Per rimpiazzare la pianta dell’odio

Diario di un giovane
da Isiro / 3

Via FB Tommaso
ci racconta altri due mesi della sua esperienza africana. Tra letture sulla
storia sanguinosa del Congo, bimbi da nutrire e con cui giocare, siccità e
pioggia, calore umano ed essenzialità, la sua vivace e profonda testimonianza
ci accompagna anche tra i Pigmei, fino alla Pasqua dei crocifissi d’Africa.

25 Gennaio 2015

Sto
leggendo la storia, sanguinosa, del Congo: le stragi, i milioni di persone
morte, i «Kadogo» (bambini soldato), e l’Occidente che ne approfitta per
succhiare le ricchezze del paese (oro, diamanti, coltan, rame, avorio, ecc.).
L’Occidente ha le mani sporche di sangue: invece di imparare dalle atrocità che
ci hanno coinvolto in passato, come il nazismo, abbiamo accettato che
succedesse ad altri, purché lontani dai nostri occhi e purché ci tornasse
qualcosa in tasca.

Dal
centro nutrizionale Gajen sono partiti altri bimbi: Pico e Paco, Jojo. La «banda
bassotti» è così, ci saranno sempre nuovi bimbi da conquistare e amare.

È
arrivata a Gajen un’aspirante suora da una missione a 500 km da qui. Lì c’è un
centro nutrizionale ma poca esperienza e nozioni. Spetta a me farle un po’ di
formazione. In realtà non avrei le competenze ma, sapendo come funziona il
nostro centro e prendendo del materiale da internet, me la sto cavando.

Proprio
mentre scrivo inizia una bella pioggia. La prima da due mesi. Finalmente le
piante potranno bere un po’ e l’aria pulirsi dalla polvere che la invade.

 

31 Gennaio 2015

Grazie
per il vostro sostegno e contributo. Il famoso freezer per cui avevamo raccolto
le offerte è arrivato con tanto di pannelli solari e batterie. Finalmente potremo
acquistare carne o pesce e conservarli.

In
questi giorni Ivo è partito per Bayenga per riposarsi e riprendersi
dall’esaurimento degli ultimi mesi, così tutti i suoi lavori sono passati a me
e padre Flavio. Sono già esaurito anch’io dopo due giorni. Ho scoperto il «Noix
de cola», un frutto che usano le sentinelle per fare il tuo di notte.
Contiene qualcosa come la caffeina e, al di là del sapore amarissimo, mi tiene
sveglio per affrontare le giornate intense.

Da
lunedì al centro sarò promosso nutrizionista. Ci sono alcuni bambini piccoli
che vorremmo seguire in maniera specifica. In particolare una bimba di due mesi
che pesa solo 2,6 kg, ha perso la mamma e quindi non ha latte materno da bere,
e, considerata l’elevata diffusione di Aids, è impensabile farla allattare da
altre donne. Non avrei le competenze, ma devo intervenire lo stesso se vogliamo
salvarla, quindi, con le linee guida dell’Oms sotto mano, mi cimento in questa
sfida.

Il
bello di questa esperienza è il fatto di non avere un ruolo. L’unico impegno è
quello di essere al servizio degli altri: puoi essere animatore, panettiere,
agricoltore, insegnante, padre, nutrizionista, ecc. Non importa se non si hanno
le conoscenze, ci si mette in gioco lo stesso.

 

9 Febbraio 2015

Domani
dovrebbe tornare Ivo, poi saremo io e P. Flavio a partire.

Al
centro la prima settimana da «nutrizionista» è stata piuttosto impegnativa. Al
primo sguardo i bambini che seguo sembrano nella «norma», ma quando misuro peso
e altezza e li confronto con l’età mi si gela il sangue. Alcuni bambini sono già
migliorati. Lo si nota dal volto, in particolare dagli occhi che sono più
vispi.

Si è
conclusa ieri la «Coupe d’Afrique» in cui il Congo si è classificato terzo. È
stato troppo bello: qui pochi hanno il televisore, in compenso ci sono radio in
abbondanza. Le sere delle partite si poteva sentire ovunque il commentatore
che, a tutto volume, ne faceva la cronaca: sembrava di essere dentro un mega
stereo. Per non parlare di quando c’erano i goal o, ancor più, di quando si
vinceva: un bornato di festeggiamenti che risuonava dovunque.

Oggi
ho saputo che è finito in prigione Pascal, un lavoratore di Gajen. Ha avuto una
discussione parecchio accesa col cognato che non si occupa della sorella e del
loro bambino. Così ora uno è all’ospedale, mentre Pascal con sua moglie e sua
sorella sono finiti in prigione (quando la polizia arriva prende chi trova). La
miseria rende molto più difficile risolvere malintesi e discussioni, e la
violenza fa presto ad avere la meglio quando si vive alla giornata.

La
nuova banda bassotti è fatta da elementi piuttosto impegnativi, in particolare
Bube e Dumbo (come li ho soprannominati).

15 Febbraio 2015

Theo è
un ragazzino di circa 14 anni che viene spesso al pomeriggio per fare qualche
lavoretto e soprattutto per avere un po’ di compagnia. Quando aveva 9 anni sua
mamma si è ammalata gravemente e il padre se n’è andato abbandonandoli. Così
lui è rimasto ad assistere la mamma all’ospedale. Quando è morta, è stato lui a
chiuderle gli occhi. La forza che ha mostrato e la sua grandissima educazione, è
un esempio e motivo di riflessione per me.

Al
centro è arrivato un bimbo di tre anni che non ha mai camminato. Ha una qualche
infiammazione alle gambe che lo fa urlare dal dolore quando prova a mettersi in
piedi. I genitori hanno raccontato di aver provato di tutto per aiutarlo. Un
giorno l’hanno seppellito fino al bacino dal mattino a mezzogiorno. Ho
consultato la pediatria dell’ospedale Bufalini di Cesena, e sembra che sia
sufficiente una cura con antinfiammatori per tre settimane per farlo rimettere.

Il
prossimo aneddoto per me è molto doloroso, riguarda il babbo vedovo della bimba
Marie di cui vi ho parlato qualche settimana fa. Avevamo dimesso la figlia
perché era in condizioni buone. Un giorno si presenta domandando una lettera
per lasciare i tre figli, di cui una piccola, in orfanotrofio. Rimasto vedovo
non ha modo di lavorare e di occuparsi di loro in maniera adeguata. Pensando
alla cura e all’amore con cui seguiva la figlioletta, mi si è stretto il cuore.
Dividersi dai propri figli per permettere loro di sopravvivere è come
rinunciare a una parte di sé. Non so bene come andrà a finire, forse toerà a
prenderli quando saranno più grandi, fatto sta che un gesto d’amore come questo
non è scontato. Credo sia così dare la vita per gli altri, penso significhi
questo «morire a se stessi» per amore.

Una
mattina le infermiere del centro mi hanno chiesto: «È vero che in Europa non vi
salutate ma vi guardate soltanto senza dire niente?» (facendo l’imitazione con
una faccia da stoccafisso imbambolato). Questa cosa mi ha fatto molto
arrabbiare, mi sono sentito colpito nell’orgoglio. Eppure come dare loro torto?

Oggi,
forte della mitica ricetta della nonna Agostina ho fatto le chiacchiere (bugie,
frappe o come le chiamate). Sono state un successone, come al solito padre
Tarcisio dà le soddisfazioni più grandi: a suo dire «imparadisano la bocca».

P Tracisio Crestani, qui ritratto in una foto del gennaio 2015, è stato rimpatriato d’rgenza lo scorso maggio e il Signore lo ha chiamto al premio dei missionari il 30 maggio 2015 ad Alpignano – Torino. La sua è stata una dedizione totale alla missione con umiltà e semplicità, in una vita di nascondimento.

22 Febbraio 2015

Bube,
mentre parlavo con una persona, improvvisamente mi ha dato un bacino sulla
mano. Quanto è universale l’amore? Un gesto per esprimere la felicità per la
mia presenza. In quel momento mi sono detto: quando Bube sarà grande non penserà
solo «bianco=ingiustizia» o «bianco=soldi». Sono questi i piccoli semi di amore
che un giorno cresceranno rimpiazzando la pianta dell’odio e del razzismo così
radicata in questo mondo.

Al
centro è arrivato un bambino orfano, nato da una settimana e mezzo, con una
pancia gonfia su cui si potevano vedere in rilievo tratti dell’intestino. Si
trattava di un problema al di fuori delle nostre possibilità. Abbiamo quindi
consigliato di portarlo con urgenza all’ospedale. Il bimbo è partito e non lo
abbiamo più rivisto. Secondo i missionari probabilmente non ce l’ha fatta: era
troppo piccolo per un intervento, e la sua famiglia era senza soldi per
l’ospedale.

01 Marzo 2015

È
ritornata la stagione delle piogge. Evviva. Non l’avrei mai detto che mi sarei
trovato a desiderare la pioggia, ma quando vedi la difficoltà della gente (e
anche la mia nel lavorare l’orto) per la mancanza di acqua, non puoi che essere
felice quando arriva. A proposito di orto, ho piantato le sementi arrivate
dall’Italia. Considerando che di solito non tutti i semi germogliano, ne avevo
piantati un buon numero. Non avevo però pensato al fatto che il Congo ha una
delle terre più fertili del mondo, e quindi mi sono ritrovato con una marea di
piante di pomodori. Beh, faremo un po’ di passata. Ho finito di leggere un
libro sulla storia del Congo. Penso che non potrò mai mettermi nei panni di
questo popolo sempre rigirato nelle mani dei potenti. Faccio fatica anche a
giudicare i comportamenti di gente che non ha conosciuto altro che guerra,
sfruttamento, violenza, corruzione, ecc. Le ingiustizie sono all’ordine del
giorno e la cosa che fa più male è che provengono in primis dall’alto.
Ho parlato con un senatore che ha famiglia qui a Isiro. Dice che bisogna stare
attenti a cosa si dice in parlamento perché possono farti fuori politicamente e
fisicamente. Sempre lui dice che con il guadagno annuale delle ricchezze del
Congo (in particolare minerali) il paese potrebbe risollevarsi subito.

La
banda bassotti ha visto diventare protagonista del gruppo una macchietta che si
è distinta dagli altri, Manù. Questo bambinetto di un anno è tanto meraviglioso
quanto peste. Essendo nell’età in cui si incomincia a «parlare», non smette mai
di dire «yo» (tu) indicando con il dito la persona (nel 99% dei casi sono io).
Per non parlare del suo ghigno veramente malefico quando ne combina una. Il
programma nutrizionale per lui fino adesso non ha dato risultati positivi,
quindi l’ho rivisto, grazie all’aiuto fornito dal personale del Bufalini.

Per
un’urgenza a Bayenga, padre Flavio questa settimana partirà, e io come potrei
perdere l’occasione di tornare tra i Pigmei?

09 Marzo 2015

Bayenga:
questo luogo mi affascina e mi sorprende. Sarà la bellezza naturale della
foresta equatoriale, sarà il calore della gente o sarà che ogni giorno è
un’avventura, fatto sta che stare qui è bellissimo. Il viaggio questa volta è
stato quasi piacevole, le strade erano decenti. In questi primi giorni mi sta «portando
a spasso» padre Evans, un giovane missionario del Kenya. Girare con la moto per
chilometri dentro la foresta è qualcosa di indescrivibile.

Ci
siamo fermati in un accampamento pigmeo dove la settimana prima era morto un
bambino. Abbiamo scoperto che era stato picchiato da alcuni Bantu per delle
stupidate. Probabilmente aveva altri problemi, ma la sua morte è stata
provocata anche da quello. È triste vedere che il razzismo è ovunque. La morte
rimane sempre un mistero, e non ci sono parole adeguate. L’unica cosa che può
portare sollievo è essere presenti e vicini nella sofferenza degli altri. Può
sembrare assurdo, ma la morte fa parte della vita.

L’altro
giorno ho giocato due ore a calcio. Qui si gioca per il gusto di giocare. I
bambini si divertono da matti, a nessuno importa del risultato, tanto che
quando qualcuno segna un goal applaudono tutti. In Italia, invece, giocando con
i bambini, ho notato una mentalità, a mio avviso, preoccupante: non giocano per
divertirsi, ma per vincere. Questo è frutto dell’influenza della nostra società
malata che impone di primeggiare e annientare gli avversari. Proteggete i
vostri figli da questa logica.

14 Marzo 2015

Di
quel poco che ho avuto modo di conoscere dei Pigmei ammiro una cosa in
particolare, il carattere mite e pacifico, al punto che sono addirittura
schivi. Quando fissi un bambino negli occhi si nasconde quasi sempre dietro la
mamma. Se incroci qualcuno in foresta senza vederlo, rimane nascosto. Ti
osservano da lontano per capirti, poi, se ti trovano innocuo, ti vengono
incontro e diventano simpatici e socievoli.

Una
delle prime sfide che ho affrontato è stata la caccia. Sono partito una mattina
con due bambini, eravamo armati di arco e una freccia ciascuno. Oltre a girovagare
in modo inconcludente abbiamo anche perso tutte le frecce: una volta lanciata,
se non la segui con gli occhi, scompare nella foresta. Rientrato, cercavo un
bastone per sostituire la freccia persa. C’erano lì dei Pigmei in attesa di
farsi vedere da mama Bomao, una Pigmea che funge da infermiera/ostetrica, ma
soprattutto da mediatrice tra i Pigmei e i missionari, nella piccola stanza
della missione adibita a farmacia/dispensario. Nel vedermi impacciato con un
bastone inadeguato, mi hanno regalato ben quattro frecce. Sono stato
felicissimo. Mi sono assicurato che non fossero frecce con la punta avvelenata
perché, con la mia sbadataggine, sarei di sicuro morto ferendomi per sbaglio.

Mama
Bomao abita qui vicino con i suoi figlioletti, e io vado a trovarli spesso
perché sono troppo curioso di conoscere il loro modo di vivere. Un giorno mi
hanno detto che dovevano andare a pescare al fiume. Io, non stando nella pelle,
ho chiesto se avessi potuto accompagnarli e loro ridendo hanno accettato. Ci
siamo inoltrati nella foresta attraversando il torrente, l’acqua mi arrivava
agli stinchi. Dopo aver scelto una sponda hanno incominciato a costruire una
diga di fango per isolare una parte di acqua, poi con delle foglie hanno
iniziato a tirare fuori l’acqua. Quando c’era ormai quasi solo fango, hanno
iniziato a tastare con le mani finché sono saltati fuori dei piccoli pesci
gatto.

Per
non farmi mancare niente stamattina sono partito da solo a esplorare la foresta
sperando che il mio senso dell’orientamento non mi tradisse. Inizialmente
procedeva tutto bene, poi a un certo punto ho incontrato il peggiore nemico di
chi è solo: la mente. Mi sono ricordato di tutte le storie che simpaticamente
padre Flavio mi aveva raccontato sui serpenti, e ho incominciato a vedee
dappertutto. Mi sono armato di un bastone e mi sono fatto coraggio.
Fortunatamente non ne ho incontrati (o non li ho visti), e il mio senso
dell’orientamento è stato fedele.

24 Marzo 2015

Poter
entrare in contatto con un mondo che ha conservato qualcosa di antico è un’esperienza
davvero affascinante. Poter assaporare uno stile di vita in cui ci si «arrangia»
è un’occasione preziosa. Riscoprire la caccia, la pesca, la costruzione delle
case, la raccolta della legna o del miele. Quando dietro un pezzo di carne o un
ortaggio riconosci il lavoro e la fatica di più persone, il tempo speso per
renderlo disponibile, allora in te nasce una specie di rispetto. E oltre a
gustartelo meglio ti guardi bene dallo spreco.

La
vita in mezzo ai Pigmei continua a regalare piacevoli avvenimenti. Oltre ad
aver visto come si preparano le frecce, ho partecipato alle pitture del corpo,
che vengono fatte più che altro per estetica. Grazie al succo di un frutto
della foresta e al carbone si prepara una specie d’inchiostro. Con un
bastoncino si tracciano sul corpo e sul viso varie decorazioni che durano
alcuni giorni. Ovviamente mi sono fatto decorare anche io. Mi sono
piacevolmente ritrovato a provocare stupore e scandalo tra i Bantu che in buon
numero considerano con occhio razzista tutto ciò che è pigmeo. Per i Bantu
razzisti vedere un bianco, simbolo di potere, dipinto secondo le usanze pigmee
deve essere stato un trauma. La cosa che più mi ha divertito è stata vedere i
bambini bantu che, dopo qualche giorno, hanno preso a pitturarsi il corpo come
me.

