Sul tetto dell’Africa

Amin e Nyerere: figli per la riconciliazione
Due figli di due potenti capi di stato del passato. Due paesi che hanno visto la guerra. La montagna sacra dell’Africa e un regista ardito quanto esperto. Così nasce un documentario dal profondo messaggio di riconciliazione.

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Tags: Tanzania, Uganda, Amin, Nyerere, riconciliazione

Silvia C. Turrin




Missionario fino alla fine

Padre Bruno Del Piero e il Caquetá


Conosco padre Bruno da sempre perché sono nato nel suo paese
d’origine, Roveredo in Piano, un abitato tranquillo nella campagna pordenonese.
Per noi del paese è come se non fosse mai partito. Anche dopo 52 anni di
Colombia era con noi, ogni momento. Lo amavamo tutti. E lui era riuscito a
farci sentire parte del suo mondo. Per questo nel 2012 sono andato una prima
volta nel Caquetá: per passare qualche settimana con il «nostro missionario» e
conoscerlo da vicino.

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Da quel primo assaggio nel 2012, è nata in me la
voglia di sapere di più, di conoscere e condividere quanto desideravo scoprire
sull’avventura missionaria della Consolata in Caquetá. Volevo scrivere della
storia corale di quella missione sui fiumi e nella foresta.

Incoraggiato
da padre Bruno, sono tornato in Caquetá per raccogliere materiale, libri,
documenti e testimonianze intervistando uomini e donne, missionari e non, che
hanno condiviso con padre Bruno più di cinquant’anni d’impegno per il prossimo
in una terra di frontiera di grandi speranze e contraddizioni.

Per
fare tutto questo, ho iniziato a vivere con padre Bruno nella parrocchia del
Torasso, a Florencia, la capitale della regione del Caquetà, la città che il 26
aprile 1952 aveva accolto il primo vescovo della Consolata in Colombia,
l’indimenticabile mons. Antonio Maria Torasso (1914-1960).

Florencia
è una città che vive grazie all’infaticabile opera dei missionari della
Consolata, che hanno plasmato queste regioni, le hanno portate al loro sviluppo
attuale, lavorando a tutto tondo nel sociale, nell’istruzione, nella sanità e
nello spirituale, facendo «il bene, bene» come esigeva il beato Allamano,
fondatore dell’Istituto. E vi assicuro che là il bene è stato fatto davvero
bene. Non lo dico io. Lo dice la riconoscenza della gente, l’affetto verso i
missionari; lo diceva, non a parole, la figura di padre Bruno: con i fatti, il
comportamento, le azioni, il suo spirito, il suo impegno, dal giorno del suo
arrivo fino ai suoi ultimi passi.

Vivendo
a Florencia non avrei mai pensato che avrei condiviso con padre Bruno i suoi
ultimi sei mesi di vita. Per me, che ora scrivo cercando di trattenere
l’emozione, era stato preparato un disegno più grande di quello per il quale
pensavo di essere partito. In Colombia si dice: «Diós sabe como hace sús cosas»
(Dio sa come fa le sue cose).

Padre
Bruno ha lasciato questo mondo e il suo Caquetá il 16 aprile 2014, mercoledì
santo. La sua morte è stata repentina e inaspettata perché aveva una salute di
ferro, era un uomo fortissimo, di quelli che non si vedono più. «È finita la
fabbrica», diceva quando la mia salute zoppicava nell’adattarsi all’ambiente
tropicale così diverso dal nostro. Ci ha lasciati per un infarto diabetico, ma
fino a poco prima stava bene.

E non
solo stava bene, ma continuava a darmi esempio di come bisogna essere «prima
santi e poi missionari», sempre secondo i dettami lasciati dal beato Giuseppe
Allamano.

Quell’ultima sera, prima della corsa all’ospedale:
«Alberto – mi ha detto -, credo di essermi stancato troppo. Pur non sentendomi
in forze ho celebrato la messa, in latino, più di un’ora nella cappella, poi ho
recitato tutto il breviario e infine ho letto un lungo articolo sulla nostra
Chiesa».

Questo
era padre Bruno, come è stato detto alle sue esequie: «Un uomo di Dio, un uomo
della Chiesa, un uomo della gente».

Dal
giorno della sua ordinazione, il 18 marzo 1961, vigilia della festa dell’amato
San Giuseppe, non aveva trascurato neppure un giorno la celebrazione della
messa e la recita del breviario. Era da lì che traeva la sua forza, lì temprava
il suo spirito. Grazie a quel supporto quotidiano era riuscito a superare tutte
le difficoltà della missione, come la mancanza della pace nelle regioni
colombiane in cui ha lavorato, gli assassinii, i problemi sociali. Lui non solo
aveva costruito scuole e chiese, ma aveva contribuito a porre le basi di una
società più fratea. Aveva superato tutto grazie a fondamenta solide: l’amore
per Dio e per la Chiesa, che diventavano amore incondizionato e gratuito per la
gente. Era questo che, agli occhi di uno come me, lo elevava sopra gli altri,
lo rendeva un grande, pur nella sua estrema umiltà.

Già due anni fa mi aveva stupito l’amore che la
gente comune aveva per padre Bruno, l’infinita riconoscenza di generazioni di
persone che lo fermavano in ogni strada per ringraziarlo, per salutarlo, per
chiedere una sua benedizione. Nei sei mesi con lui ho capito il perché di tale
amore.

Padre
Bruno era instancabile, era sempre disponibile per tutti, chiunque venisse al
Torasso con qualsiasi tipo di richiesta era sempre accolto e sostenuto dal suo
sorriso. Era sempre di buon umore e lo trasmetteva agli altri. Anche questo
elemento faceva parte della sua forza. Pur avendo ottantadue anni, si svegliava
ogni mattina alle 4.30 e, dopo un’ora di preghiera, andava all’ospedale per
celebrare la messa e visitare tutti i malati. Mai, in sei mesi, l’ho sentito
dire una volta che era stanco.

Così padre Bruno ha fatto per quasi 52 anni, da
quel 15 novembre 1962 nel quale era arrivato a Florencia, nel suo Caquetá.

Come
hanno detto in moltissimi: mezzo secolo di missione nel quale non si è mai
risparmiato, nel quale ha percorso in lungo e in largo la natura selvaggia del
Sud della Colombia, a piedi, a cavallo, in barca, per raggiungere anche i più
lontani, gli ultimi. Parroco in quasi tutti i centri abitati del Caquetá,
fondatore di città, paesi e di innumerevoli chiese e cappelle. Missionario
vero. L’aveva nel sangue la passione per la missione, una passione che
alimentava a ogni Eucaristia.

L’amore
della gente si è manifestato in modo folgorante nei giorni in cui padre Bruno è
tornato al Padre. Sono stati giorni in cui il cordoglio e l’affetto avvolgevano
chiunque e si potevano toccare, giorni in cui le chiese non riuscivano a
contenere le persone, tutte con gli occhi lucidi carichi di stima e
riconoscenza.

È stato davvero emozionante ed edificante partecipare a
quei gesti di affetto tributati da gente di ogni età e ceto a colui che ha
guidato e sorretto il loro cammino per più di cinquant’anni, consumando se
stesso fino alla fine. Che bello vedere come il seme da lui piantato abbia
fruttificato rigogliosamente e si sia moltiplicato nella gente di quelle
regioni. Che bello aver già visto nascere, in nome di padre Bruno, delle
fondazioni per l’aiuto dei poveri, degli ammalati e dei più bisognosi, i suoi
prediletti che ora potranno continuare a ricevere un sostegno proprio grazie
alle persone formate da lui alla buona vita del Vangelo.

Ho avuto il dono di vivere tutto questo in prima
persona. Andato laggiù per frugare nella sua vita, scoprire il segreto della
sua passione missionaria, mi sono trovato ad accompagnarlo alla sua ultima
tappa e a dover rappresentare anche la sua famiglia e il paese che, a causa
della morte così inaspettata, non hanno potuto essere presenti. Ed ero lì non
solo per condividere il dolore di chi lo aveva perso, ma anche la gioia di chi
ha avuto la possibilità di conoscerlo, di conoscere, come dicevano tutti, «un
Santo». Tutti coloro per i quali ha donato se stesso dicono e ridicono che è un
santo.

Padre
Bruno non è stato soltanto un grande missionario, è stato un uomo esemplare per
i valori che viveva con forza e trasmetteva con la testimonianza, per l’impegno
che metteva in ogni singola cosa, per la totale gratuità di ogni suo gesto
rivolto agli altri, per l’elevatezza della sua spiritualità, per la sua
purezza, la sua rettitudine.

Lla sua forza aveva basi solidissime, e padre
Bruno me l’ha dimostrato fino all’ultimo, quando, nella corsa in taxi verso
l’ospedale dopo il malore, mi ha sussurrato le sue ultime parole: «Sono gli
ultimi rantoli prima della morte», rivelatrici della sua intima consapevolezza,
tranquillità, serenità e dell’assenza di ogni timore. Era pronto a passare a
quella vita cui, mettendoci tutto il suo impegno, aveva anelato per
ottant’anni.

In
quell’occasione mi è diventato chiaro un altro episodio vissuto in Caquetá. Era
Natale del 2013. Uscivo da casa per andare in chiesa a festeggiare la nascita
di Gesù. Ero contento perché avevo appena ricevuto la bella notizia che la
moglie di un mio carissimo amico aspettava una bambina. Appena fuori mi hanno
chiamato le suore: una di loro si era sentita male ed era morta, lì, di colpo.
Allora sono corso a chiamare padre Bruno che è arrivato per impartire l’ultimo
sacramento. Io mi sentivo stranito perché in pochi secondi ero passato dalla
notizia di una nascita a quella di una morte. Mi sono poi confidato con padre
Bruno, e lui mi ha detto: «Caro Alberto, non è come la vedi tu. Oggi hai
assistito a due nascite: una per questo mondo, una per l’altro».

Così
padre Bruno vedeva la morte, e anche la propria. Per questo era sereno, pronto,
in pace. Lui stava per nascere nuovamente fra le braccia del Dio che aveva
tanto amato, teso a raggiungere la Consolata e San Giuseppe che l’avevano
protetto nelle sue mille avventure, come i suoi genitori che, non a caso, si
chiamavano Giuseppe e Maria.

Nel
periodo di Pasqua ho scoperto quindi che quelle «nascite» di Natale erano per
me solo una preparazione a ciò che avrei dovuto affrontare durante la Settimana
Santa. Quello che avevo iniziato a capire allora, adesso è diventato più
chiaro.

Padre Bruno Del Piero giace a Cartagena del Chairá,
paese di cui è stato cofondatore, alla base della croce che egli stesso aveva
costruito a lato della cappella del
cimitero. Come è stato detto nei giorni della sua «seconda nascita», nel Caquetá
sono certi che dalla tomba di padre Bruno fioriranno vocazioni, che quel
sepolcro si convertirà in un luogo di pellegrinaggio. Ed è già così. Da ogni
parte migliaia di persone continuano ad arrivare per ringraziare padre Bruno
per tutto quello che ha donato, fino all’ultimo, fino al regalo estremo del suo
corpo affidato alla terra su cui ha fatto nascere e crescere per cinquant’anni
chiese, paesi, persone. Perché la vita, la vera Vita, continui.

Alberto Cancian

Tags: Colombia, missionari, IMC, Caqueta

Alberto Cancian




Tutti pazzi per il mobile

Inchiesta «mobile money» – Denaro virtuale / 3


Uno dei paesi più poveri del mondo. Privo, quasi, di
risorse. Un popolo tenace e ingegnoso. Forse perché nei secoli ha dovuto
resistere a un clima ostile. Alfabetizzati e non, i Burkinabè sono molto
ricettivi alle nuove tecnologie.

Così, i servizi finanziari su telefono
cellulare hanno avuto un successo insperato. Anche per gli addetti ai lavori. Scopriamo
perché.

Ouagadougou. Roland Ouedraogo è un modesto falegname burkinabè. Il suo atelier si affaccia su una delle tante polverose vie del quartiere «sécteur 29» della capitale. Zona periferica in continua espansione, perché Ouaga – come viene chiamata comunemente la capitale – si allarga a macchia d’olio, non avendo barriere naturali intorno a sé. Roland fa lavorare due ragazzi che imparano il mestiere. Ha moglie e tre figli ed è molto attivo nella sua parrocchia. Dopo aver passato un periodo di crisi economica, è riuscito ad avere una buona commessa per rifare le porte di un grande albergo della città. In passato, ci dice, aveva un conto alla Cassa popolare (una banca di prossimità), ma poi lo ha prosciugato e non è più riuscito a risparmiare.
Ma adesso gli affari vanno meglio. «Ho sentito parlare di Airtel Money e mi interessa sapee di più. Credo che per il mio lavoro possa essere utile. Mi capita di andare a lavorare in un cantiere lontano dalla falegnameria e di avere bisogno di mandare soldi ai miei aiutanti rimasti all’atelier per comprare qualche pezzo. Oppure viceversa se sono io ad avere bisogno di qualcosa».
Airtel Money è il prodotto di mobile banking di Airtel Burkina, una delle tre compagnie telefoniche presenti nel paese.
Continua Roland: «L’ho visto fare a chi lavora nelle miniere d’oro. Mandano dei soldi ai loro collaboratori oppure alle famiglie. Qui in capitale molti amici e colleghi hanno già aperto il conto mobile. Un mio amico è andato ad Airtel. Gli hanno spiegato come fare. All’inizio era un po’ complicato, poi ha capito il meccanismo ed è stato tutto più facile. Voglio andare a informarmi».

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Marco Bello e Gianluca Iazzolino




stupri, omicidi, violenze senza fine: donna è colpa tua

Negli ultimi mesi sui media inteazionali c’è stato uno
stillicidio di notizie su stupri, omicidi e orrori ai danni di bambine e donne.
Sistemi patriarcali, maschilismo, sottomissione: il fenomeno ha radici
profonde. In India come in molti altri paesi. Una realtà di violenza che va
condannata senza però farsi fuorviare dal sensazionalismo giornalistico e dagli
stereotipi. E?magari andando a leggere le statistiche.?Secondo le quali…

Si racconta che Gandhi abbia detto che si può
giudicare una società dal modo in cui essa tratta gli animali. Pandit
Jawaharlal Nehru, il primo presidente dell’India, nonché amico dello stesso
Gandhi, aggiunse, anni dopo, che il livello di civiltà di una nazione si pesa
misurando i diritti che questa riconosce alle donne.

Se
dovessimo parametrare l’evoluzione della società indiana secondo i criteri
proposti dai suoi due più illustri fondatori il risultato sarebbe decisamente
negativo. Nonostante da più parti si continui a descrivere la nazione asiatica
come la più grande democrazia al mondo, il rapporto «The Rise of the South:
Human Progress in a Diverse World», redatto nel 2013 dell’Undp (United
Nations Development Programme
), ha posto l’India al 136° posto su 186
nazioni nella classifica dell’indice dello sviluppo umano.

Particolarmente
allarmante è la condizione della donna; in questi ultimi anni nelle tre nazioni
nate dal retaggio del colonialismo britannico – India, Pakistan e Bangladesh –
i casi di violenza nei confronti del sesso femminile si sono moltiplicati.

Le complicità della polizia

Attacchi
con acido, violenze, stupri e omicidi hanno attirato l’attenzione dei media
inteazionali, mentre le dichiarazioni misogine di molti politici indiani,
pakistani e bengalesi, sommate alla complicità della polizia con i criminali,
hanno dato alle notizie quel tocco di licenziosità sufficiente a trasformarle
in sensazionalismi di largo seguito conditi di pettegolezzi e stereotipi.

In
Italia, alcune testate giornalistiche si sono lanciate in iperboli incredibili
per agganciarsi alla vicenda dei marò dipingendo l’intera classe politica
indiana, e a volte la stessa cultura, in termini dispregiativi.

Se ne
è parlato con clamore soltanto nei mesi scorsi, eppure la violenza contro le
donne non è un fenomeno nuovo nella società indiana. Anzi, si potrebbe dire
che, da qualche anno a questa parte, l’India ha cominciato a strappare qualche
velo che nascondeva agli occhi della nazione un problema di cui tutti erano al
corrente ma di cui nessuno parlava. E, forse proprio per questa apertura
sociale e l’accresciuto interesse dei media, è scoppiato il «fenomeno» stupri:
non ce ne sono di più, ma se ne parla di più.

In
realtà, la prima grande svolta nella visione della violenza sulle donne la si
ebbe già nel 1972 quando un’adolescente di 14-16 anni di nome Mathura venne
violentata da due poliziotti nel villaggio di Desaiganj, nello stato del
Maharashtra. Mathura, oltre a essere orfana di entrambi i genitori, era una adivasi1, il che la poneva in una posizione di
assoluta inferiorità nella complicata gerarchia castale indiana. Per mantenere
il fratello maggiore si prodigava come domestica presso una casa privata dove
incontrò Ashoka, nipote della padrona, il quale la chiese in sposa. Avrebbe
potuto essere una normale storia d’amore se il fratello di Mathura non si fosse
opposto al matrimonio e, per impedirlo, non avesse denunciato Ashoka per aver
rapito la sorella. La questione venne chiarita senza problemi presso il locale
commissariato, ma quando tutti i protagonisti della vicenda se ne stavano
tornando a casa, i gendarmi trovarono una scusa per trattenere Mathura. E fu lì,
proprio tra le mura che avrebbero dovuto difendere la legge, che la ragazza subì
gli stupri dei due poliziotti in servizio.

