Vescovo di Parma, missionario per il mondo

San Guido Maria Conforti (1865-1931)

Il card. Angelo Rocalli vedeva in lui «l’espressione episcopale più distinta in Italia di quel felice movimento missionario suscitato dall’enciclica Maximum Illud di papa Benedetto XV; rappresentante di quella completezza del ministero sacro delle anime che associa il vescovo al missionario: vescovo di Parma, ma missionario per il mondo». La sua canonizzazione è fissata per il 23 ottobre 2011.

Era un intrico di vie che chiudevano il duomo di Parma come in una ragnatela. Il piccolo Guido Maria Conforti lo percorreva ogni mattina per recarsi a scuola. Spesso, nel tragitto, compiva una piccola sosta per entrare nella chiesa della Pace, dove un grande crocifisso dominava l’abside. «Io guardavo lui, e lui guardava me – scriverà piu tardi – e mi pareva mi dicesse tante cose».
Gioo dopo giorno l’immagine di quel crocifisso misterioso trovava uno spazio sempre maggiore nel cuore di Guido, fino a conquistarlo interamente. Entrato in seminario, il desiderio di dedicare la vita alle missioni si faceva sempre più insistente. Ma la salute cagionevole gli impedì di realizzare questo sogno. Diventato prete, il Conforti decise di dar vita a una famiglia missionaria.
Aveva 28 anni quando acquistò una casa in Borgo Leon d’Oro, dove poter radunare una piccola comunità per aspiranti al sacerdozio e alla vita missionaria. Monsignor Conforti, vicerettore in seminario e canonico del duomo, era prete da cinque anni.
Correva l’anno 1895 quando, agli inizi di novembre, un gruppo di ragazzi entrò nella casa: iniziava così la giorniosa avventura di quello che sarebbe diventato l’Istituto saveriano per le missioni estere. II giorno di nascita della nuova congregazione missionaria sarà ufficialmente stabilito, con il Decreto di approvazione emanato dalla Santa Sede, il 3 dicembre del 1895, festa di san Francesco Saverio, patrono dell’Istituto.

I primi due saveriani a partire per le missioni furono destinati alla Cina: era il 1899. Essi seguivano mons. Fogolla, vescovo francescano, che poi morirà martire e sarà beatificato nel 1946.
Dal «cenacolo» di Parma si staccava così il primo drappello di missionari al quale, nell’arco di pochi anni, si sarebbero uniti altri gruppi di saveriani, tutti con la stessa meta: la Cina. Per oltre mezzo secolo i figli di mons. Conforti ebbero come campo di apostolato quella terra.
Ben presto il fondatore si rese conto della necessità di un luogo piu vasto, dove poter accogliere i giovani che chiedevano di far parte della famiglia. L’eredità lasciatagli da suo padre si rivelò provvidenziale per la costruzione, a Parma, del vasto edificio che, in seguito, diverrà la casa madre dei saveriani.
Ma le vie dell’uomo non sono le vie di Dio. L’istituto saveriano contava solo sette anni di vita, quando un inatteso avvenimento venne a sconvolgere i progetti del fondatore: la nomina del canonico Conforti ad arcivescovo di
Ravenna.
Poi, nell’autunno del 1907, papa Pio X poneva amorevolmente sulle spalle del fondatore una nuova croce: la nomina a vescovo di Parma. Il mite Conforti, dalla salute fragile, ma dal carattere adamantino, era chiamato dal Signore ad essere pastore di due greggi: da quel giorno avrebbe dovuto aver cura dei fedeli della diocesi di Parma
e della famiglia saveriana.

Terminata la prima guerra mondiale, mons. Conforti decise di aprire una seconda casa dove poter ospitare i giovani che, sempre piu numerosi, facevano domanda di entrare a far parte della sua famiglia missionaria. Nel 1919 un piccolo gruppo di saveriani fondò a Vicenza la prima «casa apostolica». Tra loro si distingueva la dolce figura d’un missionario reduce dalla Cina, padre Pietro Uccelli, il cui ricordo tra la popolazione del vicentino è ancora vivo oggi, nutrito di affetto e venerazione.
Lo sviluppo della congregazione registrò negli anni successivi una fioritura di altre case di formazione in Italia, fino a raggiungere in breve una ventina di comunità. Nell’autunno del 1928 mons. Conforti ebbe la gioia di raggiungere i suoi figli in Cina. Un viaggio assai faticoso, che finì per minare in maniera irrimediabile la salute, gia così fragile, del fondatore.
II 25 ottobre 1931 mons. Conforti ordinò diaconi otto giovani saveriani. Dopo la cerimonia si sentì male: era in corso un’emorragia cerebrale che l’avrebbe presto portato alla paralisi. Per giorni la gente accorse all’episcopio per chiedere notizie: tutta Parma era in trepidazione. Il 4 novembre il vescovo chiese il viatico. Volle che lo rivestissero con il rocchetto e la stola, e gli mettessero l’anello episcopale al dito. Nel pomeriggio il male si aggravo. I presenti lo sentirono sussurrare: «Vedrò Dio, il mio salvatore!». La mattina seguente, un giorno di pioggia, le condizioni dell’infermo peggiorarono. Alle 13.55 dolcemente spirò.
Il popolo di Parma, alla notizia della morte di mons. Conforti, non ebbe esitazioni; tutti erano concordi nel dire: «È morto un santo!».

Negli anni ‘50, quando la rivoluzione comunista di Mao Tsedong in Cina si abbatté sulla chiesa come una bufera, i missionari vennero imprigionati; molti di essi subirono processi infamanti e battiture e, infine, furono tutti espulsi (1952-53). Cacciati dalla Cina molti figli del Conforti si dispersero nei tre continenti, dando vita a nuove missioni in vari paesi dell’Asia, America Latina e Africa.
Fu proprio dal continente africano che venne la prova necessaria e definitiva della santità del Conforti: nel 1965, Sabina Kamariza, una ragazza del Burundi, colpita da un tumore al pancreas, data per spacciata dai medici e ormai in fin di vita, guarì improvvisamente, dopo una novena di preghiere a mons. Conforti. La consulta medica dichiarò all’unanimità (cinque su cinque) tale guarigione «estremamente rapida, completa e duratura, inspiegabile in base alle nostre conoscenze scientifiche».

di Ettore Fasolini

Dati biografici

30-3-1865 nasce a Casalora di Ravadese (PR).
1872-1876 frequenta le elementari a Parma.
1876-1881 entra in seminario; legge una biografia di Francesco Saverio, che diventa suo l’ideale e darà il mome ai suoi missionari, detti appunto «saveriani».
1888 è ordinato sacerdote.
3-12-1895 inaugura il «Seminario emiliano per le missioni estere», riconosciuto, 3 anni dopo, come «Congregazione di S. Francesco Saverio per le missioni estere».
3-3-1899 saluta i primi saveriani partenti per la Cina.
1902 viene ordinato vescovo di Ravenna, ma dopo due anni rinuncia per motivi di salute.
1907 ristabilitosi, è nominato coadiutore del vescovo di Parma, con diritto di successione.
1912 consacra mons. Luigi Calza 1° vescovo saveriano e vicario apostolico di Chengchow (Cina).
1921 approvazione definitiva delle Costituzioni.
1928 settembre-dicembre: visita i missionari in Cina.
5-11-1931 muore a Parma.
17-3-1996 è proclamato beato.
23-10-2011 canonizzazione.

Ettore Fasolini




Tutto il potere ai malesi

Un paese lontano dalle cronache

L’etnia malese, maggioritaria e di fede musulmana, vuole continuare a guidare il paese asiatico senza interpellare le ampie minoranze indiane, cinesi e tribali. Ma una parte della società civile non sembra più disposta ad accettare la situazione e chiede più democrazia. Ed anche nel campo religioso i non-musulmani (in particolare, i cristiani) chiedono più libertà.

Due fattori, dibattito sull’identità religiosa e pluralismo politico, influenzano prepotentemente in questi mesi la vita della Malaysia, paese altrimenti caratterizzato da stabilità politica, sociale ed economica e di conseguenza da una scarsa presenza nelle cronache inteazionali.
Per lungo tempo alfiere di un islamismo laicista e moderato, sottoposto alla guida di personaggi forti ma insieme pragmatici, il paese è per conformazione geografica «ponte» tra Asia continentale e insulare, tra Asia meridionale e Estremo Oriente. Al centro, infine, di un’area che con l’eccezione del piccolo ma solido Singapore e del Brunei (che galleggia sul suo benessere garantito dal petrolio), vive profondi rivolgimenti e diverse ma ugualmente incerte vie verso il benessere.
Da anni la «restituzione del potere» ai malesi dopo i presunti privilegi goduti dalle altre etnie nel periodo coloniale e subito dopo l’indipendenza, si associa a concessioni all’identità islamica a volte denunciate come discriminatorie per le minoranze di origine tribale, indiana e cinese che raggruppano il maggior numero di cristiani. Le stesse minoranze che si oppongono con maggiore convinzione a un partito-stato (Umno, di cui diremo) che guida, con poche concessioni al dissenso, un paese federale di 28 milioni di abitanti al 53% di etnia malese e al 60% musulmani.

EQUILIBRI, COMPROMESSI, FRAGILITÀ
Con un reddito pro-capite nominale di quasi 7.000 dollari l’anno, i malaysiani vivono nella stragrande maggioranza al di sopra della soglia della povertà. Tuttavia esistono ampie disparità di reddito e di opportunità tra la parte continentale, ad esempio, e le vaste regioni di Sabah e Sarawak sulla grande isola del Boeo. Qui, in aree al centro di ampi interessi economici e di «frontiera» per chi si oppone alla deforestazione, agli abusi da parte delle grandi compagnie minerarie e all’inquinamento fluviale, si concentrano la maggior parte delle molte etnie tribali del paese (11 per cento della popolazione complessiva), come pure dei cristiani, in maggioranza protestanti. La presenza cinese (26 per cento) è equamente suddivisa nelle varie regioni, mentre quella indiana – erede di vecchie e nuove migrazioni e che assomma l’8 per cento dei malesi – si concentra nella regione peninsulare.
Già da questi dati appare chiaro come la stabilità del paese sia frutto di delicati equilibri e di alcuni compromessi sulle priorità, su cui predominano stabilità e sviluppo. Equilibri e compromessi che si ritrovano nell’organizzazione dello Stato e dei suoi poteri.
La Malaysia è una federazione di 13 Stati: Johore, Kedah, Kelantan, Malacca, Negri Sembilan, Pahang, Penang, Perak, Perlis, Sabah, Sarawak, Selangor e Trengganu, oltre all’area metropolitana della capitale Kuala Lumpur e all’isola di Labuan (quella di Emilio Salgari, leggere box) definite come «territori federali». Si tratta di una divisione amministrativa reale, dato che ciascuno Stato ha un proprio Parlamento con tanto di governo e primo ministro, in grado di legiferare su tutti gli aspetti non di competenza del Parlamento federale.
A complicare la situazione, c’è la nomina del capo dello Stato, che avviene ogni cinque anni a rotazione tra i sultani (che sono, ad un tempo, autorità politica e religiosa-islamica) di Johore, Kedah, Kelantan, Negri Sembilan, Pahang, Perak, Perlis, Selangor e Trengganu. I poteri del sultano non sono dissimili dal quelli di una monarchia costituzionale, sottoposti di fatto al governo in carica.
Il Parlamento che esprime l’esecutivo e insieme ne controlla le funzioni, è composto di due camere: un Senato eletto ogni sei anni che nella composizione mostra pienamente i delicati equilibri del paese; una Camera dei deputati di 192 membri eletti a suffragio universale ogni cinque anni.
Nei fatti, poi, la politica reale dipende da alleanze di gruppi e individui con legami territoriali, di clan, di interessi o di fede, che la politica parlamentare rappresenta solo fino a un certo punto. Ancor più sotto un sistema dominato per oltre quarant’anni da una coalizione, Barisan Nasional, con al centro un partito – Umno (United Malays National Organization) – che esprime in particolare gli interessi della componente malese e musulmana.

SHARIA (IN SALSA BRITANNICA)
Raggiunta l’indipendenza dalla colonizzazione britannica il 31 agosto 1957, il paese ha mantenuto una forte impronta anglosassone per quanto riguarda il sistema giudiziario – ma con uno spazio sempre maggiore all’uso delle consuetudini locali e, soprattutto della Sharia, la legge coranica -, burocrazia, gestione dei servizi pubblici. Al processo, sempre più profondo, di recupero dell’identità malese si associa quella del recupero dell’identità islamica maggioritaria per questa etnia. Questo sta aprendo incognite sull’eguaglianza scritta nelle leggi.
I particolarismi, tenuti sotto controllo con la forza o con la convinzione sono d’altronde nel Dna di questo paese, nato nel 1963 a sei anni dall’indipendenza, con la libera adesione di 11 Stati (tutti ex colonie britanniche), alcuni territori del Boeo (che precedentemente avevano prima cercato la via dell’autodeterminazione) e Singapore (dove vigeva, dal 1959, una forma di autogoverno). Una situazione difficile, da cui si sganciò prima il Brunei, nel 1962, poi Singapore nel 1965, in contrasto sul ruolo che la consistente comunità cinese avrebbe avuto in un paese che i leader stavano avviando verso un’identità soprattutto malese. L’insurrezione armata comunista, il confronto duro con l’Indonesia di Sukao fino al 1966 e le dispute territoriali con le Filippine per il Sabah fino al 1968, furono ulteriori minacce alla stabilità della neonata federazione che negli anni successivi si dovette confrontare con la rivolta dell’etnia cinese e con il tentativo di secessione delle regioni insulari. Lo stato d’emergenza con cui «Tunku» Abdul Razak cercò di gestire la situazione fu una pagina nera della storia  del paese, che mantenne però una sua sostanziale unità, rinsaldata dalle elezioni del 1974.
Sotto la guida dell’Umno, raramente contestata con qualche possibilità di successo dalle opposizioni (a loro volta assai divise quanto a programmi, definizione etnica e di fede), il paese si avviò a una più concreta identità malese, alzando considerevolmente (da 4 al 30 per cento) la quota delle imprese in mani malesi e applicando un sistema di quote garantite nelle università e negli impieghi pubblici ai bumiputra («figli della terra», ovvero i cittadini di origine malese e rurale).
Per evitare ulteriori tensioni – mentre nel Boeo già crescevano i contrasti tra cristiani e musulmani, i cinesi vivevano con sempre maggior disagio l’erosione del loro controllo su risorse ed economia e gli indiani una discriminazione percepita come crescente – fu giocoforza puntare verso un benessere che fosse concreto e anche condiviso. Non senza ostacoli. La ripresa della guerriglia comunista nella parte peninsulare, sostenuta soprattutto dall’etnia cinese, portò al deterioramento di rapporti con Pechino e per anni pesò sulla coscienza nazionale e sui diritti garantiti alla popolazione. Poche simpatie riscosse anche il sostanziale rifiuto di Kuala Lumpur di accogliere i boat-people vietnamiti, e ancor meno, in anni recenti, la crescita di un islamismo politico che tenta di ritagliarsi un ruolo parlamentare con il fine di ridefinire l’identità religiosa del paese.
 