04 Aprile 2015

Lasciare
Bayenga non è stato semplice, soprattutto quando ho visto il corteo di bambini
che è venuto a salutarmi. Non lo è stato nemmeno il viaggio. Quattro ore in
moto su quelle «strade», con i bagagli dietro. Dopo un’ora di viaggio stavo già
soffrendo terribilmente. Ad ogni modo il rientro a «casa» è stato molto bello,
ritrovando tutti che mi aspettavano. Quante cose sono cambiate in quasi un
mese. A Gajen tutti i bambini che avevo lasciato sono stati dimessi e
rimpiazzati da varie new entry che ho già incorporato alla banda
bassotti. Inoltre Gajen è passato sotto la gestione dell’ospedale di Neisu. Tra
qualche giorno ci sarà un pediatra a lavorare come responsabile. La notizia più
bella è che, in questo modo, il centro è gestito dallo stato, così Gajen ha un
futuro garantito indipendente dalla presenza dei missionari. Ovviamente noi
saremo ancora lì a dare una mano, soprattutto nella fase di passaggio.

Questi
giorni di Pasqua sono proprio speciali, vivendoli in un luogo che richiama
continuamente al dolore e alla croce, vedendo ogni giorno tante persone
crocifisse. È stato particolarmente intenso celebrare la via crucis
all’ospedale: ogni stazione era in un padiglione diverso in mezzo a malati e
morenti. L’ultima nel reparto mateità, in mezzo a quelle piccole creature
venute al mondo da poco. Lì c’era il senso della croce che si compie nella vita
eterna, nella resurrezione. Di croci da portare nella vita ne abbiamo tutti.
Non possiamo deciderle, ma possiamo decidere come portarle. Se lasciarci
schiacciare dal loro peso oppure affrontarle e portarle nel nostro cammino, se
stare a testa bassa nella disperazione o alzare lo sguardo e incontrare un
cireneo che ci viene in aiuto o qualcuno che ci asciuga il viso.

Tommaso degli Angeli

(3 – continua)

Tags: missione, razzismo, sobrietà, Pigmei, CongoRD, Tommaso

Tommaso Degli Angeli




L’Angelo dei Carriers /2

Storia per immagini della vita della Beata Irene Stefani, missionaria della Consolata.





Continua

a cura di Gigi Anataloni




Cuba e l’attesa per il dopo «bloqueo»

il Futuro inizia domani

Il 17 dicembre 2014 è
stato un giorno storico per Cuba: è stata infatti annunciata la fine di 55 anni
di guerra fredda tra l’Avana e Washington. Un nostro fotografo era nell’isola
caraibica proprio in quei giorni.

 


 

Varadero. Sono venuto a Cuba per un reportage fotografico
su alcune aree intee dell’isola. Approfittando della stagione favorevole, ho
deciso di portare con me la mia famiglia che farà base a Varadero, zona adatta
ad accogliere – con i suoi circa 60 resort
– turisti da ogni parte del mondo, ma in realtà l’unico posto di Cuba che nulla
ha in comune con l’obiettivo del mio reportage: un racconto fotografico
attraverso percorsi non convenzionali e lontani dalle rotte turistiche, come
l’entroterra di Cardenas e Matanzas, territori immobili e intrappolati in ritmi
e stili di vita lontani decenni dai nostri.

Giunto all’hotel, prendo coscienza del fatto che saranno
due settimane di quasi completo «isolamento digitale». A causa dell’embargo (el bloqueo) Cuba
ha enormi difficoltà di trasmissione per via delle limitazioni dell’uso dei server e per l’utilizzo
dei cavi sottomarini, molto meno efficienti (ma più economici) dei satelliti.
Scegliendo Cuba mi ero preparato al fatto che avrei dovuto fare a meno della
connessione a internet sul mio inseparabile smartphone, ma non al fatto che
proprio in questi giorni anche in hotel la connessione sarebbe stata fuori uso.

Ormai rassegnato all’idea dell’«isolamento digitale», mi
ritrovo inaspettatamente sollevato: posso finalmente disintossicarmi (pur in
maniera forzata) dalla maniacale abitudine all’uso della rete a cui molti di
noi sono quotidianamente sottoposti. Mi sento già più libero. Leggero. Mi
preoccupo di noleggiare un’automobile in modo da potermi muovere in maniera
autonoma nelle zone dell’isola che mi interessano e che si trovano a Sud delle
paradisiache spiagge di Varadero. Mi viene proposta una fiammante auto cinese
dal nome impronunciabile che, nei giorni successivi, darà prova del suo stato
di usura, scarsa «qualità» e manutenzione. Nell’arco di poche ore, inizio a
comprendere meglio le limitazioni e i vincoli imposti dal bloqueo.

Senza supporto satellitare, Google Map è privo di vita. L’unico modo per muovermi sull’isola
sarà quello di tornare al vecchio, scomodo e silenzioso stradario che il
noleggiatore mi ha messo a disposizione.

In hotel indago sul percorso e sui territori che mi
interesserebbe fotografare. Incontro Jorge, un operatore turistico che, dopo
avermi proposto tutti i suoi tour organizzati, desiste e cede il passo alla mia
voglia di autonomia. L’uomo si lascia andare al racconto della precaria
situazione a cui il popolo cubano è costretto a causa dell’embargo, pur
sottolineando il fatto che persone come lui, operatori del settore più vitale
del paese, vivono in realtà una situazione «privilegiata».

Jorge è molto scettico sulla mia intenzione di visitare
le zone intee alla ricerca di testimonianze fotografiche e di volti lontani
dal sole delle spiagge. È abituato alle migliaia di canadesi, italiani e
tedeschi che vengono a Cuba solamente con l’obiettivo di bere rum, fumare
sigari, godere del sole dell’isola, magari in dolce compagnia. Ad ogni modo mi
fornisce indicazioni e suggerimenti strappandomi la promessa di mostrargli al
mio ritorno le immagini scattate nel mio peregrinare.

La Habana, tra
decadenza e splendori

È il 17 dicembre quando Obama e Raul Castro annunciano la
fine della guerra fredda tra i due paesi (leggere il riquadro a pag. 13, ndr).

Dopo oltre 50 anni dalla rivoluzione castrista, Cuba si
appresta probabilmente ad affrontare il più grande cambiamento di sempre.
Assaporo la fortuna di essere qui proprio nei giorni di questo storico
passaggio.

Anche se lontano dalle mie iniziali intenzioni, decido di
far partire il mio itinerario da la Habana (l’Avana, in italiano), una della
città più affascinanti del Sud America, obbligatoria per iniziare ad assaporare
il clima cubano («a due marce») ed entrare in sintonia con uno dei popoli più
cordiali e accoglienti che io abbia mai conosciuto. Girovagando per le strade
di Habana Vieja alla ricerca di angoli particolari della città vecchia e
dell’autentica cucina cubana, lontano dai locali turistici, percorro
un’infinita serie di viuzze, attraversate da rivoli d’acqua di varia natura,
che si infilano tra le macerie di edifici fatiscenti o pericolanti.

Alla fine, dopo l’incontro con una giovane coppia di
cubani, senza volerlo mi ritrovo in un famoso locale della capitale dove pare che,
in serata, ci sarà un ricevimento con la presenza del presidente Raul Castro.
Non so se questo sia vero, anche perché i due ragazzi, dopo l’iniziale
approccio disinteressato, una volta nel locale mostrano i loro reali obiettivi:
essere invitati a mangiare, a bere qualche mojito1 e magari ricevere anche dei Cuc2.

Il
ragazzo mi racconta di essere un musicista che ha anche preso parte al tour
documentario di Zucchero qualche tempo addietro. Suona la tastiera e il suo
salario mensile è di soli 30 Cuc (circa 25 dollari). Vive con la moglie, hanno
un bimbo di 3 anni e uno in arrivo. Lo intuisco anche dal pancione della
ragazza che lo accompagna.

La difficoltà di
informarsi

Voglio approfittare del fatto di essere qui per capire
meglio Cuba e per avere informazioni in presa diretta, ma non è facile. Avendo
la sensazione che sull’isola l’informazione sia ancora in mano ad un ristretto
numero di persone e non avendo la possibilità di accedere a internet, l’unico
modo per cogliere l’essenza di ciò che sta accadendo sia di parlare con la
gente comune. Spingo quindi la conversazione su quello che i miei due giovani
accompagnatori pensano del governo, della sua politica, dell’economia.

È difficile però avere dettagli. Il tono dei miei
interlocutori si anima e si placa con mezze risposte dettate al ritmo della
musica diffusa nel locale dal gruppo di musicisti che si sta preparando per la
serata.

Mentre diversi bicchieri di mojito passano sul nostro
tavolo, parliamo dello storico annuncio fatto il giorno prima dal presidente
Castro e dal leader americano. L’atmosfera si scalda al racconto di questo
evento memorabile e traspare dai loro volti la grande speranza che Cuba
finalmente possa entrare in una nuova era. Forse anche per l’effetto dei mojitos, sorridono e anche
i loro occhi brillano pensando ai cambiamenti che presto potrebbero migliorare
la loro esistenza. Come, ad esempio, la liberazione dalle restrizioni della libreta, la tessera statale
che offre un aiuto alle famiglie dando loro la possibilità di acquistare una
serie di beni primari a prezzi politici. Me la mostrano tirandola fuori con un
po’ di esitazione. Mi dicono di molti cubani che, pur disprezzandola, la
utilizzano per comperare quello che offre. Mi spiegano che la libreta non fa vivere, ma
che comunque è un utile supporto. Con essa anche il loro bimbo ha diritto alla
sua quota di riso, pane, olio, ma – aggiungono scherzando – non ai sigari che
invece a loro farebbero molto comodo: li potrebbero infatti rivendere per
comprare del latte.

Mi raccontano che, da qualche anno, Cuba sta attuando
riforme radicali soprattutto a livello agrario e stringendo accordi anche con
paesi che un tempo erano considerati nemici. In ogni caso, sia in città sia in
tutta l’area costiera, è soprattutto il turismo il comparto economico su cui la
maggioranza dei cubani punta.

Qualcosa sono riuscito a sapere. Tuttavia, l’obiettivo
della mia coppia non è tanto quello di parlare dei problemi e degli scenari
futuri di Cuba quanto di riuscire a portare a casa qualcosa in più del pranzo.
Mi parlano così di cornoperative e dell’opportunità di comprare rum e sigari a
prezzi inferiori a quelli ufficiali. Poi, all’improvviso, forse a causa del mio
scarso interesse, decidono che è ora di andare e, dopo avermi lasciato i loro
indirizzi e in regalo alcuni pesos cubani ufficiali, mi salutano
frettolosamente.

L’incontro mi porta alla mente una serie di letture che
avevo fatto prima di partire e che puntualmente mi avevano svelato quanto la
tecnica e la pratica di approcciare turisti, soprattutto a la Habana, sia
sofisticata ed elegante: gentili e affabili cubani pronti a dare il proprio
aiuto per districarsi nei meandri della capitale. Le avevo considerate leggende
metropolitane, tipiche della rete. Invece era tutto vero: la prova tangibile di
come il popolo cubano, stanco e impoverito dalla situazione economica, riesca a
escogitare strategie, anche elaborate, per sbarcare il lunario facendo leva su
quella che, probabilmente, è l’unica vera opportunità esistente nella capitale,
il turismo.

La Habana Vieja con i suoi edifici decadenti e fatiscenti
è Patrimonio dell’umanità. Probabilmente è una delle città coloniali più belle
che abbia visto nel Sud America, ma percorrendone le strade, accompagnato dagli
effluvi delle fogne, mi rendo conto del fatto che la maggior parte degli
edifici non è mai stata restaurata e che alcuni crollano inesorabilmente giorno
dopo giorno, accumulando montagne di macerie ai bordi delle strade.

Per visitare la Habana ci vuole non soltanto uno stomaco
forte, ma anche buoni polmoni. Le affascinanti e colorate automobili degli anni
Cinquanta sono infatti  quanto di più
inquinante ci possa essere perché, come gli edifici, sono rimaste quelle di un
tempo: luccicanti e appariscenti se viste da lontano, malandate, arrugginite e
decadenti se viste da vicino e all’interno.

Durante il percorso di ritorno verso la mia auto,
passando per i luoghi simbolo della città – Plaza de Armas, Palacio de los
Capitanes Generales, la cattedrale di San Cristobal -, mentre metabolizzo le
frasi e il comportamento dei due ragazzi che ho conosciuto, si rafforza nella
mia mente l’idea che, con la scomparsa del bloqueo, Cuba potrebbe non essere
più la stessa.

Tutti a bordo

Toare verso Varadero non è facile. A Cuba sono
praticamente inesistenti i cartelli stradali. Sono stati tutti, o quasi,
rimossi dalla gente del posto. In modo intenzionale: chiunque ti darà le
indicazioni di cui hai bisogno, ma spesso in cambio di un passaggio. Quando mi
fermo a chiedere informazioni, diventa così quasi inevitabile ritrovarmi, per
qualche chilometro, con una persona a bordo. E alla fine non è detto che io
prenda sempre la direzione corretta o più breve verso la mia destinazione
avendo a fianco un accompagnatore interessato.

Daniele Romeo

(fine prima
parte)

Tags: Cuba, embargo, bloqueo, vita quotidiana, rinnovamento

Daniele Romeo




Il contadino di Dio, i valori della terra

Quasi un profeta

Gino Girolomoni nasce
in una famiglia contadina. Fin da piccolo si scontra con le difficoltà della
vita. Vede nella civiltà rurale e nella cura della Madre Terra l’unico futuro
possibile. Trova l’energia spirituale nelle piante e nella Bibbia. Con la
moglie Tullia «inventa» l’agricoltura biologica in Italia. Storia di un grande
personaggio, troppo poco conosciuto.

 


 

Chi
guarda le foto di Gino Girolomoni, con la barba bianca e lo sguardo severo ma
luminoso, ritto nel suo amato campo di grano, con le spighe in mano, non ha
difficoltà a immaginarselo nelle pagine delle sacre scritture. Come colui che
guida il suo popolo attraverso il deserto, ispirato da una fede tenace e
sapiente.

Così è stata la vita di Gino, padre dell’agricoltura
biologica italiana, fondatore del mitico marchio «Alce Nero», paladino di Madre
Terra e del mondo contadino in via d’estinzione, studioso della Bibbia e
tessitore d’incontri tra culture, religioni, fedi diverse.

Un percorso straordinario, purtroppo interrotto da una
morte repentina, il 16 marzo 2012.

Un cammino che viene esplorato da una bella biografia di
Gino, «La terra è la mia preghiera» (Ed. Emi 2014), scritta dal giornalista e
ricercatore spirituale Massimo Orlandi.

Origini «antiche»

Tutto comincia nel 1946 in un piccolo paese delle
Marche, Isola del Piano, a una ventina di chilometri dall’aristocratica Urbino.
Qui nasce Gino, da babbo Olindo e mamma Rina, qui cresce insieme alla sorellina
Vera e al fratellino Alessio. Qui, sono parole sue, vive l’esperienza più
importante della sua esistenza: «L’aver vissuto l’epopea antichissima della
vita contadina… nelle campagne c’era sì la povertà, la fatica, ma c’erano anche
i valori che gli uomini hanno dimenticato: la parola data, la solidarietà, la
cura di un paesaggio che era bello anche da vedere» (Gino Girolomoni, Alce Nero grida. L’agricoltura biologica, una sfida
culturale, Jaca Book, Milano, 2002, pg. 87).

Tra un piatto di polenta, l’acqua tirata su dal pozzo, i
giri nel bosco con la mamma a tagliare le vitalbe per il bestiame, il piccolo
Gino passa un’infanzia povera ma felice. Fino a sei anni, quando la mamma muore
per una puntura di spino, avvelenata dal tetano. La famiglia, che ha difficoltà
a accudire i tre bimbi, manda Gino in collegio, dove una vecchia suora gli
trasmette l’amore per la Bibbia. Una passione che segnerà tutta la sua vita.

