Risvegliare le coscienze

Incontro con Pierre
Rabhi

Nato nel Sahara algerino,
Pierre Rabhi cresce in Francia. Molto presto capisce che il modello
capitalistico consumista è votato al fallimento, e porta gli uomini
all’infelicità. Il pianeta Terra non è illimitato. Occorre curarlo, accudirlo.
Nel 1963 Pierre decide di diventare contadino. Con l’esempio della sua vita
«inventa» l’agroecologia. Un metodo e una filosofia di vita. E la diffonde in
diversi paesi.



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La società umana può ancora modificare i suoi stili di vita e i
paradigmi economici dominanti orientando il suo destino verso l’edificazione di
un mondo migliore? Può ancora dare il diritto a ogni individuo di nutrirsi, vestirsi,
curarsi, avere una dignitosa dimora e un’istruzione?

Può cambiare rotta recuperando il suo atavico
equilibrio con la natura, rispettando i delicati ecosistemi? A queste e ad
altre domande Pierre Rabhi ha trovato una risposta partendo dalla sua diretta
esperienza di vita, come ex operaio, avvicinatosi alla terra per sentirsi
libero, indipendente dalle regole del mercato, e recuperando valori imperituri,
come la protezione e la valorizzazione dell’ambiente. Per trovare una soluzione
ai problemi non solo ecologici del nostro pianeta, ogni individuo – nella
visione di Rabhi – non dovrebbe attendere l’intervento degli stati che spesso
prendono decisioni politiche contraddittorie e inefficaci, ma deve attivarsi in
prima persona, attraverso piccoli e grandi gesti in grado di modificare «il
sistema».

L’idea dell’importanza dell’attivismo
individuale, poi traslato in una rete più ampia di gruppi interdipendenti è
sorta in Pierre Rabhi leggendo una favola di un popolo amerindo che racconta la
storia di un piccolo, ma coraggioso colibrì: «Un giorno – narra la leggenda –
ci fu un immenso incendio nella foresta. Tutti gli animali, terrorizzati e
costeati, osservavano impotenti il disastro. Solo il piccolo colibrì si
impegnò, andando a cercare qualche goccia d’acqua per gettarla sul fuoco
attraverso il suo becco. L’armadillo, irritato dai suoi movimenti, gli disse:
colibrì, ma sei folle? Credi davvero che con poche gocce d’acqua spegnerai
l’incendio? Lo so, rispose il colibrì, ma io faccio la mia parte». Ecco la
risposta alle nostre domande iniziali: «Io faccio la mia parte».

Leggendo questo mito amerindo Pierre Rabhi ha
trovato il suo cammino di vita attivandosi in prima persona per cambiare quelle
regole del sistema deleterie per la sopravvivenza non solo del pianeta, ma
anche della stessa specie umana.

Ma chi è Pierre Rabhi?

È un uomo che ha seguito l’amore per la natura
rivoluzionando non soltanto la sua esistenza.

Dall’Algeria, dove nel 1938 è nato e cresciuto
immerso in un habitat straordinario caratterizzato dalle oasi del Sahara, si è
trasferito in Francia a soli 12 anni, in seguito alla morte prematura della
madre. Il padre, fabbro, musicista e poeta, con l’arrivo della «modeità» e
dei colonizzatori francesi è stato obbligato ad abbandonare il suo tradizionale
lavoro per scendere nel cuore del sottosuolo, in una miniera di carbone. Un
drastico cambiamento che ha segnato anche l’esistenza di Pierre Rabhi. Su
decisione del padre è stato educato in una famiglia di formazione europea.

In seguito, durante gli anni trascorsi a Parigi,
lavorando in fabbrica come operaio specializzato, si è reso conto delle
profonde ingiustizie del sistema industriale capitalistico, tanto da sentire la
necessità di abbandonare tutto per scegliere un’altra vita, in simbiosi con la
terra. Una decisione che lo ha condotto a sviluppare in modo pionieristico
l’agroecologia, come lui stesso ci ha raccontato: «Sono nato nel Sahara, in
un’oasi del Sud dell’Algeria, ma sono cresciuto con una famiglia francese.
Questa doppia cultura non è stata facile da gestire, ma al di là di alcune
contraddizioni, la civiltà algerina e quella francese si tengono per mano. Sono
riuscito a trovare un equilibrio. Da oltre quarant’anni vivo con la mia
famiglia nelle Cévennes, dove mia moglie Michèle e io abbiamo creato una
fattoria gestita e coltivata secondo principi ecologici. Il che significa
vivere in armonia con la natura».

Prima di dedicarsi alla terra e di vivere a
stretto contatto con un ambiente straordinario dal punto di vista
naturalistico, Rabhi ha lavorato in fabbrica come operaio specializzato. Allora
era solo ventenne. Era l’epoca a cavallo tra il 1950 e gli anni Sessanta,
quando sembrava che l’industria potesse rivoluzionare tutto, portando benessere
a ogni latitudine del globo. Così non è stato.

«Solo pochi hanno beneficiato del cosiddetto
progresso. La stragrande maggioranza dell’umanità incontra enormi problemi a
nutrirsi, istruirsi, a vivere dignitosamente. Il mondo della fabbrica mi ha
aperto gli occhi. Anche dopo, quando decisi di andare a vivere in campagna,
lavorando in numerose fattorie come operaio agricolo sentivo che mancava
qualcosa: mancavano buone regole nel sistema di coltivazione e di distribuzione
delle risorse della terra. Ero molto combattuto se continuare ad accettare l’uso
di pesticidi e di altri prodotti chimici. Non condividevo gli strumenti
agricoli utilizzati, perché altamente deleteri per il suolo».


Agroecologia

«Grazie ad alcune letture, tra cui La Fertilità della Terra di Ehrenfried Pfeiffer e i libri di Rudolf Steiner,
fondatore dell’antroposofia, mi sono avvicinato all’agricoltura biodinamica.
Così, leggendo, sperimentando e coltivando la terra, ho capito che
l’agroecologia è la via – o comunque una delle vie ecologiste – che può salvare
il pianeta dalla catastrofe sia ambientale, sia sociale.

L’agricoltura industriale praticata nel Nord del
mondo inquina l’acqua e l’aria, distrugge il naturale humus fertile del suolo,
elimina la biodiversità mettendo brevetti alle sementi. L’agroecologia rispetta
la natura e al contempo la dignità umana».

Pierre Rabhi è uno degli antesignani in Europa
dell’agroecologia, che poi si è diffusa in altre zone del globo, in particolare
in Africa, attraverso efficaci progetti da lui stesso cornordinati. Il suo lavoro
è apparentemente semplice, perché non ha fatto altro che ritornare
all’agricoltura, la più antica attività dell’uomo, fonte di cibo.

Pierre Rabhi è però ritornato alla terra
eliminando prodotti chimici, pesticidi, sementi brevettate, fertilizzando il
terreno con i vecchi metodi usati ancora dai nostri nonni come i concimi
naturali e i rifiuti organici. Agroecologia significa rispettare gli equilibri
della terra.

L’uomo nella visione di Rabhi non è il
dominatore, né lo sfruttatore della natura per ottenere profitto, piuttosto è
compartecipe dei cicli naturali: semina utilizzando le stesse sementi
provenienti dal suo raccolto, aiuta a creare quell’humus indispensabile a far
germogliare i frutti, partecipa al mantenimento della salute della terra,
nutrendola, rispettandola.

No alle logiche del profitto

Pierre Rabhi, in Francia, richiama sempre
centinaia di persone ai suoi incontri sui temi dell’ecologia, della biodiversità
e della decrescita. I suoi libri sono letti da adolescenti, uomini e donne di
mezza età, anziani. Egli è una calamita per quanti ricercano uno stile di vita
diverso dalle logiche del profitto fine a se stesso. Con il suo modo di parlare
così pacato e gentile racconta alla gente che si può scegliere di vivere
diversamente, senza subire i diktat dell’industria agroalimentare, divenendo
autonomi attraverso la creazione di un proprio orto.

Per Pierre Rabhi, l’agroecologia è
indissolubilmente intrecciata alla sobrietà felice, in totale antitesi con chi
crede ancora nel paradigma economico della crescita. Pensare di produrre ancora
di più, pensare di sfruttare le risorse del pianeta ancora di più, pensare a un
«di più» illimitato (e incerto) conduce l’umanità su una strada pericolosa,
poiché disumanizza l’uomo e lo allontana dalla natura, sua vera nutrice.

Apertura al mondo

Queste idee Pierre Rabhi le ha trasposte nei
suoi numerosi progetti di agroecologia avviati con successo in Francia.
Diventato nel 1978 responsabile per la formazione in agroecologia del Centro di studi rurali applicati (che ha oggi sede a Lione), Pierre Rabhi ha
trasmesso la sua esperienza al di fuori dei confini francesi ed europei. Nel
1981 si è recato in Burkina Faso, invitato dal governo per aiutare a risolvere
la crisi ambientale ed economica del paese.

«Il Burkina all’epoca stava vivendo importanti
trasformazioni. C’era molta instabilità. Poi con l’arrivo di Thomas Sankara
qualcosa iniziò a cambiare. Quando lo incontrai per descrivergli i miei
progetti fu molto interessato all’agroecologia. Mi diede carta bianca per
rivalorizzare l’agricoltura nella “terra degli uomini integri” (significato di
Burkina Faso, ndr). C’era tanto da fare. Risolvere le continue
carestie e trovare alternative all’uso di pesticidi e di semi industriali erano
le priorità.

Nel 1985, riuscii a creare a Gorom Gorom, nel
Nord del paese, il primo Centro africano di
formazione in agroecologia.
Spiegai ai contadini burkinabè quanto è importante ritornare a usare concimi
naturali e, tra l’altro, a basso costo: i fertilizzanti per il suolo li potevano
produrre loro stessi grazie ai principi dell’agricoltura biodinamica.

La prematura e tragica morte di Sankara è stata
un duro colpo e ha costretto a ridimensionare il progetto in Burkina, ma non ad
annullarlo. Avevamo formato 900 persone, tra contadini e agronomi, così che le
pratiche legate all’agroecologia si sono potute diffondere anche in altre zone.
In Burkina sono oltre 100mila i contadini che oggi impiegano concimi organici
per fertilizzare il suolo».