IL GOVERNO E L’EGEMONIA CONTESTATA
Per la sua storia e per la sua identità, la Malaysia d’oggi è dunque una realtà complessa, che segue in ugual modo logiche consolidate e nuove vie.
La politica ha sempre visto una molteplicità di attori, un elemento coesivo (Barisan Nasional) e una leadership forte, in qualche modo autocratica, almeno fino all’uscita di scena di Mahathir Muhammad nel 2003 dopo 22 anni di premierato.
Con alcuni episodi che hanno segnalato insieme una difficoltà del partito di governo e, per contrasto, un ruolo più attivo dell’opposizione. Ad esempio, le elezioni del 1999, viste come un referendum pro o contro la politica di Mahathir, risultarono sorprendenti per la forte crescita del «Fronte Alteativo», che – sotto la presidenza del musulmano Fazil Noor – raddoppiò la presenza parlamentare, diventando maggioritario in due Stati. Una consultazione seguita da un’ondata di arresti di esponenti antigovernativi e ulteriori azioni legali verso il leader riconosciuto dell’opposizione, Anwar Ibrahim, già sotto processo per l’accusa di sodomia da lui sempre respinta e definita «politicamente motivata». Le grandi manifestazioni del 2007 anticiparono l’accesa contesa elettorale del marzo 2008 che mise alle corde l’Umno, che a stento mantenne la maggioranza parlamentare.
Una situazione che va ripresentandosi in questi mesi in vista del voto del 2013.
I manifestanti che, in una capitale in stato d’assedio, sono scesi in piazza il 9 e 10 luglio 2011 per chiedere libere elezioni sono stati affrontati con particolare durezza. Il movimento «Bersih», che associa un gran numero di organizzazioni della società civile ha deciso di sfidare apertamente il premier Najib Razak. Contro le migliaia di dimostranti (50.000 secondo gli organizzatori) che gridavano «riforma» e «potere al popolo» gli agenti in tenuta antisommossa hanno sparato gas lacrimogeni e usato gli idranti. Per sciogliere quello che è stato definito «un assembramento illegale», la polizia ha fermato 1.500 persone, poi rilasciate.
Il timore che la legge elettorale attuale favorisca il partito di governo sta portando alla convergenza tra l’insoddisfazione della politica, le richieste della società civile e le esigenze delle minoranze. In un paese aperto a investimenti e turismo, attento alla propria identità e all’ambiente, si pone oggi la scelta tra modeità e tradizione, tra dirigismo e scelte individuali, tra islamizzazione della vita pubblica e libertà di fede.

NEL NOME DI ALLAH
Alcuni eventi recenti hanno spinto la Conferenza episcopale cattolica malaysiana a iniziative, proprie o congiunte con altre comunità non musulmane, per chiedere che sia salvaguardata la libertà religiosa. L’indicazione della fede d’appartenenza nei documenti d’identità e l’estrema difficoltà a cambiarla – anche nel caso (raro) di conversione dall’Islam ad altra religione – è un elemento di discordia, come pure la generalizzata applicazione del funerale islamico su tutti i cittadini.
La sentenza della Corte suprema che il 31 dicembre 2009 aveva ritenuto legittimo l’uso del vocabolo «Allah» per indicare Dio nell’edizione in lingua malese del quotidiano cattolico The Herald non ha chiuso un confronto su questo tema che ha dato vita a iniziative violente degli estremisti musulmani, che nei mesi successivi e fino ad ora hanno trovato altri focolai. È vero che le azioni ostili contro i luoghi di culto cristiani sembrano più atti isolati di singoli fanatici piuttosto che espressioni di una strategia. Tuttavia, la loro frequenza e l’impunità degli attentatori inquietano gli stessi musulmani moderati.
Secondo il censimento del 2000, i cristiani di diverse confessioni in Malaysia sono il 9,1% della popolazione e tra essi i cattolici sono circa 750mila.
Molti nel Paese sono coscienti che a rischio non è solo l’integrità dei luoghi di culto, ma anche un ideale di convivenza che da tempo è sottoposto a forti pressioni e per questo l’avvio di normali relazioni diplomatiche tra Federazione malese e Santa Sede ha aperto nuove prospettive.
L’incontro del 18 luglio in Vaticano tra Benedetto XVI e il primo ministro malese Najib Razak potrà facilitare, secondo l’arcivescovo di Kuala Lumpur mons. Murphy Pakiam, «la creazione di un Consiglio interreligioso, la nascita di un ministero per i non-musulmani, un diverso atteggiamento nei confronti delle scuole cattoliche che sono state gradualmente nazionalizzate e su cui ora il governo ha il completo controllo».

di Stefano Vecchia

Stefano Vecchia




Brasile. Pallottole spuntate?


Oltre undici milioni di brasiliani vivono nelle favelas. Una parte di esse sono territori dominati da banditi e narcotrafficanti, in cui la pacificazione è un’impresa difficile. Ne abbiamo visitate alcune a Rio de Janeiro, la città che nell’agosto del 2016 ospiterà i giochi olimpici.

Rio de Janeiro. Al primo impatto la sensazione è di incredulità. Il verde tropicale della foresta Tijuca fa da sfondo alle centinaia di case che si arrampicano sui ripidi pendii delle colline, si accavallano e incastrano l’una nell’altra. Il quadro che ne risulta è un caotico insieme di linee e colori che si inseguono a perdita d’occhio. Il Morro do Borel è una delle centinaia di favelas di Rio de Janeiro. Si stima che ci vivano oltre 20 mila persone e a questo, come agli altri quartieri della zona Nord della città, anche il gigantesco Cristo Redentore volta le spalle, rivolgendo lo sguardo verso i ricchi quartieri di Copacabana e del centro città. Dire con precisione quanta gente abiti in queste baraccopoli non è certo impresa semplice visto che alcune risultano tutt’oggi inaccessibili. Alcune si sono espanse così rapidamente da inglobae di minori e divenendo delle vere e proprie città nella città: è il caso del Complexo do Alemão, una delle favelas più grandi dell’intera America Latina. Solo in questa comunidade, così la chiamano i suoi abitanti, si calcola possano vivere oltre quattrocento mila persone, numeri impressionanti se si pensa che in tutto il Brasile si stima siano oltre undici milioni le persone che vivono in queste condizioni, pari al 6% dell’intera popolazione (Ibge 2013 su dati 2010).

Da sempre viste nell’immaginario collettivo come luoghi da cui stare alla larga per via dei pericoli legati ai trafficanti di droga, le favelas sono caratterizzate da storie, sofferenze e problemi assai diversi le une delle altre. Ad oggi la prima grande differenziazione tra questi quartieri è la presenza o meno delle Upp (Unidade de polícia pacificadora, Unità di polizia pacificatrice, sito web: www.upprj.com), un corpo speciale della Polizia militare che in questi anni, in vista degli appuntamenti inteazionali dei Campionati Mondiali di calcio (2014) e dei prossimi Giochi Olimpici (agosto 2016), ha iniziato un percorso di bonifica dal narcotraffico, cercando di mitigare la guerra per il controllo della droga. Ad esempio il Morro do Borel fino a qualche anno fa era considerato una delle favelas più pericolose di tutta la metropoli brasiliana, dal momento che la collina su cui sorge era contesa da due comandi differenti che, nel tentativo di prevalere l’uno sull’altro, erano soliti fronteggiarsi in violenti conflitti a fuoco dove il più delle volte a rimetterci la vita erano gli abitanti stessi del quartiere. Oggi invece camminiamo tranquillamente per le ripide strade della favela senza alcun timore e dove una volta sorgeva la «boca do fumo», la via adibita alla vendita e al consumo degli stupefacenti, troviamo decine di negozi e baretti affollati da cui viene diffuso a tutto volume il tradizionale funky carioca.

Narcotrafficanti

Ma sono ancora molte le comunidade che aspettano l’intervento dello stato per ripulire le loro strade da banditi e trafficanti, una di queste è la favela di Acarí all’estrema periferia Nord della città. Ci entriamo accompagnati da Marcelo, una sorta di istituzione della comunità in quanto allenatore della squadra di calcio giovanile che, proprio per il suo impegno con i giovani del quartiere, si è guadagnato il rispetto degli stessi trafficanti avendo in gioventù allenato molti di loro che in seguito hanno abbandonato gli scarpini per darsi ad attività illecite. Tutte le vie d’accesso alla favela sono presidiate da gruppi che, armi in pugno, controllano chi entra e chi esce. Naturalmente l’ingresso di uno straniero non passa inosservato e solo grazie all’intervento di Marcelo il nostro giro nella comunità può proseguire. I muri delle case sono vergati con le sigle del comando che controlla la zona e uomini armati a bordo di grosse moto fanno i corrieri rifoendo i clienti che si fermano all’entrata della favela. Marcelo ci accompagna nella casa di una giovane donna i cui due figli sono rimasti gravemente feriti alle gambe dallo scoppio di una granata. È all’ordine del giorno, nelle guerre dei trafficanti per il controllo dei territori, il coinvolgimento di giovani e bambini che si trovano per strada a giocare. All’ospedale di Rio de Janeiro i medici dopo aver visitato i due ragazzi, hanno tracciato un quadro clinico piuttosto preoccupante, ma le liste per le operazioni raggiungo i sei mesi d’attesa. Ad oggi nella favela di Acarí duecento malviventi tengono in ostaggio le vite di oltre quarantamila onesti abitanti del quartiere, palesando agli occhi di tutti la grande voragine lasciata da uno stato che, oltre a non riuscire a dare un’assistenza dignitosa ai suoi cittadini, troppo spesso non riesce a porre la legalità come alternativa per i giovani che vedono nel traffico di droga un facile modo per guadagnare fama, soldi, rispetto e naturalmente potere. E da lavorare lo stato ne avrebbe anche in quelle favelas pacificate dove la convivenza tra abitanti e agenti della Upp è spesso messa a rischio da incresciosi abusi di potere da parte delle forze dell’ordine che portano a violente reazioni della popolazione.

Pallottole vaganti

A parlarcene è Miramar, il responsabile della comunità cattolica del Morro do Borel, conosciuto in tutto il quartiere perché voce di «Radio Grande Tijuca» (sito web: rgt105fm.tk), l’emittente radiofonica che trasmette ormai da dodici anni dalla favela. Quando lo incontriamo all’interno degli studi della radio ci spiega come è cambiata la vita dopo la pacificazione, ci racconta ad esempio di quando le vie della comunità, affollate di persone che rientravano a casa da lavoro e da scuola, erano il luogo della quotidiana guerra tra trafficanti. Chi era per strada quindi doveva correre a ripararsi aspettando, anche fino a tardi, che il fuoco cessasse. «Non eravamo padroni delle nostre vite e dei nostri spazi, ma oggi fortunatamente tutto questo è cambiato e, da tempo, le armi dei trafficanti hanno smesso di sparare», racconta Miramar che poi aggiunge, «Il rapporto con la Polizia pacificatrice è però allo stesso tempo molto complicato: gli agenti della Upp che sono di stanza nella nostra comunità non ruotano mai con gli uomini dei commissariati delle altre favelas. Questo permette una più facile integrazione con gli abitanti del quartiere, però facilita anche la corruzione, per cui i trafficanti riescono ad avere mani libere in cambio di tangenti alle forze dell’ordine. Così, mentre i grandi criminali restano impuniti e continuano ad arricchirsi, la polizia conduce violente operazioni anti droga contro piccoli spacciatori che, nei tentativi di fuga, vengono spesso uccisi dal fuoco degli agenti. Capita anche che a finirci in mezzo siano i nostri ragazzi i quali, vittime di un dilagante razzismo, solo perché neri vengono identificati come spacciatori e coinvolti in violenti conflitti. Insomma ancora oggi i nostri figli non sono liberi di crescere e giocare per strada senza il rischio che un proiettile vagante possa colpirli». Miramar e il gruppo della comunità cattolica da anni sono impegnati in prima linea per cercare una mediazione nella difficile convivenza tra abitanti e agenti di polizia. In più, dal momento che il prete vive distante dalla comunità e raggiunge la piccola chiesa della favela solo la domenica mattina per celebrare messa, i fedeli si sono organizzati autonomamente creando una rete di aiuto e solidarietà che gira attorno alla radio di Miramar.

Spazzatura e amianto

I temi su cui lavorano sono svariati, ma tutti convergono sui principali problemi quotidiani che la gente deve affrontare, uno fra tutti quello dei rifiuti. Più che un problema quello della spazzatura è una vera e propria piaga che infesta le strade propagando per tutta la comunità un terribile fetore. Per di più i grossi cumuli di immondizia sono il terreno ideale di proliferazione di ratti e malattie. Le aree di raccolta rifiuti sono poche e male attrezzate, quindi, riversando la spazzatura per strada, si finisce inevitabilmente per intasare il già precario sistema fognario. A quel punto il primo giorno di pioggia le strade diventano dei veri e propri torrenti di liquami e acque nere che corrono rapidi giù per la collina finendo nei fiumi e contaminandone le acque. Miramar da tempo conduce alla radio un programma di sensibilizzazione sull’argomento: «Per risolvere il problema bisogna lavorare su un doppio binario, da un lato chiediamo a prefettura e comune di intervenire ampliando le aree di raccolta rifiuti e intensificando lo smaltimento, da un altro puntiamo soprattutto sulla sensibilizzazione dei nostri concittadini, spiegando loro quanto siano dannose alla salute le discariche abusive, e provando a introdurre il concetto di differenziazione dei rifiuti e riclico». Miramar prosegue raccontandoci di come, attraverso il programma, si mettano all’erta gli abitanti della comunità anche dai rischi legati all’esposizione all’amianto, un materiale che per via dei suoi costi estremamente bassi è largamente usato nelle coperture dei tetti e nelle cistee per l’acqua.

