Sole, vento, terra d’Africa

Le energie
rinnovabili nel continente africano

Dall’eolico al fotovoltaico,
dal solare termodinamico al geotermico. Le energie rinnovabili, o energie
pulite, sono all’avanguardia in Africa. E vedono sempre maggiori investimenti
nei paesi che vogliono smarcarsi dai combustibili fossili. Purtroppo non sempre
l’impatto ambientale è trascurabile.

Acqua, calore terrestre e vento: il futuro
energetico dell’Africa potrebbe partire da questi elementi, tutti abbondanti
nel continente e tutti puliti. Il percorso è ancora lungo, ma si stanno
compiendo passi da gigante nella direzione di una energia accessibile e
rinnovabile, capace non solo di far crescere la qualità della vita degli
africani, ma anche di alimentare lo sviluppo economico.

Attualmente
un terzo della popolazione africana non ha accesso all’elettricità. Se esistono
però paesi come Libia, Egitto e Sudafrica in cui la rete elettrica è
strutturata e raggiunge la maggior parte degli utenti, in altre nazioni
l’accesso scende sotto il 20%, con picchi negativi del 5% in stati meno
sviluppati. Una situazione difficile anche se tenendo conto delle necessità di
un continente che economicamente sta crescendo a livelli sostenuti. Il Pil,
infatti, pur partendo da valori assai bassi, continua a salire. Quello
dell’Africa sub sahariana, secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi), è
balzato dal 5,1% nel 2012, al 5,4% nel 2013, al 5,7% nel 2014. Etiopia,
Mozambico, Tanzania, Congo, Zambia, Nigeria e Ghana dovrebbero rientrare, nei
prossimi 5 anni, tra le economie con la crescita più forte al mondo.

L’energia
è quindi un fattore strategico. E l’energia rinnovabile, in particolare, può
essere la più adatta per il continente. In paesi in cui le reti elettriche non
raggiungono tutte le regioni e nei quali la popolazione è dispersa su aree
molto vaste, la produzione con piccoli impianti distribuiti sul territorio e
destinati alle esigenze locali può rivelarsi la soluzione più razionale. A ciò
si aggiunge il fatto che, soprattutto quando si parla di impianti eolici e a
energia solare, si ha a che fare con strutture modulari (che possono cioè
essere ampliate) e che richiedono una manutenzione relativamente semplice.
Caratteristiche che si adattano all’impiego in zone remote. Oltre ad affrancare
molti paesi dalle costose e inquinanti centrali alimentate dai carburanti
fossili. I costi degli impianti non sono ancora alla portata degli stati
africani, ma organizzazioni inteazionali e imprese private stanno investendo
capitali insieme ai governi locali per creae all’avanguardia.

Il sole che dà vita

L’Africa è uno dei continenti più adatti allo
sfruttamento dell’energia del sole. Molti paesi, soprattutto quelli della
fascia saheliana e sahariana, godono di un’esposizione prolungata ai raggi sia
nel corso della giornata sia durante l’anno (in Ciad, per esempio, si calcola
che ci siano almeno 360 giorni di sole l’anno, lo stesso vale per Libia,
Algeria, Mali, Niger, Sudan). Secondo calcoli scientifici oltre l’80% del
territorio riceve tra i 6,5 e i 7,5 KWh di energia per metro quadrato all’ora.

Attualmente
i raggi del sole possono essere trasformati in energia attraverso due sistemi:
i pannelli fotovoltaici e le centrali termodinamiche.

I pannelli si stanno diffondendo rapidamente nel
continente. Ospedali, scuole, sedi di Ong, grazie alle donazioni di
organizzazioni inteazionali, installano piccoli impianti solari per le loro
esigenze. La sua capillarità rende difficile quantificare il fenomeno che però,
va detto con certezza, è in rapida espansione. Ma i pannelli sono oggetto anche
di progetti di più ampie proporzioni. Per esempio, a Sunninghill (Sudafrica) è
stato costruito un impianto in grado di sviluppare un’energia di 675 MWh l’anno
che copre il 5% del fabbisogno del paese. Pretoria ha poi dato il via libera
alla costruzione di una centrale nel deserto del Kalahari che è entrata da poco
in funzione e, a regime, dovrebbe fornire 146 GWh l’anno. Anche a Nzema (Ghana)
è stato creato un impianto che dovrebbe produrre 155 MWh grazie a 630mila
pannelli.

A
giugno il Marocco ha pubblicato due bandi per la realizzazione di altrettanti
progetti fotovoltaici. Il primo dovrebbe essere costituito da quattro centrali
collegate alla rete ad alta tensione, il secondo da otto centrali anch’esse
collegate alla rete. Per i finanziamenti Rabat si è rivolta alla Banca mondiale
e alla Banca europea degli investimenti che si sono impegnate a sostenee la
realizzazione. Da parte sua il governo marocchino ha stanziato 11 miliardi di
dollari per le energie pulite (solare ed eolico). Un investimento che dovrebbe
portare il paese a diventare un esportatore di energia pulita entro il 2020 e
ad affrancarsi dai carburanti fossili (per i quali spende 13 miliardi di dollari
l’anno).

Gli
investitori inteazionali hanno però puntato il loro sguardo anche su un’altra
forma di produzione dell’energia: le centrali termodinamiche. In esse la
radiazione solare viene concentrata in specchi parabolici e convertita in
calore, il quale è poi trasformato in elettricità da turbine a vapore. Le
centrali possono essere installate nei deserti dove c’è abbondanza di spazio e
di raggi solari. Impianti di questo tipo sono in funzione negli Usa, in Spagna
e anche in Italia (a Priolo, Siracusa). Per sfruttare le enormi potenzialità
del solare e delle centrali termodinamiche, nel 2007 era nato Desertec,
un’organizzazione della quale facevano parte numerosi centri studi tedeschi che
collaboravano con società del calibro di Abb, Deutsche Bank e Siemens. Il piano
prevedeva investimenti per 400 miliardi di euro nell’arco di vent’anni per
creare un sistema di centrali termodinamiche in rete con alcuni parchi eolici
nel Nord Africa e in Medio Oriente. L’energia prodotta avrebbe potuto essere
utilizzata in loco, e in parte esportata verso l’Europa. Le rivolte arabe e la
crescente instabilità politica della regione hanno in seguito fermato il
progetto. L’idea però non è morta. In Italia Res4Med, un’associazione di cui
fanno parte tra gli altri Edison, Enel, Politecnico di Milano, ha rilanciato il
piano di creare centrali termodinamiche di piccole e medie dimensioni sulle
coste del Mediterraneo. E nel 2013 ha presentato sei progetti in questo senso.
Nel frattempo la multinazionale spagnola Abengoa ha completato la costruzione
di un impianto termodinamico a Upington (Sudafrica). Una struttura che aiuterà
il Sudafrica a raggiungere l’obiettivo energetico di 18 GWh di energia pulita
entro il 2030.

Il calore della terra

Le
centrali geotermiche sono state le prime forme di produzione di energia
rinnovabile in Africa. Per lungo tempo, considerati i bassi consumi e i costi
contenuti, gli stati hanno però preferito non implementae la costruzione. Ma
i tempi sono cambiati e si torna a guardare con interesse all’energia del
sottosuolo (che si stima abbia una potenzialità di 7 mila MWh). La geotermia si
basa sullo sfruttamento del calore naturale della terra. Penetrando in
profondità, la temperatura aumenta. Nelle regioni caratterizzate da attività
vulcaniche il calore è ancora più elevato e si produce energia convogliando in
una turbina i vapori provenienti da sorgenti di acqua calda o quelli ricavati
pompando nel sottosuolo acqua fredda che si riscalda.

In
Africa le condizioni migliori per lo sfruttamento della geotermia si trovano
nella Rift Valley, quella spaccatura della crosta terrestre che va dal Mar
Rosso fino allo Zambia. Il Kenya è stato il primo paese a sfruttae le
potenzialità costruendo nel 1956 l’impianto Olkaria I e, successivamente,
Olkaria II e Olkaria III. Ora è in fase di progettazione Olkaria IV. La strada
tracciata dai keniani è stata seguita da altri paesi. Etiopia e Zambia hanno un
impianto ciascuno, ma Addis Abeba e Lusaka intendono potenziarli (il governo
etiope ha firmato un’intesa con una società europea per una centrale nella zona
del Lago Langano che dovrebbe entrare in funzione nel 2018). Progetti ambiziosi
anche per Uganda, che intende sfruttare il potenziale di 450 MWh nonostante
recentemente abbia scoperto ricchi giacimenti di petrolio, e Ruanda, che
progetta di costruire centrali per 300 MWh. Il caso più interessante però è
quello di Gibuti. Il piccolo stato ha firmato a gennaio un accordo con la Banca
mondiale per il finanziamento di impianti che sfruttino le risorse geotermiche.
Nel piano sono coinvolte imprese provenienti da Europa (in particolare
dall’Islanda che è all’avanguardia nel settore) e Cina. L’obiettivo è riuscire
a diventare autosufficiente dal punto di vista energetico entro il 2020,
sfruttando unicamente energie rinnovabili.

Il vento che fa girare

Alcuni
paesi africani stanno investendo anche nel vento. In collaborazione con aziende
europee, americane e cinesi vengono realizzati grandi parchi eolici. L’impatto
ambientale non è trascurabile, ma il ritorno economico spesso mette in secondo
piano le ragioni dell’ecologia. In questo settore si sono concentrati in modo
particolare Etiopia, Kenya e Marocco. In Etiopia, l’autunno scorso, il premier
Heile Mariam Desalegn ha inaugurato il parco eolico di Ashegoda che attualmente
è il più grande dell’Africa. In costruzione dal 2008 la centrale vanta 120 MWh
di capacità installata ed è localizzata a 18 chilometri dalla città
settentrionale di Mekelle dove esistono favorevoli condizioni climatiche.

Il
primato però verrà presto scalzato dal parco eolico che il Kenya sta costruendo
sul Lago Turkana. Grazie a un investimento di 200 milioni di euro, Nairobi
impianterà 365 pale che foiranno 850 KWh l’una. L’impianto sorgerà a 9 km
dalla riva del bacino lacustre per tutelare il patrimonio avifaunistico della
regione e, una volta a regime, permetterà al governo keniano di chiudere il 60%
dei suoi inquinanti impianti termoelettrici.

Ha
invece iniziato a produrre la centrale di Tarfaya, al confine tra il Marocco e
il Sahara occidentale, sebbene non siano ancora terminati i lavori. Quando sarà
a pieno regime, il parco eolico conterà su 131 turbine, alte 80 metri ciascuna
che, sfruttando i venti del deserto, foiranno 300 MWh. Poco più a Est di
Tarfaya sorge un altro parco che conta una decina di turbine e da giugno
fornisce 100 MWh di energia.

In
Africa il futuro energetico è già iniziato.

Enrico Casale


Idroelettrica:
rinnovabile ad altissimo impatto ambientale

Nuovi rischi sotto il
cielo

Se i governi africani stanno guardando con grande
interesse alle risorse idriche, eoliche e geotermiche, è il settore
idroelettrico quello su cui si concentrano da anni le maggiori attenzioni. Ma
anche i più grandi pericoli per le popolazioni.

Le prime grandi dighe sono state
costruite negli anni Cinquanta e Sessanta. Sono gli impianti di Akosombo, sul
fiume Volta (Ghana), che dà origine al più vasto lago artificiale al mondo ed è
stato realizzato in più fasi tra il 1940 e il 1965; di Kariba, sullo Zambesi (tra
Zambia e Zimbabwe), costruito da un consorzio di ditte italiane tra il 1955 e
il 1959; di Assuan sul Nilo (in Egitto), iniziato nel 1960 e terminata nel
1970; di Cahora Baixa, sullo Zambesi (Mozambico), costruito dai colonizzatori
portoghesi tra il 1969 e il 1974. Si tratta di enormi strutture che foiscono
tra i 1.200 e i 2.100 MW di potenza, ma che hanno un grande impatto
sull’ambiente e sulle popolazioni locali. Per realizzare la diga di Kariba
vennero sfollate 57mila persone di etnia tonga. Negli anni poi si sono
registrati nella regione numerosi terremoti che alcuni sismologi ritengono
siano stati indotti dalla diga. Anche la diga di Assuan ha creato diversi
problemi: dalla diminuzione delle attività ittiche alla minore fertilità dei
terreni (la diga trattiene il fertile limo), dalla sedimentazione delle acque a
monte della diga all’erosione delle rive a valle, dall’impoverimento della
fauna all’aumento della salinità delle acque del delta.

Nonostante questi problemi, negli anni Duemila (dopo
circa un ventennio di sosta) sono ripartiti gli investimenti nel settore
idroelettrico. In prima linea ci sono Repubblica democratica del Congo ed
Etiopia. Kinshasa sta progettando le dighe Inga III e Grande Inga sul fiume
Congo. Insieme a Inga I e Inga II dovrebbero formare un complesso in grado di
produrre più di 40mila MW. Molti politici, ambientalisti e scienziati si sono
schierati contro l’impianto perché esso, oltre ad avere un forte impatto
ambientale, sarebbe stato concepito per esportare l’energia e non per
utilizzarla in loco. Per i congolesi oltre al danno sull’ecosistema ci sarebbe
la beffa di non poter in alcun modo godere delle proprie risorse.

Anche Addis Abeba sta pianificando numerose dighe per
diventare esportatore di energia. Dopo aver realizzato tre sbarramenti sul
fiume Omo (Gilgel Gibe I, II e III) sta progettando la costruzione di altri due
impianti sempre sul fiume Omo (Gilgel Gibe IV e V). Anche in questo caso sono
state tante le polemiche. Lo stesso governo italiano che aveva deciso di sostenere
l’opera ha poi preferito ritirare gli stanziamenti di 250 milioni di euro. Ma
il pericolo più grande potrebbe arrivare dalla Grande diga del millennio sul
Nilo Azzurro. Oltre alle questioni ambientali sono in gioco le relazioni
inteazionali con Sudan ed Egitto. Il Cairo da decenni, in virtù di un’intesa
siglata nel 1929 e ribadita nel 1959, gode di un controllo assoluto sul bacino
del Nilo. A più riprese i politici egiziani hanno annunciato che non
accetteranno una diminuzione della portata del Nilo. A costo di dichiarare
guerra all’Etiopia.

Enrico Casale


Tags:
eolico, fotovoltaico, energia, energia pulita, idroelettrica, energia, ambiente, geotermica

Enrico Casale




«Cosa vogliono di più ?»

La questione uigura.


Assieme al Tibet, lo
Xinjiang rimane una spina nel fianco di Pechino. Come conferma anche il
misterioso attentato avvenuto in piazza Tiananmen nell’ottobre 2013. Il governo
sta investendo molto in terra uigura. Vuole conquistae gli abitanti
rendendoli partecipi del «sogno cinese» (oggi incentrato su qualità, tecnologia
e istruzione). Ma forse questo sogno presenta un vizio di fondo: è calato dall’alto.
Prendere o lasciare.

Ping’an Jiating, casa – o anche famiglia – sicura, pacifica. Chissà se anche
quella di Usmen Hasan aveva affisso sulla propria porta l’adesivo rosso che i
comitati di quartiere di Urumqi donano ai nuclei familiari che «si comportano
bene».

Pechino, 28 ottobre 2013

Quando il 28 ottobre una Jeep bianca è andata a schiantarsi sotto
il ritratto di Mao Zedong in piazza Tiananmen, il mondo ha improvvisamente
scoperto lo Xinjiang: l’irrequieto «Far West» della Cina.

Due giorni dopo la folle corsa di quattrocento metri, che si era
lasciata dietro cinque morti (tra cui i presunti attentatori) e quaranta
feriti, le autorità di Pechino hanno messo il sigillo ufficiale sulla «pista
uigura», comunicando i nomi dei tre a bordo dell’auto: proprio lui, Usmen
Hasan, con sua moglie Gulkiz Gini e l’anziana madre Kuwanhan Reyim, tutti
inceneriti nel rogo della Jeep che – secondo la polizia della capitale –
avevano riempito di taniche di benzina, coltelli, spranghe di ferro e una bandiera
«con slogan religiosi».

La famiglia apparteneva all’etnia turcofona e musulmana dello
Xinjiang, gli Uiguri. Discendenti da tribù nomadi provenienti dalle terre che
oggi formano la Mongolia, sospinti a Sud-ovest dalla pressione di altri popoli
delle steppe, loro stessi prodotto del melting
pot asiatico, sono divenuti sedentari nel corso dei secoli
insediandosi nel bacino del Tarim, l’enorme area all’estremo occidente del
Celeste Impero che è oggi regione autonoma. Loro la chiamano «Turkestan
orientale», per la Cina è, appunto, lo Xinjiang. Estranei alla cultura han –
cioè dei cinesi maggioritari, per come li conosciamo noi – rivelano da tempo un
malessere che viene spesso spiegato ricorrendo alle categorie dell’integralismo
religioso o del conflitto etnico. Hanno nomi uiguri anche le cinque persone
(tre uomini e due donne) «collegate con l’attacco terroristico» e arrestate
nelle ore successive allo schianto della Jeep.

Funzionari cinesi hanno in seguito esplicitamente accusato l’Etim,
il «Movimento islamico del Turkestan orientale» (un’organizzazione di cui non
si conosce la reale consistenza), di essere l’ispiratore dell’attentato.

Ma già prima che il problema arrivasse nel cuore simbolico della
Cina, diversi «incidenti» (leggi «scontri tra le forze di sicurezza e Uiguri più
o meno militanti»), avevano lasciato decine di morti e feriti sul suolo dello
stesso Xinjiang. E proprio nel 2013.

La memoria torna quindi alla rivolta di Urumqi del 5 luglio 2009:
197 morti e 1.721 feriti secondo fonti ufficiali. Va detto che finora si è
sempre trattato di scontri a bassa componente militare; truculenti proprio
perché più simili a uno scannatornio realizzato con coltelli, mannaie e spranghe,
che ad attacchi con ampio sostegno di armi da fuoco o esplosivi. Tuttavia, secondo
il governo cinese, gli «incidenti» hanno senz’altro matrice separatista, sono
preorganizzati e collegati alla Jihad globale. Pechino non fornisce molte prove a sostegno di tali
affermazioni, ma c’è consenso tra gli osservatori indipendenti nel ritenere che
alcune frange estreme dell’indipendentismo uiguro cornoperino con altri gruppi
combattenti dell’Asia centrale, trovando spesso riparo nelle aree tribali del
Pakistan nord-occidentale.

Quello di piazza Tian’anmen è stato comunque un gesto eclatante, a
metà tra l’autornimmolazione dei tibetani e l’autobomba dei fondamentalisti
islamici. A Pechino, un’amica han – l’etnia maggioritaria in Cina – dice: «Ho
paura a passare per piazza Tian’anmen». Mentre su Weibo, il più importante social
network
cinese, circolano messaggi di questo tenore: «È la prima volta che
capito così vicino a un attacco terroristico». Oppure: «Possono davvero fare
questo in Tian’anmen? Mi sento improvvisamente angosciato, come si fa a
prevenire questi attacchi in futuro? Ispezioni dei veicoli?». È proprio l’effetto panico voluto da eventuali «terroristi».

Lati oscuri

Restano però parecchi punti oscuri nella versione ufficiale che
diversi media occidentali hanno da subito messo in dubbio, a differenza, va
detto per inciso, di quanto fecero in occasione dell’attacco alle torri gemelle
di New York: spesso per noi è «terrorismo» solo ciò che avviene a Ovest degli
Urali. Comunque sia, si tende a sostenere che, qualsiasi cosa sia accaduta in
piazza Tian’anmen, le sue ragioni vadano ricercate nella dura repressione che
Pechino compie da anni sugli Uiguri. E poi – si dice – possibile che una
famigliola si faccia indisturbata le migliaia di chilometri che separano lo
Xinjiang da piazza Tian’anmen a bordo di una Jeep con targa della propria terra
d’origine? C’è puzza di depistaggio o di strategia della tensione «secondo
caratteristiche cinesi» (a che pro? Non si sa).

Altri osservatori hanno invece ritenuto plausibile l’atto
terroristico «fai da te» compiuto da una famiglia votata al martirio, citando «Inspire»,
il magazine online del jihadismo globale, che nel suo secondo numero mette a disposizione
una semplice guida per trasformare un pick-up in un’arma micidiale (pag. 54): «La location ideale è un luogo dove ci sono il
maggior numero di pedoni e il minor numero di veicoli. In realtà, potreste
scegliere i camminamenti pedonali che esistono in alcuni centri città, il che
sarebbe favoloso». Uno stile vezzoso per la descrizione perfetta di quanto
accaduto in piazza Tian’anmen. Almeno apparentemente.

Fatto sta che il mondo ha scoperto lo Xinjiang attraverso il suo
volto peggiore e la domanda che ricorre è: Al-Qaeda è arrivata in Cina? È in
corso un salto di qualità nelle tensioni che percorrono l’estremo occidente
cinese? La sclerotizzazione del discorso porta inevitabilmente al circolo
vizioso terrorismo-repressione, in una regione che vive già sulla propria pelle
una progressiva, soffocante militarizzazione; in paradossale contrasto con la
totale libertà di movimento e le sempre maggiori aperture di cui beneficiano le
grandi città della Cina orientale. L’attentato ha fatto proprio questo: portare
un po’ di Xinjiang a Pechino. Con il clima che laggiù si respira.

