Sulle Sponde del Gila River

Le missionarie della
Consolata aprono in una riserva indiana

Molti italiani
conoscono l’Arizona, il Gila River e gli indiani Pima più che altro attraverso
le pagine di Tex Willer, uno dei più longevi fumetti italiani. Quattro suore,
inossidabili nella loro passione per il Vangelo, da meno di un anno stanno
scrivendo una nuova avventura missionaria proprio in quelle assolate terre.

Dal primo agosto 2014, abbiamo iniziato la nostra
missione in una riserva indiana, Gila River Indian Community, in
Arizona, 60 chilometri a Sud Est di Phoenix, nel Sud Ovest degli Stati Uniti.
La riserva si trova nella diocesi di Phoenix, che da alcuni anni assicura la
celebrazione dell’eucarestia domenicale grazie al servizio volontario di alcuni
preti in pensione che coadiuvano il direttore diocesano del Native American
Ministry
, Fr. Gregory Rice, un missionario Mill Hill che è stato in
Pakistan per diciassette anni.

Nella
riserva ci sono sei suore Franciscan Sisters of Charity di Manitowoc,
Wisconsin, che gestiscono esclusivamente la scuola cattolica di St. Peter,
dedicata all’educazione elementare e media dei bambini nativi.

Questa
comunità di religiose è ciò che rimane del gruppo missionario che si è speso al
servizio pastorale ed educativo alla popolazione nativa dal 1896.
Francescani/e, le suore di St. Joseph of Carondelet, di St. Joseph of Orange e
i Fratelli delle Scuole Cristiane si sono susseguiti nel prestare il loro
servizio religioso-educativo fino al 1990. Il famoso collegio St. John’s
High School
, che ha educato migliaia di bambini e giovani, non esiste più.
Rimasto inabitato, è stato più volte vandalizzato e anche dato alle fiamme.

La
popolazione, di circa ventimila persone, appartiene alle tribù A’kimel O‘odham
(Pima) e Pee-Posh (Maricopa). Il territorio copre 1.512 km2
circa, diviso in sette distretti. Gli uffici dell’amministrazione tribale si
trovano a Sacaton, dove la nostra comunità risiede. La comunità tribale
gestisce la propria compagnia telefonica ed elettrica, ospedale, clinica, e
pubblica mensilmente il proprio giornale.

Sfortunatamente, la riserva ha uno dei più alti tassi di
diabete, tipo 2, nel mondo, circa il 50%. Per questo motivo, la comunità ha
contribuito a testare dati importanti per la ricerca in questo campo,
partecipando anche a studi approfonditi su questa malattia. Il tasso così alto è
dovuto anche all’alimentazione a base di molti grassi, carboidrati e cosiddetti
fast food. Infatti, l’obesità è altissima e l’indice di mortalità tra
giovani adulti è impressionante.

La gente è molto affabile e ci ha accolto con tanto
calore. Infatti, la prima domanda che ci hanno fatto è stata: «Siete qui per
rimanere?». Per anni una o due religiose hanno prestato un servizio volontario,
ma rimanevano uno o due anni e poi, per vari motivi, ritornavano alle loro
comunità.

I
bambini sono quelli che rubano il cuore. Dopo alcune domeniche di presenza
nelle loro piccole e povere cappelle sorridono al vederci spuntare e se
arrivano tardi a messa, cosa che succede tutte le domeniche, senti le loro
braccia intorno alla vita con quel bel sorriso e con quegli occhietti birichini
che sembrano dirti «Tardi, ma sono qui».

Per
ora partecipiamo all’Eucaristia domenicale in quattro missioni: St. Anthony,
St. Ann, Holy Family e Our Lady of Victory (vedi mappa qui sotto).
Collaboriamo all’educazione religiosa di bambini e adulti che si preparano ai
sacramenti, visitiamo gli ammalati, e assistiamo a tutti gli eventi a cui la
gente ci invita. Questo ci permette di entrare adagio e con semplicità nella
loro vita e conoscere il loro costume.

 

Consideriamo il nostro servizio tra i membri di
questa comunità nativa un onore e l’essere le prime missionarie della Consolata
assegnate a lavorare nella Gila River Reservation un privilegio.
Infatti, i nativi sono il gruppo etnico più dimenticato. La storia di
oppressioni e umilianti leggi ha contribuito a rendere questa popolazione
invisibile, per questo, generalmente, la gente ha una stima di sé bassissima.
Si attribuisce a questo l’alta percentuale di suicidi giovanili, l’alcolismo,
la droga, studenti rinunciatari (64%) e la partecipazione in gangs.

Noi
viviamo in questo spazio che è pur sempre sacro perché qui cammina la persona
umana e Gesù. Egli ci invita a contemplare il suo volto nei giovani
rinunciatari, nelle ragazze madri che lasciano i piccoli alla cura della nonna,
nelle donne vittime di violenze e abusi, e nelle vittime della droga e
alcolismo, e ad essere fra di loro una presenza rispettosa di consolazione.

Vogliamo,
come spesso esorta Papa Francesco, essere «pastore con lo stesso odore delle
pecore», per comunicare loro quanto siano preziose e care.

Riccardina Silvestri

tags: MdC, missione, Indians, popoli indigeni

Riccardina Silvestri




Adorabile Factotum

Ricordando Giancarlo?Pegoraro

Meccanico, idraulico,
muratore, carpentiere, falegname, camionista, ma anche animatore: Giancarlo
Pegoraro è stato un grande missionario laico. Un suo ricordo nelle parole di
Paolo
Deriu, amico e compagno di missione.

 

Giancarlo arrivò a Milaico
(Missionari laici della Consolata) di Nervesa della Battaglia, in provincia di
Treviso, nell’aprile del 1998, per formarsi e prepararsi a partire per l’Africa
o il Sudamerica, come missionario laico della Consolata.

Uomo
di opinioni forti e dalla voce potente, non passava inosservato. Con sé, portò
una ventata di entusiasmo e voglia di impegnarsi. Aveva fatto tanti mestieri:
camionista, elettricista, meccanico d’auto, muratore, operaio di calzificio.
S’intendeva di motori aeronautici e gli piaceva fare il pasticciere, senza
dimenticare che era anche boy scout e suonatore di «basso tuba» nella banda del
suo paese. Un personaggio, insomma.

A
Milaico si impegnò senza risparmio come animatore missionario e si dedicò ai
molti lavori di manutenzione che una casa grande come quella di Nervesa
richiedeva, per esempio, riparare le imposte, sistemare l’impianto elettrico o
quello idraulico. Soprattutto, divenne il nostro cuoco. Tra le sue specialità,
quelli che chiamava i «piatti da meditazione», passati di verdura e altro ben
spessi, che richiedevano un certo tempo di digestione, utili appunto per
riflettere sulla propria vita interiore.

Oltre
a essere un grande lavoratore, aveva una inesauribile voglia di imparare. Non
sapeva nulla di informatica, ma seguì con passione le nostre lezioni, poi
continuò a formarsi da solo, così che «superò i maestri» e divenne un esperto.

Come destinazione, inizialmente, ci venne indicato
il Kenya. Così il buon Giancarlo si diede di buona lena ad imparare l’inglese e
in breve lo sentimmo pronunciare le prime frasi in questa lingua, rispondendo
ad un registratore. Tuttavia, cambiò il paese di destinazione e nella primavera
del 1999, finalmente si concretizzò la partenza per una missione in Mozambico,
nell’Africa meridionale. Dopo qualche mesetto in Portogallo, per perfezionare
la lingua portoghese, Giancarlo prese l’aereo per Maputo, la capitale, e – in
attesa che arrivassi anch’io, una settimana dopo -, si fece conoscere come
factotum nella Casa Regionale Imc di quella città.

Arrivammo
a Mecanhelas (nella regione del Niassa, Mozambico settentrionale), la nostra
missione, la notte del 10 maggio. Trovammo padre Franco Gioda, padre Rogelio
Alarcòn e le bambine dell’«infantàrio» (centro nutrizionale), che ci accolsero
con canti, danze e torte da loro preparati.

Il
giorno dopo ci fecero conoscere la parrocchia, i suoi animatori e i suoi
operai. Tutta la missione contava circa 60 mila abitanti e 170 comunità
cristiane. Giancarlo venne nominato responsabile tecnico: si sarebbe occupato
dei mille lavori che una missione comporta e anche della formazione
professionale di manovali e operai specializzati. Il suo campo d’azione divenne
l’officina, che provvedeva alla manutenzione degli autoveicoli e dei mulini.

La
veneranda Land Rover dei missionari aveva le portiere che si chiudevano con le
corde e i freni ad azione ritardata (a volte nulla). Il camion, invece,
bisognava spingerlo, perché si mettesse in moto.

Oltre
ai veicoli, Giancarlo, o Genki come amava essere chiamato, cominciò a
preoccuparsi dei mulini a motore della parrocchia (frequentati da una numerosa
clientela, poiché non sottraevano farina durante la macinatura dei cereali, a
differenza di altri mulini di proprietà privata). Uno dei mulini perdeva circa
un litro d’olio al giorno, che si spandeva sul pavimento. Gli sforzi di
Giancarlo per insegnare al mugnaio a inserire una lamiera che raccogliesse le
gocce di lubrificante prima che cadessero a terra furono leggendari. Solo dopo
varie settimane, con le orecchie piene delle urla del nostro missionario laico,
il mugnaio si convinse che non era il caso di raccattare con le mani l’olio
disperso sul pavimento per rimetterlo nella macchina.

Un
discorso a parte furono i diversi progetti per costruire scuole, centri di
catechesi, cappelle e ambulatori, sparsi un po’ per tutta la missione.
Giancarlo era frequentemente richiesto per andare in giro a sovrintendere a
tutti i cantieri edili. Un suo sogno era un bel camion-laboratorio, con tutti
gli ultimi ritrovati della tecnologia, purtroppo era un po’ troppo caro per
riuscire a renderlo realtà.

Nelle sue peregrinazioni, Giancarlo non passava
inosservato. La gente lo vedeva transitare di buon mattino con il suo «passo da
alpino» (era, in effetti, un appassionato di montagna) diretto alla fuoristrada
o a un autobus, caricando un enorme zaino pieno di utensili e ricambi e
commentava: «Che grinta, sembra un soldato, chissà come è forte».

Un’altra
meta dei suoi viaggi era il Malawi, dove si recava a caccia di parti di
ricambio decenti. Approfittava di questi viaggi per dare uno strappo ai malati
della parrocchia, che avevano bisogno di cure specialistiche per cataratta agli
occhi, eie, varie forme tumorali. Quando invece andava nella città di
Nampula, in Mozambico, a oltre 400 Km dalla parrocchia, se poteva, caricava
malati di mente, diretti al locale ospedale psichiatrico.

Giancarlo
infatti non si occupava solo di risolvere guasti tecnici o di dirigere lavori
edili. Si preoccupava dei più deboli, tra cui appunto i malati, e gli stavano
molto a cuore anche i bambini del Centro nutrizionale con cui trascorreva i
momenti della sera o la domenica. I bambini erano molto contenti di averlo con
loro, avevano bisogno di un punto di riferimento maschile, essendo le
educatrici tutte donne.

Importante
per Giancarlo era la formazione professionale dell’équipe di meccanici,
falegnami, muratori e manovali (erano circa 70 lavoratori) con cui lavorava.
Abituato a un approccio sincero con la gente e a parlare forte e chiaro, per
Giancarlo fu difficile, all’inizio, comprendere un particolare tratto culturale
del popolo Makua, che ci aveva accolti. Ai Makua, infatti, non piace dire di «no»
a una domanda di un ospite straniero, perché non vogliono causargli un
dispiacere. Quindi poteva capitare che i lavoratori-alunni rispondessero sempre
di «sì», durante la formazione, alle domande di Giancarlo, anche se magari non
avevano capito un bel niente. Quando durante le esercitazioni pratiche veniva
fuori la verità, il poveretto aveva un bel sgolarsi per ripetere i concetti.

Comunque,
con il tempo, l’équipe tecnica di Mecanhelas imparò a dialogare con Giancarlo
(anche familiarizzando con espressioni del dialetto mantovano che il nostro
tanto amava) e ad apprezzae la professionalità.

Rientrato
da Mecanhelas nell’aprile 2002, Giancarlo rimase per un anno come animatore
missionario e factotum a Milaico, poi rispose di nuovo al richiamo della
missione e, nel 2003, rientrò in Mozambico dove riprese a lavorare come
meccanico, idraulico, muratore, falegname, camionista nelle missioni del Nord e
del Centro e ovunque lo chiamassero per riparare auto, installare generatori,
scavare pozzi. La sua ultima missione è stata Nova Mambone, dove sovrintendeva
alle saline, importante fonte di reddito della locale missione.

 

Missionario senza secondi fini o ipocrisie,
Giancarlo diceva chiaramente quello che pensava e dedicava ogni sua energia nel
lavoro di manutenzione e direzione tecnica e in quello di evangelizzazione.
Prendeva molto a cuore ogni suo impegno e soffriva quando temeva di non
riuscire a risolvere qualche problema, ma la sua perseveranza faceva sì che
questo succedesse di rado.

Nella
sua stanza, si poteva trovare la Bibbia, come anche utensili e parti di
ricambio, sistemati anche sotto il suo letto, giacché la sera o il mattino
presto, non erano per lui necessariamente tempi di riposo. Ci teneva a rimanere
in contatto con le realtà dei missionari laici della Consolata, soprattutto in
Portogallo e partecipava volentieri alle assemblee che venivano organizzate.

La
sua salute non era delle migliori. Al mattino, a colazione, ci comunicava il «bollettino
medico» della notte trascorsa, tra spifferi, dolorini e altro. Ma non era uno
che si lamentasse e ne parlava con allegria. Purtroppo, all’improvviso, il 31
gennaio scorso, la malattia ha vinto, ma solo sul suo corpo. Giancarlo continua
a vivere nel ricordo della gente di Mecanhelas e delle altre missioni in cui ha
servito, tra coloro che ha formato come specialisti e quelli con cui ha
condiviso giornie e dolori della vita. Senza mai chiudere la porta in faccia a
nessuno.

Paolo Deriu

Tags: laici, volontariato, missione, Pegoraro, Milaico

Paolo Deriu




Per un pezzo di terra

L’antisionismo degli Ebrei
Ortodossi
Non tutti gli ebrei
sono favorevoli allo stato di Israele. L’antisionismo si può incontrare, ad
esempio, tra molti ebrei ortodossi. Quelli aderenti ai movimenti «Satmar»,
«Agudat Yisrael», «Bund», «Edah Haredit» e «Neturei Karta» sono forse i più
intransigenti. Si tratta di un fenomeno poco conosciuto, ma presente, la cui importanza
è destinata a crescere.

Nel 1896 Theodor Herzl (1860 – 1904)
ripropose all’attenzione del mondo ebraico un’idea non certamente nuova, ma che
alla fine del XIX secolo cominciava a prendere piede tra le comunità
israelitiche: la creazione o, come disse lo stesso Herzl, la «restaurazione» di
uno stato che potesse ospitare giudei da tutto il mondo.

Prendendo spunto dal caso Dreyfuss (Francia, 1894, ndr) e dai moti antisemiti che
sconvolgevano l’Europa in quegli anni, Herzl sosteneva che «invano siamo leali
patrioti […] invano facciamo gli stessi sacrifici […] che fanno i nostri
connazionali; invano contribuiamo a incrementare la fama della nostra terra
natia nelle scienze e nelle arti o ad arricchirla con il commercio. Nei paesi
dove viviamo da secoli continuiamo ad essere considerati stranieri».

Secondo Herzl era dunque necessaria la creazione di uno
stato ebraico: «Garantiteci un pezzo di terra grande a sufficienza per
costruirci una nazione; penseremo noi a mantenerci».

In verità Herzl non propose il ritorno in Palestina.
Anzi, al primo Congresso sionista, svoltosi a Basilea nel 1897, indicò l’Uganda
come possibile luogo in cui insediare il popolo ebraico.

Il piano di insediamento avrebbe dovuto essere sviluppato
dalla Società degli ebrei e dalla Jewish Company che avrebbero
cornordinato la liquidazione degli interessi ebrei negli stati d’origine, il
trasferimento nella nuova terra, gli aspetti logistici dei nuovi insediamenti. «I
poveri dovranno andare per primi per disboscare terreni e coltivare i campi […]
costruiranno strade, ponti, ferrovie, telegrafi; regoleranno i letti dei fiumi
e costruiranno le loro case».

Nascita
dell’antisionismo: l’Agudat Yisrael

La
proposta fu quasi subito contrastata da alcuni gruppi di ebrei ortodossi
tedeschi, ungheresi e polacchi che, nel 1912 fondarono l’Agudat Yisrael (o
Agude), opponendosi alla secolarizzazione proposta dal sionismo. L’Agude era il
movimento più in vista della galassia antisionista ebraica: altre
organizzazioni, nate dopo quella teorizzata da Herzl, come il Bund (un
movimento socialista ebraico), avversavano la fondazione di uno stato ebraico
e, con esso, l’aliyah, la migrazione degli ebrei verso la Terra
Promessa (Eretz
Yisrael).

Attoo
ai gruppi antisionisti gravitavano pensatori autonomi che, con il loro
contributo, davano spessore filosofico e culturale all’antisionismo.

Uno di
questi, e anche uno dei primi a criticare il sionismo, fu Hermann Cohen
(1842-1918), filosofo tedesco neokantiano e contemporaneo di Friedrich Nietzsche,
secondo cui l’unica possibilità che le comunità ebraiche avrebbero avuto per
sopravvivere sarebbe stata quella di perseguire una politica di «integrazione
nella modea nazione-stato». Insomma, rimanere nei paesi in cui si trovavano
cercando di partecipare, a diversi livelli, alle attività politiche, sociali ed
economiche degli stessi. Cohen negava, dunque, la necessità di possedere una
terra che ospitasse gli ebrei, contrapponendosi alla tesi di Herzl.

Ma se
Hermann Cohen basava la sua tesi su una visione prettamente pragmatica e non
discostando il suo pensiero dal secolarismo, un suo seguace, Steven
Schwarzschild (1924-1989), sviluppando le sue tesi pacifiste attraverso un
intenso dialogo con Thomas Merton, spostò il dibattito sull’ambito religioso.

Schwarzschild
presagì, come la filosofa e scrittrice Hannah Arendt (1906 – 1975), che la
nascita di Israele avrebbe rischiato di portare un insanabile conflitto con i
palestinesi e avrebbe contribuito a far prevalere la concezione secolare di
stato su quella religiosa. In questo modo, secondo il filosofo e rabbino
tedesco, il sionismo avrebbe allontanato pericolosamente gli ebrei da Dio.

