Da Brescia a Torino, per l’Africa

Padre ANGELO BELLANI,
a cinquant’anni dalla morte

I missionari della Consolata
sono oggi sparsi in quattro continenti e appartengono a venti nazionalità diverse,
ma all’inizio si trattava di un piccolo gruppo di giovani tutti piemontesi che l’Allamano,
nel nome della Consolata, inviò in Africa. Il primo sacerdote non piemontese a
entrare nell’Istituto fu un giovane prete bergamasco-bresciano, Angelo Bellani (1875-1964).

Nato nel 1875 a Palosco, in provincia di Bergamo, ma nella diocesi
di Brescia, entrò in seminario nel 1891 e venne ordinato sacerdote nel 1900.
Interruppe lo studio della teologia per il servizio militare che compì alla
rocca di Anfo da febbraio 1896 a maggio 1897, dove ebbe la possibilità di
collaborare col parroco don Andrea Pelizzari a iniziare l’oratorio parrocchiale
e la banca rurale.

Negli anni di seminario maturò il desiderio
di andare missionario in Africa e durante gli esercizi spirituali in preparazione
all’ordinazione sacerdotale scrisse al suo vescovo una lettera per chiedergli
il permesso di realizzarlo. Il vescovo mons. Giacomo Coa Pellegrini gli
rispose: «Caro don Bellani, so del tuo grande desiderio di farti missionario.
S. Carlo Borromeo ai novelli sacerdoti che desideravano diventare religiosi
diceva: “Pagate alla diocesi che vi ha ordinato quattro anni di servizio
sacerdotale”. Poi sarai libero». Mandato vice parroco a Tuscolano conobbe don
Piero Grana, amico di Daniele Comboni, il grande missionario della Nigrizia. La
frequentazione di don Grana intensificò in Bellani il desiderio di partire per
l’Africa come Comboniano.

Missionario


Ecco come padre Angelo si racconta: «Iniziai
le pratiche e fui accettato dall’allora superiore generale (dei Comboniani),
padre Colombaroli. Ormai al termine della mia ferma in diocesi e quando già
avevo fatto i preparativi per raggiungere l’Istituto che consideravo “mio” fui
pregato dal superiore di rimanere ancora in aiuto del mio vescovo finché non
avesse avuto un sacerdote con cui sostituirmi. Un vero colpo per me: questo fu
il motivo per cui venni nella determinazione di non entrare più fra i
Comboniani, ma di cercare altrove la mia sistemazione. Provvidenzialmente il
mio parroco mi offerse alcuni numeri del bollettino delle Missioni Italiane edito
a Firenze dicendomi: “Prendi e leggi, ti piaceranno giacché vuoi proprio
andartene”. Nel numero 3-6 luglio-dicembre 1902 trovai descritta la fondazione
dell’Istituto della Consolata. Fu per me una rivelazione. Ebbi uno scambio di
lettere con il canonico Giuseppe Allamano».

Un padre gesuita che predicava gli esercizi
spirituali ai preti di Brescia gli disse: «Vada a Torino, il canonico Allamano è
un santo prete». L’incontro di Bellani con il fondatore fu cordialissimo e si
concluse con la sua accettazione, primo sacerdote missionario della Consolata
non piemontese. Era l’inizio dell’inteazionalità del nostro Istituto.

Prima della sua partenza per Torino, fece
una visita ad Anfo, dove il parroco stimava molto l’Allamano. Là, condividendo
la sua scelta con i giovani dell’oratorio, ne contagiò in modo speciale due,
che erano ancora bambini quando lui era militare: il quattordicenne Bortolo Liberini (1890 – 1960, sepolto in
Mozambico) che sarebbe diventato un esemplare fratello missionario della
Consolata e la tredicenne Mercede Stefani (1891 – 1930, sepolta in Kenya) che
sarebbe divenuta suora missionaria della Consolata col nome di Suor Irene e che
abbiamo visto beatificata il 23 maggio scorso.

Angelo Bellani entrò a Torino il 16 agosto
1904 e iniziò con grande impegno la sua preparazione alla vita missionaria
studiando linguistica, inglese, medicina, infermieristica, agricoltura,
falegnameria, ma anche spiritualità missionaria e scienze, secondo il metodo
pratico e concreto dell’Allamano.

In Kenya

Il 24 gennaio 1905 emise il giuramento per
cinque anni (i primi missionari si legavano all’Istituto non con una
professione religiosa a vita, ma con un contratto giurato, ndr) e il 29
gennaio partì per il Kenya, due anni e mezzo dopo i primi quattro missionari
della Consolata e là fu accolto dal superiore padre Filippo Perlo.

La sua attività missionaria si esplicitò nei
settori più diversi: fondazione di missioni, attività agricola, formazione dei
catechisti. Fu superiore alla fattoria del Mathari-Nyeri (1905-1909); fondatore
e superiore della missione di Gaturi (1910-1911); superiore della missione di
Karema (1912-1915); addetto al collegio catechisti a Mogoiri (1915-1918);
missionario nel Meru nella missione di Egoji dal 1919 al 1929.

Riferì un suo amico bresciano: «Mi disse
varie volte che egli si era prefisso un triplice ordine di lavori, mostrando
idee modeissime in materia di apostolato missionario: la fondazione di
cristianità; la formazione di catechisti e del clero indigeno che avviava ai
centri di educazione; e l’organizzazione di una autonomia economica al servizio
della missione». In tutti questi tre settori padre Bellani lasciò un segno
della sua genialità e della sua costanza.

Nel 1908 per un incidente e per un’operazione
male eseguita ebbe una gamba rovinata e irrigidita che lo costrinse a zoppicare
molto visibilmente e a cercare nel bastone un appoggio. Questo non ridusse il
suo slancio missionario. Dopo 15 anni tra i Kikuyu (1905-1919), finita la
guerra e rientrati i missionari dagli ospedali dei carriers, fu inviato
tra i Meru, nella missione di Egoji, ove spese una decina d’anni imparando la
loro lingua e scrivendone la prima grammatica, un libro di preghiere – il Ketabu
kea Akristo
– e un catechismo della dottrina cattolica, oltre a lasciare
appunti sulla cultura e le usanze di quel popolo.

Erano gli anni iniziali della presenza
cattolica tra quella popolazione e furono particolarmente duri. Al suo arrivo
nel Meru nel 1919 erano già sorte quattro missioni: Imenti ed Egoji nel 1911;
Tigania ed Eghembe nel 1913. I missionari le chiamavano «trappe», e la loro era
veramente una vita da trappisti con tanta preghiera, duro lavoro e scarsi
risultati visibili.

Egoji

Quando padre Bellani giunse a Egoji, i cristiani erano 36, quando
dieci anni dopo lasciò quella missione, i cristiani erano appena 195,
nonostante il grande lavoro compiuto. Ma quei pionieri, con la grazia di Dio,
misero le fondamenta di una cristianità che sarebbe «esplosa» alcune decine di
anni più tardi, negli anni Cinquanta. Infatti è interessante ricordare che nel
1953 sarà creata la diocesi di Meru che oggi conta 846.000 cattolici (il 31,1%
della popolazione), 60 parrocchie, 168 sacerdoti e 398 religiose, dalla quale
verranno poi staccate la Diocesi di Embu (1986) con 320.000 cattolici (il 60,5%
della popolazione), 16 parrocchie, 55 sacerdoti e 92 religiose e (1995) il
vicariato apostolico di Isiolo con 35.000 cattolici.

Rientro in Italia

Nel 1929 padre Angelo dovette lasciare
l’Africa e il suo Istituto e rientrare in diocesi, su ordine di mons. E.
Pasetto, il visitatore apostolico che in quegli anni difficili fu mandato da
Roma a controllare, ridimensionare e riqualificare l’Istituto, accusato di
essere troppo lassista nella formazione dei suoi missionari, «arruolati» in
quantità pur di avere personale a sufficienza per il numero crescente di
missioni.

Padre Bellani che tanto aveva lottato per
essere missionario, per obbedienza aveva dovuto abbandonare quel campo dove
aveva tanto lavorato e dove avrebbe voluto terminare la sua vita.

Non potendo più essere missionario al
fronte, volle continuare ad esserlo nelle retrovie. Egli chiese di lavorare
ancora per le missioni e fu nominato Direttore diocesano delle Pontificie Opere
Missionarie. In questo ufficio, come scrisse mons. Luigi Fossati «con un lavoro
tutto suo ed originale padre Bellani fece fiorire le iniziative missionarie.
Nessun missionario passava dal suo ufficio senza partire carico di aiuti per le
missioni. Il museo missionario, il laboratorio missionario, le conferenze e i circoli di studio e la raccolta di
offerte ricevettero un grande impulso. Svolse nel seminario Santo Cristo di
Brescia una assidua assistenza spirituale e coltivò le vocazioni per le
missioni. Raccolse una vasta biblioteca specializzata in etnologia,
missiologia, storia delle religioni. Curò pubblicazioni scientifiche come la
comunicazione su una delle sorgenti del Nilo, quella di Bar el Ghazal, che fece
modificare la carta geografica del ministero delle colonie; tenne conferenze
all’ateneo di Brescia e in vari convegni di studio».

Il dolore per non poter più tornare in Africa
non sminuì il suo impegno missionario ma lo trasformò in creativo dinamismo per
rendere missionaria la diocesi. Nelle parrocchie promosse innumerevoli
iniziative, curò la creazione di gruppi di collaboratori/trici che formava
spiritualmente alla missione. Il servizio di direttore spirituale in seminario
fu un’altra posizione strategica per «contagiare» il clero e promuovere le
vocazioni missionarie.

Non dimenticò mai l’Istituto della Consolata
a cui si sentiva sempre legato. Ne chiamò i membri per frequenti giornate
missionarie, inviava arredi per le chiese in Africa. Non fu estraneo alla
donazione della villa di Bedizzole che la Contessina Anna Maria Calini Carini
fece all’Istituto per erigere un noviziato internazionale, e godette nel
vederlo realizzato prima della sua morte. Il fatto che la diocesi di Brescia
conti ben 160 tra sacerdoti, fratelli e suore missionarie della Consolata è
anche frutto della missionarietà di padre Angelo.

Ritoo nell’Istituto

Gioia grande per padre Bellani fu, nel
giugno 1963, essere ufficialmente riammesso nell’Istituto che aveva tanto
amato. Scrisse al superiore generale padre Domenico Fiorina: «Il povero
sottoscritto Le serberà perpetua riconoscenza per avergli ottenuto la grazia di
tornare in pieno come missionario della Consolata». E padre Fiorina gli
rispose: «Il suo ritorno ufficiale nell’Istituto viene a premiare un amore
costante e generoso alla nostra famiglia religiosa ed alle nostre missioni».

Ecco come descrive il suo ultimo Natale,
1963: «Il Natale di quest’anno è per me tutto simile a quello indimenticabile
del 1904: lo celebrai con la sacra divisa dei missionari della Consolata, benedetta
dal Veneratissimo Fondatore; quest’anno lo passo in famiglia, professo perpetuo
dell’Istituto della Consolata. Deo Gratias».

Padre Bellani si addormentò nel Signore
nella sua abitazione di Palosco, il 16 luglio 1964, vigilia del suo 90°
compleanno. Il funerale fu imponente per la partecipazione dell’intero paese,
di numerosi confratelli e dei novizi della casa di Bedizzole con il superiore
generale, di molti sacerdoti diocesani e del vescovo Giuseppe Almici, ausiliare
di Brescia. La sua salma riposa nel
cimitero di Palosco.

Dopo la sua morte, la rivista Missioni
Consolata del settembre 1964 ne sintetizzava così il profilo: «Padre Bellani
per noi Missionari della Consolata sarà sempre una stella di prima grandezza,
un apostolo-pioniere da annoverarsi tra quei prodi dei primi tempi, che hanno
dato l’avvio al nostro movimento missionario; uno di quei pionieri di Cristo,
molto spesso ignorati o dimenticati, sul cui sacrificio sono fiorite oggi le
fiorenti cristianità dell’Africa nuova».

Mario Barbero

Tags: Bellani, Palosco, missionari, Gruppi missionari, animazione missionaria

Mario Barbero




Terra d’Africa vendesi

Un caso di land grabbing

«Prosavana»: 14,5
milioni di ettari coltivabili ceduti al Brasile. Cinque milioni di contadini
diventano «senza terra» per lasciare il posto alle monocolture. Il governo
sostiene che è un programma di sviluppo agricolo. La società civile (e la
chiesa) si oppongono e attivano una resistenza.

 

È il 14 agosto del 2011, quando un articolo sul
giornale brasiliano La folha de São Paulo, fa
sobbalzare gli attivisti del movimento contadino di un’altra parte del globo:
il Mozambico. Lo scritto dice con enfasi che il paese africano avrebbe concesso
alcuni milioni di ettari di terra coltivabile agli agricoltori brasiliani, per
produrre soia, cotone e mais.

È
solo dello scorso marzo la pubblicazione di un documento ufficiale, il Piano
direttore, versione «zero», che descrive in dettaglio, nelle sue 204 pagine, il
«Prosavana». Abbiamo sentito telefonicamente alcuni protagonisti di questo
episodio di land grabbing in
Mozambico.

«Si tratta di un programma di cooperazione trilaterale,
che coinvolge Mozambico, Brasile e Giappone – ci spiega Agostinho Bento,
responsabile di politiche e advocacy alla Unac, l’Unione nazionale contadina mozambicana, il
maggiore sindacato di categoria -. Quando la società civile mozambicana sentì
parlare del progetto di cui era all’oscuro, si mobilitò alla ricerca di
informazioni. Scoprì che si trattava di un vasto programma agricolo chiamato
Prosavana. Esso prevedeva che un certo numero di grandi produttori brasiliani
abbiano in concessione terra mozambicana per un periodo di 50 anni. Questa
informazione allertò il movimento contadino e la Unac in particolare. Cosa
voleva dire quell’acquisizione di terra? Cosa c’era dietro?».

Questi
programmi, sempre più frequenti in Africa, rientrano nella categoria chiamata
(in inglese) land grabbing,
ovvero accaparramento di terra. L’Africa è l’unico continente rimasto con
abbondanza di terra agricola sotto sfruttata, che sta diventando strategica per
la produzione di cibo, risorsa, insieme all’acqua, sempre più importante per il
pianeta. Per questo motivo si è innescata la corsa allo sfruttamento della
terra africana, di cui però i contadini locali vivono.

Il
Prosavana (per esteso: Programma di cooperazione trilaterale per lo sviluppo
agrario del corridoio di Nacala) è un grande piano di sviluppo agroindustriale
che coinvolge 19 distretti di tre province mozambicane, Nampula, Zambézia e
Niassa, nel cosiddetto corridoio di Nacala, che taglia il Nord del paese dal
lago Malawi alla costa, per un totale di 14,5 milioni di ettari (la superficie
di quasi mezza Italia).