Nonostante
la giovane età e la sua condizione sociale, Mathura fece una cosa che nessuno,
prima d’allora in India, aveva osato fare: denunciò i suoi stupratori.

Il
processo fu, come ci si poteva aspettare, una farsa: i due agenti vennero
assolti perché la corte non credette a Mathura. Troppo giovane, povera e
illetterata perché le sue parole potessero avere sufficiente autorevolezza.
Inoltre la sentenza di assoluzione stabiliva che la ragazza «era già abituata a
rapporti sessuali» e, di conseguenza, non vi sarebbe stata alcuna violenza
perché la vittima non era illibata.

Il
verdetto passò inosservato per diversi anni fino a quando alcuni professori
dell’Università di Delhi lo contestarono gettando le basi per una prima riforma
di legge sullo stupro varata nel 1983, secondo cui l’atto sessuale senza il
consenso della donna è un crimine.

La
norma rivoluzionò il modo di porsi delle donne indiane all’interno della società:
l’attivista per i diritti femminili Lotika Sarkar fondò il Forum Against
Rape
(Foro contro lo stupro) e il Centre for Women’s Development Studies
(Centro studi per lo sviluppo delle donne), due istituzioni che negli anni
seguenti sarebbero stati dei fari cui i movimenti di emancipazione femminile
avrebbero guardato.

Le cuginette dalit

Mathura
venne subito dimenticata ed oggi vive con il marito e i suoi figli in un
villaggio poco distante da Desaiganj, pressoché ignara di quello che il suo
gesto ha significato per l’India. È vero, come afferma la giornalista e
scrittrice Nilanjana S. Roy in un articolo apparso sul quotidiano The Hindu,
che «nessuna legge al mondo ha mai fermato gli stupri, così come nessuna legge
al mondo ha mai fermato gli assassini. Ma leggi migliori, assieme a cambiamenti
politici e sociali hanno contribuito a far diminuire sia le violenze sessuali e
gli omicidi in diversi paesi».

Nella
vita pratica delle donne indiane nulla o quasi cambiò sino a quando,
quarant’anni più tardi, a Delhi, un altro fatto sconvolse l’opinione pubblica
femminile. Il 16 dicembre 2012 Jyoti Singh Pandey, una studentessa di medicina
di 23 anni, dopo aver visto il film Storia di Pi al centro commerciale
Select Citywalk di Delhi salì su un autobus con il suo ragazzo per tornare a
casa. Con loro viaggiavano cinque persone, tutte amiche dell’autista e
ubriache. A un certo punto l’automezzo si fermò e, immobilizzato il ragazzo, a
tuo i sei amici seviziarono Jyoti. Una volta appagati i loro piaceri,
lasciarono le loro vittime agonizzanti in mezzo alla strada. Jyoti morì dopo
due settimane a Singapore, dove nel frattempo era stata trasferita, a causa
delle ferite infertele durante lo stupro.

Fu la
classica goccia che fece traboccare il vaso: in poche ore migliaia di persone
scesero in piazza per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla condizione della
donna in India. Anche in questa occasione le forze di polizia dimostrarono la
loro insensibilità: anziché limitarsi a controllare che tutto si svolgesse in
modo pacifico (come in effetti fu), improvvisamente cominciarono a contrastare
i manifestanti con brutalità e spavalderia, giungendo anche a manganellare con
violenza le stesse donne.

La
stessa brutalità e arroganza è stata usata, in modo più drammatico, a Katra
Sadatganj, un villaggio dell’India Nord orientale dove, nel maggio 2014, due
cugine dalit di 14 e 15 anni sono state trovate impiccate a un albero
dopo essere state ripetutamente violentate. Anche in questo caso, tra le sette
persone accusate, vi sono due poliziotti.

In
una intervista alla Bbc la scrittrice Arundhaty Roy afferma che «esercito e
polizia utilizzano regolarmente lo stupro come arma contro la popolazione nel
Chhattisgarh, Kashmir, Manipur».

E
quando le forze dell’ordine non sono direttamente coinvolte negli atti di maltrattamento,
spesso le persone che cercano di sporgere denuncia sono «invitate» a desistere,
tanto che nell’aprile 2013 la Commonwealth Human Right Initiative
(Chri), una Ong che da tempo chiede una riforma della polizia indiana, ha
denunciato la sua «mancanza di una risposta verso le vittime degli stupri».

La
morte di Jyoti, soprannominata dai media indiani e inteazionali Nirbhaya
(impavida) o Damini (fulmine) ha scatenato quello che il caso di Mathura
era riuscita a fare solo in parte: la condanna nazionale di una pratica che va
ben oltre il mero crimine «accidentale», come lo ha chiamato Ramsevak Paikra,
ministro per la Legge e l’Ordine dello stato indiano di Chhattisgarh.

Un sistema patriarcale e misogino

Cosa è
cambiato in questi quarant’anni nella società indiana e, soprattutto, come mai
proprio il caso di Nirbhaya, certamente non isolato, ha creato tale scompiglio
nell’opinione pubblica nazionale e mondiale?

Partendo
dallo stupro di Mathura e arrivando fino a oggi, la donna, seppur con difficoltà,
si è emancipata tra i gangli della società indiana, ma la sua indipendenza non è
ancora stata accettata dall’uomo. Sempre Arundhaty Roy spiega che «Viviamo in
una nazione in cui la maggior parte della popolazione vive in un sistema
feudale e patriarcale retaggio del passato, dove le donne dalit sono
stuprate da uomini delle caste più alte semplicemente perché viene ritenuto un
diritto di questi ultimi. Per contro viviamo in un sistema in cui le donne
stanno cambiando più velocemente degli uomini: entrano in massa nei posti di
lavoro, hanno più potere, stanno modificando il modo di vestire, di porsi di
fronte all’uomo, di guardarlo, le loro aspettative. Questi cambiamenti sociali
creano un nuovo stimolo di violenza contro le donne da parte di chi vorrebbe
che tutto restasse immobile».

«Il
sistema capitalista ha avuto il merito di contribuire a elevare la posizione
della donna in India» afferma Rajesh Tembarai Krishnamachari, scrittore e
analista dello sviluppo sociale ed economico dell’India e Pakistan. Stando a
quanto sostiene Krishnamachari «l’avvento del capitalismo ha permesso alle
donne di lavorare accanto all’uomo nelle fabbriche al fine di aumentare la
produzione. Questo ha incoraggiato l’intero sistema a ricercare una sorta di
equità tra i due sessi che si riflette sia nel sistema legislativo, con
l’approvazione di leggi che pongono uomo e donna sullo stesso piano, sia nel
sistema sociale, che oggi permette alla donna di entrare nelle fabbriche e
nell’apparato produttivo contribuendo alle finanze familiari. È anche vero, però,
che con l’avanzare dell’economia di mercato e della necessità di aumentare le
vendite dei prodotti, il capitalismo deve cercare nuove forme di
sollecitazioni. La pubblicità è, quindi, diventata sessualmente più allusiva,
più provocante, portando a una radicalizzazione del maschilismo nella società».
E alla sottomissione della donna, aggiungeremmo noi.

Secondo
l’attrice Leeza Mangaldas, conosciuta a Delhi nel 2012 quando, assieme a Samyak
Chakrabarty, fondò il forum di discussione Evoke India, le responsabilità
di questa sottomissione sono da imputare anche alle donne stesse: «Siamo noi
che uccidiamo le nostre figlie perché femmine, siamo noi che accusiamo le nuore
se partoriscono femmine anziché maschi e siamo ancora noi che disapproviamo,
ancora prima degli uomini, le donne che tentano di rendersi attraenti. Gli
uomini indiani sono misogini; le donne indiane provano disgusto per se stesse».

E
allora bisognerebbe rivalutare le parole di Marx quando, assieme a Engel,
scriveva che «Non si deve dimenticare che [le] idilliache comunità di
villaggio, sebbene possano sembrare innocue, sono sempre state la solida base
del dispotismo orientale […] contaminate dalla divisione in caste e dalla
schiavitù».

Una
cosa è certa: se Jyoti Singh Pandey fosse stata stuprata ed uccisa in uno
sperduto villaggio di campagna, nessuno si sarebbe indignato. La storia di
Jyoti – precedente la sua violenza – e della sua famiglia di origine contadina,
trasferitasi a Delhi in cerca di fortuna, illustra la speranza di riscatto per
milioni di indiani. Il padre che lavorava come facchino all’aeroporto di Delhi;
Jyoti che, per permettere anche ai suoi fratelli di continuare gli studi
offriva ripetizioni ai ragazzi del quartiere in cui abitava, erano il perfetto
esempio delle più alte aspirazioni della gran parte degli indiani.

Ci si
dovrebbe chiedere come mai in una società dove la violenza tra le mura di casa è
così frequente (una statistica risalente al 2007 afferma che il 54% degli
adolescenti ha assistito a violenze in famiglia), ci si scandalizzi solo quando
le donne sono stuprate o umiliate per strada.

Tra induismo e Bollywood

Basterebbe
guardare a un aspetto della mitologia e della religione indiana, quello che
valorizza la femminilità, per designare il ruolo fondamentale della donna.

Nella
cultura religiosa indiana il potere femminile shakti è l’unico in grado
di alimentare l’energia – al tempo stesso distruttiva e rigeneratrice – di
Shiva. Senza la shakti anche Shiva diviene un cadavere. Il Gange, il
sacro fiume indiano, in lingua hindi è la Ganga, al femminile. Infine, molti
nomi degli eroi mitologici includono il nome della propria madre, retaggio
delle primordiali società matrilineari: così Radhakrishna significa che Krishna
è figlio di Radha, così come Sitaram indica che Ram è figlio di Sita.

Detto
questo, la cultura indiana odiea propone come unico esempio virtuoso per la
donna l’immagine mitologica di Sita, la sposa di Rama, succube e pronta a
perdonare ogni intemperanza del marito sino a immolarsi per il suo amore.

Questo
filone è quello più seguito dall’industria cinematografica di Bollywood che,
con più di mille film sfoati ogni anno, è la maggiore al mondo. La
responsabilità dei produttori e degli attori di Bollywood è, chiaramente,
enorme nel raccontare il ruolo che la donna deve rivestire nella società
indiana.

Qualcosa
sta, finalmente, cambiando: l’All India Backhod, un collettivo di attori
e registi indiani, ha voluto dare una sterzata significativa producendo un
divertente filmato, diretto da Ashwin Setty, dal titolo eloquente Rape: It’s
Your Fault
(Stupro: è colpa tua), che ha superato le 3.700.000
visualizzazioni su You Tube2. In
esso l’attrice Kalki Koechlin spiega ironicamente come lo stupro sia sempre
colpa delle donne «perché gli uomini hanno gli occhi» e un «abbigliamento
provocante potrebbe spingere a uno stupro». Seguono alcuni esempi di
abbigliamento inverecondo che, partendo da maglietta senza maniche e
pantaloncini, giungono fino a una tuta spaziale, inevitabilmente anch’essa
tentatrice. Il tutto, sempre nell’intelligente ironia del filmato,
dimostrerebbe che la colpa degli stupri è da attribuirsi esclusivamente alle
donne perché «senza donne non ci sarebbero stupri» e, se è vero che gli stupri
sono commessi dagli uomini, è altrettanto vero che gli uomini sono nati da
donne. Infine c’è un attacco alla polizia: «Se sei stanca di essere umiliata
dagli stupratori, rivolgiti ai poliziotti e potrai essere umiliata da loro».

In
una intervista Kalki Koechlin, che da bambina ha essa stessa subito uno stupro,
afferma che le donne devono sentirsi libere di essere loro stesse all’interno
di una società che sta cambiando: «Dobbiamo essere pronti culturalmente ad
accettare le donne indiane di oggi le quali non sono le donne che la maggior
parte degli uomini indiani ha visto crescere in casa loro. Le donne di questa
generazione potrebbero non saper cucinare, potrebbero volersi rendere
indipendenti economicamente, potrebbero voler scegliere il loro marito, oppure
rimanere addirittura nubili».

Più
facile a dirsi che a farsi. Anzi, a pensarci, non è facile neppure a dirsi.

Parole indecenti

Dopo
gli ultimi casi di stupro la classe politica indiana si è esibita in una serie
impressionante e vergognosa di affermazioni. A cominciare da Manohar Lal
Sharma, uno degli avvocati degli uomini accusati dello stupro e dell’omicidio
di Nirbhaya, che il 10 gennaio 2013 ebbe a dire di non aver «mai visto un solo
incidente o esempio di stupro in cui sia stata coinvolta una donna rispettabile».
Altrettanto indecenti sono state le parole di Abu Asim Azmi, presidente del Maharashtra
Samajwadi Party
, che dopo essersi pronunciato a favore della pena di morte
per gli stupratori, ha detto che «dovrebbe esistere una legge che proibisca
alle donne di vestire abiti succinti e girare con ragazzi che non siano loro
parenti». E che dire dell’agghiacciante sentenza dell’avvocato A.P.Singh: «Se
mia figlia dovesse avere rapporti prematrimoniali e girare con il suo ragazzo
di notte, io stesso la brucerei viva. Non posso permettere che accada questo e
invito tutti i genitori ad adottare la stessa mia attitudine nei confronti
delle loro figlie».

Terminiamo
con le parole di un alto rappresentante del parlamento indiano: Abhijit
Mukherjee, figlio del presidente dell’India, carica che è stata ricoperta da
quel Jawaharlal Nehru che citavamo all’inizio dell’articolo. Nel difendere la
brutale repressione della polizia nei confronti dei manifestanti dopo la morte
di Jyoti, Mukherjee ebbe a dire che le donne che protestavano erano donne «dipinte»
che vanno in discoteca, con scarsa conoscenza della realtà sociale e che
seguono la moda di fare veglie al lume di candela… Nonostante le critiche
piovute su di lui, nelle recenti
elezioni indiane Abhijit Mukherjee è stato rieletto.

I numeri e le sorprese

Alla
fine di tutto, è proprio vero che l’India descritta dai media occidentali è
diventata così pericolosa tanto da consigliare alle donne di non aggirarsi da
sole per le strade?

Le
cifre, per quello che possono rappresentare, pare dicano il contrario. Da uno
studio condotto dalla Thomson Reuters Foundation, in India 2 donne su
100.000 vengono violentate, contro i 26,9 stupri su 100.000 commessi negli
Stati Uniti. Anche tenendo conto del fatto che solo il 10% delle violenze
perpetrate ai danni delle donne indiane viene denunciato (contro il 26-46%
negli Usa), i tassi di abusi sessuali tra i due paesi si equivalgono. Bisogna,
però, tener conto che secondo la legge indiana non vi è violenza sessuale se
non si è consumato l’atto. Nel 2011 (ultimo dato disponibile) il National
Crime Records Bureau
ha indicato che nella nazione – in cui, non bisogna
dimenticarlo, vivono un miliardo e 200 milioni di persone – vi sarebbero stati
25.000 stupri, 45.000 tentati stupri e 106.000 violenze contro le donne in
famiglia3. Il
problema non sono tanto i numeri, ma il fatto che, ai 25.000 stupri
regolarmente denunciati alle autorità, solo per il 26% è seguita una condanna
degli imputati (contro il 50% negli Usa). Vi è, quindi, una forte disillusione
nei confronti delle istituzioni.

Forse
è proprio questo il punto su cui lavorare per poter cambiare un atteggiamento
sociale.

Piergiorgio?Pescali
Note

1 – Termine con cui in India
si indicano gli appartenenti ai popoli originari (tribù indigene) del paese.
2 – L’indirizzo del
filmato: http://www.youtube.com/watch?v=8hC0Ng_ajpY.
3 – Il sito: www.ncrb.nic.in.

__________________________

DAL PAKISTAN – Una coppia di giovani sposi, Sajjad Ahmed (27
anni) e Mafia Bibi (23), sono stati decapitati da quattro familiari della
ragazza per aver infangato l’onore della famiglia. Si erano sposati per amore (Dawn, quotidiano pakistano, 30 giugno
2014).

 

Errata corrige:
Questa foto rappresenta Snia Gandhi con l’ex Primo Ministro indiano Manmohan Singh, e non con Narendra Modi (nella foto qui sotto), come scritto nella didascalia di pag. 12 della rivista.
Ce ne scusiamo coi lettori.

Tags: violenza di genere, stupro, omicidio, induismo, India,
Pakistan, Bangladesh, caste indiane, Arundhati Roy, Dalit

Piergiorgio Pescali




Kanchin: Fango, mine ed eroina

Reportage da un fronte sconosciuto.


In una striscia di terra sul confine con lo Yunnan cinese si
fronteggiano gli indipendentisti kachin e l’esercito birmano. Una sporca guerra
di logoramento che produce morti e profughi. Oltre a corpi mutilati dalle mine
o distrutti dall’eroina. Quello tra Kachin e governo birmano è uno dei tanti
conflitti dimenticati che si combattono nelle retrovie del mondo.

Tutte le foto di questo reportage sono di Nicola Longobardi

Maijayang. La globalizzazione è
un ripetitore di China Mobile appena oltre il fiume, a poche decine di
metri di distanza. Di là strade asfaltate e dighe, una macchina che sfila
tranquillamente lungo le rive del Ta Paing; di qua la pista irregolare e fangosa
attraverso le montagne, avamposti del Kachin Independent Army (Kia) e
campi profughi che appaiono in successione tra Maijayang (Mai Ja Yang) e Laiza,
le due città di frontiera ancora nelle mani dei Kachin (Jinghpo, Singpho),
gruppo etnico a maggioranza cristiana. La prima linea sta circa dieci
chilometri a Ovest.

