Brasile. I tamburi di oxalá

Da alcuni studiosi
l’umbanda è considerata la religione brasiliana per eccellenza perché
miscellanea di tutti gli elementi da cui il paese ha preso forma. Per cercare
di capire abbiamo visitato alcuni «terreiros», i luoghi dove si svolgono le
cerimonie. Le sorprese non sono mancate.

Floriano.
Sopra la porta d’ingresso, sul muro color verde, la scritta recita: «Casa de
productos de umbanda São Jorge». All’interno gli scaffali sono pieni: ci sono
incensi e prodotti naturali per propiziare ogni genere di obiettivo (dall’amore
ai soldi); e poi statue di varie dimensioni con le fattezze di santi cattolici
o di altre persone.

Nel centro di Floriano, piccola città del Piauí, ci sono ben
due negozi che vendono articoli per l’umbanda. Eppure, stando alle statistiche
ufficiali o semplicemente alle risposte della gente, i brasiliani che seguono
quella religione sarebbero pochi (o pochissimi).

Anche individuare un terreiro, il luogo dove si tengono
le cerimonie, non è impresa facile. In questo noi veniamo assistiti dalla
fortuna. Arriviamo a casa del signor Ademar José Soares, a pochi metri dalla
riva del Paranaiba, perché lui, un uomo di 76 anni con una vitalità ben
superiore a quella prevedibile per la sua età, è un organizzatore del bumba-meu-boi, una
nota festa popolare di antica tradizione.

Quasi subito l’obiettivo della nostra visita diventa però
un altro. Ademarzinho (i diminutivi sono una diffusa consuetudine brasiliana)
ci racconta infatti di essere un pai-de-santo, il responsabile di un terreiro dell’umbanda.
Immediatamente lo tempestiamo delle domande più disparate.

Vedendoci così interessati, l’uomo ci invita a partecipare
alla gira (sessione) del venerdì successivo. Spinti dalla nostra
grande curiosità, aderiamo con entusiasmo. Peraltro ci imponiamo di non fare
troppa pubblicità all’invito, dato che spesso le cerimonie di umbanda, pur non
essendo segrete, dai più vengono descritte come macumba nella sua accezione
negativa, cioè incontri dove si praticano malefici e dunque da evitare con
cura.

Celebrazione e riti

Ci presentiamo puntuali, verso le nove della sera,
davanti all’abitazione di Ademarzinho. La casa è assai modesta e non ci sono
insegne che indichino la presenza di un terreiro. Per accedervi si passano
due porticine. All’entrata del locale ci sono due banchi per ospitare chi
voglia assistere alle sedute che si svolgono al di là di una piccola balaustra.
A illuminare gli spazi ci sono alcune deboli luci, ma soprattutto candele (velas), sparse in ogni
angolo. Religione sincretica per antonomasia, l’umbanda viene considerata
monoteista (Dio è chiamato Olorum o Zâmbi), anche se la credenza negli orixás (di derivazione
africana) e quella negli elementi della natura (ereditata dal panteismo
indigenista) potrebbero far pensare il contrario.

Qui, nel terreiro di Ademarzinho, il sincretismo tra umbanda e
cattolicesimo trova la sua forma concreta e visibile in fondo al salone, dove,
appoggiato a una parete azzurra, c’è un vero e proprio altare (congá). Al centro un
festone circonda una statua di San Lazzaro, accanto Santa Barbara e Nostra
Signora di Aparecida, oltre a un rosario e, poco sopra, un piccolo crocefisso.
Sui lati dell’altare trovano invece spazio una serie di statue, sistemate su
ripiani in forma di scala. Si distinguono Gesù con la croce, padre Cicero (un
famoso prete brasiliano), San Francesco d’Assisi, San Giovanni Battista, Santa
Teresina delle Rose, San Benedetto, San Michele Arcangelo, San Sebastiano.

Alla destra dell’altare ci sono i tamburi (atabaques), che rimandano
alla tradizione africana, e l’ingresso ai locali privati del terreiro.

Al centro della sala c’è un palo (guna) bianco, attorno al
quale si svolgeranno le danze. Esso simboleggia l’unione tra la terra e il
cielo, ma anche il fulcro della casa.

Il celebrante (pai-de-santo) è Ademarzinho, ma ad
aiutarlo ci sono varie signore, alcune delle quali scopriremo essere medium.

La cerimonia inizia con una distribuzione d’incenso (defumação) per purificare
l’ambiente. Quindi, vengono intonati il Padre nostro (Pai nosso) e l’Ave Maria.

Sia il pai-de-santo che le donne aiutanti indossano vestiti bianchi. Va
ricordato che nell’umbanda ogni rito è associato a colori, bevande, cibi,
fiori, erbe, pietre, metalli, simboli specifici.

In un ambiente siffatto l’atmosfera è resa suggestiva dai
suoni dei tamburi e dalle litanie (pontos cantados) innalzate dal sacerdote e
dalle sue aiutanti. Attoo al palo centrale si svolge la danza delle donne,
che lentamente fanno roteare testa e braccia.

Nel terreiro sono presenti alcune persone venute per ricevere riti
purificatori o propiziatori (passes): due uomini, un ragazzo, una giovane donna accompagnata
dalla madre e dal fratello. Con un gesso il pai-de-santo disegna per terra alcuni
cerchi e al loro interno dei simboli. Accanto a questi disegni (pontos riscados) viene
posta l’immancabile candela.

Uno a uno gli uomini, venuti per chiedere la guarigione
dei loro problemi fisici, si presentano davanti alle aiutanti. Presa una
bacinella di metallo, le signore vi depongono foglie ed erbe, le imbevono di
alcol e danno loro fuoco. Poi raccolgono la fiamma con le mani e la «passano»
su piedi, gambe e braccia delle tre persone. Un abbraccio chiude il rito.

Cambio di scena: exú
e pombagira

Dopo un paio di ore una delle donne-medium ci dice di
mettere via macchina fotografica e videocamera. Il suo tono è di quelli che non
ammettono repliche. Obbediamo, anche per non venir meno al nostro ruolo di
ospiti del terreiro.

I componenti della famiglia si sono seduti a terra
attorno a una tovaglia su cui sono stati posti piatti, posate, bicchieri e
varie bottiglie di vino: è l’offerta (ebó) per ottenere una grazia. Al centro della «tavola»
sono stati inoltre deposti alcuni indumenti che ci dicono appartenere al marito
della donna, alcolista e violento che si vuole ricondurre sulla retta via.

Ora il clima che si respira è totalmente cambiato. È
cupo, senza tamburi e canti. La donna che ci aveva fatto riporre gli strumenti
appare stravolta fisicamente ed emotivamente, forse perché incorpora – così ci
verrà spiegato – lo spirito della pombagira Maria Padilha, entità
richiamata quando ci sono problemi d’amore. La scena è però nella mani del pai-de-santo,
anch’egli completamente trasformato, sia nell’aspetto esteriore che nel
comportamento. Capiamo che il pai-de-santo incorpora exú Tranca Ruas, entità che apre o chiude strade a
seconda delle necessità.

L’uomo indossa un mantello nero con una fodera intea
rossa e un tridente ricamato. Tiene in mano una bottiglia di cachaça che sorseggia di
quando in quando. I suoi canti si sono fatti più striduli e incomprensibili.
Intendiamo però chiaramente quando chiede che gli venga portata una gallina
nera. Dalle stanze appartate arriva una giovane signora con in mano l’animale
richiesto.

La gallina viene presa per il collo e passata sul corpo
delle persone. A un certo punto il celebrante tira il collo al malcapitato
animale. Il sangue (ejé) viene raccolto in una ciotola, da cui beve ogni persona
del cerchio.

Va detto che i sacrifici animali non sono affatto comuni
nell’umbanda. Assistervi non è un’esperienza piacevole, ma occorre ricordare
che questo tipo di offerte sono previste da quasi tutte le religioni.

Ormai sono passate le una della notte e noi siamo qui da
ore. Decidiamo quindi di lasciare il terreiro. In silenzio, facciamo un
segno di saluto e, indietreggiando di schiena (come ci è stato detto di fare),
usciamo dalla casa.

 

Bibliografia

• Ademir Barbosa Júnior, O livro essencial de umbanda,
Universo dos Livros, São Paulo 2014.
• Andrea D’Anna, Le religioni afroamericane,
Editrice Nigrizia, 1972
• Pedro F. Miguel, Honga. Per un’antropologia africana,
La Meridiana, Molfetta 1990.
• Pierluigi Lattuada, Sciamanesimo brasiliano, Anima
Edizioni, 2005.
• Andrea Romanazzi, Lo sciamanesimo afroamerindio,
Anguana Edizioni, 2013.

Intervista con Patricia Santos

Candomblé e umbanda
sono religioni

Patricia Santos è una giovane
professoressa di storia presso l’Università statale del Piauí. Da cinque anni
si occupa di religiosità e di fenomeni religiosi, ma sono stati i suoi studenti
a spingerla a studiare anche l’umbanda.

Professoressa, nel maggio del 2014, un giudice federale di nome Eugênio
Rosa de Araújo sentenziò che le religioni afrobrasiliane non sono religioni…

«Sulla questione ci sono state varie discussioni. Personalmente le
considero delle religioni, con regole e riti».

Si dice che l’umbanda e il candomblé siano religioni afrobrasiliane. È
un’affermazione corretta?

«Direi di sì. L’umbanda è una religione con un’origine brasiliana, ma
con varie matrici: cattolicesimo, spiritismo kardecista, elementi di religiosità
indigena e di religiosità africana. È una religione eterogenea nata anche come
forma di resistenza. Il candomblé è più una religione africana. Direi che essa ha
subito un “processo di sbiancamento” meno accentuato. Nondimeno anche in essa
sono presenti rituali di altre religioni».

Nel suo paese quanti sono i seguaci delle religioni afrobrasiliane?

«Non saprei dire quanti siano i seguaci dell’umbanda, anche perché si
assiste a una negazione da parte degli stessi umbandisti. In un sondaggio
condotto da un gruppo di ricerca nella città di Oeiras, nel Piauí, si è
riscontrato che gli stessi frequentatori dei terreiros non si
considerano umbandisti o addirittura negano qualsiasi relazione con quella
religione.

I dati Ibge (Instituto Brasileiro de Geográfia e Estatistica)
dicono che in questa città non ci sono praticanti dell’umbanda. Un dato
contraddetto dal numero di terreiros esistenti. Soltanto nella zona
urbana se ne contano almeno sette».

Se i numeri dei seguaci non si conoscono, si può almeno dire a quali
categorie sociali appartengano?

«Anche se non è così facile determinare la partecipazione delle varie
categorie sociali, è evidente che tra gli aderenti alle religioni
afrobrasiliane si incontra un gran numero di neri e di poveri. In ogni caso, va
segnalato che oggi molti frequentatori sono bianchi, ricchi e con un alto
livello di scolarità. Rimane vero che, da molto tempo, i terreiros si
trovano nelle periferie delle città o comunque in zone marginali delle stesse».

L’umbanda (e il candomblé) si celebrano sempre nei terreiros?

«Non sempre. Il terreiro è lo spazio dove vengono fatti la
maggior parte dei rituali. Tuttavia, alcuni di essi si possono fare anche all’aria
aperta».

Chi conduce i riti dell’umbanda?

«Generalmente i celebranti sono il pai-de-santo o la mãe-de-santo».

Nell’umbanda sono venerate varie divinità (orixás). Si può
comunque dire che essa sia una religione monoteista?

«La è. Olorum (detto anche Zambi) rappresenta il nostro Dio cristiano.
Oxalá è Gesù Cristo. E poi ci sono gli orixás, santi con nomi e ruoli
diversi».

Esiste un momento che accomuna le celebrazioni in ogni terreiro?

«Il momento centrale sono i pontos cantados, che sono canti e musiche
che vengono intonati durante le celebrazioni».

Esiste una «linea bianca» e una «linea nera» nelle celebrazioni
dell’umbanda?

«Altra risposta complicata da dare. In generale, gli umbandisti non
considerano pratiche denominate linea nera, volte cioè a propiziare il male. Al
contrario, l’umbanda si propone di essere vicina alle cose buone».

L’umbanda è malvista o almeno guardata con sospetto da molti
brasiliani. Come mai?

«Perché essa è sempre stata descritta con termini negativi come quello
di stregoneria. Davanti a definizioni di questo tipo le persone si spaventano.
Oltre a ciò, c’è una motivazione che deriva dalla formazione sociale e storica
del Brasile. Il paese ha sempre descritto i neri come esseri inferiori, barbari
o stregoni. Magari per il semplice fatto di saper lavorare le erbe o di adorare
la natura».

Se in passato fu la chiesa cattolica a guardare con sospetto alle
religioni afrobrasiliane, oggigiorno sono le chiese neopentecostali (con la Igreja
Universal di Edir Macedo in testa) i principali avversari di umbanda e
candomblé. È così?

«Nel passato la chiesa cattolica ha condannato i culti religiosi
afrobrasiliani, perché ai suoi occhi erano generatori di malefici. Questo
atteggiamento fu molto seguito durante il periodo coloniale brasiliano. Anche
perché era  funzionale al controllo e
alla vigilanza dei padroni (bianchi) sugli schiavi (neri).

Oggi sono le chiese neopentecostali a mostrare intolleranza. Nella loro
ricerca di proseliti, esse non esitano a porre in essere azioni violente contro
i seguaci o i luoghi delle religioni afrobrasiliane. Ad esempio, ci sono stati
molti casi (cfr. Istoé 2191, 2011) di invasione di terreiros o
distruzioni di immagini di orixás che si trovassero in vie o piazze
pubbliche».

Paolo Moiola

 


 
TRA CIELO E TERRA. Dizionario essenziale
I SOGGETTI

Orixás – Derivanti direttamente dalla
tradizione religiosa africana portata nelle Americhe dagli schiavi neri, sono
divinità, ministri di Dio (Olorum-Zâmbi), ognuno legato a uno o più elementi
della natura, ognuno con precise qualità e funzioni. Sono 16 in totale. I
principali (assieme ai corrispettivi sincretici) sono: Oxalá (Gesù Cristo),
Iemanjá (Nostra Signora), Ogum (San Giorgio), Oxóssi (San Sebastiano), Xangô
(San Geronimo, San Giovanni Battista e altri ancora), Obaluaê (San Cipriano),
Oxum (divinità femminile, Nostra Signora di Aparecida).

Eguns – Sono gli spiriti, entità
energetiche che hanno avuto una vita materiale. I principali sono i caboclos
(spiriti di indigeni), i pretos-velhos (spiriti di schiavi africani)
e i crianças (spiriti di bambini).

Exús / Pombagiras – Sono spiriti di particolare
rilevanza, in quanto messaggeri e intermediari tra gli orixás e gli uomini. Le pombagiras ne sono la versione femminile.
Quando erano incarnati in un corpo, exús e pombagiras ebbero vite difficili, segnate da
violenza, odio, vendetta, ignoranza. Gli avversari dell’umbanda e delle
religioni afrobrasiliane, identificandoli con il diavolo e il male in generale,
li usano per screditare quelle credenze.

Pai-de-Santo / Mãe-de-Santo – Sono il sacerdote o la
sacerdotessa responsabili di un terreiro. Il gruppo di fedeli si chiama família-de-santo.

Médiuns – I medium sono persone dotate di
una sensibilità particolare che le pone in condizione di fare da intermediari
con il mondo degli spiriti. È comune lo stato di transe («trance», in
inglese).

 
• LUOGHI, PRATICHE, STRUMENTI

Terreiro – È il luogo dove si svolgono le
cerimonie di umbanda o candomblé.

Congá – È l’altare sacro del terreiro.