E allora bisogna forse provare a raccontare la complessa realtà di
quella terra, dove siamo stati pochi giorni prima che il denso fumo nero di una
Jeep in fiamme oscurasse il volto di Mao Zedong.

L’idea: tanti progetti, poca politica

Sull’autostrada tra Urumqi e Turpan, il «grande sogno
cinese», slogan lanciato del presidente Xi Jinping, sembra dispiegato in tutta
la sua potenza. In un incredibile paesaggio lunare, le gigantesche turbine eoliche
si susseguono in file parallele per
chilometri e chilometri, come un futuristico esercito di terracotta in marcia
verso l’avvenire. Rappresentano la componente ambientale del «sogno»: costruire
una economia sostenibile. Lo Xinjiang deve diventare, nelle intenzioni di
Pechino, un hub energetico, commerciale, tecnologico, la porta
spalancata sulla modea Via della Seta.

A
Turpan, è in costruzione una «Ecocity» nuova di zecca proprio di fianco alla
preesistente città di 250mila abitanti, già antica oasi che costeggiava il
deserto del Taklamakan.

È un
perfetto esempio di ciò che la leadership
cinese intende per chengzhenhua, la
nuova urbanizzazione «sostenibile» che segnerà il futuro del Dragone. Ma è
anche la metafora che utilizzeremo per descrivere la questione uigura. Che è un
problema di uguaglianza nella diversità, come ci ha spiegato Wang Hui,
intellettuale della «nuova sinistra» cinese: «Da un lato è perfettamente
legittimo voler migliorare la situazione economica, ma attualmente c’è una
crisi ecologica che va di pari passo con una crisi culturale, perché lo stile
di vita di quella gente sta cambiando, e così abbiamo i conflitti in Xinjiang e
Tibet». Si tratta dunque di «rispettare la singolarità, la diversità, le
differenze senza rifiutare l’idea di base di uguaglianza», continua il
professore dell’Università dello Xinjiang. Toiamo alla ecocity di
Turpan. I pannelli solari sovrastano centinaia di villette a schiera già
costruite, mentre le strutture dei futuri palazzi governativi sono già ben visibili.
Questa città sostenibile occuperà una superficie di 8,8 chilometri quadrati,
darà alloggio a circa 60mila persone e sarà completata entro il 2020. C’è da
crederci.

«Verrà
alimentata da pompe geotermiche e pannelli solari – ci dice un ingegnere uiguro
coinvolto nel progetto – è previsto il trasporto pubblico esclusivamente
elettrico, mentre gli autoveicoli privati saranno deviati in grandi parcheggi».
Eppure il «sogno» non è per tutti.

C’è,
per esempio, la piccola storia di un giovane ingegnere civile e project
manager, che ci è stata raccontata da fonti che preferiscono mantenere
l’anonimato. Di etnia uigura, appena laureato, qualche anno fa fece domanda per
un buon lavoro in una compagnia di stato a Urumqi, casa sua. Ma fu respinto,
perché, gli disse il responsabile delle risorse umane, non avevano in programma
di assumere uiguri. Il giovane se ne andò quindi a Pechino, dove trovò lavoro
in una delle più grandi società di ingegneria della Cina. Ironia della sorte,
fu successivamente inviato a Urumqi per un grande progetto e, una volta lì,
incontrò lo stesso funzionario che l’aveva respinto diversi anni prima. Durante
una cena formale con il gruppo di Pechino, tra cui il giovane ingegnere, il
funzionario locale chiese: «Perché i giovani di talento dello Xinjiang non
contribuiscono mai allo sviluppo della propria terra?».

È una
storia comune in questa enorme fetta di Cina che è già Asia Centrale oppure si
tratta di casi isolati, semplicemente di ragazzi sfortunati? Raccontando queste
storie a conoscenti han, ci si sente rispondere: «L’esempio di un ufficiale
incapace non fa testo, e tieni presente che la maggior parte dei funzionari,
nello Xinjiang, è non-han. Anzi, il fatto che ci siano Uiguri istruiti e che
trovino lavoro dimostra proprio che le politiche di Pechino sono giuste. Il
governo tutela giustamente le minoranze, proprio perché altrimenti le
schiacceremmo numericamente. Così, per esempio, gli Uiguri possono, a
differenza nostra, avere più figli, sottraendosi al “controllo delle nascite”
(politica in via di riformulazione dal novembre 2013, ndr).
Inoltre hanno la libertà di festeggiare le proprie ricorrenze religiose. Cosa
vogliono di più?».

Saranno
dunque i nuovi grandi progetti energetici, tecnologici, le «grandi opere»
secondo caratteristiche cinesi (che qui sono grandi davvero) e l’apertura
all’Asia Centrale a guidare il popolo dello Xinjiang verso un futuro di
opportunità, verso il sogno cinese? Non è facile rispondere.

Hesmat
(nome fittizio), un altro architetto uiguro che se ne è andato dalla sua terra
ma che un giorno vorrebbe tornarci, la vede così: «C’è il rischio enorme che
questo sia un mianzi gongcheng – un
progetto «della faccia» (di facciata, diremmo noi) – mentre una crescita
sostenibile dello Xinjiang significa recuperare e ristrutturare le vecchie città,
dare opportunità alla popolazione locale. Questo deve venire prima o in
parallelo alla costruzione di nuove grandi opere. Ma non se ne vede l’ombra».

Per
molti Han, invece, gli Uiguri non fanno che lamentarsi e il problema, se mai, è
di educazione. «Le difficoltà sono date dalla disparità tra la modea Urumqi e
la parte sud dello Xinjiang che resta arretrata – ci dice un businessman che
opera tra la Cina e il Canada – ma mano a mano sarà risolta grazie allo
sviluppo, ai gasdotti e agli oleodotti, che porteranno soldi anche lì.
Tuttavia, per ora il processo è ancora lento. Per esempio, i testi scolastici
in uiguro arrivano solo fino alle scuole elementari. Così i separatisti si
fanno strada con i loro sermoni».

Quello
della lingua è un bel problema. Da una parte, dato che tutta l’economia della
madrepatria ruota attorno agli affari in lingua cinese, le autorità sostengono
che le minoranze devono prima e soprattutto imparare il mandarino, se vogliono
trovare il proprio posto nel mercato del lavoro. D’altra parte, molti Uiguri
trovano umiliante vedere la propria lingua relegata al ruolo di dialetto
locale, con il rischio che scompaia nel giro di qualche generazione.

Ed ecco un’altra storia che ci ha raccontato Hesmat. «Cinque anni
fa, una giovane donna uigura mia amica ha concluso un dottorato di ricerca in
fisica teorica presso una prestigiosa università giapponese. Tuttavia, le è
stato in seguito negato un lavoro all’Università dello Xinjiang perché avrebbe
dovuto passare l’Hsk (Hanyu Shuiping Kaoshi, l’esame di competenza linguistica certificata in mandarino),
anche se in realtà lei è ufficialmente cittadina cinese e parla perfettamente
la lingua. Delusa e mortificata, se ne è andata a Guangzhou, dove ha iniziato a
vendere vestiti a buon mercato. Ora è milionaria, ma non restituisce nulla del
proprio talento alla sua terra».

Il modello è questo

Il problema è così sintetizzabile: la Cina funziona da sempre per
progetti che piovono dall’alto, sulla base di un modello di sviluppo che appare
vincente. Oggi, stiamo assistendo alla transizione dal vecchio modello Deng –
basato sulle manifatture votate all’export – a quello che l’attuale leadership vuole imporre: più qualità, più tecnologia, più istruzione. Il
sorgere di decine di nuove città «tecnologiche» in tutta la Cina corrisponde a
questo grande sforzo. Lì, dovranno inurbarsi i contadini che sono rimasti
ancora indietro sulla scala del progresso, per evitare che migrino
disordinatamente come è successo finora, intasando le megalopoli già sature. Ma
è comunque un modello dall’alto in basso: può adattarsi alla diversità dei
luoghi e delle genti, in una Cina sempre più complessa e percorsa da culture
così distanti tra loro?

Secondo il businessman han «è sempre meglio provarci che lasciare tutto così com’è. Il
governo cerca di educare questa gente – aggiunge – ma i vecchi non ne vogliono
sapere; anche i funzionari uiguri ci provano, ma non è facile, quelli non
vogliono stare al passo con il mondo».

E poi c’è l’inevitabile stoccata a chi eserciti qualsivoglia
critica: «Voi occidentali non prendete mai in considerazione le enormi
difficoltà che si incontrano nel gestire l’immensa popolazione della Cina,
soprattutto dopo l’abietta occupazione coloniale, i massacri giapponesi, la
guerra civile, la guerra di Corea e la follia delle guardie rosse». E così via,
nella riproposizione circolare della storia patria.

Eppure non è solo un problema di vecchi che non ne vogliono
sapere. Ma di scelte fatte oggi, che possono però ipotecare il futuro.

Prendiamo la scarsità d’acqua. In questa terra desertica, l’uomo
ha risolto il problema da tempo immemore con quello stupefacente miracolo di
antica tecnologia che risponde al nome di karez: canali sotterranei che portano l’acqua dai lontani monti
Tianshan sfruttando la pendenza naturale (la depressione di Turpan è il terzo
luogo più basso della terra). Ma questo delicato ecosistema saprà sopportare
l’impatto di una nuova città da 60mila abitanti?

Secondo l’ingegnere uiguro, la città di nuova costruzione «è
progettata per funzionare in modo relativamente indipendente dalla città
esistente e le principali fonti di approvvigionamento idrico saranno diverse».
Tuttavia, «l’acqua potrebbe essere occasionalmente presa dalla riserva della
Valle dell’uva», cioè il bacino idrico che rifornisce la grande area ricoperta
di vigneti, che rende Turfan una delle capitali cinesi della frutta.

La nuova ecocity risolverà i problemi o ne creerà di nuovi? Che futuro avrà la
Valle dell’uva, elemento imprescindibile non solo per l’economia, ma anche per
la civiltà di questa zona? Una voce si rincorre incontrollata: «Il governo
prevede di trasformare la Valle in un enorme scenic spot per turisti – ci dice un uiguro la
cui famiglia ha una fattoria proprio lì – gli attuali residenti saranno
incoraggiati a lasciare le proprie case per andare nella nuova città». Leggende metropolitane? Forse, ma oltre a far
crescere la diffidenza nei confronti di Pechino, la voce crea già effetti molto
materiali: «Un giorno, vorrei tornare in questa fattoria e continuare il lavoro
di mio padre e di mio nonno – ci dice Tömür (nome fittizio), che fa l’operatore
sociale a Urumqi – ma proprio il mio vecchio non vuole lasciarmela in eredità.
Vuole vendere tutto».

Intoo a noi, i filari delle vigne circondati da alberi di
datteri, l’uva passa esposta a essiccare e il recinto con le tipiche pecore
dello Xinjiang, dotate di quella buffa riserva di grasso sotto la coda che
rende gli spiedini così gustosi.

Non possiamo verificare a oggi se questa grande opera sarà anche
ingegneria sociale oltre che civile, ma c’è da chiedersi se un eventuale
svuotamento della Valle dell’uva per trasferire la popolazione locale nella
nuova ecocity, darà luogo a un melting pot felice o sarà invece una nuova fonte di conflitto.

A ogni modo, è percepibile il rischio che l’ecosistema Xinjiang
possa essere ulteriormente sconvolto da enormi progetti imposti dall’alto per
fare di questa terra un trampolino di lancio per l’Asia centrale.

Sia inteso: lo Xinjiang ha bisogno di progresso. Degli 1,5 milioni
di bambini di strada che percorrono le città cinesi, rubando, prostituendosi,
vivendo alla giornata, si calcola che almeno 100mila siano originari della
grande regione autonoma: sono quasi tutti Uiguri e vengono da famiglie povere.
La loro condizione è resa peggiore dall’essere vittime designate di due
culture: quella musulmana, per cui rubare è peccato; quella han, che li
disprezza rinnovando il mito dell’uiguro-delinquente. Così, quando vengono
raccolti e rispediti a casa nell’ambito dei programmi di recupero del governo,
finiscono spesso per tornare sulla strada in quanto rifiutati dalle loro stesse
famiglie. Emarginati per sempre. C’è bisogno dunque di più ricchezza condivisa
e di sviluppo. Ma qual è, in definitiva, il prezzo del progresso? In un
contesto del genere, l’Islam radicale diventa una strategia di sopravvivenza
molto efficiente e flessibile. Altro che un virus d’importazione. Perché offre
sia una coice morale a chi lotta quotidianamente per una vita migliore e
nutre speranze di successo, sia una zona di comfort a chi è lasciato indietro.

L’architetto Hesmat, che un giorno vorrebbe tornare qui e aprire
un proprio studio, riconosce che «il fondamentalismo si sta allargando».
Qualche tempo fa era un giovane secolarizzato, non immune da qualche serata
alcolica durante i propri anni da studente. Oggi rispetta i dettami del Corano
senza strafare, studia e lavora: «Per sentirmi pulito», spiega. Lui riesce
ancora a mantenere il proprio equilibrio, tenendosi aggrappato al «sogno cinese».

Gabriele Battaglia

Il presidente Xi Jinping


La nuova via della seta 

A settembre, il presidente cinese Xi Jinping ha
completato un tour di dieci giorni in Asia centrale, con tappe in Turkmenistan,
Kazakistan, Uzbekistan e Kirghizistan, al G-20 di San Pietroburgo e al summit
della Shanghai Cooperation Organization di Bishkek.

In Turkmenistan, Xi ha inaugurato
un giacimento di gas naturale; in Kazakistan ha promesso 30 miliardi di dollari
in progetti energetici e infrastrutturali. In Uzbekistan e Kirghizistan, ha
fatto promesse simili. In tutti i paesi visitati, il presidente cinese ha
cercato di dare solidità ai rapporti bilaterali: investimenti e sostegno
finanziario che arrivano dal grande portafoglio del Dragone, in cambio di una
sempre maggiore cooperazione sul piano diplomatico, della sicurezza regionale e
delle politiche energetiche.

A novembre 2013 la Cina ha concluso
il terzo Plenum del Partito comunista, decidendo di spingere sull’acceleratore
delle riforme economiche e sociali. Bisogna trasferire ricchezza alle famiglie,
creare il nuovo ceto medio e continuare quindi sulla strada dello «sviluppo
pacifico». Per farlo, sono necessari sia buoni rapporti con i paesi confinanti,
sia una rete efficiente e sicura di rifoimenti energetici.

Così, i flussi transfrontalieri si
intensificano in tutta l’area: ci sono le strade (il corridoio Kashgar-Gwadar,
dalla Cina al Pakistan ma anche un reticolo viario in costruzione più a Nord,
nelle repubbliche centro-asiatiche); c’è la ferrovia (il 17 luglio è stata
inaugurata la linea diretta da Zhengzhou, capitale della provincia dell’Henan,
ad Amburgo); ci sono soprattutto oleodotti e gasdotti, come quello dell’Asia
Centrale, che collega il giacimento turkmeno di Galkynysh allo Xinjiang.

Per dare un’idea dell’importanza
strategica di questa nuova «Via della Seta» multiforme, basti pensare che un
eventuale prolungamento dal porto pakistano di Gwadar allo Xinjiang del
gasdotto Iran-Pakistan – un progetto sempre più probabile – consentirebbe alla
Cina di utilizzare lo scalo sul Mare Arabico per trasportare via terra il
petrolio che arriva dallo stretto di Hormuz, risparmiando così tempo rispetto
alla rotta via mare e guadagnandoci anche in sicurezza (non ci sarebbe più da
pattugliare l’Oceano Indiano).

Ecco quindi l’importanza di quella
che ad Astana, capitale kazaka, Xi Jinping ha definito «cintura economica della
Via della Seta» che, lo sappiamo bene, anche in antichità era più un reticolo
di strade che una sola. Proprio come oggi. E che, proprio come oggi, convergeva
inevitabilmente sullo Xinjiang.

Gabriele
Battaglia


Pechino e la religione


L’Islam degli Uiguri

La popolazione uigura dello
Xinjiang (circa 9 milioni di persone) è in maggioranza musulmana sunnita. Sulle
montagne del Pamir esistono comunità kazake sciite, mentre l’immigrazione han
ha riportato nel territorio il buddhismo, presente anche in un’antichità di cui
resta traccia nelle numerose grotte affrescate.

La
Costituzione cinese garantisce la libertà di religione e, benché laica, non è
necessariamente in contraddizione con i precetti che garantiscono una condotta
islamica (maqasid al-Shariah). Un buon musulmano deve obbedire al
sovrano, anche se questi non professa la stessa fede, e gli sono preclusi atti
di ribellione: tutti precetti che si sposano perfettamente con le politiche e i
codici legali di Pechino. Esplicita è la condanna dell’hiraba, che molti
studiosi associano al terrorismo.

Più
contrastato è il tema del controllo familiare. Nell’applicazione della «legge
del figlio unico» (modificata il 15 novembre 2013, ndr), la Cina si è
dimostrata piuttosto rispettosa dei diritti delle minoranze e le coppie uigure
possono avere due figli se residenti in città e tre se vivono invece nelle aree
rurali. In teoria non è ancora abbastanza per la tradizione delle grandi
famiglie patriarcali locali, ma è un ottimo compromesso. È invece un problema
irrisolto quello dei matrimoni con i cinesi han, legali per lo stato, ma
che per gli Uiguri significano quasi sicuramente interruzione della linea
familiare e religiosa: la cultura della Cina «maggioritaria» è più globalizzata
e accattivante per i giovani figli di coppie miste.

Controverso è
anche il tema dell’educazione all’Islam, visto che la Costituzione cinese
prevede che a nessun cittadino della Repubblica popolare possa essere imposto
un credo religioso prima che diventi maggiorenne, mentre non esistono invece
limitazioni d’età per promuovere l’ateismo.

Suscitano
tensioni le misure di controllo via via più rigide sulle pratiche religiose,
dovute soprattutto al timore di infiltrazione fondamentalista. Tra queste, il
divieto di finanziare direttamente istituzioni religiose, come le moschee.

L’articolo 36
della Costituzione prevede che nessun individuo possa svolgere pratiche «che
nuociono alla salute dei cittadini», scontrandosi così, spesso, con il digiuno
durante il ramadan. Una clausola dello stesso articolo vieta inoltre le
pratiche «che disturbano l’ordine pubblico», lasciando molta discrezionalità ai
funzionari chiamati ad applicarla: può anche significare il divieto di
indossare il velo islamico in pubblico.

Come
dappertutto in Cina, gli Imam sono dipendenti pubblici tenuti a formarsi presso
istituzioni religiose di stato. Per lo Xinjiang, si tratta dell’Istituto per lo
Studio dei testi islamici di Urumqi, dove è obbligatorio seguire anche corsi di
«marxismo e religione» e sul «pensiero di Deng Xiaoping», cosa che spinge
diversi religiosi a formarsi e a operare clandestinamente, svolgendo spesso
anche il ruolo di qadis, giudice islamico: cosa assolutamente
vietata dalle leggi cinesi.

Gabriele
Battaglia

Gabriele Battaglia




Mandela: Tra i grandi della terra

Nelson Mandela: lotta armata e riconciliazione.


Nelson Mandela, ci ha lasciati il 5 dicembre 2013, all’età
di 95 anni. La sua lunga malattia aveva tenuto il mondo col fiato sospeso per
mesi. Dagli studi da avvocato alla rivolta armata, fino alla creazione di una nazione unita, un ritratto
inedito secondo padre Pearson, incaricato del collegamento tra i Vescovi
cattolici e il Parlamento sudafricano.

Nelson Mandela è
probabilmente stato una delle più importanti icone politiche del nostro secolo.
Egli è stato per il Sudafrica quello che Winston Churcill era stato per la Gran
Bretagna durante la seconda guerra mondiale, o il Mahatma Gandhi per le masse
di indiani del subcontinente o Martin Luther King per i discendenti degli
schiavi africani nel profondo Sud degli Stati Uniti d’America. Sono tutti
leader, questi, che hanno mostrato coraggio, e sono degli importanti
riferimenti ancora oggi perché hanno indicato una direzione in alcuni dei più
bui e brutali periodi della storia dei loro paesi. Leader la cui leadership si è estesa ben oltre il loro contesto immediato e il loro tempo per
diventare parte nobile dell’umanità.

La
statura di Mandela è dimostrata dal fatto che gente di ogni schieramento
ideologico in Sudafrica è d’accordo nel sostenere che egli ha rappresentato ciò
che di più nobile c’è nelle aspirazioni del paese. Un altro segno di quanto il
mondo sia stato legato a quest’uomo è l’enorme quantità di libri e articoli
scritti su di lui, e i luoghi a lui intitolati in ogni paese.

