Le registrazioni video
delle conversazioni sono state consegnate all’Interpol. I risultati dello
studio hanno portato l’associazione per i diritti dei minori a lanciare un allarme
nei confronti di un fenomeno ancora poco conosciuto, quello del turismo
sessuale minorile via webcam, noto anche come Wcst (Webcam child sex tourism).
[…] Secondo Raffaele K. Salinari, presidente di Terre des Hommes
quest’esperimento “è la dimostrazione di come pedofili e sfruttatori di bambini
possano agire indisturbati nella rete, ma anche di come sia facile
rintracciarli”». E Terres des Hommes assieme ad Avaaz.org (noto
sito di petizioni online) hanno lanciato una raccolta firme per fare pressione
sui governi di tutto il mondo in tema di lotta contro il turismo sessuale
minorile tramite webcam».

Il caso di Sweete apre un ampio spazio di riflessione
sulla doppia faccia del web, se è un luogo che permette nuove forme di
coinvolgimento, protagonismo e azione sociale, ugualmente apre la porta a nuove
insidie, distorsioni relazionali non solo di natura sessuale. Come ricorda
ancora il Papa nel suo messaggio: «La velocità dell’informazione supera la
nostra capacità di riflessione e giudizio e non permette un’espressione di sé
misurata e corretta. L’ambiente comunicativo può aiutarci a crescere o, al
contrario, a disorientarci. Il desiderio di connessione digitale può finire per
isolarci dal nostro prossimo, da chi ci sta più vicino».

Disintossicarsi dal web

È emblematico il fatto che nel 2010 sia stato aperto
all’ospedale Molinette di Torino il primo centro per la «disintossicazione da
Inteet» per videodipendenti cronici da giochi e social network. «Le nuove
dipendenze – spiega il professor Donato Munno, responsabile del centro,
intervistato da La Stampa – sono quelle senza droga. Il rischio è il distacco
dalla realtà: tra i casi segnalati, ci sono quelli di persone che arrivano
tardi al lavoro perché non riescono a spegnere il computer attraverso il quale
dialogano a distanza. Oppure uomini e donne che soffrono di deprivazione del
sonno, che sviluppano un isolamento dal resto della famiglia, figli compresi».

Dietro la dipendenza da Inteet, come dietro la
dipendenza da ogni droga, stanno il disagio esistenziale ma anche enormi
interessi economici. Per dare un’idea secondo i dati di Socialnomics nel
2013 i giocatori online nel mondo hanno comprato prodotti virtuali per 6
miliardi di dollari, più del doppio dei 2,5 miliardi di dollari di prodotti
reali (popco, patatine, ecc.) consumati dagli spettatori dei cinema. Un
mercato iper miliardario e in piena espansione spinge in tutti i modi le
persone a vivere vite parallele in rete.

Tutti controllati

C’è poi il problema, serissimo, del controllo dei nostri
dati. Tutto quello che scriviamo, postiamo e alleghiamo sui nostri social è
materiale prezioso per aziende e multinazionali che ci profilano pubblicità
mirata sulla base dei nostri interessi. Ma anche per governi o centri di potere
che intendono controllarci.

Sul tema della sicurezza la questione maggiore è senza
dubbio quella relativa ai cosiddetti «Big Data», un termine che va di
moda per indicare quello che fanno le aziende nella raccolta e nell’analisi di
fiumi di informazioni su Inteet con lo scopo di ottenere indizi sui
consumatori, prodotti o modi migliori per gestire un business. Negli ultimi
tempi si è poi aggiunto un altro fenomeno che va di pari passo col travolgente
sviluppo delle connessioni mobili e cioè le aziende che raccolgono informazioni
sui dati di localizzazione estratti da smartphone o tablet.

C’è chi prevede che il condizionamento culturale ed
economico passerà sempre più da Inteet, così come per molti decenni è passato
dall’azione persuasiva della Tv e degli altri mass media, ma avrà ancora
maggiore capillarità e pervasività per arrivare a essere «controllo globale».

La doppia faccia del mondo digitale rispecchia, nei
fatti, la doppia faccia di tutte le conquiste tecnologiche, aprono nuovi
orizzonti e straordinarie possibilità e insieme rischi e pericoli di enorme
gravità. Il problema è l’uso che si fa della tecnologia, chi la controlla e
quali sono i centri di potere dominanti, non la tecnologia in sé. Oggi
possibilità di azione ci sono ancora, la rete continua a essere lo spazio più
libero che abbiamo a disposizione e lo dimostrano i casi dei regimi
dittatoriali che trovano come unica soluzione estrema per contrastare i
movimenti popolari quella di disconnettere Inteet o di spegnere specifici
social network. Per questo dobbiamo essere preparati e coscienti delle
potenzialità e dei rischi. L’uso che ne prevarrà in futuro è ancora tutto da
vedere.

Silvia Pochettino*
 

________________
*Silvia Pochettino, giornalista, è direttrice
della testata Volontari per lo
Sviluppo  e
fondatrice di Ong 2.0.


La campagna di Ong 2.0


Ripensare la cooperazione

La testata «Volontari per lo Sviluppo»
lancia la campagna #cooperazionefutura e chiede di immaginare la cooperazione
internazionale di domani, partendo dalla piattaforma di Ong 2.0. Un nuovo
spazio online che sarà il punto di partenza per informare, formare e connettere
esperienze sull’uso dell’innovazione sociale e delle nuove tecnologie nella
cooperazione.

Telemedicina, applicazioni per
l’agricoltura, droni per le emergenze, big data… ma anche social
business
e sharing economy stanno ridisegnando le relazioni tra
paesi. E il Sud del mondo si scopre, in molti casi, più avanti di noi nell’uso
creativo della tecnologia e dei nuovi sistemi di economia sociale.

Così i vecchi schemi dell’aiuto
allo sviluppo appaiono sempre più superati, mentre diventa possibile
coinvolgere le popolazioni rurali attraverso semplici sms, attuare scambi
economici attraverso i social network o mappare in tempo reale situazioni di
crisi con software gratuiti.

Ong 2.0, progetto nato tre anni fa
dall’équipe di Volontari per lo Sviluppo, edito da Focsiv, Cisv e altre 12 Ong,
è oggi una testata e un centro di formazione e servizi online sulle nuove
tecnologie per la cooperazione. Nell’ultimo anno ha formato attraverso i webinar
(seminari online) oltre 2.500 persone in tutto il mondo.

Ora è allo
studio una nuova piattaforma e una app di Ong 2.0 che aiuti a connettere
le esperienze e realizzare progetti sperimentali tra Nord e Sud anche con la
finalità di facilitare l’entrata dei giovani nella cooperazione internazionale.
Per questo la campagna #cooperazionefutura: conoscere le idee, le necessità
e le difficoltà di chi vive, o vorrebbe vivere, la cooperazione internazionale
oggi.

Si può inviare la propria idea sul
form della campagna di Ong 2.0 (www.ong2zero.org) oppure con
un tweet a @rivistavps, una foto o un post sul canale Facebook 
(https://www.facebook.com/cambiareilmondoconilweb) utilizzando l’hashtag
#cooperazionefutura.

Messaggio di papa Francesco per la Giornata della Comunicazioni Sociali
– keggetelo su vatican.va il sito del Vaticano

tags: media, comunicazione, web, dipendenza,web 2.0, internet, informazione, dialogo, relazioni

Silvia Pochettino




Voce allo spirito

Incontro con il capo supremo del Vodù
«Siamo spirito e tendiamo all’eccellenza. Perché siamo una
piccola particella di Dio». Il capo della religione più temuta della storia, ma
anche malintesa e bistrattata, si racconta. Lui, uno scienziato della Sorbona,
è da 40 anni anche sacerdote vodù. Con sorrisi e gentilezza ci racconta le sue ultime
battaglie, contro persecuzioni e calunnie, per dare alla religione degli
haitiani il posto che le spetta.

Un cartello segnala casa sua, il Péristyle de Mariani, ovvero il
tempio vodù (anche detto hounfor) di Mariani, cittadina nei sobborghi Sud di Port-au-Prince. Qui,
Max Gesner Beauvoir ha fondato nel 1974 un luogo di culto della religione vodù,
tuttora molto attivo.

Classe
1939, ingegnere chimico, ha studiato a New York per poi specializzarsi in
biochimica con un dottorato alla Sorbona a Parigi. Ha lavorato a lungo negli
Usa, specializzandosi sui poteri curativi delle piante, ottenendo anche un
brevetto. Ma la sua vita cambia nel 1973, quando, sul letto di morte, il nonno,
famoso sacerdote vodù, lo indica come suo successore.

Max Beauvoir diventa un hougan (sacerdote), e ben
presto strenuo difensore della religione vodù i cui adepti sono da sempre
perseguitati. Nel 2005 nasce l’idea di fondare la Federazione nazionale dei voduisti haitiani, che nel 2007 diventa Confederazione (in creolo: Konfederasyon Nasyonal Vodou Ayisyen). Max Beauvoir viene eletto capo supremo, ovvero «Ati nasyonal» del
vodù haitiano.

Ci
riceve nel cortile di casa sua, una costruzione molto particolare, nella quale
ogni dettaglio, dagli scuri alle grate delle finestre, alle pietre che
compongono i muri, ricorda simboli mistici.

Seduti
intorno a un tavolo, conversiamo con questo distinto signore dai capelli
bianchi, gentile e tranquillo. Stentiamo a credere che sia il capo di una
religione che spesso incute timore.

Un sentimento lungo secoli

Dopo il terremoto del 2010 c’è chi ha dato la
colpa di tale evento al vodù. «Un predicatore americano, Pat Robertson, ha
dichiarato che questo disastro naturale è dovuto al fatto che nel paese si
serve Satana1. Ma questi sentimenti sfortunati trasmettono
l’amarezza che alcuni hanno nel loro cuore, dovuta al fatto che gli haitiani
avevano vinto la loro guerra d’indipendenza contro l’armata di Napoleone. E non
solo. Il governo degli Usa dell’epoca aveva preso parte per il re di Francia, e
così gli statunitensi avevano preso molto male la disfatta francese. Ma nella
realtà ne avevano anche beneficiato, perché la Francia aveva dovuto vendere
grande parte del Mississippi agli Usa, per appena 10 cent all’ettaro. E questo
ha quasi raddoppiato il territorio statunitense. L’amarezza degli europei in
generale era tale che alcuni decenni dopo l’Europa ha invaso il continente
africano fino a dividerlo come una torta2. Così piccoli paesi come il Belgio hanno avuto il controllo di enormi
regioni vaste come il Congo».

Max Beauvoir ci descrive gli strumenti usati
dagli Usa per creare un’atmosfera «negativa» intorno alla religione haitiana. «Sono
sentimenti profondi e molto cattivi, e non sono mai finiti da quell’epoca,
continuano ancora oggi. È per questo che gli Usa hanno messo in piedi una
struttura particolare, chiamata Hollywood, che ha fatto tutta la sua fortuna
sull’anti haitianismo, contro la cultura haitiana e contro il vodù. Ha prodotto
e diffuso un grande numero di film sul vodù, tradotti in decine di lingue, al
fine di penetrare la coscienza di tutto il mondo. Anche gli europei, che
sarebbero i più scientifici e disinteressati, in modo incosciente sono
influenzati da tutta questa “campagna”.

Più tardi qualcuno di Hollywood diventa
candidato alla presidenza. È Ronald Reagan che fa una campagna elettorale
ancora sulle spalle dei voduisti. Infatti è parlando del «voodoo economics»3 che fa
ridere tutti del vodù e degli haitiani. E Reagan viene eletto, fa due mandati e
diventa uno dei più potenti presidenti degli Usa di tutti i tempi.

Questo sentimento profondo contro l’haitiano
e la sua cultura esiste nel cuore di molte persone nel mondo, quindi le parole
del predicatore statunitense non ci hanno stupiti. Sottolineo che Haiti non è
il paese che ha subito più terremoti. Esistono paesi molto più sismici, come
Cile, Giappone e gli stessi Usa, con
Los Angeles, sono terra di terremoti».

Così dopo il sisma una volta di più ci sono
state persecuzioni anti vodù contro praticanti e sacerdoti.

Anche l’epidemia di colera, il cui bacillo è
stato portato da alcuni nepalesi del contingente dei caschi blu dell’Onu
(Minustah)4, ha dato adito a uccisioni. «Persone che si
dicono molto formate, hanno imparato la biologia, hanno detto che gli haitiani
sono in grado di fabbricare il vibrione del colera. E così avrebbero diffuso la
malattia a tutti. Per questo motivo hanno ucciso molti voduisti, sacerdoti e
praticanti, accusandoli di fabbricare il colera. Occorre ricordare che nel nome
di Gesù, che dice di amare tutti, 13 volte nei 200 anni di storia di Haiti5, sono stati perseguitati hougan e mambo. Sono stati pogrom anti vodù, di cattolici e protestanti insieme, in
modo ecumenico, per uccidere migliaia di voduisti. Sono andati da loro, hanno
presi i loro beni personali, quello che non volevano lo hanno bruciato, hanno
inviato molti oggetti rituali alle università americane, penso in particolare a
Yale.

Ma per loro era il lavoro di Cristo, uccidere
le persone, e potevano farlo come volevano. Parlo di cristiani di tutte le
confessioni».

L’anima degli haitiani

Max Beauvoir ci racconta: «Sotto il regime di Duvalier nello
spirito dei cristiani haitiani c’era la convinzione che tutti i voduisti
appoggiassero Duvalier, e che lui e il vodù fossero la stessa cosa. Occorreva
uccidere tutti i voduisti perché erano duvalieristi. Sostenevano che solo loro
avevano tutti i diritti. I ton ton
macoute6 erano necessariamente voduisti. Per provarlo entravano nei templi
e trovavano abiti blu, che era l’uniforme dei ton ton macoute, ma è pure la divisa di cousin Zaka, il loa (spirito) del lavoro. Lo chiamiamo Zaka mede, il lavoro divinizzato. Dio vi dice:
avete la vita, la salute, ma in più dovete lavorare perché dal lavoro arrivano
dignità e onore».

Gli chiediamo se il feroce dittatore François Duvalier, abbia
strumentalizzato la religione.

«Non realmente. Ma non ha fatto nulla per promuovere la religione
vodù. Lui ha piuttosto promosso i gruppi di protestanti. Quando François
Duvalier è arrivato al potere c’erano sette gruppi protestanti, quando è andato
via erano 3.000 gruppi diversi.

Sono piuttosto i giornalisti che hanno strumentalizzato il
rapporto Duvalier-religione. Era molto comodo dire che Duvalier era voduista:
la sua anima quindi parlava con voce nasale, come un morto, come baron Samedi (il loa dei cimiteri, ndr). Tutto falso».

Il leader religioso spiega l’essenza del vodù. «È molto triste che
il vodù non sia stato promosso, perché il vodù è l’anima stessa degli haitiani.
È a causa del vodù che un haitiano è haitiano. Tutte le abitudini che abbiamo,
i nostri usi e costumi sono vodù. Tutta la saggezza degli haitiani è rinchiusa
nella tradizione e nei termini vodù, e soprattutto nelle parabole vodù. È in
queste che troviamo il modo in cui comportarci non solo l’uno con l’altro, ma
con gli stranieri. Grazie a esse conosciamo il nostro posto nel mondo: con il
sole, la luna, le stelle, gli alberi, gli animali, il mare, tutto quello che ci
circonda. È nel vodù che troviamo tutte queste relazioni.

Perseguitando o anche non valorizzando la religione «hanno
impedito al paese di svilupparsi. Perché non ci si può sviluppare che a partire
da se stessi, da ciò che si è, non a partire da un altro. È come lo sviluppo
della persona umana, che avviene da se stessa. Ma bisogna essere in forma, è
così che si va avanti nella vita. Bloccando questa crescita hanno fermato il
paese e la sua evoluzione».

Gli errori degli europei

Prima dell’arrivo degli europei, sull’isola vivevano indigeni e
non africani. I loa non erano presenti.