Defumação – È la pratica di bruciare erbe e
resine per purificare gli ambienti dove si terranno le sessioni di umbanda.

Pontos cantados / Pontos riscados – I primi sono i canti e
invocazioni. Si distinguono dalle preghiere. I secondi sono invece disegni – di
solito cerchi bianchi con stelle, frecce, triangoli, croci, e altri segni
geometrici – che richiamano ciascuno una precisa entità spirituale.

Atabaque – È uno strumento musicale a
percussione. Consiste in un tamburo di legno cilindrico o leggermente conico
con la bocca coperta da cuoio. È molto utilizzato nelle cerimonie di umbanda e
candomblé.

Velas – Le candele sono sempre presenti
nei riti dell’umbanda.

Passes – I rituali usati per alleviare o
curare le sofferenze, spirituali o fisiche, delle persone.

Ebós – Sono le offerte agli orixás
per ringraziamento o per chiedere qualcosa. Si chiama ebó ejé, l’offerta
di sangue.

Corte – È il rito del sacrificio di
animali (peraltro previsto in molte religioni). Non costituendone un
fondamento, nell’umbanda non è una pratica comune.

Gira – È una sessione di umbanda.


 

• Retroterra culturale

Spiritismo kardecista – Corrente filosofica-religiosa (ma
con pretese di scientificità) fondata dal francese Allan Kardec (1804-1869). Si
fonda sulla credenza dell’esistenza degli spiriti, anime disincarnate degli
uomini. L’unica differenza tra uomini e spiriti è che i primi sono
temporaneamente incarnati in un involucro corporeo. Le comunicazioni tra uomini
e spiriti avvengono attraverso un «medium», che è una persona con particolari
doti che funge da mediatore. Lo spiritismo kardecista è una delle matrici
dell’umbanda. Quest’ultima ha anche una data di nascita: 1908, a Rio de
Janeiro.

Macumba / Macumbeiro – Nomi generici per indicare le pratiche
religiose africane trapiantate in Brasile e la persona che le attua. Tuttavia,
i due termini sono quasi sempre usati con finalità dispregiative.

Altre denominazioni – Esistono altre denominazioni delle
religioni afrobrasiliane, ognuna legata a una determinata regione geografica,
ma con caratteristiche identiche o similari. Le principali sono le seguenti: tambor-de-mina,
xangô, batuque. A?Cuba la religione di origine africana
ha assunto il nome di santeria, ad Haiti quello di vodù (cfr. MC
giugno 2014).

Paolo Moiola

Tags: Religioni afrobrasiliane, Macumba, Candomblé, sincretismo religioso

Testi e foto di Paolo Moiola




Pellegrini, oltre l’Expo

A spasso sul cammino
di sant’Agostino

Un pellegrinaggio religioso,
utile a chiunque voglia prendersi una pausa introspettiva dalla convulsa vita
modea. Si snoda su 926 km in sette province lombarde. E si può fare
un’estensione di 605 km in Nord Africa, tra Tunisia e Algeria. Rigorosamente a
piedi. Ecco alcune tappe di un «Cammino» poco conosciuto.

«Il mondo è un libro. Chi non viaggia ne legge una pagina soltanto»,
affermò sant’Agostino. Scoprire altre terre aiuta a comprendere popoli con
specifiche usanze e tradizioni. Viaggiare apre la mente e il cuore, se solo si è
davvero disposti a interagire con le genti del luogo visitato.

Talvolta, abbiamo dell’atto del viaggiare un’idea
distorta, intendendo con ciò uno spostamento spazio-temporale ampio, che copre
parecchi chilometri, sino a raggiungere destinazioni definite esotiche. In
realtà, viaggiare significa scoprire anche quella parte di mondo vicina a noi,
in cui rientrano siti alle porte di casa, che spesso non sono considerati mete
degne di conoscenza. Per fortuna, negli ultimi anni, tante persone stanno
riscoprendo le bellezze paesaggistiche e artistiche dell’Italia. All’interno di
questo processo di valorizzazione del nostro straordinario patrimonio si
inserisce un interessante fenomeno, ovvero la ritrovata passione per i cammini
di fede: dal Cammino di sant’Antonio a quello di san Benedetto.

Tra questi, uno particolarmente interessante, è quello
di sant’Agostino. Il grande filosofo e padre della Chiesa, considerato il più
celebre tra i convertiti della storia cristiana.

Un cammino per
fermarsi

A differenza di altri cammini, quello
dedicato a sant’Agostino si dirama in una delle zone d’Italia più densamente
popolate, la Lombardia.

Il fatto che il percorso si snodi nel cuore
della più frenetica e trafficata regione del Nord Italia, tra sette province
(Milano, Pavia, Lecco, Como, Bergamo, Varese, Monza e Brianza), non deve
spaventare. Infatti, percorrendo il Cammino si scoprono tante zone
verdeggianti, dove la natura ha vinto sui tentacoli del processo di
cementificazione e dove ci si può rilassare, meditando, pregando, contemplando
il panorama. Questo è in effetti uno dei grandi pregi dell’itinerario, quello
cioè di far conoscere, in modo lento e calmo, angoli meravigliosi di una delle
regioni italiane ritenute più caotiche e urbanizzate.

Il Cammino di sant’Agostino permette di
osservare da un’altra prospettiva alcuni luoghi notevoli dal punto di vista artistico
e religioso.

L’itinerario collega cinquanta santuari
mariani, che testimoniano la profonda devozione dei lombardi verso la madre di
Gesù. All’origine di molti di essi si parla di veri e propri miracoli, come
quello avvenuto presso Imbersago (Lc) dove le invocazioni rivolte da una madre
a Maria permisero di liberare il figlioletto dalle fauci di un lupo. Sono essi
santuari, cappelle, o grotte naturali in cui scorre acqua benedetta e
taumaturgica.

Molti devoti che hanno compiuto il Cammino –
definito pellegrinaggio mariano – descrivono il circuito come «Rosario a cielo
aperto». Proprio come altri itinerari religiosi, invita a pregare, a osservare
con attenzione le persone, il paesaggio, e a percepire la realtà da una
prospettiva non materialistica.

Pur essendo un cammino in primis
religioso, chiunque, laico o non credente, lo percorra, regala a se stesso un
periodo di introspezione, di riflessione, per meditare sul senso della propria
esistenza, prendendo una sana pausa dai doveri sociali e familiari. In un
sistema complesso, veloce e convulso come quello in cui viviamo, fermarsi e
prendere del tempo per sé è fondamentale per capire dove ci troviamo e dove
vogliamo andare. La forza di un cammino come quello di sant’Agostino, deriva
anche da questo aspetto: dalla possibilità di concedersi del tempo per stare
con se stessi o coi propri cari, senza fretta, percependo con maggiore intensità
e lucidità aspetti intangibili dell’esistenza.

Il pellegrinaggio
della rosa

Ispirato a sant’Agostino, questo itinerario è
stato concepito per dare la possibilità a persone di tutte le età di
effettuarlo. Il percorso permette al pellegrino di visitare anche musei, ville
storiche, parchi. Il Cammino si può suddividere in quattro fasi, che, unite tra
loro, compongono simbolicamente una rosa: se si osserva il percorso da una
prospettiva aerea l’immagine del fiore è evidente (vedi cartina). Da
qui, l’altra denominazione di questo itinerario, detto appunto «della rosa».

La prima fase è stata elaborata in maniera
circolare, in modo da permettere al viandante di ritornare esattamente al punto
di partenza, che è Monza. La lunghezza complessiva di questo primo tratto è di
circa 350 chilometri e indicativamente lo si può percorrere in una quindicina
di giorni. Fra le tappe di questo primo tratto segnaliamo Santa Maria delle
Grazie a Monza, il santuario della Madonna dell’Albero a Carimate (Co), la
Madonna del Bosco a Imbersago (Lc), il santuario della Madonna Addolorata,
chiamato popolarmente santuario della Rocchetta, ad Airuno (Lc) e il Domus
Sancti Augustini a Cassago Brianza (Lc), l’antico sito romano Rus Cassiciacum
in cui Agostino dimorò per alcuni mesi e dove si convertì alla fede cristiana.
Questo primo tratto del Cammino costituisce il fiore della rosa.

Il secondo tratto, che rappresenta la
cosiddetta «foglia orientale», parte da Milano e arriva a Monza diramandosi in
direzione Est per un centinaio di chilometri e toccando otto santuari mariani,
tra cui quello della Madonna delle Lacrime a Treviglio (Bg) e quello della
Madonna del Miracolo a Cassano d’Adda (Mi).

La «foglia occidentale» riguarda la parte
Ovest tra Monza e Milano, e fa tappa ad altri otto santuari. I pellegrini che
passano per questo tratto hanno l’opportunità di visitare il sito
dell’Esposizione Universale 2015 di Milano, grazie ai collegamenti tracciati ad
hoc. Tra essi, vi è il percorso che collega l’aeroporto di Malpensa con il
santuario di Busto Arsizio. In questo itinerario sono incluse anche le Vie
d’Acqua sempre legate all’area Expo 2015.

Tra i santuari segnaliamo quello della
Madonna Addolorata a Rho (Mi) e Santa Maria alla Colombara a Milano.

Il «gambo», quarto tratto del Cammino,
collega Monza, Milano e Pavia, e la lunghezza varia a seconda del tragitto che
si vuole percorrere. Il gambo è stato infatti arricchito di circa 154
chilometri, con un’estensione verso Genova, lungo la «via del sale». Si tratta
di un percorso molto suggestivo di 5 giorni che parte dalla basilica di San
Pietro in Cieldoro a Pavia, dove sant’Agostino è sepolto, e giunge alla chiesa
agostiniana della Consolazione di Genova.

Infine, per chi desidera scoprire «le radici»
di sant’Agostino può aggiungere una quinta fase recandosi nel Nord Africa,
toccando i luoghi africani del santo, che collegano Tunisi in Tunisia a Ippona
in Algeria in andata, e Ippona aTagaste in Algeria, per richiudersi a Tunisi,
al ritorno.

Questo tratto, della lunghezza di 605
chilometri, è molto impegnativo, quindi è necessario un buon allenamento
psicofisico, oltre che un’accurata pianificazione dell’itinerario. In Italia la
lunghezza complessiva del Cammino di sant’Agostino è di 926 chilometri.

Alla scoperta di alcune tappe

Il Cammino di sant’Agostino è segnalato con
frecce stilizzate di colore giallo. In alcuni punti sono più visibili, in altri
meno. Questo tipo di segnaletica, che si trova un po’ precaria su pali o
alberi, è ancora provvisoria, in attesa di una marcatura più evidente, già
individuata in un logo in cui spicca una rosa stilizzata blu su sfondo giallo.

Tra i percorsi del Cammino ve ne indichiamo
tre, due di facile percorrenza, il terzo un po’ più impegnativo.

Il primo itinerario che segnaliamo parte dal santuario della Madonna di Czestochowa a
Valgreghentino e giunge al santuario della Madonna Addolorata ad Airuno. Questo
tragitto è breve, lungo circa cinque chilometri, e attraversa una zona del
lecchese poco trafficata, con tratti di campagna. Può essere una bella
passeggiata di una giornata, contemplando il panorama e meditando. Si parte
dalla frazione di Valgreghentino, chiamata Dozio, posizionata su un colle. Qui
sorge una piccola chiesa dedicata alla Madonna Nera di Czestochowa. Si tratta
di un sito votato all’eremitaggio e alla preghiera già in tempi antichi, in cui
sorgeva un tempietto dedicato all’arcangelo Michele, poi ricostruito nel
Cinquecento e consacrato a San Martino. Solo tra il 1976 e il 1977, su impulso
dell’allora parroco don Alfredo Zoppetti, fu eretta l’attuale chiesa. Il luogo è
molto suggestivo e invita alla riflessione, a cominciare dall’altare esterno al
santuario, in cui vi è un bel mosaico della Vergine di Czestochowa. Dalla
frazione di Dozio si raggiunge il santuario della Madonna Addolorata ad Airuno
percorrendo in parte strade asfaltate, in parte vie sterrate e poi
acciottolate. La passeggiata si dirama tra una splendida vegetazione, i cui
colori cambiano a seconda della stagione. In primavera si scorgono le bacche
rosse del pungitopo, tra alberi di robinia, castagni, e poi la viola mammola,
il ginestrino, e la margherita dei campi. Lungo il percorso s’incontrano sette
cappelle di origini settecentesche, i cui affreschi (protetti da una rete)
raffigurano i diversi momenti della passione. Per raggiungere il santuario
della Madonna Addolorata si può continuare lungo la via oppure ascendere la
Scala Santa, con 130 gradini di granito, ai cui lati si elevano tredici edicole
della Via Crucis.

Dalla Scala Santa si giunge alla
Cappella-Sepolcro, dove è conservata la statua del Cristo morto. Salendo ancora
qualche gradino si arriva al santuario chiamato, fino alla metà del XVIII
secolo, Santa Maria della Pace o «della Rocca». All’interno troviamo dipinti e
affreschi raffinati, tra cui spicca nel presbiterio una struggente Pietà.

Notevole è anche il maestoso altare
marmoreo, risalente al XVIII secolo. All’esterno del santuario, sul lato
sinistro, si trova un bel porticato, che conduce a una radura boschiva perfetta
per distendersi e pregare. Da questo punto si ammirano le vette del Resegone,
della Grigna e della Valcava, nonché la vallata sottostante lambita dal fiume
Adda.

Il secondo percorso che segnaliamo è quello che parte dal santuario di Santa Maria
Nascente a Sabbioncello di Merate e giunge alla Madonna del Bosco a Imbersago,
luogo caro a papa Giovanni XXIII (a cui è dedicata un’enorme statua proprio
sotto la Cripta del santuario). Il percorso è di circa sette chilometri e
attraversa la frazione di Cassina Fra’ Martino e poi Arlate, paesino dove si
erge una bella chiesa romanica.

Tra i santuari più frequentati della
Brianza, Madonna del Bosco che ha origini molto antiche. Qui il 9 maggio 1617,
apparve a tre pastorelli la madre di Gesù, raggiante di luce, sulla cima di un
castagno. Miracolosamente, in primavera, i ricci del castagno maturarono
annunciando la presenza di Maria. Molto suggestiva è «la Cappella del Miracolo»,
situata nella Cripta sotto il santuario, dove sgorga acqua benedetta.

Infine, il terzo percorso parte dal santuario della Madonna della Neve a Pusiano e giunge alla Rus Cassiciacum, Domus Sancti Augustini, ovvero Cassago Brianza. La lunghezza è di circa 22 chilometri e per
un tratto si costeggiano il lago di Pusiano, e poi quello di Annone. Cassago
Brianza costituisce il cuore del Cammino, poiché è qui che Agostino si convertì
definitivamente al cristianesimo dopo una giovinezza travagliata. A Cassago si può passeggiare nel Parco
archeologico dedicato al Santo: qui si osservano diversi reperti legati alle
vicende storiche del sito a partire dell’età romana. Si ammirano la fontana di
sant’Agostino e una grande pala bronzea in cui sono raffigurati Agostino e la
madre Monica.

Silvia C. Turrin
Informazioni pratiche


Affrontare il cammino
 

Per conoscere in dettaglio il percorso e le
tappe è stato creato un sito web www.camminodiagostino.it,
con mappe, informazioni sui vari itinerari e sui luoghi in cui trovare
ospitalità. Sono inoltre segnalati i siti dove i pellegrini possono vidimare la
«Credenziale del Cammino». Vengono poi dati consigli legati alla dotazione
logistica, nonché all’abbigliamento. Per approfondire ulteriormente, si può
consultare la guida curata da Renato Oaghi, intitolata Il cammino della rosa edita
dall’Opificio Monzese Pietre Dure (2015).