Nelle parole e negli occhi di Miramar, Detinha, Ruth e di tutti i membri della comunità cattolica, riusciamo a leggere la grande delusione e la rabbia di chi si sente completamente abbandonato da una società che li costringe alla ghettizzazione.

Abusi tra le mura domestiche

I pochi e sudati progressi nascono dalla cooperazione tra gli abitanti della comunità, tra questi anche i fedeli delle numerose comunità evangeliche, come Kennedy, uno dei tanti ragazzi che gestiscono il centro culturale Jocum. «Solo nella nostra favela ci sono oltre ventimila abitanti e non c’è nemmeno un presidio medico. Abbiamo sparso la voce chiedendo aiuto alle altre comunità, c’è stata una grande mobilitazione e così si è creata una rete di medici volontari che offrono la loro assistenza a tutti coloro che ne hanno necessità. Inoltre ogni sabato possiamo contare sulla preziosa presenza di uno psicologo». Proprio un supporto psicologico è quello che chiedono le molte donne vittime di abusi sessuali, una piaga sociale che colpisce anche giovani e giovanissime ragazze. Monica, maestra di un asilo della comunità e madre di tre figlie, ci racconta la sua drammatica esperienza di aver scoperto che suo padre aveva abusato diverse volte di una delle sue bimbe che in seguito aveva tentato il suicidio. «La vera angoscia incomincia quando ti rendi conto di essere impotente difronte a questi eventi, da un lato il tradimento da parte di un genitore, dall’altro la sofferenza di tua figlia, e tu nel mezzo non puoi contare su nessun aiuto, se non quello della tua comunità». Come Monica e sua figlia sono moltissime le donne vittime di queste situazioni, tanto che in alcune aree del Nord del paese i casi di violenze e stupri coinvolgono il 60% della popolazione femminile e quasi tutti avvengono all’interno delle mura domestiche.

Senza giustizia

Il teologo don Mario Antonelli, che per anni ha lavorato in?Brasile, ci mette a conoscenza di un aspetto ancora più inquietante di questo dramma femminile: «Capita spesso che durante la prima confessione le bambine raccontino degli abusi subiti come se si trattasse di una loro colpa, di un loro peccato. La totale diseducazione alla sessualità in una società dal radicato maschilismo è un vero e proprio cancro per questo paese».

Negli anni in cui i trafficanti controllavano la favela, questi reati contro donne e bambine erano puniti in maniere brutali in modo che le punizioni fossero di esempio per tutti. Naturalmente i trafficanti non erano spinti da un senso di compassione e umanità, quanto dall’esigenza di dimostrare che, all’interno della favela, solo loro erano padroni di ciascuna vita. Purtroppo oggi quelle punizioni esemplari rischiano di essere ricordate da molte famiglie come l’atto di una giustizia che lo stato invece non sa garantire.

Stefano Bertolino*

* Stefano Bertolino è fotografo e videomaker. Con due colleghi ha girato un documentario sui mondiali di calcio in Brasile (2014). A settembre è stato a Cuba per seguire la riapertura dei rapporti con gli Usa e il viaggio di papa Francesco.

Stefano Bertolino




El Salvador: L’avvocata deve morire


Il 14 marzo del 1983, tre anni dopo l’uccisione di monsignor Romero, viene
assassinata Marianella García Villas, avvocata e presidente della Commissione per i diritti umani. Aveva 34 anni. Un’associazione italiana si è recata in Salvador in cerca della sua tomba.

Tra le migliaia di martiri e vittime della repressione, in El Salvador la figura di Marianella García Villas, assassinata il 14 marzo 1983, è ben nota tra coloro che hanno partecipato alla lotta contro la dittatura militare tra il 1980 e il 1992. Marianella venne diverse volte in Italia a chiedere solidarietà per il proprio popolo. E un mese dopo la sua morte fu ricordata a Roma in Campidoglio alla presenza del presidente della Repubblica Sandro Pertini e della presidente della Camera Nilde Jotti.

Tuttavia su di lei non vi è, nel piccolo paese centroamericano, alcuna pubblicazione significativa, se non qualche testo in libri o riviste. Marianella non era una leader politica o una esponente sindacale o religiosa. Era una giovane donna che già da studentessa universitaria aveva capito da che parte stare: accanto al proprio popolo oppresso da una feroce dittatura militare.

E poi nessuno sapeva dove fosse la sua tomba. Solamente nello scorso mese di agosto, grazie all’interessamento e alla cocciutaggine di Enza D’Agosto, presidente dell’associazione «Marianella García Villas» di Sommariva del Bosco (Cuneo), una realtà da dieci anni impegnata in progetti di solidarietà con El Salvador, la tomba è stata ritrovata: si trova nel Cementerio de los illustres a San Salvador. Questo è il diario del viaggio verso la sua tomba.

Al cimitero di San Salvador

Venerdì 14 agosto assieme a Enza mi avvio verso il Cementerio de los illustres a San Salvador. Siamo accompagnati da Mia Perla, già magistrato della Corte suprema di Giustizia e vedova di Herbert Sanabria, cornordinatore della Commissione diritti umani (la stessa di cui fu presidente Marianella), assassinato dai militari il 26 ottobre 1987; da Guadalupe Mejía, responsabile del Codefam «Marianella García Villas», una realtà che si interessa di memoria storica (in particolare di vittime della violenza), e vedova di Justo Mejía, torturato e assassinato dai militari; da Miriam Medrano, autrice di un volume su Lil Milagro, una cara amica di Marianella che però, a differenza sua, scelse la strada della lotta armata contro la dittatura, pagando con la vita; e da un avvocato che conobbe Marianella. La tomba è nel settore delle vittime illustri, in una cappella che sopra l’ingresso riporta la scritta «Beneficencia Spagnola». La cappella era chiusa a chiave ed è stato necessario rivolgersi, i giorni precedenti, all’Ambasciata spagnola e al Centro spagnolo perché ci venissero ad aprire. Il custode del cimitero, incaricato dal 1990, ci conferma che in tutti questi anni mai nessuno ha chiesto di vedere la tomba di Marianella. Si scende nella cappella e a destra, in fondo, quella di Marianella è la tomba più in alto. Sulla lapide è scritto:

Marianella García Villas / 14 marzo 1983 / Recuerdo de su familia / En Dios cuya promesa ensalzo./ En Dios confio no temere. ¿Que puede hacerme el hombre? (Salmo 55, 11-12).

Marianella fu sepolta lì perché il padre era spagnolo. Si tratta di una cappella chiusa da una porta in ferro e anche da una più ampia cancellata con l’ingresso sempre chiuso a chiave. Per tutti, in particolare per gli amici salvadoregni che ci accompagnano e che hanno conosciuto Marianella, è una grandissima emozione.

La tomba dimenticata

Al funerale di Marianella, nel marzo 1983, parteciparono solamente tre familiari e alcuni giornalisti, tra cui una giovane Lucia Annunziata (nota giornalista italiana, ndr): il clima di terrore instaurato dai militari impedì la partecipazione degli altri familiari e di quanti condividevano con Marianella la lotta per i diritti umani e la pace. Poi i familiari più stretti ripararono all’estero e non fecero più ritorno nel paese poiché nel mirino dei militari. Oggi fuori dal Salvador vi sono probabilmente ancora fratelli o sorelle di Marianella, ma ogni ricerca è stata finora vana. Con il passare del tempo ci si dimenticò di Marianella e nel clima di terrore creato dal regime nessuno si mise a fare domande in merito al luogo in cui era stata seppellita.

Dopo l’omaggio alla tomba di Marianella, su cui abbiamo posto un fiore, Mia Perla ci porta a visitare la tomba di suo marito, Herbert Sanabria, in un altro settore dello stesso cimitero. Sulla tomba sono scritte queste parole:

La agonia de non trabajar por la justicia / es mas fuerte que la posibilidad cierta de mi muerte, esta ultima no es mas que un istante, / lo otro constituye la totalidad de mi vida.

Poco distante troviamo anche la tomba monumentale del maggiore Roberto D’Aubuisson, il mandante dell’assassinio di mons. Romero, uno dei capi degli squadroni della morte, poi tra i fondatori del partito politico di estrema destra «Arena», ancora oggi secondo partito in Salvador. Sulla tomba di D’Aubuisson è scritto: Roberto D’Aubuisson Arrieta / Presente por la patria.

Mai nessun processo venne fatto a D’Aubuisson, che morì nel proprio letto ed ebbe funerali cattolici, dopo essere stato anche presidente de l’Asamblea legislativa (il Parlamento).

A Bermuda, il villaggio del massacro

Con un taxi de confianza (di fiducia) raggiungiamo la parrocchia di Asunción, a Paleca, poco distante da San Salvador. Da qui con suor Ave, e con Nelson, un parrocchiano gentilissimo che ci fa da autista, partiamo in direzione Aguilares, il paese di cui fu parroco il gesuita padre Rutilio Grande, assassinato il 12 marzo 1977 assieme a un ragazzo e a un contadino che lo stavano accompagnando in un paese vicino per celebrare la messa. L’assassinio di Rutilio fu l’elemento che spinse mons. Romero a interrogarsi a fondo su ciò che stava avvenendo nel suo paese. Da quel momento in poi mons. Romero divenne la voce del suo popolo.

Da San Salvador a Aguilares sono quasi 50 km, su strada comoda a tre corsie, senza il traffico incredibile della capitale. Superato Aguilares, dove la piazza centrale davanti all’alcaldía (municipio) è dedicata a padre Rutilio e dove si vedono diversi murales con le figure del gesuita e di mons. Romero, ci dirigiamo verso Al Paisnal, paese di nascita di padre Rutilio. Sulla strada ci fermiamo nel punto in cui una cappella ricorda il luogo dove fu assassinato padre Rutilio con i suoi due accompagnatori: il sedicenne Nelson Lesmus e il campesino Manuel Solorzano. È un momento di grande commozione per tutti. Ad Al Paisnal, un piccolo ma ordinato paese, un grande murales raffigura Rutilio e mons. Romero e davanti al murale anche due statue che li rappresentano. Per le strade del paese e davanti all’alcaldía numerosi manifesti ricordano il 98° anniversario della nascita di mons. Romero e quello di padre Rutilio. Nella piccola chiesa, immagini dei due martiri. E, soprattutto, ai piedi dell’altare le tre tombe, di Rutilio Grande, Manuel Solorzano, Nelson Lesmus. Un animatore della parrocchia, nel presentarci il tutto, ci esprime il grande desiderio che, se padre Rutilio verrà beatificato (è ufficialmente iniziato il processo), la cerimonia avvenga qui, a Al Paisnal.

Non siamo lontani dal luogo in cui Marianella è stata arrestata il 13 marzo 1983, per cui ci siamo diretti verso il paese di Suchitoto (Dipartimento di Cuscatlán), ricco di esempi di architettura coloniale, una meta turistica in El Salvador. Qui chiediamo della località La Bermuda e, con non poche difficoltà, troviamo la strada: non più a tre corsie, la strada a un certo punto si addentra nella boscaglia diventando sterrata. Chiedendo indicazioni a quanti incontriamo, arriviamo a una semplice casa (per noi sarebbe una baracca), con un cartello davanti su cui a stento si legge «Hacienda Bermuda». La signora che vi abita, con nostra grande sorpresa, ci racconta tutto del massacro. Poi ci accompagna in visita al lugar de mártires (luogo di martiri). Solo un pannello ricorda che lì avvenne un massacro: Antiqua hacienda La Bermuda./ Tierra de lucha y de esperanza.

Il testo racconta che, a La Bermuda, il 13 marzo 1983 fu catturata Marianella García Villas. Fu trasportata in una scuola militare a San Salvador, brutalmente torturata e infine assassinata il giorno successivo, 14 marzo. Nell’operazione militare che portò alla cattura di Marianella furono uccisi una ventina di campesinos. La signora che abita lì vicino e ci fa da guida, ci indica nella boscaglia il luogo in cui avvenne l’assalto dei militari e dove sono ancora sepolti, in una sorta di fossa comune, i campesinos assassinati. Nessun segno a ricordare il fatto. La signora ci dice che lei e altri da tempo stanno chiedendo che i corpi siano riesumati e sepolti con dignità e che sia posto qualcosa di più significativo a memoria del massacro. Tutti gli anni, il 14 marzo, varie persone si riuniscono in questo luogo a commemorare Marianella e gli altri caduti.

La Comunità «Marianella García Villas»

Proseguiamo sulla strada sterrata nel bosco, ricco di cafetales (piante di caffè), alla ricerca di una comunità che ci dicono essere poco più avanti. Dopo poche centinaia di metri troviamo uno spiazzo e una semplice chiesetta. Siamo arrivati nella comunità che porta il nome di Marianella García Villas. Su un muro che dà sulla piazzetta un grande murale raffigura Marianella e una targa ricorda il suo sacrificio.

Nella chiesetta si sta preparando una cerimonia religiosa: è la festa del maís, una festa di ringraziamento. Non c’è il sacerdote, poiché viene solo per la messa la domenica mattina. Fanno tutto i laici: una donna spiega il significato della festa, un uomo legge e commenta le letture, alcuni intervengono poi a offrire la loro riflessione. Al termine della celebrazione ai presenti vengono offerti atol, una bevanda a base di maís, e pannocchie di maís cotte. Veramente una cerimonia segno di una chiesa viva e piena di dignità.

Un membro del direttivo della comunità ci spiega che complessivamente sono una sessantina le famiglie che ne fanno parte e che lì vivono, per lo più in modeste baracche, o semplici casupole, sparse nella boscaglia. C’è anche una radio parrocchiale, «Radio Positiva», che così è presentata in uno striscione appeso davanti alla sede: La voz del más humilde / de los salvadoreños y salvadoreñas / tiene derecho de informar, /de opinar y de ser escuchada.

