Missionario fino alla fine

Padre Bruno Del Piero e il Caquetá


Conosco padre Bruno da sempre perché sono nato nel suo paese
d’origine, Roveredo in Piano, un abitato tranquillo nella campagna pordenonese.
Per noi del paese è come se non fosse mai partito. Anche dopo 52 anni di
Colombia era con noi, ogni momento. Lo amavamo tutti. E lui era riuscito a
farci sentire parte del suo mondo. Per questo nel 2012 sono andato una prima
volta nel Caquetá: per passare qualche settimana con il «nostro missionario» e
conoscerlo da vicino.

Clicca sulla foto
per leggere tutto nel pdf sfogliabile

Da quel primo assaggio nel 2012, è nata in me la
voglia di sapere di più, di conoscere e condividere quanto desideravo scoprire
sull’avventura missionaria della Consolata in Caquetá. Volevo scrivere della
storia corale di quella missione sui fiumi e nella foresta.

Incoraggiato
da padre Bruno, sono tornato in Caquetá per raccogliere materiale, libri,
documenti e testimonianze intervistando uomini e donne, missionari e non, che
hanno condiviso con padre Bruno più di cinquant’anni d’impegno per il prossimo
in una terra di frontiera di grandi speranze e contraddizioni.

Per
fare tutto questo, ho iniziato a vivere con padre Bruno nella parrocchia del
Torasso, a Florencia, la capitale della regione del Caquetà, la città che il 26
aprile 1952 aveva accolto il primo vescovo della Consolata in Colombia,
l’indimenticabile mons. Antonio Maria Torasso (1914-1960).

Florencia
è una città che vive grazie all’infaticabile opera dei missionari della
Consolata, che hanno plasmato queste regioni, le hanno portate al loro sviluppo
attuale, lavorando a tutto tondo nel sociale, nell’istruzione, nella sanità e
nello spirituale, facendo «il bene, bene» come esigeva il beato Allamano,
fondatore dell’Istituto. E vi assicuro che là il bene è stato fatto davvero
bene. Non lo dico io. Lo dice la riconoscenza della gente, l’affetto verso i
missionari; lo diceva, non a parole, la figura di padre Bruno: con i fatti, il
comportamento, le azioni, il suo spirito, il suo impegno, dal giorno del suo
arrivo fino ai suoi ultimi passi.

Vivendo
a Florencia non avrei mai pensato che avrei condiviso con padre Bruno i suoi
ultimi sei mesi di vita. Per me, che ora scrivo cercando di trattenere
l’emozione, era stato preparato un disegno più grande di quello per il quale
pensavo di essere partito. In Colombia si dice: «Diós sabe como hace sús cosas»
(Dio sa come fa le sue cose).

Padre
Bruno ha lasciato questo mondo e il suo Caquetá il 16 aprile 2014, mercoledì
santo. La sua morte è stata repentina e inaspettata perché aveva una salute di
ferro, era un uomo fortissimo, di quelli che non si vedono più. «È finita la
fabbrica», diceva quando la mia salute zoppicava nell’adattarsi all’ambiente
tropicale così diverso dal nostro. Ci ha lasciati per un infarto diabetico, ma
fino a poco prima stava bene.

E non
solo stava bene, ma continuava a darmi esempio di come bisogna essere «prima
santi e poi missionari», sempre secondo i dettami lasciati dal beato Giuseppe
Allamano.

Quell’ultima sera, prima della corsa all’ospedale:
«Alberto – mi ha detto -, credo di essermi stancato troppo. Pur non sentendomi
in forze ho celebrato la messa, in latino, più di un’ora nella cappella, poi ho
recitato tutto il breviario e infine ho letto un lungo articolo sulla nostra
Chiesa».

Questo
era padre Bruno, come è stato detto alle sue esequie: «Un uomo di Dio, un uomo
della Chiesa, un uomo della gente».

Dal
giorno della sua ordinazione, il 18 marzo 1961, vigilia della festa dell’amato
San Giuseppe, non aveva trascurato neppure un giorno la celebrazione della
messa e la recita del breviario. Era da lì che traeva la sua forza, lì temprava
il suo spirito. Grazie a quel supporto quotidiano era riuscito a superare tutte
le difficoltà della missione, come la mancanza della pace nelle regioni
colombiane in cui ha lavorato, gli assassinii, i problemi sociali. Lui non solo
aveva costruito scuole e chiese, ma aveva contribuito a porre le basi di una
società più fratea. Aveva superato tutto grazie a fondamenta solide: l’amore
per Dio e per la Chiesa, che diventavano amore incondizionato e gratuito per la
gente. Era questo che, agli occhi di uno come me, lo elevava sopra gli altri,
lo rendeva un grande, pur nella sua estrema umiltà.

Già due anni fa mi aveva stupito l’amore che la
gente comune aveva per padre Bruno, l’infinita riconoscenza di generazioni di
persone che lo fermavano in ogni strada per ringraziarlo, per salutarlo, per
chiedere una sua benedizione. Nei sei mesi con lui ho capito il perché di tale
amore.

Padre
Bruno era instancabile, era sempre disponibile per tutti, chiunque venisse al
Torasso con qualsiasi tipo di richiesta era sempre accolto e sostenuto dal suo
sorriso. Era sempre di buon umore e lo trasmetteva agli altri. Anche questo
elemento faceva parte della sua forza. Pur avendo ottantadue anni, si svegliava
ogni mattina alle 4.30 e, dopo un’ora di preghiera, andava all’ospedale per
celebrare la messa e visitare tutti i malati. Mai, in sei mesi, l’ho sentito
dire una volta che era stanco.

Così padre Bruno ha fatto per quasi 52 anni, da
quel 15 novembre 1962 nel quale era arrivato a Florencia, nel suo Caquetá.

Come
hanno detto in moltissimi: mezzo secolo di missione nel quale non si è mai
risparmiato, nel quale ha percorso in lungo e in largo la natura selvaggia del
Sud della Colombia, a piedi, a cavallo, in barca, per raggiungere anche i più
lontani, gli ultimi. Parroco in quasi tutti i centri abitati del Caquetá,
fondatore di città, paesi e di innumerevoli chiese e cappelle. Missionario
vero. L’aveva nel sangue la passione per la missione, una passione che
alimentava a ogni Eucaristia.

L’amore
della gente si è manifestato in modo folgorante nei giorni in cui padre Bruno è
tornato al Padre. Sono stati giorni in cui il cordoglio e l’affetto avvolgevano
chiunque e si potevano toccare, giorni in cui le chiese non riuscivano a
contenere le persone, tutte con gli occhi lucidi carichi di stima e
riconoscenza.

È stato davvero emozionante ed edificante partecipare a
quei gesti di affetto tributati da gente di ogni età e ceto a colui che ha
guidato e sorretto il loro cammino per più di cinquant’anni, consumando se
stesso fino alla fine. Che bello vedere come il seme da lui piantato abbia
fruttificato rigogliosamente e si sia moltiplicato nella gente di quelle
regioni. Che bello aver già visto nascere, in nome di padre Bruno, delle
fondazioni per l’aiuto dei poveri, degli ammalati e dei più bisognosi, i suoi
prediletti che ora potranno continuare a ricevere un sostegno proprio grazie
alle persone formate da lui alla buona vita del Vangelo.

Ho avuto il dono di vivere tutto questo in prima
persona. Andato laggiù per frugare nella sua vita, scoprire il segreto della
sua passione missionaria, mi sono trovato ad accompagnarlo alla sua ultima
tappa e a dover rappresentare anche la sua famiglia e il paese che, a causa
della morte così inaspettata, non hanno potuto essere presenti. Ed ero lì non
solo per condividere il dolore di chi lo aveva perso, ma anche la gioia di chi
ha avuto la possibilità di conoscerlo, di conoscere, come dicevano tutti, «un
Santo». Tutti coloro per i quali ha donato se stesso dicono e ridicono che è un
santo.

Padre
Bruno non è stato soltanto un grande missionario, è stato un uomo esemplare per
i valori che viveva con forza e trasmetteva con la testimonianza, per l’impegno
che metteva in ogni singola cosa, per la totale gratuità di ogni suo gesto
rivolto agli altri, per l’elevatezza della sua spiritualità, per la sua
purezza, la sua rettitudine.

Lla sua forza aveva basi solidissime, e padre
Bruno me l’ha dimostrato fino all’ultimo, quando, nella corsa in taxi verso
l’ospedale dopo il malore, mi ha sussurrato le sue ultime parole: «Sono gli
ultimi rantoli prima della morte», rivelatrici della sua intima consapevolezza,
tranquillità, serenità e dell’assenza di ogni timore. Era pronto a passare a
quella vita cui, mettendoci tutto il suo impegno, aveva anelato per
ottant’anni.

In
quell’occasione mi è diventato chiaro un altro episodio vissuto in Caquetá. Era
Natale del 2013. Uscivo da casa per andare in chiesa a festeggiare la nascita
di Gesù. Ero contento perché avevo appena ricevuto la bella notizia che la
moglie di un mio carissimo amico aspettava una bambina. Appena fuori mi hanno
chiamato le suore: una di loro si era sentita male ed era morta, lì, di colpo.
Allora sono corso a chiamare padre Bruno che è arrivato per impartire l’ultimo
sacramento. Io mi sentivo stranito perché in pochi secondi ero passato dalla
notizia di una nascita a quella di una morte. Mi sono poi confidato con padre
Bruno, e lui mi ha detto: «Caro Alberto, non è come la vedi tu. Oggi hai
assistito a due nascite: una per questo mondo, una per l’altro».

Così
padre Bruno vedeva la morte, e anche la propria. Per questo era sereno, pronto,
in pace. Lui stava per nascere nuovamente fra le braccia del Dio che aveva
tanto amato, teso a raggiungere la Consolata e San Giuseppe che l’avevano
protetto nelle sue mille avventure, come i suoi genitori che, non a caso, si
chiamavano Giuseppe e Maria.

Nel
periodo di Pasqua ho scoperto quindi che quelle «nascite» di Natale erano per
me solo una preparazione a ciò che avrei dovuto affrontare durante la Settimana
Santa. Quello che avevo iniziato a capire allora, adesso è diventato più
chiaro.

Padre Bruno Del Piero giace a Cartagena del Chairá,
paese di cui è stato cofondatore, alla base della croce che egli stesso aveva
costruito a lato della cappella del
cimitero. Come è stato detto nei giorni della sua «seconda nascita», nel Caquetá
sono certi che dalla tomba di padre Bruno fioriranno vocazioni, che quel
sepolcro si convertirà in un luogo di pellegrinaggio. Ed è già così. Da ogni
parte migliaia di persone continuano ad arrivare per ringraziare padre Bruno
per tutto quello che ha donato, fino all’ultimo, fino al regalo estremo del suo
corpo affidato alla terra su cui ha fatto nascere e crescere per cinquant’anni
chiese, paesi, persone. Perché la vita, la vera Vita, continui.

Alberto Cancian

Tags: Colombia, missionari, IMC, Caqueta

Alberto Cancian




Tutti pazzi per il mobile

Inchiesta «mobile money» – Denaro virtuale / 3


Uno dei paesi più poveri del mondo. Privo, quasi, di
risorse. Un popolo tenace e ingegnoso. Forse perché nei secoli ha dovuto
resistere a un clima ostile. Alfabetizzati e non, i Burkinabè sono molto
ricettivi alle nuove tecnologie.

Così, i servizi finanziari su telefono
cellulare hanno avuto un successo insperato. Anche per gli addetti ai lavori. Scopriamo
perché.

Ouagadougou. Roland Ouedraogo è un modesto falegname burkinabè. Il suo atelier si affaccia su una delle tante polverose vie del quartiere «sécteur 29» della capitale. Zona periferica in continua espansione, perché Ouaga – come viene chiamata comunemente la capitale – si allarga a macchia d’olio, non avendo barriere naturali intorno a sé. Roland fa lavorare due ragazzi che imparano il mestiere. Ha moglie e tre figli ed è molto attivo nella sua parrocchia. Dopo aver passato un periodo di crisi economica, è riuscito ad avere una buona commessa per rifare le porte di un grande albergo della città. In passato, ci dice, aveva un conto alla Cassa popolare (una banca di prossimità), ma poi lo ha prosciugato e non è più riuscito a risparmiare.
Ma adesso gli affari vanno meglio. «Ho sentito parlare di Airtel Money e mi interessa sapee di più. Credo che per il mio lavoro possa essere utile. Mi capita di andare a lavorare in un cantiere lontano dalla falegnameria e di avere bisogno di mandare soldi ai miei aiutanti rimasti all’atelier per comprare qualche pezzo. Oppure viceversa se sono io ad avere bisogno di qualcosa».
Airtel Money è il prodotto di mobile banking di Airtel Burkina, una delle tre compagnie telefoniche presenti nel paese.
Continua Roland: «L’ho visto fare a chi lavora nelle miniere d’oro. Mandano dei soldi ai loro collaboratori oppure alle famiglie. Qui in capitale molti amici e colleghi hanno già aperto il conto mobile. Un mio amico è andato ad Airtel. Gli hanno spiegato come fare. All’inizio era un po’ complicato, poi ha capito il meccanismo ed è stato tutto più facile. Voglio andare a informarmi».

leggi tutto

Marco Bello e Gianluca Iazzolino




Di guerra in guerra


Nel mondo un’inflazione di conflittualità

Esaminando i dati sulle guerre in essere, si scopre che dal
1945 la conflittualità nel mondo è in costante aumento. Per ragioni
ideologiche, per conquistare il governo, per motivi etnici, per controllare le
risorse naturali. Il panorama e le prospettive sono desolanti. Tanto che papa
Francesco parla di «Terza guerra mondiale».