Il movimento Satmar

Il
pensiero di Schwarzschild fu influenzato anche da un altro rabbino
antisionista: Joel Teitelbaum (1887-1979), fondatore del movimento Satmar,
il primo grande gruppo di ebrei ortodossi che si oppose (e che tuttora si
oppone) allo stato di Israele. Il Satmar, che deve il nome al villaggio della
Transilvania di Satu Mare, nacque l’8 settembre 1905. Teitelbaum fu, tra gli
ebrei ortodossi, il più radicale nel condannare il sionismo. Il punto di
partenza da cui il rabbino – e, in seguito, tutti i movimenti religiosi venuti
dopo il Satmar – prese le mosse per argomentare la sua contrarietà allo stato
israeliano fu la trattazione di un passo del Talmud (testo sacro dell’ebraismo, ndr) di Babilonia
(ketubot 111a) secondo cui il popolo ebraico, in passato, ebbe sigillato un
patto con il Signore in base al quale:

1. Israele
(Eretz Yisrael) non avrebbe «eretto un muro» (cioè non
avrebbe conquistato la terra promessa con la forza);

2.
Israele che non si sarebbe ribellato contro le nazioni del mondo (cioè gli
ebrei avrebbero obbedito ai governi del loro esilio);

3. i popoli
non ebrei non avrebbero oppresso troppo Israele.

Tradire
quel patto con la fondazione di uno stato di Israele avrebbe trasformato il
sionismo nella «più grande forma di impurità spirituale del mondo intero».
Sarebbe stato proprio questo peccato a scatenare le punizioni divine a cui gli
ebrei sarebbero stati sottoposti nel corso della storia, compresa, secondo
Teitelbaum, la shoah (l’olocausto, ndr). Questa tesi, cinica se vogliamo, è ancora oggi condivisa dalla
maggior parte dei Edah Haredit, le comunità ultra ortodosse che vivono
sia dentro che fuori Israele.

Il
rifiuto del sionismo da parte dei Satmar fu (ed è) pressoché totale e coerente:
nel 1959, per la visita di Joel Teitelbaum alla Terra Promessa, il movimento
organizzò un treno apposito privo di qualsiasi riferimento allo stato di
Israele, mentre dopo la Guerra dei Sei Gioi (1967) ai membri della comunità
che vivevano in Israele il movimento proibì di pregare davanti al Muro del
Pianto e in altri Luoghi Santi ebraici di Gerusalemme per evitare ogni
legittimazione dello stato israeliano. Persino la lingua parlata dai Satmar e
insegnata nelle loro scuole è l’yiddish (lingua
germanica parlata dagli Ebrei originari dell’Europa orientale e scritta con
l’alfabeto ebraico, ndr) e non ebraico moderno, il che isola
ulteriormente la comunità dal resto di Israele. Per aiutare socialmente i
119.000 aderenti a questa scuola ebraica, divisi principalmente tra il
quartiere di Williamsburg, a New York, e quello di Mea Shearim, a Gerusalemme,
sono state create fondazioni come la Bikur Cholim che si occupa del
campo sanitario e la Keren Hatzolah, che sovvenziona gli ebrei indigenti
residenti in Israele e le yeshiva (istituzioni
educative ebraiche, ndr).

Neturei Karta

La
seconda scuola ebraica ortodossa antisionista più nota è quella dei Neturei
Karta
, nome aramaico che significa «Guardiani della città», secondo un
passo talmudico in cui si afferma che i veri guardiani della città non sono i
soldati, bensì gli studiosi della Torah (la
fonte primaria dell’ebraismo, ndr). Meno numerosi dei Satmar, i
Neturei Karta furono fondati dal rabbi Aharon Katzenelbogen nel 1938
distaccandosi dall’Agudat Yisrael. Molti dei membri originari erano vecchi yishuv, «coloni», che vivevano in Palestina ancora prima della fondazione di
Israele sopravvivendo grazie alle donazioni della Diaspora ebraica. Dediti allo
studio della Torah, i Neturei Karta, così come la maggior parte
degli ebrei ortodossi, ebbero subito contrasti con i nuovi coloni ebraici
arrivati in Palestina dopo la fondazione di Israele. Questi ultimi, infatti,
che dovevano provvedere da soli al loro sostentamento lavorando duramente nei
campi, guardavano con disprezzo chi contrastava la loro patria rifiutando di
sostenerli e al tempo stesso evitava il lavoro manuale.

L’antisionismo
dei Neturei Karta oggi si spinge ben oltre agli altri gruppi ortodossi
arrivando anche a intrattenere rapporti con l’Iran e Hamas. Delegazioni di
questo gruppo ebraico, infatti, sono state più volte invitate in Iran (nel 2006
direttamente da Ahmadinejad per partecipare alla Conferenza sulla Revisione
dell’Olocausto a Teheran, in cui presenziavano anche negazionisti e
revisionisti della shoah), mentre nel 2005 alcuni membri
parteciparono alla Marcia per la Liberazione di Gaza.

Il
genero di rabbi Aharon Katzenelbogen, Moshe Hirsch (1923-2010), fu anche consigliere del ministro per
gli Affari ebraici del governo di Yasser Arafat.

L’antisionismo
dei Neturei Karta viene spesso espresso in piazza con manifestazioni. Quasi
tutte le fotografie proposte dai media che mostrano ebrei ortodossi con
striscioni antisionisti e bandiere palestinesi, ritraggono loro raduni. Il
sionismo, infatti, per loro è sinonimo di colonialismo, e quest’ultimo,
portando alla «perdita di vita e all’oppressione, è una profanazione della
volontà di Dio».

Sbaglia,
comunque, chi vede negli ebrei ortodossi un possibile alleato politico alla
causa palestinese: battersi per il diritto dei palestinesi di vivere nella loro
terra, infatti, non è, per loro, una questione di diritti umani o di politica
(entrambe espressione del secolarismo), ma una semplice risposta alla volontà
del Signore.

Da Gerusalemme a New
York

Altri
gruppi di Ebrei ortodossi completano la complessa e variegata galassia
antisionista ebraica. Quasi tutti si concentrano a
Gerusalemme nel quartiere di Mea Shearim, considerato da molti uno spaccato di
vita medioevale. È, naturalmente, un’esagerazione, ma è anche vero che chi si
addentra tra le vie di quest’area, così come in quella di
Williamsburg a New York, ha l’impressione di essere ricondotto a una società
tradizionale che si ritrova nelle fotografie precedenti la guerra. Il bianco e
il nero sono i colori che contraddistinguono queste comunità.

All’ingresso
del quartiere cartelli avvertono i turisti di «non passare con vestiti
immodesti e vanitosi», mentre altri manifesti denunciano Israele e il sionismo
specificando, di volta in volta, che «gli ebrei non sono sionisti», «i sionisti
non sono ebrei, ma razzisti», e che le varie comunità «pregano D-o (Dio)
affinché ponga immediatamente fine al sionismo e all’occupazione».

Lungo le
strade gli uomini coprono il capo con i shtreimel o kolpik a seconda del gruppo a cui appartengono, da cui penzolano i payot, i boccoli, lasciati crescere per rispettare il comandamento della
Torah tratto dal Levitico 19,27. Anche nei giorni più caldi molti indossano il bekishe, il soprabito nero o una giacca, sempre nera.

Le donne
devono vestire tzniyut, modestamente. Al sesso femminile è fatto
obbligo di indossare gonne che coprano il ginocchio sin dal compimento del
terzo anno d’età, e di coprire le altre parti del corpo con camicie a maniche
lunghe e colli allacciati. Dopo il matrimonio, un tichel avvolge il capo in modo da non mostrare i capelli. Tra i Satmar molte
donne si rasano addirittura il capo cosicché le ciocche non sporgano dal
foulard.

Le
comunità di Mea Shearim vivono in un mondo separato in cui l’unica legge
vigente è quella della Torah, rispettata, nel limite del possibile, alla
lettera. Durante lo shabbat (il riposo del sabato, ndr) nessun apparecchio elettrico può essere utilizzato, nessun mezzo a
motore può circolare, nessun negozio è autorizzato ad alzare le serrande.

Una vita tra studio e
famiglia

In
generale, sono chiamati Haredi (Haredim) gli ortodossi più conservatori.
Tra i media sono conosciuti come «ultra ortodossi». Gli uomini sono dediti allo
studio dei testi sacri, mentre le donne si occupano della famiglia,
generalmente molto numerosa. Questo porta a due conseguenze: la povertà diffusa
e l’altissimo incremento demografico, due temi che preoccupano moltissimo la
dirigenza israeliana.

Oggi gli
Haredi nello stato israeliano rappresentano l’11,7% della popolazione con un
tasso di incremento del 6-7% annuo. Spezzando la piramide demografica e
prendendo la fascia d’età al di sotto dei 5 anni, il 30% è composto da bambini
provenienti da famiglie ultraortodosse.

Lo
sconvolgimento nella società israeliana sarà enorme: già oggi la metà degli
studenti israeliani che frequenta le scuole primarie è inserito in strutture
ultraortodosse o arabe, entrambe antisioniste. Chi continua gli studi nelle yeshiva non avrà un’educazione economica adeguata ad affrontare le insidiose
regole del mercato rischiando di indebolire la classe manageriale israeliana e
lo stesso stato, che attualmente deve mantenere gran parte delle comunità
ultraortodosse mediante assegni di mantenimento. In un rapporto del 2010, la
Banca di Israele ha stimato che il 60% degli Haredi sono poveri e dipendono
unicamente dalle sovvenzioni statali o dagli aiuti provenienti dalle comunità
ebree residenti fuori Israele.

La questione del
servizio militare

Gli
ebrei ortodossi, inoltre, rifiutano di prestare servizio militare nelle Idf (Israelian
Defence Forces
), cosa che preoccupa i vertici militari e indigna il resto
della popolazione, obbligata a prestare servizio all’interno delle forze armate
per due anni, nel caso delle donne, e tre anni per gli uomini.

Nel
marzo 2014 la Knesset, il parlamento israeliano, ha dato il via libera al
processo di revisione della normativa sulla leva militare (la cosiddetta «legge
Tal») rendendola obbligatoria anche per gli studenti ortodossi e causando le
prevedibili proteste degli Haredi. La classe dirigente di Israele dovrà,
comunque, affrontare il problema dell’antisionismo all’interno della nazione la
cui esistenza futura è messa a repentaglio non da interventi estei, ma da una
parte importante del suo stesso popolo.

Piergiorgio Pescali

Piccolo dizionario

Il peso (e il senso)
delle parole


Ebreo, giudeo, israeliano, semita, antisemita, sionismo, sionista: molti
termini riferiti agli ebrei vengono confusi. Per ignoranza, per scelta
politica, per luogo comune. Proviamo a fare un
po’ di chiarezza partendo da una fonte affidabile.

Giudèo – In senso letterale, appartenente
alla tribù di Giuda (personaggio biblico, quarto figlio del patriarca
Giacobbe). In senso stretto, denominazione con cui sono stati indicati gli
Ebrei rimasti dopo la distruzione del regno d’Israele (722 a.C.), quando
l’intero popolo ebraico fu ridotto alla sola tribù di Giuda. Nell’uso comune,
giudeo è sinonimo generico di ebreo, soprattutto al plurale (ma con valore
spesso spregiativo): la religione, la comunità dei Giudei. 

Ebreo – Appartenente o relativo all’antico
popolo semitico degli Ebrei, che occupò la Palestina sin dalla seconda metà del
2° millennio a.C., costituendosi in unità nazionale e religiosa, e
distinguendosi dai popoli confinanti soprattutto per il carattere monoteistico
della sua religione.

Israeliano – Cittadino dell’odierno stato di
Israele.

Palestinese – In senso etimologico, indica una
persona abitante, originaria o nativa della Palestina, regione asiatica sud
occidentale estesa tra il mar Mediterraneo e l’altopiano giordano. In senso
stretto, oggi il termine palestinese indica la popolazione araba ivi residente.

Olocausto – Forma di sacrificio praticata
nell’antichità, specialmente nella religione greca e in quella ebraica, in cui
la vittima veniva interamente bruciata: offrire un agnello in olocausto;
celebrare un olocausto. Per estensione s’intende sacrificio totale, distruzione
di gruppi etnici o religiosi, di popolazioni, città (spesso come sinonimo di
massacro, martirio, genocidio): l’olocausto degli Armeni; l’olocausto nucleare
di Hiroshima. Nel linguaggio corrente, per antonomasia, l’olocausto (Shoah)
è quello degli Ebrei nei campi di sterminio nazisti durante la seconda guerra
mondiale.

Ortodosso – In senso generico, è colui che
accetta integralmente le dottrine religiose affermate come vere da una
determinata fede o Chiesa e ne osserva il culto.

Semita – Deriva dal nome Sem del figlio di
Noè, il quale, secondo la tradizione biblica, sarebbe stato il progenitore dei
popoli semitici. Il termine indica un appartenente alle popolazioni semitiche.

Semìtico – Relativo a un gruppo di lingue
(ebraico, arabo, etiopico, aramaico, accadico, fenicio, ecc.), parlate da
popolazioni antiche e modee dell’Asia sud-occidentale e dell’Africa
settentrionale, che un passo biblico (Genesi 10, 21-31) fa discendere, per la
maggior parte, da Sem figlio di Noè. Per estensione, si riferisce ai popoli
parlanti tali lingue, alla loro storia e civiltà.

Sionismo – Deriva da Siòn, nome di una
collina di
Gerusalemme e, per estensione, di Gerusalemme stessa. La parola è stata
coniata, nella forma Zionismus, dallo scrittore tedesco Nathan Bibaum
nel 1882. Sta ad indicare il movimento politico-religioso ebraico, espressione
di vari orientamenti ideologici, costituitosi a Basilea nel 1897 allo scopo di
creare in Palestina uno stato nazionale indipendente per il popolo ebraico, e
conclusosi nel 1948 con la proclamazione dello stato d’Israele. Nell’attuale
pubblicistica politica, il termine è passato a indicare, con connotazione
polemica, la politica di intransigente chiusura del governo di Israele nei
confronti del movimento per l’autodeterminazione del popolo palestinese.

Antisemitismo – Deriva dal termine tedesco Antisemitismus
coniato da Ch. F. Rühs nel 1816. Sta a indicare avversione e lotta contro gli
Ebrei, manifestatasi anticamente come ostilità di carattere religioso, divenuta
in seguito, specialmente nel XX secolo, vera e propria persecuzione razziale
basata su teorie pseudoscientifiche. 

Antisionismo – Atteggiamento culturale e politico
di opposizione e contrasto alle espressioni più radicali del sionismo.

Fonte: voci tratte ed elaborate dal «Dizionario
Treccani» (www.treccani.it) a cura di Paolo Moiola.

Tags: Israele, Ultraortodossi, Sionismo

 

Piergiorgio Pescali




«Annunzia quanto ti dirò» / 2 Convegno Nazionale Missionario – Sacrofano 2014

IV CONVEGNO MISSIONARIO NAZIONALE /2
Sacrofano (Roma) 20-23/11/2014

Seconda parte delle
«Linee e orientamenti pastorali per un rinnovato impegno missionario».
Testo
non ufficiale.


D. QUELLO CHE NOI
ABBIAMO NARRATO, ORA LO DESIDERIAMO

Spinti e stimolati dall’ascolto della Parola e dalle sue
declinazioni e implicazioni storiche, sociologiche, filosofiche, antropologiche
e culturali che la rendono Parola incarnata nel quotidiano, cerchiamo di
raccogliere alcune provocazioni da quanto è emerso dal nostro convegno. […]

DESIDERARE

Ciò che desideriamo non può «cadere dal cielo»: deve essere il
frutto dello sforzo di una Chiesa che si sente in cammino, e soprattutto in
uscita verso quelle periferie geografiche ed esistenziali tanto citate quanto,
spesso, ancora sconosciute.

•          Rimettere Gesù al centro.

Il primo grande desiderio emerso dal convegno e quello di
rimettere al centro del nostro annuncio Gesù morto e risorto e la gioia
dell’incontro personale con lui attraverso un contatto assiduo con la Parola di
Dio. Come uno slogan, la frase «Più Parola e meno dottrine» è stata gridata in
più occasioni e in molti modi.

Nelle parrocchie, ci si sente spesso privati del contatto diretto
con la Parola di Dio, sebbene siano passati ormai oltre cinquant’anni
dall’inizio del Concilio Vaticano II: rimettiamoci in ascolto della Parola,
attraverso tutte quelle forme (lettura popolare della Bibbia, gruppi biblici,
gruppi di ascolto, scuole della Parola) che puntano a restituirla quale
veramente è, ossia parola di Dio rivolta a tutto il suo popolo, e non solo a
una parte privilegiata di esso.

•          Metterci la testa.

Il secondo desiderio è quello di riuscire a «metterci più testa»
in ogni azione pastorale, in particolare in quella volta a fare della comunità
dei credenti una comunità missionaria.

Ci siamo scoperti deboli sulla capacità di individuare nuovi
cammini e nuove strategie perché deboli di pensiero; soprattutto, fatichiamo ad
avere un pensiero forte e arricchente intorno alla missione. Per riuscire ad
acquisirlo, abbiamo la necessità di essere accompagnati e aiutati a vari
livelli: mettiamoci, quindi, in cammino e aiutiamoci reciprocamente.

AIUTARE: I PRETI

Innanzitutto, il nostro clero.

Si è avvertita una stanchezza intorno alla dimensione missionaria
soprattutto nel nostro clero, a ogni livello. Aiutiamoci a essere vescovi e
sacerdoti missionari, sin dai primi istanti della nostra formazione.

•          Nei seminari.

Aiutiamoci a studiare la missione. Ciò può avvenire attraverso
l’obbligatorietà dell’istituzione e della frequentazione di corsi di
missiologia, ma più in generale con l’attenzione ai temi della mondialità e
dell’annuncio del Vangelo nelle varie culture.

È auspicabile che nelle equipe formative dei seminari sia presente
una figura (sacerdotale o laicale) di missionario rientrato.

Sono da incrementare le esperienze (soprattutto estive) che aprono
alla dimensione missionaria dell’annuncio, tanto «lontane» (esperienze di
missione in altre chiese) quanto ai lontani (esperienze caritative e di
frontiera nella nostra realtà italiana).

•          «Odorare di pecora».

Nelle nostre case canoniche, o comunque nel nostro stare in mezzo
alla gente, aiutiamoci a essere meno burocrati e funzionari del culto o
dell’amministrazione e a «odorare sempre di più di pecora», come ci ricorda
Papa Francesco.

•          Liturgia viva.

Nelle nostre celebrazioni liturgiche, in particolare
nell’Eucaristia domenicale, aiutiamoci a celebrare il Cristo Risorto attraverso
liturgie vive e non ingessate, che riescano a dire qualcosa alla nostra gente,
che coinvolgano il più possibile anche coloro che provengono da Chiese
cristiane sorelle distinte per rito o per confessione, che creino ministerialità
condivisa (cominciando dall’animazione), che possano essere celebrate anche
fuori dai confini del tempio parrocchiale, in quegli spazi della società in cui
non si sente mai un messaggio di vita e di speranza. Soprattutto che siano
memoriali vivi della Passione e Morte del Signore, nella frazione del Pane e
nella lavanda dei piedi, ossia nella comunione tra preghiera e carità, tra esse
inscindibili e capaci di condurre l’Eucaristia domenicale oltre il canto
finale.

Vivere l’Eucaristia come memoriale vivo di
carità significa fare memoria di tutta la vita di Gesù, del suo parlare,
del suo stile di vita d’incontro e di annuncio.