La posta in gioco

Questa
guerra dimenticata tra ribelli kachin ed esercito birmano entra nel suo terzo
anno. Da inizio 2014 ha avuto una recrudescenza, con un susseguirsi di attacchi
alle postazioni del Kia, che risponde con tecniche di guerriglia. Intanto
proseguono a fatica i colloqui di pace che, nelle intenzioni di Naypydaw (nome
della nuova capitale birmana), dovrebbero portare a un cessate il fuoco
generalizzato ma che tutti i gruppi indipendentisti, anche quelli che hanno già
deposto le armi, guardano con sospetto. Ad aprile, il censimento nazionale è
stato attivamente boicottato dalla Kachin Independence Organization
(Kio) e intanto la guerra prosegue.

Iniziato
nel 1961, terminato nel 1994, il conflitto è ricominciato il 9 giugno 2011,
dopo 17 anni di pace. Si è detto che la molla scatenante sia stato il rifiuto
dei Kachin di trasformare l’esercito indipendentista in un corpo di guardie di
frontiera sotto il controllo centralizzato del Tatmadaw, l’esercito birmano. Ma
il primo attacco dei militari a una diga controllata dai Kachin, ha rivelato
che la posta in gioco è anche il controllo delle fonti energetiche e delle
materie prime. Non a caso, gli avamposti kachin sono spesso attaccati con la
scusa che essi coprano i contrabbandieri di legname che prendono la via della
Cina.

Il
che è pure vero. Carichi di tronchi d’albero, camion con targhe dello Yunnan –
la provincia cinese che confina a est con lo Stato Kachin – vanno su e giù per
le colline boscose a soli quindici chilometri da Maijayang. Qui, siamo in prima
linea.

Guerra di trincea e di mine

Il
tenente Hpau Jung Bawk Naw, 42 anni, è il comandante dell’avamposto kachin più
vicino alle linee birmane che si stagliano a soli settanta metri di distanza.
Il fronte ricorda le immagini della nostra Prima guerra mondiale, con trincee
che si fronteggiano anche per anni. Una mitragliatrice M18 è puntata verso il
nemico, mentre quindici soldati si aggirano stancamente tra le buche. In attesa
di qualcosa.

«Noi
teniamo la posizione, attendiamo ordini e buttiamo un occhio ai birmani. A
volte ci parliamo pure, con loro che stanno dall’altra parte, ma questo non si
può dire», racconta il tenente.

«Quando
sostituiscono tutti gli effettivi in prima linea, sappiamo che sta per
succedere qualcosa di grosso. Negli ultimi giorni, se ne vanno in giro
disarmati per l’accampamento, lasciano i fucili d’assalto a metri di distanza.
Vogliono farci credere che tutto è calmo, ma altrove hanno fatto lo stesso e
poi hanno attaccato improvvisamente. Nel gennaio 2013 hanno cercato di
conquistare il nostro avamposto, ma sono finiti sul campo minato. Noi piazziamo
mine in quantità industriale, così abbiamo avuto solo un ferito mentre loro
hanno contato centinaia di perdite. Non ci prepariamo in qualche modo speciale
perché molto semplicemente non abbiamo abbastanza armi. Ora stanno ammassando
truppe, lo si può capire dai bagliori metallici che si vedono su quel sentirnero
laggiù. Se attaccheranno, noi aspetteremo gli ordini e poi, in base a quelli,
ci ritireremo, ci difenderemo o ce ne staremo al riparo in trincea».

A
dispetto di quanto raccontato dal tenente Hpau, sugli ordigni sepolti ci
finiscono anche gli stessi soldati Kachin. «Ho 27 anni, sono un capo
guastatore, insegno ai ragazzi come mettere le mine. Il 20 giugno 2012, mentre
ne interravo una lungo la linea del fronte, ha cominciato a piovere. L’acqua ha
fatto qualche contatto e la mina è esplosa. Io mi sono ridotto così».

Il
soldato, attualmente in convalescenza presso l’ospedale militare di Maijayang, è
cieco, sordo da un orecchio, e ha perso alcune dita di entrambe le mani. «Sono
sposato e ho una figlia», dice. «Prima di arruolarmi nel Kia avevo una
fattoria. La vita all’ospedale militare è molto semplice: non faccio nulla, né
ho grandi speranze per il futuro. Passeggio qui in giro e aspetto».

Esercito versus guerriglia

È una
strana guerra: un mix di trincea e di guerriglia, in cui i soldati si feriscono
da soli mentre stanno semplicemente in attesa. Intanto, a poche decine di metri
dalla trincea, camion cinesi carichi di legno pregiato caracollano verso il
confine a Est.

La
sensazione di essere in una decadente «Apocalypse Now» dei nostri giorni si
accentua incontrando il capitano Maran Htorni Wa, 51 anni, stratega della prima
linea. Nel Kia è entrato nel 1979, 35 anni di vita militare e non se ne vede la
fine. Il suo compito è quello di mantenere il contatto con il comando e di dare
ordini in caso di attacco birmano. Lo troviamo in un avamposto appena dietro la
prima linea, mentre esce dalla sua capanna con gli occhi gonfi e visibilmente
ubriaco. Ha sei figli. In tempo di pace, con la moglie, disegna le uniformi del
Kia. Tutto il suo mondo ruota attorno all’esercito.

Le
forze Kachin appaiono inferiori alle truppe birmane. Eppure, secondo un recente
articolo del settimanale Jane’s Defense, «Hostage to History», il
Tatmadaw non ha la forza per vincere la guerra. Si legge: «Tra giugno 2011 e
l’inizio della campagna di Laiza, a metà dicembre 2012, almeno 5mila soldati
birmani sono morti nello Stato Kachin», nel tentativo di circondare il quartier
generale del Kia. Durante l’offensiva via terra e aria, sono stati anche messi
fuori combattimento «almeno due elicotteri e forse un velivolo ad ala fissa».

«E
per cosa?», chiede retoricamente il noto osservatore di cose birmane Bertil
Lintner: «La conquista di un paio di colline». Nel frattempo i ribelli del Kia
si ritirano velocemente, scompaiono nella foresta, e poi sono in grado di
riconquistare gli avamposti poco protetti attraverso tattiche di guerriglia
molto ben pianificata.

Civili o combattenti: la guerra non fa distinzioni

Per
le truppe birmane, diventa quindi più efficace una sorta di pulizia etnica che
consiste nell’aggressione di villaggi indifesi: uccidono, stuprano, torturano.

L’organizzazione
statunitense Inteational Human Rights Commission (Ihrc) ha appena
pubblicato un memorandum, nel quale si legge che «l’esercito birmano continua a
privilegiare i propri obiettivi militari rispetto alla protezione dei civili, e
lo fa anche attraverso politiche che implicano
attacchi diretti ai civili stessi». Secondo il documento, gli abusi
contro la popolazione sono parte di una strategia di «contro-insurrezione
centralmente pianificata», e allo stesso tempo esito apparentemente indesiderato
delle tecniche di guerriglia dei ribelli, che tendono «a confondere la linea di
demarcazione tra il civile e il combattente» (settimanale The Irrawaddy).

Questa
analisi sembra calzare a pennello per il Kia, un vero e proprio esercito
popolare in cui fin dall’adolescenza ogni uomo (e spesso anche donna) indossa
la mimetica e porta con sé un’arma, come il cosiddetto Ka-Ro-La, o «Kachin
Rocket Launcher», la modifica locale del fucile d’assalto M81 cinese, in grado
anche di lanciare granate.

Nkhum
Ja San, una giovane di 20 anni, proviene dal villaggio di Pa Namlim. «Il 16
novembre – racconta – l’allarme è suonato, l’esercito birmano stava arrivando.
Allora tutta la famiglia è andata a nascondersi, ma mio fratello 32enne ha
deciso di rimanere a casa perché sosteneva di non avere violato alcuna legge.
Nonostante mia madre gli dicesse di scappare. Quando siamo tornati al villaggio
un paio di giorni dopo, ho incontrato alcuni soldati del Kia che mi hanno detto
di avere trovato il corpo di un uomo con la gamba sinistra molto sottile. Ho
subito pensato che potesse essere lui, dato che aveva quell’handicap
[probabilmente poliomelite, ndr]. Avevo ragione. Indossava un’uniforme
del Kia e non aveva più il braccio sinistro e l’avambraccio destro».

La
soluzione politica non sembra all’orizzonte, anche se i colloqui di pace vanno
avanti. La proposta di un cessate il fuoco nazionale «è un diversivo», sostiene
Lintner. La questione principale è decidere se la Birmania debba trasformarsi
in uno stato unitario o in un’unione federale. «Di solito, prima si discute –
dice – e quando si trova un consenso è possibile sancire la tregua. Ma la
proposta del governo di “firmare ora e poi si vedrà” è una trappola. La
questione etnica birmana non può essere risolta in questo modo».

Tra fiumi di droga

Così
100mila sfollati si accalcano in una sorta di semisconosciuta «Striscia di Gaza»
che si estende lungo la frontiera cinese. Afflitti da una psicosi
dell’assediato, da un’esistenza quotidiana vissuta tra guerriglia e trincea e
da circostanze economiche gravemente destabilizzanti, mentre aspettano qualcosa
in un contesto di logoramento progressivo, i Kachin sono spinti talvolta
all’autodistruzione.

Se da
un lato si aggrappano alla loro fede cristiana, soprattutto battista ma anche
cattolica, dall’altro si abbandonano a false soluzioni che non fanno che
peggiorare le loro condizioni: ed ecco il diffuso consumo di eroina, che va di
pari passo con lo spaccio.

Secondo
padre Joseph Nbwi Naw, il prete cattolico di Laiza, la metà dei giovani kachin è
eroinomane. Non c’è modo di verificare questo dato, ma secondo l’ultimo
rapporto dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc),
in Birmania la coltivazione del papavero da oppio è in costante aumento dal
2006, in particolare nella tradizionale area di produzione dello Stato Shan –
quello a sud del territorio controllato dal Kio – ma anche in quello Kachin.
Almeno 300mila famiglie birmane vivono di questo business. La droga accede al
mercato mondiale dopo aver attraversato il Triangolo d’Oro (la zona di
produzione tra Myanmar, Laos e Thailandia, ndr) ed essere poi passata in
Thailandia e negli altri paesi del Sudest asiatico. Una parte dell’export va
invece in Cina e poi rimbalza in Birmania per l’uso locale, così il consumatore
deve solo attraversare un torrente o alcuni campi di canna da zucchero per
raggiungere il lato cinese e acquistare una dose da cinque yuan (meno di
un euro).

Secondo
il rapporto dell’Unodc, il conflitto favorisce la produzione di droga per tre
motivi. Primo: le difficili condizioni dell’economia di guerra costringono i
contadini a perseguire un reddito veloce e sicuro, cioè la coltivazione
dell’oppio. Secondo: i gruppi armati ribelli necessitano di fondi
immediatamente disponibili per l’acquisto di armi. Terzo: lo stesso governo
birmano incoraggia i gruppi paramilitari suoi alleati ad autofinanziarsi
attraverso il narcotraffico. È così che la droga va di pari passo con la
guerra.

Nei centri di riabilitazione

«Sono
entrato nell’esercito nel 1989. Nel 1998 ho disertato, poi ho fatto il
contadino. Ma quando la guerra è ricominciata, nel 2011, sono tornato
nell’esercito». A parlare è Lazing Htorni Shang, 43 anni, tossicomane,
spacciatore ed ex disertore dell’esercito kachin, attualmente detenuto nel
centro di riabilitazione di Maijayang. Qui, 53 persone tra drogati e pusher
stanno incollate una all’altra in celle di 16 metri quadrati: sono 12 o 13 per
ciascuna. «All’inizio bevevo solo alcolici – dice – poi ho cominciato a farmi
per via delle cattive compagnie. Compravo l’eroina a Loi Je, nel territorio
kachin occupato dai birmani. Quando uscirò di qui, toerò nel Kia. È un mio
dovere».

L’analogo
campo di riabilitazione di Laiza è gestito dal maggiore Hpandan Gam Ba, 47
anni, che

spiega
come funziona la politica di recupero/proibizione, comprensiva della promessa
salvifica della religione: «Diamo a tutti una Bibbia e, dopo cinque giorni di
trattamento con compresse di difenossilato [un oppiaceo sintetico, ndr]
che compriamo in Cina, li introduciamo alle attività di gruppo. Insegniamo loro
come coltivare le piante, allevare polli e fare giardinaggio, in modo che
abbiano qualche conoscenza utile per quando escono. Dal 2010, quando abbiamo
aperto il centro, più di mille persone sono passate di qui. Non solo Kachin. Ci
sono birmani di Yangon e cinesi. In definitiva, tutti quelli che acchiappiamo
nel nostro territorio. Siccome la nostra riabilitazione dura solo sei mesi,
alcuni cinesi vengono a farsi da questa parte del confine: se li prendono a
casa loro, si fanno almeno due anni. I nostri ospiti comprano droga soprattutto
in Cina, a volte li spiamo perfino con il binocolo. Ma la collaborazione con le
autorità cinesi è solo sulla carta. Capita che diamo loro tutte le prove per
arrestare qualche spacciatore che traffica sul loro lato, ma raramente fanno
qualcosa. La droga arriva soprattutto dallo Stato Shan e dal territorio Kachin»,
conferma.

Il fattore Cina

Il
gigante affamato al di là del fiume può apparire a volte il problema e a volte
la soluzione. Paga i Kachin per il legname e al tempo stesso dà il pretesto al
Tatmadaw per attaccare. Produce sia gli spacciatori sia le pillole per la
riabilitazione dei tossicomani. E molto di più.

Laiza,
la capitale della Kio, è una piccola città dove alla televisione si guardano i
programmi della Cctv, la televisione di stato cinese; si comunica con le reti
mobili di Pechino; si comprano sigarette Zhongnanhai, cioccolata, giocattoli
per bambini, e perfino riso e frutta made in China. Nel frattempo, quei
camion di legname continuano a fare rotta verso Est, placando la fame del
Drago, in un’osmosi inevitabile.

Ecco
cosa ne pensa Sumlut Gam, capo della delegazione del Kio ai colloqui di pace
con il governo birmano nonché ministro dell’Istruzione nel microstato kachin: «Siamo
in un tempo di guerra e la situazione economica è molto difficile. Avevamo una
centrale elettrica che rifoiva di energia perfino Mytkyna [l’ex capitale
Kachin ora controllata dai birmani, ndr] e in teoria potremmo ottenere
un profitto da questa attività e dalle tasse che raccogliamo per le miniere di
giada. Ma ora il governo prende di mira proprio queste fonti di reddito, quindi
tutto è bloccato. Ci resta solo l’agricoltura, che però non è sufficiente. Ed
ecco la Cina, questo vicino così importante. Loro non vogliono una guerra sul
confine, quindi è di vitale importanza non combattere qui e anche i birmani lo
sanno, astenendosi dall’attaccarci in questa striscia di terra. Grazie alla
Cina, il confine è sicuro».

Tradotto:
il Dragone ci tiene d’occhio e si aspetta di non sentire cadere uno spillo («Nessun
problema sui miei confini, signori»).

«Se
non procuriamo fastidi – continua Sumlut Gam – i cinesi rappresentano un
contributo di vitale importanza: acquistano le nostre materie prime e, non più
tardi di un mese fa, la loro Croce Rossa ci ha spedito il primo carico di aiuti
umanitari per i rifugiati».

In
passato, guardando in particolare all’Africa, molti osservatori hanno descritto
la sedicente strategia «win-win» cinese – cioè l’espansione commerciale del
Dragone che farebbe vincere (win) tutti – come una forma di imperialismo
economico in cui il vincitore finale è sempre Pechino, che arraffa diritti di
sfruttamento delle materie prime mentre si assicura uno sbocco di mercato per i
suoi prodotti di fascia bassa. L’altro vincitore sarebbero le élite locali, che
si riempiono le tasche di soldi cinesi debitamente stornati da investimenti
produttivi o dalla redistribuzione sociale.

Da
queste parti, oltre al legname, ci sono anche banane – la principale
piantagione di Laiza è di proprietà cinese e dà lavoro ad alcuni profughi del
campo – energia e un ridotto ma del tutto aperto mercato per i piccoli
rivenditori cinesi lungo il confine. E non vanno dimenticati i due grandi tubi
(gasdotto e oleodotto) che arrivano dal Golfo del Bengala, attraversano
l’intera Birmania, costeggiano il territorio kachin e raggiungono la provincia
cinese dello Yunnan.

La
terra dei Kachin è troppo vicina e Pechino deve tenere conto di tutte le parti
in causa, creando così una nuova strategia «win-win» alle porte di casa.

Pechino
sta quindi mettendo in atto un difficile esercizio di equilibrismo per non
scontentare due partner fondamentali: da una parte i Kachin (un milione dei quali
già vive sul lato cinese del confine), dall’altra il governo birmano, che
altrimenti correrebbe il rischio di cedere sempre più al fascino
dell’Occidente. Tuttavia, dato che i due attori sono in guerra tra loro,
trovare un’alchimia adeguata non è affatto facile.

