Ancora e sempre Taliban

Tante ombre sul dopo Karzai.
Le lunghissime elezioni presidenziali hanno evidenziato (ancora una volta) la divisione etnica del paese. Davanti al costoso fallimento dell’intervento occidentale e all’espansione dei campi di oppio, in Afghanistan a vincere sono sempre i Taliban, sebbene anch’essi divisi in vecchi e nuovi gruppi.

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Piergiorgio Pescali




Roraima 1: Foreste, Savane e Popoli indigeni

Terra amazzonica di foreste e savane, Roraima è lo stato brasiliano con la maggiore percentuale di popolazione indigena. I cui diritti sono stati conquistati con una lotta quasi sempre cruenta (e tuttora non conclusa). A Boa Vista, capitale di Roraima, abbiamo visitato la Casa de Saúde Indigena (Casai), scoprendo che i «mondi indigeni» resistono nelle proprie diversità.

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Tag: Roraima, Yanomami

Paolo Moiola




i sogni europei di Chişinău



Ai confini dell’Europa (2): la Moldavia


Indipendente dal 1991, la Moldavia è il paese più povero d’Europa. Un terzo della sua popolazione vive all’estero. In Italia i moldavi sono 150 mila. Lo scorso giugno il paese ha salutato con entusiasmo l’«Accordo di associazione» con l’Unione europea. Ma la strada per uscire dalla condizione attuale è ancora lunga e complessa.

Alle spalle del bulvardul Ştefan cel Mare, il viale principale della capitale, c’è il mercato. Tutto il groviglio di strade qui intorno è un bazar all’aperto. Ma, rispetto ai bazar orientali, non ha nulla di caratteristico. Polvere e confusione, marciapiedi rotti e fustini di detersivi colorati, merce scadente proveniente dalla Cina e quarti di bue poggiati sui grossi banchi di cemento. E in mezzo la gente, i moldavi, che brulicano attorno alle masserizie tutti i giorni dell’anno, tanto ai 40 gradi d’agosto quanto ai meno 20 di febbraio, pur di risparmiare qualche leu. Perché qui la roba arriva dalle campagne, o dai furgoni che di notte passano la frontiera con l’Ucraina, e costa meno che nei negozi.
Sorina viene al bazar a comprare i suoi vestiti, ma non le piace che si sappia: non è chic. «Ogni tanto vado a fare una passeggiata nel Mall Dova, ma lì di fare shopping non se ne parla con uno stipendio normale». Il centro commerciale Mall Dova gioca con le parole. È l’unico vero mall di tipo occidentale in tutta la Moldavia, ma senza le code alle casse e la ressa per i saldi. L’edificio in vetro e cemento si staglia tra le strade fangose. Le insegne dei marchi globali pendono silenziose sul marmo lucido della galleria e i commessi non si ammazzano certo dal lavoro. Sorina ha studiato in Italia, e un giorno vorrebbe tornarci per viverci. «Allora, quando avrò i soldi, mi comprerò un sacco di vestiti italiani». Come molti moldavi della classe media, vuole scrollarsi di dosso quell’alone di miseria che circonda il suo paese, e lo fa con un paio di jeans di marca o una borsetta. Non fa niente se vengono dal mercato.
Chişinău è la vetrina della Moldavia, in tutti i sensi. Qui vedi parcheggiare i grossi Hammer extralusso davanti alle boutique di Gucci e Prada, ma anche la povera gente delle periferie e delle campagne con una busta lisa in una mano mentre cerca di mettere insieme il pranzo con la cena.

In fuga da Mosca

La Moldavia è il paese più povero d’Europa, ma è anche quello tra i paesi del partenariato orientale ad aver fatto i progressi più rapidi per arrivare alla firma dell’«Accordo di associazione» con l’Unione europea. Partita in forte svantaggio rispetto ad altri paesi come l’Ucraina, la Moldavia è riuscita ad arrivare alla fatidica firma lo scorso giugno. Non è certo come essere entrata nell’Ue, obiettivo quanto mai lontano, ma la firma è stata salutata a Chişinău con uno sventolio di bandiere blu, a sottolineare la voglia di Europa dei suoi abitanti. Non è una cosa scontata. La Moldavia è un paese giovane, indipendente dal 1991, fortemente condizionato da un pesante passato di repubblica socialista sovietica e da una cospicua componente etnica russa e ucraina. Durante la travagliata conquista dell’indipendenza, nel momento in cui l’Urss si scioglieva in 15 nuovi stati, la Moldavia perdeva una fetta del proprio territorio – la Transnistria (MC luglio 2014, ndr) – abitata in prevalenza da russi e ucraini, mentre ancora oggi nella meridionale Găgăuzia – regione autonoma abitata dai găgăuzi, una popolazione di origine turca – si fanno sentire spinte secessioniste, accentuate proprio dal recente avvicinamento all’Europa. Ucraini e bessarabi, ebrei e lipovani (ortodossi russi scismatici, ndr), russi e romeni, turchi e tatari, găgăuzi e mongoli hanno calpestato questa terra: la Moldavia è un gilgul (ciclo, groviglio) di anime che vortica nella steppa.
Parte della storica Bessarabia, che condivide con le vicine Romania e Ucraina attorno al delta del Danubio, fu abitata dai Daci sin dall’antichità, prima di entrare sotto il controllo romano e poi dell’Impero bizantino. La Moldavia è sempre stata un crocevia delle rotte verso l’Asia e il suo territorio è stato attraversato dalle ondate dell’espansione delle tribù orientali – mongoli, tatari di Crimea, turchi – per tutto il Medioevo. Conobbe il suo periodo di massima espansione nel XVI secolo sotto il regno di Ştefan cel Mare, Stefano il Grande, l’eroe nazionale a cui sono intitolate strade e piazze in tutto il paese. La Moldavia ha avuto una storia recente travagliata con ripetute unioni e separazioni dalla Romania, cui l’accomunano le tradizioni e la lingua neolatina, fino a divenire una repubblica dell’Urss e infine l’attuale stato indipendente dopo la dissoluzione sovietica. È stato allora che le province a maggioranza russa e ucraina al di là del fiume Nistru hanno dichiarato l’autonomia della Transnistria. Ne è seguito un conflitto tuttora congelato e che ha lasciato la situazione immutata dal 1992.
Con la firma dell’Accordo di associazione, la Moldavia ha compiuto una scelta di campo. Chişinău ha voltato le spalle alla Russia e alla sua Unione economica eurasiatica, chiudendo definitivamente il capitolo del proprio passato sovietico, e ha intrapreso un lungo percorso di avvicinamento economico e politico all’Europa. L’entusiasmo con cui la Moldavia ha compiuto questo passo è stato testimoniato dalla stupefacente rapidità con cui il parlamento ha ratificato l’accordo: soltanto tre giorni. Gli effetti si possono già vedere. I cittadini moldavi possono finalmente viaggiare all’interno dell’area Schengen senza bisogno di alcun visto (per massimo 90 giorni e non per motivi di lavoro, ndr). È un risultato importante per chi ha un parente che lavora in Europa, vale a dire per almeno un terzo dei moldavi, ma anche una grande prova del soft power europeo sui paesi del Partenariato orientale.