Quanti conflitti si stanno consumando nel mondo? Non è
possibile dare una risposta esauriente e definitiva a questa domanda visto che,
a seconda dei vari criteri di analisi, il numero, l’intensità e la tipologia di
violenza possono risultare sensibilmente diversi da uno studio all’altro.

Una valutazione complessiva, però, la si può dare, e non è
certo positiva: nel corso del 2013, la tendenza a risolvere le divergenze con
le dispute armate è stata in costante aumento.

I dati di Uppsala

Il principale rapporto su cui molti analisti e studiosi
basano le proprie osservazioni sul tema viene stilato annualmente dal
Dipartimento di pace dell’Università di Uppsala, in Svezia.

L’istituto svedese divide l’intensità e la gravità degli
scontri secondo parametri che tengono conto sia del numero di vittime accertate
nel corso dell’intero anno, sia delle parti in causa coinvolte.

Secondo questo criterio si può parlare di guerra conclamata
solo se i morti superano le 1.000 unità, mentre se le vittime accertate sono
comprese tra un minimo di 25 e un massimo di 1.000 lo stato di belligeranza
viene declassificato come conflitto minore.

Un altro principio utilizzato dagli studiosi di Uppsala per
accertare la tipologia di scontro è l’identificazione degli attori coinvolti
nelle operazioni belliche, generalmente forze armate governative o gruppi
militari organizzati (anche se privi di una sigla o di un nome ufficiale) le
cui azioni si concentrano contro la popolazione civile.

Secondo l’Uppsala
Conflict Data Program
(Ucdp), nel 2013 erano in atto 7 guerre con più di
mille vittime all’anno e 18 conflitti armati (vedere il riquadro).

Gli scontri più sanguinosi si sono registrati in Siria
(73.455 morti), nel Sud Sudan e in Messico, nella guerra delle cosche per il
controllo del traffico di droga (ognuna con più di 10.000 morti). A ruota
seguono il conflitto iracheno (7.818 morti), quello in Afghanistan (5.648),
Pakistan (5.366), Nigeria (1.614), Egitto e Repubblica Centrafricana (più di
1.000).

In due stati i conflitti sono diminuiti di intensità (Rwanda
e Azerbaijan), ma in compenso nel 2014 si sono aggiunti il conflitto ucraino
(che a luglio 2014 ha già causato più di 1.100 morti) e la guerra
israelo-palestinese ha avuto, dopo alcuni anni di relativo stallo, una nuova
recrudescenza (8 luglio – 26 agosto 2014) con l’invasione di Gaza da parte
delle forze israeliane e un bilancio di circa 2.200 morti (2.100 palestinesi e
72 israeliani).

Rispetto al 2013, nei primi mesi del 2014 si sono registrati
aumenti di vittime in conflitti di bassa intensità nel Nagoo Karabakh,
Azerbaijan (da 2 a 16), nello Xinjiang, Cina (da 88 a 103), nello Yemen (da
230-250 a più di 400), nella Repubblica Democratica del Congo (da 63 a 288), in
Libia (da 165 a più di 500), nel Mali (da 9 a circa 100).

leggi tutto

Piergiorgio Pescali




Laici missionari sulla frontiera


Le realtà laicali del mondo missionario italiano
Dal 31 maggio al 2 giugno scorsi si è svolto, presso la casa
dei missionari della Consolata di Bevera (Lecco), il secondo convegno dei laici
missionari allo scopo di creare rete e valorizzare le esperienze in atto.



L’evento, che ha coinvolto più di cento persone provenienti da una dozzina di realtà
laicali legate a vario titolo agli istituti missionari o alle diocesi, ha avuto
come tema: «Laici Missionari: cristiani impegnati sulla frontiera tra Chiesa e
società».
Una laica missionaria ce lo racconta.

Per i membri dei vari movimenti laicali missionari
è una grande ricchezza riuscire a riunirsi e ragionare insieme sulle strategie
per fare missione qui e ora. Il
convegno – organizzato dal comitato dei laici missionari che raccoglie
esponenti dei gruppi laicali legati ai rami maschili e femminili di Consolata,
Saveriani e Pime, ramo maschile dei Comboniani e Fidei donum – tenutosi nella
scorsa primavera ha evidenziato come le diverse realtà laicali missionarie
siano unite, pur nella diversità e nella ricchezza dei carismi originari, nel
compito di impegnarsi in una missione che sempre più spesso è di frontiera.
Dopo aver riflettuto, nella prima edizione del dicembre 2012, sul ruolo del
laico missionario nella Chiesa di oggi, in questa sessione abbiamo affrontato
tematiche più legate all’agire missionario: qual è il rapporto tra noi laici e
gli istituti missionari (meglio: le famiglie missionarie) di riferimento? Quali
le difficoltà nell’annuncio del Vangelo oggi? E ancora: come fare animazione
missionaria nelle nostre Chiese locali? Quale impegno nel volontariato e sui
temi di giustizia e pace? E infine: qual è la spiritualità che sentiamo più
nostra come laici e famiglie del XXI secolo?

Testimoni in un mondo di «eterni giovani»

Il
primo giorno è intervenuto don Armando Matteo, docente di teologia fondamentale
presso la Pontificia Università Urbaniana, dal 2005 al 2011, assistente
ecclesiastico centrale della Federazione Universitaria Cattolica Italiana
(Fuci), grande conoscitore del mondo giovanile e autore de La prima
generazione incredula
, edito da Rubbettino.

Egli
ha analizzato in maniera puntuale la situazione giovanile in Italia, a partire
da una spietata ma vera fotografia degli adulti di oggi che si distinguono per
un diffuso culto della giovinezza, il quale censura figure quali la crescita, l’esperienza
del limite, l’insuperabilità della malattia, e che conduce sino
all’esorcizzazione linguistica della vecchiaia e della morte. «Gli adulti
stanno costruendo una società che ruba avidamente spazi e tempi ai giovani e
non riesce più a prestare sufficiente attenzione né alla loro reale condizione
né alla possibilità del loro futuro sviluppo». In questo modo aumenta una sorta
di «risentimento» da parte degli adulti nei confronti dei giovani, dal momento
che gli stessi giovani con la loro «pura» presenza «ricordano ciò che gli
adulti vorrebbero a ogni costo dimenticare: lo scorrere del tempo,
l’avvicinarsi della malattia, l’inesorabile ora del congedo da questa vita».

Per
questo motivo i giovani si trovano spesso a confronto con figure adulte
demotivate e poco autorevoli, incapaci di testimoniare ragioni di vita che
suscitino amore e dedizione. Secondo don Armando all’interno della relazione
educativa adulto-giovane, il giovane dovrebbe trovare adulti felici di essere
adulti che lo invitano a seguirli nella crescita: «Cammina, datti da fare».
L’attuale rivoluzione dell’immaginario circa le età della vita, però, comporta
che nella carne vivente di ogni adulto il giovane trovi un rifiuto dell’età
adulta e una sorta d’invidia della gioventù: «Non ti muovere. Tu sei nel
paradiso. Tu sei paradiso. L’unico a dover uscire (e-ducere) dal suo possibile
cammino sull’orlo della vecchiaia sono io adulto. Tu puoi star fermo».

Secondo
don Armando i giovani osservano gli adulti per apprendere il vero senso della
vita e del loro futuro. Per questo motivo è necessaria un’autentica conversione
del mondo degli adulti: essi sono chiamati a passare «da un amore viscerale per
la giovinezza e il suo irresistibile fascino a un amore e una cura per i
giovani e il loro bisogno d’incontrare adulti testimoni».

L’intervento
di don Matteo ha voluto rendere chiaro lo scenario in cui i laici missionari
sono chiamati a lavorare. Gettando uno sguardo ai partecipanti al convegno ci
siamo resi conto della scarsa presenza di giovani. A noi quindi, che siamo
adulti, spetta l’arduo compito di essere testimoni credibili della fede. Spesso
parliamo di giovani e ci domandiamo come lavorare con loro. La risposta
impegnativa è che dobbiamo essere adulti: contenti di essere adulti e di essere
cristiani.

leggi tutto

Chiara Viganò




Finalmente Angola


I missionari della Consolata sbarcano in un nuovo paese africano
lo scorso mese di agosto i missionari della Consolata hanno
realizzato un sogno: inaugurare la loro prima missione in Angola. Era dal 2005,
anno del loro XI Capitolo generale, che studiavano la possibilità di
un’apertura in un nuovo paese africano.


Da quando sono arrivati in Kenya nel
1902, si sono sparsi nel continente nei seguenti paesi: Etiopia (1913-1941,
1970), Tanzania (1919), Somalia (1924-1930), Mozambico (1925), Sudafrica
(1971), Zaire-Congo RD (1982), Uganda (1985), Costa d’Avorio (2001) e Gibuti
(2004).

I primi tre giovani missionari per l’Angola sono i
padri Fredy Gomez colombiano (38 anni, ordinato nel 2011), Sylvester Ogutu (31
anni, ordinato nel 2014) keniano, e Dani Romero (29 anni, ordinato nel 2013)
venezuelano. I tre si trovano ora nella città di Viana, nella provincia di
Luanda, e vivono temporaneamente nella casa dei missionari colombiani di
Yarumal. La diocesi di Viana è geograficamente piccola, ma con un’altissima
densità di popolazione. Le parrocchie sono esageratamente grandi, non tanto
come area, quanto per il numero di persone che vi abitano.

Il vescovo, mons. Joaquim Ferreira Lopes, un francescano,
ha accolto con grande gioia i nuovi arrivati, contento che l’Istituto abbia
cominciato a lavorare e produrre vita nuova in quella porzione del Regno di
Dio. Ai missionari della Consolata ha affidato tutto il distretto di Kapalanga,
smembrando dalla parrocchia della santissima Trinità quella che prossimamente
sarà la nuova parrocchia di S. Agostino.

Il 17 agosto 2014 i nuovi pastori hanno assunto
ufficialmente dalle mani del vescovo la responsabilità della futura parrocchia,
che comprende sette grandi comunità di base, in una solenne celebrazione
eucaristica carica di gioia e di speranza. Il vescovo ha detto ai presenti: «Per
una
migliore cura pastorale della diocesi di Viana, oggi, pieni di gratitudine al
Signore, riceviamo tra di noi, e ve li presentiamo, questi tre giovani
missionari della Consolata, affinché insieme a voi costruiscano un nuovo sogno,
una nuova pagina della vostra storia, quella di farvi diventare una vera
comunità parrocchiale».

Padre Fredy Gomez, a nome dell’Istituto ha ringraziato il
vescovo, i missionari di Yarumal e tutto il popolo di Dio per la calorosa
accoglienza e la fiducia accordata.

È stato proprio un bell’incoraggiamento per i tre giovani
missionari, i cui anni di sacerdozio assommano tutti insieme a cinque,
all’inizio di nuovissima esperienza missionaria.

La quasi parrocchia di S. Agostino conta un grande
numero di fedeli provenienti da quasi tutte le province dell’Angola, un bel
miscuglio di gruppi diversi attirati dal miraggio della capitale Luanda. Ha una
vita comunitaria attiva e partecipata anche se mancano completamente le
strutture e la gente si trova a pregare sotto gli alberi.

Sono
molte le sfide che i nuovi missionari dovranno affrontare, tra queste la più
impegnativa sarà quella di riuscire ad accompagnare bene il cammino spirituale
di così tanti cristiani, dando la testimonianza che è possibile vivere insieme
pur nella diversità. La loro forza sta proprio nella testimonianza di vita che
potranno offrire come comunità composta da sacerdoti di tre paesi diversi. C’è
poi il bisogno di una formazione cristiana più approfondita per tutti, e di far
crescere il senso comunitario in una popolazione multietnica e provata da anni
di guerra, abbandonata a se stessa, lontana dai propri villaggi di origine e
senza il supporto della società tradizionale. Oltre al creare comunità, che è
la priorità, sarà poi anche necessario costruire una vera chiesa che diventi
casa di tutti e alcune strutture minime, come un salone per gli incontri e
salette per il catechismo e la formazione, e poi anche la casa parrocchiale,
per non essere più ospiti, ma «cittadini».

Dani Romero

leggi tutto

Dani Romero




Il piccolo regno di Kadyrov


Ai confini dell’Europa (3):
la Cecenia
Dopo la deportazione staliniana del 1944 e due sanguinose
guerre civili, nella piccola repubblica caucasica pare vigere la calma. Il
presidente Ramzan Kadyrov, fedelissimo di Putin, tiene in pugno il paese. Senza
alcuna preoccupazione per i diritti umani.


