Perù. Kumbarikira e la voce dei Kukama


Storie e volti di
radio / 3


Nata nel 1992, Radio
Ucamara è un’emittente di Nauta, nell’Amazzonia peruviana. Guidata da Leonardo
Tello Imaina, la radio è la voce dei Kukama. Un popolo indigeno che non vuole arrendersi
al disinteresse del governo e alle violenze delle imprese petrolifere.

 


Nauta (Loreto). Per via fluviale o per via aerea: Iquitos si raggiunge soltanto
così. Non ci sono strade che collegano la capitale dell’Amazzonia peruviana con
il resto del paese. La sola eccezione è una carretera locale che la collega a Nord con San Antonio del Estrecho (poco
più di un villaggio) e, soprattutto, a Sud con Nauta. Rispetto alla caotica e
rumorosissima Iquitos, questa cittadina pare un’oasi di tranquillità e
silenzio. È conosciuta per essere sorta nei pressi del luogo in cui il Marañón
e l’Ucayali si riuniscono formando il Rio delle Amazzoni, nonché per costituire
la porta d’ingresso della Riserva nazionale Pacaya-Samiria.

Il motokar ci
lascia davanti al cancello in ferro battuto di Radio Ucamara. È in corso una
riunione della redazione. Dopo un rapido saluto, ci diamo appuntamento per metà
pomeriggio. Il piccolo porto di Nauta dista pochi metri dalla sede
dell’emittente. Occuperemo le ore disponibili per andare con una barca a motore
alla confluenza dei tre grandi fiumi amazzonici.

Nuovo nome, nuova vita

La radio nasce il 2 febbraio del 1992, in epoca di guerra civile,
su iniziativa dell’Instituto de Promoción
Social Amazónica, fondazione del Vicariato apostolico
di Iquitos. In quanto sorella minore de «La Voz de la Selva», emittente con
sede a Iquitos, assume il nome di «La Voz de la Selva – Nauta». Nel 2006 cambia
il proprio nome nell’attuale «Radio Ucamara», crasi derivante dai nomi dei
fiumi Ucayali e Marañón.

Intanto, alcuni anni prima – è il 2003 – assume la direzione
dell’emittente Miguel Ángel Cadenas, un missionario agostiniano spagnolo. Il
padre rivoluziona il progetto radiofonico mettendo al centro tematiche prima
marginali (i conflitti socioambientali, l’antropologia, la ricerca storica) e
aprendo la radio a collaboratori di etnia kukama. Uno di questi è Leonardo
Tello Imaina, ex insegnante di scienze sociali, che nel 2010 diventa il nuovo
direttore.

«Sono kukama da parte di mio padre, sono achuar da parte di mia
madre e ho anche un po’ di sangue quechua». Leonardo, viso glabro e sorriso
triste, descrive con orgoglio le sue radici indigene. «Appena iniziai a
frequentare la radio, me ne appassionai, perché capii che essa poteva essere
uno spazio per fare qualcosa di utile per gli altri e soprattutto per il mio
popolo». Un popolo quello kukama con una lunga storia di sofferenze e
ingiustizie. A iniziare dal genocidio durante l’epoca del caucciù (1885-1915)
per arrivare all’oggi con la devastante invasione delle terre indigene da parte
delle multinazionali. Da tempo Radio Ucamara ha iniziato a lavorare sul
recupero della memoria individuale e collettiva del popolo kukama. E
dell’idioma. «Io non parlo la mia propria lingua – spiega Leonardo -. A scuola
non potevamo utilizzarla. Così oggi le uniche a parlare kukama sono le persone
con più di 75 anni. Se non facciamo subito qualcosa, nel giro di 10 anni di
questa lingua non ci sarà più traccia».

Per questo Radio Ucamara si è attivata. «Oggi, alla radio, abbiamo
due programmi in lingua kukama, che però ci hanno attirato insulti e accuse di
spingere per un ritorno al passato». Per poco più di un anno – da agosto 2012 a
ottobre 2013 – nei locali della radio ha funzionato anche una scuola di lingua
kukama (escuela Ikuari). Con due modalità d’insegnamento: raccontando storie o cantando.
E proprio questa seconda modalità ha avuto un successo inaspettato,
raggiungendo un pubblico ben oltre la regione amazzonica.

Con l’aiuto di Create You
Voice, una Ong tedesca, la radio ha prodotto un videoclip con
una canzone in lingua spagnola e kukama, ritmi musicali rap e una metafora ben
riuscita: i piccoli protagonisti vanno in scena con la bocca tappata da un
nastro adesivo su cui la parola kukama appare cancellata. Kumbarikira – questo il suo titolo – è stato un
successo su internet grazie a YouTube. Eppure, l’inizio era stato ben poco
promettente. «Per fare il videoclip – racconta Leonardo -, necessitavamo di
almeno 60 bambini. Non se ne presentò nessuno perché avevamo detto di voler
fare un video in kukama. Così, per realizzare l’idea, abbiamo dovuto chiedere
aiuto alle persone a noi più vicine». Tanto per capire, la prima ragazza che
appare nel video è Danna Gaviota, 14 anni, la più grande dei tre figli di
Leonardo.

Sulla pelle degli altri

Con l’inizio dello sfruttamento petrolifero dell’Amazzonia e lo
sbarco delle multinazionali si sono diffuse violenza e corruzione. E un
inquinamento che dura ormai da oltre 40 anni.

Spiega Leonardo: «Sono eventi distruttivi per le comunità indigene
che abitano lungo i fiumi e che vivono di pesca. La vita dei Kukama è
strettamente legata a quella dei corsi d’acqua. Gli sciamani curano con gli
spiriti del fiume ma oggi stanno sparendo. Senza sciamani, senza pescatori,
senza cacciatori, si annulla un popolo e la sua resistenza».

«La Pluspetrol non soltanto contamina, ma distrugge l’ambiente
culturale e le modalità di vita delle comunità. Con essa arriva il consumismo e
la prostituzione. Si cercano bambine nelle comunità per sfruttarle
sessualmente. Penso a quanto accade a Villa Trompeteros sul Rio Corrientes, un
fiume devastato dalla contaminazione. I favorevoli alla Pluspetrol sostengono
che essa porterebbe lavoro, ma in realtà si tratta di gente che viene da fuori
perché normalmente l’impresa ha bisogno di manodopera qualificata. Come kukama
mi piacerebbe che la compagnia petrolifera se ne andasse. Come direttore della
radio debbo ascoltare anche opinioni opposte».

Da alcuni anni Iquitos e tutta questa parte dell’Amazzonia
peruviana stanno vivendo un’esplosione turistica. Può essere questa una strada
per arrivare a uno sviluppo sostenibile e corretto? «Le imprese turistiche
operano in modo irresponsabile. A loro non interessa la tematica culturale o
come viva la gente di qui. Anzi, per esse meno gente c’è, meglio è. La
popolazione locale è esclusa o aggredita. Un esempio: le compagnie turistiche
arrivano sui nostri fiumi con imbarcazioni che travolgono le piccole canoe dei
locali. Un turismo culturale e responsabile dovrebbe partire dal rispetto dei
popoli originari e delle loro forme di vita. Avremmo cose meravigliose da
mostrare, ma il turismo attuale – oltre a essere distruttivo – ha una visione
molto limitata dell’Amazzonia». E tutto ciò avviene con la responsabilità di
uno stato miope o corrotto.

«Nella riserva Pacaya-Samiria i Kukama non possono entrare a
pescare perché è riservata al turismo. Nel contempo però essa è aperta allo
sfruttamento indiscriminato della Pluspetrol». Leonardo porta anche l’esempio
del porto di Nauta. «Le autorità lo hanno venduto – senza consultare la
popolazione locale – alle imprese petrolifere, alle imbarcazioni turistiche,
alle stazioni di carburanti. Pochi anni fa il porto era pieno di canoe di
pescatori, cacciatori, agricoltori. Adesso queste persone sono state cacciate
e, per sopravvivere, hanno dovuto dedicarsi ad altre attività, spesso a danno
dell’ecosistema». Leonardo Tello non fa sconti al governo di Lima. «Il sistema
educativo è pessimo qui a Nauta. Figuratevi com’è nelle comunità più isolate.
Quanto al sistema sanitario la sua filosofia rientra nella generale mancanza di
rispetto verso la cultura originaria. Ad esempio, nei centri di salute non
vengono prese in considerazione le piante medicinali. Per non parlare di alcuni
programmi sociali (come Juntos e QaliWarma, ndr) attraverso i quali il governo ha introdotto il consumo di cibi
in latta facendo sorgere il problema del cambio alimentare».

Passato e presente

A
Radio Ucamara lavorano quattro persone più un numero variabile di volontari. «Abbiamo
un notiziario fatto interamente da donne, perché la visione femminile è
distinta», spiega il direttore. Oggi l’emittente raggiunge 45.000 persone,
un’audience importante.

Dopo
aver conversato a lungo ed esserci un po’ conosciuti, Leonardo ci confida che
ha scelto di dedicare anima e corpo a Radio Ucamara spinto anche da motivazioni
molto personali. «Mio padre Antonio – racconta – oggi ha 97 anni. In quanto
Kukama, all’epoca del caucciù egli fu uno schiavo. Mia madre morì di cancro alla
pelle nel febbraio del 2013, come molte altre donne della zona. Mio fratello,
di due anni più vecchio di me, nel 2003 fu schiacciato da una imbarcazione
della Pluspetrol, quando rientrava dalla pesca. Non abbiamo mai ritrovato il
suo corpo».

Mentre
parla, la voce di Leonardo s’incrina e i suoi occhi si velano. Il peso del
passato e quello del presente sono ricaduti anche sulla sua famiglia. Il
direttore ha una ragione in più per rafforzare e diffondere il lavoro di Radio
Ucamara, la voce del popolo kukama.

Paolo Moiola

(fine terza
puntata – continua)

I siti
http://radio-ucamara.blogspot.it/ È il sito della radio di Nauta.

http://createyourvoice.org
È il sito della Ong di Eichenau – un
piccolo comune della Baviera tedesca -, che ha prodotto il videoclip della
canzone «Kumbarikira», visibile su YouTube, e un documentario su Radio Ucamara.

Loreto (Amazzonia
peruviana) / L’inquinamento dei territori kukama

Dove il petrolio
conta più della vita

Lo sversamento di
residui petroliferi nelle acque dei fiumi – Marañón, Corrientes, Pastaza e
Tigre – e nella foresta sta producendo conseguenze fatali per le popolazioni
locali, in maggioranza di etnia kukama. I responsabili sono conosciuti
(Pluspetrol), ma le autorità peruviane si sono mosse con gravissimo e colpevole
ritardo (maggio 2014). Da anni le vittime – aiutate da due infaticabili e
agguerriti missionari spagnoli – protestano contro inquinamento e violenze. Ma
il business petrolifero ha sempre avuto la meglio.

Iquitos. «Appartengo al gruppo indigeno kukama. Un giorno il mio
papà uscì a pescare. Al suo ritorno aveva soltanto due pesci. Io e i miei
fratelli gli domandammo cosa fosse accaduto, dato che di solito ne portava in
abbondanza. Ricordo qualcosa sulle perdite di petrolio che stanno sporcando il
fiume. Per questa ragione i pesci sono malati e noi non possiamo mangiarli.
Allo stesso tempo non possiamo fare il bagno nel fiume perché altrimenti ci
ammaliamo. Le scrivo [presidente] perché lei faccia qualcosa, perché siamo
bambini che vogliamo vivere».

Sono parole di
Alexander Ricopa Fasabi, un bambino di 9 anni del villaggio kukama di Santa
Clara. La sua lettera, assieme a quelle di decine di altri compagni, è stata
inviata al presidente peruviano. Con le loro parole e i loro disegni i bambini
hanno chiesto aiuto a Ollanta Humala e a sua moglie Nadine Heredia.

La protesta
dei minori è stato un nuovo, disperato tentativo dei Kukama per riuscire a
farsi ascoltare dalle autorità politiche. L’iniziativa è stata pensata da
Miguel Ángel Cadenas e Manolo Berjón, due infaticabili padri spagnoli
agostiniani che vivono tra i Kukama a Santa Rita de Castilla e che da molti
anni si battono anima e corpo per i diritti violati di quel popolo1. Lo hanno
fatto e continuano a farlo partendo dalla condivisione della loro quotidianità,
ma anche dallo studio e dalla comprensione della cosmogonia kukama. Per questo
la loro azione si è sempre svolta in stretta collaborazione con
l’organizzazione indigena Acodecospat2 (che, assieme ad altre tre, forma
la Puinamudt3).

La situazione è ormai insostenibile:
l’inquinamento nel Nord dell’Amazzonia peruviana ha compromesso la vita
materiale (ma anche spirituale) delle comunità indigene. Nel corso del 2013,
uno dopo l’altro sono stati dichiarati in emergenza ambientale i bacini dei
fiumi Pastaza, Corrientes e Tigre. Finalmente, lo scorso maggio il governo
peruviano ha decretato lo stato d’emergenza ambientale e sanitaria anche nella
zona del basso Marañón. Tutte decisioni prese con vergognoso ritardo rispetto
ai fatti, all’entità dei danni e alle denunce.

Lo
sfruttamento petrolifero di questa parte dell’Amazzonia peruviana è iniziato
nel lontano 1971. Un oleodotto di oltre 16 chilometri attraversa la foresta e i
territori indigeni trasferendo ogni giorno migliaia di barili di petrolio.
Essendo questa una struttura risalente agli anni?Settanta, essa mostra il segno
degli anni: le condutture sono molto deteriorate e gli allacciamenti precari.
Se un tempo le perdite di petrolio (derrames) avvenivano nei pressi dei pozzi di perforazione, oggi esse sono sempre
più frequenti e consistenti lungo l’oleodotto. Soltanto negli ultimi cinque
anni ne sono state documentate oltre 1004.

Accanto a
queste fuoriuscite di greggio ci sono gli sversamenti nei fiumi – erano la
regola almeno fino al 2009 – delle cosiddette «acque di produzione»5. Si tratta di
acque molto calde (80-90 gradi), salate e contaminate con olio, metalli pesanti
(mercurio, cadmio, bario, piombo, arsenico, ecc.) ed elementi radioattivi. Le
conseguenze delle perdite e degli sversamenti sono devastanti per la flora, la
fauna e le popolazioni. Esposte a un inquinamento quotidiano, le persone si
ammalano delle malattie più varie, alcune gravi o mortali come tumori,
insufficienza renale, danni al sistema nervoso.

Il responsabile di tutto questo è
conosciuto: si chiama Pluspetrol Norte, impresa appartenente al gruppo
petrolifero argentino Pluspetrol. Essa opera nei lotti «1AB» (sfruttato da
Occidental Petroleum fino all’anno 2000) e «8» (appartenente a Petroperú fino
al 1996 e a sua volta diviso in 5 lotti separati più piccoli). I lotti occupano
i bacini dei fiumi Corrientes, Tigre, Pastaza e Marañón e parte della riserva
nazionale Pacaya-Samiria (lotto «8X»). Oggi le acque di questi fiumi sono
altamente contaminate così come vasti territori della riserva. Alcuni siti sono
addirittura spariti come la laguna Shanshococha, che stava nei pressi del lotto
1AB.

L’impresa si
difende affermando che le perdite dell’oleodotto sono causate da atti di
sabotaggio e vandalismo perpetrati da persone appartenenti alle comunità
indigene, negando le condizioni disastrose in cui versano le condutture. Quanto
alle «acque di produzione», da alcuni anni – precisa l’azienda petrolifera –
esse sono reiniettate nel sottosuolo. Va però ricordato che, per oltre un
decennio, la Pluspetrol ha versato nei 4 fiumi amazzonici (tutti affluenti del
Rio delle Amazzoni) fino a 1,1 milioni di barili di acqua di produzione al
giorno. Infine, la compagnia petrolifera accusa i suoi predecessori –
Occidental Petroleum e Petroperú6 – dei danni ai siti ambientali.
Che in parte è vero, ma – affermano le associazioni indigene – subentrando
nelle concessioni la Pluspetrol si è assunta anche la responsabilità di
riparare ai danni pregressi.

Il timore più diffuso è che
l’inquinamento sia troppo grave e che, per riportare un minimo di equilibrio
nell’ecosistema, siano necessari decenni se non generazioni. Intanto le comunità
kukama vivono nella violenza. Che è estea (scontri con lo stato e le
imprese), ma anche – osservano padre Miguel Ángel e padre Manolo – intea
(ubriacature, violenze domestiche, suicidi,…).

«Lavorando in
armonia con l’ambiente e la comunità» (Trabajando en armonía con el medio ambiente y la
comunidad), dice la
propaganda distribuita dalla Pluspetrol. Una presa in giro che farebbe
arrossire chiunque, ma non la compagnia petrolifera argentina e le autorità
politiche che l’hanno protetta fino a ieri.

Paolo Moiola

Note

1 – Per un
ritratto di Miguel Ángel Cadenas e Manolo Berjón si veda MC del novembre 2011,
pp 43-48. In quell’intervista i due missionari denunciavano con forza
l’inquinamento e le violenze perpetrate ai danni della popolazione kukama.
2 –
Acodecospat: «Asociación Cocama de Desarrollo y Conservación San Pablo de
Tipishca».
3 – Della
federazione indigena Puinamudt fanno parte Acodecospat, Feconaco, Feconat e
Fediquep.
4 – Questo
e i successivi dati sono desunti da un rapporto dell’associazione Alianza
Arkana.
5 –
Durante le attività di trivellamento ed estrazione del petrolio, si ha come
effetto collaterale una grande produzione di acqua contaminata detta «acqua di
produzione».
6 – La
Occidental Petroleum, conosciuta anche come Oxy, è una compagnia statunitense.
La Petroperú è l’impresa petrolifera di proprietà della stato peruviano.

Siti internet:
http://observatoriopetrolero.org È il sito di Puinamudt.

http://acodecospat.blogspot.it
È il sito di Acodecospat.

http://alianzaarkana.org È il sito di Alianza Arkana.

www.pacaya-samiria.org È
il sito della Riserva nazionale Pacaya-Samiria.

www.pluspetrolnorte.com.pe – www.pluspetrol.net Sono i siti della compagnia petrolifera argentina.

Tags:
radio, radio comunitarie, Amazzonia peruviana, multinazionali, popoli
indigeni, turismo, inquinamento, lingue indigene, Perù, petrolio, indigeni, Kukama

Paolo Moiola




Dove il tempo è scandito dal dondolo

Diario di viaggio e
incontri / 2

Continua la visita di
Claudia nel Nicaragua postsandinista, da Léon a Granada.

León


17 gennaio

La
casa di Dona Blanca si trova nel centro storico di León e ha un bel patio ricco
di piante esotiche. Il pomeriggio è rovente in città, ma la sera rinfresca e
noi troviamo un locale ampio e allegro dove si serve cibo e caffè italiano.

Alessandro
era arrivato qui come consulente agronomo della Comunità europea. Dodici anni
fa ha deciso di rimanere, aprire un locale e mettere su famiglia con Emilia,
figlia di un italiano e una guatemalteca. Il lavoro è tanto perché si preparano
lasagne, parmigiane e dolci anche da asporto. Alessandro è stanco ma
soddisfatto e, prima di chiudere, si ferma al nostro tavolo con Emilia e la
loro piccola di otto anni. Ne ha di cose da dirci, anche su quegli italiani che
hanno trovato rifugio in questo paese dopo essere stati condannati per delitti
terribili. «Di solito aprono ristoranti e sposano ragazze del posto», e ci fa
l’occhiolino.

Ci
sono molti cartelli di case e terreni in vendita, ma bisogna stare attenti,
potrebbe essere un imbroglio. Il catasto è allo sfascio. I grandi proprietari
erano stati espropriati con la rivoluzione, ma gli Usa premono perché rientrino
nelle loro proprietà. A volte compaiono comunità indigene che reclamano la loro
terra ancestrale.

Rubén


18 gennaio

Avevo
studiato Rubén Darío (1867-1916) nel corso di letteratura spagnola, ma non
ricordavo che fosse nato proprio a León. I poeti in questo paese sono molto
amati e celebrati. Tra due anni cade il centenario della morte di Rubén, e León
si sta preparando. Visitiamo il museo, allestito nella sua casa, poi passiamo
nel museo di arte contemporanea in un fascinoso edificio coloniale, con cortili
e fontane.

Nella
stessa via noto il convento dei francescani, che ora è uno spettacolare
albergo, quasi un museo. Le chiese di León sono numerose e alcune veramente belle,
anche se bisognose di restauri. Gli interni sono arricchiti da colonne di
mogano, alberi che un tempo dovevano formare le foreste ora scomparse.
Il Nicaragua da sempre è in mano a poche, ricchissime famiglie. Le più potenti
sono i conservatori Chomorro di Granada e i liberali Casasa di León. Tutti
grandi proprietari terrieri che hanno sempre avuto il potere di influenzare la
politica.

León,
città di studenti universitari e di poeti, è sempre stata al centro della vita
culturale e politica del paese. Anche la famiglia di Maria Vittoria è di idee
liberali. Ci siamo conosciute a Co Island e ora ci ritroviamo qui, nella città
dove la famiglia aveva proprietà che ha perso con la rivoluzione. «Mia nonna
nascondeva le armi dei sandinisti in giardino» mi racconta, «durante la guerra
i miei genitori hanno deciso di rifugiarsi a San Diego, in Califoia, dove mio
padre aveva studiato da ragazzo». Maria Vittoria ama León ma abita a San
Francisco e fa l’avvocato. Tutti gli anni ritorna qui per una settimana di vacanza.

Stasera
vi è un’altra cerimonia in onore di Darío davanti alla gigantesca cattedrale,
con i discorsi dei politici, i balli in costume, una musica assordante e il
finale con i botti, come quelli che ieri mattina ci hanno svegliate alle 5. Ci
siamo spaventate, poi ho saputo che ieri cadeva l’anniversario della nascita di
Sandino, eroe nazionale. Sono uscita e, davanti alla chiesa della Merced,
ho visto il carro delle processioni con la polizia e uomini che caricavano la
statua della Madonna, avvolta in teli di plastica. Destinazione: le prigioni di
stato, dove la Vergine benedirà i carcerati.