Il ritorno a San Salvador è pieno di gioia per tutto quanto visto e incontrato. Tuttavia, il giorno dopo suor Ave ci telefona per ringraziarci della giornata e, con grande tristezza, ci fa sapere che davanti alla chiesa della sua parrocchia di Asunción, dove siamo stati due volte, la sera era stato ucciso un ragazzo mentre stava giocando a pallone in strada. È la violenza comune il grande problema del Salvador di oggi.

Anselmo Palini

L’autore – Anselmo Palini, docente di materie letterarie, con l’Editrice Ave ha pubblicato, tra l’altro, Oscar Romero. Ho udito il grido del mio popolo (Roma 2010) e Marianella García Villas. Avvocata dei poveri, difensore degli oppressi, voce dei perseguitati e degli scomparsi (Roma 2014). La cronaca dettagliata del suo recente viaggio in Salvador è reperibile sul suo sito web:

www.anselmopalini.it.

In archivio: Anselmo Palini, San Romero de las Americas, Missioni Consolata, maggio 2015, pag. 32-34.

Anselmo Palini




Boom economico, diritti in crisi


Il secondo paese d’Africa per abitanti vive una crescita economica tra le più alte al mondo. Ma il livello di vita nelle campagne resta molto basso. Le elezioni di maggio hanno confermato il partito al potere. E sui diritti la strada da percorrere resta lunga.

Arba Minch. Sono le quattro e trenta del mattino. Improvvisamente una voce irrompe nel silenzio totale. È un suono amplificato, un uomo canta una nenia, forse una preghiera. Difficile stabilire se si tratta di una lingua o di un semplice suono vocale.

È ancora buio quando il sacerdote ortodosso della chiesa St. Gabriel porta il microfono alla bocca e inizia la sua cantilena. Non smetterà, se non per piccole pause, fino alle tre del pomeriggio. Sono preghiere nell’antica lingua geez, che per l’amharico, lingua nazionale, corrisponde a quello che è il latino per l’italiano. È la festa di Yefilseta Tsom (il digiuno di Maria), dedicata alla Madonna. Dura sedici giorni ad agosto, durante i quali i fedeli sono chiamati a pregare al mattino presto e a digiunare fino al pomeriggio.

Siamo ad Arba Minch, a 450 km a Sud di Addis Abeba. Città di circa 110.000 abitanti e un elevato tasso di crescita di 4,5% annuo, che, a prima vista, sembra non avere nulla di speciale. Si divide in città bassa Sikela e città alta Shecha. Qui i quartieri si inerpicano sulla montagna. All’improvviso però la salita finisce e ci si ritrova su una rara balconata naturale che offre uno spettacolo splendido. La foresta tropicale ai propri piedi, di fronte la montagna chiamata Ponte di Dio che divide il lago Chamo dal lago Abaya, distesa d’acqua di 1162 km quadrati (oltre tre volte il lago di Garda), dalla quale spuntano isolette coperte di vegetazione. La città si adagia su questa falesia, ai piedi della quale l’acqua filtrata dalla montagna origina decine di sorgenti. Da qui il nome, Arba Minch, che in amharico significa «quaranta sorgenti».

Siamo nel bel mezzo della famosa  Rift Valley, la larga «vallata» che si estende dalla Siria al Mozambico, e segna la separazione naturale tra la placca africana e quella araba. In particolare, in Etiopia, separa l’altopiano etiopico da quello somalo.

Un paese «emergente»

In Etiopia vivono circa 96,5 milioni di persone di 80 etnie (cfr. MC aprile 2011), il che lo rende il secondo stato più popoloso dell’Africa, dopo la Nigeria. È anche una delle economie di punta del continente (e del mondo) con un Pil in crescita media del 10% negli ultimi 10 anni. Ha però la contraddizione di avere uno dei Pil pro capite più bassi (tra gli ultimi nove, poco superiore a Congo Rd e Niger)1. È in atto un vero boom economico, legato in gran parte a uno sviluppo di tipo infrastrutturale: costruzione di case, palazzi, strade e ferrovie (la prima metropolitana leggera in Africa sub sahariana è quasi pronta ad Addis Abeba). Mentre nelle campagne, così come nelle remote zone di montagna, e nelle aree desertiche la povertà è ancora da sconfiggere e l’accesso ai servizi (sanità, educazione, acqua) è tutt’altro che garantito.

L’Etiopia vive ancora una dipendenza strutturale dagli aiuti estei. Si valuta che siano in media tre i miliardi di dollari che entrano ogni anno nel paese come aiuto allo sviluppo2.

Ad Arba Minch il panorama urbanistico è in rapida evoluzione. Vediamo diversi cantieri, alcuni molto appariscenti: un grosso ospedale, un impressionante centro congressi, diverse infrastrutture dell’università (la Arba Minch University è nota in tutto il paese e conta oltre 20.000 studenti universitari) e perfino una chiesa ortodossa. Tutti edifici che spiccano per le loro imponenti dimensioni.

Anche la capitale Addis Abeba vive un’esplosione urbanistica senza precedenti. Oltre ai grossi edifici pubblici, orribili condomini prendono il posto delle baracche dei quartieri poveri.

Notevoli sono anche le dighe in costruzione: da quelle sul fiume Omo (la Gilgel Gibe III e pianificate le IV e V), molto criticate a livello internazionale per il loro impatto ambientale, alla Grande diga etiopica della Rinascita. Questa è un colosso sul Nilo Azzurro che, con la centrale idroelettrica collegata, è previsto produrrà 6.000 Mw di elettricità, la maggiore di tutta l’Africa. Il costo è di oltre 4 miliardi di dollari e la realizzazione è affidata all’italiana Salini-Impregilo Spa.

In Etiopia anche il turismo è in espansione. Grazie alla sua storia millenaria, il paese offre importanti siti storici, culturali e religiosi ma anche naturalistici ed etnografici: città antichissime come Lalibela e Axum (Aksum), parchi naturali e popoli speciali. I visitatori sono passati da 460mila nel 2010 a 681mila nel 2013. Non a caso, anche grazie alla diplomazia, il Consiglio europeo per il turismo e il commercio3 ha scelto proprio l’Etiopia come «migliore destinazione turistica mondiale 2015».

Alteanza senza alternativa

La coalizione di partiti al potere, il Fronte rivoluzionario democratico del popolo etiopico (Eprdf, sigla inglese), si è confermato egemone alle elezioni del 24 maggio scorso. Costituita intorno dal Fronte di liberazione del popolo del Tigray, i guerriglieri che nel 1991 rovesciarono il regime militare di Meghistu Hailé Mariam (1974-91), è al potere da allora. Importante è stata la figura del carismatico primo ministro Meles Zenawi, morto di malattia nel 2012, e intorno al quale il regime ha sviluppato un vero culto della personalità. Tanto che a tre anni di distanza è ancora celebrata la data della sua scomparsa, gli sono consacrati passaggi televisivi foto che lo ritraggono restano appese in negozi e uffici.

Per sostituirlo, il partito (ma era stato lui a sceglierlo) ha designato Hailemariam Desalegn. Di etnia wolayta del Sud, si distingue dai tigrini, gruppo di Meles, che controllano il potere, e per questo, figura più defilata, ma anche di equilibrio tra i diversi popoli.

Se nel precedente parlamento, solo uno dei 546 seggi era andato all’opposizione, l’assemblea uscita dalle ue quest’anno è monocolore. Anche i parlamenti regionali vedono solo 21 membri dell’opposizione su un totale di 1987 eletti.

Gli osservatori dell’Unione Africana (Ua, che ha sede ad Addis Abeba) hanno qualificato le consultazioni come «calme, pacifiche e credibili», che «hanno dato la possibilità al popolo di esprimersi». Da notare che gli osservatori dell’Unione europea e del Carter Centre non sono stati invitati, mentre quelli della Ua erano 59 su una popolazione di elettori di oltre 30 milioni.

Taye Negussie, professore di sociologia all’Università di Addis Abeba ha commentato: «Questo risultato era totalmente atteso, non c’è multipartitismo in Etiopia».

«L’Eprdf vede le elezioni come un’opportunità per coinvolgere la popolazione in un atto di partecipazione politica, sebbene non competitiva» scrive Jason Mosley, analista dell’istituto indipendente di studi strategici Chataham House di Londra4.

L’opposizione è frammentata e molti leader sono in esilio volontario perché temono ritorsioni.

I principali partiti sono il Forum etiopico unito federale democratico, che non è riuscito a creare una piattaforma, Il partito blu (Semawayi) a maggioranza islamica e Unità per democrazia e giustizia. In effetti molti oppositori politici sono stati perseguitati e arbitrariamente arrestati, mentre la tortura è ancora molto utilizzata, come denunciano Human Rights Watch e Amnesty Inteational5.

Media sotto controllo

La situazione della stampa è anche peggiore. Il regime controlla tutto l’apparato mediatico, internet e l’unica compagnia telefonica ed è diventato particolarmente repressivo da inizio 2014, molto probabilmente in vista delle elezioni di maggio. Pochi sono i giornali indipendenti e hanno vita dura. Solo nel 2014 sono state sei le testate indipendenti fatte chiudere e 30 i giornalisti che hanno lasciato il paese per paura. Nell’aprile 2014 sono stati arrestati nove blogger del collettivo Free Zone 9 e altri tre giornalisti. Il potere utilizza la dura legge anti terrorismo varata nel 2009, accusando media privati e operatori dell’informazione di essere in connivenza con i terroristi.

Una settimana prima dell’arrivo di Barak Obama il 27 luglio (prima visita di sempre di un presidente Usa in carica nel paese) per la Conferenza internazionale finanza e sviluppo, due blogger e quattro giornalisti tra i quali il noto Reeyot Alemu sono stati liberati. Come per dare un contentino agli Usa, che avevano criticato ufficialmente la detenzione degli operatori dell’informazione.

Alemu critica Obama per aver detto, nel suo discorso, che il governo etiopico è stato democraticamente eletto: «Non è eletto democraticamente, perché c’erano solo media governativi e la gente non ha potuto avere abbastanza informazione. […] Hanno anche arrestato molti leader dell’opposizione e giornalisti. Hanno vinto le elezioni usando violazioni dei diritti umani».

Quello che osserviamo è una presenza forte dello stato in tutti i settori della società. I funzionari pubblici e gli eletti ai vari livelli, sono tenuti d’occhio e al minimo problema vengono trasferiti. L’effetto positivo è sicuramente una riduzione della corruzione, molto al di sotto di quanto si trova in altri paesi del continente. Anche la criminalità è mantenuta a livelli bassi, e si circola tranquillamente nelle grandi città dove la sicurezza personale non sembra in pericolo.

«La società civile è debole e comunque ha poco margine di manovra», ci confida un operatore umanitario.

Più che associazioni, qui ci sono le cornoperative create dallo stato allo scopo di migliorare la produzione, ad esempio le cornoperative agricole.

«Le organizzazioni internazionali – ci confida – non possono dire che si occupano di diritti umani. Qui è un argomento tabù».

Guardiano per il Corno

L’Etiopia è il paese chiave per la geopolitica del Corno d’Africa, perché funge da stabilizzatore, tra la Somalia degli al Shabaab (che intervengono anche in Kenya) e l’Eritrea del dittatore Isaias Afewerki, da cui la popolazione cerca di fuggire con ogni mezzo. È inoltre un paese a prevalenza cristiana (seppur ortodossa) che si contrappone alle islamiche Somalia e Gibuti e, in parte anche Eritrea, influenzate dalla vicina penisola arabica. Gli Usa e l’Europa vogliono quindi mantenere buone relazioni con il governo etiope e scommettono sulla sua stabilità.

Proprio ad Arba Minch la prima cosa che si vede appena atterrati al piccolo aeroporto è un hangar protetto e con doppia recinzione di filo spinato e blocchi di cemento. Talvolta, da una porta esce un militare bianco, in divisa mimetica. Nel recinto alcune grosse antenne paraboliche in colore sabbia. È la base Usa dei droni, velivoli telecomandati da combattimento. Partono da qui, pilotati dall’altro capo del mondo, per andare a bombardare gli al Shabaab in tutta l’area del Coo. Il contingente Usa, alcune decine di persone, è alloggiato al Paradise Lodge, uno dei migliori alberghi della città, sulla falesia. Hanno una zona tutta per loro, lontana da occhi indiscreti e protetta da guardie locali.

L’Etiopia è anche terreno di concorrenza tra gli occidentali e la Cina. Questa, oltre a essere il modello economico del governo etiopico, sta attuando da oltre un decennio cospicui investimenti nel paese.

Ad Addis Abeba si vedono numerosi cantieri finanziati da banche cinesi e realizzati da imprese cinesi. Come l’estensione dell’aeroporto della capitale o la nuova sede dell’Unione Africana, dono del governo cinese a quello etiope. Molte strade del paese sono state rifatte dai cinesi, altre sono in corso d’opera.

Le chiese

La chiesa cattolica di rito latino è un’esigua minoranza. Lo 0,7% secondo un censimento del 2008, mentre gli ortodossi sono il 45% e i protestanti il 17%. C’è poi circa il 35% di musulmani.

«Le relazioni tra le chiese ortodossa e cattolica a livello ufficiale sono buone» ci racconta fratel Domenico Brusa, missionario della Consolata, in Etiopia da 30 anni, che raggiungiamo telefonicamente. «A livello di sacerdoti pure, anche se una parte del clero è più conservatore. E anche tra la popolazione».

«La diversità di rito talvolta è problematica. Nel rito ortodosso ci sono oltre 100 giorni di digiuno all’anno. E lo deve fare tutto il popolo. In una società sempre più veloce diventa difficile da rispettare. Il rito orientale è bello, dialogato, partecipato, ma più adatto a una società senza orari». Fratel Domenico ha potuto assistere a grandi cambiamenti sociali: «Il paese sta cambiando rapidamente, anche perché prima era fermo. Oltre alle costruzioni, anche in campagna si diffondono le macchine e la coltivazione in serra. Grandi terreni vengono venduti (si riferisce al land grabbing, si veda MC maggio 2015, ndr). Anche la popolazione cambia». Per cui, ricorda fratel Domenico: «Il consumismo si espande e i giovani si orientano diversamente».