«Gli spiriti vodù non possono venire che con le persone vodù, sono
sempre le persone a fare da veicolo. C’è stata una serie di errori commessi da
Cristoforo Colombo. Ad esempio nel credere che ad Haiti vivesse una razza
diversa, che hanno chiamato “pelle rossa”. Uno dei più grandi errori della
storia: non c’è mai stata una razza dalla pelle rossa. C’era gente che abitava
qui, in un clima tropicale. C’erano zanzare, e così si cospargevano di un
unguento ricavato dai semi rossi di una pianta locale. Questo li proteggeva.
Solo molti anni più tardi si è scoperto che sulla terra e nell’universo c’è una
sola razza, detta la “razza umana” e anche quelli che parlano di neri, bianchi
e gialli hanno solo creato categorie che non esistono, a uso e consumo dei
razzisti. Sempre Colombo voleva provare che la terra è rotonda. Ma in Africa lo
sapevamo da lungo tempo. Avevamo pure degli strumenti, il laye, che è rotondo. Laye, vuole dire universo in lingua
yoruba in Nigeria, ma è della stessa radice di Ayi da cui deriva Ayiti (Haiti in creolo). Ayi vuol dire la
terra, Ayi-ti, ovvero questa terra è nostra. Il popolo fon in Benin, ha lo stesso termine. E
abbiamo anche delle divinità: la madre dell’universo è mambo Delayi».

Spiritualità e razionalità

Da ingegnere chimico a capo supremo del vodù7. Sembra difficile conciliare una
parte così razionale con una spirituale e irrazionale.

«Siamo qui in quattro persone, ma nel vodù diciamo che siamo qui
in quattro spiriti: sono i nostri spiriti a essere seduti a questa tavola.
Possiamo dire che ci sono i nostri corpi; ma tutto il lavoro che facciamo, ad
esempio il video che state girando, è una produzione spirituale. Il vostro
corpo non fa altro che aiutarvi in questa produzione. La mano tiene la
telecamera, il cervello aiuta lo spirito. Riflette sulle cose poi le realizza.
E i nostri spiriti sono ben più grandi di quello che vediamo seduto sulla
sedia. O ancora: una persona che rispettiamo, ci saluta, ci dà la mano, saluta
la nostra dignità, ovvero lo spirito, non il corpo. Abbiamo diritto al rispetto
perché è una particella dello spirito di Dio che abbiamo nelle mani. Siamo
spiriti. Si veda Dambala-Wèdo, il dio serpente. Il suo vévé8 rappresenta due serpenti: è proprio per ricordare che siamo
spiriti. E come il serpente, lasciamo il nostro corpo “in dietro”
periodicamente, ma la nostra vita continua. Siamo figli di Dio: come è
possibile che un figlio di Dio possa morire? Dio è la perfezione. Prima di
tutto lavoriamo per diventare perfetti. Per questo ci ha dato un corpo
imperfetto, ma noi ci impegniamo per aiutarlo nel suo lavoro, la grande opera
di Dio che è la creazione. Mantenere vivente tutto quello che c’è intorno a
noi, il sole la luna, le stelle, gli alberi, il mare: il mondo. È per questo
che siamo qui. Siamo stati creati da Dio che è perfetto.

Ci serviamo delle nostre imperfezioni per migliorarci in
continuazione, in modo da diventare un po’ come lui. Anche se mentiamo,
rubiamo, ecc. Questi sono errori di “prima nascita”, ma ci miglioriamo con
l’esperienza. Riusciremo, siamo figli di Dio. Tutti vanno in paradiso. Bruciare
gli spiriti non è possibile, le anime non hanno sostanza».

Nel vodù un ruolo centrale è giocato dai sacerdoti: hougan (o hungan) gli uomini e mambo le donne.

«Si diventa hougan solo attraverso l’iniziazione. Il che vuol dire prendere
coscienza che si è spirito. Che si può vivere come persona, come faccio in
questo momento, oppure è il mio spirito che prende il posto e tutto diventa più
grande, più straordinario. Ognuno di noi ha i suoi spiriti, io ho i miei, voi
avete i vostri. Qui ad Haiti conosciamo questi spiriti, ma negli altri paesi,
come in Europa, si impara a evitare gli spiriti, a non riconoscerli, e si pensa
che sia il corpo a fare tutto e che il cervello sia come un computer. Questo
per noi non è vero: tutto il corpo è al servizio dello spirito ed è lo spirito
la cosa importante di noi, ci rende belli, grandi, formidabili. Ci permette di
dire che coltiviamo l’eccellenza, qualsiasi cosa facciamo, che siamo artista o
prete. Questo per cercare di avvicinarci a Dio il più possibile».

Religioni unite?

Oggi i voduisti hanno creato con le altre religioni haitiane la
piattaforma «Religioni per la pace»9 che ha assunto un ruolo «politico» di mediazione nell’impasse che vede contrapporsi il presidente
della Repubblica, Michel Martelly e il parlamento. I tempi delle persecuzioni
sembrano lasciati al passato.

«Abbiamo creato insieme “Religioni per la pace”, tutte le
religioni insieme. Io sono amico dei vescovi. Lavoriamo insieme. Non siamo
ancora arrivati a portare questo approccio fino al livello della base, in modo
che il piccolo pastore lasci tranquilla la piccola mambo. Ma lavoriamo verso questo, vogliamo
arrivarci. C’è sempre chi pensa: “Bisogna farvi morire, sparire, perché siete
emissari del diavolo”, ma sono cose che sostengono perché non riescono a
spiegare la nostra esistenza. Si tratta di razzismo cattivo, criminale e
assassino».

Anche per difendere la religione e i suoi spazi Max Beauvoir fonda
la Confederazione nazionale dei voduisti haitiani (Konfederasyon Nasyonal Vodou Ayisyen)10.

Gli chiediamo: «Lei è presidente?». Risposta: «No, Ati si dice. Quando i voduisti hanno
voluto mettersi insieme abbiamo cercato un titolo, e abbiamo rifiutato
presidente e direttore generale. Abbiamo scelto Ati, come Legba che è Ati bon. Nel vodù vuol dire il grande albero
della foresta che protegge i piccoli alberi e permette loro di crescere.
Attraverso le sue azioni diventa un modello che permette ai piccoli di
svilupparsi e di esprimersi. Questa è la mia funzione.

Nel 2007, ci siamo resi conto che i cristiani sono insieme, hanno
formato l’ecumenismo, sempre anti vodù. Ma siamo in un paese vodù, e loro hanno
occupato tutte le funzioni e tutti i posti di rilievo. Quindi stiamo solo
reclamando il nostro spazio su questa terra che è nostra».

Questa religione oggi sta migliorando la sua immagine nel mondo. «Osservo
molta curiosità per il vodù, e non solo ad Haiti. I giovani mi scrivono delle
mail. C’è un riconoscimento generale del fatto che il vodù è un’espressione
culturale normale, valida e spirituale. E i giovani haitiani praticano il vodù».

«Sono il capo del vodù haitiano. È una carica molto pesante e
difficile da portare. Ci sono delle forze negative nel paese. Sono forze
straniere e portano molti soldi per corrompere il cuore della gente e per
impedire che gli haitiani siano autentici e veri. Vengono sotto forma di Ong,
che non sono negative di per sè, ma funzionano negativamente. Vengono per fare
certe cose, ma quando si trovano nel paese non c’è coesione, ognuna fa per
conto suo». Un po’ sorpresi chiediamo all’Ati
nasyonal: «Anche prima del terremoto?». E lui: «Sì, dal 1804».

Marco Bello
 


Note

1 – Devin Dwyer, Pat Robertson blames
earthquake on pact haitians made with Satan, ABCnews, 13 gennaio 2010.2 – Riferimento alla conferenza di Berlino (1884-85) durante la quale
le potenze europee si spartirono l’Africa.

3 – Voodoo economics fu il
nome dato al piano economico proposto da Ronald Reagan alle primarie contro
George W. Bush nel 1980. Reagan vinse e in seguito fu eletto presidente.
4 – Cfr. MC gennaio 2011 e gennaio 2012.
5 – Dall’indipendenza, il primo gennaio 1804.6 – I ton ton macoute erano la
milizia privata di Duvalier, che non si fidava neppure dell’esercito. Furono i
principali responsabili di assassini politici e torture.

7 – Marlise Simons, Power of
voodoo, preached by sorbonne scientist, New York Times, 15 dicembre 1983.
8 – Vévé, disegno simbolico
raffigurante gli attributi di un loa, utilizzato nelle cerimonie.
9 – Réligions pour la paix, piattaforma composta da cattolici, protestanti e voduisti per
mediare una riconciliazione nazionale.
10 – Marc Lacey, A Us-trained entrepreneur
becomes voodoo’s Pope, New York Times, 5 aprile 2008.


Glossario


Vodù in pillole

Vodù
(o vudù)
: religione sincretica che trae le sue
origini dalla spiritualità africana e si evolve ad Haiti. Da non confondere con
il vudù praticato in paesi come Benin (Dahomey) e Nigeria, da cui si origina,
ma si differenzia per l’evoluzione creola e i legami con i santi cristiani. Nei
paesi anglofoni si scrive voodoo, in quelli francofoni vaudou, in
creolo vodou.

Loa: sono le divinità e gli spiriti che fanno
parte del pantheon vodù. Ne esistono un’infinità e sono in continua evoluzione.
I principali, riconosciuti da tutti, hanno origini africane; gli altri sono
creoli, meno potenti, ma fondamentali. Gli uomini chiedono ai loa
protezione e questi li «posseggono» durante i riti. I loa sono capaci
del bene e del male e collegano il visibile con l’invisibile.
I diab sono gli spiriti cattivi. Molti loa sono associati a santi
cristiani.

Rada, petro, kongo e gli altri: i primi due sono i riti principali del vodù
haitiano secondo i quali si classificano i loa. Nel rada si ritrovano
alcuni spiriti del Dahomey; il petro ha spiriti più vendicativi e utilizzati
nella magia. Il kongo ha origini bantu, prevede sacrifici e riti più violenti.
Esistono altre innumerevoli classificazioni, ma nessuna universale. Ogni
categoria ha ritmi di tamburo, strumenti, danze, profumi e saluti propri.

Mambo e hungan: sacerdotessa e prete
vodù (questo chiamato anche boko) sono i maestri dei riti.

Damballah-wèdo: è il dio serpente,
vive sugli alberi e nei corsi d’acqua. È una delle divinità più popolari del
vodù haitiano.

Tratto da: Sodò, la cascata dei miracoli, MC,
luglio-agosto 2001
.

La bibliografia è vasta. Il classico in italiano è: Métraux,
Vodu haitiano, Einaudi Paperbacks, 1971.

Tags: Haiti, vudù, Max Beauvoir, religione, hogan, loa

Marco Bello e Gianluca Iazzlino




Tanzania: Tribe «No Name»


I watoto wa mateso, figli del dolore, sono una «tribù» composta da più di 1600 persone, confinata da circa ottant’anni a 2400 metri, sulle montagne dell’Udzungwa. Isolati e cacciati dalla regione di Iringa perché affetti da una forma di epilessia rarissima, sconosciuta quanto loro. A causa dalla malattia venivano considerati posseduti dal demonio.

 

Mi sveglia l’odore della terra bagnata. Piove da giorni ma la notte ne viene giù così tanta che sembra voler sfondare i mabati (le lastre di lamiera che coprono la casa). Ascolto i ragazzi cantare mentre puliscono il cortile, io decisamente meno attiva di loro riesco a pensare solo a un caffè che mi tiri su la pressione. Accendo il computer e inizio la battaglia con la Vodacom nella speranza di aprire la casella di posta elettronica e di leggere un minimo di news.

Arriva Richard, il veterinario, con dei nuovi casi da conoscere. Sono riuscita a coinvolgerlo a tal punto che adesso si sente uno zelante missionario. Non è semplice raggiungere il villaggio, per via delle strade che sembrano aver inghiottito delle saponette tanto si scivola. Sotto la solita pioggia saluto uomini, donne e bambini con le zappe sulla testa che camminano verso i campi.

Incontro Niky, solo, sul ciglio della strada con lo sguardo perso nel suo mondo. Sono stati proprio quegli occhi spudoratamente inespressivi a colpirmi, a tal punto da decidere di studiare questa malattia con il fine di aiutarli. Non mi risponde, è disorientato e non ha preso la medicina. La madre è nella shamba (campo) e lui probabilmente è scappato. Mi chiede un lecca lecca. La prima volta che mi vide era spaventato e non voleva farsi toccare, però alla vista della strana caramella caddero tutte le barriere, e da allora, quando mi incontra mi prende la mano cercando la caramella. Lo accompagno a casa affidandolo alla vicina, e noi proseguiamo. Ci inoltriamo in sentieri nascosti dal mahindi (mais) già alto. La vegetazione sembra aver risucchiato il paesaggio. Il profumo della terra bagnata mi accompagnerà per questi mesi.

Al cospetto del capo

Seguo Richard con passo svelto su e giù per i sentieri, affollati da case nascoste dal verde. Il sole si sveglia all’improvviso. È forte, tipico segno che pioverà ancora. Come una lucertola mi lascio bruciare la pelle ingrigita dalla pioggia.

Arriviamo alla dimora del capo villaggio. Un impasto di fango e terra rossa ricopre la casa imbiancata da disegni e scritte di ringraziamento. Babu (nonno) Aldo Kahemela è seduto a far asciugare le ossa bagnate dall’umidità delle montagne. Ultra ottantenne, con sguardo curioso ci dà il benvenuto nel suo villaggio e ci presenta la grande famiglia. Figli, nipoti e pronipoti di tutte le età ci accerchiano con sorrisi e offerte di ogni tipo, dalla polenta al pombe, il tipico fermentato alcolico ricavato dalla canna da zucchero o dal mais. L’ospite, anche inatteso, qui è visto come una benedizione.

Janeth mi saluta porgendomi la sua unica mano ricoperta da calli, l’altra è ridotta a un moncherino bruciato che sembra un uncino. È babu Aldo a parlare per primo: «Lei è mia nipote, la figlia di mio fratello. Ha iniziato a cadere quando era una ragazzina. Abbiamo capito che era quella malattia perché la kifafa è la maledizione delle nostre montagne. E negli anni Janeth è peggiorata, tanto da cadere più volte al giorno». «Ho avuto un attacco così forte che sono caduta nel fuoco e quello che resta di questa mano ne è il risultato. Non mi hanno portata in ospedale perché era troppo lontano ma mi ha cucita il guaritore tradizionale del villaggio» continua Janeth. «Se prendo le medicine mi accorgo quando sto per avere una crisi. Una ventata di calore m’invade tutta, ogni parte del corpo inizia a tremare e la testa gira così forte che perdo i sensi. In quei momenti, se sono cosciente, cerco di sdraiarmi a terra per non cadere e non farmi male e se sono vicina al fuoco mi allontano». Janeth è visibilmente ustionata in più parti del corpo, ogni bruciatura racconta un giorno della sua vita senza medicina. In Tanzania ogni forma di epilessia viene curata con il phenobarbitone, un antidepressivo che consente agli epilettici di condurre una vita quasi normale, riducendo notevolmente gli attacchi senza però badare alle controindicazioni.

Il phenobarbitone è considerato una medicina salva-vita e il ministero della salute ne aveva previsto la distribuzione gratuita, ma i dispensari e l’ospedale non ne hanno mai, e raramente viene distribuito ai malati. Stranamente però lo si può comprare nelle duke (negozi).

Malattia di origini incerte

Parlo con la dottoressa responsabile dell’unico ospedale della provincia e anche lei sembra non conoscere le percentuali troppo alte dei malati.

«Io riconduco tutto al parassita del maiale, perché questo tipo di epilessia è diffusa solo qui. Sulla costa, dove non hanno i maiali per via del caldo intenso, non ci sono così tanti malati. E i casi riscontrati presentano una forma di epilessia causata da malaria, febbre e convulsioni. Qui non c’è famiglia che non allevi maiali. Quando giro per villaggi insisto che devono pulire la zona dove stanno gli animali, che devono cucinarne bene la carne. E invece i maiali li vedi gironzolare come fossero cani. Questo parassita non si trova solo nella carne non cotta ma anche nei luoghi dove transitano e defecano i quali sono, il più delle volte, gli stessi in cui va la gente.

Le ustioni, le malformazioni gravissime, che vedi sul corpo delle persone, sono dovute al fatto che per cultura e freddo qui c’è sempre il fuoco acceso e loro, in preda alle crisi, incoscienti ci cadono dentro. Le ustioni non sono curate se non con erbe e il risultato sono  infezioni gravi e quindi amputazioni».

Questa è anche la tesi di Richard, effettivamente comprovata in moltissimi casi.

Generalmente i primi attacchi di kifafa compaiono dopo i dieci anni, invece nei bambini sono di origine genetica, causa di una vecchia consanguineità o perché figli di donne che hanno abusato di alcol durante la gravidanza.

Su queste montagne la piaga del bere pombe per riempire lo stomaco, per combattere il freddo o per noia, è diffusissima. Solo una percentuale ridotta di persone ha sviluppato la malattia in seguito a un trauma cranico, a malaria o meningite.