Emigrazione e rimesse

Il sabato sera a Chişinău c’è lo struscio. Il bulvardul è affollato di giovani che ciondolano tra il McDonald’s e il parco della cattedrale. Sull’immensa piazza Marii Adunări Naţionale l’enorme palazzo del Governo è un transatlantico bianco che solca un mare d’asfalto. Nei tempi sovietici era usata per le magniloquenti parate militari. Oggi ci pensano i ragazzi in skateboard a renderla più vivace e colorata. Cezar beve da una bottiglia di birra vicino a un chiosco e aspetta che si faccia l’ora di andare in discoteca. Si presenta come Cesare, in italiano. Ha vissuto alcuni anni in provincia di Verona, dove c’è una grossa comunità moldava. «Sono dovuto venire via perché non c’era più lavoro. Qui, però, è ancora peggio. La gente scappa, il lavoro è poco e pagato una miseria. Forse tornerò in Italia» (dove i moldavi sono 150 mila, ndr). Si calcola che quasi due milioni di moldavi abbiano lasciato il paese in cerca di un vita migliore. Su una popolazione residente di quasi quattro milioni di abitanti significa che un terzo dei moldavi vive all’estero. È una percentuale enorme, che lecitamente fa parlare di tragedia dell’emigrazione, un’emorragia che prosciuga il paese delle sue risorse migliori. D’altro canto però, le rimesse dei migranti sono la prima fonte di ricchezza nazionale, contando per circa il 40% del Pil.
Anche se Chişinău non è una città facile, è il posto migliore del paese per chi ha le carte giuste da giocare. Nella vicina boulange Crème de la crème non c’è da sgomitare per trovare un tavolo libero, ma non si può dire che manchino i clienti. C’è una sorta di selezione naturale, ed è la colonna di destra del menù a farla. Il tipo che gli si adatta parcheggia il Suv sul marciapiede proprio davanti all’entrata, indossa vestiti italiani e ha una serie completa di gadget elettronici con una mela luminosa sul dorso. Il locale non poteva avere un nome più appropriato.
Al calare del sole, ragazze su tacchi vertiginosi scendono lungo il viale come trampolieri aggraziati, mentre una limousine lunga e bianca come un panfilo passa con una musica tanto alto che i bassi fanno tremare i vetri. Cesare guarda di sottecchi e tira un altro sorso di birra. «Ai moldavi piace apparire. Siamo un po’ tutti squattrinati, ma se guardi quelle ragazze sono tutte firmate dalla testa ai piedi. Qui a Chişinău sembra che la gente se la passi bene, ma basta andare fuori città per rendersi conto di com’è messa la Moldavia». La distanza tra la capitale e il resto del paese è siderale. La vita notturna di Chişinău può competere con quella di qualsiasi capitale europea, ma la vita della maggior parte dei moldavi è ben lontana dai fumi e dai laser delle piste da ballo.

Ortodossi contro ebrei

Il sabato non è solo il giorno dello struscio e delle discoteche. Nella sinagoga di strada Habad Liubavici ci si prepara a festeggiare la fine dello Shabbat. Agli inizi del Novecento si contavano una settantina di sinagoghe e una dozzina di scuole ebraiche. Ed erano sempre piene. All’incirca metà degli abitanti di Chişinău erano ebrei, il calendario delle festività ebraiche cadenzava la vita della città e l’yiddish era la seconda lingua dopo il rumeno. Non poteva durare. L’onda d’urto dell’antisemitismo moderno stava accumulando la sua tensione in tutta la Russia zarista, alimentata dalla pubblicazione dei falsi «Protocolli dei savi di Sion» (in cui si parlava di una cospirazione ebraica, ndr). Lo tsunami d’odio si abbatté, con una veemenza mai vista prima, su Chişinău nel 1903, con il primo grande pogrom del Novecento, e poi di nuovo nel 1905. La macchina del male assoluto s’era messa in moto, e non si sarebbe più fermata. È qui che ha avuto inizio il secolo della Shoah.
Rabbi Avrhom è un omone largo e robusto come una credenza in noce. Indossa un pesante pastrano nero di foggia ottocentesca e lo shtreimel, il tradizionale colbacco degli ebrei ashkenaziti. Sembra che porti un pastore tedesco acciambellato sulla testa. «La vita qui non è facile per nessuno, nemmeno per noi. La gente deve trovare il modo di vivere, alla giornata. La povertà a volte è un terreno fertile per l’intolleranza». Qualche anno fa l’amministrazione cittadina aveva acconsentito a erigere un grosso hanukkiah – un candelabro (menorah) a nove braccia usato nei riti Chabad – in pieno centro città. Ma per i fedeli ortodossi si trattò di un affronto alla Moldavia cristiana. Un corteo sfilò per le vie del centro cantando inni sacri e sventolavano striscioni che inneggiavano a Cristo. Il prete che lo guidava tirò giù l’hanukkiah a colpi di martello e al suo posto piantò una croce. I pezzi furono poi posati ai piedi della vicina statua di Stefano il Grande che, disse il prete, aveva «difeso la patria da tutti i tipi di giudei». Il fatto è che la coesistenza di religioni diverse è ancora oggi tutt’altro che scontata. E, benché le autorità si siano affrettate a rimettere a posto l’hanukkiah, gli episodi di antisemitismo non si contano e non passa giorno che dalla facciata della sinagoga si debbano cancellare svastiche e simboli delle SS.