Poneloya


20 gennaio

Da León
in venti minuti raggiungiamo Poneloya, una località sul Pacifico che pare in
stato di abbandono, con casette diroccate, molte in vendita, affacciate su una
lunga spiaggia di sabbia nera. Dopo il primo sconcerto capisco di aver trovato
il posto giusto per me nell’albergo consigliatomi da Dona Blanca, una semplice
struttura con il pergolato di foglie di palme sulla spiaggia.

Al
tramonto la luce color bronzo delle nuvole si riflette sulla sabbia umida, ma
al calar del sole il cielo si accende di rosso. Allora chiude la cucina, che ha
servito sin dal mattino le famiglie di León in gita, con nonni e nipotini.
Dobbiamo trasferirci alla Barca de Oro, un simpatico locale alternativo
gestito da una signora francese, con vista sull’estuario del fiume. Lungo la
strada buia si affacciano le pulperie, botteghe che offrono in vendita
cose essenziali, e semplici locali con amache e musica. La notte il mare sale e
rumoreggia. Numerosi cani circolano tranquilli. La mattina li vedo giocare coi
gabbiani, sulla spiaggia. Mi avvio verso l’estuario dove si radunano aironi,
garze, stee e pellicani e, volendo, si può passare il fiume e raggiungere il
centro di protezione delle tartarughe. Le uova raccolte dai pescatori nei nidi
vengono acquistate, custodite per 45 giorni e, una volta schiuse, le piccole
tartarughe saranno protette dai predatori.

Verso
le 7 del mattino ritornano i pescatori, ma i pesci sono pochi, nonostante
abbiano trascorso tutta la notte in mare.

Lo
spettacolo continuo è dato dal volo di grandi stormi di pellicani che nel cielo
creano disegni mobili e precisi. Qui non si tuffano per pescare, non dondolano
sulle onde come negli altri mari tropicali. Piccole formazioni compatte passano
a pelo d’acqua, pattugliano il mare senza fermarsi.

Volontari e Dentisti


23 gennaio

Alcuni
amici mi fanno incontrare Mertxe, energica signora arrivata trent’anni fa con
le brigate di solidarietà dei Paesi Baschi, che allora avevano appoggiato la
rivoluzione sandinista. Robusta, non più giovane ma piena di energia, Mertxe ha
creato negli anni un’opera importante per promuovere la donna attraverso i
consultori, l’educazione, il lavoro, il fotovoltaico e il microcredito. Ha
scelto un nome indio, Xotchil, ed è riuscita a coinvolgere oltre 500 donne in
un distretto agricolo di 9000kmq. I finanziamenti arrivano dalla Municipalità
Basca, da sempre attenta ai bisogni dei paesi poveri.

25 gennaio

Victoria
è arrivata da Toronto e fa parte di un gruppo di 50 volontari che hanno base
nel nostro albergo. Sono dentisti e tecnici canadesi, soci della Ong Kindness
in Action
, che lavoreranno per qualche giorno in un piccolo ospedale della
regione. Prendiamo il caffè insieme e scopro persone positive, felici di fare
questa esperienza. Ciascuno di loro ha una storia da raccontare.

Victoria
è stata in molti paesi ed è alla sua quarta esperienza in Nicaragua. Ricorda
con dolore la miseria estrema trovata nei villaggi montani del Guatemala,
mentre in Cambogia vide una popolazione sfruttata in modo cinico, senza diritti
e possibilità di riscatto. Victoria capisce l’italiano, perché da bambina ha
vissuto un anno a Ostia. Era il 1974 e Golda Meyer si era accordata con Nikita
Kruscev per concedere un esodo degli ebrei russi che erano pesantemente
discriminati. Allora Victoria frequentava la prima elementare a Kiev (Ucraina),
ma la famiglia era originaria di Harkov, al confine con la Polonia. Per
emigrare occorreva pagare al fine di ottenere un invito. Israele offriva subito
cittadinanza, sanità e lavoro, ma c’era la guerra. Arrivati a Vienna, il padre,
decise di andare in Italia, dove la famiglia venne sistemata a Ostia, in attesa
di partire per l’America.

Chiedo
a Victoria il significato del suo cognome, Sugarman. «Ho mantenuto il nome del
mio primo marito. Suo padre era arrivato a Ellis Island (New York) dalla
Polonia. Aveva un nome difficile; decisero così di dargli il nome del suo
mestiere, pasticcere, obbligandolo ad abbandonare il nome di famiglia
originale. Victoria conosce Shakespeare, sorride e cita una bella frase da
Romeo e Giulietta: «A rose by any other name would smell as sweet» (una rosa
avrebbe lo stesso profumo anche se si chiamasse in un altro modo).

A
tavola conosco altri volontari. André è un giovane ingegnere, nato a Minsk
(Bielorussia) da famiglia agiata, che appena è stato possibile ha chiesto di
emigrare in Canada. Ci sono riusciti nel 2005, pagando una bella cifra. Il
padre fu minacciato, pistola alla tempia, e costretto a lasciare tutti i suoi
affari in patria.

Victor


1 febbraio

Victor
il tassista è venuto a prenderci per portarci a Leòn, domani proseguiremo per
la laguna di Apoyo. Nei venti minuti di tragitto racconta la storia della sua
famiglia, originaria di Las Penitas. Il padre era un povero pescatore con una
famiglia numerosa, che si rendeva conto delle ingiustizie subite dal popolo.
Parlava ai compagni, li spronava a ribellarsi. La situazione era drammatica,
mancavano le scuole e i centri di salute che ora, con l’amministrazione Ortega,
sono sorti ovunque. Nei primi anni dopo la rivoluzione, gli studenti delle città
furono inviati nelle campagne per insegnare ai figli di contadini a leggere e
scrivere. Un tempo i proprietari terrieri non si curavano dei loro dipendenti,
volevano tenerli nell’ignoranza per meglio controllarli. Pare che l’unica
attenzione fosse data agli uomini la domenica, con l’arrivo delle prostitute e
la distribuzione di rum. La condizione delle donne era di completa
sottomissione.

Un
giorno, dopo disordini da lui fomentati, fu mandato in prigione, con i suoi
figli. Uscito, decise di trasferirsi a León, cercare un lavoro, mentre la mamma
si mise a vendere cibo e i figli furono mandati a scuola. Victor aveva 14 anni
quando fu prelevato a scuola e arruolato nell’esercito, come era la regola,
allora. Dopo alcuni anni passò nelle file dei sandinisti. «In quegli anni
imparai a leggere e a scrivere e mi misi a studiare». Victor mi affascina, ha
doti di sintesi e chiarezza nel raccontare le vicende della sua vita e la
storia del suo paese. Spero di sentire altre storie, domani, in viaggio.

San Juan del Sur


3 febbraio

Anita
è una signora triestina che vive a San Juan del Sur da molti anni e nella sua
bellissima casa ha due stanze per gli ospiti. Costruita in legno pregiato è
aperta su un giardino di piante grasse, bouganville e manghi. I vicini di casa
appartengono alla famiglia
Chamorro, signori di Granada e proprietari de La Prensa, il quotidiano
che riesce ancora a fare opposizione al governo Ortega.

Tutto
è di gusto raffinato, non ci sono vetri, solo gelosie di legno, tiranti di
ferro e veri alberi coi rami che sostengono il tetto.

La
sera cerchiamo la gelateria italiana e incontriamo Stefano Cardonato, giovane
ingegnere ambientale torinese che sta trascorrendo le sue vacanze
viaggiando. è ospitato sulla strada del caffè nella casa di una famiglia
di contadini nell’ambito del programma «Turismo Rurale». Il padre di famiglia,
racconta, esce presto la mattina per andare a lavorare nei campi e si porta i
piccoli dietro. Non c’è bisogno di asilo, loro sono contenti e giocano. A
mezzogiorno ritorna nella casetta, e si gode la famiglia.

Ometepe, l’isola


7 febbraio

Su
consiglio di Stefano parto per Ometepe. Lasciamo le grandi spiagge di San Juan
del Sur e ci fermiamo al mercato di Rivas, snodo importante sulla Panamericana,
dove ci sono gli zuccherifici, l’università e l’ospedale. Il traffico in centro
è rallentato dai numerosi ricshò che trasportano cose e persone.

A San
Jorge ci imbarchiamo sul ferry per Ometepe. Siede accanto a me una coppia di
contadini. Sono stanchi, si addormentano subito riversi sul sedile e paiono
morti. Hanno piedi che non hanno mai visto scarpe, mani da lavoro, visi
rinsecchiti, scavati dalla miseria. Impressionante.

Un pick
up
ci porta a Merida su una strada che è un torrente in secca con pietre e
buche che quando piove diventa impraticabile. Gli isolani usano la bici, che
spingono sulle ripide salite. I cavalli si usano per trasportare i platani (o plantani),
i migliori d’America, che esportano nei paesi vicini. Si friggono due volte e
sono ottimi come contorno.

Forse
il prossimo anno asfalteranno i primi 2 chilometri di questa strada, mentre una
pista per piccoli aerei è già stata costruita, ma mai usata.


9 febbraio

Ometepe
è un’isola fantastica, formata da due vulcani spuntati in mezzo al lago più
grande dell’America centrale. Abitata molti secoli prima della scoperta
dell’America, conserva petroglifi e ceramiche che le famiglie raccolgono ed
espongono nelle case.

In
riva al lago un catalano con l’orecchino si è associato con Louis, nativo
dell’isola, e insieme hanno costruito due casette di mattoni, una cucina con
due fornelli a legna, una pergola e un riparo per i kayak, il Caballito
del mar
. Ci sistemiamo qui anche se ci sono lodge più belli, che
attirano i viaggiatori alla ricerca della natura incontaminata. La sera però
arrivano da noi per gustare i piatti semplici e gustosi di Maria Teresa, la
nostra cuoca. La vedo arrivare all’alba per spazzare, pulire, accendere il
fuoco e cucinare. Pesce del lago appena pescato, pollo al miele e le repochetas,
tortillas fatte a mano e fritte, coperte di crema di fagioli, formaggio
e cavolo. Oggi Louis è andato a comprare un pollo dai contadini, me lo ha
portato in un sacco, poi si è messo a spiumarlo in cucina, mentre Maria Teresa
preparava le verdure per la zuppa. Parte della bestia è stata poi cucinata con
rum, cipolle e miele. Viviamo questi giorni accanto agli abitanti e la notte
siamo svegliate dal canto del gallo, dall’abbaiare di cani, dai versi e dai
richiami di uccelli e altri animali.

Maria

Sono
le sei del mattino e la chioccia è arrivata coi pulcini a becchettare davanti
alla nostra capanna. Maria ha già lavato parte del secchio di panni sulle
pietre poste in riva al lago. Con i piedi in acqua, passa sapone e spazzola sui
vestiti sporchi di famiglia. Maria ha solo tredici anni, quattro fratelli e due
sorelle e ha sempre lavorato aiutando in casa. La sua famiglia abita qui,
sull’isola, dove alcuni stranieri hanno già pensato di installarsi. La terra
sull’isola costa sempre più cara, perché molti arrivano qui dal Costarica alla
ricerca di un paese genuino e meno caro.

Oggi
risaliremo il fiume Istan, che taglia l’istmo che separa i due vulcani.
Entriamo con il kayak in un paradiso di alberi maestosi, alcuni in piena
fioritura, dove possiamo vedere una grande varietà di uccelli, scimmie,
alligatori. L’acqua è tranquilla, ricoperta da piante acquatiche, l’atmosfera
serena. Sullo sfondo i due vulcani, con un cappello di nuvole sulla cima.

10 febbraio

Siamo
arrivate a Moyogalpa a mezzogiorno, dopo esserci fermati a Ojo de Agua, una
piscina quasi naturale di acqua sorgiva e, pare, benefica. Ci siamo fermati poi
a Charco Verde, un complesso turistico presso una laguna, oasi naturalistica
protetta. Un posto per turisti esigenti, molto bello e molto diverso dal Caballito
del mar
. Ci sono alberi maestosi, il prato e la spiaggia attrezzata. Niente
galline, né maiali o bambini in giro.

Proseguiamo
per Moyogalpa, cittadina deliziosa, vivace e trafficata fino alle 17, quando
parte l’ultimo traghetto per Sao Jorge. La via principale ha casette colorate
dove si aprono botteghe, caffè, comedor e ristoranti. La sera si
accendono le luci e si scorgono gli interni con le decorazioni vivaci, le
poltrone a dondolo di legno scolpito, le tendine di pizzo. Le famiglie allora
si siedono sul marciapiede a chiacchierare, mentre i bambini giocano per
strada.

La
via sale e termina con il parque central, piccola piazza ombrosa con
panchine, e la chiesa cattolica. Entriamo e vediamo una chiesa povera, anche se
piuttosto grande. Le colonne sono di legno e hanno lunghe cortine di pizzo con
mantovana. Il pavimento ha bisogno di restauro, mancano alcune mattonelle.
Fuori si accende il tramonto sul lago.

Gli
altri, le sette evangeliche che arrivano dagli Usa, sono molto agguerriti,
salgono persino sui bus e parlano per ore di Gesù in mezzo alla gente. Poi
chiedono soldi e la gente sgancia.

Dona Nora

«Sono
nata 64 anni fa e la mia era una povera famiglia contadina. A vent’anni avevo
già due bimbe e la vita dei campi era troppo dura». Dona Nora siede su un
dondolo di legno intagliato, nel patio del suo albergo e mi racconta la sua
vita. «Arrivai a Moyogalpa e mi misi accanto al molo dei ferries, sotto
una capanna col tetto di foglie di banano. Vendevo gallo pinto, birra e
bibite».

Dona
Nora si è messa il rossetto, il corpo adagiato nella sedia a dondolo è
disfatto, ma gli occhi brillano, mentre continua il racconto della sua vita. «Comprai
il terreno e negli anni successivi comprai quello accanto, dove ho fatto
costruire questo albergo». Le piante e i fiori nel giardino sono stupendi, ci
sono anche due carambole (star fruit) cariche di frutti. Le pareti
dell’albergo sono dipinte a colori vivaci, con i vulcani e le mappe dell’isola.
Altri tre figli arrivarono negli anni, ma pare che gli uomini non abbiano mai
collaborato.

Granada


12 febbraio

L’ultima
sosta la dedico a Granada, antica capitale che ha scoperto una vocazione
turistica.

Il
vulcano Mombacho domina il paesaggio e condiziona lo sviluppo delle città.

Le
case coloniali del centro storico sono state restaurate, alcune sono ora di
proprietà straniera altre sono strutture turistiche, ma la vita degli abitanti
nei quartieri periferici non pare cambiata.

Mi
fermerò qui solo una notte in una posada, una casa privata, dove i due
anziani proprietari passano la giornata in dondolo, ricambiando gli sguardi dei
passanti, mentre umili donne lavorano.

Claudia Caramanti


Claudia Caramanti




Non è più terra di conquista

Tra Russia ed Europa

Chi si reca in
Lituania oggi nota subito quanta Europa «si respiri» lassù: dieci anni dopo
l’ingresso nell’Unione europea, infatti, rimangono ancora evidenti i retaggi
sovietici e le difficoltà di convivenza tra le diverse minoranze.

Attraversare
la Lituania è un’esperienza affascinante: l’incontro tra passato e presente dà
vita a forti contrasti, influssi sovietici e simboli occidentali convivono
fianco a fianco, sia nelle città che nelle campagne. Profonda e forte, come le
croci di Kryžių Kalnas (la Collina delle croci), appare poi l’anima cattolica
del paese, simbolo del nazionalismo, del desiderio di indipendenza e di unità
lituani.


Per alcuni geografi Vilnius è il centro dell’Europa che va
dall’Atlantico agli Urali, e dal Circolo Polare Artico al Mediterraneo.

Qui
avvenne l’incontro, non sempre pacifico, tra pagani e cristiani, fino a quando
il re Mindaugas, nel XIII secolo, si convertì al cristianesimo, unificando le
varie tribù del Granducato di Lituania, del quale fu incoronato sovrano nel
1253. Mindaugas si convertì al cattolicesimo nell’ambito di un accordo con i
Cavalieri Teutonici, i famosi monaci guerrieri tedeschi che avevano conquistato
gran parte dei territori dell’antica Prussia, spingendosi fino a Memel
(l’odiea Klaipėda, in Lituania).

I
lituani, comunque, rimasero in gran parte pagani fino al 1400: il loro fu
l’ultimo paese europeo a convertirsi, innanzitutto per la loro orgogliosa
indipendenza.

Il re
cattolico Vytautas (1352-1430), aprì le porte del suo regno agli ebrei di tutto
il continente trasformando Vilnius nella «Gerusalemme del Nord», con 105
sinagoghe, una grande scuola talmudica, e la presenza del gaon, ossia il
leader spirituale della comunità ebraica mondiale.

A
partire dal 1385, a seguito dell’unione con la corona polacca, la Lituania andò
incontro a un processo di «polonizzazione». Di questa relazione forte e ambigua
con la Polonia rimangono ancora oggi segni evidenti.

Nel
1654 la Russia invase temporaneamente la Confederazione, impossessandosi di una
parte considerevole dei territori, e nel 1795 tutta la Lituania passò sotto il
dominio russo. Mentre Estonia e Lettonia vennero governate come province autonome,
sulla Lituania il governo russo esercitò un controllo molto più rigoroso perché
il rischio di ribellione sembrava più alto.

L’aspirazione
alla rinascita nazionale del popolo lituano raggiunse l’apice tra il XIX e
l’inizio del XX secolo, anche grazie al rapido sviluppo industriale di Vilnius
e degli altri centri urbani, e riuscì a realizzarsi in un breve periodo di
indipendenza alla fine della prima guerra mondiale, durante la quale la
Lituania fu occupata dalla Germania. Nel novembre 1918 quest’ultima firmò
l’armistizio con le potenze alleate, e nello stesso giorno fu istituito il
governo della Repubblica Lituana.

Il
neonato stato riuscì a ottenere da Lenin il riconoscimento dell’indipendenza,
ma si trovò ad affrontare l’attacco della Polonia che ambiva a riprendersi il
suo antico territorio. I polacchi occuparono Vilnius e la parte meridionale del
paese nel 1920, mentre la capitale della Repubblica Lituana fu trasferita a
Kaunas.

Il
susseguirsi di dominatori spinse alla fine i lituani ad apprezzare l’intervento
dei sovietici prima e dei nazisti poi. Questo è evidente nei musei storici del
paese che raccontano l’occupazione nazista valutandola quasi positivamente
rispetto a quella sovietica.

Prima
della seconda guerra mondiale Vilnius ospitava una delle comunità ebraiche più
importanti d’Europa, tanto che nel 1925 fu scelta come sede dell’Istituto di
Ricerca Scientifica Yiddish Yivo. Negli stessi anni sorsero un gran numero di
scuole, biblioteche, teatri, sinagoghe e case di preghiera, e sei quotidiani ebraici.

Quando
Hitler invase l’Unione Sovietica, e l’esercito arrivò in Lituania, si scatenò
una carneficina: in soli cinque mesi, dal luglio al dicembre 1941, oltre
160mila persone furono uccise: l’80% della popolazione ebraica. Alla fine della
seconda guerra mondiale, la comunità ebraica lituana risultava praticamente
azzerata.

La
Lituania fu anche l’unica delle repubbliche sovietiche in cui una forte
resistenza armata si oppose alla rioccupazione dell’Urss, che ebbe inizio già
nel 1944 e durò fino al 1953, anno della morte di Stalin. I partigiani lituani,
chiamati «Fratelli della foresta», con la loro guerriglia scoraggiarono la
politica di immigrazione russa che invece stravolse la fisionomia di Estonia e
Lettonia. Nonostante questo, si stima che si trovino comunque in Lituania 115
diverse comunità etniche la cui convivenza non è sempre facile.

Un’altra
caratteristica dell’opposizione antisovietica lituana è il ruolo della Chiesa
cattolica, sostanzialmente assente in Estonia e Lettonia, come «polo di attrazione
della dissidenza».

Dopo
l’indipendenza nel 1991, la Chiesa cattolica ha rapidamente ripreso possesso
delle proprietà ecclesiastiche riconsacrando i luoghi di culto. Oggi circa
l’80% dei lituani si dichiarano cattolici. Fra le minoranze religiose ci sono
gli ortodossi (4%), i protestanti (2%), e altre confessioni.

Soviet nostalgia?

I
conti con il proprio passato si fanno non solo ricordando l’orgoglio e
celebrando il senso di identità nazionale, ma anche recuperando memorie
dolorose e cercando di dare loro una nuova collocazione, una nuova forma.

È
quello che è successo, ad esempio, con il Grutas park, il parco delle sculture
sovietiche, sorto a pochi chilometri dal confine polacco lituano.

Entrando
in Lituania dal confine polacco, infatti, una delle «attrazioni imperdibili»,
testimonianza del desiderio di conservare viva la memoria, è il parco di
Grutas. Il parco, soprannominato Stalin World, ospita una vasta collezione di
statue, un tempo collocate come simboli del potere sovietico in vari parchi e
piazze di tutto il territorio nazionale.

Il
parco è stato voluto da Viliumas Malinauskas, ex direttore di kolchoz
(le cornoperative agricole sovietiche), poi imprenditore arricchitosi grazie a
un’azienda di funghi in conserva. Nel 1999 egli ottenne in concessione dal
ministero della Cultura le sculture, e decise di installarle in una parte della
sua proprietà di 200 ettari.

L’ingresso
del parco, progettato in modo da ricordare un campo di concentramento
siberiano, riproduce il presidio al confine sovietico polacco, con tanto di
filo spinato e di barriere a strisce bianche e rosse sul lato polacco, e rosse
e verdi sul lato sovietico. Accanto si trova uno dei vagoni con cui i
prigionieri lituani venivano deportati in Siberia.