«In
effetti – spiega il giornalista Jeremias Vunjanhe – i tre governi hanno
elaborato segretamente questo piano fino dal settembre 2009, diventato pubblico
solo con la divulgazione dell’articolo sul giornale brasiliano».

La voce del governo

Secondo
il governo del Mozambico, il programma Prosavana fa parte del Piano strategico
per lo sviluppo del settore agrario (Pedsa), che «si basa sull’aumento di
produzione e produttività agraria e contribuisce alla sicurezza alimentare e
all’aumento del reddito dei produttori agricoli in maniera competitiva,
sostenibile, garantendo l’uguaglianza sociale e di genere». E, sempre secondo
il ministero dell’Agricoltura e della Sicurezza alimentare mozambicano: «Tutte
le iniziative nell’ambito di Prosavana dovranno avere come principale obiettivo
l’appoggio ai piccoli e medi agricoltori mozambicani, cercando il miglioramento
delle loro condizioni di vita e l’aumento della loro produzione e produttività,
contribuendo alla sicurezza alimentare e nutrizionale della popolazione».

Ma
allora cosa c’è che non va in questo programma?

Ce lo
spiega Agostinho Bento, da Maputo: «Il Prosavana ha come obiettivo la
produzione di monocolture come la soia, che saranno esportate su un mercato
internazionale e in particolare giapponese. Saranno coinvolte enormi estensioni
di terra. Non si vuole trasmettere tecnologia ai piccoli agricoltori, ma è un
grande programma di agrobusiness, che
punta, di fatto, a togliere terra ai contadini, la risorsa che viene ora usata
per produrre cibo, e convertirla in terra per produrre grande monocoltura,
merce da esportazione. Gli agricoltori mozambicani e le loro famiglie saranno
sfollate e dovranno essere ricollocate altrove». L’impatto diretto sarebbe su
circa cinque milioni di contadini.

Continua
Bento: «Un programma che soddisfa gli interessi di grandi imprese, di grandi
affaristi, e non i bisogni dei piccoli agricoltori. Per questo abbiamo
cominciato questa contestazione. Abbiamo iniziato un’azione di advocacy
contro il programma».

Secondo
Vunjanhe, che è anche cornordinatore nazionale dell’Azione accademica per lo
sviluppo delle comunità rurali (Adecru), dietro a Prosavana ci sono «enormi
interessi economici di grandi corporazioni e istituzioni finanziarie. Il
cosiddetto Fondo Nacala, gestito in Lussemburgo, con il coinvolgimento della
Fondazione Getúlio Vargas, è uno dei principali meccanismi di raccolta di
risorse finanziarie, il che evidenzia la privatizzazione della presunta
cooperazione tra i governi».

 

I precedenti
«scomodi»

Prosavana
è la copia di un programma realizzato in Brasile nella zona del Cerrado negli
anni ’60. La Unac è entrata in contatto con le organizzazioni contadine di
quell’area, racconta il sindacalista: «Ci informarono che si trattò di
programmi che esclusero totalmente i contadini e le loro organizzazioni. È lo
stesso sistema che si vuole usare oggi in Mozambico. Quando il governo
brasiliano presentò il programma per la produzione di soia e canna da zucchero
nel Cerrado, disse che voleva aiutare i contadini, trasferendo tecnologia, ma
quando cominciò a implementare il programma, delle nuove tecniche e macchine
che usarono per lavorare la terra, nessun abitante ebbe beneficio.

Allo
stesso modo Prosavana non vuole accompagnare i contadini, non vuole produrre
cibo per i mozambicani, ma piuttosto merce da esportazione con conseguente
sfollamento di abitanti a livello del corridoio di Nacala».

Società civile tricontinentale

Per
reagire la società civile mozambicana scrisse una lettera aperta (maggio 2013)
ai governi dei tre paesi, nella quale chiedeva un dibattito aperto e
democratico sul progetto che avrebbe influenzato la vita di tanti cittadini e
allo stesso tempo metteva in guardia dai danni che Prosavana avrebbe creato:
contadini senza terra, corruzione, impoverimento delle comunità rurali,
avvelenamento di terra e acqua a causa di concimi e pesticidi, ecc. La risposta
arrivò solo dal governo mozambicano e si trattò di una sintesi del programma.

Sviluppati
i contatti con la società civile brasiliana e giapponese, gli attivisti dei tre
paesi iniziarono a cornordinarsi e a fare pressioni sui rispettivi governi.

Dopo
l’organizzazione nel 2013 della prima Conferenza triangolare dei popoli a
Maputo, nel giugno del 2014 fu lanciata la campagna «No Prosavana». Agostinho
Bento ricorda: «La conferenza mise insieme le società civili dei tre paesi.
Invitammo anche i tre attori statali. Partecipò solo il governo del Mozambico,
rappresentato dal ministro dell’Agricoltura. Fu uno spazio di condivisione per
i tre popoli per mostrare una volta di più ai loro governi perché dire no al
programma Prosavana. Le società civili esigono la sospensione immediata del
programma e la convocazione di un tavolo tra associazioni e attori governativi
per progettare un programma che possa effettivamente creare sviluppo e aiutare
i contadini in Mozambico».

In
questo incontro le tre società civili portarono alla luce alcuni documenti che
erano stati elaborati in forma nascosta dai tre governi. «Il più importante è
il Piano direttore o Master
plan, il documento di base del programma, ottenuto attraverso i nostri
colleghi del Giappone. Ma il governo mozambicano lo disconobbe. Certo non
pensavano che noi lo avessimo. Con esso dimostrammo che il programma non è
compatibile con le necessità del paese. Furono fatte altre attività, in
collegamento tra le società civili dei tre paesi. E nel 2014 fu organizzata la
seconda Conferenza triangolare che fu più ricca, più produttiva. Ancora potemmo
mettere insieme i tre popoli, e a quell’incontro parteciparono anche i
rappresentanti dei tre governi. Spiegammo nuovamente che il Prosavana deve
essere interrotto e le nostre ragioni. Nonostante questa advocacy,
assistiamo ancora a una resistenza dei governi che vogliono implementare il
programma con la forza».

 
Goveo, avanti tutta

Nel
marzo scorso il governo del Mozambico presenta il Master
plan ufficiale. Nel mese di aprile organizza quindi incontri di «consultazione
pubblica», in tutti i distretti, a livello dei capoluoghi di provincia e a
Maputo. Lo scopo ufficiale è condividere e «validare» il Master
plan con le comunità locali.

Così
non sembra, vista la reazione di parte della società civile, come la
Commissione arcidiocesana di Giustizia e Pace di Nampula e l’Adecru, che con un
comunicato denunciano: «[…] questo processo è stato segnato da molte gravi
irregolarità che, una volta di più, confermano i vizi insanabili del
concepimento del programma Prosavana e che devono essere pubblici e denunciati
dalle società mozambicana, brasiliana e giapponese». E continuano «[…] abbiamo
visto il pubblico presente [alle riunioni di consultazione] manifestare la sua
profonda preoccupazione e indignazione e ripudiare l’intenzionale
disorganizzazione, politicizzazione, esclusione, mancanza di trasparenza,
intimidazione […] e manipolazione delle riunioni di consultazione pubblica […]».
I firmatari del comunicato pertanto «esigono dalle autorità l’invalidazione e
la sospensione immediata» di Prosavana.

«In
tutto il Corridoio di Nacala, i governi locali hanno intensificato la propria
azione di intimidazione, persecuzione e minaccia nei confronti dei contadini, e
manipolazione, strumentalizzazione e cornoptazione delle autorità comunitarie
locali» ci dice Jemerias Vunjanhe, giornalista dell’Adecru. «A livello
nazionale, soprattutto a Maputo, il governo continua a simulare un’attitudine
dialogante e di apertura per una tavola di consultazioni di facciata».

Racconta
Vunjanhe che «durante la riunione di consultazione pubblica a livello
provinciale, realizzata a Nampula il 13 maggio, il governatore provinciale,
Victorio Borges e il cornordinatore di Prosavana, l’ex ministro dell’Agricoltura
Antonio Limbau e tutta la squadra del ministero, non seppero rispondere a
domande circa la base giuridico-legale di questo processo, creando così un
grande sconforto nella sala. Dopo questo incontro, e con grande ripercussione
di comunicazione a livello nazionale e internazionale, il governo, attraverso
il cornordinatore Limbau, ha rilasciato interviste con l’obiettivo di soffocare
il rifiuto di Prosavana da parte dei contadini della regione interessata e
chiudere un occhio sulle  gravi denunce
della società civile», e continua: «Limbau indurisce l’autoritarismo del
governo mozambicano e, appoggiato dai governi di Brasile e Giappone, tira
dritto per implementare il Prosavana con l’obiettivo di vedere approvato il Master
plan entro l’anno 2015, indipendentemente dalla posizione ferma dei
contadini e delle organizzazioni della società civile».

Le prossime mosse

Secondo
Vunjanhe, anche la resistenza tenderà a radicalizzarsi: «Se il governo seguiterà
in questo modo, il popolo e soprattutto i contadini, con gli alleati della
società civile nazionale e internazionale, saranno costretti a indurire la
propria resistenza contro l’occupazione e l’usurpazione delle terre da parte
dei grandi investitori di Prosavana, intensificando così gli attuali conflitti
per la terra in quella regione. Di certo il governo perderà ulteriore fiducia e
credibilità nei confronti dei suoi cittadini. Ricordiamoci che nelle ultime
elezioni presidenziali e legislative, piuttosto contestate e denunciate per
frode, l’attuale presidente Filipe Nyusi e il suo partito Frelimo (Fronte di
liberazione del Mozambico) persero in quella regione».

Del canto suo Agostinho Bento dichiara: «Continueremo
un’advocacy di resistenza, sarà una lotta tremenda, nei confronti
dei poteri locali, da parte dei contadini che respingono il Prosavana.
Organizzeremo manifestazioni, per mostrare lo scontento su questo programma ai
tre governi coinvolti e anche alla comunità internazionale». Intanto iniziano a
verificarsi tensioni tra contadini e autorità. «In questo processo, il
ministero ha manipolato le persone, le ha usate per parlare nelle comunità, nel
tentativo di legittimare il programma a loro nome. Ma in alcuni momenti, quando
alle riunioni queste persone si alzavano dicendo di essere contadini, la gente
le smascherava dicendo che non facevano parte delle loro comunità, che erano
usati dal ministero dell’Agricoltura».

Unac
sta continuando un lavoro di sensibilizzazione e rafforzamento nelle comunità: «L’obiettivo
è coscientizzare la gente, in modo che possa dire le sue ragioni di fronte al
governo e ai poteri locali. Abbiamo argomenti per replicare. Facciamo conoscere
il programma, affinché la gente possa dire no con coscienza. Attraverso la
formazione, vogliamo rinforzare gli agricoltori, in modo che possano assumere
decisioni e proporre delle alternative». Assieme a Unac, nella campagna No
Prosavana, ci sono organizzazioni ambientaliste, di difesa dei diritti umani,
ecclesiali, di donne, ecc.

Un
grande valore aggiunto di questa lotta è il cornordinamento tra le società civili
di tre paesi così distanti, non solo geograficamente: «Lavoriamo congiuntamente
in tre popoli. Noi della Unac siamo stati in Brasile e Giappone. Stiamo dunque
cornordinandoci, realizziamo le attività in partenariato e abbiamo una strategia
comune. Quando si fa un’azione di advocacy a
livello di Mozambico, si fa anche in Brasile e Giappone. Così i tre governi
sono sotto pressione. Per esempio su quello giapponese affinché non finanzi il
programma. In Brasile chiedendo informazioni e giustificazioni. È un lavoro
arduo».

Marco
Bello

Parla monsignor Lerma


Una voce della Chiesa

Monsignor Francisco Lerma Martínez,
portoghese, è missionario della Consolata. Dal 2010 è vescovo di Gurúè, diocesi
nella provincia di Zambézia, il cui territorio rientra in pieno nel programma
Prosavana.

Il progetto Prosavana che impatto può avere sulla diocesi di Gurúè?

«Si tratta di un mega progetto (e
non è il primo in Mozambico) pensato fuori dal paese, in questo caso in
Giappone con la collaborazione diretta del Brasile. La sua finalità ultima è
favorire le ditte di questi paesi che sono quindi beneficiari finali. La
popolazione locale senz’altro avrà qualche vantaggio (forse qualche posto di
lavoro), ma nell’insieme l’operazione sarà, come negli altri casi, a favore
delle grandi multinazionali.

Il Mozambico, infatti, grazie ai
megaprogetti del carbone (Tete), del gas naturale, (Inhambane e Cabo Delgado),
dell’alluminio (Mozal a Matola) e altri ancora, nel 2014 ha avuto un Pil in
crescita del 7,4%: valore tra i più alti dell’Africa.

Ma dobbiamo chiederci: la gente
vive meglio? Abbiamo un servizio sanitario migliore? Migliori scuole? Migliori
comunicazioni? Nella mia diocesi, Gurúè, nell’Alta Zambézia, nel mese di
gennaio ci sono state grandi piogge e forti venti che hanno distrutto più di
tremila case, oltre un centinaio di scuole e 160 cappelle, diversi ponti,
causando oltre cento morti. Dopo quattro mesi stiamo ancora soffrendo le
conseguenze di questo dramma.  Ma,
nonostante il Pil, il 45% della popolazione continua a vivere in situazioni di
povertà, con redditi di un euro al giorno. Allora, ci domandiamo, chi beneficerà
di questo progetto? Senz’altro chi lo ha pensato, ideato e progettato».

Nella sua diocesi, come si sta organizzando la società civile per far
sentire la propria voce? E quali sono le associazioni più contrarie? Ce ne sono
di favorevoli?

«Nell’Alta Zambézia siamo fuori
delle normali correnti di opinioni, senza strutture, senza mezzi di
comunicazione, lontani dai centri d’influenza. Noi siamo in periferia, in una
zona geografica lontana dalla capitale provinciale, ancora isolati dalle piogge
di gennaio. La nostra popolazione ha in grande maggioranza un tasso di
analfabetismo molto elevato, non ha accesso ai mezzi di comunicazione,
giornali, riviste, Tv o altri servizi. Non abbiamo delle associazioni sindacali
o di creazione di opinione pubblica come altrove».

La chiesa del Mozambico, e in particolare nella sua diocesi, sta facendo
qualcosa, o prendendo posizioni, in merito a questo progetto governativo?

«Durante l’ultima assemblea
nazionale di Caritas, con la partecipazione dei vescovi, delegati delle Caritas
diocesane, e osservatori della società civile, è stato presentato alla
riflessione dei partecipanti il Progetto. Con la Commissione di Giustizia e
Pace siamo nella fase di raccolta di dati, di riflessione e di
coscientizzazione, come, d’altronde, abbiamo fatto per i mega progetti in altre
aree (per esempio il carbone) e stiamo facendo sulla situazione socio-politica-economica
attuale».

