Segni concreti di speranza

Intervista.Parla monsignor Giorgio Bertin, amministratore
apostolico della Somalia.
Mons. Bertin ritorna in Somalia dopo
anni. Vede intorno a sé segnali positivi di cambiamento. Ma le
istituzioni
restano deboli. E gli Al Shabaab continuano gli attacchi terroristici. I
cristiani vivono in clandestinità.  Oggi la Chiesa vuole riaprire una
sua presenza
stabile e visibile.

Monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico della
Somalia, ha recentemente compiuto due visite in Somalia, dopo sei anni di
assenza. Ci racconta le sue impressioni.

Dopo le sue recenti visite in Somalia ha detto di aver
trovato «segni concreti di speranza». Può spiegarci meglio?

«In diverse parti della capitale ho potuto constatare la
ricostruzione di edifici abbandonati oppure nuove costruzioni; per esempio
lungo il “Lido” di Mogadiscio ci sono almeno tre ristoranti in funzione e altri
edifici stavano “spuntando”: segno che la vita sociale sta riprendendo. Durante
il giorno i somali circolano tranquillamente; per esempio in ‘”via Roma” nel
centro storico, ho visto i negozi aperti e c’era un brulicare di persone. Una
accresciuta sicurezza favorisce gli investimenti soprattutto della diaspora
somala. Qualche ministero, come quello degli Esteri, o dello Sviluppo e Affari
sociali è riabilitato e il personale del ministero è presente. L’aeroporto di
Mogadiscio conosce un andare e venire di gente che indica fiducia».

Cosa può dirci rispetto alle istituzioni governative, le
prime a essere riconosciute a livello internazionale dopo 20 anni di guerra
civile? Hanno oggi un margine di manovra per migliorare la situazione della
popolazione?

«Le istituzioni governative rimangono fragili. Sono sì
riconosciute dalla comunità internazionale; ma il problema è a livello locale,
a livello somalo. Dopo 22 anni di anarchia è difficile per la gente, abituatasi
a vivere senza istituzioni statali, esprimere la sua fiducia al primo venuto.
Ne sentono l’esigenza, soprattutto i poveri e il somalo comune. C’è poi il
discorso del federalismo che suona bene, ma è tutto da costruire in dialogo con
l’esigenza di avere una vera autorità centrale.

Per migliorare la situazione della popolazione si deve
sapere provvedere una certa sicurezza e alcuni servizi sociali, come scuola e
sanità, che in questo momento sono nelle mani di varie entità private. Lo stato
dovrà cornordinare le attività private con l’esigenza di un maggior impegno
pubblico».

Ci può parlare della situazione dei cristiani in Somalia:
quanti sono nelle sue stime? Come vivono? Sono sempre costretti in clandestinità?
Più in generale ci parli dell’aspetto della libertà religiosa in Somalia. È
teoricamente garantita dal governo e minacciata dai gruppi integralisti?

«I cristiani erano molto rari anche prima di questi 22
anni di guerra (forse qualche centinaio). Ora sono ancora meno. Ho incontrato
alcuni cattolici durante il mio ultimo viaggio a Mogadiscio. Chiaramente vivono
in situazione di clandestinità. I diritti umani sono affermati dalla nuova
Costituzione. Ma essi sono limitati sia dall’ignoranza della gente che non è
stata educata all’idea di rispetto della diversità anche dal punto di vista
religioso, sia da gruppi integralisti musulmani, come gli Al Shabaab.
Perché ci sia più rispetto dei diritti religiosi, è necessario che lo stato
cresca: senza uno stato con autorità nessun diritto umano sarà rispettato».

Gli Al Shabaab
si sono ritirati da Mogadiscio nel 2011, ma recentemente sono tornati a colpire
in capitale e hanno promesso di continuare. Legge questo evento come un colpo
di coda o piuttosto un ritorno a un’offensiva reale del gruppo islamico?

«Sì, gli Shabaab sono ancora presenti e possono
colpire con relativa facilità. Essi controllano ancora in gran parte le zone
rurali del Centro-Sud Somalia. È chiaro che le loro azioni, che colpiscono in
gran parte semplici cittadini, li alienano sempre più dalla simpatia popolare. È
necessario però che le nuove autorità dimostrino che sanno offrire qualcosa di
meglio: rispetto, riconciliazione, lavoro, educazione, sanità, ecc. È solo in
questo modo che l’estremismo islamico può efficacemente essere combattuto».

In generale la sicurezza in Somalia e in capitale è
migliorata? Anche l’Onu ha riaperto l’ufficio dell’Unhcr dopo 3 anni. Un
segnale di speranza o solo immagine?

«La riapertura di vari uffici e anche di ambasciate è
segno di un miglioramento e di speranza: ma la strada, ripeto, è lunga, non
bisogna illudersi. La sicurezza è migliorata per i cittadini comuni. Invece per
i funzionari statali e per gli stranieri, c’è bisogno ancora di farsi
proteggere da armati».

Secondo lei la conferenza di Londra sulla Somalia del 7
maggio avrà qualche effetto positivo? Si è parlato di investimenti
nell’esercito e nella polizia, ma per migliorare le condizioni di vita della
gente si è promesso qualcosa?

«Penso che la recente seconda conferenza di Londra sulla
Somalia abbia mostrato che questo paese ha ancora bisogno di un perseverante
sostegno politico ed economico. Certamente la sicurezza merita la priorità. Ma
non basta: bisogna che certi servizi, come la sanità, l’educazione, il lavoro
siano pure sostenuti e incoraggiati. La sicurezza con la pancia vuota non può
andare molto lontano!».

La carestia tra il 2010 e il 2012 avrebbe, secondo la
Fao, ucciso 258.000 persone in Somalia, nella «quasi» totale indifferenza
(salvo alcuni allarmi nel 2011). Secondo lei cosa oggi si dovrebbe fare?

«Io non sono così pessimista. Per me non c’è stata una
quasi totale indifferenza. Per noi che abbiamo vissuto questi anni difficili,
la Somalia non era stata dimenticata. Ciò che ha frenato è stata la difficoltà
a trovare delle soluzioni alla crisi somala. Era necessario affrontare il
problema non solo dal punto di vista umanitario o militare, ma anche e
soprattutto dal punto di vista politico-istituzionale. Il dramma di tutte
queste vite “perdute” è stato causato più che dalla siccità o altre calamità
naturali, dalla mancanza di una istituzione statale. A me sembra che
ultimamente ci si sia resi conto di tutto ciò».

Come Amministratore apostolico quali sono i suoi
programmi per la Chiesa in Somalia, e quali i suoi desiderata?

«Incontrando recentemente il ministro degli Esteri
somalo e altre autorità, ho espresso il desiderio di riaprire una presenza “fisica”
della Chiesa Cattolica in Somalia e in particolare a Mogadiscio, con la
possibilità di un luogo di culto (si vedrà più avanti se si potrà riutilizzare
la nostra cattedrale distrutta e occupata) e di esprimere più direttamente la
nostra partecipazione all’azione umanitaria e allo sviluppo, penso in modo
particolare attraverso la nostra Caritas».

Marco Bello
                     

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La Basilica della Consolata a Mogadiscio consola ancora


Indistruttibile


La cattedrale di Mogadiscio,
Basilica della Consolata, è stata costruita tra il 1925 e il 1928 su disegno
dell’architetto Antonio Viandone che si ispirò al Duomo di Cefalù (foto qui
in basso
). Fu consacrata il 1° marzo 1928 in una cerimonia che durò dalle quattro
alle nove del mattino, presieduta da mons. Gabriele Perlo, missionario della
Consolata e primo Vicario apostolico della Somalia, alla presenza di Umberto di
Savoia. Le foto in bianco e nero ne documentano i lavori di costruzione e lo
splendore.

I missionari della Consolata, arrivati nel 1924, nel 1930
lasciarono la Somalia ai Frati Minori lombardi, i quali ne sono ancora
responsabili nella persona del vescovo di Gibuti, mons. Giorgio Bertin,
amministratore apostolico della Somalia. L’imponente cattedrale, voluta e
costruita come imposizione coloniale e, allora, unica chiesa cattolica tra le
oltre 40 moschee di Mogadiscio, non ha mai servito a una vera cristianità
locale. Cacciati gli italiani, nel 1950 c’erano ancora circa 8.500 cattolici,
scesi a 2.600 nel 1970 e a un centinaio nel 1990. L’anno prima, il 9 luglio
1989, il vescovo Pietro Salvatore Colombo Ofm era stato assassinato proprio sul
sagrato.

Con la caduta di Siad Barre nel 1991 cominciava la persecuzione
dei cristiani e fu ucciso un altro francescano, p. Pietro Turati (1991),
seguito da Graziella Fumagalli (1995) e Annalena Tonelli (2003), volontarie,
dalla nostra suor Leonella Sgorbati (2006) e da oltre una trentina di cristiani
locali. La basilica è stata saccheggiata e vandalizzata nel 1991 e
cannoneggiata dai fondamentalisti nel 2008 che ne hanno demolito le torri di
37.50 m con la dinamite. Nonostante i loro sforzi non sono riusciti ad avere la
meglio del grande edificio che condivide la generale distruzione di quella che
era una bellissima città. Oggi, come documentano le fotografie recentissime
di Marco Procaccini
, il terreno della cattedrale è diventato un campo di
rifugiati, sui quali ancora campeggia, consolante, la grande croce della navata
centrale.

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Marco Bello




Noi stiamo con gli Indios

Reportage dalla missione di Tartagal.


All’inizio del 2012 i missionari della Consolata hanno accettato
la responsabilità della parrocchia di San Ramon Nonato a Tartagal. La missione
abbraccia vari slums, abitati soprattutto da immigrati boliviani e da indios, e
cerca di rispondere concretamente ai problemi sociali e di povertà che tale situazione
comporta. Nella parrocchia di San Lorenzo a Morillo vive invece padre Giuseppe
Auletta, incaricato della pastorale indigena per tutta la diocesi di Oran.

Verso le ore 9 del mattino, padre
Luigi Inverardi e il sottoscritto lasciamo Jujuy in corriera alla volta di
Tartagal, dove i missionari della Consolata si sono stabiliti di recente. Sono
sorpreso nel sapere che ci vorrà tutta la giornata per arrivare a destinazione.
La distanza tra le due città è di 500 km, eppure sulla mappa sembrano così
vicine. Ciò dimostra che l’Argentina è tra le nazioni più vaste del mondo, e
percepire le distanze con una cartina geografica può essere ingannevole.

In Argentina, viaggiare in
corriera è relativamente comodo. Per i tragitti a lunga distanza ci sono veicoli
a due piani che offrono servizio di pasti e sedili reclinabili per garantire un
tragitto rilassante.

Nel nostro viaggio a Tartagal ci
siamo sistemati al piano superiore per avere una migliore visione dello
scenario, caratterizzato da vaste distese di praterie. La corriera fa varie
fermate durante le quali salgono venditori di panini, spuntini e bibite.

Arriviamo a destinazione con 15
ore di ritardo. Padre Luigi Manco ci accoglie calorosamente alla stazione degli
autobus di Tartagal. Più tardi, alla residenza dei missionari dalla Consolata,
riceviamo l’abbraccio di padre Manuel Candela Garcia.

Missione nuova

Tartagal è situata nella
provincia di Salta nell’estremo Nord del paese, a circa 1.700 km dalla
capitale, Buenos Aires, 55 dalla frontiera con la Bolivia, 103 dal Paraguay. È
una città di circa 80 mila abitanti, nella diocesi di Oran, la più povera
dell’Argentina, dove ci sono circa 13 differenti gruppi indigeni.

Tartagal è una missione nuova di
zecca per i missionari della Consolata che vi arrivarono nel marzo 2012, dopo
aver consegnato al clero locale la parrocchia della città di Oran, dove avevano
lavorato per dieci anni. Per Tartagal il vescovo ha voluto una comunità di
preti non solo entusiasti, ma soprattutto capaci di stare con la gente. Il superiore
regionale ha destinato alla nuova missione i padri Luigi Inverardi (classe
1938), Luigi Manco (1941) e Manuel Garcia Candela (1956).

La parrocchia conta un grande
numero di giovani e vari gruppi indigeni, tra i quali i Guaraní e i Wichí.
Nonostante ogni nuovo inizio comporti sfide sempre più grandi, i due padri
Luigi hanno accettato questa nuova fase della loro vita missionaria con zelo.
Entrambi i missionari confermano che questo cambiamento è per loro il modo
ideale per sfidare se stessi nel creare qualcosa di nuovo e durevole
ricominciando da capo.

Durante il nostro viaggio in bus
verso Tartagal, padre Luigi Inverardi menziona spesso le sfide dell’adattamento
al nuovo ambiente. Eppure, vedo che i suoi occhi brillare ogni volta che parla
del lavoro che lo attende. Quando glielo faccio notare, riconosce che è vero. «Benché
il fuoco di giovinezza non arda necessariamente così luminoso quando avanziamo
in età, con la grazia del Signore possiamo, come missionari, trovare in fretta
l’energia, l’entusiasmo e la forza di cui abbiamo bisogno per andare avanti».

Nuove sfide

In Tartagal la sfida principale è
l’integrazione tra la popolazione indigena e la maggioranza composta da
eurodiscendenti e da meticci. Tale integrazione, racconta padre Luigi durante
il viaggio, spesso è difficile da creare anche tra gli stessi gruppi indigeni,
anche quando si tratta di lavorare insieme per progetti comunitari che
potrebbero ottenere l’appoggio del governo e di altri sostenitori.

Secondo i missionari della
Consolata a Tartagal, le aspettative dei parrocchiani sono semplici: liturgia e
sacramenti. Essi partecipano alla messa e vogliono che i loro figli ricevano
l’eucaristia e la cresima. I preti vorrebbero fare di più, andare oltre le
fondamentali attività pastorali della sacramentalizzazione. La comunità di
Tartagal è certamente molto devota, ma c’è molto spazio per la crescita,
soprattutto per quanto riguarda la presa di coscienza sociale verso un più
grande senso di giustizia.

Padre Manco aggiunge che ci sono
tuttavia vari gruppi religiosamente motivati che sono coinvolti in attività
sociali e pastorali. Infatti si è formato il gruppo di parrocchiani di San
Ramon per lavorare con lui in attività pastorali, come la visita ai malati e
carcerati. Altri portano la comunione a infermi e anziani. Altri ancora
lavorano con i giovani per aiutarli a crescere in una più articolata coscienza
sociale o per aiutare i preti nell’animazione missionaria. C’è perfino un
gruppo che lavora con le coppie sposate.

I padri Luigi Inverardi e Manuel
Garcia sono stati missionari in Venezuela prima di venire in Argentina, ma qui
trovano più facile esercitare il loro servizio missionario perché ci sono meno
interferenze estee e controlli burocratici.

Secondo padre Manuel, il
Venezuela del presidente Hugo Chavez è stato emulato da altri paesi
sudamericani per il desiderio di liberarsi dalla pesante dipendenza
nordamericana. La speranza è che questi paesi vogliano ritenere gli aspetti più
positivi del «chavismo» e tralasciare quelli negativi.

I padri Luigi Manco e Luigi
Inverardi contano ciascuno circa 35 anni di esperienza missionaria. La
situazione in Argentina è notevolmente migliorata a partire dalla fine degli
anni Settanta. Quando padre Luigi Manco arrivò per la prima volta in Argentina,
al governo c’era la dittatura e le condizioni ambientali di lavoro erano molto
difficili. I giovani cattolici avevano paura di esprimere se stessi. Per questo
è chiaro che il missionario preferisce l’Argentina del 2012.

La prima destinazione di padre
Luigi Inverardi, appena ordinato, fu l’animazione missionaria negli Stati
Uniti. Certo i tempi sono molto cambiati e i luogi sono ben diversi rispetto
alle esperienze vissute in quegli anni, ma egli è contento di fare lavoro
pastorale in Tartagal dove si sente molto più vicino alla gente.