Una
volta attraversato il tornello dell’ingresso, si viene accolti da musiche russe
emesse da altoparlanti fissati sulle torri di vedetta, mentre nel ristorante si
possono mangiare con posate di fabbricazione sovietica sardine, cipolle e,
ovviamente, bere vodka. La maggior parte delle statue del parco non dicono
molto agli stranieri poiché rappresentano «eroi» o episodi della storia locale.
Ma non è così per le giovani coppie di lituani che, spesso con i figli,
passeggiano fermandosi di fronte a storie o personaggi magari citati dai propri
genitori o nonni.

Museo della Guerra fredda

Proseguendo
verso Nord, un altro luogo estremamente significativo è il Museo della Guerra
fredda, inaugurato alla fine del 2011, ricavato in un’ex base missilistica
sovietica sotterranea costruita all’inizio degli anni ‘60 nel cuore del parco
nazionale di Žemaitija, e rimasta sorprendentemente sconosciuta alla
popolazione lituana per decenni.

Nel
museo è allestita una mostra riguardante la storia della Guerra fredda e, in
particolare, la situazione dei paesi baltici. C’è anche una sezione dedicata
alla costruzione e al ruolo della base missilistica stessa, che un tempo
custodiva missili nucleari con potenza sufficiente ad annientare gran parte
dell’Europa. La principale attrattiva del museo è, infatti, la possibilità di
visitare uno dei bunker che un tempo racchiudevano le enormi testate nucleari:
missili R12 lunghi 22 metri.

Per
costruire la base, nel 1960 furono inviati sul posto 10mila militari provenienti
dagli stati satellite dell’Urss, che completarono l’opera in otto mesi. Essa
ospitò il 79° Reggimento missilistico fino al 1978, quando i missili
scomparvero «misteriosamente», e la struttura fu abbandonata al suo destino.

Nel
corso della sua storia, la base fu utilizzata per puntare i propri missili in
direzione dell’America durante la crisi internazionale cubana dell’autunno
1962, e fu tra quelle allertate con allarme rosso durante l’invasione della
Cecoslovacchia del 1968.

La Collina delle croci

È sulla
Collina delle croci, più che in ogni altro luogo, che si può ripercorrere e
sentire la storia, il passato e il presente, ma soprattutto il desiderio di
indipendenza e la forza del sentimento nazionalista del popolo lituano.

La
Collina delle croci è un luogo impressionante, affascinante e sconvolgente al
tempo stesso. Qui sono state erette migliaia di croci, da parte di innumerevoli
pellegrini e delle moltissime coppie che, di sabato, vi si recano appena dopo
la cerimonia nuziale.

Grandi
e piccole, preziose e povere, in legno e in metallo, le croci possono assolvere
la funzione prettamente religiosa di accompagnare la preghiera, ma anche
rappresentare, con i loro elaborati lavori di intaglio, veri capolavori
dell’arte popolare. Alcune sono state piantate in memoria di persone scomparse.
In tal caso sono accompagnate da fiori e qualche fotografia, o da altri oggetti
che ricordino il defunto, con un’iscrizione affettuosa o un messaggio
religioso.

Sparsi
fra le croci si possono vedere non solo i tradizionali koplytstulpis
lituani (statue di legno sormontate da un piccolo tetto), ma anche alcune
sculture lignee raffiguranti il Cristo Addolorato (Rūpintojėlis).
Secondo i principi di un’arte tramandata di maestro in allievo, le croci sono
intagliate in legno di quercia, l’albero sacro della mitologia pagana. Intese
come offerte agli dei, erano accompagnate da cibo oppure avvolte con sciarpe
colorate (per propiziare un matrimonio) o con grembiuli (auspicio di fertilità).
Una volta riconosciute dalla Chiesa, si legarono però definitivamente ai riti
cristiani, assumendo una connotazione sacra. In seguito, le croci divennero
simboli della resistenza contro l’occupazione configurandosi come testimonianza
non solo di devozione, ma anche di identità nazionale.

Diverse
sono le storie che circolano sull’origine della Collina e la colorano di
leggenda: alcune sostengono che sia stata costruita in tre giorni e tre notti
dalle famiglie dei soldati uccisi in una grande battaglia, altre dicono sia
stata opera di un padre che, nell’estremo tentativo di far guarire la figlia
malata, per primo innalzò una croce votiva sulla Collina. Altre ancora narrano
di un castello distrutto dai Cavalieri Portaspada nel Trecento, sui cui ruderi
sarebbe sorto il simbolo della fede e della nazione lituana. Da ultimo, le
tradizioni pagane narrano di vergini celestiali che in questo luogo accendevano
e accudivano i fuochi sacri a loro affidati, e di un tempio, costruito in epoca
precristiana, in cui si praticavano sacrifici e culti pagani.

Le
testimonianze più attendibili però riportano che le prime croci furono
collocate dagli abitanti della zona per commemorare le vittime degli scontri
del 1831 e del 1863 tra la popolazione lituana, che protestava contro
l’oppressione del regime zarista, e le autorità russe che avevano annesso la
Lituania nel 1795. Diverse persone, nel corso di quei moti insurrezionali,
avevano perso la vita per il sogno di rivedere la patria lituana risorgere e
riaffermarsi nel contesto europeo. Così, gli abitanti delle città limitrofe
presero a piantare, nel terreno particolarmente morbido della Collina, delle
croci, delle più svariate fogge e dimensioni, in memoria dei propri cari che
non tornavano. La Collina divenne così rapidamente un luogo d’incontro dove
ognuno andava per piantare la propria croce e chiedere una grazia, commemorare
un defunto, e così via.

La
prima menzione della Collina in un documento risale al 1850 e riguarda la
notizia che centinaia di croci vi furono piantate dopo che un editto dello zar
aveva ordinato la loro rimozione dalle strade delle campagne circostanti. A
fine Ottocento le croci erano poco più di un centinaio, per lo più di grandi
dimensioni, ed esisteva anche una piccola cappella di mattoni. L’usanza di
andarvi a piantare delle croci prese piede e crebbe legando da subito
religiosità e patriottismo. Le messe celebrate ai piedi della Collina si
trasformavano in manifestazioni nazionaliste.

Divenuta
dunque simbolo del risorgimento nazionale, delle rivolte antizariste prima, e
della resistenza al regime comunista poi, la Collina non poteva avere vita
facile. Quell’affollarsi di fedeli e di croci, quella rivendicazione di
indipendenza, alterità e di fede dava fastidio al potere sovietico, ateo e
antinazionalista, che nelle scuole insegnava l’ateismo, che aveva trasformato
le chiese in musei, e aveva spedito nei lager della Siberia decine di migliaia
di persone, tra cui tanti preti e suore. Nel 1961, quindi, per la prima volta, «l’ateismo
dei bulldozer» spianò la Collina, bruciò le croci di legno e portò alla rottamazione
quelle di ferro. Quel gesto però sortì una reazione opposta: la stessa notte
altre croci vennero piantate al posto di quelle distrutte o bruciate. E lo
stesso avvenne anche negli anni successivi, di fronte ai nuovi tentativi del
regime di spianare la Collina. Alle operazioni di pulizia delle forze
dell’ordine faceva seguito il silenzioso ritorno delle croci. I comunisti
tornarono a spianare la Collina per tre volte, il sito venne piantonato
dall’Armata Rossa, sorvegliato dal Kgb (i servizi segreti sovietici), si pensò
addirittura di allagare l’area, per trasformare la Collina in un’isola
inaccessibile. Una di queste tre volte fu nel 1972, quando uno studente di
Kaunas si suicidò in segno di protesta contro l’occupazione sovietica. Di
nuovo, anche in quell’occasione, le croci tornarono sulla Collina.

Ancora
oggi si possono individuare le croci in ferro che, scampate ai bulldozer e
recuperate, ora stanno in piedi un po’ sbilenche, raddrizzate a martellate, in
equilibrio solo apparentemente precario su blocchi irregolari di cemento. Nel
1990 erano circa 50.000. Nel 2000 arrivavano addirittura a 100.000.

Papa
Giovanni Paolo II si recò sulla Collina delle croci durante la sua visita in
Lituania nel settembre del 1993. Celebrò la messa all’aperto su un altare in
legno costruito per l’occasione e donò alla Collina e al popolo lituano una
grande croce dello stesso materiale con una base in granito sulla quale è
riportato il suo ringraziamento per la testimonianza di fede: «Grazie a voi
lituani per questa Collina delle croci, che testimonia ai popoli di tutto il
mondo la grande fede del vostro popolo».

Alle
spalle della Collina si trova oggi un monastero francescano, costruito fra il
1997 e il 2000, dopo che Giovanni Paolo II espresse il desiderio che qualcuno
si occupasse della cura e della manutenzione del sito. Oggi nel monastero si
trovano 10 frati.

Viviana Premazzi


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Kryžių Kalnas, Grutas park, Lituania, ex sovietico, nazionalismo, Vilnius,
Russia, guerra fredda, occidente, Unione Europea

Viviana Premazzi




Sole, vento, terra d’Africa

Le energie
rinnovabili nel continente africano

Dall’eolico al fotovoltaico,
dal solare termodinamico al geotermico. Le energie rinnovabili, o energie
pulite, sono all’avanguardia in Africa. E vedono sempre maggiori investimenti
nei paesi che vogliono smarcarsi dai combustibili fossili. Purtroppo non sempre
l’impatto ambientale è trascurabile.

Acqua, calore terrestre e vento: il futuro
energetico dell’Africa potrebbe partire da questi elementi, tutti abbondanti
nel continente e tutti puliti. Il percorso è ancora lungo, ma si stanno
compiendo passi da gigante nella direzione di una energia accessibile e
rinnovabile, capace non solo di far crescere la qualità della vita degli
africani, ma anche di alimentare lo sviluppo economico.

Attualmente
un terzo della popolazione africana non ha accesso all’elettricità. Se esistono
però paesi come Libia, Egitto e Sudafrica in cui la rete elettrica è
strutturata e raggiunge la maggior parte degli utenti, in altre nazioni
l’accesso scende sotto il 20%, con picchi negativi del 5% in stati meno
sviluppati. Una situazione difficile anche se tenendo conto delle necessità di
un continente che economicamente sta crescendo a livelli sostenuti. Il Pil,
infatti, pur partendo da valori assai bassi, continua a salire. Quello
dell’Africa sub sahariana, secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi), è
balzato dal 5,1% nel 2012, al 5,4% nel 2013, al 5,7% nel 2014. Etiopia,
Mozambico, Tanzania, Congo, Zambia, Nigeria e Ghana dovrebbero rientrare, nei
prossimi 5 anni, tra le economie con la crescita più forte al mondo.

L’energia
è quindi un fattore strategico. E l’energia rinnovabile, in particolare, può
essere la più adatta per il continente. In paesi in cui le reti elettriche non
raggiungono tutte le regioni e nei quali la popolazione è dispersa su aree
molto vaste, la produzione con piccoli impianti distribuiti sul territorio e
destinati alle esigenze locali può rivelarsi la soluzione più razionale. A ciò
si aggiunge il fatto che, soprattutto quando si parla di impianti eolici e a
energia solare, si ha a che fare con strutture modulari (che possono cioè
essere ampliate) e che richiedono una manutenzione relativamente semplice.
Caratteristiche che si adattano all’impiego in zone remote. Oltre ad affrancare
molti paesi dalle costose e inquinanti centrali alimentate dai carburanti
fossili. I costi degli impianti non sono ancora alla portata degli stati
africani, ma organizzazioni inteazionali e imprese private stanno investendo
capitali insieme ai governi locali per creae all’avanguardia.

Il sole che dà vita

L’Africa è uno dei continenti più adatti allo
sfruttamento dell’energia del sole. Molti paesi, soprattutto quelli della
fascia saheliana e sahariana, godono di un’esposizione prolungata ai raggi sia
nel corso della giornata sia durante l’anno (in Ciad, per esempio, si calcola
che ci siano almeno 360 giorni di sole l’anno, lo stesso vale per Libia,
Algeria, Mali, Niger, Sudan). Secondo calcoli scientifici oltre l’80% del
territorio riceve tra i 6,5 e i 7,5 KWh di energia per metro quadrato all’ora.

Attualmente
i raggi del sole possono essere trasformati in energia attraverso due sistemi:
i pannelli fotovoltaici e le centrali termodinamiche.

I pannelli si stanno diffondendo rapidamente nel
continente. Ospedali, scuole, sedi di Ong, grazie alle donazioni di
organizzazioni inteazionali, installano piccoli impianti solari per le loro
esigenze. La sua capillarità rende difficile quantificare il fenomeno che però,
va detto con certezza, è in rapida espansione. Ma i pannelli sono oggetto anche
di progetti di più ampie proporzioni. Per esempio, a Sunninghill (Sudafrica) è
stato costruito un impianto in grado di sviluppare un’energia di 675 MWh l’anno
che copre il 5% del fabbisogno del paese. Pretoria ha poi dato il via libera
alla costruzione di una centrale nel deserto del Kalahari che è entrata da poco
in funzione e, a regime, dovrebbe fornire 146 GWh l’anno. Anche a Nzema (Ghana)
è stato creato un impianto che dovrebbe produrre 155 MWh grazie a 630mila
pannelli.

A
giugno il Marocco ha pubblicato due bandi per la realizzazione di altrettanti
progetti fotovoltaici. Il primo dovrebbe essere costituito da quattro centrali
collegate alla rete ad alta tensione, il secondo da otto centrali anch’esse
collegate alla rete. Per i finanziamenti Rabat si è rivolta alla Banca mondiale
e alla Banca europea degli investimenti che si sono impegnate a sostenee la
realizzazione. Da parte sua il governo marocchino ha stanziato 11 miliardi di
dollari per le energie pulite (solare ed eolico). Un investimento che dovrebbe
portare il paese a diventare un esportatore di energia pulita entro il 2020 e
ad affrancarsi dai carburanti fossili (per i quali spende 13 miliardi di dollari
l’anno).

Gli
investitori inteazionali hanno però puntato il loro sguardo anche su un’altra
forma di produzione dell’energia: le centrali termodinamiche. In esse la
radiazione solare viene concentrata in specchi parabolici e convertita in
calore, il quale è poi trasformato in elettricità da turbine a vapore. Le
centrali possono essere installate nei deserti dove c’è abbondanza di spazio e
di raggi solari. Impianti di questo tipo sono in funzione negli Usa, in Spagna
e anche in Italia (a Priolo, Siracusa). Per sfruttare le enormi potenzialità
del solare e delle centrali termodinamiche, nel 2007 era nato Desertec,
un’organizzazione della quale facevano parte numerosi centri studi tedeschi che
collaboravano con società del calibro di Abb, Deutsche Bank e Siemens. Il piano
prevedeva investimenti per 400 miliardi di euro nell’arco di vent’anni per
creare un sistema di centrali termodinamiche in rete con alcuni parchi eolici
nel Nord Africa e in Medio Oriente. L’energia prodotta avrebbe potuto essere
utilizzata in loco, e in parte esportata verso l’Europa. Le rivolte arabe e la
crescente instabilità politica della regione hanno in seguito fermato il
progetto. L’idea però non è morta. In Italia Res4Med, un’associazione di cui
fanno parte tra gli altri Edison, Enel, Politecnico di Milano, ha rilanciato il
piano di creare centrali termodinamiche di piccole e medie dimensioni sulle
coste del Mediterraneo. E nel 2013 ha presentato sei progetti in questo senso.
Nel frattempo la multinazionale spagnola Abengoa ha completato la costruzione
di un impianto termodinamico a Upington (Sudafrica). Una struttura che aiuterà
il Sudafrica a raggiungere l’obiettivo energetico di 18 GWh di energia pulita
entro il 2030.

Il calore della terra

Le
centrali geotermiche sono state le prime forme di produzione di energia
rinnovabile in Africa. Per lungo tempo, considerati i bassi consumi e i costi
contenuti, gli stati hanno però preferito non implementae la costruzione. Ma
i tempi sono cambiati e si torna a guardare con interesse all’energia del
sottosuolo (che si stima abbia una potenzialità di 7 mila MWh). La geotermia si
basa sullo sfruttamento del calore naturale della terra. Penetrando in
profondità, la temperatura aumenta. Nelle regioni caratterizzate da attività
vulcaniche il calore è ancora più elevato e si produce energia convogliando in
una turbina i vapori provenienti da sorgenti di acqua calda o quelli ricavati
pompando nel sottosuolo acqua fredda che si riscalda.

In
Africa le condizioni migliori per lo sfruttamento della geotermia si trovano
nella Rift Valley, quella spaccatura della crosta terrestre che va dal Mar
Rosso fino allo Zambia. Il Kenya è stato il primo paese a sfruttae le
potenzialità costruendo nel 1956 l’impianto Olkaria I e, successivamente,
Olkaria II e Olkaria III. Ora è in fase di progettazione Olkaria IV. La strada
tracciata dai keniani è stata seguita da altri paesi. Etiopia e Zambia hanno un
impianto ciascuno, ma Addis Abeba e Lusaka intendono potenziarli (il governo
etiope ha firmato un’intesa con una società europea per una centrale nella zona
del Lago Langano che dovrebbe entrare in funzione nel 2018). Progetti ambiziosi
anche per Uganda, che intende sfruttare il potenziale di 450 MWh nonostante
recentemente abbia scoperto ricchi giacimenti di petrolio, e Ruanda, che
progetta di costruire centrali per 300 MWh. Il caso più interessante però è
quello di Gibuti. Il piccolo stato ha firmato a gennaio un accordo con la Banca
mondiale per il finanziamento di impianti che sfruttino le risorse geotermiche.
Nel piano sono coinvolte imprese provenienti da Europa (in particolare
dall’Islanda che è all’avanguardia nel settore) e Cina. L’obiettivo è riuscire
a diventare autosufficiente dal punto di vista energetico entro il 2020,
sfruttando unicamente energie rinnovabili.

Il vento che fa girare

Alcuni
paesi africani stanno investendo anche nel vento. In collaborazione con aziende
europee, americane e cinesi vengono realizzati grandi parchi eolici. L’impatto
ambientale non è trascurabile, ma il ritorno economico spesso mette in secondo
piano le ragioni dell’ecologia. In questo settore si sono concentrati in modo
particolare Etiopia, Kenya e Marocco. In Etiopia, l’autunno scorso, il premier
Heile Mariam Desalegn ha inaugurato il parco eolico di Ashegoda che attualmente
è il più grande dell’Africa. In costruzione dal 2008 la centrale vanta 120 MWh
di capacità installata ed è localizzata a 18 chilometri dalla città
settentrionale di Mekelle dove esistono favorevoli condizioni climatiche.

Il
primato però verrà presto scalzato dal parco eolico che il Kenya sta costruendo
sul Lago Turkana. Grazie a un investimento di 200 milioni di euro, Nairobi
impianterà 365 pale che foiranno 850 KWh l’una. L’impianto sorgerà a 9 km
dalla riva del bacino lacustre per tutelare il patrimonio avifaunistico della
regione e, una volta a regime, permetterà al governo keniano di chiudere il 60%
dei suoi inquinanti impianti termoelettrici.

Ha
invece iniziato a produrre la centrale di Tarfaya, al confine tra il Marocco e
il Sahara occidentale, sebbene non siano ancora terminati i lavori. Quando sarà
a pieno regime, il parco eolico conterà su 131 turbine, alte 80 metri ciascuna
che, sfruttando i venti del deserto, foiranno 300 MWh. Poco più a Est di
Tarfaya sorge un altro parco che conta una decina di turbine e da giugno
fornisce 100 MWh di energia.

In
Africa il futuro energetico è già iniziato.

Enrico Casale


Idroelettrica:
rinnovabile ad altissimo impatto ambientale

Nuovi rischi sotto il
cielo

Se i governi africani stanno guardando con grande
interesse alle risorse idriche, eoliche e geotermiche, è il settore
idroelettrico quello su cui si concentrano da anni le maggiori attenzioni. Ma
anche i più grandi pericoli per le popolazioni.

Le prime grandi dighe sono state
costruite negli anni Cinquanta e Sessanta. Sono gli impianti di Akosombo, sul
fiume Volta (Ghana), che dà origine al più vasto lago artificiale al mondo ed è
stato realizzato in più fasi tra il 1940 e il 1965; di Kariba, sullo Zambesi (tra
Zambia e Zimbabwe), costruito da un consorzio di ditte italiane tra il 1955 e
il 1959; di Assuan sul Nilo (in Egitto), iniziato nel 1960 e terminata nel
1970; di Cahora Baixa, sullo Zambesi (Mozambico), costruito dai colonizzatori
portoghesi tra il 1969 e il 1974. Si tratta di enormi strutture che foiscono
tra i 1.200 e i 2.100 MW di potenza, ma che hanno un grande impatto
sull’ambiente e sulle popolazioni locali. Per realizzare la diga di Kariba
vennero sfollate 57mila persone di etnia tonga. Negli anni poi si sono
registrati nella regione numerosi terremoti che alcuni sismologi ritengono
siano stati indotti dalla diga. Anche la diga di Assuan ha creato diversi
problemi: dalla diminuzione delle attività ittiche alla minore fertilità dei
terreni (la diga trattiene il fertile limo), dalla sedimentazione delle acque a
monte della diga all’erosione delle rive a valle, dall’impoverimento della
fauna all’aumento della salinità delle acque del delta.

Nonostante questi problemi, negli anni Duemila (dopo
circa un ventennio di sosta) sono ripartiti gli investimenti nel settore
idroelettrico. In prima linea ci sono Repubblica democratica del Congo ed
Etiopia. Kinshasa sta progettando le dighe Inga III e Grande Inga sul fiume
Congo. Insieme a Inga I e Inga II dovrebbero formare un complesso in grado di
produrre più di 40mila MW. Molti politici, ambientalisti e scienziati si sono
schierati contro l’impianto perché esso, oltre ad avere un forte impatto
ambientale, sarebbe stato concepito per esportare l’energia e non per
utilizzarla in loco. Per i congolesi oltre al danno sull’ecosistema ci sarebbe
la beffa di non poter in alcun modo godere delle proprie risorse.