Mungu mwema (Dio buono)

Questa popolazione della foresta vive la quotidianità in una lotta ancestrale per la vita. È una «lotta di preghiera». Sono uomini e donne, la cui cultura è scandita dall’appartenenza a ritmi tribali che regolano ogni azione. Una tribù che lotta e prega per avere un buon raccolto e contro malattie come la kifafa che portano via il cervello, non fanno più ragionare.

Vivendo con loro si respira il rispetto e la fiducia che ripongono nel «Dio buono», la certezza che Dio cammini insieme a loro. Raccontano di un Dio che è amore e non è mai violento.

È interessante ascoltare anche il loro concetto di amore decisamente diverso dal nostro. L’amore coincide con Dio ma è sinonimo di rispetto, bontà, sostegno reciproco, forza, coraggio, fiducia. Sono gli spiriti buoni e gli spiriti cattivi a determinare, invece, le azioni positive e negative. Non è mai Dio a volere cose negative perché lui è il creatore. Certamente si deve un grande «grazie» ai missionari e alle missionarie che instancabilmente hanno girato queste montagne per far conoscere Dio. E la gente ha integrato la parola di Dio nelle proprie credenze.

Reportage «faticoso»

Potrei continuare a scrivere dei tanti sguardi e corpi spaventati, sorridenti, ubriachi, ustionati, deformi che ho incontrato, del mio senso d’impotenza davanti a una popolazione così malata, a volte rassegnata, però sempre serena nell’animo, ma non riesco a evitare di chiedermi come mai anche questa parte d’Africa lontana e scomoda sia frequentata solo dai missionari e dalle missionarie. In Tanzania le associazioni nazionali e internazionali, grandi e piccole di volontariato e di assistenza sono ovunque con progetti ambiziosi. Ho letto di una società che sembra sia venuta per impiantare gratuitamente la fibra ottica in tutto il paese. La installeranno insieme ai canali per l’acqua che ancora non ci sono?

Già negli anni settanta molti medici sottoposero all’attenzione internazionale questa diffusione stranamente massiccia di epilettici, tanto da coinvolgere il governo tanzaniano in una politica sanitaria adeguata. Ma mai nessuna associazione di prevenzione e sostegno ha realmente studiato le cause e gli effetti di queste forme di epilessia e proposto un programma sanitario.

In Italia, secondo la Lega Italiana contro l’epilessia (Lice), ogni anno circa 500.000 persone vengono colpite, ma i malati avendo la possibilità di curarsi, conducono vite normali.

In Tanzania invece, la convinzione generalizzata delle grandi Ong è che l’epilessia sia una malattia causata da scarsa igiene o da antichi riti e usanze tribali. Non destando l’attenzione internazionale come invece accade per l’Aids, si ritiene che non sia utile investire in piani di prevenzione e cura.

Questo reportage, «Tribe no name», è faticoso fisicamente ed emotivamente. È una protesta nei riguardi di chi è complice della triste realtà che nel 2014 in Tanzania, ci siano ancora troppe persone che muoiono di epilessia, che non hanno diritto a una vita normale perché viene negata loro una pastiglia salva vita.

Romina Remigio
 

 Questo splendido reportage fotografico di Romina Remigio ha vinto il «Silver award», categoria Storia, al Fiof Awards Contest 2014 di Orvieto. Clicca sul simbolo a destra per vederlo sul nostro sito. Clicca qui per vederlo su sito della Fiaf.

Tags: epilessia, discriminazione, malattia, emarginazione, pregiudizi sociali, Tanzania

 

Romina Remigio

 



Le guerre dei Mari Orientali

L’espansionismo cinese


La fame d’energia della Cina non conosce pause.
Per esaudirla Pechino non si ferma davanti a nulla. Lo sanno tutti i paesi
confinanti che si affacciano sul Pacifico: Vietnam, Giappone, Filippine,
Malesia, Indonesia, Taiwan. Con essi la superpotenza fa la voce grossa
pretendendo le isole Paracel, Spratly e Senkaku. Sotto i mari meridionali e
orientali si celano riserve di idrocarburi, che Pechino vuole tutte per sé.

Dalla fine degli anni Ottanta lo sviluppo
economico della Cina sembra inarrestabile. Per sostenere questa crescita ed i
consumi del suo miliardo e mezzo di abitanti la nazione è costretta a cercare
continuamente nuove fonti di approvvigionamento energetico e, conseguentemente,
a sviluppare la propria sfera di influenza.

Nel
2009 un rapporto della Iea (Inteational Energy Association) ha
evidenziato che la Repubblica Popolare era divenuta il maggior consumatore al
mondo di energia sorpassando gli Stati Uniti e le proiezioni riportano che
entro il 2030 la richiesta raddoppierà.

Nonostante
la crisi della centrale giapponese di Fukushima, la dirigenza del Partito
comunista non ha ritoccato i propri programmi nucleari: i 20 reattori in funzione
ed i 28 in costruzione porteranno l’energia fissile prodotta a coprire il 6%
del fabbisogno energetico nazionale entro il 2020, mentre gli impianti eolici
colmeranno il 12% delle richieste.

In
attesa che l’energia prodotta da fonti rinnovabili, di cui Pechino è strenuo
sostenitore, possa influire significativamente sulla sua politica industriale,
l’economia del paese deve sorreggersi sui derivati fossili.

Il
carbone, però, che attualmente sopperisce al 69% della domanda energetica, crea
enormi problemi sia dal punto di vista ambientale che sociale a cui si dovrà
trovare rimedio a breve termine.

Il
petrolio e il gas naturale, che soddisfano il 22% del consumo energetico,
sembrano essere, almeno a breve termine, la soluzione meno invasiva e più a
portata di mano. Myanmar, Bhutan, Nepal, Laos sono stati dei serbatorni
energetici che hanno sopperito alla fame di megawatt dell’industria cinese, ma
la mastodontica macchina economica, che dagli anni Novanta marcia ad un ritmo
impressionante di sviluppo, necessita di ben altro.

Il
principale problema, però, è che il 52% del petrolio importato dalla Cina
proviene dal Medio Oriente, regione continuamente sconvolta dalle continue
tensioni politiche. Ciò ha indotto il governo di Pechino a cercare altre fonti
di approvvigionamento che permettano di guardare con più tranquillità al
proprio futuro.

Il
reperimento di queste nuove fonti energetiche deve necessariamente passare
attraverso una maggiore incisività politica e diplomatica che, per la dirigenza
cinese, si traduce in un rafforzamento del proprio apparato militare per
rendere le nuove rotte commerciali sicure e, al contempo, allargare la propria
sfera di influenza.

Una
delle principali e naturali valvole di sfogo di questa politica sono i mari che
si aprono ad est delle coste cinesi.

Il
controllo di queste distese d’acqua chiamate comunemente Mar cinese orientale e
Mar cinese meridionale (ma sempre più spesso queste denominazioni vengono
contestate dai paesi che nutrono gli stessi interessi della Cina) e delle
minuscole isolette che si ergono sulla superficie marina sono oggi più che mai
oggetto di contenzioso tra la Cina e gli stati confinanti.

Non
importa quanto grandi siano queste isole – a volte si tratta solo di semplici
scogli o affioramenti inadatti anche a costruirvi un minuscolo monolocale –
l’importante è piantarvi la propria bandiera nazionale per stabilire la
sovranità e poter sfruttare le risorse energetiche e ittiche entro le acque che
le circondano.

Secondo
la United Nations Convention on the Law of the Sea (Unclos), ogni
nazione ha esclusivo diritto di sfruttare le risorse comprese entro 200 miglia
nautiche (320 km) dalle proprie coste.

Ma
cosa accade quando i limiti di queste 200 miglia nautiche si sovrappongono con
quelle di altre nazioni? Non vi è una specifica legge internazionale che regola
la questione e il problema viene demandato ai rapporti dei singoli stati che,
come è logico prevedere, non hanno facile risoluzione.

È il
caso delle rivendicazioni nel Mar cinese orientale, dove Cina, Taiwan e Giappone
reclamano l’amministrazione delle isole Senkaku/Daiyou (anche il nome delle
isole varia a seconda dello stato che le reclama) e nel Mar Cinese Meridionale
dove gli arcipelaghi delle Paracel e delle Spratly sono contesi da ben sette
nazioni (Vietnam, Cina, Taiwan, Filippine, Brunei, Malesia, Indonesia).

Il
Mar cinese (sia orientale che meridionale) è considerato una vera e propria
autostrada del mare, dove, stando ai dati foiti dalla Casa Bianca, ogni anno
passano 5,3 trilioni di tonnellate di merci, di cui il 23% statunitensi. Il
sottosuolo dei suoi fondali conterrebbe 11 miliardi di barili di petrolio (nel
mondo si stima ve ne siano un totale di 1,47 trilioni) e 190 trilioni di metri
cubi di gas naturale (su un totale mondiale di 6,7 quadrilioni). Numeri
impressionanti, che fatichiamo a quantificare, ma che danno l’idea della posta
in gioco.

Le isole Paracel

La
disputa più incancrenita, ma, almeno sulla carta, anche la più “semplice” da
risolvere, perché ha solo due contendenti, è quella dell’arcipelago delle
Paracel, disputato tra il Vietnam, che lo chiama Hoàng Sa, e la Cina per la
quale sono le isole Xisha.

Le
Paracel sono un gruppo di isole al largo delle coste vietnamite e a sud di
Hainan. Le quindici isole principali sono divise in due insiemi: il gruppo
Amphitrite a Est ed il gruppo Crescent a Ovest a cui se ne aggiungono altre tre
più lontane, sebbene facenti parte della stessa regione geografica. L’isola più
grande, Woody Island, è lunga 1,8 km e larga 1,2.

Per
secoli, a causa delle loro ridotte dimensioni, le Paracel sono sempre state
evitate dalle rotte marittime e nessuna delle due nazioni che oggi le
contendono ha mai rivendicato alcun diritto di amministrazione.

Solo
nel 1816 l’imperatore Gia Long, della dinastia vietnamita Nguyen, cominciò a
interessarsene con lo scopo di accaparrarsi le merci delle navi che,
malauguratamente, naufragavano sulle loro coste senza, però, stabilire alcuna
guaigione a difesa del territorio. Nel 1902 la dinastia cinese Qing cominciò
ad accampare pretese di sovranità e nel 1974, approfittando degli Accordi di
Parigi e dell’imminente caduta del Vietnam del Sud, il cui governo controllava
le Paracel, Pechino occupò le isole stabilendo su Woody Island un avamposto
militare e costruendovi anche un aeroporto.

A
nulla sono valse le proteste di Hanoi per riavere il controllo dell’arcipelago:
i caccia cinesi da Woody Island possono raggiungere le coste vietnamite in
pochi minuti di volo e dalla postazione militare cinese risulta più facile
intercettare ogni tipo di segnale radio.

Da
parte sua il Vietnam continua a trivellare i fondali marini attorno
all’arcipelago provocando continue ritorsioni della Cina: la PetroVietnam, la
compagnia petrolifera nazionale, ogni anno estrae da tre giacimenti situati
all’interno dell’area 24,4 milioni di tonnellate di petrolio, il 26% della
produzione totale del Vietnam e negli ultimi anni ha condotto una sessantina di
esplorazioni geologiche per cercare nuovi depositi offshore. Nel 2011 si
è sfiorata la crisi diplomatica quando due navi militari cinesi hanno tranciato
i cavi di esplorazione della nave vietnamita Binh Minh.

Ma
chi subisce maggiormente le conseguenze delle tensioni tra Hanoi e Pechino sono
i pescatori. Dal 1999 la Cina ha formalmente proibito la pesca entro le sue
acque territoriali alle navi straniere, ma la mancata formalizzazione
internazionale dello status delle Paracel rende nullo il divieto. Almeno
secondo la tesi vietamita. Dal 2005 la marina militare cinese ha sequestrato 63
pescherecci battenti bandiera di Hanoi con 735 membri d’equipaggio e, per far
rispettare il bando, entro il 2015 Pechino vuole pattugliare la zona mettendo a
disposizione del comando locale 16 aerei e 350 navi.

Le isole Spratly

Più
complicata è la questione delle isole Spratly. Immaginate di avere un isolotto
di 5 kmq (circa 2,5 chilometri di lunghezza per 2 chilometri di larghezza) e di
dividerlo in 750 minuscoli pezzetti sparpagliandoli su un’area di 410.000
chilometri quadrati al largo delle coste del Boeo e delle Filippine. Ecco,
queste sono le Spratly. L’isola più grande, Taiping, è una striscia di sabbia
lunga 1,4 km e larga 400 metri su cui Taiwan ha costruito un aeroporto. I
minuscoli affioramenti delle Spratly sono contesi da Taiwan, Cina, Vietnam,
Malesia, Indonesia, Brunei e Filippine rendendo la controversia uno dei più
complicati rompicapi diplomatici al mondo.

Sono
state queste acque, più che quelle delle Paracel, a veder fronteggiarsi le
marine militari delle nazioni coinvolte nella disputa.

Dapprima
l’incidente dello scoglio di Johnson: nel 1988 tre navi vietnamite vennero
affondate e 74 marinai furono uccisi da uno scontro con la marina cinese. Poi,
nel 1995, a Mischief Reef tre navi cinesi ingaggiarono una battaglia di 90
minuti con una nave filippina. Infine,
nel 2012, fu lo scoglio di Scarborough, 160 km dalle coste filippine e 800 da
quelle cinesi, a essere conteso tra Manila e Pechino. In Cina si scatenarono
manifestazioni pubbliche culminate con il boicottaggio dei prodotti filippini
che causarono, per le sole banane, una perdita di 34 milioni di dollari alle
casse del governo Aquino.

Tra
questi tre incidenti più gravi, se ne sono consumati altre decine coinvolgendo
tutte le nazioni interessate. Giacarta ha lamentato che dal 2009 ben 180 pescherecci
malesi, filippini e vietnamiti sono stati scoperti a pescare abusivamente in
acque territoriali indonesiane, mentre compagnie petrolifere straniere, dal
2011, hanno effettuato 15 esplorazioni geologiche al largo dell’isola di
Palawan per contro del governo filippino, scatenando le proteste di Pechino e
di Kuala Lumpur.

La
battaglia delle Spratly si consuma anche a colpi di toponimi: dal 2011, dopo
che navi militari cinesi avevano compiuto una serie di incursioni in acque
territoriali filippine, il governo di Manila ha cominciato a chiamare le acque
a occidente delle sue coste Mar filippino occidentale.

A
complicare ancor di più la già ingarbugliata situazione, è recentemente
subentrata anche l’India, anch’essa interessata alle perforazioni marittime e
sostenitrice del Vietnam nel contenzioso. Dopo che l’India’s Oil and Natural
Gas Corp.
(Ongc) ha iniziato ad esplorare tratti di Mar cinese meridionale,
la Cina ha inviato continui segnali di insofferenza verso i carghi indiani che
solcano le acque antistanti il Vietnam.

Senkaku: tra Cina e Giappone

Più a
Nord dello scacchiere sudest asiatico un’altra questione è balzata alla ribalta
di recente: quella tra Giappone, Cina e Taiwan su quelle che Tokyo chiama isole
Senkaku, Pechino isole Daioyu e Taipei isole Daiyoutai. Le Senkaku/Daioyu sono
5 isolette disabitate per un totale di 5,17 kmq tra Cina, Taiwan e l’isola
giapponese di Okinawa, a cui amministrativamente appartengono.

Nel
1885 il Giappone avrebbe acquisito i diritti di sovranità di questo minuscolo arcipelago
dopo essersi assicurato che nessun altro stato le reclamava. La guerra
sino-giapponese conclusasi proprio nel 1885 con il trattato di Shimonoseki e la
cessione di Formosa (oggi Taiwan) al Giappone escludeva le isole Senkaku perché
queste, secondo quanto affermato da Tokyo, erano già state annesse all’impero,
quindi non facevano parte dell’isola cinese. In questo modo il trattato che
imponeva la restituzione di Formosa alla Cina dopo la fine della seconda Guerra
mondiale avrebbe escluso il ritorno delle Senkaku al governo cinese.

L’arcipelago
è stato ignorato da Pechino e Taiwan fino all’11 settembre 2012 quando Konioki
Kurihara, un giapponese di Saitama e proprietario di tre dei cinque isolotti,
li ha venduti al governo di Tokyo per 2,05 miliardi di yen. La pescosità delle
acque attorno all’arcipelago e la ricchezza in idrocarburi del sottosuolo hanno
ingolosito Pechino, che ha reclamato le isole in quanto farebbero parte della
piattaforma continentale cinese prima che questa sprofondi nell’oceano per
2.300 metri per formare il canale di Okinawa.