Aiutare: le comunità

È sul territorio che una Chiesa in uscita e missionaria ha bisogno
di far sentire la propria forza, in considerazione del fatto che la forza della
testimonianza viene dal laicato, dall’associazionismo, dalla realtà dei
movimenti e delle nuove comunità, e da quel mondo religioso, femminile e
maschile, spesso lasciato ai margini anche delle scelte e dell’agire pastorale.

•          Nelle parrocchie.

Aiutiamoci a «narrarci» nelle parrocchie e nel mondo della scuola
(a ogni livello e grado di istruzione), della cultura e del lavoro. Aiutiamoci
a raccontare, a dire senza paura ciò che abbiamo sperimentato soprattutto in
relazione ai contatti con altre culture e altri modi di vivere la fede.

In questo ambito sono fondamentali le figure dei missionari
rientrati, definitivamente o per periodi brevi, e di quei giovani di ritorno da
esperienze più o meno prolungate di missione. Come ha ricordato ancora Papa
Francesco incontrandoci in udienza durante il convegno: questo non si fa per
proselitismo, ma per comunicare la gioia dell’incontro con il Signore.

•          Nelle diocesi.

Aiutiamoci a non perdere lo spirito dell’ad gentes e, di
conseguenza, a continuare a mandare laici, religiosi, sacerdoti che – inviati
da una Chiesa a un’altra Chiesa – vivano un’esperienza di cooperazione e di
annuncio.

Non può essere che, dopo neppure sessant’anni dalla promulgazione
dell’enciclica Fidei Donum, questa figura di cooperazione missionaria
debba essere destinata a morire. Non può essere che (dopo una storia così
gloriosa come quella italiana) non esistano più vocazioni alla missione «ad
vitam»: se ciò avviene all’interno della Chiesa – che per sua nascita e natura è
missionaria – significa che c’è qualcosa da sanare alla radice.

Occorre principalmente da parte dei vescovi meno resistenza a
incoraggiare le partenze, perché un cristiano che lascia la propria diocesi per
annunciare il Vangelo non è perso, è donato.

In questo dinamismo, aiutiamo pure gli Istituti Missionari
a rimanere se stessi, fedeli all’azione missionaria ad gentes e ad
vitam.
Ben lungi dall’aver esaurito il proprio compito, essi devono
piuttosto avere ancor più ampia incidenza nella Chiesa come memoria della
missione, come stimolo di animazione missionaria, e come richiamo alla
responsabilità che la Chiesa tutta ha nell’evangelizzazione universale.

•          Oltre i confini.

Aiutiamoci anche da un punto di vista missionario a sentirci
Chiese locali «in rete», per creare collaborazioni missionarie che travalichino
i confini delle diocesi.

Soprattutto – ma non solo – nelle diocesi più piccole o nelle regioni
che fanno più fatica a sostenere da sole esperienze di cooperazione missionaria
ad gentes, si sperimentino e si incrementino esperienze interdiocesane
e/o interregionali di invio comune di laici, sacerdoti e religiose, magari con
il sostegno formativo ed economico di diocesi che storicamente hanno una
tradizione più assodata di invio missionario.

«Travalicare i confini» significa anche
creare un lavoro di rete con tutte quelle realtà che – pur non professando il
nostro stesso Credo religioso, o comunque non nelle nostre modalità –
condividono con noi la stessa speranza e la stessa carità. A partire dal
dialogo ecumenico e interreligioso, fino allo scambio sui valori condivisi con
gli uomini e le donne di ogni cultura. Puntiamo sempre più (nello spirito del
Concilio Vaticano II) alla ricerca della verità «in modo rispondente alla
dignità della persona umana e alla sua natura sociale, e cioè a una ricerca
condotta liberamente, con l’aiuto dell’insegnamento o dell’educazione, per
mezzo dello scambio e del dialogo […] con cui gli uni rivelano agli altri la
verità che hanno scoperta o che ritengono di avere scoperta», lavorando per la
costruzione di un mondo più giusto e di una società più fratea.

•          Nella formazione.

Aiutiamoci a corroborare con la dimensione missionaria la
formazione delle nostre comunità, soprattutto di quelle nelle quali si vive un
maggior impegno ecclesiale (in parrocchia, ma anche nelle piccole comunità
cristiane, nelle associazioni, nei movimenti, nelle nuove esperienze di Chiesa «di
strada» e di evangelizzazione di frontiera).

Tra i formatori e i catechisti, è bene iniziare a dare maggior
spazio anche a quei cristiani (e non sono pochi) che vivono nei nostri paesi e
nelle nostre città e provengono da Chiese di altri paesi in cui già erano
impegnati come catechisti, come ministri e come formatori o animatori
liturgici. Aiutiamoci prima di tutto a evitare pietismo e assistenzialismo nei
loro confronti, e a vederli come soggetti di testimonianza cristiana invece che
come oggetti di attenzione e di carità.

E insistiamo anche su cammini di formazione e informazione alla
mondialità e all’intercultura che aiutino i nostri cristiani a conoscere e
capire chi proviene da altri paesi per favorire sempre più una seria e onesta
cultura della reciproca integrazione.

•          Nella comunicazione.

È stato rimesso al centro il tema della comunicazione, offrendo ai
partecipanti un convegno dallo stile comunicativo efficace, attuale e
propositivo.

Aiutiamoci a cambiare il modo di fare comunicazione. Aiutiamoci a
cambiare il linguaggio comunicativo che utilizziamo nell’annuncio del Vangelo,
a partire dalla presa di coscienza che, come Chiesa, siamo ancora molto
indietro sotto questo aspetto rispetto al bombardamento mediatico che forma
mentre informa.

Non possiamo più comunicare solo frontalmente e verbalmente. Non
possiamo più guardare alle nuove strategie comunicative (rete, social
network
, chat e app) con diffidenza, paura e ostracismo. Il
linguaggio dell’immagine era stato compreso e attuato già dai nostri Padri
nella fede, quando costruivano chiese decorate di affreschi, mosaici e pitture.

Aiutiamoci a investire tempo, energie e risorse anche economiche
per ritrovare una strategia comunicativa efficace: l’idea di un portale web
unico per la comunicazione nel mondo missionario non può più essere messa da
parte.

•          Spazio ai giovani.

In questa assemblea di Sacrofano i capelli bianchi non erano in
prevalenza, pur costatando l’innalzamento dell’età media dei missionari
italiani. I giovani sotto i 35 anni presenti in sala erano oltre 200.

Se c’è ancora qualcosa che sa attirare in maniera accattivante i
giovani al discorso di fede e alla vita di Chiesa, o comunque all’amore per i
valori che contano, è proprio la missione, con il suo bagaglio di attenzione ai
poveri, agli ultimi, agli emarginati, ai lontani e ai diversi di ogni
categoria.

Aiutiamoci a mantenerci giovani. Aiutiamo i giovani a essere ciò
che sono, in altre parole il presente, e non il futuro della Chiesa e della
società. Non dobbiamo avere timore ad affidare loro compiti di responsabilità
anche a livello decisionale nelle nostre comunità: non dobbiamo avere paura di
perdere qualcuno di loro, se ci dice che vuole fare un’esperienza prolungata di
missione; non lesiniamo nell’aiuto, anche materiale, che possiamo dare loro per
attivare strategie di animazione missionaria o per creare attività caritative e
di apertura ai bisognosi e ai lontani.

E – come ci ha detto ancora una volta Papa Francesco – iniziamo da
subito: dai bambini (il termine «bambini» nel suo discorso è stato ripetuto sei
volte, tanto quanto il termine «missione»). «I bambini devono ricevere una
catechesi missionaria»: non possiamo più tirarci indietro da questo compito.

GUARDARE AVANTI

Molto bella e stimolante è stata l’assenza del classico «piagnisterno»
nostalgico dei tempi passati, quelli in cui «si era di più e si faceva meglio».

Si è invece percepito in maniera palpabile che c’è ancora tanta
voglia di mettersi in gioco, e che il fuoco della missione non si è
affatto affievolito. Possiamo quindi dire che il primo obiettivo del convegno («riaccendere
la passione dei singoli e delle comunità per la missio ad gentes e inter
gentes
») è stato già raggiunto.

L’entusiasmo avvertito è stato davvero grande. Da questo momento
in poi, dobbiamo decisamente puntare al raggiungimento del secondo obiettivo: «Studiare
nuovi stili di presenza missionaria nella nostra realtà
».

SULLE ALI  DELL’ENTUSIASMO

Lanciamo, allora, tre slogan finali che possano stimolare
concretamente a qualcosa di forte.Teniamo «in caldo» il convegno.

L’entusiasmo di questi giorni ci spinge a «battere il ferro mentre
è caldo», a «mantenere in caldo» il cibo di cui ci saziamo. Molti hanno
espresso il desiderio di non far passare un altro decennio prima di convocare
nuovamente la Chiesa Italiana alla missione: cercheremo di far tesoro di questa
indicazione. Ma al di là della frequenza del ritrovarci, ci sono molti altri
modi per mantenere alto l’entusiasmo.

•          Nel territorio.

Iniziamo, allora, a pensare a come far ricadere a livello locale
(regionale e diocesano) quanto vissuto a Sacrofano. Può essere attraverso
piccoli convegni locali, può essere nell’ordinaria programmazione degli
incontri regionali o diocesani, può essere attraverso momenti di riflessione e
approfondimento (magari anche con percorsi formativi su uno o più ambiti
affrontati al convegno, specie nei laboratori di interesse), dando priorità
alle urgenze della situazione locale. Le modalità sono molteplici, e crediamo
che vadano lasciate soprattutto alla stimolante inventiva di ognuno dei
partecipanti e di chi – rimasto a casa – ha potuto comunque seguire i nostri
lavori.

•          Nel «world wide web».

Non dimentichiamo che uno degli strumenti più validi per quest’opera
di «riscaldamento» e «attizzamento» del fuoco della missione rimane il mondo
del web, dei social network e di tutto ciò che la rete ci mette a
disposizione. Facciamo della rete un ambito
sempre più missionario!

•          Fare rete.

Da parte degli organismi che la Conferenza
Episcopale Italiana mette a disposizione della Chiesa in Italia per
l’animazione, la formazione e la cooperazione missionaria (l’Ufficio
Nazionale di Cooperazione Missionaria
, la Fondazione Missio e il Cum
di Verona), come da parte di tutti gli Istituti Missionari presenti in Italia,
viene ribadita la più ampia disponibilità a svolgere la propria funzione di
servizio in appoggio a qualsiasi iniziativa possa servire a mantenere vivo
questo entusiasmo e a individuare percorsi formativi e iniziative a carattere
missionario, sul territorio nazionale e non solo.

OSARE LA MISSIONE

Da qualche tempo molti sperimentano, in mille forme, esperienze di
animazione, formazione e cooperazione missionaria, che sono il segno di una
grande vivacità.

Il desiderio è di veder nascere cammini significativi dal
carattere spiccatamente missionario, tanto in favore della missio ad
gentes
quanto per la realtà dei lontani che vivono vicini alle nostre case.
Chi «osa» tali cammini, ne comunichi e condivida la bellezza. Sarebbe un modo
veramente molto concreto di realizzare quella «evangelizzazione attraverso la
vita» di cui Papa Francesco ci ha parlato in varie occasioni.

Uscire,
ascoltare,
annunciare

E riprendiamo il nostro cammino con due delle affermazioni più
belle che abbiamo ascoltato in questi giorni, entrambe pronunciate sabato 22
novembre. Una, il mattino, da Papa Francesco, e l’altra il pomeriggio, da padre
Gustavo Gutiérrez. Sono quelle frasi che aprono il cuore, fanno sognare,
mantengono acceso il desiderio di continuare a essere discepoli missionari,
testimoni del Dio della Vita e del Vangelo della Gioia.

«Gioo dopo giorno
[…]
scriviamo una teologia
incarnata, come una lettera d’amore a Dio da parte della sua Chiesa»
(Gustavo Gutiérrez).

«Le diverse realtà
che voi rappresentate nella Chiesa italiana indicano che lo spirito della missio ad gentes deve diventare lo
spirito della missione della Chiesa nel mondo: uscire, ascoltare il grido dei
poveri e dei lontani, incontrare tutti e annunciare la gioia del Vangelo»

(Papa Francesco).

________________________________

Il testo qui pubblicato non è ufficiale, ma provvisorio, con
adattamenti,
tagli e correzioni stilistiche, ortografiche e grammaticali a cura di Gigi
Anataloni e redazione MC.

a cura di Gigi Anataloni




Un grande paese, in cerca di sé

Dalla primavera araba
alla guerra al terrorismo
Grazie alla Primavera
araba, in Egitto aveva preso il potere un gruppo confessionale. La nuova
Costituzione si ispirava alla legge islamica. Ma gran parte della popolazione
si è ritrovata in disaccordo. E un nuovo golpe ha destituito il presidente. Altre
elezioni, un nuovo capo di stato. Con l’esercito sempre molto presente. Ma
l’economia stenta a risollevarsi.

Indice box:

Sinai: il buco nero
dell’Egitto

Egitto, Cronologia minima
Tutti i personaggi

È stato uno dei paesi protagonisti della stagione delle «Primavere arabe».
Oggi l’Egitto è quasi scomparso dai grandi media ed è poco presente sulla scena
politica internazionale. La caduta del presidente Mohamed Morsi e l’ascesa al
potere del generale Abdel Fattah al-Sisi sembra aver fatto calare una cappa di
silenzio sul paese. Ma qual è la situazione dell’Egitto? Quale direzione
politica ha imboccato? Qual è l’andamento dell’economia?

Momenti di svolta

Se guardiamo alla recente storia egiziana
sono stati tre i punti di svolta politica del paese: l’11 febbraio 2011, che
segna la caduta di Hosni Mubarak, al potere dal 1981; il 24 giugno 2012, con
l’elezione di Mohamed Morsi, primo presidente espressione della Fratellanza
musulmana; il 3 luglio 2013, con la caduta di Morsi. È intorno a queste tre
date che si delinea la parabola politica e istituzionale egiziana. «Per
comprendere le trasformazioni in atto – ci spiega un esponente della comunità
cristiana copta che chiede l’anonimato – bisogna fare un salto indietro. Negli
ultimi tempi della presidenza Mubarak esistevano solo due grandi formazioni
politiche: il Partito nazionale democratico (Pnd), legato al presidente, e la
Fratellanza musulmana, movimento nato nel 1928 in Egitto con l’intento di
promuovere i valori tradizionali islamici nella società. Con la caduta di
Mubarak, il suo partito è stato sciolto. Sulla scena è rimasta quindi un’unica
formazione: la Fratellanza. Non è un caso che nel 2012 sia stato eletto un
esponente di questo movimento alla presidenza. Ma l’Egitto, pur avendo
conosciuto una progressiva islamizzazione della società, non è mai stato
compatto dietro la Fratellanza. Molti musulmani non si riconoscono affatto
nelle posizioni del movimento e anzi guardano con sospetto alla svolta
confessionale. Se non si capisce questo, difficilmente si può comprendere
l’evoluzione successiva».

Ne è convinto anche Massimo Campanini,
storico del Medio oriente arabo e della filosofia islamica, secondo il quale la
Fratellanza ha commesso alcuni errori fondamentali. Il più grave è aver creduto
di poter accelerare l’islamizzazione della società impadronendosi del potere e
tenendo sotto controllo la magistratura. Nonostante questi tentativi
autocratici, va però detto che non ha avuto il tempo di impostare una politica
efficace. Morsi è stato proclamato presidente il 24 giugno 2012, quasi subito
sono scoppiate le rivolte anti presidenziali organizzate da un’opposizione
laica che non ha mai riconosciuto la regolare, legittima e democratica vittoria
elettorale dei Fratelli musulmani.

Un esercito molto
presente

Scomparso il Pnd, l’unica istituzione
organizzata che si è rivelata in grado di fronteggiare la Fratellanza musulmana
è stata l’esercito. A dire la verità gli uomini in grigioverde non avevano mai
abbandonato la scena politica. Militari erano Gamal Abdel Nasser, Anwar Sadat e
Hosni Mubarak. Militare era Mohammed Hoseyn Tantawi, il generale che, prese le
distanze da Hosni Mubarak, aveva rifiutato di reprimere le rivolte della
Primavera araba e aveva guidato la transizione fino alle elezioni che avevano
portato alle elezioni di Morsi.

I militari non sono solo un’istituzione
fondamentale dell’Egitto, ma hanno anche un peso determinante nell’economia del
paese. Secondo alcuni analisti, un quarto (ma qualcuno parla addirittura di un
terzo) dell’economia egiziana
è controllata dalle forze armate. Gennaro Gervasio, docente di
Politiche del Medio Oriente alla British University del Cairo, in un rapporto recente ha parlato del conflitto tra la
casta militare e un gruppo di imprenditori neoliberisti, guidati da Gamal,
figlio di Hosni Mubarak. Un conflitto che sarebbe stato tra le ragioni che
hanno scatenato la Primavera araba e che, per il momento, si sarebbe risolto a
favore degli ufficiali dell’esercito. Anche se gli imprenditori hanno ancora
una forte presa sull’economia egiziana.

Il nuovo presidente

È stato al-Sisi a farsi interprete del
malcontento della maggioranza della popolazione egiziana. Ma chi è al-Sisi? «al-Sisi
è tanti personaggi in uno solo – spiega Giuseppe Dentice, ricercatore Ispi,
Istituto per gli studi di politica internazionale, esperto di Egitto -. È
sicuramente un militare e, per questo motivo, ha un approccio pragmatico e
decisionista. Pensiamo al pugno di ferro imposto al paese per riportare
l’ordine. Al tempo stesso, però, si presenta come l’“uomo della Provvidenza”,
riprendendo cliché tipici della retorica nasseriana. al-Sisi quindi gioca su
due piani, anche emotivi, proponendosi come la figura di riferimento del paese.
È un uomo che si adegua alle situazioni, pur partendo da posizioni chiare e decise
che fanno parte del suo retroterra militare. Certo se noi guardiamo la
situazione politica egiziana dal punto di vista dei diritti umani non possiamo
dire che
l’Egitto sia un paese democratico. Ma adottare questa visione sarebbe limitante
perché non terrebbe presente le esigenze di sicurezza che l’Egitto deve
affrontare».

I piani di politica intea ed estera
dell’Egitto in questo periodo storico sono sovrapposti. Il minimo comune
denominatore tra le due situazioni è l’attenzione all’ordine pubblico e alla
sicurezza. al-Sisi sta perseguendo una politica puntata su un controllo
territoriale ferreo della Valle del Nilo e del distretto della capitale. In
queste regioni è più semplice anche perché in esse la situazione politica è
stabile. Sta invece incontrando difficoltà nel Sinai dove il controllo dello
stato è quasi completamente assente (vedi box).