Per molti anni la Chiesa
argentina avrà ancora bisogno di missionari, in alcune diocesi più che in
altre. Scopo principale dei missionari in Argentina è sostenere la chiesa
locale nel lavoro pastorale e di evangelizzazione; ma i missionari della
Consolata sono impegnati anche nell’animazione vocazionale tra i giovani
argentini nelle parrocchie loro affidate e altrove, per far maturare la chiesa
locale, fino a inviare missionari fuori dei propri confini. Anche questa è una
delle sfide di cui i missionari in Tartagal si sono resi conto e che hanno
abbracciato con impegno.

Tra gli indios wichí

In due ore di auto da Tartagal
raggiungiamo la parrocchia di San Lorenzo a Morillo per incontrare padre
Giuseppe Auletta, missionario e antropologo con lunga esperienza tra gli
indios, nominato di recente vicario episcopale per la pastorale indigena. A
padre Giuseppe è stato specificamente chiesto di lavorare tra i Wichí che nella
parrocchia sono circa 4.500. Egli è ben felice di condividere le sue esperienze.

La parrocchia a lui affidata
conta circa 12 mila persone, di cui solo la metà abita in Morillo, una
cittadina con le strade che si incrociano a scacchiera, con la centro la piazza
con la scuola, la chiesa e il municipio.

Prima dell’arrivo degli europei
nel secolo XVI, l’America centrale e meridionale contavano molte civiltà
sofisticate, tra le quali gli Aztechi in Messico, gli Incas in Perù, e i Guaraní
e altri in Paraguay e Argentina. Oggi si contano circa 800 mila indigeni nella
popolazione argentina, distribuiti tra 20 gruppi etnici sparsi in tutto il
paese, dal Gran Chaco a Nord alla Terra del Fuoco nella punta meridionale. I
gruppi etnici più grandi sono i Toba e i Mapuche.

La regione del Gran Chaco copre
oltre un milione di kmq nella parte nordorientale dell’Argentina e sconfina
dentro la Bolivia e il Paraguay. Dopo l’Amazzonia è la seconda regione più
importante del continente in termini di biodiversità. È anche uno spazio
culturale e sociale abitato da circa 389 mila indios, tra i quali i Wichí, i
quali, a seconda delle fonti, oscillerebbero tra 40 e 70 mila persone, sparse
lungo i confini settentrionali dell’Argentina, con alcuni gruppi in Bolivia.

Padre Giuseppe parla con
ammirazione di questa popolazione, che vive nelle foreste e tra le montagne, la
cui sussistenza si basa sulla raccolta di frutti e miele, sulla caccia e la
pesca. Sono artigiani di grande talento: scolpiscono un legno duro e profumato
che essi chiamano algarrobo (o legno di carob), tessono cesti,
stuoie e braccialetti di fibre vegetali e fanno terrecotte di varie forme e
dimensioni. Oggi i Wichí stanno abbandonando il loro sistema di vita
tradizionale di cacciatori e raccoglitori nomadi, stabilendosi in villaggi e
dedicandosi all’agricoltura.

Vita dura per i Wichí

La sfida principale per i Wichí,
secondo padre Giuseppe, è l’educazione. I ragazzi wichí dedicano poco tempo
alla scuola. L’insegnamento è in spagnolo, verso il quale i Wichí non nutrono
grande simpatia e gli insegnanti non conoscono la lingua wichí, tanto meno la
loro cultura. Il fatto che la scuola sia d’obbligo non è certo un incentivo per
i ragazzi wichí. L’ignoranza dello spagnolo agisce da barriera e benché ad
alcuni insegnanti siano assegnati degli aiutanti indigeni per fare da mediatori
culturali, fino a ora i risultati positivi sono scarsissimi. Il governo
argentino,secondo padre Auletta, dovrebbe preparare insegnanti indios per
offrire una educazione bilingue e interculturale.

I Wichí sono colpiti da molte
malattie evitabili, soprattutto tubercolosi, lebbra, la febbre dengue e
il morbo di Chaga. La malnutrizione è uno dei maggiori ostacoli al loro
benessere: nel 2011 nell’ospedale locale sono morti per malnutrizione 19
bambini. Alcolismo e tossicodipendenza sono le altre malattie sociali che
colpiscono i Wichí.

Intanto, nel loro territorio
avanzano le piantagioni di soia e i progetti di sviluppo di olio e gas gestiti
dai bianchi, a scapito dei Wichí che vengono cacciati dalle loro terre. Poiché
non hanno titoli di proprietà, i loro reclami vengono disattesi. Le autorità
della provincia di Salta sarebbero obbligate a riconoscere le loro
rivendicazioni territoriali, secondo l’emendamento costituzionale del 1994, ma
sotto la pressione dei proprietari terrieri bianchi e delle multinazionali
argentine e straniere, esse continuano a distribuire terra a coloni che vengono
da fuori, a permettere la deforestazione e ad approvare progetti di sviluppo da
cui i Wichí non hanno alcun beneficio. Non solo essi vengono derubati della
terra, ma sono anche impotenti di fronte al deterioramento dell’ambiente
causato dallo sviluppo sfrenato. I contadini poveri e gli indigeni sono
cacciati via dalle loro terre.

In risposta allo sfruttamento
degli indigeni e dei piccoli contadini, nel 2004 fu creata l’organizzazione
indigena Mesa de tierra, di cui fanno parte varie Ong e anche padre
Auletta. Lo scopo principale è promuovere incontri per trovare soluzioni ai
problemi. Ma nonostante le buone intenzioni contenute nella Costituzione e gli
impegni del governo, gli indigeni si trovano di fronte a molti ostacoli nella
lotta per difendere i loro diritti. I membri della Mesa de tierra
intervengono quando possono ma spesso senza successo.

La minaccia più immediata per i
Wichí è l’assimilazione della loro cultura a quella della maggioranza della
popolazione argentina. Per resistere a ciò ogni anno associazioni e chiese
locali organizzano la «Settimana del popolo indigeno» per creare autocoscienza
e mostrare apprezzamento per le culture dei popoli nativi. C’è infatti bisogno
di promuovere maggiore coscienza nelle strutture della chiesa, nella
popolazione in generale e tra gli indios stessi per creare migliori relazioni
tra tutti gli elementi della società.

Padre Giuseppe esercita il suo
ministero parrocchiale ben consapevole della cultura indigena. Presente nel
territorio wichí solo dal marzo 2012, nonostante i suoi 65 anni, egli ha
cominciato a studiare la lingua indigena, un’idioma non facile da apprendere.
Per il suo ministero egli usa una bibbia tradotta in wichí da missionari
protestanti.

A difesa della cultura wichí è
schierato anche il Centro Tepeyac, fondato dalla diocesi nel 1993 e
amministrato da un gruppo di donne. Oltre a provvedere alle famiglie servizi
sociali di base in ambito di sanità e nutrizione, il Centro è molto impegnato
in campo culturale, sviluppando strumenti didattici per l’insegnamento della
lingua wichí. Alcune attività sociali sono organizzate in collaborazione con la
chiesa anglicana, che è molto presente tra gli indios. Il Centro espone e vende
molti oggetti di artigianato fatti dagli artisti locali, inclusi braccialetti,
cesti e sculture.

Integrare i valori del Vangelo
con il rispetto della cultura wichí e assicurare relazioni armoniose tra i Wichí
e la popolazione locale è una delle sfide della chiesa cattolica; è anche una
sfida che padre Auletta e i confratelli sono determinati ad affrontare.

Jean-François Dubois
 

Testo dalla rivista Consolata Missionaries (Canada) n. 125,
marzo-aprile 2013, tradotto e adattato da Benedetto Bellesi.

Su padre Auletta vedi anche L. Lorusso, Terra contesa, MC
marzo 2012, e P. Moiola, Tutta un’altra storia, MC settembre 2007.

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Jean-François Dubois




La Torta di Pedro

Nel Piauí, uno degli stati più poveri del Brasile.
Da quando è diventato una potenza economica il Brasile è sempre un argomento da prima pagina. Tuttavia, considerate le sue dimensioni continentali, esso racchiude realtà molto diverse e spesso sconosciute. Siamo stati nel Piauí, stato del Nord-Est, per capire se speranze e problemi della gente siano i medesimi che nel resto del paese. Lo abbiamo chiesto a tre preti locali, padre Angelo, padre Lindo e padre Pedro, quest’ultimo tornato a casa dopo 5 anni trascorsi in Italia.

Bertolinia. «Il Piauí è lo stato più cattolico della federazione brasiliana.
Qui le chiese neopentecostali non hanno avuto il successo che c’è stato negli
altri stati. Detto questo, soltanto il 2-3% dei cattolici frequenta la messa
domenicale».

Padre
Angelo Oliveira Costa è giovane e pieno di grinta. Lui è il parroco di
Bertolinia, paesone agricolo situato a qualche ora di bus da Teresina, capitale
del Piauí. Padre Angelo vive nella casa parrocchiale, a pochi metri dalla
chiesa Nossa Senhora da Conceição Aparecida. La piccola costruzione, datata
1856, ha un campanile centrale ed è stata costruita su un terrapieno, alle
falde di una collinetta. Sono soltanto un paio di metri in più che però le
consentono di dominare sulla sottostante piazza. Rettangolare, ingentilita da
qualche albero, la piazza Nossa Senhora Aparecida è circondata da casette ad un
piano (compresa quella che ospita il municipio) e da una strada frequentata da
pochissime auto e molte motociclette.

Con
padre Angelo c’è padre Lindinaldo detto Lindo. Questi lavora nei paesini vicini
a Bertolinia, che raggiunge in motorino.

Oggi
però saliamo su un pick-up giapponese. «Regalato da Misereor,
l’organizzazione caritativa della chiesa cattolica tedesca», precisa padre
Angelo.

La malattia dei politici

Dalla strada che collega Bertolinia con Floriano deviamo a destra.
E subito capiamo perché qui un fuoristrada è indispensabile. La via è una
mulattiera, stretta tra vegetazione e recinzioni. Ogni tanto padre Lindo è
costretto a scendere dall’auto per aprire i cancelli in legno che delimitano le
varie proprietà. Il buio è sceso all’improvviso. Si distingue soltanto ciò che
viene illuminato dai fari.

Finalmente arriviamo a destinazione. È una casetta bianca,
semplicissima. Le persone sono sedute fuori, a godersi le ore meno calde della
giornata. I padroni di casa si chiamano Francisca e Francisco Messias de Sousa,
piccoli agricoltori e allevatori. Hanno un figlio prete, che ci accoglie con un
«Buonasera». Pedro parla italiano perché ha vissuto in Italia per 5 anni.

Caagione dorata, capelli corti e crespi, occhiali, un sorriso
che non perde di simpatia pur in presenza di un apparecchio dentistico portato
con disinvoltura, padre Pedro è il settimo di 10 figli: 4 maschi e 6 femmine.
Un paio sono nel Piauí. Gli altri vivono a Brasilia e San Paolo. «Hanno uno o
due figli. Se mia madre avesse fatto come loro io non sarei neppure nato»,
racconta con tono scherzoso. Ricorda i suoi trascorsi italiani. «Tra studi e
lavoro sono stato in Italia 5 anni. Lì ho ottenuto la licenza in teologia
pastorale e ho fatto la professione solenne. Sono stato ad Avellino, alla
parrocchia Cuore immacolato di Maria per un anno. Poi, d’accordo con il mio
provinciale, invece di andare
all’Università a Roma, ho chiesto di tornare a lavorare nel mio paese».

Simpatico e sorridente padre Pedro, ma le sue risposte non sono
buoniste. «Il Brasile è un paese ricchissimo. La sua torta è grande, ma la
maniera di dividerla è sbagliata. E poi c’è la malattia della corruzione e
quella dei politici che non sanno distinguere ciò che è pubblico da ciò che è
privato. Così accade che troppi di essi non fanno politica per migliorare la
vita della gente, ma per migliorare la propria e quella dei loro parenti».

Padre Pedro riconosce i successi ottenuti da Lula e dall’attuale
presidente Dilma, ma non chiude gli occhi su una realtà complessiva che rimane
problematica e troppo diseguale. «Il primo dei problemi – afferma – rimane
ancora la povertà. Poi c’è la carenza di strutture sanitarie pubbliche e di
abitazioni degne. Senza dimenticare l’analfabetismo: occorre migliorare
l’educazione, perché un paese può crescere soltanto attraverso di essa. Insomma
i problemi sul tappeto rimangono numerosi dato che, come dicevo prima, la
grande ricchezza del Brasile, sesta potenza mondiale, non si vede ancora nella
vita quotidiana della gente comune». In particolare negli stati del Nord-Est:
Alagoas, Ceará, Bahia e soprattutto Maranhão e Piauí, i due che si contendono
il poco invidiabile primato di stato brasiliano con il maggior numero di
poveri.

Il Piauí: da Vila Irmã Dulce a Guaribas  

Stato agricolo e d’allevamento bovino, grande quasi come l’Italia
(251mila chilometri quadrati contro 301mila), ma scarsamente abitato e senza
etnie indigene (tutte sterminate nei secoli passati), il Piauí ha gravi problemi
sociali e ambientali. Il paese ha il secondo più alto tasso di analfabetismo
del Brasile e, oltre il 40 per cento dei suoi abitanti, vive senza una rete
fognaria e senza un servizio di raccolta dei rifiuti.

Teresina, capitale dello stato, ospita una delle più grandi favelas
dell’America Latina: Vila Irmã Dulce. Qui, per migliaia di famiglie, la
precarità delle condizioni di vita costituisce la normalità.

I problemi sociali dello stato sono tanto evidenti che, nel marzo
2003, all’inizio del suo primo mandato, il presidente Lula scelse Guaribas,
città piauiense localizzata nel cosiddetto «poligono della siccità», per
lanciare il proprio programma «fame zero». A distanza di 10 anni, i suoi
abitanti sopravvivono, ma Guaribas continua a essere una città senza
infrastrutture, senza servizi e probabilmente senza futuro.

Quanto al disastro ambientale, esso trova la sua manifestazione più
drammatica nel Sud dello stato, attorno alle città di Gilbués, Alegrete e Monte
Alegre, dove si è formata la più grande area desertificata di tutto il Brasile.
La desertificazione è avvenuta non per cause naturali, ma esclusivamente per
azione antropica. Inizialmente è stata la ricerca disordinata e quasi sempre
illegale dei diamanti. Successivamente è stato il diffondersi dell’allevamento
estensivo di mucche. E, a completare l’opera di distruzione, la pratica del «taglia
e brucia».

Nel resto del Piauí, è stata l’introduzione su larga scala della
coltivazione della soia a produrre pesanti effetti sul territorio piauiense. La
soia è infatti fattore determinante nell’inquinamento dei fiumi e dei suoli (a
causa dell’utilizzo di prodotti agrotossici). Ma essa ha anche contribuito in
maniera sostanziale alla distruzione del cerrado (uno dei biomi tipici
della regione) attraverso il disboscamento e l’utilizzo del legno nativo come
fonte energetica («carbone vegetale»1, di cui il Piauì è il quarto
produttore a livello nazionale) per i processi di trasformazione industriale
della soia. Per produrre e trasformare questa leguminosa sono arrivate nel Piauí
alcune multinazionali, che – come troppo spesso accade – apportano alla
collettività più danni che benefici (questi spesso collegabili a progetti di greenwashing)2. Le più
conosciute sono la Monsanto e la Bunge Alimentos. Quest’ultima,
grande produttore di alimenti a base di soia (margarina, olio, ecc.), per
installarsi nella città di Uruçuí, ha avuto dal governo statale l’esenzione
quasi totale dalle imposte.

A conferma della gravità della situazione ambientale, secondo una
recente classifica, il Piauí figura al terzo posto per quanto concee il
disboscamento della mata atlantica3, preceduto soltanto dagli stati
di Minas Gerais e Bahia. La regione più colpita è quella della Serra Vermelha,
nel Sud dello stato.