La vita fuori da Chişinău

La R1 è disseminata di buche. Eppure è una delle strade principali che portano dalla capitale al confine con la Romania. Uscire da Chişinău e dai suoi grandi viali ortogonali è come fare un salto in un’Europa che non c’è più. Un’Europa rurale di carri trainati dai cavalli e contadini a piedi con la vanga in spalla, e dove i covoni di paglia non sono ancora stati sostituiti dalle rotoballe. Vasile è seduto coi piedi ben puntati al pavimento e si regge alla maniglia del furgoncino stipato di persone. Su queste strade si balla. Suo fratello è in Italia, fa il badante. «Adesso che si può, voglio andare anche io a Milano per dargli una mano, e magari trovare anch’io qualcuno che ha bisogno di me». Intanto oggi va in pellegrinaggio al monastero di Căpriana per chiedere una grazia per la sua anziana madre. Non ci si pensa mai abbastanza, ma ogni badante che viene ad accudire i nostri vecchi lascia qualcuno qui di cui nessuno si prende cura. Per Vasile e suo fratello è una mamma malata.
Il monastero è a un’ora da Chişinău. È un luogo sacro dal XV secolo, ma oggi è anche la meta preferita per le gite domenicali degli abitanti della capitale. Qui le giovani coppie amano venire a sposarsi nella bella stagione. Le funzioni sono finite da poco, silenzio e penombra riempiono di nuovo la navata. Vasile accende un cero, il volto della Madonna si dipana alla luce tremula. «Bisognerà che prima o poi qualcuno si prenda cura di questa nostra terra, magari saranno i nostri figli che torneranno ad abitarla», dice lasciando cadere qualche leu nella cassetta delle offerte. Il rumore risveglia per un attimo un monaco che sembrava addormentato in un angolo. Emergere nel sole accecante è come venire alla luce una seconda volta. Le spose frusciano leggere sulle scale, gli sposi si muovono impacciati negli abiti nuovi di zecca e le mamme piangono a dirotto. Insieme a loro tutto il paese guarda al futuro con occhi di speranza.

Danilo Elia

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Sul tetto dell’Africa

Amin e Nyerere: figli per la riconciliazione
Due figli di due potenti capi di stato del passato. Due paesi che hanno visto la guerra. La montagna sacra dell’Africa e un regista ardito quanto esperto. Così nasce un documentario dal profondo messaggio di riconciliazione.

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Tags: Tanzania, Uganda, Amin, Nyerere, riconciliazione

Silvia C. Turrin




Missionario fino alla fine

Padre Bruno Del Piero e il Caquetá


Conosco padre Bruno da sempre perché sono nato nel suo paese
d’origine, Roveredo in Piano, un abitato tranquillo nella campagna pordenonese.
Per noi del paese è come se non fosse mai partito. Anche dopo 52 anni di
Colombia era con noi, ogni momento. Lo amavamo tutti. E lui era riuscito a
farci sentire parte del suo mondo. Per questo nel 2012 sono andato una prima
volta nel Caquetá: per passare qualche settimana con il «nostro missionario» e
conoscerlo da vicino.

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Da quel primo assaggio nel 2012, è nata in me la
voglia di sapere di più, di conoscere e condividere quanto desideravo scoprire
sull’avventura missionaria della Consolata in Caquetá. Volevo scrivere della
storia corale di quella missione sui fiumi e nella foresta.

Incoraggiato
da padre Bruno, sono tornato in Caquetá per raccogliere materiale, libri,
documenti e testimonianze intervistando uomini e donne, missionari e non, che
hanno condiviso con padre Bruno più di cinquant’anni d’impegno per il prossimo
in una terra di frontiera di grandi speranze e contraddizioni.

Per
fare tutto questo, ho iniziato a vivere con padre Bruno nella parrocchia del
Torasso, a Florencia, la capitale della regione del Caquetà, la città che il 26
aprile 1952 aveva accolto il primo vescovo della Consolata in Colombia,
l’indimenticabile mons. Antonio Maria Torasso (1914-1960).

Florencia
è una città che vive grazie all’infaticabile opera dei missionari della
Consolata, che hanno plasmato queste regioni, le hanno portate al loro sviluppo
attuale, lavorando a tutto tondo nel sociale, nell’istruzione, nella sanità e
nello spirituale, facendo «il bene, bene» come esigeva il beato Allamano,
fondatore dell’Istituto. E vi assicuro che là il bene è stato fatto davvero
bene. Non lo dico io. Lo dice la riconoscenza della gente, l’affetto verso i
missionari; lo diceva, non a parole, la figura di padre Bruno: con i fatti, il
comportamento, le azioni, il suo spirito, il suo impegno, dal giorno del suo
arrivo fino ai suoi ultimi passi.