E suggerisce: «Occorre dare più contenuto, altrimenti c’è il rischio che il rito resti un contenitore vuoto». Fratel Domenico, dopo aver girato tutte le missioni della Consolata del paese, lavora attualmente in quella di Gambo, dove è responsabile della fattoria che alimenta l’ospedale gestito dai missionari.

Lasciamo la città delle quaranta sorgenti. Prendiamo l’aereo, un turbo elica Bombardier Q400 che ci riporterà ad Addis Abeba. Godiamo ancora del caldo e della gentilezza degli etiopi di questa regione. In capitale è stagione delle piogge e, complice l’altitudine (2.400 metri) le temperature sono più rigide. Una militare donna, statunitense, uscita dalla base dei droni Usa, controlla scrupolosamente, a vista, le valigie dei viaggiatori.

Marco Bello

Note:

(1) Banca Mondiale, www.worldbank.org.
(2) Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo www.oecd.org.
(3) L’Éthiopie élue «meilleure destination au monde» par les professionnels du tourisme, Sabrina Myre, Jeune Afrique, 9 luglio 2015.
(4) Ethiopia’s elections are just an exercise in controlled political participation, Jason Mosley, The Guardian, 22 maggio 2015.
(5) Rapporti di Human Rights Watch e Amnesty Inteational, 2015.

Nell’archivio MC: Chiara Giovetti, La missione nell’Etiopia di ieri e di oggi, agosto-setembre 2013 e Etiopia, Gambo: agricoltura e sanità, novembre 2011. A. Vascon e N. Di Paolo, Caleidoscopio africano, aprile 2011.

Marco Bello




Italia/Perù: Torno laggiù e mi uccideranno


Ucciso il 25 agosto 1991 nei pressi di Santa, sulle montagne di Chimbote, in Perù, da due membri di Sendero Luminoso, don Alessandro Dordi verrà proclamato Beato il 5 dicembre prossimo.

Nato il 22 gennaio 1931 a Gromo San Marino, in alta Val Seriana, missionario fidei donum della diocesi di Bergamo, prima di partire per il Perù nel 1980 era stato al servizio della diocesi di Chioggia dal 1954, anno della sua ordinazione sacerdotale, quando andò ad aiutare le popolazioni del Polesine colpite dall’alluvione, al 1965, ed era stato prete operaio e cappellano dei migranti italiani in Svizzera dal 1965 al 1979. Nonostante le minacce esplicite ricevute da parte del movimento guerrigliero, decise di rimanere in Perù. Durante l’ultimo viaggio in Italia salutò i suoi famigliari dicendo loro: «Addio, adesso torno laggiù
e mi uccideranno».

Non ho conosciuto don Sandro, ma, considerando quello che è stato raccontato su di lui e i suoi scritti, mi piace pensare che, se fosse ancora tra noi, prendendo l’Evangelii Gaudium di papa Francesco tra le mani, avrebbe il volto luminoso di chi trova conferma a tutte le sue scelte, di chi, con meraviglia, scopre che da sempre è stato condotto dal Signore.

Quella domenica 25 agosto 1991 don Sandro aveva un appuntamento già fissato da tempo. Un pretesto per chi lo voleva uccidere, un segno per lui, prete contento di essere prete, pur con l’imbarazzo di non sentirsi all’altezza.

È stata questione di brevissimo tempo: l’impatto terribile con la durezza del cuore, lo smarrimento davanti alle armi, il desiderio di trovare una mediazione, «Per favore, non fatelo», la voce strozzata in gola davanti ai suoi aguzzini, e poi l’abbandono fiducioso.

Il silenzio che solitamente avvolge la morte, per don Sandro è rotto dall’intensità della sua testimonianza evangelica. Ucciso lungo la strada verso la parrocchia di Santa, ancora oggi continua il suo cammino nel sangue: sì, perché qualche ora più tardi, una suora bergamasca giunta sul luogo dell’assassinio, ha raccolto un pugno di terra impastato di sangue. Oggi è la reliquia più preziosa che portiamo con noi nella fedeltà al mandato missionario.

La missione nasce dalla dinamicità della fede.

Alessandro Dordi, figlio della terra bergamasca, nato il 22 gennaio 1931, respira da subito quel senso del dovere che scaturisce dall’essenzialità dell’esperienza cristiana e dalla sobrietà della vita di montagna. È il secondogenito di una famiglia che alla fine conterà 9 figli. La profondità di spirito che viene dall’ascolto della natura lo accompagnerà sempre, nell’austera vita del seminario e della formazione, nelle esperienze del Polesine, della Svizzera e poi del Perù, sicuramente tappa, quest’ultimo, in cui esprimerà tutta la maturità della sua adesione al progetto di Dio.

La comprensione della povertà come luogo teologico diventa sempre più concreta man mano che il servizio sacerdotale gli permette di immergersi nella storia degli uomini. I contesti in cui lavora sono davvero diversi: il Polesine segnato dall’alluvione del 1951 lo vede protagonista del quotidiano, capace di un ascolto che ricompone le contrapposizioni, pellegrino nelle case della parrocchia con il «cartoccetto» della cena, pedalatore instancabile per raggiungere un infermo o condividere un dramma familiare. Lo stupore sul volto di chi lo conosce sarà, anche dopo la sua morte, una prova di tutto questo. La Svizzera ridisegna i confini del ministero di don Sandro, ma non il suo cuore che vi farà l’esperienza del lavoro in fabbrica, della condivisione dei disagi dei migranti italiani, dell’ordinarietà della cura della fede. Anche le fratture dell’io, con le paure esistenziali dei momenti di fragilità, non risparmiano il respiro di don Sandro che, grazie alla paternità del vescovo, e all’affetto fermo della mamma, trova una risposta positiva alla sua ricerca di un servizio sempre più intenso.

In Svizzera, tra i migranti italiani si colloca il discernimento che lo spinge oltre oceano. È al termine di un viaggio di ricognizione con il confratello don Sergio, oggi arcivescovo di Santa Cruz de la Sierra in Bolivia, che una mano di grazia lo aiuta a trovare casa a Santa, nella diocesi di Chimbote in Perù. Adesso la missione assume le caratteristiche dell’ad gentes, proprio il paradigma dell’azione pastorale della Chiesa.

E la storia immerge volti e racconti nel cuore del missionario.

L’amicizia sincera e fraterna con Gustavo Gutierrez, padre della teologia della liberazione, è un po’ come lo scrigno da cui don Sandro attinge per impegnarsi senza limiti nelle opere e nella pastorale, nell’intento di proporre ai suoi fedeli una predicazione concreta, calata nella storia, capace di raggiungere il cuore e la vita della gente, dei poveri soprattutto. Camilla, sua fedele collaboratrice dai tempi della Svizzera, racconterà le sue liturgie quotidiane: dapprima cariche di silenzi, poi con poche parole che riconducono il Vangelo a una famiglia, un ammalato, un disoccupato, un senza Dio, un giovane e a chi può avere più bisogno di una Parola di Grazia. La liturgia non può che diventare storia, altrimenti si riduce ad archeologia. Ed è prendendosi cura dei piccoli e degli ultimi che la liturgia realizza la dimensione profetica che le è propria, e apre gli orizzonti della speranza. Sa bene don Sandro che non si tratta di trovare qualcosa di consolatorio davanti alle fatiche della vita, qualcosa come la promessa di un contentino finale se «farai il bravo». C’è di mezzo il Regno di Dio, una cosa talmente importante da disegnare la speranza di popoli interi, da segnare per sempre il cammino di ogni vita. Questa responsabilità lo accompagna nel pellegrinaggio del ministero lasciando emergere, di volta in volta, attenzioni e gentilezze proprie di un cuore grande. Infaticabile in Polesine, presente in Svizzera, libero in Perù.

La rivoluzione del Vangelo è portatrice di pace.

Don Sandro sperimenta l’odio sulla sua pelle. Anni dopo la sua uccisione, il suo esecutore, raggiunto in carcere dal Vescovo di Chimbote, ammetterà l’odio che correva nel sangue di quel Sendero luminoso che voleva far tesoro dei poveri a proprio beneficio e sentiva di dover combattere, fino al sangue, la verità del Vangelo.

Don Sandro rimane al suo posto, nonostante le minacce, la morte dei due frati polacchi all’inizio di quel suo ultimo mese di agosto del 1991, l’aria sempre più rarefatta, le scritte sul muro di cinta che recitano: «Straniero, il Perù sarà la tua tomba».

Emerge un tratto caratteristico di don Sandro, talmente disarmante da sembrare persino infantile: il cuore libero. Pronto a partire in un baleno per il Polesine dopo pochi giorni dall’ordinazione, ancora avvolto nella festa della rugiada del sacerdozio, capace di offrire agli emigrati italiani in Svizzera una disponibilità di attesa e fiducia, convinto di rimanere accanto al suo popolo peruviano con il sudore di sangue che solo la paura può generare ma che si terge con la fedeltà alla propria vocazione. L’obbedienza è per lui «croce e delizia»: un abbandonarsi alla fedeltà di Dio, un ritrovarsi inspiegabilmente protagonista di una storia più grande di quanto credesse. È il suo un protagonismo «umile», alla ricerca di quelle ragioni che appartengono al cuore e alle quali è impossibile ogni imposizione. Per questo il suo rapporto con i vescovi è sempre onesto, schietto, libero, persino «disobbediente» nella passione per la ricerca, quando si tratta di partire per il Perù. «Per essere utili a se stessi e agli altri – scrive a un amico – occorre avere dentro delle giuste motivazioni». E il suo cuore è capace di tanto che il Vescovo non ha timore di accompagnarlo con la sua benedizione.

Il missionario è una vita che annuncia.

Non ci piove, occorre buttarsi dentro a capofitto. «Per essere missionari – scrive in una lettera del 2 febbraio del 1982 – occorre essere umili, per questo si parla di scambio e servizio. È bene lavorare con molta discrezione, eliminando il comprensibile orgoglio di chi sa di più. Deve scomparire ciò che è proprio dell’italiano, dello spagnolo, del francese e dell’americano, per diventare solo membri del popolo che si serve… Noi missionari dobbiamo imparare a controllarci, a non fare confronti, a mostrare anche nelle critiche un grande amore per il popolo».

Segnato dalla vocazione missionaria, don Sandro chiede da subito di lasciare spazio a questo spirito universale negli anni degli studi teologici, quando nel 1952 viene accolto nel seminario del «Paradiso», la comunità sacerdotale missionaria nata nel 1949 dal cuore immenso di don Fortunato Benzoni e dalla sapiente profezia del vescovo Adriano Beareggi, presenza qualificante nella Chiesa di Bergamo. Preti «votati» alla missione a 360°, a servizio delle diocesi più povere di sacerdoti, presenti nei luoghi di migrazione, promotori della nuova evangelizzazione.

L’ordinazione, che avviene il 12 giugno del 1954 per don Sandro e per altri 26 giovani, tra i quali altri quattro, oltre a lui, della Comunità Missionaria del Paradiso, sigilla tutto questo anche grazie alle parole generose che il vescovo Giuseppe Piazzi consegna loro: «Il sacerdozio è il compimento dell’opera redentrice del Cristo, la quale si è operata sulla Croce… Il sacerdote che vuole fare del bene… che vuole convertire a Cristo… deve voler mettersi vicino alla Croce di Gesù, anzi salirvi sopra col suo sacrificio e con la sua sofferenza».

«È un martire», dice il vescovo Giulio Oggioni la mattina del 26 agosto 1991, giorno solenne per la Chiesa di Bergamo per il ricordo liturgico del suo patrono S. Alessandro, all’inizio della celebrazione di quel giorno, aggiungendo poi, il 1° settembre, nel momento in cui la salma di don Sandro viene adagiata davanti all’altare della cattedrale: «Don Sandro, sei tornato nella cattedrale dove hai ricevuto il ministero pastorale. Sei tornato quasi per dirci che come la chiesa cattedrale è la matrice di tutte le chiese diocesane, così essa è la matrice di tutto il nostro ministero in qualsiasi luogo lo si eserciti. Sei partito da qui, hai esercitato il tuo ministero in Italia e in Svizzera e ultimamente a Santa, in Perù, sempre però come presbitero della tua diocesi. Ho detto spesso che i presbiteri diocesani devono vedere nei loro missionari l’espressione più eccellente della loro missionarietà e tu, ora, sei tornato per dircelo non a parole, ma coi fatti. I due colpi mortali che ti hanno colpito al cuore e alla testa sono la testimonianza di amore e di fede, sono un insegnamento che difficilmente si cancellerà nel nostro cuore e nel nostro intelletto. Per questo sarai per noi una immagine e un modello di come si è ministri e servitori dei fratelli».

Oggi la Chiesa ci riconsegna don Sandro Beato: un uomo, un prete, un missionario, un martire, un impasto di testimonianza di fede, un invito. Sì, proprio l’invito rivolto a ciascuno di essere discepoli missionari, perché il seme dei martiri è fecondità di vita nuova, è la gioia del Vangelo, appunto un Vangelo di gioia.

don Giambattista Boffi
direttore del Cmd di Bergamo

Giambattista Boffi




Da Brescia a Torino, per l’Africa

Padre ANGELO BELLANI,
a cinquant’anni dalla morte

I missionari della Consolata
sono oggi sparsi in quattro continenti e appartengono a venti nazionalità diverse,
ma all’inizio si trattava di un piccolo gruppo di giovani tutti piemontesi che l’Allamano,
nel nome della Consolata, inviò in Africa. Il primo sacerdote non piemontese a
entrare nell’Istituto fu un giovane prete bergamasco-bresciano, Angelo Bellani (1875-1964).

Nato nel 1875 a Palosco, in provincia di Bergamo, ma nella diocesi
di Brescia, entrò in seminario nel 1891 e venne ordinato sacerdote nel 1900.
Interruppe lo studio della teologia per il servizio militare che compì alla
rocca di Anfo da febbraio 1896 a maggio 1897, dove ebbe la possibilità di
collaborare col parroco don Andrea Pelizzari a iniziare l’oratorio parrocchiale
e la banca rurale.