Ma non viene mai meno l’attaccamento alla terra, ai
campi che ritrova durante le vacanze estive. Alla vigilia del ’68, quando si
chiude il ciclo del collegio, il ragazzo Gino si trova alle prese con la
domanda che tutti i giovani devono affrontare: «Dove mi porta la mia vita?».
Negli anni caldi della militanza politica e della ribellione giovanile
collettiva, mentre l’esodo dalle campagne segna pesantemente anche le sue
colline, Gino va controcorrente: si sente attratto dai ruderi di un antico
monastero abbandonato, sul colle di Montebello, che sovrasta la sua casa e da
cui la vista spazia da San Marino al Monte Conero. Quei ruderi contengono
seicento anni di storia della Chiesa: all’origine c’è il cammino di fede del
fondatore, il beato Pietro Gambacorta da Pisa e quello di altri 17 beati che
sono passati da lì.

«Questo è un luogo privilegiato dello spirito – si dice
Gino -. Non deve morire d’oblio».

La necessità lo spinge a cercare lavoro fuori: fa il
collaudatore di moto a Pesaro, il caporeparto di uno zuccherificio a Fano. Ma
quando gli si presenta l’occasione di andarsene davvero, in Svizzera, per un
posto fisso alle ferrovie (per quell’epoca, un teo al lotto) Gino fa
repentinamente marcia indietro, e torna là, nel luogo da cui tutti scappano:
alla sua terra. E vuole starci con la sua donna, Tullia, che dividerà con lui
il suo eretico cammino.

Civiltà contadina

«Anche a costo di doverlo fare da solo, il mio mestiere
nella vita sarà quello di contadino» scrive nel suo diario il 28 dicembre 1969.

In quasi totale solitudine, Gino giura fedeltà a quel
mondo rurale sull’orlo della scomparsa, privato di mezzi e dignità dal rampante
sviluppo industriale dell’epoca, segnato da quella che lo scrittore Moravia
definisce «putrefazione». Nel 1970, a soli 23 anni, diventa sindaco di Isola
del Piano: un’opportunità che coglie nella consapevolezza che sarà una carta in
più da giocare per combattere il degrado fisico e culturale della civiltà
contadina e per tentae il rilancio.

Qui, nel 1973, «mette in scena» gli antichi mestieri, la
prima esposizione delle «Attrezzature agricole tradizionali e degli strumenti
che ancora si fanno», cui faranno seguito una serie di eventi per rivalutare la
civiltà rurale, per restituire a contadini e artigiani la fierezza del loro
mestiere e indicare loro che si può continuare a vivere con la terra, grazie
alla terra.

Se la campagna scompare, è il futuro stesso dell’umanità
a essere in pericolo: «Senza la riappropriazione di questo genere di capacità,
senza essere capaci di piantare l’aglio né l’insalata, senza saper costruire un
giocattolo di legno per il proprio figlio, senza saper costruire un vaso
d’argilla, non si può capire bene il passato né aspettarsi molto dal futuro».
Insomma, Gino crede fermamente che sarebbe una sciagura se andassero perduti i
valori del mondo agricolo: la solidarietà, corrosa dall’egoismo della dominante
civiltà industriale, la manualità messa a rischio dal ruolo sempre più diffuso
delle macchine, il rispetto verso la natura, inquinata e corrotta dal nuovo
modello di sviluppo. Gino predica, e pratica, un’agricoltura in grado di
sintonizzarsi di nuovo con i ritmi di «Madre Natura», rispettosa di chi produce
e di chi consuma, capace, grazie alla sua qualità, di conquistare spazi di
mercato che la rendano anche remunerativa.

Energia spirituale

La spinta e l’energia per questa titanica impresa Gino
la trova dunque nella terra: «Nelle piante vedo veramente il soffio di Dio»
scrive. Ma anche nelle scritture: ogni giorno si ritaglia qualche ora per la
lettura della Bibbia. «La fede e la vita non sono separate – dirà -, tu dimostri
di aver fede secondo la vita che fai».

L’inizio della sua nuova vita, di quella della sua
comunità, Gino lo trova non a caso tra i ruderi di Montebello, che comincia a
restaurare e che nel 1976 diventerà la sua casa, dove andrà a vivere, in
un’unica stanza abitabile, senza acqua né luce, con la moglie Tullia e il loro
primo bambino.

Montebello diventerà, dal 1977, la sede della
Cooperativa Alce Nero – che oggi si chiama «Girolomoni» e non ha più nulla a
che vedere con l’attuale Alce Nero sul mercato -, antesignana dell’agricoltura
biologica: il nome non è scelto a caso, ma ricorda l’epopea del capo Sioux che,
cacciato con il suo popolo dalle sue terre ancestrali, rivendica con forza e
dignità i propri diritti. Il logo è appunto un indiano piumato, ritto sul suo
cavallo in corsa, lancia in resta. «Anche nel resto del mondo ci sono gli
indiani – osserva Gino -. In Italia sono i contadini».

La Cooperativa cresce, resistendo tenacemente alle
difficoltà finanziarie, agli ostacoli frapposti senza sosta da una burocrazia
ottusa e nefasta (un solo esempio: la pasta integrale sarà addirittura
sequestrata per diciassette anni dallo stato perché non ancora prevista nella
nostra normativa). Grazie alla qualità delle sue produzioni e alla sua abilità
nel mettere in piedi l’intera filiera, si farà conoscere in Italia e
all’estero, diventerà l’avamposto di un settore, quello biologico, all’epoca di
fatto inesistente e che oggi conta in tutta Italia 50mila aziende, è praticata
su un milione di ettari, cresce del 17% l’anno, per un fatturato di 3 miliardi
di euro (55 nel mondo intero).

Nel maggio 1978, il sindaco Gino organizza nel suo
paesino il primo corso nazionale di agricoltura biologica. Oggi, sulle colline
intorno a Isola del Piano si contano 25 aziende biologiche, simbolo della
volontà di un territorio di tornare a essere padrone del suo destino.

Una porta aperta

Ma non basta. Rivalutare il mondo contadino e i suoi
valori è un’avventura che richiede compagni di viaggio anche nei territori
della cultura e della scienza, alleanze con gli intellettuali, a livello
nazionale e internazionale. Montebello diventa così un luogo di incontri e di
scambi di altissimo livello, sede di eventi che faranno epoca e che toccano i
grandi temi della vita e della spiritualità, frequentata da filosofi e
scrittori del calibro di Guido Ceronetti, Sergio Quinzio, Massimo Cacciari,
Alex Langer, Ivan Illich, Vittorio Messori.

Non solo: sarà una «porta aperta», un punto di
accoglienza calorosa per chiunque pratichi la ricerca spirituale, sulle rotte
della natura e dello spirito.

Guardando il mondo dalla cima del suo monte, raccolto
nel silenzio del suo studiolo monacale, circondato dai suoi libri, migliaia, di
storia, archeologia, spiritualità, Gino scrive: «Mi sento un cane che abbaia
per difendere le campagne, un portatore di una seppure minima speranza di
curare le ferite dei monti non ancora moribondi. Mi sento uno che vede in
questi luoghi una possibilità per resistere alla corruzione del pensiero e dei
costumi, un luogo dove ricostruire frammenti di minuscole società» (Gino
Girolomoni, Terre, monti e
colline! Il caso Alce Nero, Jaca Book, Milano
1992, pg. 14).

In quest’ottica, Gino accetta anche di entrare in
politica e milita nella dirigenza dei Verdi dal 1999 al 2001, all’epoca in cui
io ero presidente del partito (lascerà poi qualche anno dopo, deluso dalla
politica politicante e dai meccanismi del potere). Abituato al parlare netto e
schietto, anche duro all’occorrenza, restio a chinare la testa davanti ai
potenti, Gino diventa in quel periodo una bandiera delle battaglie
ambientaliste, in particolare quella contro gli Ogm (organismi geneticamente
modificati) e contro l’uso dei pesticidi e dei veleni in agricoltura.

«Credo che sia evidente che per me il biologico è uno
stile di vita, un modo di abitare la campagna, di vivere, di mangiare, di fare
scelte come l’uso di medicine, dolci, della bioedilizia, di forme di energia
rinnovabile. Tutte queste cose stanno insieme e formano un modo diverso di
vivere» (Intervista tratta da un documentario «Montebello, una collina che non
si arrende»).

Insomma, come ben sintetizza Massimo Orlandi nella
biografia di Gino (pag. 108): «L’agricoltura biologica rappresenta il primo
nucleo di resistenza attiva… tocca un bisogno primario, il cibo, e racconta il
paradosso più lampante di una società tanto disumanizzata da avvelenare anche
ciò di cui si alimenta».

Al di là del comune impegno politico e civile, abbiamo
per decenni condiviso una profonda ricerca spirituale e la sfida di calarla
nella nostra esistenza quotidiana. Una sfida che Gino ha continuato a praticare
fino alla morte, nel vortice delle sue poliedriche attività (libri, articoli,
conferenze, incontri culturali oltre che la quotidiana produzione biologica),
tenendo testa a difficoltà, sconfitte, amarezze. Ma gratificato anche,
soprattutto negli ultimi anni, dal successo della sua impresa, sia sul versante
economico sia su quello culturale. E soprattutto dalla promessa rappresentata
dai suoi tre straordinari figli, Samuele, Giovanni Battista e Maria, che oggi
custodiscono e fanno crescere la preziosa eredità del padre (e della madre,
perché senza l’inestimabile e instancabile presenza di Tullia, coadiuvata dalla
cara Nonna Tullia, Montebello sarebbe appassito in pochi anni).

Lo spirito di Montebello continua dunque a vivere. Ed è
sintetizzato in una frase che un giorno Gino mi disse, al ritorno da una
passeggiata nella neve, accanto al grande camino del monastero: «Nella realtà
del mondo, ha ragione solo chi vince. Nella realtà di Dio, non conta solo
vincere o perdere. Conta servire la causa».

Grazia
Francescato* 

* Ambientalista, giornalista, scrittrice, ex presidente
del Wwf, dei Verdi italiani e dei Verdi europei. È stata deputata nella XV
legislatura (2006-2008).

Tags: ecologia, agricoltura biologica, bioagricoltura, spiritualità, Girolomoni

Grazia Francescato




Incontro con padre Franco Gioda

In mezzo a loro ho
sentito Dio.

Una vita spesa tra Italia
e Mozambico. Una quotidianità di riflessione profonda e lavoro sul campo. Senza
mai sottrarsi alle responsabilità. Un dialogo costante con Dio e con lo Spirito.
Questo è padre Franco Gioda, «giovane» missionario.

 


 

Lo incontro nel corridoio della redazione. È un po’ dimagrito, quasi «rimpicciolito».
Ma il suo viso è radioso. Per poco non lo riconosco. «Sono padre Franco».

Franco Gioda ha 76 anni e quattro anni fa è «ri-partito»
per il Mozambico, paese nel quale ha passato tutta la sua storia missionaria. «Ho
fatto un po’ di tutto» spiega. Nel 2010 era a Martina Franca, dopo aver servito
sei anni come superiore Regionale in Italia: «Ma sentivo che dovevo ancora
andare in Africa. Ho scritto ai superiori la mia disponibilità, chiedendo loro:
posso ancora lavorare in missione? Mi hanno detto di sì.

Sono andato a Maputo, come responsabile della comunità.
Poi è diventato vescovo Ignazio Saure, un giovane (mozambicano, ndr) che io avevo
seguito nel suo cammino per entrare nell’Istituto. E il superiore mi ha detto:
vai a fare comunità con lui».

Così Franco si ritrova a Tete, capitale dell’omonima
provincia, lembo di terra che si incunea tra Zimbabwe e Malawi, fino allo
Zambia. «Perché i portoghesi (colonizzatori, ndr) volevano
collegarsi all’Angola, e fare un passaggio tra i due oceani, ma gli inglesi
glielo hanno impedito» spiega il missionario.


Prima missione

Ma facciamo un passo indietro. Ordinato nel
1963 padre Gioda serve alcuni anni in Italia. Nel 1968, all’età di 30 anni
parte per la prima volta in missione: destinazione Mozambico. «Era ancora il
tempo coloniale, ma si preparava l’indipendenza. C’erano molte tensioni sociali
e anche ecclesiali. Eravamo all’indomani del Concilio Vaticano II, e anche se
noi giovani missionari avevamo una formazione preconciliare, ne sentivamo gli
echi. In particolare non accettavamo l’impostazione ecclesiale che c’era. I
padri Bianchi vennero via per protesta. Anche noi eravamo nel movimento». Ma
dopo appena due anni, padre Franco è richiamato in Italia e lui chiede di stare
di più. Gli concedono ancora un anno. «In Mozambico ero con padre Prandelli, 28
anni, una specie di genio, molto impegnato dalla parte degli africani». Anche
Prandelli deve rientrare, ma incontra una mina sul suo cammino: «Questa morte
mi ha segnato per la vita».

Dopo nove anni in Italia come formatore,
Franco torna in Mozambico. Il contesto politico e sociale è totalmente
cambiato. Siamo in piena guerra civile. È l’esperienza più dura che foggia il
missionario nel fisico e nello spirito. «Fui destinato nel Niassa (Nord del
Mozambico, ndr). Andavo in bicicletta da una comunità
all’altra. Ogni due – tre giorni c’era un attacco armato con molti morti. E io
seppellivo cadaveri. Quindi è arrivato padre Giuseppe Frizzi, e abbiamo fatto
una bella comunità tra Maúa, Marrupa, Maiaca, Nipepe. Poi mi hanno eletto
superiore regionale a Maputo e lo sono stato per sei anni. Eravamo in tempo di
guerra, tempi difficili».

All’inizio degli anni 2000 padre Franco
viene richiamato in Italia, dove è eletto superiore regionale (2002-2008), fino
all’ultima ripartenza.

Missione di frontiera

«A Tete ci siamo resi conto che nelle zone
di Maravia e Zumbo (località all’estremo Ovest, alla frontiera con Zambia e
Zimbabwe, ndr) era senza sacerdoti da decenni».

Proprio a Zumbo i missionari della Consolata
avevano iniziato in Mozambico, nel lontano 1926. «È una zona molto isolata, a
550 Km da Tete e le strade sono pessime. Nel frattempo l’Istituto stava
passando ai diocesani le missioni di Mecanhelas e Massinga, potevamo quindi
investire nuove energie. Coinvolsi anche il superiore generale, padre Stefano
Camerlengo, che fece una visita fino a Zumbo. “Qui sareste troppo lontani da
tutto” ci disse. Per questo motivo si scelse Fingoè, a metà strada». Così
inizia la realizzazione del sogno di «aprire» o «riaprire» una missione in
un’area vasta e bisognosa, e storicamente legata alla Consolata.

Primo: presenza

«Andando in visita ho detto alla gente:
siamo disposti a venire qui, a condizione che voi ci facciate una capanna.
C’era già una chiesa. Ha aperto la strada il gruppo dei novizi della Consolata
di Maputo, che ci hanno introdotti. Poi sono arrivati i padri Edoardo Reyes
Prada, colombiano e Hyacinth Mwalongo della Tanzania a integrare la comunità.

Padre Sandro Faedi, un altro veterano del
Mozambico, è invece venuto dall’Italia a mettere a posto i conti della diocesi».

Che missione ha in testa padre Gioda? «Ho
cercato di spiegare alla popolazione che non saremmo andati a costruire una
missione, ma vivere una missione, saremmo stati fratelli di fede, che aiutano
altri fratelli ad andare avanti e cercano, a loro volta, di farsi aiutare. Allo
scopo di camminare insieme, il più possibile». Padre Franco non la interpreta
come missione classica.

«Per attuare questo progetto, prima cosa è
rendersi conto dove vive la gente», mi dice mentre estrae da una cartellina una
rudimentale ma efficace mappatura di tutte le comunità fatta da lui stesso, con
le distanze, i nomi, le strade. Pare non se ne separi mai. E continua: «Poi
occorre andare a vedere. Non possiamo chiamare la gente alla missione, dobbiamo
andare là da loro, nelle comunità». Prima cosa dunque la presenza dei
missionari in mezzo alla gente.

«Ho toccato con mano la presenza di Dio –
racconta con l’entusiasmo di un giovane missionario. L’ultimo sacerdote era
andato via da quella zona nel 1971. Era un missionario spagnolo, viveva a
Ukanha, una missione a 70 km da Fingoé. Era stato un ottimo animatore. Ma fu
costretto a lasciare tutto a causa della guerra. Dopo la sua partenza, la gente
ha continuato ad andare in chiesa la domenica, aggrappandosi a quello che
aveva. C’era qualche catechista, ma molti erano morti o si erano rifugiati in
Zambia. Qualche volta da Tete andava un prete. Ho trovato fede. Ovvero comunità
non molto organizzate, ma vive, che la domenica si uniscono a pregare. Un
impegno di servizio. Per questo dico che sento lo Spirito in queste comunità.
Il nostro dovere è quello di essere presenti, ma dappertutto, anche in quei
villaggi che magari non hanno mai visto un prete. Con la mia mappatura ho
trovato 108 comunità.