Vivendo
a Florencia non avrei mai pensato che avrei condiviso con padre Bruno i suoi
ultimi sei mesi di vita. Per me, che ora scrivo cercando di trattenere
l’emozione, era stato preparato un disegno più grande di quello per il quale
pensavo di essere partito. In Colombia si dice: «Diós sabe como hace sús cosas»
(Dio sa come fa le sue cose).

Padre
Bruno ha lasciato questo mondo e il suo Caquetá il 16 aprile 2014, mercoledì
santo. La sua morte è stata repentina e inaspettata perché aveva una salute di
ferro, era un uomo fortissimo, di quelli che non si vedono più. «È finita la
fabbrica», diceva quando la mia salute zoppicava nell’adattarsi all’ambiente
tropicale così diverso dal nostro. Ci ha lasciati per un infarto diabetico, ma
fino a poco prima stava bene.

E non
solo stava bene, ma continuava a darmi esempio di come bisogna essere «prima
santi e poi missionari», sempre secondo i dettami lasciati dal beato Giuseppe
Allamano.

Quell’ultima sera, prima della corsa all’ospedale:
«Alberto – mi ha detto -, credo di essermi stancato troppo. Pur non sentendomi
in forze ho celebrato la messa, in latino, più di un’ora nella cappella, poi ho
recitato tutto il breviario e infine ho letto un lungo articolo sulla nostra
Chiesa».

Questo
era padre Bruno, come è stato detto alle sue esequie: «Un uomo di Dio, un uomo
della Chiesa, un uomo della gente».

Dal
giorno della sua ordinazione, il 18 marzo 1961, vigilia della festa dell’amato
San Giuseppe, non aveva trascurato neppure un giorno la celebrazione della
messa e la recita del breviario. Era da lì che traeva la sua forza, lì temprava
il suo spirito. Grazie a quel supporto quotidiano era riuscito a superare tutte
le difficoltà della missione, come la mancanza della pace nelle regioni
colombiane in cui ha lavorato, gli assassinii, i problemi sociali. Lui non solo
aveva costruito scuole e chiese, ma aveva contribuito a porre le basi di una
società più fratea. Aveva superato tutto grazie a fondamenta solide: l’amore
per Dio e per la Chiesa, che diventavano amore incondizionato e gratuito per la
gente. Era questo che, agli occhi di uno come me, lo elevava sopra gli altri,
lo rendeva un grande, pur nella sua estrema umiltà.

Già due anni fa mi aveva stupito l’amore che la
gente comune aveva per padre Bruno, l’infinita riconoscenza di generazioni di
persone che lo fermavano in ogni strada per ringraziarlo, per salutarlo, per
chiedere una sua benedizione. Nei sei mesi con lui ho capito il perché di tale
amore.

Padre
Bruno era instancabile, era sempre disponibile per tutti, chiunque venisse al
Torasso con qualsiasi tipo di richiesta era sempre accolto e sostenuto dal suo
sorriso. Era sempre di buon umore e lo trasmetteva agli altri. Anche questo
elemento faceva parte della sua forza. Pur avendo ottantadue anni, si svegliava
ogni mattina alle 4.30 e, dopo un’ora di preghiera, andava all’ospedale per
celebrare la messa e visitare tutti i malati. Mai, in sei mesi, l’ho sentito
dire una volta che era stanco.

Così padre Bruno ha fatto per quasi 52 anni, da
quel 15 novembre 1962 nel quale era arrivato a Florencia, nel suo Caquetá.

Come
hanno detto in moltissimi: mezzo secolo di missione nel quale non si è mai
risparmiato, nel quale ha percorso in lungo e in largo la natura selvaggia del
Sud della Colombia, a piedi, a cavallo, in barca, per raggiungere anche i più
lontani, gli ultimi. Parroco in quasi tutti i centri abitati del Caquetá,
fondatore di città, paesi e di innumerevoli chiese e cappelle. Missionario
vero. L’aveva nel sangue la passione per la missione, una passione che
alimentava a ogni Eucaristia.

L’amore
della gente si è manifestato in modo folgorante nei giorni in cui padre Bruno è
tornato al Padre. Sono stati giorni in cui il cordoglio e l’affetto avvolgevano
chiunque e si potevano toccare, giorni in cui le chiese non riuscivano a
contenere le persone, tutte con gli occhi lucidi carichi di stima e
riconoscenza.

È stato davvero emozionante ed edificante partecipare a
quei gesti di affetto tributati da gente di ogni età e ceto a colui che ha
guidato e sorretto il loro cammino per più di cinquant’anni, consumando se
stesso fino alla fine. Che bello vedere come il seme da lui piantato abbia
fruttificato rigogliosamente e si sia moltiplicato nella gente di quelle
regioni. Che bello aver già visto nascere, in nome di padre Bruno, delle
fondazioni per l’aiuto dei poveri, degli ammalati e dei più bisognosi, i suoi
prediletti che ora potranno continuare a ricevere un sostegno proprio grazie
alle persone formate da lui alla buona vita del Vangelo.

Ho avuto il dono di vivere tutto questo in prima
persona. Andato laggiù per frugare nella sua vita, scoprire il segreto della
sua passione missionaria, mi sono trovato ad accompagnarlo alla sua ultima
tappa e a dover rappresentare anche la sua famiglia e il paese che, a causa
della morte così inaspettata, non hanno potuto essere presenti. Ed ero lì non
solo per condividere il dolore di chi lo aveva perso, ma anche la gioia di chi
ha avuto la possibilità di conoscerlo, di conoscere, come dicevano tutti, «un
Santo». Tutti coloro per i quali ha donato se stesso dicono e ridicono che è un
santo.