Chi
desidera assistenza e una preparazione spirituale prima o durante il Cammino può
rivolgersi alla comunità dei Padri Baabiti di Monza, presso il convento in
piazza Carrobiolo, dove padre Michele Triglione sarà disponibile a fornire indicazioni.

S.C.T.

Tag: cammino, pellegrinaggio, s. Agostino, spiritualità, turismo religioso

Silvia C. Turrin




Non di solo pane

La Chiesa cattolica a
Expo 2015

Perché la Chiesa cattolica
prende parte a quella che, a parere di qualcuno, rischia di essere una grande
sagra dei consumi e dell’effimero, un tempio in cui proprio a partire dal cibo
si celebrano i piaceri della vita e si esaltano valori poco in linea con lo
stile che il Vangelo ci chiede? Che legami ci possono essere tra questo evento
e il messaggio cristiano?

Essere capaci di porre domande e accendere
metafore; essere presenti e prendere la parola in un luogo che sarà un grande
laboratorio di idee sul futuro del pianeta e sulle forme di convivenza e di
collaborazione tra i popoli. Questo è per i cristiani addirittura un dovere.

Il
titolo scelto per la manifestazione dice bene la ragione per cui esserci: «Nutrire
il pianeta, energia per la vita» chiama in gioco dimensioni fondamentali
dell’esperienza cristiana. Il riconoscersi creature dentro un disegno che non è
nostro, ma di Dio; la vocazione a diventare custodi e non tiranni di un pianeta
che dobbiamo rendere ospitale; la lotta quotidiana perché a tutti sia garantito
il «pane quotidiano» del Padre nostro; la figura di Cristo, pane vero disceso
dal cielo… quanti temi cristiani vengono trascinati nella scia del titolo di
Expo 2015. La presenza della Santa Sede, della Caritas Inteationalis, ma
anche della Caritas italiana e ambrosiana, sono state pensate proprio in questa
linea.

Una presenza per
stimolare

La
Chiesa cattolica ha intuito l’importanza e le potenzialità di una sua presenza
dentro eventi come questo praticamente dal loro nascere. Sin dagli inizi la
Santa Sede ha compreso il ruolo nevralgico delle esposizioni inteazionali. In
momenti storici anche molto complessi e spesso segnati da tensioni e
contrapposizioni politiche e culturali, le esposizioni inteazionali si sono
dimostrate luoghi di confronto, spazi di dialogo sulle questioni della modeità
e del progresso tecnologico, momenti di aggioamento sulle tematiche sociali e
politiche, occasioni di dibattito ecumenico e interreligioso, una reale
possibilità di promozione e di diffusione del messaggio cristiano. Un’occasione
di primo annuncio e di nuova evangelizzazione, diremmo oggi.

C’è
da aggiungere che negli ultimi decenni il ruolo delle esposizioni universali si
è radicalmente trasformato: da luoghi di esibizione delle ultime scoperte e
innovazioni, da luoghi di celebrazione della capacità di conquista e della
volontà di dominio dell’uomo sul mondo, le Expo sono state trasformate in
luoghi di riflessione, di scoperta e di contemplazione della complessità del
creato e della sua storia, dando così risalto ai temi del limite e dell’armonia
tra le diverse forme di vita, sottolineando in particolare la necessità dello
sviluppo di una convivenza tra i popoli sempre più profonda e strutturata.

La
Chiesa ha visto in questo mutamento una conferma ulteriore dell’importanza di
una sua presenza alle Expo. Esserci e prendere parte ai dibattiti (sempre più
incentrati sulle questioni del futuro del pianeta, come abitarlo e custodirlo);
saper articolare la propria tradizione di fede con le sfide sociali e culturali
del presente; far conoscere i capolavori che la cultura e l’arte cristiana
hanno saputo generare: quanti motivi per giustificare una presenza non
marginale ma capace di portare frutto, di generare influssi dentro la più ampia
cultura mondiale.

Alla tavola di Dio con
gli uomini

Il
tema scelto per Expo 2015 tocca molte corde della riflessione cristiana. Il
cibo e l’azione del nutrire sono per l’uomo uno spazio di educazione senza
paragoni, vista la forza e l’universalità delle dinamiche simboliche
attivabili.

Non c’è cultura che non abbia elaborato riti, simboli,
racconti, calendari e regole al riguardo. E non c’è religione che non abbia
assunto questa operazione dentro i propri dispositivi e le proprie regole di
vita e di comportamento. Gli uomini e le donne, proprio attraverso l’azione del
nutrirsi, hanno imparato a conoscere la loro identità: il proprio corpo, le
relazioni tra le persone e con il mondo, il creato, il tempo e la storia, la
relazione con Dio.

L’esperienza del nutrire può essere un’ottima palestra
per imparare a essere uomini, e a crescere sempre più in maturità.

Per noi cristiani il destino dell’uomo sta in un grande
disegno ecologico che al centro ha l’uomo stesso. Un disegno raccontato
attraverso una visione molto significativa per chi era nomade come il popolo
della Bibbia: «Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su
questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti,
di cibi succulenti, di vini raffinati» (Is 25, 6).

La
storia della nostra fede ci ha insegnato che il gesto del nutrire è diventato
ben presto pasto e convivium, per poi trasformarsi
in sacrum convivium,
momento di comunione in cui non soltanto gli uomini possono osare una relazione
con Dio, ma addirittura il luogo in cui Dio stesso rivela la sua volontà di
relazione e di comunione con gli uomini. Il destino dei popoli della terra, il
destino della terra stessa, è questo grande gesto di comunione voluto da Dio,
simboleggiato da una tavola che Lui imbandisce per tutti, per ogni uomo e
donna, per ogni creatura.

Il
nostro futuro è di sederci tutti assieme alla tavola imbandita da Dio,
realizzando così quel destino di comunione fatto proprio in senso realistico
dallo stesso Gesù, nel momento della sua passione.

Cibo di vita…
eterna

«Voi
mi cercate – dice Gesù alle folle – non perché avete visto dei segni, ma perché
avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo
che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna» (Gv 6, 26). L’uomo
ha bisogno di molti cibi per vivere e per realizzare il proprio destino. E il
cibo ci consente di scoprire veramente chi siamo, se lasciamo che l’operazione
del nutrire dischiuda tutte le potenzialità che contiene. Il Vangelo è pieno di
esempi che ci illustrano come l’esperienza dell’essere nutriti diventa fonte di
interrogazione e di verifica della qualità del nostro essere uomini e donne.

L’uomo ha bisogno di molti cibi per vivere e per
realizzare il proprio destino. «Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola
che esce dalla bocca di Dio» è un’affermazione messa in bocca a Mosè (Dt 8,3)
che Gesù riprende (Mt 4,4) proprio per contrastare la tentazione di ridurre
l’uomo ai soli bisogni fisici e materiali; e allo stesso tempo per rilanciare
l’idea che l’azione del nutrire, intesa in modo integrale, è lo spazio che Dio
ha istituito per educare gli uomini e per incontrarli. Solo in questo modo
possiamo scoprire di essere veramente uomini: quando rispondiamo alla fame,
quella vera; quando attraverso il cibo ci leghiamo tra di noi, ci mettiamo in
relazione; e dentro questa relazione scopriamo la presenza di Dio.

Proprio
come intuiva in modo lucido don Lorenzo Milani: «Lo diceva anche Gesù: l’uomo
non vive di solo pane e casa, ma anche di scuola e di pensiero e di libertà
interiore, perché da questa si passa direttamente alla fede e alla vita eterna,
mentre dal pane e dalla casa si può tranquillamente passare alla televisione e
al cine».

Accendere
l’immaginazione

La
Chiesa vuole essere in Expo per accendere domande e riflessioni critiche,
pensieri che consentano di andare oltre la superficie. Non intende
assolutamente essere una presenza oppositiva, ma metaforica: aiutare a superare
il diaframma del presente e dell’immediato per cogliere dentro di esso il senso
dell’esistere, la dimensione mistica, ossia l’apertura a Dio. Il metodo da
seguire è quello della denuncia e della proposta, un metodo che usa spesso e
anche con successo papa Francesco, per far vedere che la Chiesa non è una
maestra acida, ma una sorella che condivide il percorso dell’uomo con lucidità
e visione di futuro, una madre appassionata capace di indicare strade e risorse
per il domani.

Il
rapporto col cibo può essere assunto come il luogo nel quale si rende più
evidente la disarmonia che segna la relazione dell’uomo con il creato e con gli
altri esseri umani. Qui più che altrove la cultura dello scarto si evidenzia in
maniera lampante. Ed è proprio qui allora che occorre essere presenti per
stimolare le domande giuste, per sviluppare un pensiero metaforico che può
arricchire tutti.

La
vita quotidiana è così, in questa prospettiva, una grande palestra, un luogo di
esercizio in cui Dio ci educa attraverso il cibo e l’atto del nutrirci. Questo
esercizio di apprendimento ha una grammatica, che ruota attorno a quattro
aspetti che esprimono l’identità umana: le dimensioni ecologica, economica,
educativa e religiosa.

Ecologici e solidali

Potremo
così riscoprire, grazie allo stimolo di Expo 2015, che proprio perché cristiani
non si può non essere ecologici. Oggi è molto più visibile l’imposizione di una
cultura del consumo che oscura il nostro compito originario legato al cibo e al
gesto del nutrire. E le conseguenze di questa cultura sono ben visibili, anche
se spesso poco denunciate: emergenze come quella dello spreco delle risorse e
della enorme diseguaglianza nella loro distribuzione, con la piaga conseguente
e ancora più grave della povertà e della fame, o il fenomeno altrettanto
attuale e ugualmente grave dell’inquinamento e dello sfruttamento selvaggio
delle risorse del pianeta, contrastano con l’originario disegno creatore e sono
il segnale di un modo ancora molto immaturo di vivere il nostro compito di
abitare il pianeta come un giardino che nutre tutti.

Da
qui deriva l’urgenza per un convinto impegno di noi cristiani a favore del
creato. L’ecologia è un luogo di testimonianza della nostra fede, contro i
nuovi idoli che seducono l’uomo moderno. L’Expo deve essere l’occasione per un
lavoro di sensibilizzazione che, a partire dalle conseguenze ben visibili di
questa gestione immatura e peccaminosa del creato (cambiamenti climatici,
migrazioni in massa di popolazioni in seguito a questi cambiamenti), permetta a
ogni essere umano di sentirsi responsabile del mondo che lo ha generato, lo
nutre ed è il luogo della sua vita.

Per
la Chiesa, per i cristiani, esserci in Expo vuol dire avere l’audacia di
prendere la parola anche sui temi scottanti della fame e delle grandi
ingiustizie create dallo squilibrio nell’accesso alle risorse. Come cristiani
abbiamo molte cose da dire non soltanto sul modo con cui oggi usiamo il cibo
per creare solidarietà. Più profondamente ancora, stiamo dentro Expo per mostrare come la
grande questione del cibo e delle risorse (alimentari e non) sia la cartina di
tornasole che porta alla luce i tanti difetti e le tante ingiustizie del nostro
modo di immaginare e di governare l’economia.

La
presenza diretta di Caritas dentro il sito espositivo ha proprio questa
intenzione: ricordarci con urgenza l’attualità dell’invito a essere all’altezza
di una simile sfida. Expo ci permette di ricordarci che abbiamo il compito di
essere nella storia come l’anima del mondo, proponendo la vita buona del
Vangelo in tutti gli ambiti dell’esistenza, quello economico compreso.

L’Expo
è lì per ricordarci che dobbiamo vincere la tentazione di restare muti di
fronte alle grandi questioni del nostro tempo.

Il
mondo ha anzitutto fame di futuro. Expo può essere un grande megafono di questa
fame, e al tempo stesso un grande laboratorio dentro il quale come cristiani
partecipare alla costruzione di processi di soluzione, di guarigione, di
risanamento e di rinascita.

Un Dio che si fa pane
per noi

Per
la fede cristiana il cibo è il crocevia di tutta una serie di legami (tra Dio e
gli uomini, degli uomini tra di loro, con il creato) generatori a loro volta di
pratiche che maturano le persone e ne arricchiscono le identità.

Attraverso
la disciplina del cibo l’uomo ha imparato molto circa il suo legame con il
creato come anche circa la sua relazione con Dio.

Sin
dalle sue origini, l’esperienza di fede ha saputo scrivere il rapporto con Dio
nella carne degli uomini proprio tramite il calendario alimentare e lo
strumento dell’ascesi. Il vento della secolarizzazione ha fatto sì che noi
occidentali lasciassimo questo nostro tesoro alle Chiese orientali o alle altre
religioni, Islam in primis (basta pensare al Ramadan; non dimentichiamo
che è il digiuno quaresimale cristiano ad aver ispirato il Ramadan musulmano).

L’evento
di Expo può essere l’occasione giusta per riapprendere a nostra volta questo
legame fede-corpo e fede-cibo. Un legame così forte e originario da aver
conosciuto una sua variante laica: la secolarizzazione ha fatto scomparire le
pratiche del digiuno e della rinuncia ma non è riuscita a cancellare il bisogno
religioso a cui queste pratiche sapevano rispondere. Ed ecco che sono nate le
diete, forme laiche di ascesi e di astinenza, in nome di un benessere che
assume sempre di più i colori e i toni di una spiritualità laica, di una
religione della gratificazione inusuale e intramondana, senza Dio.

Ogni
anno il tempo della Quaresima è un buon momento per riprendere, anche noi,
quella disciplina, che abbiamo perso, del cibo e quella capacità di scrivere la
nostre fede sui nostri corpi.

Potremo
così essere capaci di leggere ancora più in profondità, sempre nel clima di
Expo, il dono che ci fa Dio nel suo Figlio: il Dio cristiano è un Dio che si incarna,
si rende presente tra gli uomini; e che consegna la memoria di questa sua
presenza proprio nel pane eucaristico, un pane che dà vita e salvezza.
L’incarnazione è il grande dono di Dio che nutre gli uomini, come Gesù Cristo
afferma di se stesso più volte nei Vangeli.

Questo
mese celebriamo la festa del Corpus Domini (7 giugno, ndr)
proprio durante Expo 2015. Quale occasione migliore per testimoniare al mondo
che il nutrimento e il futuro dell’uomo e del creato sono custoditi e generati
da questo pane che in realtà è il corpo e il sangue di Gesù Cristo morto per
noi e risorto, amore di Dio fatto carne? Potremo mostrare come la logica
eucaristica è in grado di assumere e fare sue tutte le fami del mondo e degli
uomini. Potremo mostrare come in Gesù Cristo Dio ci rende capaci di diventare
solidali con queste fami, e allo stesso tempo – proprio perché le portiamo
assieme a coloro che ne sono vittime – come Gesù Cristo diventa il cibo, il
nutrimento capace di saziare ogni desiderio, ogni ferita, ogni fame e sete che
l’uomo e il creato provano oggi come nel passato.

I
cristiani hanno il compito di abitare Expo 2015 per svelare l’anima mistica
dell’identità umana, il cuore mistico dell’esperienza, la dimensione
profondamente e radicalmente religiosa del creato, del mondo. Esserci per
condividere, esserci per dare da pensare, esserci per aiutare a stupirsi,
esserci per promuovere giustizia e solidarietà: Expo 2015 può essere
l’occasione per ricordare a tutti il cammino che come umanità stiamo
percorrendo, per rispondere all’invito che Dio ha rivolto a tutti gli uomini di
sedersi alla sua tavola e di spezzare il suo pane per loro.