Acqua, bene prezioso

La conversazione con padre Pedro e padre Angelo è stata baciata
dalla fortuna: temperatura piacevole, nessun rumore molesto, zanzare in
vacanza. Ma è ora di ripartire. C’è tempo per bere un bicchiere d’acqua
conservata in due vasi di terracotta (pote, in brasiliano), che stanno
accanto alla porta della casa di Francisca e Francisco. Prima di salire in auto
stabiliamo che padre Lindo scenderà ad aprire i cancelli, anche se lo ha fatto
pure all’andata. «Mentre noi discutevamo, lui ha mangiato. Un po’ di moto gli
farà bene», spiega padre Angelo.

Paolo Moiola
 
Note

1 – Contrariamente a quanto sostenuto, anche la produzione
di carbone vegetale da legno di eucalipto genera seri problemi ambientali. In
quanto pianta esotica, l’eucalipto non ha predatori naturali. È inoltre una
pianta «competitiva» in grado di impedire la crescita della flora nativa.
Infine, essendo caratterizzato da una rapida crescita, è un albero ad alto
consumo idrico.
2 – Come può essere – ad esempio – l’asfaltatura di una
strada sterrata.
3 – La mata
atlantica è un bioma brasiliano a rischio di estinzione.

 
       Giugno 2013: le manifestazioni nelle città brasiliane                                      

Il pane ma anche le rose

Le politiche del Pt, al governo da 10 anni, hanno ridotto
sensibilmente la povertà, ma lo sviluppo perseguito è fondato sulle grandi
opere e l’agrobusiness, con pochi investimenti nei campi della salute e
dell’istruzione pubbliche, e a detrimento dei diritti dei popoli indigeni e
della natura. In linea con i dettami della filosofia neoliberista. I
brasiliani, scesi nelle strade a protestare (oscurando il «sacro» rito del
calcio), oggi chiedono di avere la dignità del pane ma anche la bellezza delle
rose. Il Brasile, paese dalle molte facce (spesso antitetiche), vuole andare
oltre i numeri da sesta potenza mondiale.

Sul Brasile i luoghi comuni si sprecano: è il paese delle
favelas, delle spiagge dove donne bellissime sfilano tutto il giorno sulla
sabbia dorata e, ovviamente, del carnevale e del calcio, per i quali ogni
attività si ferma. Per questo e altro le rivolte urbane accadute a giugno,
durante il toeo calcistico internazionale della «Coppa delle confederazioni»
(poi vinto proprio dai padroni di casa del Brasile), hanno trovato quasi tutti
(governo, comunità internazionale, giornalisti) impreparati. «È difficile, se
non impossibile – ha scritto Mino Carta -, dire perché i brasiliani siano scesi
in piazza. Di certo è un grido di protesta che proviene dalla periferia di un
paese ancora diviso tra padroni e schiavi. Mi riferisco alla maggioranza dei
brasiliani che prende l’autobus e non sa cosa sia lo stato sociale. Sono loro a
pagare le conseguenze di un sistema sanitario, scolastico e dei trasporti di
pessima qualità»1.

Negli ultimi 10 anni, sotto le presidenze di Lula e oggi di
Dilma, il Brasile ha fatto grandi progressi tanto da raggiungere il rango di
sesta potenza mondiale. Tuttavia, il paese rimane terra di incredibili
contrasti e di enormi diseguaglianze. Lo sviluppo è stato ed è perseguito nel
solco dei dettami della filosofia neoliberista, come più volte segnalato anche
nei nostri reportages. Pur approvando
generosi programmi assistenziali in favore dei più poveri, il governo ha
lavorato per favorire le aziende private, le banche e l’oligarchia finanziaria.
I casi più emblematici riguardano la costruzione di opere faraoniche (una per
tutte, la contestatissima centrale idroelettrica di Belo Monte, sul fiume
Xingu) e l’esplosione dell’agrobusiness
fondato sulle monocolture e sostenuto dalla potente bancada ruralista del Congresso2. Queste scelte economiche hanno
spinto verso l’alto la crescita e il Prodotto interno lordo, ma allo stesso
tempo hanno prodotto conseguenze molto negative: per le popolazioni indigene
(scacciate dalle loro terre e di fatto spogliate dei propri diritti) e per la
preservazione dei grandi ecosistemi naturali che il Brasile ha la fortuna di
ospitare.

Per contro, il governo di Brasilia ha investito risorse
irrisorie nei campi della salute e dell’istruzione. Perché – chiedevano i
manifestanti – spendere miliardi di soldi pubblici nella costruzione degli
stadi per i Campionati mondiali di calcio del 2014 quando mancano scuole e
ospedali degni di questo nome? Anche il consiglio della «Conferenza dei vescovi
brasiliani» (Cnbb) si è schierata – attraverso una lettera dal titolo Ascoltare
il grido che viene dalle strade – con i contestatori3.

«Quando mio figlio sarà malato – si poteva leggere sui
cartelli e sui muri -, lo porterò allo stadio?». Scelte politiche sbagliate,
corruzione e sprechi sono riusciti nell’impresa di portare migliaia di
brasiliani nelle strade a contestare il calcio, da sempre considerato un rito
sacro e intoccabile.

Si dimentichino i luoghi comuni e le semplificazioni, il
Brasile ha innumerevoli facce, spesso antitetiche. Come quella di Marco
Feliciano, deputato e pastore evangelico della Asembléia de Deus. Nel 2010, Feliciano è stato eletto alla Camera
dei deputati del Brasile, risultando l’esponente evangelico più votato del
paese. Il deputato è famoso per le sue idee razziste sugli africani e per le
dichiarazioni di fuoco contro l’omosessualità, causa di odio e crimini, un
comportamento che – a suo giudizio – può essere curato tramite un adeguato
aiuto psicologico e spirituale (soprannonimato «cura gay»). Pur accusato di incitare all’omofobia e all’intolleranza,
a marzo 2013 il parlamentare evangelico è stato eletto presidente della «Commissione
per i diritti umani e le minoranze» della Camera.

Ma il Brasile ha anche la faccia di Jaoquim Barbosa, primo
presidente nero della Corte suprema4 (e possibile candidato alle presidenziali
del 2014). Nato nello stato di Minas Gerais, è il primogenito di 7 figli.
Barbosa ha intrapreso una lotta senza precedenti contro la corruzione annidata
nei partiti politici brasiliani (lo scandalo conosciuto con il nome di mensalão), compreso il Pt, il partito di
Lula e Dilma, i presidenti che hanno portato il Brasile nel novero delle
potenze mondiali, senza però riuscire a eliminae vizi, contraddizioni e
diseguaglianze. Come le manifestazioni popolari di giugno 2013 hanno voluto ricordare.
La vita ha bisogno del pane, ma anche delle rose.

Paolo Moiola
Note

1 – Mino Carta, editoriale di Carta Capital, 21 giugno 2013:
www.cartacapital.com.br.
2 – Claudia Fanti, In Brasile è guerra contro i popoli
indigeni. La resa di Dilma agli interessi dell’agrobusiness, Adista, 15 giugno 2013.
3 – Cnbb, Ouvir o
clamor que vem das ruas
, Brasilia, 21 giugno 2013.
4 – Secondo altre fonti, sarebbe il terzo. Si veda:
www.joaquimbarbosapresidente.com.br.

 
       Il crack, un’emergenza nazionale                                                                      

Le pietre del suicidio

Il Brasile della crescita economica e delle manifestazioni
inteazionali affronta un’emergenza che si sta diffondendo come un’epidemia.
Il crack ha invaso le strade brasiliane e catturato migliaia di persone. Anche
nei centri più piccoli.

Teresina. La rivista locale, Cidade Verde («città verde», nome con cui un tempo era
soprannominata Teresina), racconta la storia di cinque fratelli, il più piccolo
di appena 9 anni, tolti ai genitori perché i due erano tossicodipendenti e
vivevano per le strade.  Una vicenda –
pensiamo – drammatica e triste, ma forse unica e comunque amplificata dalle
consuete esagerazioni dei giornalisti.

Usciamo per una passeggiata. È la mattina di un giorno di
festa. Per le strade del centro di Teresina non c’è traffico. Le saracinesche
dei negozi sono abbassate, gli uffici pubblici chiusi.

Sulla Rua Areolino de Abreu e sulle vie laterali, nella
piazza Marechal Deodoro da Fonseca (conosciuta come Praça da Bandeira), nei pressi della chiesa Nossa Senhora do Amparo,
ci sono soltanto piccoli gruppi di persone che bivaccano sui marciapiedi o
sotto gli alberi dei giardini. Hanno un aspetto trasandato, volti emaciati,
sguardo perso, movimenti rallentati. Altri camminano con passo barcollante,
trascinando i propri corpi con fatica, pur essendo persone giovani. Sono tutti
tossicodipendenti – viciados, come si
dice in lingua brasiliana -. Ci dobbiamo ricredere. Quelle lette sulla rivista
non erano esagerazioni giornalistiche: il crack è arrivato anche qui.

La conferma arriva da un’inchiesta di Veja. Secondo
il settimanale, il crack ha ormai raggiunto oltre il 90% delle città
brasiliane, comprese quelle del Piauì, uno degli stati più poveri del paese.
Nel gergo giornalistico si parla di «cracolandia»,
per indicare i luoghi delle città dove si spaccia e consuma crack. Statistiche ufficiose raccontano
che per le strade di Teresina ci siano 8.000 tossicodipendenti.

Un esercito in crescita. Il crack è poco costoso e molto più pericoloso della cocaina di cui è
un sottoprodotto ottenuto mischiando questa con bicarbonato di sodio. Si
presenta in forma di piccole pietre (cristalli) che, una volta scaldate,
rilasciano un vapore che viene aspirato dal consumatore. L’euforia che si
produce dura non più di 10 minuti. Ad essa segue una depressione fisica e
mentale che si cerca di combattere procurandosi un’altra dose di crack. Una
volta entrata nel circolo vizioso della dipendenza l’unica preoccupazione della
persona è quella di procurarsi una nuova dose. Se non ha il denaro necessario, se
lo procura con furti, violenze o prostituendosi. Molti iniziano a vivere per le
strade come indigenti. A São Paulo come a Teresina, ma anche – ecco perché si
parla di epidemia – nelle città più piccole.

Dal lungofiume risaliamo a piedi la Rua Areolino de Abreu.
Nei pressi di una fermata dell’autobus, scoppia una lite tra due giovani donne
che stanno salendo sul mezzo. Si accapigliano e si insultano gridando con voce
stridula. Dopo qualche minuto la porta del bus si chiude lasciando fuori una
delle due e ponendo così fine al litigio. La donna che non è salita ha
l’aspetto e il fare inconfondibili di una consumatrice di crack. Non ci si può sbagliare: quella droga distrugge l’aspetto
esteriore e la testa delle persone che la scelgono.

Paolo Moiola

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Paolo Moiola




Le olimpiadi dei rifugiati

Storie dall’ex Villaggio olimpico di Torino, occupato dai
profughi.
Finito il progetto Emergenza Nord Africa, centinaia di
africani rimangono senza assistenza e casa. A Torino gli appartamenti dell’ex
Villaggio olimpico sono vuoti. Inizia così l’occupazione delle palazzine di via
Giordano Bruno. Circa 500 rifugiati senza letti, cucine, cibo. Mentre la città
sta a guardare.

«Ascoltare, guardare le persone in
faccia, rendersi conto. È questo che le autorità devono fare: scendere in mezzo
alla gente. Almeno per spiegare perché non possono rispondere alle richieste».
Sono le chiare parole dell’Arcivescovo di Torino, mons. Cesare Nosiglia,
pronunciate durante la visita all’ex Villaggio olimpico in un’afosa domenica
d’estate (3 luglio 2013), in favore delle centinaia di profughi che lì vivono.
Un passo importante verso la soluzione dei molti problemi che attanagliano la
vita di questi uomini e donne, primo tra tutti quello della casa.

Chi
lo avrebbe detto sette anni fa che il cuore delle Olimpiadi torinesi sarebbe
diventato residenza di circa cinquecento profughi provenienti dall’Africa
attraverso la Libia sconvolta dalla guerra? Forse nei luoghi risiede un
destino, e quelle palazzine rimaste vuote dopo il trionfale inverno del 2006
hanno ripreso il loro lavoro di accoglienza verso chi viene da lontano. Lo
spirito dei Giochi aleggia ancora in molte sfavillanti piazze del centro
torinese, e ci piace pensare che sia rimasto anche qua, in via Giordano Bruno.
Quartiere popolare e benestante, per molti anni sede dei mercati generali, oggi
è in grado di vivere l’impegnativa esperienza di accoglienza dei profughi, una
massa umana semi abbandonata che vive grazie alla generosità di singoli
cittadini. Questa è la situazione etico morale, la parte probabilmente più
nobile di questa vicenda non eccezionale in Italia.

Occupazione

Diversa invece la storia materiale vissuta sul campo tutti i
giorni. I cinquecento africani, ma anche asiatici, est europei e qualche
impaurito italiano sfrattato, hanno occupato alcune palazzine, che appartengono
a un fondo immobiliare cui sono state vendute dal comune di Torino.
Occupazione, ai sensi di legge, illegale. Alcuni ragazzi dei centri sociali
torinesi avrebbero visto gli stabili in disuso, ma non fatiscenti, da anni e
avrebbero deciso di forzare i lucchetti che li lasciavano vuoti. Si tratta di
un reato penale. E qui la coscienza inizia a scontrarsi con le regole del
vivere in una società, creando una matassa che richiede molto buon senso per
essere sbrogliata. Subito dopo la forzatura, dentro le quattro palazzine alte
sei piani si sono riversati gli ultimi della città che hanno velocemente
occupato tutti i posti disponibili. Lunghe liste di attesa sono state poi
completate con chi non ha trovato posto, con momenti di tensione perché la
solidarietà tra i poveri esiste fino a un certo punto, prima è solo sopravvivenza.

Passati i primi giorni di caos i torinesi, pochi, hanno iniziato a
portare mobili, cibo e vestiti.

La generosità dei singoli cittadini è diventata l’architrave che
non fa collassare questa situazione, seppur largamente insufficiente. Ma il
cibo resta un problema, soprattutto per quei pochi che hanno un lavoro. Quando
tornano a casa non trovano più nulla perché ciò che arriva viene immediatamente
consumato da chi è presente nella struttura. E dai più forti. Così giovani
uomini, circa cinquanta donne e uno stormo di bambini sono diventati, loro
malgrado, protagonisti di un quadro pericoloso, che per nulla si connatura con
le loro aspirazioni, lontane dal vivere uno stato di illegalità formale.

Non siamo criminali

Non sono criminali ne sbandati. Sono i profughi scappati dalla
guerra libica, giunti con un barcone sulle coste italiane dopo viaggi che
definire avventurosi è riduttivo. Traversate dispendiose alla ricerca di un
nuovo inizio. I loro racconti sono tutti molto simili, anche se provengono da nazioni
diverse.

Alpha Omar ha ventisette anni ed è nato in Senegal. Un paese che
non presenta particolari problemi legati alla violazione dei diritti umani.
Quello di Omar, un ragazzo intelligente e sensibile, giunto a Torino dopo aver
girato mezza Italia, è un caso esemplare. «Non mi piace vivere in questa
maniera. Non sono contento di vivere in un palazzo occupato insieme a
cinquecento uomini nelle mie condizioni. Di dover aspettare il cibo che non
riesco a guadagnarmi perché nessuno vuole farmi lavorare. Di essere qua a
parlare del mio passato. Tutto questo non è ciò per cui ho fatto tanti
sacrifici».

Alpha Omar racconta la sua storia dentro la piccola ma ben
attrezzata aula dell’ex Villaggio olimpico dove si svolgono lezioni di
italiano. Lui parla la nostra lingua in modo stentato, così come molti altri. È
strano perché buona parte dei rifugiati presenti a Torino ha fruito della
mastodontica organizzazione messa in piedi nel 2011, quella che prese il nome
di «Emergenza Nord Africa». Progetto del ministero dell’Inteo, istituito per
accompagnare tramite strutture italiane i profughi fuggiti dalla guerra in
Libia. Progetto molto strutturato che, come minimo, doveva portare a una
conoscenza della lingua italiana almeno spendibile. Ma buona parte delle persone
che vivono in questa struttura sembrano sbarcate da pochi giorni.

È finita l’emergenza?