Il primo verbo missionario è “andare” il
secondo è “incarnarsi” vivere con la gente. Io non posso perché non so neppure
la lingua, e a 76 anni non la imparo. Il portoghese lo parla solo qualcuno.
Chiedo al Signore la grazia di essere uno che apre la strada». In tutta la zona
sono presenti cinque lingue, la dominante è il chichewa parlato anche in
Zambia, Malawi.

Secondo: formazione

Il progetto dei missionari prevede la
realizzazione di alcuni centri di formazione per laici. «Non c’era nessuna
struttura. Abbiamo iniziato con leggere insieme il catechismo. Si è pensato a
centri di formazione rurale, provvisori. E la gente viene. L’anno scorso sono
passati 90 animatori a formarsi per due settimane. E queste attività
continuano.

Sono mandati dalla comunità, con un po’ di
cibo, che noi integriamo. Qualcuno ha una piccola esperienza da catechista, ma
tutti hanno molta buona volontà».

Padre Franco è riuscito a portare un gruppo
di giovani di Vittorio Veneto e anche una coppia in viaggio di nozze. «Io vi
offro la possibilità di camminare con i missionari. Venite, facciamo la vita
insieme. Si dorme in chiesa o nelle capanne. Con il sacco a pelo su una stuoia.
Si mangia quello che ti offrono. Sono rimasti a bocca aperta».

Dio in mezzo a loro

I missionari vogliono attivare sei centri di
formazione di questo tipo, arrivando fino a Zumbo.

«Sono i fedeli che fanno questi centri, non
siamo noi con la forza dei nostri soldi, dell’organizzazione, o la nostra
personalità. Siamo fratelli di fede che offrono quello che hanno ricevuto. Ci
dicono come vogliono fare le costruzioni. Realizzateli come volete. Io
partecipo, vi pago le lamiere per il tetto e il cemento. Ma voi fate i mattoni
e poi costruite».

Per ora i membri delle comunità stanno
costruendo la casa per gli animatori e quella per i padri. In seguito faranno
le grosse tettornie circolari sotto le quali si tengono le formazioni.

«Anche a questi incontri di formazione ho
visto la presenza dello Spirito. Questa gente che crede, a che cosa? Crede alla
mia parola, ma io non so neppure parlare nella loro lingua. Vediamo che lo
Spirito agisce, li fa crescere, li fa impegnare.

Molte comunità adesso hanno i catecumeni che
fanno due o tre anni di percorso. Io sto vedendo Dio, in mezzo a quella gente.
Dio che ha conservato questi cristiani, e poi ci sono nuovi ingressi nella
comunità».

Ore e ore in moto

Padre Gioda racconta cosa vuol dire «andare
verso gli altri» nel suo contesto: «Una volta sono andato a visitare una
comunità in cui non eravamo mai stati e non si era mai visto un missionario. Si
tratta di Finzi, a 140 km da Fingoè verso il lago (l’enorme invaso artificiale
creato dalla diga di Cabora o Cahora Bassa sullo Zambesi, ndr). Mi ha portato un ragazzo in moto, che è l’unico mezzo per arrivarci.
Verso sera, salendo sul monte di Finzi, sentivamo i tamburi in lontananza. Era
la comunità che ci attendeva. Ho detto al mio autista di andare avanti, che io
sarei arrivato a piedi. Così, nella semi oscurità, senza una torcia, mi sono
perso. L’unico orientamento erano i tamburi: pensavo e pregavo. Poi lui mi è
venuto a cercare e siamo rimasti una settimana nella comunità. Intoo ce ne
sono altre sette, alcune distanti anche 90 km, che non ho ancora visitato. Per
arrivare sono sette ore di moto su una strada orribile. Ma la schiena, per
fortuna non ne ha risentito».

Nell’idea dei missionari di Fingoè, i centri
di formazione dovrebbero diventare quattro o cinque nuove missioni, ognuna
riferimento di circa 20 comunità, distanti una dall’altra anche 70 km. Distanze
che valgono il quadruplo, a causa delle condizioni difficili.

«Ringrazio Dio perché ho ancora la forza,
alla mia età. Io mi sento giovane, come avessi 40 anni» chiosa quasi pudico
padre Franco. Si può ripartire a qualsiasi età? «Sempre, basta avere fede. Non
si tratta tanto di amare Dio, ma piuttosto lasciarsi amare e condurre dal
Signore. Questa è la nostra forza.

Sono convinto, e più vado avanti lo vedo,
che se uno crede sul serio in Cristo, allora gli dà la vita, e dà anche la vita
per il prossimo. Lui ti dà la vita e tu la offri al prossimo. Il che vuole dire
che ti assicura la forza per fare le cose».

La spiritualità del pendolo

«C’è come un Big Bang iniziale: Dio mi dà lo
slancio iniziale e mi manda nel mondo carico del suo amore. Attenzione: questo
slancio mi porta verso il prossimo. E più mi avvicino al prossimo, con le
difficoltà, le miserie, più ho bisogno di andare a rifocillarmi da Dio. Allora
ritorno a Lui. Più vado a Dio e più sento necessità di fare comunione con il
prossimo. È il binomio: contemplazione – azione. Inoltre il pendolo, con
l’attrito tende a fermarsi, ma l’amore di Dio, non è solo iniziale, continua ad
alimentare l’oscillazione».

Ricorda padre Franco: «Paolo VI diceva che
dobbiamo avere una “disciplina spirituale”. Ovvero: non andare avanti a caso.
Io conosco le mie fragilità, le difficoltà della vita, allora ho bisogno di
darmi un orientamento. Più conosco la miseria umana e più ho bisogno di Dio
perché io non posso dare soluzioni, solo lui può.

Allora è necessario leggere e riflettere,
per ricaricarsi. Significa rivedere la storia, quello che ci capita alla luce
di Dio».

Approccio laicale

Come abbiamo visto, in Mozambico, a causa
dell’estensione del territorio, molte località non possono essere visitate da
sacerdoti, se non occasionalmente. Il ruolo dei laici è dunque fondamentale.

«Il futuro lì sono i laici. Ma anche qui in
Italia. Tra 10 anni i preti saranno sempre meno. Un parroco che fa 5
parrocchie, come fa? Corre. Occorre abituare la gente a coinvolgersi di più.
L’incontro con Dio si ha anche attraverso la Parola. È come avere due polmoni:
eucarestia e Bibbia. Se non c’è la prima, si respira con un polmone. Si vive lo
stesso! Formiamo animatori responsabili con la catechesi per avere comunità
aggrappate alla Parola di Dio. Se poi viene l’eucaristia tanto meglio, ma chissà
come sarà un domani».

«Chiediamoci: chi è che accompagna questa
gente? Io prete, che vado là ogni due, tre mesi, per pochi giorni, e non so la
loro lingua? O sono loro che sono lì? La quotidianità della luce di Dio è
trasmessa attraverso gli animatori. Sarà così anche in Italia domani».

Ma non sempre è facile avere un ruolo come
laici nella chiesa: «Ci sono molte resistenze, da parte del clero e da parte
della gente. Il clero dice: la gente non è preparata. È vero, ma neanche noi
sacerdoti siamo preparati, abbiamo clericalizzato tutto».

La missione ci aiuta a leggere la realtà.
Perché anche qui c’è questa situazione, un po’ più camuffata.

In Italia iniziamo ad avere diversi
missionari africani come parroci delle. «È vero. Ma sarebbe più logico che ci
fosse un padre di famiglia preparato che va lì e spiega, poi incarichiamo
qualcuno che ci dia l’eucarestia. Questo aspetto dei laici ha un’importanza
estrema».

I giovani e la missione

In Italia i giovani disertano le chiese.
Come interessarli alla missione? «Credo che il mondo di oggi manchi di una
cosa: interiorità. Si è frastornati da tutto. C’è bisogno di un po’ di
silenzio. Ma non di solitudine, altrimenti ci si ammazza. Un silenzio che
diventi riflessione, ci porti a dare delle risposte personali a certi segni che
dovremmo vedere».

«Noi stessi dobbiamo dare dei segni. In
tempo di guerra mi è capitato di passare la notte a seppellire morti tagliati a
pezzi. Il mattino dopo, la gente diceva, perché lo fai? Adesso non siamo più
capaci a creare delle inquietudini con la nostra dimensione di fede. Vuol dire,
creare interrogativi. Perché a 76 anni parti ancora?
Ma stai qui, c’è lavoro. Se riesco
a dare una risposta a questi “perché” mi metto in cammino.

Invece cerchiamo di sistemarci. Ma se ci si
ferma o ci si addormenta o si imputridisce. Accetti passivamente tutto, non
crei più punti interrogativi, inquietudini appunto, non crei più ricerca».

Ma come trovare le risposte?

«Il problema non è tanto quello di dare
soluzioni – continua il missionario – quelle le darà la storia, ovvero Dio. Non
sarai tu. Se tu vivi il Vangelo sul serio, attorno a te qualcosa si muoverà,
qualcuno “inquieto”, forse per imitarti, forse per liberarsi dal torpore del “tutti
fanno così”. Al contrario, questo cercare di sistemarsi, può creare in alcuni
una ribellione radicale, come i giovani che seguono l’Isis, perché devono dare
un senso. Ma ricordati, facciamo più con la presenza che con la parola.
Dobbiamo gridare il Vangelo con la vita».

Marco Bello



Tags: Gioda, Missione, spiritualità, avventura, evangelizzazione, Mozambico, Tete

Marco Bello




Le meraviglie del passato, le sfide del presente

Dal deserto del Nord del Kenya.

Impressioni da un
viaggio indimenticabile nelle missioni del Nord del Kenya, nel Samburu e nel
Marsabit, in cui i missionari della Consolata sono arrivati nel 1952.
Tornato a Maralal
dopo aver visitato Baragoi, South Horr, Sererit e Loyangalani, padre Stefano Camerlengo
ha scritto ai missionari le sue impressioni a caldo. MC le «ha rubate» per
condividerle con tutti i suoi lettori.

 


 

Sono in
visita canonica1 ai missionari del Kenya, un grande paese pieno di storia
per il nostro Istituto. Mentre scrivo, mi trovo in «pellegrinaggio» alle
comunità della diocesi di Mararal e di Marsabit. In queste diocesi tutto parla
ancora di Consolata, visto che noi siamo stati i primi evangelizzatori di
questa terra. Viaggio tra le tribù indigene del Coo d’Africa sempre
minacciate dalla siccità: Turkana, Samburu, Rendille, El Molo. Dalla capitale
della contea Samburu, Maralal, oltre 10 ore di fuoristrada su 250 km di piste
dissestate ci conducono nell’estremo Nord del Kenya, lontano dagli itinerari
battuti dai safari. È quasi il tramonto quando davanti a noi si spalanca
il paesaggio di un altro pianeta. Siamo sulle rive del lago Turkana, il più
grande lago in un deserto al mondo: una distesa di zaffiro circondata da
altopiani dalle roventi tinte marziane, punteggiati da picchi vulcanici, alberi
di acacia e grappoli di fiabeschi nkaji (in samburu) o akai (in
turkana), capanne a iglù fatte di un intreccio di rami secchi. È qui che vivono
le tribù indigene più incredibili dell’Africa: ultimi discendenti della
leggendaria e ormai morente «Culla dell’Uomo».

È emozionante sentire le gomme del fuoristrada
scricchiolare sulla terra dove, secondo i paleontologi, il primo uomo si mise
in posizione eretta per incamminarsi sul suo sentirnero di futura gloria. La zona
è riconosciuta «Patrimonio dell’Umanità» dell’Unesco per la sua eccezionale
ricchezza ecologica e culturale. L’ecosistema del lago, unico nel suo genere,
permette di praticare la pesca e la pastorizia in alternanza grazie a un eterno
ciclo di alta e bassa marea. Questo ecosistema ha consentito a gruppi etnici
come i Turkana, i Samburu, i Rendille e gli El Molo, di vivere per secoli una
dura esistenza nelle aride periferie delle sponde del lago, considerate uno
degli ambienti più ostili della terra. Difficile immaginare che in epoche
passate al posto di questo deserto di rocce vulcaniche ci fosse una vegetazione
rigogliosa con zebre ed elefanti, allontanatesi da qui a causa del cambiamento
climatico.

Il
capoluogo della zona è Loyangalani che significa «il luogo degli alberi». Nome
azzeccatissimo. Infatti è come un’oasi nel deserto roccioso con alberi
rigogliosi che crescono attorno a sorgenti di acqua dolce e calda che sgorgano
dal suolo. Mentre ci avviciniamo, scorgiamo in lontananza la rudimentale sede
di un consiglio direttivo locale: un grande albero d’acacia alla cui ombra
siedono gli anziani, adunati per discutere le questioni d’interesse comune.
Alcuni di loro portano gli apelpel, istoriati bastoni di legno, segno
che sono sposati. Per le donne invece la fede nuziale consiste in orecchini,
pendenti dal lobo o fissati alla parte superiore dell’orecchio a seconda che
siano Samburu o Turkana. Queste ultime usano anche rasarsi il capo lasciando
solo un ciuffo centrale. Tutte le donne, quale che sia la tribù di
appartenenza, si adoano di appariscenti collari multicolori che anticamente
erano fatti di semi, oggi sostituiti da perline e palline di plastica
acquistate a Nairobi. Lo stesso oamento è in voga presso i giovani guerrieri,
i moran, durante il duro e quasi decennale periodo di «servizio militare»
a guardia delle greggi prima di potersi sposare e diventare giovani adulti.
Sono però le mogli della tribù Rendille a portare il collare dalla foggia più
appariscente: lo mporro, un alto cerchio di legno intarsiato (un tempo)
di schegge di rubino. Il legno dell’albero di acacia serve praticamente a
tutto: oltre a fae capanne, collari e mini sgabelli portatili, se ne usano i
ramoscelli più fini come spazzolini da denti, mentre i grossi frutti oblunghi,
una volta svuotati e fatti seccare, diventano otri (calabash) per
conservare acqua e latte.

Questa zona per noi, missionari della Consolata, è
storica e molto importante.

Molti missionari sono passati e hanno vissuto in questa
terra annunciando il Vangelo. Alcuni sono già nella casa del padre, altri sono
stati anche uccisi qui (padre Michele Stallone nel 1965, padre Luigi Graiff nel
1981). Altri ancora sono presenti continuando uno stile, una presenza. Mentre
ringraziamo di vero cuore tutti questi missionari che hanno donato la loro vita
e continuano a farlo in situazioni materialmente e spiritualmente difficili, mi
vengono spontanei alcuni pensieri che desidero comunicare semplicemente in
questo piccolo tributo alla storia della missione, dove la vita si fa dono,
dove uno offre tutto fino a restare senza niente.

La gente di questa zona del Kenya vive in terre
desertiche e piene di insidie. Nel deserto niente è banale e «normale». L’annuncio
del Vangelo non è un tema facile qui. L’evangelizzazione nasce con la
testimonianza della presenza, dello stare con la gente, più che con le parole.
Prima di tutto c’è la vita vissuta con fede forte. Dai rapporti belli e veri,
può scattare qualcosa che diventa inizio di un cammino di testimonianza e
accoglienza. È normale, non solo per un cristiano, ma anche per un musulmano,
che vive la fede in profondità, trasmettere, irradiare, far sapere, spiegare
quello che prorompe dal suo cuore: vita, servizio, dono di sé, gioia, parola,
che sono testimonianza e annuncio. Gli ambienti e i tempi possono essere facili
o difficili. Possono condizionare i modi di espressione, ma mai annullarli. I
più efficaci, per far sì che lo Spirito di Dio faccia il suo lavoro, sono il
rispetto, la discrezione, l’umiltà, la pazienza, e il sentimento di lasciarsi
condurre da Dio. Si tratta di un lavoro profondo, vitale che richiede tempo e
pazienza. Ecco la pazienza è la prima virtù che si deve imparare per lavorare
in questa terra, per restare presenti e propositivi in mezzo a queste
popolazioni che fanno dei bisogni vitali principali le primarie occupazioni
delle loro giornate e della loro vita.