Luca Bressan*

*Nato a Varese nel 1963 è presbitero
della diocesi di Milano dal 1987. È docente di teologia pastorale alla Facoltà
teologica dell’Italia settentrionale e ha insegnato o collabora presso altre
facoltà italiane. Ha pubblicato diversi libri. Ha partecipato al Sinodo del
2012 sulla Nuova evangelizzazione. Nello stesso anno il cardinale Angelo Scola
lo ha nominato Vicario episcopale per la Cultura, la carità, la missione e
l’azione sociale della Diocesi di Milano.

 

Tag: Expo, cibo, giustizia, pace, Chiesa

Luca Bressan




Camminare insieme

Incontro interreligioso
cristiano-buddista

I cattolici in
Mongolia sono una piccola minoranza. Ma la storia della loro presenza è lunga.
I missionari, arrivati alla caduta del comunismo, si occupano di promozione
sociale. E il dialogo con il Buddismo maggioritario è fondamentale. Riflessioni
di un missionario della Consolata dopo un incontro interreligioso in India.

 

 

 

Secondo
dati recenti delle Nazioni Unite (2012) il 53% dei cittadini della Mongolia si
professa buddista, mentre il 38% si dice non credente di alcuna religione. Per
il resto, il 5% della popolazione è musulmana, il 2% seguace dello Sciamanesimo
e il 2% cristiana. All’interno della minoranza cristiana, solo un piccolo
gruppo appartiene alla chiesa Cattolica Romana, meno di un migliaio di
individui su una popolazione di 3,2 milioni. Nonostante io rappresenti un
gruppo che statisticamente conta solo lo 0,02% in un paese a maggioranza
buddista, è stato per me un grande onore essere presente a Bodhgaya, uno dei più
sacri luoghi per la tradizione buddista, per seguire il quinto colloquio
Buddista-Cristiano, insieme ai rappresentanti di diversi paesi asiatici. Questo
incontro, unico nel suo genere, è stato possibile solo grazie al lavoro
instancabile del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso e del
comitato locale a Bodhgaya, nello stato Bihar dell’India. Sono stati due giorni
intensi (12-13 febbraio 2015), spesi ad ascoltarsi gli uni gli altri,
condividere esperienze, impegnarsi nella realizzazione di un’effettiva
collaborazione una volta ritornati ciascuno nei nostri rispettivi territori.


Pochi ma buoni

Per quanto ci riguarda, nonostante i numeri
insignificanti, la nostra esperienza nella terra di Gengis Khan ha profonde
radici storiche: in Mongolia le relazioni tra buddisti e cristiani beneficiano
di uno dei più forti legami nel continente asiatico. La cristianità nestoriana
(il nestorianesimo è una dottrina che rifiuta la natura umana e divina di
Cristo, affermandone la totale separazione, ndr) in Mongolia era presente già nell’VIII secolo
ed è abituata a coesistere con la tradizione buddista, proveniente dal Tibet.
Nello scenario multi etnico e multi religioso del grande Impero mongolo, il
governo dei Khan è noto per essere stato particolarmente tollerante verso tutte
le religioni praticate nei loro territori. Per questo, nel nostro impegno
attuale per promuovere il dialogo e la comprensione reciproca, possiamo fare riferimento
a una storia positiva di interazione pacifica e condividere questa esperienza
in Asia e nel resto del mondo.

Dopo il comunismo

Dopo l’epica degli scambi medioevali, sostenuti anche da
iniziative diplomatiche tra i pontefici romani e gli imperatori mongoli, le
mutue relazioni si ridussero, fino quasi a scomparire, a causa della
diminuzione di credenti cristiani, troppo isolati dai loro capi, e la crescita
concorrente del Buddismo, che gradualmente divenne religione di stato. Il «re-incontrarsi»
tra buddisti e cristiani in tempi più modei capitò in un momento critico
della storia del paese, un periodo segnato dalle lacrime. Quando i primi
missionari ebbero il visto di ingresso all’inizio degli anni ’90 del secolo
scorso, la Mongolia stava lentamente rialzandosi dopo 70 anni di regime
comunista, durante il quale il Buddismo, nel suo complesso, aveva sofferto dure
persecuzioni, con migliaia di monaci mandati a morte o forzati ad abbandonare
il loro credo, considerato un pericoloso ostacolo alla società atea importata
dall’Unione Sovietica.

Il
rapido cambiamento dal sistema comunista verso una debole democrazia si
realizzava in un contesto di povertà diffusa e fu chiara la chiamata della
chiesa a essere coinvolta in iniziative di promozione sociale. Missionari
cristiani di varie denominazioni iniziarono a realizzare progetti di sviluppo
umano di svariati tipi, a dal semplice inserimento in aree povere per aiutare
la popolazione, a programmi su larga scala di educazione e sanità. Il Vaticano
fu tra i primi stati a essere formalmente invitato a stabilire relazioni
diplomatiche con la Mongolia. Così la Chiesa cattolica – a differenza di altri
gruppi cristiani – è stata fin da allora presente in modo ufficiale.

In
questi 23 anni di installazione legale, la Chiesa cattolica ha sempre giocato
un ruolo trainante nella promozione dei diritti umani e nella lotta alle
conseguenze della povertà e del sottosviluppo. Dove le lacrime abbondano sulla
faccia della gente, la chiesa si muove per agire perché identifica questi
sofferenti con lo stesso Cristo, così le azioni di carità diventano una
risposta naturale, e non un subdolo modo di fare nuove conversioni.

Una
percezione allarmata del lavoro della chiesa in questo senso può aver spinto
qualcuno a una sorta di sospetto, ma la chiesa ha costantemente cercato verità
e chiarezza a questo riguardo, dimostrando la sua attitudine imparziale a
lavorare per la promozione della dignità e rispetto umani. Come cristiani in un
paese buddista, condividiamo i nostri tesori spirituali e le nostre risorse
materiali perché noi crediamo fortemente che «la frateità asciuga le lacrime».

Una lunga lista di iniziative della chiesa dovrebbero
essere ricordata qui: dai centri di accoglienza per bambini di strada aperti
nella capitale, alle molteplici scuole e scuole d’infanzia, dalla cura di
bambini disabili ai progetti di agricoltura, da una clinica al servizio degli
svantaggiati a un centro culturale con esperienza in studi mongoli.

Sì, perfino l’orizzonte culturale dello sviluppo ha costantemente
marcato l’impegno della chiesa per una crescita armonica dei nostri valori
comuni, sui quali una società equa e pacifica, è costruita. Fino dall’inizio
della sua presenza, il nostro attuale prefetto apostolico, monsignor Wenceslao
Padilla, e i suoi collaboratori hanno intrattenuto relazioni fratee con la
gerarchia buddista, dando un taglio concreto alla convinzione che il dialogo
interreligioso è un percorso fondamentale su cui siamo tutti chiamati a
camminare insieme. Un’occasione annuale in cui si riuniscono Cristiani e
Buddisti, è sempre stata la «Giornata internazionale della pace», promossa
dalle Nazioni Unite. In questa occasione, una parte della cerimonia altamente
simbolica si svolge alla «campana della pace» nel centro della capitale
Ulaanbaatar. Qui i rappresentanti di differenti fedi offrono le loro parole
ispirate sul raggiungimento di una pace duratura, e iniziative di studio comuni
sono state tenute con l’obiettivo di incoraggiare la comprensione reciproca,
basata su conoscenza autentica delle tradizioni rispettive. La Chiesa cattolica
ha spesso invitato come ospiti d’onore monaci buddisti e pure capi di
importanti monasteri, per condividere i loro punti di vista e favorire i legami
esistenti di amicizia e dialogo.

Piantare la propria
tenda

Come
ospiti e pellegrini delle splendide steppe dell’Asia centrale, abbiamo
umilmente piantato la nostra tenda tra la gente, cercando di imparare da essa
la saggezza di vita che ogni gruppo umano sviluppa secondo le proprie
tradizioni. La ger mongola (tenda
tradizionale), nella quale la nostra chiesa si raccoglie ogni giorno a pregare
nella provincia di Uvurkhangai, è aperta a chiunque venga, che sia egli o ella
mosso da curiosità, bisogno o da un desiderio profondo di conoscere Colui che
ci ha mandati là.

Stimiamo
molto i valori morali e spirituali tipici del Buddismo, che hanno modellato
indelebilmente l’intera Asia, come pure i cuori dei mongoli: senso della
sacralità, profondità, serietà, moderazione, ascetismo, abnegazione. Crediamo
che a questo livello di esperienza religiosa ci sia un potenziale immenso di
mutuo arricchimento, se solo cogliamo la sfida di sederci insieme a condividere
i nostri tesori.

Allo
scopo di dare un taglio concreto a questo impegno per il dialogo interreligioso
e alla ricerca culturale, stiamo pianificando di aprire presto un centro
specifico destinato a queste attività. Il sito scelto è esso stesso altamente
simbolico: Kharkhorin (anche conosciuto come Karakoroum), l’antica capitale
dell’impero mongolo, dove nel XIII secolo Buddisti, Cristiani, Musulmani e
Shamanisti vivevano insieme e avevano i loro rispettivi luoghi di culto.

All’inizio
del terzo millennio, in linea con l’antica tradizione di armonia tra le diverse
esperienze religiose che distinsero la storia mongola, speriamo di contribuire
alla crescita del rispetto e apprezzamento per ogni altra entità, lavorando per
il bene comune della società mongola.

Giorgio Marengo

Tag: Chiesa, dialogo interreligioso, dialogo, Cristianesimo, Buddismo

Giorgio Marengo




Per rimpiazzare la pianta dell’odio

Diario di un giovane
da Isiro / 3

Via FB Tommaso
ci racconta altri due mesi della sua esperienza africana. Tra letture sulla
storia sanguinosa del Congo, bimbi da nutrire e con cui giocare, siccità e
pioggia, calore umano ed essenzialità, la sua vivace e profonda testimonianza
ci accompagna anche tra i Pigmei, fino alla Pasqua dei crocifissi d’Africa.

25 Gennaio 2015

Sto
leggendo la storia, sanguinosa, del Congo: le stragi, i milioni di persone
morte, i «Kadogo» (bambini soldato), e l’Occidente che ne approfitta per
succhiare le ricchezze del paese (oro, diamanti, coltan, rame, avorio, ecc.).
L’Occidente ha le mani sporche di sangue: invece di imparare dalle atrocità che
ci hanno coinvolto in passato, come il nazismo, abbiamo accettato che
succedesse ad altri, purché lontani dai nostri occhi e purché ci tornasse
qualcosa in tasca.

Dal
centro nutrizionale Gajen sono partiti altri bimbi: Pico e Paco, Jojo. La «banda
bassotti» è così, ci saranno sempre nuovi bimbi da conquistare e amare.

È
arrivata a Gajen un’aspirante suora da una missione a 500 km da qui. Lì c’è un
centro nutrizionale ma poca esperienza e nozioni. Spetta a me farle un po’ di
formazione. In realtà non avrei le competenze ma, sapendo come funziona il
nostro centro e prendendo del materiale da internet, me la sto cavando.

Proprio
mentre scrivo inizia una bella pioggia. La prima da due mesi. Finalmente le
piante potranno bere un po’ e l’aria pulirsi dalla polvere che la invade.

 

31 Gennaio 2015

Grazie
per il vostro sostegno e contributo. Il famoso freezer per cui avevamo raccolto
le offerte è arrivato con tanto di pannelli solari e batterie. Finalmente potremo
acquistare carne o pesce e conservarli.

In
questi giorni Ivo è partito per Bayenga per riposarsi e riprendersi
dall’esaurimento degli ultimi mesi, così tutti i suoi lavori sono passati a me
e padre Flavio. Sono già esaurito anch’io dopo due giorni. Ho scoperto il «Noix
de cola», un frutto che usano le sentinelle per fare il tuo di notte.
Contiene qualcosa come la caffeina e, al di là del sapore amarissimo, mi tiene
sveglio per affrontare le giornate intense.

Da
lunedì al centro sarò promosso nutrizionista. Ci sono alcuni bambini piccoli
che vorremmo seguire in maniera specifica. In particolare una bimba di due mesi
che pesa solo 2,6 kg, ha perso la mamma e quindi non ha latte materno da bere,
e, considerata l’elevata diffusione di Aids, è impensabile farla allattare da
altre donne. Non avrei le competenze, ma devo intervenire lo stesso se vogliamo
salvarla, quindi, con le linee guida dell’Oms sotto mano, mi cimento in questa
sfida.

Il
bello di questa esperienza è il fatto di non avere un ruolo. L’unico impegno è
quello di essere al servizio degli altri: puoi essere animatore, panettiere,
agricoltore, insegnante, padre, nutrizionista, ecc. Non importa se non si hanno
le conoscenze, ci si mette in gioco lo stesso.

 

9 Febbraio 2015

Domani
dovrebbe tornare Ivo, poi saremo io e P. Flavio a partire.

Al
centro la prima settimana da «nutrizionista» è stata piuttosto impegnativa. Al
primo sguardo i bambini che seguo sembrano nella «norma», ma quando misuro peso
e altezza e li confronto con l’età mi si gela il sangue. Alcuni bambini sono già
migliorati. Lo si nota dal volto, in particolare dagli occhi che sono più
vispi.

Si è
conclusa ieri la «Coupe d’Afrique» in cui il Congo si è classificato terzo. È
stato troppo bello: qui pochi hanno il televisore, in compenso ci sono radio in
abbondanza. Le sere delle partite si poteva sentire ovunque il commentatore
che, a tutto volume, ne faceva la cronaca: sembrava di essere dentro un mega
stereo. Per non parlare di quando c’erano i goal o, ancor più, di quando si
vinceva: un bornato di festeggiamenti che risuonava dovunque.

Oggi
ho saputo che è finito in prigione Pascal, un lavoratore di Gajen. Ha avuto una
discussione parecchio accesa col cognato che non si occupa della sorella e del
loro bambino. Così ora uno è all’ospedale, mentre Pascal con sua moglie e sua
sorella sono finiti in prigione (quando la polizia arriva prende chi trova). La
miseria rende molto più difficile risolvere malintesi e discussioni, e la
violenza fa presto ad avere la meglio quando si vive alla giornata.

La
nuova banda bassotti è fatta da elementi piuttosto impegnativi, in particolare
Bube e Dumbo (come li ho soprannominati).

15 Febbraio 2015

Theo è
un ragazzino di circa 14 anni che viene spesso al pomeriggio per fare qualche
lavoretto e soprattutto per avere un po’ di compagnia. Quando aveva 9 anni sua
mamma si è ammalata gravemente e il padre se n’è andato abbandonandoli. Così
lui è rimasto ad assistere la mamma all’ospedale. Quando è morta, è stato lui a
chiuderle gli occhi. La forza che ha mostrato e la sua grandissima educazione, è
un esempio e motivo di riflessione per me.

Al
centro è arrivato un bimbo di tre anni che non ha mai camminato. Ha una qualche
infiammazione alle gambe che lo fa urlare dal dolore quando prova a mettersi in
piedi. I genitori hanno raccontato di aver provato di tutto per aiutarlo. Un
giorno l’hanno seppellito fino al bacino dal mattino a mezzogiorno. Ho
consultato la pediatria dell’ospedale Bufalini di Cesena, e sembra che sia
sufficiente una cura con antinfiammatori per tre settimane per farlo rimettere.

Il
prossimo aneddoto per me è molto doloroso, riguarda il babbo vedovo della bimba
Marie di cui vi ho parlato qualche settimana fa. Avevamo dimesso la figlia
perché era in condizioni buone. Un giorno si presenta domandando una lettera
per lasciare i tre figli, di cui una piccola, in orfanotrofio. Rimasto vedovo
non ha modo di lavorare e di occuparsi di loro in maniera adeguata. Pensando
alla cura e all’amore con cui seguiva la figlioletta, mi si è stretto il cuore.
Dividersi dai propri figli per permettere loro di sopravvivere è come
rinunciare a una parte di sé. Non so bene come andrà a finire, forse toerà a
prenderli quando saranno più grandi, fatto sta che un gesto d’amore come questo
non è scontato. Credo sia così dare la vita per gli altri, penso significhi
questo «morire a se stessi» per amore.