Nella primavera del 2011 la fuga dalle coste
Nord libiche sconvolte dai bombardamenti portò in Italia sessantamila persone.
Di questi circa un terzo si fermarono, i restanti decisero di continuare il
loro viaggio verso il Nord Europa.

È bene ricordare che i rifugiati politici
presenti nel nostro paese sono circa un decimo di quelli che vivono in Germania
o in Francia. Il termine «invasione» è da considerarsi quindi improprio. Per
questa ragione i profughi giunti durante la guerra libica sono stati di fatto
obbligati a rimanere in Italia dalle autorità francesi e tedesche che hanno
chiamato alla responsabilità il governo italiano.

Ma la doverosa assistenza a queste persone in
fuga si è trasformata in un caos molto oneroso e scarsamente proficuo. Un
miliardo di euro, mediamente 20 mila euro spesi in servizi per ogni uomo, donna
o bambino approdato nel nostro paese. Nonostante questi fondi spesi, oggi le
grandi metropoli subiscono il problema di migliaia di stranieri che vagano
senza meta, senza lavoro, senza casa. Non tutto è andato sprecato ovviamente,
soprattutto i progetti che hanno coinvolto piccoli gruppi hanno portato a
risultati concreti. Ma ci si domanda che fine abbiano fatto le associazioni che
avevano assistito i profughi durante il progetto «Emergenza Nord Africa»,
quanto per ogni rifugiato venivano corrisposti all’associazione circa 40 euro
al giorno.

Continua Omar: «I sacrifici che ho fatto, e
con me la mia famiglia che ha sostenuto i miei sforzi, non li ho fatti per
venire in Italia a fare il mendicante. Il mio obiettivo era andare a lavorare
in Libia perché è un paese africano in forte crescita economica. E così ho
fatto. Facevo il carpentiere e il lavoro non mancava mai. Guadagnavo bene,
anche mille dollari al mese. In Libia più lavoravi più guadagnavi, e a me
andava bene così. Poi, un giorno, è scoppiata la rivoluzione. Sembrava dovesse
durare poco, ma poi sono arrivati i bombardamenti Nato e io sono scappato su un
barcone. Non volevo tornare in Senegal, dove non c’è lavoro né la possibilità
di migliorare la propria vita. Cosa dovevo fare? Così ho speso quasi tutti i
miei soldi per venire in Italia».

E come lui Seko, venticinquenne, senegalese,
Mohammed, ventiquattro anni del Burkina Faso e centinaia di altri. Dicono: «L’Italia,
e in genere la comunità occidentale, ha supportato i bombardamenti che hanno
distrutto la mia vita. Questo implica una responsabilità morale da parte di chi
mi ha imposto un viaggio in Italia che non avevo alcuna intenzione di fare».
Storie simili, piene di frustrazione, voglia di andar via. Ma come?

Pais, congolese: «Dove posso andare? Non ho
nemmeno il denaro per il biglietto del bus. Non posso uscire dall’Italia perché
il permesso che ho me lo impedisce».

Rifugiato parcheggiato

Ma se la guerra è stata l’origine,
l’evoluzione successiva in Italia è ancora più inquietante. Molti raccontano di
essere stati mandati in luoghi sperduti, in mezzo alle montagne per mesi, dove
passavano le loro infinite giornate senza far nulla, in attesa del pranzo,
della cena, della notte.

Centinaia di milioni di euro spesi così, tra corsi di italiano
fasulli, creste all’italiana, volontari buttati in prima linea che tamponavano
le volute falle dell’Emergenza Nord Africa con ampie dosi di sacrifici
personali.

E loro, i profughi, divenuti dopo mille peripezie burocratiche,
rifugiati a tempo determinato, a seconda del paese di nascita, presi in mezzo,
rimbalzati da un posto all’altro. Interi hotel, anche fatiscenti e abbandonati
da anni, sono stati «messi a disposizione» dello stato che spesso li ha usati
come parcheggi. Tutto questo carosello è terminato il primo marzo, allo scadere
del progetto ministeriale, quando a buona parte dei profughi giunti è stato
riconosciuto il diritto all’asilo temporaneo e un assegno di cinquecento euro è
entrato nelle loro tasche: «Ognuno si arrangi come preferisce». C’è chi li ha
spesi in un giorno, chi li ha centellinati, chi non ha nemmeno capito subito
cosa fosse quel pezzo di carta che riceveva.

Racconta Noasarda, ventiquattro anni, del Burkina Faso: «Non
sapevo dove andare e cosa fare, così ho iniziato a vagare per Torino con
l’assegno in tasca. Mangiavo alla Caritas, dormivo per strada. Ho cercato
qualsiasi tipo di lavoro ma ne ho trovato pochissimo. Essere neri è ancora un
ostacolo insormontabile. I soldi che mi hanno dato non li ho ancora finiti, a
differenza di molti miei compagni. Poi ho saputo di questo posto e sono venuto».

Il resto è la quotidianità. Il tempo passa per tutti lentamente e
senza speranza. L’assenza di lavoro, di qualsiasi tipo, anche il più umile e
peggio pagato, porta a forme di depressione collettiva, alienazione,
frustrazione. Il tempo per questi uomini sembra infinito. Non solo. L’idea
balzana secondo cui non esiste nessun tipo di diritto, o dovere, ma tutta la
vita passa attraverso il favore concesso dall’autorità di tuo, o sedicente
tale, dilaga. A questo si devono unire le difficoltà dettate da una convivenza
spesso complicata, gestita da giovani volontari aderenti ad alcuni centri
sociali torinesi, che con immenso spirito di sacrificio rendono un servizio
alla collettività. Viene da domandarsi cosa sarà di queste persone quando i
loro status temporanei da rifugiati scadrà. Verrà riconosciuto un altro
lasso di tempo? Diverranno clandestini? I rifugiati al momento sono regolari,
ma senza il riconoscimento della residenza difficilmente potranno rinnovare il
permesso di soggiorno che per moltissimi scadrà entro la fine dell’anno.
Nonostante un doveroso ottimismo, la situazione rimane molto grave.

Maurizio Pagliassotti
 

Il fotografo

Matteo Montaldo, nato nel 1987 a Cuneo, si avvicina alla
rappresentazione fotografica già dal 2005, prima in modo autarchico poi
seguendo corsi specifici e studiando la teoria. Tra il 2010 e il 2012 consegue
a Milano un master in reportage e un corso di photoediting e ricerca
iconografica. Si laurea in filosofia nel 2011 con una tesi di estetica su Cindy
Sherman e il suo approccio postmoderno alla fotografia. Acquisito il
valore  della riproducibilità tecnica si
interessa di fotogiornalismo, documentazione sociale lavorando sull’attualità,
sulle trasformazioni socio-culturali e non disdegnando la riflessione circa i
tratti somatici della fotografia stessa.

matteomontaldo.photoshelter.com

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Maurizio Pagliassotti




Un sorriso per la vita

Il diritto
alla salute per tutti è ancora lontano.
In alcuni
paesi sono ancora molto diffusi il «labbro leporino» e altre patologie
collegate. Le strutture locali hanno ancora difficoltà a risolverlo. Così è
nata un’associazione di volontari che operano i bambini e formano personale sanitario
locale. Li abbiamo seguiti in una loro missione.

Cotonou. Il risveglio è stato doloroso, il digiuno un po’
pesante e le due notti nel reparto dell’ospedale non proprio piacevoli, ma è
con un sorriso raggiante che la piccola Mael ora cammina, la mano stretta a
quella della sua mamma, Juanita, lungo il viale in terra battuta che conduce al
cancello d’uscita del Centro ospedaliero universitario (Chu) di Cotonou, la
capitale del Benin. Nel parcheggio gremito di motorini, uno dei mezzi di
trasporto più usati in questa metropoli di oltre un milione di abitanti, Mael
sale sullo scornoter che la riporterà a casa, fasciata e legata dietro la schiena
della madre. Ancora qualche giorno di dieta semi liquida, una cicatrice nel
palato che velocemente si riassorbirà, e l’incubo vissuto nei suoi primi
quattro anni di vita sarà per sempre dimenticato. D’ora in poi Mael potrà
mangiare e bere senza rischiare il soffocamento a ogni pasto e con un po’ di
pratica recuperare il ritardo accumulato per giocare e imparare insieme ai
bambini della sua età. E forse, essendo ancora giovane, potrà correggere quel
timbro nasale che segna a vita le persone affette da palatoschisi, ossia
l’apertura del palato.

Mael fa parte dei 62 bambini beninesi operati
gratuitamente per correggere la palatoschisi, la labioschisi (il cosiddetto «labbro
leporino») o labiopalatoschisi (apertura del palato, del labbro e in alcuni
casi della gengiva) dai medici volontari dell’Ong italiana Emergenza Sorrisi
durante una missione svolta in Benin dal 21 al 31 maggio scorso. Grazie alla
cooperazione del ministero della Sanità del Benin e a un’organizzazione non
governativa locale, La Resurrection, si è potuto dar vita alla terza
missione del genere in questo piccolo paese dell’Africa occidentale, parte
dell’antico regno del Dahomey.

Una sinergia ormai rodata che ha condotto a un nuovo
successo di questo fruttuoso esempio di cooperazione Nord-Sud, nel quale entra
anche una componente di formazione del personale locale e di prevenzione.

Un gruppo affiatato

Nell’interpretazione di questo spartito ognuno ha eseguito il
proprio ruolo in uno spirito di reciproco rispetto e di adattamento a
situazioni nuove e per certi versi estreme.

Un’avventura, è bene sottolinearlo, in cui ognuno ha fatto un
dono: chirurghi, anestesisti, infermieri, pediatri italiani disposti a lavorare
gratuitamente sfruttando periodi di ferie in un ambiente spartano e lontano
dagli standard a cui sono abituati in Italia; medici e assistenti locali, che
hanno sconvolto gli ordinari ritmi di lavoro per adeguarsi alle richieste del team;
il ministero della Sanità, che ha accettato il ricovero gratuito dei
beneficiari e dei loro parenti; le madri beninesi, che hanno affidato i propri
figli a questi dottori bianchi e sconosciuti; l’Ong La Resurrection, che
ha attraversato il paese in lungo e in largo per sensibilizzare le popolazioni
sul problema della labiopalatoschisi, spiegare che vi si può rimediare, almeno
in parte, annunciare l’arrivo della missione e la possibilità di beneficiae.

«Solo grazie a questo patto di fiducia e di supporto si è potuti
arrivare al successo di questa missione, che speriamo, in futuro, potrà
coinvolgere sempre meno medici italiani e sempre più medici locali» sottolinea
Francesca Pacelli, cornordinatrice delle missioni inteazionali di Emergenza
Sorrisi
. Il team che ha operato in Benin, composto da 10 medici
altamente qualificati, ha potuto assistere, ognuno nella propria
specializzazione, il personale locale insegnando i passi da compiere secondo
gli standard inteazionali.

Se la labiopalatoschisi è diventata rara nei paesi ricchi, resta
molto diffusa nel Sud del mondo, dove carenze alimentari e vitaminiche unite a
infrastrutture poco sviluppate, all’assenza di medici sufficientemente
qualificati e a fattori socio-culturali non consentono di trovare una risposta
adeguata al problema.

«Il nostro obiettivo è non solo di operare bambini affetti da
questa patologia, ma di mettere in atto delle misure per poter prevenire la
comparsa di questa e altre malformazioni con una campagna di prevenzione di
massa, tesa alla somministrazione, per esempio, di acido folico, la cui carenza
è dimostrata essere uno dei fattori principali nel meccanismo di insorgenza
della patologia labiopalatoschisi», spiega il capo missione, Mario Altacera,
specialista in chirurgia plastica e maxillo-facciale ad Acquaviva delle Fonti
(Ba).

Nelle aree remote del Benin – come in altre zone dell’Africa
– la povertà, l’analfabetismo e antiche
credenze costituiscono ancora un ostacolo alla cura di alcune malformazioni. C’è
chi non si fida della medicina portata dall’Occidente e crede che un intervento
chirurgico causerà la morte del proprio figlio. Chi ritiene invece che l’arrivo
di un neonato malformato sia una sciagura voluta dal cielo o da un sortilegio
che non si può cambiare. Chi ancora, nella peggiore delle ipotesi, non riesce
ad accettare un erede malformato, la vergogna e la discriminazione, e si
macchia anche di infanticidio.

Per i 62 bimbi e ragazzi operati la vergogna e l’esclusione fanno
ormai parte del passato e la testimonianza che porteranno nei propri villaggi,
nei propri quartieri, aiuterà a sfatare antichi miti e riserve.

Pierre, 22 anni, uno dei pazienti più grandi con diverse
operazioni alle spalle e altre malformazioni, ha corretto un’apertura del
labbro superiore, ma avrebbe bisogno di altre cure per tornare ad avere un
volto «normale». Tuttavia l’affetto di cui è stato circondato durante il suo
soggiorno in ospedale, sempre in compagnia di parenti e amici, gli hanno ridato
forza e entusiasmo. Per l’ultimo controllo due giorni dopo l’operazione si
presenta indossando la maglia del Barcellona, la sua squadra di calcio
preferita. Si fa dare uno sguardo dal chirurgo: è tutto a posto. Non vede l’ora
di raggiungere i suoi compagni sul campo e di giocare una nuova partita.

Un’esperienza importante

Anche i medici italiani tornano a casa con un bagaglio di
soddisfazione, di gioia e di emozione senza paragoni. «Si porta tutto nel cuore
per sempre. Sono emozioni che non si possono descrivere, solo chi le vive può
capire come ci si sente» dice Jolanda Barile, infermiera, al ritorno dalla sua
terza missione dopo quelle compiute in Indonesia e in Gabon.

Tra i volontari di questo viaggio in Benin, qualcuno partiva per
la decima o undicesima volta, e tutto sommato la situazione trovata a Cotonou è
stata piuttosto tranquilla rispetto ad altre esperienze trascorse in Bangladesh
sul Brahmaputra, nella Repubblica Democratica del Congo, in Iraq o in alcune
aree dell’Etiopia. Per qualcuno invece è stata una prima assoluta o quasi: «L’anno
scorso ero partito per una missione umanitaria, con un’altra organizzazione, in
Mozambico – racconta Ivan Alonge, infermiere -. Operavamo in una clinica
privata, con dotazioni molto simili a quelle che si trovano in Italia, in
ottime condizioni. Mi ero fatto una falsa idea di quello che realmente si vive
in Africa».

Il reclutamento di medici e infermieri disposti a partire in
missione per Emergenza Sorrisi si fa in base a candidature ricevute, ma
anche e soprattutto attraverso volontari già noti all’organizzazione, che
introducono collaboratori di fiducia, diventandone «tutori» durante la
missione.

L’Ong è nata cinque anni fa con il nome di Smile Train Italia
– affiliata all’organizzazione statunitense Smile Train – e dal primo
gennaio scorso ha cambiato denominazione sociale per poter ampliare il raggio
delle proprie attività. «Dopo anni di interventi in paesi come Iraq,
Afghanistan, Kurdistan, Indonesia, Bangladesh, Benin, Gabon, Congo e migliaia
di visite, ci siamo resi conto che non potevamo più evitare di occuparci anche
di bambini e pazienti con gravi conseguenze derivanti da ustioni, traumi,
tumori, ma ai quali non siamo stati finora in grado di dare una risposta»
spiega Fabio Massimo Abenavoli, presidente di Emergenza Sorrisi. Saranno
dunque questi un nuovo impegno e una nuova sfida, che si spera verrà
assecondata dai donatori. «La crisi economica che ha colpito il mondo intero
non ha ridotto lo spirito e i valori di solidarietà che spingono tutte le
nostre azioni – dice ancora Abenavoli -. Se sembrano prevalere egoismo e
individualismo, nella realtà dei fatti le azioni concrete di sostegno al
bisognoso esistono e sono forti, ma nella maggior parte dei casi «dimenticate»
per far posto al gossip e al pessimismo. Noi possiamo garantire una
cosa: a tutte le realtà che ci sostengono promettiamo che il nostro impegno
verrà ripagato nell’unica moneta universale e resistente a qualsiasi crisi: il
recupero del sorriso dei nostri bambini!».