Grazie a questo e ad altri programmi in Marocco,
Palestina, Algeria, Tunisia, Senegal, Togo, Benin, Mauritania, Pierre Rabhi,
alla fine degli anni Ottanta, viene riconosciuto come esperto internazionale
per la sicurezza alimentare e la lotta contro la desertificazione. Un fenomeno,
quest’ultimo, che lo preoccupa molto, insieme ai cambiamenti climatici.

Risorsa Terra

«A livello globale la siccità è un fenomeno in
aumento. Nella regione del Sahel ci sono state carestie terribili che hanno
abbattuto greggi, distrutto alberi, segnato la vita di famiglie e interi
villaggi. La siccità collegata ai cambiamenti climatici e al riscaldamento
globale è un problema che tocca la terra, le popolazioni, l’alimentazione. È
necessario modificare il nostro stile di vita.

Questo significa rivedere il paradigma economico
basato sul capitalismo internazionale, che escogita sempre nuove forme di
sfruttamento per ottenere profitto. Penso a quelle multinazionali che
utilizzano le terre dei paesi del Sud del mondo, in particolare in Africa, per
produrre nuove merci. Molte industrie agroalimentari sono alla continua ricerca
di nuovi terreni da sfruttare e l’Africa è un continente con enormi risorse.
Questo è il fenomeno del land grabbing (accaparramento di terra, ndr),
che causa la distruzione delle foreste e facilita l’ingresso degli Ogm
(organismi geneticamente modificati, ndr), che a mio avviso sono un
crimine contro l’umanità. I popoli oggetto del land grabbing sono privati del loro diritto a vivere, a causa di un processo di
spoliazione perpetrato da altri.

Ciò viene aggravato da capi di stato corrotti.
Se i politici al posto di essere disonesti proteggessero il loro popolo, la
situazione cambierebbe enormemente. Thomas Sankara stava cercando di cambiare
le cose, ma proprio a causa delle sue idee e per quello che stava realizzando
venne assassinato. Sankara stava andando contro gli interessi delle
multinazionali, come la Monsanto.

Ogni volta che si afferma un essere umano con
grandi qualità, gli si impedisce di vivere. Penso a Gandhi, a Martin Luther
King.

Ritengo che solo eliminando la corruzione a
livello politico sia possibile ostacolare e interrompere il fenomeno del land grabbing. Solo dicendo “No” alle multinazionali che danno soldi agli uomini di
stato per corromperli è possibile migliorare la vita delle persone. Si può e si
deve condurre una politica di resistenza alle pressioni e ai ricatti.

Personalmente, spero si possa sviluppare una
politica globale, intelligente e saggia per la gestione del bene comune, cioè
per il bene del pianeta. Noi dobbiamo scegliere e accettare solo persone con
un’alta levatura morale. Non possiamo più accettare rappresentanti istituzionali
che tolgono all’umanità ciò che è dell’umanità, come le risorse naturali, la
terra, l’acqua.

Il denaro non dovrebbe permettere tutto, perfino
confiscare alla specie umana i propri diritti. Abbiamo bisogno di una politica
attenta all’essere umano, quindi è necessaria una politica fondata
sull’umanesimo che permette di dire: “Il pianeta non appartiene a nessuno, ma
appartiene alla vita, a ogni essere vivente, alle generazioni future,
appartiene a tutti e non alle persone che hanno denaro!”.

È la società civile che deve mobilitarsi, che
deve agire in modo propositivo. La politica ovunque, in Francia, in Europa, in
Africa è ormai arcaica. Occorre l’azione della società civile ed è ciò che
stiamo cercando di fare».

Bisogno di umanesimo

Pierre Rabhi, coi suoi 76 anni di saggezza,
continua a realizzare progetti di agroecologia un po’ in tutto il mondo. Per
esempio, in Marocco è impegnato a dare vita a un centro nella zona di Marrakech
simile a quello di Gorom Gorom, destinato a formare i contadini locali e a diffondere
l’agricoltura ecologica. Importante è il lavoro effettuato anche in Medio
Oriente.

«In Palestina abbiamo lanciato tempo fa un
programma di agroecologia per eliminare prodotti chimici e per valorizzare
meglio le risorse della terra. Adesso non lo seguo più personalmente, dato che
il programma viene perseguito in modo autonomo dalle comunità locali di
Falamia, una regione desertica dove si trova anche la città di Tulkarem.

A questo proposito vorrei sottolineare che la
questione palestinese a mio avviso non è soltanto legata a dinamiche economiche
o a questioni territoriali, ma è anche condizionata da motivazioni etiche,
morali, umane, come avviene in altri teatri conflittuali.

Abbiamo bisogno di “umanesimo”, di quello
slancio etico e morale che ci spinge ad accorrere nel momento in cui altre
persone hanno bisogno quando si trovano in difficoltà».

Proprio per diffondere i principi
dell’agroecologia e della sobrietà felice, nel 2007 Pierre Rabhi ha fondato il movimento Colibris, per aiutare le persone – attraverso dibattiti, libri, documentari,
incontri – a costruire nuovi modelli sociali fondati sull’autonomia, l’ecologia
e l’umanesimo.

Gandhi disse: «Sono le azioni che contano. I
nostri pensieri, per quanto buoni possano essere, sono perle false fintanto che
non vengono trasformati in azioni. Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire
nel mondo». Pierre Rabhi ha voluto essere il cambiamento che vorrebbe vedere
nella società nel suo complesso. Lui, la sua famiglia e tutta la rete del
movimento Colibris stanno mettendo in atto una «rivoluzione silenziosa», sul
piano della partecipazione democratica, dell’educazione, dell’agricoltura e
dell’economia. Un esempio è il progetto chiamato Les Amanins, sito ecologico, nonché pedagogico, realizzato a La Roche-sur-Grâne,
nella Drôme francese. Qui, oltre ad applicare l’agroecologia e a difendere la
biodiversità, c’è una scuola molto speciale. I bambini, circa una trentina dai
5 ai 10 anni, imparano attraverso la cooperazione, la ricerca e la
sperimentazione diretta, costruendo con le loro stesse mani i giochi e altri
oggetti didattici, in un clima di collaborazione. Elemento importante nella
pedagogia di questa scuola è l’educazione alla pace, attraverso l’ascolto
attivo e la pratica della mediazione.

Tutto questo avviene a stretto contatto con la
natura. Perché questa Terra – come ricorda Pierre Rabhi – è l’unica nostra oasi
che conosciamo in cui possiamo vivere.

Silvia C. Turrin

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Silvia C. Turrin




Noi siamo Makuxi


Lungo il Rio Branco. Viaggio a Roraima?/ 3

La battaglia per la demarcazione e l’omologazione della terra indigena Raposa Serra do Sol è stata lunghissima e non pacifica. Ancora oggi, tra ricorsi e progetti di legge, non pare conclusa. Siamo stati a Barro (Surumu), in una comunità di indios makuxi.

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Br-174. Finalmente arriva l’alba. La luce ci permette di vedere il paesaggio: grandi spazi pianeggianti e aperti, interrotti ogni tanto da isole alberate. L’Amazzonia non è soltanto foresta, ma anche savana. Qui la chiamano lavrado. La Br-174 è diritta e con scarsissimo transito. Un cartello avverte che stiamo passando accanto a São Marcos, una delle tante terre indigene della parte nordorientale dello stato di Roraima. La Br-174 prosegue fino a Pacaraima, al confine con il Venezuela. Partiti da Boa Vista, noi la lasciamo dopo circa 200 chilometri per girare a destra e imboccare una strada sterrata. Entriamo nella terra indigena Raposa Serra do Sol.

La comunità di Barro

Attualmente il 46% della superficie di Roraima è demarcata come terra indigena1. Quella di Raposa Serra do Sol è la seconda per estensione, dopo la terra degli Yanomami. È abitata da cinque popolazioni: Wapixana, Taurepang, Patamona, Ingarikó e soprattutto dai Makuxi2, l’etnia indigena più numerosa dello stato (con oltre 20mila persone). Dopo lo sterrato, ecco un ponte su cui è stato collocato un posto di blocco. La polizia ci fa passare dopo un cenno del nostro guidatore. «Siamo arrivati», ci dice dom Roque Paloschi, vescovo di Roraima, che per tutto il tragitto ha pigiato sull’acceleratore dell’auto.

Il villaggio appartiene alle comunità makuxi di Barro. È una strada con qualche casa e alcuni luoghi pubblici. C’è un ambulatorio medico della Sesai, un locale per la foitura dell’acqua e una chiesetta. Sulla strada transita, libero e tranquillo, un gruppo di vacche: dopo l’agricoltura, l’allevamento costituisce un’importante attività di sostentamento per la popolazione indigena. Dom Roque è qui per un impegno ufficiale: deve officiare la cresima a un gruppo di Makuxi. Dato che la chiesetta è troppo piccola per ospitare una celebrazione con 20 cresimandi, gli organizzatori hanno spostato tutto sotto una vicina tettornia, dove una cantante e alcuni musicisti stanno già provando, tra le bizze dell’impianto di amplificazione. I cresimandi - donne e uomini di varie età - arrivano in gruppo indossando una elegante tunica rossa. Sono scalzi come lo stesso dom Roque. La cerimonia, molto partecipata e coinvolgente, si conclude con il taglio di una grande torta ricoperta di cioccolato. Ad aiutare il vescovo c’è padre Carlos Eduardo Alarcón, missionario della Consolata colombiano, che dal 2007 lavora in area indigena. Carlos si offre di accompagnarci e raccontarci le vicende di questa comunità makuxi.