L’alterco
tra Cina e Giappone (Taiwan, dopo un iniziale protesta si è defilata dal
diverbio perché non ha argomenti che appoggino le sue richieste), è sfociato in
un confronto militare ed economico che ha coinvolto la recente storia coloniale
e i rispettivi movimenti nazionalisti.

Le
proteste popolari che si sono scatenate nelle città cinesi hanno convinto
aziende come la Panasonic, la Honda, la Toyota e la Canon a sospendere
temporaneamente la produzione nei loro stabilimenti cinesi e causando una
contrazione degli investimenti giapponesi.

La
questione Senkaku ha permesso al governo di Shinzo Abe di aprire la porta per
un possibile cambio degli articoli costituzionali che impediscono al Giappone
di intervenire militarmente al di fuori del proprio territorio. Nel 2013, per
la prima volta in undici anni, il budget militare del Giappone ha avuto un
incremento dello 0,8% rispetto all’anno precedente, raggiungendo una spesa di
51,7 miliardi di dollari. A questo va a sommarsi il più cospicuo aumento (1,8%)
concesso alla Guardia costiera.

Aspirazioni e flotte militari

I
contenziosi nel Mar Cinese sono anche una scuola di diplomazia per le inesperte
classi politiche asiatiche. Sapendo che singolarmente gli stati coinvolti non
riusciranno a spuntarla con il colosso cinese, tutti gli incontri con le
delegazioni cinesi vengono svolti tramite l’Asean, l’Associazione delle Nazioni
del Sud Est Asiatico.

Pechino
ha sempre cercato di risolvere la questione territoriale tramite incontri
bilaterali. È per questo motivo che la richiesta di arbitrato internazionale
presentata nel gennaio 2013 al tribunale de L’Aia dalle Filippine ha colto di
sorpresa la dirigenza cinese, che ha reagito con irritazione anche
all’incontro, avvenuto a Manila nel febbraio 2014, tra esperti di questioni
marittime di Vietnam, Malesia e Filippine per preparare un piano comune contro
la Cina.

Tutto
questo sommovimento politico e diplomatico porta anche ad un aumento
esponenziale delle spese militari in tutta la regione.

Nel
maggio 2013 il Giappone ha venduto 10 navi di pattuglia alla Guardia costiera
filippina per 110 milioni di dollari mentre – secondo il Sipri (Stockholm
Inteational Peace Research Institute
) – il Vietnam ha aumentato il
proprio budget militare del 70% dal 2011, e la Cina, dal 2003, del 175%.

Sono
proprio le forze armate di Pechino, e in particolare la marina, a sfruttare a
proprio vantaggio la delicata situazione creatasi nel Mar Cinese. Una politica,
quella dell’ampliamento dell’influenza marittima della Repubblica Popolare,
nata già negli anni Ottanta sotto la guida di Liu Huqing, comandante della
marina militare dal 1982 al 1988. Liu, che si era formato in Unione Sovietica,
aveva sviluppato la strategia della doppia linea di difesa: la debole marina
cinese degli anni Ottanta si sarebbe limitata a proteggere le coste nazionali
per poi spostare il proprio fronte marittimo lungo la prima catena di isole (la
fase attuale che vede l’assestarsi della flotta nel Mar Cinese). L’ultimo
gradino nella scala di potenziamento sarebbe il prossimo passo: spostare la
linea di difesa della flotta oltre le Filippine per contrastare l’egemonia
statunitense.

Il
potenziamento e la modeizzazione delle unità navali cinesi servirà anche a
controllare la marina Usa dopo la doppia umiliazione del dicembre 1995 e del
marzo 1996, quando a Washington bastò l’invio di due portaerei, la Nimitz
e la Independence, per dissuadere Pechino dal continuare a rivendicare
le acque territoriali ai danni di Taiwan.

Da
quell’offesa i generali cinesi hanno tratto lezione e, dopo aver varato quattro
nuove classi di sottomarini e sei nuove classi di incursori, nel settembre 2012
è stata inaugurata la Liaoning, la prima portaerei della flotta a cui ne
seguirà una seconda da 50-60.000 tonnellate entro il 2015 e, nel 2020, una
terza a propulsione nucleare.

Ma
una marina forte serve a poco se non si ha la strada aperta per entrare nelle
zone strategicamente nevralgiche per il controllo del Pacifico. E la Cina,
attualmente, ha solo due porti adatti ad ospitare con sufficiente copertura la
propria flotta e permettere, al contempo, l’accesso immediato al mare aperto:
la base di Xiaopingdao, nel Mar Giallo, e l’isola di Hainan.

Le
isole Paracel saranno dunque indispensabili per proteggere la base di Hainan,
mentre le isole Spratly faranno da sentinella e protezione per l’accesso della
flotta all’oceano Pacifico.

Piergiorgio Pescali

Tags: isole contese, Cina, Vietnam, Filippine, Giappone, zone a rischio, guerra, tensioni inteazionali, energia, petrolio, Paracel, Senkaku, Spratly

Piergiorgio Pescali




Il peso della memoria

Viaggio in Cile / 2


Uccisioni, sparizioni, prigionia, tortura, persecuzioni. I
costi umani della dittatura del generale Pinochet sono stati molto alti. A Santiago abbiamo
visitato il «Museo della memoria e dei diritti umani». Un’opera con cui il Cile
ha voluto abbattere i muri della negazione e dell’occultamento. Per costruire
il proprio futuro senza dimenticare il passato.

Santiago
del Cile. La si nota appena dal metro si esce su Avenida Matucana. È una
costruzione color verde smeraldo a forma di parallelepipedo che sovrasta una
piazza ad anfiteatro, costruita sotto il livello stradale. La struttura del
«Museo de la memoria y los derechos humanos» è modea, ma anche sobria come si
conviene a un luogo che racchiude la memoria di 17 anni di dolore e sofferenza.

Inaugurato
l’11 gennaio del 2010, il Museo è infatti uno spazio destinato a dare visibilità
alle violazioni dei diritti umani commesse dallo stato cileno tra l’11
settembre 1973 e il 10 marzo 1990, durante il governo del generale Augusto
Pinochet.

L’entrata
è dalla piazza «interrata», Plaza de la memoria, che a sua volta ospita una
serie di grandi pannelli in cui si raccontano, con testi e immagini, le lotte
dei popoli latinoamericani contro le dittature. Dall’Argentina al Guatemala:
mai dimenticare che praticamente tutti i paesi del continente hanno conosciuto
regimi repressivi, spesso legati in un’unica trama (il Plan Condor)1.

La parete delle vittime

Il
museo offre ai visitatori un panorama completo di quegli anni attraverso
immagini, giornali e documenti video dell’epoca, testimonianze audio,
interviste ai sopravvissuti.

Il
cuore «emozionale» della struttura è però un balcone interno che si trova al
secondo livello. Ha pareti di vetro e candele elettriche che delimitano i suoi
lati. Davanti a esso si apre una vasta parete su cui sono state collocate
migliaia di foto in bianco e nero, piccole e grandi, nitide o meno: sono i
ritratti delle vittime della dittatura. Che però (e per fortuna) non rimangono
volti anonimi e senza voce. Al centro del balcone è stato infatti posto un
leggio elettronico attraverso il quale qualsiasi visitatore può conoscere nome,
cognome e storia di ogni persona ritratta nelle immagini appese.

Lo
schermo tattile riproduce la parete con tutte le sue foto e l’elenco dei nomi.
Scegliamo a caso. Al tocco dello schermo si apre una finestra con la foto
ingrandita e le informazioni sulla vittima. Leggiamo qualche storia: «David
Silberman Gurovich, 35 anni, ingegnere, comunista, sparito dal 4 ottobre 1974»;
«Eugenia del Carmen Martínez Heández, 25 anni, operaia tessile, sparita a
Santiago il 24 ottobre 1974»; Ida Amelia Vera Alamarza, 30 anni, architetto,
membro del Mir2,
sparita il 19 novembre 1974»; «Jorge Humberto Nuñez Canelo, 27 anni,
commerciante ambulante, sparito a Santiago il 30 settembre 1973»; «Rosa Elena
Morales Morales, 46 anni, del partito comunista, sparita 18 agosto 1976 a
Santiago»; «María Cecilia Magnet (Mapu) Ferrero, 27 anni, sociologa, sposata
con il medico argentino Guillermo Tamburini (Mir), spariti il 16 luglio 1976 a
Buenos Aires». Persone comuni di diversa età, provenienza, condizione sociale
la cui esistenza fu spezzata dal regime. «Nessuno può negare, disconoscere,
minimizzare o banalizzare la tragedia dei diritti umani in Cile. Ci
saranno differenti interpretazioni circa le cause della frattura democratica.
Ci saranno distinte interpretazioni sull’eredità del regime autoritario. Però
sul costo umano che il Cile pagò, non dovrebbero esserci divergenze». Sono
parole pronunciate da Michelle Bachelet il giorno della posa della prima pietra
del museo, nell’ottobre 2008. Al contrario di molti politici, la presidente può
parlare con cognizione di causa. Suo padre Alberto morì in carcere, sua madre e
lei stessa passarono per Villa Grimaldi, uno dei principali luoghi di
detenzione e tortura del regime3.

Pro e contro

La Chiesa cattolica non si oppose – almeno inizialmente – al golpe
del generale Pinochet. Troppe erano le paure rispetto all’ideologia socialista
di Salvador Allende e troppi i legami tra Vaticano e Stati Uniti. Il generale
poi era un cattolico e un devoto alla Madonna. Nell’aprile 1987, durante la
visita di papa Giovanni Paolo II, il dittatore si fece fotografare sul balcone
de La Moneda assieme al papa. Tuttavia, il fronte pro-Pinochet non fu mai
monolitico: una parte della Chiesa cilena contrastò da subito il golpe.

Il museo dedica ampio spazio ad alcune di queste persone. La
figura più conosciuta fu il cardinale Raúl Silva Henríquez, arcivescovo di
Santiago durante la breve esperienza di Salvador Allende e nei primi 10 anni
della dittatura. Era il cardinale che provava «una profonda ribellione contro
la menzogna, la violenza, l’ingiustizia, l’arroganza e la mancanza di rispetto
dei diritti umani»4. Fu soprattutto il cardinale che fondò prima, con altre 5
denominazioni religiose, il «Comitato per la
pace in Cile» (Comité para la Paz en Chile) e, immediatamente
dopo lo scioglimento dell’organismo ecumenico (avvenuto il 31 dicembre 1975),
la «Vicaria della solidarietà» (Vicaria
de la solidaridad
)5, espressione della sola Chiesa cattolica. Questa concentrò il
proprio lavoro su due aree: la difesa dei diritti umani e la loro promozione,
compiti assolti con la concretezza che l’urgenza storica esigeva. Nel primo
numero di quello che in seguito diventerà un rapporto mensile, la Vicaria
scriveva: «È evidente che in un paese non possono sparire persone. (…) Il
Goveo ha l’obbligo pubblico di dare una risposta circa la situazione degli
“scomparsi”». E nel paragrafo seguente: «La tortura esiste ed è deplorevole per
il nostro paese»6.

L’ultimo
responsabile dell’organizzazione fu mons. Sergio Valech, che la guidò fino alla
sua chiusura, nel 1992. Proprio a causa della sua opera in favore dei diritti
umani, nel 2003 mons. Valech fu chiamato a presiedere la «Commissione nazionale
sulla prigionia politica e la tortura», che lavorò (in due periodi distinti)
per colmare le lacune lasciate dalla Commissione Rettig. Il suo secondo
rapporto, uscito nell’agosto 2011, è quello che – almeno fino a oggi – fornisce
i dati più aggioati sulla dittatura di Pinochet: le persone morte o scomparse
furono 3.065, le vittime di abusi 40.018.

Meno in vista dei prelati, ma non meno importanti, furono due
semplici sacerdoti, che – per opporsi al regime – persero la vita: Juan (Joan)
Alsina e André Jarlan.

Padre
Alsina, spagnolo, fu fucilato a Santiago il 19 settembre del 1973, appena una
settimana dopo il golpe di Pinochet. La frase che disse al suo carnefice è
rimasta negli annali: «Mátame de frente porque quiero verte para darte el perdón»
(Uccidimi di fronte perché voglio vederti per concederti il perdono).

Anche
il sacerdote francese André Jarlan viveva a Santiago, nel quartiere de La
Victoria, roccaforte antigovernativa. Rimase ucciso il 4 settembre 1984 durante
una retata dei carabineros. Tristemente famosa è la foto che ritrae il
suo corpo senza vita seduto alla scrivania, con il capo colpito da un
proiettile e reclinato sulla Bibbia, aperta sul Salmo 129.

Il Museo è una scuola

Quando si toccano argomenti delicati come i diritti umani, è
difficile commentare senza correre il rischio di cadere nella retorica o,
peggio, nell’ipocrisia. Per questo è importante che esistano luoghi come il
Museo della memoria e dei diritti umani. Su una parete di cemento, nei pressi
della sua entrata, sta scritto a lettere cubitali: «El museo es una escula»
(il museo è una scuola). Una frase apparentemente banale ma certamente vera. Al
di là delle possibili, differenti visioni della storia (non soltanto cilena),
mettere in luce le sofferenze e le miserie umane, le vittime e i carnefici non è
mai un esercizio inutile.

Paolo Moiola
(fine seconda puntata – continua*)
Note

1 – Con Plan Condor s’intende una complessa (e
oscura) operazione di politica estera degli Stati Uniti volta ad impedire l’instaurarsi di governi di sinistra
nei paesi latinoamericani. Ebbe luogo tra l’inizio
degli anni Settanta e l’inizio degli anni Novanta. Riguardò soprattutto Cile,
Argentina, Bolivia, Brasile, Perù, Paraguay e Uruguay.
2 – Mir: Movimiento
de Izquierda Revolucionaria; Mapu: Movimiento
de Acción Popular Unitaria.
3 – Su Michelle Bachelet si veda il
relativo capitolo nel libro di Paolo Moiola-Angela Lano, Donne
per un altro mondo, Il Segno dei Gabrielli editori, 2008,
pagg. 262-267.
4 – «Una profunda rebeldía ante la
mentira, la violencia, la injusticia, la prepotencia y la falta de respeto a
los derechos humanos». La presidente Bachelet ha ricordato questa frase sia in
occasione della posa della prima pietra (10 dicembre 2008) sia in occasione
della inaugurazione del Museo (11 gennaio 2010).
5 – Un’interessante
lettura del pensiero del cardinale si può avere in: Guillermo Sandoval, Heán
Sepúlveda, Rodolfo Bonifaz, El Cardenal de los
trabajadores, Centro di Estudios Laborales Alberto
Hurtado, Santiago 2000. Il libro è scaricabile gratuitamente da internet.
6 – Pagina 10 de Reflexion
1, febbraio 1976. Reperibile sul sito:
wwww.archivovicaria.cl. 

A colloquio con mons. Luis Infanti
de la Mora


Acqua, terre, mari,
minerali: «Basta con la svendita
delle risorse»

A differenza del suo primo mandato, la presidenta
Bachelet non potrà proseguire sulla strada del neoliberismo, dimenticando equità
ambientale e sviluppo sostenibile. Oggi è fondamentale porre un freno a imprese
invasive e irresponsabili. E la Chiesa non deve farsi comprare dai poteri
economici e politici. Mons. Luis Infanti de la Mora, combattivo vescovo
dell’Aysén, ragiona secondo una prospettiva teologica, ma senza perdere di
vista la concretezza.

Nato in provincia di Udine, Luis Infanti de la Mora
arriva in Cile nel 1973, all’età di 19 anni, come seminarista dell’Ordine dei
Servi di Maria. Dopo gli studi all’Università cattolica di Santiago, è a
Cochabamba, in Bolivia, per 8 anni. Ordinato sacerdote, nel 1995 arriva a
Coyhaique, capoluogo dell’Aysén, la Patagonia cilena. Nel dicembre del 1999 è
nominato vescovo del vicariato apostolico di Aysén.

Mons. Infanti
guadagna notorietà internazionale quando si schiera contro il megaprogetto
HidroAysén, lottando a fianco delle popolazioni locali e di «Patagonia senza
dighe» (Patagonia sin represas), un movimento popolare simile a quello «NoTav»
degli albori. Una scelta di campo tutt’altro che banale: un vescovo di origini
italiane si oppone a un’opera che vede proprio l’Italia in prima fila,
considerando che l’attore principale di HidroAysén è l’Enel, azienda in cui lo
stato italiano è l’azionista più importante.

Mons. Infanti, sul web si legge che HidroAysén – il consorzio tra
Enel-Endesa e Colbún (della famiglia cilena Matte) – avrebbe ridimensionato di
molto il proprio megaprogetto idroelettrico sui fiumi Baker e Pascua della Patagonia
cilena. Ciò risponde al vero o si tratta di malainformazione?