Negli anni di seminario maturò il desiderio
di andare missionario in Africa e durante gli esercizi spirituali in preparazione
all’ordinazione sacerdotale scrisse al suo vescovo una lettera per chiedergli
il permesso di realizzarlo. Il vescovo mons. Giacomo Coa Pellegrini gli
rispose: «Caro don Bellani, so del tuo grande desiderio di farti missionario.
S. Carlo Borromeo ai novelli sacerdoti che desideravano diventare religiosi
diceva: “Pagate alla diocesi che vi ha ordinato quattro anni di servizio
sacerdotale”. Poi sarai libero». Mandato vice parroco a Tuscolano conobbe don
Piero Grana, amico di Daniele Comboni, il grande missionario della Nigrizia. La
frequentazione di don Grana intensificò in Bellani il desiderio di partire per
l’Africa come Comboniano.

Missionario


Ecco come padre Angelo si racconta: «Iniziai
le pratiche e fui accettato dall’allora superiore generale (dei Comboniani),
padre Colombaroli. Ormai al termine della mia ferma in diocesi e quando già
avevo fatto i preparativi per raggiungere l’Istituto che consideravo “mio” fui
pregato dal superiore di rimanere ancora in aiuto del mio vescovo finché non
avesse avuto un sacerdote con cui sostituirmi. Un vero colpo per me: questo fu
il motivo per cui venni nella determinazione di non entrare più fra i
Comboniani, ma di cercare altrove la mia sistemazione. Provvidenzialmente il
mio parroco mi offerse alcuni numeri del bollettino delle Missioni Italiane edito
a Firenze dicendomi: “Prendi e leggi, ti piaceranno giacché vuoi proprio
andartene”. Nel numero 3-6 luglio-dicembre 1902 trovai descritta la fondazione
dell’Istituto della Consolata. Fu per me una rivelazione. Ebbi uno scambio di
lettere con il canonico Giuseppe Allamano».

Un padre gesuita che predicava gli esercizi
spirituali ai preti di Brescia gli disse: «Vada a Torino, il canonico Allamano è
un santo prete». L’incontro di Bellani con il fondatore fu cordialissimo e si
concluse con la sua accettazione, primo sacerdote missionario della Consolata
non piemontese. Era l’inizio dell’inteazionalità del nostro Istituto.

Prima della sua partenza per Torino, fece
una visita ad Anfo, dove il parroco stimava molto l’Allamano. Là, condividendo
la sua scelta con i giovani dell’oratorio, ne contagiò in modo speciale due,
che erano ancora bambini quando lui era militare: il quattordicenne Bortolo Liberini (1890 – 1960, sepolto in
Mozambico) che sarebbe diventato un esemplare fratello missionario della
Consolata e la tredicenne Mercede Stefani (1891 – 1930, sepolta in Kenya) che
sarebbe divenuta suora missionaria della Consolata col nome di Suor Irene e che
abbiamo visto beatificata il 23 maggio scorso.

Angelo Bellani entrò a Torino il 16 agosto
1904 e iniziò con grande impegno la sua preparazione alla vita missionaria
studiando linguistica, inglese, medicina, infermieristica, agricoltura,
falegnameria, ma anche spiritualità missionaria e scienze, secondo il metodo
pratico e concreto dell’Allamano.

In Kenya

Il 24 gennaio 1905 emise il giuramento per
cinque anni (i primi missionari si legavano all’Istituto non con una
professione religiosa a vita, ma con un contratto giurato, ndr) e il 29
gennaio partì per il Kenya, due anni e mezzo dopo i primi quattro missionari
della Consolata e là fu accolto dal superiore padre Filippo Perlo.

La sua attività missionaria si esplicitò nei
settori più diversi: fondazione di missioni, attività agricola, formazione dei
catechisti. Fu superiore alla fattoria del Mathari-Nyeri (1905-1909); fondatore
e superiore della missione di Gaturi (1910-1911); superiore della missione di
Karema (1912-1915); addetto al collegio catechisti a Mogoiri (1915-1918);
missionario nel Meru nella missione di Egoji dal 1919 al 1929.

Riferì un suo amico bresciano: «Mi disse
varie volte che egli si era prefisso un triplice ordine di lavori, mostrando
idee modeissime in materia di apostolato missionario: la fondazione di
cristianità; la formazione di catechisti e del clero indigeno che avviava ai
centri di educazione; e l’organizzazione di una autonomia economica al servizio
della missione». In tutti questi tre settori padre Bellani lasciò un segno
della sua genialità e della sua costanza.

Nel 1908 per un incidente e per un’operazione
male eseguita ebbe una gamba rovinata e irrigidita che lo costrinse a zoppicare
molto visibilmente e a cercare nel bastone un appoggio. Questo non ridusse il
suo slancio missionario. Dopo 15 anni tra i Kikuyu (1905-1919), finita la
guerra e rientrati i missionari dagli ospedali dei carriers, fu inviato
tra i Meru, nella missione di Egoji, ove spese una decina d’anni imparando la
loro lingua e scrivendone la prima grammatica, un libro di preghiere – il Ketabu
kea Akristo
– e un catechismo della dottrina cattolica, oltre a lasciare
appunti sulla cultura e le usanze di quel popolo.

Erano gli anni iniziali della presenza
cattolica tra quella popolazione e furono particolarmente duri. Al suo arrivo
nel Meru nel 1919 erano già sorte quattro missioni: Imenti ed Egoji nel 1911;
Tigania ed Eghembe nel 1913. I missionari le chiamavano «trappe», e la loro era
veramente una vita da trappisti con tanta preghiera, duro lavoro e scarsi
risultati visibili.

Egoji

Quando padre Bellani giunse a Egoji, i cristiani erano 36, quando
dieci anni dopo lasciò quella missione, i cristiani erano appena 195,
nonostante il grande lavoro compiuto. Ma quei pionieri, con la grazia di Dio,
misero le fondamenta di una cristianità che sarebbe «esplosa» alcune decine di
anni più tardi, negli anni Cinquanta. Infatti è interessante ricordare che nel
1953 sarà creata la diocesi di Meru che oggi conta 846.000 cattolici (il 31,1%
della popolazione), 60 parrocchie, 168 sacerdoti e 398 religiose, dalla quale
verranno poi staccate la Diocesi di Embu (1986) con 320.000 cattolici (il 60,5%
della popolazione), 16 parrocchie, 55 sacerdoti e 92 religiose e (1995) il
vicariato apostolico di Isiolo con 35.000 cattolici.

Rientro in Italia

Nel 1929 padre Angelo dovette lasciare
l’Africa e il suo Istituto e rientrare in diocesi, su ordine di mons. E.
Pasetto, il visitatore apostolico che in quegli anni difficili fu mandato da
Roma a controllare, ridimensionare e riqualificare l’Istituto, accusato di
essere troppo lassista nella formazione dei suoi missionari, «arruolati» in
quantità pur di avere personale a sufficienza per il numero crescente di
missioni.

Padre Bellani che tanto aveva lottato per
essere missionario, per obbedienza aveva dovuto abbandonare quel campo dove
aveva tanto lavorato e dove avrebbe voluto terminare la sua vita.

Non potendo più essere missionario al
fronte, volle continuare ad esserlo nelle retrovie. Egli chiese di lavorare
ancora per le missioni e fu nominato Direttore diocesano delle Pontificie Opere
Missionarie. In questo ufficio, come scrisse mons. Luigi Fossati «con un lavoro
tutto suo ed originale padre Bellani fece fiorire le iniziative missionarie.
Nessun missionario passava dal suo ufficio senza partire carico di aiuti per le
missioni. Il museo missionario, il laboratorio missionario, le conferenze e i circoli di studio e la raccolta di
offerte ricevettero un grande impulso. Svolse nel seminario Santo Cristo di
Brescia una assidua assistenza spirituale e coltivò le vocazioni per le
missioni. Raccolse una vasta biblioteca specializzata in etnologia,
missiologia, storia delle religioni. Curò pubblicazioni scientifiche come la
comunicazione su una delle sorgenti del Nilo, quella di Bar el Ghazal, che fece
modificare la carta geografica del ministero delle colonie; tenne conferenze
all’ateneo di Brescia e in vari convegni di studio».

Il dolore per non poter più tornare in Africa
non sminuì il suo impegno missionario ma lo trasformò in creativo dinamismo per
rendere missionaria la diocesi. Nelle parrocchie promosse innumerevoli
iniziative, curò la creazione di gruppi di collaboratori/trici che formava
spiritualmente alla missione. Il servizio di direttore spirituale in seminario
fu un’altra posizione strategica per «contagiare» il clero e promuovere le
vocazioni missionarie.

Non dimenticò mai l’Istituto della Consolata
a cui si sentiva sempre legato. Ne chiamò i membri per frequenti giornate
missionarie, inviava arredi per le chiese in Africa. Non fu estraneo alla
donazione della villa di Bedizzole che la Contessina Anna Maria Calini Carini
fece all’Istituto per erigere un noviziato internazionale, e godette nel
vederlo realizzato prima della sua morte. Il fatto che la diocesi di Brescia
conti ben 160 tra sacerdoti, fratelli e suore missionarie della Consolata è
anche frutto della missionarietà di padre Angelo.

Ritoo nell’Istituto

Gioia grande per padre Bellani fu, nel
giugno 1963, essere ufficialmente riammesso nell’Istituto che aveva tanto
amato. Scrisse al superiore generale padre Domenico Fiorina: «Il povero
sottoscritto Le serberà perpetua riconoscenza per avergli ottenuto la grazia di
tornare in pieno come missionario della Consolata». E padre Fiorina gli
rispose: «Il suo ritorno ufficiale nell’Istituto viene a premiare un amore
costante e generoso alla nostra famiglia religiosa ed alle nostre missioni».

Ecco come descrive il suo ultimo Natale,
1963: «Il Natale di quest’anno è per me tutto simile a quello indimenticabile
del 1904: lo celebrai con la sacra divisa dei missionari della Consolata, benedetta
dal Veneratissimo Fondatore; quest’anno lo passo in famiglia, professo perpetuo
dell’Istituto della Consolata. Deo Gratias».

Padre Bellani si addormentò nel Signore
nella sua abitazione di Palosco, il 16 luglio 1964, vigilia del suo 90°
compleanno. Il funerale fu imponente per la partecipazione dell’intero paese,
di numerosi confratelli e dei novizi della casa di Bedizzole con il superiore
generale, di molti sacerdoti diocesani e del vescovo Giuseppe Almici, ausiliare
di Brescia. La sua salma riposa nel
cimitero di Palosco.

Dopo la sua morte, la rivista Missioni
Consolata del settembre 1964 ne sintetizzava così il profilo: «Padre Bellani
per noi Missionari della Consolata sarà sempre una stella di prima grandezza,
un apostolo-pioniere da annoverarsi tra quei prodi dei primi tempi, che hanno
dato l’avvio al nostro movimento missionario; uno di quei pionieri di Cristo,
molto spesso ignorati o dimenticati, sul cui sacrificio sono fiorite oggi le
fiorenti cristianità dell’Africa nuova».

Mario Barbero

Tags: Bellani, Palosco, missionari, Gruppi missionari, animazione missionaria

Mario Barbero




Terra d’Africa vendesi

Un caso di land grabbing

«Prosavana»: 14,5
milioni di ettari coltivabili ceduti al Brasile. Cinque milioni di contadini
diventano «senza terra» per lasciare il posto alle monocolture. Il governo
sostiene che è un programma di sviluppo agricolo. La società civile (e la
chiesa) si oppongono e attivano una resistenza.

 

È il 14 agosto del 2011, quando un articolo sul
giornale brasiliano La folha de São Paulo, fa
sobbalzare gli attivisti del movimento contadino di un’altra parte del globo:
il Mozambico. Lo scritto dice con enfasi che il paese africano avrebbe concesso
alcuni milioni di ettari di terra coltivabile agli agricoltori brasiliani, per
produrre soia, cotone e mais.

È
solo dello scorso marzo la pubblicazione di un documento ufficiale, il Piano
direttore, versione «zero», che descrive in dettaglio, nelle sue 204 pagine, il
«Prosavana». Abbiamo sentito telefonicamente alcuni protagonisti di questo
episodio di land grabbing in
Mozambico.

«Si tratta di un programma di cooperazione trilaterale,
che coinvolge Mozambico, Brasile e Giappone – ci spiega Agostinho Bento,
responsabile di politiche e advocacy alla Unac, l’Unione nazionale contadina mozambicana, il
maggiore sindacato di categoria -. Quando la società civile mozambicana sentì
parlare del progetto di cui era all’oscuro, si mobilitò alla ricerca di
informazioni. Scoprì che si trattava di un vasto programma agricolo chiamato
Prosavana. Esso prevedeva che un certo numero di grandi produttori brasiliani
abbiano in concessione terra mozambicana per un periodo di 50 anni. Questa
informazione allertò il movimento contadino e la Unac in particolare. Cosa
voleva dire quell’acquisizione di terra? Cosa c’era dietro?».

Questi
programmi, sempre più frequenti in Africa, rientrano nella categoria chiamata
(in inglese) land grabbing,
ovvero accaparramento di terra. L’Africa è l’unico continente rimasto con
abbondanza di terra agricola sotto sfruttata, che sta diventando strategica per
la produzione di cibo, risorsa, insieme all’acqua, sempre più importante per il
pianeta. Per questo motivo si è innescata la corsa allo sfruttamento della
terra africana, di cui però i contadini locali vivono.

Il
Prosavana (per esteso: Programma di cooperazione trilaterale per lo sviluppo
agrario del corridoio di Nacala) è un grande piano di sviluppo agroindustriale
che coinvolge 19 distretti di tre province mozambicane, Nampula, Zambézia e
Niassa, nel cosiddetto corridoio di Nacala, che taglia il Nord del paese dal
lago Malawi alla costa, per un totale di 14,5 milioni di ettari (la superficie
di quasi mezza Italia).

«In
effetti – spiega il giornalista Jeremias Vunjanhe – i tre governi hanno
elaborato segretamente questo piano fino dal settembre 2009, diventato pubblico
solo con la divulgazione dell’articolo sul giornale brasiliano».