Dal punto di vista della politica estera, la
Libia viene considerata «stretto vicinato» e, in quanto tale, questione di «sicurezza
intea dell’Egitto». I motivi sono facili da comprendere. Tra Egitto e Libia
corre un lunghissimo confine comune, attraverso cui c’è un continuo passaggio
di uomini, mezzi, armi. Spesso tra questi soggetti ci sono personalità legate a
vario titolo alla Fratellanza musulmana e anche terroristi. La scorsa estate
l’Egitto ha subito una serie di attentati su quella frontiera e quindi vede la
Libia come un pericolo sempre più concreto che potrebbe addirittura estendere
la propria crisi a territori egiziani. Per evitare questo, ha militarizzato il
confine occidentale. Sta poi cercando di attivarsi con interventi non ufficiali
nel paese vicino. I raid aerei della scorsa estate sulla Libia sono stati
condotti, secondo alcune ricostruzioni, da aviatori emiratini o libici che
hanno pilotato aerei egiziani partendo da basi egiziane. Il Cairo sostiene
apertamente il governo libico con sede a Tobruk e combatte gli islamisti che
dominano il governo di Tripoli. «Questo – continua Dentice – è giustificato
all’interno della logica di contenimento della minaccia islamista. In questo
senso per al-Sisi non c’è differenza tra Fratellanza e gruppi jihadisti. Per
lui chiunque faccia riferimento alla sfera islamista è un terrorista e, come
tale, deve essere eliminato o comunque contenuto. Per questo la politica estera
e quella intea si sovrappongono e si influenzano soprattutto in tema di
sicurezza e ordine pubblico».

In Siria e in Iraq, invece, l’Egitto, pur
facendo parte della coalizione dei volenterosi contro lo Stato islamico, non
fornisce uomini o mezzi per combattere
al Baghdadi, ma rimane in una posizione più defilata e attendista.

Diritti umani

La repressione intea è stata molto dura
nell’ultimo anno e mezzo. Le associazioni per la difesa dei diritti umani hanno
denunciato che, solo negli ultimi sei mesi del 2014, 40mila persone sono state
incarcerate per motivi politici (tra esse tre giornalisti di Al Jazeera, l’emittente del Qatar, accusati di sostenere la Fratellanza
musulmana) e 20mila civili sono stati giudicati da tribunali militari. Nel 2014
un centinaio di detenuti sono morti per le violenze subite in carcere. I
vertici della Fratellanza musulmana sono stati incarcerati. Chi è sfuggito alle
maglie della polizia, vive esule all’estero, principalmente in Turchia e in
Qatar, paesi da sempre alleati del movimento. «al-Sisi – commenta la nostra
fonte anonima – è riuscito a reprimere la Fratellanza perché godeva del
consenso di gran parte del paese. Sostenuto non solo dalla comunità cristiana,
che si era sentita emarginata dalla Fratellanza, ma anche dalla maggioranza dei
musulmani. Senza questo appoggio, al-Sisi non sarebbe stato in grado neanche di
dichiarare la Fratellanza “gruppo terroristico”». Per le future elezioni, al
partito della Fratellanza, Libertà e Giustizia, come ad altre formazioni
simili, sarà impedito candidarsi. «Dal punto di vista politico – osserva
Dentice – la Fratellanza è alle corde. Bisogna capire in che modo essa potrà
giocare un ruolo attivo in campo politico nel futuro. Attualmente non ci sono
spazi che facciano pensare a un ritorno alla legalità del movimento. Credo che
il dialogo dipenda non tanto dalla Fratellanza quanto dai militari dietro al
presidente. Sono loro che possono e devono ricreare le condizioni favorevoli a
un confronto».

Il ruolo dei
cristiani

In questo contesto, la comunità cristiana
(in maggioranza copto ortodossa) non ha alcun peso politico, nonostante conti
almeno un 10% della popolazione. Dopo aver subito il rischio di venire
progressivamente emarginata dalla Fratellanza musulmana, ha sostenuto al-Sisi.
Non è un caso che la sera in cui il generale ha annunciato la deposizione di
Morsi, al suo fianco c’erano Ahmed al Tayeb, l’imam di al Azhar (università,
massima istituzione del mondo islamico sunnita), e Tawadros II, il Papa copto. «Tawadros
– spiega Awad Baseet, giornalista cristiano e attento osservatore delle
dinamiche politiche egiziane – sostiene l’attuale regime ed è ricambiato. Tanto
è vero che la nuova Costituzione assicura alcuni posti ai cristiani. Temo però
che ciò non cambi la sostanza delle cose: ormai i copti non hanno più una forte
influenza sulla politica».

al-Sisi sta portando avanti la sua battaglia
anche in campo teologico. In un discorso tenuto all’università al Azhar nel
giorno della nascita del profeta Maometto, il presidente ha chiesto ai leader
religiosi musulmani «una rivoluzione per estirpare il jihad (la guerra santa, ndr)». E ha aggiunto: «La genesi del problema è in un pensiero che si
origina dal corpo di testi e idee che abbiamo consacrato negli anni, fino a
considerare impossibile distanziarsi da esse, con il risultato di provocare
l’ostilità del mondo […]. Non è possibile che 1,6 miliardi di musulmani
vogliano uccidere gli altri 6 miliardi di abitanti della Terra».

Ma al-Sisi non si sta muovendo solo su un
piano politico-militare. Conscio che le rivolte della Primavera araba erano
nate anche dalla crisi economica che aveva investito il paese, il generale ha
progettato ampi interventi per favorire la ripresa. In particolare ha
annunciato l’avvio di grandi opere pubbliche, tra le quali il raddoppio di una
parte del canale di Suez e la costruzione di centrali elettriche (molte delle
quali dovrebbero sfruttare le potenzialità del solare). Parallelamente ha
iniziato a ridurre i sussidi su carburanti, pane, zucchero, tè, ecc., che
drenavano circa l’8% del Pil nazionale. «Questo non basta – sostiene Baseet -,
servono riforme di più ampio respiro che permettano non solo a un mercato
bloccato di aprirsi, ma di garantire l’ingresso di attori stranieri. In questo
senso è allo studio un progetto di legge per cambiare l’attuale normativa sulla
proprietà. Le nuove norme dovrebbero permettere l’ingresso degli stranieri
nelle società egiziane come soci di maggioranza. Questo potrebbe essere utile,
ma è chiaro che rischia di essere un discorso fine a se stesso se il controllo
del territorio e dell’economia viene mantenuto dal blocco militare».

La stabilità assicurata da al-Sisi insieme
ai fondi che arrivano dai paesi del Golfo (30 miliardi di dollari l’anno per i
prossimi quattro anni) hanno però già portato alcuni risultati. Nel primo
trimestre 2014 il Pil è cresciuto del 2,5%, nel secondo trimestre di circa il
4%. «La produzione industriale – continua Baseet – sta riprendendo. Questo è un
dato positivo. Anche lo scambio con l’estero sta migliorando: nel 2014 si è
attestato intorno ai 17 miliardi di dollari contro i 15 del 2012. Ma ancora
lontano dai 36 del 2011. Il turismo sta lentamente risalendo la china. Nelle
località sul Mar Rosso e sul Mediterraneo le presenze stanno aumentando. Purtroppo
mancano all’appello i turisti nei luoghi storici. In questo senso paghiamo
ancora l’instabilità della Primavera araba».

Enrico Casale
______________

MC sull’Egitto:
Il gigante ha i piedi di sabbia (10/2010);
Sangue e orgoglio (3/2012);
La religione del potere (4/2012)
Prima e dopo la Primavera (6/2013);
Una primavera solo all’inizio
(7/2014).

Sinai: il buco nero
dell’Egitto

Intervista
all’esperto di terrorismo e fondamentalismo islamico

Per
l’Egitto il Sinai è una ferita aperta. Nella regione, terra di traffici
illegali e di basi di fondamentalisti islamici, il governo del Cairo fatica a
riportare l’ordine. Quando e perché la penisola è sfuggita al controllo? Ne
abbiamo parlato con Lorenzo Vidino, esperto di terrorismo e fondamentalismo
islamico. «Il Sinai è una zona ad alta concentrazione tribale. Rispetto al
resto dell’Egitto l’importanza dei clan è molto forte. A ciò va aggiunto che la
Penisola è da sempre stata maltrattata e marginalizzata dalle istituzioni egiziane.
Il risultato è che il Sinai è molto povero e vive di commerci e traffici
clandestini. Nel tempo si è creato quindi un humus di disagio e un sentimento
di avversione nei confronti delle forze armate egiziane e dello stato centrale.
Negli ultimi anni, è il fondamentalismo islamico a essersi fatto interprete di
questo astio. Ansar Beit al Maqdis («Partigiani di Gerusalemme»), il
gruppo più forte e più conosciuto del fondamentalismo islamico nel Sinai,
professa un jihadismo globale ma, allo stesso tempo, si caratterizza per un
forte legame con il territorio e porta quindi avanti istanze locali di
contrapposizione al Cairo».

Il governo come ha contrastato
questo fenomeno?

«Durante il periodo in cui l’Egitto
è stato in preda al caos post Mubarak, il Sinai è stato abbandonato a uno stato
di anarchia quasi totale. In seguito, Mohamed Morsi, un po’ per incompetenza,
un po’ per una certa simpatia ideologica, ha tollerato molto la crescita del
movimento islamista. Quando è caduto Morsi, la situazione, che era già critica,
è degenerata con attacchi sanguinosi a stazioni di polizia, caserme, posti di
blocco, colonne delle forze armate. L’attuale presidente Abd al-Fattah al-Sisi
ha dichiarato guerra al fondamentalismo, imponendo il coprifuoco per settimane
e lanciando operazioni militari. A questo il governo ha associato annunci di
politiche di sviluppo della regione per migliorare le condizioni di vita della
popolazione locale e per ridurre il bacino di malcontento dal quale pesca il
fondamentalismo. Anche se lo stato, avendo pochi fondi, difficilmente darà
seguito agli annunci».

Nel Sinai, oltre allo Stato
islamico, opera anche al Qaida?

«La componente egiziana di al Qaida è sempre
stata molto forte e si è rafforzata ulteriormente dopo che l’egiziano Ayman al
Zawahiri ne ha preso il controllo. Alcuni esponenti di Ansar Beit al Maqdis
sono storicamente vicini al movimento fondato da Osama bin Laden. Anche il
governo egiziano ha sempre cercato di associare il fondamentalismo del Sinai
all’estremismo di al Qaida (benché non sia sempre possibile verificare
quanto pesi la propaganda politica). In questi ultimi mesi, però, Ansar Beit
al Maqdis
ha scelto di aderire allo Stato islamico».

Chi sostiene questi gruppi
terroristici?

«Si sostengono da soli con proprie attività illegali. In
particolare con il racket (taglieggiando la popolazione locale), il
traffico di immigrati che provengono dall’Africa, il contrabbando verso la
striscia di Gaza, ecc.».

Oltre al Sinai, i gruppi jihadisti
potrebbero prendere il controllo anche delle regioni
occidentali?

«Attualmente le regioni libiche al confine con l’Egitto
sono controllate dal governo laico di Tobruk e quindi sono relativamente
sicure. L’esecutivo è però molto debole e, nel breve periodo, può correre il
rischio di essere abbattuto. In questa eventualità il Cairo potrebbe trovarsi a
fronteggiare milizie islamiche lungo un confine di migliaia di chilometri dai
quali possono facilmente infiltrarsi miliziani e armi. Già ora armi, munizioni
e uomini passano la frontiera, ma il pericolo è che la situazione degeneri».

E.C.
_________________

Per un ulteriore approfondimento
rimandiamo
al dossier Sventola bandiera nera, MC 1-2/2015.

 
Egitto
Cronologia minima
25 gennaio 2011 – Opposizioni e società civile proclamano la
«giornata della collera» contro la carenza di lavoro e le misure repressive del
governo. Le manifestazioni si protraggono per giorni.

11 febbraio 2011 – Sotto la pressione della piazza, Mubarak
si dimette. Il potere passa a una giunta militare presieduta dal
feldmaresciallo Mohamed Hussein Tantawi.

23-24 maggio e 16-17 giugno 2012 – Elezioni presidenziali.
Mohamed Morsi viene eletto presidente.

12 agosto 2012 – Mohammed Hoseyn Tantawi viene rimosso dalla
carica di ministro della Difesa e della Produzione militare. Gli subentra il generale
Abdel Fattah al-Sisi. Il presidente Morsi annuncia che la nuova Costituzione
favorirà l’adozione di norme ispirate alla Legge islamica. L’annuncio scatena
la reazione delle opposizioni, esasperate anche dalle crescenti difficoltà
economiche.

18 novembre 2012 – Si insedia

Tawadros II, il nuovo patriarca della Chiesa copta. Alla
cerimonia non prende parte Morsi.

30 giugno 2013 – A un anno dall’elezione di Morsi, Tamarrude
che è un movimento di opposizione, annuncia di aver raccolto oltre ventidue milioni
di firme per chiedere la destituzione del presidente e per ottenere elezioni
anticipate.

3 luglio 2013 – Morsi viene rimosso dalla carica da un golpe
messo in atto da Abdel Fattah al-Sisi. La sua destituzione da parte delle forze
armate è sancita con il parere favorevole del leader dell’opposizione laica
Mohamed el Baradei, dall’imam di al-Azhar, Ahmad al-Ayyib e dal papa copto
Tawadros II. Le proteste dei Fratelli musulmani vengono duramente represse.

28 maggio 2014 – Al-Sisi viene eletto presidente della
Repubblica ed entra in carica l’8 giugno.

E.C.
Tutti i personaggi

L’ingegnere, i
militari, il mufti e il patriarca

Mohamed Morsi – 63 anni, si laurea in Ingegneria chimica
all’università del Cairo e consegue un master e un dottorato di ricerca alla University
of Southe Califoia
. In Califoia lavora anche alla Califoia State
University
dal 1982 al 1985. Esponente di punta del partito Libertà e
Giustizia (formazione legata alla Fratellanza musulmana), è eletto presidente
nel 2012 ed è il primo ad assumere tale carica con elezioni democratiche. Il 3
luglio 2013 viene deposto da un colpo di stato militare ed è incarcerato.

Hosni Mubarak – 86 anni, dopo una brillante carriera militare
(durante la quale si distingue nella guerra del Kippur del 1973), si impegna in
politica. Alla morte di Anwar Sadat è eletto presidente dell’Egitto, carica che
ricopre per quasi trent’anni, a partire dal 14 ottobre 1981 fino all’11
febbraio 2011. Dopo la deposizione, viene arrestato e, nel 2012, è condannato
all’ergastolo. Il 29 novembre 2014 la Corte di Cassazione lo proscioglie dalle
accuse di omicidio e lo assolve da quelle di corruzione. Mubarak può essere
dunque scarcerato.

Abdel Fattah al-Sisi – 60 anni, frequenta l’Accademia militare egiziana e
poi corsi di specializzazione in patria, nel Regno Unito e negli Stati Uniti.
Pur essendo affascinato dall’ideologia panarabista e laica di Gamal Nasser, non
fa mistero di essere un musulmano devoto. Forse è proprio per questo motivo che
la Fratellanza musulmana lo sceglie come Capo di Stato maggiore della Difesa.
Nel 2013 però si contrappone al presidente Morsi fino a rovesciarlo. Le
elezioni dell’8 giugno 2014 lo consacrano sesto presidente della Repubblica
egiziana.

Tawadros II – 62 anni, si laurea in Farmacia e lavora per alcuni
anni in un’azienda statale prima di entrare nel monastero di San Bishoy a Wadi
Natrun. Ordinato sacerdote nel 1989, è consacrato vescovo nel 1997. Come tale
guida la diocesi di Beheira, a Sud Ovest di Alessandria. Il 4 novembre 2012 è
eletto 118º papa della Chiesa copta ortodossa e patriarca di Alessandria. Il 10
maggio 2013 si reca in visita ufficiale in Vaticano, con una delegazione di
vescovi, accolti da papa Francesco.

Ahmad Muhammad al-Tayyeb – 68 anni, studia e insegna nelle università della
Sorbona (Francia) e di Friburgo. Successivamente diventa professore di
Filosofia e Teologia nelle università di al-Azhar (Il Cairo), Qena e Assuan, in
Egitto, e di Islamabad, in Pakistan. Dal marzo al settembre 2003, ricopre la
carica di Gran Mufti d’Egitto e nel 2010 diventa Imam di al Azhar, nominato da
Hosni Mubarak. Non sostiene le sommosse che portano alla destituzione del
presidente e si contrappone alla Fratellanza musulmana quando questa prende il
potere. Considerato un moderato, sostiene il colpo di stato che porta alla
caduta di Mohamed Morsi.

E.C.
 

Enrico Casale




L’uomo, Dio e la natura

Incontro con il
popolo Nasa e la sua filosofia di vita
Nel villaggio di
Toribío la popolazione resiste da decenni alla guerra. Lo fa in modo pacifico e
recuperando la sapienza ancestrale del popolo Nasa. La spiritualità indigena
che dà un senso a ogni cosa e mette al centro la relazione uomo-natura-Dio. I
Nasa fanno la proposta del Buen vivir
al mondo. Valida per tutti, in ogni contesto.

Non
molto alti, un po’ tarchiati. Volti dai lineamenti indigeni. Uno di loro ha un
cappello di paglia sempre in testa e baffetti radi. Parla con un filo di voce e
si esprime soprattutto nella sua lingua, il
nasayuwe. L’altro, più giovane, spigliato, ha un’ottima parlantina in
spagnolo.

Elicerio Vitonas Talaga e Diego Feando Yatacue Ortega
provengono da Toribío, nel Sud Ovest della Colombia, dipartimento del Cauca.
Entrambi fanno parte del popolo indigeno Nasa, che rappresenta il 96% della
popolazione cittadina (circa 26.000 abitanti). Dagli anni ‘80 la zona è
divenuta uno dei principali scenari del conflitto armato tra i gruppi
guerriglieri, Forze armate rivoluzionarie colombiane (Farc) e milizie
paramilitari. Il popolo Nasa ha deciso di non abbandonare il territorio,
rafforzando la propria organizzazione e cercando di opporsi alle violenze e
alle intimidazioni attraverso una modalità di resistenza pacifica e negoziata
alla guerra.

Elicerio è un «Mayor», cioè un Maestro, un saggio,
custode delle tradizioni spirituali Nasa.In Colombia i popoli originari hanno sviluppato, nel
corso di migliaia di anni, una relazione profonda con la natura, imparando a
conoscee i segreti e a vivere in armonia con gli esseri viventi che ne fanno
parte.

Diego è direttore generale del Cecidic, il Centro di Educazione, Formazione e Ricerca per lo Sviluppo
Integrale della Comunità di ToribÍo. Ha ricoperto vari ruoli nei tre «cabildos
indigenas» (comunità indigene) di Toribío, Tacueyo, San Francisco, e a
beneficio del «Plan de vida» del popolo Nasa. Dopo aver diretto la Scuola
agroecologica indigena del Cecidic, da nove anni è il primo responsabile del
centro.

Li abbiamo incontrati durante una loro visita in Italia.
Il viaggio si è svolto nell’ambito del «Progetto Nasa» in appoggio alla scuola
agricola del Cecidic. Il progetto, che ha come obiettivo l’autonomia alimentare
ed economica della popolazione Nasa, vede coinvolta anche Missioni Consolata
Onlus, in partenariato con le Ong Cisv (Comunità impegno servizio volontariato)
e Msp (Movimento sviluppo e pace) di Torino. In effetti dal 1985 la parrocchia
di Toribío è gestita dai missionari della Consolata, i quali accompagnano il
popolo Nasa.