Padre
Bruno non è stato soltanto un grande missionario, è stato un uomo esemplare per
i valori che viveva con forza e trasmetteva con la testimonianza, per l’impegno
che metteva in ogni singola cosa, per la totale gratuità di ogni suo gesto
rivolto agli altri, per l’elevatezza della sua spiritualità, per la sua
purezza, la sua rettitudine.

Lla sua forza aveva basi solidissime, e padre
Bruno me l’ha dimostrato fino all’ultimo, quando, nella corsa in taxi verso
l’ospedale dopo il malore, mi ha sussurrato le sue ultime parole: «Sono gli
ultimi rantoli prima della morte», rivelatrici della sua intima consapevolezza,
tranquillità, serenità e dell’assenza di ogni timore. Era pronto a passare a
quella vita cui, mettendoci tutto il suo impegno, aveva anelato per
ottant’anni.

In
quell’occasione mi è diventato chiaro un altro episodio vissuto in Caquetá. Era
Natale del 2013. Uscivo da casa per andare in chiesa a festeggiare la nascita
di Gesù. Ero contento perché avevo appena ricevuto la bella notizia che la
moglie di un mio carissimo amico aspettava una bambina. Appena fuori mi hanno
chiamato le suore: una di loro si era sentita male ed era morta, lì, di colpo.
Allora sono corso a chiamare padre Bruno che è arrivato per impartire l’ultimo
sacramento. Io mi sentivo stranito perché in pochi secondi ero passato dalla
notizia di una nascita a quella di una morte. Mi sono poi confidato con padre
Bruno, e lui mi ha detto: «Caro Alberto, non è come la vedi tu. Oggi hai
assistito a due nascite: una per questo mondo, una per l’altro».

Così
padre Bruno vedeva la morte, e anche la propria. Per questo era sereno, pronto,
in pace. Lui stava per nascere nuovamente fra le braccia del Dio che aveva
tanto amato, teso a raggiungere la Consolata e San Giuseppe che l’avevano
protetto nelle sue mille avventure, come i suoi genitori che, non a caso, si
chiamavano Giuseppe e Maria.

Nel
periodo di Pasqua ho scoperto quindi che quelle «nascite» di Natale erano per
me solo una preparazione a ciò che avrei dovuto affrontare durante la Settimana
Santa. Quello che avevo iniziato a capire allora, adesso è diventato più
chiaro.

Padre Bruno Del Piero giace a Cartagena del Chairá,
paese di cui è stato cofondatore, alla base della croce che egli stesso aveva
costruito a lato della cappella del
cimitero. Come è stato detto nei giorni della sua «seconda nascita», nel Caquetá
sono certi che dalla tomba di padre Bruno fioriranno vocazioni, che quel
sepolcro si convertirà in un luogo di pellegrinaggio. Ed è già così. Da ogni
parte migliaia di persone continuano ad arrivare per ringraziare padre Bruno
per tutto quello che ha donato, fino all’ultimo, fino al regalo estremo del suo
corpo affidato alla terra su cui ha fatto nascere e crescere per cinquant’anni
chiese, paesi, persone. Perché la vita, la vera Vita, continui.

Alberto Cancian

Tags: Colombia, missionari, IMC, Caqueta

Alberto Cancian




Tutti pazzi per il mobile

Inchiesta «mobile money» – Denaro virtuale / 3


Uno dei paesi più poveri del mondo. Privo, quasi, di
risorse. Un popolo tenace e ingegnoso. Forse perché nei secoli ha dovuto
resistere a un clima ostile. Alfabetizzati e non, i Burkinabè sono molto
ricettivi alle nuove tecnologie.

Così, i servizi finanziari su telefono
cellulare hanno avuto un successo insperato. Anche per gli addetti ai lavori. Scopriamo
perché.

Ouagadougou. Roland Ouedraogo è un modesto falegname burkinabè. Il suo atelier si affaccia su una delle tante polverose vie del quartiere «sécteur 29» della capitale. Zona periferica in continua espansione, perché Ouaga – come viene chiamata comunemente la capitale – si allarga a macchia d’olio, non avendo barriere naturali intorno a sé. Roland fa lavorare due ragazzi che imparano il mestiere. Ha moglie e tre figli ed è molto attivo nella sua parrocchia. Dopo aver passato un periodo di crisi economica, è riuscito ad avere una buona commessa per rifare le porte di un grande albergo della città. In passato, ci dice, aveva un conto alla Cassa popolare (una banca di prossimità), ma poi lo ha prosciugato e non è più riuscito a risparmiare.
Ma adesso gli affari vanno meglio. «Ho sentito parlare di Airtel Money e mi interessa sapee di più. Credo che per il mio lavoro possa essere utile. Mi capita di andare a lavorare in un cantiere lontano dalla falegnameria e di avere bisogno di mandare soldi ai miei aiutanti rimasti all’atelier per comprare qualche pezzo. Oppure viceversa se sono io ad avere bisogno di qualcosa».
Airtel Money è il prodotto di mobile banking di Airtel Burkina, una delle tre compagnie telefoniche presenti nel paese.
Continua Roland: «L’ho visto fare a chi lavora nelle miniere d’oro. Mandano dei soldi ai loro collaboratori oppure alle famiglie. Qui in capitale molti amici e colleghi hanno già aperto il conto mobile. Un mio amico è andato ad Airtel. Gli hanno spiegato come fare. All’inizio era un po’ complicato, poi ha capito il meccanismo ed è stato tutto più facile. Voglio andare a informarmi».