Mandela
è stato visto come simbolo di riconciliazione, perdono, coraggio, saggezza e
giustizia. Valori veri di cui si ha bisogno nella maggior parte del mondo. Il
tratto che probabilmente, sopra a tutti gli altri, ha reso la sua vita così
affascinante è stato la sua capacità di incarnare con potenza quello che la
gente comune desiderava in risposta al deficit morale presente in molti aspetti
della politica e del mondo.

Il
suo sorriso sempre pronto e la sua cortesia vecchio stile hanno fatto di lui un
custode naturale di questi valori. In un mondo ossessionato dall’ego e dalla
magnificazione personale, il suo sacrificio di 27 anni passati in prigione, il
suo rifiuto di vedersi come l’eroe generale della rivoluzione sudafricana, e la
sua coscienza di essere stato uno dei tanti che hanno giocato un ruolo nel
lungo processo della libertà politica, sono sicuramente un raro esempio di
umiltà nell’ambiente politico. Questo è ancora più vero in un’epoca segnata
dalla corsa spietata all’auto promozione e all’affermazione radicale di sé. In
questo modo egli è stato, e continua a essere, visto come un profeta nello
stile di quelli biblici.

Fine stratega

Una delle abilità raramente riconosciute di
Mandela è il suo essere stato un potente stratega: lungo tutto il percorso
della sua vita, ha preso decisioni strategiche basate su quello che sentiva
potesse meglio servire il popolo oppresso del Sudafrica. Ma capì, e sviluppò in
diverse occasioni, la convinzione che la sua azione dovesse essere anche
orientata verso chi beneficiava dell’oppressione degli altri. La liberazione
era per lui indivisibile!

Da giovane prese la decisione cosciente di entrare nella
professione di giurista, sperando, in un paese nel quale sistematicamente si
sovvertivano i valori di giustizia e correttezza, di poter usare le sue
competenze per «portare avanti la lotta anche nella fortezza del nemico». Una
visione e un impegno a favore non solo della ricerca delle migliori vie per un
risarcimento storico, ma anche di un rinnovamento della disciplina giuridica in
un’epoca in cui i successi accademici per i neri erano molto difficili da
ottenere.

Anni dopo, esauriti tutti i mezzi pacifici per l’acquisto della
libertà per gli oppressi, ispirandosi ad altri movimenti di liberazione dal
colonialismo nel mondo, con un gruppo di colleghi formò l’ala militare
dell’African National Congress (Anc), allo scopo di usare atti di
violenza, simbolici e selezionati, contro installazioni dello stato. Mandela,
nel suo discorso dal banco del processo per tradimento, ricordò alla corte che
ogni mezzo di protesta pacifica era stato tentato e lo stato era diventato
sempre più violento nella sua repressione. Da un punto di vista strategico, una
più dinamica forma di resistenza era diventata necessaria. Fece allora il
famoso commento: «Il momento viene nella vita di ogni nazione in cui rimangono
solo due scelte: sottomettersi o combattere. Quel momento è ora arrivato in
Sudafrica. Noi non dovremmo sottometterci e non abbiamo scelta se non
rispondere con ogni mezzo in nostro potere in difesa della nostra gente, del
nostro futuro, della nostra libertà».

Riconciliazione

Più tardi, quando il movimento di liberazione andò al governo del
paese, Mandela prese l’impegno strategico e di principio di cercare la via
della riconciliazione. Già dalla prigione, prima di essere rilasciato, in
alcune sue note portate illegalmente fuori dalla cella, trasmetteva la chiamata
a prepararsi per un tempo di riconciliazione attraverso il perdono. La
citazione seguente è il tipico mantra politico che lui ha inculcato nella gente
attraverso tutto il paese: «Noi dobbiamo agire insieme come un popolo unito,
per la riconciliazione nazionale, la costruzione nazionale e la nascita di un
nuovo mondo. Che sia giustizia per tutti. Che sia pace per tutti».

Sostenendo questo Mandela creò i presupposti per prevenire ciò che
avrebbe potuto facilmente diventare un bagno di sangue. È stata la sua
insistenza tranquilla sulla persuasione, piuttosto che sulla coercizione, che
ha dato al Sudafrica le fondamenta non razziste sulle quali costruire il paese.
Il sogno non razzista è ancora lontano da essere realizzato ma almeno ha un
terreno condiviso, un consenso di base, una narrativa comune che indica la
direzione futura del paese.

Legata a questo c’è sempre stata in lui la qualità accattivante di
non mostrarsi come uno che aveva tutte le risposte alle domande e alle
posizioni ideologiche, ma piuttosto come qualcuno che era abituato, nel
linguaggio del poeta Rilke, a «vivere con le domande». In una società dominata
da una continua ricerca di risposte istantanee e da soluzioni spesso imposte da
chi ha la voce più forte, Mandela, tranquillo e riflessivo, ha cercato risposte
che potessero essere condivise dal maggior numero di attori, offrendo una forma
di leadership unica al mondo.

Mandela capì che dopo secoli d’ingiustizia razziale e terribile
oppressione, lasciare spazio al desiderio di vendetta ovvio in molte zone del
paese sarebbe stato disastroso, e così decise di lanciare una chiamata per la
riconciliazione e la costruzione della nazione.

La sua chiara comprensione fu che una lotta senza fine agli errori
del passato avrebbe portato meno risultati che un impegno a realizzare
giustizia in tutte le sfere: politica, economica e culturale. Ma capì pure che,
mentre bisognava evitare che il futuro fosse influenzato solo dal passato, si
sarebbe dovuta coltivare la memoria di quanto successo. E andò oltre,
istituendo la Commissione Verità e Riconciliazione per assicurare alla nazione
che non si sarebbe più tornati a ripetere i gravi errori del passato.

L’impegno continua

Una volta ritirato dalla vita politica, Mandela ha continuato a
spendere se stesso nel lavoro di riconciliazione, specialmente nel tentativo di
costruire una vita migliore per i bambini attraverso la sua Fondazione, la Nelson Mandela Children’s fund. Capì che dopo
aver vinto la libertà politica, occorreva dare contenuto a questa vittoria.
Egli vide inoltre che essa andava orientata a coloro che restavano i più
vulnerabili nella società, ovvero i bambini del paese. Anche nel periodo in cui
fu presidente, il compito di costruire scuole, in particolare in aree rurali,
fu una priorità nazionale. Di Nelson Mandela si può dire che sia stato un buon
interprete dei segni dei tempi.

Riconosciuto come «grande stratega», ciò che lo ha portato a
essere così popolare è stato il suo grande cuore, il suo amore appassionato per
la gente e un profondo senso dell’etica del servizio.

Mentre è stato restio a esprimere punti di vista religiosi e
preferenze confessionali in pubblico, le qualità personali appena descritte e
il suo impegno incrollabile per le chiese hanno creato un linguaggio condiviso
con la comunità religiosa. È stato certamente un linguaggio basato sui valori.

Ci sono stati anche meravigliosi e toccanti momenti in cui la sua
affinità con la comunità della fede è stata pubblicamente evidente.

Se incontravi Nelson Mandela ed eri vestito con l’abito da
sacerdote, egli inevitabilmente parlava chiaro e forte del suo rispetto per la
Chiesa, di quanto questa gli aveva dato nei suoi primi anni di formazione e
come, se non fosse stato per essa, lui e molti della sua generazione non
sarebbero arrivati dove sono arrivati. È stato generoso nel suo atto di
riconoscimento del ruolo della Chiesa nella lotta contro l’apartheid.

Una delle sue caratteristiche è stata quella di non dimenticare
mai una gentilezza personale ricevuta, e di ricordare la generosità degli
altri. Abbiamo visto questo quando visitò l’Irlanda. Nel mezzo di una visita di
stato sovraccarica chiese informazioni dell’ex cappellano di Robben Island (la
prigione di Mandela, ndr), padre Brendan Long, che era in ospedale, e parlò con lui al
telefono. Ricordò la vita in carcere e ringraziò padre Long per i suoi anni di
servizio, la sua gentilezza e generosità. Anni che marcarono indelebilmente lo
spirito del presidente che continuava a essere riconoscente a un umile
cappellano di prigione.

Sembra quasi una fiaba: un prigioniero uscito dopo 27 anni di
incarcerazione era diventato presidente.

E se questa storia contiene l’eco di un sogno, se ha gli elementi
di una fiaba, certo è importante ricordare che c’è chi ha lavorato per
realizzare questo sogno e lottato per rendere realtà una fiaba. Questa è
un’altra lezione di Nelson Mandela, quella di non abbandonare i propri sogni,
perché essi possono essere raggiunti e diventare, in un modo misterioso, la
storia, i mattoni di un nuovo mondo.

Peter-John Pearson*

*
Direttore del Southe African Catholic Bishops Conference Parliamentary Liason
Office, l’ufficio di collegamento tra Conferenza
Episcopale e Parlamento.

Peter_John Pearson




Ritorno alla schiavitù

A quattro anni dal terremoto è chiaro il disegno Usa per Haiti.


I soldi della ricostruzione gestiti per un piano internazionale
di sfruttamento dell’isola. Un presidente autoritario funzionale a questo
progetto e un esercito straniero (Onu) utile per attuarlo. Un ex dittatore sanguinario
ripulito dal passato e riabilitato. Ma ci staranno i discendenti di Toussaint
Louverture e Jean-Jaques Dessalines? O si sta preparando un’altra «rivolta di
schiavi»?

Sono passati quattro anni dal
terribile terremoto che uccise centinaia di migliaia di haitiani e commosse il
mondo. Un tempo nel quale si sarebbe potuta ricostruire la nazione. E invece?
Invece la popolazione è un’altra volta sull’orlo del baratro. E il paese non
riesce a smentire le sue connotazioni di «stato fallito» o «stato suicida»,
degli economisti la prima, degli esperti di cooperazione allo sviluppo la
seconda.

Elezioni made in Usa

Nelle controverse elezioni di fine 2010 – inizio 2011 il cantante
di kompa, legato alla destra militarista, vince fortunosamente e diventa
presidente della Repubblica. Martelly, arrivato terzo al primo tuo, sarebbe
escluso dal ballottaggio, viene invece ripescato e rimesso in competizione grazie
all’intervento del segretario di Stato Usa, Hillary Clinton (in un viaggio
lampo ad Haiti del gennaio 2011). Un nome,
Clinton, che ha segnato le vicende del paese dal 1994 ai giorni nostri e
continuerà a influenzarle in futuro (vedi box).

«Ad Haiti assistiamo a una deriva
totalitaria, quasi fascista, del presidente Martelly, – denuncia Didier
Dominique, portavoce del sindacato operaio più importante di Haiti, Batay
Ouvriye – Fa quello che vuole. Dispone dei fondi che lo stato riceve, senza
consultare il parlamento. Sua moglie e suo figlio gestiscono molti soldi e
realizzano progetti a beneficio di persone amiche, grandi borghesi e grandi
proprietari terrieri che approfittano di questa situazione». Ma non basta. Il
bloccaggio politico-istituzionale è quasi totale. «Le elezioni amministrative
locali e di un terzo del senato continuano a non essere neppure programmate».
Il ritardo è ormai di due e tre anni rispettivamente. Così, scaduti i sindaci
ne sono stati nominati di nuovi da Martelly, mentre senatori e collettività
territoriali non sono state elette. «Posti che normalmente sono elettivi
diventano a nomina! Una pratica illegale».

«Esiste un conflitto tra potere legislativo
e potere esecutivo» incalza Antonal Mortimé, leader della Piattaforma delle
organizzazioni haitiane per i diritti umani (Pohdh), il maggiore cornordinamento
di associazioni di difesa dei diritti umani. «L’attuale presidente d’Haiti, a
nostro avviso, non vuole rispettare i principi della separazione dei tre poteri
dello stato garantiti dalla Costituzione del 1987, nei suoi articoli 59 e 60.
Ognuno dei tre poteri deve essere autonomo. A livello della giustizia sono
stati modificati alcuni giudici e giudici d’istruzione che devono essere
inamovibili secondo la Costituzione. Sono state, inoltre, nominate persone che
non avevano le qualifiche per esserlo. Nomine irregolari, fuori dal rispetto
delle norme. Sono stati cambiati procuratori o capi tribunale di Port-au-Prince
nove volte in due anni».

Succede pure che i presidenti di camera e
senato non presenzino con il presidente della Repubblica durante le
commemorazioni importanti, come il 18 novembre scorso, anniversario della
battaglia di Vertières che sancì la definitiva sconfitta delle truppe francesi
(napoleoniche) e aprì le porte per l’indipendenza. «Martelly blocca le leggi
votate dal parlamento non ratificandole, è chiaro che le massime autorità del
legislativo non si sentano di avallare l’operato di questo presidente» conclude
Mortimé.

Rispunta Duvalier

Ma Martelly non ci fa caso. Anzi. Le sue frequentazioni sono di
altro tipo. Jean-Claude Duvalier, il sanguinario dittatore (1971-86) rientrato
ad Haiti nel gennaio 2011 dopo 25 anni di esilio dorato e sotto processo per
crimini contro l’umanità, compare spesso a fianco del presidente nelle
cerimonie ufficiali. «Il ritorno alla dittatura duvalierista è chiaro anche
nelle apparenze» continua Dominique: «Il 12 gennaio 2012 all’inaugurazione
dell’Università a Limonade, nel Nord, a fianco di Martelly, erano presenti Bill
Clinton e Jean-Claude Duvalier». «Sì, è una frequentazione sistematica –
conferma Antonal Mortimé – ma non basta. Martelly ha restituito a Duvalier i
beni acquisiti illegalmente che gli erano stati confiscati dallo stato dopo la
sua fuga da Haiti (7 febbraio 1986, ndr). Inoltre ha ripristinato per Jean-Claude tutti i privilegi che
spettano agli ex presidenti. E, peggio ancora, il figlio Nicolas Duvalier è
consigliere politico di Michel Martelly».

Accusato di arresti arbitrari, torture, assassini politici, il «dossier
in giustizia» di Duvalier è bloccato alla Corte d’appello, e l’ex dittatore
vive tranquillo, nella più totale impunità, mentre vittime e famigliari riuniti
in un collettivo, portano avanti la lotta per vederlo condannato, appoggiate da
Amnesty Inteational, Human rights watch e la Federazione
internazionale per i diritti umani (Fidh).

Retromarcia sui diritti

Oltre al blocco politico e istituzionale l’altro dato preoccupante
è quello sulle violazioni dei diritti umani1. «Assistiamo ad arresti totalmente
illegali: un deputato, così come alcuni avvocati. Mentre un giudice che doveva
giudicare una procedura, recentemente ha attaccato il presidente in giustizia
ed è stato trovato morto» continua Didier Dominique.

Racconta Mortimé: «Nei due anni e otto mesi di presidenza Martelly
registriamo una regressione in termini di protezione e promozione delle libertà
individuali, e questo si manifesta in diversi modi, come minacce e aggressioni
a media indipendenti e giornalisti. La guardia di sicurezza ravvicinata del
presidente ha aggredito dei giornalisti nel Sud Ovest, e anche a Mirbalais nel
Plateau Central, a Port-au-Prince». Recente è il pestaggio di un giornalista
della radio Kiskeya e di una collega di radio Express2. I colpevoli
restano impuniti. Il presidente ha dichiarato più volte che i media fanno delle
cose inammissibili per fare spettacolo. «C’è inoltre una repressione
sistematica e sproporzionata contro le manifestazioni di oppositori politici e
contro membri dei movimenti sociali haitiani». Manifestanti che rivendicano
acqua potabile, igiene, educazione e altri diritti di base, oppure la
trasparenza nella gestione dei fondi pubblici. «Ad esempio il 18 novembre ci
sono stati 50 arresti nel Nord del paese, 5 arresti in capitale e diversi feriti».

Una forza d’occupazione

Continua Mortimé: «Ho visto soldati della Minustah (caschi blu
dell’Onu, ndr), a Port-au-Prince che appoggiavano la polizia nella repressione
di diverse migliaia di persone scese in strada. Questo succede anche nelle città
di provincia, Les Cayes, Jacmel, Cap Haitien, Petit Goave. Ma talvolta è la
Minustah stessa a reprimere i manifestanti».

Presenti nel paese dal 2004 i caschi blu dell’Onu hanno una
presenza massiccia e ben armata, e sono sotto comando brasiliano. I soldati
della Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione di Haiti (Minustah)
si sono più volte macchiati di violazioni di diritti umani: «Violazione del
diritto all’integrità fisica, violazione del diritto di manifestare e
protestare. L’ultima violazione è stata lo stupro di un minore nella regione di
Léogane, da parte di soldati nepalesi», ricorda il segretario esecutivo della
Pohdh.

«A livello di diritti umani la presenza
della Minustah è una violazione del diritto all’autodeterminazione e alla sovranità
del popolo. La classe politica (di opposizione, ndr) e i media la chiamano forza di occupazione straniera e a livello di
masse popolari la gente cambia il nome in “Turistah”, ovvero turisti in armi».

Didier Dominique spiega: «Un’altra causa di
tensione sono i militari della Minustah. Forza sovra dimensionata, con
elicotteri e armi pesanti, superiore a quanto sia mai stato l’esercito haitiano
o attualmente sia la polizia. E agiscono in modo sproporzionato contro i
manifestanti, con una repressione estrema. Martelly ha chiaramente detto che le
forze dell’Onu sono il suo esercito, la sua protezione militare».

Il mandato della Minustah è stato rinnovato – come ogni anno – il
15 ottobre scorso per ulteriori 12 mesi. Ma il presidente uruguaiano, José
Mujica, sotto la pressione del suo parlamento, è intenzionato a ritirare le
truppe dal contingente se «il presidente Martelly non dimostrerà di operare per
la democrazia in Haiti». E il 31 ottobre scorso gli ha dato un ultimatum di 90
giorni. Il Brasile e l’Argentina andrebbero nella stessa direzione.

Esercito o gruppi armati?

Haiti è uno dei rari paesi al mondo senza esercito, abolito dal
presidente Aristide nel 1994 dopo il suo rientro dall’esilio. Ma Martelly fin
dai primi mesi del suo mandato, ha presentato un progetto per creae uno
nuovo. Oggi ufficialmente il progetto è abbandonato, ma ufficiosamente sembra
di no. Osserva Antonal Mortimé: «A più riprese sono spuntati gruppi armati che
si dicono ex militari, anche se vi partecipano pure dei giovani. Parlano alla
radio che si mostrano in allenamento. Nel Sud c’è un gruppo che si chiama
“repolice”, per opposizione alla polizia, sono un gruppo armato nel quale ci
sono degli ex militari. La gente del Sud, in particolare a Les Cayes, ha
denunciato il supporto del governo a questi gruppi armati paramilitari. Inoltre
il governo ha mandato in Ecuador 41 giovani per formazioni in diverse
discipline, che sono stati di fatto formati in caserma. Ora sono rientrati ad
Haiti ma non integrano la polizia. Ci chiediamo se sono gli ufficiali di un
nuovo esercito.

Senza contare che diversi posti strategici a livello politico e
nell’amministrazione pubblica sono occupati da ex ufficiali dell’esercito: il
ministero della Difesa, quello
dell’Inteo e il servizio Immigrazione. L’importante ministero della Giustizia
è diretto da un ex militare che viola sistematicamente la legge sulla polizia
nazionale, sullo statuto dei magistrati, sull’indipendenza della magistratura e
del Consiglio superiore della magistratura».

Haiti e gli «amici» Clinton

Ma perché ad Haiti la ricostruzione non ha funzionato, e chi tira
le fila?

«Martelly è l’esecutore di un progetto imperialista, che dopo aver
distrutto l’economia haitiana, punta a fare del paese un serbatornio di mano
d’opera a bassissimo costo» si scalda Didier Dominique.

«Il piano Usa è quello di creare ad Haiti delle “zone franche”
industriali per il tessile da un lato e delle aree di latifondo per l’agro
industria, per produrre soia, bioetanolo, banane dall’altro. Secondo la loro
ripartizione internazionale, il lavoro – mano d’opera a buon mercato – deve
foirlo Haiti. Ma questo è un piano estremamente esplosivo, perché sfrutta le
popolazioni, utilizza il lavoratore haitiano pagandolo 2-2,5 dollari al giorno.
Cifra con cui non può vivere. Si tratta di una situazione estrema a livello
economico».

Il sindacalista parla del «Piano Clinton», ovvero il piano che
Bill Clinton ha in serbo da anni per il piccolo paese caraibico: creare 40 zone
franche per l’industria manifatturiera tessile in tutto il paese. A parte il
vecchio Parc Industriel, nei pressi
dell’aeroporto (vedi foto), altre cinque sono in costruzione nella capitale. E
ancora in una zona Nord di Port-au-Prince, dove sono stati evacuati i
terremotati e si sono formati sterminati agglomerati di casupole e baracche
senza servizi, come il camp Corail. La zona franca sarà costruita proprio nei
pressi della «manodopera». Altre saranno realizzate lungo la frontiera – come
quella di Ouanaminthe dove la forza lavoro arriva da Haiti e i prodotti finiti
partono in Repubblica Dominicana – e nelle città costiere. Ogni zona franca è
composta da 30-40 fabbriche tessili, con 30.000 operai ognuna.