Luci colorate brillano nel cielo di Grozny, la città è
animata da traffico e commerci. Ovunque fervono cantieri. Una situazione molto
diversa da qualche anno fa, quando la capitale della Repubblica cecena era
ancora un ammasso di edifici in rovina, crivellati dalle bombe. Oggi la strada
principale è intitolata a Putin, il presidente russo che ha distrutto Grozny in
passato ma che ora ne finanzia la ricostruzione, sotto la supervisione del capo
della Repubblica cecena Ramzan Kadyrov.

Secondo dati del ministero delle Finanze russo, negli ultimi
anni Mosca ha finanziato più del 90 per cento del bilancio totale della
Cecenia. Grazie a questa ingente iniezione di danaro – e a un sistema
repressivo ben radicato – Ramzan Kadyrov e i suoi stanno riuscendo a tener fede
allo slogan lanciato qualche anno fa: «La Cecenia senza segni di guerra».
Almeno per quanto riguarda la capitale.

Dopo le bombe, la paura

Se Grozny sta rinascendo dal punto di vista architettonico,
non tutte le tracce della guerra sono state però cancellate. Dietro la facciata
splendente della città, c’è un mondo di miseria di cui pochi parlano. Molti
ceceni vivono ancora in case provvisorie e la disoccupazione è altissima (sopra
il 40% secondo i dati ufficiali). La corruzione è molto diffusa e senza
tangenti è impossibile trovare lavoro. Molti lasciano il paese per cercare rifugio
in Europa, dove, secondo la Jamestown Foundation, vivono circa 70.000 rifugiati
ceceni. La più grande comunità si trova in Austria con circa 17.000 persone.

Su Grozny le bombe non cadono più dal 2009 (vedi riquadro
storico), ma la paura è ancora presente. Secondo le associazioni non
governative Human Right Watch e Amnesty Inteational in Cecenia minacce
e intimidazioni sono all’ordine del giorno nei confronti di chi si batte per il
rispetto dei diritti umani e cerca la verità sulle responsabilità delle
violenze e delle sparizioni.

Il regime giustifica il metodo repressivo come parte della
lotta contro il terrorismo. La direttiva di Mosca è chiara: eliminare qualsiasi
manifestazione di ribellione o estremismo con ogni mezzo.

Ramzan Kadyrov è stato scelto da Vladimir Putin nel 2007
alla guida della Cecenia e, in cambio della fedeltà al Cremlino, ha ottenuto
potere e aiuti per la ricostruzione.

L’amicizia e la devozione di Kadyrov verso Putin è arrivata
persino a cancellare il passato più remoto. Quest’anno, per la prima volta
nella storia recente, non vi è stata a Grozny alcuna commemorazione ufficiale
della deportazione staliniana del 1944. La celebrazione del 70° anniversario
dell’evento che coinvolse ceceni, ingusci e balcari sarebbe coincisa con la cerimonia
di chiusura dei Giochi olimpici invernali di Sochi, il 23 febbraio 2014. Così
per evitare di gettare un’ombra sulla festa sportiva, tanto importante per
l’amico Putin, Kadyrov ha vietato ogni manifestazione.

Il 18 febbraio nella cittadina di Gekhi, a pochi chilometri
da Grozny, Ruslan Kutaev, noto attivista per i diritti umani e presidente
dell’Associazione dei Popoli del Caucaso settentrionale, ha sfidato le autorità
organizzando comunque una conferenza di commemorazione. Due giorni dopo il suo intervento
Kutaev è stato invitato telefonicamente dalle autorità cecene a presentarsi per
un colloquio. Il 21 febbraio il servizio stampa del ministero degli Intei ha
comunicato che Kutaev era stato trovato in possesso di 3 grammi di eroina e di
conseguenza era stato arrestato. La pratica di nascondere droghe sulle persone
ritenute scomode dal regime per poterle arrestare e metterle a tacere è
largamente diffusa in Cecenia come in altre parti della Federazione russa.

 leggi tutto

Roberta Bertoldi




stupri, omicidi, violenze senza fine: donna è colpa tua

Negli ultimi mesi sui media inteazionali c’è stato uno
stillicidio di notizie su stupri, omicidi e orrori ai danni di bambine e donne.
Sistemi patriarcali, maschilismo, sottomissione: il fenomeno ha radici
profonde. In India come in molti altri paesi. Una realtà di violenza che va
condannata senza però farsi fuorviare dal sensazionalismo giornalistico e dagli
stereotipi. E?magari andando a leggere le statistiche.?Secondo le quali…

Si racconta che Gandhi abbia detto che si può
giudicare una società dal modo in cui essa tratta gli animali. Pandit
Jawaharlal Nehru, il primo presidente dell’India, nonché amico dello stesso
Gandhi, aggiunse, anni dopo, che il livello di civiltà di una nazione si pesa
misurando i diritti che questa riconosce alle donne.

Se
dovessimo parametrare l’evoluzione della società indiana secondo i criteri
proposti dai suoi due più illustri fondatori il risultato sarebbe decisamente
negativo. Nonostante da più parti si continui a descrivere la nazione asiatica
come la più grande democrazia al mondo, il rapporto «The Rise of the South:
Human Progress in a Diverse World», redatto nel 2013 dell’Undp (United
Nations Development Programme
), ha posto l’India al 136° posto su 186
nazioni nella classifica dell’indice dello sviluppo umano.

Particolarmente
allarmante è la condizione della donna; in questi ultimi anni nelle tre nazioni
nate dal retaggio del colonialismo britannico – India, Pakistan e Bangladesh –
i casi di violenza nei confronti del sesso femminile si sono moltiplicati.

Le complicità della polizia

Attacchi
con acido, violenze, stupri e omicidi hanno attirato l’attenzione dei media
inteazionali, mentre le dichiarazioni misogine di molti politici indiani,
pakistani e bengalesi, sommate alla complicità della polizia con i criminali,
hanno dato alle notizie quel tocco di licenziosità sufficiente a trasformarle
in sensazionalismi di largo seguito conditi di pettegolezzi e stereotipi.

In
Italia, alcune testate giornalistiche si sono lanciate in iperboli incredibili
per agganciarsi alla vicenda dei marò dipingendo l’intera classe politica
indiana, e a volte la stessa cultura, in termini dispregiativi.

Se ne
è parlato con clamore soltanto nei mesi scorsi, eppure la violenza contro le
donne non è un fenomeno nuovo nella società indiana. Anzi, si potrebbe dire
che, da qualche anno a questa parte, l’India ha cominciato a strappare qualche
velo che nascondeva agli occhi della nazione un problema di cui tutti erano al
corrente ma di cui nessuno parlava. E, forse proprio per questa apertura
sociale e l’accresciuto interesse dei media, è scoppiato il «fenomeno» stupri:
non ce ne sono di più, ma se ne parla di più.

In
realtà, la prima grande svolta nella visione della violenza sulle donne la si
ebbe già nel 1972 quando un’adolescente di 14-16 anni di nome Mathura venne
violentata da due poliziotti nel villaggio di Desaiganj, nello stato del
Maharashtra. Mathura, oltre a essere orfana di entrambi i genitori, era una adivasi1, il che la poneva in una posizione di
assoluta inferiorità nella complicata gerarchia castale indiana. Per mantenere
il fratello maggiore si prodigava come domestica presso una casa privata dove
incontrò Ashoka, nipote della padrona, il quale la chiese in sposa. Avrebbe
potuto essere una normale storia d’amore se il fratello di Mathura non si fosse
opposto al matrimonio e, per impedirlo, non avesse denunciato Ashoka per aver
rapito la sorella. La questione venne chiarita senza problemi presso il locale
commissariato, ma quando tutti i protagonisti della vicenda se ne stavano
tornando a casa, i gendarmi trovarono una scusa per trattenere Mathura. E fu lì,
proprio tra le mura che avrebbero dovuto difendere la legge, che la ragazza subì
gli stupri dei due poliziotti in servizio.

Nonostante
la giovane età e la sua condizione sociale, Mathura fece una cosa che nessuno,
prima d’allora in India, aveva osato fare: denunciò i suoi stupratori.

Il
processo fu, come ci si poteva aspettare, una farsa: i due agenti vennero
assolti perché la corte non credette a Mathura. Troppo giovane, povera e
illetterata perché le sue parole potessero avere sufficiente autorevolezza.
Inoltre la sentenza di assoluzione stabiliva che la ragazza «era già abituata a
rapporti sessuali» e, di conseguenza, non vi sarebbe stata alcuna violenza
perché la vittima non era illibata.

Il
verdetto passò inosservato per diversi anni fino a quando alcuni professori
dell’Università di Delhi lo contestarono gettando le basi per una prima riforma
di legge sullo stupro varata nel 1983, secondo cui l’atto sessuale senza il
consenso della donna è un crimine.

La
norma rivoluzionò il modo di porsi delle donne indiane all’interno della società:
l’attivista per i diritti femminili Lotika Sarkar fondò il Forum Against
Rape
(Foro contro lo stupro) e il Centre for Women’s Development Studies
(Centro studi per lo sviluppo delle donne), due istituzioni che negli anni
seguenti sarebbero stati dei fari cui i movimenti di emancipazione femminile
avrebbero guardato.

Le cuginette dalit

Mathura
venne subito dimenticata ed oggi vive con il marito e i suoi figli in un
villaggio poco distante da Desaiganj, pressoché ignara di quello che il suo
gesto ha significato per l’India. È vero, come afferma la giornalista e
scrittrice Nilanjana S. Roy in un articolo apparso sul quotidiano The Hindu,
che «nessuna legge al mondo ha mai fermato gli stupri, così come nessuna legge
al mondo ha mai fermato gli assassini. Ma leggi migliori, assieme a cambiamenti
politici e sociali hanno contribuito a far diminuire sia le violenze sessuali e
gli omicidi in diversi paesi».

Nella
vita pratica delle donne indiane nulla o quasi cambiò sino a quando,
quarant’anni più tardi, a Delhi, un altro fatto sconvolse l’opinione pubblica
femminile. Il 16 dicembre 2012 Jyoti Singh Pandey, una studentessa di medicina
di 23 anni, dopo aver visto il film Storia di Pi al centro commerciale
Select Citywalk di Delhi salì su un autobus con il suo ragazzo per tornare a
casa. Con loro viaggiavano cinque persone, tutte amiche dell’autista e
ubriache. A un certo punto l’automezzo si fermò e, immobilizzato il ragazzo, a
tuo i sei amici seviziarono Jyoti. Una volta appagati i loro piaceri,
lasciarono le loro vittime agonizzanti in mezzo alla strada. Jyoti morì dopo
due settimane a Singapore, dove nel frattempo era stata trasferita, a causa
delle ferite infertele durante lo stupro.

Fu la
classica goccia che fece traboccare il vaso: in poche ore migliaia di persone
scesero in piazza per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla condizione della
donna in India. Anche in questa occasione le forze di polizia dimostrarono la
loro insensibilità: anziché limitarsi a controllare che tutto si svolgesse in
modo pacifico (come in effetti fu), improvvisamente cominciarono a contrastare
i manifestanti con brutalità e spavalderia, giungendo anche a manganellare con
violenza le stesse donne.

La
stessa brutalità e arroganza è stata usata, in modo più drammatico, a Katra
Sadatganj, un villaggio dell’India Nord orientale dove, nel maggio 2014, due
cugine dalit di 14 e 15 anni sono state trovate impiccate a un albero
dopo essere state ripetutamente violentate. Anche in questo caso, tra le sette
persone accusate, vi sono due poliziotti.

In
una intervista alla Bbc la scrittrice Arundhaty Roy afferma che «esercito e
polizia utilizzano regolarmente lo stupro come arma contro la popolazione nel
Chhattisgarh, Kashmir, Manipur».

E
quando le forze dell’ordine non sono direttamente coinvolte negli atti di maltrattamento,
spesso le persone che cercano di sporgere denuncia sono «invitate» a desistere,
tanto che nell’aprile 2013 la Commonwealth Human Right Initiative
(Chri), una Ong che da tempo chiede una riforma della polizia indiana, ha
denunciato la sua «mancanza di una risposta verso le vittime degli stupri».

La
morte di Jyoti, soprannominata dai media indiani e inteazionali Nirbhaya
(impavida) o Damini (fulmine) ha scatenato quello che il caso di Mathura
era riuscita a fare solo in parte: la condanna nazionale di una pratica che va
ben oltre il mero crimine «accidentale», come lo ha chiamato Ramsevak Paikra,
ministro per la Legge e l’Ordine dello stato indiano di Chhattisgarh.

Un sistema patriarcale e misogino

Cosa è
cambiato in questi quarant’anni nella società indiana e, soprattutto, come mai
proprio il caso di Nirbhaya, certamente non isolato, ha creato tale scompiglio
nell’opinione pubblica nazionale e mondiale?