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Marco Bello e Gianluca Iazzolino




Di guerra in guerra


Nel mondo un’inflazione di conflittualità

Esaminando i dati sulle guerre in essere, si scopre che dal
1945 la conflittualità nel mondo è in costante aumento. Per ragioni
ideologiche, per conquistare il governo, per motivi etnici, per controllare le
risorse naturali. Il panorama e le prospettive sono desolanti. Tanto che papa
Francesco parla di «Terza guerra mondiale».


Quanti conflitti si stanno consumando nel mondo? Non è
possibile dare una risposta esauriente e definitiva a questa domanda visto che,
a seconda dei vari criteri di analisi, il numero, l’intensità e la tipologia di
violenza possono risultare sensibilmente diversi da uno studio all’altro.

Una valutazione complessiva, però, la si può dare, e non è
certo positiva: nel corso del 2013, la tendenza a risolvere le divergenze con
le dispute armate è stata in costante aumento.

I dati di Uppsala

Il principale rapporto su cui molti analisti e studiosi
basano le proprie osservazioni sul tema viene stilato annualmente dal
Dipartimento di pace dell’Università di Uppsala, in Svezia.

L’istituto svedese divide l’intensità e la gravità degli
scontri secondo parametri che tengono conto sia del numero di vittime accertate
nel corso dell’intero anno, sia delle parti in causa coinvolte.

Secondo questo criterio si può parlare di guerra conclamata
solo se i morti superano le 1.000 unità, mentre se le vittime accertate sono
comprese tra un minimo di 25 e un massimo di 1.000 lo stato di belligeranza
viene declassificato come conflitto minore.

Un altro principio utilizzato dagli studiosi di Uppsala per
accertare la tipologia di scontro è l’identificazione degli attori coinvolti
nelle operazioni belliche, generalmente forze armate governative o gruppi
militari organizzati (anche se privi di una sigla o di un nome ufficiale) le
cui azioni si concentrano contro la popolazione civile.

Secondo l’Uppsala
Conflict Data Program
(Ucdp), nel 2013 erano in atto 7 guerre con più di
mille vittime all’anno e 18 conflitti armati (vedere il riquadro).

Gli scontri più sanguinosi si sono registrati in Siria
(73.455 morti), nel Sud Sudan e in Messico, nella guerra delle cosche per il
controllo del traffico di droga (ognuna con più di 10.000 morti). A ruota
seguono il conflitto iracheno (7.818 morti), quello in Afghanistan (5.648),
Pakistan (5.366), Nigeria (1.614), Egitto e Repubblica Centrafricana (più di
1.000).

In due stati i conflitti sono diminuiti di intensità (Rwanda
e Azerbaijan), ma in compenso nel 2014 si sono aggiunti il conflitto ucraino
(che a luglio 2014 ha già causato più di 1.100 morti) e la guerra
israelo-palestinese ha avuto, dopo alcuni anni di relativo stallo, una nuova
recrudescenza (8 luglio – 26 agosto 2014) con l’invasione di Gaza da parte
delle forze israeliane e un bilancio di circa 2.200 morti (2.100 palestinesi e
72 israeliani).

Rispetto al 2013, nei primi mesi del 2014 si sono registrati
aumenti di vittime in conflitti di bassa intensità nel Nagoo Karabakh,
Azerbaijan (da 2 a 16), nello Xinjiang, Cina (da 88 a 103), nello Yemen (da
230-250 a più di 400), nella Repubblica Democratica del Congo (da 63 a 288), in
Libia (da 165 a più di 500), nel Mali (da 9 a circa 100).

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Piergiorgio Pescali




Laici missionari sulla frontiera


Le realtà laicali del mondo missionario italiano
Dal 31 maggio al 2 giugno scorsi si è svolto, presso la casa
dei missionari della Consolata di Bevera (Lecco), il secondo convegno dei laici
missionari allo scopo di creare rete e valorizzare le esperienze in atto.



L’evento, che ha coinvolto più di cento persone provenienti da una dozzina di realtà
laicali legate a vario titolo agli istituti missionari o alle diocesi, ha avuto
come tema: «Laici Missionari: cristiani impegnati sulla frontiera tra Chiesa e
società».
Una laica missionaria ce lo racconta.

Per i membri dei vari movimenti laicali missionari
è una grande ricchezza riuscire a riunirsi e ragionare insieme sulle strategie
per fare missione qui e ora. Il
convegno – organizzato dal comitato dei laici missionari che raccoglie
esponenti dei gruppi laicali legati ai rami maschili e femminili di Consolata,
Saveriani e Pime, ramo maschile dei Comboniani e Fidei donum – tenutosi nella
scorsa primavera ha evidenziato come le diverse realtà laicali missionarie
siano unite, pur nella diversità e nella ricchezza dei carismi originari, nel
compito di impegnarsi in una missione che sempre più spesso è di frontiera.
Dopo aver riflettuto, nella prima edizione del dicembre 2012, sul ruolo del
laico missionario nella Chiesa di oggi, in questa sessione abbiamo affrontato
tematiche più legate all’agire missionario: qual è il rapporto tra noi laici e
gli istituti missionari (meglio: le famiglie missionarie) di riferimento? Quali
le difficoltà nell’annuncio del Vangelo oggi? E ancora: come fare animazione
missionaria nelle nostre Chiese locali? Quale impegno nel volontariato e sui
temi di giustizia e pace? E infine: qual è la spiritualità che sentiamo più
nostra come laici e famiglie del XXI secolo?

Testimoni in un mondo di «eterni giovani»

Il
primo giorno è intervenuto don Armando Matteo, docente di teologia fondamentale
presso la Pontificia Università Urbaniana, dal 2005 al 2011, assistente
ecclesiastico centrale della Federazione Universitaria Cattolica Italiana
(Fuci), grande conoscitore del mondo giovanile e autore de La prima
generazione incredula
, edito da Rubbettino.