«In Aysén
l’impresa HidroAysén (italiana e cilena) da vari anni ha progettato 5 grandi
dighe per produrre energia idroelettrica in favore delle miniere di rame al
nord del Cile, a quasi 3.000 chilometri di distanza. Il megaprogetto di
HidroAysén è stato finora paralizzato per l’opposizione di grandi settori della
popolazione. Oggi ci sono molti segnali che indicano la sua imminente morte,
anche perché il nuovo governo di Michelle Bachelet sembra contrario alla sua
realizzazione. Ricordo che, nel febbraio-marzo del 2012, l’indignazione
popolare portò a paralizzare per 40 giorni tutta la regione, unendo in un’unica
voce di protesta Patagonia sin represas (Patagonia senza dighe),
pescatori, commercianti, studenti, autotrasportatori. In tutto ciò la Chiesa
dell’Aysén ha avuto un ruolo rilevante». 

In che modo?

«Affiancando
le varie organizzazioni e i settori sociali che si sono espressi contro questo
progetto. Pubblicando una lettera pastorale Danos hoy el agua de cada dia
(Dacci oggi la nostra acqua quotidiana), in cui, oltre a presentare con
argomentazioni precise i motivi del rifiuto di questa iniziativa
imprenditoriale, noi abbiamo messo in discussione la proprietà dell’acqua
nell’Aysén e in Cile. Con una visione etica e spirituale, abbiamo aiutato a
prendere coscienza della sua importanza come elemento vitale di sempre maggior
rilievo in tutto il mondo. Abbiamo infine evidenziato una sorta di nuova
colonizzazione dei paesi del Nord verso i paesi del Sud, una colonizzazione che
trasforma l’acqua in una merce emarginando grandi settori della popolazione,
condannandoli alla povertà se non addirittura alla morte».

Lei parla di «merce» e non di «bene pubblico»…

«Il tema della
privatizzazione dell’acqua (proprietà e gestione monopolistica dell’Enel,
attraverso la controllata Endesa Chile) è entrato come tema prioritario nella
società cilena e sta dando impulso anche a un movimento per cambiare l’attuale
Costituzione politica dello Stato, approvata nel 1980, in piena dittatura di
Pinochet e quindi antidemocratica».

Gran parte della crescita economica del Cile è fondata sullo
sfruttamento delle proprie risorse naturali: risorse minerarie, foreste, acqua,
risorse ittiche. Si tratta di uno sfruttamento «sostenibile»? E ancora: è
realisticamente possibile avere uno sfruttamento «sostenibile» o si tratta di
una contraddizione in termini?

«La politica
neoliberista in Cile ha aperto le porte alla svendita delle risorse naturali
alle imprese multinazionali, le quali fanno i loro interessi e si preoccupano
solo dei propri guadagni. E certamente non delle necessità delle popolazioni.
La cosiddetta “responsabilità sociale delle imprese” non ha una efficacia reale
nei territori e con le comunitá in cui le imprese operano. Prova di ciò sono le
continue proteste in tutto il Cile contro imprese invasive e irresponsabili,
appoggiate da legislazioni che le avallano».

Il programma di governo di Michelle Bachelet parla – alla pagina 126 –
di «equità ambientale» e di «sviluppo sostenibile». La presidenta riuscirà in
questo o si tratta soltanto di mera propaganda?

«Nel suo
governo precedente Michelle Bachelet ha dato numerosi esempi di voler
approfondire il sistema liberista portato avanti dai tempi della dittatura di
Pinochet: la “equidad ambiental” e il “desarrollo sustentable” non sono state
dunque tra le sue priorità. Nell’attuale gestione di governo non potrà fare lo
stesso. Perché la coscienza, le esigenze, l’intervento e la partecipazione
della popolazione cilena la obbligheranno a tenere fede agli impegni presi nel
suo nuovo programma di governo».

Lo stato – in Cile come in Italia e nella maggior parte dei paesi – non
sembra voler capire che la difesa dell’ambiente è una questione cruciale per il
presente e il futuro. Tuttavia, troppo spesso i cittadini sono i primi a non
rispettare l’ambiente. È d’accordo con questa affermazione? Se sì, cosa
occorrerebbe fare per porvi (rapidamente) rimedio?

«La difesa
dell’ambiente e le nostre relazioni di comunione con esso incontrano sempre
maggiore coscienza nei cittadini, anche se non sempre si traducono in
atteggiamenti e stili di vita nella quotidianità.

In questi
tempi in cui anche la Madre Terra lancia profonde grida di sofferenza come
“dolori di parto”, in qualità di religiosi, noi abbiamo una gran responsabilità
nell’annunciare, vivere e celebrare la nostra fede in Dio Creatore, che ha dato
vita ad ogni creatura affinché cresca e si sviluppi con pienezza. Diventa
allora responsabilità essenziale dell’essere umano – con la sua saggezza, la
sua scienza, il suo amore, la sua lungimiranza – impegnarsi per costruire “i
cieli nuovi e la terra nuova”. Percepisco che la spiritualità biblica del Dio
Creatore e Redentore ha profonda sintonia con la spiritualità vissuta da San
Francesco d’Assisi e anche con le modalità di vita dei popoli indigeni e di chi
rispetta, ama e lotta per promuovere la comunione e la bellezza di ogni essere
creato, soprattutto dell’essere umano».

Secondo lei, i popoli indigeni hanno – mediamente – un rispetto maggiore
della natura o questo è un luogo comune per enfatizzare il loro ruolo?

«Fatte salve
le differenze tra uno e l’altro, tutti i popoli indigeni hanno una cultura
profondamente spirituale di comunione e di incontro con la Divinità attraverso
le creature e specialmente attraverso la natura (acqua, boschi, clima, vento,
fuoco…). Ciò li porta a un profondo rispetto e condivisione dei beni naturali,
che sentono come parte intimamente unita alla loro vita. Quando sono invasi e privati del loro ambiente,
come succede con sempre maggiore frequenza nella società consumista, si sentono
violentati fisicamente, spiritualmente e moralmente. Offesi nel loro stesso
stile di vita».

Una parte della Chiesa cattolica e della gerarchia in particolare ha
timore a schierarsi dalla parte degli ambientalisti, perché li considera troppo
vicini a posizioni ideologiche di sinistra, spesso viste come antitetiche
rispetto ai dettami evangelici. Si tratta di un timore fondato?

«Tra gli
ambientalisti ci sono varie linee ispiratrici e varie posizioni, come anche
nella Chiesa cattolica e in ogni organizzazione umana.

La dottrina,
oggi, merita un maggior approfondimento della fede nel “Dio Creatore” e nella
proclamazione originaria del popolo della Bibbia che “la terra è di Dio”,
contrapponendola a certe persone e organizzazioni umane che si sentono signori
e padroni dei beni comuni. Se questo approfondimento teologico e pastorale
della Chiesa porta a posizioni e decisioni simili a qualche gruppo o movimento
o partito o organizzazione, non deve destare alcun timore.

Grazie anche
agli ultimi papi, la Chiesa cattolica sta prendendo più coscienza del tema
ambientale e dei suoi gravi problemi (terra, acqua, alimenti, estrattivismo,
cambiamento climatico, …) e della povertà come struttura sociale imposta dai
poteri depredatori della vita. Mi pare che oggi la sua scelta di campo sia
dalla parte degli impoveriti, degli emarginati, dei silenziati, facendo la
stessa opzione di Cristo».

I poteri economici sanno essere molto persuasivi. Secondo lei, è
possibile resistervi?

«La Chiesa,
compresa la gerarchia, soprattutto in America Latina, sempre con maggior
evidenza non si lascia comprare dai poteri economici e politici che la
vorrebbero tenere come alleata per silenziare la sua missione profetica di
fedeltà a Cristo e all’umanità. Le strategie del potere, del dolce e gentile
potere, molte volte hanno uno spirito diabolico. Preghiamo sempre per non
cadere in questa pericolosa tentazione».

Paolo Moiola
Siti web:
www.patagoniasinrepresas.cl
www.hidroaysen.cl
 
Libri:

• Luis Infanti de la Mora, Dacci
oggi la nostra acqua quotidiana
, Emi, Bologna 2010.
• Patricio Rodrigo S. – Juan Pablo
Orrego S. (a cura di), Patagonia chilena sin represas, Ocho Libros
Editores, Santiago 2007. Questo (bellissimo) volume è scaricabile gratuitamente
dal sito di Patagonia sin represas.

 

La
Chiesa cilena e Pinochet

DAL «BALCONE» AL MARTIRIO

• padre Juan (Joan) Alsina – Sacerdote spagnolo, fucilato a
Santiago il 19 settembre del 1973, una settimana dopo il golpe di Pinochet.

• padre André Jarlan – Sacerdote francese, ucciso dai carabineros
il 4 settembre del 1984 a La Victoria, durante la repressione di una
manifestazione contro la dittatura.

• cardinale Raúl Silva Henríquez – Nel 1973 fu cofondatore del «Comité
para la Paz en Chile». Dopo la sua chiusura forzata, il 1 gennaio 1976 fondò la
«Vicaría de la Solidaridad», organismo di assistenza sociale e legale alle
vittime della giunta del generale Pinochet. Nonostante pressioni e minacce,
l’organismo lavorò fino alla caduta della dittatura.

• monsignor Sergio Valech Aldunate – Fu l’ultimo responsabile (dal 1987
al 1992) della «Vicaría de la Solidaridad». Fu presidente della «Commissione
sulla carcerazione politica e la tortura» (Commissione Valech). 

Diritti umani in Cile


Dalla violazione al riscatto

• 1973, 11 settembre – 1990, 10 marzo: Dittatura del
generale Augusto Pinochet.• 1990, aprile – 1991, febbraio: Lavoro della «Comisión
Nacional de Verdad y Reconciliación». Il risultato finale è l’«Informe Rettig»,
che sarà giudicato insoddisfacente.

• 1992, febbraio – 1994, febbraio: Lavoro della «Corporación
Nacional de Reparación y Reconciliación».
• 2003, settembre – 2004, novembre: Lavoro della «Comisión
Nacional sobre Prisión Política y Tortura», nota anche come «Comisión Valech»,
dal nome del suo presidente, mons. Sergio Valech.
• 2010, febbraio – 2011, agosto: Lavoro della seconda
Commissione Valech. Nel rapporto finale si riconosce che la dittatura di
Pinochet ha fatto 40.018 vittime e 3.065 persone morte o sparite.
• 2010, 11 gennaio: Apre a Santiago il «Museo de la Memoria
y los Derechos Humanos».

________________________________

Siti
internet:

www.museodelamemoria.cl
www.archivovicaria.cl
Ringraziamenti

Si ringraziano per l’aiuto e la disponibilità María Luisa Ortiz e Alejandra
Tapia, dirigenti del Museo della memoria di Santiago.

* Nella prossima puntata: l’incontro con i pescatori dell’isola di Chiloé;
l’intervista con il vescovo di Ancud, mons. Juan María Agurto Muñoz, e altro
ancora.

Tags: Cile, dittatura, memoria, Pinochet, Michelle Bachelet, Luis Infanti de la Mora, museo, Chiesa, acqua, risorse, Chiloé

Paolo Moiola




L’oro del Karamoja

Sfruttamento intensivo del Nordest Uganda
Tra le ferite ancora aperte delle violenze armate degli anni passati, il rischio dello sfratto dalle proprie terre, la siccità che sembra
aumentare di anno in anno facendo crescere l’insicurezza alimentare.
Sui pendii del monte Moroto, nell’angolo più remoto del Nord
Est dell’Uganda, alcuni membri della tribù Karamojong, inclusi i bambini,
ricercano l’oro nell’arida terra rossa.

Un tempo allevatori di bestiame, i Karamojong
sperano di migliorare la loro situazione economica vendendo piccole quantità
d’oro che grattano dalla terra arida del Karamoja, regione a Nord Est
dell’Uganda, al confine con il Kenya e il Sud Sudan, considerata la più
emarginata del paese e una delle più povere del mondo. Terra di pastori
seminomadi, il Karamoja è stato teatro di un lungo ciclo di conflitti tra i
diversi clan di guerrieri per l’accaparramento del bestiame, la sopravvivenza,
e in lotta contro l’interferenza del governo.

Dal 2001, per un decennio, migliaia di soldati ugandesi
hanno condotto una brutale campagna di disarmo in tutta la regione. Con il
disarmo e la relativa riduzione dell’uso della pastorizia come fonte di
sostentamento principale, i Karamojong sono oggi costretti a reinventarsi in un
nuovo stile di vita, e a cercare nuove opportunità di sostentamento. A causa
degli effetti sempre più visibili del riscaldamento climatico, tra cui
l’aumento dei periodi di siccità, la vita in questa pianura semiarida diventa
sempre più difficile e l’agricoltura non può rappresentare l’unica risorsa
sostenibile. La popolazione locale si ritrova quindi con poche alternative per
sopravvivere. «L’oro è diventato ora ciò che prima le mucche rappresentavano per
noi», dice un anziano. Nonostante l’economia in Uganda abbia un enorme
potenziale di crescita per l’inaspettata scoperta del petrolio, il Karamoja
rimane una regione dimenticata ed esclusa.

Scavando a
mani nude sulle colline di Rupa

Per Lomilo, che lavora nella miniera di Rupa, la ricerca
d’oro è un business di famiglia. Ogni mattina dall’alba si reca con
moglie e figli sulle colline minerarie di Rupa per il lavoro nelle gallerie.
Lomilo passa le sue giornate scavando a mani nude profondi cunicoli nel terreno,
nei quali si cala per cercare terra sempre nuova. Regolarmente riemerge e passa
alla moglie Naduk bacinelle di terra preziosa. Naduk setaccia il raccolto
insieme alla figlia più grande, mentre allatta il piccolo e si prende cura
degli altri quattro figli. La loro giornata trascorre monotona con viaggi di 8
km a piedi per arrivare al pozzo e raccogliere l’acqua necessaria per
l’operazione di setaccio. Lavorando con strumenti primitivi e in condizioni
molto difficili, la ricerca dell’oro è un lavoro pericoloso e sfinente. Nessun
pasto è previsto durante la giornata, ci si potrà rifocillare la sera
rientrando nel villaggio, se la ricerca d’oro avrà dato qualche buon risultato.
Seduta sul bordo dello scavo, la figlia di Naduk è responsabile del lavaggio: un
lungo processo per cercare di trasformare i mucchi di terra raccolti dal padre
in qualche frammento d’oro. «Amo il mio lavoro», dice mentre lava la terra, «voglio
avere qualcosa per sopravvivere con la mia famiglia». Tutti i figli di Lomilo
sono coinvolti nella ricerca dell’oro. Il sistema scolastico in Uganda è a
pagamento, un lusso che solo il 10% della popolazione in Karamoja può
permettersi (contro il 70% a livello nazionale). È difficile andare a scuola e
studiare a stomaco vuoto, per cui molti bambini preferiscono lavorare alla
miniera e ottenere qualche spicciolo a fine giornata.

Al di sotto
dei 18 anni

Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo),
i lavoratori nelle miniere d’oro in Africa sono per un 30-40% bambini al di
sotto dei 18 anni. A causa della fame e della povertà i genitori li
incoraggiano a lavorare nelle miniere per poter comprare cibo e vestiti. Spesso
i bambini sono i più abili a muoversi negli stretti cunicoli sotto terra.
Inoltre, in tutto il continente africano si registrano alti indici di abbandono
scolastico negli istituti d’istruzione che si trovano nei pressi di giacimenti
minerari.

In Kaabong, distretto del Karamoja che registra elevati
tassi di malnutrizione e dove buona parte della popolazione si sta sempre più dedicando
al lavoro nelle miniere, l’assenteismo a scuola è un problema crescente. Il
lavoro nella miniera di Rupa è rischioso. Molte vite sono perse ogni anno a
causa del crollo di qualche tunnel. Lomilo indica uno scavo dove qualche
settimana prima ha perso un amico.

0,3 Euro al
grammo

«È un lavoro rischioso, ma non ho altra scelta per il
momento», spiega Lomilo. Il suo grande sogno, come per tutti i ricercatori
d’oro, è quello di trovare un giorno un grande pezzo d’oro, così da potersi
finalmente sistemare con la sua famiglia, mandare i figli a scuola e dedicarsi
nuovamente all’allevamento del bestiame, anch’essa attività oggi molto
rischiosa per le continue razzie da parte dei clan vicini.