Sequestri, incendi, violenza (e impunità)

A Surumu c’è una scuola, la «Escola Estadual Indigena Padre José de Anchieta», di insegnamento fondamentale. Poco fuori del villaggio ce n’è una seconda. Viene annunciata da un cippo levigato posto al centro della stradina. Sulla pietra è stato scritto il nome: «Centro indígena de formação e cultura Raposa Serra do Sol». E il suo motto: «Sabedoria, trabalho, paciência». «Saggezza, lavoro, pazienza: queste tre bellissime parole sono raffigurate dal libro, dalla zappa e dalla tartaruga», ci spiega padre Carlos. Il Centro indigeno di formazione e cultura è nato nel 1997 su iniziativa del Consiglio indigeno di Roraima (Conselho Indígena de Roraima, Cir3) e della diocesi con l’obiettivo di formare tecnici specializzati in agricoltura, allevamento e gestione ambientale. Il posto è bello: una collinetta alberata sulla e attorno alla quale sono sorti alcuni edifici. Ma la prima impressione è incompleta. Avvicinandoci ci accorgiamo che una parte delle costruzioni sono scatole vuote: hanno soltanto i muri estei. È tutto ciò che rimane della missione Surumu fondata dai missionari e missionarie della Consolata4. Schierata al fianco delle popolazioni indigene e a favore della demarcazione in area continua delle loro terre, la missione era invisa ai bianchi che di quelle terre si erano impossessati. Insulti, intimidazioni e violenze erano all’ordine del giorno. Quando il ministro Marcio Thomas Bastos annunciò che il presidente Lula avrebbe firmato l’omologazione di Raposa Terra do Sol, le azioni dei fazendeiros bianchi si fecero più eclatanti a Boa Vista e in tutto lo stato. Nel gennaio del 2004 la missione fu assaltata e tre missionari della Consolata furono sequestrati e tenuti in ostaggio per alcuni giorni. Gli autori erano un gruppo di indigeni contrari alla demarcazione, ma dietro di loro si nascondevano i bianchi (e la chiesa evangelica della regione)5. Quasi un anno e mezzo dopo - era l’aprile del 2005 - Lula firmò il decreto d’omologazione.   Anche in questo caso la reazione fu violenta. «Il 17 settembre - racconta padre Carlos - oltre un centinaio di indios assaltò la missione. Vennero devastati e bruciati la chiesa, la mensa e il dormitorio degli studenti, una parte dell’ospedale e degli alloggiamenti delle suore compresa la cappella, la biblioteca e la sala per gli incontri. Un professore fu picchiato. Non ci furono altre vittime soltanto perché quel giorno i missionari, le suore e la coppia di volontari laici erano fuori sede. Come nel 2004, anche in questo caso i mandanti erano i fazendeiros guidati da Paulo César Quartiero». Quella di Paulo César Quartiero è una storia di potere e impunità. È stato il latifondista (produttore di riso) più importante della regione, responsabile della maggior parte delle azioni violente contro la demarcazione, almeno fino al 2009. In quell’anno il Supremo tribunale federale obbliga i non-indigeni a lasciare Raposa. I media si dividono. Alcuni si schierano contro la decisione. Altri parlano di evento storico: per la prima volta sono i latifondisti a doversene andare (dietro indennizzo) e non gli indigeni. Quartiero, sempre impunito, cambia strategia. Nel 2010 acquista 12 mila ettari di terra sull’isola di Marajó, nello stato del Pará (tra l’altro, innescando anche lì una serie di conflitti). Nello stesso anno viene eletto deputato federale, distinguendosi subito per la sua attività anti indigena. Nell’ottobre del 2014 viene eletto vicegovernatore di Roraima. Quello che farà nella sua nuova veste lo vedremo nei prossimi mesi. Oggi i corsi del Centro di formazione e cultura Raposa Serra do Sol sono seguiti da 32 studenti di varie etnie. Accanto alle discipline classiche (matematica, chimica, biologia, ecc.), vengono insegnate la cultura e la tradizione indigene. Perché si vogliono preparare tecnici, ma anche leaders comunitari. Questo legame studenti-comunità è stato rinforzato dall’introduzione del sistema dell’alternanza (sistema de alteância), come ci spiega il cornordinatore: «Sono 4 anni di studio, ma ogni 2 mesi gli alunni tornano nelle proprie comunità per mettere in pratica ciò che qui stanno apprendendo». Anselmo parla con voce bassa, però l’orgoglio indigeno traspare chiaramente dalle sue parole. «In ragione della sua funzione, il centro è sempre stato visto come una minaccia da parte degli invasori, garimpeiros o arrozeiros. Per questo lo attaccarono». Il cippo incontrato all’entrata del centro non riportava soltanto il motto «Saggezza, lavoro, pazienza», ma anche tre altre parole, che sintetizzano il progetto politico delle comunità indigene: terra, identità e autonomia. Un progetto malvisto dalle autorità locali. «Il governo di Roraima - spiega Anselmo - continua ad attuare una politica anti indigena. A tal punto che ha creato proprie organizzazioni indigene per dividerci e per contrastarci dal di dentro, cercando di impedirci di attuare i nostri progetti»6. Quello di Anselmo non è un giudizio influenzato dall’essere parte in causa. I governi di Roraima hanno sempre contrastato i diritti indigeni e in particolare la demarcazione in area continua. Il progetto era (ed è) di demarcare le terre indigene in isole, dividendo in tal modo non soltanto l’area geografica, ma le stesse popolazioni indigene (demarcação contínua versus demarcação em ilhas).   Risaliamo sull’auto di dom Roque. Lasciamo la comunità makuxi e Raposa Serra do Sol. Ci aspettano 200 chilometri sull’asfalto della Br-174 prima di rientrare a Boa Vista, capitale di Roraima. Una capitale bianca che non ha mai nascosto la propria insofferenza per le terre indigene e i suoi abitanti.

Paolo Moiola (fine terza puntata - continua)

Note

1 - Cfr. Instituto Socioambiental (Isa), Diversidade Socioambiental de Roraima, São Paulo 2011, pag. 19. 2 - Il termine «makuxi» si può incontrare scritto anche come «macuxi». L’eventuale accento di makuxí e Surumú viene utilizzato soltanto per facilitare la pronuncia in lingua italiana. 3 - Il sito del Consiglio indigeno di Roraima: www.cir.org.br. 4 - Sulla missione di Surumu si veda il dossier firmato da Consiglio indigeno di Roraima, Benedetto Bellesi e Carlo Miglietta, Anche gli angeli perdono le ali, in MC luglio-agosto 2001. 5 - Si tratta della chiesa evangelica della Assembléia de Deus, una delle più potenti in Brasile. Sul tema si veda: Folha de S.Paulo, 28 agosto 2008. 6 - Si tratta delle organizzazioni Arikon, Alicidir e Sodiur (Sociedade de Defesa dos Índios Unidos do Norte de Roraima). Quest’ultima, in particolare, si è resa responsabile della distruzione della missione di Surumu nel settembre del 2005.

Paolo Moiola




Cure, dignità e rispetto

Albert Schweitzer: 50
anni dalla morte
.
Geniale organista e
teologo, fin da bambino vorrebbe alleviare le sofferenze altrui. A 30 anni
decide di diventare medico per i più poveri. Nel 1913 fonda l’ospedale-villaggio
di Lambaréné, in Gabon. L’obiettivo è portare cure mediche modee, ma nel
rispetto totale delle culture locali.

È pioniere nell’uso di alcuni farmaci a
quelle latitudini. Fermo nel principio del «rispetto per la vita», come
riflesso dello spirito del cristianesimo.


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«Poiché ritengo che il
compito della mia vita sia quello di lottare sotto cieli lontani a favore degli
ammalati, ritengo che dovremmo considerare il lavoro che occorre compiere per
le misere genti di colore non semplicemente come un buon lavoro ma come un
dovere che non deve essere evitato». È questa una delle più celebri e profonde
affermazioni di Albert Schweitzer, organista geniale, teologo protestante,
filosofo e medico filantropo (di cui quest’anno ricorre il 50° della morte,
avvenuta il 4 settembre 1965), ancora oggi considerato una delle figure etiche
e spirituali più significative del nostro tempo. Nato il 14 gennaio 1875 a
Kaysersberg, nell’Alta Alsazia (Francia), quest’uomo, interiormente tormentato
(ancora giovane era già famoso in tutta Europa per le sue straordinarie
interpretazioni di Bach), sentiva di non condividere totalmente la vita di quel
Cristo che venerava profondamente, e avvertiva insistentemente l’esigenza di
rispondere ai bisogni dell’umanità. Si chiedeva sovente, arrivato al suo
trentesimo anno di vita, quale fosse il vero significato delle parole di Gesù: «Colui
che intende salvare la sua vita la perderà, ma colui che vuole perdere la sua
vita per me e per il Vangelo, la salverà». Significativa è la sua opera,
pubblicata nel 1906, dal titolo «Storia della ricerca sulla vita di Gesù»,
nella quale si proponeva di fare il punto su tutta la letteratura scientifica
riguardante la figura di Cristo. Uno studio profondo, mirante a concludere: «Ciò
che è permanente ed eterno in Gesù è del tutto indipendente dalla conoscenza
storica e può essere compreso solo in forza del suo spirito tuttora operante
nel mondo».

Il male del mondo

«Anche da bambino – ricorda Luigi Grisoni (Como 1937 –
Roma 2001), scrittore e biografo schweitzeriano, in un passo della sua ricca
biografia dedicata al medico – a scuola mi era chiaro che nessuna spiegazione
del male nel mondo mi avrebbe mai soddisfatto. Sentivo che tutte le spiegazioni
finivano con stupide scuse alla base delle quali non c’era altra motivazione
che quella di rendere possibile alla gente di rendersi conto della infelicità
circostante senza avvertirla realmente».

Schweitzer intendeva, in ogni caso, impegnarsi in un
servizio direttamente umanitario: raccogliere i bambini abbandonati o
maltrattati e occuparsi di loro. Ma le regole di assistenza ai bambini
abbandonati non consentivano di occuparsene in maniera non ufficiale; e il
richiamo di coloro che soffrivano in paesi bisognosi di ogni intervento aveva
su di lui il sopravvento.

Per le sue profonde convinzioni, e di fronte a queste
realtà, decise di diventare medico per l’Africa, di sperimentare in prima
persona i dolori del mondo e tentare di alleviae le sofferenze. Fu così che
il 13 ottobre 1905 abbandonò i suoi impegni di direttore del Seminario di St.
Thomas di Strasburgo, di docente, di predicatore alla Chiesa di St. Nicolas di
Strasburgo per iscriversi alla facoltà di medicina.

In questo periodo trovò anche il tempo per occuparsi del
pensiero dell’apostolo Paolo. Si trattava di un bisogno interiore di Albert che
gli richiese di occuparsi del pensiero paolino nella ricerca e di dae una
spiegazione storica. «Se la dottrina mistica della Redenzione e le idee paoline
non possono trovare una spiegazione piena nell’influenza ellenica, allora –
approfondiva Schweitzer – occorrerà comprenderla nel quadro del giudaismo
dell’ultima epoca».