Abbiamo parlato con loro di Buen vivir.

Che relazione c’è tra
l’agroecologia e il Buen vivir?

«L’agroecologia, indipendentemente da dove abbia avuto
origine, ci sembra un approccio alla vita importante, interessante. Essa
coniuga non solo lo sviluppo umano con quello economico, ma anche con il
rispetto della natura. Sono i tre aspetti della politica agroecologica, che
raggruppa una serie di proposte e strategie e accomuna esperienze di svariati
popoli nel mondo.

L’agroecologia ha molte relazioni con le proposte del Buen vivir del
popolo Nasa. Innanzitutto perché l’agroecologia riprende il concetto di
conservazione (dell’ambiente in senso globale) molto forte nel popolo indigeno.
Ma, dato che la visione indigena è fortemente spirituale, il popolo Nasa rileva
nell’agroecologia proprio una prospettiva di spiritualità. Attenzione, con
spiritualità non intendiamo religione. Per noi la spiritualità consiste in una
profonda relazione con la natura.

Il Buen
vivir, nascendo dalla spiritualità indigena, si basa
su tre principi: il primo è che tutto ha uno spirito, che ci sono spiriti che
ci aiutano e che l’uomo deve relazionarsi anche con essi; un secondo principio è
l’importanza del rispetto per la natura, per la Madre Terra; un terzo punto è
la sovranità alimentare, la produzione di cibo per la gente.

Nella realtà di oggi, si viene ad aggiungere la necessità
di disporre di risorse economiche, ma nel rispetto di questi principi.

L’agroecologia è una parte della proposta politica del
popolo Nasa.

In ambito sociale è molto importante la relazione con
gli altri popoli, non solo indigeni, ma afro, contadini e società civile in
genere».

 
Il Buen vivir che proposta è?

«Più che una politica il Buen vivir è un
modo di vivere, che vuole dare una risposta non solo ai bisogni materiali
dell’uomo, ma anche a quelli spirituali. Se diamo risposte solo alle questioni
umane sviluppiamo unicamente il concetto di economia. Associare all’economia la
prospettiva spirituale, dà un senso più ampio al Buen vivir, che
non si basa sugli aspetti materiali, ma parte dal fatto che noi non siamo i
padroni del mondo, siamo parte del mondo. Inoltre non è una proposta politica
per un solo popolo, ma è piuttosto una proposta condivisa con altri popoli, per
questo tollera e rispetta la differenza. Condividiamo alcuni principi
fondamentali con molti popoli originari e organizzazioni della società civile,
che stanno cercando un’alternativa al modello di sviluppo dominante.

Direi che fa parte della proposta l’idea di “non andare
avanti”, almeno non come ci hanno abituati. Non come l’Occidente vede lo
scorrere del tempo, ovvero in modo lineare. Il Buen vivir ci impone di
fermarci nel cammino, o di andare avanti senza tanta fretta, per poter pensare oggi,
sognare il futuro, sempre ricordando e dando uno sguardo al passato. Quando
parliamo di spiritualità, in pratica stiamo richiamando il passato. Spiritualità
è anche chiamare gli spiriti della natura, i nostri antenati, i nostri
famigliari. Il Buen vivir ha una differenza con l’approccio occidentale: non
bisogna correre. Forse perché c’è una differenza di ideali di vita».

 

Una proposta
alternativa, ma come realizzarla?

«Anche tra la nostra gente c’è varietà di modi di
pensare. Si può dire un modo diverso per ogni persona. Ci sono due questioni
storiche di cui tenere conto. Da un lato l’esistenza del cattolicesimo, che ha
formato la maggioranza del nostro popolo, e dall’altro la modeità. I nostri
giovani sono molto coinvolti dalla tecnologia, dai mezzi di comunicazione.

Per questo per noi è fondamentale quello che chiamiamo
“fare coscienza”. Non è obbligare, perché altrimenti si ottiene il contrario,
ovvero una insensibilità a questa realtà. Si tratta di una costruzione
collettiva, nella quale insieme pensiamo, riflettiamo, e, sopra questo pensare
insieme, “facciamo coscienza” sull’importanza del Buen vivir. È
quindi un lavoro lento, dispendioso, e non convince in modo immediato tutti.
Per questo dico che c’è differenza di pensiero. Ma è importante la coscienza
collettiva, ovvero avere un gruppo di persone che rendono dinamico il Buen vivir.
Grazie a questo, molte altre persone si avvicineranno alla proposta. Comprese
alcune che sono di religione cattolica o evangelica.

Ci sono poi anche le appartenenze politiche. Noi siamo
apolitici come gruppo, ma possiamo affermare che ci sono compagni indigeni che
hanno posizioni politiche distinte. Quando parliamo del collettivo del Buen vivir,
sogniamo come ci vediamo nel futuro, come comunità, e penso che non ci sia
distinzione di colore politico o posizione religiosa. Diventa molto importante
la proposta filosofica che fa il popolo Nasa».

 

La vostra
organizzazione come fa per «fare coscienza»?

«Nei 30 anni in cui la comunità si è organizzata, si è
sempre parlato della coscienza della gente a partire dall’aspetto comunitario.
Voglio dire che abbiamo sempre fatto uno sforzo rivolto all’essere umano, alla
persona, che forma un collettivo. La missione del Cecidic si è concentrata
sull’educazione. Sviluppare proposte che generino questa coscienza collettiva,
da differenti punti di vista. Parlare dell’aspetto comunitario, vuol dire
parlare dello sviluppo dell’essere umano, del pensiero politico, delle
tradizioni. Per questo il Cecidic realizza corsi, spazi di formazione per i
giovani. Un corso importante è quello di agroecologia, nel quale abbiamo un
progetto con Cisv, Msp e Missioni Consolata onlus. Poi c’è il corso artistico e
culturale, quello di comunicazione, formazione politica, educazione e
pedagogia. Sono cinque componenti molto importanti per sviluppare il “Piano di
vita”. Anche se nello sviluppo del Piano di vita del Buen vivir ci
sono altre componenti necessarie oltre alle cinque elencate.

C’è molta partecipazione ai nostri corsi. Se avessimo
maggiori risorse economiche, riusciremmo a formare ancora più persone.
Annualmente accompagniamo più di 1.000 giovani in modo diretto. Invece
indirettamente il Cecidic ha un impatto ogni anno su 5.000 persone nel
territorio».

 

Quali contatti ci
sono tra il Buen vivir e la religione
cattolica? In particolare, un cattolico può perseguire questo cammino? In
America Latina esiste una teologia (cattolica) indigena, che promuove proprio
il Buen vivir?

«Nella nostra comunità ci sono indigeni che seguono la
spiritualità cristiana sia dei cattolici sia degli evangelici. Ma penso che la
riflessione da fare sia più profonda, ovvero tornare a principi che non pongano
l’uomo al di sopra di tutto. L’uomo in relazione con Dio e con la natura e non
unicamente in relazione con Dio. Come abbiamo detto è fondamentale nel Buen vivir
riconoscere l’esistenza della natura e di tutto quello che abbiamo intorno. E
vedere che tutto ha una spiritualità. Molti compagni indigeni lo fanno. È
quello che vive la maggioranza dei Nasa, come essere umano in relazione con la
natura. C’è poi il sincretismo con la religione cattolica, che si esprime con
la celebrazione di riti, come il battesimo o la comunione».

 

I Cristiani si
interessano della natura, parlano di salvaguardia del creato. Non solo l’uomo e
Dio, ma tutto l’ecosistema nel suo insieme.

«Per il popolo Nasa occorre andare in profondità:
studiare una proposta a partire da un’epistemologia indigena del pensiero
indigeno originario. Non si può negare che sia presente anche un pensiero
parzialmente non indigeno, formato da principi religiosi (occidentali, ndr), ma è importante
capire che esistono queste due concezioni. Ci sono fratelli indigeni che
praticano molti rituali, vivono la “comunitarietà” (vivere in comune, ndr) e il Buen vivir. I cui
principi non sono nella religione cattolica. Quello che stiamo proponendo nel
movimento indigeno è la ricerca dei principi del popolo Nasa.

Ad esempio: abbiamo subìto 500 anni di conquista
europea. Noi ci chiediamo come saremmo oggi se avessimo avuto 500 anni di
sviluppo non interrotto come popolo Nasa, senza religione cattolica. È una
riflessione molto profonda, e c’è spazio per ricercare e approfondire.

Alcune persone lavorano su questo tema, chiamandolo
“indigenismo”, ovvero prendere dalle origini la proposta indigena, in vari
settori. Ad esempio nell’ambito giuridico, quella che si chiama “giustizia
propria”, poi la “educazione propria”, la concezione della salute, ecc.

Si lavora molto con i “saggi ancestrali”, come don
Elicerio, che hanno esperienza con le questioni spirituali, e hanno una
profondità maggiore di quella degli indigeni cattolici. I guardiani della
“spiritualità propria” sono coloro che, nonostante i 500 anni di conquista,
sono riusciti a tenere tutte le conoscenze e la saggezza (saviduria)
ancestrale, trasmettendola di padre in figlio. È un’eredità che non abbiamo
perso.

Io ad esempio lavoro nell’educazione cercando di
realizzare pratiche pedagogiche e didattiche in direzione della cosiddetta
educazione propria. Io parto dalla conoscenza ancestrale».

Cosa intende per
educazione propria?

«È una proposta del popolo Nasa e di altri popoli
originari in America Latina. Sosteniamo che prima del sistema educativo dello
stato colombiano, prima della conquista europea, noi avevamo un’educazione
derivante dalla nostra maniera di vedere il mondo, la nostra “cosmovisione”.
Facciamo ricerca su come fosse questa educazione prima della conquista, grazie
a elementi che i saggi e le guide spirituali conservano, per partire da lì e
confezionare una proposta educativa nella realtà di oggi, per scuole, collegi,
università. Dal nostro punto di vista possiamo fare una proposta distinta e
focalizzata sui popoli indigeni.

Per fare un esempio: cambiare l’aula o i docenti, per
fare un corso non tra le mura ma nella natura. Chi insegna non è solo la
maestra, ma anche la natura stessa. Leggere in un’altra maniera.

L’educazione superiore che per gli occidentali è
l’università, per noi è un saggio della comunità. Per i parametri occidentali
don Elicerio non ha studiato, ha fatto la seconda elementare. Ma per noi ha una
conoscenza che va oltre a quella che ha un docente universitario. E la sua
sapienza giunge da molta esperienza e conoscenza. Non li possiamo confrontare,
ma vale la pena vedere la differenza».

Un europeo che vive
in Europa può cercare di vivere seguendo il Buen
vivir
? Per non indigeni che si ritrovano in quei principi, è possibile?

«Concretamente penso di sì. Perché se i popoli indigeni
sviluppano una proposta del Buen
vivir, altri popoli la sviluppano a partire dalla
loro visione. Non è una proposta per soli popoli originari americani nel loro
contesto. Il Buen vivir lo può ricercare ognuno di noi a partire da quello che è
e dai mezzi che ha.

Credo che popoli come gli europei che hanno camminato
molto nel mondo con il tempo lineare, dovrebbero iniziare a vedere il tempo in
modo diverso. Noi lo vediamo come una spirale, cioè stiamo andando avanti ma
sempre guardiamo ai nostri principi. Gli europei, inoltre, devono iniziare a
vedere il tempo con più lentezza, perché ricostruire una spiritualità richiede
di fermarsi a pensare. Così potrebbero imparare alcune cose da altri popoli,
come quelli indigeni. Ma è una costruzione che devono fare nel proprio popolo,
non copiando un modello, ma riflettendo. Come hanno fatto i Nasa e come io
faccio il mio Buen vivir, nel mio contesto, con il mio popolo, i miei costumi e
i miei principi. È fondamentale capire che ci sono differenze.

Il popolo indigeno non vuole influenzare tutti i popoli
e farli diventare uguali a sè, o fare sì che gli altri pensino come indigeni.
Ognuno parta dal suo contesto, ma che lo faccia considerando i principi
fondamentali. Come quello di non abbandonare la natura. Durante migliaia di
anni l’uomo ha cercato di uscire dalla natura, utilizzarla. Credo che debba
tornare un po’ verso di essa».

Marco Bello
______________

MC ha già pubblicato più volte sul Buen
vivir
, in particolare in MC 3/2012, p. 55 e nel dossier di MC 10/2014.

Tags: Buen Vivir, Popoli indigeni, agroecologia, spiritualità, Nasa

 

Marco Bello




Liberati dal crack

Lungo il Rio Branco.
Viaggio a Roraima / 4
La droga – il crack,
in particolare – ha raggiunto ogni angolo del Brasile. È un’epidemia che pare inarrestabile. A Iracema (Roraima)
abbiamo visitato una comunità terapeutica che fa parte della rete «Fazenda da
Esperança». Gli ospiti, in maggioranza giovani, stanno recuperando la loro
dignità con il lavoro e la vita comunitaria.

Br-174.
Lasciamo la desolata cittadina di Caracaraí per riprendere la strada federale,
sempre poco transitata.

Passiamo tenute agricole, aree verdi e praterie con
animali in libertà. Poi, in prossimità di Iracema, un cartello avverte che
siamo nei pressi della Fazenda da Esperança‚ una fattoria con caratteristiche particolari. «È una
comunità terapeutica per tossicodipendenti diffusa in tutto il Brasile», ci
spiega dom Roque Paloschi, nostra infaticabile guida.

La droga ha raggiunto ogni angolo del Brasile, compresa
l’Amazzonia. Anzi, dato che la regione confina con tutti e tre i grandi
produttori di coca (Colombia, Perù e Bolivia), essa è divenuta un importante
luogo di transito1, in particolare per la cocaina e i suoi sottoprodotti
(crack, óxi, merla)2.

Rafael e gli altri

La Fazenda è cresciuta proprio a lato della
strada, all’ombra di grandi alberi. Non facciamo in tempo a scendere dall’auto
che già si è formato un capannello di persone. Sono in maggioranza giovani, ma
tra loro c’è anche un signore con una maglietta di una squadra di calcio che
pare più avanti negli anni. Tutti hanno volti distesi e sorridenti, l’esatto
contrario di quelli segnati dalla droga o dall’alcol.

Nata nel 1983 su iniziativa di padre Hans
Stapel, missionario tedesco, e di Nelson Giovanelli Rosendo dos Santos, la
Fazenda da Esperança è oggi una realtà consolidata e soprattutto riconosciuta
nell’ambito del recupero dalla tossicodipendenza. Conta quasi 100 sedi
distribuite in tutto il Brasile e in altri 16 paesi.

La sede di Iracema porta il nome di Fazenda
Nossa Senhora de Guadalupe. Aperta nel dicembre del 2009, ospita una ventina di
«interni» (chiamati anche recuperandos, ma non
pazienti o ricoverati), tutti maschi. «Il più giovane ha 14 anni, il più
vecchio 41», ci dice Ednila, la segretaria.

Rafael, il responsabile, si offre di
mostrarci la struttura. Ci sono numerose casette dipinte con colori diversi
(azzurro, giallo, verde, rosso) e circondate da curatissime aiuole. Ognuna è
adibita a una specifica attività: l’ambulatorio, la palestra, le camere degli
interni, gli alloggi di coloro che già hanno fatto una parte del percorso, una
casa con la cucina comune (in cui lavorano alcuni interni), un’altra che ospita
una saletta per riunioni e video, la cappella Nostra Signora di Guadalupe. «E
quella là in fondo – indica Rafael – è la casa dei “padrini”. Cioè di coloro
che sono venuti per disintossicarsi e, una volta recuperati, si sono fermati
per aiutare gli altri».

Sono tanti coloro che, entrati come ospiti,
si sono in seguito fermati come volontari. È lo stesso percorso compiuto da
Rafael, ex tossicodipendente. «Sono entrato nella Fazenda nel 2005. Dopo il mio
recupero ho deciso di rimanere come volontario. Sono quindi uscito per qualche
anno, ma poi sono rientrato con mia moglie Erica. E oggi viviamo qui assieme ai
nostri due bambini»3.

Convivenza, lavoro, spiritualità

Nella Fazenda da Esperança non si entra per
caso. Al contrario, occorre seguire una precisa procedura.

Chi vuole provare questa esperienza deve in
primis
presentare una lettera scritta di proprio pugno in cui racconta se
stesso e spiega i motivi per cui chiede di entrare nella comunità. Quindi c’è
una sorta di precolloquio alla fine del quale alla persona vengono prescritti
una serie di esami fisici e psichici per capire il suo stato, «dato che –
precisa Rafael – la Fazenda non è una clinica, ma una comunità terapeutica». Se
gli esami medici mostrano la compatibilità del richiedente con la vita
comunitaria, viene fatto un colloquio finale durante il quale si valutano la
sua predisposizione personale e la sua volontà di recupero. Superato anche
questo colloquio, la persona può finalmente essere accolta per un percorso
della durata di almeno un anno.

I primi mesi sono i più duri. «Durante questo
periodo – spiega Rafael – i contatti con familiari e amici possono avvenire
soltanto per lettera».

La metodologia adottata dalla Fazenda da
Esperança si regge su tre pilastri: la convivenza, il lavoro e la spiritualità.
Quest’ultima nasce dalla lettura e dalla pratica quotidiana della parola
evangelica e rappresenta un elemento centrale ma non escludente. «La differenza
religiosa – precisa Ednila – non costituisce un ostacolo per entrare in comunità».
Nella Fazenda la convivenza è a un tempo indispensabile e inevitabile: assieme
si vive, si mangia, si lavora. Il lavoro, infine, è visto come processo
pedagogico e fonte di autostima.

La forma della
speranza

Alla Fazenda di Iracema il lavoro non manca. C’è molta
terra per coltivare e per allevare bestiame: i prodotti ottenuti contribuiscono
al sostentamento della comunità. All’agricoltura e all’allevamento si
affiancano poi due attività artigianali.

Ecco la casetta che ospita la fabbrica di sapone. Lungo
il muro ci sono alcune taniche e decine di bottiglie di plastica piene di un
liquido scuro. «È l’olio riciclato che usiamo per fare il sapone», ci spiega
Rafael. Poi, forse vedendo la nostra faccia interdetta, subito aggiunge: «È un
sapone molto buono, soprattutto per lavare i vestiti. Lo vendiamo a un real per barra».
Entriamo nei locali dove avviene la produzione. Orgoglioso, Rafael ci mostra
gli strumenti necessari alla fabbricazione e ci spiega le fasi del processo
produttivo. «Eccolo», grida Rafael mettendoci in mano una sorta di mattoncino
di color giallo pallido avvolto da una plastica trasparente su cui è posta
un’etichetta con la scritta Sabão
da Esperança. Un prodotto che è quasi
una metafora: il sapone elimina le scorie della vita precedente e offre la
speranza di un’esistenza diversa.

Storia di Bruno

Tuttavia, l’attività più redditizia per la Fazenda viene
dalla panetteria, ospitata in un’altra casa. Quando entriamo, due ragazzi
stanno lavorando su un tavolone in acciaio: tirano la pasta con un mattarello,
ne fanno dei rotolini che depongono in padelle oliate. I ragazzi ci mostrano il
foo e la macchina per impastare (amassadeira), comprata con i soldi
guadagnati dalla vendita del sapone.