Céline Camoin


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Céline Camoin




RD Congo: si riparte dalle donne

Volge alla conclusione una parte del progetto che la Fondazione Misna, attraverso
Missioni Consolata Onlus, sta realizzando in Repubblica Democratica del Congo grazie al programma di contributi a progetti di cooperazione decentrata e solidarietà̀ Internazionale del Comune di Roma.

Dall’alfabeto alla micro-imprenditoria il passo non è breve, specialmente se a tentare di farlo sono donne congolesi che vivono in situazioni di difficoltà a volte estrema e portano sulle spalle l’intero peso di una famiglia o, peggio, il trauma di una violenza subita durante una guerra che, nelle zone orientali della RD Congo, sembra non voler finire mai.
Eppure, pole pole, come si dice in swahili, o malembe malembe (in lingala, la lingua franca più diffusa del Congo), anche in una quotidianità fatta di espedienti e di sfiducia può prendere forma un progetto di vita dove la dignità di un intero Paese si ricostruisce a partire da quella delle sue donne. è il progetto bi/triennale Empowerment delle donne vulnerabili e delle ragazze madri di Kinshasa e Isiro attraverso la formazione di base e professionale per l’acquisizione di life skills, di conoscenze igienico–sanitarie e il microcredito, che la Fondazione Misna ha realizzato attraverso i missionari della Consolata e con fondi del Comune di Roma, che mira proprio a questo: ricostruire un’architettura sociale devastata rafforzando per prima cosa le donne, che di essa sono le colonne portanti.
Il contesto del progetto:
la situazione delle donne in RDC
La Repubblica Democratica del Congo è ufficialmente uscita nel 2002 da una guerra devastante – da molti osservatori definita la prima guerra mondiale africana – che ha provocato oltre cinque milioni di vittime. Durante quegli anni di guerra si sono registrate atrocità e violenze fra le peggiori mai perpetrate nella storia dell’umanità; casi di cannibalismo, eccidi di massa e torture sono stati all’ordine del giorno e lo stupro è stato utilizzato regolarmente come strumento di guerra.
Nonostante la cessazione ufficiale delle ostilità e le elezioni politiche che – dopo ripetuti rinvii e interminabili negoziazioni – hanno avuto luogo nel 2006 confermando Joseph Kabila alla presidenza, la RDC, a quasi dieci anni dalla fine del conflitto, appare ancora un paese smembrato. è praticamente privo di infrastrutture e ostaggio di interessi stranieri che ne prosciugano le pur ingenti risorse naturali, escludendo la stragrande maggioranza della popolazione dai benefici che dovrebbero derivare dall’essere cittadini di uno dei Paesi con il sottosuolo più ricco del mondo.
In alcune zone, specialmente nella parte orientale del Paese, il conflitto è lungi dall’essere concluso. Le schermaglie e le violenze interetniche fra esercito e milizie irregolari terrorizzano le province del Nord e Sud Kivu, mentre i ribelli dell’ugandese Lord’s Resistance Army con le loro incursioni, e i massacri che ne derivano, provocano fughe e spostamenti in massa delle popolazioni dell’Alto Uele. Anche qui lo stupro è utilizzato come arma o come semplice strumento di umiliazione e affermazione del potere e il numero di donne stuprate è ormai impossibile da stimare. Nel 2009, l’agenzia delle Nazioni Unite, Unfpa (United Nation Population Fund), denunciava oltre quindicimila casi, ma le segnalazioni di stupri di massa sono state sistematiche e ricorrenti anche nel corso dei successivi due anni.
Per sfuggire a questa situazione di terrore e incertezza, la popolazione civile è spesso costretta ad abbandonare i propri villaggi e cercare nelle città un rifugio e un’occupazione, andando a ingrossare le fila dei cosiddetti exoderirales, centinaia di migliaia di uomini e donne che partecipano all’esodo verso le città.
Saint Hilaire
Saint Hilaire, alla periferia della capitale Kinshasa, è uno dei luoghi nei quali trovano una meta tanto questi esuli provenienti da tutto il Paese quanto altri abitanti della capitale alla ricerca di un quartiere con un costo di vita più abbordabile. Sebbene non abbia l’aspetto di una vera e propria baraccopoli, è pur sempre un quartiere fortemente disagiato. Costruito su una piattaforma sabbiosa che diventa del tutto impraticabile durante la stagione delle piogge, è privo di acqua corrente ed è servito dalla rete elettrica solo per un decimo degli utenti. La mortalità infantile colpisce il 14% dei bambini e il virus dell’HIV si sta diffondendo a ritmi allarmanti. Un quarto dei giovani non ha mai frequentato la scuola.
La situazione delle donne è drammatica: più della metà sono ragazze madri, costrette a vivere di espedienti per sostenere se stesse e le proprie famiglie. La prostituzione occasionale è uno dei mezzi a cui più spesso le giovani ricorrono, esponendosi così all’infezione da HIV. «L’urbanizzazione accelerata, coniugata al declino dell’educazione comunitaria propria dei villaggi – spiega padre Santino Zanchetta, da dieci anni attivo nel quartiere –, provoca un rilassamento del controllo parentale sui figli. La mancanza di mezzi finanziari paralizza l’autorità̀ dei genitori che assistono impotenti alla prostituzione precoce delle loro figlie con tutte le conseguenti difficoltà̀ che ne derivano, dalla necessità di provvedere ai bisogni del neonato alla stigmatizzazione e marginalizzazione delle ragazze stesse».
Isiro
Queste dinamiche sono in parte all’opera anche a Isiro, cittadina di 250 mila abitanti immersa nella foresta pluviale nel distretto nordorientale dell’Alto Uélé, del quale è capoluogo distrettuale. «La presenza nella zona settentrionale di Isiro di miniere di diamanti artigianalmente sfruttate – racconta padre Daniel Lorunguyia – ha come conseguenze un’alta incidenza di malattie polmonari e una promiscuità sessuale cha aumenta il rischio di contagio da HIV. Inoltre, nel caso delle donne, alle difficoltà legate alla sopravvivenza e alle precarie condizioni sanitarie si aggiungono spesso i traumi derivanti dalle violenze subite. Vista la quantità di soldati e di miliziani, la violenza perpetrata nei confronti delle donne è una triste costante della zona e Isiro chè è stata varie volte segnalata nei rapporti OCHA (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs delle Nazioni Unite) per l’elevato numero di stupri».
Il progetto:
formazione e autostima
è chiaro che in contesti come questi il lavoro da fare non si limita alla formazione e all’organizzazione dei corsi, ma deve abbracciare una pluralità di aspetti legati anche alla dimensione psicologica delle donne e al recupero dell’autostima che la loro condizione di ragazze-madri spesso vittime di violenza ha minato profondamente.
Ecco perché il progetto si è dato come obiettivo quello di coinvolgere 225 donne a Kinshasa e 100 a Isiro in un percorso di un anno che parte dall’alfabetizzazione per approdare alla formazione professionale passando per l’acquisizione di conoscenze igienico-sanitarie e dei cosiddetti life skills. Essi sono un insieme di abilità che hanno a che sviluppano il senso critico, la consapevolezza di sé, la capacità di prendere decisioni, la gestione delle emozioni, la creatività e la conoscenza dei diritti umani e dei diritti della donna in particolare.
I padri Santino Zanchetta e Daniel Lorunguyia, responsabili del progetto rispettivamente a Saint Hilaire e a Isiro, sono d’accordo nel sostenere l’importanza di far crescere l’autostima nelle donne per evitare che si espongano alle frustrazioni e ai rischi derivanti da attività degradanti o male organizzate e per questo votate al fallimento. Ma questo aspetto, che viene affrontato fin dal primo anno di progetto nella fase dell’alfabetizzazione, continua per tutto l’arco dell’iniziativa e si nutre dei risultati che le donne ottengono grazie agli effetti della formazione professionale.
A Kinshasa, quest’ultima riguarda ambiti come la sartoria, l’informatica, l’estetica, mentre a Isiro introduce, accanto alla sartoria, anche attività legate all’agricoltura e alla gastronomia, in linea con le caratteristiche più rurali della zona dell’Alto Uele.
Formazione e lavoro
La formazione professionale viene offerta alle donne sulla base di un’attenta analisi preliminare del mercato del lavoro locale. Per quanto riguarda la sartoria, infatti, il progetto mira a mettere le donne in condizione di rispondere alla domanda di abiti confezionati per varie occasioni. «Ci sono le richieste di vestiti per matrimoni, funerali e ricorrenze varie – dice padre Santino – oppure per chi vuole semplicemente rinnovare il guardaroba; un’altra opportunità è poi quella che viene dal confezionamento di uniformi scolastiche». Le uniformi per le scuole sono una delle commissioni per le donne anche a Isiro, come conferma p. Daniel, e a queste si aggiungono anche quelle per il personale sanitario che opera nei dispensari pubblici o nelle strutture private, spesso gestite proprio da missionari.
Le ragazze affrontano anche un periodo di apprendistato presso degli ateliers con i quali i padri, sia a Saint Hilaire che a Isiro, hanno rapporti regolari e accordi precisi. Spesso, le giovani formate finiscono per venire assunte presso gli ateliers dove hanno effettuato lo stage.
Altri sbocchi professionali vengono dal lavoro in proprio: diverse ragazze formate si trovano presto a ricevere richieste di confezionamento abiti da parte di privati oppure, nel caso della gastronomia, aprono piccoli ristoranti dove cucinano e vendono cibo. Per incentivare questa parte, è stato attivato il programma di microcredito che permette a quaranta donne all’anno a Isiro e ottanta a Kinshasa di accedere a un fondo di rotazione grazie al quale cominciare un’attività in proprio con un prestito che deve poi essere restituito in rate mensili, in modo da poter includere ulteriori donne nella tornata successiva.
«Salvo disgrazie familiari o situazioni veramente gravi – che sono però rare – i microcrediti vengono di solito restituiti; quel che è certo è che, rispetto ai primi esperimenti avviati già anni fa dalla parrocchia, la formazione successiva è stata determinante nel migliorare il funzionamento del microcredito e nell’accrescere la cultura del risparmio», aggiunge p. Santino. «Oggi, il programma di microcredito è anche molto più strutturato: la scelta delle beneficiarie deriva da una valutazione fatta da un’apposita commissione della parrocchia e tenendo conto delle tendenze del mercato locale. La stessa commissione si occupa poi di monitorare costantemente “sul campo” l’evolversi delle micro-attività avviate dalle donne».
Sia a Saint Hilaire che a Isiro, i corsi terminano con un esame ufficiale che dà alle ragazze un titolo di studio riconosciuto dalle autorità pubbliche e spendibile non necessariamente nelle immediate vicinanze della località dove hanno frequentato il corso, ma anche in altre zone del Paese. «Il certificato – precisa padre Daniel – è riconosciuto dal Ministero dell’Istruzione e la valutazione finale viene sempre effettuata mediante l’ispezione di una commissione scolastica».
Il progetto, compresa la valutazione finale dei risultati, si concluderà entro la fine del 2011, e presto ne saranno illustrati i dettagli durante un evento pubblico congiuntamente organizzato a Roma dalla Fondazione Misna e Missioni Consolata Onlus.

di Chiara Giovetti

Chiara Giovetti




Etnomedicina oggi

L’importanza delle medicine tradizionali

Sono trascorsi più di trent’anni da quando, nel 1978, ad Alma Ata, oggi capitale della Repubblica del Kazakistan, l’Organizzazione Mondiale della Sanità emanò per la prima volta la raccomandazione ai governi dei paesi in via di sviluppo di riconoscere l’importanza dei sistemi medici indigeni tradizionali. La Conferenza espresse la necessità urgente di azioni da parte di tutti i governi, degli operatori della salute e della comunità internazionale per proteggere e promuovere modelli di cura antichissimi per il bene di tutti. Era un proposito ambizioso che indicava le medicine tradizionali come risorsa terapeutica, accettando al contempo il ruolo rilevante dei terapeuti tradizionali per il soddisfacimento dei bisogni di salute. Aveva così inizio la modea epopea dell’etnomedicina globale.