Lambaréné, Gabon

È trascorso oltre un secolo dalla fondazione del suo
primo ospedale di Lambaréné, uno sperduto villaggio sulle rive dell’Ogooué nel
Gabon, allora la più povera delle colonie della ricca Francia. Albert
Schweitzer vi giunse il 15 aprile 1913, con la moglie Hélène Bresslau che gli
fu sempre vicina in quella straordinaria avventura. Iniziò ad assistere e curare
persone affette da lebbra, malaria, tumori, eie, elefantiasi, malattie
mentali, e a combattere superstizione e fame nel clima equatoriale pesante per
l’umidità.

Sin dalle prime settimane il dottor Schweitzer ebbe
l’occasione di constatare che la miseria corporale della popolazione locale era
ancora più grave di quanto non avesse immaginato. «Ai malati indigeni –
scriveva – occorre dire tutta la verità. Essi vogliono saperla per meglio
sopportarla. La morte per loro è una cosa naturale, non la temono e la guardano
tranquillamente in faccia. Domandavo ai miei malati di manifestare, nel limite
del possibile, con degli atti di riconoscenza i loro sentimenti per le cure
avute… Al momento di lasciare l’ospedale, guariti, mi chiedevano il permesso di
diventare loro amico». «Le grand docteur», come veniva chiamato, sosteneva inoltre che tre
questioni sono importanti: il progresso nel sapere e nella tecnica; il
progresso nella socializzazione dell’uomo; il progresso nella spiritualità.
Quest’ultimo è il più importante. Profonde convinzioni dettate dalla sua
saggezza. Schweitzer sostiene il principio «l’uomo appartiene all’uomo», ovvero
l’essere umano è tenuto a rispettare in ogni senso la vita e la dignità dei
suoi simili. Egli riassume il suo concetto morale nella formula «Rispetto per
la vita».

Grandezza di azioni umane che, come scrisse Pasteur: «Si
misura dall’ispirazione che le ha fatte nascere. Felice colui che porta in sé
un Dio, un ideale di bellezza e gli obbedisce: ideale dell’arte, ideale della
scienza, ideale della patria, ideale della virtù del Vangelo! Sono queste le
vere fonti vive delle grandi idee e delle grandi azioni…».

Un villaggio – ospedale a
dimensione umana

L’ospedale «Albert Schweitzer» di Lambaréné sorge sulla
riva sinistra del fiume Ogooué, a circa 200 chilometri dall’Oceano Atlantico.

La regione è coperta da una foresta equatoriale quasi
impenetrabile, il clima è dei peggiori a causa dell’elevato tasso di umidità.
Il villaggio-ospedale all’inizio aveva grandi baracche di legno, col tetto in
lamiera per reggere alle continue piogge equatoriali.

Le famiglie prendevano alloggio gratuito e vivevano
secondo le proprie usanze, in attesa che il parente infermo guarisse.
Innumerevoli i tabù, i riti, le abitudini degli abitanti che non vivevano, e
non vivono, in grandi comunità come le nostre, nelle quali i costumi si sono
uniformati, bensì in piccoli gruppi tribali, ognuno dei quali strettamente
vincolato a particolari consuetudini e usi.

Sarebbe stato impensabile pretendere di cambiare mentalità
e atteggiamenti primordiali: per il «locale» è più importante rispettare il
proprio tabù che cercare una guarigione corporale, in quanto ha più valore il
legame con il suo ambiente spirituale che la speranza o la fiducia di scampare
alla morte. E Schweitzer lo aveva ben capito, come si evince soprattutto nel
suo libro «Histornires de la
forêt vierge» dalla profonda analisi
psicologica delle popolazioni africane.

Modeità passo passo

Schweitzer pensava di poter rendere il suo ospedale più
moderno solamente procedendo per gradi. «Noi – spiegava ai suoi interlocutori
che gli facevano visita – non siamo qui soltanto per curare eie o filariosi:
abbiamo anche il dovere di aiutare questa gente a imparare a camminare da sola.
Ed è insensato pretendere che l’uomo della foresta apprenda ciò che della
nostra civiltà tecnologica e spirituale possa essergli utile tutto d’un colpo,
partendo da zero. Bisogna condurlo per gradi.

Il mio ospedale per lui vuole essere, non soltanto il
surrogato più efficiente dello stregone, ma una scuola di vita. Così io gli
insegno di amare il prossimo anche se è di una etnia diversa. Gli insegno a
lavorare, gli faccio vedere che quando il fiume si abbassa nella stagione secca
si può disboscare la riva e piantare qualcosa di diverso dalla manioca. Gli
dimostro che unendo le forze si ottiene un risultato più rapido e più utile per
tutti: deve sentire che le risorse stanno in lui, dentro di lui, che può
operare in questo suo ambiente, purché lo voglia.

Il mio villaggio-ospedale dovrà progredire, da un punto
di vista tecnico, insieme con il progresso generale di tutti i villaggi che gli
stanno intorno per centinaia di miglia: dovrà sempre essere un poco più avanti,
per fare da guida, ma senza perdere il contatto».

Pioniere nei farmaci

Durante la sua permanenza in Gabon Schweitzer si dedicò
prevalentemente all’attività medica e chirurgica, che fu incrementata con
l’arrivo del dottor Marc Lautemburg. «Il dottor Schweitzer, nel campo della
scienza medica – precisa Adriano M. Sancin, chirurgo e ginecologo triestino,
che per oltre trent’anni si è dedicato ad attività organizzative nell’ambito
dell’assistenza sanitaria in Africa ed Estremo Oriente – non fu un genio e non
ha mai inventato nulla. Vanno quindi eliminate certe idee sulla sua genialità
riportate varie volte dai media. Quello che invece ci stupisce di Schweitzer, e
ciò vale per tutte le sfere della sua attività, non è tanto la sua capacità
geniale quanto la pazienza di apprendere. Una pazienza sostenuta indubbiamente
da una straordinaria forza di volontà e favorita, pure, come egli stesso
affermava, da una buona dose di fortuna». Gli interventi principali
riguardavano eie giganti, elefantiasi (malattia provocata dall’ostruzione dei
vasi linfatici da parte di microfilarie, nda), fibromi uterini, gozzi, piaghe e ferite
causate soprattutto dall’attività di disboscamento. Diversi i casi disperati.

Si operava in anestesia generale o locale, e i pazienti
ben presto si resero conto che nessuna magia o farmacopea africana li avrebbe
potuti guarire. Nel 1939 gli interventi furono 700. Contro patologie come
filariosi, malaria, malattia del sonno, lebbra, ulcera fagedenica, affezioni
intestinali, dissenteria, Tbc polmonare o ossea, avitaminosi, etc., venivano
usate sostanze biochimiche sperimentate e prodotte con rigore medico
dall’industria farmaceutica d’oltre oceano.

Ospedale di riferimento

Gli ammalati arrivavano da villaggi che distavano
centinaia di chilometri dall’ospedale, sia lungo il fiume in canoa, sia percorrendo le piste che attraversavano
la foresta vergine. «Dopo un viaggio di 400 o 500 chilometri – osservava
Schweitzer – arrivavano in condizioni pietose (spesso disperate), affamati,
denutriti; e per varie settimane, prima di operarli, dovevamo nutrirli e
rimetterli in sesto». In mancanza di denaro ai pazienti veniva chiesto un
contributo in natura e lavoro.

Si può immaginare quali fossero le difficoltà di
organizzazione e funzionamento di un ospedale nel cuore dell’Africa agli inizi
del secolo scorso, creato dal nulla in un habitat e un clima ostili, senza
collaboratori tecnici competenti.

Anche se Schweitzer non scoprì nulla in ambito medico,
sotto certi aspetti è da considerarsi un pioniere nel trattamento di alcune
patologie tropicali: fu il primo, ad esempio, che introdusse

nell’Africa equatoriale il Promine e il Diasone, due
prodotti per il trattamento della lebbra. Fu il primo pure a sostituire
l’Atoxyl e l’arseno benzolo (farmaci dagli effetti collaterali pericolosi) con
il Germanyl, il Moranyl e il Tryparsamide, molecole che, grazie alla scoperta
della statunitense dottoressa Pearce, avevano rivoluzionato il trattamento
della malattia del sonno. Il farmaco venne sperimentato in parallelo da
Schweitzer a Lambaréné e presso l’Istituto Pasteur di Parigi, ed era
incredibile vedere quei pazienti riprendersi lentamente. Purtroppo sull’impiego
del Tryparsamide gravava il dubbio che provocasse lesioni del nervo ottico con
conseguente cecità permanente. Durante un rientro in Europa, Schweitzer
frequentò la Clinica Odontostomatologica di Strasburgo per perfezionare le sue
conoscenze stomatologiche (ramo della medicina che studia le affezioni del cavo
orale e dei suoi annessi, ndr). Dopo vari viaggi all’interno dell’Europa per tenere
concerti, si fermò ad Amburgo per aggioarsi sui progressi della terapia del
sonno, e frequentare un corso di chirurgia che gli consentisse di affrontare e
risolvere la quasi totalità delle patologie chirurgiche.

Troppa inculturazione?

Non sono mancate le critiche a lui e al suo ospedale, ma
è bene rammentare che l’obiettività è frutto delle cose nella situazione stessa
e nel loro momento storico. Ed è ciò che Schweitzer applicò in pratica nel suo
tanto discusso villaggio sanitario ove accolse gli ammalati e le loro famiglie,
assieme agli animali, e acconsentì a lasciare che i vari gruppi etnici
vivessero secondo i loro costumi, adattandosi egli stesso alla cultura dei
popoli locali e rispondendo alle esigenze degli ammalati, rispettoso com’era,
sino all’eccesso, della libertà individuale degli africani.

Tollerò le loro abitudini tribali, la poligamia, le loro
interminabili discussioni… Risultati di un’improvvisazione che ha avuto come
scopo combattere le sofferenze e guarire i suoi ammalati. «Tutto questo –
affermava – è insito nello spirito del cristianesimo, e come tale si manifesta
più o meno in tutte le religioni delle varie civiltà».

«Le grand docteur» visse in povertà nel suo ospedale, ove il superfluo
era bandito, e fu per questo che le illusioni e le ambizioni nate dall’indipendenza
politica negli anni ’60, determinarono quell’atteggiamento di disprezzo, di
avversione che indusse molti a giudicare la struttura superata o, peggio
ancora, vergognosa.