Su una lavagna sono segnate le ricette dei vari tipi di
biscotti, tutti (giustamente) fatti con frutta locale: ci sono al coco, al cupuaçu, alla castanha, alla maracuja. Anche il pane
viene sfornato in alcune varietà: pane della casa, pane francese… Tutti i
prodotti sono infine accuratamente confezionati. «Vengono venduti nelle
parrocchie e poi dai volontari», ci spiegano.

Bruno, 22 anni, è di Boa Vista e non nasconde né la
propria storia di droga né l’attuale felicità. Confessa: «Quando sono arrivato
ero distrutto, fisicamente e spiritualmente». «Qui tutto è allegria e amore»,
aggiunge. Ma più delle parole a convincere è il suo sorriso.

Paolo Moiola

(fine
quarta puntata – continua)

Ragazzi di strada a
Manaus
Sotto il ponte di
Kako Caminha

 Una trentina di
giovani, tra cui molti minorenni, vivono sotto un ponte di Manaus. Intossicati
da colla e crack, temuti dalla popolazione, picchiati dalla polizia, ad aiutare
questi ragazzi sono rimasti soltanto alcuni volontari di «O Pequeno Nazareno».
Li abbiamo seguiti.

Manaus (Amazonas). Il ponte di Kako Caminha conduce
al bairro di São Jorge. Pare un normale ponte, attraversato ogni giorno
da centinaia di auto. Invece tanto normale non è. Per scoprirlo è sufficiente
spostarsi su un lato e andare sotto il viadotto. Lo facciamo con Tommaso
Lombardi, nostra vecchia conoscenza, che da tempo frequenta questo luogo
assieme alla moglie Elaine e altri volontari1.

L’igarapé,
un fiumiciattolo di acqua sporca e puzzolente, occupa soltanto una piccola
parte della larghezza del canale, il resto è una riva di terra e vegetazione.
Troviamo due vecchi divani, posti uno accanto all’altro. E poi stracci e cumuli
di rifiuti. «Qui sotto dormono e trovano riparo una trentina di giovani, alcuni
sono bambini di neppure 10 anni – ci spiega Tommaso -. Noi veniamo a cercarli
un paio di volte alla settimana. O per strada o al ponte».

Camminiamo
lungo la riva fino a uno spazio aperto. Eccoli: sotto alcuni alberi, raccolti
attorno a una pentola, ci sono i ragazzi. Tommaso saluta, e un paio di loro ci
vengono incontro. Sono Jean e Leandro, poco più che diciottenni. Il torso nudo
evidenzia la loro magrezza. Sorridono. Scambiamo qualche parola. Fa impressione
sapere che quella bottiglietta di plastica appesa al loro collo serve per
sniffare la colla o il crack.

Nel gruppo
notiamo una sola ragazza. «Sono molte meno, e di solito arrivano per la notte»,
spiega Tommaso, che aggiunge: «Nel gruppo c’è un alto tasso di omosessualità».

I ragazzi
sopravvivono e si procurano i soldi per la droga chiedendo l’elemosina ai
semafori, pulendo le scarpe, prostituendosi o facendo piccoli furti. «Alcuni –
aggiunge la nostra guida – commettono crimini maggiori, come furti nelle case o
assalti di autobus, abbastanza frequenti a Manaus».

Ogni volta che
la polizia interviene sotto il ponte di Kako Caminha per sgombrare l’accampamento
dei ragazzi, lo fa in maniera violenta. «Li picchia, li butta nell’igarapé,
li minaccia – racconta Tommaso -. Brucia le loro povere cose (materassi,
lenzuola, oggetti). Soltanto dopo le azioni più violente i ragazzi si sono
spostati. Ma mai per più di una settimana. Questa è la loro unica “casa”».

Tommaso è il
responsabile per Manaus di O Pequeno Nazareno, un’organizzazione
non governativa che si occupa di ragazzi di strada. «Quando li
incontriamo, facciamo loro la proposta di venire nella nostra casa
d’accoglienza, aperta per bambini e adolescenti dagli 8 ai 17 anni d’età».

«Con i
maggiori di 18 anni – spiega rammaricato – l’unica cosa che possiamo fare è
indirizzarli verso una casa di recupero dalla tossicodipendenza, tipo Fazenda
da esperança
».

«Criança não é de
rua»

In Brasile, le
dimensioni del fenomeno sono allarmanti. Un’indagine compiuta dalla campagna
nazionale Criança não é de rua («I bambini non sono di strada»),
lanciata e guidata da O Pequeno Nazareno, evidenzia dati drammatici2.

Tra le persone
che vivono in strada il 58,13% ha tra i 13 e i 17 anni, il 13,28% tra i 7 e i
12 anni e addirittura c’è un 4,69% che ha meno di 6 anni. Due terzi (64%) dei
bambini e adolescenti di strada usano il denaro raccolto per procurarsi droghe.
Meno di un terzo (23%) dicono di usare i soldi per comprarsi da mangiare e
appena un piccolo numero (5%) per aiutare la propria famiglia. Ben l’88% dei
ragazzi di strada dice di far uso di un qualche tipo di droga. Tra queste, la
più consumata risulta essere il crack (49%), seguito dalla colla (16%), dalla
marijuana (12%) e dalla cocaina (5%).

Lo slogan di O
Pequeno Nazareno
, tanto semplice quanto efficace, è racchiuso in una
domanda: «Che futuro potrà mai avere una società che nega ai propri bambini il
diritto al presente?»3. I ragazzi che vivono sotto il
ponte di Kako Caminha o nelle strade di centinaia di altre città meritano
un’esistenza diversa.

Paolo Moiola
 
Note

1 – Di
Tommaso Lombardi ed Elaine Elamid abbiamo parlato nel reportage João cresce con i libri, in MC dicembre 2012.

2 – I dati
sono riportati dall’indagine svolta dagli organizzatori della Campanha nacional «Criança Não é de Rua» (Campagna nazionale «I bambini non sono di strada»). L’indagine è
scaricabile dal sito: www.criancanaoederua.org.

3 –
Testuale: «Que futuro terá uma sociedade que nega à suas crianças o direito a
um presente?».

Tags: tossicodipendenze, droghe, recupero, ragazzi di strada

Paolo Moiola




Senza dono, che Natale è?

Il rito dei doni a Natale è una furba trovata del capitalismo consumista, oppure, al contrario, una spina nel fianco del materialismo?

Una conversazione col teologo Roberto Repole.

Dopo il lungo mese di Novembre, quello in cui le giornate si accorciano drasticamente e inizia a fare freddo, in cui si sente una certa malinconia, ecco finalmente Dicembre, il mese del Natale.

Si accendono le luci colorate per le strade, in casa si crea spazio per il presepe e l’albero, quotidianamente i bimbi aprono le finestrelle del calendario dell’Avvento dietro cui si nascondono dei poco sobri cioccolatini. Chi ha una vita spirituale si confronta con la realtà dell’incarnazione di Dio, con le figure di Maria, Giuseppe, Gesù bambino, Elisabetta, e così via. E si pensa ai regali.

Spesso, proprio riguardo ai regali, capita di sentire una lotta interiore: la spinta spontanea al dono si scontra con la sensazione di essere usati dal mercato, di renderci complici della riduzione del Natale, delle nostre relazioni, del mondo intero a una corsa consumistica.

Ci è così tornato alla mente un piccolo libro dal titolo Dono, che parla proprio di questo dilemma, e abbiamo conversato con il suo autore: don Roberto Repole, classe 1967, sacerdote della diocesi di Torino che insegna alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e che, dal 2011, è presidente dell’Associazione teologica italiana.

Cominciando da Babbo Natale

Il primo capitolo del libro di Repole si apre proprio con il racconto dell’attesa di una bimba per il suo regalo di Natale, e pone subito al lettore una domanda piuttosto provocatoria: il rito dei doni a Natale è una furba trovata del capitalismo consumista, oppure è, al contrario, una spina nel fianco del materialismo? Per arrivare alla conclusione che il dono (quello vero) è una spina nel fianco del materialismo consumista, il testo compie un percorso che inizia da un’interpretazione molto bella, a nostro modo di vedere, della figura di Babbo Natale. «Nell’era del capitalismo e del consumismo – ci dice don Repole -, anche una tradizione come quella del regalo natalizio rischia di essere assorbita dai dinamismi consumistici. Ciò non toglie però che l’atto di scambiarsi doni a Natale riveli la nostra resistenza umana proprio ai meccanismi del consumismo, perché dice che gli uomini non sono soltanto mercato. Ad esempio la figura di Babbo Natale, individuo che porta regali venendo da un luogo sconosciuto, rappresenta simbolicamente il fatto che la vita stessa ci è stata data da qualcuno, e arriva da lontano». Babbo Natale è un uomo anziano. Sembra più un nonno che un babbo. Don Roberto suggerisce che anche questo è un simbolo, quello del legame tra le generazioni: «Ciò di cui viviamo è frutto non soltanto di chi ci ha immediatamente preceduti, ma ci è donato da tutta l’umanità vissuta prima di noi. Cosa su cui non riflettiamo mai a sufficienza, soprattutto perché la logica capitalistica ci spinge a pensare che siamo noi gli unici protagonisti e artefici di noi stessi». Babbo Natale esprime una comunione più profonda di quella che i nostri occhi carnali possono vedere: «Siamo in comunione con tutte le generazioni che ci hanno preceduto, non fosse altro che per il fatto che loro hanno permesso a noi di vivere la nostra vita così come la viviamo. La consapevolezza del legame tra le generazioni andrebbe recuperata, perché in questo momento storico corriamo il rischio di mettere una generazione contro l’altra invece di sottolineare il debito che ciascuna ha nei confronti della precedente e la responsabilità nei confronti della successiva».

Il pranzo di Natale

Anche l’invito al pranzo di Natale o alla cena della vigilia, come la figura di Babbo Natale, ha un suo senso profondo che oltrepassa quello della gioia dello stare assieme: invitare qualcuno a un pasto singnifica donargli qualcosa di nostro allo scopo di nutrirlo, donare la vita. «Dal punto di vista del cristianesimo è fonte di grande riflessione il fatto che Gesù ci abbia consegnato la certezza della sua presenza proprio dentro un pasto. Il pasto ha per gli uomini qualcosa di altamente simbolico. Il bisogno di nutrirci non è soltanto a un livello biologico. Con il pasto esprimiamo la consapevolezza fondamentale che non ci diamo la vita da soli, e che abbiamo bisogno di prenderla da fuori. E il fatto stesso di mangiare insieme dice che noi umani riceviamo e nello stesso tempo offriamo la vita agli altri. L’invito al pasto, soprattutto in contesti di grande povertà, significa “io, per una volta, mi prendo cura della tua vita”».

Il dono contraffatto

Ma, domandiamo a don Roberto, la realtà del dono è sempre positiva? Pensiamo ad esempio ai regalini dei pacchetti di merendine, per nulla disinteressati, alle donazioni che i paesi ricchi fanno ai paesi poveri potenziando un circolo vizioso di dipendenza dei secondi dai primi, a un certo atteggiamento di «dispensare carità» che, con il donare ai poveri, certifica e rafforza la loro condizione di emarginazione invece di includerli. «Il dono può essere contraffatto nel momento in cui non si riflette a sufficienza su quello che c’è in gioco in esso. Ad esempio il dono diventa negativo quando è sempre e soltanto unidirezionale. In un caso del genere si crea una strutturale disuguaglianza tra gli uomini. Qualcuno dona e qualcuno riceve senza possibilità di scambiare i ruoli. Nel dono autentico invece, nel momento in cui doniamo riceviamo.
Quando faccio un dono a qualcuno, come minimo ricevo da lui la possibilità di fargli un dono. Sono attivo, ma nello stesso tempo anche passivo: tutti siamo insieme donatori e donatari».

Il mercato è una grande cosa

Don Roberto con la sua voce cordiale pronuncia le parole «dono autentico», ma a noi viene da chiederci se il dono vero sia possibile, soprattutto in un mondo che sembra sempre più ridotto a mercato, in cui la logica del mercato, dello scambio, sembra un destino a cui non possiamo sottrarci. Viviamo in un tempo in cui la speranza fatica a sopravvivere. «Il mercato è una grande cosa, ma è una realtà dentro un’altra realtà ben più grande che è la società umana. La crisi economica in cui oggi viviamo è solo una parte di una crisi più ampia: il concepire la società come fosse nient’altro che un mercato. In tutti i settori, l’educazione, la scuola, la salute, gli affetti, noi rischiamo di pensare secondo la logica del mercato, cioè secondo una logica del pareggio: io dò qualcosa per ricevere in contraccambio qualche cosa di uguale e contrario.
Quando riduciamo la società a questo, perdiamo qualcosa di fondamentale della nostra umanità. Mi pare che oggi abbiamo ridotto la società alla logica del pareggio, e reagiamo alla crisi prodotta da essa con la stessa logica. Incapaci di vedere che noi siamo ben altro».

Sembra quasi che la mancanza di speranza nella nostra epoca derivi in qualche modo dall’idea che il mercato sia una specie di destino inesorabile, contro cui non si può fare nulla. «È così! La speranza fiorisce laddove c’è l’imprevedibile. E il dono, la gratuità, è sempre qualcosa di imprevedibile perché non lo possiamo produrre noi, viene dalla generosità altrui, gratuita. La speranza secondo me invece muore laddove abbiamo ridotto la società soltanto a ciò che possiamo prevedere e governare».

La «banalità» del dono

Dalla conversazione con don Roberto sembra emergere che il dono sia una realtà meno banale di quanto sembri a prima vista. Ad esempio, nel suo libro dice che, mentre il mercato ha una logica dello scambio proporzionato tra dare e avere, il dono invece ha una logica dello scambio sproporzionato. Mentre il mercato elimina il rischio, la gratuità, la relazione, la libertà, la responsabilità; il dono li prevede tutti. «Il dono funziona secondo una logica della sproporzione. Quando io ricevo un dono, viene a crearsi un disequilibrio tra me e il donatore, tant’è che mi viene spontaneo dire “grazie, non dovevi, non era il caso”. Queste parole servono a dire che tra me e il donatore si è creato un disequilibrio che a sua volta esprime qualcosa di fondamentale, cioè l’assoluta libertà di chi fa il dono e la sua imprevedibile generosità. Lo squilibrio però non viene mantenuto perennemente. Io infatti posso contraccambiare, sempre secondo la logica del dono: non sarà qualcosa di dovuto, sarà qualcosa di libero e gratuito. All’affermazione della mia persona che c’è stata da parte di chi mi ha fatto il dono, rispondo con l’affermazione della persona dell’altro contraccambiando il dono». Si tratta di uno scambio, ma di uno scambio totalmente differente da quello economico. Perché legato alla gratuità, alla libertà, alla fiducia.

«Nella sproporzione, nella disuguaglianza che si crea donando, si afferma un interesse fondamentale: l’interesse alla persona dell’altro. Per questo mi sembra che una società umana sia radicata fondamentalmente, come dicono molti acuti sociologi, proprio in questa dimensione del dono».

E se il cuore di tutto fosse dono?

Siamo partiti da Babbo Natale e siamo arrivati a dire che l’umanità è fondata sul dono. Se una riflessione di questo tipo viene proposta da un teologo è probabile che in qualche modo c’entri anche Dio nella questione. Lo chiediamo a don Repole, ricordando che uno degli ultimi capitoli del suo libro si intitola «E se il cuore di tutto fosse dono?», cioè, se all’origine di tutto, quindi anche dell’uomo, ci fosse il dono?

«C’è tutta una tradizione che ci dice che a Natale è Gesù bambino a portare i doni. Non è un caso che proprio nel giorno di Natale, nella tradizione cristiana, abbiamo instaurato la prassi rituale del dono: in qualche modo è Gesù Cristo stesso, in quanto figlio di Dio fatto uomo, a parlare del dono che Dio ha fatto di se stesso all’umanità. Gesù, dono di Dio, è il fondamento dell’esistenza stessa del mondo e dell’umanità. Noi siamo purtroppo abituati in modo catechistico a pensare che dapprima c’è l’uomo, poi il suo peccato, poi di conseguenza arriva Gesù che ci salva dal peccato. Questo è vero, ma va inserito in un orizzonte ancora più grande: Dio crea il mondo pensando già a Gesù, ed è quando decide di farsi dono, di donare se stesso nel suo figlio all’umanità, che Dio crea l’umanità e il mondo. Dunque per certi aspetti la prima parola del cristianesimo è proprio “dono”, cioè “grazia”. La grazia è talmente rivelativa della vita di Dio che in quella grazia, in quel dono, cioè in Gesù, noi conosciamo che il dono fa parte della vita stessa di Dio. Ed è per questo che noi siamo impastati di dono. Ed è per questo che, pur in un orizzonte come quello del mondo contemporaneo in cui un’ipertrofia dell’economicismo e del mercato sembrerebbe farci smarrire ogni sentirnero di speranza, noi cristiani possiamo continuare a essere fiduciosi. L’umanità continua a essere altro, e prima o poi l’inquietudine verso un mondo che ci soffoca in cui tutto è ridotto a mercato, porterà, porta già ora, a una reazione positiva che fa emergere il meglio di noi».

Vivere con speranza in un mondo che l’ha smarrita

In una società che sembra aver smarrito completamente la speranza, la realtà del dono può aiutarci a rintracciarla.

«Io penso che sia una fonte di speranza vedere che, nonostante tutto, anche in questo nostro mondo, tantissima gente dona. Basta guardare alle cose più semplici che magari non siamo più abituati a vedere: ci sono ancora persone che generano figli e donano la vita. Ci sono dei nonni che si prendono cura dei nipoti. C’è molto volontariato. La nostra società si regge ancora in piedi, nelle cose grandi come in quelle piccole, grazie al fatto che tantissime persone donano tempo, energie, denaro. Scendendo in profondità, io credo che possiamo nutrire speranza nella misura in cui sentiamo una resistenza dentro di noi rispetto al mondo che si trasforma in mercato. Il fatto che ci siano delle persone, e sono sempre di più, che sentono soffocante questo mondo è un segno di speranza, perché significa che stiamo reagendo con i nostri anticorpi, cioè con la capacità e il desiderio di dono che contraddistinguono la nostra umanità».

A Natale doniamo la vita

Alla fine della nostra chiacchierata, alla luce di tutte le considerazioni fatte, chiediamo a don Repole di darci un consiglio per vivere al meglio la realtà del dono nel Natale che si avvicina. «I regali di Natale possono avere una consistenza enorme dal punto di vista umano e spirituale nella misura in cui sappiamo accogliere il dono guardando negli occhi chi ce lo fa. Vivere il regalo ricevuto come un segno della presenza di qualcuno che ci sta dando qualcosa di sé, e il regalo donato da noi come la promessa di volerci essere e donare per l’altro. I regali di Natale possono essere segnati dalla logica del peggior consumismo se ci soffermiamo a guardare solo cosa riceviamo o cosa doniamo, concentrando la nostra attenzione sulle cose in sé e sul loro valore economico, oppure possono diventare tutt’altro: quando guardiamo negli occhi chi ci dà un dono e valorizziamo la cosa più importante, cioè non il dono in sé, ma il fatto che lui/lei si stia consegnando a noi, così come quando, qualunque cosa noi impacchettiamo per qualcun altro, facendo un dono consegniamo la nostra vita».