Partendo
dallo stupro di Mathura e arrivando fino a oggi, la donna, seppur con difficoltà,
si è emancipata tra i gangli della società indiana, ma la sua indipendenza non è
ancora stata accettata dall’uomo. Sempre Arundhaty Roy spiega che «Viviamo in
una nazione in cui la maggior parte della popolazione vive in un sistema
feudale e patriarcale retaggio del passato, dove le donne dalit sono
stuprate da uomini delle caste più alte semplicemente perché viene ritenuto un
diritto di questi ultimi. Per contro viviamo in un sistema in cui le donne
stanno cambiando più velocemente degli uomini: entrano in massa nei posti di
lavoro, hanno più potere, stanno modificando il modo di vestire, di porsi di
fronte all’uomo, di guardarlo, le loro aspettative. Questi cambiamenti sociali
creano un nuovo stimolo di violenza contro le donne da parte di chi vorrebbe
che tutto restasse immobile».

«Il
sistema capitalista ha avuto il merito di contribuire a elevare la posizione
della donna in India» afferma Rajesh Tembarai Krishnamachari, scrittore e
analista dello sviluppo sociale ed economico dell’India e Pakistan. Stando a
quanto sostiene Krishnamachari «l’avvento del capitalismo ha permesso alle
donne di lavorare accanto all’uomo nelle fabbriche al fine di aumentare la
produzione. Questo ha incoraggiato l’intero sistema a ricercare una sorta di
equità tra i due sessi che si riflette sia nel sistema legislativo, con
l’approvazione di leggi che pongono uomo e donna sullo stesso piano, sia nel
sistema sociale, che oggi permette alla donna di entrare nelle fabbriche e
nell’apparato produttivo contribuendo alle finanze familiari. È anche vero, però,
che con l’avanzare dell’economia di mercato e della necessità di aumentare le
vendite dei prodotti, il capitalismo deve cercare nuove forme di
sollecitazioni. La pubblicità è, quindi, diventata sessualmente più allusiva,
più provocante, portando a una radicalizzazione del maschilismo nella società».
E alla sottomissione della donna, aggiungeremmo noi.

Secondo
l’attrice Leeza Mangaldas, conosciuta a Delhi nel 2012 quando, assieme a Samyak
Chakrabarty, fondò il forum di discussione Evoke India, le responsabilità
di questa sottomissione sono da imputare anche alle donne stesse: «Siamo noi
che uccidiamo le nostre figlie perché femmine, siamo noi che accusiamo le nuore
se partoriscono femmine anziché maschi e siamo ancora noi che disapproviamo,
ancora prima degli uomini, le donne che tentano di rendersi attraenti. Gli
uomini indiani sono misogini; le donne indiane provano disgusto per se stesse».

E
allora bisognerebbe rivalutare le parole di Marx quando, assieme a Engel,
scriveva che «Non si deve dimenticare che [le] idilliache comunità di
villaggio, sebbene possano sembrare innocue, sono sempre state la solida base
del dispotismo orientale […] contaminate dalla divisione in caste e dalla
schiavitù».

Una
cosa è certa: se Jyoti Singh Pandey fosse stata stuprata ed uccisa in uno
sperduto villaggio di campagna, nessuno si sarebbe indignato. La storia di
Jyoti – precedente la sua violenza – e della sua famiglia di origine contadina,
trasferitasi a Delhi in cerca di fortuna, illustra la speranza di riscatto per
milioni di indiani. Il padre che lavorava come facchino all’aeroporto di Delhi;
Jyoti che, per permettere anche ai suoi fratelli di continuare gli studi
offriva ripetizioni ai ragazzi del quartiere in cui abitava, erano il perfetto
esempio delle più alte aspirazioni della gran parte degli indiani.

Ci si
dovrebbe chiedere come mai in una società dove la violenza tra le mura di casa è
così frequente (una statistica risalente al 2007 afferma che il 54% degli
adolescenti ha assistito a violenze in famiglia), ci si scandalizzi solo quando
le donne sono stuprate o umiliate per strada.

Tra induismo e Bollywood

Basterebbe
guardare a un aspetto della mitologia e della religione indiana, quello che
valorizza la femminilità, per designare il ruolo fondamentale della donna.

Nella
cultura religiosa indiana il potere femminile shakti è l’unico in grado
di alimentare l’energia – al tempo stesso distruttiva e rigeneratrice – di
Shiva. Senza la shakti anche Shiva diviene un cadavere. Il Gange, il
sacro fiume indiano, in lingua hindi è la Ganga, al femminile. Infine, molti
nomi degli eroi mitologici includono il nome della propria madre, retaggio
delle primordiali società matrilineari: così Radhakrishna significa che Krishna
è figlio di Radha, così come Sitaram indica che Ram è figlio di Sita.

Detto
questo, la cultura indiana odiea propone come unico esempio virtuoso per la
donna l’immagine mitologica di Sita, la sposa di Rama, succube e pronta a
perdonare ogni intemperanza del marito sino a immolarsi per il suo amore.

Questo
filone è quello più seguito dall’industria cinematografica di Bollywood che,
con più di mille film sfoati ogni anno, è la maggiore al mondo. La
responsabilità dei produttori e degli attori di Bollywood è, chiaramente,
enorme nel raccontare il ruolo che la donna deve rivestire nella società
indiana.

Qualcosa
sta, finalmente, cambiando: l’All India Backhod, un collettivo di attori
e registi indiani, ha voluto dare una sterzata significativa producendo un
divertente filmato, diretto da Ashwin Setty, dal titolo eloquente Rape: It’s
Your Fault
(Stupro: è colpa tua), che ha superato le 3.700.000
visualizzazioni su You Tube2. In
esso l’attrice Kalki Koechlin spiega ironicamente come lo stupro sia sempre
colpa delle donne «perché gli uomini hanno gli occhi» e un «abbigliamento
provocante potrebbe spingere a uno stupro». Seguono alcuni esempi di
abbigliamento inverecondo che, partendo da maglietta senza maniche e
pantaloncini, giungono fino a una tuta spaziale, inevitabilmente anch’essa
tentatrice. Il tutto, sempre nell’intelligente ironia del filmato,
dimostrerebbe che la colpa degli stupri è da attribuirsi esclusivamente alle
donne perché «senza donne non ci sarebbero stupri» e, se è vero che gli stupri
sono commessi dagli uomini, è altrettanto vero che gli uomini sono nati da
donne. Infine c’è un attacco alla polizia: «Se sei stanca di essere umiliata
dagli stupratori, rivolgiti ai poliziotti e potrai essere umiliata da loro».

In
una intervista Kalki Koechlin, che da bambina ha essa stessa subito uno stupro,
afferma che le donne devono sentirsi libere di essere loro stesse all’interno
di una società che sta cambiando: «Dobbiamo essere pronti culturalmente ad
accettare le donne indiane di oggi le quali non sono le donne che la maggior
parte degli uomini indiani ha visto crescere in casa loro. Le donne di questa
generazione potrebbero non saper cucinare, potrebbero volersi rendere
indipendenti economicamente, potrebbero voler scegliere il loro marito, oppure
rimanere addirittura nubili».

Più
facile a dirsi che a farsi. Anzi, a pensarci, non è facile neppure a dirsi.

Parole indecenti

Dopo
gli ultimi casi di stupro la classe politica indiana si è esibita in una serie
impressionante e vergognosa di affermazioni. A cominciare da Manohar Lal
Sharma, uno degli avvocati degli uomini accusati dello stupro e dell’omicidio
di Nirbhaya, che il 10 gennaio 2013 ebbe a dire di non aver «mai visto un solo
incidente o esempio di stupro in cui sia stata coinvolta una donna rispettabile».
Altrettanto indecenti sono state le parole di Abu Asim Azmi, presidente del Maharashtra
Samajwadi Party
, che dopo essersi pronunciato a favore della pena di morte
per gli stupratori, ha detto che «dovrebbe esistere una legge che proibisca
alle donne di vestire abiti succinti e girare con ragazzi che non siano loro
parenti». E che dire dell’agghiacciante sentenza dell’avvocato A.P.Singh: «Se
mia figlia dovesse avere rapporti prematrimoniali e girare con il suo ragazzo
di notte, io stesso la brucerei viva. Non posso permettere che accada questo e
invito tutti i genitori ad adottare la stessa mia attitudine nei confronti
delle loro figlie».

Terminiamo
con le parole di un alto rappresentante del parlamento indiano: Abhijit
Mukherjee, figlio del presidente dell’India, carica che è stata ricoperta da
quel Jawaharlal Nehru che citavamo all’inizio dell’articolo. Nel difendere la
brutale repressione della polizia nei confronti dei manifestanti dopo la morte
di Jyoti, Mukherjee ebbe a dire che le donne che protestavano erano donne «dipinte»
che vanno in discoteca, con scarsa conoscenza della realtà sociale e che
seguono la moda di fare veglie al lume di candela… Nonostante le critiche
piovute su di lui, nelle recenti
elezioni indiane Abhijit Mukherjee è stato rieletto.

I numeri e le sorprese

Alla
fine di tutto, è proprio vero che l’India descritta dai media occidentali è
diventata così pericolosa tanto da consigliare alle donne di non aggirarsi da
sole per le strade?

Le
cifre, per quello che possono rappresentare, pare dicano il contrario. Da uno
studio condotto dalla Thomson Reuters Foundation, in India 2 donne su
100.000 vengono violentate, contro i 26,9 stupri su 100.000 commessi negli
Stati Uniti. Anche tenendo conto del fatto che solo il 10% delle violenze
perpetrate ai danni delle donne indiane viene denunciato (contro il 26-46%
negli Usa), i tassi di abusi sessuali tra i due paesi si equivalgono. Bisogna,
però, tener conto che secondo la legge indiana non vi è violenza sessuale se
non si è consumato l’atto. Nel 2011 (ultimo dato disponibile) il National
Crime Records Bureau
ha indicato che nella nazione – in cui, non bisogna
dimenticarlo, vivono un miliardo e 200 milioni di persone – vi sarebbero stati
25.000 stupri, 45.000 tentati stupri e 106.000 violenze contro le donne in
famiglia3. Il
problema non sono tanto i numeri, ma il fatto che, ai 25.000 stupri
regolarmente denunciati alle autorità, solo per il 26% è seguita una condanna
degli imputati (contro il 50% negli Usa). Vi è, quindi, una forte disillusione
nei confronti delle istituzioni.

Forse
è proprio questo il punto su cui lavorare per poter cambiare un atteggiamento
sociale.

Piergiorgio?Pescali
Note

1 – Termine con cui in India
si indicano gli appartenenti ai popoli originari (tribù indigene) del paese.
2 – L’indirizzo del
filmato: http://www.youtube.com/watch?v=8hC0Ng_ajpY.
3 – Il sito: www.ncrb.nic.in.

__________________________

DAL PAKISTAN – Una coppia di giovani sposi, Sajjad Ahmed (27
anni) e Mafia Bibi (23), sono stati decapitati da quattro familiari della
ragazza per aver infangato l’onore della famiglia. Si erano sposati per amore (Dawn, quotidiano pakistano, 30 giugno
2014).

 

Errata corrige:
Questa foto rappresenta Snia Gandhi con l’ex Primo Ministro indiano Manmohan Singh, e non con Narendra Modi (nella foto qui sotto), come scritto nella didascalia di pag. 12 della rivista.
Ce ne scusiamo coi lettori.

Tags: violenza di genere, stupro, omicidio, induismo, India,
Pakistan, Bangladesh, caste indiane, Arundhati Roy, Dalit

Piergiorgio Pescali




Kanchin: Fango, mine ed eroina

Reportage da un fronte sconosciuto.


In una striscia di terra sul confine con lo Yunnan cinese si
fronteggiano gli indipendentisti kachin e l’esercito birmano. Una sporca guerra
di logoramento che produce morti e profughi. Oltre a corpi mutilati dalle mine
o distrutti dall’eroina. Quello tra Kachin e governo birmano è uno dei tanti
conflitti dimenticati che si combattono nelle retrovie del mondo.

Tutte le foto di questo reportage sono di Nicola Longobardi

Maijayang. La globalizzazione è
un ripetitore di China Mobile appena oltre il fiume, a poche decine di
metri di distanza. Di là strade asfaltate e dighe, una macchina che sfila
tranquillamente lungo le rive del Ta Paing; di qua la pista irregolare e fangosa
attraverso le montagne, avamposti del Kachin Independent Army (Kia) e
campi profughi che appaiono in successione tra Maijayang (Mai Ja Yang) e Laiza,
le due città di frontiera ancora nelle mani dei Kachin (Jinghpo, Singpho),
gruppo etnico a maggioranza cristiana. La prima linea sta circa dieci
chilometri a Ovest.

La posta in gioco

Questa
guerra dimenticata tra ribelli kachin ed esercito birmano entra nel suo terzo
anno. Da inizio 2014 ha avuto una recrudescenza, con un susseguirsi di attacchi
alle postazioni del Kia, che risponde con tecniche di guerriglia. Intanto
proseguono a fatica i colloqui di pace che, nelle intenzioni di Naypydaw (nome
della nuova capitale birmana), dovrebbero portare a un cessate il fuoco
generalizzato ma che tutti i gruppi indipendentisti, anche quelli che hanno già
deposto le armi, guardano con sospetto. Ad aprile, il censimento nazionale è
stato attivamente boicottato dalla Kachin Independence Organization
(Kio) e intanto la guerra prosegue.