Caldo
opprimente, strade sabbiose sulle quali è persino difficile camminare,
vegetazione rada e spinosa. Se la vita nei villaggi africani cui siamo abituati
sembra difficile, questa appare addirittura impossibile. Dove questa gente
tragga acqua e alimenti è un mistero per noi, che non penseremmo mai di bere
l’acqua salmastra del lago come invece fanno loro. In questo paesaggio riarso
dal sole, migliaia di famiglie conducono una vita «normale» fatta di gesti
semplici e quotidiani. Non è difficile comprendere come mai la gente del
deserto abbia sviluppato un carattere e un fisico così coriacei. I Samburu e i
Turkana sono gente dura e orgogliosa, inasprita da una vita che non dà molto ma
richiede tutto. Essi popolano fin dai tempi antichi l’intero Nord Est del
Kenya, regione semidesertica morfologicamente più simile al Nord Africa che non
all’Africa subsahariana.

Essere cristiani in questi luoghi è assai complicato.
L’importanza del lavoro missionario che viene svolto tra mille difficoltà ogni
giorno è proprio questa: costruire un ponte di pace e di dialogo con il mondo,
testimoniando con le opere concrete i valori in cui crediamo, evitando le
parole e i giudizi che, se espressi con leggerezza, sono in grado di provocare
incomprensioni e risentimento.

Forti del favore che i missionari hanno saputo
costruirsi nel corso degli anni, siamo stati accolti da tutti quelli che
abbiamo incontrato con grande cordialità e amicizia, invitati a entrare nelle
capanne e a sedere al loro fianco.

In questo angolo remoto del Kenya nel corso degli anni
sono state realizzate con successo diverse strutture: ospedali e centri
sanitari, scuole anche nei villaggi più remoti, centri di formazione
professionale e religiosa. L’impronta che i nostri missionari, e chi ha
lavorato e lavora insieme a loro, ha lasciato qui è molto forte, e molte
persone incontrate li ricordano con commozione, rispetto e gratitudine.

Ma non sarebbe giusto parlare di queste terre solo
coniugando ogni verbo al passato. Anche oggi questi missionari, con sempre meno
fondi, lavorano volontariamente in una maniera estremamente «professionale»,
riempiendo di amore e compassione ogni loro atto. Siamo stati testimoni di
drammatiche realtà alle quali era difficile anche solo assistere come
osservatori.
Ciò che è stato realizzato finora è miracoloso. Ma la sabbia del deserto e il
tempo rischiano di cancellare ogni cosa. In quei luoghi i bisogni sono ancora
tantissimi e chi opera ogni giorno per farvi fronte va sostenuto con impegno e
costanza, perché nulla di ciò che è stato e che ancora vive vada perduto. Ai
missionari dico: grazie, coraggio e avanti in Domino!

Stefano Camerlengo

superiore generale
dei Missionari della Consolata

Tags: Missione, evangelizzazione, Nord Kenya, Marsabit, Loyangallani, Samburu, Turkana

__________________

1 La «visita
canonica» è un obbligo che un superiore generale deve adempiere durante il suo
mandato. Ha aspetti formali e ufficiali di verifica di tutte le comunità
locali, dell’economia e attività del gruppo visitato, ma è soprattutto un
avvenimento di giornioso incontro di ogni missionario con il suo superiore e del
superiore con il vissuto dei suoi fratelli missionari. Padre Stefano è stato in
Kenya dall’11 gennaio al 2 marzo 2015, visitando il Samburu dal 2 al 10
febbraio.

Stefano Camerlengo




San Romero de las Americas

23 maggio: La beatificazione
di Oscar Romero.

Il 24 marzo 1980, a
San Salvador, viene ucciso l’arcivescovo Oscar Aulfo Romero. La sua voce
contro le ingiustizie e la violenza delle oligarchie era diventata
insopportabile per la dittatura che reggeva il paese centroamericano. Da anni
l’arcivescovo è conosciuto come «San Romero de las Americas». Dal 23 maggio
2015 è beato anche per la Chiesa universale.


El Salvador è il più piccolo paese dell’America Latina, chiamato
per questo El Pulgarcito de América (Il Pollicino d’America); è grande quanto la Sicilia. In questo
piccolo paese, lunedì 24 marzo 1980, verso le ore 18,25, mentre sta celebrando
la Santa Messa, appena terminata l’omelia, l’arcivescovo di San Salvador, Oscar
Aulfo Romero, è colpito al cuore da un colpo di arma da fuoco. Caricato su
una vettura, muore poco dopo in ospedale. Viene così messa a tacere la voce che
nella nazione centroamericana, oppressa da una feroce dittatura militare,
denunciava senza paura violenze, sequestri, omicidi, indicando responsabilità e
complicità. Si trattava di una voce scomoda per le oligarchie politiche ed economiche
che si definivano cattoliche e sostenevano di lottare per la difesa della
civiltà cristiana contro il comunismo. Per i poveri e gli oppressi era invece
una voce amica e fedele, una difesa contro i soprusi e le prepotenze.

«In odium fidei»

A 35 anni di distanza dalla
sua morte, il 23 maggio 2015, Oscar Aulfo Romero verrà beatificato. Giovedì 8
gennaio 2015 i teologi della Congregazione per le cause dei santi hanno infatti
riconosciuto che l’arcivescovo di San Salvador è stato assassinato in odium fidei, e dunque viene considerato
un martire dalla Chiesa cattolica. Papa Francesco il 3 febbraio ha poi firmato
il decreto della beatificazione e in seguito è stata scelta la data per la
cerimonia a San Salvador, appunto il 23 maggio. Fino a questo momento, secondo
il Codice di diritto canonico, per proclamare un martire era necessario che gli
assassini fossero atei o di un’altra religione. Ora invece con il
riconoscimento del martirio di Oscar Romero, assassinato da cristiani, il
concetto si allarga perché l’azione in favore della giustizia è ritenuta
connaturata all’annuncio evangelico. L’arcivescovo di San Salvador
dall’indomani dell’assassinio, per il suo popolo e per quanti in America latina
erano impegnati nella promozione della giustizia sociale, era già stato
indicato come «San Romero de las Americas». Oggi finalmente lo è anche per la
Chiesa universale.

Un vescovo educato dal suo
popolo

La lapide posta sulla tomba
di Romero riporta semplicemente il suo motto episcopale: «Sentir con la Iglesia» («Pensare con
la Chiesa»). Il suo desiderio è stato, infatti, fin dall’inizio del suo
ministero sacerdotale, quello di vivere il messaggio cristiano restando
fedelmente ancorato alla Chiesa.

Il
Concilio Vaticano II, i documenti di Medellin e il magistero di Paolo VI
l’hanno costretto progressivamente a interrogarsi sulle condizioni di vita
della sua gente, sulle violenze a cui era soggetta. Soprattutto nei tre anni in
cui è stato arcivescovo di San Salvador, Romero ha sempre più chiaramente
sentito il grido del proprio popolo, oppresso nei diritti fondamentali, e a
questo popolo ha prestato la propria voce, indicandogli la strada della
conversione e della nonviolenza per uscire dal dramma che stava vivendo. Si
schierò così, sempre più decisamente, in difesa dei poveri e degli oppressi,
convinto del fatto che i valori evangelici andassero incarnati e non solo
affermati, che non bastasse raccogliere i moribondi e i sofferenti, ma che
fosse anche necessario denunciare le situazioni di violenza strutturale e istituzionalizzata,
indicare in modo preciso le responsabilità dei sequestri, dei soprusi e dei
massacri.

Come ha
scritto il cardinal Carlo Maria Martini, Romero è stato dunque «un vescovo
educato dal suo popolo». L’incontro con i «crocifissi» della storia lo ha
condotto all’essenzialità dell’annuncio e ad abbracciare la croce. La sua
scomodità risiedeva nell’adesione piena e fedele al messaggio sociale cristiano
che, con il Concilio, aveva esortato la Chiesa a rivolgersi a tutti, ma con un
occhio di riguardo ai poveri e agli oppressi. Oscar Romero è stato assassinato
non in quanto vescovo, ma per la sua azione a fianco dei poveri e per le sue
ferme denunce della repressione operata dalla giunta militare. Con il
riconoscimento del martirio e la beatificazione si è confermato il fatto che
l’azione di Romero non era di carattere politico, bensì era la necessaria
conseguenza del Vangelo di pace e di giustizia che l’arcivescovo di San
Salvador predicava. La Chiesa ha così chiarito definitivamente che Romero si è
comportato da pastore e non da leader politico. E che, per essere fedele al
proprio ministero, non avrebbe potuto agire diversamente.

A fianco dei poveri e degli
oppressi

In una realtà fortemente
polarizzata, divisa tra pochi ricchi e molti poveri, Oscar Romero è stato
maestro e testimone: con la parola ha guidato e orientato il proprio popolo;
con la testimonianza si è esposto in prima persona e si è schierato. Ha parlato
e agito senza odio, cercando di esortare tutti alla conversione. Da una terra
dove scorreva il sangue, dove gli oppositori erano fatti scomparire, dove i
diritti umani erano calpestati, la voce di Romero, libera e autorevole, ha
oltrepassato le frontiere ed è stata sentita in tutto il mondo. Le sue omelie
erano seguite dagli inviati della stampa internazionale per il significato che,
nel contesto mondiale, aveva la lotta che si combatteva in quella minuscola
nazione, e per la presenza di una Chiesa, come quella dell’arcidiocesi di San
Salvador, evangelicamente schierata a fianco del proprio popolo e, appunto per
questo, violentemente colpita dalle forze militari e dagli squadroni della
morte.

Monsignor Romero è stato
semplicemente fedele alla missione che gli era stata affidata. Quando si è reso
conto delle sofferenze del suo popolo, ne ha avuto compassione e da buon
pastore se ne è fatto carico. È andato consapevolmente incontro alla morte e
non vi si è sottratto: la logica evangelica gli chiedeva questo e lui vi ha
aderito.

Senza mai rassegnarsi alle
ingiustizie

L’arcivescovo di San Salvador
avrebbe potuto fuggire e rifugiarsi all’estero in attesa di tempi migliori,
come da più parti, e dalla stessa Santa Sede, a fronte di minacce sempre più
insistenti, gli era stato proposto. Ha voluto invece restare accanto al proprio
popolo, in attesa della morte che a un certo punto sentiva imminente. È stato
fedele alla missione che gli era stata affidata di guida di una comunità ed è
rimasto accanto ai propri sacerdoti e ai propri fedeli. È stato ucciso perché
non si era rassegnato alle violenze, alle ingiustizie, allo strazio di un paese
devastato. A tutti ha sempre indicato la strada della conversione, dell’amore e
della nonviolenza, sulla scia degli insegnamenti di Paolo VI che invitava a
costruire una «civiltà dell’amore».

Agli inizi di marzo 1983, in
piena guerra civile, Giovanni Paolo II si è recato in El Salvador in visita
pastorale. Per la ferma opposizione delle autorità governative, il programma
non prevedeva la visita alla tomba di Romero, ma il Papa è stato irremovibile
e, dopo aver atteso che si aprisse la cattedrale poiché era stata chiusa dai
militari, ha potuto pregare sulla tomba dell’arcivescovo assassinato. È stato
questo un modo per porre fine alle incomprensioni iniziali fra il papa polacco
e l’arcivescovo di San Salvador, che molti in Vaticano hanno a lungo
considerato troppo politicizzato.

Anche il 7 maggio 2000, al
Colosseo, durante la celebrazione per ricordare i «martiri» del XX secolo,
Giovanni Paolo II ha ricordato mons. Romero: «Ricordati, Padre dei poveri e
degli emarginati, di quanti hanno testimoniato la verità e la carità del
Vangelo in America fino al dono della loro vita: pastori zelanti, come
l’indimenticabile arcivescovo Oscar Romero, ucciso sull’altare durante la
celebrazione del sacrificio eucaristico, sacerdoti generosi, catechisti e
catechiste coraggiose, religiosi e religiose fedeli alla loro consacrazione,
laici impegnati nel servizio della pace e della giustizia, testimoni della
frateità senza frontiere: essi hanno fatto risplendere la beatitudine degli
affamati e degli assetati della giustizia di Dio. Siano saziati con la visione
del tuo volto e siano per noi testimoni della speranza».

Testimone e martire

Dove
possiamo situare la figura di Romero nella storia della Chiesa del Novecento?
Certamente fra quelle dei testimoni e dei martiri, come è stato fatto nella
chiesa di San Bartolomeo a Roma, all’isola Tiberina, una chiesa voluta da
Giovanni Paolo II come memoriale dei martiri e testimoni della fede del XX
secolo: qui, nell’icona posta sull’altare maggiore, tra i martiri rappresentati
vi è anche Oscar Aulfo Romero e tra le memorie custodite in un altare
laterale vi è il messale che utilizzava l’arcivescovo di San Salvador.

E come è stato fatto dalla
Chiesa anglicana che, sul frontone della porta ovest dell’abbazia di
Westminster, a Londra, fra le dieci statue di «martiri» del Novecento, ha posto
anche quella di Oscar Romero, situandola tra la statua di Dietrich Bonhoeffer e
quella di Martin Luther King.

E come ora, finalmente, ha
fatto anche la Chiesa cattolica riconoscendo il suo martirio. Riconoscendo che
ci troviamo di fronte a «San Romero de las Americas».

Anselmo Palini

Tags. Oscar Romero, El salvador, martirio, santi, giustizia, poveri e oppressi

Anselmo Palini




in realtà, l’Africa non esiste

Diario di un giovane
da Isiro /2

Il servizio al centro
nutrizionale, i viaggi in piena foresta, gl’incredibili itinerari a piedi, in
bici o moto, il Natale con 30°, i giochi con i bimbi, le serate attorno al
fuoco contemplando volti, balli, stelle. La riscoperta dell’essenziale. La sorpresa di
un’Africa inattesa. Seguiamo Tommaso nella sua esperienza missionaria.

 


2 Novembre 2014

Sono partito per Neisu. In lingua locale «neisu»
significa «cuore». In effetti, siamo nel cuore della foresta equatoriale. Il
viaggio Isiro-Neisu (30 km) è stato in pieno stile africano: Defender piena di
persone, io e altri due nel bagagliaio. Siamo in foresta, e il posto è
bellissimo. Vicini alla missione ci sono l’ospedale e la grande chiesa.
Inoltre, ad accogliermi ci sono dei meravigliosi muffin alla banana e dei
biscottini deliziosi alla soia: dolci veri dopo due mesi. E la cosa bellissima è
che li producono qui in casa anche per il centro nutrizionale dell’ospedale. È
già in programma che imparerò a farli.

Qui sono nel «regno» di padre Rinaldo Do, un vero
vulcano. Con lui le cose da fare non mancano mai. Bisogna stare attenti a farsi
vedere in giro perché ti trova sempre un lavoro. Ha un grande carisma, e la
gente gli vuole veramente bene.

In parrocchia, il sabato pomeriggio, ci sono le prove
della corale e gli incontri dei gruppi. Mi son buttato in mezzo a quel traffico
di gente, e sono stato con i bambini e i giovani. Dato che anche qua la frase
di presentazione è «donne moi de l’argent» («dammi dei soldi»), mi sono
inventato che «argent» in italiano significa botte, così dopo i primi
scappellotti sulla testa e le annesse risate, hanno smesso di chiedere.

Dovete sapere che la missione, oltre ad avere in carico
l’ospedale e la parrocchia, si occupa di altri 83 villaggi-cappelle sparsi
nella foresta. La più lontana è a 70 km. Quindi i padri, a tuo, partono in
moto o in bici e stanno via dei giorni.

Qui s’impara una cosa, cioè che la felicità è la nostra
condizione naturale. Se ti domandano: perché sei felice? La risposta è: perché
no? Il mio stare bene non dipende dal fatto che il mondo va bene, ma piuttosto è
il mondo che va bene perché io mi sento bene. La felicità è dentro di noi, non
viene da fuori, quindi nessuna situazione o persona può rubarcela. Che storia quest’Africa.

6 Novembre 2014

Neisu, Neisu, quanto mi regali! Qui si vive tra la gente,
dove si vede la vera vita dell’Africa. Sono andato vicino alla missione, dove
si produce olio di palma. Dovete immaginarvi un grosso palo in cui è inserito
un pezzo di ferro, e le persone lo spingono facendolo girare. Per lo sforzo
fisico enorme la quantità di olio estratto è davvero poca. Con il lavoro di un
intero pomeriggio di tre persone (senza contare il tempo speso a raccogliere i
semi della palma) si produce una tanica di olio che viene venduta a 6mila
franchi (circa sei euro): una miseria. Eppure qui è così, si lotta per sfamare
la famiglia e cercare di mandare a scuola qualche figlio.