Anche Addis Abeba sta pianificando numerose dighe per
diventare esportatore di energia. Dopo aver realizzato tre sbarramenti sul
fiume Omo (Gilgel Gibe I, II e III) sta progettando la costruzione di altri due
impianti sempre sul fiume Omo (Gilgel Gibe IV e V). Anche in questo caso sono
state tante le polemiche. Lo stesso governo italiano che aveva deciso di sostenere
l’opera ha poi preferito ritirare gli stanziamenti di 250 milioni di euro. Ma
il pericolo più grande potrebbe arrivare dalla Grande diga del millennio sul
Nilo Azzurro. Oltre alle questioni ambientali sono in gioco le relazioni
inteazionali con Sudan ed Egitto. Il Cairo da decenni, in virtù di un’intesa
siglata nel 1929 e ribadita nel 1959, gode di un controllo assoluto sul bacino
del Nilo. A più riprese i politici egiziani hanno annunciato che non
accetteranno una diminuzione della portata del Nilo. A costo di dichiarare
guerra all’Etiopia.

Enrico Casale


Tags:
eolico, fotovoltaico, energia, energia pulita, idroelettrica, energia, ambiente, geotermica

Enrico Casale




«Cosa vogliono di più ?»

La questione uigura.


Assieme al Tibet, lo
Xinjiang rimane una spina nel fianco di Pechino. Come conferma anche il
misterioso attentato avvenuto in piazza Tiananmen nell’ottobre 2013. Il governo
sta investendo molto in terra uigura. Vuole conquistae gli abitanti
rendendoli partecipi del «sogno cinese» (oggi incentrato su qualità, tecnologia
e istruzione). Ma forse questo sogno presenta un vizio di fondo: è calato dall’alto.
Prendere o lasciare.

Ping’an Jiating, casa – o anche famiglia – sicura, pacifica. Chissà se anche
quella di Usmen Hasan aveva affisso sulla propria porta l’adesivo rosso che i
comitati di quartiere di Urumqi donano ai nuclei familiari che «si comportano
bene».

Pechino, 28 ottobre 2013

Quando il 28 ottobre una Jeep bianca è andata a schiantarsi sotto
il ritratto di Mao Zedong in piazza Tiananmen, il mondo ha improvvisamente
scoperto lo Xinjiang: l’irrequieto «Far West» della Cina.

Due giorni dopo la folle corsa di quattrocento metri, che si era
lasciata dietro cinque morti (tra cui i presunti attentatori) e quaranta
feriti, le autorità di Pechino hanno messo il sigillo ufficiale sulla «pista
uigura», comunicando i nomi dei tre a bordo dell’auto: proprio lui, Usmen
Hasan, con sua moglie Gulkiz Gini e l’anziana madre Kuwanhan Reyim, tutti
inceneriti nel rogo della Jeep che – secondo la polizia della capitale –
avevano riempito di taniche di benzina, coltelli, spranghe di ferro e una bandiera
«con slogan religiosi».

La famiglia apparteneva all’etnia turcofona e musulmana dello
Xinjiang, gli Uiguri. Discendenti da tribù nomadi provenienti dalle terre che
oggi formano la Mongolia, sospinti a Sud-ovest dalla pressione di altri popoli
delle steppe, loro stessi prodotto del melting
pot asiatico, sono divenuti sedentari nel corso dei secoli
insediandosi nel bacino del Tarim, l’enorme area all’estremo occidente del
Celeste Impero che è oggi regione autonoma. Loro la chiamano «Turkestan
orientale», per la Cina è, appunto, lo Xinjiang. Estranei alla cultura han –
cioè dei cinesi maggioritari, per come li conosciamo noi – rivelano da tempo un
malessere che viene spesso spiegato ricorrendo alle categorie dell’integralismo
religioso o del conflitto etnico. Hanno nomi uiguri anche le cinque persone
(tre uomini e due donne) «collegate con l’attacco terroristico» e arrestate
nelle ore successive allo schianto della Jeep.

Funzionari cinesi hanno in seguito esplicitamente accusato l’Etim,
il «Movimento islamico del Turkestan orientale» (un’organizzazione di cui non
si conosce la reale consistenza), di essere l’ispiratore dell’attentato.

Ma già prima che il problema arrivasse nel cuore simbolico della
Cina, diversi «incidenti» (leggi «scontri tra le forze di sicurezza e Uiguri più
o meno militanti»), avevano lasciato decine di morti e feriti sul suolo dello
stesso Xinjiang. E proprio nel 2013.

La memoria torna quindi alla rivolta di Urumqi del 5 luglio 2009:
197 morti e 1.721 feriti secondo fonti ufficiali. Va detto che finora si è
sempre trattato di scontri a bassa componente militare; truculenti proprio
perché più simili a uno scannatornio realizzato con coltelli, mannaie e spranghe,
che ad attacchi con ampio sostegno di armi da fuoco o esplosivi. Tuttavia, secondo
il governo cinese, gli «incidenti» hanno senz’altro matrice separatista, sono
preorganizzati e collegati alla Jihad globale. Pechino non fornisce molte prove a sostegno di tali
affermazioni, ma c’è consenso tra gli osservatori indipendenti nel ritenere che
alcune frange estreme dell’indipendentismo uiguro cornoperino con altri gruppi
combattenti dell’Asia centrale, trovando spesso riparo nelle aree tribali del
Pakistan nord-occidentale.

Quello di piazza Tian’anmen è stato comunque un gesto eclatante, a
metà tra l’autornimmolazione dei tibetani e l’autobomba dei fondamentalisti
islamici. A Pechino, un’amica han – l’etnia maggioritaria in Cina – dice: «Ho
paura a passare per piazza Tian’anmen». Mentre su Weibo, il più importante social
network
cinese, circolano messaggi di questo tenore: «È la prima volta che
capito così vicino a un attacco terroristico». Oppure: «Possono davvero fare
questo in Tian’anmen? Mi sento improvvisamente angosciato, come si fa a
prevenire questi attacchi in futuro? Ispezioni dei veicoli?». È proprio l’effetto panico voluto da eventuali «terroristi».

Lati oscuri

Restano però parecchi punti oscuri nella versione ufficiale che
diversi media occidentali hanno da subito messo in dubbio, a differenza, va
detto per inciso, di quanto fecero in occasione dell’attacco alle torri gemelle
di New York: spesso per noi è «terrorismo» solo ciò che avviene a Ovest degli
Urali. Comunque sia, si tende a sostenere che, qualsiasi cosa sia accaduta in
piazza Tian’anmen, le sue ragioni vadano ricercate nella dura repressione che
Pechino compie da anni sugli Uiguri. E poi – si dice – possibile che una
famigliola si faccia indisturbata le migliaia di chilometri che separano lo
Xinjiang da piazza Tian’anmen a bordo di una Jeep con targa della propria terra
d’origine? C’è puzza di depistaggio o di strategia della tensione «secondo
caratteristiche cinesi» (a che pro? Non si sa).

Altri osservatori hanno invece ritenuto plausibile l’atto
terroristico «fai da te» compiuto da una famiglia votata al martirio, citando «Inspire»,
il magazine online del jihadismo globale, che nel suo secondo numero mette a disposizione
una semplice guida per trasformare un pick-up in un’arma micidiale (pag. 54): «La location ideale è un luogo dove ci sono il
maggior numero di pedoni e il minor numero di veicoli. In realtà, potreste
scegliere i camminamenti pedonali che esistono in alcuni centri città, il che
sarebbe favoloso». Uno stile vezzoso per la descrizione perfetta di quanto
accaduto in piazza Tian’anmen. Almeno apparentemente.

Fatto sta che il mondo ha scoperto lo Xinjiang attraverso il suo
volto peggiore e la domanda che ricorre è: Al-Qaeda è arrivata in Cina? È in
corso un salto di qualità nelle tensioni che percorrono l’estremo occidente
cinese? La sclerotizzazione del discorso porta inevitabilmente al circolo
vizioso terrorismo-repressione, in una regione che vive già sulla propria pelle
una progressiva, soffocante militarizzazione; in paradossale contrasto con la
totale libertà di movimento e le sempre maggiori aperture di cui beneficiano le
grandi città della Cina orientale. L’attentato ha fatto proprio questo: portare
un po’ di Xinjiang a Pechino. Con il clima che laggiù si respira.

E allora bisogna forse provare a raccontare la complessa realtà di
quella terra, dove siamo stati pochi giorni prima che il denso fumo nero di una
Jeep in fiamme oscurasse il volto di Mao Zedong.

L’idea: tanti progetti, poca politica

Sull’autostrada tra Urumqi e Turpan, il «grande sogno
cinese», slogan lanciato del presidente Xi Jinping, sembra dispiegato in tutta
la sua potenza. In un incredibile paesaggio lunare, le gigantesche turbine eoliche
si susseguono in file parallele per
chilometri e chilometri, come un futuristico esercito di terracotta in marcia
verso l’avvenire. Rappresentano la componente ambientale del «sogno»: costruire
una economia sostenibile. Lo Xinjiang deve diventare, nelle intenzioni di
Pechino, un hub energetico, commerciale, tecnologico, la porta
spalancata sulla modea Via della Seta.

A
Turpan, è in costruzione una «Ecocity» nuova di zecca proprio di fianco alla
preesistente città di 250mila abitanti, già antica oasi che costeggiava il
deserto del Taklamakan.

È un
perfetto esempio di ciò che la leadership
cinese intende per chengzhenhua, la
nuova urbanizzazione «sostenibile» che segnerà il futuro del Dragone. Ma è
anche la metafora che utilizzeremo per descrivere la questione uigura. Che è un
problema di uguaglianza nella diversità, come ci ha spiegato Wang Hui,
intellettuale della «nuova sinistra» cinese: «Da un lato è perfettamente
legittimo voler migliorare la situazione economica, ma attualmente c’è una
crisi ecologica che va di pari passo con una crisi culturale, perché lo stile
di vita di quella gente sta cambiando, e così abbiamo i conflitti in Xinjiang e
Tibet». Si tratta dunque di «rispettare la singolarità, la diversità, le
differenze senza rifiutare l’idea di base di uguaglianza», continua il
professore dell’Università dello Xinjiang. Toiamo alla ecocity di
Turpan. I pannelli solari sovrastano centinaia di villette a schiera già
costruite, mentre le strutture dei futuri palazzi governativi sono già ben visibili.
Questa città sostenibile occuperà una superficie di 8,8 chilometri quadrati,
darà alloggio a circa 60mila persone e sarà completata entro il 2020. C’è da
crederci.

«Verrà
alimentata da pompe geotermiche e pannelli solari – ci dice un ingegnere uiguro
coinvolto nel progetto – è previsto il trasporto pubblico esclusivamente
elettrico, mentre gli autoveicoli privati saranno deviati in grandi parcheggi».
Eppure il «sogno» non è per tutti.

C’è,
per esempio, la piccola storia di un giovane ingegnere civile e project
manager, che ci è stata raccontata da fonti che preferiscono mantenere
l’anonimato. Di etnia uigura, appena laureato, qualche anno fa fece domanda per
un buon lavoro in una compagnia di stato a Urumqi, casa sua. Ma fu respinto,
perché, gli disse il responsabile delle risorse umane, non avevano in programma
di assumere uiguri. Il giovane se ne andò quindi a Pechino, dove trovò lavoro
in una delle più grandi società di ingegneria della Cina. Ironia della sorte,
fu successivamente inviato a Urumqi per un grande progetto e, una volta lì,
incontrò lo stesso funzionario che l’aveva respinto diversi anni prima. Durante
una cena formale con il gruppo di Pechino, tra cui il giovane ingegnere, il
funzionario locale chiese: «Perché i giovani di talento dello Xinjiang non
contribuiscono mai allo sviluppo della propria terra?».

È una
storia comune in questa enorme fetta di Cina che è già Asia Centrale oppure si
tratta di casi isolati, semplicemente di ragazzi sfortunati? Raccontando queste
storie a conoscenti han, ci si sente rispondere: «L’esempio di un ufficiale
incapace non fa testo, e tieni presente che la maggior parte dei funzionari,
nello Xinjiang, è non-han. Anzi, il fatto che ci siano Uiguri istruiti e che
trovino lavoro dimostra proprio che le politiche di Pechino sono giuste. Il
governo tutela giustamente le minoranze, proprio perché altrimenti le
schiacceremmo numericamente. Così, per esempio, gli Uiguri possono, a
differenza nostra, avere più figli, sottraendosi al “controllo delle nascite”
(politica in via di riformulazione dal novembre 2013, ndr).
Inoltre hanno la libertà di festeggiare le proprie ricorrenze religiose. Cosa
vogliono di più?».

Saranno
dunque i nuovi grandi progetti energetici, tecnologici, le «grandi opere»
secondo caratteristiche cinesi (che qui sono grandi davvero) e l’apertura
all’Asia Centrale a guidare il popolo dello Xinjiang verso un futuro di
opportunità, verso il sogno cinese? Non è facile rispondere.

Hesmat
(nome fittizio), un altro architetto uiguro che se ne è andato dalla sua terra
ma che un giorno vorrebbe tornarci, la vede così: «C’è il rischio enorme che
questo sia un mianzi gongcheng – un
progetto «della faccia» (di facciata, diremmo noi) – mentre una crescita
sostenibile dello Xinjiang significa recuperare e ristrutturare le vecchie città,
dare opportunità alla popolazione locale. Questo deve venire prima o in
parallelo alla costruzione di nuove grandi opere. Ma non se ne vede l’ombra».

Per
molti Han, invece, gli Uiguri non fanno che lamentarsi e il problema, se mai, è
di educazione. «Le difficoltà sono date dalla disparità tra la modea Urumqi e
la parte sud dello Xinjiang che resta arretrata – ci dice un businessman che
opera tra la Cina e il Canada – ma mano a mano sarà risolta grazie allo
sviluppo, ai gasdotti e agli oleodotti, che porteranno soldi anche lì.
Tuttavia, per ora il processo è ancora lento. Per esempio, i testi scolastici
in uiguro arrivano solo fino alle scuole elementari. Così i separatisti si
fanno strada con i loro sermoni».

Quello
della lingua è un bel problema. Da una parte, dato che tutta l’economia della
madrepatria ruota attorno agli affari in lingua cinese, le autorità sostengono
che le minoranze devono prima e soprattutto imparare il mandarino, se vogliono
trovare il proprio posto nel mercato del lavoro. D’altra parte, molti Uiguri
trovano umiliante vedere la propria lingua relegata al ruolo di dialetto
locale, con il rischio che scompaia nel giro di qualche generazione.

Ed ecco un’altra storia che ci ha raccontato Hesmat. «Cinque anni
fa, una giovane donna uigura mia amica ha concluso un dottorato di ricerca in
fisica teorica presso una prestigiosa università giapponese. Tuttavia, le è
stato in seguito negato un lavoro all’Università dello Xinjiang perché avrebbe
dovuto passare l’Hsk (Hanyu Shuiping Kaoshi, l’esame di competenza linguistica certificata in mandarino),
anche se in realtà lei è ufficialmente cittadina cinese e parla perfettamente
la lingua. Delusa e mortificata, se ne è andata a Guangzhou, dove ha iniziato a
vendere vestiti a buon mercato. Ora è milionaria, ma non restituisce nulla del
proprio talento alla sua terra».

Il modello è questo

Il problema è così sintetizzabile: la Cina funziona da sempre per
progetti che piovono dall’alto, sulla base di un modello di sviluppo che appare
vincente. Oggi, stiamo assistendo alla transizione dal vecchio modello Deng –
basato sulle manifatture votate all’export – a quello che l’attuale leadership vuole imporre: più qualità, più tecnologia, più istruzione. Il
sorgere di decine di nuove città «tecnologiche» in tutta la Cina corrisponde a
questo grande sforzo. Lì, dovranno inurbarsi i contadini che sono rimasti
ancora indietro sulla scala del progresso, per evitare che migrino
disordinatamente come è successo finora, intasando le megalopoli già sature. Ma
è comunque un modello dall’alto in basso: può adattarsi alla diversità dei
luoghi e delle genti, in una Cina sempre più complessa e percorsa da culture
così distanti tra loro?

Secondo il businessman han «è sempre meglio provarci che lasciare tutto così com’è. Il
governo cerca di educare questa gente – aggiunge – ma i vecchi non ne vogliono
sapere; anche i funzionari uiguri ci provano, ma non è facile, quelli non
vogliono stare al passo con il mondo».

E poi c’è l’inevitabile stoccata a chi eserciti qualsivoglia
critica: «Voi occidentali non prendete mai in considerazione le enormi
difficoltà che si incontrano nel gestire l’immensa popolazione della Cina,
soprattutto dopo l’abietta occupazione coloniale, i massacri giapponesi, la
guerra civile, la guerra di Corea e la follia delle guardie rosse». E così via,
nella riproposizione circolare della storia patria.

Eppure non è solo un problema di vecchi che non ne vogliono
sapere. Ma di scelte fatte oggi, che possono però ipotecare il futuro.

Prendiamo la scarsità d’acqua. In questa terra desertica, l’uomo
ha risolto il problema da tempo immemore con quello stupefacente miracolo di
antica tecnologia che risponde al nome di karez: canali sotterranei che portano l’acqua dai lontani monti
Tianshan sfruttando la pendenza naturale (la depressione di Turpan è il terzo
luogo più basso della terra). Ma questo delicato ecosistema saprà sopportare
l’impatto di una nuova città da 60mila abitanti?

Secondo l’ingegnere uiguro, la città di nuova costruzione «è
progettata per funzionare in modo relativamente indipendente dalla città
esistente e le principali fonti di approvvigionamento idrico saranno diverse».
Tuttavia, «l’acqua potrebbe essere occasionalmente presa dalla riserva della
Valle dell’uva», cioè il bacino idrico che rifornisce la grande area ricoperta
di vigneti, che rende Turfan una delle capitali cinesi della frutta.

La nuova ecocity risolverà i problemi o ne creerà di nuovi? Che futuro avrà la
Valle dell’uva, elemento imprescindibile non solo per l’economia, ma anche per
la civiltà di questa zona? Una voce si rincorre incontrollata: «Il governo
prevede di trasformare la Valle in un enorme scenic spot per turisti – ci dice un uiguro la
cui famiglia ha una fattoria proprio lì – gli attuali residenti saranno
incoraggiati a lasciare le proprie case per andare nella nuova città». Leggende metropolitane? Forse, ma oltre a far
crescere la diffidenza nei confronti di Pechino, la voce crea già effetti molto
materiali: «Un giorno, vorrei tornare in questa fattoria e continuare il lavoro
di mio padre e di mio nonno – ci dice Tömür (nome fittizio), che fa l’operatore
sociale a Urumqi – ma proprio il mio vecchio non vuole lasciarmela in eredità.
Vuole vendere tutto».

Intoo a noi, i filari delle vigne circondati da alberi di
datteri, l’uva passa esposta a essiccare e il recinto con le tipiche pecore
dello Xinjiang, dotate di quella buffa riserva di grasso sotto la coda che
rende gli spiedini così gustosi.

Non possiamo verificare a oggi se questa grande opera sarà anche
ingegneria sociale oltre che civile, ma c’è da chiedersi se un eventuale
svuotamento della Valle dell’uva per trasferire la popolazione locale nella
nuova ecocity, darà luogo a un melting pot felice o sarà invece una nuova fonte di conflitto.

A ogni modo, è percepibile il rischio che l’ecosistema Xinjiang
possa essere ulteriormente sconvolto da enormi progetti imposti dall’alto per
fare di questa terra un trampolino di lancio per l’Asia centrale.

Sia inteso: lo Xinjiang ha bisogno di progresso. Degli 1,5 milioni
di bambini di strada che percorrono le città cinesi, rubando, prostituendosi,
vivendo alla giornata, si calcola che almeno 100mila siano originari della
grande regione autonoma: sono quasi tutti Uiguri e vengono da famiglie povere.
La loro condizione è resa peggiore dall’essere vittime designate di due
culture: quella musulmana, per cui rubare è peccato; quella han, che li
disprezza rinnovando il mito dell’uiguro-delinquente. Così, quando vengono
raccolti e rispediti a casa nell’ambito dei programmi di recupero del governo,
finiscono spesso per tornare sulla strada in quanto rifiutati dalle loro stesse
famiglie. Emarginati per sempre. C’è bisogno dunque di più ricchezza condivisa
e di sviluppo. Ma qual è, in definitiva, il prezzo del progresso? In un
contesto del genere, l’Islam radicale diventa una strategia di sopravvivenza
molto efficiente e flessibile. Altro che un virus d’importazione. Perché offre
sia una coice morale a chi lotta quotidianamente per una vita migliore e
nutre speranze di successo, sia una zona di comfort a chi è lasciato indietro.

L’architetto Hesmat, che un giorno vorrebbe tornare qui e aprire
un proprio studio, riconosce che «il fondamentalismo si sta allargando».
Qualche tempo fa era un giovane secolarizzato, non immune da qualche serata
alcolica durante i propri anni da studente. Oggi rispetta i dettami del Corano
senza strafare, studia e lavora: «Per sentirmi pulito», spiega. Lui riesce
ancora a mantenere il proprio equilibrio, tenendosi aggrappato al «sogno cinese».

Gabriele Battaglia

Il presidente Xi Jinping


La nuova via della seta 

A settembre, il presidente cinese Xi Jinping ha
completato un tour di dieci giorni in Asia centrale, con tappe in Turkmenistan,
Kazakistan, Uzbekistan e Kirghizistan, al G-20 di San Pietroburgo e al summit
della Shanghai Cooperation Organization di Bishkek.

In Turkmenistan, Xi ha inaugurato
un giacimento di gas naturale; in Kazakistan ha promesso 30 miliardi di dollari
in progetti energetici e infrastrutturali. In Uzbekistan e Kirghizistan, ha
fatto promesse simili. In tutti i paesi visitati, il presidente cinese ha
cercato di dare solidità ai rapporti bilaterali: investimenti e sostegno
finanziario che arrivano dal grande portafoglio del Dragone, in cambio di una
sempre maggiore cooperazione sul piano diplomatico, della sicurezza regionale e
delle politiche energetiche.

A novembre 2013 la Cina ha concluso
il terzo Plenum del Partito comunista, decidendo di spingere sull’acceleratore
delle riforme economiche e sociali. Bisogna trasferire ricchezza alle famiglie,
creare il nuovo ceto medio e continuare quindi sulla strada dello «sviluppo
pacifico». Per farlo, sono necessari sia buoni rapporti con i paesi confinanti,
sia una rete efficiente e sicura di rifoimenti energetici.