Iniziato
nel 1961, terminato nel 1994, il conflitto è ricominciato il 9 giugno 2011,
dopo 17 anni di pace. Si è detto che la molla scatenante sia stato il rifiuto
dei Kachin di trasformare l’esercito indipendentista in un corpo di guardie di
frontiera sotto il controllo centralizzato del Tatmadaw, l’esercito birmano. Ma
il primo attacco dei militari a una diga controllata dai Kachin, ha rivelato
che la posta in gioco è anche il controllo delle fonti energetiche e delle
materie prime. Non a caso, gli avamposti kachin sono spesso attaccati con la
scusa che essi coprano i contrabbandieri di legname che prendono la via della
Cina.

Il
che è pure vero. Carichi di tronchi d’albero, camion con targhe dello Yunnan –
la provincia cinese che confina a est con lo Stato Kachin – vanno su e giù per
le colline boscose a soli quindici chilometri da Maijayang. Qui, siamo in prima
linea.

Guerra di trincea e di mine

Il
tenente Hpau Jung Bawk Naw, 42 anni, è il comandante dell’avamposto kachin più
vicino alle linee birmane che si stagliano a soli settanta metri di distanza.
Il fronte ricorda le immagini della nostra Prima guerra mondiale, con trincee
che si fronteggiano anche per anni. Una mitragliatrice M18 è puntata verso il
nemico, mentre quindici soldati si aggirano stancamente tra le buche. In attesa
di qualcosa.

«Noi
teniamo la posizione, attendiamo ordini e buttiamo un occhio ai birmani. A
volte ci parliamo pure, con loro che stanno dall’altra parte, ma questo non si
può dire», racconta il tenente.

«Quando
sostituiscono tutti gli effettivi in prima linea, sappiamo che sta per
succedere qualcosa di grosso. Negli ultimi giorni, se ne vanno in giro
disarmati per l’accampamento, lasciano i fucili d’assalto a metri di distanza.
Vogliono farci credere che tutto è calmo, ma altrove hanno fatto lo stesso e
poi hanno attaccato improvvisamente. Nel gennaio 2013 hanno cercato di
conquistare il nostro avamposto, ma sono finiti sul campo minato. Noi piazziamo
mine in quantità industriale, così abbiamo avuto solo un ferito mentre loro
hanno contato centinaia di perdite. Non ci prepariamo in qualche modo speciale
perché molto semplicemente non abbiamo abbastanza armi. Ora stanno ammassando
truppe, lo si può capire dai bagliori metallici che si vedono su quel sentirnero
laggiù. Se attaccheranno, noi aspetteremo gli ordini e poi, in base a quelli,
ci ritireremo, ci difenderemo o ce ne staremo al riparo in trincea».

A
dispetto di quanto raccontato dal tenente Hpau, sugli ordigni sepolti ci
finiscono anche gli stessi soldati Kachin. «Ho 27 anni, sono un capo
guastatore, insegno ai ragazzi come mettere le mine. Il 20 giugno 2012, mentre
ne interravo una lungo la linea del fronte, ha cominciato a piovere. L’acqua ha
fatto qualche contatto e la mina è esplosa. Io mi sono ridotto così».

Il
soldato, attualmente in convalescenza presso l’ospedale militare di Maijayang, è
cieco, sordo da un orecchio, e ha perso alcune dita di entrambe le mani. «Sono
sposato e ho una figlia», dice. «Prima di arruolarmi nel Kia avevo una
fattoria. La vita all’ospedale militare è molto semplice: non faccio nulla, né
ho grandi speranze per il futuro. Passeggio qui in giro e aspetto».

Esercito versus guerriglia

È una
strana guerra: un mix di trincea e di guerriglia, in cui i soldati si feriscono
da soli mentre stanno semplicemente in attesa. Intanto, a poche decine di metri
dalla trincea, camion cinesi carichi di legno pregiato caracollano verso il
confine a Est.

La
sensazione di essere in una decadente «Apocalypse Now» dei nostri giorni si
accentua incontrando il capitano Maran Htorni Wa, 51 anni, stratega della prima
linea. Nel Kia è entrato nel 1979, 35 anni di vita militare e non se ne vede la
fine. Il suo compito è quello di mantenere il contatto con il comando e di dare
ordini in caso di attacco birmano. Lo troviamo in un avamposto appena dietro la
prima linea, mentre esce dalla sua capanna con gli occhi gonfi e visibilmente
ubriaco. Ha sei figli. In tempo di pace, con la moglie, disegna le uniformi del
Kia. Tutto il suo mondo ruota attorno all’esercito.

Le
forze Kachin appaiono inferiori alle truppe birmane. Eppure, secondo un recente
articolo del settimanale Jane’s Defense, «Hostage to History», il
Tatmadaw non ha la forza per vincere la guerra. Si legge: «Tra giugno 2011 e
l’inizio della campagna di Laiza, a metà dicembre 2012, almeno 5mila soldati
birmani sono morti nello Stato Kachin», nel tentativo di circondare il quartier
generale del Kia. Durante l’offensiva via terra e aria, sono stati anche messi
fuori combattimento «almeno due elicotteri e forse un velivolo ad ala fissa».

«E
per cosa?», chiede retoricamente il noto osservatore di cose birmane Bertil
Lintner: «La conquista di un paio di colline». Nel frattempo i ribelli del Kia
si ritirano velocemente, scompaiono nella foresta, e poi sono in grado di
riconquistare gli avamposti poco protetti attraverso tattiche di guerriglia
molto ben pianificata.

Civili o combattenti: la guerra non fa distinzioni

Per
le truppe birmane, diventa quindi più efficace una sorta di pulizia etnica che
consiste nell’aggressione di villaggi indifesi: uccidono, stuprano, torturano.

L’organizzazione
statunitense Inteational Human Rights Commission (Ihrc) ha appena
pubblicato un memorandum, nel quale si legge che «l’esercito birmano continua a
privilegiare i propri obiettivi militari rispetto alla protezione dei civili, e
lo fa anche attraverso politiche che implicano
attacchi diretti ai civili stessi». Secondo il documento, gli abusi
contro la popolazione sono parte di una strategia di «contro-insurrezione
centralmente pianificata», e allo stesso tempo esito apparentemente indesiderato
delle tecniche di guerriglia dei ribelli, che tendono «a confondere la linea di
demarcazione tra il civile e il combattente» (settimanale The Irrawaddy).

Questa
analisi sembra calzare a pennello per il Kia, un vero e proprio esercito
popolare in cui fin dall’adolescenza ogni uomo (e spesso anche donna) indossa
la mimetica e porta con sé un’arma, come il cosiddetto Ka-Ro-La, o «Kachin
Rocket Launcher», la modifica locale del fucile d’assalto M81 cinese, in grado
anche di lanciare granate.

Nkhum
Ja San, una giovane di 20 anni, proviene dal villaggio di Pa Namlim. «Il 16
novembre – racconta – l’allarme è suonato, l’esercito birmano stava arrivando.
Allora tutta la famiglia è andata a nascondersi, ma mio fratello 32enne ha
deciso di rimanere a casa perché sosteneva di non avere violato alcuna legge.
Nonostante mia madre gli dicesse di scappare. Quando siamo tornati al villaggio
un paio di giorni dopo, ho incontrato alcuni soldati del Kia che mi hanno detto
di avere trovato il corpo di un uomo con la gamba sinistra molto sottile. Ho
subito pensato che potesse essere lui, dato che aveva quell’handicap
[probabilmente poliomelite, ndr]. Avevo ragione. Indossava un’uniforme
del Kia e non aveva più il braccio sinistro e l’avambraccio destro».

La
soluzione politica non sembra all’orizzonte, anche se i colloqui di pace vanno
avanti. La proposta di un cessate il fuoco nazionale «è un diversivo», sostiene
Lintner. La questione principale è decidere se la Birmania debba trasformarsi
in uno stato unitario o in un’unione federale. «Di solito, prima si discute –
dice – e quando si trova un consenso è possibile sancire la tregua. Ma la
proposta del governo di “firmare ora e poi si vedrà” è una trappola. La
questione etnica birmana non può essere risolta in questo modo».

Tra fiumi di droga

Così
100mila sfollati si accalcano in una sorta di semisconosciuta «Striscia di Gaza»
che si estende lungo la frontiera cinese. Afflitti da una psicosi
dell’assediato, da un’esistenza quotidiana vissuta tra guerriglia e trincea e
da circostanze economiche gravemente destabilizzanti, mentre aspettano qualcosa
in un contesto di logoramento progressivo, i Kachin sono spinti talvolta
all’autodistruzione.

Se da
un lato si aggrappano alla loro fede cristiana, soprattutto battista ma anche
cattolica, dall’altro si abbandonano a false soluzioni che non fanno che
peggiorare le loro condizioni: ed ecco il diffuso consumo di eroina, che va di
pari passo con lo spaccio.

Secondo
padre Joseph Nbwi Naw, il prete cattolico di Laiza, la metà dei giovani kachin è
eroinomane. Non c’è modo di verificare questo dato, ma secondo l’ultimo
rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc),
in Birmania la coltivazione del papavero da oppio è in costante aumento dal
2006, in particolare nella tradizionale area di produzione dello Stato Shan –
quello a sud del territorio controllato dal Kio – ma anche in quello Kachin.
Almeno 300mila famiglie birmane vivono di questo business. La droga accede al
mercato mondiale dopo aver attraversato il Triangolo d’Oro (la zona di
produzione tra Myanmar, Laos e Thailandia, ndr) ed essere poi passata in
Thailandia e negli altri paesi del Sudest asiatico. Una parte dell’export va
invece in Cina e poi rimbalza in Birmania per l’uso locale, così il consumatore
deve solo attraversare un torrente o alcuni campi di canna da zucchero per
raggiungere il lato cinese e acquistare una dose da cinque yuan (meno di
un euro).

Secondo
il rapporto dell’Unodc, il conflitto favorisce la produzione di droga per tre
motivi. Primo: le difficili condizioni dell’economia di guerra costringono i
contadini a perseguire un reddito veloce e sicuro, cioè la coltivazione
dell’oppio. Secondo: i gruppi armati ribelli necessitano di fondi
immediatamente disponibili per l’acquisto di armi. Terzo: lo stesso governo
birmano incoraggia i gruppi paramilitari suoi alleati ad autofinanziarsi
attraverso il narcotraffico. È così che la droga va di pari passo con la
guerra.

Nei centri di riabilitazione

«Sono
entrato nell’esercito nel 1989. Nel 1998 ho disertato, poi ho fatto il
contadino. Ma quando la guerra è ricominciata, nel 2011, sono tornato
nell’esercito». A parlare è Lazing Htorni Shang, 43 anni, tossicomane,
spacciatore ed ex disertore dell’esercito kachin, attualmente detenuto nel
centro di riabilitazione di Maijayang. Qui, 53 persone tra drogati e pusher
stanno incollate una all’altra in celle di 16 metri quadrati: sono 12 o 13 per
ciascuna. «All’inizio bevevo solo alcolici – dice – poi ho cominciato a farmi
per via delle cattive compagnie. Compravo l’eroina a Loi Je, nel territorio
kachin occupato dai birmani. Quando uscirò di qui, toerò nel Kia. È un mio
dovere».

L’analogo
campo di riabilitazione di Laiza è gestito dal maggiore Hpandan Gam Ba, 47
anni, che

spiega
come funziona la politica di recupero/proibizione, comprensiva della promessa
salvifica della religione: «Diamo a tutti una Bibbia e, dopo cinque giorni di
trattamento con compresse di difenossilato [un oppiaceo sintetico, ndr]
che compriamo in Cina, li introduciamo alle attività di gruppo. Insegniamo loro
come coltivare le piante, allevare polli e fare giardinaggio, in modo che
abbiano qualche conoscenza utile per quando escono. Dal 2010, quando abbiamo
aperto il centro, più di mille persone sono passate di qui. Non solo Kachin. Ci
sono birmani di Yangon e cinesi. In definitiva, tutti quelli che acchiappiamo
nel nostro territorio. Siccome la nostra riabilitazione dura solo sei mesi,
alcuni cinesi vengono a farsi da questa parte del confine: se li prendono a
casa loro, si fanno almeno due anni. I nostri ospiti comprano droga soprattutto
in Cina, a volte li spiamo perfino con il binocolo. Ma la collaborazione con le
autorità cinesi è solo sulla carta. Capita che diamo loro tutte le prove per
arrestare qualche spacciatore che traffica sul loro lato, ma raramente fanno
qualcosa. La droga arriva soprattutto dallo Stato Shan e dal territorio Kachin»,
conferma.