Ah, la scuola: Isiro in confronto è un paradiso. Insieme
a padre Rinaldo sono andato in bici a visitae diverse. Ci sono ragazzi che
per andare e tornare dalla scuola fanno 14 km a piedi. E, tornati a casa di
sera, devono ancora lavorare e studiare. Per aiutarli, padre Rinaldo sta
lanciando un progetto per acquistare biciclette da rivendere a un prezzo
accessibile. Inoltre in foresta ho visto «classi» di ragazzi dentro una mezza
capanna con una lavagna e senza i banchi. C’è veramente da pensare alla fortuna
del nostro sistema scolastico. Inoltre, a causa della retta qualcuno deve
sospendere la scuola. Potete immaginare i problemi che ciò comporta.

Molto toccante la visita giornaliera ai malati
dell’ospedale.

Infine mi diverto a passare i pomeriggi con i bambini
fuori dalla parrocchia. Pensate, oggi ho insegnato «bandiera genovese».

Sabato partirò in bicicletta per andare in un villaggio a
otto km di distanza, e passerò la notte fuori, ma questo è niente in confronto
al resto: lunedì partirò con padre Rinaldo in moto per raggiungere dei villaggi
a 60 km da qui. Passeremo circa dieci giorni in foresta, senza contatti e
vivendo come e con la gente, mangiando quello che ci offriranno. Questa sarà
sicuramente la più grande prova di adattamento all’essenzialità che farò nella
mia vita.

9 Novembre 2014

Partiamo con due bellissime bici. Qui in Africa ho
imparato una certa prudenza, e mi porto dietro un kit di sopravvivenza
consistente (meglio chiamarlo armadio, per la quantità di cose). Il percorso su
sentirneri sterrati nel mezzo della foresta è meraviglioso, anche se
faticosissimo per il fango, le buche e le continue salite e discese, oltre che
per il sole cocente.

«Sfrecciando» come un bradipo vedo le capanne della gente
che vive in foresta, sento le grida dei bambini che, a ogni curva ci incitano,
manco fosse il traguardo della «nove colli», osservo la potenza della natura in
tutto il suo splendore e il sudore della gente per guadagnarsi da vivere. Sì,
ho smesso subito di pensare alla mia fatica, non appena mi sono ricordato che
ci sono lavoratori (molti ragazzi) che trasportano sulla bici 25, 50 kg di
roba, e per molti chilometri di più.

Dopo 40 minuti, arriviamo in un villaggio su un
bellissimo e grande spazio. Siamo subito accolti alla grande e ci viene
affidata la camera: una stanzetta di fango con un tetto di frasche.

La vita del piccolo villaggio è molto semplice e
accogliente, sotto la paillote (una specie di capanna dove si accolgono
i visitatori) si radunano i bimbi e alcuni adulti, e stiamo lì a parlare. Per
passare il tempo, improvviso un gioco simile a Pictionary, disegnando con un
bastoncino sulla terra. Verso le 18 ceniamo. Del buonissimo mais arrostito,
l’immancabile riso, e il mitico pondù (foglie di manioca pestate e cotte
con pasta di arachidi). La quantità di cibo è esagerata, così, dopo aver
mangiato un po’, lasciamo lì, sapendo che sarà la cena della famiglia della
capanna accanto. Nel frattempo arriva il capo catechista di quella zona, ci
sistemiamo di nuovo sotto la paillote mentre cala un buio pesto. Stanno
arrivando bambini e giovani dalle cappelle dei villaggi vicini per passare la
notte e la messa del giorno dopo insieme. Viene acceso un grande fuoco in uno
spiazzo libero e incominciano canti e balli con tutta la gente: una meraviglia.
A una certa ora andiamo a «dormire». Inizia a piovere forte, la pioggia dentro
la cameretta di fango e foglie si sente fortissimo, e mi chiedo come faccia a
non entrare l’acqua. Ma non è finita: i bambini dormono quasi all’aperto, e per
loro è come un campeggio. Quindi voci, canti, grida e schiamazzi continuano per
tutta la notte. A parte la stanchezza, apprezzo molto l’esperienza della
nottata all’africana. Dopo la colazione inizia la messa. Una corale potente
viene accompagnata da tamburi e uno xilofono gigante di bambù. Durante
l’offertorio vengono portati dei doni (per lo più cibo), tra cui una simpatica
gallinella viva, tutta legata. Il pranzo è nuovamente molto abbondante.
Assaggio un po’ di tutto, ma l’appetito mi passa sapendo che quel cibo poi
sfamerà altre persone, e che io potrò mangiare più tardi. I cinque kg di
bagaglio si rivelano utili perché medico una ragazza che si è scottata con
dell’acqua bollente. Si fa l’ora di tornare a casa. Questa volta con me viaggia
un’amica che, quando prendo delle buche si lamenta ammonendomi: è la gallina.

20 Novembre 2014
Makpulu, foresta equatoriale.

Dopo il viaggio in moto, insaccato come un salame tra i
bagagli e padre Rinaldo, in mezzo a foreste e villaggi su sentirneri scassati,
siamo arrivati in una bella capanna con tanto di tetto in lamiera. Da Makpulu
ci siamo spostati a visitare, in bici, altri sei villaggi. E quindi un giorno sì
e uno no eravamo a dormire, mangiare, dire messa, in un posto diverso. In un
caso, dopo avere raggiunto un villaggio in bici, il giorno dopo ne abbiamo
raggiunto un altro con due ore di cammino a piedi in mezzo alla foresta e a
corsi d’acqua, con la scorta di abitanti del luogo armati di machete.

La fatica per raggiungere i villaggi è sempre stata
ampiamente ripagata dalla folla di gente che ci ha accolto con canti e danze.
Inoltre l’adattamento alle condizioni di vita della gente, per noi impensabili,
è stato molto semplice, una volta compreso che quello che per me è scomodo, è
vita normalissima per altri.

Quante mani strette. Mani piccole e grandi, malate e
sane, giovani e vecchie, morbide e dure, felici e tristi, pulite e sporche. Qui
il saluto più importante è la stretta di mano. C’è il modo normale di darla e
ce n’è un altro che esprime grande gioia. All’inizio non avevo compreso questa
differenza. Quando l’ho colta non potete capire com’è cambiato tutto. Mi sono
sentito accolto e a casa. La loro semplicità nel prepararci i letti, l’acqua
per lavarci e i pasti con grandissima cura, mi hanno fatto capire che per far
sentire bene una persona non c’entra cosa si offre, ma il modo in cui lo si fa.

Credo che non scorderò facilmente questi giorni: i bans
insegnati, le canzoni imparate, quei cieli nottui con un’infinità di stelle.
E il fuoco, grande e forte, attorno al quale, al calare del buio, si radunano
bambini, giovani e vecchi, le mani battono sui tamburi e si scatenano le danze
in cerchio, cantando a squarciagola, con un ritmo travolgente, che ti spinge a
smettere di cercare di capire i passi che non conosci, e a seguire il ritmo
della musica e basta. La gioia intorno a quel fuoco non si può descrivere.
Sarebbe come guardare un tramonto in foto: puoi dire che è bello, ma non vivi
le emozioni, non sai se l’aria era calda o se c’era il vento.

Sono cambiato in questi giorni? Ovviamente sì, non puoi
rimanere uguale. Non sono quelle immagini prive di compassione che passano in
tv mentre si è a tavola o sul divano. Tutto questo c’è davvero, e il minimo da
fare è non essere indifferenti e rileggere la propria vita alla luce di ciò.

30 Novembre 2014
Tornato a Isiro da una settimana. Tornato a casa.

Lunedì sarà l’anniversario dei 50 anni dal martirio della
beata
Anuarite, congolese e martirizzata proprio a Isiro, e martedì sono arrivati da
noi sei vescovi. Al loro arrivo, con quattro giorni di anticipo, in casa è
iniziato il putiferio, e io, oltre a preparare le stanze, mi sono messo a fare
un chilo di ravioli. Gli africani non apprezzano molto i cibi stranieri,
infatti ne hanno mangiati pochi, ma non vi preoccupate: li ho finiti io.

In questi giorni abbiamo anche salutato due diaconi che
partivano per essere ordinati sacerdoti nei loro paesi, ed è partito Jeremy.
Questo significa che io sono, di punto in bianco, diventato il responsabile
dell’orto. E così mi sono accorto che la stagione delle piogge mi manca da
morire. Adesso bisogna annaffiare l’orto mattina e sera, il che richiede un’ora
e mezza ogni volta. Ora capisco l’importanza delle piogge, soprattutto per la
gente che, durante la secca, non ha l’acqua.

Insieme ai vescovi è arrivato un esercito di suore che ci
hanno letteralmente invaso la casa. Ma non è finita: ieri sono arrivati anche
il cardinale e il nunzio apostolico del Congo, accompagnati da quattro guardie
del corpo. Dovete sapere che qui in Congo la chiesa si è esposta molto
opponendosi alla modificazione della Costituzione, per impedire che il
presidente rinnovasse ancora il mandato. Quindi il cardinale potrebbe
addirittura essere bersaglio di un attentato.

In tutto questo tran tran, il grande Ivo è stato dietro a
tutto. Il prossimo martire del Congo, se va avanti così, sarà lui. In questi
giorni non sono andato quasi mai a Gajen per dare una mano qua in casa. Eh già.
È bello chiamare casa questo posto. Qui c’è anche la mia famiglia africana:
sono un po’ tutti matti, ma siamo una famiglia.

Intanto oggi mi sono accorto che è iniziato l’avvento. Sì,
dico che me ne sono accorto perché, con un sole da spiaggia e 30 gradi, non
sembra di essere a dicembre. Sarà un Natale interessante.

4 Dicembre 2014

Il 50° anniversario del martirio della beata Anuarite,
con 300mila pellegrini che hanno riempito Isiro, non si può dire che sia
passato inosservato. La funzione è incominciata alle 9,00 ed è finita alle
15,00. Era tutto ben organizzato, con tanto di fuochi d’artificio e macchina
delle bolle di sapone durante alcuni canti. Sono anche intervenuti il
governatore e la moglie.In tutto ciò ho ricevuto un bellissimo regalo: mi è
arrivato da Makpulu un arco con delle frecce (forse qualcuna avvelenata) che mi
era stato promesso. Ovviamente mi sono messo subito ad esercitarmi in giardino
per tirare fuori il Robin Hood che è in me, ma devo ancora allenarmi un po’.

Sono ritornato a lavorare al centro Gajen da cui mancavo
da più di un mese. Quante cose sono cambiate. Prima fra tutte i bambini. Non ce
n’è uno di quelli che ho conosciuto, e devo ammettere che mi dispiace non
averli salutati. Ma d’altro canto non posso che essere felice perché, se non ci
sono più, significa che sono guariti. Quindi mi sono ributtato: questa volta c’è
un bel gruppetto di 5-8 anni. Ci sono Jil (Samì) ed Eest (Bibi) che sono due
macchiette: mi parlano tranquillamente in Lingala pensando che io capisca. E
poi c’è John: il nuovo Radis. È un bambino che, a vederlo, non si direbbe
malnutrito, inoltre è iperattivo e corre dappertutto. Inizialmente mi è venuto
incontro per tirarmi una manata, e mi ha lanciato le sue ciabatte. Ma poi mi si
è buttato addosso a braccia aperte perché lo abbracciassi. Oggi mentre
distribuivamo il pranzo ho controllato che i bambini mangiassero, quando sono
arrivato da John mi sono messo a ridere per la voracità con cui si metteva il
cibo in bocca: due manate alla volta. Quando si è accorto che lo guardavo, ha
cambiato atteggiamento e, ogni volta, prima di infilarsi due pugni di cibo in
bocca, ne allungava uno verso di me come a dire: «Questo prendilo te». Ogni
volta gli ho dovuto dire «Yo» (tu), perché mangiasse.

Ho visto un film un po’ cruento che tratta del traffico e
della guerra per i diamanti in Africa, «Blood Diamonds». Mi ha fatto
impressione: vedere tutta quella crudeltà e sofferenza, e vedere nei volti
degli attori i volti di bambini, giovani, persone che ora conosco, e
immaginarli in quelle situazioni, mi ha veramente scosso. Pensare a come i
paesi più ricchi abbiamo sfruttato l’ignoranza e le risorse di questi popoli, e
lo fanno tuttora, provocando guerre e morte, mi fa venire la nausea.

20 Dicembre 2014

Al centro nutrizionale la responsabile è andata in
congedo per un mese e quindi sono diventato io il responsabile di tutto.

La «banda bassotti» (un gruppo di bimbi) del centro mi ha
preso in simpatia e non mi molla un secondo. Per quanto riguarda l’orto, è
ancora tutto vivo.

Qui è difficile crederlo, ma siamo sotto Natale. Sentire
padre Tarcisio, mio vicino di stanza, che ascolta ad alto volume i canti
natalizi e allo stesso tempo sentire un sole che spacca le pietre con i suoi 30°
gradi è abbastanza scioccante.

24 Dicembre 2014

Ci rinuncio, qui è proprio impossibile calarsi nello
spirito natalizio italiano. Eppure non potevo ricevere regalo più bello:
l’essenza del Natale. Al centro Gajen c’è un papà vedovo (l’unico papà tra sole
mamme), che accompagna la sua figlioletta di meno di un anno. Dovreste vedere
come si prende cura di lei e con quale amore: ecco questo esprime il Natale più
di mille pacchetti regalo, alberelli, panettoni ecc.

Al centro c’è anche Eritiè (membro della banda bassotti),
che viene sempre da solo, senza genitori. Durante il pranzo non mangiava,
allora mi sono avvicinato e gli ho chiesto come mai: lui semplicemente non
aveva le posate, e aspettava che qualcun altro finisse perché gliele prestasse.

Allora vi faccio questo augurio per Natale: che possiate
accorgervi di chi vi è accanto e «non ha le posate».

Eyenga ya mbotama elamu! Buon Natale di cuore!

7 Gennaio 2015

Dopo aver passato il capodanno in mezzo alla foresta di
Neisu, siamo tornati a Isiro alla vita di «tutti i giorni». Dopo quattro mesi,
grazie all’incontro con alcune persone, mi sono accorto che stavo per cadere
nell’abitudine di fare le cose invece che viverle, allora ho aggiustato il
tiro.

A Gajen non vado più in bici: a piedi posso passare in
mezzo alle case della gente incontrandola, parlandoci e conoscendola. In questa
nuova «pastorale della vicinanza», ho iniziato a frequentare il pozzo della
nostra casa: alla sera, tramite il motore, viene pompata l’acqua per la gente,
allora ho conosciuto i nostri vicini. La banda bassotti si è ingrandita. Oltre
a Samì, Bibì ed Eritiè si sono aggiunti Felì, Nada, Jojo, Petro, Emmanuel, Pico
e Paco. Questi ultimi due sono gemelli. Un giorno ho chiesto alla mamma i loro
nomi francesi, dato che quelli in Lingala non li avevo capiti, e lei mi ha
detto che non li avevano. Allora io, per scherzare, le ho suggerito di
chiamarli Pinco e Panco: come nel gioco del telefono senza fili hanno capito
Pico e Paco, e da quel momento li chiamano tutti così.

La vera stagione secca è arrivata. Un caldo intenso di
giorno, e di notte un bel freddo da stare ben coperti con la felpa. Stamattina,
parlando con Jojo (bambino di 9 anni) proprio del freddo, mi ha chiesto se di
notte dormivo in casa. Io gli ho risposto di sì (ovvio no?). Allora lui mi ha
detto che di notte dorme «libanda» (fuori).

Un bel regalo di buon anno è stato Antornine, un giovane di
27 anni che studia all’ultimo anno della facoltà di giurisprudenza: Antornine ha
chiesto un aiuto economico dato che l’università è molto cara, Ivo glielo ha
dato in cambio di lavoro, e così ho un aiutante per l’orto.

Sempre nell’ottica della pastorale della vicinanza, tra
una zappata e una vangata, gli ho fatto un po’ di domande per conoscerlo. Viene
da un villaggio a 450 km da Isiro, ed è qui con sua sorella maggiore che ha una
figlia. La bambina di 8 anni va a scuola, ma in più prepara da mangiare e
sistema la casa per la mamma e lo zio.