La voce del governo

Secondo
il governo del Mozambico, il programma Prosavana fa parte del Piano strategico
per lo sviluppo del settore agrario (Pedsa), che «si basa sull’aumento di
produzione e produttività agraria e contribuisce alla sicurezza alimentare e
all’aumento del reddito dei produttori agricoli in maniera competitiva,
sostenibile, garantendo l’uguaglianza sociale e di genere». E, sempre secondo
il ministero dell’Agricoltura e della Sicurezza alimentare mozambicano: «Tutte
le iniziative nell’ambito di Prosavana dovranno avere come principale obiettivo
l’appoggio ai piccoli e medi agricoltori mozambicani, cercando il miglioramento
delle loro condizioni di vita e l’aumento della loro produzione e produttività,
contribuendo alla sicurezza alimentare e nutrizionale della popolazione».

Ma
allora cosa c’è che non va in questo programma?

Ce lo
spiega Agostinho Bento, da Maputo: «Il Prosavana ha come obiettivo la
produzione di monocolture come la soia, che saranno esportate su un mercato
internazionale e in particolare giapponese. Saranno coinvolte enormi estensioni
di terra. Non si vuole trasmettere tecnologia ai piccoli agricoltori, ma è un
grande programma di agrobusiness, che
punta, di fatto, a togliere terra ai contadini, la risorsa che viene ora usata
per produrre cibo, e convertirla in terra per produrre grande monocoltura,
merce da esportazione. Gli agricoltori mozambicani e le loro famiglie saranno
sfollate e dovranno essere ricollocate altrove». L’impatto diretto sarebbe su
circa cinque milioni di contadini.

Continua
Bento: «Un programma che soddisfa gli interessi di grandi imprese, di grandi
affaristi, e non i bisogni dei piccoli agricoltori. Per questo abbiamo
cominciato questa contestazione. Abbiamo iniziato un’azione di advocacy
contro il programma».

Secondo
Vunjanhe, che è anche cornordinatore nazionale dell’Azione accademica per lo
sviluppo delle comunità rurali (Adecru), dietro a Prosavana ci sono «enormi
interessi economici di grandi corporazioni e istituzioni finanziarie. Il
cosiddetto Fondo Nacala, gestito in Lussemburgo, con il coinvolgimento della
Fondazione Getúlio Vargas, è uno dei principali meccanismi di raccolta di
risorse finanziarie, il che evidenzia la privatizzazione della presunta
cooperazione tra i governi».

 

I precedenti
«scomodi»

Prosavana
è la copia di un programma realizzato in Brasile nella zona del Cerrado negli
anni ’60. La Unac è entrata in contatto con le organizzazioni contadine di
quell’area, racconta il sindacalista: «Ci informarono che si trattò di
programmi che esclusero totalmente i contadini e le loro organizzazioni. È lo
stesso sistema che si vuole usare oggi in Mozambico. Quando il governo
brasiliano presentò il programma per la produzione di soia e canna da zucchero
nel Cerrado, disse che voleva aiutare i contadini, trasferendo tecnologia, ma
quando cominciò a implementare il programma, delle nuove tecniche e macchine
che usarono per lavorare la terra, nessun abitante ebbe beneficio.

Allo
stesso modo Prosavana non vuole accompagnare i contadini, non vuole produrre
cibo per i mozambicani, ma piuttosto merce da esportazione con conseguente
sfollamento di abitanti a livello del corridoio di Nacala».

Società civile tricontinentale

Per
reagire la società civile mozambicana scrisse una lettera aperta (maggio 2013)
ai governi dei tre paesi, nella quale chiedeva un dibattito aperto e
democratico sul progetto che avrebbe influenzato la vita di tanti cittadini e
allo stesso tempo metteva in guardia dai danni che Prosavana avrebbe creato:
contadini senza terra, corruzione, impoverimento delle comunità rurali,
avvelenamento di terra e acqua a causa di concimi e pesticidi, ecc. La risposta
arrivò solo dal governo mozambicano e si trattò di una sintesi del programma.

Sviluppati
i contatti con la società civile brasiliana e giapponese, gli attivisti dei tre
paesi iniziarono a cornordinarsi e a fare pressioni sui rispettivi governi.

Dopo
l’organizzazione nel 2013 della prima Conferenza triangolare dei popoli a
Maputo, nel giugno del 2014 fu lanciata la campagna «No Prosavana». Agostinho
Bento ricorda: «La conferenza mise insieme le società civili dei tre paesi.
Invitammo anche i tre attori statali. Partecipò solo il governo del Mozambico,
rappresentato dal ministro dell’Agricoltura. Fu uno spazio di condivisione per
i tre popoli per mostrare una volta di più ai loro governi perché dire no al
programma Prosavana. Le società civili esigono la sospensione immediata del
programma e la convocazione di un tavolo tra associazioni e attori governativi
per progettare un programma che possa effettivamente creare sviluppo e aiutare
i contadini in Mozambico».

In
questo incontro le tre società civili portarono alla luce alcuni documenti che
erano stati elaborati in forma nascosta dai tre governi. «Il più importante è
il Piano direttore o Master
plan, il documento di base del programma, ottenuto attraverso i nostri
colleghi del Giappone. Ma il governo mozambicano lo disconobbe. Certo non
pensavano che noi lo avessimo. Con esso dimostrammo che il programma non è
compatibile con le necessità del paese. Furono fatte altre attività, in
collegamento tra le società civili dei tre paesi. E nel 2014 fu organizzata la
seconda Conferenza triangolare che fu più ricca, più produttiva. Ancora potemmo
mettere insieme i tre popoli, e a quell’incontro parteciparono anche i
rappresentanti dei tre governi. Spiegammo nuovamente che il Prosavana deve
essere interrotto e le nostre ragioni. Nonostante questa advocacy,
assistiamo ancora a una resistenza dei governi che vogliono implementare il
programma con la forza».

 
Goveo, avanti tutta

Nel
marzo scorso il governo del Mozambico presenta il Master
plan ufficiale. Nel mese di aprile organizza quindi incontri di «consultazione
pubblica», in tutti i distretti, a livello dei capoluoghi di provincia e a
Maputo. Lo scopo ufficiale è condividere e «validare» il Master
plan con le comunità locali.

Così
non sembra, vista la reazione di parte della società civile, come la
Commissione arcidiocesana di Giustizia e Pace di Nampula e l’Adecru, che con un
comunicato denunciano: «[…] questo processo è stato segnato da molte gravi
irregolarità che, una volta di più, confermano i vizi insanabili del
concepimento del programma Prosavana e che devono essere pubblici e denunciati
dalle società mozambicana, brasiliana e giapponese». E continuano «[…] abbiamo
visto il pubblico presente [alle riunioni di consultazione] manifestare la sua
profonda preoccupazione e indignazione e ripudiare l’intenzionale
disorganizzazione, politicizzazione, esclusione, mancanza di trasparenza,
intimidazione […] e manipolazione delle riunioni di consultazione pubblica […]».
I firmatari del comunicato pertanto «esigono dalle autorità l’invalidazione e
la sospensione immediata» di Prosavana.

«In
tutto il Corridoio di Nacala, i governi locali hanno intensificato la propria
azione di intimidazione, persecuzione e minaccia nei confronti dei contadini, e
manipolazione, strumentalizzazione e cornoptazione delle autorità comunitarie
locali» ci dice Jemerias Vunjanhe, giornalista dell’Adecru. «A livello
nazionale, soprattutto a Maputo, il governo continua a simulare un’attitudine
dialogante e di apertura per una tavola di consultazioni di facciata».

Racconta
Vunjanhe che «durante la riunione di consultazione pubblica a livello
provinciale, realizzata a Nampula il 13 maggio, il governatore provinciale,
Victorio Borges e il cornordinatore di Prosavana, l’ex ministro dell’Agricoltura
Antonio Limbau e tutta la squadra del ministero, non seppero rispondere a
domande circa la base giuridico-legale di questo processo, creando così un
grande sconforto nella sala. Dopo questo incontro, e con grande ripercussione
di comunicazione a livello nazionale e internazionale, il governo, attraverso
il cornordinatore Limbau, ha rilasciato interviste con l’obiettivo di soffocare
il rifiuto di Prosavana da parte dei contadini della regione interessata e
chiudere un occhio sulle  gravi denunce
della società civile», e continua: «Limbau indurisce l’autoritarismo del
governo mozambicano e, appoggiato dai governi di Brasile e Giappone, tira
dritto per implementare il Prosavana con l’obiettivo di vedere approvato il Master
plan entro l’anno 2015, indipendentemente dalla posizione ferma dei
contadini e delle organizzazioni della società civile».

Le prossime mosse

Secondo
Vunjanhe, anche la resistenza tenderà a radicalizzarsi: «Se il governo seguiterà
in questo modo, il popolo e soprattutto i contadini, con gli alleati della
società civile nazionale e internazionale, saranno costretti a indurire la
propria resistenza contro l’occupazione e l’usurpazione delle terre da parte
dei grandi investitori di Prosavana, intensificando così gli attuali conflitti
per la terra in quella regione. Di certo il governo perderà ulteriore fiducia e
credibilità nei confronti dei suoi cittadini. Ricordiamoci che nelle ultime
elezioni presidenziali e legislative, piuttosto contestate e denunciate per
frode, l’attuale presidente Filipe Nyusi e il suo partito Frelimo (Fronte di
liberazione del Mozambico) persero in quella regione».

Del canto suo Agostinho Bento dichiara: «Continueremo
un’advocacy di resistenza, sarà una lotta tremenda, nei confronti
dei poteri locali, da parte dei contadini che respingono il Prosavana.
Organizzeremo manifestazioni, per mostrare lo scontento su questo programma ai
tre governi coinvolti e anche alla comunità internazionale». Intanto iniziano a
verificarsi tensioni tra contadini e autorità. «In questo processo, il
ministero ha manipolato le persone, le ha usate per parlare nelle comunità, nel
tentativo di legittimare il programma a loro nome. Ma in alcuni momenti, quando
alle riunioni queste persone si alzavano dicendo di essere contadini, la gente
le smascherava dicendo che non facevano parte delle loro comunità, che erano
usati dal ministero dell’Agricoltura».

Unac
sta continuando un lavoro di sensibilizzazione e rafforzamento nelle comunità: «L’obiettivo
è coscientizzare la gente, in modo che possa dire le sue ragioni di fronte al
governo e ai poteri locali. Abbiamo argomenti per replicare. Facciamo conoscere
il programma, affinché la gente possa dire no con coscienza. Attraverso la
formazione, vogliamo rinforzare gli agricoltori, in modo che possano assumere
decisioni e proporre delle alternative». Assieme a Unac, nella campagna No
Prosavana, ci sono organizzazioni ambientaliste, di difesa dei diritti umani,
ecclesiali, di donne, ecc.

Un
grande valore aggiunto di questa lotta è il cornordinamento tra le società civili
di tre paesi così distanti, non solo geograficamente: «Lavoriamo congiuntamente
in tre popoli. Noi della Unac siamo stati in Brasile e Giappone. Stiamo dunque
cornordinandoci, realizziamo le attività in partenariato e abbiamo una strategia
comune. Quando si fa un’azione di advocacy a
livello di Mozambico, si fa anche in Brasile e Giappone. Così i tre governi
sono sotto pressione. Per esempio su quello giapponese affinché non finanzi il
programma. In Brasile chiedendo informazioni e giustificazioni. È un lavoro
arduo».

Marco
Bello

Parla monsignor Lerma


Una voce della Chiesa

Monsignor Francisco Lerma Martínez,
portoghese, è missionario della Consolata. Dal 2010 è vescovo di Gurúè, diocesi
nella provincia di Zambézia, il cui territorio rientra in pieno nel programma
Prosavana.

Il progetto Prosavana che impatto può avere sulla diocesi di Gurúè?

«Si tratta di un mega progetto (e
non è il primo in Mozambico) pensato fuori dal paese, in questo caso in
Giappone con la collaborazione diretta del Brasile. La sua finalità ultima è
favorire le ditte di questi paesi che sono quindi beneficiari finali. La
popolazione locale senz’altro avrà qualche vantaggio (forse qualche posto di
lavoro), ma nell’insieme l’operazione sarà, come negli altri casi, a favore
delle grandi multinazionali.

Il Mozambico, infatti, grazie ai
megaprogetti del carbone (Tete), del gas naturale, (Inhambane e Cabo Delgado),
dell’alluminio (Mozal a Matola) e altri ancora, nel 2014 ha avuto un Pil in
crescita del 7,4%: valore tra i più alti dell’Africa.

Ma dobbiamo chiederci: la gente
vive meglio? Abbiamo un servizio sanitario migliore? Migliori scuole? Migliori
comunicazioni? Nella mia diocesi, Gurúè, nell’Alta Zambézia, nel mese di
gennaio ci sono state grandi piogge e forti venti che hanno distrutto più di
tremila case, oltre un centinaio di scuole e 160 cappelle, diversi ponti,
causando oltre cento morti. Dopo quattro mesi stiamo ancora soffrendo le
conseguenze di questo dramma.  Ma,
nonostante il Pil, il 45% della popolazione continua a vivere in situazioni di
povertà, con redditi di un euro al giorno. Allora, ci domandiamo, chi beneficerà
di questo progetto? Senz’altro chi lo ha pensato, ideato e progettato».

Nella sua diocesi, come si sta organizzando la società civile per far
sentire la propria voce? E quali sono le associazioni più contrarie? Ce ne sono
di favorevoli?

«Nell’Alta Zambézia siamo fuori
delle normali correnti di opinioni, senza strutture, senza mezzi di
comunicazione, lontani dai centri d’influenza. Noi siamo in periferia, in una
zona geografica lontana dalla capitale provinciale, ancora isolati dalle piogge
di gennaio. La nostra popolazione ha in grande maggioranza un tasso di
analfabetismo molto elevato, non ha accesso ai mezzi di comunicazione,
giornali, riviste, Tv o altri servizi. Non abbiamo delle associazioni sindacali
o di creazione di opinione pubblica come altrove».

La chiesa del Mozambico, e in particolare nella sua diocesi, sta facendo
qualcosa, o prendendo posizioni, in merito a questo progetto governativo?