Amore e odio

Ospedale
militare di Laiza. Si fa chiamare «Harry», ha 30 anni e tutti i giorni va a
passeggiare con la sua gamba artificiale in montagna. Prima, da civile,
lavorava in una miniera d’oro. È stato ferito da un proiettile di mortaio, ma
tiene duro, lui, vivo e vegeto su per la montagne. La sua protesi è prodotta
dalla Jiazhi, una società sino-tedesca dello Yunnan. L’intero arto costa 10mila
Rmb (circa 1.200 euro), solo la parte sotto il ginocchio, 8.000 (940): tutti
soldi del Kio che prendono la strada della Cina. «John», il medico, ha 25 anni.
Studi a Baoshan, Yunnan occidentale, non molto al di là del confine. Quando fa
le amputazioni, opera da solo, con le infermiere. Per ferite più gravi,
all’addome o agli organi interni, i soldati vengono spediti in Cina grazie a un
accordo tra il Kio e le autorità del Dragone.

Lat
Du Labang Naw Ja, 34 anni, è il responsabile nominato dal Kio del campo
profughi di Je Yang, vicino a Laiza. È il più grande dello Stato Kachin con più
di 8.600 Idp (Inteal Displaced Person).

«I
nostri rifugiati non fanno nulla tutto il giorno – dice – e attendono gli
aiuti. Ma alcuni di loro lavorano nella grande piantagione di banane cinese, il
che è buona cosa. Noi non vogliamo dipendere dai cinesi come schiavi, ma va
riconosciuto che pure loro hanno problemi: devono pagare le tasse al Kio e,
avendo bisogno di forza lavoro, ricorrono comunque ai nostri sfollati».

La
Cina è oggetto di amore e odio in questa terra. Hkun Htorni Layang, segretario
del Kachin National Council, un’organizzazione con sede in Inghilterra,
ha recentemente suggerito una soluzione abbastanza paradossale al problema
kachin: annettersi alla Cina con un referendum «alla crimeana». «Da quando la
Linea McMahon ha segnato il confine tra il territorio cinese e quello indiano –
ha scritto – noi Kachin ci siamo trovati divisi in tre paesi diversi: India,
Birmania e Cina. Il 2 febbraio 1947 abbiamo fatto l’errore di firmare gli
accordi di Panglong e di aderire all’Unione Birmana. Stiamo soffrendo da più di
50 anni, l’esercito birmano ha commesso crimini di guerra, ucciso civili
kachin, stuprato, bruciato i nostri villaggi e discriminato la nostra fede
cristiana. Non abbiamo mai sentito che i nostri fratelli kachin/jinghpo in Cina
soffrissero le stesse pene. I loro problemi non sono neanche paragonabili ai
nostri, qui in Birmania, e nessuno può affermare che l’Esercito Popolare di
Liberazione dia fuoco ai villaggi o uccida i Jinghpo in Cina».

Ma
Hkun Htorni Layang deve anche ammettere: «L’idea di annetterci alla Cina non
avrebbe però il consenso della nostra gente, perché Pechino sostiene il governo
birmano e fa investimenti non etici nello Stato Kachin».

Piccole storie per il domani

Il
lussuoso campo da golf è stato costruito per i dirigenti e i burocrati del Kio
sulla stessa strada che porta al campo profughi, appena fuori Laiza. Erba
verdissima, tagliata perfettamente, non sfigurerebbe alle Hawaii o nella Scozia
che al golf ha dato i natali. È una presenza aliena che non ha nulla a che fare
con il contesto. Ma i «germogli» di un ceto medio kachin stanno forse
lentamente emergendo dall’economia informale. Saranno loro il futuro di questa
gente, le leve di un diverso sviluppo materiale, senza che si stia ad aspettare
qualcosa che non arriva?

Al
campo profughi di Maijayang, una donna di 28 anni lavora su un telaio nella sua
baracca: fa gonne colorate nel tipico stile kachin. È completamente
autodidatta, dato che non ha soldi per pagare i corsi organizzati dal Kio. Il
suo sogno è quello di aprire un piccolo negozio con il marito vicino
all’ingresso del campo profughi. Forse questi campi diventeranno villaggi e la
gente non aspetterà più il camion degli aiuti.

«Eddy»
è un ventenne Kachin cresciuto a Yangon. Ha fatto il lungo viaggio per arrivare
qui passando attraverso la Cina. Ha scelto di lavorare come volontario nei
campi profughi. Il suo inglese è eccellente. L’ha imparato guardando film
stranieri, dopo avere appreso i primi rudimenti a scuola. Ha un cuore diviso a
metà: restare per dare una mano alla sua gente o cercare fortuna e una vita
migliore all’estero? Forse, un giorno, le due cose non si escluderanno.

Awng
Ban è un ufficiale dell’intelligence Kia di circa 30 anni. Attraverso una rete
di contatti dietro le linee nemiche raccoglie informazioni e poi posiziona le
poche armi pesanti disponibili nel modo più strategico per proteggere la linea
del fronte. Al termine della guerra, vorrebbe aprire un’attività di
compravendita di giada a gestione familiare. Dopo tutto, anche il commercio è
una questione di network.

La
parola kachin per «alcol» è «za». In un avamposto militare Kia sulle colline,
Gan Htorni, autista 30enne, offre un distillato di riso fatto in casa. Supera i
70 gradi. Non c’è il bicchiere, così va bevuto dalla bottiglia di plastica,
mentre si attende la jeep dell’esercito che ci deve portare verso Sud. Sua
moglie vende questa roba alla gente di Laiza; lui no, lui è un autista. Due
fonti di reddito sono meglio di una.

Sono,
questi, alcuni «germogli» nati dal lavoro vivo e dall’intraprendenza. In attesa
che i fiori fioriscano dal suolo fangoso della terra kachin. Per questo, però,
c’è ancora bisogno di tempo. E soprattutto della pace.

Gabriele Battaglia


Gabriele Battaglia,
giornalista, vive a Pechino. Membro di China
Files
, ha già collaborato con MC.

Nicola Longobardi,
fotogiornalista, vive a Pechino coprendo storie in Cina e altri paesi asiatici.
Collabora con China Files. Pubblica su
riviste italiane e inteazionali.

Archivio MC: la
rivista segue da sempre il Myanmar; da ultimo, il dossier di Piergiorgio
Pescali pubblicato ad aprile 2014.

Tags  guerre etniche, eserciti di liberazione, Cina, Myanmar, narcotraffico, tossicodipendenti, armi, mine, deforestazione, profughi, Kanchin, guerriglia, profughi

Piergiorgio Pescali




Mobile money: Meglio del cash?

Inchiesta «mobile money», denaro virtuale / 2


Compagnie telefoniche e banche non hanno perso tempo.
All’indomani del terremoto è iniziata la sperimentazione. Poco a poco il denaro
mobile cerca di entrare nelle abitudini degli haitiani. Offre facilità d’uso e
non chiede garanzie. Ma la gente ama toccare con mano biglietti e monete. Chi
vincerà la sfida?

Carrefour. Siamo nel grosso comune popolare all’uscita
Sud di Port-au-Prince, la capitale haitiana. Qui il terremoto del 12 gennaio
2010 ha colpito duro. Theguerre Derizaire sale al primo piano di un basso
edificio non intonacato e si infila in un corridoio stretto. Fuori diversi
cartelloni colorati indicano i vari «business» che si svolgono all’interno.

Theguerre
ha in mano il suo inseparabile telefonino da 10 dollari e si accosta a uno
sportello protetto con una robusta grata. Dall’altra parte qualcuno manovra un
telefono simile.

Theguerre
passa 300 gourd (i soldi haitiani, equivalente a circa sei euro) alla mano
dell’operatore e gli detta il suo numero
di telefono. Pochi istanti dopo riceve un sms: transazione eseguita.

Abbiamo
appena assistito al deposito di denaro su un portafoglio mobile.

Chi spinge sul mobile money

Haiti ha 10 milioni di
abitanti, di cui il 60 % non arriva a 35 anni e il 70% vive in povertà estrema,
ovvero con meno di un dollaro al giorno. Siamo nel paese più povero delle
Americhe. È anche uno dei più disastrati del mondo, messo in ginocchio dal
devastante terremoto, da un’epidemia di colera mai vista e da diversi cicloni.

Ma anche qui, come in molti
paesi del lato «povero» del pianeta, le compagnie telefoniche e le banche hanno
stretto inedite alleanze per sperimentare il mobile money.

Il loro obiettivo –
dichiarano – è la famosa «inclusione finanziaria», ovvero rendere bancabili i
non bancabili, dare un conto «mobile» a coloro che non hanno – e non avranno
mai – alcuna possibilità di aprire un conto in banca.

Secondo Georges Andy René,
direttore della compagnia Haiti pay che ha lanciato il prodotto Lajancash lo scorso anno, «ad Haiti ci sono circa 5 milioni di utilizzatori
di cellulari, mentre meno del 20% della popolazione ha accesso a una banca».
Allo stesso tempo: «Sul mercato bancario del paese ci sono meno di 40.000
detentori di carte di credito e carte di debito». Allan Richardson, navigato
manager internazionale, oggi capo operativo della compagnia telefonica Digicel, che si contende il mercato
nazionale del mobile money con Haiti pay, ci racconta i primi passi di
questo servizio sull’isola.

Nel dicembre 2010 la Bill & Melinda Gates Foundation mise a
disposizione, sotto forma di premio, un primo finanziamento di due milioni di
dollari per lanciare la Haitian Mobile Money
Initiative. A esso seguirono altri due finanziamenti (2011 e 2012)
ciascuno di un milione i dollari. Fu la Digicel, compagnia di telefonia
cellulare già ben installata nel paese, a vincere, e fu con quei fondi che
lanciò un primo sistema di mobile money: Tcho
tcho mobile (dove «tcho tcho» è uno dei tanti modi per chiamare il
denaro in creolo haitiano). Per far questo si mise in partenariato con la banca
canadese Nova Scotia operante ad Haiti.

All’inizio non fu facile: «La
piattaforma (programma informatico di gestione del sistema, ndr) non era performante. Si facevano
piccole cifre di vendita. Decidemmo di cambiarla, a inizio 2013. Solo
nell’estate di quell’anno abbiamo avuto un buon incremento di transazioni». Una
transazione è un’operazione realizzata sul conto mobile: deposito, ritiro,
trasferimento, ecc. Digicel ha 4,5 milioni di abbonati ad Haiti e per
Richardson «sono tutti potenziali clienti del Tcho tcho mobile».

Per attivare un conto Tcho
tcho mobile (Ttm) è sufficiente la carta d’identità e la compilazione di un
modulo. Occorre avere un cellulare con sim Digicel. Il vero limite è che sono
ancora molti gli haitiani senza documenti.

Insieme a Ineke Botter, la
direttrice generale di Digicel Haiti, Richardson ci spiega quali sono gli
ingredienti per fare partire il sistema. Sul territorio sono presenti gli
agenti, sportelli, spesso minuscoli botteghini, abilitati a caricare denaro sui
portafogli elettronici dei clienti quando questi vogliono depositare, e a
fornire contante per i clienti che vogliono ritirare. Sono poi in grado di fare
trasferimenti di soldi da un cliente a un altro. La seconda tipologia di attori
sono i commercianti abilitati ad accettare il pagamento tramite il Tcho tcho
mobile (in gergo: mobile payment).


Un «ecosistema» artificiale

«Occorre creare una buona
rete, e un cosiddetto “ecosistema” favorevole al denaro mobile. Abbiamo pensato
a un super agente a cui fanno capo gli agenti di primo livello che ricevono le
richieste dai clienti. Quando l’agente semplice non ha contante li può chiedere
al super agente. Perché se l’agente non ha cash quando serve, il sistema si blocca.

È inoltre necessario che
nella zona ci sia un buon numero di commercianti che accettano il pagamento in
Ttm. In questo modo chi riceve denaro “elettronico” può anche spenderlo senza
doverlo cambiare in cash. E il sistema gira».

L’obiettivo è che il cliente
mantenga il più possibile il denaro nella versione «mobile» e lo utilizzi
spendendolo o trasferendolo. In questo modo si crea una massa di denaro
virtuale che fa concorrenza a quello reale. Occorre una sorta di condizione di «fiducia»
che la compagnia deve guadagnarsi presso la gente.

«La questione importante è il
cambiamento di mentalità – ci confida un cliente – perché gli haitiani sono
abituati a toccare il denaro di carta o di moneta con mano».

Anche Theguerre pur
utilizzando Ttm fin da quando è stato lanciato ha ancora delle perplessità: «Non
ho paura che i soldi scompaiano, ma per precauzione evito di fare dei depositi
troppo importanti. Ad esempio 1.000 gourd (circa 20 euro, ndr), 2.000 ma non oltre». E ci spiega i
vantaggi che trova nel denaro mobile: «La ragione principale è evitare la
banca, dove c’è sempre la coda e il servizio è difficile. È un’alternativa, e
non si perde tempo. Si va da un agente Ttm. Poi c’è il vantaggio dell’orario,
alcuni agenti sono aperti fino alle 8 della sera. Se qualcuno mi manda soldi, è
comodo e si riceve rapidamente». Quindi Theguerre non si fida a lasciare troppi
soldi sul conto mobile e tanto meno a utilizzarlo per fare acquisti. Quando gli
chiediamo se conosce molta gente che lo utilizza risponde: «No, ma non è per
paura di perdere i soldi, piuttosto bisogna avere il denaro per fare un
deposito. La gente qui non ne ha abbastanza. Se faccio un deposito oggi per
ritirarlo domani non è conveniente. Inoltre penso che molti non sappiano come
funziona». In effetti ogni operazione ha un piccolo costo di commissione (2%),
mentre attualmente esiste un tetto massimo per un conto Tth mobile di 10.000
gourd (200 euro).

Gli
agenti Ttm sono oggi circa 300 su tutto il territorio nazionale. Intanto è
fondamentale la campagna di sensibilizzazione, con testi e immagini, per
spiegare i servizi del denaro elettronico. «Non è un mercato facile. Se non ci
sono abbastanza transazioni gli agenti non sono interessati» confida
Richardson.Attualmente Digicel permette trasferimenti di denaro a livello
nazionale, ma in futuro vuole estenderli anche al circuito internazionale,
entrando così nel mercato delle rimesse della diaspora, molto importante
soprattutto dagli Usa verso Haiti.

Un altro
servizio che offre Digicel è il pagamento di salari sul conto mobile dei
dipendenti. È stato sperimentato da alcune Ong inteazionali, ad esempio per
pagare il cash for
work, tecnica usata dalle Ong per far
realizzare lavori utili come la rimozione delle macerie dopo il terremoto con
pagamento alla giornata.

Bien Aimé
Ribaut è agente Ttm e Digicel a Lilavois, nel comune di Croix-de-Bouquet. Il
suo è un centro servizi molto attivo in questo quartiere popolare: «Quando abbiamo
cominciato con Ttm non ci ha soddisfatti molto, perché la commissione è bassa e
i clienti erano pochi in quanto il servizio non era conosciuto. Poi alcune
compagnie e Ong lo hanno utilizzato per pagare salari e aiutare sfollati del
terremoto. Era utile per facilitarli perché non potevano andare in banca. Così
il servizio si è diffuso. Ora questi programmi sono finiti, ma la gente
continua a usare Ttm perché è meno caro di altri sevizi di transfert nazionali. Inoltre sovente Digicel rimborsa le commissioni con  minuti gratis sulla ricarica telefonica».

Tecnologia alternativa

Più recente, ma non meno
agguerrita, è la concorrente Haiti pay. La questione è sempre cercare di fare
in modo che ogni haitiano in possesso di un telefonino abbia anche un portafoglio
mobile, ma la tecnologia utilizzata è diversa. Haiti pay ha un approccio «orientato
alla banca» e non «orientato alle telecomunicazioni». Non si tratta di un
gestore telefonico (come invece è la Digicel), ma di una compagnia di servizi
che si è messa in partenariato con una banca (la Banca nazionale di credito,
Bnc) e utilizza un software che può funzionare con qualsiasi operatore
cellulare. Ad Haiti il secondo operatore si chiama Natcom e, se resta escluso dal circuito
Ttm, è invece utilizzabile con Lajancash (in creolo: soldi contanti) lanciato nel giugno 2013.

Ci spiega Georges Andy René,
giovane manager haitiano: «Lajancash è un prodotto di “pagamento mobile” o mobile banking, che offre la possibilità di
fare transazioni ovunque ci sia copertura telefonica sul territorio haitiano.
Soprattutto non si fa distinzione tra gli operatori telefonici: possono essere
Digicel, Natcom o un operatore straniero. E l’utilizzatore di un operatore può
mandare soldi a quello di un altro. Abbiamo fatto in modo di rispettare le
norme stabilite dalla Banca Centrale che vuole l’interoperabilità degli
operatori, ovvero non si deve forzare un cliente a scegliere una compagnia
telefonica piuttosto che un’altra».

E continua: «Questa
tecnologia è pensata per facilitare l’inclusione finanziaria della popolazione
a più debole reddito». Inventato da due francesi della società Tagattitude, il prodotto, chiamato TagPay, utilizza una tecnica basata su una
codifica e decodifica audio fonica (Near
sound data tranfer). Ovvero le informazioni finanziarie
sono trasferite attraverso suoni opportunamente codificati. Tagattitude,
fondata nel 2005 proprio per fornire servizi nel mobile money ha oggi diffuso TagPay in diversi
paesi del mondo.

Anche Haiti pay sta mettendo in piedi la sua «rete»
di agenti e di commercianti abilitati a ricevere il pagamento. «Con la Bnc
abbiamo già una rete di agenti, le 32 succursali della banca che offrono il
servizio, e stiamo aumentando la rete a 115 punti o agenti in servizio su tutto
il territorio».

L’agente o il commerciante,
hanno a disposizione un terminale (simile a un lettore di carte bancomat). Il
cliente che vuole ritirare (cash out), depositare, oppure pagare un acquisto dal commerciante, dopo
aver inserito il suo codice, avvicinerà il telefono al terminale e i due «comunicheranno»
con una serie di bip durante pochi secondi, convalidando la transazione.