Il fattore Cina

Il
gigante affamato al di là del fiume può apparire a volte il problema e a volte
la soluzione. Paga i Kachin per il legname e al tempo stesso dà il pretesto al
Tatmadaw per attaccare. Produce sia gli spacciatori sia le pillole per la
riabilitazione dei tossicomani. E molto di più.

Laiza,
la capitale della Kio, è una piccola città dove alla televisione si guardano i
programmi della Cctv, la televisione di stato cinese; si comunica con le reti
mobili di Pechino; si comprano sigarette Zhongnanhai, cioccolata, giocattoli
per bambini, e perfino riso e frutta made in China. Nel frattempo, quei
camion di legname continuano a fare rotta verso Est, placando la fame del
Drago, in un’osmosi inevitabile.

Ecco
cosa ne pensa Sumlut Gam, capo della delegazione del Kio ai colloqui di pace
con il governo birmano nonché ministro dell’Istruzione nel microstato kachin: «Siamo
in un tempo di guerra e la situazione economica è molto difficile. Avevamo una
centrale elettrica che rifoiva di energia perfino Mytkyna [l’ex capitale
Kachin ora controllata dai birmani, ndr] e in teoria potremmo ottenere
un profitto da questa attività e dalle tasse che raccogliamo per le miniere di
giada. Ma ora il governo prende di mira proprio queste fonti di reddito, quindi
tutto è bloccato. Ci resta solo l’agricoltura, che però non è sufficiente. Ed
ecco la Cina, questo vicino così importante. Loro non vogliono una guerra sul
confine, quindi è di vitale importanza non combattere qui e anche i birmani lo
sanno, astenendosi dall’attaccarci in questa striscia di terra. Grazie alla
Cina, il confine è sicuro».

Tradotto:
il Dragone ci tiene d’occhio e si aspetta di non sentire cadere uno spillo («Nessun
problema sui miei confini, signori»).

«Se
non procuriamo fastidi – continua Sumlut Gam – i cinesi rappresentano un
contributo di vitale importanza: acquistano le nostre materie prime e, non più
tardi di un mese fa, la loro Croce Rossa ci ha spedito il primo carico di aiuti
umanitari per i rifugiati».

In
passato, guardando in particolare all’Africa, molti osservatori hanno descritto
la sedicente strategia «win-win» cinese – cioè l’espansione commerciale del
Dragone che farebbe vincere (win) tutti – come una forma di imperialismo
economico in cui il vincitore finale è sempre Pechino, che arraffa diritti di
sfruttamento delle materie prime mentre si assicura uno sbocco di mercato per i
suoi prodotti di fascia bassa. L’altro vincitore sarebbero le élite locali, che
si riempiono le tasche di soldi cinesi debitamente stornati da investimenti
produttivi o dalla redistribuzione sociale.

Da
queste parti, oltre al legname, ci sono anche banane – la principale
piantagione di Laiza è di proprietà cinese e dà lavoro ad alcuni profughi del
campo – energia e un ridotto ma del tutto aperto mercato per i piccoli
rivenditori cinesi lungo il confine. E non vanno dimenticati i due grandi tubi
(gasdotto e oleodotto) che arrivano dal Golfo del Bengala, attraversano
l’intera Birmania, costeggiano il territorio kachin e raggiungono la provincia
cinese dello Yunnan.

La
terra dei Kachin è troppo vicina e Pechino deve tenere conto di tutte le parti
in causa, creando così una nuova strategia «win-win» alle porte di casa.

Pechino
sta quindi mettendo in atto un difficile esercizio di equilibrismo per non
scontentare due partner fondamentali: da una parte i Kachin (un milione dei quali
già vive sul lato cinese del confine), dall’altra il governo birmano, che
altrimenti correrebbe il rischio di cedere sempre più al fascino
dell’Occidente. Tuttavia, dato che i due attori sono in guerra tra loro,
trovare un’alchimia adeguata non è affatto facile.

Amore e odio

Ospedale
militare di Laiza. Si fa chiamare «Harry», ha 30 anni e tutti i giorni va a
passeggiare con la sua gamba artificiale in montagna. Prima, da civile,
lavorava in una miniera d’oro. È stato ferito da un proiettile di mortaio, ma
tiene duro, lui, vivo e vegeto su per la montagne. La sua protesi è prodotta
dalla Jiazhi, una società sino-tedesca dello Yunnan. L’intero arto costa 10mila
Rmb (circa 1.200 euro), solo la parte sotto il ginocchio, 8.000 (940): tutti
soldi del Kio che prendono la strada della Cina. «John», il medico, ha 25 anni.
Studi a Baoshan, Yunnan occidentale, non molto al di là del confine. Quando fa
le amputazioni, opera da solo, con le infermiere. Per ferite più gravi,
all’addome o agli organi interni, i soldati vengono spediti in Cina grazie a un
accordo tra il Kio e le autorità del Dragone.

Lat
Du Labang Naw Ja, 34 anni, è il responsabile nominato dal Kio del campo
profughi di Je Yang, vicino a Laiza. È il più grande dello Stato Kachin con più
di 8.600 Idp (Inteal Displaced Person).

«I
nostri rifugiati non fanno nulla tutto il giorno – dice – e attendono gli
aiuti. Ma alcuni di loro lavorano nella grande piantagione di banane cinese, il
che è buona cosa. Noi non vogliamo dipendere dai cinesi come schiavi, ma va
riconosciuto che pure loro hanno problemi: devono pagare le tasse al Kio e,
avendo bisogno di forza lavoro, ricorrono comunque ai nostri sfollati».

La
Cina è oggetto di amore e odio in questa terra. Hkun Htorni Layang, segretario
del Kachin National Council, un’organizzazione con sede in Inghilterra,
ha recentemente suggerito una soluzione abbastanza paradossale al problema
kachin: annettersi alla Cina con un referendum «alla crimeana». «Da quando la
Linea McMahon ha segnato il confine tra il territorio cinese e quello indiano –
ha scritto – noi Kachin ci siamo trovati divisi in tre paesi diversi: India,
Birmania e Cina. Il 2 febbraio 1947 abbiamo fatto l’errore di firmare gli
accordi di Panglong e di aderire all’Unione Birmana. Stiamo soffrendo da più di
50 anni, l’esercito birmano ha commesso crimini di guerra, ucciso civili
kachin, stuprato, bruciato i nostri villaggi e discriminato la nostra fede
cristiana. Non abbiamo mai sentito che i nostri fratelli kachin/jinghpo in Cina
soffrissero le stesse pene. I loro problemi non sono neanche paragonabili ai
nostri, qui in Birmania, e nessuno può affermare che l’Esercito Popolare di
Liberazione dia fuoco ai villaggi o uccida i Jinghpo in Cina».

Ma
Hkun Htorni Layang deve anche ammettere: «L’idea di annetterci alla Cina non
avrebbe però il consenso della nostra gente, perché Pechino sostiene il governo
birmano e fa investimenti non etici nello Stato Kachin».

Piccole storie per il domani

Il
lussuoso campo da golf è stato costruito per i dirigenti e i burocrati del Kio
sulla stessa strada che porta al campo profughi, appena fuori Laiza. Erba
verdissima, tagliata perfettamente, non sfigurerebbe alle Hawaii o nella Scozia
che al golf ha dato i natali. È una presenza aliena che non ha nulla a che fare
con il contesto. Ma i «germogli» di un ceto medio kachin stanno forse
lentamente emergendo dall’economia informale. Saranno loro il futuro di questa
gente, le leve di un diverso sviluppo materiale, senza che si stia ad aspettare
qualcosa che non arriva?

Al
campo profughi di Maijayang, una donna di 28 anni lavora su un telaio nella sua
baracca: fa gonne colorate nel tipico stile kachin. È completamente
autodidatta, dato che non ha soldi per pagare i corsi organizzati dal Kio. Il
suo sogno è quello di aprire un piccolo negozio con il marito vicino
all’ingresso del campo profughi. Forse questi campi diventeranno villaggi e la
gente non aspetterà più il camion degli aiuti.

«Eddy»
è un ventenne Kachin cresciuto a Yangon. Ha fatto il lungo viaggio per arrivare
qui passando attraverso la Cina. Ha scelto di lavorare come volontario nei
campi profughi. Il suo inglese è eccellente. L’ha imparato guardando film
stranieri, dopo avere appreso i primi rudimenti a scuola. Ha un cuore diviso a
metà: restare per dare una mano alla sua gente o cercare fortuna e una vita
migliore all’estero? Forse, un giorno, le due cose non si escluderanno.

Awng
Ban è un ufficiale dell’intelligence Kia di circa 30 anni. Attraverso una rete
di contatti dietro le linee nemiche raccoglie informazioni e poi posiziona le
poche armi pesanti disponibili nel modo più strategico per proteggere la linea
del fronte. Al termine della guerra, vorrebbe aprire un’attività di
compravendita di giada a gestione familiare. Dopo tutto, anche il commercio è
una questione di network.

La
parola kachin per «alcol» è «za». In un avamposto militare Kia sulle colline,
Gan Htorni, autista 30enne, offre un distillato di riso fatto in casa. Supera i
70 gradi. Non c’è il bicchiere, così va bevuto dalla bottiglia di plastica,
mentre si attende la jeep dell’esercito che ci deve portare verso Sud. Sua
moglie vende questa roba alla gente di Laiza; lui no, lui è un autista. Due
fonti di reddito sono meglio di una.

Sono,
questi, alcuni «germogli» nati dal lavoro vivo e dall’intraprendenza. In attesa
che i fiori fioriscano dal suolo fangoso della terra kachin. Per questo, però,
c’è ancora bisogno di tempo. E soprattutto della pace.

Gabriele Battaglia


Gabriele Battaglia,
giornalista, vive a Pechino. Membro di China
Files
, ha già collaborato con MC.

Nicola Longobardi,
fotogiornalista, vive a Pechino coprendo storie in Cina e altri paesi asiatici.
Collabora con China Files. Pubblica su
riviste italiane e inteazionali.

Archivio MC: la
rivista segue da sempre il Myanmar; da ultimo, il dossier di Piergiorgio
Pescali pubblicato ad aprile 2014.

Tags  guerre etniche, eserciti di liberazione, Cina, Myanmar, narcotraffico, tossicodipendenti, armi, mine, deforestazione, profughi, Kanchin, guerriglia, profughi

Piergiorgio Pescali




Mobile money: Meglio del cash?

Inchiesta «mobile money», denaro virtuale / 2


Compagnie telefoniche e banche non hanno perso tempo.
All’indomani del terremoto è iniziata la sperimentazione. Poco a poco il denaro
mobile cerca di entrare nelle abitudini degli haitiani. Offre facilità d’uso e
non chiede garanzie. Ma la gente ama toccare con mano biglietti e monete. Chi
vincerà la sfida?

Carrefour. Siamo nel grosso comune popolare all’uscita
Sud di Port-au-Prince, la capitale haitiana. Qui il terremoto del 12 gennaio
2010 ha colpito duro. Theguerre Derizaire sale al primo piano di un basso
edificio non intonacato e si infila in un corridoio stretto. Fuori diversi
cartelloni colorati indicano i vari «business» che si svolgono all’interno.

Theguerre
ha in mano il suo inseparabile telefonino da 10 dollari e si accosta a uno
sportello protetto con una robusta grata. Dall’altra parte qualcuno manovra un
telefono simile.

Theguerre
passa 300 gourd (i soldi haitiani, equivalente a circa sei euro) alla mano
dell’operatore e gli detta il suo numero
di telefono. Pochi istanti dopo riceve un sms: transazione eseguita.

Abbiamo
appena assistito al deposito di denaro su un portafoglio mobile.

Chi spinge sul mobile money

Haiti ha 10 milioni di
abitanti, di cui il 60 % non arriva a 35 anni e il 70% vive in povertà estrema,
ovvero con meno di un dollaro al giorno. Siamo nel paese più povero delle
Americhe. È anche uno dei più disastrati del mondo, messo in ginocchio dal
devastante terremoto, da un’epidemia di colera mai vista e da diversi cicloni.

Ma anche qui, come in molti
paesi del lato «povero» del pianeta, le compagnie telefoniche e le banche hanno
stretto inedite alleanze per sperimentare il mobile money.

Il loro obiettivo –
dichiarano – è la famosa «inclusione finanziaria», ovvero rendere bancabili i
non bancabili, dare un conto «mobile» a coloro che non hanno – e non avranno
mai – alcuna possibilità di aprire un conto in banca.

Secondo Georges Andy René,
direttore della compagnia Haiti pay che ha lanciato il prodotto Lajancash lo scorso anno, «ad Haiti ci sono circa 5 milioni di utilizzatori
di cellulari, mentre meno del 20% della popolazione ha accesso a una banca».
Allo stesso tempo: «Sul mercato bancario del paese ci sono meno di 40.000
detentori di carte di credito e carte di debito». Allan Richardson, navigato
manager internazionale, oggi capo operativo della compagnia telefonica Digicel, che si contende il mercato
nazionale del mobile money con Haiti pay, ci racconta i primi passi di
questo servizio sull’isola.