Marco Bello

Tags: Senza terra, land grabbing, agroindustria, società civile, ambiente

Marco Bello




Custodi della creazione

«Noi siamo i custodi della creazione»: sono parole pronunciate da papa Francesco il 19 marzo 2013, riprese e approfondite in modo mirabile nella sua nuova enciclica sulla salvaguardia e custodia dell’ambiente e del creato. L’enciclica dal titolo Laudato si’ è stata pubblicata il 18 giugno scorso.

Da molto tempo esistono libri di teologia della creazione, gli scaffali delle biblioteche e delle librerie ne sono pieni. Da molto tempo esistono gli ambientalisti, ma pochi sono i cristiani e le Chiese che ne condividono il messaggio. Manca una «pastorale del creato» nelle nostre Chiese locali e nelle nostre parrocchie. La domanda che nasce spontanea è «come mai»?

Eppure, dei gravi problemi connessi con l’ecologia si parla da tempo su tutti i mass media, talora in maniera molto tragica. Sono drammi ai quali abbiamo assistito e continuiamo ad assistere, sbigottiti ma in fondo disinteressati: inquinamento atmosferico, scioglimento dei ghiacciai, tempeste e uragani sempre più violenti, scomparsa massiccia di specie animali e vegetali, scarsità di acqua potabile, siccità e carestie e anche – ma in questo caso molti cristiani sono sordi – le crescenti migrazioni di intere popolazioni in cerca di condizioni ambientali e di vita favorevoli. La crescita dell’ecologismo inquieta molti cristiani, perché a loro parere certi valori diffusi dagli ambientalisti sembrano in diretto contrasto con gli insegnamenti tradizionali della Chiesa sulla creazione. Secondo loro gli ecologisti sosterrebbero la necessità di bilanciare il dislivello tra popoli affamati e popoli ricchi attraverso la promozione della contraccezione e il diritto all’aborto; mentre, al contrario la Chiesa invita continuamente a proteggere la famiglia e la natalità.

Vero è che alcuni ambientalisti arrivano a ritenere che sarebbe meglio se l’umanità scomparisse dal nostro pianeta, perché l’essere umano è un parassita della terra, la quale, con lui, si è man mano degradata fino a temere la sua fine e, prima ancora, la fine dell’uomo. Questa visione dell’ecologismo farebbe della terra una specie di divinità – la «Madre Terra» dei pagani – alla quale si deve rendere omaggio e alla quale bisogna chiedere perdono per tutte le ferite inferte. Di qui la necessità di una Chiesa che abbia il compito di allontanare i fedeli da un nuovo paganesimo, che adora la terra e che è in netto contrasto con la dottrina del monoteismo, di un unico Dio creatore, Signore del cielo e della terra.

Non la pensa così papa Francesco. La sua enciclica, dedicata all’ambiente e alla custodia del creato, ne è una prova, e con lui concordano anche molti credenti, cattolici e protestanti, convinti che degradando il creato, si trasgredisca il comandamento di Dio, che ha fatto ogni cosa bene, buona e bella. Una teologia della creazione a esclusivo vantaggio dell’uomo può portare a non lasciare lo spazio dovuto al tema della custodia del creato.

Tutti ricordiamo la frase del primo capitolo del Libro della Genesi che dice: «Riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gen 1, 28). Di qui deriva l’accusa fatta alla Chiesa, e al cristianesimo in genere, di essere stata la causa della crisi ambientale del nostro tempo. Per gli ecologisti la bella e poetica pagina del primo capitolo della Genesi viene deturpata da questo versetto, in netto contrasto con la stessa dignità dell’uomo, di cui parla il capitolo: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò». La dignità dell’uomo è grande, come è grande quella di Dio creatore. Può allora accadere che la volontà dell’uomo sia in contrasto con la volontà di Dio?

 

La risposta a questo interrogativo è venuta innanzitutto dal Concilio Vaticano II, durante il quale ha avuto inizio il confronto della Chiesa con i problemi ecologici. Ciò ha richiesto una reinterpretazione dei testi della Genesi. È stato per esempio riscoperto il versetto 2,15 che parla di «custodia del creato». E si è affermato che la creazione va custodita perché è la casa dell’uomo. Se infatti la dignità dell’uomo è grande, anche la sua responsabilità è grande. Noi però non siamo Dio, dunque non siamo proprietari della terra (Sal 24,1) e non possiamo controllare tutto (Gen 38-40). L’universo – afferma la Bibbia – non è il risultato del caso, ma è il frutto dell’amore di Dio. Perciò gli equilibri degli ecosistemi sono stati creati con sapienza e attraverso di essi Dio provvede a tutte le creature (Sal 104, 24). Anzi il Signore gioisce delle sue creature e delle sue opere (Sal 104, 29-31). Ogni vita viene da Dio (Gen 2, 19), a tutti è quindi dovuto rispetto.
Da questa teologia biblica, riassunta in poche parole, deriva la responsabilità dell’uomo di custodire il creato, tutto il creato. L’uomo ne ha la capacità. Dio gliel’ha donata, da usare però non in modo egoistico, bensì per promuovere la vita, coltivarla e conservarla (Gen 2,15).
Le basi bibliche di una ecologia cristiana sono perciò sufficientemente solide. La Scrittura afferma che Dio ha creato tutto con sapienza e che provvede alle creature che egli ama. Invita per questo a meravigliarsi della creazione e a lodare il creatore. Nel Nuovo Testamento Gesù trae sovente ispirazione per le sue parabole dalla natura e lo fa in modo poetico: «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure, il Padre vostro celeste li nutre» (Mt 6,26). Paolo a sua volta scrive un inno cosmico, nel quale confessa che attraverso Cristo e per Cristo tutto è stato creato e tutto è conservato in lui (Col 1, 15-20). Ecco perché Gesù chiede di proteggere la creazione. Non mancano quindi passi biblici sia dell’Antico che del Nuovo Testamento che possano alimentare una ricca teologia del creato. Ciò che manca è una pastorale ecologica semplice e accessibile a tutti, a tutti i fedeli di ogni Chiesa e di ogni comunità.

 

L’enciclica di papa Francesco affronta proprio questo tema, quello pastorale. Il senso biblico di «pastorale» è la custodia del gregge. Ce lo suggerisce il salmo 23: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla, su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce». Tutto il salmo è impregnato di amore di Dio per il creato e il gregge che lo abita. Egli è il pastore che si preoccupa delle sue pecore.
Questo spiega perché molte conferenze episcopali fino agli ultimi pontefici, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e papa Francesco, siano intervenute sull’urgenza di una ecologia cristiana. Alcune chiese particolari già lo hanno fatto, riservando tre o più domeniche all’anno al tema della creazione; altre propongono degli incontri sulla custodia del creato e sull’ecologia; altre infine sono attente alla manutenzione ecologica degli stabili che compongono la parrocchia od organizzano marce per il clima e la protezione della natura. O ancora propongono serate di preghiera in occasione di particolari disastri naturali.
La Chiesa canadese, per esempio, promuove con tutte le confessioni cristiane un programma dal titolo «La Chiesa verde». Ne ha parlato recentemente un teologo ambientalista canadese, Norman Lévesque, sul numero di “Concilium” di marzo-aprile 2015 (pp. 165-172), in un articolo dal titolo provocatorio: «Farla finita con l’ecologia… oppure costruire delle “chiese verdi”?». Norman Lévesque è autore, tra l’altro, di «Una Guida pastorale ecologica per passare all’azione», edita a Toronto nel 2014. Dalle esperienze di piccole comunità, da quella canadese in particolare, possiamo perciò partire per leggere e meditare l’ultima enciclica di papa Francesco sulla custodia e la conservazione del creato.
Non si può più ignorare infatti una teologia ecologica della creazione. Bisogna anzi ringraziare i movimenti degli ecologisti, con i loro eccessi, che hanno avuto il coraggio e il merito di ricordarci, anche se talvolta un po’ brutalmente, l’esistenza della teologia del creato e della necessità di custodirlo. L’ecologia e gli ecologisti hanno certamente avuto una funzione critica provvidenziale per la teologia e i problemi ecologici del nostro tempo. Essi ci hanno permesso di rivedere il nostro posto all’interno della creazione, la nostra relazione con tutti gli esseri viventi e le altre creature, e di avere al tempo stesso una visione nuova e più ampia della stessa redenzione. Alcuni teologi sono giunti a dire che la creazione non esiste per l’uomo, ma per la gloria di Dio. Noi allora, come ha detto papa Francesco, «siamo i custodi di questa creazione».

Giampietro Casiraghi

Tags: Chiesa, papa, ambiente, Laudato si’, ecologia, enciclica

Giampietro Casiraghi




L’Angelo dei Carriers /3

Continua il fumetto sulla vita della Beata Irene Stefani.
Terza puntata

Continua da «La Consolata», agosto 1916.
Gli accordi furono presto conchiusi: trattamento degli ufficiali a Padri e
Suore; nomina dei Padri a tenenti onorarii e delle Suore a membri della Croce
Rossa; viaggi in prima classe sulla ferrovia, non solo per loro, ma altresì per
Monsignore e per la Superiora delle suore, quando volessero recarsi a far loro
visita nei diversi ospedali. E prontamente si passò all’esecuzione: tre gruppi
di suore con a capo di ciascuno un missionario, si radunano a Fort Hall, donde
automobili foiti dal Goveo li trasportano a Nairobi: quivi si ferma un
gruppo, mentre i due restanti ripartono in ferrovia rispettivamente per Voi e
Mombasa. Non essendo ancora preparate per loro le abitazioni, alloggiano per
qualche tempo sotto solide e comode tende; frattanto in sito attiguo ad ogni
ospedale si costruisce una serie di casette in legno: per il Padre, per le
suore, per i boys di servizio; poi una bella chiesetta che venne dedicata alla
Madonna della pace.

Lo scopo immediato dell’opera dei nostri era l’assistenza ai malati, la sorveglianza al personale nero di servizio negli ospedali ma grado a grado passò in loro mano quasi interamente
l’andamento degli ospedali stessi, con la più ampia facoltà di richiedere dalle
farmacie e magazzini e dispensare medicine, viveri, indumenti, coperte, ecc., e
con la più assoluta autorità su tutto il personale nero.

Scopo remoto poi e finale dei nostri, era accaparrarsi la confidenza dei malati, affezionarli alle Missioni, istruirli gradatamente nella religione, battezzare i morenti e questo altresì
stanno conseguendo su larga scala, a salute di molte anime e grande loro
soddisfazione. I battesimi dati superano il centinaio ogni mese; [la]
confidenza dai nostri acquistata e [l’]ascendente guadagnato sugli indigeni
[sono grandi].

(da «La Consolata», agosto 1916, pag. 115-118).



I Carriers

Tradotto e adattato da: Ross Anderson, World War I in East Africa (pp. 155s). PhD thesis,
University of Glasgow, 2001.

Se la ferrovia foiva il miglior mezzo di trasporto, le condizioni locali imponevano
che gli eserciti dipendessero dal meno efficiente dei mezzi di trasporto:
quello umano. Era l’adattamento di una tradizione ben radicata in alcune tribù:
quella di affittare portatori (agli esploratori bianchi) per i safari.
L’urgenza della guerra e i problemi del trasporto di cibo e munizioni causarono
un radicale e spietato aumento della domanda di forza lavoro. Inizialmente fu
soddisfatta da volontari, ma le condizioni del servizio, la lunga durata
dell’assenza da casa e l’orrore dell’incognito portarono a usare l’arruolamento
forzato su larga scala. Tale metodo di trasporto richiedeva un duro lavoro
fisico in condizioni difficili, in più il cibo era insufficiente, le malattie
erano comunissime e c’era la reale possibilità di diventare una casualità della
guerra. I carriers erano più esposti alle malattie dei soldati a causa
una combinazione di dieta povera, di mancanza di igiene e di ignoranza.
Disporre di portatori a sufficienza divenne un fattore determinante per
Britannici, Belgi e Tedeschi.

Se averli in numero sufficiente era essenziale, il mantenerli efficienti e sani lo
era ancor più. Si calcola che entro la fine del 1916 siano stati arruolati
160mila uomini nei territori inglesi del Nord come pure nella colonia tedesca.
Di essi, 63.000 erano ancora in servizio, 5.349 erano morti e 26.318 – numero
altissimo – avevano disertato o erano dispersi, mentre 30.000 erano stati
congedati secondo gli impegni presi.

[Alla fine del 1916] il nuovo comandante inglese, il generale Hosking, con il suo
staff calcolò che avrebbero avuto bisogno di almeno 160.000 portatori per poter
procedere con le operazioni di guerra. In termini di reclutamento significava
che c’era bisogno di 16.000 nuove reclute ogni mese per tenere il passo con un
livello di perdite mensili del 15%.

Situazione sanitaria dei carriers

Nel periodo tra l’8 gennaio e il 5 maggio 1916 ben 38.000 carriers furono
ammessi negli ospedali, con una proporzione di ammissioni di 206 ogni mille. Di
questi, circa 23.000 erano malati di malaria e 2.800 di dissenteria. I due
malanni erano la ragione principale dei ricoveri ospedalieri. La malaria era la
causa del 60% dei ricoveri, mentre la dissenteria solo del 7,5%. Ma la malaria
provocava il 26% delle morti, mentre la dissenteria il 23%. [L’ospedale di]
Kilwa aveva l’infelice primato di ricoveri, con il 41,3% che si ammalavano.

Il livello di malattie non era un problema temporaneo anche perché moltissimi dei
portatori venivano persi per sempre: o perché ormai invalidi permanenti, o
perché congedati, o perché morti. I carriers pagarono un prezzo
pesantissimo.




Continua

a cura di Gigi Anataloni




Brasile. Balli di libertà

Alla festa di Oxossi (San Sebastiano), l’umbanda mostra il suo volto più gioioso.

Vi raccontiamo luoghi, persone e riti. Cercando di capire perché le religioni afrobrasiliane
da molti studiosi sono considerate un patrimonio da difendere.

Floriano (Piauí). Al barrio Tiberão, periferia
della città, arriviamo di notte. I due motociclisti che ci accompagnano
procedono con cautela perché, in questo quartiere, l’illuminazione pubblica è
praticamente inesistente.

È una zona collinosa con stradine sterrate ai cui lati
sono sorte piccole abitazioni. S’intravvedono a malapena, perché le lampadine,
attaccate all’architrave delle porte d’ingresso, sono molto deboli.

Nel barrio ci sono alcuni terreiros, dove, per merito di
Amarelinho (popolarissimo reporter di una radio locale), siamo stati invitati
per assistere a una ricorrenza.

I motociclisti ci fanno scendere nei pressi dell’unica
casetta davanti alla quale c’è animazione. Entriamo nell’abitazione, che
chiamano Tenda Iemanjá, e subito ai nostri occhi si dischiude un mondo fatto di
umanità, suoni e colori. Il luogo è affollatissimo. Chi vuole soltanto
guardare, senza partecipare in prima persona, sta al di qua di un muretto.
Dall’altra parte, è festa.