Il telefono necessario può
essere dei più semplici. La piattaforma Lajancash è tuttavia accessibile con ogni tipo di interfaccia (smarthphone,
sito Inteet, call center, carte bancarie).

Sebbene Andy René dichiari: «Abbiamo
un portafoglio clienti che cresce», verifichiamo che Lajan-cash, forse per la sua giovane età, è
ancora poco diffuso.

Anche Theaguerre ha sentito
parlare di questo servizio in Tv, ma resta fedele a Tcho tcho mobile sebbene il
suo agente di riferimento tratti pure il concorrente.

Micro finanza mobile?

Digicel ha stretto un accordo
con la nota istituzione di micro finanza (Imf) Fonkoze (Fondasyon
kole zepòl, Fondazione uniamo le forze) presente ad Haiti nel campo
del micro credito da 20 anni, con 46 sportelli disseminati in tutto il paese.

A Fonkoze si definiscono: «Una
banca alternativa» come racconta Saint-Jean Ronald direttore della succursale a
Pont Sondé, grande mercato in zona rurale nei pressi del fiume Artibonite,
nell’omonimo dipartimento.

«Fonkoze fornisce micro
crediti commerciali, e possibilità di aprire conti di risparmio a piccola
somma, 25 gourd o 5 dollari. Offriamo inoltre molte formazioni ai nostri
clienti. Dall’alfabetizzazione alla salute» racconta il giovane direttore nel
suo caldissimo ufficio di Pont Sondé.

Nell’accordo con Digicel,
Fonkoze gioca il ruolo di super agente per Ttm a livello nazionale. «L’obiettivo
di Fonkoze è migliorare le condizioni di vita delle persone più deboli e
vulnerabili – ricorda Ronald -. Ogni volta che possiamo introdurre programmi
per aiutare la classe più povera cerchiamo di farlo». «Il programma con Ttm è
iniziato nel 2011 e progredisce bene, anche se a volte ci sono difficoltà
tecniche.

Attualmente
abbiamo tra i 100 e i 150 clienti Ttm in questa succursale. Il numero è stabile».

Poi ci
sono i piccoli agenti: «Abbiamo molti rapporti con i piccoli agenti. Dal mese
di gennaio 2014 abbiamo lanciato la possibile adesione, ci sono numerose
richieste di iscrizione e di informazione, ma visto che abbiamo un problema
tecnico non riusciamo al momento a far partire il sistema».

Saint-Jean Ronald ha la sua
personale idea sul denaro mobile: «Penso che il mobile money possa migliorare l’accesso al
credito dei più poveri, se non altro perché facilita alcune operazioni, come il
trasferimento di soldi. Lo sviluppo delle telecomunicazioni in Haiti è buona.
Ci sono i telefoni anche nei posti più remoti. Tutti possono usare Ttm».

Vere applicazioni di micro
finanza con mobile money in realtà sono solo all’inizio ad Haiti. Anche se sono nei
programmi futuri dei due operatori. «Ricevere un credito sul portafoglio Tcho
tcho e poi restituirli con lo stesso. È Quello che vogliamo fare» assicura
Allan Richardson.

Secondo Georges Andy René,
Haiti Pay fa già micro credito: «Nei nostri punti di servizio si possono
ricevere i pagamenti con fondi dati a credito. Le banche di micro finanza
distribuiscono prestiti sui portafogli mobili e i titolari di questi possono
acquistare dei beni (come concimi, utensili, ecc.) presso commercianti
convenzionati, senza usare cash. Si ha così tracciabilità su come vengono spesi i soldi del
prestito e si può verificare se sono usati per l’obiettivo previsto. Questo
riduce il rischio finanziario per chi presta e permette di ridurre il tasso di
interesse».

La persona che ha ricevuto il
micro credito, potrà poi fare il rimborso da qualsiasi agente, senza dover
andare dalla Imf. Questo può servire a rendere più capillare l’attività della
banca rurale.

Il top manager Allan
Richardson, dall’alto dell’undicesimo piano del palazzo Digicel a
Port-au-Prince sostiene di guardare agli strati sociali più bassi: «Siamo
convinti che questo tipo di tecnologia può creare sviluppo in un paese. Le
transazioni con commissioni molto basse aiutano i poveri. Si possono fare
operazioni con la stessa qualità della banca ma molto più facilmente. Inoltre
questa tecnologia può far scendere i crimini.

Non pensiamo sia un contesto
difficile, ma dobbiamo educare la gente». E aggiunge con una sonora risata: «Occorre
far capire la regola del Btc: better then
cash!
(meglio dei contanti)».

Marco Bello e
Gianluca Iazzolino
 

Questo servizio è la seconda puntata dell’inchiesta sul
mobile money intitolata: «Riuscirà
il denaro del futuro a rendere la povertà un problema del passato?
». L’inchiesta è finanziata nell’ambito del programma Innovation
Development Reporting
dell’European Joualism Centre
(www.joualismgrants.org). Sul sito di MC saranno disponibili i video.

Il primo articolo è apparso nel Luglio 2014: Somaliland, il paese che non c’è

Una business woman e le nuove tecnologie

Mobile money: «Facile
e veloce»

Port-au-Prince. Al secondo piano di uno stabile a Delmas
33, dove trovano spazio diverse boutique delle merci più svariate, si è
installata Vanessa Morpo, con il suo Capri Service. Bella donna e,
soprattutto, business woman intelligente, Vanessa è al tempo stesso
agente di Digicel Tcho tcho mobile e commerciante abilitato, tramite il suo
negozio di vestiti pret-à-porter.

«Ho iniziato questo servizio nel
2012 – dichiara Vanessa. – All’inizio i clienti non lo comprendevano e anche io
ero scettica. Poi, dopo averlo utilizzato regolarmente, ho visto che è
affidabile e anche i clienti si sono abituati e lo apprezzano molto». Ci sono
sempre quelli che si lamentano, ammette Vanessa: «Alcuni non hanno fiducia,
altri vedono che talvolta non c’è il segnale telefonico. Noi li aiutiamo a
iscriversi e spieghiamo loro come funziona. Si rendono subito conto che è molto
semplice».

Cosa si guadagna? «Per fare un deposito da 25 a 1000
gourd noi prendiamo una commissione del 2%, e la stessa cosa se si ritira».
Vanessa assicura che ha una cinquantina di transazioni al giorno, di tutti i
tipi. Inoltre ci sono le nuove registrazioni: «Il nuovo cliente viene con un
documento d’identità valido, facciamo una fotocopia, compiliamo un modulo e
subito può depositare o ricevere». La zona è molto «frequentabile», sostiene
Vanessa, così i suoi clienti sono i più disparati: avvocati, medici,
commercianti, molti studenti, soprattutto universitari.

Anche i più poveri vengono a Carpi
Service
per utilizzare Ttm. «Ci sono persone che inviano soldi in provincia
e non portano neanche il telefono, oppure caricano il loro telefono e poi
eseguono il trasferimento».

L’altra faccia di Capri Service è la boutique. «Siamo
anche agenti commerciali Ttm. Vendiamo vestiti e si può pagare con il conto
telefonico. I clienti si lamentano ma noi facciamo in modo che paghino con Ttm.
Madame Kethly aiuta i clienti a registrarsi e a fare i depositi. Il loro numero
sta aumentando ogni giorno». Mentre parliamo c’è un andirivieni costante di
gente allo sportello del Ttm in fondo al corridoio.

Altri servizi? «Facciamo anche il
pagamento degli impiegati e del cash for work». Chiediamo a Vanessa, che
dà lavoro a due ragazze, se è soddisfatta di questo business: «Noi
commercianti non siamo mai soddisfatte. La commissione che c’è adesso non è
gran che, ma quando si sarà diffuso di più mi aspetto guadagni maggiori».

Ma.Bel. e
Gian.Iaz.

Tags: mobile money, soldi, banche, commercio, povertà, microfinanza

Marco Bello e Gianluca Iazzolino




Dalla Sardegna all’Africa

Storia di un giovane missionario


Fabio Malesa, nato e cresciuto a Olbia, scopre in Messico la
sua vocazione. Preso il suo destino in mano, dopo un lungo percorso, eccolo
missionario della Consolata in Mozambico. A raccogliere le sfide del nostro
tempo e di una Chiesa che cambia rapidamente. Anche in Africa.

C’è sempre una prima volta, dicono. La prima volta
di padre Fabio Malesa in Mozambico risale all’anno 2000. Era ancora un giovane
studente di teologia quando giunse, tra l’emozionato e il preoccupato, a
Cuamba, regione del Niassa. E lì, nel primo impatto con l’Africa non più
libresca, padre Fabio (classe 1972, figlio unico e perciò anche un tantino
viziatello) imparò, gioco forza, a fare un po’ di tutto. Fu carpentiere,
infermiere, animatore, professore, cuoco. Diceva di sé, scherzando, nei
periodici rientri in Italia, che sarebbe stato preferibile che lui non avesse
frequentato il liceo classico ma semmai un istituto d’arti e mestieri.

Fabio
studiava medicina a Sassari. Fece un viaggio in Irlanda per migliorare il suo
inglese. Lì conobbe una congregazione religiosa di origine messicana e al suo
rientro in Italia comunicò ai genitori di aver deciso di diventare missionario.
Il momento non fu facile, ma Fabio lo superò arrivando al noviziato in Messico.
Qualche anno dopo, guardando con maggiore realismo il tutto, considerò che
sarebbe stata preferibile una congregazione italiana e presente anche a Olbia,
così decise per i missionari della Consolata. La figura di padre Silvio
Lorenzini, trentino, con la sua testimonianza di fede certamente influì molto
nella formazione e nella decisione di Fabio.

Il grande passo

Di
Fabio Malesa abbiamo scritto per la prima volta nel 2007 di quando, in un tardo
pomeriggio d’ottobre, nella basilica romanico-pisana di San Simplicio, a Olbia
(Nord Est della Sardegna), la sua città natale, ricevette dal vescovo, alla
presenza di genitori, parenti e amici, l’ordinazione sacerdotale.

La
sua destinazione come missionario, allora, era nota: Vilankulo accogliente
località, poco distante dal mare, nel Sud del Mozambico, per altro anche meta
turistica, e dal nome piuttosto buffo per noi italiani.

Vilankulo
era per padre Fabio anche un ritorno in quanto, prima dei quattro anni di pausa
in Italia per il completamento della formazione, vi era già stato diacono e vi
aveva fatto come altrove i mestieri più disparati.

In
missione, inoltre, quasi sempre non esistono i comfort del proprio contesto di
provenienza. E l’essere umano si adatta.

Maputo

Oggi,
a Maputo, la capitale del Mozambico, città cosmopolita, Fabio ricopre
l’incarico di vice superiore regionale dei missionari della Consolata nel
paese. Dei sei anni di Vilankulo conserva il bellissimo ricordo delle
esperienze fatte, specie quelle con i giovani. La sua relazione con la gioventù
non meraviglia nessuno, conoscendone le doti umane, spirituali e professionali.
Sì, perché un missionario, oggi come oggi, deve essere di fatto anche un
professionista della missione. In giro, infatti, sotto qualunque cielo, la
gente è più esigente. In Africa, come altrove. Per accoglierti e seguirti essa
attende risposte serie e testimonianze coerenti.

A
Maputo padre Fabio regge, coadiuvato da animatori laici, due parrocchie
frequentate complessivamente da almeno tremila persone. L’area è quella di
Matola, una periferia urbana in espansione, dove convivono autoctoni,
mozambicani giunti da altre città del paese e persino portoghesi che, per la
crisi economica di cui è vittima il Portogallo, hanno scelto di andare a vivere
e a lavorare nell’ex colonia.

Matola
è un contesto variegato, un quartiere abitato da ricchi e poveri. Non
ricchissimi certamente e neanche poverissimi.

Tuttavia
il consumismo vi è giunto con prepotenza, facilitato proprio dall’ambiente
metropolitano. Il contesto spinge la gente a una continua competizione per
procurarsi ciò che desidera e che non ha e che sa di non poter avere a breve. E
possono così accadere anche fatti spiacevoli. Padre Fabio, ad esempio, ne ha
vissuto uno di persona, proprio nella casa dei missionari di Matola. Un fatto
davvero terribile se si considera che c’è stato persino un morto: un
confratello (l’autrice si riferisce a padre Valentim Camale, ucciso il 3/5/2012,
ndr),  che si
era rifiutato di consegnare il denaro richiesto da un teppistello e dai suoi
complici, penetrati nell’abitazione con l’intento di consumare una rapina, a
loro parere, facile.

A
Vilankulo – sottolinea Fabio – il contesto era molto più aperto e accogliente.
Era fatto di gente semplice, allegra quanto basta (i mozambicani non sono
musoni) e soprattutto generosa anche nel poco. Certamente – chiosa – anche in
quel contesto non mancano problemi seri come strade dissestate, agricoltura
appena di sussistenza (il terreno è sabbioso, rende poco e costa fatica
coltivarlo), malattie endemiche, Aids, limitata scolarizzazione.

Una grande partecipazione

Maputo,
la grande città, per quanto più confortevole per chi la vive, tende a
spersonalizzare i rapporti umani. Per fortuna non mancano cordialità e
collaborazione da parte degli animatori o dei catechisti, di quelli che sono
responsabili dei differenti settori della pastorale nelle parrocchie, e dei
loro familiari. E di tutti coloro che, magari anche per caso, imparano a
conoscere da vicino e a stimare il lavoro dei missionari della Consolata.

Questo
spirito di fratellanza costruttiva mitiga la solitudine e aiuta parecchio, in
quanto il missionario è persona come noi e l’affettività, vissuta correttamente,
è importante per affrontare con serenità i pesi della quotidianità.

La
politica nella capitale, e nel Mozambico in genere, è molto presente nella
quotidianità della gente comune. In particolare con l’onnipotente e
onnipresente Frelimo, il partito politico, a suo tempo di marcata connotazione
marxista, che è al potere da parecchi anni ed è uscito vincitore da una lunga e
devastante guerra civile (la guerra civile in Mozambico, iniziata nel 1975 si è
conclusa con gli accordi di pace del 1992, ndr). Un partito – precisa
padre Fabio – che, senza timore di smentita, fa il buono e il cattivo tempo in
tutto.

In
poche parole, senza la tessera del Frelimo in Mozambico non si lavora nello
stato. Il partito antagonista, la Renamo, il partito nazionalista che, nient’affatto
arresosi per la sconfitta subìta, in vista delle prossime elezioni cerca di
dare filo da torcere, come può, all’avversario politico.

La
corruzione, in certi ambienti e per certi sostanziosi contratti, è di casa tra
i politici.

Pastorale di responsabilità

La
Chiesa missionaria (i missionari della Consolata sono in tutto il Mozambico
circa una quarantina con due vescovi di recente ordinazione) si adopera per una
crescita umana e spirituale della gente puntando a una pastorale il più
possibile decentrata (distribuzione dei compiti e formazione dei responsabili).
Ed è anche quello che sta tentando di fare padre Fabio nelle due parrocchie di
cui è responsabile a Matola. E cioè in quella più centrale di Santa Teresina
del Bambino Gesù, a Liqueleva, e in quella di Santissima Maria Assunta, a
Liberdade.

Compito
per niente facile in quanto non mancano le resistenze. Anche da parte di alcuni
missionari che, per età anagrafica o per consuetudine, stentano ad accettare
gli indispensabili cambiamenti.

Chi
reagisce positivamente è invece la gioventù del luogo, che si sente fortemente
motivata proprio in quest’assunzione di responsabilità. Ragazzi e ragazze di
formazione cattolica, molti dei quali provengono da ambienti modestissimi, con
grande desiderio di imparare e di fare. E questo li distingue dai nostri
giovani in Europa e in Italia.

Il
sacrificio personale resta un’ottima scuola.

Chiesa internazionale

La
Chiesa africana, quindi anche quella mozambicana, è in crescita, e
l’inteazionalità non fa problema. Fabio Malesa l’ha vissuta in seminario
prima, da studente, e poi da prete oggi. È infatti una consuetudine, anche tra
i missionari della Consolata, essere di tante nazioni diverse.

Padre
Fabio lavora a Matola con un viceparroco congolese, con il quale c’è un’ottima
intesa.

Nel
concludere chiediamo a padre Fabio se, oggi come oggi, alla luce della sua
esperienza, rifarebbe la stessa scelta, di essere un missionario, e cosa
direbbe a un giovane che mostrasse interesse per la missione ad
gentes. Lui, senza esitazione, ci fa capire che l’essere accanto alla gente
bisognosa, saperla ascoltare, confortare, prospettarle una speranza fondata
sugli insegnamenti della Parola, è una ricchezza impagabile per chi sceglie di
farlo.

A
sera, pure se stanco come un asino gravato da enormi e spesso insopportabili
pesi – aggiunge – ti addormenti sereno perché sai di avere fatto gratuitamente
la tua parte di «bene» proprio come voleva per i suoi figli l’Allamano e anche,
e soprattutto, come esige la tua coscienza di uomo.

Marianna Micheluzzi

 

Tags: Malesa, missionario, evangelizzazione, vocazione, missionari, IMC

Marianna Micheluzzi




Perù. Kumbarikira e la voce dei Kukama


Storie e volti di
radio / 3


Nata nel 1992, Radio
Ucamara è un’emittente di Nauta, nell’Amazzonia peruviana. Guidata da Leonardo
Tello Imaina, la radio è la voce dei Kukama. Un popolo indigeno che non vuole arrendersi
al disinteresse del governo e alle violenze delle imprese petrolifere.