Una
mattina le infermiere del centro mi hanno chiesto: «È vero che in Europa non vi
salutate ma vi guardate soltanto senza dire niente?» (facendo l’imitazione con
una faccia da stoccafisso imbambolato). Questa cosa mi ha fatto molto
arrabbiare, mi sono sentito colpito nell’orgoglio. Eppure come dare loro torto?

Oggi,
forte della mitica ricetta della nonna Agostina ho fatto le chiacchiere (bugie,
frappe o come le chiamate). Sono state un successone, come al solito padre
Tarcisio dà le soddisfazioni più grandi: a suo dire «imparadisano la bocca».

P Tracisio Crestani, qui ritratto in una foto del gennaio 2015, è stato rimpatriato d’rgenza lo scorso maggio e il Signore lo ha chiamto al premio dei missionari il 30 maggio 2015 ad Alpignano – Torino. La sua è stata una dedizione totale alla missione con umiltà e semplicità, in una vita di nascondimento.

22 Febbraio 2015

Bube,
mentre parlavo con una persona, improvvisamente mi ha dato un bacino sulla
mano. Quanto è universale l’amore? Un gesto per esprimere la felicità per la
mia presenza. In quel momento mi sono detto: quando Bube sarà grande non penserà
solo «bianco=ingiustizia» o «bianco=soldi». Sono questi i piccoli semi di amore
che un giorno cresceranno rimpiazzando la pianta dell’odio e del razzismo così
radicata in questo mondo.

Al
centro è arrivato un bambino orfano, nato da una settimana e mezzo, con una
pancia gonfia su cui si potevano vedere in rilievo tratti dell’intestino. Si
trattava di un problema al di fuori delle nostre possibilità. Abbiamo quindi
consigliato di portarlo con urgenza all’ospedale. Il bimbo è partito e non lo
abbiamo più rivisto. Secondo i missionari probabilmente non ce l’ha fatta: era
troppo piccolo per un intervento, e la sua famiglia era senza soldi per
l’ospedale.

01 Marzo 2015

È
ritornata la stagione delle piogge. Evviva. Non l’avrei mai detto che mi sarei
trovato a desiderare la pioggia, ma quando vedi la difficoltà della gente (e
anche la mia nel lavorare l’orto) per la mancanza di acqua, non puoi che essere
felice quando arriva. A proposito di orto, ho piantato le sementi arrivate
dall’Italia. Considerando che di solito non tutti i semi germogliano, ne avevo
piantati un buon numero. Non avevo però pensato al fatto che il Congo ha una
delle terre più fertili del mondo, e quindi mi sono ritrovato con una marea di
piante di pomodori. Beh, faremo un po’ di passata. Ho finito di leggere un
libro sulla storia del Congo. Penso che non potrò mai mettermi nei panni di
questo popolo sempre rigirato nelle mani dei potenti. Faccio fatica anche a
giudicare i comportamenti di gente che non ha conosciuto altro che guerra,
sfruttamento, violenza, corruzione, ecc. Le ingiustizie sono all’ordine del
giorno e la cosa che fa più male è che provengono in primis dall’alto.
Ho parlato con un senatore che ha famiglia qui a Isiro. Dice che bisogna stare
attenti a cosa si dice in parlamento perché possono farti fuori politicamente e
fisicamente. Sempre lui dice che con il guadagno annuale delle ricchezze del
Congo (in particolare minerali) il paese potrebbe risollevarsi subito.

La
banda bassotti ha visto diventare protagonista del gruppo una macchietta che si
è distinta dagli altri, Manù. Questo bambinetto di un anno è tanto meraviglioso
quanto peste. Essendo nell’età in cui si incomincia a «parlare», non smette mai
di dire «yo» (tu) indicando con il dito la persona (nel 99% dei casi sono io).
Per non parlare del suo ghigno veramente malefico quando ne combina una. Il
programma nutrizionale per lui fino adesso non ha dato risultati positivi,
quindi l’ho rivisto, grazie all’aiuto fornito dal personale del Bufalini.

Per
un’urgenza a Bayenga, padre Flavio questa settimana partirà, e io come potrei
perdere l’occasione di tornare tra i Pigmei?

09 Marzo 2015

Bayenga:
questo luogo mi affascina e mi sorprende. Sarà la bellezza naturale della
foresta equatoriale, sarà il calore della gente o sarà che ogni giorno è
un’avventura, fatto sta che stare qui è bellissimo. Il viaggio questa volta è
stato quasi piacevole, le strade erano decenti. In questi primi giorni mi sta «portando
a spasso» padre Evans, un giovane missionario del Kenya. Girare con la moto per
chilometri dentro la foresta è qualcosa di indescrivibile.

Ci
siamo fermati in un accampamento pigmeo dove la settimana prima era morto un
bambino. Abbiamo scoperto che era stato picchiato da alcuni Bantu per delle
stupidate. Probabilmente aveva altri problemi, ma la sua morte è stata
provocata anche da quello. È triste vedere che il razzismo è ovunque. La morte
rimane sempre un mistero, e non ci sono parole adeguate. L’unica cosa che può
portare sollievo è essere presenti e vicini nella sofferenza degli altri. Può
sembrare assurdo, ma la morte fa parte della vita.

L’altro
giorno ho giocato due ore a calcio. Qui si gioca per il gusto di giocare. I
bambini si divertono da matti, a nessuno importa del risultato, tanto che
quando qualcuno segna un goal applaudono tutti. In Italia, invece, giocando con
i bambini, ho notato una mentalità, a mio avviso, preoccupante: non giocano per
divertirsi, ma per vincere. Questo è frutto dell’influenza della nostra società
malata che impone di primeggiare e annientare gli avversari. Proteggete i
vostri figli da questa logica.

14 Marzo 2015

Di
quel poco che ho avuto modo di conoscere dei Pigmei ammiro una cosa in
particolare, il carattere mite e pacifico, al punto che sono addirittura
schivi. Quando fissi un bambino negli occhi si nasconde quasi sempre dietro la
mamma. Se incroci qualcuno in foresta senza vederlo, rimane nascosto. Ti
osservano da lontano per capirti, poi, se ti trovano innocuo, ti vengono
incontro e diventano simpatici e socievoli.

Una
delle prime sfide che ho affrontato è stata la caccia. Sono partito una mattina
con due bambini, eravamo armati di arco e una freccia ciascuno. Oltre a girovagare
in modo inconcludente abbiamo anche perso tutte le frecce: una volta lanciata,
se non la segui con gli occhi, scompare nella foresta. Rientrato, cercavo un
bastone per sostituire la freccia persa. C’erano lì dei Pigmei in attesa di
farsi vedere da mama Bomao, una Pigmea che funge da infermiera/ostetrica, ma
soprattutto da mediatrice tra i Pigmei e i missionari, nella piccola stanza
della missione adibita a farmacia/dispensario. Nel vedermi impacciato con un
bastone inadeguato, mi hanno regalato ben quattro frecce. Sono stato
felicissimo. Mi sono assicurato che non fossero frecce con la punta avvelenata
perché, con la mia sbadataggine, sarei di sicuro morto ferendomi per sbaglio.

Mama
Bomao abita qui vicino con i suoi figlioletti, e io vado a trovarli spesso
perché sono troppo curioso di conoscere il loro modo di vivere. Un giorno mi
hanno detto che dovevano andare a pescare al fiume. Io, non stando nella pelle,
ho chiesto se avessi potuto accompagnarli e loro ridendo hanno accettato. Ci
siamo inoltrati nella foresta attraversando il torrente, l’acqua mi arrivava
agli stinchi. Dopo aver scelto una sponda hanno incominciato a costruire una
diga di fango per isolare una parte di acqua, poi con delle foglie hanno
iniziato a tirare fuori l’acqua. Quando c’era ormai quasi solo fango, hanno
iniziato a tastare con le mani finché sono saltati fuori dei piccoli pesci
gatto.

Per
non farmi mancare niente stamattina sono partito da solo a esplorare la foresta
sperando che il mio senso dell’orientamento non mi tradisse. Inizialmente
procedeva tutto bene, poi a un certo punto ho incontrato il peggiore nemico di
chi è solo: la mente. Mi sono ricordato di tutte le storie che simpaticamente
padre Flavio mi aveva raccontato sui serpenti, e ho incominciato a vedee
dappertutto. Mi sono armato di un bastone e mi sono fatto coraggio.
Fortunatamente non ne ho incontrati (o non li ho visti), e il mio senso
dell’orientamento è stato fedele.

24 Marzo 2015

Poter
entrare in contatto con un mondo che ha conservato qualcosa di antico è un’esperienza
davvero affascinante. Poter assaporare uno stile di vita in cui ci si «arrangia»
è un’occasione preziosa. Riscoprire la caccia, la pesca, la costruzione delle
case, la raccolta della legna o del miele. Quando dietro un pezzo di carne o un
ortaggio riconosci il lavoro e la fatica di più persone, il tempo speso per
renderlo disponibile, allora in te nasce una specie di rispetto. E oltre a
gustartelo meglio ti guardi bene dallo spreco.

La
vita in mezzo ai Pigmei continua a regalare piacevoli avvenimenti. Oltre ad
aver visto come si preparano le frecce, ho partecipato alle pitture del corpo,
che vengono fatte più che altro per estetica. Grazie al succo di un frutto
della foresta e al carbone si prepara una specie d’inchiostro. Con un
bastoncino si tracciano sul corpo e sul viso varie decorazioni che durano
alcuni giorni. Ovviamente mi sono fatto decorare anche io. Mi sono
piacevolmente ritrovato a provocare stupore e scandalo tra i Bantu che in buon
numero considerano con occhio razzista tutto ciò che è pigmeo. Per i Bantu
razzisti vedere un bianco, simbolo di potere, dipinto secondo le usanze pigmee
deve essere stato un trauma. La cosa che più mi ha divertito è stata vedere i
bambini bantu che, dopo qualche giorno, hanno preso a pitturarsi il corpo come
me.

04 Aprile 2015

Lasciare
Bayenga non è stato semplice, soprattutto quando ho visto il corteo di bambini
che è venuto a salutarmi. Non lo è stato nemmeno il viaggio. Quattro ore in
moto su quelle «strade», con i bagagli dietro. Dopo un’ora di viaggio stavo già
soffrendo terribilmente. Ad ogni modo il rientro a «casa» è stato molto bello,
ritrovando tutti che mi aspettavano. Quante cose sono cambiate in quasi un
mese. A Gajen tutti i bambini che avevo lasciato sono stati dimessi e
rimpiazzati da varie new entry che ho già incorporato alla banda
bassotti. Inoltre Gajen è passato sotto la gestione dell’ospedale di Neisu. Tra
qualche giorno ci sarà un pediatra a lavorare come responsabile. La notizia più
bella è che, in questo modo, il centro è gestito dallo stato, così Gajen ha un
futuro garantito indipendente dalla presenza dei missionari. Ovviamente noi
saremo ancora lì a dare una mano, soprattutto nella fase di passaggio.

Questi
giorni di Pasqua sono proprio speciali, vivendoli in un luogo che richiama
continuamente al dolore e alla croce, vedendo ogni giorno tante persone
crocifisse. È stato particolarmente intenso celebrare la via crucis
all’ospedale: ogni stazione era in un padiglione diverso in mezzo a malati e
morenti. L’ultima nel reparto mateità, in mezzo a quelle piccole creature
venute al mondo da poco. Lì c’era il senso della croce che si compie nella vita
eterna, nella resurrezione. Di croci da portare nella vita ne abbiamo tutti.
Non possiamo deciderle, ma possiamo decidere come portarle. Se lasciarci
schiacciare dal loro peso oppure affrontarle e portarle nel nostro cammino, se
stare a testa bassa nella disperazione o alzare lo sguardo e incontrare un
cireneo che ci viene in aiuto o qualcuno che ci asciuga il viso.

Tommaso degli Angeli

(3 – continua)

Tags: missione, razzismo, sobrietà, Pigmei, CongoRD, Tommaso

Tommaso Degli Angeli




L’Angelo dei Carriers /2

Storia per immagini della vita della Beata Irene Stefani, missionaria della Consolata.





Continua

a cura di Gigi Anataloni




Cuba e l’attesa per il dopo «bloqueo»

il Futuro inizia domani

Il 17 dicembre 2014 è
stato un giorno storico per Cuba: è stata infatti annunciata la fine di 55 anni
di guerra fredda tra l’Avana e Washington. Un nostro fotografo era nell’isola
caraibica proprio in quei giorni.

 


 

Varadero. Sono venuto a Cuba per un reportage fotografico
su alcune aree intee dell’isola. Approfittando della stagione favorevole, ho
deciso di portare con me la mia famiglia che farà base a Varadero, zona adatta
ad accogliere – con i suoi circa 60 resort
– turisti da ogni parte del mondo, ma in realtà l’unico posto di Cuba che nulla
ha in comune con l’obiettivo del mio reportage: un racconto fotografico
attraverso percorsi non convenzionali e lontani dalle rotte turistiche, come
l’entroterra di Cardenas e Matanzas, territori immobili e intrappolati in ritmi
e stili di vita lontani decenni dai nostri.

Giunto all’hotel, prendo coscienza del fatto che saranno
due settimane di quasi completo «isolamento digitale». A causa dell’embargo (el bloqueo) Cuba
ha enormi difficoltà di trasmissione per via delle limitazioni dell’uso dei server e per l’utilizzo
dei cavi sottomarini, molto meno efficienti (ma più economici) dei satelliti.
Scegliendo Cuba mi ero preparato al fatto che avrei dovuto fare a meno della
connessione a internet sul mio inseparabile smartphone, ma non al fatto che
proprio in questi giorni anche in hotel la connessione sarebbe stata fuori uso.

Ormai rassegnato all’idea dell’«isolamento digitale», mi
ritrovo inaspettatamente sollevato: posso finalmente disintossicarmi (pur in
maniera forzata) dalla maniacale abitudine all’uso della rete a cui molti di
noi sono quotidianamente sottoposti. Mi sento già più libero. Leggero. Mi
preoccupo di noleggiare un’automobile in modo da potermi muovere in maniera
autonoma nelle zone dell’isola che mi interessano e che si trovano a Sud delle
paradisiache spiagge di Varadero. Mi viene proposta una fiammante auto cinese
dal nome impronunciabile che, nei giorni successivi, darà prova del suo stato
di usura, scarsa «qualità» e manutenzione. Nell’arco di poche ore, inizio a
comprendere meglio le limitazioni e i vincoli imposti dal bloqueo.

Senza supporto satellitare, Google Map è privo di vita. L’unico modo per muovermi sull’isola
sarà quello di tornare al vecchio, scomodo e silenzioso stradario che il
noleggiatore mi ha messo a disposizione.

In hotel indago sul percorso e sui territori che mi
interesserebbe fotografare. Incontro Jorge, un operatore turistico che, dopo
avermi proposto tutti i suoi tour organizzati, desiste e cede il passo alla mia
voglia di autonomia. L’uomo si lascia andare al racconto della precaria
situazione a cui il popolo cubano è costretto a causa dell’embargo, pur
sottolineando il fatto che persone come lui, operatori del settore più vitale
del paese, vivono in realtà una situazione «privilegiata».