Forse tardi, ma ancora in tempo, Schweitzer comprese che
l’amore per il prossimo (il vero fine dell’esistenza, la poetica «escatologica»
alla quale il mistero della fede portava, ben al di là delle questioni
filosofiche e teologiche) non poteva avvenire se non sacrificando la propria
vita. Egli trasse l’amara constatazione di vivere in un periodo di decadenza
spirituale, dove la rinuncia a pensare è una dichiarazione di fallimento, ma
risvegliava in lui la forza di combattere per far recuperare dignità all’essere
umano. Nel 1952 gli fu riconosciuto il premio Nobel per la Pace (33.480
dollari) che utilizzò per ampliare e completare «le village lumière»
(villaggio della luce), per la cura fisica e spirituale dei suoi lebbrosi.

Eesto Bodini
_____________________

MC ha già pubblicato scritti dello stesso autore su
Schweitzer a maggio 2004 e gennaio 2008.

Eesto Bodini




La rivolta della dignità 

28-31 ottobre 2014. I quattro giorni che
cambiarono la storia

Blaise Compaoré è
stato cacciato dal potere che teneva saldamente nelle sue mani da 27 anni. La
popolazione, stremata dalla crisi, non era più disposta a subire una classe
politica che viveva nel lusso. Alla rivolta è seguito un processo di
transizione, pacifico e consensuale. Degno di un popolo di pace. Un esempio per
l’Africa.

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Blaise Compaoré è fuggito. A fine ottobre scorso
il «quasi presidente a vita» del Burkina Faso è stato rovesciato da una rivolta
popolare.

Ancora
una volta la gente del Burkina Faso – paese tra i più poveri del mondo, secondo
gli indici dell’Onu – ha voluto dire basta ai soprusi, alla corruzione e allo
strapotere di una certa classe dominante. Una rivolta che molti media hanno
troppo in fretta etichettato come «colpo di stato militare». E invece no, non è
stato un golpe, anche se in qualche modo, i militari hanno cercato di
approfittae.

Il «regno» Compaoré

Ma
facciamo un passo indietro.

Il 15 ottobre del 1987, il presidente carismatico e
visionario Thomas Sankara viene freddato con 12 dei suoi più stretti
collaboratori. Poche ore dopo, sulle onde radio, il capitano Blaise Compaoré,
dichiara che un fantomatico Fronte Popolare «ha deciso di mettere fine al
potere autocratico di Thomas Sankara, e di bloccare il processo di
restaurazione neo-coloniale intrapreso da questo traditore della rivoluzione di
agosto […]». Compaoré, numero due della rivoluzione burkinabè iniziata quattro
anni prima, compagno d’armi e amico di Sankara, aveva deciso di prendere tutto
il potere con la forza. Il comunicato, fitto di menzogne, si rivela il
programma politico di Compaoré. Seguiranno gli anni della «restaurazione
contro-rivoluzionaria», l’amicizia stretta con la Francia, il potere e il
denaro per una ristretta casta che circonda il presidente.

Da quel lontano 15 ottobre Blaise Compaoré è rimasto capo
di stato per 27 anni: il periodo del dopo golpe, seguito da due settennati
(1992-2005) e due mandati di cinque anni. Durante questo lungo regno è
stato scaltro ed equilibrato. Ha dato stabilità al paese e anche saputo farsi
amare dal popolo. Il suo potere ha vacillato solo due volte.

Il 13
dicembre del 1998 il celebre giornalista investigativo Norbert Zongo viene
trovato carbonizzato nella sua auto con due compagni. Zongo stava indagando sul
cruento assassinio dell’autista del fratello minore di Blaise, François.
L’omicidio colpisce fortemente l’opinione pubblica e la gente scende in piazza
per chiedere giustizia. Compaoré, fine imbonitore, inventa «La giornata del
perdono». Riduce i mandati presidenziali da 7 a 5 anni e li limita a un massimo
di due.

Nel
2011 sembra finita l’era Compaoré. La tensione sociale è molto elevata a causa
di una gestione clientelare e corrotta che ha impoverito la maggioranza della
popolazione. Mentre si costruiscono interi quartieri di sfarzose ville a
Ouagadougou – per investire soldi di vari traffici regionali e quelli distolti
dalla cooperazione internazionale – nel resto del paese mancano acqua potabile,
centri medici, scuole elementari. La malnutrizione è, ancora oggi, causa
diretta o indiretta del 35% dei decessi.

Alcune
manifestazioni della società civile di studenti, magistrati, commercianti
scaldano il clima politico. Ma i veri rischi arrivarono dai militari, a più
riprese con un primo ammutinamento a marzo e una rivolta nella guardia
presidenziale il mese successivo. Compaoré tenta di placare gli animi con un
cambio di governo e misure per calmierare i prezzi dei beni alimentari più
diffusi.

Poi,
per la prima volta, deve reprimere nel sangue un’insurrezione di un gruppo di
militari a Bobo Dioulasso, la seconda città del paese.

Infine… la crisi

Blaise Compaoré non potrà più presentarsi come candidato
alle elezioni previste nel 2015, ma non vuole farsi da parte. Qualcuno sostiene
che il suo entourage voglia mantenerlo al potere, preoccupato di perdere i
privilegi acquisiti. Lui potrebbe terminare il mandato e poi essere nominato ai
vertici di una organizzazione internazionale. Invece no, e fin dal 2012 si
preoccupa di modificare l’articolo 37 della Costituzione che limita a due i
mandati presidenziali. Tenta pure di
creare il Senato (il parlamento burkinabè è unicamerale), che sarebbe
strumentale alla modifica costituzionale.

Un’altra
via sarebbe passare per un referendum costituzionale, ma il presidente lo teme,
perché sarebbe, di fatto, un voto sulla sua persona.

Nel
2013 il clima politico si scalda. La società civile non vuole che la
Costituzione sia modificata e manifesta contro il referendum. Il movimento Le
balai citoyen, (letteralmente: La scopa cittadina) fondato da
due cantanti di successo, è tra i più attivi. Contrari sono anche i partiti
politici dell’opposizione come l’Upc (Unione per il progresso e il cambiamento)
del leader Zéphirin Diabré e l’Unir-PS dell’avvocato Bénéwende Sankara.

La
capitale Ouagadougou diventa teatro di diverse manifestazioni di piazza contro
l’impunità, la corruzione e in opposizione al cambiamento costituzionale: a
maggio, giugno e luglio. Sono organizzate dalla Coalizione contro il carovita,
che riunisce sindacati a associazioni della società civile.

A sorpresa il 15 luglio 2013 i 16 vescovi del Burkina
pubblicano una lettera pastorale che esprime grande preoccupazione per la «frattura
sociale» in aumento e prende posizioni forti chiedendo un impegno a chi
governa: «Affinché il Burkina Faso non diventi una polveriera occorre ricercare
la giustizia, operare per una trasformazione sociale e democratica profonda
promuovere i valori cardinali di solidarietà e sussidiarietà». E raccomanda: «Più
equità nella distribuzione della ricchezza, più trasparenza nella gestione
degli affari pubblici, più etica nei comportamenti sociali e politici» (si veda
MC dicembre 2013).

La
svolta politica avviene nel marzo 2014: un gruppo di stretti collaboratori di
Blaise lascia il partito per creae uno nuovo, il Mpp (Movimento del popolo
per il progresso). Tra loro Salif Diallo, Roch Marc Christian Kaboré e Simon
Compaoré, tutti pezzi grossi del regime. La macchina di potere che Compaoré ha
messo in piedi in 27 anni inizia a mostrare segni di debolezza.

Tentato scacco matto

Il
presidente ha un asso nella manica. Ottiene un accordo con Gilbert Ouedraogo, leader
del Adf/Rda (Alleanza per la democrazia e la federazione), terzo partito del
paese: i suoi deputati voteranno la modifica costituzionale. In questo modo
Blaise avrà 99 voti contro 28 dell’opposizione: la maggioranza qualificata per
modificare la Costituzione è garantita e il referendum evitato.

Partiti di opposizione e società civile fanno un fronte
unico per impedire a Compaoré di ricandidarsi. Il 28 ottobre scorso si svolge a
Ouagadougou una grande manifestazione chiamata: «Giornata nazionale di protesta».
Si conta quasi un milione di persone che sfilano pacificamente per le strade
della capitale.

Ma la
tensione sale. All’alba del 30 ottobre, giorno previsto per il voto
all’Assemblea Nazionale, la folla si dirige verso l’emiciclo e lo occupa
distruggendo e appiccando il fuoco. La stessa sorte tocca alla sede della Tv di
stato e alle sedi del partito al potere Cdp (Congresso per la democrazia e il
progresso) e dell’Adf/Rda. Anche le case di molti politici sono saccheggiate.

Poi la folla si sposta verso l’enorme palazzo
presidenziale Kosyam, che Compaoré si è fatto costruire a Ouaga2000, il
quartiere di lusso della capitale. Qui si evita il bagno di sangue grazie a una
negoziazione tra guardia presidenziale e manifestanti. A fine giornata si
conteranno comunque 24 morti e alcune centinaia di feriti.

Il presidente Compaoré tenta ancora di usare il suo
talento di imbonitore. Dichiara disciolto il governo e l’Assemblea Nazionale e
afferma che ci sarà una transizione di 12 mesi. Ma non si fa da parte. È troppo
tardi. Il popolo burkinabè non ne vuole più sapere di lui.

Sono
ore cruciali, tutto dipende dalla posizione che prenderà l’esercito. La
negoziazione tra vertici militari, uomini del presidente e delegati dei
manifestanti è serrata.

«Vattene!»

Il 31
ottobre, gli autobus arrivano numerosi dai quattro angoli del Burkina. La
parola d’ordine è «Blaise dégage!»
(vattene). «La folla è composta in gran parte da giovani e da donne» ci
racconta un testimone, «e sono tutti molto determinati». E ancora: «Affronteremo
i militari a mani nude, a mani alzate. Sparateci se volete, noi non ci
spostiamo. Staremo in piazza finché Compaoré non si dimette. Senza violenza».

Se è
difficile che un militare burkinabè spari su un suo connazionale indifeso, non è
detto che sia lo stesso per militari e mercenari togolesi, di cui si è
circondato il fratello di Blaise, François, e con buona probabilità lo stesso
presidente.

Alle 13 Compaoré fa leggere un suo comunicato di «dimissioni»
alla radio. Lui è già su un convoglio che lo conduce verso la frontiera con il
Ghana. Ma sarà un elicottero francese di base a Ouagadougou a mettere in salvo
lui e la famiglia. Saranno poi trasferiti in Costa d’Avorio e, infine, in
Marocco.

