Un sogno avverato

Le Suore di Maria
Immacolata arrivano in Italia
.
Fondate nel 1918 a
Nyeri, in Kenya, da monsignor Filippo Perlo, uno dei primi quattro missionari
della Consolata in Africa, le suore missionarie di Maria Immacolata sbarcano in
Italia. Frutto della missione italiana in Africa: segno della Chiesa che modifica,
e a volte inverte, le sue traiettorie.



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«Il nostro fondatore è
senz’altro felice di vederci aprire una comunità nella terra dei suoi antenati».

Fondate nel 1918 in Kenya da un missionario della Consolata, monsignor
Filippo Perlo, le suore di Maria Immacolata hanno aperto la loro prima missione
in Italia.

Incontriamo la loro Madre generale, suor Mary Isaac Waithira, al suo
arrivo a Roma per la costituzione della nuova comunità di tre suore pioniere
nella Diocesi di Termoli.

Una grande gioia

«Venire in Italia non è stato facile», dice suor
Isaac. «C’è voluto un cammino arduo per poter realizzare il sogno di venire
nella terra del fondatore. Ho sempre pensato: “Chi potrà portarci nella patria
del nostro fondatore e quando?”. Ho sempre sentito dentro di me che noi eravamo
debitrici ai primi missionari. Penso che anche mons. Perlo non fosse contento
di noi per il fatto che non fossimo ancora venute in Italia».

Suor Mary ci confida che sarà bello per la sua congregazione celebrare
il Centenario della loro fondazione festeggiando quello che lei definisce «un
magnifico sogno avverato». È convinta infatti che è il Signore ad aver aperto
loro la strada per l’Italia.

«Siamo riconoscenti ai missionari che sono venuti da noi, e vorremmo
restituire, nel piccolo modo a noi possibile, ciò che abbiamo ricevuto». Sul
suo viso si legge una gioia profonda, e una grande gratitudine verso il Signore
che le ha chiamate, e verso il vescovo, mons. Gianfranco De Luca, che le ha
ricevute nella sua Diocesi. «Vedere le mie suore in una comunità italiana è una
gioia indescrivibile. Non so come ringraziare il vescovo per averci accolte in
una delle sue parrocchie».

L’ora di Dio

All’avvicinarsi del Centenario, molte persone si
chiedevano perché le suore di Maria Immacolata non avessero nessuna comunità
nel paese natale di mons. Filippo Perlo. La Madre generale dice semplicemente: «L’ora
di Dio è la migliore. Lui ha voluto che questo grande passo nella storia della
nostra Congregazione si realizzasse ora. Sì, penso proprio che Dio l’abbia voluto
oggi». Senza nascondere la sua soddisfazione, la Madre dice che anche il modo
con cui sono state accolte nella diocesi, e ancor più nella parrocchia di
Guardialfiera, ha mostrato loro che era esattamente questa l’ora giusta del
loro arrivo.

«Sono molto contenta perché Dio ha reso possibile
il nostro essere qui. Il modo con cui il vescovo ci ha accolte è
inimmaginabile: non abbiamo mai avuto una tale accoglienza da nessun altro
vescovo».

Il loro fondatore diceva sempre di non aver paura
di uscire e andare in altri posti, perché Cristo avrebbe sempre aperto loro le
porte. «Aprendoci le porte dell’Italia, penso che il Signore ci stia offrendo
un’opportunità feconda per ripagarlo, servendo fedelmente quella comunità da
cui noi stesse siamo state servite in passato».

Un futuro luminoso di grandi sentimenti

«Oggi sogno di seguire i nostri fratelli missionari della Consolata a
Taiwan. Sarebbe bello essere presenti in Cina, in Asia, nell’America del Sud, e
in tutte le nazioni africane possibili: siamo missionarie chiamate ad andare, a
predicare la Buona Notizia dappertutto».

L’ottimismo di suor Waithira è lo specchio dell’ottimismo di tutta la
sua congregazione che vede nella loro venuta in Italia una chiave per aprire
nel futuro tante altre porte per altre nazioni e continenti.