Jorge è molto scettico sulla mia intenzione di visitare
le zone intee alla ricerca di testimonianze fotografiche e di volti lontani
dal sole delle spiagge. È abituato alle migliaia di canadesi, italiani e
tedeschi che vengono a Cuba solamente con l’obiettivo di bere rum, fumare
sigari, godere del sole dell’isola, magari in dolce compagnia. Ad ogni modo mi
fornisce indicazioni e suggerimenti strappandomi la promessa di mostrargli al
mio ritorno le immagini scattate nel mio peregrinare.

La Habana, tra
decadenza e splendori

È il 17 dicembre quando Obama e Raul Castro annunciano la
fine della guerra fredda tra i due paesi (leggere il riquadro a pag. 13, ndr).

Dopo oltre 50 anni dalla rivoluzione castrista, Cuba si
appresta probabilmente ad affrontare il più grande cambiamento di sempre.
Assaporo la fortuna di essere qui proprio nei giorni di questo storico
passaggio.

Anche se lontano dalle mie iniziali intenzioni, decido di
far partire il mio itinerario da la Habana (l’Avana, in italiano), una della
città più affascinanti del Sud America, obbligatoria per iniziare ad assaporare
il clima cubano («a due marce») ed entrare in sintonia con uno dei popoli più
cordiali e accoglienti che io abbia mai conosciuto. Girovagando per le strade
di Habana Vieja alla ricerca di angoli particolari della città vecchia e
dell’autentica cucina cubana, lontano dai locali turistici, percorro
un’infinita serie di viuzze, attraversate da rivoli d’acqua di varia natura,
che si infilano tra le macerie di edifici fatiscenti o pericolanti.

Alla fine, dopo l’incontro con una giovane coppia di
cubani, senza volerlo mi ritrovo in un famoso locale della capitale dove pare che,
in serata, ci sarà un ricevimento con la presenza del presidente Raul Castro.
Non so se questo sia vero, anche perché i due ragazzi, dopo l’iniziale
approccio disinteressato, una volta nel locale mostrano i loro reali obiettivi:
essere invitati a mangiare, a bere qualche mojito1 e magari ricevere anche dei Cuc2.

Il
ragazzo mi racconta di essere un musicista che ha anche preso parte al tour
documentario di Zucchero qualche tempo addietro. Suona la tastiera e il suo
salario mensile è di soli 30 Cuc (circa 25 dollari). Vive con la moglie, hanno
un bimbo di 3 anni e uno in arrivo. Lo intuisco anche dal pancione della
ragazza che lo accompagna.

La difficoltà di
informarsi

Voglio approfittare del fatto di essere qui per capire
meglio Cuba e per avere informazioni in presa diretta, ma non è facile. Avendo
la sensazione che sull’isola l’informazione sia ancora in mano ad un ristretto
numero di persone e non avendo la possibilità di accedere a internet, l’unico
modo per cogliere l’essenza di ciò che sta accadendo sia di parlare con la
gente comune. Spingo quindi la conversazione su quello che i miei due giovani
accompagnatori pensano del governo, della sua politica, dell’economia.

È difficile però avere dettagli. Il tono dei miei
interlocutori si anima e si placa con mezze risposte dettate al ritmo della
musica diffusa nel locale dal gruppo di musicisti che si sta preparando per la
serata.

Mentre diversi bicchieri di mojito passano sul nostro
tavolo, parliamo dello storico annuncio fatto il giorno prima dal presidente
Castro e dal leader americano. L’atmosfera si scalda al racconto di questo
evento memorabile e traspare dai loro volti la grande speranza che Cuba
finalmente possa entrare in una nuova era. Forse anche per l’effetto dei mojitos, sorridono e anche
i loro occhi brillano pensando ai cambiamenti che presto potrebbero migliorare
la loro esistenza. Come, ad esempio, la liberazione dalle restrizioni della libreta, la tessera statale
che offre un aiuto alle famiglie dando loro la possibilità di acquistare una
serie di beni primari a prezzi politici. Me la mostrano tirandola fuori con un
po’ di esitazione. Mi dicono di molti cubani che, pur disprezzandola, la
utilizzano per comperare quello che offre. Mi spiegano che la libreta non fa vivere, ma
che comunque è un utile supporto. Con essa anche il loro bimbo ha diritto alla
sua quota di riso, pane, olio, ma – aggiungono scherzando – non ai sigari che
invece a loro farebbero molto comodo: li potrebbero infatti rivendere per
comprare del latte.

Mi raccontano che, da qualche anno, Cuba sta attuando
riforme radicali soprattutto a livello agrario e stringendo accordi anche con
paesi che un tempo erano considerati nemici. In ogni caso, sia in città sia in
tutta l’area costiera, è soprattutto il turismo il comparto economico su cui la
maggioranza dei cubani punta.

Qualcosa sono riuscito a sapere. Tuttavia, l’obiettivo
della mia coppia non è tanto quello di parlare dei problemi e degli scenari
futuri di Cuba quanto di riuscire a portare a casa qualcosa in più del pranzo.
Mi parlano così di cornoperative e dell’opportunità di comprare rum e sigari a
prezzi inferiori a quelli ufficiali. Poi, all’improvviso, forse a causa del mio
scarso interesse, decidono che è ora di andare e, dopo avermi lasciato i loro
indirizzi e in regalo alcuni pesos cubani ufficiali, mi salutano
frettolosamente.

L’incontro mi porta alla mente una serie di letture che
avevo fatto prima di partire e che puntualmente mi avevano svelato quanto la
tecnica e la pratica di approcciare turisti, soprattutto a la Habana, sia
sofisticata ed elegante: gentili e affabili cubani pronti a dare il proprio
aiuto per districarsi nei meandri della capitale. Le avevo considerate leggende
metropolitane, tipiche della rete. Invece era tutto vero: la prova tangibile di
come il popolo cubano, stanco e impoverito dalla situazione economica, riesca a
escogitare strategie, anche elaborate, per sbarcare il lunario facendo leva su
quella che, probabilmente, è l’unica vera opportunità esistente nella capitale,
il turismo.

La Habana Vieja con i suoi edifici decadenti e fatiscenti
è Patrimonio dell’umanità. Probabilmente è una delle città coloniali più belle
che abbia visto nel Sud America, ma percorrendone le strade, accompagnato dagli
effluvi delle fogne, mi rendo conto del fatto che la maggior parte degli
edifici non è mai stata restaurata e che alcuni crollano inesorabilmente giorno
dopo giorno, accumulando montagne di macerie ai bordi delle strade.

Per visitare la Habana ci vuole non soltanto uno stomaco
forte, ma anche buoni polmoni. Le affascinanti e colorate automobili degli anni
Cinquanta sono infatti  quanto di più
inquinante ci possa essere perché, come gli edifici, sono rimaste quelle di un
tempo: luccicanti e appariscenti se viste da lontano, malandate, arrugginite e
decadenti se viste da vicino e all’interno.

Durante il percorso di ritorno verso la mia auto,
passando per i luoghi simbolo della città – Plaza de Armas, Palacio de los
Capitanes Generales, la cattedrale di San Cristobal -, mentre metabolizzo le
frasi e il comportamento dei due ragazzi che ho conosciuto, si rafforza nella
mia mente l’idea che, con la scomparsa del bloqueo, Cuba potrebbe non essere
più la stessa.

Tutti a bordo

Toare verso Varadero non è facile. A Cuba sono
praticamente inesistenti i cartelli stradali. Sono stati tutti, o quasi,
rimossi dalla gente del posto. In modo intenzionale: chiunque ti darà le
indicazioni di cui hai bisogno, ma spesso in cambio di un passaggio. Quando mi
fermo a chiedere informazioni, diventa così quasi inevitabile ritrovarmi, per
qualche chilometro, con una persona a bordo. E alla fine non è detto che io
prenda sempre la direzione corretta o più breve verso la mia destinazione
avendo a fianco un accompagnatore interessato.

Daniele Romeo

(fine prima
parte)

Tags: Cuba, embargo, bloqueo, vita quotidiana, rinnovamento

Daniele Romeo




Il contadino di Dio, i valori della terra

Quasi un profeta

Gino Girolomoni nasce
in una famiglia contadina. Fin da piccolo si scontra con le difficoltà della
vita. Vede nella civiltà rurale e nella cura della Madre Terra l’unico futuro
possibile. Trova l’energia spirituale nelle piante e nella Bibbia. Con la
moglie Tullia «inventa» l’agricoltura biologica in Italia. Storia di un grande
personaggio, troppo poco conosciuto.

 


 

Chi
guarda le foto di Gino Girolomoni, con la barba bianca e lo sguardo severo ma
luminoso, ritto nel suo amato campo di grano, con le spighe in mano, non ha
difficoltà a immaginarselo nelle pagine delle sacre scritture. Come colui che
guida il suo popolo attraverso il deserto, ispirato da una fede tenace e
sapiente.

Così è stata la vita di Gino, padre dell’agricoltura
biologica italiana, fondatore del mitico marchio «Alce Nero», paladino di Madre
Terra e del mondo contadino in via d’estinzione, studioso della Bibbia e
tessitore d’incontri tra culture, religioni, fedi diverse.

Un percorso straordinario, purtroppo interrotto da una
morte repentina, il 16 marzo 2012.

Un cammino che viene esplorato da una bella biografia di
Gino, «La terra è la mia preghiera» (Ed. Emi 2014), scritta dal giornalista e
ricercatore spirituale Massimo Orlandi.

Origini «antiche»

Tutto comincia nel 1946 in un piccolo paese delle
Marche, Isola del Piano, a una ventina di chilometri dall’aristocratica Urbino.
Qui nasce Gino, da babbo Olindo e mamma Rina, qui cresce insieme alla sorellina
Vera e al fratellino Alessio. Qui, sono parole sue, vive l’esperienza più
importante della sua esistenza: «L’aver vissuto l’epopea antichissima della
vita contadina… nelle campagne c’era sì la povertà, la fatica, ma c’erano anche
i valori che gli uomini hanno dimenticato: la parola data, la solidarietà, la
cura di un paesaggio che era bello anche da vedere» (Gino Girolomoni, Alce Nero grida. L’agricoltura biologica, una sfida
culturale, Jaca Book, Milano, 2002, pg. 87).

Tra un piatto di polenta, l’acqua tirata su dal pozzo, i
giri nel bosco con la mamma a tagliare le vitalbe per il bestiame, il piccolo
Gino passa un’infanzia povera ma felice. Fino a sei anni, quando la mamma muore
per una puntura di spino, avvelenata dal tetano. La famiglia, che ha difficoltà
a accudire i tre bimbi, manda Gino in collegio, dove una vecchia suora gli
trasmette l’amore per la Bibbia. Una passione che segnerà tutta la sua vita.

Ma non viene mai meno l’attaccamento alla terra, ai
campi che ritrova durante le vacanze estive. Alla vigilia del ’68, quando si
chiude il ciclo del collegio, il ragazzo Gino si trova alle prese con la
domanda che tutti i giovani devono affrontare: «Dove mi porta la mia vita?».
Negli anni caldi della militanza politica e della ribellione giovanile
collettiva, mentre l’esodo dalle campagne segna pesantemente anche le sue
colline, Gino va controcorrente: si sente attratto dai ruderi di un antico
monastero abbandonato, sul colle di Montebello, che sovrasta la sua casa e da
cui la vista spazia da San Marino al Monte Conero. Quei ruderi contengono
seicento anni di storia della Chiesa: all’origine c’è il cammino di fede del
fondatore, il beato Pietro Gambacorta da Pisa e quello di altri 17 beati che
sono passati da lì.

«Questo è un luogo privilegiato dello spirito – si dice
Gino -. Non deve morire d’oblio».

La necessità lo spinge a cercare lavoro fuori: fa il
collaudatore di moto a Pesaro, il caporeparto di uno zuccherificio a Fano. Ma
quando gli si presenta l’occasione di andarsene davvero, in Svizzera, per un
posto fisso alle ferrovie (per quell’epoca, un teo al lotto) Gino fa
repentinamente marcia indietro, e torna là, nel luogo da cui tutti scappano:
alla sua terra. E vuole starci con la sua donna, Tullia, che dividerà con lui
il suo eretico cammino.

Civiltà contadina

«Anche a costo di doverlo fare da solo, il mio mestiere
nella vita sarà quello di contadino» scrive nel suo diario il 28 dicembre 1969.

In quasi totale solitudine, Gino giura fedeltà a quel
mondo rurale sull’orlo della scomparsa, privato di mezzi e dignità dal rampante
sviluppo industriale dell’epoca, segnato da quella che lo scrittore Moravia
definisce «putrefazione». Nel 1970, a soli 23 anni, diventa sindaco di Isola
del Piano: un’opportunità che coglie nella consapevolezza che sarà una carta in
più da giocare per combattere il degrado fisico e culturale della civiltà
contadina e per tentae il rilancio.

Qui, nel 1973, «mette in scena» gli antichi mestieri, la
prima esposizione delle «Attrezzature agricole tradizionali e degli strumenti
che ancora si fanno», cui faranno seguito una serie di eventi per rivalutare la
civiltà rurale, per restituire a contadini e artigiani la fierezza del loro
mestiere e indicare loro che si può continuare a vivere con la terra, grazie
alla terra.

Se la campagna scompare, è il futuro stesso dell’umanità
a essere in pericolo: «Senza la riappropriazione di questo genere di capacità,
senza essere capaci di piantare l’aglio né l’insalata, senza saper costruire un
giocattolo di legno per il proprio figlio, senza saper costruire un vaso
d’argilla, non si può capire bene il passato né aspettarsi molto dal futuro».
Insomma, Gino crede fermamente che sarebbe una sciagura se andassero perduti i
valori del mondo agricolo: la solidarietà, corrosa dall’egoismo della dominante
civiltà industriale, la manualità messa a rischio dal ruolo sempre più diffuso
delle macchine, il rispetto verso la natura, inquinata e corrotta dal nuovo
modello di sviluppo. Gino predica, e pratica, un’agricoltura in grado di
sintonizzarsi di nuovo con i ritmi di «Madre Natura», rispettosa di chi produce
e di chi consuma, capace, grazie alla sua qualità, di conquistare spazi di
mercato che la rendano anche remunerativa.

Energia spirituale

La spinta e l’energia per questa titanica impresa Gino
la trova dunque nella terra: «Nelle piante vedo veramente il soffio di Dio»
scrive. Ma anche nelle scritture: ogni giorno si ritaglia qualche ora per la
lettura della Bibbia. «La fede e la vita non sono separate – dirà -, tu dimostri
di aver fede secondo la vita che fai».

L’inizio della sua nuova vita, di quella della sua
comunità, Gino lo trova non a caso tra i ruderi di Montebello, che comincia a
restaurare e che nel 1976 diventerà la sua casa, dove andrà a vivere, in
un’unica stanza abitabile, senza acqua né luce, con la moglie Tullia e il loro
primo bambino.

Montebello diventerà, dal 1977, la sede della
Cooperativa Alce Nero – che oggi si chiama «Girolomoni» e non ha più nulla a
che vedere con l’attuale Alce Nero sul mercato -, antesignana dell’agricoltura
biologica: il nome non è scelto a caso, ma ricorda l’epopea del capo Sioux che,
cacciato con il suo popolo dalle sue terre ancestrali, rivendica con forza e
dignità i propri diritti. Il logo è appunto un indiano piumato, ritto sul suo
cavallo in corsa, lancia in resta. «Anche nel resto del mondo ci sono gli
indiani – osserva Gino -. In Italia sono i contadini».