Dopo
l’annuncio la tensione si rilassa. Seguono ore di confusione per il vuoto di
potere. L’esercito, unica istituzione funzionante rimasta, prende il controllo
e gli alti graduati nominano capo di Stato il colonnello Yacouba Isaac Zida il
numero due della guardia presidenziale.

Transizione

L’uomo
forte sospende la Costituzione ma, da subito, dichiara di voler gestire una
transizione con l’accordo tra tutte le parti: «Per noi è importante arrivare a
un consenso a partire dal quale potremo, nell’arco di un anno, andare a
elezioni il cui risultato sia accettato da tutti. Percorreremo una nuova via
costituzionale nella pace e nella serenità per tutti i burkinabè».

La
preoccupazione della comunità internazionale è che la transizione sia gestita
dai civili.

Le
consultazioni tra militari, partiti di opposizione e responsabili religiosi
(tra i quali il cardinal Philippe Ouedraogo, vedi inervista MC dicembre 2013)
portano alla definizione degli organi di transizione e di come saranno messi in
piedi. Presidente, governo e Consiglio nazionale di transizione resteranno in
carica 12 mesi con l’obiettivo di organizzare le elezioni del novembre 2015. Il
processo è definito nei dettagli nella Carta di transizione, che, firmata da
tutte le parti il 16 novembre, va a completare la Costituzione del 2 giugno 1991.

Tutte
le persone nominate, ad eccezione dei componenti del Consiglio nazionale (il
parlamento provvisorio) non potranno essere ricandidate alle legislative e
presidenziali del 2015.

Un
Collegio di designazione composto da società civile, partiti politici e
militari sceglie così il presidente di transizione nella figura di Michel
Kafando. Settantadue anni, diplomatico di carriera, è stato ministro degli
esteri e ambasciatore del Burkina alle Nazioni Unite. Non si è mai iscritto a
un partito politico.

Kafando
nomina primo ministro lo stesso tenente colonnello Isaac Zida, 49 anni,
militare poliglotta, con diverse esperienze inteazionali.

Il
paese è nelle mani di due uomini: l’anziano saggio e il giovane dinamico. Il
civile e il militare. A sottolineare l’importanza dell’esercito nella
transizione. I due identificano i ministri del governo di transizione e li
presentano domenica 23 novembre. Zida mantiene il dicastero della Difesa,
mentre Kafando tiene per se quello degli Esteri.

I
militari si aggiudicano anche il ministero dell’Amministrazione territoriale e
Sicurezza (Inteo) e quello strategico dell’Energia e Miniere, oltre a quello
dello Sport. Altri dicasteri vanno alla società civile, mentre i responsabili
dei partiti politici non entrano nel governo per non essere esclusi dalle
prossime elezioni.

Il
ministero della Giustizia è affidato a Joséphine Ouedraogo, già ministro di
Thomas Sankara (1984-1987), esperta internazionale di questioni di genere. È
molto conosciuta in Africa ma poco nel suo paese, dove è rientrata solo nel
2012. A lei sarà affidata la riforma della giustizia che, insieme a quella di
difesa ed economia, sarà uno dei cavalli di battaglia del governo di
transizione, ha dichiarato il premier Zida dopo il primo consiglio dei
ministri.

Contestato
invece, il ministro della Cultura, Adama Sanon, in quanto già procuratore al
tempo del processo sull’assassinio di Norbert Zongo, è accusato dalla società
civile di aver affossato il dossier e impedito il corso della giustizia. Si
dimette pochi giorni dopo la nomina.

La
comunità internazionale tira un respiro di sollievo, in particolare Usa e
Francia, che hanno contingenti militari in Burkina nell’ambito della guerra
contro il terrorismo.

In
Burkina Faso il 60% dei 17 milioni di abitanti ha meno di 25 anni. Giovani nati
e cresciuti sotto il regime Compaoré e che ora hanno deciso di rischiare tutto
per cambiare. È la vera forza di una nazione, giovane e vivace, che ha saputo
dare una svolta al proprio destino: «Osare inventare l’avvenire», diceva Thomas
Sankara.

Marco Bello

Marco Bello




Narrare la misericordiadi Dio

Il pensiero di papa Francesco
Papa Francesco ha una visione di Dio come luogo della misericordia. Essa è un vero e proprio baricentro del modo di vedere e operare di Dio. «Non c’è alcun limite alla misericordia», diceva domenica 6 aprile 2014. E ancora: «Dio ha tanta misericordia con noi. Impariamo anche noi ad avere misericordia con gli altri, specialmente con quelli che soffrono».

 

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Come papa Francesco, anche Giovanni Paolo II sottolineava il tema della misericordia: «Al di fuori della misericordia di Dio non c’è nessun’altra fonte di speranza per gli esseri umani», e aggiungeva: «In Cristo Gesù, Dio ha assunto davvero un cuore divino, ricco di misericordia e di perdono, ma anche un cuore umano, capace di tutte le vibrazioni dell’affetto». Questo spiega come mai Giovanni Paolo II abbia istituito un giorno dedicato proprio alla misericordia, la domenica dopo la Pasqua, nonostante tutta la liturgia sia già, di per sé, piena di termini che rimandano a essa.

Ciò che caratterizza la catechesi di papa Francesco è il primato della misericordia in tutta la sua azione pastorale.

Il primato della misericordia, riferito a una delle Beatitudini («Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia», Mt 5, 7), è stato indicato dal papa anche come tema della giornata mondiale della gioventù che si terrà nel 2016 a Cracovia, la città polacca dove Giovanni Paolo II fu vescovo negli anni 1964-1978.

Ma il tema scelto da papa Bergoglio ci suggerisce che sono misericordiosi anche gli uomini capaci di sentire come proprie le miserie e le difficoltà degli altri, che si preoccupano e si danno da fare di fronte alla sofferenza altrui. È questa una grazia, un puro dono di Dio. Chi lo riceve rimane radicalmente orientato a comportarsi allo stesso modo di Dio con tutti gli altri, uomini e donne, di qualsiasi età e condizione sociale.

Papa Francesco parla continuamente di misericordia, e la gente ha recepito subito e bene. Uno dei ricordini che a Roma i pellegrini comprano di più è la «misericordina», una scatoletta simile a quelle dei farmaci con dentro un rosario. Non soltanto ai pellegrini papa Francesco parla in questo modo, ma anche agli intellettuali agnostici, come è successo con la lettera che ha scritto a Eugenio Scalfari, il fondatore del quotidiano la Repubblica: «La misericordia di Dio è infinita, non ha limiti, la verità di Dio è l’amore…». Papa Francesco definisce Dio come misericordia, così come l’evangelista Giovanni definisce Dio come amore; in fondo entrambi dicono la stessa cosa, perché per sua natura l’amore è misericordioso.


Vi è un testo molto bello nel libro del profeta Osea: «A Efraim io insegnavo a camminare, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincolo di amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare. Come potrei abbandonarti, Efraim […]. Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione […] perché sono Dio e non uomo; sono santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira» (Os 11, 1-9).

Efraim è il secondo figlio di Giuseppe, nato in Egitto, fratello di Manasse. I profeti usarono questo nome per indicare l’intero regno di Israele. Ma che cosa dice il testo?

  • * Dio si cura di noi e ci insegna a camminare, ci guida come un padre.
  • * Usa verso di noi legami di bontà e vincoli di amore.
  • * Ci porta in braccio fino a toccare la nostra guancia con la sua.
  • * Si china su di noi e non ci abbandona.
  • * Si commuove e freme di compassione.

E tutto questo perché è santo e non si adira contro di noi.

Siamo di fronte al paradosso incomprensibile dell’amore di Dio per noi. Dio è il santo, il trascendente: la sua santità, la sua natura misteriosa è il solo fondamento possibile della sua misericordia verso chi si allontana da Lui e lo abbandona con il peccato (Gr 3, 12-19; 31, 20).

Vi è un altro testo del profeta Osea che mette bene in luce la bontà amorosa di Dio: «Ella inseguirà i suoi amanti, ma non li raggiungerà; li cercherà senza trovarli. Allora dirà: “Ritoerò al mio marito di prima perché ero più felice di ora […]. Perciò, ecco, l’attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò sul suo cuore […]. Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (Os 2, 8-9. 16. 21-22).

Osea ha fatto l’esperienza di un amore che l’ha tradito, la sua donna lo ha lasciato. Attraverso l’esperienza del peccato Israele ha penetrato a poco a poco la profondità della bontà e della misericordia di Dio. Dio è sempre disposto all’amore per un figlio ingrato; è lo sposo sempre fedele, pronto ad accogliere la sposa infedele. Dio è solidale con il suo popolo, lo mette davanti al suo peccato e lo provoca al pentimento.

Ma fino a che punto Dio si può impegnare con gli uomini? Fino a che punto arriva il suo perdono e la sua misericordia? Gesù solo può rispondere a queste domande. Egli, infatti, ha il compito di rivelare la misericordia del Padre. Fin dall’inizio del suo Vangelo, Luca canta la misericordia di Dio: essa si estende di età in età, di generazione in generazione; si manifesta nella nascita di Giovanni Battista; Zaccaria proclama che Dio ha concesso la sua misericordia ai padri antichi e che, con la nascita di Giovanni, inaugura l’opera della sua misericordia.

Tutti gli atti di Gesù si pongono in questa linea: «Io voglio misericordia, non sacrifici», «Sono venuto per i peccatori, non per i giusti». È il suo programma di vita e di annuncio. È la misericordia di Dio. Per questo Gesù predilige i poveri, è l’amico dei pubblicani, siede alla loro tavola, lascia che gli si avvicini una peccatrice e con infinita delicatezza la perdona. Gesù è venuto a «cercare e salvare ciò che era perduto» (Lc 19, 10; cfr. Lc 4, 18; 7, 22.34.39; 19, 5).

Spesso gli evangelisti usano un verbo molto significativo per indicare la misericordia di Dio verso di noi: «Commuoversi fin nell’interiora», sentire uno sconvolgimento simile a quello della madre verso il figlio portato nell’utero. Misericordia è come la dimensione matea dell’amore. E questo termine è usato dagli evangelisti per descrivere le azioni di Gesù che ne evidenziano la missione. Ecco alcuni esempi: «Sbarcando, Gesù vide una folla numerosa e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» (Mc 6, 34; cfr. Mt 14, 14). Matteo usa un’espressione che riassume il mistero di Gesù: «Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore senza pastore» (Mt 9, 36).