E tutto con i soldi della ricostruzione: il parco industriale di
Caracol, è stato l’unico grande progetto della Cirh (Commissione ad interim
per la ricostruzione di Haiti), istituzione che ha veicolato i fondi dei
governi donatori, presieduta dallo stesso Bill Clinton, che ritroviamo a fianco
della moglie Hillary – segretario di Stato Usa – all’inaugurazione dell’opera3. Notare che Caracol è nel Nord
quindi non in zona terremotata. «Clinton utilizza i fondi della ricostruzione
per portare avanti il suo piano». Continua Dominique.

«Tendenza schiavitù»

«Il piano è chiaro e si basa sul salario minimo che gli operai del
tessile dovrebbero avere. Secondo il codice del lavoro, articolo 137, il
salario minimo deve essere aggiornato ogni anno secondo l’inflazione, che
talvolta raggiunge il 100% annuo. Ma ad Haiti, sono passati cinque anni e il
salario è rimasto lo stesso.

Nel 2009 abbiamo fatto una grande lotta per avere 200 gourd al giorno (circa 5 dollari Usa, ndr), ma abbiamo ottenuto solo 125 gourd. Notare che il ministero degli
Affari sociali, che regola questi aspetti ha detto che ne occorrerebbero 300
per far vivere un operaio. Ecco l’aspetto criminale di questo governo».  Poi c’è stato il terremoto e la questione è
passata in secondo piano, per le autorità.

«Oggi c’è una nuova lotta sul salario minimo. Il governo ha
nominato una Commissione superiore del salario in risposta a una serie di
mobilitazioni che abbiamo fatto dal 2009 a oggi.

È una commissione tripartita, dove sono rappresentati il governo,
il padronato e i lavoratori attraverso i sindacati. Ma patronato e governo sono
d’accordo».

Batay Ouvriye organizza comunicati stampa, dibattiti,
mobilitazioni nelle varie zone sensibili, come a Ouanaminthe (frontiera Nord),
a Caracol, a Port-au-Prince.

Il sindacato chiede un salario minimo di 500 gourd (12,5
dollari) con delle misure di compensazione da parte del governo: trasporto,
cure di base (un dispensario presente in ogni parco industriale), una mensa con
un contributo per il cibo e la pensione per i lavoratori. Attualmente tutto
questo non esiste. Chiede anche rispetto per chi è iscritto alle organizzazioni
sindacali.

Il patronato invece punta a fermarsi alla metà e senza alcuna
misura di compensazione. 

Le principali marche che passano gli ordini per fabbricare
manufatti tessili ad Haiti sono statunitensi: Gildan, Levi’s, Hanes, Gap,
Wallmart. In passato vi era anche la Disney che in seguito a una campagna
internazionale di boicottaggio lasciò il paese.

«Il prezzo del lavoro dell’operaio, chiamato il paniere
famigliare, e trattato come una qualsiasi merce nel sistema capitalista, è
quello che deve garantire che possa vivere lui e la sua famiglia. Per il
patronato il salario deve permettere di essere competitivi a livello
internazionale, per questo va messo al ribasso. Io la chiamo “tendenza schiavitù”.
Ovvero, se avessero degli schiavi sarebbero estremamente competitivi. Questo
non è accettabile: il salario deve permettere la vita dell’operaio. Il livello
paniere famigliare, che è comunque dello sfruttamento, almeno permetterebbe
all’operaio di sopravvivere.

Sul mercato internazionale Haiti ha un grande vantaggio per gli
industriali: ha il costo della mano d’opera più basso delle Americhe e uno
delle tre minori al mondo, insieme a Sri Lanka e Bangladesh. La questione del
salario è mondiale e ad Haiti è un caso estremo».

Terra da esportazione

Poi c’è il piano per lo sviluppo dell’agro industria, che è ancora
in preparazione e i cui contorni non sono chiari. Esistono diversi progetti che
puntano alla produzione industriale di prodotti da esportazione, tra cui il
biocarburante. Per questo motivo parlamentari e gente vicina al governo sta
acquistando terre nelle zone sensibili, per rivenderle poi ai progetti di agro
industria oppure entrare a fae parte. I piccoli contadini sono espropriati
e  il piano è di creare operai agricoli
sottopagati.

Il terzo punto del governo per lo «sviluppo» di Haiti è il turismo
di alta gamma, e per questo hanno già costruito due hotel di lusso a
Petion-Ville (come l’Hotel Oasis) e un altro è in costruzione a Port-au-Prince.

«Nel suo insieme si tratta di un piano di dominazione e
sfruttamento economico sotto vari aspetti: salario minimo molto basso,
accaparramento di terre, proletarizzazione dei piccoli contadini, spostamento
di popolazione, speculazione fondiaria.

Ma c’è una ripercussione anche sulla politica: è un processo
imperialista che non ammette dibattiti alla camera, elezioni dei sindaci, delle
comunità territoriali, perché questo creerebbe un momentum democratico che questo progetto non
può supportare. Nella realtà questo piano necessita da un lato di
un’occupazione militare da parte di un esercito molto forte, che è la Minustha,
e dall’altro di un blocco del processo democratico con la formazione di
istituzioni, che era in costruzione da alcuni anni. In altri termini tutti gli
organi legislativi, giudiziari, il Consiglio superiore della magistratura,
devono essere controllate dall’esecutivo. Ed è quello che succede.

Ecco che il livello economico e quello politico sono estremamente
legati. E a essi si intreccia di conseguenza la situazione sociale, ormai
esplosiva. Ecco il perché di tutte queste manifestazioni a carattere politico:
vogliono cacciare Martelly, perché con lui non si potrà andare avanti nel
processo democratico e istituzionale. Mentre sale il costo della vita, i
trasporti sono sempre più cari e gli operai generalmente non mangiano a metà
giornata, altrimenti non portano niente a casa».

Il detonatore sociale

Se si legge nella chiave dei diritti umani: «In un paese in
estrema povertà, non possiamo parlare del godimento dei diritti socio economici
e culturali, come educazione, salute, alloggio, alimentazione, sicurezza
sociale. L’estrema povertà essa stessa è una violazione flagrante dei diritti
umani, non è garantito il diritto a un livello di vita sufficiente». Conferma
Antonal Mortimé. «Banca Mondiale e Fondo monetario internazionale dicono che ad
Haiti il 70% della popolazione vive in povertà estrema, sotto la soglia di un
dollaro al giorno. Io penso che in realtà siano di più. Le persone che lavorano
sfruttate nelle fabbriche sono meno del 30% della popolazione. Non possiamo
parlare di diritto al lavoro.

La possibilità dell’escalation di violenza è alle porte. Esistono
già conflitti armati che fanno morti. Come nella città di Petit Goave, o a Cité
Soleil, grande bidonville di Port-au-Prince. Zone che il governo non
controlla totalmente».

Il fenomeno delle manifestazioni represse con vittime, morti,
arresti arbitrari, è in aumento. Sia come numero di manifestazioni che di
partecipanti: «C’è il rischio di sollevamenti popolari, ma anche di ribellioni
armate. Quello che stiamo vivendo è simile a quanto successe negli anni
2002-2003».

Marco Bello
 
Note
 

1 – Etat de lieux sur la situation des droits humains en Haiti
2011-2013
, Pohdh, www.pohdh.org.
2 – Alterpresse, 12 novembre 2013.
3 – La perla perduta, MC gen-feb 2013.
4 – Haiti, entre colonisation dette et domination, S.
Perchellet, Papda 2010.
5 – Refonder Haiti?, P. Buteau, R. Saint-Éloi, L. Trouillot, Mémoire
d’Encrier, 2010.

Thony
Belizaire, il fotogiornalista
haitiano dell’AFP che firma le due foto pubblicate a pag. 24 è morto il 21
luglio scorso a causa di un tumore alle vie orali a 54 anni. Rendiamo omaggio a
«Tobel», conosciuto e incontrato tante volte sulle difficili strade di
Port-au-Prince. Sempre con una macchina fotografica in mano.

 
I Clinton e Haiti

William Jefferson Clinton diventa
presidente degli Stati Uniti il 20 gennaio 1993 (rimarrà in carica fino al
2001). In quell’epoca il presidente haitiano Jean-Bertrand Aristide è in esilio
a Washington ed è vicino agli ambienti democratici. Nell’ottobre 1994 Clinton
lancia l’operazione «Restore democracy» e invade Haiti con 20.000 marines: riporta Aristide al potere. Il
presidente haitiano è però costretto ad accettare tutti i diktat dei Piani di
aggiustamento strutturale. Clinton impone ad Aristide il famigerato programma
del Fondo monetario internazionale (Fmi) con il quale i dazi doganali di riso e
mais sono minimizzati. Quelli del riso passano dal 35% al 3%. Il riso americano,
sovvenzionato, costa meno di quello haitiano e invade il mercato interno. È la
fine dell’economia agricola haitiana e la fame per centinaia di migliaia di
produttori che si riversano in città. Haiti
importa il 75% del cibo che consuma.

Nel 2009 Bill Clinton viene nominato inviato speciale
dell’Onu per Haiti. Il 10 marzo 2010, in commissione esteri del Senato Usa, fa mea
culpa
: «Può essere stato positivo per i miei agricoltori in Arkansas, ma
non ha funzionato, è stato un errore. Io, nessun altro, vivo ogni giorno con la
colpa della perdita di capacità di produrre riso in Haiti per sfamare quella
gente, a causa di quello che ho fatto»5.

Dopo il terremoto del 2010, insieme a George Bush,
costituisce il Fondo Clinton Bush per Haiti. Dal giugno 2010 è alla
testa della Commissione ad interim per la ricostruzione di Haiti (Cirh)
che gestisce, senza alcun controllo, i 10 miliardi di dollari promessi per la
ricostruzione. Hillary e Bill Clinton inaugurano la zona franca di Caracol
nell’ottobre 2012.

Marco Bello

Marco Bello




L’Europa delle associazioni

Scambio tra volontari ospedalieri europei.


Quattro volontarie ospedaliere portoghesi passano tre
settimane negli ospedali piemontesi. Sono insieme ai volontari locali, alcuni
dei quali andranno in visita in Portogallo. È un programma europeo di scambio tra
volontari dell’Unione. Per conoscersi, capire, imparare e riportare a casa
qualche buona pratica. Cosa hanno scoperto nel nostro paese? Le abbiamo incontrate.

Branca Maria, Eugénia, Graça e
Manuela: le incontriamo per una cena al Caffè Basaglia, circolo Arci di Torino
nato per dare lavoro a persone con problemi psichici. Ma loro, le nostre amiche
arrivate da Lisbona, nel proprio paese si occupano di un altro tipo di disagio:
prestano infatti servizio di volontariato accanto ai malati oncologici per
conto della Lpcc, la Liga portuguesa contra o cancro.

«L’occasione che ci ha portate in Italia è stato uno
scambio tra il Nucleo regionale du Sul – la sezione della Lpcc che
include Lisbona, Madeira e le Azzorre – e l’Avo, Associazione Volontari
Ospedalieri del Piemonte, per conoscerci e confrontare le rispettive
esperienze. Noi siamo state qui tre settimane. Poi, a marzo, quattro volontari
italiani ricambieranno la visita», spiega Graça Almeida, 63 anni di cui 18
trascorsi come volontaria accanto ai malati terminali.

Un’Europa dalla base

«Questo gemellaggio tra associazioni europee è stato possibile
grazie a un progetto dell’Unione Europea, il progetto Grundtvig Life (=
esperienza sul campo)» spiega Leonardo Patuano, presidente dell’Avo Piemonte, «destinato
agli over 50 e basato sull’idea che il volontariato rappresenti una forma
importante di apprendimento “non formale”, da sostenere attraverso il dialogo
tra soggetti simili operanti in realtà e con prassi diverse». Un’iniziativa
interessante che dimostra come l’unità dell’Europa non passi solo per il
tramite degli interessi economici comuni, come è avvenuto di recente nei casi
Telecom (con la Spagna) e Alitalia (con la Francia), ma possa costruirsi
attraverso i legami sociali e la cittadinanza attiva.

Ma perché dal Portogallo hanno mandato tutte donne? «È stato un
caso, inizialmente doveva esserci anche un collega ma all’ultimo ha avuto un
problema familiare e ha dovuto rinunciare, così sono subentrata io» racconta
Eugénia Cunha Ferreira, 58 anni, di cui 7 al servizio dei malati oncologici in
ambito pediatrico.

«In effetti però l’80 per cento dei membri della Lpcc sono donne,
come ho visto anche nel caso dell’Avo; probabilmente il motivo è culturale, le
donne sono più “abituate” ad accudire e a prendersi cura degli altri».

Un impegno per la nazione

Nelle tre settimane trascorse in Italia le
ospiti portoghesi hanno incontrato le diverse realtà ospedaliere – ma anche
case di riposo, centri diui, hospices ecc. – dove
operano i volontari dell’Avo, spaziando su tutto il territorio piemontese (da
Torino a Borgomanero, da Cuneo ad Arona) e affiancando i volontari in servizio
nei vari reparti: oncologia, pediatria, ginecologia, geriatria…

«L’esperienza dei volontari qui e nel nostro paese non è del tutto
equiparabile, perché in Italia si interviene in ospedali “generalisti” mentre
noi ci troviamo in ospedali specializzati nel settore oncologico» nota Graça. «Tuttavia
– sottolinea Branca Maria Baptista, nella Lpcc da 18 anni – il servizio svolto è
sostanzialmente lo stesso: si tratta di fare compagnia alle persone malate e
alle loro famiglie facendole sentire accolte, ascoltate, attraverso l’offerta
di un sorriso, di una carezza, di una parola gentile…».

La Lpcc svolge anche servizi particolari, come il dono dei fiori
agli ammalati o il momento del caffelatte, «cioè portiamo in reparto bevande
calde e biscotti per i pazienti» spiega Eugénia Cunha Ferriera. «Questo è un
modo per rompere il ghiaccio, per creare un primo rapporto con i degenti o, nel
caso dei bambini, con i genitori, offrendo loro un momento di sollievo e
permettendogli di allontanarsi per un po’ sapendo che accanto ai loro piccoli
rimaniamo noi».

A differenza di quanto avviene in Italia, però, la Liga
portuguesa contra o cancro
deve provvedere anche ad altri bisogni dei
malati, oltre a quelli relazionali e di supporto immediato.

«Da noi il servizio sanitario pubblico non fornisce tutto, molti
strumenti e prestazioni sono a pagamento, e per tanti cittadini è impossibile
sostenerli di tasca propria», spiega Manuela Moreira, 63 anni e 14 di
volontariato. «Perciò noi interveniamo per i più bisognosi, su segnalazione dei
servizi sociali, foendo ad esempio le protesi per le donne operate al seno o
per i pazienti laringectomizzati e stomizzati, i farmaci e i macchinari per gli
ospedali. Finanziamo anche la formazione e la ricerca erogando borse di studio
destinate a medici e infermieri, e acquistiamo libri e riviste per le
biblioteche degli ospedali».

A caccia di fondi

Per fare questo la Lpcc mette in campo
diverse strategie di raccolta fondi. Ogni anno, ad esempio, dal 31 ottobre al 3
novembre vengono dedicati quattro giorni alla raccolta in piazza, che vede
coinvolto tutto il Portogallo. «Le persone rispondono con generosità al nostro
appello, perché la Liga è molto conosciuta e apprezzata», dice Manuela. Tant’è
vero che, pur contando su un numero di volontari relativamente contenuto (400 a
Lisbona, e circa 3.700 in tutto il Paese), la Liga riesce a mettere ogni anno
più di 500.000 euro a disposizione degli ammalati. «La maggior parte degli
introiti proviene proprio dalla raccolta in strada», osserva Maria Graça
Almeida, «poi abbiamo i finanziamenti di aziende e associazioni, i lasciti
testamentari e l’equivalente di quello che è il 5×1000 in Italia. Un’altra
piccola entrata è rappresentata dagli eventi sul territorio (spettacoli,
vendita di artigianato, ecc.) e dalle quote sociali che versiamo noi volontari:
ci viene richiesto un contributo minimo di 15 euro l’anno, ma c’è chi mette
molto di più».

A riprova dell’alta considerazione di cui godono i volontari in
Portogallo, ci sono le modalità in cui vengono «ufficialmente» inseriti nella
Liga: dopo un corso base e un tirocinio che dura dai 9 ai 12 mesi (ogni tre
mesi in un ospedale oncologico diverso) si svolge la cerimonia di consegna dei
camici con cui i neo volontari presteranno servizio. Ebbene, spiega Branca
Maria, «questa cerimonia assume i toni di una vera e propria festa nazionale, è
un momento di gioia e solennità, cui partecipa ogni anno anche la moglie del
presidente della repubblica».

«In Italia il volontariato non è altrettanto valorizzato, e i
nostri volontari – pur desiderando mettersi al servizio dei malati e
dell’associazione – non hanno la percezione di assumere un impegno nei
confronti dell’intera nazione», osserva Leonardo Patuano. «Tuttavia anche da
noi, pur svolgendosi in tono minore, il passaggio dal tirocinio al servizio
effettivo è sentito come un momento di grande emozione e di soddisfazione, per
il neo volontario ma anche per il tutor che l’ha seguito e per tutta l’équipe».

Per una Ue dei volontari

«Il tour delle volontarie portoghesi è stato organizzato
per dar loro la possibilità di sperimentare un ampio ventaglio di situazioni, a
contatto con realtà di diverse dimensioni» (le Avo del Piemonte vanno da quella
di Torino, con circa 1.000 volontari, a quella di Torre Pellice con una
cinquantina di presenze, nda) spiega Patuano; «e abbiamo voluto presentare anche altre realtà
d’impegno sociale oltre alle nostre: per questo la cena al Caffè Basaglia, o il
pranzo alla Cascina Roccafranca in occasione di un meeting di associazioni Lazio-Piemonte.
Nella Giornata nazionale dell’Avo abbiamo anche “sconfinato” fino a Roma, dove
le volontarie hanno avuto la possibilità, e direi la gioia, di assistere
all’Angelus di Papa Francesco». Un fitto calendario d’impegni, che ha però
lasciato spazio anche a momenti liberi, dedicati alle visite turistiche e al «lavoro»:
«Ogni giorno abbiamo redatto una sorta di diario dove annotavamo le varie
esperienze, gli incontri e le realtà osservate; al ritorno a Lisbona avremo la
responsabilità di trasmettere le conoscenze acquisite anche agli altri colleghi
della Lpcc», spiega Eugénia. E aggiunge: «Questi scambi servono per crescere e
arricchirsi, sono un primo passo per arrivare a un obiettivo a più lungo
termine: costruire una Unione europea dei volontari, in cui tutti possano
migliorare nel proprio servizio e operare in maniera più uniforme».

Una valigia piena di…

Ma in attesa di raggiungere questo obiettivo ambizioso, cosa
stanno mettendo in valigia le volontarie portoghesi? «Certamente quello che ci
porteremo a casa è il senso di calore, per la grande accoglienza e ospitalità
di voi italiani», dice Branca Maria. «Abbiamo trovato molta disponibilità,
alcuni volontari di Torino, incluso Leonardo, ci hanno accompagnate in ogni
spostamento facendoci da guide nel conoscere le realtà di sofferenza e gli
interventi per alleviare il disagio, che è fatto di malattia ma anche di
solitudine. E sono stati preziosi ciceroni, conducendoci alla scoperta delle
bellezze artistiche e naturali del vostro paese».

«Per noi è stato volontariato anche questo, un compito agevolato
dal fatto che le colleghe portoghesi parlavano benissimo la nostra lingua»,
dice Castiliano Boscolo, 60 anni, una delle guide «ufficiali». «Nel loro paese
hanno seguito un corso di italiano di 30 ore, come previsto dal progetto (lo
stesso faranno i volontari italiani che andranno a Lisbona, nda), e devo dire che l’hanno imparato
molto bene. Tant’è che gli ammalati avvicinati in queste settimane hanno
ricambiato le loro attenzioni con grande simpatia e affetto. E naturalmente si
sono sentiti anche un po’ onorati dal fatto di ricevere queste visite…
inteazionali!».

«Mi auguro che la nostra esperienza sia solo l’inizio di un
cammino, per crescere insieme, volontari italiani e portoghesi, e imparare a
stare vicini al disagio in maniera sempre più efficace», dice Branca Maria. «La
nostra speranza è che, in un futuro non troppo lontano, questa collaborazione
possa allargarsi anche ad altri paesi europei».

 
Stefania Garini
Intervista a Leonardo Patuano, presidente Avo Piemonte


Noi, volontari europei

Uno scambio tra chi pratica volontariato per conoscersi e
avviare rapporti duraturi nel tempo. Capire le differenze di servizio nei
nostri paesi, imparare. Perché «il volontariato richiede professionalità e
competenza».

Quali sono gli obiettivi dello scambio tra volontariato
italiano e portoghese?