La Cooperativa cresce, resistendo tenacemente alle
difficoltà finanziarie, agli ostacoli frapposti senza sosta da una burocrazia
ottusa e nefasta (un solo esempio: la pasta integrale sarà addirittura
sequestrata per diciassette anni dallo stato perché non ancora prevista nella
nostra normativa). Grazie alla qualità delle sue produzioni e alla sua abilità
nel mettere in piedi l’intera filiera, si farà conoscere in Italia e
all’estero, diventerà l’avamposto di un settore, quello biologico, all’epoca di
fatto inesistente e che oggi conta in tutta Italia 50mila aziende, è praticata
su un milione di ettari, cresce del 17% l’anno, per un fatturato di 3 miliardi
di euro (55 nel mondo intero).

Nel maggio 1978, il sindaco Gino organizza nel suo
paesino il primo corso nazionale di agricoltura biologica. Oggi, sulle colline
intorno a Isola del Piano si contano 25 aziende biologiche, simbolo della
volontà di un territorio di tornare a essere padrone del suo destino.

Una porta aperta

Ma non basta. Rivalutare il mondo contadino e i suoi
valori è un’avventura che richiede compagni di viaggio anche nei territori
della cultura e della scienza, alleanze con gli intellettuali, a livello
nazionale e internazionale. Montebello diventa così un luogo di incontri e di
scambi di altissimo livello, sede di eventi che faranno epoca e che toccano i
grandi temi della vita e della spiritualità, frequentata da filosofi e
scrittori del calibro di Guido Ceronetti, Sergio Quinzio, Massimo Cacciari,
Alex Langer, Ivan Illich, Vittorio Messori.

Non solo: sarà una «porta aperta», un punto di
accoglienza calorosa per chiunque pratichi la ricerca spirituale, sulle rotte
della natura e dello spirito.

Guardando il mondo dalla cima del suo monte, raccolto
nel silenzio del suo studiolo monacale, circondato dai suoi libri, migliaia, di
storia, archeologia, spiritualità, Gino scrive: «Mi sento un cane che abbaia
per difendere le campagne, un portatore di una seppure minima speranza di
curare le ferite dei monti non ancora moribondi. Mi sento uno che vede in
questi luoghi una possibilità per resistere alla corruzione del pensiero e dei
costumi, un luogo dove ricostruire frammenti di minuscole società» (Gino
Girolomoni, Terre, monti e
colline! Il caso Alce Nero, Jaca Book, Milano
1992, pg. 14).

In quest’ottica, Gino accetta anche di entrare in
politica e milita nella dirigenza dei Verdi dal 1999 al 2001, all’epoca in cui
io ero presidente del partito (lascerà poi qualche anno dopo, deluso dalla
politica politicante e dai meccanismi del potere). Abituato al parlare netto e
schietto, anche duro all’occorrenza, restio a chinare la testa davanti ai
potenti, Gino diventa in quel periodo una bandiera delle battaglie
ambientaliste, in particolare quella contro gli Ogm (organismi geneticamente
modificati) e contro l’uso dei pesticidi e dei veleni in agricoltura.

«Credo che sia evidente che per me il biologico è uno
stile di vita, un modo di abitare la campagna, di vivere, di mangiare, di fare
scelte come l’uso di medicine, dolci, della bioedilizia, di forme di energia
rinnovabile. Tutte queste cose stanno insieme e formano un modo diverso di
vivere» (Intervista tratta da un documentario «Montebello, una collina che non
si arrende»).

Insomma, come ben sintetizza Massimo Orlandi nella
biografia di Gino (pag. 108): «L’agricoltura biologica rappresenta il primo
nucleo di resistenza attiva… tocca un bisogno primario, il cibo, e racconta il
paradosso più lampante di una società tanto disumanizzata da avvelenare anche
ciò di cui si alimenta».

Al di là del comune impegno politico e civile, abbiamo
per decenni condiviso una profonda ricerca spirituale e la sfida di calarla
nella nostra esistenza quotidiana. Una sfida che Gino ha continuato a praticare
fino alla morte, nel vortice delle sue poliedriche attività (libri, articoli,
conferenze, incontri culturali oltre che la quotidiana produzione biologica),
tenendo testa a difficoltà, sconfitte, amarezze. Ma gratificato anche,
soprattutto negli ultimi anni, dal successo della sua impresa, sia sul versante
economico sia su quello culturale. E soprattutto dalla promessa rappresentata
dai suoi tre straordinari figli, Samuele, Giovanni Battista e Maria, che oggi
custodiscono e fanno crescere la preziosa eredità del padre (e della madre,
perché senza l’inestimabile e instancabile presenza di Tullia, coadiuvata dalla
cara Nonna Tullia, Montebello sarebbe appassito in pochi anni).

Lo spirito di Montebello continua dunque a vivere. Ed è
sintetizzato in una frase che un giorno Gino mi disse, al ritorno da una
passeggiata nella neve, accanto al grande camino del monastero: «Nella realtà
del mondo, ha ragione solo chi vince. Nella realtà di Dio, non conta solo
vincere o perdere. Conta servire la causa».

Grazia
Francescato* 

* Ambientalista, giornalista, scrittrice, ex presidente
del Wwf, dei Verdi italiani e dei Verdi europei. È stata deputata nella XV
legislatura (2006-2008).

Tags: ecologia, agricoltura biologica, bioagricoltura, spiritualità, Girolomoni

Grazia Francescato




Incontro con padre Franco Gioda

In mezzo a loro ho
sentito Dio.

Una vita spesa tra Italia
e Mozambico. Una quotidianità di riflessione profonda e lavoro sul campo. Senza
mai sottrarsi alle responsabilità. Un dialogo costante con Dio e con lo Spirito.
Questo è padre Franco Gioda, «giovane» missionario.

 


 

Lo incontro nel corridoio della redazione. È un po’ dimagrito, quasi «rimpicciolito».
Ma il suo viso è radioso. Per poco non lo riconosco. «Sono padre Franco».

Franco Gioda ha 76 anni e quattro anni fa è «ri-partito»
per il Mozambico, paese nel quale ha passato tutta la sua storia missionaria. «Ho
fatto un po’ di tutto» spiega. Nel 2010 era a Martina Franca, dopo aver servito
sei anni come superiore Regionale in Italia: «Ma sentivo che dovevo ancora
andare in Africa. Ho scritto ai superiori la mia disponibilità, chiedendo loro:
posso ancora lavorare in missione? Mi hanno detto di sì.

Sono andato a Maputo, come responsabile della comunità.
Poi è diventato vescovo Ignazio Saure, un giovane (mozambicano, ndr) che io avevo
seguito nel suo cammino per entrare nell’Istituto. E il superiore mi ha detto:
vai a fare comunità con lui».

Così Franco si ritrova a Tete, capitale dell’omonima
provincia, lembo di terra che si incunea tra Zimbabwe e Malawi, fino allo
Zambia. «Perché i portoghesi (colonizzatori, ndr) volevano
collegarsi all’Angola, e fare un passaggio tra i due oceani, ma gli inglesi
glielo hanno impedito» spiega il missionario.


Prima missione

Ma facciamo un passo indietro. Ordinato nel
1963 padre Gioda serve alcuni anni in Italia. Nel 1968, all’età di 30 anni
parte per la prima volta in missione: destinazione Mozambico. «Era ancora il
tempo coloniale, ma si preparava l’indipendenza. C’erano molte tensioni sociali
e anche ecclesiali. Eravamo all’indomani del Concilio Vaticano II, e anche se
noi giovani missionari avevamo una formazione preconciliare, ne sentivamo gli
echi. In particolare non accettavamo l’impostazione ecclesiale che c’era. I
padri Bianchi vennero via per protesta. Anche noi eravamo nel movimento». Ma
dopo appena due anni, padre Franco è richiamato in Italia e lui chiede di stare
di più. Gli concedono ancora un anno. «In Mozambico ero con padre Prandelli, 28
anni, una specie di genio, molto impegnato dalla parte degli africani». Anche
Prandelli deve rientrare, ma incontra una mina sul suo cammino: «Questa morte
mi ha segnato per la vita».

Dopo nove anni in Italia come formatore,
Franco torna in Mozambico. Il contesto politico e sociale è totalmente
cambiato. Siamo in piena guerra civile. È l’esperienza più dura che foggia il
missionario nel fisico e nello spirito. «Fui destinato nel Niassa (Nord del
Mozambico, ndr). Andavo in bicicletta da una comunità
all’altra. Ogni due – tre giorni c’era un attacco armato con molti morti. E io
seppellivo cadaveri. Quindi è arrivato padre Giuseppe Frizzi, e abbiamo fatto
una bella comunità tra Maúa, Marrupa, Maiaca, Nipepe. Poi mi hanno eletto
superiore regionale a Maputo e lo sono stato per sei anni. Eravamo in tempo di
guerra, tempi difficili».

All’inizio degli anni 2000 padre Franco
viene richiamato in Italia, dove è eletto superiore regionale (2002-2008), fino
all’ultima ripartenza.

Missione di frontiera

«A Tete ci siamo resi conto che nelle zone
di Maravia e Zumbo (località all’estremo Ovest, alla frontiera con Zambia e
Zimbabwe, ndr) era senza sacerdoti da decenni».

Proprio a Zumbo i missionari della Consolata
avevano iniziato in Mozambico, nel lontano 1926. «È una zona molto isolata, a
550 Km da Tete e le strade sono pessime. Nel frattempo l’Istituto stava
passando ai diocesani le missioni di Mecanhelas e Massinga, potevamo quindi
investire nuove energie. Coinvolsi anche il superiore generale, padre Stefano
Camerlengo, che fece una visita fino a Zumbo. “Qui sareste troppo lontani da
tutto” ci disse. Per questo motivo si scelse Fingoè, a metà strada». Così
inizia la realizzazione del sogno di «aprire» o «riaprire» una missione in
un’area vasta e bisognosa, e storicamente legata alla Consolata.

Primo: presenza

«Andando in visita ho detto alla gente:
siamo disposti a venire qui, a condizione che voi ci facciate una capanna.
C’era già una chiesa. Ha aperto la strada il gruppo dei novizi della Consolata
di Maputo, che ci hanno introdotti. Poi sono arrivati i padri Edoardo Reyes
Prada, colombiano e Hyacinth Mwalongo della Tanzania a integrare la comunità.

Padre Sandro Faedi, un altro veterano del
Mozambico, è invece venuto dall’Italia a mettere a posto i conti della diocesi».

Che missione ha in testa padre Gioda? «Ho
cercato di spiegare alla popolazione che non saremmo andati a costruire una
missione, ma vivere una missione, saremmo stati fratelli di fede, che aiutano
altri fratelli ad andare avanti e cercano, a loro volta, di farsi aiutare. Allo
scopo di camminare insieme, il più possibile». Padre Franco non la interpreta
come missione classica.

«Per attuare questo progetto, prima cosa è
rendersi conto dove vive la gente», mi dice mentre estrae da una cartellina una
rudimentale ma efficace mappatura di tutte le comunità fatta da lui stesso, con
le distanze, i nomi, le strade. Pare non se ne separi mai. E continua: «Poi
occorre andare a vedere. Non possiamo chiamare la gente alla missione, dobbiamo
andare là da loro, nelle comunità». Prima cosa dunque la presenza dei
missionari in mezzo alla gente.

«Ho toccato con mano la presenza di Dio –
racconta con l’entusiasmo di un giovane missionario. L’ultimo sacerdote era
andato via da quella zona nel 1971. Era un missionario spagnolo, viveva a
Ukanha, una missione a 70 km da Fingoé. Era stato un ottimo animatore. Ma fu
costretto a lasciare tutto a causa della guerra. Dopo la sua partenza, la gente
ha continuato ad andare in chiesa la domenica, aggrappandosi a quello che
aveva. C’era qualche catechista, ma molti erano morti o si erano rifugiati in
Zambia. Qualche volta da Tete andava un prete. Ho trovato fede. Ovvero comunità
non molto organizzate, ma vive, che la domenica si uniscono a pregare. Un
impegno di servizio. Per questo dico che sento lo Spirito in queste comunità.
Il nostro dovere è quello di essere presenti, ma dappertutto, anche in quei
villaggi che magari non hanno mai visto un prete. Con la mia mappatura ho
trovato 108 comunità.

Il primo verbo missionario è “andare” il
secondo è “incarnarsi” vivere con la gente. Io non posso perché non so neppure
la lingua, e a 76 anni non la imparo. Il portoghese lo parla solo qualcuno.
Chiedo al Signore la grazia di essere uno che apre la strada». In tutta la zona
sono presenti cinque lingue, la dominante è il chichewa parlato anche in
Zambia, Malawi.

Secondo: formazione

Il progetto dei missionari prevede la
realizzazione di alcuni centri di formazione per laici. «Non c’era nessuna
struttura. Abbiamo iniziato con leggere insieme il catechismo. Si è pensato a
centri di formazione rurale, provvisori. E la gente viene. L’anno scorso sono
passati 90 animatori a formarsi per due settimane. E queste attività
continuano.

Sono mandati dalla comunità, con un po’ di
cibo, che noi integriamo. Qualcuno ha una piccola esperienza da catechista, ma
tutti hanno molta buona volontà».

Padre Franco è riuscito a portare un gruppo
di giovani di Vittorio Veneto e anche una coppia in viaggio di nozze. «Io vi
offro la possibilità di camminare con i missionari. Venite, facciamo la vita
insieme. Si dorme in chiesa o nelle capanne. Con il sacco a pelo su una stuoia.
Si mangia quello che ti offrono. Sono rimasti a bocca aperta».

Dio in mezzo a loro

I missionari vogliono attivare sei centri di
formazione di questo tipo, arrivando fino a Zumbo.

«Sono i fedeli che fanno questi centri, non
siamo noi con la forza dei nostri soldi, dell’organizzazione, o la nostra
personalità. Siamo fratelli di fede che offrono quello che hanno ricevuto. Ci
dicono come vogliono fare le costruzioni. Realizzateli come volete. Io
partecipo, vi pago le lamiere per il tetto e il cemento. Ma voi fate i mattoni
e poi costruite».

Per ora i membri delle comunità stanno
costruendo la casa per gli animatori e quella per i padri. In seguito faranno
le grosse tettornie circolari sotto le quali si tengono le formazioni.

«Anche a questi incontri di formazione ho
visto la presenza dello Spirito. Questa gente che crede, a che cosa? Crede alla
mia parola, ma io non so neppure parlare nella loro lingua. Vediamo che lo
Spirito agisce, li fa crescere, li fa impegnare.

Molte comunità adesso hanno i catecumeni che
fanno due o tre anni di percorso. Io sto vedendo Dio, in mezzo a quella gente.
Dio che ha conservato questi cristiani, e poi ci sono nuovi ingressi nella
comunità».

Ore e ore in moto

Padre Gioda racconta cosa vuol dire «andare
verso gli altri» nel suo contesto: «Una volta sono andato a visitare una
comunità in cui non eravamo mai stati e non si era mai visto un missionario. Si
tratta di Finzi, a 140 km da Fingoè verso il lago (l’enorme invaso artificiale
creato dalla diga di Cabora o Cahora Bassa sullo Zambesi, ndr). Mi ha portato un ragazzo in moto, che è l’unico mezzo per arrivarci.
Verso sera, salendo sul monte di Finzi, sentivamo i tamburi in lontananza. Era
la comunità che ci attendeva. Ho detto al mio autista di andare avanti, che io
sarei arrivato a piedi. Così, nella semi oscurità, senza una torcia, mi sono
perso. L’unico orientamento erano i tamburi: pensavo e pregavo. Poi lui mi è
venuto a cercare e siamo rimasti una settimana nella comunità. Intoo ce ne
sono altre sette, alcune distanti anche 90 km, che non ho ancora visitato. Per
arrivare sono sette ore di moto su una strada orribile. Ma la schiena, per
fortuna non ne ha risentito».