«La nostra vita e il nostro sogno consiste in un autentico servizio al
popolo di Dio in tutta la terra e ora vedo che ciò comincia ad avverarsi».

Ella vede il futuro del suo istituto molto luminoso e prega il
fondatore di intercedere perché il Signore gli conceda di raggiungere gli
estremi confini del mondo.

«Mi sento molto realizzata e animata: riconosco le meraviglie di Dio e
in esse la conferma che egli concede tutto ciò che gli si chiede. Per questo il
nostro futuro è limpido e splendente».

Sfide e speranze

Ora che la nuova comunità si è stabilita, suor Mary Isaac, oltre che
delle speranze, parla anche delle sfide che le sue consorelle affronteranno.

«Le mie missionarie sono pronte per un duro
cammino. Vivere in Europa non è facile, ma è possibile perché la gente è buona
e ci darà la possibilità di servirla».

Pensa ad esempio al grande lavoro richiesto per
raggiungere i giovani: «Le suore dovranno sviluppare l’abilità di stabilire
contatti con la gioventù per mostrare loro la vera vita». E continua: «La gente
ha bisogno di vedere Cristo in loro; lo Spirito Santo sosterrà il loro
entusiasmo e lo shock culturale si cambierà in gioia: confido molto in loro»,
dice con un sorriso.

Una parola alle suore pioniere

Augurando ogni bene alle suore Lydia Macharia,
Mary Maguta e Piera Njoki, la Madre generale dice loro: «Voi siete state
benedette per aprire una nuova pagina nella storia della nostra Congregazione.
Siate forti come lo era il nostro fondatore; amate la gente; aiutate i vecchi;
visitate gli ammalati e accogliete la gioventù nel vostro convento. La gioventù
ha bisogno di persone che sappiano mostrare il Cristo; siate pazienti e non
stancatevi mai di servire».

Invocando poi benedizioni e preghiere per le tre
suore dice: «Prego che rimaniate forti in tutte le difficoltà. Preservate la
vostra identità di suore di Maria Immacolata e il Signore vi benedirà. Il
nostro fondatore, mons. Perlo, e Maria nostra Madre vi accompagneranno sempre».
E infine conclude: «Rimanete radicate profondamente nella grazia di Dio per
mantenere vivo quel nostro sogno dorato che si è ora avverato».

Joseph Caesar
missionario della Consolata

 


Suore di Maria Immacolata
 

Congregazione africana fondata a Nyeri, Kenya, da mons.
Filippo Perlo, nel 1918 per rispondere all’aspirazione di cinque ragazze ad
accogliere la chiamata di Gesù a seguirlo nella vita religiosa.

Attualmente le suore di Maria Immacolata sono presenti in
Kenya, Uganda, Tanzania, Stati Uniti d’America e Italia. Nella zona dell’Africa
orientale lavorano in dieci scuole primarie e tre secondarie, in tre
orfanotrofi, due ospedali e cinque dispensari. Foiscono anche la formazione
professionale attraverso tre centri e aiutano giovani uomini e donne poveri a
frequentare studi di livello universitario.(sistersofmaryimmaculate.org)


Mons. Filippo Perlo

Nato a Caramagna Piemonte (Cn) l’8 febbraio 1873, nel 1902
entrò nell’Istituto Missioni Consolata e partì per il Kenya, dove, in 22 anni,
diede un impulso formidabile allo sviluppo della Chiesa locale. Tra le iniziative,
anche la fondazione delle suore di Maria Immacolata di Nyeri. Alla morte
dell’Allamano nel 1926 divenne superiore generale dell’Imc. Durante la visita
apostolica del 1930 si ritirò a Roma. Morì il 4 novembre 1948.

Partito col primo drappello di quattro missionari
destinati al Kenya, padre Filippo Perlo raggiunse Tuthu, villaggio del capo
kikuyu Karuri, la sera del 28 giugno 1902.

Come
superiore del gruppo l’Allamano aveva scelto padre Tommaso Gays; ma il capo
naturale e motore trainante risultava a tutti Filippo Perlo, che l’anno
seguente fu nominato superiore.