Luca Lorusso



Dalla montagna del vento


 

Invasioni, epidemie, distruzioni. Davi Kopenawa, sciamano e voce internazionale del popolo yanomami, ha conosciuto e pagato sulla propria pelle l’incontro con l’uomo bianco. Con la forza della sua intelligenza è riuscito a non farsi fagocitare. Oggi è conosciuto in tutto il mondo e la causa indigena ha trovato in lui un rappresentante di grande spessore, rispettato e ascoltato. Lo abbiamo incontrato nella sede di Hutukara, a Boa Vista.

Boa Vista. La sede dell’associazione si trova in una via tranquilla. La si nota
immediatamente perché sul muro di cinta della casa che la ospita è stato
disegnato il suo logo multicolore. Il nome Hutukara rimanda al mito yanomami sull’origine del mondo, quando una parte della vecchia volta celeste cadde formando la terra attuale (Urihi).

Nella stanza d’entrata incrociamo un paio di persone che via
radio stanno comunicando con qualche villaggio indigeno. Di lì a poco compare il padrone di casa. Capelli neri e lisci, volto tondo, una collanina nera al collo, indossa una maglietta bianca con inserti verdi e dei pantaloncini a
scacchi, proprio come un bianco. Ma bianco non è, anche se ha spesso corso il
rischio di diventarlo o di apparire tale agli occhi degli altri. Lui è Davi
Kopenawa Yanomami, sciamano, presidente di Hutukara, ma anche noto portavoce internazionale del popolo yanomami. È arrivato nella capitale proveniente da Watoriki, il villaggio yanomami il cui nome significa «montagna del vento».

Davi non lesina sorrisi, in particolare all’amico Carlo Zacquini, un napë (non-Yanomami) conosciuto nel lontano 1977. Fratel Carlo ha
portato con sé The Falling Sky. Words of a Yanomami Shaman, l’edizione inglese del libro autobiografico scritto da Davi assieme all’antropologo francese Bruce Albert. Glielo consegna per farsi fare una dedica. Davi si siede al tavolino e inizia a scrivere. Lo fa lentamente scandendo a voce alta ogni parola scritta in lingua yanomae sulla pagina bianca.

Nel frattempo i nostri programmi subiscono un imprevisto rallentamento. Si presenta un giornalista di San Paolo, che naturalmente ha
fretta. Ci chiede di parlare per primo con Davi. «Soltanto pochi minuti», ci assicura. Ci facciamo da parte, pur sapendo di rischiare, con l’arrivo del tramonto, di fare foto e riprese senza la luce naturale (come infatti avverrà). Fratel Carlo ci fornisce immediatamente una lettura di quanto accaduto: «Oggi i bianchi lo cercano. Spesso lo adulano, o gli fanno proposte che per molti altri sarebbero allettanti. Per Davi non è facile».

Occupiamo il tempo a conversare con una delle persone intente a parlare via radio. Lucivaldo è tecnico d’infermeria e lavora al polo
base di Demini, che serve anche Watoriki. «È un lavoro – spiega Lucivaldo – che richiede molta disponibilità perché il territorio è di difficile accesso. Si lavora nella comunità per 30 giorni, lontani dalla propria famiglia. Poi si torna in città per 15 giorni». La comunità dove Lucivaldo lavora conta 190 indigeni, seguiti da un’équipe di 4 persone, un infermiere e 3 tecnici d’infermeria.

Dopo circa mezz’ora torna Davi, finalmente libero di conversare con noi. Ci sistemiamo all’aperto, in un cortiletto interno della casa.

leggi tutto


Tags: Yanomami, Roraima, Indios, Amazzonia, Indigeni

Paolo Moiola




Il convento dei rifugiati

Bangui: una
straordinaria storia di accoglienza

Il paese nel cuore dell’Africa
vive una stagione di persecuzioni e caccia all’uomo. Dopo alcuni mesi di
governo dei ribelli Seleka, si sono formate milizie di reazione. In mezzo i
civili, siano essi cristiani o musulmani. Obbligati a nascondersi o fuggire, lasciare
la loro terra. Oppure a morire sotto i colpi di un connazionale. 

Nella
capitale, donne, bambini e uomini si rifugiano dove possono.
Ed ecco che il
convento dei Carmelitani Scalzi si trasforma in uno dei campi profughi più
grandi e meglio gestiti. E i frati diventano dei grandiosi operatori di vita e
di speranza.


di Federico Trinchero, Marco Bello e Silvia C.
Turrin
________________________________________________

Bangui, 5 Dicembre 2013

Come penso abbiate già
saputo, oggi la situazione a Bangui è improvvisamente precipitata. Anche per
noi qui è difficile capire cosa stia veramente succedendo. Ci sono stati spari,
morti e saccheggi in quasi tutti i quartieri.

Al Carmel (il convento dei
Carmelitani) stiamo ospitando più di 500 persone. È difficile contarli tutti.
Provengono da diversi quartieri. La maggior parte sono bambini piccoli con le
loro mamme. Ma ci sono anche tanti ragazzi.

Siamo riusciti a dare un po’
di cibo caldo a quasi tutti. Gli studenti e i novizi si sono dati da fare senza
tregua. Ora la gente sta dormendo nel cortile tra la chiesa e il refettorio.
Sappiamo che la situazione è analoga in altre parrocchie e comunità religiose
della capitale.

6 Dicembre

La notte è passata abbastanza
bene per i nostri 600 graditissimi ospiti. Dopo la Messa delle 6 e 45 molti
ripartono per rientrare nelle loro abitazioni. Il coprifuoco è infatti
terminato. Provo a fare colazione, ma mi chiamano al portone d’ingresso. La
gente corre verso il convento. È il panico. Nel quartiere si spara. Li
accogliamo a braccia aperte. Li sistemiamo come meglio possiamo, anche se la
poggia, a un certo momento molto forte, rende tutto più difficile. Moltissimi,
ovviamente, sono bambini. Per fortuna c’è solo un ferito. Provo a contarli
discretamente, perché non vorrei mai che qualcuno pensasse che non ci sia posto
per lui. Sono quasi 2.000.

Telefoniamo all’arcivescovo,
in nunziatura, all’ambasciata francese per informarli della nostra situazione e
chiedere se ci possano dare una mano per nutrire la gente. Ma comprendiamo che
non siamo gli unici a vivere una situazione del genere. Attraversare la città
per venire qui da noi è difficile per tutti. Pazienza, ci organizzeremo
diversamente.

Verso le 10 due caccia
rombanti attraversano il cielo nuvoloso. Sono arrivati i francesi! La gente
applaude. Io quasi piango.

Poco dopo il cielo si
rischiara un po’. Gli uomini rientrano nei quartieri. Restano con noi le donne
e i bambini.

Non ho il coraggio di
chiedere a questa gente la loro storia e il motivo per cui sono qui. Chiedo ai
bambini il loro nome. Uno si chiama Shalom, l’altro Dieu Sauve
cosa volete di più? Le donne sono tutte concentrate a cucinare e a consolare i
loro bambini. I vecchi sono pochissimi. I volti più tristi sono quelli dei
giovani e degli uomini della mia età. Sono esausti. Che futuro li attende? Deve
essere insopportabile avere una voglia matta di ribellarsi e non poterlo fare.

In questi giorni non
riusciamo più a pregare secondo l’orario abituale. Inoltre la nostra chiesa è
ormai occupata da 300 bambini. Ci pensano loro a pregare al posto nostro. I
loro strilli e il loro pianto ininterrotto suppliscono abbondantemente alla
nostra salmodia. Dopo le 17 arrivano altri aerei. Siamo tutti con il naso
all’insù. I bambini non stanno più nella pelle e per qualche minuto dimenticano
la fame. Cose così le hanno viste soltanto nei film, e questa è realtà.

7 Dicembre

Alle cinque siamo quasi tutti
già svegli. Faccio un giro di perlustrazione. Trovo due famiglie nella sala del
capitolo. Poi vado in chiesa. Due bambini hanno pensato bene di mettersi a
dormire proprio sotto l’altare. Questo sì che è sensus fidei dei piccoli: non c’è posto più
protetto di quello. Altri sono addormentati sugli stalli del coro e pregano al
nostro posto. Gli uomini e alcune donne, come ieri, rientrano nei quartieri per
recuperare qualcosa, costatare i danni e, purtroppo, sapere chi è morto. C’è
una bambina che da due giorni cerca il suo papà e la sua mamma. Facciamo un
affido temporaneo alla cuoca che, con suo marito, nostra sentinella, abita
nella nostra concessione. Ha già tre figli e giusto qualche giorno fa le
chiedevo se pensava di fae un quarto. Eccola esaudita! C’è anche un papà con
un bambino di pochi mesi che da due giorni non trova sua moglie. Registriamo i
loro dati e spargiamo la voce. Alla sera il papà ritrova finalmente la moglie.

Alle 9 parte la «nettezza
urbana»… perché circa 2.000 persone che vivono insieme su uno spazio grande più
meno come un campo da calcio, hanno indubbiamente le loro esigenze e qualche
inconveniente. Se dobbiamo essere un campo profughi, lo dobbiamo fare bene. Con
i bambini ripuliamo tutta la zona. Poi in fila indiana ci si lava le mani e in
premio c’è una frittella. Nel frattempo la gente cucina, lava i bambini, fa il
bucato e stende i panni. Anche la rete del campo da pallavolo diventa un comodo
stenditornio. Organizziamo l’accesso all’acqua e ai wc; disinfettiamo con la
candeggina e delimitiamo le zone con la calce.

Cedric, il nostro medico da
campo continua a ricevere gente e distribuire medicine. I casi più gravi sono
nel noviziato. Continuano ad arrivare aerei,
ormai non li contiamo più. Verso le 15 arriva dal
vicario episcopale e dall’Unicef l’ordine di registrare tutti per ricevere
degli aiuti. Ci mettiamo subito al lavoro.

8 Dicembre

Abbiamo un po’ di paura per
gli uomini. Alcuni sono un po’ agitati e covano sentimenti di rancore. Inoltre,
pur essendo i più forti, sono i più minacciati. La Seleka li cerca e li vuole
eliminare. Qui da noi si sentono protetti.

Il numero dei nostri ospiti
supera ormai i 2.100. Per la precisione: 800 bambini con meno di 12 anni
(alcuni di pochi mesi); 600 donne (di cui non poche incinte…) e 700 uomini. Nel
pomeriggio si organizzano delle partite a calcio.

Arrivano anche i primi aiuti
dal nostro insuperabile Youssouf: un sacco di riso, uno di zucchero e un bidone
di olio. Per tutta la giornata andiamo avanti e indietro con la radio accesa
per capire cosa sta succedendo in città. Due elicotteri sorvolano la nostra
zona più volte. Dopo i pasti la nostra (com)unità di crisi fa il punto della
situazione. Condividiamo i problemi e le esigenze dei nostri ospiti,
distribuiamo gli incarichi, cerchiamo nuove soluzioni, moltiplichiamo tutto per
2.000 e speriamo che funzioni.

10 Dicembre

La Croce Rossa internazionale
ci informa che ci sono nella città una ventina di siti come il nostro. Anche
campi da più di 10.000 profughi. Cosa succede esattamente in città è per noi
difficile da capire. In alcuni quartieri è cominciato in modo capillare il
disarmo dei ribelli. Purtroppo ci sono già due vittime nell’esercito francese
venuto a liberarci. Ogni tanto non resisto alla tentazione e faccio un salto in
chiesa. L’altare è circondato da un giardino di visetti neri e occhioni
bianchi. Ma trovo anche Jean, 64 anni, il nostro profugo più anziano che ha
visto tutti i colpi di stato del Centrafrica. Tutti mi chiamano mon père, ma lui si è preso giustamente il
privilegio di chiamarmi mon fils. Ha un piede fasciato e cammina col bastone. Poco prima di cena
riesco a trovargli un letto, un materasso e un cuscino, e lo sistemo nella
stanza del capitolo. Da sei giorni andiamo avanti più o meno così. Stiamo
facendo una cosa che nessuno di noi aveva mai fatto e mai vissuto in vita sua.
Una Ong avrebbe fatto forse meglio, ma sicuramente più tardi. La Chiesa,
invece, è arrivata prima. Anzi: era già qui, non se ne è andata e quasi non si è
accorta di restare. E i poveri hanno capito che venire qui era fare la strada
più corta e andare nel luogo più sicuro.

13 Dicembre

La bella notizia è la visita
inaspettata del nostro coraggiosissimo arcivescovo Dieudonné Nzapalainga. Per
la nostra gente è come se fosse arrivato il papa in persona. Ci ha trovati al
lavoro: chi alla distribuzione del cibo, chi impegnato nella pulizia del campo,
chi intento a sistemare i teloni di plastica contro la pioggia, chi concentrato
a seguire i malati… Il vescovo, venuto con un imam, ha visitato il nostro
campo e poi ha fatto un breve ma forte discorso invitando tutti alla pace, alla
riconciliazione e al perdono. Anche l’imam ha fatto un discorso analogo. Come
potete ben capire, l’intento di questa visita è stato quello di gettare acqua
sul fuoco di uno scontro tra cristiani e musulmani che rischia di incendiare
l’intero paese. Vogliamo, possiamo e dobbiamo vivere in pace insieme. Il nostro
piccolo Carmel vorrebbe essere nient’altro che questo: una scintilla di pace in
un grande fuoco di violenza.

24 Dicembre

Purtroppo venerdì scorso ci
sono stati degli scontri molto violenti in città, in un quartiere piuttosto
vicino al nostro convento. Questo ha provocato un improvviso aumento dei nostri
profughi. Come ogni giorno, verso le 7, ci avviamo verso il luogo all’aperto
dove celebriamo la messa. Lungo il tragitto sentiamo diversi spari, alcuni
molto forti e vicini. Mi domando se non sia più opportuno non iniziare la
celebrazione per evitare il panico. Ma il canto d’ingresso è ormai iniziato.
Gli spari si susseguono senza sosta. Verrà qualcuno a farci del male? Celebro
la messa più lunga della mia vita. Ammiro tuttavia la compostezza
dell’assemblea. Quando gli spari sono più forti, c’è come un sussulto e un
gemito collettivo; ma i nostri fedeli non si schiodano da dove sono.
L’eucaristia che celebriamo è la nostra migliore protezione, uno scudo
impenetrabile. Davvero la nostra unica salvezza. La celebrazione continua, ma
un fiume di gente che corre impaurita, con poche masserizie sulla testa,
raggiunge il nostro sito e ci circonda. Che impressione e che sfida questa
eucaristia inerme nel pieno vortice della guerra! La celebrazione termina e, in
pochi istanti, ci accorgiamo che i nostri ospiti da 2.500 sono diventati circa
10.000. Inizialmente siamo un po’ spaventati e ci domandiamo come potremo
gestire una tale massa di gente. Ma, superato questo iniziale smarrimento e
sensazione di impotenza, comprendiamo che tutto quello che abbiamo vissuto
finora non è stato che un allenamento per l’avventura che ci sta davanti.


17 Gennaio 2014

L’avvenimento più importante è
stato, il 10 gennaio, quello delle dimissioni del presidente Michel Djotodia,
salito al potere con un colpo di stato lo scorso 24 marzo. In tutto il
Centrafrica c’è stato come un grande sospiro di sollievo collettivo. Ma, dopo
qualche ora di gioia e di speranza, la guerra si è di nuovo fatta sentire con
spari, morti, saccheggi e disordini in molti quartieri, alcuni dei quali molto
vicini al nostro convento. I nostri rifugiati, quindi, hanno preferito restare
con noi, in attesa di tempi migliori e di una pace più vera. Secondo le ultime
stime ufficiali un centrafricano su cinque – il che vuol dire quasi un milione
– è attualmente sfollato. Difficile non dare ragione a questa gente, ormai
toppo abituata ai giochi di prestigio della politica.

Restare qui è una forma di
protesta pacifica per esigere al più presto una pace vera e non una pace a metà.

Nel nostro campo rifugiati la
vita procede abbastanza normale… per quanto possa dirsi normale la vita di
migliaia di persone strette attorno ad un convento. È davvero interessante
osservare come la gente si è organizzata per sopravvivere in questa emergenza.
Si è creato addirittura un piccolo mercato di verdura, carne, generi alimentari
di ogni sorta e altre cose utili. Ci sono dei salon de coiffure, piccole farmacie, negozi di
articoli religiosi, una specie di gioco del lotto, buvette e bistrot sempre molto frequentati.

Abbiamo fatto addirittura un
regolamento per aiutarci a vivere meglio insieme di giorno e riposare un po’ di
più la notte. Non è del tutto e sempre rispettato, ma ha la sua utilità, tanto
che altri campi rifugiati l’hanno preso in prestito.

Un intraprendente comitato –
con tanto di presidente, vicepresidente, segretario generale, ecc. -assicura il
trait d’union tra la comunità dei frati e i rifugiati per il
cornordinamento delle attività. E, manco a farlo apposta, è sorto pure il
sindacato per i diritti dei rifugiati. Insomma: attorno al convento ora c’è un
Centrafrica in miniatura con tutti i suoi vizi e le sue virtù. E questa
coabitazione forzata mi ha permesso di conoscere meglio i primi e di apprezzare
di più le seconde.

Nel frattempo, oltre che ai
santi, ci affidiamo ai militari francesi, i quali stanno facendo un meticoloso
lavoro di disarmo e pacificazione tra i diversi gruppi ostili. Proprio pochi
giorni fa, una pattuglia è venuta a farci visita. Il sergente Thierry si è
fermato a parlare con noi per aggioarci sulla situazione. Purtroppo ci sono
ancora gruppi di ribelli che si nascondono attorno alla capitale… e attorno al
nostro convento; ma vi sono comunque segnali concreti di distensione. Speriamo
che abbia ragione. Ci assicura che sono qui per una missione di pace, anche se
hanno addosso degli strumenti che sembrano dire il contrario. Mi fa quasi
tenerezza questo giovane sergente! Prima di essere precipitato qui, tra Seleka
e anti Balaka, è stato in Afghanistan, in Libano e in Mali. Ci racconta che una
notte, su una strada di Bangui, ha dovuto assistere con la sua pattuglia al
parto di una donna: «Solitamente noi militari vediamo la gente morire, quando
non siamo noi stessi costretti a uccidere. Questa volta ci è invece capitato di
aiutare un bimbo a nascere». E poi, un po’ emozionato, mi rivela che da pochi
giorni è diventato lui stesso papà di due gemelli che non ha ancora visto.

13 Febbraio

Il nostro campo profughi ha
ormai superato abbondantemente i due mesi. Davvero, chi l’avrebbe immaginato,
che quelle porte, spalancate il mattino del 5 dicembre dello scorso anno,
sarebbero rimaste aperte per così tanto tempo e che i nostri ospiti si
sarebbero così affezionati al Carmel!