Questa notte si commemora Oxóssi, orixá della caccia (con
arco e frecce), considerato il protettore della foresta e dei suoi abitanti
originari (caboclos). Dal punto di vista sincretistico, esso è equiparato a
San Sebastiano, il martire cristiano universalmente rappresentato con il corpo
trafitto da frecce.

Attoo al palo centrale, fulcro del terreiro, girano danzando
uomini e soprattutto donne. Le signore indossano camicette rosse e ampie gonne
verdi. Il ritmo è dettato dal suono incessante dei tamburi e dai canti intonati
dal pai-de-santo, un uomo di 38 anni di nome Luis Gonzaga do Nascimento
detto Luizinho. Indossa un mantello verde con maniche rosse. Sulla testa porta
una corona di stoffa, probabilmente in onore di uno dei tanti attributi di Oxóssi:
quello di «re di Ketu» (dal nome di un’antica capitale yoruba, localizzata
nell’attuale Benin).

Senza aprire gli occhi, Luizinho s’interrompe per
presentarci a voce alta. D’altra parte, per noi sarebbe stato difficile passare
inosservati. Guardando i convenuti, un dato infatti sembra trovare conferma:
come il candomblé, anche l’umbanda continua a raccogliere la grande maggioranza
dei propri seguaci tra le persone nere (quasi sempre di bassa estrazione
sociale). I muri del terreiro di Luizinho sono come un libro di storia dell’umbanda e
delle religioni afrobrasiliane in generale. Vi sono disegnati indigeni e
schiavi africani in catene accanto a immagini di Gesù e della Madonna. In uno
stanzino riparato da una tenda trova invece posto un piccolo altare con statue
e immagini.

Mentre da un lato il pai-de-santo intona i canti e dall’altro
quattro suonatori di atabaques e maracas scandiscono il ritmo, al centro della stanza i fedeli
continuano nella loro danza.

In transe

A un certo punto della notte un paio di persone ci
vengono a chiamare e ci dicono di seguirle. Non andiamo lontano. Attraversiamo
semplicemente la stradina per entrare in un altro terreiro, nascosto tra le
abitazioni. È una casa di una sola stanza, piccola e buia. Al fondo della
stessa è posto un altare ingombro di statue di varie dimensioni. Ma per noi
ospiti è il pai-de-santo del luogo l’elemento indimenticabile. Lui si chiama Chicão.
Ha un cappello di paglia in testa, una pipa in mano e una bella faccia d’anziano.

Canta. Parla rapidissimo in una lingua sconosciuta e
comunque diversa dal brasiliano. Chicâo si lascia fotografare. Poi ci fa uscire
dalla stanza e ci porta nel cortile adiacente per mostrarci un riparo in legno
(tronqueira),
grande come la cuccia di un cane. Il pai-de-santo si accovaccia e apre il
lucchetto che lo chiude. All’interno, nonostante la luce sia soltanto quella
delle candele, riconosciamo un paio di statuine di exús, le entità che
assorbono le negatività delle persone.

La tronqueira è dunque considerata un presidio a guardia del terreiro, per tenere lontane
da esso tutte le energie negative.

Il giro guidato non è finito. Una signora del gruppetto
di persone che ci sta accompagnando in questo tour molto insolito ci spiega che
tutti gli abitanti di queste case sono seguaci dell’umbanda e che di terreiros ce ne sono diversi.
Capiamo che ormai non c’è modo di ritirarci senza offendere qualcuno.

Andremo dunque nel terreiro di Zé Reis e poi in quello
di una donna, Rita Maria da Silva.

Troviamo il giovane Zé Reis, camicia verde, cappello e
pipa, seduto accanto al suo altare. E, nell’angolo di fronte, un uomo con un
tamburo lungo e stretto. Anche lui ci accoglie con grande gentilezza, anche lui
ci tiene a cantare davanti a noi.

Quando,
alla fine del nostro percorso, arriviamo alla casa della donna, lei è in
condizione di transe: non c’è modo di
conversare. Corporatura magra e folta chioma di capelli crespi, indossa un
vestito bianco e una lunga sciarpa rossa con alcuni disegni tipici dell’umbanda.
La casa non è un vero terreiro, ma una normale (e
modestissima) abitazione. In un angolo della stanza da letto c’è un altarino
con il consueto puzzle di immagini cristiane
e simbologie della religione afro, il tutto illuminato da una serie di candele.

È qui
che la donna inizia una sorta di danza lenta stringendo tra le mani delle
lunghe frecce. Sempre con gli occhi serrati e parole ripetute come in una
litania. I nostri accompagnatori ci spiegano che la medium incorpora il Caboclo
Sete Flechas, l’«indio dalle sette frecce», ognuna di esse
con una funzione diversa (salute, difesa, spiritualità,…).

Magia nera,
superstizioni, pratiche diaboliche?

Che sia per i rituali particolari o per la tipologia dei
seguaci o ancora per retaggi storici malinterpretati (la schiavitù, in primis),
l’umbanda e le religioni afrobrasiliane in generale sono ancora oggi guardate
con sospetto. O con astio, soprattutto dalle (potenti)  Chiese evangeliche neopentecostali1.

Scrive Alessandra Amaral Soares Nascimento: «Per essere
religioni del transe, del culto degli spiriti e in alcuni casi di sacrifici
animali, esse sono state associate a stereotipi come quelli della “magia nera”,
superstizioni di gente ignorante, pratiche diaboliche»2.

Va ricordato che i culti africani arrivarono nel paese
latinoamericano con gli schiavi durante un lasso di tempo di oltre 300 anni (in
Brasile, la pratica dello schiavismo durò – almeno ufficialmente – dal 1559 al
1888).

Come ricorda Alessandra Amaral, «lo schiavo doveva essere
battezzato entro un massimo di cinque anni dal suo arrivo in Brasile». Si
trattava in sostanza dell’applicazione pratica del principio «Cuius regio, eius religio»,
ovvero dell’obbligo per lo schiavo di conformarsi alla religione del padrone.

Le religioni afrobrasiliane si svilupparono dunque come
forma di «resistenza» alle imposizioni dei padroni bianchi e come affermazione
della propria identità. L’umbanda – nata soltanto nel 1908 – ne è un’evoluzione
alla luce dell’orgoglio derivante dall’«essere brasiliano», vale a dire un mix
di bianco, nero e indigeno.

Secondo Reginaldo Prandi, altro studioso e specialista in
religioni afrobrasiliane, «silenziosamente, oggi assistiamo a un vero massacro
delle religioni afrobrasiliane». Un fatto molto grave, spiega il professore
dell’Università di San Paolo, perché il loro contributo «alle più diverse aree
della cultura brasiliana è ricchissimo»3.

A parte le considerazioni degli studiosi, vale la pena di
ricordare le parole di Gilberto Gil, uno dei più noti musicisti brasiliani, che
in una strofa di una sua canzone scrive: «Quando i popoli dell’Africa
arrivarono qui / non avevano la libertà di religione. / Adottarono il Senhor do
Bonfim / sia per resistenza, che per resa»4.

Accoglienza

Con gli occhi e la testa ancora pieni di sensazioni,
torniamo alla Tenda Iemanjá di Luizinho, dove la festa in onore di Oxóssi vive
un momento di pausa. Le persone stanno recuperando le energie consumate
mangiando banane, angurie e meloni.

Noi ne approfittiamo per ringraziare il pai-de-santo e le persone
presenti per la cordialità e simpatia con cui ci hanno accolti. Tra non molto i
tamburi ricominceranno a dare il ritmo ai canti e alle danze.

Paolo Moiola*
 
Note:

(1) Della Comissão de Combate à Intolerância Religiosa (http://ccir.org.br) non fanno parte esponenti
neopentecostali.

(2) Alessandra
Amaral Soares Nascimento, Candomblé e
umbanda: praticas religiosas da identitade negra no Brasil, in «Revista brasileira de Sociologia da Emocão» 9 (27),
dicembre 2010.

(3) Reginaldo
Prandi, O Brasil com axé:
candomblé e umbanda no mercado religioso, in «Estudos
Avançados» 18 (52), 2004.

(4) Testuale: «Quando
os povos d’África chegaram aqui / Não tinham liberdade de religião / Adotaram
Senhor do Bonfim: / Tanto resistência, quanto rendição». La Igreja de Nosso Senhor do Bonfim è la più famosa chiesa di Salvador Bahia, in Brasile.

Paolo Moiola




Tra nostalgia e speranza

Cuba e l’attesa per
il dopo «bloqueo» / 2

Sull’isola caraibica
i cartelloni stradali non pubblicizzano prodotti di consumo, ma eroi della
rivoluzione. Abituata a vivere con poco, la maggioranza dei cubani attende il
cambiamento. Difficile capire come il prevedibile miglioramento economico trasformerà
i ritmi (rilassati) della loro attuale
esistenza.

Varadero. Mentre sono seduto al bar del mio hotel a sfogliare
lo stradario, il barman mi chiede dove sono diretto. Gli rispondo che
all’indomani partirò alla volta del Sud e, in particolare, per la zona di
Cardenas e Matanzas. Mi suggerisce di parlare con Yandri, una delle
responsabili dell’hotel che, come molti altri, proviene da Cardenas. Pare sia
la persona più adatta con cui scambiare qualche battuta e ricevere indicazioni.
La cerco alla reception, ma è impegnata. Mi dà
appuntamento al bar, a fine serata. Quando la incontro mi offre dell’ottimo rum
e s’informa sul mio lavoro. Non nega le sue origini ma per lei, che parla un
quasi perfetto inglese e vive a contatto più con europei e nordamericani che
con cubani, è un po’ imbarazzante parlare di Cardenas. Yandri si considera una
privilegiata a poter gestire un hotel nell’area ricca di Cuba. Al contrario –
spiega la donna -, la sua città di origine mi mostrerà proprio quegli aspetti
di povertà e vita quotidiana che intendo documentare.

Trascorriamo
la serata a parlare e bere. A un tratto della conversazione, probabilmente per
la stanchezza, la fiducia che le ispiro o semplicemente a causa di un sorso in
più di rum, Yandri decide di lasciarsi andare iniziando a parlare della sua
famiglia e della sua vita, ma soprattutto di come, grazie ai suoi studi e a suo
marito, membro Abakuá, sia riuscita a emergere e a lasciare Cardenas.

Il mondo Abakuá


Ho sentito parlare di Abakuá molti anni fa, attraverso
alcune letture sul popolo nigeriano. A memoria ricordo che non si tratta
soltanto di una religione, ma di una società segreta mutualistica, a carattere
religioso, che da molti è stata paragonata alla nostra massoneria. Adesso il
mio pensiero e la mia curiosità si accendono su quella parola «di troppo»
sfuggita a Yandri. Timidamente, le chiedo di approfondire l’argomento. La donna
non si tira indietro, ma suggerisce di allontanarci dal bar e di fare una
passeggiata in riva al mare, lontani da occhi e orecchie indiscrete.

Mi confida che è la prima volta che parla a uno
straniero di quel mondo. Sottovoce racconta che gli Abakuá sono una setta
segreta che pratica culti magici, è a partecipazione esclusivamente maschile e
la sua solidità si fonda sulla riservatezza e sull’esclusione delle donne dal
potere. Ancora oggi gli anziani di Cardenas raccontano come questa associazione
sia stata fondata nel Sud della Nigeria da una donna il cui potere era così
forte che tutti gli abitanti del paese si consideravano suoi schiavi.

L’atmosfera, il rumore delle onde e il cielo stellato
della notte cubana creano lo scenario perfetto per questo racconto
affascinante, da mille e una notte. Mi sento come mio figlio quando, a casa a
Torino, durante le sere invernali, ascolta fiabe e aneddoti della tradizione
africana: leggende e credenze di un patrimonio culturale e antropologico che a
Cuba ha trovato ospitalità. Una società segreta che mantiene ancora le
componenti di un universo religioso e musicale, fatto di magia, danze e
simboli, fedeli al modello africano, a parte qualche influenza simbolica di
carattere cristiano. La società Abakuá, come ancora oggi accade nella costa
africana, possiede un proprio linguaggio codificato per i rituali praticati, e
a Cuba il livello di stima all’interno dell’organizzazione si fonda sul grado
di conoscenza di questa lingua antica.

Sono incantato e affascinato da quello che Yandri mi sta
descrivendo con chiarezza, ma allo stesso tempo con un’accorta assenza di
dettagli e riferimenti come impongono le millenarie regole della società.
Purtroppo è notte fonda ormai e all’indomani dovrò alzarmi all’alba per
riprendere il mio cammino.

La ringrazio per la fiducia che ha riposto in me e
l’opportunità che mi ha dato di poter godere del suo racconto. Prima di
lasciarci brindando con l’ultimo bicchiere di rum, mi scrive il numero di
cellulare di suo marito, dicendomi che avrei potuto chiamarlo una volta a
Cardenas qualora avessi avuto bisogno di supporto e indicazioni pratiche
durante le mie riprese.

La prevalenza del Che

Dopo
pochissime ore di riposo, al mattino presto mi rimetto in viaggio. Percorrendo
le strade cubane nemmeno all’occhio più distratto sfugge un particolare. Una
delle caratteristiche uniche di Cuba è l’assenza di cartelli pubblicitari di
quell’immaginario a cui in Occidente siamo abituati: effetti speciali,
automobili elettriche e tablet di
ultima generazione. Qui i volti sui cartelloni pubblicitari non sono quelli di
modelle famose. Sono raffigurati epici disegni e gigantografie di Che Guevara e
slogan di propaganda politica che inneggiano ai valori e ai trionfi della
Rivoluzione o ricordano gli effetti deleteri dell’embargo. I pochi chilometri
dell’autopista che mi porta verso Cardenas sono rovinati e spesso pieni di
buche. Mi fanno compagnia decine di Cadillac, Chevrolet, Buick, Dodge rumorose
e scoppiettanti ed enormi autobus turistici che trasportano masse di persone
verso la più famosa e rinomata Trinidad, situata quasi sulla costa Sud
dell’isola.

Mi
rendo conto molto presto che sto per entrare in una dimensione di Cuba
totalmente diversa da quella vista finora. Incrocio e sorpasso carretti e
carrozze trainate da buoi e cavalli. Mezzi di trasporto d’altri tempi che si
fanno sempre più numerosi man mano che mi addentro nei piccoli centri abitati
ma che presto diventano la normalità nelle stradine intee dove, sempre più
spesso, mi ritrovo a dare la precedenza a un cavallo piuttosto che a
un’automobile. Cardenas sorge a soli dieci chilometri a Sud di Varadero ed è la
città dormitorio della maggior parte della forza lavoro della costa. Lontana
dai riflettori del turismo, essa offre uno spaccato della vita cubana, oltre a
cultura e storia, testimoniate da edifici coloniali ormai fatiscenti.