A fine giornata Lomilo si reca al mercato per vendere la
polvere d’oro. Con 9 grammi guadagna 9.000 Scellini ugandesi, equivalenti a 2,7
Euro circa per una giornata di lavoro di un’intera famiglia. Anche la famiglia
di Lomilo rientra nella tanto discutibile categoria di «povertà estrema»,
definita in base al guadagno inferiore a un dollaro procapite al giorno, «the
dollar a day poverty line
». Al mercato dell’oro sono presenti numerosi
commercianti, arrivati dal Kenya o dalla capitale Kampala. Comprano
illegalmente l’oro da questi gruppi informali per rivenderlo alle grandi
compagnie minerarie, spesso multinazionali con sede all’estero. Lo scavo di
Lomilo è uno dei migliaia che ricoprono la collina di Rupa. Secondo fonti
locali sono circa 10.000 le persone che riescono a sopravvivere grazie a questa
miniera a cielo aperto. In totale, il triplo di questo numero dipende dalle
miniere d’oro in Karamoja, e la cifra non tiene conto dei lavoratori delle
miniere di marmo, gemme e pietre calcaree. La regione del Karamoja con i suoi
enormi depositi d’oro, potrebbe diventare la nuova frontiera di sfruttamento
minerario dopo il petrolio nell’Ovest dell’Uganda. Le comunità e i leader
locali temono che nuovi conflitti possano derivare dalla lotta per
l’accaparramento di queste risorse. Recentemente si stanno diffondendo notizie
di trafficanti d’oro che lavorano per conto di qualche industriale o politico
di primo piano, per lo sviluppo di un’industria mineraria nella regione.
Sfruttando la lontananza dalla capitale e il generale disinteresse politico e
mediatico per la regione, alcuni uomini d’affari potrebbero assicurarsi le zone
minerarie del Karamoja, utilizzando a proprio vantaggio i conflitti tra i vari
clan.

Comunità
locali a rischio di sfratto

L’ufficio della Ricerca Geologica e Mineraria si occupa di
concedere le licenze agli operatori interessati. Tuttavia, nonostante il
governo locale neghi la presenza di attività illegali, diverse organizzazioni
locali sostengono che l’industria aurifera manchi di trasparenza e che molti
operatori agiscano nella regione senza una vera e propria licenza o con una
concessione scaduta da anni. Secondo il Mining Act del 2003, un’azienda può
ottenere una licenza per tre anni. Il proprietario del terreno, la provincia e
il distretto, dovrebbero ricevere le royalties. Tuttavia sembra che i dividendi
dell’oro rimangano per molto tempo in una zona grigia. Nel frattempo, le
comunità locali vivono nell’incertezza e nella paura che qualcuno possa
cacciarli dalle loro terre, rinnovando il conflitto nella regione. Alla fine si
torna a un punto dolente per tutto il continente africano, e non solo per esso:
la ricchezza di pochi (i proprietari delle miniere e chi «li controlla», quasi
sempre corporazioni multinazionali senza scrupoli) accumulata con lo
sfruttamento di molti.

In un’Uganda
in piena crescita e con sempre nuovi problemi

E pensare che l’Uganda negli ultimi anni ne ha fatta di
strada da quando la ventennale guerra civile tra governo e ribelli dell’Lra (Lord
resistance army
, guidati dal famigerato Joseph Kony, cfr. MC giugno 2012),
terminata con gli accordi del 2008, non ha più depredato gli abitanti della
loro terra e della possibilità di vivere in serenità. Le famiglie sono tornate
nelle loro case, i bambini soldato (se ne stimano almeno 300mila nel mondo, che
porteranno per decenni i traumi dei combattimenti e dei soprusi) si sono man
mano reinseriti nell’ambiente originario, l’economia ha ricominciato a girare,
lentamente, in tutto il paese, che oggi registra 36 milioni di abitanti e un
tasso di crescita annuale del 3,3%. Mentre si spera che la situazione intea
rimanga tranquilla – nonostante la «sporca» corsa ai minerali -, si presenta un
nuovo problema per il Nord del paese, e in parte anche per il Karamoja: sono le
decine di migliaia di sfollati che scappano dal Sud Sudan, il più giovane stato
del mondo, staccatosi nel 2011 con un referendum dal Sudan ma da alcuni mesi in
preda, a sua volta, a un conflitto armato scatenato dall’ex vicepresidente
ribelle nei confronti dell’attuale premier. Conflitto nel quale, per ora, le
forze inteazionali stanno a guardare, ma che sta generando fughe di massa in
altri paesi, benché questi non abbiano strutture e strumenti adatti per
accoglierli, come l’Uganda.

Insicurezza
alimentare

Nel frattempo in Karamoja, oltre a quella delle miniere,
tiene banco da qualche mese la questione della sicurezza alimentare, messa a
dura prova non solo dagli eventi bellici del recente passato ma anche dalla
siccità che ogni anno sembra aumentare (nel 2013 si è calcolata una diminuzione
fino al 50% dei raccolti in tutta la regione). Il governo centrale ha lanciato
un piano speciale piuttosto originale per migliorare la situazione agricola del
Karamoja: a tutti i cittadini viene chiesto di creare un proprio orto
coltivando due generi alimentari, patate e tapioca. Nient’altro, perché questi,
spiegano le autorità, sono i cibi che resistono di più alla scarsità d’acqua.
La notizia non è stata accolta con calore dalla popolazione. Anzi, molti
mettono in dubbio l’efficacia di un’azione del genere, lamentandosi del fatto
che bisognava invece puntare sul bestiame, più redditizio. In attesa di sapere
quale sarà l’efficacia del piano governativo, Irin, l’agenzia informativa
legata all’Onu, ha comunicato che il Pam, Programma alimentare mondiale, ha
pianificato di consegnare cibo ad almeno 155mila persone da febbraio 2014, di
rafforzare azioni che da qualche anno stanno migliorando altri aspetti della
società locale, come il programma food for work (cibo in cambio di
lavoro) che comprende 390mila beneficiari, di mettere in atto una forte
iniziativa scolastica per 100mila bambini a rischio dispersione e un programma
di salute e nutrizione per 38mila giovani madri e i propri piccoli, di
raccogliere più scorte di cibo per almeno 25mila bambini denutriti.

Anche in questo caso, però, ci sono dei problemi: il Pam
ha reso noto che non sa se nel 2014 avrà i fondi per sostenere tutti i
programmi, una sorta di pre allerta a non fare troppo affidamento su di essi.
Una notizia negativa, che potrebbe essere controbilanciata solo da una
rivoluzione culturale: dalle miniere del Karamoja ai campi dei sette distretti
regionali, la voce del popolo spesso è univoca nel sostenere che non basta
indicare cosa coltivare e cosa no. È tutto l’approccio che deve cambiare.
Ovvero, bisogna mettere in grado le persone di gestire non solo la coltivazione
diretta ma anche la lavorazione del cibo dalla materia prima, l’acqua potabile,
le strutture sanitarie e la protezione sociale. Così facendo, la regione, e non
solo essa, farebbe quel salto di qualità che oggi manca e che proietterebbe la
gente del luogo verso un futuro migliore, più legato all’autonomia,
all’imprenditorialità e meno all’assistenzialismo.

Anna Giolitto e
Daniele Biella


Anna Giolitto e Daniele Biella




L’Ong Lvia in Burkina Faso: Una storia lunga 40 anni

L’Ong Lvia ha da poco festeggiato i 40 anni di presenza in Burkina
Faso. Fondata nel 1966 da don Aldo Benevelli, 7 anni dopo i primi volontari
giunsero nell’allora Alto Volta. Da quel giorno tante realizzazioni, ma soprattutto
storie di persone, incontri, relazioni. Scopriamo
questa storia positiva che lega Italia e Africa dalle parole dei protagonisti.

Riccardo Botta è tornato in Burkina Faso per
festeggiare i 40 anni di attività dell’Ong Lvia (Lay
volonteer inteational association, www.lvia.it) nel paese. Lui
è stato tra i pionieri, nel primo gruppo di volontari che con Lvia sono partiti
alla volta del Burkina Faso. A Donsè, Riccardo metteva le basi di una storia.
Erano gli anni Settanta.

«È
ancora vivo nella memoria il momento in cui nel lontano ’73, su richiesta del
cardinale Paul Zoungrana, mettemmo piede in Alto Volta, come allora era
chiamato il Burkina Faso. Trovammo un paese sconvolto dalla siccità. Partimmo
in cinque per dar vita, con la diocesi di Ouagadougou e i ministeri della Sanità
e dell’Agricoltura del Burkina Faso, al primo programma di cooperazione». Così
ricorda Riccardo Botta. Infermiere in pensione, quando era poco più che
ventenne entrava a far parte del gruppo di giovani Lvia che allora – era il
1966 – si stava costituendo sotto la guida di un carismatico don Aldo
Benevelli. Continua: «Don Aldo era un prete guru; schieratissimo contro la
guerra del Vietnam, il suo monito era “Cambiate le vostre spade in vomeri!”.
Erano anni di grande fermento, di ideali, di desiderio di prendere posizione e
attivarsi».

Anni ruggenti

«Il nascente gruppo Lvia era figlio del clima post
conciliare – spiega don Aldo Benevelli, che ricorda i primi passi dell’associazione.
Con il Concilio Vaticano II si faceva strada l’idea di una Chiesa nuova e a noi
interessava soprattutto il rinnovamento del cristiano, come uomo che sta vicino
all’uomo. Nasceva a Cuneo un gruppo di giovani eterogeneo, cattolici, laici, provenienti
dal mondo del sindacato e dell’università, ma con uno sguardo sul mondo basato
sui medesimi valori».

Nel 1972 iniziava la grande siccità nel Sahel che colpì
oltre 50 milioni di persone. Una tragedia umanitaria che per la prima volta
portava alla ribalta sui grandi mass media mondiali questa, allora poco
conosciuta, regione africana. Dal contatto tra don Aldo Benevelli e i padri
Camilliani in Burkina Faso, nasce l’impegno di Lvia nel paese per affrontare la
carestia. Continua Riccardo: «Partimmo con alcuni giovani di Ivrea, dove mons.
Luigi Bettazzi aveva fondato un gruppo come il nostro. Nel villaggio di Donsè
costruimmo la nostra sede, una modesta capanna; avevamo un solo motorino ed
eravamo distanti dalla capitale 35 km, da percorrere senza strade asfaltate.
Facevamo una vita spartana, bevevamo l’acqua del barrage (diga),
raccogliendola con i bidoni e filtrandola e mangiavamo un piatto a base di
miglio e foglie. Eravamo gli unici cooperanti in quell’area e volevamo portare
un messaggio di condivisione. Dovevamo vivere come gli altri. La differenza tra
noi e i cooperanti in capitale era abissale, tanto che eravamo soprannominati
“i mendicanti”».

Mons. Jean-Marie Untani Compaoré allora era responsabile
della Diocesi di Ouagadougou, il partner che accolse Lvia in Burkina Faso. Oggi
ancora vicino all’associazione, ricorda: «La venuta degli amici italiani era
stata annunciata nel 1972 in chiesa, nel quadro delle celebrazioni eucaristiche
in cui erano presentati i tre precursori della Lvia, dei “bianchi”. A seguito
di questa visita di conoscenza, i primi volontari cominciarono ad arrivare a
Donsè, ospitati presso il Centro di formazione dei catechisti. Non tardarono a
iniziare le attività». Cominciava così il primo programma agricolo-sanitario e
la costruzione del primo dispensario a Donsè, con due casette per il ricovero e
le consultazioni.

Africani: ruolo fondamentale

Negli anni ’80 e ‘90 le competenze locali aumentavano e le
istituzioni erano più presenti. Ezio Elia è partito per il Burkina Faso nel 1989:
«Conoscevo la Lvia da sempre, fin da bambino andavo a messa alla cappella dei
ferrovieri da don Aldo Benevelli. La mia destinazione è stata la città di
Ziniaré. Lavoravamo con le autorità governative ma anche con i villaggi. Molti
dei miei colleghi erano burkinabè e il loro ruolo era fondamentale per
accompagnare i villaggi nella scelta delle infrastrutture da costruire – una
scuola, un pozzo, un mulino – per aiutarci a capire le dinamiche in atto
indicandoci, ad esempio, se ci fosse in quel villaggio un gruppo abbastanza
coeso da poter gestire una futura struttura».

Era il 1993 quando, alla fine di un lungo programma di
sviluppo integrato promosso da Lvia, il gruppo di animatori impegnati nel
progetto decise di auto organizzarsi per proseguire e consolidare i risultati
raggiunti. Otto persone fondarono l’Associazione di Aiuto agli Agricoltori
(Ask, acronimo in lingua locale, il mooré), che oggi con 7.000 contadini associati è
un’organizzazione di riferimento per la regione del Plateau Central.

Un seme che dà frutto

I
quarant’anni di Lvia sono stati anche l’occasione per celebrare i vent’anni di
esistenza dell’Ask. Marcel Koutaba, il suo fondatore, ha iniziato negli anni
Settanta a lavorare con Lvia come autista. Accompagnava nei villaggi gli animatori,
che si occupavano di seguire i produttori nella realizzazione delle attività
agricole: «Ho potuto approfondire il ruolo dell’agricoltura nello sviluppo
dell’Europa e ho capito che dovevamo proteggere i nostri agricoltori contro la
crescente urbanizzazione, che stava sradicando la nostra cultura agricola e che
avrebbe ostacolato lo sviluppo del paese. Il mio interesse alle questioni
agricole ha portato Lvia a formarmi e quindi impiegarmi come animatore. Insieme
ad altri sette colleghi che, come me, avevano lavorato con Lvia, ho fondato
l’Ask, nel 1993 a Donsè. Già negli anni Settanta, Lvia era impegnata per lo
sviluppo di queste aree rurali, dove la popolazione viveva in piccoli villaggi
privi dei servizi di base. Questi interventi, però, non si sono limitati alla
foitura di servizi, ma Lvia ha coinvolto la popolazione, creando maggiore
consapevolezza e competenza diffusa sul territorio. Queste competenze e lo
spirito associativo ci hanno supportato e ci hanno dato forza nella nostra
scelta di fondare l’Ask. Abbiamo cioè preso coscienza del nostro ruolo di
agricoltori e ci siamo resi conto di avere l’opportunità di rispondere ai
bisogni del nostro territorio, di unire gli sforzi per aiutare i nostri
connazionali a restare nel proprio paese vivendo del proprio lavoro».

Tra i
soci onorari dell’Ask, il presidente della federazione di Ong cristiane Focsiv
– Volontari nel mondo, Gianfranco Cattai, che da molto tempo conosce
l’associazione, riflette: «Grazie alla saggezza degli anziani, il dinamismo dei
giovani, il pragmatismo delle donne, durante questi vent’anni l’Ask ha
sviluppato l’economia locale, suscitando l’entusiasmo dei giovani, creando
opportunità di impegnarsi localmente e in molti casi evitando l’esodo verso la
città o l’emigrazione. L’Ask è un insieme di buone pratiche che noi in Italia
dovremmo conoscere, un percorso di persone che hanno creduto in loro stesse e
hanno avuto la speranza delle trasformazioni del loro territorio e della qualità
della vita della propria comunità».

Motivazione e passione

Oggi
l’équipe di Lvia in Burkina Faso è costituita da sedici burkinabè e quattro
cooperanti italiani. Una di loro è Cristina Daniele. Per lei l’Ong di Cuneo è
stata una scelta professionale. Ma c’è anche altro: «Ho colto l’opportunità del
servizio civile internazionale e sono partita con Lvia, facendo una prima
esperienza di cooperazione con cui ho potuto mettermi alla prova e capire se la
vita del cornoperante potesse fare per me. Ho scelto di restare. E nello
scegliere questa strada, c’è la consapevolezza che non si tratta solo di un
lavoro ma di una passione, di una forte motivazione, un credere nella
possibilità di generare cambiamento».

Dallo
stesso spirito sono mossi Emile, Ousmane, Jean Paul, Clémence e altri burkinabè
che non solo lavorano con l’Ong, ma sono protagonisti di questo movimento
associativo.

A
problemi globali, soluzioni locali. Il mondo è un tutto e ciò che si fa in
Burkina può influenzare gli stili di vita in Italia, le decisioni che si
prendono al Nord possono avere ripercussioni anche al Sud. Così, mentre lavora
in Burkina Faso per migliorare, ad esempio, sicurezza alimentare e ambiente, in
Italia Lvia cerca di sensibilizzare i cittadini a un consumo attento e
responsabile.