Così, i flussi transfrontalieri si
intensificano in tutta l’area: ci sono le strade (il corridoio Kashgar-Gwadar,
dalla Cina al Pakistan ma anche un reticolo viario in costruzione più a Nord,
nelle repubbliche centro-asiatiche); c’è la ferrovia (il 17 luglio è stata
inaugurata la linea diretta da Zhengzhou, capitale della provincia dell’Henan,
ad Amburgo); ci sono soprattutto oleodotti e gasdotti, come quello dell’Asia
Centrale, che collega il giacimento turkmeno di Galkynysh allo Xinjiang.

Per dare un’idea dell’importanza
strategica di questa nuova «Via della Seta» multiforme, basti pensare che un
eventuale prolungamento dal porto pakistano di Gwadar allo Xinjiang del
gasdotto Iran-Pakistan – un progetto sempre più probabile – consentirebbe alla
Cina di utilizzare lo scalo sul Mare Arabico per trasportare via terra il
petrolio che arriva dallo stretto di Hormuz, risparmiando così tempo rispetto
alla rotta via mare e guadagnandoci anche in sicurezza (non ci sarebbe più da
pattugliare l’Oceano Indiano).

Ecco quindi l’importanza di quella
che ad Astana, capitale kazaka, Xi Jinping ha definito «cintura economica della
Via della Seta» che, lo sappiamo bene, anche in antichità era più un reticolo
di strade che una sola. Proprio come oggi. E che, proprio come oggi, convergeva
inevitabilmente sullo Xinjiang.

Gabriele
Battaglia


Pechino e la religione


L’Islam degli Uiguri

La popolazione uigura dello
Xinjiang (circa 9 milioni di persone) è in maggioranza musulmana sunnita. Sulle
montagne del Pamir esistono comunità kazake sciite, mentre l’immigrazione han
ha riportato nel territorio il buddhismo, presente anche in un’antichità di cui
resta traccia nelle numerose grotte affrescate.

La
Costituzione cinese garantisce la libertà di religione e, benché laica, non è
necessariamente in contraddizione con i precetti che garantiscono una condotta
islamica (maqasid al-Shariah). Un buon musulmano deve obbedire al
sovrano, anche se questi non professa la stessa fede, e gli sono preclusi atti
di ribellione: tutti precetti che si sposano perfettamente con le politiche e i
codici legali di Pechino. Esplicita è la condanna dell’hiraba, che molti
studiosi associano al terrorismo.

Più
contrastato è il tema del controllo familiare. Nell’applicazione della «legge
del figlio unico» (modificata il 15 novembre 2013, ndr), la Cina si è
dimostrata piuttosto rispettosa dei diritti delle minoranze e le coppie uigure
possono avere due figli se residenti in città e tre se vivono invece nelle aree
rurali. In teoria non è ancora abbastanza per la tradizione delle grandi
famiglie patriarcali locali, ma è un ottimo compromesso. È invece un problema
irrisolto quello dei matrimoni con i cinesi han, legali per lo stato, ma
che per gli Uiguri significano quasi sicuramente interruzione della linea
familiare e religiosa: la cultura della Cina «maggioritaria» è più globalizzata
e accattivante per i giovani figli di coppie miste.

Controverso è
anche il tema dell’educazione all’Islam, visto che la Costituzione cinese
prevede che a nessun cittadino della Repubblica popolare possa essere imposto
un credo religioso prima che diventi maggiorenne, mentre non esistono invece
limitazioni d’età per promuovere l’ateismo.

Suscitano
tensioni le misure di controllo via via più rigide sulle pratiche religiose,
dovute soprattutto al timore di infiltrazione fondamentalista. Tra queste, il
divieto di finanziare direttamente istituzioni religiose, come le moschee.

L’articolo 36
della Costituzione prevede che nessun individuo possa svolgere pratiche «che
nuociono alla salute dei cittadini», scontrandosi così, spesso, con il digiuno
durante il ramadan. Una clausola dello stesso articolo vieta inoltre le
pratiche «che disturbano l’ordine pubblico», lasciando molta discrezionalità ai
funzionari chiamati ad applicarla: può anche significare il divieto di
indossare il velo islamico in pubblico.

Come
dappertutto in Cina, gli Imam sono dipendenti pubblici tenuti a formarsi presso
istituzioni religiose di stato. Per lo Xinjiang, si tratta dell’Istituto per lo
Studio dei testi islamici di Urumqi, dove è obbligatorio seguire anche corsi di
«marxismo e religione» e sul «pensiero di Deng Xiaoping», cosa che spinge
diversi religiosi a formarsi e a operare clandestinamente, svolgendo spesso
anche il ruolo di qadis, giudice islamico: cosa assolutamente
vietata dalle leggi cinesi.

Gabriele
Battaglia

Gabriele Battaglia




Mandela: Tra i grandi della terra

Nelson Mandela: lotta armata e riconciliazione.


Nelson Mandela, ci ha lasciati il 5 dicembre 2013, all’età
di 95 anni. La sua lunga malattia aveva tenuto il mondo col fiato sospeso per
mesi. Dagli studi da avvocato alla rivolta armata, fino alla creazione di una nazione unita, un ritratto
inedito secondo padre Pearson, incaricato del collegamento tra i Vescovi
cattolici e il Parlamento sudafricano.

Nelson Mandela è
probabilmente stato una delle più importanti icone politiche del nostro secolo.
Egli è stato per il Sudafrica quello che Winston Churcill era stato per la Gran
Bretagna durante la seconda guerra mondiale, o il Mahatma Gandhi per le masse
di indiani del subcontinente o Martin Luther King per i discendenti degli
schiavi africani nel profondo Sud degli Stati Uniti d’America. Sono tutti
leader, questi, che hanno mostrato coraggio, e sono degli importanti
riferimenti ancora oggi perché hanno indicato una direzione in alcuni dei più
bui e brutali periodi della storia dei loro paesi. Leader la cui leadership si è estesa ben oltre il loro contesto immediato e il loro tempo per
diventare parte nobile dell’umanità.

La
statura di Mandela è dimostrata dal fatto che gente di ogni schieramento
ideologico in Sudafrica è d’accordo nel sostenere che egli ha rappresentato ciò
che di più nobile c’è nelle aspirazioni del paese. Un altro segno di quanto il
mondo sia stato legato a quest’uomo è l’enorme quantità di libri e articoli
scritti su di lui, e i luoghi a lui intitolati in ogni paese.

Mandela
è stato visto come simbolo di riconciliazione, perdono, coraggio, saggezza e
giustizia. Valori veri di cui si ha bisogno nella maggior parte del mondo. Il
tratto che probabilmente, sopra a tutti gli altri, ha reso la sua vita così
affascinante è stato la sua capacità di incarnare con potenza quello che la
gente comune desiderava in risposta al deficit morale presente in molti aspetti
della politica e del mondo.

Il
suo sorriso sempre pronto e la sua cortesia vecchio stile hanno fatto di lui un
custode naturale di questi valori. In un mondo ossessionato dall’ego e dalla
magnificazione personale, il suo sacrificio di 27 anni passati in prigione, il
suo rifiuto di vedersi come l’eroe generale della rivoluzione sudafricana, e la
sua coscienza di essere stato uno dei tanti che hanno giocato un ruolo nel
lungo processo della libertà politica, sono sicuramente un raro esempio di
umiltà nell’ambiente politico. Questo è ancora più vero in un’epoca segnata
dalla corsa spietata all’auto promozione e all’affermazione radicale di sé. In
questo modo egli è stato, e continua a essere, visto come un profeta nello
stile di quelli biblici.

Fine stratega

Una delle abilità raramente riconosciute di
Mandela è il suo essere stato un potente stratega: lungo tutto il percorso
della sua vita, ha preso decisioni strategiche basate su quello che sentiva
potesse meglio servire il popolo oppresso del Sudafrica. Ma capì, e sviluppò in
diverse occasioni, la convinzione che la sua azione dovesse essere anche
orientata verso chi beneficiava dell’oppressione degli altri. La liberazione
era per lui indivisibile!

Da giovane prese la decisione cosciente di entrare nella
professione di giurista, sperando, in un paese nel quale sistematicamente si
sovvertivano i valori di giustizia e correttezza, di poter usare le sue
competenze per «portare avanti la lotta anche nella fortezza del nemico». Una
visione e un impegno a favore non solo della ricerca delle migliori vie per un
risarcimento storico, ma anche di un rinnovamento della disciplina giuridica in
un’epoca in cui i successi accademici per i neri erano molto difficili da
ottenere.

Anni dopo, esauriti tutti i mezzi pacifici per l’acquisto della
libertà per gli oppressi, ispirandosi ad altri movimenti di liberazione dal
colonialismo nel mondo, con un gruppo di colleghi formò l’ala militare
dell’African National Congress (Anc), allo scopo di usare atti di
violenza, simbolici e selezionati, contro installazioni dello stato. Mandela,
nel suo discorso dal banco del processo per tradimento, ricordò alla corte che
ogni mezzo di protesta pacifica era stato tentato e lo stato era diventato
sempre più violento nella sua repressione. Da un punto di vista strategico, una
più dinamica forma di resistenza era diventata necessaria. Fece allora il
famoso commento: «Il momento viene nella vita di ogni nazione in cui rimangono
solo due scelte: sottomettersi o combattere. Quel momento è ora arrivato in
Sudafrica. Noi non dovremmo sottometterci e non abbiamo scelta se non
rispondere con ogni mezzo in nostro potere in difesa della nostra gente, del
nostro futuro, della nostra libertà».

Riconciliazione

Più tardi, quando il movimento di liberazione andò al governo del
paese, Mandela prese l’impegno strategico e di principio di cercare la via
della riconciliazione. Già dalla prigione, prima di essere rilasciato, in
alcune sue note portate illegalmente fuori dalla cella, trasmetteva la chiamata
a prepararsi per un tempo di riconciliazione attraverso il perdono. La
citazione seguente è il tipico mantra politico che lui ha inculcato nella gente
attraverso tutto il paese: «Noi dobbiamo agire insieme come un popolo unito,
per la riconciliazione nazionale, la costruzione nazionale e la nascita di un
nuovo mondo. Che sia giustizia per tutti. Che sia pace per tutti».

Sostenendo questo Mandela creò i presupposti per prevenire ciò che
avrebbe potuto facilmente diventare un bagno di sangue. È stata la sua
insistenza tranquilla sulla persuasione, piuttosto che sulla coercizione, che
ha dato al Sudafrica le fondamenta non razziste sulle quali costruire il paese.
Il sogno non razzista è ancora lontano da essere realizzato ma almeno ha un
terreno condiviso, un consenso di base, una narrativa comune che indica la
direzione futura del paese.

Legata a questo c’è sempre stata in lui la qualità accattivante di
non mostrarsi come uno che aveva tutte le risposte alle domande e alle
posizioni ideologiche, ma piuttosto come qualcuno che era abituato, nel
linguaggio del poeta Rilke, a «vivere con le domande». In una società dominata
da una continua ricerca di risposte istantanee e da soluzioni spesso imposte da
chi ha la voce più forte, Mandela, tranquillo e riflessivo, ha cercato risposte
che potessero essere condivise dal maggior numero di attori, offrendo una forma
di leadership unica al mondo.

Mandela capì che dopo secoli d’ingiustizia razziale e terribile
oppressione, lasciare spazio al desiderio di vendetta ovvio in molte zone del
paese sarebbe stato disastroso, e così decise di lanciare una chiamata per la
riconciliazione e la costruzione della nazione.

La sua chiara comprensione fu che una lotta senza fine agli errori
del passato avrebbe portato meno risultati che un impegno a realizzare
giustizia in tutte le sfere: politica, economica e culturale. Ma capì pure che,
mentre bisognava evitare che il futuro fosse influenzato solo dal passato, si
sarebbe dovuta coltivare la memoria di quanto successo. E andò oltre,
istituendo la Commissione Verità e Riconciliazione per assicurare alla nazione
che non si sarebbe più tornati a ripetere i gravi errori del passato.

L’impegno continua

Una volta ritirato dalla vita politica, Mandela ha continuato a
spendere se stesso nel lavoro di riconciliazione, specialmente nel tentativo di
costruire una vita migliore per i bambini attraverso la sua Fondazione, la Nelson Mandela Children’s fund. Capì che dopo
aver vinto la libertà politica, occorreva dare contenuto a questa vittoria.
Egli vide inoltre che essa andava orientata a coloro che restavano i più
vulnerabili nella società, ovvero i bambini del paese. Anche nel periodo in cui
fu presidente, il compito di costruire scuole, in particolare in aree rurali,
fu una priorità nazionale. Di Nelson Mandela si può dire che sia stato un buon
interprete dei segni dei tempi.

Riconosciuto come «grande stratega», ciò che lo ha portato a
essere così popolare è stato il suo grande cuore, il suo amore appassionato per
la gente e un profondo senso dell’etica del servizio.

Mentre è stato restio a esprimere punti di vista religiosi e
preferenze confessionali in pubblico, le qualità personali appena descritte e
il suo impegno incrollabile per le chiese hanno creato un linguaggio condiviso
con la comunità religiosa. È stato certamente un linguaggio basato sui valori.

Ci sono stati anche meravigliosi e toccanti momenti in cui la sua
affinità con la comunità della fede è stata pubblicamente evidente.

Se incontravi Nelson Mandela ed eri vestito con l’abito da
sacerdote, egli inevitabilmente parlava chiaro e forte del suo rispetto per la
Chiesa, di quanto questa gli aveva dato nei suoi primi anni di formazione e
come, se non fosse stato per essa, lui e molti della sua generazione non
sarebbero arrivati dove sono arrivati. È stato generoso nel suo atto di
riconoscimento del ruolo della Chiesa nella lotta contro l’apartheid.

Una delle sue caratteristiche è stata quella di non dimenticare
mai una gentilezza personale ricevuta, e di ricordare la generosità degli
altri. Abbiamo visto questo quando visitò l’Irlanda. Nel mezzo di una visita di
stato sovraccarica chiese informazioni dell’ex cappellano di Robben Island (la
prigione di Mandela, ndr), padre Brendan Long, che era in ospedale, e parlò con lui al
telefono. Ricordò la vita in carcere e ringraziò padre Long per i suoi anni di
servizio, la sua gentilezza e generosità. Anni che marcarono indelebilmente lo
spirito del presidente che continuava a essere riconoscente a un umile
cappellano di prigione.

Sembra quasi una fiaba: un prigioniero uscito dopo 27 anni di
incarcerazione era diventato presidente.

E se questa storia contiene l’eco di un sogno, se ha gli elementi
di una fiaba, certo è importante ricordare che c’è chi ha lavorato per
realizzare questo sogno e lottato per rendere realtà una fiaba. Questa è
un’altra lezione di Nelson Mandela, quella di non abbandonare i propri sogni,
perché essi possono essere raggiunti e diventare, in un modo misterioso, la
storia, i mattoni di un nuovo mondo.

Peter-John Pearson*

*
Direttore del Southe African Catholic Bishops Conference Parliamentary Liason
Office, l’ufficio di collegamento tra Conferenza
Episcopale e Parlamento.

Peter_John Pearson




Ritorno alla schiavitù

A quattro anni dal terremoto è chiaro il disegno Usa per Haiti.


I soldi della ricostruzione gestiti per un piano internazionale
di sfruttamento dell’isola. Un presidente autoritario funzionale a questo
progetto e un esercito straniero (Onu) utile per attuarlo. Un ex dittatore sanguinario
ripulito dal passato e riabilitato. Ma ci staranno i discendenti di Toussaint
Louverture e Jean-Jaques Dessalines? O si sta preparando un’altra «rivolta di
schiavi»?

Sono passati quattro anni dal
terribile terremoto che uccise centinaia di migliaia di haitiani e commosse il
mondo. Un tempo nel quale si sarebbe potuta ricostruire la nazione. E invece?
Invece la popolazione è un’altra volta sull’orlo del baratro. E il paese non
riesce a smentire le sue connotazioni di «stato fallito» o «stato suicida»,
degli economisti la prima, degli esperti di cooperazione allo sviluppo la
seconda.

Elezioni made in Usa

Nelle controverse elezioni di fine 2010 – inizio 2011 il cantante
di kompa, legato alla destra militarista, vince fortunosamente e diventa
presidente della Repubblica. Martelly, arrivato terzo al primo tuo, sarebbe
escluso dal ballottaggio, viene invece ripescato e rimesso in competizione grazie
all’intervento del segretario di Stato Usa, Hillary Clinton (in un viaggio
lampo ad Haiti del gennaio 2011). Un nome,
Clinton, che ha segnato le vicende del paese dal 1994 ai giorni nostri e
continuerà a influenzarle in futuro (vedi box).

«Ad Haiti assistiamo a una deriva
totalitaria, quasi fascista, del presidente Martelly, – denuncia Didier
Dominique, portavoce del sindacato operaio più importante di Haiti, Batay
Ouvriye – Fa quello che vuole. Dispone dei fondi che lo stato riceve, senza
consultare il parlamento. Sua moglie e suo figlio gestiscono molti soldi e
realizzano progetti a beneficio di persone amiche, grandi borghesi e grandi
proprietari terrieri che approfittano di questa situazione». Ma non basta. Il
bloccaggio politico-istituzionale è quasi totale. «Le elezioni amministrative
locali e di un terzo del senato continuano a non essere neppure programmate».
Il ritardo è ormai di due e tre anni rispettivamente. Così, scaduti i sindaci
ne sono stati nominati di nuovi da Martelly, mentre senatori e collettività
territoriali non sono state elette. «Posti che normalmente sono elettivi
diventano a nomina! Una pratica illegale».

«Esiste un conflitto tra potere legislativo
e potere esecutivo» incalza Antonal Mortimé, leader della Piattaforma delle
organizzazioni haitiane per i diritti umani (Pohdh), il maggiore cornordinamento
di associazioni di difesa dei diritti umani. «L’attuale presidente d’Haiti, a
nostro avviso, non vuole rispettare i principi della separazione dei tre poteri
dello stato garantiti dalla Costituzione del 1987, nei suoi articoli 59 e 60.
Ognuno dei tre poteri deve essere autonomo. A livello della giustizia sono
stati modificati alcuni giudici e giudici d’istruzione che devono essere
inamovibili secondo la Costituzione. Sono state, inoltre, nominate persone che
non avevano le qualifiche per esserlo. Nomine irregolari, fuori dal rispetto
delle norme. Sono stati cambiati procuratori o capi tribunale di Port-au-Prince
nove volte in due anni».

Succede pure che i presidenti di camera e
senato non presenzino con il presidente della Repubblica durante le
commemorazioni importanti, come il 18 novembre scorso, anniversario della
battaglia di Vertières che sancì la definitiva sconfitta delle truppe francesi
(napoleoniche) e aprì le porte per l’indipendenza. «Martelly blocca le leggi
votate dal parlamento non ratificandole, è chiaro che le massime autorità del
legislativo non si sentano di avallare l’operato di questo presidente» conclude
Mortimé.

Rispunta Duvalier

Ma Martelly non ci fa caso. Anzi. Le sue frequentazioni sono di
altro tipo. Jean-Claude Duvalier, il sanguinario dittatore (1971-86) rientrato
ad Haiti nel gennaio 2011 dopo 25 anni di esilio dorato e sotto processo per
crimini contro l’umanità, compare spesso a fianco del presidente nelle
cerimonie ufficiali. «Il ritorno alla dittatura duvalierista è chiaro anche
nelle apparenze» continua Dominique: «Il 12 gennaio 2012 all’inaugurazione
dell’Università a Limonade, nel Nord, a fianco di Martelly, erano presenti Bill
Clinton e Jean-Claude Duvalier». «Sì, è una frequentazione sistematica –
conferma Antonal Mortimé – ma non basta. Martelly ha restituito a Duvalier i
beni acquisiti illegalmente che gli erano stati confiscati dallo stato dopo la
sua fuga da Haiti (7 febbraio 1986, ndr). Inoltre ha ripristinato per Jean-Claude tutti i privilegi che
spettano agli ex presidenti. E, peggio ancora, il figlio Nicolas Duvalier è
consigliere politico di Michel Martelly».

Accusato di arresti arbitrari, torture, assassini politici, il «dossier
in giustizia» di Duvalier è bloccato alla Corte d’appello, e l’ex dittatore
vive tranquillo, nella più totale impunità, mentre vittime e famigliari riuniti
in un collettivo, portano avanti la lotta per vederlo condannato, appoggiate da
Amnesty Inteational, Human rights watch e la Federazione
internazionale per i diritti umani (Fidh).

Retromarcia sui diritti

Oltre al blocco politico e istituzionale l’altro dato preoccupante
è quello sulle violazioni dei diritti umani1. «Assistiamo ad arresti totalmente
illegali: un deputato, così come alcuni avvocati. Mentre un giudice che doveva
giudicare una procedura, recentemente ha attaccato il presidente in giustizia
ed è stato trovato morto» continua Didier Dominique.

Racconta Mortimé: «Nei due anni e otto mesi di presidenza Martelly
registriamo una regressione in termini di protezione e promozione delle libertà
individuali, e questo si manifesta in diversi modi, come minacce e aggressioni
a media indipendenti e giornalisti. La guardia di sicurezza ravvicinata del
presidente ha aggredito dei giornalisti nel Sud Ovest, e anche a Mirbalais nel
Plateau Central, a Port-au-Prince». Recente è il pestaggio di un giornalista
della radio Kiskeya e di una collega di radio Express2. I colpevoli
restano impuniti. Il presidente ha dichiarato più volte che i media fanno delle
cose inammissibili per fare spettacolo. «C’è inoltre una repressione
sistematica e sproporzionata contro le manifestazioni di oppositori politici e
contro membri dei movimenti sociali haitiani». Manifestanti che rivendicano
acqua potabile, igiene, educazione e altri diritti di base, oppure la
trasparenza nella gestione dei fondi pubblici. «Ad esempio il 18 novembre ci
sono stati 50 arresti nel Nord del paese, 5 arresti in capitale e diversi feriti».