Nel dicembre 2010 la Bill & Melinda Gates Foundation mise a
disposizione, sotto forma di premio, un primo finanziamento di due milioni di
dollari per lanciare la Haitian Mobile Money
Initiative. A esso seguirono altri due finanziamenti (2011 e 2012)
ciascuno di un milione i dollari. Fu la Digicel, compagnia di telefonia
cellulare già ben installata nel paese, a vincere, e fu con quei fondi che
lanciò un primo sistema di mobile money: Tcho
tcho mobile (dove «tcho tcho» è uno dei tanti modi per chiamare il
denaro in creolo haitiano). Per far questo si mise in partenariato con la banca
canadese Nova Scotia operante ad Haiti.

All’inizio non fu facile: «La
piattaforma (programma informatico di gestione del sistema, ndr) non era performante. Si facevano
piccole cifre di vendita. Decidemmo di cambiarla, a inizio 2013. Solo
nell’estate di quell’anno abbiamo avuto un buon incremento di transazioni». Una
transazione è un’operazione realizzata sul conto mobile: deposito, ritiro,
trasferimento, ecc. Digicel ha 4,5 milioni di abbonati ad Haiti e per
Richardson «sono tutti potenziali clienti del Tcho tcho mobile».

Per attivare un conto Tcho
tcho mobile (Ttm) è sufficiente la carta d’identità e la compilazione di un
modulo. Occorre avere un cellulare con sim Digicel. Il vero limite è che sono
ancora molti gli haitiani senza documenti.

Insieme a Ineke Botter, la
direttrice generale di Digicel Haiti, Richardson ci spiega quali sono gli
ingredienti per fare partire il sistema. Sul territorio sono presenti gli
agenti, sportelli, spesso minuscoli botteghini, abilitati a caricare denaro sui
portafogli elettronici dei clienti quando questi vogliono depositare, e a
fornire contante per i clienti che vogliono ritirare. Sono poi in grado di fare
trasferimenti di soldi da un cliente a un altro. La seconda tipologia di attori
sono i commercianti abilitati ad accettare il pagamento tramite il Tcho tcho
mobile (in gergo: mobile payment).


Un «ecosistema» artificiale

«Occorre creare una buona
rete, e un cosiddetto “ecosistema” favorevole al denaro mobile. Abbiamo pensato
a un super agente a cui fanno capo gli agenti di primo livello che ricevono le
richieste dai clienti. Quando l’agente semplice non ha contante li può chiedere
al super agente. Perché se l’agente non ha cash quando serve, il sistema si blocca.

È inoltre necessario che
nella zona ci sia un buon numero di commercianti che accettano il pagamento in
Ttm. In questo modo chi riceve denaro “elettronico” può anche spenderlo senza
doverlo cambiare in cash. E il sistema gira».

L’obiettivo è che il cliente
mantenga il più possibile il denaro nella versione «mobile» e lo utilizzi
spendendolo o trasferendolo. In questo modo si crea una massa di denaro
virtuale che fa concorrenza a quello reale. Occorre una sorta di condizione di «fiducia»
che la compagnia deve guadagnarsi presso la gente.

«La questione importante è il
cambiamento di mentalità – ci confida un cliente – perché gli haitiani sono
abituati a toccare il denaro di carta o di moneta con mano».

Anche Theguerre pur
utilizzando Ttm fin da quando è stato lanciato ha ancora delle perplessità: «Non
ho paura che i soldi scompaiano, ma per precauzione evito di fare dei depositi
troppo importanti. Ad esempio 1.000 gourd (circa 20 euro, ndr), 2.000 ma non oltre». E ci spiega i
vantaggi che trova nel denaro mobile: «La ragione principale è evitare la
banca, dove c’è sempre la coda e il servizio è difficile. È un’alternativa, e
non si perde tempo. Si va da un agente Ttm. Poi c’è il vantaggio dell’orario,
alcuni agenti sono aperti fino alle 8 della sera. Se qualcuno mi manda soldi, è
comodo e si riceve rapidamente». Quindi Theguerre non si fida a lasciare troppi
soldi sul conto mobile e tanto meno a utilizzarlo per fare acquisti. Quando gli
chiediamo se conosce molta gente che lo utilizza risponde: «No, ma non è per
paura di perdere i soldi, piuttosto bisogna avere il denaro per fare un
deposito. La gente qui non ne ha abbastanza. Se faccio un deposito oggi per
ritirarlo domani non è conveniente. Inoltre penso che molti non sappiano come
funziona». In effetti ogni operazione ha un piccolo costo di commissione (2%),
mentre attualmente esiste un tetto massimo per un conto Tth mobile di 10.000
gourd (200 euro).

Gli
agenti Ttm sono oggi circa 300 su tutto il territorio nazionale. Intanto è
fondamentale la campagna di sensibilizzazione, con testi e immagini, per
spiegare i servizi del denaro elettronico. «Non è un mercato facile. Se non ci
sono abbastanza transazioni gli agenti non sono interessati» confida
Richardson.Attualmente Digicel permette trasferimenti di denaro a livello
nazionale, ma in futuro vuole estenderli anche al circuito internazionale,
entrando così nel mercato delle rimesse della diaspora, molto importante
soprattutto dagli Usa verso Haiti.

Un altro
servizio che offre Digicel è il pagamento di salari sul conto mobile dei
dipendenti. È stato sperimentato da alcune Ong inteazionali, ad esempio per
pagare il cash for
work, tecnica usata dalle Ong per far
realizzare lavori utili come la rimozione delle macerie dopo il terremoto con
pagamento alla giornata.

Bien Aimé
Ribaut è agente Ttm e Digicel a Lilavois, nel comune di Croix-de-Bouquet. Il
suo è un centro servizi molto attivo in questo quartiere popolare: «Quando abbiamo
cominciato con Ttm non ci ha soddisfatti molto, perché la commissione è bassa e
i clienti erano pochi in quanto il servizio non era conosciuto. Poi alcune
compagnie e Ong lo hanno utilizzato per pagare salari e aiutare sfollati del
terremoto. Era utile per facilitarli perché non potevano andare in banca. Così
il servizio si è diffuso. Ora questi programmi sono finiti, ma la gente
continua a usare Ttm perché è meno caro di altri sevizi di transfert nazionali. Inoltre sovente Digicel rimborsa le commissioni con  minuti gratis sulla ricarica telefonica».

Tecnologia alternativa

Più recente, ma non meno
agguerrita, è la concorrente Haiti pay. La questione è sempre cercare di fare
in modo che ogni haitiano in possesso di un telefonino abbia anche un portafoglio
mobile, ma la tecnologia utilizzata è diversa. Haiti pay ha un approccio «orientato
alla banca» e non «orientato alle telecomunicazioni». Non si tratta di un
gestore telefonico (come invece è la Digicel), ma di una compagnia di servizi
che si è messa in partenariato con una banca (la Banca nazionale di credito,
Bnc) e utilizza un software che può funzionare con qualsiasi operatore
cellulare. Ad Haiti il secondo operatore si chiama Natcom e, se resta escluso dal circuito
Ttm, è invece utilizzabile con Lajancash (in creolo: soldi contanti) lanciato nel giugno 2013.

Ci spiega Georges Andy René,
giovane manager haitiano: «Lajancash è un prodotto di “pagamento mobile” o mobile banking, che offre la possibilità di
fare transazioni ovunque ci sia copertura telefonica sul territorio haitiano.
Soprattutto non si fa distinzione tra gli operatori telefonici: possono essere
Digicel, Natcom o un operatore straniero. E l’utilizzatore di un operatore può
mandare soldi a quello di un altro. Abbiamo fatto in modo di rispettare le
norme stabilite dalla Banca Centrale che vuole l’interoperabilità degli
operatori, ovvero non si deve forzare un cliente a scegliere una compagnia
telefonica piuttosto che un’altra».

E continua: «Questa
tecnologia è pensata per facilitare l’inclusione finanziaria della popolazione
a più debole reddito». Inventato da due francesi della società Tagattitude, il prodotto, chiamato TagPay, utilizza una tecnica basata su una
codifica e decodifica audio fonica (Near
sound data tranfer). Ovvero le informazioni finanziarie
sono trasferite attraverso suoni opportunamente codificati. Tagattitude,
fondata nel 2005 proprio per fornire servizi nel mobile money ha oggi diffuso TagPay in diversi
paesi del mondo.

Anche Haiti pay sta mettendo in piedi la sua «rete»
di agenti e di commercianti abilitati a ricevere il pagamento. «Con la Bnc
abbiamo già una rete di agenti, le 32 succursali della banca che offrono il
servizio, e stiamo aumentando la rete a 115 punti o agenti in servizio su tutto
il territorio».

L’agente o il commerciante,
hanno a disposizione un terminale (simile a un lettore di carte bancomat). Il
cliente che vuole ritirare (cash out), depositare, oppure pagare un acquisto dal commerciante, dopo
aver inserito il suo codice, avvicinerà il telefono al terminale e i due «comunicheranno»
con una serie di bip durante pochi secondi, convalidando la transazione.

Il telefono necessario può
essere dei più semplici. La piattaforma Lajancash è tuttavia accessibile con ogni tipo di interfaccia (smarthphone,
sito Inteet, call center, carte bancarie).

Sebbene Andy René dichiari: «Abbiamo
un portafoglio clienti che cresce», verifichiamo che Lajan-cash, forse per la sua giovane età, è
ancora poco diffuso.

Anche Theaguerre ha sentito
parlare di questo servizio in Tv, ma resta fedele a Tcho tcho mobile sebbene il
suo agente di riferimento tratti pure il concorrente.

Micro finanza mobile?

Digicel ha stretto un accordo
con la nota istituzione di micro finanza (Imf) Fonkoze (Fondasyon
kole zepòl, Fondazione uniamo le forze) presente ad Haiti nel campo
del micro credito da 20 anni, con 46 sportelli disseminati in tutto il paese.

A Fonkoze si definiscono: «Una
banca alternativa» come racconta Saint-Jean Ronald direttore della succursale a
Pont Sondé, grande mercato in zona rurale nei pressi del fiume Artibonite,
nell’omonimo dipartimento.

«Fonkoze fornisce micro
crediti commerciali, e possibilità di aprire conti di risparmio a piccola
somma, 25 gourd o 5 dollari. Offriamo inoltre molte formazioni ai nostri
clienti. Dall’alfabetizzazione alla salute» racconta il giovane direttore nel
suo caldissimo ufficio di Pont Sondé.

Nell’accordo con Digicel,
Fonkoze gioca il ruolo di super agente per Ttm a livello nazionale. «L’obiettivo
di Fonkoze è migliorare le condizioni di vita delle persone più deboli e
vulnerabili – ricorda Ronald -. Ogni volta che possiamo introdurre programmi
per aiutare la classe più povera cerchiamo di farlo». «Il programma con Ttm è
iniziato nel 2011 e progredisce bene, anche se a volte ci sono difficoltà
tecniche.

Attualmente
abbiamo tra i 100 e i 150 clienti Ttm in questa succursale. Il numero è stabile».

Poi ci
sono i piccoli agenti: «Abbiamo molti rapporti con i piccoli agenti. Dal mese
di gennaio 2014 abbiamo lanciato la possibile adesione, ci sono numerose
richieste di iscrizione e di informazione, ma visto che abbiamo un problema
tecnico non riusciamo al momento a far partire il sistema».

Saint-Jean Ronald ha la sua
personale idea sul denaro mobile: «Penso che il mobile money possa migliorare l’accesso al
credito dei più poveri, se non altro perché facilita alcune operazioni, come il
trasferimento di soldi. Lo sviluppo delle telecomunicazioni in Haiti è buona.
Ci sono i telefoni anche nei posti più remoti. Tutti possono usare Ttm».

Vere applicazioni di micro
finanza con mobile money in realtà sono solo all’inizio ad Haiti. Anche se sono nei
programmi futuri dei due operatori. «Ricevere un credito sul portafoglio Tcho
tcho e poi restituirli con lo stesso. È Quello che vogliamo fare» assicura
Allan Richardson.

Secondo Georges Andy René,
Haiti Pay fa già micro credito: «Nei nostri punti di servizio si possono
ricevere i pagamenti con fondi dati a credito. Le banche di micro finanza
distribuiscono prestiti sui portafogli mobili e i titolari di questi possono
acquistare dei beni (come concimi, utensili, ecc.) presso commercianti
convenzionati, senza usare cash. Si ha così tracciabilità su come vengono spesi i soldi del
prestito e si può verificare se sono usati per l’obiettivo previsto. Questo
riduce il rischio finanziario per chi presta e permette di ridurre il tasso di
interesse».

La persona che ha ricevuto il
micro credito, potrà poi fare il rimborso da qualsiasi agente, senza dover
andare dalla Imf. Questo può servire a rendere più capillare l’attività della
banca rurale.

Il top manager Allan
Richardson, dall’alto dell’undicesimo piano del palazzo Digicel a
Port-au-Prince sostiene di guardare agli strati sociali più bassi: «Siamo
convinti che questo tipo di tecnologia può creare sviluppo in un paese. Le
transazioni con commissioni molto basse aiutano i poveri. Si possono fare
operazioni con la stessa qualità della banca ma molto più facilmente. Inoltre
questa tecnologia può far scendere i crimini.