«L’idea di partenza è quella di conoscersi meglio, per
scambiarsi a vicenda le “buone pratiche” e avviare rapporti di collaborazione
che durino nel tempo. Le colleghe portoghesi ad esempio sono rimaste molto
colpite dalla nostra capacità di operare “in rete” con altre associazioni
presenti sul territorio: nell’ospedale pediatrico di Torino ad esempio l’Avo
collabora con altre sei realtà, tutte impegnate, con competenze diverse ma
complementari, nell’assistenza al bambino malato e alla sua famiglia; in varie
Avo piemontesi si interviene poi accanto ai malati psichiatrici in sinergia con
associazioni di familiari e utenti. Si tratta di un’attitudine a non chiuderci
nel nostro orticello ma a cercare la collaborazione con altri per garantire un
servizio che risponda a 360° alle esigenze del malato. Ecco, questo modello
culturale, questo passaggio dalla “mia associazione” al “noi volontari” è stato
un aspetto apprezzato dalle colleghe portoghesi. E in fondo, è lo stesso
atteggiamento che ci ha spinti a guardare fuori dai confini nazionali. Da parte
nostra, siamo rimasti colpiti dalla concezione portoghese che considera il
volontariato un impegno da assumersi nei riguardi dell’intera nazione».

Come avete selezionato i volontari destinati allo
scambio?

«Intanto c’era un limite d’età perché il progetto
dell’Ue era rivolto ai volontari senior (over 50), per valorizzae
l’esperienza e per renderli più consapevoli della dimensione europea in cui si inserisce
il loro servizio. La selezione non è stata semplice perché le Avo del Piemonte
raggruppano circa 3.000 volontari, di cui 2.500 al di sopra dei 50 anni; perciò
sono andato in “missione” nelle diverse zone per presentare il progetto e fare
proselitismo tra i volontari. Alla fine è uscita una rosa di 10 candidati, e la
selezione si è svolta in base a precisi requisiti: la provenienza geografica,
in modo che fossero rappresentate le diverse realtà del territorio piemontese,
la capacità di restituzione dell’esperienza ai colleghi rimasti a casa, il
ruolo ricoperto all’interno dell’associazione, e ovviamente, come titolo
preferenziale, la conoscenza della lingua portoghese o dell’inglese».

Quali sono le aspettative rispetto a questa esperienza?

«Prima di tutto c’è una valenza formativa, i volontari
europei possono apprendere gli uni dagli altri sviluppando la propria capacità
d’innovazione. Ma soprattutto mi auguro che esperienze come questa servano per
darci una spinta in più nelle cose che già facciamo, spronandoci a farle sempre
meglio, rafforzando la nostra consapevolezza e le nostre motivazioni. Perché il
volontariato non è fatto solo di altruismo e buoni sentimenti, ma richiede
professionalità e competenza. Dobbiamo formarci e aggioarci di continuo, per
stare accanto alle persone più vulnerabili senza fare involontariamente danni,
ma offrendo loro un aiuto reale».

Stefania Garini

I numeri
La Liga Portuguesa contro il cancro
1941 l’anno di nascita
3.700 i volontari in servizio sul territorio nazionale
29 campagne di prevenzione,
26 convegni e 11
pubblicazioni per promuovere e sensibilizzare sulla salute
244.867 mammografie realizzate nel 2012 (in 25 unità mobili
e 3 fisse)
4.500 accompagnamenti
annui ai consulti psico-oncologici
36.000 alunni di scuole primarie e secondarie incontrati in
260 iniziative di (in)formazione
524.000 euro spesi nell’anno per acquisto di farmaci,
protesi, trasporti, alimenti per i malati.
www.ligacontracancro.pt
 
L’AVO Piemonte

2002 l’anno di nascita del cornordinamento tra tutte le Avo
piemontesi
3.000 i volontari in servizio sul territorio regionale
350.000 le ore annue di presenza gratuita accanto ai malati
e alle loro famiglie
17 le sedi principali e 17 le sezioni distaccate
36 i Comuni piemontesi dove l’Avo è presente
65 le strutture sanitarie dove si svolge il servizio

Stefania Garini




La piramide dell’ingiustizia

In povertà e in ricchezza / 1

I diritti umani appaiono sempre più come delle mere costruzioni
teoriche, lontane dalla realtà.Nel mondo odierno, a Nord come a Sud, si assiste a un
dominio delle libertà economiche che finiscono per prevalere su tutto e tutti.
Le conseguenze si vedono e si toccano con mano: un aumento progressivo delle diseguaglianze.
Non è un’affermazione politica o ideologica. È una constatazione di fatto.
Certificata da dati ufficiali (statistiche e indici), ma soprattutto dall’evidenza
quotidiana.

La prossima volta che – in un
ipermercato o in una boutique – staremo per acquistare un capo d’abbigliamento,
sarebbe importante ricordare questo numero: 1.1331.

Il 24
aprile 2013, a Savar, periferia di Dacca, capitale del Bangladesh, si è
sgretolato un palazzo di 8 piani conosciuto con il nome di Rana Plaza. Sono
morte (almeno) 1.133 persone e altre 2.515 sono rimaste ferite. L’80 per cento
erano donne2.
Nella costruzione venivano ospitate varie fabbriche d’abbigliamento, tutte
foitrici – in appalto o subappalto – di grandi marchi occidentali, compresa
l’italiana Benetton e la spagnola Zara (Inditex). In pochi anni il Bangladesh è
divenuto il secondo esportatore di capi d’abbigliamento al mondo dopo la Cina.

Made in Bangladesh

La tragedia del Rana Plaza non è un’eccezione. Al contrario: è la
normalità (come del resto in altri paesi, dal Pakistan alla Cambogia). Pochi
mesi prima, il 24 novembre 2012, ad Ashulia, altro sobborgo della capitale
bengalese, era bruciato l’edificio della Tazreen Fashions, altra fabbrica
d’abbigliamento che lavorava per marchi occidentali. Alla Tazreen erano morte,
asfissiate o bruciate, 112 persone (quasi tutte donne). Lì si confezionavano,
tra gli altri, capi d’abbigliamento della Faded
Glory, un marchio della Wal-Mart, la multinazionale
statunitense della famiglia Walton, seconda al mondo per grandezza, sempre al
vertice nella classifica delle multinazionali con la peggiore reputazione. Il
suo motto è «Save Money. Live better», «Risparmiare denaro. Vivere meglio»3: un risparmio e una vita migliore
ottenuti a scapito o sulla pelle di altre persone.

L’incendio alla Tazreen ne ricorda da vicino un altro, avvenuto
oltre 100 anni prima a New York, sempre in una fabbrica tessile e sempre avendo
come vittime giovani donne sottopagate. Quel giorno – era il 25 marzo 1911 – a New York morirono in 146. Le porte della Tringle Shirtwaist Company erano state
chiuse a chiave, ma i proprietari furono assolti da ogni responsabilità4. Come oggi lo sono o lo saranno
quelli delle fabbriche bengalesi5.

Una nota sull’etica (lo diciamo con amara ironia) delle
multinazionali dell’abbigliamento. L’11 e 12 settembre 2013, a Ginevra, in un
incontro organizzato per creare un fondo di risarcimento per le vittime degli
incidenti si sono presentati soltanto 9 marchi inteazionali su 286. Al 24 ottobre 2013 soltanto la
Primark (gruppo angloirlandese) aveva pagato qualcosa alle vittime del Rana
Plaza7. Intanto, a 10 mesi dalla tragedia, i 1.137 sopravvissuti della
Tazreen ancora attendono una compensazione per la sofferenza, le spese mediche,
la perdita del lavoro.

In Bangladesh su 5 milioni di lavoratori del tessile l’80% è
costituito da donne. Stando alla legge, l’orario di lavoro dovrebbe essere al
massimo di 10 ore giornaliere, ma il più delle volte si arriva a 14-16 ore, 7
giorni su 7. Le donne non potrebbero lavorare dopo le ore 20.00, ma arrivano in
realtà fino alle 22.00 o alle 23.00. Non hanno scelta: o accettano quelle
condizioni o perdono il lavoro. Nelle fabbriche del Bangladesh si riproduce la
struttura patriarcale che è diffusa a ogni livello della società bengalese8. E questo avviene nonostante il
primo ministro del paese asiatico sia una donna, Sheikh Hasina, in carica dal
2009 (ma che già goveò tra il 1996 e il 2001).

Fino al 1 dicembre 2013 il salario minimo (vigente dal novembre
2010) era di 3.000 taka ovvero 38 dollari al mese, uno dei più bassi del mondo9. Si consideri che in Cina esso è di
138, in Cambogia di 75, in Indonesia di 71, in Vietnam di 67, in India di 65. I
dati sono del Wall Street Joual, una delle bibbie del capitalismo mondiale10.

Per avere un termine di raffronto, abbiamo
fatto un piccolo esperimento (senza pretese di scientificità, ma abbastanza
indicativo). In un ipermercato di Torino abbiamo comprato una felpa made in
Bangladesh. Il capo d’abbigliamento era in offerta a 14,90 euro ovvero la metà
del salario mensile di un’operaia tessile di quel paese. Identicamente dai
francesi di Carrefour i vestiti marca Tex – maglie e tute made in Bangladesh –
erano in vendita tra i 10 e i 16 euro. Di solito, davanti a dati di questo
tipo, il commento più comune è: «Ma lì la vita costa meno». È stato però
calcolato che soltanto per coprire il suo fabbisogno alimentare un’operaia
tessile avrebbe bisogno di 2.350 taka al
mese, che salgono a 11.000 se la donna ha una famiglia11.

Questo è lavoro? La domanda è retorica, perché questo – certamente
– non è lavoro. È schiavismo legalizzato, che sarebbe rimasto nascosto ai più
se non ci fossero state le tragedie.
Dal Bangladesh, uno dei paesi più poveri del mondo12, passiamo agli Stati Uniti, uno dei più ricchi, certamente il più potente.

Made in Usa

A New York, lo scorso 5 novembre, si è chiusa l’esperienza
del sindaco Michael Bloomberg, il miliardario eletto nelle fila dei
repubblicani. È stato sostituito da Bill De Blasio, democratico di origini
italiane, che ha stravinto le elezioni forte dello slogan «Nessuno deve essere
lasciato indietro». Un’affermazione impegnativa. I 12 anni di Bloomberg (3
mandati, iniziati nel gennaio 2002) – descritti come esaltanti e ricchi di
successi – hanno lasciato un’eredità mai adeguatamente evidenziata: quella dei
senzacasa (homeless). A giugno 2013 è stato toccato il record di sempre con
50.900 persone – includendo 12.100 famiglie con 21.300 bambini -, che hanno
trascorso le notti nei dormitori pubblici della metropoli nordamericana13.
Peraltro, il numero, già altissimo, non include le migliaia di persone che non si
sono rivolte ai ricoveri cittadini (unsheltered homeless people),
scegliendo di dormire nella metropolitana o in altri spazi pubblici (giardini,
androni di palazzi, eccetera), soprattutto nel distretto finanziario di
Manhattan.

Negli
Stati Uniti il fenomeno dei senzacasa è l’aspetto più immediatamente visibile
della povertà, che evidenzia dati impressionanti, soprattutto per la prima
potenza mondiale. Nel 2012 il tasso ufficiale di povertà è stato del 15,0 per
cento, pari a 46,5 milioni di persone14. Molto
significativa è la composizione etnica dei poveri: i neri costituiscono il 27,2
per cento, gli ispanici il 25,6, gli asiatici l’11,7 e i bianchi non ispanici
il 9,7 per cento. E quella per età: con il 21,8 per cento di bambini (sotto i
18 anni) e il 9,1 per cento di persone con più di 65 anni. Le donne in povertà
sono almeno 25 milioni, pari al 55% del totale della popolazione povera.

Gli Stati Uniti, a torto o a ragione considerati
la «patria della libertà», non hanno mai codificato un diritto a un’abitazione,
alla salute o all’educazione. Però, hanno solennemente proclamato – Thomas
Jefferson, dichiarazione d’indipendenza del 4 luglio 1776 – il diritto alla «ricerca
della felicità» (the
pursuit of happiness
).

Invidia o avidità?

Queste
situazioni di mancanza di diritti – siano essi il diritto a un lavoro dignitoso
o il diritto a una casa – sono determinate da responsabilità singole, da colpe
individuali oppure da cause più generali e complesse?

T.
Harv Eker, miliardario canadese divenuto famoso scrivendo saggi su come si
diventa ricchi, ha scritto: «Gli individui poveri spesso guardano al successo
altrui con avversione, gelosia e invidia oppure tagliano corto con un commento secco: “Quegli stupidi coi soldi hanno
molta fortuna”. (…) È impressionante vedere il risentimento e addirittura i
sentimenti di vera e propria rabbia che molti poveri provano per i ricchi, come
se credessero che i ricchi siano la causa della loro povertà»15.

Ivan Boesky, famoso finanziere (raider) statunitense degli
anni Ottanta, ha invece descritto la filosofia comportamentale dei ricchi. Nel
maggio 1986, in una conferenza presso l’Università della Califoia, a Berkley,
disse: «L’avidità fa bene. Penso che sia salutare»16. Né
l’avidità né – men che meno – l’invidia possono tuttavia spiegare la
situazione.

La causa di questa compressione dei diritti, a Nord come
a Sud del mondo, è da imputare alla globalizzazione neoliberista, che è stata
imposta e che continua a essere imposta come l’unica strada percorribile per le
«magnifiche sorti e progressive» del mondo. La globalizzazione – definibile
come un’integrazione sempre più stretta tra le economie del pianeta – si fonda
su alcuni pilastri: la libera circolazione dei capitali (produttivi, ma
soprattutto speculativi), il commercio libero (da regole, limiti, controlli,
protezioni e garanzie sociali) e la riduzione del ruolo dello Stato.

Questa impostazione ha prodotto un allontanamento degli
estremi: una ristrettissima classe ricca sempre più ricca e una affollatissima
classe povera sempre più povera.

Negli ultimi 25 anni, dominati dal pensiero unico della
globalizzazione neoliberista, la piramide della stratificazione sociale (che è
sempre esistita) si è trasformata nella piramide delle disuguaglianze. O dell’ingiustizia,
se si vuole attribuirle un significato più politico.

Questo è avvenuto e sta avvenendo al Sud (che già partiva
da condizioni di svantaggio) come al Nord.

«La globalizzazione sta contribuendo in misura
significativa a far crescere la disuguaglianza» ha scritto Joseph Stiglitz17, premio
Nobel per l’economia 2001.

Ricchi (alla faccia della crisi)

Se non si vede o non si vuole vedere la realtà,
allora si può fare riferimento a statistiche ufficiali. Ebbene, tutti i dati –
indipendentemente dalla fonte di provenienza (come vedremo) – mostrano con
evidenza quanto affermato: il modello neoliberista ha portato alla
globalizzazione dei profitti ma certamente non dei diritti.

La crisi, iniziata (ufficialmente)
nell’agosto del 2007, ci scorre quotidianamente davanti agli occhi con i numeri
dei disoccupati e storie di ordinaria disperazione. Tuttavia, il mondo
dell’economia neoliberista è pieno di sorprese. Come dimostra il 2013 Credit
Suisse Global Wealth Report.
L’annuale rapporto della banca svizzera racconta – con dovizia di dati e
grafici – che la ricchezza globale ha raggiunto i 241 trilioni18 di dollari, record di ogni tempo. Rispetto all’ultimo anno c’è stato un
aumento del 4,9% (e del 68% rispetto al 2003). Gli analisti ci dicono che il 9%
della popolazione mondiale possiede l’83% della ricchezza globale. O ancora che
32 milioni di persone – pari allo 0,7% della popolazione adulta del pianeta –
possiede il 41% della ricchezza totale. La situazione è ben riassunta nella global wealth pyramid, la piramide della ricchezza globale.

Il rapporto di Credit Suisse dà i numeri e
spiega alcune dinamiche. Non si sbilancia in giudizi etico-morali e men che
meno contesta il sistema. Diversamente da quanto fa Zygmunt Bauman: la
ricchezza di pochi – dice il famoso sociologo – non avvantaggia tutti, come
leggenda vorrebbe. «In quasi tutto il mondo la disuguaglianza sta aumentando
rapidamente, e ciò significa che i ricchi, e soprattutto i molto ricchi,
diventano più ricchi, mentre i poveri, e soprattutto i molto poveri, diventano
più poveri»19.

Abbiamo visto la ricchezza globale e la sua
crescita a dispetto della crisi. Ora è interessante capire in che mani essa sia
concentrata.

Esistono molte indagini statistiche al
riguardo. La più famosa è senz’altro quella stilata annualmente dalla rivista Forbes. A marzo 2013 è uscita la sua annuale lista dei miliardari, con questo
sobrio sommario: «I nomi, i numeri e le storie dietro le 1.426 persone che
controllano l’economia del mondo»20. Anche
la periodica ricerca Capgemini/ banca Rbc conferma la crescita degli individui
ad alto patrimonio (Hnwi, in sigla inglese), sia in numero (12 milioni di
individui, +9,2% rispetto al 2011) che in ricchezza posseduta21.

Tuttavia, può essere molto più interessante
osservare quella stilata – si chiama Hurun Report – dalla Cina, paese comunista e seconda potenza economica mondiale.

Va ricordato che il 14 marzo 2004 Pechino ha
introdotto nella propria Costituzione del 1982 un emendamento (il IV) che – nel
suo articolo 6 (sono 13 in totale) – afferma: «La proprietà privata è
inviolabile. Lo Stato, secondo quanto stabilito dalla legge, protegge il
diritto dei cittadini alla proprietà privata e all’eredità sulla stessa».

Secondo l’Hurun Report, nella Cina del 2013 il numero dei milionari – dove per milionario si
intende una persona con minimo 10 milioni di yuan (pari a circa 1,2 milioni di
euro)22 – ha raggiunto la cifra di 1,05 milioni, con
un incremento del 3% rispetto all’anno precedente. Il numero dei miliardari
cinesi – intesi come persone con almeno un miliardo di yuan (121,6 milioni di
euro) – è invece passato a 11.380, con un incremento di 1.120 rispetto all’anno
precedente. Il rapporto disegna un profilo di
questa popolazione di supericchi: chi sono (gli uomini sono il 70% del totale),
cosa fanno, cosa comprano (dalle automobili agli orologi, dalle collezioni
artistiche alle proprietà immobiliari), che sport praticano (nuoto e golf sopra
ogni altro).

Insomma, una lettura interessante, perché
inaspettata. Anche se non per tutti. Scrive ad esempio don Vinicio Albanesi,
presidente della Comunità di Capodarco e fondatore dell’agenzia giornalistica
Redattore sociale: «Nel futuro che ci attende, i ricchi si assomiglieranno
ovunque e sempre più nella loro sfacciata opulenza, mentre i poveri saranno
livellati nel disprezzo, nell’abbandono e nella fame, a prescindere dal mondo a
cui appartengono».

Paolo Moiola
(fine prima puntata – continua)

Note
 

1 – «Allora non bisogna
acquistare?». La risposta nella seconda puntata. Intanto anticipiamo il
riferimento principale, quello della «Campagna abiti puliti»:
www.abitipuliti.org. Il corrispondente sito internazionale è:
www.cleanclothes.org.
2 – Le cifre dei morti e dei
feriti variano leggermente a seconda della fonte. Queste sono tratte da alcuni
quotidiani britannici e dal «The Daily Star», quotidiano del Bangladesh.
3 – Sito: www.walmart.com.
4 – Olivier Cyran, In Bangladesh, gli assassini del prêt-à-porter, «Le Monde Diplomatique», giugno 2013, pag. 9. Sulla vicenda
dell’incendio della fabbrica di New York le informazioni più complete sono sul
sito della Coell University: www.ilr.coell.edu.
5 – L’ultimo incidente
risale all’8 ottobre 2013: a Gazipur, appena fuori Dacca, sono morti 7 operai
di una fabbrica tessile che lavorava per H&M (Svezia), Next (Gran
Bretagna), Carrefour (Francia) e gli inglesi di Asda (del gruppo Wal-Mart).
6 – Fonte: www.asianews.it.
7 – Fonte:
www.industriall-union.org.
8 – Alcuni dati per capire:
il 74% delle donne si sposa prima dei 18 anni, il 33% addirittura prima dei 15,
una donna su 3 rimane incinta prima dei 20 anni. Fonte: Women and girls in Bangladesh, Unicef 2010.
9 – A novembre 2013
lavoratori e sindacati hanno ottenuto un aumento a 5.300 taka al mese, circa 68
dollari, a partire dal 1 dicembre 2013. Fonte: «The Daily Star», Dacca.
10 – Fonte: «The Wall Street
Joual», 12 maggio 2013.
11 – Raccontato da Francesco
Pistocchini, in Compresi nel prezzo, rivista «Popoli», giugno-luglio 2013.
12 – E uno dei più densamente
popolati del mondo: 155 milioni di abitanti, 1.120 persone per chilometro
quadrato.
13 – Dati di «Coalition for
the homeless», rapporto del giugno 2013, reperibile sul sito.
14 – U.S. Census Bureau, Income, Poverty, and Health Insurance Coverage in the United
States: 2012, Washington, settembre
2013, pag. 13.
15 – T. Harv Eker, I segreti
della mente milionaria,
Gribaudi Editore, Milano 2008.
16 – Testuale: «I think greed
is healthy. You can be greedy and still feel good about yourself» ovvero «Penso
che l’avidità sia sana. Si può essere avidi e stare bene con se stessi».
17 – Joseph E. Stiglitz,
Il prezzo della disuguglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il
nostro futuro
, Einaudi 2013, pag. 106.
18 – È opportuno precisare: 1
trilione = 1.000 miliardi, mentre 1 bilione = 1.000 milioni = 1 miliardo.
19 – Zygmunt Bauman, “La ricchezza di pochi avvantaggia tutti”. Falso, Laterza, Bari 2013, pag.
13.
20 – Rivista «Forbes», 25
marzo 2013: «The World’s Billionaires. The names, numbers and stories behind
the 1.426 people who control the world economy».
21 – Hnwi = High Net Worth Individual, individui ad alto
patrimonio netto, che significa almeno 1 milione di dollari investibili,
escludendo l’abitazione principale, i beni di consumo e gli oggetti da
collezione (Capgemini / Rbc, World
Wealth Report 2013).
22 – Il cambio valutario: 1
rmb (ren min be) = 1 yuan = 0,12 euro.