Nell’idea dei missionari di Fingoè, i centri
di formazione dovrebbero diventare quattro o cinque nuove missioni, ognuna
riferimento di circa 20 comunità, distanti una dall’altra anche 70 km. Distanze
che valgono il quadruplo, a causa delle condizioni difficili.

«Ringrazio Dio perché ho ancora la forza,
alla mia età. Io mi sento giovane, come avessi 40 anni» chiosa quasi pudico
padre Franco. Si può ripartire a qualsiasi età? «Sempre, basta avere fede. Non
si tratta tanto di amare Dio, ma piuttosto lasciarsi amare e condurre dal
Signore. Questa è la nostra forza.

Sono convinto, e più vado avanti lo vedo,
che se uno crede sul serio in Cristo, allora gli dà la vita, e dà anche la vita
per il prossimo. Lui ti dà la vita e tu la offri al prossimo. Il che vuole dire
che ti assicura la forza per fare le cose».

La spiritualità del pendolo

«C’è come un Big Bang iniziale: Dio mi dà lo
slancio iniziale e mi manda nel mondo carico del suo amore. Attenzione: questo
slancio mi porta verso il prossimo. E più mi avvicino al prossimo, con le
difficoltà, le miserie, più ho bisogno di andare a rifocillarmi da Dio. Allora
ritorno a Lui. Più vado a Dio e più sento necessità di fare comunione con il
prossimo. È il binomio: contemplazione – azione. Inoltre il pendolo, con
l’attrito tende a fermarsi, ma l’amore di Dio, non è solo iniziale, continua ad
alimentare l’oscillazione».

Ricorda padre Franco: «Paolo VI diceva che
dobbiamo avere una “disciplina spirituale”. Ovvero: non andare avanti a caso.
Io conosco le mie fragilità, le difficoltà della vita, allora ho bisogno di
darmi un orientamento. Più conosco la miseria umana e più ho bisogno di Dio
perché io non posso dare soluzioni, solo lui può.

Allora è necessario leggere e riflettere,
per ricaricarsi. Significa rivedere la storia, quello che ci capita alla luce
di Dio».

Approccio laicale

Come abbiamo visto, in Mozambico, a causa
dell’estensione del territorio, molte località non possono essere visitate da
sacerdoti, se non occasionalmente. Il ruolo dei laici è dunque fondamentale.

«Il futuro lì sono i laici. Ma anche qui in
Italia. Tra 10 anni i preti saranno sempre meno. Un parroco che fa 5
parrocchie, come fa? Corre. Occorre abituare la gente a coinvolgersi di più.
L’incontro con Dio si ha anche attraverso la Parola. È come avere due polmoni:
eucarestia e Bibbia. Se non c’è la prima, si respira con un polmone. Si vive lo
stesso! Formiamo animatori responsabili con la catechesi per avere comunità
aggrappate alla Parola di Dio. Se poi viene l’eucaristia tanto meglio, ma chissà
come sarà un domani».

«Chiediamoci: chi è che accompagna questa
gente? Io prete, che vado là ogni due, tre mesi, per pochi giorni, e non so la
loro lingua? O sono loro che sono lì? La quotidianità della luce di Dio è
trasmessa attraverso gli animatori. Sarà così anche in Italia domani».

Ma non sempre è facile avere un ruolo come
laici nella chiesa: «Ci sono molte resistenze, da parte del clero e da parte
della gente. Il clero dice: la gente non è preparata. È vero, ma neanche noi
sacerdoti siamo preparati, abbiamo clericalizzato tutto».

La missione ci aiuta a leggere la realtà.
Perché anche qui c’è questa situazione, un po’ più camuffata.

In Italia iniziamo ad avere diversi
missionari africani come parroci delle. «È vero. Ma sarebbe più logico che ci
fosse un padre di famiglia preparato che va lì e spiega, poi incarichiamo
qualcuno che ci dia l’eucarestia. Questo aspetto dei laici ha un’importanza
estrema».

I giovani e la missione

In Italia i giovani disertano le chiese.
Come interessarli alla missione? «Credo che il mondo di oggi manchi di una
cosa: interiorità. Si è frastornati da tutto. C’è bisogno di un po’ di
silenzio. Ma non di solitudine, altrimenti ci si ammazza. Un silenzio che
diventi riflessione, ci porti a dare delle risposte personali a certi segni che
dovremmo vedere».

«Noi stessi dobbiamo dare dei segni. In
tempo di guerra mi è capitato di passare la notte a seppellire morti tagliati a
pezzi. Il mattino dopo, la gente diceva, perché lo fai? Adesso non siamo più
capaci a creare delle inquietudini con la nostra dimensione di fede. Vuol dire,
creare interrogativi. Perché a 76 anni parti ancora?
Ma stai qui, c’è lavoro. Se riesco
a dare una risposta a questi “perché” mi metto in cammino.

Invece cerchiamo di sistemarci. Ma se ci si
ferma o ci si addormenta o si imputridisce. Accetti passivamente tutto, non
crei più punti interrogativi, inquietudini appunto, non crei più ricerca».

Ma come trovare le risposte?

«Il problema non è tanto quello di dare
soluzioni – continua il missionario – quelle le darà la storia, ovvero Dio. Non
sarai tu. Se tu vivi il Vangelo sul serio, attorno a te qualcosa si muoverà,
qualcuno “inquieto”, forse per imitarti, forse per liberarsi dal torpore del “tutti
fanno così”. Al contrario, questo cercare di sistemarsi, può creare in alcuni
una ribellione radicale, come i giovani che seguono l’Isis, perché devono dare
un senso. Ma ricordati, facciamo più con la presenza che con la parola.
Dobbiamo gridare il Vangelo con la vita».

Marco Bello



Tags: Gioda, Missione, spiritualità, avventura, evangelizzazione, Mozambico, Tete

Marco Bello




Le meraviglie del passato, le sfide del presente

Dal deserto del Nord del Kenya.

Impressioni da un
viaggio indimenticabile nelle missioni del Nord del Kenya, nel Samburu e nel
Marsabit, in cui i missionari della Consolata sono arrivati nel 1952.
Tornato a Maralal
dopo aver visitato Baragoi, South Horr, Sererit e Loyangalani, padre Stefano Camerlengo
ha scritto ai missionari le sue impressioni a caldo. MC le «ha rubate» per
condividerle con tutti i suoi lettori.

 


 

Sono in
visita canonica1 ai missionari del Kenya, un grande paese pieno di storia
per il nostro Istituto. Mentre scrivo, mi trovo in «pellegrinaggio» alle
comunità della diocesi di Mararal e di Marsabit. In queste diocesi tutto parla
ancora di Consolata, visto che noi siamo stati i primi evangelizzatori di
questa terra. Viaggio tra le tribù indigene del Coo d’Africa sempre
minacciate dalla siccità: Turkana, Samburu, Rendille, El Molo. Dalla capitale
della contea Samburu, Maralal, oltre 10 ore di fuoristrada su 250 km di piste
dissestate ci conducono nell’estremo Nord del Kenya, lontano dagli itinerari
battuti dai safari. È quasi il tramonto quando davanti a noi si spalanca
il paesaggio di un altro pianeta. Siamo sulle rive del lago Turkana, il più
grande lago in un deserto al mondo: una distesa di zaffiro circondata da
altopiani dalle roventi tinte marziane, punteggiati da picchi vulcanici, alberi
di acacia e grappoli di fiabeschi nkaji (in samburu) o akai (in
turkana), capanne a iglù fatte di un intreccio di rami secchi. È qui che vivono
le tribù indigene più incredibili dell’Africa: ultimi discendenti della
leggendaria e ormai morente «Culla dell’Uomo».

È emozionante sentire le gomme del fuoristrada
scricchiolare sulla terra dove, secondo i paleontologi, il primo uomo si mise
in posizione eretta per incamminarsi sul suo sentirnero di futura gloria. La zona
è riconosciuta «Patrimonio dell’Umanità» dell’Unesco per la sua eccezionale
ricchezza ecologica e culturale. L’ecosistema del lago, unico nel suo genere,
permette di praticare la pesca e la pastorizia in alternanza grazie a un eterno
ciclo di alta e bassa marea. Questo ecosistema ha consentito a gruppi etnici
come i Turkana, i Samburu, i Rendille e gli El Molo, di vivere per secoli una
dura esistenza nelle aride periferie delle sponde del lago, considerate uno
degli ambienti più ostili della terra. Difficile immaginare che in epoche
passate al posto di questo deserto di rocce vulcaniche ci fosse una vegetazione
rigogliosa con zebre ed elefanti, allontanatesi da qui a causa del cambiamento
climatico.

Il
capoluogo della zona è Loyangalani che significa «il luogo degli alberi». Nome
azzeccatissimo. Infatti è come un’oasi nel deserto roccioso con alberi
rigogliosi che crescono attorno a sorgenti di acqua dolce e calda che sgorgano
dal suolo. Mentre ci avviciniamo, scorgiamo in lontananza la rudimentale sede
di un consiglio direttivo locale: un grande albero d’acacia alla cui ombra
siedono gli anziani, adunati per discutere le questioni d’interesse comune.
Alcuni di loro portano gli apelpel, istoriati bastoni di legno, segno
che sono sposati. Per le donne invece la fede nuziale consiste in orecchini,
pendenti dal lobo o fissati alla parte superiore dell’orecchio a seconda che
siano Samburu o Turkana. Queste ultime usano anche rasarsi il capo lasciando
solo un ciuffo centrale. Tutte le donne, quale che sia la tribù di
appartenenza, si adoano di appariscenti collari multicolori che anticamente
erano fatti di semi, oggi sostituiti da perline e palline di plastica
acquistate a Nairobi. Lo stesso oamento è in voga presso i giovani guerrieri,
i moran, durante il duro e quasi decennale periodo di «servizio militare»
a guardia delle greggi prima di potersi sposare e diventare giovani adulti.
Sono però le mogli della tribù Rendille a portare il collare dalla foggia più
appariscente: lo mporro, un alto cerchio di legno intarsiato (un tempo)
di schegge di rubino. Il legno dell’albero di acacia serve praticamente a
tutto: oltre a fae capanne, collari e mini sgabelli portatili, se ne usano i
ramoscelli più fini come spazzolini da denti, mentre i grossi frutti oblunghi,
una volta svuotati e fatti seccare, diventano otri (calabash) per
conservare acqua e latte.

Questa zona per noi, missionari della Consolata, è
storica e molto importante.

Molti missionari sono passati e hanno vissuto in questa
terra annunciando il Vangelo. Alcuni sono già nella casa del padre, altri sono
stati anche uccisi qui (padre Michele Stallone nel 1965, padre Luigi Graiff nel
1981). Altri ancora sono presenti continuando uno stile, una presenza. Mentre
ringraziamo di vero cuore tutti questi missionari che hanno donato la loro vita
e continuano a farlo in situazioni materialmente e spiritualmente difficili, mi
vengono spontanei alcuni pensieri che desidero comunicare semplicemente in
questo piccolo tributo alla storia della missione, dove la vita si fa dono,
dove uno offre tutto fino a restare senza niente.

La gente di questa zona del Kenya vive in terre
desertiche e piene di insidie. Nel deserto niente è banale e «normale». L’annuncio
del Vangelo non è un tema facile qui. L’evangelizzazione nasce con la
testimonianza della presenza, dello stare con la gente, più che con le parole.
Prima di tutto c’è la vita vissuta con fede forte. Dai rapporti belli e veri,
può scattare qualcosa che diventa inizio di un cammino di testimonianza e
accoglienza. È normale, non solo per un cristiano, ma anche per un musulmano,
che vive la fede in profondità, trasmettere, irradiare, far sapere, spiegare
quello che prorompe dal suo cuore: vita, servizio, dono di sé, gioia, parola,
che sono testimonianza e annuncio. Gli ambienti e i tempi possono essere facili
o difficili. Possono condizionare i modi di espressione, ma mai annullarli. I
più efficaci, per far sì che lo Spirito di Dio faccia il suo lavoro, sono il
rispetto, la discrezione, l’umiltà, la pazienza, e il sentimento di lasciarsi
condurre da Dio. Si tratta di un lavoro profondo, vitale che richiede tempo e
pazienza. Ecco la pazienza è la prima virtù che si deve imparare per lavorare
in questa terra, per restare presenti e propositivi in mezzo a queste
popolazioni che fanno dei bisogni vitali principali le primarie occupazioni
delle loro giornate e della loro vita.

Caldo
opprimente, strade sabbiose sulle quali è persino difficile camminare,
vegetazione rada e spinosa. Se la vita nei villaggi africani cui siamo abituati
sembra difficile, questa appare addirittura impossibile. Dove questa gente
tragga acqua e alimenti è un mistero per noi, che non penseremmo mai di bere
l’acqua salmastra del lago come invece fanno loro. In questo paesaggio riarso
dal sole, migliaia di famiglie conducono una vita «normale» fatta di gesti
semplici e quotidiani. Non è difficile comprendere come mai la gente del
deserto abbia sviluppato un carattere e un fisico così coriacei. I Samburu e i
Turkana sono gente dura e orgogliosa, inasprita da una vita che non dà molto ma
richiede tutto. Essi popolano fin dai tempi antichi l’intero Nord Est del
Kenya, regione semidesertica morfologicamente più simile al Nord Africa che non
all’Africa subsahariana.

Essere cristiani in questi luoghi è assai complicato.
L’importanza del lavoro missionario che viene svolto tra mille difficoltà ogni
giorno è proprio questa: costruire un ponte di pace e di dialogo con il mondo,
testimoniando con le opere concrete i valori in cui crediamo, evitando le
parole e i giudizi che, se espressi con leggerezza, sono in grado di provocare
incomprensioni e risentimento.

Forti del favore che i missionari hanno saputo
costruirsi nel corso degli anni, siamo stati accolti da tutti quelli che
abbiamo incontrato con grande cordialità e amicizia, invitati a entrare nelle
capanne e a sedere al loro fianco.

In questo angolo remoto del Kenya nel corso degli anni
sono state realizzate con successo diverse strutture: ospedali e centri
sanitari, scuole anche nei villaggi più remoti, centri di formazione
professionale e religiosa. L’impronta che i nostri missionari, e chi ha
lavorato e lavora insieme a loro, ha lasciato qui è molto forte, e molte
persone incontrate li ricordano con commozione, rispetto e gratitudine.

Ma non sarebbe giusto parlare di queste terre solo
coniugando ogni verbo al passato. Anche oggi questi missionari, con sempre meno
fondi, lavorano volontariamente in una maniera estremamente «professionale»,
riempiendo di amore e compassione ogni loro atto. Siamo stati testimoni di
drammatiche realtà alle quali era difficile anche solo assistere come
osservatori.
Ciò che è stato realizzato finora è miracoloso. Ma la sabbia del deserto e il
tempo rischiano di cancellare ogni cosa. In quei luoghi i bisogni sono ancora
tantissimi e chi opera ogni giorno per farvi fronte va sostenuto con impegno e
costanza, perché nulla di ciò che è stato e che ancora vive vada perduto. Ai
missionari dico: grazie, coraggio e avanti in Domino!

Stefano Camerlengo

superiore generale
dei Missionari della Consolata

Tags: Missione, evangelizzazione, Nord Kenya, Marsabit, Loyangallani, Samburu, Turkana

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1 La «visita
canonica» è un obbligo che un superiore generale deve adempiere durante il suo
mandato. Ha aspetti formali e ufficiali di verifica di tutte le comunità
locali, dell’economia e attività del gruppo visitato, ma è soprattutto un
avvenimento di giornioso incontro di ogni missionario con il suo superiore e del
superiore con il vissuto dei suoi fratelli missionari. Padre Stefano è stato in
Kenya dall’11 gennaio al 2 marzo 2015, visitando il Samburu dal 2 al 10
febbraio.

Stefano Camerlengo