Cos’è l’etnomedicina?
Le «medicine tradizionali» sono un insieme di pratiche preventive, igieniche e terapeutiche, nonché una serie di teorie sulla salute e sulla malattia, specifiche di determinate culture, nell’ambito delle quali esse si sono sviluppate. Spesso, però, nell’utilizzo corrente, il termine medicina tradizionale è stato sostituito da altre espressioni, quali «medicina indigena», «medicina non ortodossa», «medicina popolare», generando di fatto incomprensione e confusione. Noi useremo il termine etnomedicina per indicare quel complesso di saperi di origine antichissima, preesistenti all’applicazione del metodo scientifico della medicina modea.
Eccetto la medicina cinese e ayurvedica indiana, codificate da un’ampia letteratura millenaria, la quasi totalità degli altri sistemi medici tradizionali (africani, americani e asiatico-pacifici) sono trasmessi direttamente da terapeuta in terapeuta senza una documentazione scritta. L’etnomedicina potrebbe, quindi, sembrare una medicina primitiva, in realtà è una conoscenza primordiale ben inserita nel contesto etnico, culturale, religioso e storico di tutte i popoli, diventando un’autentica visione del mondo che influenza e determina sia nella filosofia che nella prassi quei sistemi sanitari. È implicito allora che esistano tante medicine tradizionali quante culture e popoli sul pianeta.
Oggi l’etnomedicina rappresenta l’unica speranza di cura e di prevenzione per molte società del Sud del mondo. D’altro canto quasi 3,5 miliardi di individui non utilizzano la medicina occidentale, quella sintetica e da laboratorio, quella sperimentale delle ricche multinazionali del farmaco. E mai ne diverranno fruitori, in quanto indigenti.
Grazie anche al loro approccio olistico e allo stile di cura che pone l’uomo, nella sua complessità, al centro di ogni processo di guarigione, le medicine tradizionali stanno largamente prendendo piede nei paesi industrializzati del ricco occidente. Le statistiche foite dall’OMS ci dicono che la percentuale della popolazione che ha utilizzato le medicine tradizionali almeno una volta è pari al 48% in Australia, al 70% in Canada, al 42% negli Stati Uniti e al 75% in Francia. Anche in Italia, secondo una recente indagine ISTAT sulla salute, circa 9 milioni di italiani, il 15.6% della popolazione, avrebbero fatto ricorso almeno una volta a metodi di cura tradizionali nell’ultimo decennio. Un’indicazione importante su cui riflettere.
Etnomedicina,
per la salvaguardia del
patrimonio locale
Da sempre l’uomo per curarsi ha attinto dal suo habitat i rimedi e ha adottato differenti strategie terapeutiche in funzione della propria cultura e delle proprie strutture sociali, oltre che delle caratteristiche climatiche, geologiche, fito-geografiche e faunistiche. Proprio perché legati a credenze e opinioni specifiche delle culture tradizionali, questi sistemi sono più facilmente accettati dalle comunità tradizionali, che invece vedono con sospetto molte delle pratiche terapeutiche collegate al sistema di cura della medicina occidentale.
Tutto l’enorme bagaglio di sapere e conoscenza legato all’etnomedicina può essere trasmesso di generazione in generazione sia dalla tradizione orale che dall’insegnamento strutturato in scuole ed università.
È un sapere smisurato che, un po’ ovunque, continua a tradursi in un immenso ricettario di rimedi naturali e tecniche di cura.
Ricordiamo, per esempio, che le popolazioni del Nord-ovest amazzonico utilizzano oltre 2mila specie vegetali; negli stati eurasiatici dell’ex-Unione Sovietica circa 2.500 piante sono impiegate a scopi medici; in Cina oltre 5.100 specie vegetali e animali sono sfruttate dalla medicina tradizionale, che copre oltre il 40% delle cure sanitarie del paese. Questi dati diventano ancora più marcati in altri contesti più poveri, soprattutto in Africa e nelle aree rurali dell’Asia, dove la medicina occidentale non è molto diffusa e comunque troppo costosa e più dell’80% della popolazione utilizza solo la farmacopea tradizionale come unico mezzo di cura primario. In Laos, Myanmar, gran parte dell’Indonesia, Vietnam e Cambogia si arriva addirittura al 90%! Questi dati rivelano una pratica che sta diventando sempre più globale, dato che nel mondo il bisogno di piante medicinali, comunemente utilizzate dalle medicine tradizionali, è triplicato nel corso dell’ultimo decennio.
Esperti, medici e scienziati sul libro paga delle ricche multinazionali del farmaco trascorrono lunghi periodi tra le culture tradizionali per apprendere pratiche e segreti atavici lavorando al fianco di sciamani, medici delle foglie, stregoni e guaritori locali. L’aspetto negativo di questo fenomeno è che le multinazionali non solo si appropriano di un patrimonio tradizionale,ma lo monopolizzano grazie a brevetti che renderebbero addirittura illegale l’uso di tali risorse naturali alle popolazioni locali.
Anche per questo il Programma di Medicina Tradizionale dell’Oms si propone di disciplinare con maggiore chiarezza questa assurda pratica. Per l’agenzia delle Nazioni Unite si tratta di una decisa risposta ai rischi e abusi del rinnovato interesse verso le risorse naturali tradizionali, attraverso la messa a punto di dettagliati sistemi di classificazione, per lo più database e registri depositati negli archivi legali dei governi, che garantiscano l’identificazione e la classificazione del patrimonio locale. È anche un modo per dire basta a truffe e a nuovi colonialismi in campo sanitario e soprattutto per promuovere un eventuale utilizzo dell’etnomedicina e del patrimonio così codificato all’interno dei servizi sanitari nazionali.
Stile di cura,
salute e malattia
Economicità, efficacia e sicurezza sono sicuramente contributi importanti che l’etnomedicina offre alla promozione della salute a livello globale. Tuttavia vi è un ulteriore fattore che ha determinato la grande diffusione di questo tipo di medicina anche nei paesi industrializzati: lo stile di cura che è caratterizzato da una visione olistica che non perde mai di vista l’uomo nella sua complessità e nella correlazione con l’ambiente naturale e socio-culturale di cui è parte. Ricordiamo che il presupposto comune a tutte le medicine tradizionali è proprio la concezione della vita come una profonda armonia tra materiale e spirituale.
È un approccio – fondato sull’applicazione delle scienze naturali e lo studio dell’influenza dell’ambiente sugli organismi – che si contrappone fortemente a quello della biomedicina occidentale che normalmente lega la malattia a una disfunzione biochimica specifica e tratta separatamente i singoli organi come le sole cause responsabili della patologia dell’individuo. Al contrario, per le medicine tradizionali, l’uomo è la perfetta rappresentazione di un’armonia profonda tra corpo, mente e spirito e la fenomenologia dell’essere sano o malato è sempre vissuta all’insegna dell’esaltazione della vita stessa. In Africa, presso molte etnie, per indicare la salute di un individuo si usano espressioni quali «avere il corpo solido» e «avere tranquillità», o meglio ancora, come indice di un benessere totale, la locuzione «avere forza fisica e spirituale».
Sebbene le etnomedicine ricorrano a un sistema basato sulla causa ed effetto, per identificare l’origine e la ragione dell’evento patologico, l’interpretazione che viene data della malattia fa riferimento spesso alla dimensione spirituale per la quale la malattia è il risultato di una rottura dello stato di equilibrio interno all’individuo o tra esso e l’ambiente in cui vive, e di cui la patologia fisica è l’effetto finale.
Medicine da esportazione
La rinnovata fiducia verso questo tipo di «approccio totale» proposto dall’etnomedicina sta determinando il successo del metodo terapeutico sud-mondista a livello mondiale. Questa fiducia è alimentata dalla convergenza di diversi fattori: nessuna tossicità dei preparati, maggior valorizzazione delle potenzialità d’autoguarigione del singolo paziente, attitudine preventiva nei confronti della salute e costi minori.
I dati recenti foiti dall’Oms nel World Health Report 2010 parlano chiaro. Il 70% degli episodi di malattia che affliggono i cittadini occidentali sono trattati, in prima istanza, all’interno della sfera della medicina popolare. Circa un quarto delle prescrizioni mediche totali, contiene principi attivi estratti dall’etnomedicina dei paesi tropicali. Ma anche: sei farmaci su dieci prodotti nei laboratori occidentali vengono ricavati, direttamente o indirettamente, dai principi naturali dei sistemi di cura del Sud. E tutto si traduce in un indotto da capogiro destinato a crescere in modo esponenziale. Si stima che, ad esempio, la sola spesa statunitense per le medicine alternative sia di circa 2.700milioni di dollari l’anno, mentre in totale il mercato globale per le nuove terapie si aggirerebbe attorno ai 60 miliardi di dollari annui.
Risorsa o business?
Cifre e ricavi miliardari a parte, l’etnofarmacologia dovrebbe essere anche, e soprattutto, una mano tesa verso i paesi del Terzo Mondo, nella speranza di aiutarli a sviluppare le loro ricchezze, non solo una fonte di guadagno facile per i monopolii farmaceutici. Anche per questa ragione numerosi stati, dalla Thailandia all’India, dal Messico al Sudafrica e al Brasile, hanno deciso di adottare le loro semplici ricette e i rimedi tradizionali, invece di ricorrere all’importazione dall’estero di costosi ed elaborati composti chimici, soprattutto fra i farmaci primari. D’altro canto le risorse naturali da cui ricavare farmaci sono distribuite nel mondo in maniera proporzionalmente inversa a quelle finanziarie. Basti pensare, ad esempio, che in Perù si contano oltre 18mila specie di piante – contro le sole 1.800 dell’Inghilterra – ma nessuna industria nazionale farmaceutica degna di questo nome. Nella sola Londra, invece, vi sono almeno due delle più grandi aziende farmaceutiche mondiali in grado di mobilitare enormi investimenti per la ricerca, naturalmente una ricerca finalizzata a produrre nuovi profitti con farmaci dal costo elevato da cui sono esclusi i paesi poveri. Eppure gli ingredienti per confezionare questa ricchezza sono patrimonio e risorsa locale della medicina tradizionale.
E per le popolazioni del Sud la coltura delle piante medicinali può rappresentare un potenziale economico non certo trascurabile, tanto più che l’utilizzo sperimentale delle stesse è ormai illimitato. Ricordiamo che nella composizione dei farmaci, circa un quarto del totale delle prescrizioni commercializzate, contiene principi attivi estratti dalle piante. E in media oltre il 60% dei farmaci globali vengono estratti dalla fitocoltura locale. Ma non solo. Composti vegetali, microrganismi e animali servono ad esempio allo sviluppo attuale dei venti farmaci più venduti negli Stati Uniti.
Recentemente alcuni paesi occidentali hanno promosso programmi sanitari in linea con le proposte dell’Oms. Alla base dei loro interventi c’è anche la consapevolezza di dover sensibilizzare un po’ tutti ad un utilizzo equo e solidale delle risorse naturali per dire no allo sfruttamento dissennato di ogni diversità biologica la quale non può essere solo ricchezza esclusiva del business e dell’industria. Tale sfruttamento ha fatto sì che in molte regioni piante tradizionali da sempre oggetto di interessi economico-sperimentali – come il Ginseng coreano o la Cordyceps sinensis, il fungo della salute e della virilità – siano ormai in via di estinzione.
Per scongiurare questo pericolo di depauperamento – e di esclusione sanitaria -, importanti associazioni inteazionali come la Forest Stewardship Council, il più grande ente mondiale di certificazione di prodotti forestali, ha dato vita ad un complesso sistema di controllo della sostenibilità delle piante medicinali. Recentemente applicato anche nell’Amazzonia brasiliana, questo metodo comincia ad essere applicato anche da alcune aziende farmaceutiche piccole e attive, come la Renaco Perù S.R.L., e grandi, come il colosso britannico Welleda Ltd, che cercano di offrire al consumatore moderno anche la sicurezza che, acquistando i loro prodotti, non solo non si danneggia l’ambiente, ma si contribuisce anche allo sviluppo economico e sostenibile della popolazione locale. Biopirateria permettendo…

di Massimo Ruggero

Massimo Ruggero




Diocesi in stato di missione

Reportage dalla diocesi di Gurúe

Creata nel 1993, Gurúe è la diocesi più giovane del Mozambico; il suo primo vescovo, mons. Manuei Chuanguira Machado, si è dimesso nel 2009 per motivi di salute; gli e succeduto mons. Francisco Lerma, primo vescovo missionario della Consolata in Mozambico: egli eredita comunità in continua fioritura, ma con ministri e leader laici bisognosi di attenzione e formazione.

«Questo è il cuore del Mozambico» spiega sorridendo mons. Francisco Lerma, mentre mostra sulla mappa il territorio della diocesi di Gurúe, di cui è vescovo da poco più di un anno. Essa occupa infatti la parte nord della Zambezia, regione centro-settentrionale del Mozambico, tra l’Oceano Indiano a est e il Malawi a ovest.
Il termine Gurúe in sé non ha nulla di glorioso (significa «cinghiale» in lingua lomwe, gruppo macua tra i più numerosi), ma esso indica anche la catena montuosa con il monte Namuli, il cui mito occupa un ruolo importante nella cosmovisione e nel ciclo vitale della società ma-cua, l’etnia più popolosa del Mozambico.
Seconda montagna più alta del Mozambico (2.419 m), la cima avvolta nel mistero per l’immaginario popolare (anche perché è sempre coperta di nuvole, spiega mons. Lerma) il Namuli è il monte sacro per eccellenza, dalle cui cavee, secondo il mito, sono discesi i primi uomini e al quale dovranno tutti ritornare: per questo i morti sono sepolti su un fianco, con la faccia rivolta verso il monte sacro. Dicendo «io vengo da Namuli» i macua esprimono tutto il significato della loro identità personale e sociale.
tè per la regina elisabetta
Grazie ai suoi monti, la regione di Gurúe era un luogo di villeggiatura, al tempo della colonia, per i portoghesi che volevano fuggire dalle calure della pianura; ancora oggi offre varie attrazioni agli appassionati di trekking, di vita a contatto con la natura, di panorami riposanti e sempreverdi, grazie alle foreste di eucaliptus e alle grandi piantagioni di tè.
A cominciare dagli anni ‘30 del secolo scorso, il territorio di Gurúe si è affermato come il maggiore produttore di tè, apprezzato a livello internazionale, esportato in Inghilterra, Stati Uniti e Canada. Durante la guerra per l’indipendenza, soldati inglesi stazionavano nell’aeroporto di Nampula per proteggere le spedizioni del «Tè di Gurúe» verso il Regno Unito. Terra fertile, quindi, quella di Gurúe, e popolosa. La diocesi si estende per oltre 42 mila kmq (come Toscana e Lazio insieme) ed ha una popolazione di oltre 2 milioni di abitanti. Un primato non indifferente, come sottolinea mons. Lerma: «Siamo nella regione più popolosa del paese, insieme a quella di Nampula. Due province tenute d’occhio dai politici, poiché insieme contano più di 7 milioni di abitanti, un terzo della popolazione mozambicana: chi vince in Zambezia e Nampula comanda in Mozambico». Terreno fertile anche per la crescita della fede, benché l’evangelizzazione sia iniziata alla fine del 1800, solo nella cittadina coloniale, per opera dei francescani portoghesi. Il resto della zona rurale dovette attendere la metà del secolo scorso, dopo la firma del Concordato e l’Accordo Missionario tra Portogallo e Santa Sede nel 1940: l’Accordo permetteva ai missionari stranieri, e non solo portoghesi, di operare nelle cosiddette «province di oltremare».
E così nel marzo 1947 arrivarono i primi missionari Dehoniani italiani e si stabilirono nella parte nord della Zambezia, a quei tempi sotto la giurisdizione della diocesi di Beira, e fondarono le prime missioni di Alto Molocue e Nauela, Invinha, Ile e Mualama (1948), Mulumbo (1949), Namarroi e Gilè (1956). L’evangelizzazione era accompagnata e corroborata dalla promozione umana, mediante scuole, ospedali, dispensari, istituzioni di formazione professionale e sociale. Ben presto si rese necessaria una nuova organizzazione ecclesiastica: la Zambezia fu distaccata da Beira e divenne diocesi di Quelimane (1954), dalla quale fu distaccata la diocesi di Gurúe nel 1993.

AFFAMATI DI… «OSTIE»
«Su 2 milioni di abitanti, quasi la metà è cattolica: 45% circa, una media superiore a quella nazionale» continua mons. Lerma, sottolineando un altro primato di Gurúe. La diocesi conta 17 parrocchie con oltre 2.200 piccole comunità cristiane.
«In questa zona, Alto Molocue -continua mons. Lerma indicando la mappa della sua diocesi – abbiamo due “parrocchiette” con 300 comunità cristiane; qui ho fatto la prima visita, anche perché è la chiesa “madre” di Gurúe; vi sono rimasto per 15 giorni e ho amministrato 3.800 cresime; è da tenere presente che il mio predecessore ha cresimato fino a due anni fa».
Visitando la parrocchia di Invinha, il parroco mi ha raccontato che essa conta 180 comunità e nel 2010 ha avuto 10 mila battezzati tra bambini e adulti. Non credevo ai miei orecchi, fino a quando non ho sfogliato i registri dei battesimi: nel 1996 i battezzati sono stati oltre 7 mila.
La spiegazione di questo fenomeno è semplice e comune ad altre diocesi del Mozambico: nonostante la guerra abbia distrutto molte missioni e impedito la presenza dei missionari nelle loro comunità, la chiesa ministeriale ha funzionato; catechisti, animatori e altri ministri laici hanno continuato a radunare i cristiani, celebrare la liturgia della parola, portare l’eu-caristia, istruire i catecumeni, amministrare battesimi, presiedere i funerali, celebrare matrimoni…
Con la fine della guerra, nonostante la mancanza di strutture e personale missionario, la chiesa ha continuato a crescere. «La missione di Naburi, per esempio, è totalmente distrutta – continua il vescovo -. L’ho visitata nel gennaio scorso e vi ho incontrato comunità che da 25 anni non vedevano un prete. La gente si lamentava ripetendo la solita antifona: “Siamo senza ostia”, cioè senza celebrazione della messa. Per tutti questi anni hanno ricevuto la comunione eucaristica grazie al lavoro dei catechisti. Dopo la fine della guerra la parrocchia è cresciuta enormemente, passando da 17 a 90 comunità. Una crescita che richiede l’apertura di nuove parrocchie».
Un’altra esperienza indimenticabile e incredibile l’ho fotografata nella parrocchia di Mulumbo: parroco, suore e vescovo mi hanno mostrato due grandi secchi di plastica pieni di ostie da consacrare durante la messa domenicale, per essere poi ritirate dai catechisti e portate nelle 180 e più comunità di cui e formata la parrocchia.