Una forza d’occupazione

Continua Mortimé: «Ho visto soldati della Minustah (caschi blu
dell’Onu, ndr), a Port-au-Prince che appoggiavano la polizia nella repressione
di diverse migliaia di persone scese in strada. Questo succede anche nelle città
di provincia, Les Cayes, Jacmel, Cap Haitien, Petit Goave. Ma talvolta è la
Minustah stessa a reprimere i manifestanti».

Presenti nel paese dal 2004 i caschi blu dell’Onu hanno una
presenza massiccia e ben armata, e sono sotto comando brasiliano. I soldati
della Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione di Haiti (Minustah)
si sono più volte macchiati di violazioni di diritti umani: «Violazione del
diritto all’integrità fisica, violazione del diritto di manifestare e
protestare. L’ultima violazione è stata lo stupro di un minore nella regione di
Léogane, da parte di soldati nepalesi», ricorda il segretario esecutivo della
Pohdh.

«A livello di diritti umani la presenza
della Minustah è una violazione del diritto all’autodeterminazione e alla sovranità
del popolo. La classe politica (di opposizione, ndr) e i media la chiamano forza di occupazione straniera e a livello di
masse popolari la gente cambia il nome in “Turistah”, ovvero turisti in armi».

Didier Dominique spiega: «Un’altra causa di
tensione sono i militari della Minustah. Forza sovra dimensionata, con
elicotteri e armi pesanti, superiore a quanto sia mai stato l’esercito haitiano
o attualmente sia la polizia. E agiscono in modo sproporzionato contro i
manifestanti, con una repressione estrema. Martelly ha chiaramente detto che le
forze dell’Onu sono il suo esercito, la sua protezione militare».

Il mandato della Minustah è stato rinnovato – come ogni anno – il
15 ottobre scorso per ulteriori 12 mesi. Ma il presidente uruguaiano, José
Mujica, sotto la pressione del suo parlamento, è intenzionato a ritirare le
truppe dal contingente se «il presidente Martelly non dimostrerà di operare per
la democrazia in Haiti». E il 31 ottobre scorso gli ha dato un ultimatum di 90
giorni. Il Brasile e l’Argentina andrebbero nella stessa direzione.

Esercito o gruppi armati?

Haiti è uno dei rari paesi al mondo senza esercito, abolito dal
presidente Aristide nel 1994 dopo il suo rientro dall’esilio. Ma Martelly fin
dai primi mesi del suo mandato, ha presentato un progetto per creae uno
nuovo. Oggi ufficialmente il progetto è abbandonato, ma ufficiosamente sembra
di no. Osserva Antonal Mortimé: «A più riprese sono spuntati gruppi armati che
si dicono ex militari, anche se vi partecipano pure dei giovani. Parlano alla
radio che si mostrano in allenamento. Nel Sud c’è un gruppo che si chiama
“repolice”, per opposizione alla polizia, sono un gruppo armato nel quale ci
sono degli ex militari. La gente del Sud, in particolare a Les Cayes, ha
denunciato il supporto del governo a questi gruppi armati paramilitari. Inoltre
il governo ha mandato in Ecuador 41 giovani per formazioni in diverse
discipline, che sono stati di fatto formati in caserma. Ora sono rientrati ad
Haiti ma non integrano la polizia. Ci chiediamo se sono gli ufficiali di un
nuovo esercito.

Senza contare che diversi posti strategici a livello politico e
nell’amministrazione pubblica sono occupati da ex ufficiali dell’esercito: il
ministero della Difesa, quello
dell’Inteo e il servizio Immigrazione. L’importante ministero della Giustizia
è diretto da un ex militare che viola sistematicamente la legge sulla polizia
nazionale, sullo statuto dei magistrati, sull’indipendenza della magistratura e
del Consiglio superiore della magistratura».

Haiti e gli «amici» Clinton

Ma perché ad Haiti la ricostruzione non ha funzionato, e chi tira
le fila?

«Martelly è l’esecutore di un progetto imperialista, che dopo aver
distrutto l’economia haitiana, punta a fare del paese un serbatornio di mano
d’opera a bassissimo costo» si scalda Didier Dominique.

«Il piano Usa è quello di creare ad Haiti delle “zone franche”
industriali per il tessile da un lato e delle aree di latifondo per l’agro
industria, per produrre soia, bioetanolo, banane dall’altro. Secondo la loro
ripartizione internazionale, il lavoro – mano d’opera a buon mercato – deve
foirlo Haiti. Ma questo è un piano estremamente esplosivo, perché sfrutta le
popolazioni, utilizza il lavoratore haitiano pagandolo 2-2,5 dollari al giorno.
Cifra con cui non può vivere. Si tratta di una situazione estrema a livello
economico».

Il sindacalista parla del «Piano Clinton», ovvero il piano che
Bill Clinton ha in serbo da anni per il piccolo paese caraibico: creare 40 zone
franche per l’industria manifatturiera tessile in tutto il paese. A parte il
vecchio Parc Industriel, nei pressi
dell’aeroporto (vedi foto), altre cinque sono in costruzione nella capitale. E
ancora in una zona Nord di Port-au-Prince, dove sono stati evacuati i
terremotati e si sono formati sterminati agglomerati di casupole e baracche
senza servizi, come il camp Corail. La zona franca sarà costruita proprio nei
pressi della «manodopera». Altre saranno realizzate lungo la frontiera – come
quella di Ouanaminthe dove la forza lavoro arriva da Haiti e i prodotti finiti
partono in Repubblica Dominicana – e nelle città costiere. Ogni zona franca è
composta da 30-40 fabbriche tessili, con 30.000 operai ognuna.

E tutto con i soldi della ricostruzione: il parco industriale di
Caracol, è stato l’unico grande progetto della Cirh (Commissione ad interim
per la ricostruzione di Haiti), istituzione che ha veicolato i fondi dei
governi donatori, presieduta dallo stesso Bill Clinton, che ritroviamo a fianco
della moglie Hillary – segretario di Stato Usa – all’inaugurazione dell’opera3. Notare che Caracol è nel Nord
quindi non in zona terremotata. «Clinton utilizza i fondi della ricostruzione
per portare avanti il suo piano». Continua Dominique.

«Tendenza schiavitù»

«Il piano è chiaro e si basa sul salario minimo che gli operai del
tessile dovrebbero avere. Secondo il codice del lavoro, articolo 137, il
salario minimo deve essere aggiornato ogni anno secondo l’inflazione, che
talvolta raggiunge il 100% annuo. Ma ad Haiti, sono passati cinque anni e il
salario è rimasto lo stesso.

Nel 2009 abbiamo fatto una grande lotta per avere 200 gourd al giorno (circa 5 dollari Usa, ndr), ma abbiamo ottenuto solo 125 gourd. Notare che il ministero degli
Affari sociali, che regola questi aspetti ha detto che ne occorrerebbero 300
per far vivere un operaio. Ecco l’aspetto criminale di questo governo».  Poi c’è stato il terremoto e la questione è
passata in secondo piano, per le autorità.

«Oggi c’è una nuova lotta sul salario minimo. Il governo ha
nominato una Commissione superiore del salario in risposta a una serie di
mobilitazioni che abbiamo fatto dal 2009 a oggi.

È una commissione tripartita, dove sono rappresentati il governo,
il padronato e i lavoratori attraverso i sindacati. Ma patronato e governo sono
d’accordo».

Batay Ouvriye organizza comunicati stampa, dibattiti,
mobilitazioni nelle varie zone sensibili, come a Ouanaminthe (frontiera Nord),
a Caracol, a Port-au-Prince.

Il sindacato chiede un salario minimo di 500 gourd (12,5
dollari) con delle misure di compensazione da parte del governo: trasporto,
cure di base (un dispensario presente in ogni parco industriale), una mensa con
un contributo per il cibo e la pensione per i lavoratori. Attualmente tutto
questo non esiste. Chiede anche rispetto per chi è iscritto alle organizzazioni
sindacali.

Il patronato invece punta a fermarsi alla metà e senza alcuna
misura di compensazione. 

Le principali marche che passano gli ordini per fabbricare
manufatti tessili ad Haiti sono statunitensi: Gildan, Levi’s, Hanes, Gap,
Wallmart. In passato vi era anche la Disney che in seguito a una campagna
internazionale di boicottaggio lasciò il paese.

«Il prezzo del lavoro dell’operaio, chiamato il paniere
famigliare, e trattato come una qualsiasi merce nel sistema capitalista, è
quello che deve garantire che possa vivere lui e la sua famiglia. Per il
patronato il salario deve permettere di essere competitivi a livello
internazionale, per questo va messo al ribasso. Io la chiamo “tendenza schiavitù”.
Ovvero, se avessero degli schiavi sarebbero estremamente competitivi. Questo
non è accettabile: il salario deve permettere la vita dell’operaio. Il livello
paniere famigliare, che è comunque dello sfruttamento, almeno permetterebbe
all’operaio di sopravvivere.

Sul mercato internazionale Haiti ha un grande vantaggio per gli
industriali: ha il costo della mano d’opera più basso delle Americhe e uno
delle tre minori al mondo, insieme a Sri Lanka e Bangladesh. La questione del
salario è mondiale e ad Haiti è un caso estremo».

Terra da esportazione

Poi c’è il piano per lo sviluppo dell’agro industria, che è ancora
in preparazione e i cui contorni non sono chiari. Esistono diversi progetti che
puntano alla produzione industriale di prodotti da esportazione, tra cui il
biocarburante. Per questo motivo parlamentari e gente vicina al governo sta
acquistando terre nelle zone sensibili, per rivenderle poi ai progetti di agro
industria oppure entrare a fae parte. I piccoli contadini sono espropriati
e  il piano è di creare operai agricoli
sottopagati.

Il terzo punto del governo per lo «sviluppo» di Haiti è il turismo
di alta gamma, e per questo hanno già costruito due hotel di lusso a
Petion-Ville (come l’Hotel Oasis) e un altro è in costruzione a Port-au-Prince.

«Nel suo insieme si tratta di un piano di dominazione e
sfruttamento economico sotto vari aspetti: salario minimo molto basso,
accaparramento di terre, proletarizzazione dei piccoli contadini, spostamento
di popolazione, speculazione fondiaria.

Ma c’è una ripercussione anche sulla politica: è un processo
imperialista che non ammette dibattiti alla camera, elezioni dei sindaci, delle
comunità territoriali, perché questo creerebbe un momentum democratico che questo progetto non
può supportare. Nella realtà questo piano necessita da un lato di
un’occupazione militare da parte di un esercito molto forte, che è la Minustha,
e dall’altro di un blocco del processo democratico con la formazione di
istituzioni, che era in costruzione da alcuni anni. In altri termini tutti gli
organi legislativi, giudiziari, il Consiglio superiore della magistratura,
devono essere controllate dall’esecutivo. Ed è quello che succede.

Ecco che il livello economico e quello politico sono estremamente
legati. E a essi si intreccia di conseguenza la situazione sociale, ormai
esplosiva. Ecco il perché di tutte queste manifestazioni a carattere politico:
vogliono cacciare Martelly, perché con lui non si potrà andare avanti nel
processo democratico e istituzionale. Mentre sale il costo della vita, i
trasporti sono sempre più cari e gli operai generalmente non mangiano a metà
giornata, altrimenti non portano niente a casa».

Il detonatore sociale

Se si legge nella chiave dei diritti umani: «In un paese in
estrema povertà, non possiamo parlare del godimento dei diritti socio economici
e culturali, come educazione, salute, alloggio, alimentazione, sicurezza
sociale. L’estrema povertà essa stessa è una violazione flagrante dei diritti
umani, non è garantito il diritto a un livello di vita sufficiente». Conferma
Antonal Mortimé. «Banca Mondiale e Fondo monetario internazionale dicono che ad
Haiti il 70% della popolazione vive in povertà estrema, sotto la soglia di un
dollaro al giorno. Io penso che in realtà siano di più. Le persone che lavorano
sfruttate nelle fabbriche sono meno del 30% della popolazione. Non possiamo
parlare di diritto al lavoro.

La possibilità dell’escalation di violenza è alle porte. Esistono
già conflitti armati che fanno morti. Come nella città di Petit Goave, o a Cité
Soleil, grande bidonville di Port-au-Prince. Zone che il governo non
controlla totalmente».

Il fenomeno delle manifestazioni represse con vittime, morti,
arresti arbitrari, è in aumento. Sia come numero di manifestazioni che di
partecipanti: «C’è il rischio di sollevamenti popolari, ma anche di ribellioni
armate. Quello che stiamo vivendo è simile a quanto successe negli anni
2002-2003».

Marco Bello
 
Note
 

1 – Etat de lieux sur la situation des droits humains en Haiti
2011-2013
, Pohdh, www.pohdh.org.
2 – Alterpresse, 12 novembre 2013.
3 – La perla perduta, MC gen-feb 2013.
4 – Haiti, entre colonisation dette et domination, S.
Perchellet, Papda 2010.
5 – Refonder Haiti?, P. Buteau, R. Saint-Éloi, L. Trouillot, Mémoire
d’Encrier, 2010.

Thony
Belizaire, il fotogiornalista
haitiano dell’AFP che firma le due foto pubblicate a pag. 24 è morto il 21
luglio scorso a causa di un tumore alle vie orali a 54 anni. Rendiamo omaggio a
«Tobel», conosciuto e incontrato tante volte sulle difficili strade di
Port-au-Prince. Sempre con una macchina fotografica in mano.

 
I Clinton e Haiti

William Jefferson Clinton diventa
presidente degli Stati Uniti il 20 gennaio 1993 (rimarrà in carica fino al
2001). In quell’epoca il presidente haitiano Jean-Bertrand Aristide è in esilio
a Washington ed è vicino agli ambienti democratici. Nell’ottobre 1994 Clinton
lancia l’operazione «Restore democracy» e invade Haiti con 20.000 marines: riporta Aristide al potere. Il
presidente haitiano è però costretto ad accettare tutti i diktat dei Piani di
aggiustamento strutturale. Clinton impone ad Aristide il famigerato programma
del Fondo monetario internazionale (Fmi) con il quale i dazi doganali di riso e
mais sono minimizzati. Quelli del riso passano dal 35% al 3%. Il riso americano,
sovvenzionato, costa meno di quello haitiano e invade il mercato interno. È la
fine dell’economia agricola haitiana e la fame per centinaia di migliaia di
produttori che si riversano in città. Haiti
importa il 75% del cibo che consuma.

Nel 2009 Bill Clinton viene nominato inviato speciale
dell’Onu per Haiti. Il 10 marzo 2010, in commissione esteri del Senato Usa, fa mea
culpa
: «Può essere stato positivo per i miei agricoltori in Arkansas, ma
non ha funzionato, è stato un errore. Io, nessun altro, vivo ogni giorno con la
colpa della perdita di capacità di produrre riso in Haiti per sfamare quella
gente, a causa di quello che ho fatto»5.

Dopo il terremoto del 2010, insieme a George Bush,
costituisce il Fondo Clinton Bush per Haiti. Dal giugno 2010 è alla
testa della Commissione ad interim per la ricostruzione di Haiti (Cirh)
che gestisce, senza alcun controllo, i 10 miliardi di dollari promessi per la
ricostruzione. Hillary e Bill Clinton inaugurano la zona franca di Caracol
nell’ottobre 2012.

Marco Bello

Marco Bello




L’Europa delle associazioni

Scambio tra volontari ospedalieri europei.


Quattro volontarie ospedaliere portoghesi passano tre
settimane negli ospedali piemontesi. Sono insieme ai volontari locali, alcuni
dei quali andranno in visita in Portogallo. È un programma europeo di scambio tra
volontari dell’Unione. Per conoscersi, capire, imparare e riportare a casa
qualche buona pratica. Cosa hanno scoperto nel nostro paese? Le abbiamo incontrate.

Branca Maria, Eugénia, Graça e
Manuela: le incontriamo per una cena al Caffè Basaglia, circolo Arci di Torino
nato per dare lavoro a persone con problemi psichici. Ma loro, le nostre amiche
arrivate da Lisbona, nel proprio paese si occupano di un altro tipo di disagio:
prestano infatti servizio di volontariato accanto ai malati oncologici per
conto della Lpcc, la Liga portuguesa contra o cancro.

«L’occasione che ci ha portate in Italia è stato uno
scambio tra il Nucleo regionale du Sul – la sezione della Lpcc che
include Lisbona, Madeira e le Azzorre – e l’Avo, Associazione Volontari
Ospedalieri del Piemonte, per conoscerci e confrontare le rispettive
esperienze. Noi siamo state qui tre settimane. Poi, a marzo, quattro volontari
italiani ricambieranno la visita», spiega Graça Almeida, 63 anni di cui 18
trascorsi come volontaria accanto ai malati terminali.

Un’Europa dalla base

«Questo gemellaggio tra associazioni europee è stato possibile
grazie a un progetto dell’Unione Europea, il progetto Grundtvig Life (=
esperienza sul campo)» spiega Leonardo Patuano, presidente dell’Avo Piemonte, «destinato
agli over 50 e basato sull’idea che il volontariato rappresenti una forma
importante di apprendimento “non formale”, da sostenere attraverso il dialogo
tra soggetti simili operanti in realtà e con prassi diverse». Un’iniziativa
interessante che dimostra come l’unità dell’Europa non passi solo per il
tramite degli interessi economici comuni, come è avvenuto di recente nei casi
Telecom (con la Spagna) e Alitalia (con la Francia), ma possa costruirsi
attraverso i legami sociali e la cittadinanza attiva.

Ma perché dal Portogallo hanno mandato tutte donne? «È stato un
caso, inizialmente doveva esserci anche un collega ma all’ultimo ha avuto un
problema familiare e ha dovuto rinunciare, così sono subentrata io» racconta
Eugénia Cunha Ferreira, 58 anni, di cui 7 al servizio dei malati oncologici in
ambito pediatrico.

«In effetti però l’80 per cento dei membri della Lpcc sono donne,
come ho visto anche nel caso dell’Avo; probabilmente il motivo è culturale, le
donne sono più “abituate” ad accudire e a prendersi cura degli altri».

Un impegno per la nazione

Nelle tre settimane trascorse in Italia le
ospiti portoghesi hanno incontrato le diverse realtà ospedaliere – ma anche
case di riposo, centri diui, hospices ecc. – dove
operano i volontari dell’Avo, spaziando su tutto il territorio piemontese (da
Torino a Borgomanero, da Cuneo ad Arona) e affiancando i volontari in servizio
nei vari reparti: oncologia, pediatria, ginecologia, geriatria…

«L’esperienza dei volontari qui e nel nostro paese non è del tutto
equiparabile, perché in Italia si interviene in ospedali “generalisti” mentre
noi ci troviamo in ospedali specializzati nel settore oncologico» nota Graça. «Tuttavia
– sottolinea Branca Maria Baptista, nella Lpcc da 18 anni – il servizio svolto è
sostanzialmente lo stesso: si tratta di fare compagnia alle persone malate e
alle loro famiglie facendole sentire accolte, ascoltate, attraverso l’offerta
di un sorriso, di una carezza, di una parola gentile…».

La Lpcc svolge anche servizi particolari, come il dono dei fiori
agli ammalati o il momento del caffelatte, «cioè portiamo in reparto bevande
calde e biscotti per i pazienti» spiega Eugénia Cunha Ferriera. «Questo è un
modo per rompere il ghiaccio, per creare un primo rapporto con i degenti o, nel
caso dei bambini, con i genitori, offrendo loro un momento di sollievo e
permettendogli di allontanarsi per un po’ sapendo che accanto ai loro piccoli
rimaniamo noi».

A differenza di quanto avviene in Italia, però, la Liga
portuguesa contra o cancro
deve provvedere anche ad altri bisogni dei
malati, oltre a quelli relazionali e di supporto immediato.

«Da noi il servizio sanitario pubblico non fornisce tutto, molti
strumenti e prestazioni sono a pagamento, e per tanti cittadini è impossibile
sostenerli di tasca propria», spiega Manuela Moreira, 63 anni e 14 di
volontariato. «Perciò noi interveniamo per i più bisognosi, su segnalazione dei
servizi sociali, foendo ad esempio le protesi per le donne operate al seno o
per i pazienti laringectomizzati e stomizzati, i farmaci e i macchinari per gli
ospedali. Finanziamo anche la formazione e la ricerca erogando borse di studio
destinate a medici e infermieri, e acquistiamo libri e riviste per le
biblioteche degli ospedali».

A caccia di fondi

Per fare questo la Lpcc mette in campo
diverse strategie di raccolta fondi. Ogni anno, ad esempio, dal 31 ottobre al 3
novembre vengono dedicati quattro giorni alla raccolta in piazza, che vede
coinvolto tutto il Portogallo. «Le persone rispondono con generosità al nostro
appello, perché la Liga è molto conosciuta e apprezzata», dice Manuela. Tant’è
vero che, pur contando su un numero di volontari relativamente contenuto (400 a
Lisbona, e circa 3.700 in tutto il Paese), la Liga riesce a mettere ogni anno
più di 500.000 euro a disposizione degli ammalati. «La maggior parte degli
introiti proviene proprio dalla raccolta in strada», osserva Maria Graça
Almeida, «poi abbiamo i finanziamenti di aziende e associazioni, i lasciti
testamentari e l’equivalente di quello che è il 5×1000 in Italia. Un’altra
piccola entrata è rappresentata dagli eventi sul territorio (spettacoli,
vendita di artigianato, ecc.) e dalle quote sociali che versiamo noi volontari:
ci viene richiesto un contributo minimo di 15 euro l’anno, ma c’è chi mette
molto di più».

A riprova dell’alta considerazione di cui godono i volontari in
Portogallo, ci sono le modalità in cui vengono «ufficialmente» inseriti nella
Liga: dopo un corso base e un tirocinio che dura dai 9 ai 12 mesi (ogni tre
mesi in un ospedale oncologico diverso) si svolge la cerimonia di consegna dei
camici con cui i neo volontari presteranno servizio. Ebbene, spiega Branca
Maria, «questa cerimonia assume i toni di una vera e propria festa nazionale, è
un momento di gioia e solennità, cui partecipa ogni anno anche la moglie del
presidente della repubblica».