Sul ciglio delle
strade

Parcheggio
l’auto in quello che è il centro della vita sociale della cittadina, Parque Colón,
la piazza dove sorgono la cattedrale dedicata all’Immacolata Concezione, in
perfetto stile coloniale, e il monumento a Cristobál Colón. È la prima statua
eretta a Cuba in memoria di Cristoforo Colombo nel 1862. Celebri e scolpite
nella memoria storica degli abitanti di Cardenas le parole che il genovese pronunciò
appena sbarcato a Cuba: «Non ho mai visto paese più bello». La città non
nasconde il suo stato di decadenza, le sue strade sono malmesse, piene di
rifiuti e attraversate, anche qui come a La Habana, da rivoli d’acqua di ogni
genere. Tuttavia è sufficiente percorrere l’Avenida de Céspedes per assaporare
il vero spirito cubano, quello fatto di musica, sorrisi e felicità a dispetto
del poco che un’economia stanca e impoverita offre agli abitanti dell’isola. A
Cardenas uno straniero è abbastanza raro da avvistare e per questo attira molto
presto l’attenzione degli abitanti che vivono le loro giornate sul ciglio delle
strade. Insomma, non passo inosservato. Anche qui il rituale dell’approccio è
lo stesso: «Sigari? Ron? Chica?».

Sono
tutti molto disponibili a farsi fotografare e ognuno mi racconta un pezzo della
propria esistenza. Pillole di vita dal ritmo lento o forse rassegnato, lontano
anni luce dalla nostra realtà fatta di stress, inutili lotte contro il tempo,
insoddisfazione e consumismo esasperato. Enrique, giovane molto curato ed
elegante, dice di essere un «benefattore» per le turiste canadesi. Aleida, con
i suoi due piccoli figli vestiti di niente, racconta il suo sogno di andare in
Italia come sua cugina. Yisel, dietro al suo banchetto di verdure, mi chiede di
trovare un marito italiano per la sua giovane e bella figliola che timidamente,
imbarazzata per le parole della madre, mi fissa seduta su un gradino poco
distante. Lucrecia, donna di circa 75 anni, dai lineamenti delicati e memori di
un’antica bellezza, è vedova e vive da sola. Mi invita a entrare in casa
offrendomi da bere e mi racconta di sua figlia che abita in Germania. Vive di
stenti in attesa del ritorno a Cuba dei suoi nipoti, ma dimostra piglio, dignità
e tutto il proprio orgoglio cubano mentre mi parla. Mi fissa con le lacrime
agli occhi e il suo sguardo profondo sembra trasmettermi in pochi attimi tutta
l’essenza del suo popolo.

Un futuro di
nostalgia?

Sono molto rari i visitatori tentati di spendere qualche
ora a Cardenas, Matanzas, Colico. È difficile che qualcuno scenda dall’autobus
per lasciarsi trasportare dal fascino del silenzio e della desolazione che
pervade le viuzze di paesini dimenticati e quasi disabitati come San Miguel de
los Baños, lontano dal frastuono delle città più famose e della costa.

È qui
che resiste l’ultimo baluardo dello spirito cubano. I turisti occidentali sono
figli e schiavi del marketing superficiale e artefatto dei tour operator:
spiagge, sole, relax e finzione perdendo di vista il senso della storia, della
cultura, del viaggio, della scoperta. È soltanto in queste zone isolate e
sperdute che si ha la possibilità di entrare in contatto con il passato di Cuba
e con la gente al tempo dei fratelli Castro.

Dopo
la stretta di mano e gli accordi tra i presidenti Raúl e Obama (Città di
Panama, 10-11 aprile 2015), tra qualche anno (non molto lontano, credo), questa
Cuba probabilmente cambierà o scomparirà del tutto, magari sotto i colpi delle
multinazionali ormai alle porte.

Daniele Romeo*
 (*) La prima parte di questo
reportage di Daniele Romeo è stata pubblicata sul numero di maggio 2015.

Daniele Romeo




Brasile. I tamburi di oxalá

Da alcuni studiosi
l’umbanda è considerata la religione brasiliana per eccellenza perché
miscellanea di tutti gli elementi da cui il paese ha preso forma. Per cercare
di capire abbiamo visitato alcuni «terreiros», i luoghi dove si svolgono le
cerimonie. Le sorprese non sono mancate.

Floriano.
Sopra la porta d’ingresso, sul muro color verde, la scritta recita: «Casa de
productos de umbanda São Jorge». All’interno gli scaffali sono pieni: ci sono
incensi e prodotti naturali per propiziare ogni genere di obiettivo (dall’amore
ai soldi); e poi statue di varie dimensioni con le fattezze di santi cattolici
o di altre persone.

Nel centro di Floriano, piccola città del Piauí, ci sono ben
due negozi che vendono articoli per l’umbanda. Eppure, stando alle statistiche
ufficiali o semplicemente alle risposte della gente, i brasiliani che seguono
quella religione sarebbero pochi (o pochissimi).

Anche individuare un terreiro, il luogo dove si tengono
le cerimonie, non è impresa facile. In questo noi veniamo assistiti dalla
fortuna. Arriviamo a casa del signor Ademar José Soares, a pochi metri dalla
riva del Paranaiba, perché lui, un uomo di 76 anni con una vitalità ben
superiore a quella prevedibile per la sua età, è un organizzatore del bumba-meu-boi, una
nota festa popolare di antica tradizione.

Quasi subito l’obiettivo della nostra visita diventa però
un altro. Ademarzinho (i diminutivi sono una diffusa consuetudine brasiliana)
ci racconta infatti di essere un pai-de-santo, il responsabile di un terreiro dell’umbanda.
Immediatamente lo tempestiamo delle domande più disparate.

Vedendoci così interessati, l’uomo ci invita a partecipare
alla gira (sessione) del venerdì successivo. Spinti dalla nostra
grande curiosità, aderiamo con entusiasmo. Peraltro ci imponiamo di non fare
troppa pubblicità all’invito, dato che spesso le cerimonie di umbanda, pur non
essendo segrete, dai più vengono descritte come macumba nella sua accezione
negativa, cioè incontri dove si praticano malefici e dunque da evitare con
cura.

Celebrazione e riti

Ci presentiamo puntuali, verso le nove della sera,
davanti all’abitazione di Ademarzinho. La casa è assai modesta e non ci sono
insegne che indichino la presenza di un terreiro. Per accedervi si passano
due porticine. All’entrata del locale ci sono due banchi per ospitare chi
voglia assistere alle sedute che si svolgono al di là di una piccola balaustra.
A illuminare gli spazi ci sono alcune deboli luci, ma soprattutto candele (velas), sparse in ogni
angolo. Religione sincretica per antonomasia, l’umbanda viene considerata
monoteista (Dio è chiamato Olorum o Zâmbi), anche se la credenza negli orixás (di derivazione
africana) e quella negli elementi della natura (ereditata dal panteismo
indigenista) potrebbero far pensare il contrario.

Qui, nel terreiro di Ademarzinho, il sincretismo tra umbanda e
cattolicesimo trova la sua forma concreta e visibile in fondo al salone, dove,
appoggiato a una parete azzurra, c’è un vero e proprio altare (congá). Al centro un
festone circonda una statua di San Lazzaro, accanto Santa Barbara e Nostra
Signora di Aparecida, oltre a un rosario e, poco sopra, un piccolo crocefisso.
Sui lati dell’altare trovano invece spazio una serie di statue, sistemate su
ripiani in forma di scala. Si distinguono Gesù con la croce, padre Cicero (un
famoso prete brasiliano), San Francesco d’Assisi, San Giovanni Battista, Santa
Teresina delle Rose, San Benedetto, San Michele Arcangelo, San Sebastiano.

Alla destra dell’altare ci sono i tamburi (atabaques), che rimandano
alla tradizione africana, e l’ingresso ai locali privati del terreiro.

Al centro della sala c’è un palo (guna) bianco, attorno al
quale si svolgeranno le danze. Esso simboleggia l’unione tra la terra e il
cielo, ma anche il fulcro della casa.

Il celebrante (pai-de-santo) è Ademarzinho, ma ad
aiutarlo ci sono varie signore, alcune delle quali scopriremo essere medium.

La cerimonia inizia con una distribuzione d’incenso (defumação) per purificare
l’ambiente. Quindi, vengono intonati il Padre nostro (Pai nosso) e l’Ave Maria.

Sia il pai-de-santo che le donne aiutanti indossano vestiti bianchi. Va
ricordato che nell’umbanda ogni rito è associato a colori, bevande, cibi,
fiori, erbe, pietre, metalli, simboli specifici.

In un ambiente siffatto l’atmosfera è resa suggestiva dai
suoni dei tamburi e dalle litanie (pontos cantados) innalzate dal sacerdote e
dalle sue aiutanti. Attoo al palo centrale si svolge la danza delle donne,
che lentamente fanno roteare testa e braccia.

Nel terreiro sono presenti alcune persone venute per ricevere riti
purificatori o propiziatori (passes): due uomini, un ragazzo, una giovane donna accompagnata
dalla madre e dal fratello. Con un gesso il pai-de-santo disegna per terra alcuni
cerchi e al loro interno dei simboli. Accanto a questi disegni (pontos riscados) viene
posta l’immancabile candela.

Uno a uno gli uomini, venuti per chiedere la guarigione
dei loro problemi fisici, si presentano davanti alle aiutanti. Presa una
bacinella di metallo, le signore vi depongono foglie ed erbe, le imbevono di
alcol e danno loro fuoco. Poi raccolgono la fiamma con le mani e la «passano»
su piedi, gambe e braccia delle tre persone. Un abbraccio chiude il rito.

Cambio di scena: exú
e pombagira

Dopo un paio di ore una delle donne-medium ci dice di
mettere via macchina fotografica e videocamera. Il suo tono è di quelli che non
ammettono repliche. Obbediamo, anche per non venir meno al nostro ruolo di
ospiti del terreiro.

I componenti della famiglia si sono seduti a terra
attorno a una tovaglia su cui sono stati posti piatti, posate, bicchieri e
varie bottiglie di vino: è l’offerta (ebó) per ottenere una grazia. Al centro della «tavola»
sono stati inoltre deposti alcuni indumenti che ci dicono appartenere al marito
della donna, alcolista e violento che si vuole ricondurre sulla retta via.

Ora il clima che si respira è totalmente cambiato. È
cupo, senza tamburi e canti. La donna che ci aveva fatto riporre gli strumenti
appare stravolta fisicamente ed emotivamente, forse perché incorpora – così ci
verrà spiegato – lo spirito della pombagira Maria Padilha, entità
richiamata quando ci sono problemi d’amore. La scena è però nella mani del pai-de-santo,
anch’egli completamente trasformato, sia nell’aspetto esteriore che nel
comportamento. Capiamo che il pai-de-santo incorpora exú Tranca Ruas, entità che apre o chiude strade a
seconda delle necessità.

L’uomo indossa un mantello nero con una fodera intea
rossa e un tridente ricamato. Tiene in mano una bottiglia di cachaça che sorseggia di
quando in quando. I suoi canti si sono fatti più striduli e incomprensibili.
Intendiamo però chiaramente quando chiede che gli venga portata una gallina
nera. Dalle stanze appartate arriva una giovane signora con in mano l’animale
richiesto.

La gallina viene presa per il collo e passata sul corpo
delle persone. A un certo punto il celebrante tira il collo al malcapitato
animale. Il sangue (ejé) viene raccolto in una ciotola, da cui beve ogni persona
del cerchio.

Va detto che i sacrifici animali non sono affatto comuni
nell’umbanda. Assistervi non è un’esperienza piacevole, ma occorre ricordare
che questo tipo di offerte sono previste da quasi tutte le religioni.

Ormai sono passate le una della notte e noi siamo qui da
ore. Decidiamo quindi di lasciare il terreiro. In silenzio, facciamo un
segno di saluto e, indietreggiando di schiena (come ci è stato detto di fare),
usciamo dalla casa.

 

Bibliografia

• Ademir Barbosa Júnior, O livro essencial de umbanda,
Universo dos Livros, São Paulo 2014.
• Andrea D’Anna, Le religioni afroamericane,
Editrice Nigrizia, 1972
• Pedro F. Miguel, Honga. Per un’antropologia africana,
La Meridiana, Molfetta 1990.
• Pierluigi Lattuada, Sciamanesimo brasiliano, Anima
Edizioni, 2005.
• Andrea Romanazzi, Lo sciamanesimo afroamerindio,
Anguana Edizioni, 2013.

Intervista con Patricia Santos

Candomblé e umbanda
sono religioni

Patricia Santos è una giovane
professoressa di storia presso l’Università statale del Piauí. Da cinque anni
si occupa di religiosità e di fenomeni religiosi, ma sono stati i suoi studenti
a spingerla a studiare anche l’umbanda.

Professoressa, nel maggio del 2014, un giudice federale di nome Eugênio
Rosa de Araújo sentenziò che le religioni afrobrasiliane non sono religioni…

«Sulla questione ci sono state varie discussioni. Personalmente le
considero delle religioni, con regole e riti».

Si dice che l’umbanda e il candomblé siano religioni afrobrasiliane. È
un’affermazione corretta?

«Direi di sì. L’umbanda è una religione con un’origine brasiliana, ma
con varie matrici: cattolicesimo, spiritismo kardecista, elementi di religiosità
indigena e di religiosità africana. È una religione eterogenea nata anche come
forma di resistenza. Il candomblé è più una religione africana. Direi che essa ha
subito un “processo di sbiancamento” meno accentuato. Nondimeno anche in essa
sono presenti rituali di altre religioni».

Nel suo paese quanti sono i seguaci delle religioni afrobrasiliane?

«Non saprei dire quanti siano i seguaci dell’umbanda, anche perché si
assiste a una negazione da parte degli stessi umbandisti. In un sondaggio
condotto da un gruppo di ricerca nella città di Oeiras, nel Piauí, si è
riscontrato che gli stessi frequentatori dei terreiros non si
considerano umbandisti o addirittura negano qualsiasi relazione con quella
religione.

I dati Ibge (Instituto Brasileiro de Geográfia e Estatistica)
dicono che in questa città non ci sono praticanti dell’umbanda. Un dato
contraddetto dal numero di terreiros esistenti. Soltanto nella zona
urbana se ne contano almeno sette».

Se i numeri dei seguaci non si conoscono, si può almeno dire a quali
categorie sociali appartengano?

«Anche se non è così facile determinare la partecipazione delle varie
categorie sociali, è evidente che tra gli aderenti alle religioni
afrobrasiliane si incontra un gran numero di neri e di poveri. In ogni caso, va
segnalato che oggi molti frequentatori sono bianchi, ricchi e con un alto
livello di scolarità. Rimane vero che, da molto tempo, i terreiros si
trovano nelle periferie delle città o comunque in zone marginali delle stesse».

L’umbanda (e il candomblé) si celebrano sempre nei terreiros?

«Non sempre. Il terreiro è lo spazio dove vengono fatti la
maggior parte dei rituali. Tuttavia, alcuni di essi si possono fare anche all’aria
aperta».

Chi conduce i riti dell’umbanda?

«Generalmente i celebranti sono il pai-de-santo o la mãe-de-santo».

Nell’umbanda sono venerate varie divinità (orixás). Si può
comunque dire che essa sia una religione monoteista?