16 Gennaio 2015

Durante la stagione secca le strade sono fatte di polvere
rossiccia che aspetta solo un bel venticello (frequente) o qualche moto a tutta
velocità (molto frequente) per riempire l’aria e infilarsi ovunque. La gente
gira con i fazzoletti alla bocca per respirae il meno possibile, e le piante
da verdi sono diventate marroncine.

A Gajen sono partiti Felì e la sorellina Nada. Però sono
rimasti tutti gli altri, con Pico e Paco c’è sempre più intesa e Petro è una
macchinetta che non sta mai zitta. La povertà di Isiro e le sue storie mi
sorprendono sempre: Jimitta è una ragazzina che ci da una mano per vendere
qualche prodotto dell’orto in città, l’altro giorno ci ha detto che era stata
cacciata da scuola perché non aveva i soldi per pagare. Antornine mi racconta che
ha finito di scrivere a mano l’introduzione della sua tesi per farla correggere
dal relatore. Quando sarà tutta corretta la scriverà al computer per stamparla.
Ciascun foglio stampato costa un dollaro.

Mi è capitato di leggere un libro di un giornalista che
ha girato l’Africa: «L’Africa è un continente troppo grande per poterlo
descrivere. È un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo vario e ricchissimo. È
solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamiamo Africa. A parte la
sua denominazione geografica, in realtà l’Africa non esiste».

Tommaso degli Angeli

(2 – continua)


Tags: Gajien, laici missionari, volontariato, vita missionaria, testimonianze, Rd Congo, Tommaso

Tommaso Degli Angeli




La «mia» Irene

23 Maggio 2015, a Nyeri, beatificazione di suor Irene Stefani.
Nyaatha, la mamma misericordiosa, sarà proclamata beata dal cardinal John Njue di Nairobi, legatissimo alle missionarie della Consolata e ai missionari a cui deve la sua educazione. La cerimonia si svolgerà nel campus della Dedan Kimathi University di Nyeri. La prima beatificazione in assoluto in Kenya, dove da secoli si attende il riconoscimento della santità dei 149 martiri di Mombasa, massacrati nel 1631.



Suor Irene Stefani, nata Mercede, una delle prime missionarie della
Consolata, ha dato la sua vita per amore di Cristo, consumandosi fino
all’ultimo. Condivido con voi alcuni pensieri molto personali.

Ho incontrato suor Irene che ero ancora un ragazzino appena dodicenne. Bazzicando attorno all’altare come fedelissimo chierichetto, mi sono imbattuto in un giovane missionario scherzoso e dinamico che, saputa la mia passione per i libri, me ne ha passati «a gogò». Erano «I racconti della brughiera», «I romanzi del brivido» e le vite di missionari e missionarie in Africa, letture che integravano la mia passione per l’avventura, alimentata sui libri di Vee, Salgari e compagni. Un libro spesso, copertina azzurra con due scarponi bene in vista mi prese gli occhi e il cuore. «Gli scarponi della gloria» di suor Giampaola Mina raccontavano di una bresciana e valsabbina come me, una che, come me, aveva bevuto le acque del fiume Chiese. Lessi quel libro di un fiato, e poi lo rilessi ancora e ancora. Lo conservo tutt’ora, foderato con la classica carta marron del tempo. Un incontro per la vita. Due anni dopo entravo anch’io in seminario.

La «mia» Irene è una ragazzina di un paese di montagna adagiato vicino a un piccolo lago da cui esce il fiume Chiese. È un paese di confine. Poco più in là c’è il Trentino che a quei tempi era sotto l’Impero Austroungarico. Da lì i garibaldini erano partiti nella terza guerra d’indipendenza nel loro tentativo di liberare Trento. Una grande rocca domina Anfo, collegata a una serie di fortificazioni sulle montagne vicine. Migliaia di soldati vanno e vengono. La ragazzina si chiama ancora Mercede. È abituata agli scarponi e al lavoro duro. La famiglia è numerosa, il papà nonostante abbia una locanda e commerci in vino, non naviga nell’oro. Questo tempra il carattere della ragazza sana e robusta, formata al lavoro, alla disciplina, alla fede e alla preghiera. Attiva in parrocchia, si lascia contagiare da quel giovane prete missionario, padre Angelo Bellani, che ha l’Africa nel cuore e sta partendo per il Kenya. Ventenne, nel 1911, Mercede va a Torino e diventa suora alla scuola dell’Allamano: uno che vuole che i suoi missionari siano prima di tutto dei santi. Parte per l’Africa a fine 1914. E si trova gettata nel vortice della guerra, la «grande guerra» che insanguina anche Kenya e Tanganika, opponendo inglesi e tedeschi, mentre anche al suo paese, Anfo, vicino al fronte, la chiesa è trasformata in ospedale militare. Lei e le sue sorelle missionarie sono buttate in quel mare di sofferenza che sono gli ospedali militari dove i soldati di ultima categoria, i forzati dei trasporti, i portatori (carriers appunto) muoiono a migliaia. Si parla di 500mila arruolati a forza e 200mila morti. L’esperienza più dura per lei è a Kilwa Kivinje, un posto sperduto a 300 km a Sud di Dar-es-Salaam, un porto di trafficanti omaniti che razziavano schiavi nell’interno del Tanganika. I morti sono talmente tanti che ogni sera vengono accatastati sulla spiaggia perché la potente marea dell’Oceano Indiano dia loro sepoltura. La montanara è instancabile e senza paura. Un angelo per i carriers. Li conosce per nome, li cura, li consola, dono loro il suo splendido sorriso, li accompagna fino alla fine.

Con personale del campo, dott. Elliot al centro

La foto più bella di lei è stata scattata proprio a Kilwa. Il fotografo l’ha bloccata nel pieno dell’azione. L’ha chiamata a posare mentre era impegnata a curare qualcuno. In mano ha una garza, al collo il crocefisso. Interessante quel crocefisso. Non è in posizione da cerimonia, ma da lavoro. Così, col cordino stretto alla gola, poteva essere facilmente gettato dietro le spalle perché non impedisse di chinarsi sugli ammalati e curae le ferite o pulie i corpi martoriati. E quel sorriso che oltre alla bellezza del viso irradia tutta la gioia e la serenità di una donna cui non pesa dedicarsi agli altri perché ha il cuore pieno di Gesù. Ho sempre amato quella foto. L’ho capita di più quando grazie alle nuove tecnologie ne ho fatto emergere i dettagli e ho guardato Irene negli occhi. Una vera missionaria, pronta al servizio del suo Signore che la chiama nei poveri, negli ammalati, nelle persone meno amate. È una donna coraggiosa, conosce la paura, ma l’amore le da tutto il coraggio necessario per gesti di grande gratuità e libertà. Così, nel buio della notte africana, alla luce delle stelle, sulla spiaggia dove una catasta di morti attende l’onda impietosa dell’Oceano che ruggisce contro la barriera corallina, Irene cerca tra i corpi il suo Othiambo (colui che è nato la sera tardi) dato per morto, ma ancora vivo, per farlo rinascere Omondi (nato all’alba) in Paradiso.

È lo stesso coraggio che qualche anno dopo, sulle colline di Gekondi, la spinge alla ricerca degli anziani portati a morire in foresta, in pasto per le iene o altri caivori come il leone o il ghepardo. La foresta. Incute timore di giorno, tanto più di notte. Foresta sono le pulci che ti mangiano le gambe, le formiche caivore su cui è meglio non mettere i piedi, i serpenti, le iene, i mille rumori che ti mettono i brividi. Ma niente ferma la sua passione per chi soffre, chi è ridotto a scarto, sia esso un anziano morente o un bambino abbandonato.

È lo stesso coraggio che trasforma la maestrina in paladina dell’educazione delle ragazze, che va a stanare nei villaggi e sostiene quando lottano pacificamente con i loro genitori che si rifiutano di mandarle a scuola.

L’icona di suor Irene sono i suoi scarponi. Non si portano per stare in casa, in salotto, nella quiete della cappella, nell’intimità del convento. Gli scarponi sono strada, sentirnero, sassi, fango. Sono arrampicarsi sulle erte colline, passare tra le ruvide erbacce, percorrere piste infangate, calpestare le spine. Sono essere in strada per amore, sulle orme di Cristo, alla maniera di Cristo, alla ricerca del suo volto nascosto negli umili, nei poveri, nei sofferenti.

Per questo ho amato questa missionaria dal cuore grande. E mi ha colpito la sua obbedienza. Ha chiesto al padre il permesso per diventare missionaria. E alla sua superiora quello di offrire la sua vita. Le due decisioni fondamentali della sua esistenza. Chiede il permesso non per debolezza, ma per vera umiltà. L’umiltà di chi è cosciente di non essere padrona assoluto della propria vita, ma solo serva per amore. E vuole donare tutto. Fino alla fine.

Gigi Anataloni

Suor Irene Stefani, suor Cristina Moresco, crocerossine al campo di Voi nel 1916, con padre Benedetto Pietro (con bicicletta) e il dottor Tisbone e il suo assistente nell’ospedale da campo per i carriers a Voi, nel 1916

Cenni biografici

La biografia di suor Irene è di una semplicità sconcertante. Il 22 agosto 1891, di sabato, quinta di 12 figli, nasce ad Anfo, un paesino del bresciano sulle sponde del lago d’Idro. Battezzata il giorno dopo, è educata alla fede da genitori ferventi cattolici. Una volta cresciuta, diventa zelatrice dell’Apostolato della preghiera e insegna catechismo in parrocchia.

Nel 1905 padre Angelo Bellani, missionario della Consolata, visita Anfo prima della sua partenza per la missione del Kenya. Tra le ascoltatrici attente c’è anche la nostra, quattordicenne, che aveva già manifestato il desiderio di farsi missionaria.

Nel 1907 le muore improvvisamente la mamma, Annunziata. Nel 1909 il padre si risposa e Mercede si trova bene con Teresa, la nuova mamma. Memore dell’incontro con padre Bellani, alla notizia che a Torino sono nate le suore missionarie della Consolata, Mercede chiede al padre il permesso di farsi missionaria. Vinte le sue resistenze con l’aiuto del parroco, don Capitanio, il 19 giugno 1911, ventenne, parte per Torino. Veste l’abito da suora e prende il nuovo nome di «Irene» nel 1912; conclusi i due anni noviziato nel gennaio 1914, si dedica poi alla preparazione per l’Africa e lo studio delle lingue. Il 28 dicembre parte per il Kenya e il 31 gennaio 1915 arriva a Mombasa, dove, salutando la sua nuova terra, esclama «Tokumye Yesu Kristo!», ovvero «Sia lodato Gesù Cristo!», l’unica frase, per il momento, che conosce in lingua kikuyu.

Appena il tempo di inserirsi e di imparare la lingua locale ed è inviata con altri missionari e missionarie negli ospedali militari dove si curano i carriers, i portatori a servizio dell’armata inglese in guerra con i tedeschi che controllano il Tanganika. Prima a Voi, in Kenya, e poi a Kilwa Kivinje, Lindi e Dar-es-Salaam in Tanzania, per quattro anni (1915-1919) Irene si spende come crocerossina (insieme a quarantacinque altri missionari e missionarie della Consolata e Vincenzine del Cottolengo) in quelle anticamere della morte dove venivano curati migliaia di giovani africani arruolati a forza.

Nel 1920 la troviamo a Gekondi (pron. Ghecondi), nella regione centrale del Kenya, dove si butta nell’insegnamento nella scuola per ragazze e nella visita ai villaggi. Infaticabile e scattante, visita i malati, consola i morenti, recupera i bambini abbandonati, convince i genitori a lasciare che le loro figlie vadano a scuola, segue un gruppo di ragazze desiderose di consacrare la vita a Gesù, e tanto di più. La gente comincia a chiamarla «Nyaatha» (mamma misericordiosa).

Nel settembre 1930, dopo l’annuale settimana di preghiera e ritiro a Nyeri, chiede alla sua superiora il permesso di offrire la sua vita per la missione. Nel frattempo, a Gekondi scoppia la peste. Suor Irene ne è contagiata assistendo un ammalato. Muore il 31 ottobre 1930, a 39 anni. Sepolta prima nel cimitero dei missionari al Mathari, alla periferia di Nyeri, è stata poi posta in un’urna di marmo rossastro nella chiesa della parrocchia del Mathari stesso. Dopo la beatificazione sarà trasferita nella cattedrale di Nyeri, dedicata alla Consolata. (Gi.A.)

Tomba originale di suor (beata) Irene Stefani

Tomba suor Irene nella chiesa del Mathari

Continua




Berretta rossa per il popolo

Chibly Langlois,
incontro con il primo cardinale della storia di Haiti

Nato da una famiglia
umile di contadini del Sud, la sua è una vocazione adulta. Da subito impegnato
con i ragazzi più poveri. Si distingue dopo il terremoto. Da oltre un anno
tenta una mediazione per risolvere la crisi di Haiti.

Monsignor Chibly Langlois è il primo cardinale della storia di Haiti.
Vescovo di Fort Liberté nel Nord Est dal 2004 e poi di Les Cayes, Sud, dal
2011, è anche presidente della Conferenza episcopale haitiana (Ceh) dal
dicembre dello stesso anno. Papa Francesco lo nomina cardinale il 12 gennaio
2014, quarto anniversario del terremoto ad Haiti. È durante il concistoro del
22 febbraio dello stesso anno che mons. Langlois riceve le insegne
cardinalizie.

«Accolgo questa nomina come una grazia per Haiti»
dichiara in una prima intervista all’agenzia Alterpresse il
giorno della nomina.

Tra i cardinali più giovani (56 anni), mons. Langlois è
figlio di contadini del comune La Vallée de Jacmel, zona rurale e impervia nel
Sud Est di Haiti.

Uomo estremamente dinamico, si è subito distinto dopo il
terremoto del 2010 per la ricostruzione morale e materiale del paese.

Ha assunto, inoltre, un importante ruolo di mediazione
politica nella grave crisi tra il presidente della Repubblica, i partiti e
altre parti sociali, tra fine 2013 e il 2014, promuovendo l’iniziativa di
riconciliazione nazionale «Insieme per il bene di Haiti».

È attualmente membro del Pontificio consiglio Giustizia
e Pace e della Pontificia commissione per l’America Latina.

Molto disponibile, nonostante la sua agenda
sovraccarica, ha accettato di incontrare MC in esclusiva lo scorso 31 gennaio
ad Haiti.

Papa
Francesco ha richiamato l’attenzione su Haiti convocando un incontro
internazionale in Vaticano il 10 gennaio scorso. Quali risultati ha portato?

«Abbiamo
accolto con gioia l’organizzazione (da parte del Pontificio Consiglio Cor
unum
e della Pontificia commissione per l’America Latina, ndr) di
questo incontro. Ci attendevamo molto da esso. A cinque anni dal terremoto
volevano sapere come è andata la ricostruzione, e che speranze abbiamo ad
Haiti. Io sono soddisfatto di questo incontro, perché ha avuto il risultato di
incoraggiare le “chiese sorelle” e gli organismi che hanno l’abitudine di
aiutare Haiti. C’è stata una risposta molto positiva e massiccia da parte degli
invitati a questo incontro.

La strada è stata tracciata dal Papa stesso che ha
insistito sul fatto che l’essere umano è al centro dell’azione ecclesiale.
L’evangelizzazione concee gli uomini e le donne, comprendendo l’ambiente e
tutto quello che aiuta a sviluppare le dimensioni dell’essere umano, e ne aiuta
la realizzazione.

Il secondo punto verteva sulla comunione che ci deve
essere tra chiese sorelle e la chiesa locale e pure tra le diverse istituzioni
facenti parte della chiesa haitiana. Il papa ha sottolineato che dobbiamo agire
uniti, perché siamo tutti membra di un corpo, e per questo è importante la
cornordinazione delle azioni ecclesiali e l’unità tra i diversi attori sul
terreno.

Nel terzo punto il papa ha sottolineato l’importanza
della chiesa locale, perché è attraverso essa e le sue istituzioni che la
missione si fa molto più tangibile. Ecco perché occorre rinforzarla. E penso
che questo sia particolarmente importante ad Haiti perché abbiamo una chiesa
che si cerca ancora, nel senso che sta cercando di rendere solide le proprie
basi per meglio rispondere alle esigenze di evangelizzazione nel paese.

Questi tre punti orientano le azioni da realizzare sul
terreno, e le relazioni con le chiese sorelle e le diverse istituzioni. Per me è
già un buon risultato sapere che abbiamo queste indicazioni. Dobbiamo dunque
lavorare per avere dei risultati palpabili, concreti. Noi della Conferenza
episcopale e le diverse istituzioni dobbiamo lavorare per materializzare quello
che il papa ha detto il 10 gennaio, così gli organismi e i diversi
partecipanti, devono lavorare in concerto con noi».