«Durante l’ultima assemblea
nazionale di Caritas, con la partecipazione dei vescovi, delegati delle Caritas
diocesane, e osservatori della società civile, è stato presentato alla
riflessione dei partecipanti il Progetto. Con la Commissione di Giustizia e
Pace siamo nella fase di raccolta di dati, di riflessione e di
coscientizzazione, come, d’altronde, abbiamo fatto per i mega progetti in altre
aree (per esempio il carbone) e stiamo facendo sulla situazione socio-politica-economica
attuale».

Marco Bello

Tags: Senza terra, land grabbing, agroindustria, società civile, ambiente

Marco Bello




Custodi della creazione

«Noi siamo i custodi della creazione»: sono parole pronunciate da papa Francesco il 19 marzo 2013, riprese e approfondite in modo mirabile nella sua nuova enciclica sulla salvaguardia e custodia dell’ambiente e del creato. L’enciclica dal titolo Laudato si’ è stata pubblicata il 18 giugno scorso.

Da molto tempo esistono libri di teologia della creazione, gli scaffali delle biblioteche e delle librerie ne sono pieni. Da molto tempo esistono gli ambientalisti, ma pochi sono i cristiani e le Chiese che ne condividono il messaggio. Manca una «pastorale del creato» nelle nostre Chiese locali e nelle nostre parrocchie. La domanda che nasce spontanea è «come mai»?

Eppure, dei gravi problemi connessi con l’ecologia si parla da tempo su tutti i mass media, talora in maniera molto tragica. Sono drammi ai quali abbiamo assistito e continuiamo ad assistere, sbigottiti ma in fondo disinteressati: inquinamento atmosferico, scioglimento dei ghiacciai, tempeste e uragani sempre più violenti, scomparsa massiccia di specie animali e vegetali, scarsità di acqua potabile, siccità e carestie e anche – ma in questo caso molti cristiani sono sordi – le crescenti migrazioni di intere popolazioni in cerca di condizioni ambientali e di vita favorevoli. La crescita dell’ecologismo inquieta molti cristiani, perché a loro parere certi valori diffusi dagli ambientalisti sembrano in diretto contrasto con gli insegnamenti tradizionali della Chiesa sulla creazione. Secondo loro gli ecologisti sosterrebbero la necessità di bilanciare il dislivello tra popoli affamati e popoli ricchi attraverso la promozione della contraccezione e il diritto all’aborto; mentre, al contrario la Chiesa invita continuamente a proteggere la famiglia e la natalità.

Vero è che alcuni ambientalisti arrivano a ritenere che sarebbe meglio se l’umanità scomparisse dal nostro pianeta, perché l’essere umano è un parassita della terra, la quale, con lui, si è man mano degradata fino a temere la sua fine e, prima ancora, la fine dell’uomo. Questa visione dell’ecologismo farebbe della terra una specie di divinità – la «Madre Terra» dei pagani – alla quale si deve rendere omaggio e alla quale bisogna chiedere perdono per tutte le ferite inferte. Di qui la necessità di una Chiesa che abbia il compito di allontanare i fedeli da un nuovo paganesimo, che adora la terra e che è in netto contrasto con la dottrina del monoteismo, di un unico Dio creatore, Signore del cielo e della terra.

Non la pensa così papa Francesco. La sua enciclica, dedicata all’ambiente e alla custodia del creato, ne è una prova, e con lui concordano anche molti credenti, cattolici e protestanti, convinti che degradando il creato, si trasgredisca il comandamento di Dio, che ha fatto ogni cosa bene, buona e bella. Una teologia della creazione a esclusivo vantaggio dell’uomo può portare a non lasciare lo spazio dovuto al tema della custodia del creato.

Tutti ricordiamo la frase del primo capitolo del Libro della Genesi che dice: «Riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gen 1, 28). Di qui deriva l’accusa fatta alla Chiesa, e al cristianesimo in genere, di essere stata la causa della crisi ambientale del nostro tempo. Per gli ecologisti la bella e poetica pagina del primo capitolo della Genesi viene deturpata da questo versetto, in netto contrasto con la stessa dignità dell’uomo, di cui parla il capitolo: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò». La dignità dell’uomo è grande, come è grande quella di Dio creatore. Può allora accadere che la volontà dell’uomo sia in contrasto con la volontà di Dio?

 

La risposta a questo interrogativo è venuta innanzitutto dal Concilio Vaticano II, durante il quale ha avuto inizio il confronto della Chiesa con i problemi ecologici. Ciò ha richiesto una reinterpretazione dei testi della Genesi. È stato per esempio riscoperto il versetto 2,15 che parla di «custodia del creato». E si è affermato che la creazione va custodita perché è la casa dell’uomo. Se infatti la dignità dell’uomo è grande, anche la sua responsabilità è grande. Noi però non siamo Dio, dunque non siamo proprietari della terra (Sal 24,1) e non possiamo controllare tutto (Gen 38-40). L’universo – afferma la Bibbia – non è il risultato del caso, ma è il frutto dell’amore di Dio. Perciò gli equilibri degli ecosistemi sono stati creati con sapienza e attraverso di essi Dio provvede a tutte le creature (Sal 104, 24). Anzi il Signore gioisce delle sue creature e delle sue opere (Sal 104, 29-31). Ogni vita viene da Dio (Gen 2, 19), a tutti è quindi dovuto rispetto.
Da questa teologia biblica, riassunta in poche parole, deriva la responsabilità dell’uomo di custodire il creato, tutto il creato. L’uomo ne ha la capacità. Dio gliel’ha donata, da usare però non in modo egoistico, bensì per promuovere la vita, coltivarla e conservarla (Gen 2,15).
Le basi bibliche di una ecologia cristiana sono perciò sufficientemente solide. La Scrittura afferma che Dio ha creato tutto con sapienza e che provvede alle creature che egli ama. Invita per questo a meravigliarsi della creazione e a lodare il creatore. Nel Nuovo Testamento Gesù trae sovente ispirazione per le sue parabole dalla natura e lo fa in modo poetico: «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure, il Padre vostro celeste li nutre» (Mt 6,26). Paolo a sua volta scrive un inno cosmico, nel quale confessa che attraverso Cristo e per Cristo tutto è stato creato e tutto è conservato in lui (Col 1, 15-20). Ecco perché Gesù chiede di proteggere la creazione. Non mancano quindi passi biblici sia dell’Antico che del Nuovo Testamento che possano alimentare una ricca teologia del creato. Ciò che manca è una pastorale ecologica semplice e accessibile a tutti, a tutti i fedeli di ogni Chiesa e di ogni comunità.

 

L’enciclica di papa Francesco affronta proprio questo tema, quello pastorale. Il senso biblico di «pastorale» è la custodia del gregge. Ce lo suggerisce il salmo 23: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla, su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce». Tutto il salmo è impregnato di amore di Dio per il creato e il gregge che lo abita. Egli è il pastore che si preoccupa delle sue pecore.
Questo spiega perché molte conferenze episcopali fino agli ultimi pontefici, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e papa Francesco, siano intervenute sull’urgenza di una ecologia cristiana. Alcune chiese particolari già lo hanno fatto, riservando tre o più domeniche all’anno al tema della creazione; altre propongono degli incontri sulla custodia del creato e sull’ecologia; altre infine sono attente alla manutenzione ecologica degli stabili che compongono la parrocchia od organizzano marce per il clima e la protezione della natura. O ancora propongono serate di preghiera in occasione di particolari disastri naturali.
La Chiesa canadese, per esempio, promuove con tutte le confessioni cristiane un programma dal titolo «La Chiesa verde». Ne ha parlato recentemente un teologo ambientalista canadese, Norman Lévesque, sul numero di “Concilium” di marzo-aprile 2015 (pp. 165-172), in un articolo dal titolo provocatorio: «Farla finita con l’ecologia… oppure costruire delle “chiese verdi”?». Norman Lévesque è autore, tra l’altro, di «Una Guida pastorale ecologica per passare all’azione», edita a Toronto nel 2014. Dalle esperienze di piccole comunità, da quella canadese in particolare, possiamo perciò partire per leggere e meditare l’ultima enciclica di papa Francesco sulla custodia e la conservazione del creato.
Non si può più ignorare infatti una teologia ecologica della creazione. Bisogna anzi ringraziare i movimenti degli ecologisti, con i loro eccessi, che hanno avuto il coraggio e il merito di ricordarci, anche se talvolta un po’ brutalmente, l’esistenza della teologia del creato e della necessità di custodirlo. L’ecologia e gli ecologisti hanno certamente avuto una funzione critica provvidenziale per la teologia e i problemi ecologici del nostro tempo. Essi ci hanno permesso di rivedere il nostro posto all’interno della creazione, la nostra relazione con tutti gli esseri viventi e le altre creature, e di avere al tempo stesso una visione nuova e più ampia della stessa redenzione. Alcuni teologi sono giunti a dire che la creazione non esiste per l’uomo, ma per la gloria di Dio. Noi allora, come ha detto papa Francesco, «siamo i custodi di questa creazione».

Giampietro Casiraghi

Tags: Chiesa, papa, ambiente, Laudato si’, ecologia, enciclica

Giampietro Casiraghi




L’Angelo dei Carriers /3

Continua il fumetto sulla vita della Beata Irene Stefani.
Terza puntata

Continua da «La Consolata», agosto 1916.
Gli accordi furono presto conchiusi: trattamento degli ufficiali a Padri e
Suore; nomina dei Padri a tenenti onorarii e delle Suore a membri della Croce
Rossa; viaggi in prima classe sulla ferrovia, non solo per loro, ma altresì per
Monsignore e per la Superiora delle suore, quando volessero recarsi a far loro
visita nei diversi ospedali. E prontamente si passò all’esecuzione: tre gruppi
di suore con a capo di ciascuno un missionario, si radunano a Fort Hall, donde
automobili foiti dal Goveo li trasportano a Nairobi: quivi si ferma un
gruppo, mentre i due restanti ripartono in ferrovia rispettivamente per Voi e
Mombasa. Non essendo ancora preparate per loro le abitazioni, alloggiano per
qualche tempo sotto solide e comode tende; frattanto in sito attiguo ad ogni
ospedale si costruisce una serie di casette in legno: per il Padre, per le
suore, per i boys di servizio; poi una bella chiesetta che venne dedicata alla
Madonna della pace.

Lo scopo immediato dell’opera dei nostri era l’assistenza ai malati, la sorveglianza al personale nero di servizio negli ospedali ma grado a grado passò in loro mano quasi interamente
l’andamento degli ospedali stessi, con la più ampia facoltà di richiedere dalle
farmacie e magazzini e dispensare medicine, viveri, indumenti, coperte, ecc., e
con la più assoluta autorità su tutto il personale nero.

Scopo remoto poi e finale dei nostri, era accaparrarsi la confidenza dei malati, affezionarli alle Missioni, istruirli gradatamente nella religione, battezzare i morenti e questo altresì
stanno conseguendo su larga scala, a salute di molte anime e grande loro
soddisfazione. I battesimi dati superano il centinaio ogni mese; [la]
confidenza dai nostri acquistata e [l’]ascendente guadagnato sugli indigeni
[sono grandi].

(da «La Consolata», agosto 1916, pag. 115-118).



I Carriers

Tradotto e adattato da: Ross Anderson, World War I in East Africa (pp. 155s). PhD thesis,
University of Glasgow, 2001.

Se la ferrovia foiva il miglior mezzo di trasporto, le condizioni locali imponevano
che gli eserciti dipendessero dal meno efficiente dei mezzi di trasporto:
quello umano. Era l’adattamento di una tradizione ben radicata in alcune tribù:
quella di affittare portatori (agli esploratori bianchi) per i safari.
L’urgenza della guerra e i problemi del trasporto di cibo e munizioni causarono
un radicale e spietato aumento della domanda di forza lavoro. Inizialmente fu
soddisfatta da volontari, ma le condizioni del servizio, la lunga durata
dell’assenza da casa e l’orrore dell’incognito portarono a usare l’arruolamento
forzato su larga scala. Tale metodo di trasporto richiedeva un duro lavoro
fisico in condizioni difficili, in più il cibo era insufficiente, le malattie
erano comunissime e c’era la reale possibilità di diventare una casualità della
guerra. I carriers erano più esposti alle malattie dei soldati a causa
una combinazione di dieta povera, di mancanza di igiene e di ignoranza.
Disporre di portatori a sufficienza divenne un fattore determinante per
Britannici, Belgi e Tedeschi.

Se averli in numero sufficiente era essenziale, il mantenerli efficienti e sani lo
era ancor più. Si calcola che entro la fine del 1916 siano stati arruolati
160mila uomini nei territori inglesi del Nord come pure nella colonia tedesca.
Di essi, 63.000 erano ancora in servizio, 5.349 erano morti e 26.318 – numero
altissimo – avevano disertato o erano dispersi, mentre 30.000 erano stati
congedati secondo gli impegni presi.

[Alla fine del 1916] il nuovo comandante inglese, il generale Hosking, con il suo
staff calcolò che avrebbero avuto bisogno di almeno 160.000 portatori per poter
procedere con le operazioni di guerra. In termini di reclutamento significava
che c’era bisogno di 16.000 nuove reclute ogni mese per tenere il passo con un
livello di perdite mensili del 15%.

Situazione sanitaria dei carriers

Nel periodo tra l’8 gennaio e il 5 maggio 1916 ben 38.000 carriers furono
ammessi negli ospedali, con una proporzione di ammissioni di 206 ogni mille. Di
questi, circa 23.000 erano malati di malaria e 2.800 di dissenteria. I due
malanni erano la ragione principale dei ricoveri ospedalieri. La malaria era la
causa del 60% dei ricoveri, mentre la dissenteria solo del 7,5%. Ma la malaria
provocava il 26% delle morti, mentre la dissenteria il 23%. [L’ospedale di]
Kilwa aveva l’infelice primato di ricoveri, con il 41,3% che si ammalavano.

Il livello di malattie non era un problema temporaneo anche perché moltissimi dei
portatori venivano persi per sempre: o perché ormai invalidi permanenti, o
perché congedati, o perché morti. I carriers pagarono un prezzo
pesantissimo.




Continua

a cura di Gigi Anataloni