Sapeva
trattare con le autorità locali e coloniali senza lasciarsi condizionare; con
intelligenza, diplomazia e un po’ di furbizia contadina, riusciva a ottenere il
massimo e concedere l’indispensabile. Sognava una rete di missioni, distanti
una giornata di cammino una dall’altra (secondo la regola imposta dal governo
coloniale), entro cui abbracciare tutta la regione dei Kikuyu […]. Capiva che
quello era l’unico modo per non restare esclusi a causa degli insediamenti
protestanti. A un anno e mezzo dall’arrivo in Kenya erano nate sette missioni,
un collegio per catechisti, una segheria e una fattoria agricola in embrione.

All’inizio
del 1904 i missionari si radunarono a Fort Hall (oggi Murang’a) e gettarono le
basi del loro metodo di apostolato: formazione d’ambiente, cura dei malati,
visite giornaliere ai villaggi, scuole, soprattutto di arti e mestieri,
formazione di catechisti. Principi e regole diventate punto di riferimento fino
ai nostri giorni. […] Il 14 settembre 1905, […] fu creata la missione
indipendente del Kenya e quattro anni dopo fu eretta a vicariato: padre Perlo
fu nominato vicario e consacrato vescovo.

Il
consolidamento del lavoro tra i Kikuyu mise le ali a mons. Perlo, deciso a
estendere l’attività missionaria ad altre etnie. Nel 1911 visitò la regione del
Meru, ancora sconosciuta; individuò varie località adatte in cui fondare nuove
missioni e, superati ostacoli e reticenze da parte delle autorità governative,
vi inviò i primi quattro missionari per iniziare l’evangelizzazione dei Meru.

[…]
Intanto l’attività dell’Istituto si estendeva all’Etiopia (1916) e Tanzania
(1919). Mons. Perlo metteva a disposizione i suoi migliori missionari; da
Torino veniva consultato o suggeriva nuovi progetti e mezzi per attuarli. Al
tempo stesso il vescovo escogitava per il vicariato una miriade di iniziative e
ne controllava strettamente l’esecuzione. Tra di esse la fondazione della
congregazione delle suore di Maria Immacolata di Nyeri (1918).

Alla
morte dell’Allamano divenne superiore generale dell’Istituto. Roma lo fece
ritirare dalla carica nel 1930. Morì [a Roma] nel 1948.

Adattato da
 MC, Speciale 100 anni, febbraio 2001.

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Joseph Caesar




Risvegliare le coscienze

Incontro con Pierre
Rabhi

Nato nel Sahara algerino,
Pierre Rabhi cresce in Francia. Molto presto capisce che il modello
capitalistico consumista è votato al fallimento, e porta gli uomini
all’infelicità. Il pianeta Terra non è illimitato. Occorre curarlo, accudirlo.
Nel 1963 Pierre decide di diventare contadino. Con l’esempio della sua vita
«inventa» l’agroecologia. Un metodo e una filosofia di vita. E la diffonde in
diversi paesi.



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La società umana può ancora modificare i suoi stili di vita e i
paradigmi economici dominanti orientando il suo destino verso l’edificazione di
un mondo migliore? Può ancora dare il diritto a ogni individuo di nutrirsi, vestirsi,
curarsi, avere una dignitosa dimora e un’istruzione?

Può cambiare rotta recuperando il suo atavico
equilibrio con la natura, rispettando i delicati ecosistemi? A queste e ad
altre domande Pierre Rabhi ha trovato una risposta partendo dalla sua diretta
esperienza di vita, come ex operaio, avvicinatosi alla terra per sentirsi
libero, indipendente dalle regole del mercato, e recuperando valori imperituri,
come la protezione e la valorizzazione dell’ambiente. Per trovare una soluzione
ai problemi non solo ecologici del nostro pianeta, ogni individuo – nella
visione di Rabhi – non dovrebbe attendere l’intervento degli stati che spesso
prendono decisioni politiche contraddittorie e inefficaci, ma deve attivarsi in
prima persona, attraverso piccoli e grandi gesti in grado di modificare «il
sistema».