La
chiesa cattolica ha giocato un ruolo importante in questi cinque anni dopo il
terremoto. Può tracciare un bilancio?


«A livello di ricostruzione la priorità è stata data
all’accompagnamento delle vittime. Ci sono stati feriti, morti, famiglie molto
colpite. Ci sono state conseguenze non solo dal punto di vista fisico ma anche
psicologico, e sul piano della fede. La chiesa ha accompagnato donne, uomini,
bambini e giovani a riprendersi. Accompagnamento psicologico, ma anche
materiale: alloggio, cibo, salute, educazione. In tutte le diocesi. Perché
molte persone hanno lasciato Port-au-Prince per andare nelle altre diocesi.
Allora ci accordavamo su come accogliere questi profughi. Quindi la priorità è
stata data alla ricostruzione della persona umana. Anche dal punto di vista
della fede.

C’è stato chi ha diffuso l’idea che il terremoto sia
stato voluto da Dio per castigare Haiti. Noi abbiamo detto che è stata una
catastrofe naturale. Dio ci ama e ci aiuta e certo non ha voluto colpire gli
haitiani. Abbiamo accompagnato dunque le persone affinché potessero riprendere
coraggio.

In secondo luogo abbiamo dovuto anche lavorare per la
ricostruzione materiale. Abbiamo messo in piedi delle istituzioni con le chiese
sorelle degli Usa, Germania, Francia, Repubblica Dominicana. Abbiamo potuto
fare la nostra parte. Si va avanti lentamente, occorre costruire con tecniche
anti sismiche e anti cicloniche, in modo diverso rispetto a prima. Anche per
questo è stato necessario molto tempo.

Ma occorre anche che i fondi siano gestiti in modo
trasparente. Per questo motivo abbiamo creato un’équipe che aiutasse nella
gestione. Ricostruire bene e gestire bene è necessario per restare in perfetta
comunione con i nostri partner, che da parte loro devono rendere conto di
quello che fanno per Haiti.

Ultimamente abbiamo usato dei fondi per la ricostruzione
di chiese, e questo costa caro oggi. A Port-au-Prince la priorità è stata data
a chiese, canoniche, scuole, conventi distrutti. Così anche a Jacmel e a
Nippes. Le chiese di Grand Goave, Miragoane, una chiesa a Pétion-Ville. E
l’importante chiesa del Sacro Cuore a Pacot, in capitale. Abbiamo anche
ricostruito alcune scuole a Port-au-Prince con l’aiuto di Cor unum. Sono
dei passi che sono stati fatti, ma ad Haiti noi vorremmo che si andasse avanti
molto più rapidamente. C’erano molte diocesi che aspettavano aiuti anche prima
del terremoto, ma con l’evento si è fermato il processo in corso per rispondere
all’emergenza. C’è una certa impazienza, ma occorrono fondi, tecnica, buona
gestione.

L’équipe della Ceh ha inventariato i bisogni: sulla
lista di 200 progetti, circa 130 non sono ancora stati attivati».

Il
paese attraversa oggi una grave crisi politica, e c’è anche un contesto sociale
esplosivo. La chiesa cattolica sta giocando un ruolo molto importante. Può
spiegarcelo?

«Abbiamo assunto un ruolo di mediazione e anche di
accompagnamento. La chiesa ha sempre accompagnato il popolo haitiano nei
momenti difficili. Per questo, l’anno scorso abbiamo offerto il nostro servizio
per aiutare gli attori politici a dialogare. Abbiamo organizzato degli incontri
di lavoro. Siamo riusciti a raggiungere un accordo tra le parti che però,
purtroppo, non ha portato ai risultati desiderati. Ma ha aiutato la gente ad
andare avanti nel dialogo e nel cercare altre soluzioni. Siamo arrivati a oggi.
È vero che c’è una situazione piuttosto esplosiva, ma finalmente non si possono
evitare le elezioni, occorre organizzarle (vedi box).

Ancora oggi la chiesa non è lontana da questa realtà ma
continua ad accompagnare nella misura delle sue possibilità. Siamo sempre
pronti ad aiutare gli attori a dialogare. La situazione è piuttosto delicata,
dobbiamo trovare il modo di favorire la realizzazione delle elezioni e avere
delle persone elette dalla popolazione che possano gestire il paese secondo dei
criteri democratici».

Ma
qualcuno potrebbe dire che la chiesa non deve immischiarsi nelle questioni
politiche. Cosa risponderebbe?

«Bisogna evitare la confusione in quelli che chiamiamo “affari
politici”. C’è l’impegno in attività politiche, che riguarda persone attive nei
partiti e poi nella gestione di beni e del potere. Noi non interveniamo a quel
livello. Noi siamo impegnati ad aiutare gli attori a incontrarsi e a dialogare,
per trovare il cammino che possa portare a gestire meglio il paese e a offrire
alla popolazione la possibilità di una società più giusta, la pace e la serenità
per occuparsi delle loro attività. Noi non siamo dunque impegnati in modo
attivo nella politica. E quindi ci ritireremo e continueremo il nostro lavoro
di evangelizzazione, con atti di carità e con tutte le nostre istituzioni, le
parrocchie, le commissioni episcopali e parrocchiali, per accompagnare fedeli e
popolazione».

E
papa Francesco vi ha incoraggiati in questo ruolo di mediazione?

«Non abbiamo bisogno di una parola diretta del papa su
questa realtà per incoraggiarci. Di fatto il papa ci incoraggia tramite la
Commissione pontificia Giustizia e Pace, di cui io faccio parte. Questo
significa che il papa accoglie favorevolmente l’accompagnamento che diamo qui,
perché è suo desiderio che la chiesa susciti la giustizia sociale, ovvero
favorisca un ambiente in cui le persone possano sentirsi fratelli, nella realtà,
senza vivere gli uni contro gli altri, come se fossimo in guerra. Siamo
chiamati sviluppare una una cultura di giustizia e una cultura dell’amore e
della carità. E qui la chiesa ha il suo ruolo da giocare».

La
mediazione sta continuando o siamo in una fase di puro accompagnamento?

«In maniera esplicita, come abbiamo fatto prima (durante
il 2014, ndr), la mediazione non continua, ma con l’équipe che è
stata messa in piedi continuiamo a riflettere per vedere quando e come
intervenire in modo tale da migliorare la situazione. Facciamo degli incontri
per riflettere sulla realtà e portare il nostro apporto nella risoluzione della
crisi».

Guardando
la situazione di oggi, con un governo non legittimato, un Parlamento non
funzionante e un nuovo Consiglio elettorale (vedi box), secondo lei cosa
succederà? Che speranze ci sono?

«Siamo a un bivio per cui il governo non può non
organizzare le elezioni, perché altrimenti conosceremo una situazione ancora
peggiore. Per far questo ognuno deve portare il suo contributo per la
costruzione di un contesto che possa aiutare allo svolgimento dello scrutinio.
Se questo avvenisse è sicuro che si andrebbe verso una normalizzazione della
situazione. È questo che speriamo e dovrebbe essere il desiderio di tutti.
Volere che il paese ritrovi una situazione di pace. Per questo pensiamo che la
maggioranza degli haitiani vuole le elezioni, per cambiare i dirigenti a
livello del governo e avere della gente capace di gestire il paese secondo
criteri democratici attraverso istituzioni democratiche».

La
comunità internazionale ha sempre giocato un ruolo molto forte in Haiti. Come
vede la sua influenza nel contesto di oggi?


«Non possiamo funzionare in modo isolato. Ai giorni
nostri il pianeta è interconnesso. Vuol dire che abbiamo bisogno dell’apporto
della comunità internazionale per arrivare all’organizzazione di buone elezioni
nel paese, avere osservatori inteazionali, un aiuto finanziario, consigli per
risolvere la crisi. Non possiamo tagliare le relazioni con la comunità
internazionale. Quindi è buona cosa che ci accompagni, ma ben inteso, non
significa fare al nostro posto, quanto piuttosto darci l’illuminazione affinché
noi siamo in grado di organizzare delle buone elezioni e scegliere i politici
idonei per ben gestire il paese».

E
cosa pensa delle organizzazioni inteazionali sbarcate in gran quantità dopo
il terremoto?


«Il papa ha appena detto che occorre rinforzare la
chiesa locale: qui c’è la Caritas Haiti e in ogni diocesi c’è una Caritas
diocesana. Occorre dunque rinforzare queste Caritas. Succede invece che vengono
dati soldi ad organizzazioni terze venute dall’estero. È importante che la Cei
e Caritas Inteationalis sostengano direttamente la nostra Caritas.

Se il papa parla in questo modo è per evitare che si
moltiplichino in eccesso gli interventi sul terreno, a nome della chiesa. La
chiesa locale deve assumere la sua responsabilità nei confronti della gente, ma
per questo ha bisogno dell’appoggio della comunità internazionale e delle
istituzioni sorelle.

Sarebbe importante non frammentare i diversi interventi. È
quello che è successo dopo il terremoto: diverse Caritas sono arrivate ad Haiti
e si sono installate. Molte hanno aiutato la Caritas Haiti, ma allo stesso tempo
hanno fatto i loro progetti. A volte c’è stata duplicazione, a volte molti
soldi sono stati spesi in amministrazione o nell’acquisto di veicoli e affitto
di case. E questo ha fatto sì che la popolazione alla quale questi soldi erano
destinati abbia ricevuto solo una piccola parte di essi. Ci lamentiamo molto di
questa situazione in Haiti.

Se un’altra istituzione viene a lavorare ad Haiti deve
farlo in cooperazione, in comunione con la struttura locale, per dare anche una
visibilità alla chiesa locale. Non escludiamo il partenariato».

 

A
livello sociale vediamo un grande scontento rispetto all’esecutivo attuale,
perché forse la gente sperava in qualcosa che non è arrivato. E la crisi è
peggiorata. Cosa bisognerebbe fare e che programma ha la chiesa a livello
sociale?

«A livello sociale la situazione è molto tesa. Occorre
dire che la gente sta vivendo un momento disastroso, nel senso che molte
famiglie vivono in povertà, manca lo stretto necessario. Per questo è una
situazione davvero esplosiva. Sarebbe importante che noi chiesa riuscissimo ad
accompagnare le nostre comunità per arrivare a una normalizzazione della
situazione sociale. Ma la chiesa ha potuto dare l’accompagnamento nei limiti
delle sue capacità. Noi chiesa haitiana viviamo la crisi del nostro paese. Per
questo sarà ancora necessario il supporto delle chiese sorelle per aiutare la
gente. Ma chiese e istituzioni sorelle devono intervenire per fare in modo che
la chiesa haitiana faccia il lavoro di accompagnamento e di evangelizzazione
della popolazione. Gli haitiani conoscono la loro chiesa e sanno che ha
attualmente ha grossi problemi economici».

Marco Bello




Anno 2015: elezioni
necessarie per uscire dalla crisi infinita

I fantastici 9 per
salvare il paese

Il
paese sta attraversando una grave crisi politico – sociale. L’esecutivo del
presidente Michel Martelly non è stato in grado di organizzare alcun tipo di
elezione, alcune delle quali, le amministrative, sono in ritardo di 4 anni.
Scaduti i sindaci e i consigli comunali, il presidente ha proceduto per nomine
dirette dal ministero dell’Inteo. L’ultima impasse, dell’ottobre 2014, è
anche dovuta ad alcuni senatori che bloccano la modifica della legge
elettorale.

Si è arrivati quindi, al 12 gennaio scorso, alla
scadenza del mandato della camera dei deputati e di due terzi dei senatori (ad
Haiti il Senato si rinnova un terzo ogni due anni, mentre la camera ogni 4 anni
e il presidente della Repubblica resta in carica 5 anni). Il Parlamento è
dunque tecnicamente «non funzionante» con solo 10 senatori attivi.

La
crisi, che si trascina dal 2013, ha visto un tentativo di mediazione importante
da parte della Conferenza episcopale haitiana. Solo a fine 2014, il presidente
Martelly, allarmato soprattutto dalla pressione delle manifestazioni di strada,
aveva iniziato a cedere su alcuni punti con l’opposizione. A dicembre il primo
ministro Laurent Lamothe, fedelissimo di Martelly, aveva dato le dimissioni,
per essere sostituito dall’oppositore Evans Paul, politico di lungo corso,
cresciuto nei movimenti sociali. Ci si aspettava un grosso cambiamento di
governo con l’ingresso massiccio dell’opposizione. In realtà, Evans Paul ha
cambiato solo una parte dei ministri, e qualcuno parla di «governo fotocopia».

Il primo ministro non ha fatto però in tempo a
presentare la sua politica al Parlamento e avere la fiducia, perché questo è
scaduto, e il suo è diventato un «governo de facto».

Importante l’accordo, in extremis, dell’11 gennaio tra
il presidente Martelly e alcuni partiti d’opposizione. I partiti più radicali
non negoziano, piuttosto fomentano le folle e organizzano manifestazioni che
chiedono le dimissioni del presidente. Si tratta di Fanmi Lavalas, il partito
di Jean-Bertrand Aristide, della coalizione Mopod, e di Pitit Dessaline.

«L’accordo dell’11 gennaio ha fatto sì che il paese non
sia esploso, perché sarebbe stato possibile. Il presidente ha accettato di
rifare completamente il Consiglio elettorale provvisorio (Cep)», ci dice
Ricardo Augustin, vice preside all’Università Notre-Dame d’Haiti e già membro
nell’équipe di mediazione politica condotta dalla Ceh nel 2014.

Il punto è cruciale: il Cep è l’organo che gestisce le
elezioni. Da quando è stato eletto, Martelly ha voluto imporre la maggioranza
dei propri uomini sui nove membri che lo compongono. È la prima volta che cede
e accetta che il Cep sia fatto secondo i dettami dell’articolo 289 della
Costituzione: ovvero ogni membro sarà espressione di un settore della società
civile, e non di partiti politici o dei tre poteri. È il quinto Cep dell’era
Martelly, ed è l’unico segno di speranza nella crisi.

 

Il
23 gennaio il nuovo Cep è entrato in funzione con l’obiettivo di organizzare,
entro l’anno, elezioni amministrative, politiche e presidenziali. Ricardo
Augustin ne fa parte in qualità di rappresentante scelto dalla Conferenza
episcopale haitiana
(Ceh). «Si può dire che è l’unica istituzione che
attualmente ha una certa legittimità» ricorda Augustin in un perfetto italiano.
«Fino adesso non sento sfiducia nei confronti del Cep, anche grazie al profilo
delle persone che lo compongono. I diversi settori dicono: vediamo i primi
passi. Io, dopo la nomina, sono stato subito chiamato da un politico
dell’opposizione radicale, mi ha fatto i complimenti».

Il nuovo Cep si è subito messo al lavoro. Occorre
verificare i tempi tecnici e i mezzi economici e definire un calendario
elettorale. Le opzioni sono due: dividere le legislative dalle presidenziali,
iniziando le elezioni a luglio per poi passare a ottobre, oppure indire
elezioni generali. «Abbiamo delle scadenze che ci vincolano. La lista
elettorale deve essere chiusa 90 giorni prima della data delle elezioni. Ma
oggi almeno un terzo degli elettori ha la tessera scaduta. Questa è un’altra
preoccupazione su cui decidere» ricorda Augustin.

Il 10 febbraio il Cep propone un calendario elettorale
con la prima opzione, ma viene duramente criticato dai partiti politici.

«Adesso non c’è aggressività nei confronti del
consiglio. Suppongo perché questo Cep è composto da tecnici e quindi non ci
sono interessi politici immediati. La sfida per noi è riuscire a mantenere una
coesione nel gruppo, fare sì che le decisioni al nostro interno siano sempre
democratiche, con votazione per ogni decisione: siamo 9 e quindi si decide
almeno in 5».

Le
manifestazioni dei gruppi più radicali, che hanno spesso risvolti violenti,
possono avere una grande influenza su questo processo così delicato: «Per noi
l’obiettivo è anche creare un clima che permetta la realizzazione delle
elezioni. Se continuano queste manifestazioni la situazione diventa critica. La
questione è politica. Con questo comportamento possono arrivare a bloccare
tutto e impedire le consultazioni. Ma se non si fanno, è peggio per tutti».

Marco Bello

 

Marco Bello