GIOIE E GRATTACAPI
La crescita delle comunità cristiane ha favorito anche l’au-mento delle vocazioni sacerdotali e alla vita consacrata. Sono molte le congregazioni religiose che hanno membri originari dell’Alta Zambezia. «La diocesi di Gurúe conta 30 preti diocesani – continua mons. Lerma -; 25 sono impegnati in diocesi, due insegnano nei seminari interdiocesani e tre sono all’estero per specializzazioni. Siamo la terza diocesi del Mozambico per numero di preti diocesani in assoluto; ma in proporzione ne avremmo bisogno di almeno cento».
Altro personale missionario è costituito da un diocesano fidei donum argentino, 18 preti religiosi, 5 fratelli, 33 suore. «Gurúe è forse l’unica diocesi in Mozambico in cui il numero delle suore è inferiore a quello dei preti:
metà delle parrocchie non ha una presenza missionaria femminile» conclude sorridendo il vescovo, passando così a enumerare i problemi della sua diocesi: «La prima grande sfida riguarda la formazione di coloro che sono a capo delle nostre comunità: sono ammirevoli per il loro impegno, svolgono un lavoro da parroci a tempo pieno, ma chi li ha formati? Da 25-30 anni non abbiamo una scuola per preparare i catechisti».
Un’altra sfida per la diocesi è la mancanza di strutture essenziali per il funzionamento di una diocesi: l’episcopio è una modesta abitazione familiare; 14 abitazioni dei preti diocesani hanno bisogno di ristrutturazioni radicali; in 4 missioni gli edifici sono totalmente distrutti, così pure vari conventi di suore, abbandonati fin dai tempi della guerra civile; quasi tutte le chiese delle , antiche missioni hanno bisogno di restauri urgenti.
La mancanza di risorse economiche si riflette soprattutto sull’attività pastorale, come spiega preoccupato il vescovo: «Per motivi economici, 17 preti sono inseriti nel sistema scolastico nazionale, lasciandoli liberi per il loro ministero specifico solo sabato e domenica. In un anno ci sono 52 settimane, ma se si sottraggono vacanze, malattie o indisposizioni, rimangono poco più di 30 fine settimana: in un anno si possono visitare 40-50 comunità al massimo, le altre restano per mesi e anni senza vedere un prete».
Alle sfide ecclesiali si aggiungono quelle di carattere sociale ed economico, comuni al resto del paese, prima tra tutti il traffico di esseri umani, lungo la strada nazionale N.1, che attraversa il Mozambico da nord a sud, passando per il territorio della diocesi di Gurúe. «Il traffico c’è ed è evidente – spiega mons. Lerma -; abbiamo avuto vari casi in cui le persone trafficate sono morte nei container. Sono migranti somali, congolesi, nigeriani… il cui miraggio è il Sudafrica, ma molti si fermano nel paese, dedicandosi al commercio o vengono sfruttati nei mega progetti; tra le vittime ci sono molte donne, destinate alla prostituzione sia nel paese che in Sudafrica; il fenomeno riguarda anche i bambini, trafficati per i più svariati scopi, compreso quello degli organi; ma di questo non possediamo ancora prove documentali. Ne abbiamo parlato recentemente a Pretoria nell’Incontro dei vescovi dell’Africa australe (Imbisa), poiché il problema dei migranti e rifugiati coinvolge tutti i paesi di questa parte del continente. Stiamo studiando il problema, con l’aiuto di associazioni che si occupano di diritti umani».
Tale traffico è favorito anche dai mega progetti delle multinazionali che stanno sfruttando le risorse naturali in varie parti del Mozambico. La regione dell’Alta Zambezia è ricca di minerali e pietre preziose, specialmente i distretti di Ile e Gilé, dove si stanno riaprendo le miniere abbandonate dai portoghesi.
«Ciò che maggiormente mi preoccupa – continua il vescovo -è che in molte zone la gente sta abbandonando le coltivazioni tradizionali per sostituirle con quelle dal denaro facile, come il tabacco, e con nuove piantagioni di imprese multinazionali, come quelle del legname teck e prodotti per biocombustibili, di cui beneficiano solo le grandi imprese. Anche di questi problemi ci stiamo preoccupando a livello di conferenza episcopale».

LE CAPRETTE DEL VESCOVO
«Priorità assoluta è stata fin dall’inizio l’attenzione ai miei preti» confessa mons. Lerma. A un mese dalla presa di possesso della diocesi, egli li ha radunati per ascoltarli e fare il punto sulla situazione. La prima constatazione è stata la mancanza di una minima struttura di accoglienza e ha subito lanciato il progetto «Casa Diocesana» nella sede di Gurúe: un ampio salone-cappella, aule per uffici diocesani e 15 stanze capaci di ospitare una trentina di persone; il salone è già in funzione, il resto è ben avviato.
Un altro evento importante è stata l’Assemblea diocesana di pastorale, tenuta a Gurúe dall’8 all’11 marzo 2011, sul tema: «Diocesi in stato di missione: evangelizzare è un dovere di ogni cristiano». Vi hanno partecipato 67 delegati tra preti, laici e religiosi. Sono stati dibattuti i problemi pastorali della diocesi ed enucleati quattro temi fondamentali da realizzare nei prossimi tre anni: comunione diocesana, evangelizzazione e catechesi, formazione degli agenti di pastorale, autosostentamento economico».
La soluzione dell’ultimo è la base per realizzare gli altri. La diocesi non ha entrate di alcun genere; ma l’autosostentamento non è impossibile, come avveniva nelle missioni antiche: esse avevano vasti appezzamenti di terreno con cui fronteggiavano l’amministrazione ordinaria. Per promuovere l’autosostentamento il vescovo ha idee chiare e le ha già lanciate. Prima di tutto bisogna recuperare i terreni delle missioni e poi sfruttarli con varie iniziative, come piantagioni di cajù (anacardio) e allevamento di bestiame. Una missione ha recuperato e rimesso in funzione un mulino; la parrocchia di Invinha ha già iniziato a valorizzare 30 ettari di terreno con l’alleva-mento di una trentina di mucche. In questa missione sono accudite anche una dozzina di «capre del vescovo».
«Ogni volta che amministro la cresima la gente mi offre grana-glie, frutta, polli e capretti;
l’ultima volta ne ho ricevuti sette» spiega sorridendo mons. Lerma. Da tale usanza ha maturato un’altra idea per l’autosufficienza economica: «Ho proposto di aumentare la tassa annuale dei fedeli da 10 a 50 meticais; la maggior parte non ha denaro, ma tutti possono contribuire in natura: miglio, fagioli, riso, capre, pollame… il ricavato dalla loro vendita serve a creare un fondo per il sostentamento ordinario del clero e della diocesi; registrando con trasparenza ciò che entra e ciò che esce».
Questo per la vita ordinaria. Per i progetti straordinari bisognerà chiedere aiuto altrove. «Ma prima dovremo riconquistare la credibilità estea, specie con la Germania – spiega serio il vescovo -. Le organizzazioni inteazionali non ci danno più un centesimo, da quando il mio predecessore, colpito da un ictus nel 2001, non è stato più in grado di rendere conto dei finanziamenti ricevuti per vari progetti: questi non sono stati realizzati e i soldi non ci sono più. Ho spiegato la situazione ai donatori, chiedendo di mettere una pietra sul passato. Ho detto loro che non ho alcuna intenzione di indagare su dove sono finiti i loro aiuti: sono stato mandato qui come padre e pastore, non come giudice inquisitore. D’ora in poi useremo la massima trasparenza. È quello che ho chiesto anche ai miei preti. E qualche organizzazione mi ha ringraziato per la chiarezza e sincerità».

di Benedetto Bellesi

Benedetto Bellesi




Confesssioni atomiche

Test nucleari e diritti degli aborigeni

All’indomani delle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki inizia la corsa agli armamenti nucleari. Ma la conoscenza degli effetti devastanti degli ordigni atomici è ancora limitata. Le super potenze si lanciano in sperimentazioni molto pericolose. La Gran Bretagna sceglie l’Australia come terreno per i suoi test.  Le radiazioni contaminano intere aree.  All’insaputa degli aborigeni e degli stessi militari che compiono le esercitazioni.

Australia: paese di canguri saltellanti e di pigri koala arrampicati sugli alberi, barriere coralline di incredibili colori, di deserti, dell’Opera di Sydney, numerosa comunità italiana. Certo non ci viene in mente di associare questa grande nazione all’inquinamento radioattivo. Invece proprio lì, nei passati decenni, si sono svolti esperimenti militari che hanno prodotto pesanti conseguenze sull’ambiente e sulla popolazione, in particolare quella aborigena.

corsa al nucleare
Subito dopo le esplosioni nucleari che distrussero Hiroshima e Nagasaki, ponendo fine al secondo conflitto mondiale, si sviluppò una fiera competizione tra il blocco occidentale e quello comunista per realizzare nuovi armamenti, in quella che è stata definita «Guerra fredda». Nel giro di pochi anni sempre più potenze si dotarono di bombe atomiche. Prima furono quelle cosiddette «a fissione», seguite da quelle «a fusione» (o all’idrogeno).
In queste ultime si sfruttava addirittura l’esplosione di una bomba atomica come quella di Hiroshima per indurre la fusione nucleare di nuclei leggeri di isotopi dell’idrogeno, in un processo analogo a quello che fa risplendere il sole. La potenza raggiungibile con questo secondo tipo di ordigni era teoricamente illimitata, ciò che comprensibilmente suscitò gli entusiasmi dei leader militari.
Ma affinché i militari potessero davvero fare totale affidamento sugli ordigni nucleari, era indispensabile verificarne le caratteristiche in tutti i possibili teatri e condizioni di impiego. Inoltre bisognava capire cosa le truppe avrebbero potuto fare su un terreno di battaglia che avesse visto l’impiego dell’arsenale atomico.  I soldati sarebbero riusciti ad operare con efficacia in un ambiente in cui fossero presenti rilevanti radiazioni a seguito dell’esplosione di un ordigno nucleare? O sarebbero invece caduti in uno stato di prostrazione e di incapacità? L’unico modo per chiarire questi punti importanti era di procedere a degli esperimenti, con cui appurare le varie questioni in sospeso.

Test «quasi» segreti
Tutte le potenze atomiche iniziarono quindi ad effettuare dei test, sia per meglio comprendere il funzionamento tecnico delle bombe, sia per verificare la loro compatibilità con lo svolgimento di normali operazioni militari di guerra. I test vennero svolti in territori poco o per nulla abitati. Nel caso della Gran Bretagna, considerando impossibile trovare una località adatta nella madrepatria, si decise di svolgere gli esperimenti in Australia.
Questo enorme paese aveva con Londra un rapporto di colonia dotata di autogoverno, soggetta -almeno in teoria – alla legislazione che il parlamento britannico aveva elaborato specificamente per lei.
È possibile capire facilmente quale fosse l’atteggiamento delle autorità militari e dei governi del tempo – inizio anni ‘50 – impegnati a sviluppare, perfezionare e impratichirsi con le armi nucleari. Ma anche quali fossero le priorità, le misure cautelative, le conseguenze inattese, per evitare le quali non si era certo fatto tutto il possibile. Il tema è trattato nel documentario
Australian Atomic Confessions, della regista australiana Katherine Aigner.

da londra a camberra
Per cominciare, chiediamoci perché i britannici decisero di testare proprio in Australia e non in casa propria. Questo immenso territorio presentava innanzitutto molte zone poco o per nulla abitate; in secondo luogo era stato una colonia che ancora aveva fortissimi legami con Londra. Gli australiani erano molto decisi a cercare di essere più inglesi degli inglesi e a fare la loro parte nella titanica sfida che vedeva l’Occidente capitalista contrapposto al mondo comunista. Gli australiani se l’erano vista brutta pochi anni prima, quando le forze armate giapponesi erano arrivate sulla loro porta di casa, avendo sbaragliato le truppe britanniche di stanza a Singapore. Lo sviluppo di un armamento nucleare era visto come essenziale per garantire che analoghe minacce all’integrità territoriale australiana non si riproponessero.
Ricordiamo anche come negli anni ’50 le conoscenze sull’effetto delle radiazioni ionizzanti sull’organismo umano avevano sì fatto molti progressi, specie studiando le vittime e i sopravvissuti dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, ma molto rimaneva ancora da scoprire. In particolare non era chiaro se dei soldati avrebbero potuto operare efficacemente su un teatro di battaglia ove, poco prima, fossero state fatte detonare bombe nucleari. Nemmeno era chiaro come e quanto gli edifici e altre realizzazioni tecniche avrebbero potuto resistere in caso di un’esplosione nucleare. I test sperimentali servivano anche per colmare questi buchi conoscitivi.

aborigeni inconsapevoli
I primi esperimenti vennero condotti sulle isole Monte Bello, al largo della costa occidentale dell’Australia. Altri ad Emu Field, nella parte occidentale dello stato dell’Australia del Sud. Un terzo gruppo infine nel sito di Maralinga, un nome che nella lingua degli aborigeni voleva dire, quasi profeticamente, «I campi del tuono», nel medesimo stato.
Se le isole Monte Bello erano disabitate, le zone dell’Australia del Sud erano popolate da gruppi di aborigeni nomadi. Nonostante gli sforzi delle autorità di evacuare le zone prossime ai poligoni militari, alcune famiglie aborigene non vennero individuate e si trovarono esposte alla ricaduta radioattiva (fallout) successiva alle esplosioni.
Queste sfortunate persone erano particolarmente vulnerabili, non avendo comprensione alcuna di quel che stava succedendo nei loro territori. Capitò così che alcune famiglie si recassero a prendere acqua da bere (una risorsa particolarmente scarsa in quelle zone) nei crateri vetrificati – e pertanto impermeabilizzati e capaci di trattenere le scarse piogge – prodotti dagli scoppi atomici e per questo quanto mai radioattivi.
Molti aborigeni si ammalarono e morirono, vittime di una nuova, subdola epidemia provocata da altri uomini.
«Al tempo dei test gli aborigeni si sono sentiti trattati alla stregua di animali da esperimento. Come conseguenze dell’esposizione alla ricaduta radioattiva dovuta ai test nucleari, molti morirono, altri ebbero malattie gravi, taluni rimasero ciechi» racconta la regista Katherine Aigner.
Pochi in Australia e altrove si preoccuparono, dato che, in quel periodo, sostanzialmente era nullo il peso politico degli aborigeni ed anzi venivano da molti considerati poco più che animali (vedi box).
Katherine Aigner ricorda con particolare emozione il racconto della professoressa universitaria di origine aborigena (una delle poche) Rebecca Bear-Winfield, nata con tre ovaie e incapace di procreare, dopo che sua madre venne esposta alla ricaduta radioattiva, che si presentava come una «nebbiolina nera». Secondo la regista non è esagerato parlare di un genocidio nei confronti della gente aborigena, dato che in tal modo si è andati a colpire anche le future generazioni.

Militari allo sbaraglio
Se il cinico sacrificio degli aborigeni può non sorprendere, visto il clima ideologico e culturale che si viveva in quegli anni a Camberra e dintorni, più scioccante è vedere con quale leggerezza venissero esposte alle radiazioni ionizzanti le truppe inglesi e australiane. Nel film di Katherine Aigner le interviste ai testimoni diretti non lasciano adito a dubbi: soldati, aviatori e altri addetti ai poligoni vennero inviati a lavorare in zone dove le dosi di radiazioni ricevute erano elevate e tali da causare alti rischi.
«I militari che parteciparono ai test confermano che ci fu una pesante mancanza di informazione anche per loro, figuriamoci per gli aborigeni! Comparvero molte patologie come cancri e altre malattie, non solo ai militari – continua la regista – ma anche ai loro discendenti. E se i soldati erano forse pure disposti a sacrificare la loro vita per la propria nazione, certo si sono alquanto preoccupati nel vedere che problemi gravi si sono presentati nei loro figli e nei loro nipoti. I danni sono avvenuti a livello del Dna, sebbene fossero stati rassicurati che non ci sarebbe stato nessun problema. Però questa era nient’altro che una grande bugia».
Personale australiano venne mandato a «ground zero», nel luogo esatto della detonazione atomica, meno di mezz’ora dopo lo scoppio, quando i livelli di radiazione erano alle stelle. Aerei da rilevamento attraversarono le nuvole di materiale radioattivo sollevate in atmosfera. Le contaminazioni furono talmente elevate, che gli aerei vennero seppelliti, non essendo possibile decontaminarli. I piloti furono lavati nel miglior modo possibile e poi rassicurati che nulla sarebbe a loro successo.
Sta di fatto che i veterani atomici subirono gravi danni alla salute e solo in rarissimi casi hanno visto questo riconosciuto come dovuto a cause di servizio.