Evidentemente, se sono ancora
qui, sebbene diminuiti, un motivo c’è. La situazione, infatti, stenta a
migliorare in modo significativo. A Bangui non passa giorno, e soprattutto
notte, in cui non ci siano morti, saccheggi e regolamenti di conti. Ma la cosa
ancor più drammatica è che, da diverse settimane, è ormai quasi l’intero paese
a essere teatro di scontri e di violenze senza precedenti.

Se in capitale una certa
presenza militare, soprattutto francese, assicura una relativa tranquillità e
la possibilità di spostarsi senza rischiare troppo la vita, in provincia la
situazione è molto più complessa. Tutta la zona Nord occidentale del paese è
stata a più riprese oggetto di rappresaglie da parte ora dei Seleka ora degli
anti Balaka: saccheggi, uccisioni, tante case e mercati bruciati. Il paese è
entrato nel vortice di una violenza becera che sembra non arrestarsi. Quello
che all’inizio sembrava una lotta per il potere, si è ora trasformato in uno
scontro tra queste due fazioni che hanno avvelenato il paese e mietuto vittime
innocenti. Se i Seleka, e chi li ha sostenuti, sono indubbiamente all’origine
della situazione in cui ci troviamo, gli anti Balaka hanno dimostrato una
violenza pari, se non superiore, a chi li ha preceduti e provocati.

Gli anti Balaka, che non sono
musulmani, non possono dirsi cristiani. Se lo erano, le loro azioni dicono il
contrario. Più volte, infatti, i vescovi hanno denunciato questa violenta
reazione popolare, che i media hanno frettolosamente interpretato come
cristiana. Ma, poiché non sono musulmani, la confusione è stata inevitabile. Ci
consola la consapevolezza che, sebbene tutto ciò sia una vergogna, sono stati
centinaia, forse migliaia, i musulmani che hanno trovato rifugio nelle
parrocchie e nei conventi sparsi nel paese salvandosi la vita. Ma l’esodo di
questa minoranza è ormai cominciato. Tantissimi musulmani – e tra questi anche
alcuni nostri carissimi amici – sono stati costretti a lasciare il paese, pur
essendo nati qui. A ciò si aggiunge un effetto collaterale che renderà ancora
più difficile la già fragile economia del paese. Le poche attività commerciali
del paese – soprattutto, ma non solo, la vendita all’ingrosso e al dettaglio
dei generi alimentari di base – erano infatti in mano ai musulmani. Il futuro
del Centrafrica, anche quello economico, è quindi una vera incognita.

In questo quadro desolante c’è
stato, il 20 gennaio, un segnale di distensione: l’elezione di un nuovo
presidente nella persona di Cathérine Samba-Panza, ex sindaco di Bangui (vedi box). Tale nomina è stata salutata
positivamente dalla comunità internazionale. Cathérine Samba-Panza ha una cosa
alla quale i politici tengono molto e che faceva difetto a chi l’ha preceduta:
il favore popolare. Ciò non toglie che il compito che le sta davanti sia
difficile, quasi impossibile. È ancora presto, allora, per cantare vittoria e brindare
alla pace.

La nuova
presidente ha in seguito nominato un nuovo primo ministro il cui cognome è
tutto un programma: Nzapayeke, che significa «Dio c’è». Un ottimo tandem con il
vescovo di Bangui, il cui cognome, Nzapalainga, significa «Dio sa». Quindi: Dio
c’è e Dio sa. Queste due certezze, che non sembrano mai essere venute meno nel
cuore di tutti i centrafricani, siano essi cristiani o musulmani, sono più che
sufficienti per non scoraggiarci, sentirci al sicuro e andare avanti.

Nel
frattempo è nata una scuola d’emergenza, grazie anche all’iniziativa degli
insegnanti cattolici presenti tra i nostri rifugiati. È sorta nel giardino
delle suore, a pochi metri dal nostro cancello. Il giorno dell’inaugurazione,
seduto sulla poltrona principale, ho ricevuto gli onori degni di un direttore
scolastico di una popolatissima scuola con classi, purtroppo senza banchi e
sedie, che sfiorano i duecento allievi. Mi hanno dato la parola presentandomi
come padre Federico, papà di tutti i profughi del Carmel. In questi giorni, la
gioia più grande è vedere ogni mattina frotte di bambini che sciamano dal
nostro campo, con le loro cartelle griffate Unicef, per raggiungere le loro
classi profumate di plastica… per fare una cosa così normale, così bella e così
giusta come andare a scuola. Io, alla loro età, non mi ero accorto di essere
fortunato perché i giorni di scuola superavano quelli di vacanza. Qui, invece,
da alcuni anni, è purtroppo quasi il contrario.

Se i
bambini non mancano, la nostra fattoria ha subito un duro colpo a causa di
diversi furti. A Bangui i prezzi dei generi alimentari sono a volte addirittura
raddoppiati e la carne è diventata introvabile. Quanto a
bambini, al Carmel non ne sono più nati. In compenso è arrivato Geoffroy, di
circa 12 anni, proveniente da Bossangoa, una città situata a 400 Km a Nord di
Bangui. Geoffroy non ha fratelli, i suoi genitori sono morti a causa di una
granata, e la sua casa è stata incendiata. Accompagnato da militari è arrivato
fino a Bangui. Dopo aver trascorso qualche giorno nel campo profughi
dell’aeroporto – che ospita circa 100.000 sfollati – un moto taxi lo ho
lasciato davanti al cancello del nostro convento senza troppe spiegazioni. E
noi lo abbiamo lavato, vestito, nutrito, cercando di comprendere qualcosa del
suo passato e di trovare una soluzione per il suo futuro. Nel frattempo, senza
troppe difficoltà, Geoffroy si è adattato a usi e costumi del convento, forse
un po’ smarrito per tanta accoglienza da parte di 12 giovani frati, ma felice
di poter dormire in un luogo sicuro.

25 Marzo

Fino a
pochi giorni fa il numero dei nostri profughi si era stabilizzato intorno ai
5.000. Ma, dal momento che in diversi quartieri di Bangui si spara ancora, la
gente, anche quella che aveva provato a rientrare, spesso è costretta a ritornare
da noi. Attualmente potrebbero essere intorno ai 15.000 (il 40% dei quali sotto
i 15 anni). Nella capitale i siti che accolgono profughi sono ancora 59, alcuni
dei quali con molta più gente di noi.

5 Maggio

La guerra non è finita. Ogni
giorno, infatti, sappiamo di uccisioni e rappresaglie nei quartieri della città
o in altre zone del paese. Se la presenza dei militari impedisce che tali
episodi possano degenerare, la situazione resta comunque tesa e incerta. Anzi,
proprio durante la settimana santa, la Chiesa Cattolica si è trovata nel mirino
dei ribelli. A fae le spese è stato dapprima il vescovo di Bossangoa, una
diocesi a 400 Km da Bangui. Per fortuna è stato rilasciato il giorno seguente.
Il venerdì santo, invece, un sacerdote centrafricano, della medesima diocesi, è
stato barbaramente ucciso mentre stava raggiungendo in moto il villaggio di cui
era parroco.

Secondo l’ultimo censimento
effettuato da una Ong il numero dei nostri profughi è sceso e si è ormai
stabilizzato a 7.500. Siamo uno dei 5 campi profughi più grandi della capitale.
Vi sono state settimane nelle quali siamo stati molti di più. Ora tutti i
nostri ospiti hanno trovato rifugio sotto 79 tendoni di plastica, dove possono
abitare più famiglie insieme. Vi sono poi un centinaio di altre piccole
abitazioni. Il campo è diviso in 12 quartieri. Ogni quartiere ha un
responsabile coadiuvato da due consiglieri. Un comitato presiede e organizza
ogni attività. Ci sono un’équipe di vigilanza per la notte e un’altra per il
giorno; altre due squadre sono incaricate della pulizia dei servizi igienici,
del campo e della raccolta dell’immondizia. Un’altra squadra, formata di
giovani alquanto muscolosi, si occupa di scaricare i viveri. Ogni due
settimane, infatti, la Croce Rossa Internazionale deposita, in uno dei chiostri
del convento, tonnellate di riso, fagioli, 2.800 litri di olio e 12 grandi
sacchi di sale. Infine, un consiglio di 10 saggi – uomini e donne – svolge un
influente ruolo di controllo su tutte le attività. C’è poi uno spazio giochi
per i bambini, un ambulatorio medico e una scuola. In un cortile del convento è
stato installato un serbatornio da 10.000 litri di acqua che, dopo essersi
riempito durante la notte grazie alla nostra pompa, viene svuotato il mattino
seguente, in meno di un’ora, tramite 12 rubinetti.

Federico Trinchero*

*Padre Federico Trinchero,
carmelitano scalzo, è missionario in Rca e superiore del convento Notre Dame du
Mont Carmel di Bangui.


_______________________________________

Dal golpe di Michel Djotodia
all’arrivo degli anti Balaka
Futuro incerto in Centrafrique


Gli spari sono forti e
chiari, singoli e vicini. Stiamo parlando al telefono con un conoscente. Lui è
a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, dove lavora per una Ong. «Aspettate,
vado a vedere che non siano troppo vicini». Poi torna la calma e la
conversazione riprende. In Rca è da oltre un anno e mezzo che si vive in
perenne stato di guerra, o di guerriglia. Nel dicembre 2012 furono i diversi
gruppi armati a maggioranza islamica che, coalizzati nella ribellione Seleka,
mettevano a rischio il regime decennale di François Bozize. Regime che
rovesciarono il 24 marzo dell’anno successivo, quando, presa la capitale,
Michel Djotodia, numero uno della coalizione, divenne presidente grazie a un
colpo di stato (si veda MC ottobre 2013). Così in un paese dove la
popolazione è cristiana all’85%, il governo e l’esercito diventarono a
schiacciante maggioranza musulmana. Di più: tra i comandanti, molti non erano
neppure centrafricani, ma sudanesi o ciadiani. La Seleka controllava tutto il
territorio nazionale, sebbene suddivisa in tante fazioni, non molto cornordinate,
mentre le istituzioni dello stato erano di fatto scomparse. Così i gruppi
ribelli dettavano legge, perseguitavano e taglieggiavano la popolazione.

«Gli anti Balaka hanno origine come meccanismo di
autodifesa contro i soprusi della Seleka – ci racconta una nostra fonte locale
– nascono a Bassangoa (nell’Est del paese a forte presenza cristiana, ndr)
poi si moltiplicano nelle altre città». Queste milizie, sedicenti cristiane,
diventano il nuovo elemento di instabilità. Combattono dapprima contro la
Seleka, ma iniziano subito a commettere persecuzioni e rappresaglie nei
confronti dei musulmani in genere. Il conflitto prende una piega
etnico-religiosa, tant’è che le Nazioni Unite mettono in guardia contro il
rischio «genocidio». Gli islamici lasciano in massa il paese. È il 5 dicembre
che gli anti Balaka attaccano la capitale. «Sono armati di armi “artigianali”,
machete, qualche arma da fuoco. Restano milizie non cornordinate tra loro, anche
nella stessa località si possono avere tanti gruppi diversi, poco collegati.
Sicuramente ci sono dentro banditi, qualcuno che ne approfitta. C’è poca
politica» continua la nostra fonte. Eppure i dubbi di un appoggio esterno ci
sono: secondo il Comitato per le sanzioni delle Nazioni Unite: «François Bozize
fornisce sostegno materiale e finanziario a delle milizie […] che cercano di
riportarlo al potere, ovvero gli anti Balaka, ed ex membri dell’esercito
centrafricano». Levy Yakété, vicino a Bozize prima del colpo di stato, è
accusato di organizzare distribuzione di machete a giovani cristiani
disoccupati, allo scopo di attaccare i musulmani. I due personaggi, insieme a
Nourredine Adam, numero due della Seleka, sono stati raggiunti da sanzioni
inteazionali dell’Onu.

La Francia decide di irrobustire la
sua presenza, fino a quel momento di 600 militari, arrivando a 2.000 e battezza
l’operazione Sangaris.

Diversi
scontri delle milizie cristiane si verificano anche con le truppe della Misca,
la missione di pace dell’Unione africana, circa 5.400 uomini, di cui fanno
parte 830 militari ciadiani. Ed è proprio contro questi che si accaniscono gli
anti Balaka, accusandoli di collusione con la Seleka.

Il presidente ciadiano Idriss Déby,
cambia atteggiamento rispetto alla crisi. Il Ciad è stato coinvolto fin
dall’inizio nel ruolo di mediatore, ma allo stesso tempo ha molti interessi in
campo, e ha appoggiato la Seleka (di cui diversi ufficiali sono ciadiani). Déby,
presidente di tuo della Cesac (Comunità economica degli stati dell’Africa
centrale), il 10 gennaio convoca un incontro di vertici a Njamena durante il
quale i presidenti dell’area decidono che Djotodia deve passare la mano. Così
il presidente Seleka «forzato alle dimissioni» abbandona e si trasferisce in
Benin per un esilio dorato (durante poco più di 9 mesi di potere è riuscito a
mettere da parte una discreta fortuna, grazie al commercio di pietre preziose).

Il Consiglio nazionale di
transizione (Cnt), parlamento provvisorio della Rca, composto da 135 membri,
elegge il sindaco di Bangui, Chathèrine Samba-Panza, nuovo presidente della
Repubblica ad interim, incaricata di organizzare le elezioni generali.
Nominato un nuovo primo ministro, André Nzapayéké, il 27 gennaio viene varato
un nuovo governo, molto simile al precedente, in cui entrano gli anti Balaka.
Ma gli scontri non si placano e, mentre Bangui resta in mano ai francesi della
Sangaris e alla Misca (dalla quale il Ciad ha ritirato i suoi uomini), le
truppe della Seleka ripiegano nelle loro zone di origine (a Nord Est) per
riorganizzarsi, mentre nel resto del paese imperversano gli anti Balaka.

Il 10 aprile il Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite vota l’invio di una forza di pace di 11.800
caschi blu, che però non arriverà prima del 15 settembre, mentre l’Unione
europea manderà un contingente di 500 uomini.

Benché sia ben accetta dalla
popolazione, la Samba-Panza ha poco margine di manovra. Nel paese ci sono
almeno 200.000 sfollati interni e 60.000 rifugiati oltre confine. Intanto
l’esodo dei musulmani, sia stranieri sia centrafricani, continua con ogni
mezzo. «La situazione è molto preoccupante – riprende il nostro interlocutore –
le milizie delle varie fazioni fanno tutto quello che vogliono e nessuno può
intervenire».

Marco Bello

_________________________________

Incontro con il musicista Bibi Tanga


Note di pace

«Il
problema del mio paese è la classe dirigente che non sta assolutamente
dimostrando di essere impegnata, né è interessata a trovare una soluzione seria
a ciò che sta accadendo. L’attuale generazione politica non è all’altezza del
proprio compito e sta calpestando i nostri diritti».

Così denuncia l’artista centrafricano Bibi Tanga, nato
nel 1969 a Bangui, poi trasferitosi in Francia con la famiglia dopo aver girato
mezzo mondo. Cresciuto nella periferia parigina, ha sviluppato una doppia
cultura, conservando le proprie radici nella terra d’origine, la Repubblica
Centrafricana. «La maggior parte dei miei familiari – ci racconta – vive ancora
laggiù. In questa situazione così instabile e tormentata i miei rapporti con
loro sono quotidiani. Cerco di sentire telefonicamente i miei parenti ogni
giorno». Preoccupazione comprensibile, considerata l’involuzione
politico-sociale che sta attraversando questa nazione, da quando, nel marzo
2013, il presidente François Bozize è stato costretto a lasciare il paese per
l’incapacità di arginare gli scontri del gruppo ribelle chiamato Seleka. 

Compositore,
bassista, interprete eclettico ed estroso, Bibi Tanga ha vissuto in Russia,
negli Stati Uniti e in Belgio, seguendo il padre diplomatico e funzionario
della Repubblica Centrafricana. La passione per la musica si è rivelata in lui
molto presto. Non ancora adolescente, Bibi Tanga ha imparato il solfeggio,
dedicandosi poi allo studio del basso, ed è in Francia che ha iniziato la sua
formazione musicale, ascoltando in particolare Jacques Brel, Curtis Mayfield,
James Brown e Bob Marley. Il suo sguardo artistico spazia quindi dal soul al
reggae, dal funk alla chanson française, ma il richiamo dei suoni della
Madre Africa lo hanno ridestato. Si è avvicinato alla musica di Fela Kuti col
suo irresistibile e politicamente impegnato afrobeat: una scoperta artistica
che per Bibi Tanga diventa una rivelazione sorprendente. Attingendo a tutte
queste influenze, l’artista centrafricano ha pubblicato nel 2000 il suo primo
album dal titolo Le vent qui soufflé, cui seguono Yellow Gauze
(2006), Dunya (2009) e 40° Of Sunshine (2012). Dischi pieni di
contaminazioni e di fusioni, come lui stesso sottolinea: «La mia è una “musica
senza frontiere”. Una definizione, questa, che mi piace. In fondo, tutta l’arte
in generale vede l’incontro di molteplici influenze. Non ci sono solo i ritmi
africani nei miei lavori, ma molto altro». 

In
questo «altro» ritroviamo riferimenti sia alla vita di tutti i giorni, sia alla
situazione politico economica dell’Africa. Ritroviamo anche una mescolanza di
lingue – francese, inglese, sango – come pure il forte attaccamento alla terra
che gli ha dato i natali. «Il legame che nutro verso il mio paese è ancora più
intenso, considerato il dramma che sta vivendo. Ho voluto mantenere la
nazionalità centrafricana, talmente è forte l’affetto che provo per la mia città
d’origine. Bangui è stata sfigurata, distrutta dai recenti avvenimenti – spiega
con inquietudine l’artista – e la situazione continua a essere catastrofica. I
civili vengono massacrati, anche in altre zone del paese. Ma non voglio cadere
nella disperazione. È necessario pensare alla ricostruzione e a una soluzione.
Con la mia musica cerco di parlare di pace anche ai miei connazionali. Per
esempio, nel mio ultimo album intitolato Now ho inserito la canzone Ala
Za ï
che nella mia lingua matea, il sango, significa proprio pace».

E di pace ne avrebbe davvero bisogno la Repubblica
Centraficana, la cui storia, sin dall’indipendenza avvenuta nel 1960, è sempre
stata tormentata da colpi di stato e regimi dispotici. Anche se Bibi Tanga non è
stato contrario all’intervento francese in Centrafrica nel dicembre 2013,
l’artista attraverso la sua musica deplora l’uso delle armi. Nel brano «Ngombe»,
cantato sempre in sango e inserito nel nuovo album Now, denuncia chi
utilizza il fucile per avere ragione, per dimostrarsi il più forte, per avere
il diritto di parlare. «Cantare nella mia madrelingua è un modo per sentirmi
vicino ai miei familiari, ai miei connazionali e alla mia terra d’origine, per
la quale sogno un futuro senza più massacri, senza più bagni di sangue. Spero
che la mia musica possa cambiare le coscienze».

Silvia C.
Turrin

Tags: guerra, violenza
Seleka, Anti-Balaka, rifugiati, guerra civile, convento, Carmelitani,
insicurezza, accoglienza, Centrafrica, Bibi Tanga, pace, musica, Michel Djotodia, Chathèrine Samba-Panza

Federico Trinchero e altri