 


Nauta (Loreto). Per via fluviale o per via aerea: Iquitos si raggiunge soltanto
così. Non ci sono strade che collegano la capitale dell’Amazzonia peruviana con
il resto del paese. La sola eccezione è una carretera locale che la collega a Nord con San Antonio del Estrecho (poco
più di un villaggio) e, soprattutto, a Sud con Nauta. Rispetto alla caotica e
rumorosissima Iquitos, questa cittadina pare un’oasi di tranquillità e
silenzio. È conosciuta per essere sorta nei pressi del luogo in cui il Marañón
e l’Ucayali si riuniscono formando il Rio delle Amazzoni, nonché per costituire
la porta d’ingresso della Riserva nazionale Pacaya-Samiria.

Il motokar ci
lascia davanti al cancello in ferro battuto di Radio Ucamara. È in corso una
riunione della redazione. Dopo un rapido saluto, ci diamo appuntamento per metà
pomeriggio. Il piccolo porto di Nauta dista pochi metri dalla sede
dell’emittente. Occuperemo le ore disponibili per andare con una barca a motore
alla confluenza dei tre grandi fiumi amazzonici.

Nuovo nome, nuova vita

La radio nasce il 2 febbraio del 1992, in epoca di guerra civile,
su iniziativa dell’Instituto de Promoción
Social Amazónica, fondazione del Vicariato apostolico
di Iquitos. In quanto sorella minore de «La Voz de la Selva», emittente con
sede a Iquitos, assume il nome di «La Voz de la Selva – Nauta». Nel 2006 cambia
il proprio nome nell’attuale «Radio Ucamara», crasi derivante dai nomi dei
fiumi Ucayali e Marañón.

Intanto, alcuni anni prima – è il 2003 – assume la direzione
dell’emittente Miguel Ángel Cadenas, un missionario agostiniano spagnolo. Il
padre rivoluziona il progetto radiofonico mettendo al centro tematiche prima
marginali (i conflitti socioambientali, l’antropologia, la ricerca storica) e
aprendo la radio a collaboratori di etnia kukama. Uno di questi è Leonardo
Tello Imaina, ex insegnante di scienze sociali, che nel 2010 diventa il nuovo
direttore.

«Sono kukama da parte di mio padre, sono achuar da parte di mia
madre e ho anche un po’ di sangue quechua». Leonardo, viso glabro e sorriso
triste, descrive con orgoglio le sue radici indigene. «Appena iniziai a
frequentare la radio, me ne appassionai, perché capii che essa poteva essere
uno spazio per fare qualcosa di utile per gli altri e soprattutto per il mio
popolo». Un popolo quello kukama con una lunga storia di sofferenze e
ingiustizie. A iniziare dal genocidio durante l’epoca del caucciù (1885-1915)
per arrivare all’oggi con la devastante invasione delle terre indigene da parte
delle multinazionali. Da tempo Radio Ucamara ha iniziato a lavorare sul
recupero della memoria individuale e collettiva del popolo kukama. E
dell’idioma. «Io non parlo la mia propria lingua – spiega Leonardo -. A scuola
non potevamo utilizzarla. Così oggi le uniche a parlare kukama sono le persone
con più di 75 anni. Se non facciamo subito qualcosa, nel giro di 10 anni di
questa lingua non ci sarà più traccia».

Per questo Radio Ucamara si è attivata. «Oggi, alla radio, abbiamo
due programmi in lingua kukama, che però ci hanno attirato insulti e accuse di
spingere per un ritorno al passato». Per poco più di un anno – da agosto 2012 a
ottobre 2013 – nei locali della radio ha funzionato anche una scuola di lingua
kukama (escuela Ikuari). Con due modalità d’insegnamento: raccontando storie o cantando.
E proprio questa seconda modalità ha avuto un successo inaspettato,
raggiungendo un pubblico ben oltre la regione amazzonica.

Con l’aiuto di Create You
Voice, una Ong tedesca, la radio ha prodotto un videoclip con
una canzone in lingua spagnola e kukama, ritmi musicali rap e una metafora ben
riuscita: i piccoli protagonisti vanno in scena con la bocca tappata da un
nastro adesivo su cui la parola kukama appare cancellata. Kumbarikira – questo il suo titolo – è stato un
successo su internet grazie a YouTube. Eppure, l’inizio era stato ben poco
promettente. «Per fare il videoclip – racconta Leonardo -, necessitavamo di
almeno 60 bambini. Non se ne presentò nessuno perché avevamo detto di voler
fare un video in kukama. Così, per realizzare l’idea, abbiamo dovuto chiedere
aiuto alle persone a noi più vicine». Tanto per capire, la prima ragazza che
appare nel video è Danna Gaviota, 14 anni, la più grande dei tre figli di
Leonardo.

Sulla pelle degli altri

Con l’inizio dello sfruttamento petrolifero dell’Amazzonia e lo
sbarco delle multinazionali si sono diffuse violenza e corruzione. E un
inquinamento che dura ormai da oltre 40 anni.

Spiega Leonardo: «Sono eventi distruttivi per le comunità indigene
che abitano lungo i fiumi e che vivono di pesca. La vita dei Kukama è
strettamente legata a quella dei corsi d’acqua. Gli sciamani curano con gli
spiriti del fiume ma oggi stanno sparendo. Senza sciamani, senza pescatori,
senza cacciatori, si annulla un popolo e la sua resistenza».

«La Pluspetrol non soltanto contamina, ma distrugge l’ambiente
culturale e le modalità di vita delle comunità. Con essa arriva il consumismo e
la prostituzione. Si cercano bambine nelle comunità per sfruttarle
sessualmente. Penso a quanto accade a Villa Trompeteros sul Rio Corrientes, un
fiume devastato dalla contaminazione. I favorevoli alla Pluspetrol sostengono
che essa porterebbe lavoro, ma in realtà si tratta di gente che viene da fuori
perché normalmente l’impresa ha bisogno di manodopera qualificata. Come kukama
mi piacerebbe che la compagnia petrolifera se ne andasse. Come direttore della
radio debbo ascoltare anche opinioni opposte».

Da alcuni anni Iquitos e tutta questa parte dell’Amazzonia
peruviana stanno vivendo un’esplosione turistica. Può essere questa una strada
per arrivare a uno sviluppo sostenibile e corretto? «Le imprese turistiche
operano in modo irresponsabile. A loro non interessa la tematica culturale o
come viva la gente di qui. Anzi, per esse meno gente c’è, meglio è. La
popolazione locale è esclusa o aggredita. Un esempio: le compagnie turistiche
arrivano sui nostri fiumi con imbarcazioni che travolgono le piccole canoe dei
locali. Un turismo culturale e responsabile dovrebbe partire dal rispetto dei
popoli originari e delle loro forme di vita. Avremmo cose meravigliose da
mostrare, ma il turismo attuale – oltre a essere distruttivo – ha una visione
molto limitata dell’Amazzonia». E tutto ciò avviene con la responsabilità di
uno stato miope o corrotto.

«Nella riserva Pacaya-Samiria i Kukama non possono entrare a
pescare perché è riservata al turismo. Nel contempo però essa è aperta allo
sfruttamento indiscriminato della Pluspetrol». Leonardo porta anche l’esempio
del porto di Nauta. «Le autorità lo hanno venduto – senza consultare la
popolazione locale – alle imprese petrolifere, alle imbarcazioni turistiche,
alle stazioni di carburanti. Pochi anni fa il porto era pieno di canoe di
pescatori, cacciatori, agricoltori. Adesso queste persone sono state cacciate
e, per sopravvivere, hanno dovuto dedicarsi ad altre attività, spesso a danno
dell’ecosistema». Leonardo Tello non fa sconti al governo di Lima. «Il sistema
educativo è pessimo qui a Nauta. Figuratevi com’è nelle comunità più isolate.
Quanto al sistema sanitario la sua filosofia rientra nella generale mancanza di
rispetto verso la cultura originaria. Ad esempio, nei centri di salute non
vengono prese in considerazione le piante medicinali. Per non parlare di alcuni
programmi sociali (come Juntos e QaliWarma, ndr) attraverso i quali il governo ha introdotto il consumo di cibi
in latta facendo sorgere il problema del cambio alimentare».

Passato e presente

A
Radio Ucamara lavorano quattro persone più un numero variabile di volontari. «Abbiamo
un notiziario fatto interamente da donne, perché la visione femminile è
distinta», spiega il direttore. Oggi l’emittente raggiunge 45.000 persone,
un’audience importante.

Dopo
aver conversato a lungo ed esserci un po’ conosciuti, Leonardo ci confida che
ha scelto di dedicare anima e corpo a Radio Ucamara spinto anche da motivazioni
molto personali. «Mio padre Antonio – racconta – oggi ha 97 anni. In quanto
Kukama, all’epoca del caucciù egli fu uno schiavo. Mia madre morì di cancro alla
pelle nel febbraio del 2013, come molte altre donne della zona. Mio fratello,
di due anni più vecchio di me, nel 2003 fu schiacciato da una imbarcazione
della Pluspetrol, quando rientrava dalla pesca. Non abbiamo mai ritrovato il
suo corpo».

Mentre
parla, la voce di Leonardo s’incrina e i suoi occhi si velano. Il peso del
passato e quello del presente sono ricaduti anche sulla sua famiglia. Il
direttore ha una ragione in più per rafforzare e diffondere il lavoro di Radio
Ucamara, la voce del popolo kukama.

Paolo Moiola

(fine terza
puntata – continua)

I siti
http://radio-ucamara.blogspot.it/ È il sito della radio di Nauta.

http://createyourvoice.org
È il sito della Ong di Eichenau – un
piccolo comune della Baviera tedesca -, che ha prodotto il videoclip della
canzone «Kumbarikira», visibile su YouTube, e un documentario su Radio Ucamara.

Loreto (Amazzonia
peruviana) / L’inquinamento dei territori kukama

Dove il petrolio
conta più della vita

Lo sversamento di
residui petroliferi nelle acque dei fiumi – Marañón, Corrientes, Pastaza e
Tigre – e nella foresta sta producendo conseguenze fatali per le popolazioni
locali, in maggioranza di etnia kukama. I responsabili sono conosciuti
(Pluspetrol), ma le autorità peruviane si sono mosse con gravissimo e colpevole
ritardo (maggio 2014). Da anni le vittime – aiutate da due infaticabili e
agguerriti missionari spagnoli – protestano contro inquinamento e violenze. Ma
il business petrolifero ha sempre avuto la meglio.

Iquitos. «Appartengo al gruppo indigeno kukama. Un giorno il mio
papà uscì a pescare. Al suo ritorno aveva soltanto due pesci. Io e i miei
fratelli gli domandammo cosa fosse accaduto, dato che di solito ne portava in
abbondanza. Ricordo qualcosa sulle perdite di petrolio che stanno sporcando il
fiume. Per questa ragione i pesci sono malati e noi non possiamo mangiarli.
Allo stesso tempo non possiamo fare il bagno nel fiume perché altrimenti ci
ammaliamo. Le scrivo [presidente] perché lei faccia qualcosa, perché siamo
bambini che vogliamo vivere».

Sono parole di
Alexander Ricopa Fasabi, un bambino di 9 anni del villaggio kukama di Santa
Clara. La sua lettera, assieme a quelle di decine di altri compagni, è stata
inviata al presidente peruviano. Con le loro parole e i loro disegni i bambini
hanno chiesto aiuto a Ollanta Humala e a sua moglie Nadine Heredia.

La protesta
dei minori è stato un nuovo, disperato tentativo dei Kukama per riuscire a
farsi ascoltare dalle autorità politiche. L’iniziativa è stata pensata da
Miguel Ángel Cadenas e Manolo Berjón, due infaticabili padri spagnoli
agostiniani che vivono tra i Kukama a Santa Rita de Castilla e che da molti
anni si battono anima e corpo per i diritti violati di quel popolo1. Lo hanno
fatto e continuano a farlo partendo dalla condivisione della loro quotidianità,
ma anche dallo studio e dalla comprensione della cosmogonia kukama. Per questo
la loro azione si è sempre svolta in stretta collaborazione con
l’organizzazione indigena Acodecospat2 (che, assieme ad altre tre, forma
la Puinamudt3).

La situazione è ormai insostenibile:
l’inquinamento nel Nord dell’Amazzonia peruviana ha compromesso la vita
materiale (ma anche spirituale) delle comunità indigene. Nel corso del 2013,
uno dopo l’altro sono stati dichiarati in emergenza ambientale i bacini dei
fiumi Pastaza, Corrientes e Tigre. Finalmente, lo scorso maggio il governo
peruviano ha decretato lo stato d’emergenza ambientale e sanitaria anche nella
zona del basso Marañón. Tutte decisioni prese con vergognoso ritardo rispetto
ai fatti, all’entità dei danni e alle denunce.

Lo
sfruttamento petrolifero di questa parte dell’Amazzonia peruviana è iniziato
nel lontano 1971. Un oleodotto di oltre 16 chilometri attraversa la foresta e i
territori indigeni trasferendo ogni giorno migliaia di barili di petrolio.
Essendo questa una struttura risalente agli anni?Settanta, essa mostra il segno
degli anni: le condutture sono molto deteriorate e gli allacciamenti precari.
Se un tempo le perdite di petrolio (derrames) avvenivano nei pressi dei pozzi di perforazione, oggi esse sono sempre
più frequenti e consistenti lungo l’oleodotto. Soltanto negli ultimi cinque
anni ne sono state documentate oltre 1004.

Accanto a
queste fuoriuscite di greggio ci sono gli sversamenti nei fiumi – erano la
regola almeno fino al 2009 – delle cosiddette «acque di produzione»5. Si tratta di
acque molto calde (80-90 gradi), salate e contaminate con olio, metalli pesanti
(mercurio, cadmio, bario, piombo, arsenico, ecc.) ed elementi radioattivi. Le
conseguenze delle perdite e degli sversamenti sono devastanti per la flora, la
fauna e le popolazioni. Esposte a un inquinamento quotidiano, le persone si
ammalano delle malattie più varie, alcune gravi o mortali come tumori,
insufficienza renale, danni al sistema nervoso.

Il responsabile di tutto questo è
conosciuto: si chiama Pluspetrol Norte, impresa appartenente al gruppo
petrolifero argentino Pluspetrol. Essa opera nei lotti «1AB» (sfruttato da
Occidental Petroleum fino all’anno 2000) e «8» (appartenente a Petroperú fino
al 1996 e a sua volta diviso in 5 lotti separati più piccoli). I lotti occupano
i bacini dei fiumi Corrientes, Tigre, Pastaza e Marañón e parte della riserva
nazionale Pacaya-Samiria (lotto «8X»). Oggi le acque di questi fiumi sono
altamente contaminate così come vasti territori della riserva. Alcuni siti sono
addirittura spariti come la laguna Shanshococha, che stava nei pressi del lotto
1AB.

L’impresa si
difende affermando che le perdite dell’oleodotto sono causate da atti di
sabotaggio e vandalismo perpetrati da persone appartenenti alle comunità
indigene, negando le condizioni disastrose in cui versano le condutture. Quanto
alle «acque di produzione», da alcuni anni – precisa l’azienda petrolifera –
esse sono reiniettate nel sottosuolo. Va però ricordato che, per oltre un
decennio, la Pluspetrol ha versato nei 4 fiumi amazzonici (tutti affluenti del
Rio delle Amazzoni) fino a 1,1 milioni di barili di acqua di produzione al
giorno. Infine, la compagnia petrolifera accusa i suoi predecessori –
Occidental Petroleum e Petroperú6 – dei danni ai siti ambientali.
Che in parte è vero, ma – affermano le associazioni indigene – subentrando
nelle concessioni la Pluspetrol si è assunta anche la responsabilità di
riparare ai danni pregressi.

Il timore più diffuso è che
l’inquinamento sia troppo grave e che, per riportare un minimo di equilibrio
nell’ecosistema, siano necessari decenni se non generazioni. Intanto le comunità
kukama vivono nella violenza. Che è estea (scontri con lo stato e le
imprese), ma anche – osservano padre Miguel Ángel e padre Manolo – intea
(ubriacature, violenze domestiche, suicidi,…).

«Lavorando in
armonia con l’ambiente e la comunità» (Trabajando en armonía con el medio ambiente y la
comunidad), dice la
propaganda distribuita dalla Pluspetrol. Una presa in giro che farebbe
arrossire chiunque, ma non la compagnia petrolifera argentina e le autorità
politiche che l’hanno protetta fino a ieri.

Paolo Moiola

Note

1 – Per un
ritratto di Miguel Ángel Cadenas e Manolo Berjón si veda MC del novembre 2011,
pp 43-48. In quell’intervista i due missionari denunciavano con forza
l’inquinamento e le violenze perpetrate ai danni della popolazione kukama.
2 –
Acodecospat: «Asociación Cocama de Desarrollo y Conservación San Pablo de
Tipishca».
3 – Della
federazione indigena Puinamudt fanno parte Acodecospat, Feconaco, Feconat e
Fediquep.
4 – Questo
e i successivi dati sono desunti da un rapporto dell’associazione Alianza
Arkana.
5 –
Durante le attività di trivellamento ed estrazione del petrolio, si ha come
effetto collaterale una grande produzione di acqua contaminata detta «acqua di
produzione».
6 – La
Occidental Petroleum, conosciuta anche come Oxy, è una compagnia statunitense.
La Petroperú è l’impresa petrolifera di proprietà della stato peruviano.