Nella prossima puntata:

la concentrazione della ricchezza e la sua mancata
distribuzione; le sorprese dell’Indice di Gini; si può fare qualcosa per
ridurre le disparità create dalla globalizzazione neoliberista?; povertà e
ricchezza in Italia; i dati della Caritas e sue iniziative; la bibliografia e
molto altro ancora.

Paolo Moiola




Mama Fatuma, una donna musulmana alle prese con la poligamia

Fatuma è
musulmana, madre di dodici figli e moglie di Said, che dopo 25 anni di matrimonio
sposa una seconda donna. Padre Francesco Beardi ci offre un suggestivo ed
emblematico racconto tratto liberamente da un romanzo della scrittrice
senegalese Mariama Ba. Ci ha detto l’autore di queste pagine: «Ho scritto
l’articolo perché è interessante l’approccio verso l’islam nell’Africa francofona,
espresso da una scrittrice africana. Il romanzo, essendo stato tradotto in
swahili, parla anche al Tanzania, Kenya, Uganda, Congo».

È una musulmana piacevole,
intelligente e pia. Tutti i venerdì prega in moschea e ogni giorno legge il
Corano. Si chiama Fatuma, sposata con Said, una figura di spicco nella società
locale africana. Nonostante cognate e suocera «Voglio molto bene a mio marito – confida Fatuma -, tanto da
ridimensionare la mia antipatia verso la sua famiglia, specialmente le donne…».

Fatuma pazienta con le sorelle di Said, che invadono la sua casa
mangiando a sbafo. I loro bambini, maleducati, ballano sui sofà indossando le
scarpe, e le mamme non dicono «beh». Sopporta persino gli sputi con cui
insudiciano i tappeti. Per non parlare della madre di Said. La suocera spesso
visita la nuora, accompagnata sempre da amiche diverse: entra in casa per
mostrare loro il successo del figlio Said, e si vanta della bellezza
dell’abitazione, quasi fosse sua. Nonostante tutto Fatuma ama e rispetta Said.
Da 25 anni vive con lui, e gli ha partorito ben 12 figli.

Una delle figlie, Aisha, mentre si sta preparando per l’esame di
maturità liceale, sovente rincasa con delle compagne di classe. Una di loro è
Amina, tacitua, scontrosa, ma bella. Un giorno Amina incomincia ad indossare
abiti costosi. Sorridendo ironicamente dichiara ad Aisha: «Questi vestiti me li
ha comprati un vecchio». Poco dopo, la notizia-bomba: Amina sposa il vecchio.
Specialmente i genitori bramano il matrimonio della figlia, perché il vecchio è
ricco. Il cuore umano, insondabile da sempre sotto molti aspetti, ora si misura
con il parametro denaro! Fatuma domanda ad Aisha: «Quando sarà il matrimonio?».
«Domenica prossima, ma senza festa, perché Amina non può reggere la derisione
delle amiche».

Come seconda moglie

«La sera del matrimonio di Amina – racconta Fatuma – mi sorprende
il fatto che tante persone vengano a casa mia, senza essere state invitate…».
Tra loro c’è l’iman della moschea e Shukuru, il fratello maggiore di Said.
«Dov’è tuo marito Said?».
«È uscito questa mattina e non è ancora rientrato».

L’imam e il cognato sogghignano, mentre cresce il disagio di
Fatuma. Dopo aver sorseggiato il tè, l’iman annuncia: «Oggi, signora Fatuma, suo
marito Said ha sposato una seconda moglie. Veniamo proprio ora dalla moschea,
dove si è celebrato il rito».

Subito Shukuru aggiunge: «Sorella Fatuma, Said ti ringrazia molto.
Allah gli ha donato una seconda moglie, e non può certo rifiutare tale regalo.
Said si congratula con te, poiché hai vissuto con lui 25 anni con la deferenza
che una moglie deve al marito. Tutta la parentela ti ringrazia, specialmente
io, fratello maggiore di Said».

Fatuma resta di sasso. Ma cela il suo imbarazzo, nonché la sua
collera. Abbozza persino un sorriso e prega di salutare Said, «il marito
diventato amico». E lei, la seconda moglie, chi è? Amina, la ragazza spigolosa,
ma affascinante.

«Mamma, piantalo!»

La figlia Aisha è più adirata della madre, alla quale non fa
sconti: «Mamma, piantalo subito, separati! Non voglio che tu litighi con un
uomo e con una ragazza della mia età».
Al che Fatuma replica: «Devo proprio romperla con il marito, dopo
aver vissuto con lui un quarto di secolo e aver partorito 12 figli? Devo poi
allontanarmi dal tradimento subito?».

Dopo una lunga e dolorosa riflessione, Fatuma decide di restare
dov’è, perché… «Non ho mai pensato che si possa trovare gioia al di fuori del
matrimonio».
I figli contestano la decisione della madre, e Aisha rincara la
dose: «Mamma, i tuoi guai non sono ancora finiti, vedrai!».
Ma tant’è. Intanto gli sforzi degli amici stretti di Said di farlo
ritornare a casa, almeno per un po’, falliscono. Ogni volta che Said menziona
Fatuma ed esprime il desiderio di rivedere i suoi 12 figli, quella ragazza-moglie
sviene seduta stante. Said scompare per sempre. Così l’esistenza di Fatuma muta
radicalmente. Secondo la legge islamica, è obbligata a vivere nella poligamia e
a dipendere economicamente da «ciò che resta».
Ma per lei non resta mai nulla. «Non è facile la poligamia! Le donne che vivono nel matrimonio
poligamico ne conoscono le amare conseguenze: falsità e martirio. Tutto ciò
indurisce il cuore».

«Non sono un giocattolo»

«Taxi, taxi, in fretta!». La gola di Fatuma è secca come una
foglia morta. Il cuore è impazzito e la fa sussultare. «Taxista, più veloce!
Corri, corri…».

Arriva all’ospedale, ma il marito Said è già morto. Il dottore
spiega: «È stato un infarto fulmineo, mentre era in ufficio. I massaggi al
cuore e la respirazione artificiale sono state armi inefficaci contro la volontà
di Dio…».

La morte di Said gremisce la casa di Fatuma di molti conoscenti.
Lei indossa un velo nero sul capo e sopporta l’andirivieni della gente. Grida e
lamenti funebri eccessivi acuiscono il dolore della vedova. Secondo i costumi
locali, Amina, da cinque anni con Said, partecipa al funerale. La presenza
della seconda moglie irrita la prima. Dopo la sepoltura, i partecipanti al rito
salutano i familiari del morto, porgono condoglianze alle vedove e tessono le
lodi del marito: «Said, amico dei giovani e dei vecchi. Said, vero fratello,
marito premuroso, musulmano fedele. Allah abbia misericordia di lui!».

Il lutto dura 40 giorni. Però Shukuru, il fratello maggiore di
Said, è già nella stanza di Fatuma per dichiarare: «Appena terminato il lutto
ti sposerò. Voglio proprio che tu sia mia moglie».

Fatuma da 30 anni è avvezza al silenzio di fronte agli uomini. Ma
quel giorno la sua voce esplode rabbiosa e carica di scherno. «Shukuru, tu
dimentichi che anch’io ho un cuore e un’intelligenza. Io non sono un giocattolo
da passare da una mano all’altra. Tu non capisci che cosa significhi per me
“sposarsi”. È un atto di fiducia e di amore. È un dono reciproco tra chi
sceglie e chi è scelto». Fatuma sottolinea con forza la parola «scelta». Shukuru
ammutolisce. Se ne va colmo di rancore.

Il ladro della figlia

Aisatu, un’altra figlia di Fatuma, è rimasta incinta fuori del
matrimonio. All’inizio non lo ammette.

«Come immaginare che mia figlia giochi
licenziosamente con un ragazzo? Come accettare questa realtà che mi colpisce
come un fulmine a ciel sereno?».

Fatuma è affranta. La domanda è: «Chi? Chi è
il ladro? Perché un giovane di condotta lasciva è un ladro!».

Delusa, la mamma scruta la figlia, sempre
dolce e pronta ad aiutarla in casa. Alla fine Aisatu rivela il nome del suo
amante: è Iba, studente universitario. Si sono conosciuti durante la
festicciola di compleanno di un amico. Poi Iba ha cercato Aisatu a scuola, e
quel giorno la figlia non è tornata dalla madre per mezzogiorno. Il ragazzo ha
accolto la ragazza con gioia e gentilezza nella sua stanza dell’università… Iba
ha saputo che Aisatu è incinta. Però ha rifiutato l’aiuto di chi si prestava a
farla abortire.

«Mamma – dichiara Aisatu -, Iba verrà a
spiegarti tutto ciò che desideri sapere».

Ed eccolo Iba a tu per tu con Fatuma. È un
ragazzo che veste normalmente. Ma i suoi occhi sono un fascino. Il sorriso
riscalda il cuore. Questo giovane, tentatore di Aisatu, incanta la madre
dicendo: «Signora Fatuma, da tempo desideravo incontrarla. Aisatu mi ha
raccontato molte cose di lei e dei suoi parenti. Sua figlia è il mio primo
amore, e sarà l’unico. Chiedo scusa per quanto è capitato. Se lei è d’accordo,
sposerò Aisatu. Mia madre si prenderà cura di nostro figlio, mentre noi
proseguiremo gli studi. Grazie di tutto…».

Davanti agli occhi di Fatuma, madre
intelligente, premurosa e credente, sta nascendo una nuova famiglia. «Allah
benedica il cammino che Aisatu e Iba hanno intrapreso insieme. Salaam
aleikum
! La pace sia con voi!».

Francesco Beardi

Ndr: il titolo originale del
romanzo di Mariama Ba in lingua francese è Une si longue lettre. In
Swahili: Barua ndefu kama hii. In Italiano: Cuore Africano (Edito
da Sei nel 1981). Mariama Ba (1929-1981) è stata una figura di spicco tra gli
intellettuali africani che hanno sviluppato il dibattito sulla condizione
femminile nel continente.

Francesco Beardi




Serve anche la pipì. Huaycán, il centro di medicina olistica «Anna Margottini»

Il diritto alla salute in Perù / 1:
Siamo stati a
Huaycán, una delle periferie di Lima, per visitare il «Centro medico Anna
Margottini» gestito dalla suora italiana Goretta Favero. Abbiamo scoperto un
modo diverso di curarsi, al di là dei dettami della medicina ufficiale e delle
imposizioni delle multinazionali farmaceutiche…

Huaycán. A circa 20
chilometri da Lima, sorge Huaycán, tipico esempio di pueblo joven,
espressione con cui in Perú si indica un centro urbano di recente costituzione.
In realtà, il termine è un eufemismo per indicare un insediamento cresciuto in
luoghi inospitali e senza servizi primari per mano di gente povera o poverissima,
di solito emigrata dall’interno del paese.

In 30 anni – la sua fondazione risale al 1984 – la città
di Huaycán è cresciuta e migliorata, ma rimane un luogo dove vivere è
difficile. Soprattutto se si abita una casa di esteras1 (o di altri materiali
poveri: lamiera ondulata, cartoni, teloni) costruita in alto, sulle aridissime
pendici della montagna. Eppure è in luoghi come questi che la speranza può
prendere forma e concretezza, anche in modi inusuali. Lo testimonia la «Casa naturista
peruano-italiana Anna Margottini», un centro di medicina nato e cresciuto sulle
sabbie desertiche della città2.

Nella parte bassa di Huaycán la concentrazione di
abitazioni – cresciute una a ridosso dell’altra – è altissima ma, grazie al suo
colore bianco, la Casa Margottini s’individua facilmente. È una struttura a tre
piani, modea e semplice ad un tempo. L’ingresso per il pubblico si trova
accanto all’omonimo negozio di prodotti naturali ed erboristici. Varcata la
soglia, ecco il banco dell’accettazione e, davanti a esso, una serie di sedute
per la gente in attesa. Sulla parete di fronte al bancone una targa ricorda il
giorno dell’inaugurazione ufficiale – era l’11 gennaio del 2008 -, avvenuta
alla presenza del presidente della Camera dei deputati italiana e
dell’ambasciatore in Perú.

L’ambiente è accogliente e rilassante, pur
nell’andirivieni delle persone. Pannelli e poster colorati raccontano a
pazienti e visitatori filosofia e pratica della Casa Margottini: le consulenze
mediche e le terapie (dall’agopuntura all’odontologia) sono fatte nell’ottica
dei saperi naturali e della metodologia olistica3. Visite e terapie sono
a pagamento ma i prezzi sono bassi o comunque accessibili.

Nel Centro di Huaycán la medicina vuole essere naturale,
alternativa, semplice, ma anche popolare, economica e solidale ovvero l’esatto
contrario di quella che conosciamo. Siamo curiosi di scoprirla.

Curarsi (rompendo schemi, preconcetti e
tabù)

Ci viene incontro una donna tutta verve ed entusiasmo.
Sorride con la bocca ma soprattutto con gli occhi. Lei si chiama suor Goretta
Favero Miotti, padovana, infermiera, cofondatrice e attuale responsabile della
Casa Margottini.

Il percorso peruviano di suor Goretta inizia nel 1980.
Dieci anni dopo è a Huaycán. «Dal 1991 abbiamo lavorato a San Andres4, la parrocchia di Huaycán,
per formare promotrici di salute con le quali rispondere alle esigenze di
attenzione medica primaria. Con attenzione particolare per la prevenzione di
diarree, bronchiti, disidratazione, le patologie più diffuse». Suor Goretta e
le promotrici davano aiuto, ma allo stesso tempo ricevevano, scoprendo ad
esempio la medicina ancestrale della gente che veniva dalle Ande. «Abbiamo
recuperato e riscattato la fitoterapia, le cure con l’argilla e con l’urina».
Forse non abbiamo sentito bene. «Con l’urina?», chiediamo, facendo finta di non
essere troppo sorpresi. «Sì – spiega la suora -, bere la propria urina è una
chiave per rivoluzionare la nostra salute e la nostra vita. È una terapia
applicabile a tutte le età e per quasi tutte le malattie. È economica e
inesauribile»5.

Premesso che la medicina «ufficiale» è geneticamente
scettica (perlomeno) rispetto a qualsiasi strada alternativa, secondo la
medicina olistica le malattie vanno affrontate guardando all’uomo nella sua
globalità. Dunque, non soltanto nei suoi aspetti fisici. «Siamo convinti che
dietro ogni malattia, anche grave come un tumore, ci sia sempre un problema
emozionale e spirituale su cui occorre lavorare».

Diversa la ricerca delle cause, diversa la ricerca delle
soluzioni. «Tutti noi dentro il nostro organismo abbiamo le risorse per
curarci, per autosanarci. Basta dare al corpo un aiuto». Chiediamo in cosa
dovrebbe consistere questo aiuto. «Ad esempio, cambiando gli stili di vita,
seguendo un’alimentazione più organica e naturale, eliminando tutti gli
alimenti sofisticati e trattati (come lo zucchero, il pane bianco, il riso
bianco), facendo più movimento, adeguando la respirazione, aprendosi a
relazioni nuove, avendo più rispetto per i propri bioritmi».

È sempre
una questione di fegato

La struttura di Casa Margottini è divisa in tre aree
distinte. Nella prima ci sono la reception e gli ambulatori medici; nella
seconda, collegata da un elegante patio fiorito, ci sono gli ambienti per i
corsi e per i ritiri disintossicanti; nella terza, infine, c’è il laboratorio
erboristico.

Guidati da suor Goretta, sbirciamo nell’ambulatorio di
agopuntura dove quasi tutti i lettini sono occupati da pazienti in terapia.
Bussiamo quindi all’ambulatorio della dottoressa Yolanda Anco Torres, che è
anche direttore medico del centro. Pur essendo occupata con una donna e i suoi
due bambini piccoli, ci invita a entrare. Lei lavora qui da 4 anni ed è
convinta che la medicina naturale sia la migliore. «Mi sono convinta vedendo i
risultati ottenuti con i pazienti», ci dice.

Saliamo al piano superiore dove c’è l’ambulatorio di
odontologia. Ferruccio Fasanelli, di Conegliano Veneto (Treviso),
dentista italiano di 62 anni, si è trasferito a Huaycán con la moglie
peruviana. Due figli minori qui e ben sei in Italia. Il dottor Fasanelli segue
una odontologia olistica, escludendo l’uso di prodotti potenzialmente dannosi
per l’organismo. È molto felice della scelta di vita e professionale che ha
fatto. «La Casa è molto attenta agli aspetti umani, fa un ottimo lavoro medico
e la gente mi pare contenta. E poi si cerca di portare la salute dove ci sono
gli ultimi».

Lasciamo il dottor Fasanelli ai suoi pazienti
e proseguiamo lungo il corridoio del secondo piano. Ecco l’ambulatorio degli
psicologi. «Dietro a una malattia c’è spesso depressione, paura, collera. È
essenziale – ci spiega suor Goretta – sostenere la gente dal punto di vista
emozionale. Non soltanto il malato ma anche la sua famiglia».

Vicino c’è l’ambulatorio della massoterapia
dove Ines sta trattando un paziente. Accanto c’è la sala per la riflessologia
plantare, tecnica olistica tra le più note. Infine, l’ambulatorio della
idrocolonterapia, nella quale suor Goretta ripone molta fiducia. «Si fa con
acqua e ozono. Per noi è fondamentale perché con essa si previene e si cura.
Quando si fa una pulizia accurata del colon, l’organismo ha più difese»,
spiega. Corridoi, sale d’attesa, ambulatori: tutto è ordinato e lindo come si
conviene a una struttura sanitaria. Ma l’aria che si respira è rilassata «per
favorire – racconta la religiosa – un’attitudine mentale positiva».

In un’altra ala dell’edificio, accanto alla
cappella e alla ariosa sala dei corsi (biodanza, reiki), ci sono le stanze per
gli ospiti. La struttura può accogliere fino a 60 persone. «Non c’è una vera e
propria degenza. Facciamo inteamenti soltanto per i ritiri depurativi,
digiuni e massaggi, e soprattutto per motivi di prevenzione. La
disintossicazione del fegato e delle vie biliari è un trattamento a cui
attribuiamo molta importanza. Abbiamo infatti notato che la maggioranza delle
malattie viene a causa di un fegato sporco. Così, dopo un mese di preparazione,
alle persone in cura chiediamo di intearsi per tre giorni».

I sapori della vita

Terminato il tour conoscitivo della Casa
Margottini, lasciata momentaneamente suor Goretta ai suoi impegni lavorativi,
andiamo al piano dove si trova il ristorante naturista «Sapori della vita».
Nome italiano come italiana è la volontaria che lavora con le cuoche peruviane.
Il menù è (ovviamente) coerente con la filosofia del luogo, perché
un’alimentazione sana è essa stessa una medicina. Mangiamo una minestra di quinua6, un
tortello di zucchini e, come bevanda, un bicchiere di chicha morada7.

Dopo il pranzo, messi da parte lo
scetticismo, il recondito senso di superiorità (o forse la banale spocchia
occidentale) e una certa sudditanza al determinismo scientifico, siamo pronti
per sottoporci alla visita medica. Ci accoglie la dottoressa Heliana Febres.

Usciamo dopo oltre un’ora di colloquio con in
mano il nostro «Manuale pratico di orientamento per una vita sana». Per
iniziare il nostro nuovo corso, come a tutti, ci è stata suggerita una fase di
disintossicazione: 15 giorni di dieta rigorosa (soltanto verdure crude e
frutta), una serie di piante medicinali e anche la prescrizione più temuta
(…).

Il primo passo: decidere di cambiare

Toa suor Goretta per mostrarci l’ultima
parte del progetto. Lei e i suoi collaboratori non si limitano infatti a offrire
un servizio di cure mediche. In coerenza con una visione dell’uomo nella sua
globalità, davanti al centro Margottini funziona anche una struttura
assistenziale di stampo (apparentemente) più convenzionale: la Casa hogar Niños
esperanza de Huaycán
. L’edificio ospita una casa famiglia (casa hogar)
con una decina di bambine, un piccolo istituto educativo per il doposcuola, una
mensa per bambini ma anche un’aula dove si insegna agli adulti a produrre
saponi naturali e una grande cucina dove alcune donne (comprese mamme con
bambini al seguito) sfoano pane e torte. «Con soia e farine integrali», ci
spiega suor Goretta.