Gesù si comporta come il Dio di misericordia descritto nell’A.T., le cui viscere tremarono alla vista del popolo oppresso dai peccati e dalla schiavitù d’Egitto. Così Gesù appare senza difesa davanti alla miseria e alla sofferenza degli uomini, è la misericordia incarnata di Dio. La parabola del Figliol Prodigo o, meglio, del Padre buono e misericordioso, del Padre con viscere di madre, è una chiara testimonianza. Vi è evocata tutta la storia dell’A.T. Il figlio più giovane (come Israele), si allontana dal padre (da Dio), e fa esperienza di peccato, di povertà e fame. Ricorda il tempo dell’abbondanza e, come la sposa di Osea, dice: «Mi leverò e andrò da mio padre». Il padre è lì in attesa e, quando il figlio è ancora lontano, lo vede, si commuove, gli corre incontro e lo bacia. Di fronte a questo atteggiamento, scribi e farisei sono sconcertati.

La misericordia di Dio si estende a tutti gli uomini. Lo sottolinea in particolare Paolo: «Dico infatti che Cristo si è fatto servitore dei circoncisi in favore di Dio vero, per compiere le promesse dei padri: le nazioni pagane invece glorificano Dio per la sua misericordia» (Rm 15, 8-9). Pagani e giudei, tutti sono uguali davanti a Dio, perché tutti hanno peccato e tutti hanno assoluto bisogno della misericordia di Dio. È questa la teologia contenuta nella lettera ai Romani, riassunta con incisività e vigore in Ef 2, 4-7: «Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere in Cristo; per grazia infatti siete stati salvati e ci ha risuscitati in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù». A causa della sua misericordia Dio ci salva. La parola chiave di tutta la storia umana in relazione a Dio è dunque la misericordia.

Uno degli aspetti essenziali della misericordia di Dio è la gratuità. Dal momento in cui Dio ha deciso di avvicinarsi all’uomo per farsi conoscere, ha già preso la decisione di perdonarlo. L’incontro di Dio con l’uomo è sempre in vista del perdono, della pace, della riconciliazione. La storia della salvezza non è altro che la storia di questo incontro, che diventa totale e decisivo fino a farsi definitivo in Cristo Gesù. «Quando però si sono manifestati la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiuta, ma per sua misericordia mediante il lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna» (Tt 3, 4-7). Proprio perché totalmente gratuita, senza supporre nulla da parte dell’uomo peccatore, la misericordia chiede di essere accettata e creduta. Il Signore è vicino all’uomo per donargli la sua misericordia.

Dire misericordia è dire qualcosa di inaudito sulla vita intima di Dio. Non vuole dire quindi solo che Dio ci riconcilia a Lui, ma anche che egli si svela come misericordioso. È questo un mistero che supera le nostre capacità di comprendere Dio nella sua realtà. C’è un mistero di sovrabbondanza del dono di Dio, di misericordia, al punto che Paolo esclama: «Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza in rapporto al peccato, per usare a tutti misericordia […]. O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono impenetrabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! Infatti, chi mai ha potuto conoscere il pensiero del Signore? […] O chi gli ha dato qualcosa per primo, sì che abbia a ricevee il contraccambio? Poiché da lui, grazie a lui sono tutte le cose» (Rm 11, 32-36). La misericordia di Dio non è dunque un attributo secondario: è il volto stesso dell’amore di Dio per noi. Per questo Dio non si pentirà mai di essere misericordioso. La misericordia impegna l’amore infinito ed eterno che è Dio: «Dio è amore», ha scritto l’evangelista Giovanni.

Una misericordia che cancella totalmente il peccato. La misericordia che si manifesta attraverso la persona di Cristo non è mai arrogante, ma è quella di un servitore dolce e umile di cuore. Non cade dall’alto, non mantiene le distanze, si fa semplice, vicina. Non è sentimentalismo. È la misericordia di Dio che cancella veramente il peccato. Il suo primo effetto è di perdonare, rialzare, guidare.

A volte si dice che l’insistenza del cristianesimo sul peccato ha ossessionato patologicamente l’umanità. Un certo modo di presentare le verità cristiane può avere favorito una tale interpretazione, e avere dinanzi certi confessori anche. Occorre sempre ricordare che non si può mai slegare il peccato dal perdono e dalla misericordia di Dio. La misericordia ha la capacità di risvegliare il peccatore: «Se son caduto, mi rialzerò; se siedo nelle tenebre il Signore sarà la mia luce» (Michea 7, 7-9).

Infine, la misericordia è la prima e ultima parola della fede. Le difficoltà e la durezza dell’esistenza, per chi accetta la parola di Dio, acquisiscono un tono, un significato diverso e nuovo. Il mondo nella sua concreta realtà di bene e di male appare più accettabile. Accanto alla durezza della vita, il credente scopre la misericordia materna e paterna di Dio. Solo in questa prospettiva si possono comprendere il senso degli avvenimenti della nostra vita e della nostra storia umana. È questa la sconcertante rivelazione di fronte alle tragedie umane: «Voi siete i miei testimoni, che io mi sono scelto perché mi conosciate e crediate in me e comprendiate chi sono io». Chi crede osa leggere gli avvenimenti nel linguaggio della misericordia, dell’amore e della bontà di Dio per noi, e acquisisce la facoltà di illuminare la durezza dell’esistenza e della storia umana. Lo dice il salmo 103/102, 8: «Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore», frase che l’evangelista Matteo invita a tradurre in una Beatitudine: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5, 7).

Giampietro Casiraghi

Giampietro Casiraghi




Torino riscopre la Consolata

A trecento anni dalla proclamazione «ufficiale» dell’alleanza tra la Consolata e Torino, riscopriamo il millenario legame tra questa città e la «sua» Madonna. Consolatrice e Consolata, una «Madonna del Popolo» che, da Torino, come aiuto dei cristiani e Consolatrice degli afflitti, ha raggiunto gli estremi confini del mondo.

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Tag: Consolata, Torino, santuario

Giampietro Casiraghi




Ancora e sempre Taliban

Tante ombre sul dopo Karzai.
Le lunghissime elezioni presidenziali hanno evidenziato (ancora una volta) la divisione etnica del paese. Davanti al costoso fallimento dell’intervento occidentale e all’espansione dei campi di oppio, in Afghanistan a vincere sono sempre i Taliban, sebbene anch’essi divisi in vecchi e nuovi gruppi.

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Piergiorgio Pescali




Roraima 1: Foreste, Savane e Popoli indigeni

Terra amazzonica di foreste e savane, Roraima è lo stato brasiliano con la maggiore percentuale di popolazione indigena. I cui diritti sono stati conquistati con una lotta quasi sempre cruenta (e tuttora non conclusa). A Boa Vista, capitale di Roraima, abbiamo visitato la Casa de Saúde Indigena (Casai), scoprendo che i «mondi indigeni» resistono nelle proprie diversità.

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Tag: Roraima, Yanomami

Paolo Moiola




i sogni europei di Chişinău



Ai confini dell’Europa (2): la Moldavia


Indipendente dal 1991, la Moldavia è il paese più povero d’Europa. Un terzo della sua popolazione vive all’estero. In Italia i moldavi sono 150 mila. Lo scorso giugno il paese ha salutato con entusiasmo l’«Accordo di associazione» con l’Unione europea. Ma la strada per uscire dalla condizione attuale è ancora lunga e complessa.

Alle spalle del bulvardul Ştefan cel Mare, il viale principale della capitale, c’è il mercato. Tutto il groviglio di strade qui intorno è un bazar all’aperto. Ma, rispetto ai bazar orientali, non ha nulla di caratteristico. Polvere e confusione, marciapiedi rotti e fustini di detersivi colorati, merce scadente proveniente dalla Cina e quarti di bue poggiati sui grossi banchi di cemento. E in mezzo la gente, i moldavi, che brulicano attorno alle masserizie tutti i giorni dell’anno, tanto ai 40 gradi d’agosto quanto ai meno 20 di febbraio, pur di risparmiare qualche leu. Perché qui la roba arriva dalle campagne, o dai furgoni che di notte passano la frontiera con l’Ucraina, e costa meno che nei negozi.
Sorina viene al bazar a comprare i suoi vestiti, ma non le piace che si sappia: non è chic. «Ogni tanto vado a fare una passeggiata nel Mall Dova, ma lì di fare shopping non se ne parla con uno stipendio normale». Il centro commerciale Mall Dova gioca con le parole. È l’unico vero mall di tipo occidentale in tutta la Moldavia, ma senza le code alle casse e la ressa per i saldi. L’edificio in vetro e cemento si staglia tra le strade fangose. Le insegne dei marchi globali pendono silenziose sul marmo lucido della galleria e i commessi non si ammazzano certo dal lavoro. Sorina ha studiato in Italia, e un giorno vorrebbe tornarci per viverci. «Allora, quando avrò i soldi, mi comprerò un sacco di vestiti italiani». Come molti moldavi della classe media, vuole scrollarsi di dosso quell’alone di miseria che circonda il suo paese, e lo fa con un paio di jeans di marca o una borsetta. Non fa niente se vengono dal mercato.
Chişinău è la vetrina della Moldavia, in tutti i sensi. Qui vedi parcheggiare i grossi Hammer extralusso davanti alle boutique di Gucci e Prada, ma anche la povera gente delle periferie e delle campagne con una busta lisa in una mano mentre cerca di mettere insieme il pranzo con la cena.