«In Italia il volontariato non è altrettanto valorizzato, e i
nostri volontari – pur desiderando mettersi al servizio dei malati e
dell’associazione – non hanno la percezione di assumere un impegno nei
confronti dell’intera nazione», osserva Leonardo Patuano. «Tuttavia anche da
noi, pur svolgendosi in tono minore, il passaggio dal tirocinio al servizio
effettivo è sentito come un momento di grande emozione e di soddisfazione, per
il neo volontario ma anche per il tutor che l’ha seguito e per tutta l’équipe».

Per una Ue dei volontari

«Il tour delle volontarie portoghesi è stato organizzato
per dar loro la possibilità di sperimentare un ampio ventaglio di situazioni, a
contatto con realtà di diverse dimensioni» (le Avo del Piemonte vanno da quella
di Torino, con circa 1.000 volontari, a quella di Torre Pellice con una
cinquantina di presenze, nda) spiega Patuano; «e abbiamo voluto presentare anche altre realtà
d’impegno sociale oltre alle nostre: per questo la cena al Caffè Basaglia, o il
pranzo alla Cascina Roccafranca in occasione di un meeting di associazioni Lazio-Piemonte.
Nella Giornata nazionale dell’Avo abbiamo anche “sconfinato” fino a Roma, dove
le volontarie hanno avuto la possibilità, e direi la gioia, di assistere
all’Angelus di Papa Francesco». Un fitto calendario d’impegni, che ha però
lasciato spazio anche a momenti liberi, dedicati alle visite turistiche e al «lavoro»:
«Ogni giorno abbiamo redatto una sorta di diario dove annotavamo le varie
esperienze, gli incontri e le realtà osservate; al ritorno a Lisbona avremo la
responsabilità di trasmettere le conoscenze acquisite anche agli altri colleghi
della Lpcc», spiega Eugénia. E aggiunge: «Questi scambi servono per crescere e
arricchirsi, sono un primo passo per arrivare a un obiettivo a più lungo
termine: costruire una Unione europea dei volontari, in cui tutti possano
migliorare nel proprio servizio e operare in maniera più uniforme».

Una valigia piena di…

Ma in attesa di raggiungere questo obiettivo ambizioso, cosa
stanno mettendo in valigia le volontarie portoghesi? «Certamente quello che ci
porteremo a casa è il senso di calore, per la grande accoglienza e ospitalità
di voi italiani», dice Branca Maria. «Abbiamo trovato molta disponibilità,
alcuni volontari di Torino, incluso Leonardo, ci hanno accompagnate in ogni
spostamento facendoci da guide nel conoscere le realtà di sofferenza e gli
interventi per alleviare il disagio, che è fatto di malattia ma anche di
solitudine. E sono stati preziosi ciceroni, conducendoci alla scoperta delle
bellezze artistiche e naturali del vostro paese».

«Per noi è stato volontariato anche questo, un compito agevolato
dal fatto che le colleghe portoghesi parlavano benissimo la nostra lingua»,
dice Castiliano Boscolo, 60 anni, una delle guide «ufficiali». «Nel loro paese
hanno seguito un corso di italiano di 30 ore, come previsto dal progetto (lo
stesso faranno i volontari italiani che andranno a Lisbona, nda), e devo dire che l’hanno imparato
molto bene. Tant’è che gli ammalati avvicinati in queste settimane hanno
ricambiato le loro attenzioni con grande simpatia e affetto. E naturalmente si
sono sentiti anche un po’ onorati dal fatto di ricevere queste visite…
inteazionali!».

«Mi auguro che la nostra esperienza sia solo l’inizio di un
cammino, per crescere insieme, volontari italiani e portoghesi, e imparare a
stare vicini al disagio in maniera sempre più efficace», dice Branca Maria. «La
nostra speranza è che, in un futuro non troppo lontano, questa collaborazione
possa allargarsi anche ad altri paesi europei».

 
Stefania Garini
Intervista a Leonardo Patuano, presidente Avo Piemonte


Noi, volontari europei

Uno scambio tra chi pratica volontariato per conoscersi e
avviare rapporti duraturi nel tempo. Capire le differenze di servizio nei
nostri paesi, imparare. Perché «il volontariato richiede professionalità e
competenza».

Quali sono gli obiettivi dello scambio tra volontariato
italiano e portoghese?

«L’idea di partenza è quella di conoscersi meglio, per
scambiarsi a vicenda le “buone pratiche” e avviare rapporti di collaborazione
che durino nel tempo. Le colleghe portoghesi ad esempio sono rimaste molto
colpite dalla nostra capacità di operare “in rete” con altre associazioni
presenti sul territorio: nell’ospedale pediatrico di Torino ad esempio l’Avo
collabora con altre sei realtà, tutte impegnate, con competenze diverse ma
complementari, nell’assistenza al bambino malato e alla sua famiglia; in varie
Avo piemontesi si interviene poi accanto ai malati psichiatrici in sinergia con
associazioni di familiari e utenti. Si tratta di un’attitudine a non chiuderci
nel nostro orticello ma a cercare la collaborazione con altri per garantire un
servizio che risponda a 360° alle esigenze del malato. Ecco, questo modello
culturale, questo passaggio dalla “mia associazione” al “noi volontari” è stato
un aspetto apprezzato dalle colleghe portoghesi. E in fondo, è lo stesso
atteggiamento che ci ha spinti a guardare fuori dai confini nazionali. Da parte
nostra, siamo rimasti colpiti dalla concezione portoghese che considera il
volontariato un impegno da assumersi nei riguardi dell’intera nazione».

Come avete selezionato i volontari destinati allo
scambio?

«Intanto c’era un limite d’età perché il progetto
dell’Ue era rivolto ai volontari senior (over 50), per valorizzae
l’esperienza e per renderli più consapevoli della dimensione europea in cui si inserisce
il loro servizio. La selezione non è stata semplice perché le Avo del Piemonte
raggruppano circa 3.000 volontari, di cui 2.500 al di sopra dei 50 anni; perciò
sono andato in “missione” nelle diverse zone per presentare il progetto e fare
proselitismo tra i volontari. Alla fine è uscita una rosa di 10 candidati, e la
selezione si è svolta in base a precisi requisiti: la provenienza geografica,
in modo che fossero rappresentate le diverse realtà del territorio piemontese,
la capacità di restituzione dell’esperienza ai colleghi rimasti a casa, il
ruolo ricoperto all’interno dell’associazione, e ovviamente, come titolo
preferenziale, la conoscenza della lingua portoghese o dell’inglese».

Quali sono le aspettative rispetto a questa esperienza?

«Prima di tutto c’è una valenza formativa, i volontari
europei possono apprendere gli uni dagli altri sviluppando la propria capacità
d’innovazione. Ma soprattutto mi auguro che esperienze come questa servano per
darci una spinta in più nelle cose che già facciamo, spronandoci a farle sempre
meglio, rafforzando la nostra consapevolezza e le nostre motivazioni. Perché il
volontariato non è fatto solo di altruismo e buoni sentimenti, ma richiede
professionalità e competenza. Dobbiamo formarci e aggioarci di continuo, per
stare accanto alle persone più vulnerabili senza fare involontariamente danni,
ma offrendo loro un aiuto reale».

Stefania Garini

I numeri
La Liga Portuguesa contro il cancro
1941 l’anno di nascita
3.700 i volontari in servizio sul territorio nazionale
29 campagne di prevenzione,
26 convegni e 11
pubblicazioni per promuovere e sensibilizzare sulla salute
244.867 mammografie realizzate nel 2012 (in 25 unità mobili
e 3 fisse)
4.500 accompagnamenti
annui ai consulti psico-oncologici
36.000 alunni di scuole primarie e secondarie incontrati in
260 iniziative di (in)formazione
524.000 euro spesi nell’anno per acquisto di farmaci,
protesi, trasporti, alimenti per i malati.
www.ligacontracancro.pt
 
L’AVO Piemonte

2002 l’anno di nascita del cornordinamento tra tutte le Avo
piemontesi
3.000 i volontari in servizio sul territorio regionale
350.000 le ore annue di presenza gratuita accanto ai malati
e alle loro famiglie
17 le sedi principali e 17 le sezioni distaccate
36 i Comuni piemontesi dove l’Avo è presente
65 le strutture sanitarie dove si svolge il servizio

Stefania Garini




La piramide dell’ingiustizia

In povertà e in ricchezza / 1

I diritti umani appaiono sempre più come delle mere costruzioni
teoriche, lontane dalla realtà.Nel mondo odierno, a Nord come a Sud, si assiste a un
dominio delle libertà economiche che finiscono per prevalere su tutto e tutti.
Le conseguenze si vedono e si toccano con mano: un aumento progressivo delle diseguaglianze.
Non è un’affermazione politica o ideologica. È una constatazione di fatto.
Certificata da dati ufficiali (statistiche e indici), ma soprattutto dall’evidenza
quotidiana.

La prossima volta che – in un
ipermercato o in una boutique – staremo per acquistare un capo d’abbigliamento,
sarebbe importante ricordare questo numero: 1.1331.

Il 24
aprile 2013, a Savar, periferia di Dacca, capitale del Bangladesh, si è
sgretolato un palazzo di 8 piani conosciuto con il nome di Rana Plaza. Sono
morte (almeno) 1.133 persone e altre 2.515 sono rimaste ferite. L’80 per cento
erano donne2.
Nella costruzione venivano ospitate varie fabbriche d’abbigliamento, tutte
foitrici – in appalto o subappalto – di grandi marchi occidentali, compresa
l’italiana Benetton e la spagnola Zara (Inditex). In pochi anni il Bangladesh è
divenuto il secondo esportatore di capi d’abbigliamento al mondo dopo la Cina.

Made in Bangladesh

La tragedia del Rana Plaza non è un’eccezione. Al contrario: è la
normalità (come del resto in altri paesi, dal Pakistan alla Cambogia). Pochi
mesi prima, il 24 novembre 2012, ad Ashulia, altro sobborgo della capitale
bengalese, era bruciato l’edificio della Tazreen Fashions, altra fabbrica
d’abbigliamento che lavorava per marchi occidentali. Alla Tazreen erano morte,
asfissiate o bruciate, 112 persone (quasi tutte donne). Lì si confezionavano,
tra gli altri, capi d’abbigliamento della Faded
Glory, un marchio della Wal-Mart, la multinazionale
statunitense della famiglia Walton, seconda al mondo per grandezza, sempre al
vertice nella classifica delle multinazionali con la peggiore reputazione. Il
suo motto è «Save Money. Live better», «Risparmiare denaro. Vivere meglio»3: un risparmio e una vita migliore
ottenuti a scapito o sulla pelle di altre persone.

L’incendio alla Tazreen ne ricorda da vicino un altro, avvenuto
oltre 100 anni prima a New York, sempre in una fabbrica tessile e sempre avendo
come vittime giovani donne sottopagate. Quel giorno – era il 25 marzo 1911 – a New York morirono in 146. Le porte della Tringle Shirtwaist Company erano state
chiuse a chiave, ma i proprietari furono assolti da ogni responsabilità4. Come oggi lo sono o lo saranno
quelli delle fabbriche bengalesi5.

Una nota sull’etica (lo diciamo con amara ironia) delle
multinazionali dell’abbigliamento. L’11 e 12 settembre 2013, a Ginevra, in un
incontro organizzato per creare un fondo di risarcimento per le vittime degli
incidenti si sono presentati soltanto 9 marchi inteazionali su 286. Al 24 ottobre 2013 soltanto la
Primark (gruppo angloirlandese) aveva pagato qualcosa alle vittime del Rana
Plaza7. Intanto, a 10 mesi dalla tragedia, i 1.137 sopravvissuti della
Tazreen ancora attendono una compensazione per la sofferenza, le spese mediche,
la perdita del lavoro.

In Bangladesh su 5 milioni di lavoratori del tessile l’80% è
costituito da donne. Stando alla legge, l’orario di lavoro dovrebbe essere al
massimo di 10 ore giornaliere, ma il più delle volte si arriva a 14-16 ore, 7
giorni su 7. Le donne non potrebbero lavorare dopo le ore 20.00, ma arrivano in
realtà fino alle 22.00 o alle 23.00. Non hanno scelta: o accettano quelle
condizioni o perdono il lavoro. Nelle fabbriche del Bangladesh si riproduce la
struttura patriarcale che è diffusa a ogni livello della società bengalese8. E questo avviene nonostante il
primo ministro del paese asiatico sia una donna, Sheikh Hasina, in carica dal
2009 (ma che già goveò tra il 1996 e il 2001).

Fino al 1 dicembre 2013 il salario minimo (vigente dal novembre
2010) era di 3.000 taka ovvero 38 dollari al mese, uno dei più bassi del mondo9. Si consideri che in Cina esso è di
138, in Cambogia di 75, in Indonesia di 71, in Vietnam di 67, in India di 65. I
dati sono del Wall Street Joual, una delle bibbie del capitalismo mondiale10.

Per avere un termine di raffronto, abbiamo
fatto un piccolo esperimento (senza pretese di scientificità, ma abbastanza
indicativo). In un ipermercato di Torino abbiamo comprato una felpa made in
Bangladesh. Il capo d’abbigliamento era in offerta a 14,90 euro ovvero la metà
del salario mensile di un’operaia tessile di quel paese. Identicamente dai
francesi di Carrefour i vestiti marca Tex – maglie e tute made in Bangladesh –
erano in vendita tra i 10 e i 16 euro. Di solito, davanti a dati di questo
tipo, il commento più comune è: «Ma lì la vita costa meno». È stato però
calcolato che soltanto per coprire il suo fabbisogno alimentare un’operaia
tessile avrebbe bisogno di 2.350 taka al
mese, che salgono a 11.000 se la donna ha una famiglia11.

Questo è lavoro? La domanda è retorica, perché questo – certamente
– non è lavoro. È schiavismo legalizzato, che sarebbe rimasto nascosto ai più
se non ci fossero state le tragedie.
Dal Bangladesh, uno dei paesi più poveri del mondo12, passiamo agli Stati Uniti, uno dei più ricchi, certamente il più potente.

Made in Usa

A New York, lo scorso 5 novembre, si è chiusa l’esperienza
del sindaco Michael Bloomberg, il miliardario eletto nelle fila dei
repubblicani. È stato sostituito da Bill De Blasio, democratico di origini
italiane, che ha stravinto le elezioni forte dello slogan «Nessuno deve essere
lasciato indietro». Un’affermazione impegnativa. I 12 anni di Bloomberg (3
mandati, iniziati nel gennaio 2002) – descritti come esaltanti e ricchi di
successi – hanno lasciato un’eredità mai adeguatamente evidenziata: quella dei
senzacasa (homeless). A giugno 2013 è stato toccato il record di sempre con
50.900 persone – includendo 12.100 famiglie con 21.300 bambini -, che hanno
trascorso le notti nei dormitori pubblici della metropoli nordamericana13.
Peraltro, il numero, già altissimo, non include le migliaia di persone che non si
sono rivolte ai ricoveri cittadini (unsheltered homeless people),
scegliendo di dormire nella metropolitana o in altri spazi pubblici (giardini,
androni di palazzi, eccetera), soprattutto nel distretto finanziario di
Manhattan.

Negli
Stati Uniti il fenomeno dei senzacasa è l’aspetto più immediatamente visibile
della povertà, che evidenzia dati impressionanti, soprattutto per la prima
potenza mondiale. Nel 2012 il tasso ufficiale di povertà è stato del 15,0 per
cento, pari a 46,5 milioni di persone14. Molto
significativa è la composizione etnica dei poveri: i neri costituiscono il 27,2
per cento, gli ispanici il 25,6, gli asiatici l’11,7 e i bianchi non ispanici
il 9,7 per cento. E quella per età: con il 21,8 per cento di bambini (sotto i
18 anni) e il 9,1 per cento di persone con più di 65 anni. Le donne in povertà
sono almeno 25 milioni, pari al 55% del totale della popolazione povera.

Gli Stati Uniti, a torto o a ragione considerati
la «patria della libertà», non hanno mai codificato un diritto a un’abitazione,
alla salute o all’educazione. Però, hanno solennemente proclamato – Thomas
Jefferson, dichiarazione d’indipendenza del 4 luglio 1776 – il diritto alla «ricerca
della felicità» (the
pursuit of happiness
).

Invidia o avidità?

Queste
situazioni di mancanza di diritti – siano essi il diritto a un lavoro dignitoso
o il diritto a una casa – sono determinate da responsabilità singole, da colpe
individuali oppure da cause più generali e complesse?

T.
Harv Eker, miliardario canadese divenuto famoso scrivendo saggi su come si
diventa ricchi, ha scritto: «Gli individui poveri spesso guardano al successo
altrui con avversione, gelosia e invidia oppure tagliano corto con un commento secco: “Quegli stupidi coi soldi hanno
molta fortuna”. (…) È impressionante vedere il risentimento e addirittura i
sentimenti di vera e propria rabbia che molti poveri provano per i ricchi, come
se credessero che i ricchi siano la causa della loro povertà»15.

Ivan Boesky, famoso finanziere (raider) statunitense degli
anni Ottanta, ha invece descritto la filosofia comportamentale dei ricchi. Nel
maggio 1986, in una conferenza presso l’Università della Califoia, a Berkley,
disse: «L’avidità fa bene. Penso che sia salutare»16. Né
l’avidità né – men che meno – l’invidia possono tuttavia spiegare la
situazione.

La causa di questa compressione dei diritti, a Nord come
a Sud del mondo, è da imputare alla globalizzazione neoliberista, che è stata
imposta e che continua a essere imposta come l’unica strada percorribile per le
«magnifiche sorti e progressive» del mondo. La globalizzazione – definibile
come un’integrazione sempre più stretta tra le economie del pianeta – si fonda
su alcuni pilastri: la libera circolazione dei capitali (produttivi, ma
soprattutto speculativi), il commercio libero (da regole, limiti, controlli,
protezioni e garanzie sociali) e la riduzione del ruolo dello Stato.

Questa impostazione ha prodotto un allontanamento degli
estremi: una ristrettissima classe ricca sempre più ricca e una affollatissima
classe povera sempre più povera.

Negli ultimi 25 anni, dominati dal pensiero unico della
globalizzazione neoliberista, la piramide della stratificazione sociale (che è
sempre esistita) si è trasformata nella piramide delle disuguaglianze. O dell’ingiustizia,
se si vuole attribuirle un significato più politico.

Questo è avvenuto e sta avvenendo al Sud (che già partiva
da condizioni di svantaggio) come al Nord.

«La globalizzazione sta contribuendo in misura
significativa a far crescere la disuguaglianza» ha scritto Joseph Stiglitz17, premio
Nobel per l’economia 2001.

Ricchi (alla faccia della crisi)

Se non si vede o non si vuole vedere la realtà,
allora si può fare riferimento a statistiche ufficiali. Ebbene, tutti i dati –
indipendentemente dalla fonte di provenienza (come vedremo) – mostrano con
evidenza quanto affermato: il modello neoliberista ha portato alla
globalizzazione dei profitti ma certamente non dei diritti.

La crisi, iniziata (ufficialmente)
nell’agosto del 2007, ci scorre quotidianamente davanti agli occhi con i numeri
dei disoccupati e storie di ordinaria disperazione. Tuttavia, il mondo
dell’economia neoliberista è pieno di sorprese. Come dimostra il 2013 Credit
Suisse Global Wealth Report.
L’annuale rapporto della banca svizzera racconta – con dovizia di dati e
grafici – che la ricchezza globale ha raggiunto i 241 trilioni18 di dollari, record di ogni tempo. Rispetto all’ultimo anno c’è stato un
aumento del 4,9% (e del 68% rispetto al 2003). Gli analisti ci dicono che il 9%
della popolazione mondiale possiede l’83% della ricchezza globale. O ancora che
32 milioni di persone – pari allo 0,7% della popolazione adulta del pianeta –
possiede il 41% della ricchezza totale. La situazione è ben riassunta nella global wealth pyramid, la piramide della ricchezza globale.

Il rapporto di Credit Suisse dà i numeri e
spiega alcune dinamiche. Non si sbilancia in giudizi etico-morali e men che
meno contesta il sistema. Diversamente da quanto fa Zygmunt Bauman: la
ricchezza di pochi – dice il famoso sociologo – non avvantaggia tutti, come
leggenda vorrebbe. «In quasi tutto il mondo la disuguaglianza sta aumentando
rapidamente, e ciò significa che i ricchi, e soprattutto i molto ricchi,
diventano più ricchi, mentre i poveri, e soprattutto i molto poveri, diventano
più poveri»19.

Abbiamo visto la ricchezza globale e la sua
crescita a dispetto della crisi. Ora è interessante capire in che mani essa sia
concentrata.

Esistono molte indagini statistiche al
riguardo. La più famosa è senz’altro quella stilata annualmente dalla rivista Forbes. A marzo 2013 è uscita la sua annuale lista dei miliardari, con questo
sobrio sommario: «I nomi, i numeri e le storie dietro le 1.426 persone che
controllano l’economia del mondo»20. Anche
la periodica ricerca Capgemini/ banca Rbc conferma la crescita degli individui
ad alto patrimonio (Hnwi, in sigla inglese), sia in numero (12 milioni di
individui, +9,2% rispetto al 2011) che in ricchezza posseduta21.

Tuttavia, può essere molto più interessante
osservare quella stilata – si chiama Hurun Report – dalla Cina, paese comunista e seconda potenza economica mondiale.

Va ricordato che il 14 marzo 2004 Pechino ha
introdotto nella propria Costituzione del 1982 un emendamento (il IV) che – nel
suo articolo 6 (sono 13 in totale) – afferma: «La proprietà privata è
inviolabile. Lo Stato, secondo quanto stabilito dalla legge, protegge il
diritto dei cittadini alla proprietà privata e all’eredità sulla stessa».