«La è. Olorum (detto anche Zambi) rappresenta il nostro Dio cristiano.
Oxalá è Gesù Cristo. E poi ci sono gli orixás, santi con nomi e ruoli
diversi».

Esiste un momento che accomuna le celebrazioni in ogni terreiro?

«Il momento centrale sono i pontos cantados, che sono canti e musiche
che vengono intonati durante le celebrazioni».

Esiste una «linea bianca» e una «linea nera» nelle celebrazioni
dell’umbanda?

«Altra risposta complicata da dare. In generale, gli umbandisti non
considerano pratiche denominate linea nera, volte cioè a propiziare il male. Al
contrario, l’umbanda si propone di essere vicina alle cose buone».

L’umbanda è malvista o almeno guardata con sospetto da molti
brasiliani. Come mai?

«Perché essa è sempre stata descritta con termini negativi come quello
di stregoneria. Davanti a definizioni di questo tipo le persone si spaventano.
Oltre a ciò, c’è una motivazione che deriva dalla formazione sociale e storica
del Brasile. Il paese ha sempre descritto i neri come esseri inferiori, barbari
o stregoni. Magari per il semplice fatto di saper lavorare le erbe o di adorare
la natura».

Se in passato fu la chiesa cattolica a guardare con sospetto alle
religioni afrobrasiliane, oggigiorno sono le chiese neopentecostali (con la Igreja
Universal di Edir Macedo in testa) i principali avversari di umbanda e
candomblé. È così?

«Nel passato la chiesa cattolica ha condannato i culti religiosi
afrobrasiliani, perché ai suoi occhi erano generatori di malefici. Questo
atteggiamento fu molto seguito durante il periodo coloniale brasiliano. Anche
perché era  funzionale al controllo e
alla vigilanza dei padroni (bianchi) sugli schiavi (neri).

Oggi sono le chiese neopentecostali a mostrare intolleranza. Nella loro
ricerca di proseliti, esse non esitano a porre in essere azioni violente contro
i seguaci o i luoghi delle religioni afrobrasiliane. Ad esempio, ci sono stati
molti casi (cfr. Istoé 2191, 2011) di invasione di terreiros o
distruzioni di immagini di orixás che si trovassero in vie o piazze
pubbliche».

Paolo Moiola

 


 
TRA CIELO E TERRA. Dizionario essenziale
I SOGGETTI

Orixás – Derivanti direttamente dalla
tradizione religiosa africana portata nelle Americhe dagli schiavi neri, sono
divinità, ministri di Dio (Olorum-Zâmbi), ognuno legato a uno o più elementi
della natura, ognuno con precise qualità e funzioni. Sono 16 in totale. I
principali (assieme ai corrispettivi sincretici) sono: Oxalá (Gesù Cristo),
Iemanjá (Nostra Signora), Ogum (San Giorgio), Oxóssi (San Sebastiano), Xangô
(San Geronimo, San Giovanni Battista e altri ancora), Obaluaê (San Cipriano),
Oxum (divinità femminile, Nostra Signora di Aparecida).

Eguns – Sono gli spiriti, entità
energetiche che hanno avuto una vita materiale. I principali sono i caboclos
(spiriti di indigeni), i pretos-velhos (spiriti di schiavi africani)
e i crianças (spiriti di bambini).

Exús / Pombagiras – Sono spiriti di particolare
rilevanza, in quanto messaggeri e intermediari tra gli orixás e gli uomini. Le pombagiras ne sono la versione femminile.
Quando erano incarnati in un corpo, exús e pombagiras ebbero vite difficili, segnate da
violenza, odio, vendetta, ignoranza. Gli avversari dell’umbanda e delle
religioni afrobrasiliane, identificandoli con il diavolo e il male in generale,
li usano per screditare quelle credenze.

Pai-de-Santo / Mãe-de-Santo – Sono il sacerdote o la
sacerdotessa responsabili di un terreiro. Il gruppo di fedeli si chiama família-de-santo.

Médiuns – I medium sono persone dotate di
una sensibilità particolare che le pone in condizione di fare da intermediari
con il mondo degli spiriti. È comune lo stato di transe («trance», in
inglese).

 
• LUOGHI, PRATICHE, STRUMENTI

Terreiro – È il luogo dove si svolgono le
cerimonie di umbanda o candomblé.

Congá – È l’altare sacro del terreiro.

Defumação – È la pratica di bruciare erbe e
resine per purificare gli ambienti dove si terranno le sessioni di umbanda.

Pontos cantados / Pontos riscados – I primi sono i canti e
invocazioni. Si distinguono dalle preghiere. I secondi sono invece disegni – di
solito cerchi bianchi con stelle, frecce, triangoli, croci, e altri segni
geometrici – che richiamano ciascuno una precisa entità spirituale.

Atabaque – È uno strumento musicale a
percussione. Consiste in un tamburo di legno cilindrico o leggermente conico
con la bocca coperta da cuoio. È molto utilizzato nelle cerimonie di umbanda e
candomblé.

Velas – Le candele sono sempre presenti
nei riti dell’umbanda.

Passes – I rituali usati per alleviare o
curare le sofferenze, spirituali o fisiche, delle persone.

Ebós – Sono le offerte agli orixás
per ringraziamento o per chiedere qualcosa. Si chiama ebó ejé, l’offerta
di sangue.

Corte – È il rito del sacrificio di
animali (peraltro previsto in molte religioni). Non costituendone un
fondamento, nell’umbanda non è una pratica comune.

Gira – È una sessione di umbanda.


 

• Retroterra culturale

Spiritismo kardecista – Corrente filosofica-religiosa (ma
con pretese di scientificità) fondata dal francese Allan Kardec (1804-1869). Si
fonda sulla credenza dell’esistenza degli spiriti, anime disincarnate degli
uomini. L’unica differenza tra uomini e spiriti è che i primi sono
temporaneamente incarnati in un involucro corporeo. Le comunicazioni tra uomini
e spiriti avvengono attraverso un «medium», che è una persona con particolari
doti che funge da mediatore. Lo spiritismo kardecista è una delle matrici
dell’umbanda. Quest’ultima ha anche una data di nascita: 1908, a Rio de
Janeiro.

Macumba / Macumbeiro – Nomi generici per indicare le pratiche
religiose africane trapiantate in Brasile e la persona che le attua. Tuttavia,
i due termini sono quasi sempre usati con finalità dispregiative.

Altre denominazioni – Esistono altre denominazioni delle
religioni afrobrasiliane, ognuna legata a una determinata regione geografica,
ma con caratteristiche identiche o similari. Le principali sono le seguenti: tambor-de-mina,
xangô, batuque. A?Cuba la religione di origine africana
ha assunto il nome di santeria, ad Haiti quello di vodù (cfr. MC
giugno 2014).

Paolo Moiola

Tags: Religioni afrobrasiliane, Macumba, Candomblé, sincretismo religioso

Testi e foto di Paolo Moiola




Pellegrini, oltre l’Expo

A spasso sul cammino
di sant’Agostino

Un pellegrinaggio religioso,
utile a chiunque voglia prendersi una pausa introspettiva dalla convulsa vita
modea. Si snoda su 926 km in sette province lombarde. E si può fare
un’estensione di 605 km in Nord Africa, tra Tunisia e Algeria. Rigorosamente a
piedi. Ecco alcune tappe di un «Cammino» poco conosciuto.

«Il mondo è un libro. Chi non viaggia ne legge una pagina soltanto»,
affermò sant’Agostino. Scoprire altre terre aiuta a comprendere popoli con
specifiche usanze e tradizioni. Viaggiare apre la mente e il cuore, se solo si è
davvero disposti a interagire con le genti del luogo visitato.

Talvolta, abbiamo dell’atto del viaggiare un’idea
distorta, intendendo con ciò uno spostamento spazio-temporale ampio, che copre
parecchi chilometri, sino a raggiungere destinazioni definite esotiche. In
realtà, viaggiare significa scoprire anche quella parte di mondo vicina a noi,
in cui rientrano siti alle porte di casa, che spesso non sono considerati mete
degne di conoscenza. Per fortuna, negli ultimi anni, tante persone stanno
riscoprendo le bellezze paesaggistiche e artistiche dell’Italia. All’interno di
questo processo di valorizzazione del nostro straordinario patrimonio si
inserisce un interessante fenomeno, ovvero la ritrovata passione per i cammini
di fede: dal Cammino di sant’Antonio a quello di san Benedetto.

Tra questi, uno particolarmente interessante, è quello
di sant’Agostino. Il grande filosofo e padre della Chiesa, considerato il più
celebre tra i convertiti della storia cristiana.

Un cammino per
fermarsi

A differenza di altri cammini, quello
dedicato a sant’Agostino si dirama in una delle zone d’Italia più densamente
popolate, la Lombardia.

Il fatto che il percorso si snodi nel cuore
della più frenetica e trafficata regione del Nord Italia, tra sette province
(Milano, Pavia, Lecco, Como, Bergamo, Varese, Monza e Brianza), non deve
spaventare. Infatti, percorrendo il Cammino si scoprono tante zone
verdeggianti, dove la natura ha vinto sui tentacoli del processo di
cementificazione e dove ci si può rilassare, meditando, pregando, contemplando
il panorama. Questo è in effetti uno dei grandi pregi dell’itinerario, quello
cioè di far conoscere, in modo lento e calmo, angoli meravigliosi di una delle
regioni italiane ritenute più caotiche e urbanizzate.

Il Cammino di sant’Agostino permette di
osservare da un’altra prospettiva alcuni luoghi notevoli dal punto di vista artistico
e religioso.

L’itinerario collega cinquanta santuari
mariani, che testimoniano la profonda devozione dei lombardi verso la madre di
Gesù. All’origine di molti di essi si parla di veri e propri miracoli, come
quello avvenuto presso Imbersago (Lc) dove le invocazioni rivolte da una madre
a Maria permisero di liberare il figlioletto dalle fauci di un lupo. Sono essi
santuari, cappelle, o grotte naturali in cui scorre acqua benedetta e
taumaturgica.

Molti devoti che hanno compiuto il Cammino –
definito pellegrinaggio mariano – descrivono il circuito come «Rosario a cielo
aperto». Proprio come altri itinerari religiosi, invita a pregare, a osservare
con attenzione le persone, il paesaggio, e a percepire la realtà da una
prospettiva non materialistica.

Pur essendo un cammino in primis
religioso, chiunque, laico o non credente, lo percorra, regala a se stesso un
periodo di introspezione, di riflessione, per meditare sul senso della propria
esistenza, prendendo una sana pausa dai doveri sociali e familiari. In un
sistema complesso, veloce e convulso come quello in cui viviamo, fermarsi e
prendere del tempo per sé è fondamentale per capire dove ci troviamo e dove
vogliamo andare. La forza di un cammino come quello di sant’Agostino, deriva
anche da questo aspetto: dalla possibilità di concedersi del tempo per stare
con se stessi o coi propri cari, senza fretta, percependo con maggiore intensità
e lucidità aspetti intangibili dell’esistenza.

Il pellegrinaggio
della rosa

Ispirato a sant’Agostino, questo itinerario è
stato concepito per dare la possibilità a persone di tutte le età di
effettuarlo. Il percorso permette al pellegrino di visitare anche musei, ville
storiche, parchi. Il Cammino si può suddividere in quattro fasi, che, unite tra
loro, compongono simbolicamente una rosa: se si osserva il percorso da una
prospettiva aerea l’immagine del fiore è evidente (vedi cartina). Da
qui, l’altra denominazione di questo itinerario, detto appunto «della rosa».

La prima fase è stata elaborata in maniera
circolare, in modo da permettere al viandante di ritornare esattamente al punto
di partenza, che è Monza. La lunghezza complessiva di questo primo tratto è di
circa 350 chilometri e indicativamente lo si può percorrere in una quindicina
di giorni. Fra le tappe di questo primo tratto segnaliamo Santa Maria delle
Grazie a Monza, il santuario della Madonna dell’Albero a Carimate (Co), la
Madonna del Bosco a Imbersago (Lc), il santuario della Madonna Addolorata,
chiamato popolarmente santuario della Rocchetta, ad Airuno (Lc) e il Domus
Sancti Augustini a Cassago Brianza (Lc), l’antico sito romano Rus Cassiciacum
in cui Agostino dimorò per alcuni mesi e dove si convertì alla fede cristiana.
Questo primo tratto del Cammino costituisce il fiore della rosa.

Il secondo tratto, che rappresenta la
cosiddetta «foglia orientale», parte da Milano e arriva a Monza diramandosi in
direzione Est per un centinaio di chilometri e toccando otto santuari mariani,
tra cui quello della Madonna delle Lacrime a Treviglio (Bg) e quello della
Madonna del Miracolo a Cassano d’Adda (Mi).

La «foglia occidentale» riguarda la parte
Ovest tra Monza e Milano, e fa tappa ad altri otto santuari. I pellegrini che
passano per questo tratto hanno l’opportunità di visitare il sito
dell’Esposizione Universale 2015 di Milano, grazie ai collegamenti tracciati ad
hoc. Tra essi, vi è il percorso che collega l’aeroporto di Malpensa con il
santuario di Busto Arsizio. In questo itinerario sono incluse anche le Vie
d’Acqua sempre legate all’area Expo 2015.

Tra i santuari segnaliamo quello della
Madonna Addolorata a Rho (Mi) e Santa Maria alla Colombara a Milano.

Il «gambo», quarto tratto del Cammino,
collega Monza, Milano e Pavia, e la lunghezza varia a seconda del tragitto che
si vuole percorrere. Il gambo è stato infatti arricchito di circa 154
chilometri, con un’estensione verso Genova, lungo la «via del sale». Si tratta
di un percorso molto suggestivo di 5 giorni che parte dalla basilica di San
Pietro in Cieldoro a Pavia, dove sant’Agostino è sepolto, e giunge alla chiesa
agostiniana della Consolazione di Genova.

Infine, per chi desidera scoprire «le radici»
di sant’Agostino può aggiungere una quinta fase recandosi nel Nord Africa,
toccando i luoghi africani del santo, che collegano Tunisi in Tunisia a Ippona
in Algeria in andata, e Ippona aTagaste in Algeria, per richiudersi a Tunisi,
al ritorno.

Questo tratto, della lunghezza di 605
chilometri, è molto impegnativo, quindi è necessario un buon allenamento
psicofisico, oltre che un’accurata pianificazione dell’itinerario. In Italia la
lunghezza complessiva del Cammino di sant’Agostino è di 926 chilometri.

Alla scoperta di alcune tappe

Il Cammino di sant’Agostino è segnalato con
frecce stilizzate di colore giallo. In alcuni punti sono più visibili, in altri
meno. Questo tipo di segnaletica, che si trova un po’ precaria su pali o
alberi, è ancora provvisoria, in attesa di una marcatura più evidente, già
individuata in un logo in cui spicca una rosa stilizzata blu su sfondo giallo.

Tra i percorsi del Cammino ve ne indichiamo
tre, due di facile percorrenza, il terzo un po’ più impegnativo.