Siti internet:
http://observatoriopetrolero.org È il sito di Puinamudt.

http://acodecospat.blogspot.it
È il sito di Acodecospat.

http://alianzaarkana.org È il sito di Alianza Arkana.

www.pacaya-samiria.org È
il sito della Riserva nazionale Pacaya-Samiria.

www.pluspetrolnorte.com.pe – www.pluspetrol.net Sono i siti della compagnia petrolifera argentina.

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radio, radio comunitarie, Amazzonia peruviana, multinazionali, popoli
indigeni, turismo, inquinamento, lingue indigene, Perù, petrolio, indigeni, Kukama

Paolo Moiola




Dove il tempo è scandito dal dondolo

Diario di viaggio e
incontri / 2

Continua la visita di
Claudia nel Nicaragua postsandinista, da Léon a Granada.

León


17 gennaio

La
casa di Dona Blanca si trova nel centro storico di León e ha un bel patio ricco
di piante esotiche. Il pomeriggio è rovente in città, ma la sera rinfresca e
noi troviamo un locale ampio e allegro dove si serve cibo e caffè italiano.

Alessandro
era arrivato qui come consulente agronomo della Comunità europea. Dodici anni
fa ha deciso di rimanere, aprire un locale e mettere su famiglia con Emilia,
figlia di un italiano e una guatemalteca. Il lavoro è tanto perché si preparano
lasagne, parmigiane e dolci anche da asporto. Alessandro è stanco ma
soddisfatto e, prima di chiudere, si ferma al nostro tavolo con Emilia e la
loro piccola di otto anni. Ne ha di cose da dirci, anche su quegli italiani che
hanno trovato rifugio in questo paese dopo essere stati condannati per delitti
terribili. «Di solito aprono ristoranti e sposano ragazze del posto», e ci fa
l’occhiolino.

Ci
sono molti cartelli di case e terreni in vendita, ma bisogna stare attenti,
potrebbe essere un imbroglio. Il catasto è allo sfascio. I grandi proprietari
erano stati espropriati con la rivoluzione, ma gli Usa premono perché rientrino
nelle loro proprietà. A volte compaiono comunità indigene che reclamano la loro
terra ancestrale.

Rubén


18 gennaio

Avevo
studiato Rubén Darío (1867-1916) nel corso di letteratura spagnola, ma non
ricordavo che fosse nato proprio a León. I poeti in questo paese sono molto
amati e celebrati. Tra due anni cade il centenario della morte di Rubén, e León
si sta preparando. Visitiamo il museo, allestito nella sua casa, poi passiamo
nel museo di arte contemporanea in un fascinoso edificio coloniale, con cortili
e fontane.

Nella
stessa via noto il convento dei francescani, che ora è uno spettacolare
albergo, quasi un museo. Le chiese di León sono numerose e alcune veramente belle,
anche se bisognose di restauri. Gli interni sono arricchiti da colonne di
mogano, alberi che un tempo dovevano formare le foreste ora scomparse.
Il Nicaragua da sempre è in mano a poche, ricchissime famiglie. Le più potenti
sono i conservatori Chomorro di Granada e i liberali Casasa di León. Tutti
grandi proprietari terrieri che hanno sempre avuto il potere di influenzare la
politica.

León,
città di studenti universitari e di poeti, è sempre stata al centro della vita
culturale e politica del paese. Anche la famiglia di Maria Vittoria è di idee
liberali. Ci siamo conosciute a Co Island e ora ci ritroviamo qui, nella città
dove la famiglia aveva proprietà che ha perso con la rivoluzione. «Mia nonna
nascondeva le armi dei sandinisti in giardino» mi racconta, «durante la guerra
i miei genitori hanno deciso di rifugiarsi a San Diego, in Califoia, dove mio
padre aveva studiato da ragazzo». Maria Vittoria ama León ma abita a San
Francisco e fa l’avvocato. Tutti gli anni ritorna qui per una settimana di vacanza.

Stasera
vi è un’altra cerimonia in onore di Darío davanti alla gigantesca cattedrale,
con i discorsi dei politici, i balli in costume, una musica assordante e il
finale con i botti, come quelli che ieri mattina ci hanno svegliate alle 5. Ci
siamo spaventate, poi ho saputo che ieri cadeva l’anniversario della nascita di
Sandino, eroe nazionale. Sono uscita e, davanti alla chiesa della Merced,
ho visto il carro delle processioni con la polizia e uomini che caricavano la
statua della Madonna, avvolta in teli di plastica. Destinazione: le prigioni di
stato, dove la Vergine benedirà i carcerati.

Poneloya


20 gennaio

Da León
in venti minuti raggiungiamo Poneloya, una località sul Pacifico che pare in
stato di abbandono, con casette diroccate, molte in vendita, affacciate su una
lunga spiaggia di sabbia nera. Dopo il primo sconcerto capisco di aver trovato
il posto giusto per me nell’albergo consigliatomi da Dona Blanca, una semplice
struttura con il pergolato di foglie di palme sulla spiaggia.

Al
tramonto la luce color bronzo delle nuvole si riflette sulla sabbia umida, ma
al calar del sole il cielo si accende di rosso. Allora chiude la cucina, che ha
servito sin dal mattino le famiglie di León in gita, con nonni e nipotini.
Dobbiamo trasferirci alla Barca de Oro, un simpatico locale alternativo
gestito da una signora francese, con vista sull’estuario del fiume. Lungo la
strada buia si affacciano le pulperie, botteghe che offrono in vendita
cose essenziali, e semplici locali con amache e musica. La notte il mare sale e
rumoreggia. Numerosi cani circolano tranquilli. La mattina li vedo giocare coi
gabbiani, sulla spiaggia. Mi avvio verso l’estuario dove si radunano aironi,
garze, stee e pellicani e, volendo, si può passare il fiume e raggiungere il
centro di protezione delle tartarughe. Le uova raccolte dai pescatori nei nidi
vengono acquistate, custodite per 45 giorni e, una volta schiuse, le piccole
tartarughe saranno protette dai predatori.

Verso
le 7 del mattino ritornano i pescatori, ma i pesci sono pochi, nonostante
abbiano trascorso tutta la notte in mare.

Lo
spettacolo continuo è dato dal volo di grandi stormi di pellicani che nel cielo
creano disegni mobili e precisi. Qui non si tuffano per pescare, non dondolano
sulle onde come negli altri mari tropicali. Piccole formazioni compatte passano
a pelo d’acqua, pattugliano il mare senza fermarsi.

Volontari e Dentisti


23 gennaio

Alcuni
amici mi fanno incontrare Mertxe, energica signora arrivata trent’anni fa con
le brigate di solidarietà dei Paesi Baschi, che allora avevano appoggiato la
rivoluzione sandinista. Robusta, non più giovane ma piena di energia, Mertxe ha
creato negli anni un’opera importante per promuovere la donna attraverso i
consultori, l’educazione, il lavoro, il fotovoltaico e il microcredito. Ha
scelto un nome indio, Xotchil, ed è riuscita a coinvolgere oltre 500 donne in
un distretto agricolo di 9000kmq. I finanziamenti arrivano dalla Municipalità
Basca, da sempre attenta ai bisogni dei paesi poveri.

25 gennaio

Victoria
è arrivata da Toronto e fa parte di un gruppo di 50 volontari che hanno base
nel nostro albergo. Sono dentisti e tecnici canadesi, soci della Ong Kindness
in Action
, che lavoreranno per qualche giorno in un piccolo ospedale della
regione. Prendiamo il caffè insieme e scopro persone positive, felici di fare
questa esperienza. Ciascuno di loro ha una storia da raccontare.

Victoria
è stata in molti paesi ed è alla sua quarta esperienza in Nicaragua. Ricorda
con dolore la miseria estrema trovata nei villaggi montani del Guatemala,
mentre in Cambogia vide una popolazione sfruttata in modo cinico, senza diritti
e possibilità di riscatto. Victoria capisce l’italiano, perché da bambina ha
vissuto un anno a Ostia. Era il 1974 e Golda Meyer si era accordata con Nikita
Kruscev per concedere un esodo degli ebrei russi che erano pesantemente
discriminati. Allora Victoria frequentava la prima elementare a Kiev (Ucraina),
ma la famiglia era originaria di Harkov, al confine con la Polonia. Per
emigrare occorreva pagare al fine di ottenere un invito. Israele offriva subito
cittadinanza, sanità e lavoro, ma c’era la guerra. Arrivati a Vienna, il padre,
decise di andare in Italia, dove la famiglia venne sistemata a Ostia, in attesa
di partire per l’America.

Chiedo
a Victoria il significato del suo cognome, Sugarman. «Ho mantenuto il nome del
mio primo marito. Suo padre era arrivato a Ellis Island (New York) dalla
Polonia. Aveva un nome difficile; decisero così di dargli il nome del suo
mestiere, pasticcere, obbligandolo ad abbandonare il nome di famiglia
originale. Victoria conosce Shakespeare, sorride e cita una bella frase da
Romeo e Giulietta: «A rose by any other name would smell as sweet» (una rosa
avrebbe lo stesso profumo anche se si chiamasse in un altro modo).

A
tavola conosco altri volontari. André è un giovane ingegnere, nato a Minsk
(Bielorussia) da famiglia agiata, che appena è stato possibile ha chiesto di
emigrare in Canada. Ci sono riusciti nel 2005, pagando una bella cifra. Il
padre fu minacciato, pistola alla tempia, e costretto a lasciare tutti i suoi
affari in patria.

Victor


1 febbraio

Victor
il tassista è venuto a prenderci per portarci a Leòn, domani proseguiremo per
la laguna di Apoyo. Nei venti minuti di tragitto racconta la storia della sua
famiglia, originaria di Las Penitas. Il padre era un povero pescatore con una
famiglia numerosa, che si rendeva conto delle ingiustizie subite dal popolo.
Parlava ai compagni, li spronava a ribellarsi. La situazione era drammatica,
mancavano le scuole e i centri di salute che ora, con l’amministrazione Ortega,
sono sorti ovunque. Nei primi anni dopo la rivoluzione, gli studenti delle città
furono inviati nelle campagne per insegnare ai figli di contadini a leggere e
scrivere. Un tempo i proprietari terrieri non si curavano dei loro dipendenti,
volevano tenerli nell’ignoranza per meglio controllarli. Pare che l’unica
attenzione fosse data agli uomini la domenica, con l’arrivo delle prostitute e
la distribuzione di rum. La condizione delle donne era di completa
sottomissione.

Un
giorno, dopo disordini da lui fomentati, fu mandato in prigione, con i suoi
figli. Uscito, decise di trasferirsi a León, cercare un lavoro, mentre la mamma
si mise a vendere cibo e i figli furono mandati a scuola. Victor aveva 14 anni
quando fu prelevato a scuola e arruolato nell’esercito, come era la regola,
allora. Dopo alcuni anni passò nelle file dei sandinisti. «In quegli anni
imparai a leggere e a scrivere e mi misi a studiare». Victor mi affascina, ha
doti di sintesi e chiarezza nel raccontare le vicende della sua vita e la
storia del suo paese. Spero di sentire altre storie, domani, in viaggio.

San Juan del Sur


3 febbraio

Anita
è una signora triestina che vive a San Juan del Sur da molti anni e nella sua
bellissima casa ha due stanze per gli ospiti. Costruita in legno pregiato è
aperta su un giardino di piante grasse, bouganville e manghi. I vicini di casa
appartengono alla famiglia
Chamorro, signori di Granada e proprietari de La Prensa, il quotidiano
che riesce ancora a fare opposizione al governo Ortega.

Tutto
è di gusto raffinato, non ci sono vetri, solo gelosie di legno, tiranti di
ferro e veri alberi coi rami che sostengono il tetto.

La
sera cerchiamo la gelateria italiana e incontriamo Stefano Cardonato, giovane
ingegnere ambientale torinese che sta trascorrendo le sue vacanze
viaggiando. è ospitato sulla strada del caffè nella casa di una famiglia
di contadini nell’ambito del programma «Turismo Rurale». Il padre di famiglia,
racconta, esce presto la mattina per andare a lavorare nei campi e si porta i
piccoli dietro. Non c’è bisogno di asilo, loro sono contenti e giocano. A
mezzogiorno ritorna nella casetta, e si gode la famiglia.

Ometepe, l’isola


7 febbraio

Su
consiglio di Stefano parto per Ometepe. Lasciamo le grandi spiagge di San Juan
del Sur e ci fermiamo al mercato di Rivas, snodo importante sulla Panamericana,
dove ci sono gli zuccherifici, l’università e l’ospedale. Il traffico in centro
è rallentato dai numerosi ricshò che trasportano cose e persone.

A San
Jorge ci imbarchiamo sul ferry per Ometepe. Siede accanto a me una coppia di
contadini. Sono stanchi, si addormentano subito riversi sul sedile e paiono
morti. Hanno piedi che non hanno mai visto scarpe, mani da lavoro, visi
rinsecchiti, scavati dalla miseria. Impressionante.

Un pick
up
ci porta a Merida su una strada che è un torrente in secca con pietre e
buche che quando piove diventa impraticabile. Gli isolani usano la bici, che
spingono sulle ripide salite. I cavalli si usano per trasportare i platani (o plantani),
i migliori d’America, che esportano nei paesi vicini. Si friggono due volte e
sono ottimi come contorno.

Forse
il prossimo anno asfalteranno i primi 2 chilometri di questa strada, mentre una
pista per piccoli aerei è già stata costruita, ma mai usata.


9 febbraio

Ometepe
è un’isola fantastica, formata da due vulcani spuntati in mezzo al lago più
grande dell’America centrale. Abitata molti secoli prima della scoperta
dell’America, conserva petroglifi e ceramiche che le famiglie raccolgono ed
espongono nelle case.

In
riva al lago un catalano con l’orecchino si è associato con Louis, nativo
dell’isola, e insieme hanno costruito due casette di mattoni, una cucina con
due fornelli a legna, una pergola e un riparo per i kayak, il Caballito
del mar
. Ci sistemiamo qui anche se ci sono lodge più belli, che
attirano i viaggiatori alla ricerca della natura incontaminata. La sera però
arrivano da noi per gustare i piatti semplici e gustosi di Maria Teresa, la
nostra cuoca. La vedo arrivare all’alba per spazzare, pulire, accendere il
fuoco e cucinare. Pesce del lago appena pescato, pollo al miele e le repochetas,
tortillas fatte a mano e fritte, coperte di crema di fagioli, formaggio
e cavolo. Oggi Louis è andato a comprare un pollo dai contadini, me lo ha
portato in un sacco, poi si è messo a spiumarlo in cucina, mentre Maria Teresa
preparava le verdure per la zuppa. Parte della bestia è stata poi cucinata con
rum, cipolle e miele. Viviamo questi giorni accanto agli abitanti e la notte
siamo svegliate dal canto del gallo, dall’abbaiare di cani, dai versi e dai
richiami di uccelli e altri animali.

Maria

Sono
le sei del mattino e la chioccia è arrivata coi pulcini a becchettare davanti
alla nostra capanna. Maria ha già lavato parte del secchio di panni sulle
pietre poste in riva al lago. Con i piedi in acqua, passa sapone e spazzola sui
vestiti sporchi di famiglia. Maria ha solo tredici anni, quattro fratelli e due
sorelle e ha sempre lavorato aiutando in casa. La sua famiglia abita qui,
sull’isola, dove alcuni stranieri hanno già pensato di installarsi. La terra
sull’isola costa sempre più cara, perché molti arrivano qui dal Costarica alla
ricerca di un paese genuino e meno caro.

Oggi
risaliremo il fiume Istan, che taglia l’istmo che separa i due vulcani.
Entriamo con il kayak in un paradiso di alberi maestosi, alcuni in piena
fioritura, dove possiamo vedere una grande varietà di uccelli, scimmie,
alligatori. L’acqua è tranquilla, ricoperta da piante acquatiche, l’atmosfera
serena. Sullo sfondo i due vulcani, con un cappello di nuvole sulla cima.

10 febbraio

Siamo
arrivate a Moyogalpa a mezzogiorno, dopo esserci fermati a Ojo de Agua, una
piscina quasi naturale di acqua sorgiva e, pare, benefica. Ci siamo fermati poi
a Charco Verde, un complesso turistico presso una laguna, oasi naturalistica
protetta. Un posto per turisti esigenti, molto bello e molto diverso dal Caballito
del mar
. Ci sono alberi maestosi, il prato e la spiaggia attrezzata. Niente
galline, né maiali o bambini in giro.

Proseguiamo
per Moyogalpa, cittadina deliziosa, vivace e trafficata fino alle 17, quando
parte l’ultimo traghetto per Sao Jorge. La via principale ha casette colorate
dove si aprono botteghe, caffè, comedor e ristoranti. La sera si
accendono le luci e si scorgono gli interni con le decorazioni vivaci, le
poltrone a dondolo di legno scolpito, le tendine di pizzo. Le famiglie allora
si siedono sul marciapiede a chiacchierare, mentre i bambini giocano per
strada.

La
via sale e termina con il parque central, piccola piazza ombrosa con
panchine, e la chiesa cattolica. Entriamo e vediamo una chiesa povera, anche se
piuttosto grande. Le colonne sono di legno e hanno lunghe cortine di pizzo con
mantovana. Il pavimento ha bisogno di restauro, mancano alcune mattonelle.
Fuori si accende il tramonto sul lago.

Gli
altri, le sette evangeliche che arrivano dagli Usa, sono molto agguerriti,
salgono persino sui bus e parlano per ore di Gesù in mezzo alla gente. Poi
chiedono soldi e la gente sgancia.