Non solo Australia
Ma i test atomici non hanno causato problemi di salute solo ai militari. Buona parte del territorio australiano ha ricevuto ricadute radioattive, sebbene di varia intensità. Il pubblico è stato informato poco e male, ricevendo sempre l’assicurazione che «tutto è sotto controllo».
La ragione di stato e gli imperativi militari hanno portato a considerare i propri soldati e cittadini poco più che «strumenti usa e getta», sacrificabili, se necessario, in un gioco di potere planetario a fronte del quale venivano piegati e abbandonati gli stessi ideali e valori fondamentali di uno stato democratico.
E non si pensi che questo tipo di comportamenti spietati e cinici sia avvenuto solo in Australia. Ritroviamo infatti situazioni del tutto analoghe per i test effettuati dai cinesi nella provincia occidentale dello Xinjiang, popolata da irrequiete minoranze etniche, dai francesi in Algeria e in atolli quali Mururoa, Fangataufa e Hao, dagli americani nel Pacifico (Bikini, Eniwetok, Johnston, Christmas), dai sovietici in Kazakistan e in Siberia.
Fatti e storie sempre tenute nascoste al mondo e raramente denunciate.

di Mirco Elena

Mirco Elena




La croce e la spada

I rapporti tra Lega Nord e Chiesa cattolica

L’attacco all’unità nazionale e il rifiuto del diverso. In 20 anni la posizione della Lega è rimasta costante. E la strategia nei confronti della chiesa è chiara: aggressioni a gerarchie e associazioni impegnate nell’accoglienza. Ma anche prese di posizione in favore di «valori non negoziabili». Il cattolicesimo della Lega è pre-conciliare, tradizionalista e strumentale. In antitesi all’«essere cristiano» di oggi.
Ce lo racconta Paolo Bertezzolo autore di un interessante saggio sul tema.

«Lega Nord per l’indipendenza della Padania» recita il sito Inteet del movimento politico fondato da Umberto Bossi.
Vi navighiamo allo scopo di trovare lo statuto del partito citato nell’ultimo libro di Paolo Bertezzolo, «Padroni a Chiesa nostra. Vent’anni di strategia religiosa della Lega Nord», edito dalla Emi. Leggiamo nell’articolo 1 del testo attualmente in vigore, approvato nel marzo 2002: «Il Movimento politico denominato “Lega Nord per l’Indipendenza della Padania” […], ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana».
L’attacco all’unità nazionale, dichiarato dal movimento leghista a chiare lettere, costituisce uno dei principali motivi di contrasto tra la Lega e la Chiesa cattolica fin dalla fine degli anni ‘80, insieme al rifiuto xenofobo del «diverso», straniero, meridionale, rom, extracomunitario o islamico che sia.
Paolo Bertezzolo nel suo volume che ripercorre la storia del più longevo partito politico italiano presente oggi in parlamento, scrive anche di questo. E ne scrive perché la tesi del suo lavoro, ampiamente dimostrata, è proprio quella che negli ultimi 20 anni ci sia stata, e ci sia, una strategia leghista molto precisa nei riguardi della Chiesa. Attacchi alle gerarchie e ad alcune organizzazioni cattoliche schierate per l’unità nazionale e impegnate nell’accoglienza degli stranieri, ma anche ammiccamenti, espliciti corteggiamenti e forti prese di posizione in favore di alcuni «valori non negoziabili»: la famiglia tradizionale, l’obiezione all’aborto, le radici cristiane dell’Italia e dell’Europa, la difesa del crocifisso.
Fatto di attacchi, a volte molto violenti e spesso irriverenti, ma anche di dichiarazioni e atti di fedeltà alla «cristianità», l’atteggiamento leghista verso la Chiesa è lontano dall’essere contraddittorio: la Lega si fa amica della Chiesa e allo stesso tempo sua oppositrice al fine di mostrarsi come autentica detentrice della tradizione cristiana più della Chiesa stessa. Le apparenti contraddizioni trovano la loro coerenza nella volontà «totalizzante» della Lega di assorbire in sé tutte le caratteristiche identitarie delle comunità che vuole rappresentare, quindi anche quella religiosa. I valori religiosi ed etici diventano meri valori culturali con il fine di costruire l’identità «padana», di avere un sempre maggiore potere simbolico e consenso elettorale. In questa strategia, efficace nell’intercettare il sentimento «popolare», anche grazie ad un forte radicamento della Lega sul territorio, la Chiesa è costantemente sotto l’attacco di una pericolosa strumentalizzazione politica.
Bertezzolo con il suo ampio lavoro, oltre ad indicare in modo chiaro l’esistenza di una strategia leghista volta a conquistare il «terreno» della Chiesa, sembra volerla invitare a vegliare per non lasciarsi sopraffare. Ma anche a non lasciarsi vincere dalla tentazione di strumentalizzare a sua volta le posizioni leghiste più vicine alle proprie, al fine di promuovere a livello politico e istituzionale ciò che le sta a cuore, con rischi sul piano della fede e della fedeltà al Concilio Vaticano II. Se per un partito politico come quello «bossiano» infatti il fine (il consenso elettorale, il potere) giustifica i mezzi (invettiva anticlericale e vezzeggiamento «ultracattolico»), per la Chiesa, sembra dirci Bertezzolo, il fine (l’annuncio di Dio amore e salvatore del mondo) e i mezzi devono essere coerenti, pena il tradimento del Vangelo.

Innanzitutto ci dica qualcosa
di lei.
«Attualmente sono pensionato. Il mio lavoro è stato, prima di insegnante di storia e filosofia nei licei, poi di preside: ho diretto un liceo a Verona per una ventina d’anni. Mi sono sempre impegnato nel campo sociale, civile. Alla fine degli anni ‘70 sono stato presidente provinciale delle Acli (Associazioni cristiane lavoratori italiani) a Verona; sono stato impegnato in Pax Christi; ho avuto anche una fase di impegno politico che mi ha portato in parlamento per una legislatura a inizio anni ‘90.
Ho sempre cercato di conciliare l’attività professionale con quella dell’impegno civile».

Come nasce l’idea d’indagare  la strategia religiosa della Lega?
«È stata un’idea della casa editrice. Una proposta del direttore editoriale, Pier Maria Mazzola, che ho accolto con entusiasmo. Questo libro mi è stato molto utile, perché mi ha dato l’occasione di riflettere a fondo su più di vent’anni della storia civile, politica e religiosa del nostro paese».

Lei vive vicino a Verona. Come vede relazionarsi la Lega con la Chiesa locale?
«La Lega si sta diffondendo sul territorio a macchia di leopardo. Ci sono alcune realtà ecclesiali in cui è particolarmente presente e ascoltata, alcune in cui è assente, altre in cui vive situazioni di conflitto col parroco, coi laici impegnati. Però in generale assisto ad una sua progressiva espansione all’interno delle comunità parrocchiali, sia in Veneto che in Lombardia: le due regioni in cui la Lega è storicamente più presente».

Qual è la concezione religiosa della Lega Nord?
«Il leghismo è portatore di una visione cristiana tradizionalista, di tipo lefebvriano e, direi, anticonciliare, che si rifà al modello di cattolicesimo di Pio V, il papa della Lega Santa che nel 1571 batté l’impero ottomano nella battaglia di Lepanto. Questo a mio avviso crea un problema molto serio per la Chiesa, perché ritengo, come sostengono il vaticanista del Tg1 Aldo Maria Valli, e un dossier pubblicato da «Missione Oggi», che le posizioni del cattolicesimo leghista siano assolutamente inconciliabili con il cattolicesimo del Vaticano II. La Chiesa oggi si trova di fronte ad un bivio: far prevalere i cosiddetti valori non negoziabili, quelli connessi al grande tema della vita, oppure i valori della solidarietà, dell’accoglienza, dell’attenzione all’ultimo, quelli legati alla carità cristiana. Far prevalere le tendenze che portano verso un accordo con la Lega, o no?
Io credo che si sia espresso molto bene monsignor Luigi Bettazzi (vescovo emerito di Ivrea, ndr), il quale dice che la difesa della vita, l’attenzione alle tematiche bioetiche, non possono essere disgiunte dalla caritas. L’una non può stare senza l’altra. Prendendo solo uno dei due aspetti si tradisce il Vangelo.
La Lega è disponibile a difendere le tematiche del primo ambito, ma non le seconde».

Nel suo libro questo risulta molto chiaro: da un lato la Lega attacca, anche violentemente, la Chiesa quando essa è a favore dell’unità solidale dell’Italia e per l’accoglienza degli ultimi, immigrati. Dall’altro fiancheggia la Chiesa, ne prende le parti quando si tratta di difendere le radici cristiane, la famiglia tradizionale, di rifiutare l’aborto e così via.
«Certo. Su questo si rende evidente l’inconciliabilità della Lega con la Chiesa. La Lega non è assolutamente disponibile ad aprirsi alla caritas. Per essa è costitutivo il rifiuto del diverso e il richiamo all’identità dei popoli “padani”, anche se questi sono un’entità di difficile identificazione territoriale ed etnica.
Non per niente la Lega rimpiange Lepanto, perché ha una visione crociata del rapporto con la realtà territoriale, con le diversità culturali, con gli islamici. Per la Lega “gli infedeli” sono da combattere.
Da un punto di vista cristiano, invece, io non posso combattere l’infedele. Per fortuna questo l’abbiamo capito. Lo sancisce il Concilio, ma ce lo dice tutta la Parola di Dio: questo deve creare dei problemi con le posizioni leghiste».

C’è nella Lega una strategia precisa, una strumentalizzazione delle tematiche etiche, religiose, cristiane, a fini politici. Secondo lei c’è consapevolezza di questo nella Chiesa?
«In parte questa consapevolezza c’è. Faccio riferimento alle posizioni dei due grandi arcivescovi di Milano, che non a caso sono il primo e grande bersaglio – il cardinal Tettamanzi lo è tutt’ora – degli strali della Lega.
Sia Martini, sia Tettamanzi, hanno mostrato con lucida chiarezza e grandissima coerenza cristiana, l’inconciliabilità delle posizioni leghiste con l’essenza dell’annuncio cristiano, che è un annuncio di accoglienza. Dello straniero, del diverso. Questa non è nient’altro che la parola di Dio, il messaggio biblico: “Ricordati che tu sei stato straniero”. L’esodo ci appartiene come credenti.
Secondo me, invece, un’altra parte di Chiesa, compresi alcuni esponenti della gerarchia, vede con attenzione, anche se forse non con condivisione, le posizioni leghiste, perché funzionali a una difesa dei valori cristiani “più tradizionali”, e di quelli legati alle grandi questioni della bioetica.
Il segno di contraddizione passa da qui: noi possiamo sostenere la difesa intransigente dei valori della vita fino ad allearci con chi costituisce l’antitesi del messaggio cristiano dell’accoglienza?
Secondo me la grande sfida che la Chiesa ha presente oggi è: qual è il rapporto che deve avere con la realtà storica, temporale, quindi anche politica?  Come declinare i suoi valori dal punto di vista politico?
Su questo punto credo che vada fatta una grande opera: io vorrei il coraggio evangelico del confronto con la parola di Dio. Che cosa ci dice essa a questo proposito? È più importante una legge che, nel versante delicatissimo del “fine vita”, corrisponda all’interpretazione che la Chiesa dà di esso, o il fatto che il messaggio dirompente del Vangelo arrivi alle coscienze, lasciando che esse animate, vivificate dalla parola di Dio, si muovano con la libertà che spetta ai figli di Dio e che tutta la Bibbia riconosce loro?
Fino a che punto la testimonianza, il messaggio cristiano può e deve identificarsi con la legislazione dello stato, di uno stato che è pluralista?
La Chiesa che crede nell’utilizzo della legge, dell’istituzione, per far passare il proprio messaggio può arrivare ad un accordo con la Lega. Ma il messaggio che passa attraverso le leggi è il messaggio cristiano?
Io sinceramente temo di no.
Queste sono sfide grandissime oggi. Mi piacerebbe che i nostri vescovi, i nostri preti e noi laici ci confrontassimo su queste tematiche che sono quelle dell’annuncio del Vangelo».

Potrebbe, in poche battute, indicarci qual è la sostanza del suo libro?
«Ho voluto dimostrare che c’è un cammino storico, documentato a partire dalla fine degli anni Ottanta fino al dicembre del 2010, in cui la Lega non ha mai mutato le proprie posizioni, i suoi principi non negoziabili: come quello dell’affermazione di una realtà territoriale, chiamata a volte Padania, a volte Nord, da separare dal resto del paese e costituire come stato indipendente riconosciuto a livello internazionale, come dice l’articolo 1 dello statuto della Lega. E ho voluto mettere in luce come la Chiesa, nelle sue varie articolazioni, si è proposta nei confronti di questa sfida dirompente che rischia di squassare l’assetto istituzionale, politico, sociale, culturale, religioso, del nostro paese.
La Chiesa ha modificato il suo percorso, la Lega no. C’è una prima fase in cui la Chiesa si è opposta radicalmente e in toto alla Lega, seguita da una lenta evoluzione in cui, alla sua opposizione sempre intransigente e chiara sulle questioni dell’unità nazionale e dell’accoglienza dello straniero, si è affiancato un atteggiamento di attenzione, non dico consonante, e neanche simpatetico, se non in alcune frange della Chiesa, ma favorevole nei confronti della Lega, vista come baluardo della tradizione cattolica, e in particolare come forza politica utilizzabile nella battaglia sulle questioni bioetiche».

Verso la conclusione del libro scrive: «In gioco è la fedeltà al concilio».
«Se la Lega diventasse sul serio un interlocutore della Chiesa, questo avverrebbe a scapito del concilio: la Lega è infatti una forza esplicitamente anticonciliare.
Oggi l’essere cristiano è radicalmente messo in discussione. Il Concilio è l’annuncio della parola di Dio nel ventesimo e nel ventunesimo secolo: oggi non si può pensare all’annuncio di una fede cristiana, cattolica, che prescinda dal concilio.
La Lega mette in discussione proprio questo. Essa è a favore di un cattolicesimo tradizionalista, identitario. Concepisce il cattolicesimo come mera componente dell’identità territoriale che vuole costruire, il Nord, la Padania, con un carattere di forte esclusione del diverso, l’immigrato, l’uomo, la donna che proviene dal terzo mondo, l’islamico in particolare».

È impressionante la mole di dichiarazioni da parte di esponenti leghisti volte ad affermare il ruolo della Lega di autentica custode della tradizione cristiana, in contrapposizione ad una Chiesa invece spesso incolpata di tradire quella stessa tradizione.
«La Lega è un partito totalizzante. Su questo io non ho dubbi.
Ciò significa che si propone come soggetto che dà vita, in se stessa, a tutte le possibili espressioni del territorio, quindi la cultura – nella sua accezione identitaria, ricercata a volte in aspetti piuttosto grossolani – , ma anche la religione in quanto parte di un’identità etnica tutta da inventare. In questo senso quindi la Lega non è affatto pluralista né laica, e punta ad assorbire in sé anche l’espressione religiosa cattolica.
Quando la Lega si dice “cattolica”, lo fa in questo senso. Non per niente lo fa in chiave anticonciliare, perché il concilio è il trionfo della visione laica, pluralista, del rispetto delle altre confessioni religiose e dei non credenti».

Lei come vede il futuro del movimento leghista?
«La Lega in questo ultimo anno a livello istituzionale sta dimostrando una moderazione che non è propria della sua storia. Bisognerebbe capire che cosa questo significhi: se siamo in presenza di un’evoluzione moderata, cioè di una Lega che pur rimanendo una forza politica territoriale accetta di far parte di uno stato costituzionale, accettando la Costituzione italiana ed i principi che sono presenti in essa, compresi quelli della laicità e del pluralismo, o se, per l’ennesima volta, siamo in presenza di una scelta tattica. Oggi la Lega vive un momento politicamente molto debole, dovuto alla crisi del modello berlusconiano, e fà proprio un moderatismo tattico per attraversare il guado di questa difficile fase politica in cui deve comunque portare a casa dei risultati, come le norme sul federalismo.
Io mi auguro fortemente che sia in corso un’evoluzione del primo tipo, cioè la trasformazione della Lega, pur lenta e difficile, in una forza territoriale moderata, un po’ sull’esempio della democrazia cristiana bavarese: forza regionale, ma costituzionale e democratica. Però c’è ancora molto cammino da fare. Qualche segnale – io sono sempre ottimista – che possa farci pensare ad una evoluzione democratica della Lega non nego che ci sia. Ma viviamo una fase complessa, di transizione molto difficile, drammatica, del nostro paese».

di Luca Lorusso

Luca Lorusso