Marco
Alban è l’attuale responsabile di Lvia in Burkina Faso. Per lui, la
cooperazione non è solo una questione tecnica: «Lo sviluppo non è solo
realizzare, ad esempio, un pozzo. Il vero sviluppo è la dinamica che c’è dietro
questo pozzo, ciò che ha motivato e permesso la sua realizzazione, ciò che ne
garantirà la sua conservazione e sostenibilità. Si ha la tendenza a immaginare
l’Ong del Nord che viene a lavorare in un paese del Sud come se si trattasse di
un flusso unilaterale. Invece, Lvia ha sempre messo l’accento sulla reciprocità
nel suo cammino e, in questi anni di cooperazione, i legami e le relazioni tra
gli uomini restano uno dei patrimoni più importanti. C’è una grande differenza
tra considerare le popolazioni come beneficiarie e considerarle, a tutti gli
effetti, come partner. Non si tratta di svilupparle, ma di sostenere
un’iniziativa locale. Bisogna tirarsi su le maniche per lavorare e camminare
insieme. Per fare ciò, bisogna saper ascoltare, dialogare e darsi tempo per
comprendere. Si dice che conoscere un villaggio significhi conoscere il mondo …».

Lia Curcio*
* Lia Curcio lavora all’Ufficio
Stampa Lvia in Italia.

Tag: Burkina Faso, Lvia, cooperazione, volontariato

Lia Curcio




Storie e volti di Radio /1: Stella del Mare

Fondata nel 1982 da mons. Yse, la sua voce arriva fino
alle isole più piccole e remote dell’arcipelago di Chiloé. Con «Radio Estrella
del Mar» iniziamo un breve viaggio tra alcune emittenti latinoamericane. Tutte
con un Dna di servizio.

Castro (isola di Chiloé). La
sede sta a lato del Terminal rural, la
stazione da dove partono i micro
(minibus) per tutte le località dell’arcipelago. «Radio Estrella del Mar» occupa
una piccola casa, resa immediatamente riconoscibile dal suo colore arancione.
Mi accolgono Luis Eugenio Gonzáles e Clemente Becerra, locutores,
annunciatori o – per usare un termine ormai di uso comune – speakers. Mi
mostrano i locali dell’emittente mentre il tecnico di tuo mette in onda un
annuncio commerciale.

Entriamo
in studio. Andremo in onda dal vivo. Sono venuto per fare un’intervista invece
mi ritrovo intervistato. Parlo con il mio spagnolo carico di sintassi e accenti
italiani, ma ciò che importa è toccare con mano l’entusiasmo con cui Luis
Eugenio e Clemente fanno il loro lavoro. «A esta
hora compartiendo su mañana en Estrella del Mar» (condividendo la
mattinata con voi), ripete il jingle agli
ascoltatori della radio, che sono quelli di Chiloé, ma anche della Patagonia
cilena (province di Palena e Aysén).

Dare voce a chi non ha voce

Padre
José Contreras Riquelme è direttore dell’emittente dal 2011. «La nostra è una
radio che vuole essere voce di chi non ha voce. Tuttavia, essendo un’emittente cattolica,
essa ha come fine ultimo l’evangelizzazione». L’arcipelago di Chiloé è un luogo
particolare, con caratteristiche orografiche e antropologiche molto diverse da
quelle del resto del Cile. Padre Contreras, pur non essendo nativo del luogo,
conferma: «Sì, anche in ragione del nostro essere isole, abbiamo mantenuto
costumi e tradizioni differenti, a ogni livello: sociale, culturale e
religioso. La radio riflette queste peculiarità. Anche noi ovviamente siamo
stati obbligati a cambiare e a modeizzarci, però senza mai perdere la nostra
identità».

Anche
a Chiloé e nella Patagonia cilena i progressi della tecnologia hanno portato
internet, i canali televisivi satellitari, le comunicazioni via smartphone. C’è
ancora spazio per la radio?, chiediamo a padre Contreras. «Sì, ne sono sicuro.
La radio continua a essere un mezzo di comunicazione necessario e fondamentale.
La gente dice che “non esiste nulla come la radio”. In altre parole, nonostante
la grande quantità di mezzi di comunicazione esistenti la radio non può essere
sostituita. È uno strumento affidabile, attraverso il quale le persone possono
esprimersi, con interviste, domande, suggerimenti. Essa costituisce anche uno
strumento alla portata di tutti, cosa che non si può dire degli altri mezzi che
risultano disponibili per meno del 30% degli abitanti di Chiloé. In più la
nostra emittente unisce tutto l’arcipelago, arrivando fino alle isole più
remote».

Dalle lotte di mons. Yse

Radio
Estrella del Mar ebbe i natali negli anni della dittatura, quando ricopriva la
carica di vescovo mons. Juan Luis Yse de Arce, personalità di grande forza e
carisma, vincitore di prestigiosi premi. Nel 1976, il prelato aveva creato la «Fondazione
diocesana per lo sviluppo di Chiloé» (Fundechi). L’istituzione entrò presto in
contrasto con il governo militare. Soprattutto quando questo diede il proprio
sostegno a un megaprogetto giapponese (Proyecto
Astillas de Chiloé) che avrebbe voluto sfruttare (e quindi
distruggere) il prezioso bosco nativo dell’arcipelago. Da quella battaglia in
mons. Yse nacque l’idea di fondare un’emittente: Radio Estrella del Mar vide
la luce ad Ancud nell’anno 1982. Oggi è una rete di 8 emittenti: 4
nell’arcipelago di Chiloé (Castro, Ancud, Quellón e Achao), una nel piccolo
arcipelago di Guaitecas (Melinka) e 3 sul continente (Chaitén, Futaleufú e
Palena). Queste ultime in verità sono chiuse dal 2008 a seguito dell’eruzione
del vulcano Chaitén, ma c’è la volontà di riaprirle se si troveranno le
risorse.

Radio
Estrella del Mar è un impegno gravoso anche dal punto di vista economico. Come
sempre accade per le emittenti piccole e non commerciali, l’autofinanziamento
non riesce infatti a coprire le spese.

Lo
conferma mons. Juan María Agurto Muñoz che – nella sua veste di successore di
mons. Yse come vescovo di Ancud – è il proprietario della radio. «In questi
32 anni di vita ci sono stati momenti molto critici dal punto di vista
finanziario. Ancora oggi l’episcopato deve continuare a fare sforzi immensi per
trovare sovvenzioni attraverso iniziative intee e aiuti di organizzazioni
inteazionali, quali Adveniat (Ong
cattolica tedesca, ndr) e la Conferenza episcopale italiana. In ogni
caso, nonostante i problemi, la radio prosegue il suo cammino come mezzo di
informazione, formazione ed evangelizzazione».

Nell’anno 2014

A
Radio Estrella del Mar lavorano circa 20 persone tra annunciatori, giornalisti,
tecnici e amministrativi. Il palinsesto copre le 24 ore, 17 delle quali dal
vivo. Sono previsti programmi comuni (in rete), ma anche alcuni spazi gestiti
autonomamente da ogni singola stazione.

Dato
che il sostegno fondamentale arriva dalla Chiesa, la domanda è conseguente e
non può non essere evitata: in quanto radio cattolica, Estrella del Mar è
libera di esprimersi su qualsiasi argomento o, a volte, dove praticare una
sorta di autocensura? Padre Contreras risponde con decisione: «Alla radio non
si nasconde né si proibisce alcun tema. Noi chiediamo soltanto a giornalisti e
annunciatori di trattare le informazioni senza manipolarle. Dare le
informazioni, però sempre cercando di valorizzae gli aspetti positivi,
evitando morbosità e cattive intenzioni. In questo modo rispettiamo e siamo
rispettati».

Da
anni il Cile è tornato alla democrazia. Chiediamo se i rapporti con la politica
siano tranquilli. «Direi – risponde il direttore di Estrella del Mar – che non
abbiamo problemi particolari con i politici locali. Noi cerchiamo di essere
aperti a tutti e di essere giusti. Quando poi vediamo delle ingiustizie, le
denunciamo. Con chiarezza e con prove argomentate».

Paolo Moiola
(fine prima puntata – continua*)

Questa serie


La radio non muore mai

Nei primi mesi del 2014 abbiamo visitato alcune radio
latinoamericane. Tutte legate alle Chiese locali. Tutte piccole, ma fortemente
radicate sui rispettivi territori. Tutte con gli stessi problemi economici (la
mancanza di risorse). Tutte con la stessa forza propulsiva (l’entusiasmo dei
collaboratori). Noi cercheremo di raccontarle attraverso le storie e i volti
delle persone che le animano (inclusa un’intervista a Santiago García Gago,
autore del Manual para radialistas).

Già nel settembre 2009 Missioni Consolata aveva pubblicato
un dossier (Un mondo a misura di Radio) sulla realtà delle emittenti del Sud.

Sono trascorsi soltanto pochi anni, ma il mondo è stato
trasformato dalla rivoluzione digitale. Incluso il mondo delle radio, che oggi
si possono ascoltare anche in streaming, ossia sfruttando la rete internet. Lo
fanno pure le radio da noi visitate, anche se la maggior parte dei loro utenti,
soprattutto quelli che vivono lontani dalle città, le ascoltano nel modo tradizionale,
non avendo alcuna connessione web, ma soltanto un banale apparecchio radio.
Immortale, almeno fino a oggi.

Paolo Moiola

Tags: Cile, radio, media, comunicazione

Paolo Moiola




«Buon lavoro, Presidenta»

Viaggio in Cile / 1


Dallo scorso marzo, il palazzo della Moneda, sede della
presidenza, ospita di nuovo Michelle Bachelet. Nella capitale cilena abbiamo
incontrato il cardinale Ricardo Ezzati Andrello, che ci ha raccontato il «suo»
Cile: da Salvador Allende al generale Pinochet fino al ritorno della democrazia.
Con i suoi problemi: le troppe diseguaglianze, la questione dell’educazione, la
lotta dei Mapuche.

Santiago del Cile. Siamo arrivati in anticipo. C’è tempo per guardarsi attorno. La
zona è residenziale e la via alberata, dando coerenza al nome del municipio: Ñuñoa,
in mapudungún (la lingua mapuche), significa «luogo dell’iris». Al vicino
incrocio lo sguardo corre verso un grande cartello della recente campagna
elettorale. «Más áreas verdes. Todos con
Michelle», recita lo slogan scritto accanto al volto della signora
Bachelet, appena eletta presidenta. È ora di suonare il campanello. Entriamo in un curatissimo
giardino, posto tra una chiesetta in pietra e una casa a un solo piano,
elegante, ma molto semplice. È la residenza dell’arcivescovo di Santiago del
Cile, mons. Ricardo Ezzati Andrello, che ci accoglie con un ampio sorriso.

Attraversando l’Atlantico

Nato
in un piccolo paese del vicentino, all’età di 18 anni, sotto l’egida dei
salesiani, Ricardo Ezzati salpa dal porto di Genova alla volta del Cile. È il
1959. Dopo gli studi (Quilpué, Roma, Strasburgo)
e l’ordinazione sacerdotale, si muove tra Valdivia, Conceptión e Santiago, ricoprendo
vari incarichi e con sempre maggiori responsabilità. «La mia – racconta nel
salotto dove ci siamo accomodati – è stata una strada di pellegrino, avendo
dovuto cambiare tenda molto sovente»1. Il
suo lungo percorso cileno ci consente di toccare molti argomenti.

Negli
ultimi 50 anni il Cile è passato dalla breve stagione di Salvador Allende alla
lunga dittatura del generale Pinochet, fino al ritorno della democrazia. Il
paese ha ottenuto importanti successi economici, con elevati tassi di crescita
(4,2% anche nel 2013). Tuttavia, rimane uno dei più diseguali del mondo: l’1%
più ricco s’intasca il 31% dei redditi. La lista 2014 dei 1.645 miliardari
mondiali, stilata da Forbes2, conta 12 cileni, appartenenti all’oligarchia
storica (Fontbona, Horst, Matte, Falabella, Angelini Rossi, ma anche Piñera, il
presidente uscente).

«È
vero – conferma mons. Ezzati -: nel paese esiste un grande divario sociale tra
persone che non hanno niente e vivono nella povertà (se non proprio nella
miseria) e un gruppo minoritario di cileni che vive nell’abbondanza. Nel
settembre 2012, in una lettera pastorale3,
come vescovi abbiamo detto che lo sviluppo del Cile non può essere centrato
soltanto su valori economici e soprattutto che esso dovrebbe essere molto più
partecipato, più solidale, più giusto. Questo è un paese di molte speranze ma
anche di tantissime sfide».

Sfide
che dovranno essere affrontate da Michelle Bachelet, vincitrice delle ultime
elezioni con Nueva Mayoría, la
coalizione di centrosinistra. Alla fine del primo mandato, nel marzo del 2010,
lei aveva lasciato La Moneda con un alto indice di approvazione dei cittadini.
Oggi Bachelet ha più esperienza, ma anche più aspettative da soddisfare. Ha
affrontato la campagna elettorale sotto lo slogan Chile
de todos, promettendo più ospedali pubblici, più educazione pubblica, più
democrazia e diritti umani4.
Mons. Ezzati ha incontrato la presidenta
eletta il 16 dicembre. Che vi siete detti?, domandiamo.

«Dato
che la sua coalizione va dal partito comunista alla democrazia cristiana, le
abbiamo chiesto di non avere il timbro di un partito o di una determinata
ideologia, ma soltanto quello del bene comune. Le abbiamo chiesto che la sua
politica sia illuminata dai grandi valori dell’umanesimo. Le abbiamo chiesto di
essere presidente di tutte e tutti i cileni e di mettere il potere al servizio
dei poveri e di quelli che hanno più bisogno come gli anziani e i bambini.
Abbiamo infine parlato di temi molto concreti: la giustizia distributiva, la
famiglia, l’educazione».

Già,
l’educazione, tema caldo, caldissimo nel paese.

«Capisco gli studenti»

Il
Cile ha conosciuto molte riforme dell’educazione. Quella di Allende – si
chiamava «Scuola nazionale unificata» (Escuela
nacional unificada, Enu) – non vide mai la luce. Poi ci furono le
riforme di Pinochet – del 1981 e del 1990 (quest’ultima approvata nell’ultimo
giorno della dittatura) -, che portarono a una privatizzazione dell’istruzione.
Infine, nel 2006 Michelle Bachelet varò una riforma (legge 20370 o Lge) che,
nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto porre rimedio ai guasti delle precedenti.
Senza però riuscirvi. Oggi la situazione è questa: la qualità dell’educazione
pubblica è scarsa, mentre l’educazione privata è molto cara (e spesso
inadeguata). Questo ha portato a un sistema educativo diseguale in cui molti
studenti (e le loro famiglie) debbono indebitarsi per poter studiare.

Ecco
spiegato perché in Cile, in questi anni, le uniche, vere proteste sociali sono
nate proprio tra gli studenti. Prima (era il 2006) tra i giovani degli istituti
superiori, poi (2011) tra quelli universitari.

La
Chiesa cattolica cilena ha un ruolo rilevante nel sistema educativo del paese.
Vogliamo capire se questo suo essere parte in causa costituisca un impedimento
per prendere posizione. Mons. Ezzati, lei condivide le proteste studentesche? «Senz’altro.
Magari con qualche distinguo sulle loro modalità. Una riforma del sistema
educativo è però necessaria».

Ezzati
conosce bene il mondo dell’educazione, essendo stato rettore del collegio
salesiano di Conceptión e poi professore alla facoltà di teologia della «Pontificia
Università cattolica del Cile», un’istituzione con 26mila iscritti5 di cui oggi è gran cancelliere. «Noi
crediamo – precisa subito – che il diritto all’educazione sia un diritto
essenziale, ma è un diritto che riteniamo vada di pari passo con il diritto
alla libertà di educazione. Ogni persona ha cioè il diritto ad avere
un’educazione di qualità ma, insieme a questo, ha anche il diritto di scegliere
il tipo di educazione – di base, superiore o universitaria – in accordo con la
propria concezione di vita».

Anche
Michelle Bachelet considera fondamentale la riforma educativa e l’ha posta tra
le priorità del proprio programma di governo. Un programma ambizioso in cui si
parla anche di un debito storico dello Stato e della società cilena nei
confronti dei popoli indigeni. Questi – secondo i dati del censimento 2012 –
costituiscono l’11% della popolazione totale (1,8 milioni su 16,3)6. L’etnia prevalente è quella mapuche con
oltre 1,5 milioni di persone.

La lotta del popolo mapuche

Nel
settembre 2010, mons. Ezzati, all’epoca arcivescovo di Conceptión, accetta il
ruolo di mediatore nel conflitto tra oltre 30 Mapuche – incarcerati con
l’accusa di terrorismo e in sciopero della fame per protestare contro
l’applicazione della legge antiterrorismo varata all’epoca di Pinochet – e il
governo centrale.