Secondo l’Hurun Report, nella Cina del 2013 il numero dei milionari – dove per milionario si
intende una persona con minimo 10 milioni di yuan (pari a circa 1,2 milioni di
euro)22 – ha raggiunto la cifra di 1,05 milioni, con
un incremento del 3% rispetto all’anno precedente. Il numero dei miliardari
cinesi – intesi come persone con almeno un miliardo di yuan (121,6 milioni di
euro) – è invece passato a 11.380, con un incremento di 1.120 rispetto all’anno
precedente. Il rapporto disegna un profilo di
questa popolazione di supericchi: chi sono (gli uomini sono il 70% del totale),
cosa fanno, cosa comprano (dalle automobili agli orologi, dalle collezioni
artistiche alle proprietà immobiliari), che sport praticano (nuoto e golf sopra
ogni altro).

Insomma, una lettura interessante, perché
inaspettata. Anche se non per tutti. Scrive ad esempio don Vinicio Albanesi,
presidente della Comunità di Capodarco e fondatore dell’agenzia giornalistica
Redattore sociale: «Nel futuro che ci attende, i ricchi si assomiglieranno
ovunque e sempre più nella loro sfacciata opulenza, mentre i poveri saranno
livellati nel disprezzo, nell’abbandono e nella fame, a prescindere dal mondo a
cui appartengono».

Paolo Moiola
(fine prima puntata – continua)

Note
 

1 – «Allora non bisogna
acquistare?». La risposta nella seconda puntata. Intanto anticipiamo il
riferimento principale, quello della «Campagna abiti puliti»:
www.abitipuliti.org. Il corrispondente sito internazionale è:
www.cleanclothes.org.
2 – Le cifre dei morti e dei
feriti variano leggermente a seconda della fonte. Queste sono tratte da alcuni
quotidiani britannici e dal «The Daily Star», quotidiano del Bangladesh.
3 – Sito: www.walmart.com.
4 – Olivier Cyran, In Bangladesh, gli assassini del prêt-à-porter, «Le Monde Diplomatique», giugno 2013, pag. 9. Sulla vicenda
dell’incendio della fabbrica di New York le informazioni più complete sono sul
sito della Coell University: www.ilr.coell.edu.
5 – L’ultimo incidente
risale all’8 ottobre 2013: a Gazipur, appena fuori Dacca, sono morti 7 operai
di una fabbrica tessile che lavorava per H&M (Svezia), Next (Gran
Bretagna), Carrefour (Francia) e gli inglesi di Asda (del gruppo Wal-Mart).
6 – Fonte: www.asianews.it.
7 – Fonte:
www.industriall-union.org.
8 – Alcuni dati per capire:
il 74% delle donne si sposa prima dei 18 anni, il 33% addirittura prima dei 15,
una donna su 3 rimane incinta prima dei 20 anni. Fonte: Women and girls in Bangladesh, Unicef 2010.
9 – A novembre 2013
lavoratori e sindacati hanno ottenuto un aumento a 5.300 taka al mese, circa 68
dollari, a partire dal 1 dicembre 2013. Fonte: «The Daily Star», Dacca.
10 – Fonte: «The Wall Street
Joual», 12 maggio 2013.
11 – Raccontato da Francesco
Pistocchini, in Compresi nel prezzo, rivista «Popoli», giugno-luglio 2013.
12 – E uno dei più densamente
popolati del mondo: 155 milioni di abitanti, 1.120 persone per chilometro
quadrato.
13 – Dati di «Coalition for
the homeless», rapporto del giugno 2013, reperibile sul sito.
14 – U.S. Census Bureau, Income, Poverty, and Health Insurance Coverage in the United
States: 2012, Washington, settembre
2013, pag. 13.
15 – T. Harv Eker, I segreti
della mente milionaria,
Gribaudi Editore, Milano 2008.
16 – Testuale: «I think greed
is healthy. You can be greedy and still feel good about yourself» ovvero «Penso
che l’avidità sia sana. Si può essere avidi e stare bene con se stessi».
17 – Joseph E. Stiglitz,
Il prezzo della disuguglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il
nostro futuro
, Einaudi 2013, pag. 106.
18 – È opportuno precisare: 1
trilione = 1.000 miliardi, mentre 1 bilione = 1.000 milioni = 1 miliardo.
19 – Zygmunt Bauman, “La ricchezza di pochi avvantaggia tutti”. Falso, Laterza, Bari 2013, pag.
13.
20 – Rivista «Forbes», 25
marzo 2013: «The World’s Billionaires. The names, numbers and stories behind
the 1.426 people who control the world economy».
21 – Hnwi = High Net Worth Individual, individui ad alto
patrimonio netto, che significa almeno 1 milione di dollari investibili,
escludendo l’abitazione principale, i beni di consumo e gli oggetti da
collezione (Capgemini / Rbc, World
Wealth Report 2013).
22 – Il cambio valutario: 1
rmb (ren min be) = 1 yuan = 0,12 euro.

Nella prossima puntata:

la concentrazione della ricchezza e la sua mancata
distribuzione; le sorprese dell’Indice di Gini; si può fare qualcosa per
ridurre le disparità create dalla globalizzazione neoliberista?; povertà e
ricchezza in Italia; i dati della Caritas e sue iniziative; la bibliografia e
molto altro ancora.

Paolo Moiola




L’immigrazione e il dramma dei «boat people» «Torna da dove sei venuto»

Paese di emigrati, l’Australia ha adottato una politica
durissima nei confronti degli stranieri che arrivano con imbarcazioni di
fortuna. Lo scorso anno sono sbarcate 17.000 persone (contro le 24.000
dell’Italia). La maggior parte recluse in centri situati in sperdute isole del
Pacifico. Dal 2014 sarà ancora più dura e i soli migranti accettati sul
territorio australiano saranno quelli dotati di specifiche competenze (skills).

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La consultazione elettorale del 7 settembre è stata certamente una delle più combattute e importanti dell’Australia degli ultimi decenni. A conferma dei sondaggi ante voto, gli elettori hanno dato la vittoria alla Coalizione liberal-nazionale e al suo leader Tony Abbott, neopremier australiano.

Molti e complessi i temi sul tappeto della campagna elettorale: frenata dell’economia, occupazione, distribuzione della ricchezza, interventi sociali... Tuttavia uno in particolare l’ha segnata e ha raccolto l’interesse dei 14 milioni di elettori: la politica immigratoria.

Un tema su cui il confronto tra i conservatori della Coalizione Liberal-nazionale e i Laburisti (al potere dal 2007, con la curiosa alternanza intea al premierato tra il navigato politico Kevin Rudd e la sua rivale intea Giulia Gillard) è stato particolarmente acceso, ma che alla fine si sintetizza - con poche distinzioni e sottolineature -nel respingimento coatto verso centri di raccolta e di valutazione in paesi limitrofi, comunque al di fuori delle acque territoriali australiane di quanti continuano ad arrivare via mare in precari e rischiosi «battelli della speranza».

Alla fine, una scelta con pochi oppositori all’interno, in particolare in un paese preoccupato della recente frenata di export e attività minerarie, del caro-dollaro (australiano) e di nuove povertà. Una scelta, tuttavia che per molti ha indebolito la credibilità internazionale del paese. Va ricordato che l’Australia, dall’Assemblea generale di fine settembre, detiene la presidenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Nessuna accoglienza per i nuovi «boat people» 

La campagna elettorale aveva avuto un inizio insieme emblematico e drammatico. Il 19 luglio, in quello che una parte della società civile ha definito «giorno della vergogna», il premier australiano avviato alla sconfitta, Kevin Rudd, annunciava la fine di ogni possibilità di asilo per quelli che, recuperando una terminologia legata al conflitto vietnamita e che sembrava relegata al passato, i media hanno chiamato «boat people». Migliaia di mediorientali e asiatici meridionali che si affacciano sulle acque al confine australiano alla ricerca, più che di benessere, di sicurezza in un paese terzo. «Da ora in poi qualunque richiedente asilo che arrivi in Australia via mare non avrà alcuna possibilità di essere ospitato in Australia come profugo», aveva spiegato Rudd durante la conferenza stampa congiunta con il collega della Papua Nuova Guinea, Peter O’Neill. Dal 2014 le imbarcazioni non autorizzate saranno dirottate sulla Papua Nuova Guinea per valutare le domande di asilo.

«Gli australiani sono stanchi di vedere gente morire nelle acque territoriali settentrionali... il nostro paese ne ha abbastanza di trafficanti di esseri umani che sfruttano quanti cercano asilo e stanno a guardare mentre annegano in alto mare», sintetizzava il premier spiegando le ragioni della scelta.

L’obiettivo della nuova linea è di disincentivare i pericolosi viaggi della speranza che molti asiatici intraprendono - solitamente dall’Indonesia - a bordo di barconi, e che spesso si concludono con naufragi e annegamenti. In particolare, Canberra vuole scoraggiare i «migranti economici» che non fuggono da persecuzioni ma cercano migliori condizioni di vita in Australia.

«La nostra aspettativa è che quando questo accordo regionale sarà applicato e il messaggio sarà ascoltato forte e chiaro, il numero di imbarcazioni diminuisca per rendere possibile procedere normalmente con le domande di asilo come prevede l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati», aveva aggiunto Rudd.

Quindi non vi saranno più rifugi - come annunciato solo pochi mesi fa dallo stesso governo laburista, prima di confrontarsi con le posizioni più radicali dei rivali politici poi risultati vincitori nelle elezioni politiche - sul territorio australiano (nemmeno in aree estee e defilate) per i boat people che qui arrivano dopo viaggi lunghi e pericolosi, spesso pagando con la vita il tentativo. Sarà ulteriormente inasprita la procedura di screening per chi cercherà la qualifica di profugo; infine, se sarà approvato lo status di rifugiato, la destinazione finale non sarà l’Australia, con le sue opportunità e i difficili equilibri etnici, ma la Papua-Nuova Guinea, uno dei paesi più poveri dell’area Asia-Pacifico.

Uno shock per una parte del paese e per la comunità internazionale, ovviamente un rischio ancora maggiore, in prospettiva, per chi tenterà il passaggio.

Il mercato dei profughi

La nuova politica immigratoria non ha portato a Rudd la vittoria sperata e il suo terzo mandato da premier. Una linea ancora più severa ha agevolato l’affermazione del rivale Tony Abbott, al punto da andare verso un’attribuzione di ampi poteri sull’immigrazione marittima e sul controllo del traffico di esseri umani alle autorità militari, ma anche verso una revisione restrittiva dei tempi e delle possibilità di permanenza per i profughi già nel paese con visti temporanei.

Oggi, come sottolineato da un ex primo ministro liberale, Malcom Frazer, «la protezione dei diritti umani sotto i Laburisti non è migliore di quella sotto i Liberali. Come parte di una politica accelerata alla ricerca di un deterrente per fermare il flusso di irregolari verso l’Australia, si è arrivati a minacciare i boat-people con una residenza in Papua-Nuova Guinea. Un modo per scaricare la responsabilità su un paese del terzo mondo». «Il governo – ricorda Frazer - ha sempre avuto la possibilità di fermare le imbarcazioni in arrivo dall’Indonesia, se avesse scelto di prendersi carico dei profughi che arrivano in quel paese e li avesse portati direttamente in Australia».

Davanti alle ripetute assicurazione che il trattamento nella nuova e indesiderata sede - per molti teoricamente provvisoria prima della ripartenza per paesi di accoglienza finale - sarà adeguata agli standard inteazionali, David Manne, acceso sostenitore australiano dei diritti dei migranti, ricorda la pessima reputazione della Papua-Nuova Guinea rispetto ai diritti umani.

Manne è stato determinante nel fermare un’altra controversa iniziativa del precedente governo: la «soluzione malese» che avrebbe consentito di mandare nel paese asiatico 800 profughi non ancora scrutinati in cambio di 4.000 già certificati come rifugiati.

17.000 migranti in Australia  (24.000 in Italia)

A fine agosto, il paese ha salutato con indifferenza l’avvio del procedimento giudiziario contro tre cittadini afghani, un iraniano e un pachistano indagati per 12 mesi come membri di una organizzazione criminale che avrebbe reso possibile l’arrivo di 132 boat-people a Christmas Island. Un loro giudizio dovrebbe, secondo le autorità, «influenzare quanti sono coinvolti nei gruppi criminali e l’arresto renderà possibile altri arresti».

La legge australiana (Migration Act) indica che coloro che entrano o lavorano in Australia senza autorizzazione o privi di regolare visto, sono considerati immigrati illegali e per questo sottoposti a detenzione e a deportazione, salvo casi particolari. Sono circa 50 mila le persone che si trovano nel paese senza un visto appropriato o con visto scaduto, soprattutto cittadini britannici.

Negli ultimi anni, i troppi naufragi al largo o sulle coste di Christmas Island, avamposto di territorio australiano proiettato verso l’Indonesia, hanno evidenziato ancora una volta la situazione di migliaia di persone che affidano a imbarcazioni foite da trafficanti senza scrupoli le loro speranze di fuggire da aree di conflitto o dall’emarginazione per raggiungere l’Australia. Secondo i dati ufficiali foiti dal dipartimento dell’Immigrazione australiano, sono state 278 le imbarcazioni intercettate lo scorso anno con un totale di oltre 17.000 passeggeri (secondo il ministero, sono stati 24.000 i migranti arrivati in Italia negli ultimi 12 mesi, ndr). Un numero cresciuto notevolmente rispetto all’anno precedente ma che sarà ampiamente superato quest’anno, dato che nei primi sei mesi del 2013 oltre 14 mila migranti hanno raggiunto l’Australia in carrette del mare e circa 240 sono annegati in una serie di naufragi. Abitualmente, ma in modo non esclusivo, sono afghani, iracheni e srilankesi di etnia tamil a tentare il viaggio lungo e pericoloso verso le coste australiane, transitando abitualmente dalle acque indiane, thailandesi e malesi prima di approdare in Indonesia per poi essere imbarcati da una tratta organizzata e con pochi scrupoli verso la meta finale. In alternativa, un percorso più lungo porta centinaia di disperati a percorrere l’immenso arcipelago indonesiano da Giava a Bali, Flores, Timor occidentale, Lombok o Papua occidentale prima dell’imbarco. Aree dove distanza dal potere centrale e corruzione consentono ai «passatori» di correre pochi rischi. Altri, ancora finiscono per arrivare a Timor Est, e qui attendere il momento propizio per l’imbarco verso le non lontane coste settentrionali australiane.

Sulle isole del Pacifico

Almeno la metà degli arrivi degli ultimi anni riguarda cittadini afghani, che l’Australia tende a non accogliere per il presunto miglioramento delle condizioni nel loro paese e per gli accordi bilaterali, ma che Kabul non vuole indietro nel caso in cui non viene loro riconosciuto lo stato di rifugiato. 

Una situazione complessiva che rende difficile la partenza, impossibile il rientro. Per questo a centinaia restano, a volte anche per anni, bloccati nei villaggi sulle coste malesi e indonesiane se una qualsiasi ragione impedisce loro di imbarcarsi verso la meta finale. Enorme il rischio anche per quanti si imbarcano per un viaggio che troppo spesso finisce in un naufragio. Una situazione che l’accentuata clandestinità imposta dalle nuove norme rischia di peggiorare dal prossimo gennaio.

Al centro della politica ufficiale dal 2012, è stata inizialmente la trasformazione di alcune aree geografiche (le isole Christmas, Manus, Melville; gli arcipelaghi dello Cocos, Ashmore e Cartier e lo stato isolano di Nauru) in zone di raccolta offshore, dove accogliere gli immigrati, sovente in situazioni drammatiche. In questo contesto rientra l’avvio della chiusura di Christmas Island, ma anche la riapertura del centro di selezione extra-territoriale di Nauru, che organizzazioni inteazionali hanno definito «un inferno»e il tentativo (bocciato dall’Alta Corte) di negare visti a persone riconosciute come rifugiati se ritenuto utile alla sicurezza nazionale. Gli sviluppi politici successivi e la devastazione del centro di Nauru (il 19 luglio 2013) hanno lasciato aperte - in prospettiva - soltanto le porte unidirezionali di Manus Island.

Stefano Vecchia

 
       La Chiesa cattolica: La dignità sopra ogni cosa                

Inevitabilmente, la politica migratoria e, in particolare, i recenti sviluppi con le prospettive di inteamento dei boat-people e il sostanziale blocco dell'accoglienza, chiama in causa la Chiesa cattolica australiana.

A parte le considerazioni ideali, è un dato di fatto che l'Australia, circondata dall'oceano, è tra le nazioni più difficili da raggiungere. Secondo, ogni azione deterrente verso chi cerca asilo non ferma le guerre e gli altri tragici fattori che spingono molti a fuggire dalla loro terra. Terzo, la maggior parte delle persone in condizione di profugo preferirebbero restare nell'area di provenienza. Per queste ragioni - conferma la Chiesa locale - il numero dei richiedenti asilo in Australia sarà sempre irrisorio se confrontato con altri paesi.

Come esplicita un recente documento diffuso dall'Ufficio per i migranti e i rifugiati della Conferenza episcopale cattolica australiana, «la Chiesa universale non incoraggia esseri umani a cercare rifugio altrove via mare, ma riconosce la loro condizione. I richiedenti asilo sono solo un problema nel nostro paese quando i boat-people si affacciano sul nostro mare. Altrove nel mondo queste attività sono assai più consistenti ma ricevono relativamente poca attenzione. Se le barche cessassero di arrivare in Australia, esse andrebbero altrove. Non avremo salvato i loro passeggeri dal viaggio ma avremo solo cambiato la loro destinazione. Quale sorte preferiremmo per loro? Morire di fame, essere stuprati, mutilati e uccisi o finire annegati? Noi siamo tutti sulla stessa barca, tutti vogliamo vedere la fine delle sofferenze degli altri e abbiamo concrete possibilità, in Australia, di operare positivamente. Contrariamente all'opinione di alcuni politici, noi non decidiamo chi arriva in Australia. Quello che decidiamo è chi viene trattato con dignità quando arriva in Australia. Noi siamo la soluzione, non il problema!».

Ste.Ve.
 
      La nuova immigrazione in Australia: Porte aperte (ma soltanto ai professionisti)                

Sempre più, la politica australiana verso i richiedenti asilo si orienta a essere un processo che garantisce i privilegi del paese ed esclude coloro che vengono considerati di disturbo. Questo nonostante nella storia l'Australia abbia beneficiato proprio dei migranti che vi hanno trovato rifugio.

Il volto immigratorio del paese sta cambiando drasticamente ed è sempre meno europeo. In particolare per quanto riguarda l'immigrazione professionale, ormai quasi esclusivamente appannaggio degli asiatici.

Nel 2011-12, India con 29.018 arrivi e Cina con 25.509, hanno superato quello che tradizionalmente è stato la principale fonte di immigrati, il Regno Unito, i cui emigrati in Australia sono stati 25.274. Complessivamente, per i gruppi immigrati, si conferma il primato dei neozelandesi, 45.000, che però non rientrano nel programma di immigrazione programmata.

Dati che segnalano anche un'altra caratteristica essenziale del volto nuovo dell'immigrazione agli Antipodi: in maggioranza gli arrivi sono gestiti dal programma di immigrazione permanente per lavoratori qualificati. Entro questa categoria, infatti, nel biennio è rientrato il 68% degli arrivi. Di fatto, l'Australia ha definitivamente cambiato la sua fisionomia da paese di immigrati-pionieri a uno di immigrati-professionisti.

A smentire che i limiti ai richiedenti asilo siano di carattere pratico (mancanza di risorse o territorio o rischio di contrasto con altri gruppi immigrati) è il dato che, sempre per il 2011-2012, il paese ha accolto un numero record di immigrati regolari: 184.998, tra i più vasti di sempre, che hanno superato di poco i 200.000 con i nuovi rifugiati riconosciuti tali. Questi numeri in crescita suscitano preoccupazione e ciò può parzialmente spiegare - andando essi in parte ad alimentare l’area dell'illegalità alla scadenza dei visti regolari  - il «giro di vite» verso i boat-people.

Ste.Ve.
 

Per maggiori informazioni: http://www.immi.gov.au/skilled/general-skilled-migration/whats-new.htm

 

        I campi di detenzione nelle isole di Christmas, Manus, Nauru: Quando anche Lampedusa sembra il paradiso                                      

Poco più di 3.500 boat-people sono detenuti nel territorio australiano di Christmas Island nell’Oceano Indiano e altri 720 in campi costruiti dall'Australia nell'Isola di Manus in Papua Nuova Guinea e nel minuscolo stato isolano di Nauru. Altri 6.250 sono in detenzione in Australia con visti temporanei in attesa di una ricollocazione.

Christmas Island è il lembo di territorio australiano più vicino al continente asiatico a poche ore di traversata dalla costa di Java meridionale. Per sette anni, i 1.400 abitanti dell'isola hanno dovuto subire una convivenza loro imposta e un'attenzione mediatica non richiesta, con conseguenze pesanti, con un alto numero di casi di depressone, servizi già precari condivisi in parte con un numero di reclusi arrivato a superare fino a quattro volte gli 800 previsti, pressati tra solidarietà e insofferenza, a  loro volta discriminati in un ruolo di secondini che non si sono scelti. Difficili, come immaginabile, anche le condizioni degli «ospiti» del campo che funge da centro di prima accoglienza, selezione e detenzione per un'immensa area oceanica (una situazione condivisa per pochi mesi con Nauru).

Diversa ma non certo migliore a situazione di Manus Island, lontana al largo della costa settentrionale della Papua-Nuova Guinea. Il suo isolamento, clima e scarsità di risorse ne spiegano il sotto-popolamento (40 mila abitanti) nonostante le dimensioni (2100 chilometri quadrati). Qui gli australiani celebrarono dal 1950 al 1951 i processi contro i criminali di guerra giapponesi arrestati in Australasia, gli ultimi ad accertare la colpevolezza di gerarchi e funzionari dell'armata imperiale nel conflitto del Pacifico. Qui hanno investito molti milioni di dollari per aprire una struttura relativamente attiva dal 2001 al 2004 come centro offshore di selezione per i rifugiati ma che dallo scorso anno è tornato al centro della politica di contenimento dell'immigrazione irregolare del governo australiano.

Stefano Vecchia
 
Stefano Vecchia