Prima di lasciare Casa Margottini ci fermiamo
nella bottega dei prodotti naturali, in gran parte usciti dal laboratorio
interno. Le erbe sono contenute in sacchettini di carta con un’etichetta bianca
che ne descrive il contenuto; i prodotti liquidi sono in piccole boccette
scure. Yolanda, la signora addetta alla vendita, ci prende dagli scaffali
quanto richiesto. Quando ci saluta, suor Goretta ci ricorda che «la prima cosa,
la più importante, è decidere di cambiare». Poi il cammino da seguire sarà
identico in Perú come in Italia o in qualsiasi altro paese del mondo.

Paolo Moiola
Note
1 – Le esteras sono stuoie e canne di bambù intrecciate.
2 – Occorre ricordare che, dopo Il Cairo, Lima è la seconda città
più grande del mondo nata e cresciuta su un deserto.
3 – Dal greco όλος = totalità. Un sistema – e dunque anche
un corpo umano – non va mai visto come una semplice sommatoria delle parti che
lo compongono.
4 – Su Huaycán e la sua parrocchia MC ha pubblicato: Paolo Moiola, Enmanuel Radio 100,5 FM, gennaio 1998.
5 – Dopo la visita al Centro Anna Margottini, abbiamo scoperto che
esistono molti libri dedicati all’urinoterapia.
6 – Coltivata sulle Ande da tempi antichissimi, la quinua è uno pseudocereale ad
alto valore nutritivo. Le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2013 anno
internazionale della quinua.
7 – La chica morada è una tipica bevanda peruviana risalente all’epoca inca. È fatta
con una varietà di mais di colore viola scuro.
 

Nella
prossima puntata:

racconteremo di Tablada del Lurín,
un’altra periferia di Lima metropolitana; a Tablada abbiamo visitato il centro
medico «Jampi Wasi».

 
Videoreportage:

suor Goretta Favero ci guida all’interno del «Centro
medico Anna Margottini» di Huaycán.

La scheda
Il Centro di medicina olistica Anna Margottini

Luogo: Huaycán, distretto di Ate (Lima
est).
Nome completo: «Casa naturista peruano-italiana
Anna Margottini».
Inizio attività: gennaio 2008.
Responsabile: suor Goretta Favero Miotti.
Responsabile medico: dott.ssa Yolanda Anco Torres.
Servizi principali: medicina naturale, psicologia,
odontologia, ecografia, agopuntura, idrocolonterapia, terapie energetiche e
massaggi, neuralterapia, bagni di ipertermia alle erbe, zapper, biodanza, soggiorni
per disintossicazione epatobiliare.
Altri servizi: laboratorio e bottega di prodotti
fitoterapici, ristorante naturista.
Personale e
collaboratori:
Yolanda Anco,
Heliana Febres, Ferruccio Fasanelli, Carolina Morillo (medici); Violeta
Carranza, Maggie Palacios, Carola (psicologhe); Carlos Luyando (agopunturista);
Ines (massoterapista); addetti al laboratorio erboristico; personale
amministrativo e di pulizia; volontari provenienti dall’Italia. 

Siti web:
• www.centroholisticoperuano.com (*)
• www.fondoitaloperuano.org

(*) Il sito fornisce un’idea del
Centro Margottini, ma – all’ottobre 2013 – non risulta adeguatamente
aggiornato.

Vivere in salute e curarsi in Perù


Quando avere soldi è «salutare»




Come in troppi paesi del mondo, anche in Perù la salute è un
diritto più teorico che effettivo. Da anni il paese registra una elevata
crescita economica e un livello di povertà in diminuzione. Tuttavia, ai dati
macroeconomici positivi non sempre corrisponde un identico miglioramento della
sanità. In Perù, come altrove, per vivere in salute e curarsi disporre di
denaro rimane un prerequisito essenziale.

Lima. La
lunghissima Avenida Arequipa collega il centro con San Isidro e Miraflores, due
tra i quartieri più esclusivi della capitale peruviana. La via, sempre
trafficatissima e inquinata, è un susseguirsi di scuole e istituti educativi
privati, che cercano di accaparrarsi i clienti-studenti con giganteschi e
coloratissimi cartelloni pubblicitari. A San Isidro e Miraflores le scuole
private lasciano il posto alle cliniche private, dove i clienti-pazienti
vengono attratti anche aggiungendo al nome una provenienza extranazionale
(clinica svizzera, angloamericana, italiana e via così), come se l’aggettivo in
questione fosse garanzia di maggiore serietà.

Per curarsi, il cittadino di Miraflores
o San Isidro ha dunque un ampio ventaglio di scelte. Ma siamo in quartieri
ricchi. Usciti da questi ambiti territoriali, la situazione è diversa.

A parte i militari e le forze di
polizia (che hanno strutture sanitarie proprie), ogni cittadino peruviano può
farsi curare in strutture pubbliche. Ci sono gli ospedali del ministero della
salute (Minsa) e quelli di EsSalud. Negli ospedali del Minsa
tutto è a pagamento e la qualità del servizio è molto variabile. Agli ospedali
di EsSalud possono accedere soltanto i cittadini che hanno un regolare
contratto lavorativo (e dunque pagano i contributi) o che si sono affiliati su
base volontaria (da 64 soles al mese). Gli unici utenti esentati dal
pagamento sono quelli che rientrano nel «Seguro integral de salud» (Sis)1,
servizio creato dallo stato per la popolazione più povera (e aperto agli altri
tramite affiliazione volontaria: circa 15 soles al mese). Per gli
affiliati al Sis la qualità delle cure è sovente molto scarsa e non vengono
coperte tutte le patologie.




In questo quadro variegato, dal
2004 a Lima è entrato in funzione il «Sistema metropolitano de la
solidaridad» (Sisol). Negli Ospedali della solidarietà – sono 20 nella
capitale e pochi altri nel resto del paese – gli utenti hanno un buon servizio
a un costo abbordabile. Ma comunque, anche in questo caso, visite mediche,
esami e medicine si pagano.

Da anni il Perù è in crescita economica. Anche la povertà,
pur rimanendo alta (27,8%), si è ridotta notevolmente (vedi riquadro).
Tuttavia, nonostante questi dati positivi, il sistema sanitario peruviano non è
cresciuto in maniera equivalente. In generale, fuori dalle città e nelle
regioni di montagna (sierra) e di foresta (selva) curarsi è
complicato e a volte impossibile.

«La diseguaglianza, la esclusione e
la povertà – scriveva la rivista peruviana Otra Mirada in un’ottima
monografia del 20092 – sono fattori che rendono le persone più vulnerabili
ai problemi di salute e, a loro volta, diventano barriere all’accesso a servizi
sanitari adeguati. (…) Il diritto alla salute, identicamente al diritto
all’istruzione e altri diritti sociali, non è stato attivamente protetto dallo
stato negli ultimi decenni».

In Perù il diritto alla salute è riconosciuto (senza
enfasi) dalla Costituzione del 1993, una carta di netta impronta neoliberista.
Se è vero che la protezione della salute è un diritto riconosciuto a tutti
(art.7), è altrettanto vero che lo stato si limita a garantire il libero
accesso alle prestazioni attraverso entità pubbliche, private e miste (art.11).
Il risultato è che troppo spesso il diritto alla salute rimane teorico per la
maggioranza della popolazione. Difficile dunque negare l’esistenza
dell’equazione «più denaro, più salute». Un’equazione valida – magari in gradi
diversi – in moltissimi paesi, soprattutto in quelli dove lo stato sociale non è
mai arrivato o è stato schiacciato dall’avvento del modello neoliberista.



Paolo Moiola


Note



1 – Per maggiori informazioni,
di seguito riportiamo i siti delle varie organizzazioni: www.minsa.gob.pe; www.essalud.gob.pe;
www.sis.gob.pe; www.sisol.gob.pe.
2 – Otra Mirada, La democracia no goza de buena salud, novembre 2009: www.otramirada.pe.



La salute dei peruviani


Dati economici:



•  
Tasso di crescita annuale (stima 2013): 5,9%.
•  
Tasso di povertà (2011): 27,8% (era 48,7 nel 2005).





Dati sanitari:



•  
Spesa sanitaria (pubblica+privata) (2010): 5,08% del Pil  (media dei paesi latinoamericani: 7%; in
Italia, sempre nel 2010: 9,2%, di cui 7,3% pubblica).
•  
Spesa sanitaria annuale procapite:circa 400 dollari (suddivisi a metà tra pubblici e privati).
•  
Mortalità infantile (ogni 1.000 nati vivi, 2010): 17,0 (era 75 nel 1990;
in Italia, nel 2010: 3,3).
•  
Mortalità matea (ogni 100.000 nati vivi, 2011): 92,7 (in Italia: 3
ogni 100.000 nati vivi).
•   Denutrizione cronica infantile (2012): 19,5%
(era 30% nel 2000).
•   Principali cause di mortalità prima dei 5
anni di vita (2013): infezioni vie respiratorie (40,5%), infezioni intestinali
(7,7%), denutrizione (5,2%).
•   Principale causa di morte da agente
infettivo dopo l’Aids: tubercolosi, 96 casi ogni 100.000 abitanti nel 2013
(erano 198 nel 1990; in Italia: 10 ogni 100.000).

Fonti: Banco mondial,  Organización Panamericana de la Salud, Minsa,
Instituto Nacional de Estadística e Informática (Inei), Oms, Istat (Italia).

Paolo Moiola




Zimbabwe: Il paese baciato da Dio

Il racconto di
un’esperienza di vita vissuta, al di là degli stereotipi.
Il paese
dell’esproprio terriero, dell’iperinflazione e della crisi alimentare. Della
discriminazione razziale e del diritto di parola soffocato. Ma anche delle
scuole di ottimo livello, della gentilezza delle persone e delle città ben
pianificate. Un paese tutto da scoprire, visto in queste pagine con occhi africani.

L’aeroplano atterrò una mattina di
inizio gennaio, portando me e la mia famiglia ad Harare. Non sapevamo cosa
aspettarci, data tutta la pubblicità negativa che questo paese aveva avuto sui
mass media di tutto il mondo. L’anno era il 2010 e lo Zimbabwe stava ancora
barcollando sotto gli effetti paralizzanti di una catastrofe economica che
aveva portato ad abbandonare la moneta nazionale, il dollaro zimbabwano,
nell’aprile 2009. Moneta che entrò nel Guinness dei primati l’anno successivo
per aver avuto il maggior numero di zeri su un biglietto di banca, con la cifra
di 100.000.000.000 (100 miliardi) di dollari. Ma il mio
obiettivo non è qui fare un’analisi, bensì raccontarvi alcune osservazioni personali.

Arrivati
da un paese dell’Africa dell’Est ci installammo ad Harare e iniziò la routine
quotidiana: trovare le scuole per i nostri figli, avere degli amici. Ma ancora
oggi, anche se questo paese ha i suoi punti deboli, continuiamo a essere stupiti
delle meraviglie che Dio gli ha regalato.

Scuole e fughe di cervelli

Quello che mi ha impressionato maggiormente in Zimbabwe sono state
le sue scuole. Molte sono state toccate dalla crisi economica e hanno subito la
fuga di cervelli (tanti professionisti hanno lasciato il paese in cerca di
occasioni migliori, oppure un gran numero di professori hanno abbandonato
l’insegnamento). Un insegnante mi disse che era diventato troppo caro «perfino
recarsi a scuola». Nonostante questi problemi, la scuola segue un curriculum
olistico, ereditato dai giorni della colonia, che normalmente include molto
sport, musica e teatro, attività artistiche per i giovani. Molte scuole private
seguono il programma del certificato di Cambridge del Regno Unito, con sette
anni di scuola primaria, seguita da quattro anni di secondaria e ulteriori due
anni di superiore (high school, nell’ordinamento anglofono, ndr).
Arrivati a conclusione dell’iter scolastico gli studenti sono normalmente alla
pari con ogni altro allievo del Regno Unito. Tuttavia questo apprendimento
privilegiato resta appannaggio di alcuni ragazzi fortunati, sia di famiglie
benestanti, che sono in grado di mandarli in costose scuole private, sia quelli
che sono abbastanza bravi per essere ammessi grazie ai loro risultati.

Come in molti altri paesi africani, la Chiesa Cattolica
contribuisce a portare avanti la qualità dell’educazione in Zimbabwe. Ma essere
ammessi nelle scuole è talmente competitivo che spesso i genitori devono
prenotare il posto per i figli con tre anni di anticipo.

Così la maggioranza frequenta le poche scuole pubbliche
disponibili, dove, anche se c’è una ricca eredità lasciata dai tempi coloniali,
si lotta con la penuria di libri di testo e il limitato numero di insegnanti.

A ogni famiglia, in questo caso, è richiesto di pagare per
l’educazione dei propri figli, anche se la quota è normalmente molto inferiore
nelle scuole pubbliche che in quelle private.

Quasi il 90% degli studenti privilegiati che completano la scuola
superiore, scelgono di continuare fuori dallo Zimbabwe. La maggioranza parte
per Regno Unito e Sud Africa, mentre altri vanno verso Est: Cina, Singapore,
Malesia in particolare.

L’Università dello Zimbabwe ammette un gran numero di studenti
dalla scuola pubblica locale anche se ci sono state denunce della maggior parte
delle facoltà rimaste senza docenti. Ancora una volta questo fatto è dovuto
all’elevata fuga dei cervelli causata principalmente dalle difficili condizioni
economiche e dal basso livello di inquadramento che prevale nel paese. Ci sono
cinque università pubbliche e altrettante università private che offrono corsi
rilevanti principalmente nel settore commerciale.

Buona educazione

Impressionante è anche l’educazione della gente dello Zimbabwe,
inculcata fin dalla tenera età. Come straniera l’ho trovata inizialmente
opprimente, perché nel mio paese in questi casi diciamo che: «troppa familiarità
con tutti è sospetta». Abbinata con questa educazione le persone hanno un
raffinato senso di correttezza e serietà.

La rete stradale del paese, in particolare delle città di Harare e
Bulawayo, sono ben studiate. I semafori ad Harare sono stati un positivo
cambiamento rispetto al traffico della mia città. Vie e strade sono molto
larghe e tutto è ben segnalato e chiaro. Naturalmente si vede l’effetto della
crisi economica, e della mancanza di investitori: mentre molte strade sono
ancora in buono stato, diverse altre sono piene di buche. Le vie della
capitale, e di altre città, sono costeggiate da alberi che danno uno
straordinario colore quando fioriscono, dalle purpuree jacaranda, alle altre
varietà che portano le vie a tonalità dal fiammante arancione, rosso, bianco e
rosa.

Tendenze preoccupanti

In ogni città si trovano aspetti impressionanti ma anche tendenze
preoccupanti. C’è un elevato livello di disoccupazione che ha portato molte
persone a lasciare il paese in cerca di lavoro. Esiste tuttavia un lato
positivo in questo, perché molti altri sono riusciti a portare avanti piccoli business
per sostenere le proprie famiglie.

La tendenza di molti di creare o seguire una «chiesa profetica» è
preoccupante. Ma è ovvio che persone disperate le seguono sperando in miracoli
che possano rendere le loro vite migliori o più prospere.

L’Hiv/Aids continua a essere il problema principale. Ho incontrato
molte vedove che hanno perso il loro marito a causa di questo flagello. La
Chiesa Cattolica continua a portare avanti sforzi e fornire soccorsi a chi ne è
colpito.

Lingua e culture

Dal mio punto di vista di straniera, ho trovato interessanti
alcuni nomi molto comuni. Ho conosciuto diversi zimbabwani con nomi come:
Medicina, Psicologia, Rimpianto, Geloso, Comunque, Dimentica, Benedici e altri.
Indagando ho scoperto che questi nomi sono normalmente un tentativo di tradurre
nella lingua locale shona nomi in inglese, o talvolta di mettere in
relazione le circostanze della nascita con i nomi. Tuttavia la tendenza sembra
cambiare, con molti genitori che danno ai loro bambini un nome cristiano
seguito da un nome shona.

Interessante per me è la sorprendente somiglianza tra lo shona,
diffusamente parlato ad Harare e la mia lingua. Ci sono due gruppi etnici
principali in Zimbabwe: shona e ndebele, entrambi di origine
bantu. Bantu è un grosso gruppo di tribù distribuite in Africa centrale e del
Sud – Est. Il tratto comune di questi popoli è il riferimento di base «munhu,
mundu o mtu», un termine che si riferisce all’uomo. Ci sono poi molte altre
comunanze linguistiche che rimandano a una origine comune. Oltre che all’ovvio
riferimento a una persona, la radice della parola bantu «utu» identifica uno
stato di essere, la disposizione di vedere l’altro come un essere umano e di
considerarlo con rispetto e considerazione. Il movimento «Ubuntu» che si sta
risvegliando in Sudafrica è un tentativo di rivitalizzare queste antiche
usanze.

La popolazione di lingua shona e che parla i suoi vari
dialetti costituisce la maggioranza degli zimbabweani ed è dominante nei
settori del commercio, educazione e politica. Il secondo gruppo etnico sono i ndebele,
discendenti di un gruppo di guerrieri zulu (un’etnia sudafricana di fieri
combattenti) che si installarono nel Sud dello Zimbabwe alla fine degli anni
1830, sotto la leadership del capo militare Mzilikazi. Essendo una minoranza, i ndebele sono stati
spinti in periferia e molti di loro sono poveri. Il colonialismo ha perturbato
le loro comunità tradizionali molto ben organizzate, così oggi questo gruppo è
escluso da molti privilegi politici. C’era una rivalità tradizionale tra shona
e ndebele maggiormente dovuta al fatto che i primi hanno sempre accusato
i secondi di averli spinti fuori dalle loro terre. I politici utilizzarono per
i loro fini questa rivalità fin dopo l’indipendenza del 1980, ed essa perdura
ancora attraverso modalità sottili.

In effetti, il massacro di Gukurahundi del 1983, nel quale
centinaia di ndebele furono brutalmente uccisi dalle forze governative,
rimane vivo nelle menti di molti. Questo è un punto dolente che non è stato
risolto e una vera riconciliazione tra le due comunità non potrà esserci,
fintanto che esso non sia affrontato serenamente. Non ci sono scontri etnici,
ma un risentimento profondo che può venire in superficie, in particolare in
tempo di elezioni.

Sicurezza

Vivere e viaggiare in Zimbabwe continua a essere relativamente
sicuro, se confrontato, ad esempio, con il vicino Sudafrica, dove crimini
violenti sono frequenti, anche dovuti alla xenofobia. Tuttavia, come risultato
della crisi economica, arrivata dopo la sistematica e forzata cacciata dei
proprietari terrieri bianchi, c’è stato un aumento dell’attività criminale.

Ogni discussione sullo Zimbabwe è incompleta se non si parla della
cosiddetta «tribù bianca». Rimangono nel paese un gran numero di bianchi zimbabwani
di terza e quarta generazione. Tra il 1998 e il 2000 ci fu una cacciata di
massa dei proprietari di origine europea dalle loro fattorie. Scene terribili
che portarono il paese e il suo presidente in cattiva luce a livello
internazionale. È importante guardare alle cause e ai risultati di questi
sfratti. In primo luogo gli zimbabwani «indigeni» si sentivano emarginati negli
anni da una minoranza bianca che aveva imposto una politica simile all’apartheid
sudafricano.

Per questo ci furono maltrattamenti di chi
osava andare contro le regole. Gli africani venivano relegati in piccole aree
riservate, mentre appezzamenti grandi e fertili erano posseduti dai proprietari
bianchi. I leader politici sostenevano che ci fosse stato un negoziato
in cui i coloni avevano promesso di tenere parte delle terre per un periodo
massimo di 10 anni dopo l’indipendenza. Ma pare che abbiano cambiato idea poco
a poco. Gli africani neri credevano inoltre che alcuni proprietari bianchi
ricavassero diamanti e altri minerali di nascosto dalle loro proprietà.

Questi sono alcuni dei motivi che portarono il presidente Robert
Mugabe e i suoi a forzare l’esproprio terriero alla minoranza di fattori
bianchi.

Lo sfratto violento dei bianchi e l’esproprio forzato dopo anni di
investimenti non furono né legali né azioni umanitarie, nonostante le ragioni
che portarono a esso.

Ci furono anche questioni rispetto alla redistribuzione della
terra ottenuta con gli sfratti dei bianchi, ed è chiaro che i maggiori
beneficiari furono quelli legati alle alte sfere politiche. C’è anche stato un
generale vandalismo delle proprietà, che erano state rese produttive ed
efficienti in anni di lavoro e fatiche dei coloni e i loro discendenti. Questo
ha portato al problema dell’insicurezza alimentare, un tempo inesistente nel
paese.

Solo il dialogo tra il governo e le famiglie coinvolte, rivolto
alla riconciliazione e compensazione, può farla finita con le enormi
conseguenze negative degli espropri.