«Io
preferisco il termine di “facilitatore del dialogo”. I Mapuche mi chiesero di
intervenire e il governo di Piñera accettò. Ebbi dialoghi lunghissimi con i
capi mapuche. All’epoca la crisi si risolse, ma la situazione tra indigeni e
governo rimane ancora oggi delicata, con manifestazioni di protesta e incendi
nei casi più gravi. La mia esperienza mi ha fatto scoprire che tra gli indigeni
ci sono due anime, due visioni. Quella predominante è pacifica e contemplativa
vedendo nella natura il riflesso di Dio. I Mapuche assistono con grande
preoccupazione alla scomparsa delle coltivazioni tradizionali per far posto a
pini ed eucalipti utilizzati nella produzione di cellulosa per carta. Ma non
basta. Con le coltivazioni tradizionali spariscono anche le erbe medicinali, su
cui si basa l’autorità delle machi, le
guide spirituali mapuche (che in gran parte sono donne)».

Cosa
occorre fare, dunque, per risolvere il conflitto tra indigeni e governo
centrale? «La prima cosa di cui c’è necessità è il riconoscimento politico dei
Mapuche come popolo con la sua cultura e identità. E poi va risolto lo storico
problema della terra».

Se in
territorio mapuche la terra è finita in mano alle imprese della cellulosa
(soprattutto quelle delle famiglie cilene Angelini e Matte), anche lo
sfruttamento di altre ricchezze naturali ha generato problemi. Come ad esempio
nell’Aysén, regione della Patagonia cilena, in cui un consorzio internazionale
(formato da Endesa-Enel e da una società della famiglia Matte) vorrebbe
sfruttare le enormi risorse idriche per la produzione di energia elettrica. Al
progetto si oppone la maggioranza delle popolazioni locali, guidata da mons.
Luis Infanti della Mora, italiano di Udine, vicario apostolico dell’Aysén7.

«La
battaglia di mons. Infanti nella regione di Aysén è una battaglia etica più che
economica. Ci sono istituzioni che lo appoggiano e altre che lo criticano.
Tuttavia, anche nelle correnti di pensiero ecologico ci sono posizioni diverse.
Il tema energetico è un tema forte. L’acqua sembra – dico sembra perché non
sono un tecnico – dare la possibilità di produrre energia in forma più pulita.
In Cile abbiamo molte centrali a carbone, che sono veramente inquinanti. Sono
vissuto per tre anni a Conceptión dove siamo riusciti a fermare la costruzione
di una nuova centrale termoelettrica a carbone, quella sì veramente inquinante.
L’acqua è un bene comune che deve essere difeso opportunamente. D’altra parte,
abbiamo anche bisogno di risolvere il problema energetico».

«Francesco è un dono»

Mons.
Ezzati non vuole parlare soltanto del suo ruolo pubblico. Vuole essere anche e
soprattutto un uomo di Chiesa. «Perché – spiega – è una condizione in cui mi
sento comodo e felice. Quella cilena non è una chiesa clericale, ma una chiesa
di popolo, dove la partecipazione dei laici è molto forte. Qui a Santiago
abbiamo una scuola di formazione dei laici (Instituto
Pastoral Apóstol Santiago, ndr)8 che
io ho seguito da vicino quando ero vescovo ausiliario della capitale, cui
partecipano migliaia di persone. Sono tutti volontari che, dopo il lavoro, alla
sera dedicano alcune ore alla propria formazione per essere attivi nelle
rispettive comunità. E poi un secondo aspetto molto bello della chiesa cilena
sono le espressioni della religiosità popolare, che costituiscono una ricchezza
straordinaria, trasmessa di generazione in generazione. Ricordo, tanto per fare
un esempio, la festa del Cuasimodo9 a Pasqua».

Da un
anno al Vaticano c’è un papa argentino. «Io ho avuto occasione di conoscere il
cardinale Bergoglio in alcune riunioni del Celam (Consejo
episcopal latinoamericano, ndr)10, ma
soprattutto durante l’assemblea di Aparecida – era il maggio del 2007 -, dove
eravamo nella stessa commissione, lui come presidente e io come membro. Dunque,
ho potuto conoscere abbastanza bene questo dono di Dio alla Chiesa universale.
Ho conosciuto un uomo molto umile, rispettoso del lavoro degli altri, un uomo
di una spiritualità semplice ma allo stesso tempo molto profonda. Una persona
di grande fede e dal tratto umano veramente squisito. Considero veramente una
grazia del Signore che lui sia il vescovo di Roma. Anche perché papa Francesco
porta alla Chiesa universale il respiro di una Chiesa che, dopo 500 anni di
storia, può offrirci molto».

Una
Chiesa, quella latinoamericana, che ha proposto, tra l’altro, una teologia
tanto affascinante quanto foriera di discussioni interminabili, polemiche
feroci, separazioni dolorose. Ci riferiamo alla teologia della liberazione. «Come
tutte le teologie, anche quella della liberazione ha una propria storia. I
documenti della Congregazione per la dottrina della fede parlano di una
teologia della liberazione necessaria e di una influenzata da idee
sociopolitiche. Dico questo senza voler fare una critica, perché da sempre la
storia della salvezza s’incarna nella storia concreta delle persone e dei
popoli. Io credo che la teologia della liberazione, quella più autentica, abbia
dato un apporto significativo alla Chiesa universale».

Le ferite del passato

La
teologia della liberazione si diffuse nei primi anni Settanta. Proprio negli
anni in cui ci fu, tra l’altro, il golpe di Augusto Pinochet contro il governo
socialista di Salvador Allende.

Mons. Ezzati
non si tira indietro quando gli chiediamo di commentare quel periodo storico. «Io
posso dire che, durante gli anni di Unidad
Popular11,
c’erano grossi problemi. Quando ci fu il colpo di stato si pensava che sarebbe
durato pochi giorni. Invece si trasformò in una dittatura, dove i diritti umani
furono calpestati e si generò molta ingiustizia. Allora ero un giovane e
insignificante prete di periferia, ma anch’io vissi momenti difficili. Nel
1978, con un gruppo di preti elaborammo dei testi scolastici di educazione
religiosa. Fummo denunciati come “nemici della patria e marxisti” semplicemente
perché un libro, destinato alla scuola superiore, parlava del cristiano nel
mondo facendo riferimento a problemi molto concreti: diritti umani, giustizia
distributiva, armamenti. Quel periodo è passato, anche se ci sono ferite che
rimangono e che soltanto con il tempo si potranno rimarginare».

Paolo Moiola
(fine prima puntata – continua*)
Note

1 – Questa intervista a mons. Ezzati si è svolta a Santiago del Cile
prima che si conoscesse la sua nomina a cardinale, avvenuta lo scorso 22
febbraio.
2 – L’annuale lista di Forbes, uscita nel marzo 2014,
quest’anno comprende 1.645 persone. Si veda: www.forbes.com/billionaires.
3 – La lettera pastorale, uscita il 27 settembre 2012, è titolata Humanizar
y compartir con equidad el desarrollo de Chile
. Essa è scaricabile dal sito
della Conferenza episcopale cilena: www.iglesia.cl.
4 – Il programma di governo di Michelle Bachelet si può scaricare da:
michellebachelet.cl/programa.
5 – I siti corrispondenti: Università cattolica, www.uc.cl; Università
del Cile, www.uchile.cl; Collegio salesiano di Conceptión,
www.salesianoconcepcion.cl.
6 – Tutti i dati del censimento 2012 sono scaricabili dal sito:
www.censo.cl. Va notato che sui numeri dei popoli indigeni (sono 9 quelli
riconosciuti), e in particolare dei Mapuche, non c’è concordia.

7 – Si legga: Luis Infanti de la Mora, Dacci oggi la nostra acqua quotidiana, Emi, Bologna 2010.
8 – Il sito: www.inpas.cl.
9 – Originaria dell’epoca della colonia, la festa di Cuasimodo si
celebra la domenica successiva alla Pasqua.
10 – Il sito: www.celam.org.
11 – Nome della coalizione dei partiti di sinistra che portò alla
presidenza Salvador Allende.

 
Biografia essenziale


Cardinale Ricardo Ezzati Andrello
 

• 1942 – Nasce a Campiglia dei Berici, in provincia di
Vicenza.

• 1959 – Arriva per la prima volta in Cile per studiare a
Quilpué (Valparaíso) nel noviziato dei salesiani.

• 1970, marzo – Viene ordinato sacerdote.

• 1971-1990 – Ricopre vari incarichi all’interno della
Congregazione salesiana in Cile.

• 1991-1996 – È in Vaticano alla Congregazione per la vita
consacrata.

• 1996, settembre – Viene ordinato vescovo di Valdivia,
capitale della regione meridionale de Los Ríos.

• 2001, luglio – Viene nominato vescovo ausiliare di
Santiago del Cile.

• 2006, dicembre – Viene nominato arcivescovo di Conceptión,
capitale della regione del Biobío.

• 2007, maggio – Partecipa alla Conferenza di Aparecida,
dove lavora a stretto contatto con il cardinale Bergoglio, futuro papa
Francesco.

• 2010, settembre-ottobre – È «facilitatore del dialogo»
nello scontro tra i Mapuche e il governo centrale.

• 2010, dicembre – Viene nominato arcivescovo di Santiago
del Cile e presidente della Conferenza episcopale.

• 2014, 22 febbraio – Papa Francesco lo nomina cardinale.

Cile / 1: la
cronologia essenziale

Il ritorno di
Michelle

Nel bene e nel male, alcuni dei protagonisti della storia
cilena: Spagna, popolo Mapuche, Salvador Allende, Augusto Pinochet, Milton
Friedman e Chicago boys, Giovanni Paolo II, Sebastián Piñera, Michelle
Bachelet.

1810

Inizia il processo d’emancipazione dal dominio spagnolo. Il
Cile dichiarerà l’indipendenza il 12 febbraio del 1818.
1879 febbraio.Le truppe cilene occupano l’allora porto boliviano di
Antofagasta. Poco dopo l’azione, ad aprile, inizia la «guerra del Pacifico»,
che si concluderà nel 1883 con la vittoria cilena su Perù e Bolivia. Le
conseguenze di quel conflitto si fanno sentire ancora oggi.

1883

Termina la secolare «Guerra de Arauco». Le terre dei Mapuche
sono occupate in via definitiva dall’esercito cileno. La perdita è all’origine
di un conflitto mai più sanato.

1970 novembre.

Le elezioni sono vinte da Salvador Allende, medico e
socialista.

1973 settembre.

Il generale Augusto Pinochet guida un colpo di stato contro
il presidente Salvador Allende. La Moneda, il palazzo presidenziale dove
Allende è asserragliato, viene bombardata. Allende muore, forse per suicidio.
Il golpe ha l’appoggio concreto di Washington e di Henry Kissinger, il potente
segretario di stato Usa. È l’altro «11 settembre» della storia, il primo (ma
meno conosciuto e riconosciuto).

1975 marzo.

Il prof. Milton Friedman, economista statunitense, fondatore
della «Scuola di Chicago», visita per una settimana il Cile e incontra il
generale Pinochet. Nello stesso anno i cosiddetti «Chicago boys» (cileni
graduati alla scuola di Friedman) entrano nel governo di Pinochet, mettendo in
atto un forte piano di riforme economiche liberiste.

1987 aprile.

Papa Giovanni Paolo II visita il paese. Saranno 6 giorni
difficili e controversi.

1989 dicembre.

Dopo 17 anni di dittatura, si tengono elezioni democratiche.
Vince la coalizione di centro-sinistra (Concertación
de partidos por la democracia
), che goveerà ininterrottamente il Cile
fino al 2010. I presidenti saranno: Patricio Aylwin, Eduardo Frei, Ricardo
Lagos e Michelle Bachelet, prima donna presidente della storia cilena.

2006

È l’anno della prima rivolta studentesca, quella denominata
«rivoluzione pinguina» (a causa delle tipica divisa degli studenti: giacca blu
e camicia bianca). Nel 2011 ne seguirà una seconda, questa volta guidata dagli
studenti universitari.

2010 marzo.

Inizia il mandato presidenziale di Sebastián Piñera,
rappresentante della destra (Coalición por el cambio) e miliardario.

2013 novembre.

Camila Vallejo, la più conosciuta leader del movimento
studentesco, viene eletta deputata nelle liste del Partito comunista, alleato
di Nueva Mayoria, la coalizione di centro-sinistra guidata da Michelle
Bachelet.

2013 dicembre.

Al ballottaggio per le presidenziali vince la candidata
Michelle Bachelet, al suo secondo mandato.

2014 marzo.

L’11 del mese assume la presidenza Michelle Bachelet. Anche
la seconda carica del paese, la presidenza del Senato, è nelle mani di una
donna: Isabel Allende Bussi, figlia dell’ex presidente Salvador Allende.

Paolo Moiola

 

Cile / 2: una mappa riassuntiva


Le questioni principali

politica

La Costituzione cilena è, con poche modifiche, ancora quella
promulgata l’11 marzo 1981 durante la dittatura del generale Augusto Pinochet.
Nel programma di governo della presidenta Bachelet, pubblicizzato sotto lo
slogan «Chile de Todos», è prevista (pagg. 30-35) una nuova Magna carta in cui
democrazia e diritti umani siano più tutelati. Ma raggiungere questo obiettivo
non sarà facile.

economia

Il Cile è uno dei paesi al mondo che più sono cresciuti
negli ultimi 25 anni. Le diseguaglianze sociali permangono però molto ampie:
l’1% dei cileni incamera il 31% del prodotto nazionale (contro – ad esempio –
il 21% degli Stati Uniti). Il tasso di povertà è del 14,4%, che corrisponde a
2,5 milioni di cileni (dati Casen 2011). Le fortissime disparità economiche
sono riassunte nell’alto valore dell’Indice Gini (52,1, secondo i dati della
Banca mondiale e della Cia), che pone il paese ai primi posti nel mondo per
diseguaglianza. Il salario minimo, fissato ad agosto 2013, è pari a 210.000 pesos
cileni, pari a circa 270 euro.

salute ed educazione
Il problema dell’educazione pubblica – inefficiente, di
scarsa qualità e soppiantata da quella privata – ha generato le due rivoluzioni
studentesche nel 2006 e nel 2011. Il programma della presidente Bachelet
prevede una riforma radicale basata sul principio che l’educazione non è un
bene di consumo. Il problema della sanità pubblica è riassumibile in due dati:
il Cile è agli ultimi posti tra i paesi dell’Ocse come spesa sanitaria (7,5%
del Pil) e uno dei tre – assieme agli 
Stati Uniti e al Messico – in cui la spesa sanitaria privata supera
quella pubblica.

ambiente

La questione ambientale è legata alle conseguenze dello
sfruttamento delle risorse del sottosuolo (ad esempio, il progetto Pascua-Lama
nella regione di Atacama), dell’acqua (regione dell’Aysén, Patagonia cilena),
delle risorse forestali (soprattutto in terra mapuche) e delle risorse ittiche
(in particolare con riferimento alla pesca del salmone nelle acque
dell’arcipelago di Chiloé).

popolo mapuche

Mapuche – il principale gruppo indigeno del Cile e il terzo
per numero in America Latina – reclamano la restituzione delle loro terre a Sud
del fiume Bío-Bío (erano circa 100mila kmq), terre finite in mano a
latifondisti e compagnie forestali. Le loro azioni di lotta (dalla
disobbedienza civile agli incendi) sono punite con l’applicazione della Legge
anti-terrorismo 18.314 emanata nel maggio 1984 da Pinochet. Contro di essa si
levano non soltanto le proteste dei Mapuche, ma anche quelle delle
organizzazioni inteazionali per i diritti umani e dell’Onu.

relazioni
inteazionali

Il Cile ha due contenziosi territoriali aperti, sia con il
Perù che con la Bolivia. In entrambi i casi si tratta di conseguenze della
cosiddetta Guerra del Pacifico che – tra il 1879 e il 1883 – vide contrapporsi
il Cile all’alleanza tra Perù e Bolivia. I due paesi andini uscirono sconfitti
dal conflitto: il Perù perse la regione di Arica e la Bolivia il suo unico
sbocco al mare, sul litorale del deserto di Atacama. Di recente (27 gennaio
2014) la Corte internazionale di giustizia de L’Aia (Paesi Bassi) ha deciso sul
contenzioso tra Cile e Perù riducendo la sovranità del primo sul mare
antistante i due paesi di un’area pari a circa 38mila km quadrati. Anche la
Bolivia aspetta per il 2015 una decisione della Corte internazionale che le
permetta di riacquistare uno sbocco al mare.

Paolo Moiola

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Paolo Moiola