Il primo itinerario che segnaliamo parte dal santuario della Madonna di Czestochowa a
Valgreghentino e giunge al santuario della Madonna Addolorata ad Airuno. Questo
tragitto è breve, lungo circa cinque chilometri, e attraversa una zona del
lecchese poco trafficata, con tratti di campagna. Può essere una bella
passeggiata di una giornata, contemplando il panorama e meditando. Si parte
dalla frazione di Valgreghentino, chiamata Dozio, posizionata su un colle. Qui
sorge una piccola chiesa dedicata alla Madonna Nera di Czestochowa. Si tratta
di un sito votato all’eremitaggio e alla preghiera già in tempi antichi, in cui
sorgeva un tempietto dedicato all’arcangelo Michele, poi ricostruito nel
Cinquecento e consacrato a San Martino. Solo tra il 1976 e il 1977, su impulso
dell’allora parroco don Alfredo Zoppetti, fu eretta l’attuale chiesa. Il luogo è
molto suggestivo e invita alla riflessione, a cominciare dall’altare esterno al
santuario, in cui vi è un bel mosaico della Vergine di Czestochowa. Dalla
frazione di Dozio si raggiunge il santuario della Madonna Addolorata ad Airuno
percorrendo in parte strade asfaltate, in parte vie sterrate e poi
acciottolate. La passeggiata si dirama tra una splendida vegetazione, i cui
colori cambiano a seconda della stagione. In primavera si scorgono le bacche
rosse del pungitopo, tra alberi di robinia, castagni, e poi la viola mammola,
il ginestrino, e la margherita dei campi. Lungo il percorso s’incontrano sette
cappelle di origini settecentesche, i cui affreschi (protetti da una rete)
raffigurano i diversi momenti della passione. Per raggiungere il santuario
della Madonna Addolorata si può continuare lungo la via oppure ascendere la
Scala Santa, con 130 gradini di granito, ai cui lati si elevano tredici edicole
della Via Crucis.

Dalla Scala Santa si giunge alla
Cappella-Sepolcro, dove è conservata la statua del Cristo morto. Salendo ancora
qualche gradino si arriva al santuario chiamato, fino alla metà del XVIII
secolo, Santa Maria della Pace o «della Rocca». All’interno troviamo dipinti e
affreschi raffinati, tra cui spicca nel presbiterio una struggente Pietà.

Notevole è anche il maestoso altare
marmoreo, risalente al XVIII secolo. All’esterno del santuario, sul lato
sinistro, si trova un bel porticato, che conduce a una radura boschiva perfetta
per distendersi e pregare. Da questo punto si ammirano le vette del Resegone,
della Grigna e della Valcava, nonché la vallata sottostante lambita dal fiume
Adda.

Il secondo percorso che segnaliamo è quello che parte dal santuario di Santa Maria
Nascente a Sabbioncello di Merate e giunge alla Madonna del Bosco a Imbersago,
luogo caro a papa Giovanni XXIII (a cui è dedicata un’enorme statua proprio
sotto la Cripta del santuario). Il percorso è di circa sette chilometri e
attraversa la frazione di Cassina Fra’ Martino e poi Arlate, paesino dove si
erge una bella chiesa romanica.

Tra i santuari più frequentati della
Brianza, Madonna del Bosco che ha origini molto antiche. Qui il 9 maggio 1617,
apparve a tre pastorelli la madre di Gesù, raggiante di luce, sulla cima di un
castagno. Miracolosamente, in primavera, i ricci del castagno maturarono
annunciando la presenza di Maria. Molto suggestiva è «la Cappella del Miracolo»,
situata nella Cripta sotto il santuario, dove sgorga acqua benedetta.

Infine, il terzo percorso parte dal santuario della Madonna della Neve a Pusiano e giunge alla Rus Cassiciacum, Domus Sancti Augustini, ovvero Cassago Brianza. La lunghezza è di circa 22 chilometri e per
un tratto si costeggiano il lago di Pusiano, e poi quello di Annone. Cassago
Brianza costituisce il cuore del Cammino, poiché è qui che Agostino si convertì
definitivamente al cristianesimo dopo una giovinezza travagliata. A Cassago si può passeggiare nel Parco
archeologico dedicato al Santo: qui si osservano diversi reperti legati alle
vicende storiche del sito a partire dell’età romana. Si ammirano la fontana di
sant’Agostino e una grande pala bronzea in cui sono raffigurati Agostino e la
madre Monica.

Silvia C. Turrin
Informazioni pratiche


Affrontare il cammino
 

Per conoscere in dettaglio il percorso e le
tappe è stato creato un sito web www.camminodiagostino.it,
con mappe, informazioni sui vari itinerari e sui luoghi in cui trovare
ospitalità. Sono inoltre segnalati i siti dove i pellegrini possono vidimare la
«Credenziale del Cammino». Vengono poi dati consigli legati alla dotazione
logistica, nonché all’abbigliamento. Per approfondire ulteriormente, si può
consultare la guida curata da Renato Oaghi, intitolata Il cammino della rosa edita
dall’Opificio Monzese Pietre Dure (2015).

Chi
desidera assistenza e una preparazione spirituale prima o durante il Cammino può
rivolgersi alla comunità dei Padri Baabiti di Monza, presso il convento in
piazza Carrobiolo, dove padre Michele Triglione sarà disponibile a fornire indicazioni.

S.C.T.

Tag: cammino, pellegrinaggio, s. Agostino, spiritualità, turismo religioso

Silvia C. Turrin




Non di solo pane

La Chiesa cattolica a
Expo 2015

Perché la Chiesa cattolica
prende parte a quella che, a parere di qualcuno, rischia di essere una grande
sagra dei consumi e dell’effimero, un tempio in cui proprio a partire dal cibo
si celebrano i piaceri della vita e si esaltano valori poco in linea con lo
stile che il Vangelo ci chiede? Che legami ci possono essere tra questo evento
e il messaggio cristiano?

Essere capaci di porre domande e accendere
metafore; essere presenti e prendere la parola in un luogo che sarà un grande
laboratorio di idee sul futuro del pianeta e sulle forme di convivenza e di
collaborazione tra i popoli. Questo è per i cristiani addirittura un dovere.

Il
titolo scelto per la manifestazione dice bene la ragione per cui esserci: «Nutrire
il pianeta, energia per la vita» chiama in gioco dimensioni fondamentali
dell’esperienza cristiana. Il riconoscersi creature dentro un disegno che non è
nostro, ma di Dio; la vocazione a diventare custodi e non tiranni di un pianeta
che dobbiamo rendere ospitale; la lotta quotidiana perché a tutti sia garantito
il «pane quotidiano» del Padre nostro; la figura di Cristo, pane vero disceso
dal cielo… quanti temi cristiani vengono trascinati nella scia del titolo di
Expo 2015. La presenza della Santa Sede, della Caritas Inteationalis, ma
anche della Caritas italiana e ambrosiana, sono state pensate proprio in questa
linea.

Una presenza per
stimolare

La
Chiesa cattolica ha intuito l’importanza e le potenzialità di una sua presenza
dentro eventi come questo praticamente dal loro nascere. Sin dagli inizi la
Santa Sede ha compreso il ruolo nevralgico delle esposizioni inteazionali. In
momenti storici anche molto complessi e spesso segnati da tensioni e
contrapposizioni politiche e culturali, le esposizioni inteazionali si sono
dimostrate luoghi di confronto, spazi di dialogo sulle questioni della modeità
e del progresso tecnologico, momenti di aggioamento sulle tematiche sociali e
politiche, occasioni di dibattito ecumenico e interreligioso, una reale
possibilità di promozione e di diffusione del messaggio cristiano. Un’occasione
di primo annuncio e di nuova evangelizzazione, diremmo oggi.

C’è
da aggiungere che negli ultimi decenni il ruolo delle esposizioni universali si
è radicalmente trasformato: da luoghi di esibizione delle ultime scoperte e
innovazioni, da luoghi di celebrazione della capacità di conquista e della
volontà di dominio dell’uomo sul mondo, le Expo sono state trasformate in
luoghi di riflessione, di scoperta e di contemplazione della complessità del
creato e della sua storia, dando così risalto ai temi del limite e dell’armonia
tra le diverse forme di vita, sottolineando in particolare la necessità dello
sviluppo di una convivenza tra i popoli sempre più profonda e strutturata.

La
Chiesa ha visto in questo mutamento una conferma ulteriore dell’importanza di
una sua presenza alle Expo. Esserci e prendere parte ai dibattiti (sempre più
incentrati sulle questioni del futuro del pianeta, come abitarlo e custodirlo);
saper articolare la propria tradizione di fede con le sfide sociali e culturali
del presente; far conoscere i capolavori che la cultura e l’arte cristiana
hanno saputo generare: quanti motivi per giustificare una presenza non
marginale ma capace di portare frutto, di generare influssi dentro la più ampia
cultura mondiale.

Alla tavola di Dio con
gli uomini

Il
tema scelto per Expo 2015 tocca molte corde della riflessione cristiana. Il
cibo e l’azione del nutrire sono per l’uomo uno spazio di educazione senza
paragoni, vista la forza e l’universalità delle dinamiche simboliche
attivabili.

Non c’è cultura che non abbia elaborato riti, simboli,
racconti, calendari e regole al riguardo. E non c’è religione che non abbia
assunto questa operazione dentro i propri dispositivi e le proprie regole di
vita e di comportamento. Gli uomini e le donne, proprio attraverso l’azione del
nutrirsi, hanno imparato a conoscere la loro identità: il proprio corpo, le
relazioni tra le persone e con il mondo, il creato, il tempo e la storia, la
relazione con Dio.

L’esperienza del nutrire può essere un’ottima palestra
per imparare a essere uomini, e a crescere sempre più in maturità.

Per noi cristiani il destino dell’uomo sta in un grande
disegno ecologico che al centro ha l’uomo stesso. Un disegno raccontato
attraverso una visione molto significativa per chi era nomade come il popolo
della Bibbia: «Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su
questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti,
di cibi succulenti, di vini raffinati» (Is 25, 6).

La
storia della nostra fede ci ha insegnato che il gesto del nutrire è diventato
ben presto pasto e convivium, per poi trasformarsi
in sacrum convivium,
momento di comunione in cui non soltanto gli uomini possono osare una relazione
con Dio, ma addirittura il luogo in cui Dio stesso rivela la sua volontà di
relazione e di comunione con gli uomini. Il destino dei popoli della terra, il
destino della terra stessa, è questo grande gesto di comunione voluto da Dio,
simboleggiato da una tavola che Lui imbandisce per tutti, per ogni uomo e
donna, per ogni creatura.

Il
nostro futuro è di sederci tutti assieme alla tavola imbandita da Dio,
realizzando così quel destino di comunione fatto proprio in senso realistico
dallo stesso Gesù, nel momento della sua passione.

Cibo di vita…
eterna

«Voi
mi cercate – dice Gesù alle folle – non perché avete visto dei segni, ma perché
avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo
che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna» (Gv 6, 26). L’uomo
ha bisogno di molti cibi per vivere e per realizzare il proprio destino. E il
cibo ci consente di scoprire veramente chi siamo, se lasciamo che l’operazione
del nutrire dischiuda tutte le potenzialità che contiene. Il Vangelo è pieno di
esempi che ci illustrano come l’esperienza dell’essere nutriti diventa fonte di
interrogazione e di verifica della qualità del nostro essere uomini e donne.

L’uomo ha bisogno di molti cibi per vivere e per
realizzare il proprio destino. «Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola
che esce dalla bocca di Dio» è un’affermazione messa in bocca a Mosè (Dt 8,3)
che Gesù riprende (Mt 4,4) proprio per contrastare la tentazione di ridurre
l’uomo ai soli bisogni fisici e materiali; e allo stesso tempo per rilanciare
l’idea che l’azione del nutrire, intesa in modo integrale, è lo spazio che Dio
ha istituito per educare gli uomini e per incontrarli. Solo in questo modo
possiamo scoprire di essere veramente uomini: quando rispondiamo alla fame,
quella vera; quando attraverso il cibo ci leghiamo tra di noi, ci mettiamo in
relazione; e dentro questa relazione scopriamo la presenza di Dio.

Proprio
come intuiva in modo lucido don Lorenzo Milani: «Lo diceva anche Gesù: l’uomo
non vive di solo pane e casa, ma anche di scuola e di pensiero e di libertà
interiore, perché da questa si passa direttamente alla fede e alla vita eterna,
mentre dal pane e dalla casa si può tranquillamente passare alla televisione e
al cine».

Accendere
l’immaginazione

La
Chiesa vuole essere in Expo per accendere domande e riflessioni critiche,
pensieri che consentano di andare oltre la superficie. Non intende
assolutamente essere una presenza oppositiva, ma metaforica: aiutare a superare
il diaframma del presente e dell’immediato per cogliere dentro di esso il senso
dell’esistere, la dimensione mistica, ossia l’apertura a Dio. Il metodo da
seguire è quello della denuncia e della proposta, un metodo che usa spesso e
anche con successo papa Francesco, per far vedere che la Chiesa non è una
maestra acida, ma una sorella che condivide il percorso dell’uomo con lucidità
e visione di futuro, una madre appassionata capace di indicare strade e risorse
per il domani.

Il
rapporto col cibo può essere assunto come il luogo nel quale si rende più
evidente la disarmonia che segna la relazione dell’uomo con il creato e con gli
altri esseri umani. Qui più che altrove la cultura dello scarto si evidenzia in
maniera lampante. Ed è proprio qui allora che occorre essere presenti per
stimolare le domande giuste, per sviluppare un pensiero metaforico che può
arricchire tutti.

La
vita quotidiana è così, in questa prospettiva, una grande palestra, un luogo di
esercizio in cui Dio ci educa attraverso il cibo e l’atto del nutrirci. Questo
esercizio di apprendimento ha una grammatica, che ruota attorno a quattro
aspetti che esprimono l’identità umana: le dimensioni ecologica, economica,
educativa e religiosa.

Ecologici e solidali

Potremo
così riscoprire, grazie allo stimolo di Expo 2015, che proprio perché cristiani
non si può non essere ecologici. Oggi è molto più visibile l’imposizione di una
cultura del consumo che oscura il nostro compito originario legato al cibo e al
gesto del nutrire. E le conseguenze di questa cultura sono ben visibili, anche
se spesso poco denunciate: emergenze come quella dello spreco delle risorse e
della enorme diseguaglianza nella loro distribuzione, con la piaga conseguente
e ancora più grave della povertà e della fame, o il fenomeno altrettanto
attuale e ugualmente grave dell’inquinamento e dello sfruttamento selvaggio
delle risorse del pianeta, contrastano con l’originario disegno creatore e sono
il segnale di un modo ancora molto immaturo di vivere il nostro compito di
abitare il pianeta come un giardino che nutre tutti.