Turismo possibile?

In Zimbabwe ci sono molti siti storici e naturalistici da
visitare: il più famoso è quello delle cascate Vittoria, le seconde maggiori
nel mondo (per portata, ndr), situate al confine tra Zimbabwe e Zambia.
Questa visita è una reale esperienza.

Il percorso da Harare alle cascate è già un bel viaggio perché si
ha la possibilità di vedere la favolosa varietà di specie animali che ci sono
ancora in Zimbabwe. In particolare i molti elefanti di Hwange game park.

Vicino alla capitale, a 30 minuti, c’è il
monumento Domboshawa, una collina che ospita una cavea con pitture dell’uomo
preistorico. Un bel sito anche per pregare. Un altro posto da vedere è una
piccola bellissima chiesa nella periferia di Harare, costruita nel 1902. Il
pezzo più bello è la statua di Nostra Signora che rompe il diavolo del commercio
degli schiavi. Un altro sito è il Great Dzimbabwe in cui sono presenti antiche
costruzioni bantu complete di manufatti.

Lo Zimbabwe è anche classificato come un paese con il miglior
clima nel mondo durante l’anno. Un’idea di business è quella di costruire
pensionati per anziani come investimento nazionale.

Bellezza e potenziale, disperazione politica e resilienza
(resistenza e reazione positiva, ndr) che ancora fa camminare gli
zimbabwani a testa alta. Tutto questo è visibile in Zimbabwe. Come si dice: «Ogni
nuvola ha un rivestimento d’argento».

Josephine Msafiri

 
       Ancora il «Grande Vecchio»                             
Lo Zimbabwe dopo le elezioni di luglio

Dall’indipendenza del 1980 al nuovo governo (settembre
2013), il paese continua ad avere un solo unico capo: Robert Mugabe. Odiato
all’estero (dagli occidentali) e amato (in parte) in patria. Il padre padrone
dello Zimbabwe ha spesso utilizzato concetti di giustizia per favorire il suo
gruppo di potere.

Robert Mugabe è sempre il
capo. Le elezioni generali del 31 luglio scorso l’hanno confermato presidente
con il 61% dei voti, contro il 34% del rivale Morgan Tsvangirai. Mugabe, 89
anni, al potere dall’indipendenza (1980) ha così giurato il 22 agosto per il
suo sesto mandato di cinque anni come presidente della Repubblica. Allo stesso
tempo in parlamento il suo partito, lo Zanu-Pf (Unione nazionale africana –
Fronte patriottico), ha ottenuto oltre i due terzi dei seggi, mentre secondo è
il Mdc (Movimento per il cambiamento democratico) di Tsvangirai. Questo vuol
anche dire che la nuova Costituzione (del marzo di quest’anno) potrebbe essere
facilmente modificata.

Nelle precedenti elezioni del 2008, Morgan Tsvangirai
era in vantaggio, ma aveva dovuto cedere a pressioni e violenze nei confronti
dei suoi, e accettare, grazie a una mediazione dei paesi africani, una «coabitazione»
coatta: Mugabe presidente e lui primo ministro.

Ora Mugabe può fare da solo e il 10 settembre ha creato
il nuovo governo, rigorosamente monopartitico Zanu-Pf. Tutti i ministri sono
dei suoi fedelissimi, alcuni della vecchia guardia, già ministri dopo
l’indipendenza.

Le
ultime elezioni sono state vivamente criticate da Tsvangirai che le ha definite
una «enorme farsa». Secondo il Mdc, infatti, migliaia di votanti delle città
(più inclini a votare Tsvangirai) non hanno trovato il loro nome sulle liste
elettorali, mentre altre «decine di migliaia» di elettori sarebbero stati «aiutati»
a votare da partigiani di Mugabe presenti nei seggi. Anche gli osservatori
indipendenti occidentali hanno accusato un elevato numero di brogli durante lo
scrutinio. Non così gli osservatori dei paesi africani, per i quali il voto è
stato sostanzialmente corretto.

Il grande capo, fondatore della patria, ha favorito gli
espropri violenti da metà anni ’90 a tutta la decade 2000. Migliaia di fattori
bianchi (zimbabwani discendenti dei coloni) sono stati cacciati a forza dalle
loro proprietà, spesso senza alcun indennizzo dello stato. La terra è stata
ridistribuita agli zimbabwani neri e il più delle volte presa con la forza. Se
la redistribuzione delle risorse ha un forte fondamento di giustizia sociale,
il modo con cui è stata fatta non ha per nulla rispettato i diritti di tutti.
Inoltre: «Spesso hanno beneficiato delle terre espropriate le persone vicine al
presidente o al potere» ci confida una fonte che chiede l’anonimato.

Gli
espropri hanno avuto anche l’effetto di portare il paese in una crisi economica
mai vista. Da esportatore di cereali per tutta l’area in passato lo Zimbabwe
vive oggi una profonda crisi alimentare. Con il crollo dell’economia si è
creata una situazione di iperinflazione e nel 2009 è stato consentito l’uso di
valute straniere anche nella vita di ogni giorno (le più comuni sono il dollaro
Usa e il rand sudafricano) con il progressivo abbandonato dell’uso del dollaro zimbabwano.

Anche il rispetto dei diritti umani non è dei migliori e
in particolare la libertà di stampa e di espressione subisce grandi
restrizioni, media privati chiusi a forza e operatori incarcerati.

Con il nuovo governo Mugabe vuole procedere nella
politica di «indigenizzazione», in particolare garantendo che la maggioranza
del capitale delle filiali locali di aziende e gruppi multinazionali, passi in
mano di zimbabwani (neri). Per questo è stato creato un ministero ad hoc
(ministero dell’Indigenizzazione) e sarà guidato da Francis Nhema, già ministro
dell’Ambiente.

Il paese resta di fatto diviso in due: pro e contro
Mugabe, tra chi è legato alla concezione africana del capo «a vita» e chi
invece anela un cambiamento.

Marco Bello

Josephine Msafiri e Marco Bello




Cent’anni donati di cuore Le Missionarie della Consolata in Kenya

Il passaggio
del testimone: è un attimo di concentrazione, di precisione, di passione.
Mentre scrivo, sento di essere io chiamata al passaggio di testimone alle
giovani generazioni, per due motivi. Primo: molto di quello che scrivo l’ho sentito
dalla viva voce di madre Margherita De Maria, la missionaria della prima ora
che nelle belle serate di ricreazione a Sanfré ci raccontava, vibrante di
passione, le prime ore, i primi giorni, le prime spedizioni delle suore
missionarie della Consolata in Africa, in Kenya.

Secondo motivo è quello di
contribuire alla celebrazione del centenario dell’arrivo delle nostre sorelle
in Kenya, io che per anni ho chiamato quella terra «mia patria di adozione».
Con
queste righe voglio rendere omaggio alle tante sorelle conosciute e amate che
ora riposano nei cimiteri di quella terra benedetta.

L’evento

In questa foto (l’originale in bianco e nero è stato
rielaborato da Fraser) ci sono le prime 15 suore missionarie della Consolata
accolte dai missionari della Consolata, dalle suore del Cottolengo (tre,
riconoscibili dalla loro mantellina bianca e lunga) e dai primi cristiani, lavoratori
e bambini della missione di Limuru (probabilmente). Eccole (da sinistra): sr. Rosa Margarino (Portacomaro, At), sr. Filomena Moresco (Barge, Cn), sr. Agnese Gallo (Caramagna, To),
sr. Teresa Grosso (Buttigliera d’Asti, At), sr. Caterina Gemello
(Candiolo, To), sr. Domenica Drudi (Misano, Forlì), sr. Candida
Sandretto (Sparone, To), sr. Margherita De Maria (Dronero, Cn), sr.
Serafina Drudi (Misano, Forlì), sr. Paolina Bertino (Montevideo,
Uruguay), sr. Cristina Moresco (Barge, Cn), sr. Carolina Crespi
(Pogliano, Mi), sr. Costanza Golzio (Castiglione, To), sr. Cecilia
Pachner (Torino), sr. Lucia Monti (Almenno S. B., Bg).

______________________________________________________________________

1913

L’Istituto ha tre anni di
vita. Le suore professe sono 18, le novizie 24, le postulanti 12. Dall’Africa,
e precisamente dal Kenya dove oramai da dieci anni i missionari della Consolata
lavorano, si fa pressione sul Fondatore, il Beato Giuseppe Allamano, nostro
comune Padre, perché mandi le missionarie. Così ecco il 1913 con l’incalzare di
eventi per il giovane Istituto: vestizioni religiose a gennaio, ad aprile, a
maggio, a settembre. In aprile, il giorno 5, le prime professioni religiose
nell’Istituto. «Questo giorno, dice il Fondatore nella conferenza, è da
scriversi a caratteri d’oro».

Dieci sorelle, all’altare,
emettono la loro professione religiosa. Sono le pietre angolari sulle quali si è
innalzato l’edificio delle missionarie della Consolata.

1913, l’anno scorre veloce. Dopo
il traguardo delle prime professioni, il Fondatore annuncia la partenza per le
missioni. Da questo momento, nel Fondatore c’è un solo desiderio: formare le
sue figlie più direttamente a quello spirito missionario di cui Lui aveva tutto
acceso il suo grande cuore.

Madre Margherita De Maria viene
scelta come superiora del primo gruppo delle partenti. Il tempo vola: corsi speciali di
medicina, di inglese, di gekoyo (la lingua dei Kikuyu, come si scriveva
allora, ndr.), di musica; le sorelle visitano regolarmente gli ospedali
della città e non mancano di fare lunghe camminate per allenarsi alla vita
missionaria.

1913, 28 ottobre, le prime 15
missionarie della Consolata destinate al vicariato del Kenya, ricevono
solennemente il Crocifisso, il Compagno del loro pellegrinare in missione,
dalle mani del cardinale Agostino Richelmy, assistito dal Fondatore e dal
Canonico Camisassa. È il momento dell’invio, del mandato «ad gentes» da parte
della diocesi e della Chiesa. Da quel giorno in poi, le missionarie partiranno
dalla Consolata e andranno in tutto il mondo. «Ricevi la Croce di Gesù Cristo.
Ti sia sostegno nelle fatiche
dell’apostolato». È la voce del Vescovo che «manda» i nuovi operai nella messe.

Sono pronte per partire. Eccole:
suor Agnese Gallo, suor Candida Sandretto, suor Carolina Crespi, suor Caterina
Gemello, suor Cecilia Pachner, suor Costanza Golzio, suor Cristina Moresco,
suor Domenica Drudi, suor Filomena Moresco, suor Lucia Monti, suor Margherita
De Maria, suor Paolina Bertino, suor Rosa Margarino, suor Serafina Drudi, suor
Teresa Grosso.

Le prime Missionarie della Consolata nel 1913. Tra loro le suore professe (col crocifisso), le novizie (con la medaglia) e le postulanti (velo nero)

Le prime impressioni

L’Africa. Il Kenya. Un mondo
nuovo per le nostre sorelle. L’immensità dello spazio che si apre davanti a
loro, il cammino difficile, povero, sacrificato; il pericolo dell’isolamento,
la lontananza, lo scoraggiamento, potrebbero intaccare la generosità e la
serenità delle figlie dell’Allamano.

Ma davanti ai loro occhi la
figura del Cristo missionario del Padre, della Consolata, che quale madre
dolcissima le seguiva, il ricordo del Fondatore, il suo sorriso, il suo «Coraggio,
avanti!» diventano il sostegno nei duri inizi.

Partono. Sono 15 e provengono da
otto diocesi: Torino, Saluzzo, Ivrea, Asti, Bergamo, Milano, Rimini e
Montevideo. Alla stazione di Porta Nuova a Torino, il Fondatore commosso dà
loro la sua benedizione.

Partono. Dà loro grande fiducia
il sapere che andranno a lavorare accanto ai missionari della Consolata, figli
dello stesso Fondatore, espressione di uno stesso carisma. Le sorelle ripongono
altrettanta fiducia nel fatto che in Kenya da una decina d’anni lavorano le
Cottolenghine (le suore del Cottolengo) della Piccola Casa di Torino; sotto la
loro guida il tirocinio missionario sarà più facile e sicuro.

Partono. Non hanno con sé il
biglietto di ritorno, hanno salutato tutti, per sempre. Vanno. Quando il
bastimento «Catania» leva le ancore da Genova e le coste della patria si
allontanano, le 15 si stringono l’una all’altra: piangono, sorridono e pregano.
Vanno verso l’ignoto piene di fiducia, sorrette dalla benedizione del
Fondatore. Con sé portano una lettera del
Padre Allamano, da leggersi durante il viaggio: è
un prezioso compendio di quanto era stato loro insegnato durante la
preparazione.

Gruppo di Missionarie della Consolata in Kenya attorno a madre Margherita Maria, la lor superiora.

Da Limuru a Nyeri

Dopo un lungo viaggio, le
missionarie raggiungono il porto di Mombasa in Kenya e il piccolo treno a
scartamento ridotto che porta in Uganda le lascia alla stazione di Limuru: è il
28 novembre 1913. A Limuru, una ventina di km oltre Nairobi, i missionari
avevano posto la loro casa procura da cui poi mandare, attraverso le valli
dell’Aberdare, i rifoimenti alle missioni di Muranga (allora Fort Hall), di
Nyeri e di Meru.

Il cuore è pieno di gioia:
finalmente le missionarie sono nella terra dei loro sogni. Alla stazione sono
ad attenderle monsignor Perlo Filippo, vicario apostolico di Nyeri, le suore
Cottolenghine, vari missionari della Consolata, alcuni dei primi cristiani e i
catecumeni.

Il giorno successivo molti
vengono a salutarle e chiedere notizie del papa, dei superiori, degli italiani.
Il terzo giorno le missionarie iniziano un «corso di orientamento» con le suore
del Cottolengo visitando i villaggi attorno a Limuru e un corso intensivo di
lingua kikuyu in modo di rendersi capaci di comunicare in modo diretto con la
gente.

Il rodaggio dura solo pochi mesi,
poi inizia l’avventura. Le nuove missionarie lasciano Limuru e partono in
carovana per raggiungere Nyeri. I buoi trascinano carri carichi di tutto: le
tende per ripararsi durante le notti del lungo viaggio di quattordici giorni,
il cibo, gli attrezzi e il necessario per mettere su casa una volta arrivate a
destinazione. Dopo la lunga camminata le suore raggiungono Nyeri senza essere
accolte da speciali cerimonie di benvenuto. Solo i circa 75 bambini
dell’orfanatrofio (raccolti dai missionari e dalle suore del Cottolengo perché
abbandonati alle iene nella foresta) le guardano con gli occhi sgranati.

Così ha inizio la nuova missione
Nyeri-Mathari (dove i missionari sono presenti dal 1904). Lo stile di vita è
veramente povero a livello materiale, ma ricco di ogni sorta di attività. Tutti
i giorni riservano il tempo per il catechismo agli operai della grande fattoria
agricola. Con loro lavorano, per produrre il necessario per se stesse e le varie
missioni già aperte dai missionari della Consolata.

È un’avventura anche il ritmo di
lavoro dalla domenica alla domenica. Scuola per tutti quelli che giungono alla
missione dai villaggi intorno; attenzione particolare per le giovani che sono
educate e vivono alla missione; visita agli ammalati nell’ospedale governativo,
cura di quelli che arrivano all’improvvisato dispensario della missione
collocato sotto un albero o in una capanna per proteggere il paziente e la
suora dal sole implacabile; visite regolari ai vicini villaggi, in cerca di
malati da curare; e la cura dei 75 orfani, che vivono ancora in costruzioni
molto provvisorie. E il lavoro massacrante nella immensa piantagione di caffè e
in quella di orchidee; l’attendere agli oltre 500 buoi e mucche (la fattoria
aveva moltissimi buoi per tirare i carri usati nel trasporto del caffè da Nyeri
a Nairobi e per le carovane da una missione all’altra; ndr.) che bisogna
contare al sorgere e al tramonto del sole e accudire giorno dopo giorno.

Missionarie della Consolata impegnate nella visita ai villaggi.

Ma per tutto questo lavoro non
tutte le 15 missionarie rimangono a Nyeri: quattro partono immediatamente per
Tuthu (la prima missione fondata nel 1902 dai missionari nelle valli
dell’Aberdare a oltre 2300 m), dove giungono dopo tre giorni di cammino (il
viaggio oggi richiede poche ore di macchina!). Suor Agnese è la superiora, suor
Paolina Bertino è destinata alla visita ai villaggi e all’insegnamento
nell’incipiente scuola, suor Serafina Drudi per la visita ai villaggi e suor
Rosa Margarino per la cucina di tutta la comunità maschile e femminile della
missione. Così le missionarie iniziano la seconda missione.

Avventure di tempi eroici!
Aggiungiamo quella di inserirsi nell’ambiente vincendo la sfida della lingua,
dei lunghi viaggi, delle malattie come la malaria, le piaghe, la dissenteria,
del cibo scarso: tutto contribuisce a rendere difficile la vita. Ma il Signore è
loro accanto, e interviene anche con i miracoli.

Le sorelle rimaste a Torino,
seguono con amore fraterno le loro missionarie, nell’attesa di raggiungerle, e
pregano:

«Vergine, piena d’amore,
consolatrice d’ogni nostro pianto.
Reggili sugli oceani,
nell’orror delle foreste
e dei deserti ardenti,
Quando spira la furia
dei torrenti,
quando spossati cadono per via,
quando li assale stanchezza e nostalgia,
posati loro accanto!».

E
davvero, come per altre volte a molte di noi, il cielo si fa vicino.

Suore Serafina Drudi in visita a capanne attorno al villaggio di Thusu.

Avventura e grazia

Ed è un’avventura anche uno dei
tanti viaggi fra Tetu (missione fondata nel 1903) e Nyeri. Protagoniste suor
Teresa e suor Candida, le quali, dopo una mattinata spesa nella funzione dei
battesimi, nel pomeriggio si incamminano in carovana per il ritorno alla
missione. La notte si avvicina: vescovo, padri, suore, cristiani e non, tutti
in fila ritornano al Mathari. Tra loro suor Candida, appena giunta in missione,
non allenata alle lunghe marce. A poco a poco tutti sorpassano le due sorelle
che alla fine si trovano isolate, nella solitudine e nel silenzio della notte
africana senza luna. Hanno perso il sentirnero. La paura si fa strada. Un
improvviso fruscio le allarma ancor più. Un serpente, una iena, un leone?
Invece ecco un giovane con una bianca tunica si avvicina e le invita a seguirlo
per raggiungere la carovana. Nel dialogo con suor Teresa si presenta e dice il
suo nome: «Wa Ngai» (di/da Dio). Suor Teresa ribatte che tutti veniamo
da Dio e insiste per sapere il suo nome: «Wa Ngai – dice -, e vengo da molto
lontano». Della giornata dei battesimi il giovane dice che è stata molto bella
ed è piaciuta anche a Dio. Egli precede le sorelle mentre il camminare si fa più
facile e anche suor Candida ha la sensazione che la stanchezza sia scomparsa.
Finalmente, a discesa terminata (perché c’è una valle tra Tetu e Mathari e
bisogna scendere al fiume e risalire), il paesaggio si allarga, si cominciano a
sentire le voci del gruppo. Sono salve! Suor Teresa chiede ancora: «Vuoi dirmi
il tuo nome?». Dopo un istante di sospensione, con voce chiara il giovane
risponde: «Sono Raffaele. Vengo da Dio». E scompare.

In senso orario: suora della Consolata e del Cottolengo tra i bambini orfani dell’orfanotrofio di Nyeri; suora con giovani mamme;
bambini dell’orfanotrofio di Nyeri e la stessa foto ritoccata con al presenza delle suore.

Avventure missionarie: quante! Di
quanti piccoli miracoli in questi cento anni di Kenya, siamo testimoni! Le
piccole scatole-case, le capanne, i primitivi improvvisati dispensari, poco a
poco hanno lasciato il posto a case vere, scuole, ospedali, orfanotrofi,
dispensari. Cento anni per seminare l’Amore, la Consolata e il Padre Fondatore
nel cuore della nostra gente del Kenya, obbedendo all’invito dell’Allamano: «Coraggio
e vanti!».

Gesù, il missionario del Padre ci
ha sempre precedute e ci ha rese anche capaci di cedere nelle mani responsabili
della Chiesa locale quello che con tanto sacrificio è stato costruito (la
maggior parte degli ospedali, scuole e altre attività iniziate nelle missioni
della Consolata, sono ora nelle mani delle Chiesa locale, avendo i missionari e
le missionarie finito il loro compito da dare inizio ad una nuova comunità ndr.).

Ora abbiamo raggiunto il deserto,
di nuovo come agli inizi, forse con meno fatica. Tocca sempre a noi andare e
partire per testimoniare, per passare il testimone ad altre sorelle, alle
giovani di oggi, anche a nome delle 157 missionarie che riposano nei cimiteri
del Kenya: 47 al Mathari-Nyeri, 8 a Meru, 95 al Nazareth Hospital-Nairobi e 7
in altri cimiteri.

Sr. Pier Rosa Campi

Pier Rosa Campi