Egli
ha analizzato in maniera puntuale la situazione giovanile in Italia, a partire
da una spietata ma vera fotografia degli adulti di oggi che si distinguono per
un diffuso culto della giovinezza, il quale censura figure quali la crescita, l’esperienza
del limite, l’insuperabilità della malattia, e che conduce sino
all’esorcizzazione linguistica della vecchiaia e della morte. «Gli adulti
stanno costruendo una società che ruba avidamente spazi e tempi ai giovani e
non riesce più a prestare sufficiente attenzione né alla loro reale condizione
né alla possibilità del loro futuro sviluppo». In questo modo aumenta una sorta
di «risentimento» da parte degli adulti nei confronti dei giovani, dal momento
che gli stessi giovani con la loro «pura» presenza «ricordano ciò che gli
adulti vorrebbero a ogni costo dimenticare: lo scorrere del tempo,
l’avvicinarsi della malattia, l’inesorabile ora del congedo da questa vita».

Per
questo motivo i giovani si trovano spesso a confronto con figure adulte
demotivate e poco autorevoli, incapaci di testimoniare ragioni di vita che
suscitino amore e dedizione. Secondo don Armando all’interno della relazione
educativa adulto-giovane, il giovane dovrebbe trovare adulti felici di essere
adulti che lo invitano a seguirli nella crescita: «Cammina, datti da fare».
L’attuale rivoluzione dell’immaginario circa le età della vita, però, comporta
che nella carne vivente di ogni adulto il giovane trovi un rifiuto dell’età
adulta e una sorta d’invidia della gioventù: «Non ti muovere. Tu sei nel
paradiso. Tu sei paradiso. L’unico a dover uscire (e-ducere) dal suo possibile
cammino sull’orlo della vecchiaia sono io adulto. Tu puoi star fermo».

Secondo
don Armando i giovani osservano gli adulti per apprendere il vero senso della
vita e del loro futuro. Per questo motivo è necessaria un’autentica conversione
del mondo degli adulti: essi sono chiamati a passare «da un amore viscerale per
la giovinezza e il suo irresistibile fascino a un amore e una cura per i
giovani e il loro bisogno d’incontrare adulti testimoni».

L’intervento
di don Matteo ha voluto rendere chiaro lo scenario in cui i laici missionari
sono chiamati a lavorare. Gettando uno sguardo ai partecipanti al convegno ci
siamo resi conto della scarsa presenza di giovani. A noi quindi, che siamo
adulti, spetta l’arduo compito di essere testimoni credibili della fede. Spesso
parliamo di giovani e ci domandiamo come lavorare con loro. La risposta
impegnativa è che dobbiamo essere adulti: contenti di essere adulti e di essere
cristiani.

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Chiara Viganò




Finalmente Angola


I missionari della Consolata sbarcano in un nuovo paese africano
lo scorso mese di agosto i missionari della Consolata hanno
realizzato un sogno: inaugurare la loro prima missione in Angola. Era dal 2005,
anno del loro XI Capitolo generale, che studiavano la possibilità di
un’apertura in un nuovo paese africano.


Da quando sono arrivati in Kenya nel
1902, si sono sparsi nel continente nei seguenti paesi: Etiopia (1913-1941,
1970), Tanzania (1919), Somalia (1924-1930), Mozambico (1925), Sudafrica
(1971), Zaire-Congo RD (1982), Uganda (1985), Costa d’Avorio (2001) e Gibuti
(2004).

I primi tre giovani missionari per l’Angola sono i
padri Fredy Gomez colombiano (38 anni, ordinato nel 2011), Sylvester Ogutu (31
anni, ordinato nel 2014) keniano, e Dani Romero (29 anni, ordinato nel 2013)
venezuelano. I tre si trovano ora nella città di Viana, nella provincia di
Luanda, e vivono temporaneamente nella casa dei missionari colombiani di
Yarumal. La diocesi di Viana è geograficamente piccola, ma con un’altissima
densità di popolazione. Le parrocchie sono esageratamente grandi, non tanto
come area, quanto per il numero di persone che vi abitano.

Il vescovo, mons. Joaquim Ferreira Lopes, un francescano,
ha accolto con grande gioia i nuovi arrivati, contento che l’Istituto abbia
cominciato a lavorare e produrre vita nuova in quella porzione del Regno di
Dio. Ai missionari della Consolata ha affidato tutto il distretto di Kapalanga,
smembrando dalla parrocchia della santissima Trinità quella che prossimamente
sarà la nuova parrocchia di S. Agostino.

Il 17 agosto 2014 i nuovi pastori hanno assunto
ufficialmente dalle mani del vescovo la responsabilità della futura parrocchia,
che comprende sette grandi comunità di base, in una solenne celebrazione
eucaristica carica di gioia e di speranza. Il vescovo ha detto ai presenti: «Per
una
migliore cura pastorale della diocesi di Viana, oggi, pieni di gratitudine al
Signore, riceviamo tra di noi, e ve li presentiamo, questi tre giovani
missionari della Consolata, affinché insieme a voi costruiscano un nuovo sogno,
una nuova pagina della vostra storia, quella di farvi diventare una vera
comunità parrocchiale».

Padre Fredy Gomez, a nome dell’Istituto ha ringraziato il
vescovo, i missionari di Yarumal e tutto il popolo di Dio per la calorosa
accoglienza e la fiducia accordata.

È stato proprio un bell’incoraggiamento per i tre giovani
missionari, i cui anni di sacerdozio assommano tutti insieme a cinque,
all’inizio di nuovissima esperienza missionaria.