Da
qui deriva l’urgenza per un convinto impegno di noi cristiani a favore del
creato. L’ecologia è un luogo di testimonianza della nostra fede, contro i
nuovi idoli che seducono l’uomo moderno. L’Expo deve essere l’occasione per un
lavoro di sensibilizzazione che, a partire dalle conseguenze ben visibili di
questa gestione immatura e peccaminosa del creato (cambiamenti climatici,
migrazioni in massa di popolazioni in seguito a questi cambiamenti), permetta a
ogni essere umano di sentirsi responsabile del mondo che lo ha generato, lo
nutre ed è il luogo della sua vita.

Per
la Chiesa, per i cristiani, esserci in Expo vuol dire avere l’audacia di
prendere la parola anche sui temi scottanti della fame e delle grandi
ingiustizie create dallo squilibrio nell’accesso alle risorse. Come cristiani
abbiamo molte cose da dire non soltanto sul modo con cui oggi usiamo il cibo
per creare solidarietà. Più profondamente ancora, stiamo dentro Expo per mostrare come la
grande questione del cibo e delle risorse (alimentari e non) sia la cartina di
tornasole che porta alla luce i tanti difetti e le tante ingiustizie del nostro
modo di immaginare e di governare l’economia.

La
presenza diretta di Caritas dentro il sito espositivo ha proprio questa
intenzione: ricordarci con urgenza l’attualità dell’invito a essere all’altezza
di una simile sfida. Expo ci permette di ricordarci che abbiamo il compito di
essere nella storia come l’anima del mondo, proponendo la vita buona del
Vangelo in tutti gli ambiti dell’esistenza, quello economico compreso.

L’Expo
è lì per ricordarci che dobbiamo vincere la tentazione di restare muti di
fronte alle grandi questioni del nostro tempo.

Il
mondo ha anzitutto fame di futuro. Expo può essere un grande megafono di questa
fame, e al tempo stesso un grande laboratorio dentro il quale come cristiani
partecipare alla costruzione di processi di soluzione, di guarigione, di
risanamento e di rinascita.

Un Dio che si fa pane
per noi

Per
la fede cristiana il cibo è il crocevia di tutta una serie di legami (tra Dio e
gli uomini, degli uomini tra di loro, con il creato) generatori a loro volta di
pratiche che maturano le persone e ne arricchiscono le identità.

Attraverso
la disciplina del cibo l’uomo ha imparato molto circa il suo legame con il
creato come anche circa la sua relazione con Dio.

Sin
dalle sue origini, l’esperienza di fede ha saputo scrivere il rapporto con Dio
nella carne degli uomini proprio tramite il calendario alimentare e lo
strumento dell’ascesi. Il vento della secolarizzazione ha fatto sì che noi
occidentali lasciassimo questo nostro tesoro alle Chiese orientali o alle altre
religioni, Islam in primis (basta pensare al Ramadan; non dimentichiamo
che è il digiuno quaresimale cristiano ad aver ispirato il Ramadan musulmano).

L’evento
di Expo può essere l’occasione giusta per riapprendere a nostra volta questo
legame fede-corpo e fede-cibo. Un legame così forte e originario da aver
conosciuto una sua variante laica: la secolarizzazione ha fatto scomparire le
pratiche del digiuno e della rinuncia ma non è riuscita a cancellare il bisogno
religioso a cui queste pratiche sapevano rispondere. Ed ecco che sono nate le
diete, forme laiche di ascesi e di astinenza, in nome di un benessere che
assume sempre di più i colori e i toni di una spiritualità laica, di una
religione della gratificazione inusuale e intramondana, senza Dio.

Ogni
anno il tempo della Quaresima è un buon momento per riprendere, anche noi,
quella disciplina, che abbiamo perso, del cibo e quella capacità di scrivere la
nostre fede sui nostri corpi.

Potremo
così essere capaci di leggere ancora più in profondità, sempre nel clima di
Expo, il dono che ci fa Dio nel suo Figlio: il Dio cristiano è un Dio che si incarna,
si rende presente tra gli uomini; e che consegna la memoria di questa sua
presenza proprio nel pane eucaristico, un pane che dà vita e salvezza.
L’incarnazione è il grande dono di Dio che nutre gli uomini, come Gesù Cristo
afferma di se stesso più volte nei Vangeli.

Questo
mese celebriamo la festa del Corpus Domini (7 giugno, ndr)
proprio durante Expo 2015. Quale occasione migliore per testimoniare al mondo
che il nutrimento e il futuro dell’uomo e del creato sono custoditi e generati
da questo pane che in realtà è il corpo e il sangue di Gesù Cristo morto per
noi e risorto, amore di Dio fatto carne? Potremo mostrare come la logica
eucaristica è in grado di assumere e fare sue tutte le fami del mondo e degli
uomini. Potremo mostrare come in Gesù Cristo Dio ci rende capaci di diventare
solidali con queste fami, e allo stesso tempo – proprio perché le portiamo
assieme a coloro che ne sono vittime – come Gesù Cristo diventa il cibo, il
nutrimento capace di saziare ogni desiderio, ogni ferita, ogni fame e sete che
l’uomo e il creato provano oggi come nel passato.

I
cristiani hanno il compito di abitare Expo 2015 per svelare l’anima mistica
dell’identità umana, il cuore mistico dell’esperienza, la dimensione
profondamente e radicalmente religiosa del creato, del mondo. Esserci per
condividere, esserci per dare da pensare, esserci per aiutare a stupirsi,
esserci per promuovere giustizia e solidarietà: Expo 2015 può essere
l’occasione per ricordare a tutti il cammino che come umanità stiamo
percorrendo, per rispondere all’invito che Dio ha rivolto a tutti gli uomini di
sedersi alla sua tavola e di spezzare il suo pane per loro.

Luca Bressan*

*Nato a Varese nel 1963 è presbitero
della diocesi di Milano dal 1987. È docente di teologia pastorale alla Facoltà
teologica dell’Italia settentrionale e ha insegnato o collabora presso altre
facoltà italiane. Ha pubblicato diversi libri. Ha partecipato al Sinodo del
2012 sulla Nuova evangelizzazione. Nello stesso anno il cardinale Angelo Scola
lo ha nominato Vicario episcopale per la Cultura, la carità, la missione e
l’azione sociale della Diocesi di Milano.

 

Tag: Expo, cibo, giustizia, pace, Chiesa

Luca Bressan




Camminare insieme

Incontro interreligioso
cristiano-buddista

I cattolici in
Mongolia sono una piccola minoranza. Ma la storia della loro presenza è lunga.
I missionari, arrivati alla caduta del comunismo, si occupano di promozione
sociale. E il dialogo con il Buddismo maggioritario è fondamentale. Riflessioni
di un missionario della Consolata dopo un incontro interreligioso in India.

 

 

 

Secondo
dati recenti delle Nazioni Unite (2012) il 53% dei cittadini della Mongolia si
professa buddista, mentre il 38% si dice non credente di alcuna religione. Per
il resto, il 5% della popolazione è musulmana, il 2% seguace dello Sciamanesimo
e il 2% cristiana. All’interno della minoranza cristiana, solo un piccolo
gruppo appartiene alla chiesa Cattolica Romana, meno di un migliaio di
individui su una popolazione di 3,2 milioni. Nonostante io rappresenti un
gruppo che statisticamente conta solo lo 0,02% in un paese a maggioranza
buddista, è stato per me un grande onore essere presente a Bodhgaya, uno dei più
sacri luoghi per la tradizione buddista, per seguire il quinto colloquio
Buddista-Cristiano, insieme ai rappresentanti di diversi paesi asiatici. Questo
incontro, unico nel suo genere, è stato possibile solo grazie al lavoro
instancabile del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso e del
comitato locale a Bodhgaya, nello stato Bihar dell’India. Sono stati due giorni
intensi (12-13 febbraio 2015), spesi ad ascoltarsi gli uni gli altri,
condividere esperienze, impegnarsi nella realizzazione di un’effettiva
collaborazione una volta ritornati ciascuno nei nostri rispettivi territori.


Pochi ma buoni

Per quanto ci riguarda, nonostante i numeri
insignificanti, la nostra esperienza nella terra di Gengis Khan ha profonde
radici storiche: in Mongolia le relazioni tra buddisti e cristiani beneficiano
di uno dei più forti legami nel continente asiatico. La cristianità nestoriana
(il nestorianesimo è una dottrina che rifiuta la natura umana e divina di
Cristo, affermandone la totale separazione, ndr) in Mongolia era presente già nell’VIII secolo
ed è abituata a coesistere con la tradizione buddista, proveniente dal Tibet.
Nello scenario multi etnico e multi religioso del grande Impero mongolo, il
governo dei Khan è noto per essere stato particolarmente tollerante verso tutte
le religioni praticate nei loro territori. Per questo, nel nostro impegno
attuale per promuovere il dialogo e la comprensione reciproca, possiamo fare riferimento
a una storia positiva di interazione pacifica e condividere questa esperienza
in Asia e nel resto del mondo.

Dopo il comunismo

Dopo l’epica degli scambi medioevali, sostenuti anche da
iniziative diplomatiche tra i pontefici romani e gli imperatori mongoli, le
mutue relazioni si ridussero, fino quasi a scomparire, a causa della
diminuzione di credenti cristiani, troppo isolati dai loro capi, e la crescita
concorrente del Buddismo, che gradualmente divenne religione di stato. Il «re-incontrarsi»
tra buddisti e cristiani in tempi più modei capitò in un momento critico
della storia del paese, un periodo segnato dalle lacrime. Quando i primi
missionari ebbero il visto di ingresso all’inizio degli anni ’90 del secolo
scorso, la Mongolia stava lentamente rialzandosi dopo 70 anni di regime
comunista, durante il quale il Buddismo, nel suo complesso, aveva sofferto dure
persecuzioni, con migliaia di monaci mandati a morte o forzati ad abbandonare
il loro credo, considerato un pericoloso ostacolo alla società atea importata
dall’Unione Sovietica.

Il
rapido cambiamento dal sistema comunista verso una debole democrazia si
realizzava in un contesto di povertà diffusa e fu chiara la chiamata della
chiesa a essere coinvolta in iniziative di promozione sociale. Missionari
cristiani di varie denominazioni iniziarono a realizzare progetti di sviluppo
umano di svariati tipi, a dal semplice inserimento in aree povere per aiutare
la popolazione, a programmi su larga scala di educazione e sanità. Il Vaticano
fu tra i primi stati a essere formalmente invitato a stabilire relazioni
diplomatiche con la Mongolia. Così la Chiesa cattolica – a differenza di altri
gruppi cristiani – è stata fin da allora presente in modo ufficiale.

In
questi 23 anni di installazione legale, la Chiesa cattolica ha sempre giocato
un ruolo trainante nella promozione dei diritti umani e nella lotta alle
conseguenze della povertà e del sottosviluppo. Dove le lacrime abbondano sulla
faccia della gente, la chiesa si muove per agire perché identifica questi
sofferenti con lo stesso Cristo, così le azioni di carità diventano una
risposta naturale, e non un subdolo modo di fare nuove conversioni.

Una
percezione allarmata del lavoro della chiesa in questo senso può aver spinto
qualcuno a una sorta di sospetto, ma la chiesa ha costantemente cercato verità
e chiarezza a questo riguardo, dimostrando la sua attitudine imparziale a
lavorare per la promozione della dignità e rispetto umani. Come cristiani in un
paese buddista, condividiamo i nostri tesori spirituali e le nostre risorse
materiali perché noi crediamo fortemente che «la frateità asciuga le lacrime».

Una lunga lista di iniziative della chiesa dovrebbero
essere ricordata qui: dai centri di accoglienza per bambini di strada aperti
nella capitale, alle molteplici scuole e scuole d’infanzia, dalla cura di
bambini disabili ai progetti di agricoltura, da una clinica al servizio degli
svantaggiati a un centro culturale con esperienza in studi mongoli.

Sì, perfino l’orizzonte culturale dello sviluppo ha costantemente
marcato l’impegno della chiesa per una crescita armonica dei nostri valori
comuni, sui quali una società equa e pacifica, è costruita. Fino dall’inizio
della sua presenza, il nostro attuale prefetto apostolico, monsignor Wenceslao
Padilla, e i suoi collaboratori hanno intrattenuto relazioni fratee con la
gerarchia buddista, dando un taglio concreto alla convinzione che il dialogo
interreligioso è un percorso fondamentale su cui siamo tutti chiamati a
camminare insieme. Un’occasione annuale in cui si riuniscono Cristiani e
Buddisti, è sempre stata la «Giornata internazionale della pace», promossa
dalle Nazioni Unite. In questa occasione, una parte della cerimonia altamente
simbolica si svolge alla «campana della pace» nel centro della capitale
Ulaanbaatar. Qui i rappresentanti di differenti fedi offrono le loro parole
ispirate sul raggiungimento di una pace duratura, e iniziative di studio comuni
sono state tenute con l’obiettivo di incoraggiare la comprensione reciproca,
basata su conoscenza autentica delle tradizioni rispettive. La Chiesa cattolica
ha spesso invitato come ospiti d’onore monaci buddisti e pure capi di
importanti monasteri, per condividere i loro punti di vista e favorire i legami
esistenti di amicizia e dialogo.

Piantare la propria
tenda

Come
ospiti e pellegrini delle splendide steppe dell’Asia centrale, abbiamo
umilmente piantato la nostra tenda tra la gente, cercando di imparare da essa
la saggezza di vita che ogni gruppo umano sviluppa secondo le proprie
tradizioni. La ger mongola (tenda
tradizionale), nella quale la nostra chiesa si raccoglie ogni giorno a pregare
nella provincia di Uvurkhangai, è aperta a chiunque venga, che sia egli o ella
mosso da curiosità, bisogno o da un desiderio profondo di conoscere Colui che
ci ha mandati là.

Stimiamo
molto i valori morali e spirituali tipici del Buddismo, che hanno modellato
indelebilmente l’intera Asia, come pure i cuori dei mongoli: senso della
sacralità, profondità, serietà, moderazione, ascetismo, abnegazione. Crediamo
che a questo livello di esperienza religiosa ci sia un potenziale immenso di
mutuo arricchimento, se solo cogliamo la sfida di sederci insieme a condividere
i nostri tesori.

Allo
scopo di dare un taglio concreto a questo impegno per il dialogo interreligioso
e alla ricerca culturale, stiamo pianificando di aprire presto un centro
specifico destinato a queste attività. Il sito scelto è esso stesso altamente
simbolico: Kharkhorin (anche conosciuto come Karakoroum), l’antica capitale
dell’impero mongolo, dove nel XIII secolo Buddisti, Cristiani, Musulmani e
Shamanisti vivevano insieme e avevano i loro rispettivi luoghi di culto.

All’inizio
del terzo millennio, in linea con l’antica tradizione di armonia tra le diverse
esperienze religiose che distinsero la storia mongola, speriamo di contribuire
alla crescita del rispetto e apprezzamento per ogni altra entità, lavorando per
il bene comune della società mongola.

Giorgio Marengo

Tag: Chiesa, dialogo interreligioso, dialogo, Cristianesimo, Buddismo

Giorgio Marengo