Non pensiamo sia un contesto
difficile, ma dobbiamo educare la gente». E aggiunge con una sonora risata: «Occorre
far capire la regola del Btc: better then
cash!
(meglio dei contanti)».

Marco Bello e
Gianluca Iazzolino
 

Questo servizio è la seconda puntata dell’inchiesta sul
mobile money intitolata: «Riuscirà
il denaro del futuro a rendere la povertà un problema del passato?
». L’inchiesta è finanziata nell’ambito del programma Innovation
Development Reporting
dell’European Joualism Centre
(www.joualismgrants.org). Sul sito di MC saranno disponibili i video.

Il primo articolo è apparso nel Luglio 2014: Somaliland, il paese che non c’è

Una business woman e le nuove tecnologie

Mobile money: «Facile
e veloce»

Port-au-Prince. Al secondo piano di uno stabile a Delmas
33, dove trovano spazio diverse boutique delle merci più svariate, si è
installata Vanessa Morpo, con il suo Capri Service. Bella donna e,
soprattutto, business woman intelligente, Vanessa è al tempo stesso
agente di Digicel Tcho tcho mobile e commerciante abilitato, tramite il suo
negozio di vestiti pret-à-porter.

«Ho iniziato questo servizio nel
2012 – dichiara Vanessa. – All’inizio i clienti non lo comprendevano e anche io
ero scettica. Poi, dopo averlo utilizzato regolarmente, ho visto che è
affidabile e anche i clienti si sono abituati e lo apprezzano molto». Ci sono
sempre quelli che si lamentano, ammette Vanessa: «Alcuni non hanno fiducia,
altri vedono che talvolta non c’è il segnale telefonico. Noi li aiutiamo a
iscriversi e spieghiamo loro come funziona. Si rendono subito conto che è molto
semplice».

Cosa si guadagna? «Per fare un deposito da 25 a 1000
gourd noi prendiamo una commissione del 2%, e la stessa cosa se si ritira».
Vanessa assicura che ha una cinquantina di transazioni al giorno, di tutti i
tipi. Inoltre ci sono le nuove registrazioni: «Il nuovo cliente viene con un
documento d’identità valido, facciamo una fotocopia, compiliamo un modulo e
subito può depositare o ricevere». La zona è molto «frequentabile», sostiene
Vanessa, così i suoi clienti sono i più disparati: avvocati, medici,
commercianti, molti studenti, soprattutto universitari.

Anche i più poveri vengono a Carpi
Service
per utilizzare Ttm. «Ci sono persone che inviano soldi in provincia
e non portano neanche il telefono, oppure caricano il loro telefono e poi
eseguono il trasferimento».

L’altra faccia di Capri Service è la boutique. «Siamo
anche agenti commerciali Ttm. Vendiamo vestiti e si può pagare con il conto
telefonico. I clienti si lamentano ma noi facciamo in modo che paghino con Ttm.
Madame Kethly aiuta i clienti a registrarsi e a fare i depositi. Il loro numero
sta aumentando ogni giorno». Mentre parliamo c’è un andirivieni costante di
gente allo sportello del Ttm in fondo al corridoio.

Altri servizi? «Facciamo anche il
pagamento degli impiegati e del cash for work». Chiediamo a Vanessa, che
dà lavoro a due ragazze, se è soddisfatta di questo business: «Noi
commercianti non siamo mai soddisfatte. La commissione che c’è adesso non è
gran che, ma quando si sarà diffuso di più mi aspetto guadagni maggiori».

Ma.Bel. e
Gian.Iaz.

Tags: mobile money, soldi, banche, commercio, povertà, microfinanza

Marco Bello e Gianluca Iazzolino




Dalla Sardegna all’Africa

Storia di un giovane missionario


Fabio Malesa, nato e cresciuto a Olbia, scopre in Messico la
sua vocazione. Preso il suo destino in mano, dopo un lungo percorso, eccolo
missionario della Consolata in Mozambico. A raccogliere le sfide del nostro
tempo e di una Chiesa che cambia rapidamente. Anche in Africa.

C’è sempre una prima volta, dicono. La prima volta
di padre Fabio Malesa in Mozambico risale all’anno 2000. Era ancora un giovane
studente di teologia quando giunse, tra l’emozionato e il preoccupato, a
Cuamba, regione del Niassa. E lì, nel primo impatto con l’Africa non più
libresca, padre Fabio (classe 1972, figlio unico e perciò anche un tantino
viziatello) imparò, gioco forza, a fare un po’ di tutto. Fu carpentiere,
infermiere, animatore, professore, cuoco. Diceva di sé, scherzando, nei
periodici rientri in Italia, che sarebbe stato preferibile che lui non avesse
frequentato il liceo classico ma semmai un istituto d’arti e mestieri.

Fabio
studiava medicina a Sassari. Fece un viaggio in Irlanda per migliorare il suo
inglese. Lì conobbe una congregazione religiosa di origine messicana e al suo
rientro in Italia comunicò ai genitori di aver deciso di diventare missionario.
Il momento non fu facile, ma Fabio lo superò arrivando al noviziato in Messico.
Qualche anno dopo, guardando con maggiore realismo il tutto, considerò che
sarebbe stata preferibile una congregazione italiana e presente anche a Olbia,
così decise per i missionari della Consolata. La figura di padre Silvio
Lorenzini, trentino, con la sua testimonianza di fede certamente influì molto
nella formazione e nella decisione di Fabio.

Il grande passo

Di
Fabio Malesa abbiamo scritto per la prima volta nel 2007 di quando, in un tardo
pomeriggio d’ottobre, nella basilica romanico-pisana di San Simplicio, a Olbia
(Nord Est della Sardegna), la sua città natale, ricevette dal vescovo, alla
presenza di genitori, parenti e amici, l’ordinazione sacerdotale.

La
sua destinazione come missionario, allora, era nota: Vilankulo accogliente
località, poco distante dal mare, nel Sud del Mozambico, per altro anche meta
turistica, e dal nome piuttosto buffo per noi italiani.

Vilankulo
era per padre Fabio anche un ritorno in quanto, prima dei quattro anni di pausa
in Italia per il completamento della formazione, vi era già stato diacono e vi
aveva fatto come altrove i mestieri più disparati.

In
missione, inoltre, quasi sempre non esistono i comfort del proprio contesto di
provenienza. E l’essere umano si adatta.

Maputo

Oggi,
a Maputo, la capitale del Mozambico, città cosmopolita, Fabio ricopre
l’incarico di vice superiore regionale dei missionari della Consolata nel
paese. Dei sei anni di Vilankulo conserva il bellissimo ricordo delle
esperienze fatte, specie quelle con i giovani. La sua relazione con la gioventù
non meraviglia nessuno, conoscendone le doti umane, spirituali e professionali.
Sì, perché un missionario, oggi come oggi, deve essere di fatto anche un
professionista della missione. In giro, infatti, sotto qualunque cielo, la
gente è più esigente. In Africa, come altrove. Per accoglierti e seguirti essa
attende risposte serie e testimonianze coerenti.

A
Maputo padre Fabio regge, coadiuvato da animatori laici, due parrocchie
frequentate complessivamente da almeno tremila persone. L’area è quella di
Matola, una periferia urbana in espansione, dove convivono autoctoni,
mozambicani giunti da altre città del paese e persino portoghesi che, per la
crisi economica di cui è vittima il Portogallo, hanno scelto di andare a vivere
e a lavorare nell’ex colonia.

Matola
è un contesto variegato, un quartiere abitato da ricchi e poveri. Non
ricchissimi certamente e neanche poverissimi.

Tuttavia
il consumismo vi è giunto con prepotenza, facilitato proprio dall’ambiente
metropolitano. Il contesto spinge la gente a una continua competizione per
procurarsi ciò che desidera e che non ha e che sa di non poter avere a breve. E
possono così accadere anche fatti spiacevoli. Padre Fabio, ad esempio, ne ha
vissuto uno di persona, proprio nella casa dei missionari di Matola. Un fatto
davvero terribile se si considera che c’è stato persino un morto: un
confratello (l’autrice si riferisce a padre Valentim Camale, ucciso il 3/5/2012,
ndr),  che si
era rifiutato di consegnare il denaro richiesto da un teppistello e dai suoi
complici, penetrati nell’abitazione con l’intento di consumare una rapina, a
loro parere, facile.

A
Vilankulo – sottolinea Fabio – il contesto era molto più aperto e accogliente.
Era fatto di gente semplice, allegra quanto basta (i mozambicani non sono
musoni) e soprattutto generosa anche nel poco. Certamente – chiosa – anche in
quel contesto non mancano problemi seri come strade dissestate, agricoltura
appena di sussistenza (il terreno è sabbioso, rende poco e costa fatica
coltivarlo), malattie endemiche, Aids, limitata scolarizzazione.

Una grande partecipazione

Maputo,
la grande città, per quanto più confortevole per chi la vive, tende a
spersonalizzare i rapporti umani. Per fortuna non mancano cordialità e
collaborazione da parte degli animatori o dei catechisti, di quelli che sono
responsabili dei differenti settori della pastorale nelle parrocchie, e dei
loro familiari. E di tutti coloro che, magari anche per caso, imparano a
conoscere da vicino e a stimare il lavoro dei missionari della Consolata.

Questo
spirito di fratellanza costruttiva mitiga la solitudine e aiuta parecchio, in
quanto il missionario è persona come noi e l’affettività, vissuta correttamente,
è importante per affrontare con serenità i pesi della quotidianità.

La
politica nella capitale, e nel Mozambico in genere, è molto presente nella
quotidianità della gente comune. In particolare con l’onnipotente e
onnipresente Frelimo, il partito politico, a suo tempo di marcata connotazione
marxista, che è al potere da parecchi anni ed è uscito vincitore da una lunga e
devastante guerra civile (la guerra civile in Mozambico, iniziata nel 1975 si è
conclusa con gli accordi di pace del 1992, ndr). Un partito – precisa
padre Fabio – che, senza timore di smentita, fa il buono e il cattivo tempo in
tutto.

In
poche parole, senza la tessera del Frelimo in Mozambico non si lavora nello
stato. Il partito antagonista, la Renamo, il partito nazionalista che, nient’affatto
arresosi per la sconfitta subìta, in vista delle prossime elezioni cerca di
dare filo da torcere, come può, all’avversario politico.

La
corruzione, in certi ambienti e per certi sostanziosi contratti, è di casa tra
i politici.

Pastorale di responsabilità

La
Chiesa missionaria (i missionari della Consolata sono in tutto il Mozambico
circa una quarantina con due vescovi di recente ordinazione) si adopera per una
crescita umana e spirituale della gente puntando a una pastorale il più
possibile decentrata (distribuzione dei compiti e formazione dei responsabili).
Ed è anche quello che sta tentando di fare padre Fabio nelle due parrocchie di
cui è responsabile a Matola. E cioè in quella più centrale di Santa Teresina
del Bambino Gesù, a Liqueleva, e in quella di Santissima Maria Assunta, a
Liberdade.

Compito
per niente facile in quanto non mancano le resistenze. Anche da parte di alcuni
missionari che, per età anagrafica o per consuetudine, stentano ad accettare
gli indispensabili cambiamenti.

Chi
reagisce positivamente è invece la gioventù del luogo, che si sente fortemente
motivata proprio in quest’assunzione di responsabilità. Ragazzi e ragazze di
formazione cattolica, molti dei quali provengono da ambienti modestissimi, con
grande desiderio di imparare e di fare. E questo li distingue dai nostri
giovani in Europa e in Italia.

Il
sacrificio personale resta un’ottima scuola.

Chiesa internazionale

La
Chiesa africana, quindi anche quella mozambicana, è in crescita, e
l’inteazionalità non fa problema. Fabio Malesa l’ha vissuta in seminario
prima, da studente, e poi da prete oggi. È infatti una consuetudine, anche tra
i missionari della Consolata, essere di tante nazioni diverse.

Padre
Fabio lavora a Matola con un viceparroco congolese, con il quale c’è un’ottima
intesa.

Nel
concludere chiediamo a padre Fabio se, oggi come oggi, alla luce della sua
esperienza, rifarebbe la stessa scelta, di essere un missionario, e cosa
direbbe a un giovane che mostrasse interesse per la missione ad
gentes. Lui, senza esitazione, ci fa capire che l’essere accanto alla gente
bisognosa, saperla ascoltare, confortare, prospettarle una speranza fondata
sugli insegnamenti della Parola, è una ricchezza impagabile per chi sceglie di
farlo.

A
sera, pure se stanco come un asino gravato da enormi e spesso insopportabili
pesi – aggiunge – ti addormenti sereno perché sai di avere fatto gratuitamente
la tua parte di «bene» proprio come voleva per i suoi figli l’Allamano e anche,
e soprattutto, come esige la tua coscienza di uomo.

Marianna Micheluzzi

 

Tags: Malesa, missionario, evangelizzazione, vocazione, missionari, IMC

Marianna Micheluzzi