La quasi parrocchia di S. Agostino conta un grande
numero di fedeli provenienti da quasi tutte le province dell’Angola, un bel
miscuglio di gruppi diversi attirati dal miraggio della capitale Luanda. Ha una
vita comunitaria attiva e partecipata anche se mancano completamente le
strutture e la gente si trova a pregare sotto gli alberi.

Sono
molte le sfide che i nuovi missionari dovranno affrontare, tra queste la più
impegnativa sarà quella di riuscire ad accompagnare bene il cammino spirituale
di così tanti cristiani, dando la testimonianza che è possibile vivere insieme
pur nella diversità. La loro forza sta proprio nella testimonianza di vita che
potranno offrire come comunità composta da sacerdoti di tre paesi diversi. C’è
poi il bisogno di una formazione cristiana più approfondita per tutti, e di far
crescere il senso comunitario in una popolazione multietnica e provata da anni
di guerra, abbandonata a se stessa, lontana dai propri villaggi di origine e
senza il supporto della società tradizionale. Oltre al creare comunità, che è
la priorità, sarà poi anche necessario costruire una vera chiesa che diventi
casa di tutti e alcune strutture minime, come un salone per gli incontri e
salette per il catechismo e la formazione, e poi anche la casa parrocchiale,
per non essere più ospiti, ma «cittadini».

Dani Romero

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Dani Romero




Il piccolo regno di Kadyrov


Ai confini dell’Europa (3):
la Cecenia
Dopo la deportazione staliniana del 1944 e due sanguinose
guerre civili, nella piccola repubblica caucasica pare vigere la calma. Il
presidente Ramzan Kadyrov, fedelissimo di Putin, tiene in pugno il paese. Senza
alcuna preoccupazione per i diritti umani.


Luci colorate brillano nel cielo di Grozny, la città è
animata da traffico e commerci. Ovunque fervono cantieri. Una situazione molto
diversa da qualche anno fa, quando la capitale della Repubblica cecena era
ancora un ammasso di edifici in rovina, crivellati dalle bombe. Oggi la strada
principale è intitolata a Putin, il presidente russo che ha distrutto Grozny in
passato ma che ora ne finanzia la ricostruzione, sotto la supervisione del capo
della Repubblica cecena Ramzan Kadyrov.

Secondo dati del ministero delle Finanze russo, negli ultimi
anni Mosca ha finanziato più del 90 per cento del bilancio totale della
Cecenia. Grazie a questa ingente iniezione di danaro – e a un sistema
repressivo ben radicato – Ramzan Kadyrov e i suoi stanno riuscendo a tener fede
allo slogan lanciato qualche anno fa: «La Cecenia senza segni di guerra».
Almeno per quanto riguarda la capitale.

Dopo le bombe, la paura

Se Grozny sta rinascendo dal punto di vista architettonico,
non tutte le tracce della guerra sono state però cancellate. Dietro la facciata
splendente della città, c’è un mondo di miseria di cui pochi parlano. Molti
ceceni vivono ancora in case provvisorie e la disoccupazione è altissima (sopra
il 40% secondo i dati ufficiali). La corruzione è molto diffusa e senza
tangenti è impossibile trovare lavoro. Molti lasciano il paese per cercare rifugio
in Europa, dove, secondo la Jamestown Foundation, vivono circa 70.000 rifugiati
ceceni. La più grande comunità si trova in Austria con circa 17.000 persone.

Su Grozny le bombe non cadono più dal 2009 (vedi riquadro
storico), ma la paura è ancora presente. Secondo le associazioni non
governative Human Right Watch e Amnesty Inteational in Cecenia minacce
e intimidazioni sono all’ordine del giorno nei confronti di chi si batte per il
rispetto dei diritti umani e cerca la verità sulle responsabilità delle
violenze e delle sparizioni.

Il regime giustifica il metodo repressivo come parte della
lotta contro il terrorismo. La direttiva di Mosca è chiara: eliminare qualsiasi
manifestazione di ribellione o estremismo con ogni mezzo.

Ramzan Kadyrov è stato scelto da Vladimir Putin nel 2007
alla guida della Cecenia e, in cambio della fedeltà al Cremlino, ha ottenuto
potere e aiuti per la ricostruzione.

L’amicizia e la devozione di Kadyrov verso Putin è arrivata
persino a cancellare il passato più remoto. Quest’anno, per la prima volta
nella storia recente, non vi è stata a Grozny alcuna commemorazione ufficiale
della deportazione staliniana del 1944. La celebrazione del 70° anniversario
dell’evento che coinvolse ceceni, ingusci e balcari sarebbe coincisa con la cerimonia
di chiusura dei Giochi olimpici invernali di Sochi, il 23 febbraio 2014. Così
per evitare di gettare un’ombra sulla festa sportiva, tanto importante per
l’amico Putin, Kadyrov ha vietato ogni manifestazione.

Il 18 febbraio nella cittadina di Gekhi, a pochi chilometri
da Grozny, Ruslan Kutaev, noto attivista per i diritti umani e presidente
dell’Associazione dei Popoli del Caucaso settentrionale, ha sfidato le autorità
organizzando comunque una conferenza di commemorazione. Due giorni dopo il suo intervento
Kutaev è stato invitato telefonicamente dalle autorità cecene a presentarsi per
un colloquio. Il 21 febbraio il servizio stampa del ministero degli Intei ha
comunicato che Kutaev era stato trovato in possesso di 3 grammi di eroina e di
conseguenza era stato arrestato. La pratica di nascondere droghe sulle persone
ritenute scomode dal regime per poterle arrestare e metterle a tacere è
largamente diffusa in Cecenia come in altre parti della Federazione russa.

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Roberta Bertoldi