In fuga da Mosca

La Moldavia è il paese più povero d’Europa, ma è anche quello tra i paesi del partenariato orientale ad aver fatto i progressi più rapidi per arrivare alla firma dell’«Accordo di associazione» con l’Unione europea. Partita in forte svantaggio rispetto ad altri paesi come l’Ucraina, la Moldavia è riuscita ad arrivare alla fatidica firma lo scorso giugno. Non è certo come essere entrata nell’Ue, obiettivo quanto mai lontano, ma la firma è stata salutata a Chişinău con uno sventolio di bandiere blu, a sottolineare la voglia di Europa dei suoi abitanti. Non è una cosa scontata. La Moldavia è un paese giovane, indipendente dal 1991, fortemente condizionato da un pesante passato di repubblica socialista sovietica e da una cospicua componente etnica russa e ucraina. Durante la travagliata conquista dell’indipendenza, nel momento in cui l’Urss si scioglieva in 15 nuovi stati, la Moldavia perdeva una fetta del proprio territorio – la Transnistria (MC luglio 2014, ndr) – abitata in prevalenza da russi e ucraini, mentre ancora oggi nella meridionale Găgăuzia – regione autonoma abitata dai găgăuzi, una popolazione di origine turca – si fanno sentire spinte secessioniste, accentuate proprio dal recente avvicinamento all’Europa. Ucraini e bessarabi, ebrei e lipovani (ortodossi russi scismatici, ndr), russi e romeni, turchi e tatari, găgăuzi e mongoli hanno calpestato questa terra: la Moldavia è un gilgul (ciclo, groviglio) di anime che vortica nella steppa.
Parte della storica Bessarabia, che condivide con le vicine Romania e Ucraina attorno al delta del Danubio, fu abitata dai Daci sin dall’antichità, prima di entrare sotto il controllo romano e poi dell’Impero bizantino. La Moldavia è sempre stata un crocevia delle rotte verso l’Asia e il suo territorio è stato attraversato dalle ondate dell’espansione delle tribù orientali – mongoli, tatari di Crimea, turchi – per tutto il Medioevo. Conobbe il suo periodo di massima espansione nel XVI secolo sotto il regno di Ştefan cel Mare, Stefano il Grande, l’eroe nazionale a cui sono intitolate strade e piazze in tutto il paese. La Moldavia ha avuto una storia recente travagliata con ripetute unioni e separazioni dalla Romania, cui l’accomunano le tradizioni e la lingua neolatina, fino a divenire una repubblica dell’Urss e infine l’attuale stato indipendente dopo la dissoluzione sovietica. È stato allora che le province a maggioranza russa e ucraina al di là del fiume Nistru hanno dichiarato l’autonomia della Transnistria. Ne è seguito un conflitto tuttora congelato e che ha lasciato la situazione immutata dal 1992.
Con la firma dell’Accordo di associazione, la Moldavia ha compiuto una scelta di campo. Chişinău ha voltato le spalle alla Russia e alla sua Unione economica eurasiatica, chiudendo definitivamente il capitolo del proprio passato sovietico, e ha intrapreso un lungo percorso di avvicinamento economico e politico all’Europa. L’entusiasmo con cui la Moldavia ha compiuto questo passo è stato testimoniato dalla stupefacente rapidità con cui il parlamento ha ratificato l’accordo: soltanto tre giorni. Gli effetti si possono già vedere. I cittadini moldavi possono finalmente viaggiare all’interno dell’area Schengen senza bisogno di alcun visto (per massimo 90 giorni e non per motivi di lavoro, ndr). È un risultato importante per chi ha un parente che lavora in Europa, vale a dire per almeno un terzo dei moldavi, ma anche una grande prova del soft power europeo sui paesi del Partenariato orientale.

Emigrazione e rimesse

Il sabato sera a Chişinău c’è lo struscio. Il bulvardul è affollato di giovani che ciondolano tra il McDonald’s e il parco della cattedrale. Sull’immensa piazza Marii Adunări Naţionale l’enorme palazzo del Governo è un transatlantico bianco che solca un mare d’asfalto. Nei tempi sovietici era usata per le magniloquenti parate militari. Oggi ci pensano i ragazzi in skateboard a renderla più vivace e colorata. Cezar beve da una bottiglia di birra vicino a un chiosco e aspetta che si faccia l’ora di andare in discoteca. Si presenta come Cesare, in italiano. Ha vissuto alcuni anni in provincia di Verona, dove c’è una grossa comunità moldava. «Sono dovuto venire via perché non c’era più lavoro. Qui, però, è ancora peggio. La gente scappa, il lavoro è poco e pagato una miseria. Forse tornerò in Italia» (dove i moldavi sono 150 mila, ndr). Si calcola che quasi due milioni di moldavi abbiano lasciato il paese in cerca di un vita migliore. Su una popolazione residente di quasi quattro milioni di abitanti significa che un terzo dei moldavi vive all’estero. È una percentuale enorme, che lecitamente fa parlare di tragedia dell’emigrazione, un’emorragia che prosciuga il paese delle sue risorse migliori. D’altro canto però, le rimesse dei migranti sono la prima fonte di ricchezza nazionale, contando per circa il 40% del Pil.
Anche se Chişinău non è una città facile, è il posto migliore del paese per chi ha le carte giuste da giocare. Nella vicina boulange Crème de la crème non c’è da sgomitare per trovare un tavolo libero, ma non si può dire che manchino i clienti. C’è una sorta di selezione naturale, ed è la colonna di destra del menù a farla. Il tipo che gli si adatta parcheggia il Suv sul marciapiede proprio davanti all’entrata, indossa vestiti italiani e ha una serie completa di gadget elettronici con una mela luminosa sul dorso. Il locale non poteva avere un nome più appropriato.
Al calare del sole, ragazze su tacchi vertiginosi scendono lungo il viale come trampolieri aggraziati, mentre una limousine lunga e bianca come un panfilo passa con una musica tanto alto che i bassi fanno tremare i vetri. Cesare guarda di sottecchi e tira un altro sorso di birra. «Ai moldavi piace apparire. Siamo un po’ tutti squattrinati, ma se guardi quelle ragazze sono tutte firmate dalla testa ai piedi. Qui a Chişinău sembra che la gente se la passi bene, ma basta andare fuori città per rendersi conto di com’è messa la Moldavia». La distanza tra la capitale e il resto del paese è siderale. La vita notturna di Chişinău può competere con quella di qualsiasi capitale europea, ma la vita della maggior parte dei moldavi è ben lontana dai fumi e dai laser delle piste da ballo.

Ortodossi contro ebrei

Il sabato non è solo il giorno dello struscio e delle discoteche. Nella sinagoga di strada Habad Liubavici ci si prepara a festeggiare la fine dello Shabbat. Agli inizi del Novecento si contavano una settantina di sinagoghe e una dozzina di scuole ebraiche. Ed erano sempre piene. All’incirca metà degli abitanti di Chişinău erano ebrei, il calendario delle festività ebraiche cadenzava la vita della città e l’yiddish era la seconda lingua dopo il rumeno. Non poteva durare. L’onda d’urto dell’antisemitismo moderno stava accumulando la sua tensione in tutta la Russia zarista, alimentata dalla pubblicazione dei falsi «Protocolli dei savi di Sion» (in cui si parlava di una cospirazione ebraica, ndr). Lo tsunami d’odio si abbatté, con una veemenza mai vista prima, su Chişinău nel 1903, con il primo grande pogrom del Novecento, e poi di nuovo nel 1905. La macchina del male assoluto s’era messa in moto, e non si sarebbe più fermata. È qui che ha avuto inizio il secolo della Shoah.
Rabbi Avrhom è un omone largo e robusto come una credenza in noce. Indossa un pesante pastrano nero di foggia ottocentesca e lo shtreimel, il tradizionale colbacco degli ebrei ashkenaziti. Sembra che porti un pastore tedesco acciambellato sulla testa. «La vita qui non è facile per nessuno, nemmeno per noi. La gente deve trovare il modo di vivere, alla giornata. La povertà a volte è un terreno fertile per l’intolleranza». Qualche anno fa l’amministrazione cittadina aveva acconsentito a erigere un grosso hanukkiah – un candelabro (menorah) a nove braccia usato nei riti Chabad – in pieno centro città. Ma per i fedeli ortodossi si trattò di un affronto alla Moldavia cristiana. Un corteo sfilò per le vie del centro cantando inni sacri e sventolavano striscioni che inneggiavano a Cristo. Il prete che lo guidava tirò giù l’hanukkiah a colpi di martello e al suo posto piantò una croce. I pezzi furono poi posati ai piedi della vicina statua di Stefano il Grande che, disse il prete, aveva «difeso la patria da tutti i tipi di giudei». Il fatto è che la coesistenza di religioni diverse è ancora oggi tutt’altro che scontata. E, benché le autorità si siano affrettate a rimettere a posto l’hanukkiah, gli episodi di antisemitismo non si contano e non passa giorno che dalla facciata della sinagoga si debbano cancellare svastiche e simboli delle SS.

La vita fuori da Chişinău

La R1 è disseminata di buche. Eppure è una delle strade principali che portano dalla capitale al confine con la Romania. Uscire da Chişinău e dai suoi grandi viali ortogonali è come fare un salto in un’Europa che non c’è più. Un’Europa rurale di carri trainati dai cavalli e contadini a piedi con la vanga in spalla, e dove i covoni di paglia non sono ancora stati sostituiti dalle rotoballe. Vasile è seduto coi piedi ben puntati al pavimento e si regge alla maniglia del furgoncino stipato di persone. Su queste strade si balla. Suo fratello è in Italia, fa il badante. «Adesso che si può, voglio andare anche io a Milano per dargli una mano, e magari trovare anch’io qualcuno che ha bisogno di me». Intanto oggi va in pellegrinaggio al monastero di Căpriana per chiedere una grazia per la sua anziana madre. Non ci si pensa mai abbastanza, ma ogni badante che viene ad accudire i nostri vecchi lascia qualcuno qui di cui nessuno si prende cura. Per Vasile e suo fratello è una mamma malata.
Il monastero è a un’ora da Chişinău. È un luogo sacro dal XV secolo, ma oggi è anche la meta preferita per le gite domenicali degli abitanti della capitale. Qui le giovani coppie amano venire a sposarsi nella bella stagione. Le funzioni sono finite da poco, silenzio e penombra riempiono di nuovo la navata. Vasile accende un cero, il volto della Madonna si dipana alla luce tremula. «Bisognerà che prima o poi qualcuno si prenda cura di questa nostra terra, magari saranno i nostri figli che torneranno ad abitarla», dice lasciando cadere qualche leu nella cassetta delle offerte. Il rumore risveglia per un attimo un monaco che sembrava addormentato in un angolo. Emergere nel sole accecante è come venire alla luce una seconda volta. Le spose frusciano leggere sulle scale, gli sposi si muovono impacciati negli abiti nuovi di zecca e le mamme piangono a dirotto. Insieme a loro tutto il paese guarda al futuro con occhi di speranza.

Danilo Elia

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Sul tetto dell’Africa

Amin e Nyerere: figli per la riconciliazione
Due figli di due potenti capi di stato del passato. Due paesi che hanno visto la guerra. La montagna sacra dell’Africa e un regista ardito quanto esperto. Così nasce un documentario dal profondo messaggio di riconciliazione.

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Tags: Tanzania, Uganda, Amin, Nyerere, riconciliazione

Silvia C. Turrin