Dona Nora

«Sono
nata 64 anni fa e la mia era una povera famiglia contadina. A vent’anni avevo
già due bimbe e la vita dei campi era troppo dura». Dona Nora siede su un
dondolo di legno intagliato, nel patio del suo albergo e mi racconta la sua
vita. «Arrivai a Moyogalpa e mi misi accanto al molo dei ferries, sotto
una capanna col tetto di foglie di banano. Vendevo gallo pinto, birra e
bibite».

Dona
Nora si è messa il rossetto, il corpo adagiato nella sedia a dondolo è
disfatto, ma gli occhi brillano, mentre continua il racconto della sua vita. «Comprai
il terreno e negli anni successivi comprai quello accanto, dove ho fatto
costruire questo albergo». Le piante e i fiori nel giardino sono stupendi, ci
sono anche due carambole (star fruit) cariche di frutti. Le pareti
dell’albergo sono dipinte a colori vivaci, con i vulcani e le mappe dell’isola.
Altri tre figli arrivarono negli anni, ma pare che gli uomini non abbiano mai
collaborato.

Granada


12 febbraio

L’ultima
sosta la dedico a Granada, antica capitale che ha scoperto una vocazione
turistica.

Il
vulcano Mombacho domina il paesaggio e condiziona lo sviluppo delle città.

Le
case coloniali del centro storico sono state restaurate, alcune sono ora di
proprietà straniera altre sono strutture turistiche, ma la vita degli abitanti
nei quartieri periferici non pare cambiata.

Mi
fermerò qui solo una notte in una posada, una casa privata, dove i due
anziani proprietari passano la giornata in dondolo, ricambiando gli sguardi dei
passanti, mentre umili donne lavorano.

Claudia Caramanti


Claudia Caramanti




Non è più terra di conquista

Tra Russia ed Europa

Chi si reca in
Lituania oggi nota subito quanta Europa «si respiri» lassù: dieci anni dopo
l’ingresso nell’Unione europea, infatti, rimangono ancora evidenti i retaggi
sovietici e le difficoltà di convivenza tra le diverse minoranze.

Attraversare
la Lituania è un’esperienza affascinante: l’incontro tra passato e presente dà
vita a forti contrasti, influssi sovietici e simboli occidentali convivono
fianco a fianco, sia nelle città che nelle campagne. Profonda e forte, come le
croci di Kryžių Kalnas (la Collina delle croci), appare poi l’anima cattolica
del paese, simbolo del nazionalismo, del desiderio di indipendenza e di unità
lituani.


Per alcuni geografi Vilnius è il centro dell’Europa che va
dall’Atlantico agli Urali, e dal Circolo Polare Artico al Mediterraneo.

Qui
avvenne l’incontro, non sempre pacifico, tra pagani e cristiani, fino a quando
il re Mindaugas, nel XIII secolo, si convertì al cristianesimo, unificando le
varie tribù del Granducato di Lituania, del quale fu incoronato sovrano nel
1253. Mindaugas si convertì al cattolicesimo nell’ambito di un accordo con i
Cavalieri Teutonici, i famosi monaci guerrieri tedeschi che avevano conquistato
gran parte dei territori dell’antica Prussia, spingendosi fino a Memel
(l’odiea Klaipėda, in Lituania).

I
lituani, comunque, rimasero in gran parte pagani fino al 1400: il loro fu
l’ultimo paese europeo a convertirsi, innanzitutto per la loro orgogliosa
indipendenza.

Il re
cattolico Vytautas (1352-1430), aprì le porte del suo regno agli ebrei di tutto
il continente trasformando Vilnius nella «Gerusalemme del Nord», con 105
sinagoghe, una grande scuola talmudica, e la presenza del gaon, ossia il
leader spirituale della comunità ebraica mondiale.

A
partire dal 1385, a seguito dell’unione con la corona polacca, la Lituania andò
incontro a un processo di «polonizzazione». Di questa relazione forte e ambigua
con la Polonia rimangono ancora oggi segni evidenti.

Nel
1654 la Russia invase temporaneamente la Confederazione, impossessandosi di una
parte considerevole dei territori, e nel 1795 tutta la Lituania passò sotto il
dominio russo. Mentre Estonia e Lettonia vennero governate come province autonome,
sulla Lituania il governo russo esercitò un controllo molto più rigoroso perché
il rischio di ribellione sembrava più alto.

L’aspirazione
alla rinascita nazionale del popolo lituano raggiunse l’apice tra il XIX e
l’inizio del XX secolo, anche grazie al rapido sviluppo industriale di Vilnius
e degli altri centri urbani, e riuscì a realizzarsi in un breve periodo di
indipendenza alla fine della prima guerra mondiale, durante la quale la
Lituania fu occupata dalla Germania. Nel novembre 1918 quest’ultima firmò
l’armistizio con le potenze alleate, e nello stesso giorno fu istituito il
governo della Repubblica Lituana.

Il
neonato stato riuscì a ottenere da Lenin il riconoscimento dell’indipendenza,
ma si trovò ad affrontare l’attacco della Polonia che ambiva a riprendersi il
suo antico territorio. I polacchi occuparono Vilnius e la parte meridionale del
paese nel 1920, mentre la capitale della Repubblica Lituana fu trasferita a
Kaunas.

Il
susseguirsi di dominatori spinse alla fine i lituani ad apprezzare l’intervento
dei sovietici prima e dei nazisti poi. Questo è evidente nei musei storici del
paese che raccontano l’occupazione nazista valutandola quasi positivamente
rispetto a quella sovietica.

Prima
della seconda guerra mondiale Vilnius ospitava una delle comunità ebraiche più
importanti d’Europa, tanto che nel 1925 fu scelta come sede dell’Istituto di
Ricerca Scientifica Yiddish Yivo. Negli stessi anni sorsero un gran numero di
scuole, biblioteche, teatri, sinagoghe e case di preghiera, e sei quotidiani ebraici.

Quando
Hitler invase l’Unione Sovietica, e l’esercito arrivò in Lituania, si scatenò
una carneficina: in soli cinque mesi, dal luglio al dicembre 1941, oltre
160mila persone furono uccise: l’80% della popolazione ebraica. Alla fine della
seconda guerra mondiale, la comunità ebraica lituana risultava praticamente
azzerata.

La
Lituania fu anche l’unica delle repubbliche sovietiche in cui una forte
resistenza armata si oppose alla rioccupazione dell’Urss, che ebbe inizio già
nel 1944 e durò fino al 1953, anno della morte di Stalin. I partigiani lituani,
chiamati «Fratelli della foresta», con la loro guerriglia scoraggiarono la
politica di immigrazione russa che invece stravolse la fisionomia di Estonia e
Lettonia. Nonostante questo, si stima che si trovino comunque in Lituania 115
diverse comunità etniche la cui convivenza non è sempre facile.

Un’altra
caratteristica dell’opposizione antisovietica lituana è il ruolo della Chiesa
cattolica, sostanzialmente assente in Estonia e Lettonia, come «polo di attrazione
della dissidenza».

Dopo
l’indipendenza nel 1991, la Chiesa cattolica ha rapidamente ripreso possesso
delle proprietà ecclesiastiche riconsacrando i luoghi di culto. Oggi circa
l’80% dei lituani si dichiarano cattolici. Fra le minoranze religiose ci sono
gli ortodossi (4%), i protestanti (2%), e altre confessioni.

Soviet nostalgia?

I
conti con il proprio passato si fanno non solo ricordando l’orgoglio e
celebrando il senso di identità nazionale, ma anche recuperando memorie
dolorose e cercando di dare loro una nuova collocazione, una nuova forma.

È
quello che è successo, ad esempio, con il Grutas park, il parco delle sculture
sovietiche, sorto a pochi chilometri dal confine polacco lituano.

Entrando
in Lituania dal confine polacco, infatti, una delle «attrazioni imperdibili»,
testimonianza del desiderio di conservare viva la memoria, è il parco di
Grutas. Il parco, soprannominato Stalin World, ospita una vasta collezione di
statue, un tempo collocate come simboli del potere sovietico in vari parchi e
piazze di tutto il territorio nazionale.

Il
parco è stato voluto da Viliumas Malinauskas, ex direttore di kolchoz
(le cornoperative agricole sovietiche), poi imprenditore arricchitosi grazie a
un’azienda di funghi in conserva. Nel 1999 egli ottenne in concessione dal
ministero della Cultura le sculture, e decise di installarle in una parte della
sua proprietà di 200 ettari.

L’ingresso
del parco, progettato in modo da ricordare un campo di concentramento
siberiano, riproduce il presidio al confine sovietico polacco, con tanto di
filo spinato e di barriere a strisce bianche e rosse sul lato polacco, e rosse
e verdi sul lato sovietico. Accanto si trova uno dei vagoni con cui i
prigionieri lituani venivano deportati in Siberia.

Una
volta attraversato il tornello dell’ingresso, si viene accolti da musiche russe
emesse da altoparlanti fissati sulle torri di vedetta, mentre nel ristorante si
possono mangiare con posate di fabbricazione sovietica sardine, cipolle e,
ovviamente, bere vodka. La maggior parte delle statue del parco non dicono
molto agli stranieri poiché rappresentano «eroi» o episodi della storia locale.
Ma non è così per le giovani coppie di lituani che, spesso con i figli,
passeggiano fermandosi di fronte a storie o personaggi magari citati dai propri
genitori o nonni.

Museo della Guerra fredda

Proseguendo
verso Nord, un altro luogo estremamente significativo è il Museo della Guerra
fredda, inaugurato alla fine del 2011, ricavato in un’ex base missilistica
sovietica sotterranea costruita all’inizio degli anni ‘60 nel cuore del parco
nazionale di Žemaitija, e rimasta sorprendentemente sconosciuta alla
popolazione lituana per decenni.

Nel
museo è allestita una mostra riguardante la storia della Guerra fredda e, in
particolare, la situazione dei paesi baltici. C’è anche una sezione dedicata
alla costruzione e al ruolo della base missilistica stessa, che un tempo
custodiva missili nucleari con potenza sufficiente ad annientare gran parte
dell’Europa. La principale attrattiva del museo è, infatti, la possibilità di
visitare uno dei bunker che un tempo racchiudevano le enormi testate nucleari:
missili R12 lunghi 22 metri.

Per
costruire la base, nel 1960 furono inviati sul posto 10mila militari provenienti
dagli stati satellite dell’Urss, che completarono l’opera in otto mesi. Essa
ospitò il 79° Reggimento missilistico fino al 1978, quando i missili
scomparvero «misteriosamente», e la struttura fu abbandonata al suo destino.

Nel
corso della sua storia, la base fu utilizzata per puntare i propri missili in
direzione dell’America durante la crisi internazionale cubana dell’autunno
1962, e fu tra quelle allertate con allarme rosso durante l’invasione della
Cecoslovacchia del 1968.

La Collina delle croci

È sulla
Collina delle croci, più che in ogni altro luogo, che si può ripercorrere e
sentire la storia, il passato e il presente, ma soprattutto il desiderio di
indipendenza e la forza del sentimento nazionalista del popolo lituano.

La
Collina delle croci è un luogo impressionante, affascinante e sconvolgente al
tempo stesso. Qui sono state erette migliaia di croci, da parte di innumerevoli
pellegrini e delle moltissime coppie che, di sabato, vi si recano appena dopo
la cerimonia nuziale.

Grandi
e piccole, preziose e povere, in legno e in metallo, le croci possono assolvere
la funzione prettamente religiosa di accompagnare la preghiera, ma anche
rappresentare, con i loro elaborati lavori di intaglio, veri capolavori
dell’arte popolare. Alcune sono state piantate in memoria di persone scomparse.
In tal caso sono accompagnate da fiori e qualche fotografia, o da altri oggetti
che ricordino il defunto, con un’iscrizione affettuosa o un messaggio
religioso.

Sparsi
fra le croci si possono vedere non solo i tradizionali koplytstulpis
lituani (statue di legno sormontate da un piccolo tetto), ma anche alcune
sculture lignee raffiguranti il Cristo Addolorato (Rūpintojėlis).
Secondo i principi di un’arte tramandata di maestro in allievo, le croci sono
intagliate in legno di quercia, l’albero sacro della mitologia pagana. Intese
come offerte agli dei, erano accompagnate da cibo oppure avvolte con sciarpe
colorate (per propiziare un matrimonio) o con grembiuli (auspicio di fertilità).
Una volta riconosciute dalla Chiesa, si legarono però definitivamente ai riti
cristiani, assumendo una connotazione sacra. In seguito, le croci divennero
simboli della resistenza contro l’occupazione configurandosi come testimonianza
non solo di devozione, ma anche di identità nazionale.

Diverse
sono le storie che circolano sull’origine della Collina e la colorano di
leggenda: alcune sostengono che sia stata costruita in tre giorni e tre notti
dalle famiglie dei soldati uccisi in una grande battaglia, altre dicono sia
stata opera di un padre che, nell’estremo tentativo di far guarire la figlia
malata, per primo innalzò una croce votiva sulla Collina. Altre ancora narrano
di un castello distrutto dai Cavalieri Portaspada nel Trecento, sui cui ruderi
sarebbe sorto il simbolo della fede e della nazione lituana. Da ultimo, le
tradizioni pagane narrano di vergini celestiali che in questo luogo accendevano
e accudivano i fuochi sacri a loro affidati, e di un tempio, costruito in epoca
precristiana, in cui si praticavano sacrifici e culti pagani.

Le
testimonianze più attendibili però riportano che le prime croci furono
collocate dagli abitanti della zona per commemorare le vittime degli scontri
del 1831 e del 1863 tra la popolazione lituana, che protestava contro
l’oppressione del regime zarista, e le autorità russe che avevano annesso la
Lituania nel 1795. Diverse persone, nel corso di quei moti insurrezionali,
avevano perso la vita per il sogno di rivedere la patria lituana risorgere e
riaffermarsi nel contesto europeo. Così, gli abitanti delle città limitrofe
presero a piantare, nel terreno particolarmente morbido della Collina, delle
croci, delle più svariate fogge e dimensioni, in memoria dei propri cari che
non tornavano. La Collina divenne così rapidamente un luogo d’incontro dove
ognuno andava per piantare la propria croce e chiedere una grazia, commemorare
un defunto, e così via.

La
prima menzione della Collina in un documento risale al 1850 e riguarda la
notizia che centinaia di croci vi furono piantate dopo che un editto dello zar
aveva ordinato la loro rimozione dalle strade delle campagne circostanti. A
fine Ottocento le croci erano poco più di un centinaio, per lo più di grandi
dimensioni, ed esisteva anche una piccola cappella di mattoni. L’usanza di
andarvi a piantare delle croci prese piede e crebbe legando da subito
religiosità e patriottismo. Le messe celebrate ai piedi della Collina si
trasformavano in manifestazioni nazionaliste.

Divenuta
dunque simbolo del risorgimento nazionale, delle rivolte antizariste prima, e
della resistenza al regime comunista poi, la Collina non poteva avere vita
facile. Quell’affollarsi di fedeli e di croci, quella rivendicazione di
indipendenza, alterità e di fede dava fastidio al potere sovietico, ateo e
antinazionalista, che nelle scuole insegnava l’ateismo, che aveva trasformato
le chiese in musei, e aveva spedito nei lager della Siberia decine di migliaia
di persone, tra cui tanti preti e suore. Nel 1961, quindi, per la prima volta, «l’ateismo
dei bulldozer» spianò la Collina, bruciò le croci di legno e portò alla rottamazione
quelle di ferro. Quel gesto però sortì una reazione opposta: la stessa notte
altre croci vennero piantate al posto di quelle distrutte o bruciate. E lo
stesso avvenne anche negli anni successivi, di fronte ai nuovi tentativi del
regime di spianare la Collina. Alle operazioni di pulizia delle forze
dell’ordine faceva seguito il silenzioso ritorno delle croci. I comunisti
tornarono a spianare la Collina per tre volte, il sito venne piantonato
dall’Armata Rossa, sorvegliato dal Kgb (i servizi segreti sovietici), si pensò
addirittura di allagare l’area, per trasformare la Collina in un’isola
inaccessibile. Una di queste tre volte fu nel 1972, quando uno studente di
Kaunas si suicidò in segno di protesta contro l’occupazione sovietica. Di
nuovo, anche in quell’occasione, le croci tornarono sulla Collina.

Ancora
oggi si possono individuare le croci in ferro che, scampate ai bulldozer e
recuperate, ora stanno in piedi un po’ sbilenche, raddrizzate a martellate, in
equilibrio solo apparentemente precario su blocchi irregolari di cemento. Nel
1990 erano circa 50.000. Nel 2000 arrivavano addirittura a 100.000.

Papa
Giovanni Paolo II si recò sulla Collina delle croci durante la sua visita in
Lituania nel settembre del 1993. Celebrò la messa all’aperto su un altare in
legno costruito per l’occasione e donò alla Collina e al popolo lituano una
grande croce dello stesso materiale con una base in granito sulla quale è
riportato il suo ringraziamento per la testimonianza di fede: «Grazie a voi
lituani per questa Collina delle croci, che testimonia ai popoli di tutto il
mondo la grande fede del vostro popolo».

Alle
spalle della Collina si trova oggi un monastero francescano, costruito fra il
1997 e il 2000, dopo che Giovanni Paolo II espresse il desiderio che qualcuno
si occupasse della cura e della manutenzione del sito. Oggi nel monastero si
trovano 10 frati.

Viviana Premazzi


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Viviana Premazzi