L’idea dell’importanza dell’attivismo
individuale, poi traslato in una rete più ampia di gruppi interdipendenti è
sorta in Pierre Rabhi leggendo una favola di un popolo amerindo che racconta la
storia di un piccolo, ma coraggioso colibrì: «Un giorno – narra la leggenda –
ci fu un immenso incendio nella foresta. Tutti gli animali, terrorizzati e
costeati, osservavano impotenti il disastro. Solo il piccolo colibrì si
impegnò, andando a cercare qualche goccia d’acqua per gettarla sul fuoco
attraverso il suo becco. L’armadillo, irritato dai suoi movimenti, gli disse:
colibrì, ma sei folle? Credi davvero che con poche gocce d’acqua spegnerai
l’incendio? Lo so, rispose il colibrì, ma io faccio la mia parte». Ecco la
risposta alle nostre domande iniziali: «Io faccio la mia parte».

Leggendo questo mito amerindo Pierre Rabhi ha
trovato il suo cammino di vita attivandosi in prima persona per cambiare quelle
regole del sistema deleterie per la sopravvivenza non solo del pianeta, ma
anche della stessa specie umana.

Ma chi è Pierre Rabhi?

È un uomo che ha seguito l’amore per la natura
rivoluzionando non soltanto la sua esistenza.

Dall’Algeria, dove nel 1938 è nato e cresciuto
immerso in un habitat straordinario caratterizzato dalle oasi del Sahara, si è
trasferito in Francia a soli 12 anni, in seguito alla morte prematura della
madre. Il padre, fabbro, musicista e poeta, con l’arrivo della «modeità» e
dei colonizzatori francesi è stato obbligato ad abbandonare il suo tradizionale
lavoro per scendere nel cuore del sottosuolo, in una miniera di carbone. Un
drastico cambiamento che ha segnato anche l’esistenza di Pierre Rabhi. Su
decisione del padre è stato educato in una famiglia di formazione europea.

In seguito, durante gli anni trascorsi a Parigi,
lavorando in fabbrica come operaio specializzato, si è reso conto delle
profonde ingiustizie del sistema industriale capitalistico, tanto da sentire la
necessità di abbandonare tutto per scegliere un’altra vita, in simbiosi con la
terra. Una decisione che lo ha condotto a sviluppare in modo pionieristico
l’agroecologia, come lui stesso ci ha raccontato: «Sono nato nel Sahara, in
un’oasi del Sud dell’Algeria, ma sono cresciuto con una famiglia francese.
Questa doppia cultura non è stata facile da gestire, ma al di là di alcune
contraddizioni, la civiltà algerina e quella francese si tengono per mano. Sono
riuscito a trovare un equilibrio. Da oltre quarant’anni vivo con la mia
famiglia nelle Cévennes, dove mia moglie Michèle e io abbiamo creato una
fattoria gestita e coltivata secondo principi ecologici. Il che significa
vivere in armonia con la natura».

Prima di dedicarsi alla terra e di vivere a
stretto contatto con un ambiente straordinario dal punto di vista
naturalistico, Rabhi ha lavorato in fabbrica come operaio specializzato. Allora
era solo ventenne. Era l’epoca a cavallo tra il 1950 e gli anni Sessanta,
quando sembrava che l’industria potesse rivoluzionare tutto, portando benessere
a ogni latitudine del globo. Così non è stato.

«Solo pochi hanno beneficiato del cosiddetto
progresso. La stragrande maggioranza dell’umanità incontra enormi problemi a
nutrirsi, istruirsi, a vivere dignitosamente. Il mondo della fabbrica mi ha
aperto gli occhi. Anche dopo, quando decisi di andare a vivere in campagna,
lavorando in numerose fattorie come operaio agricolo sentivo che mancava
qualcosa: mancavano buone regole nel sistema di coltivazione e di distribuzione
delle risorse della terra. Ero molto combattuto se continuare ad accettare l’uso
di pesticidi e di altri prodotti chimici. Non condividevo gli strumenti
agricoli utilizzati, perché altamente deleteri per il suolo».


Agroecologia

«Grazie ad alcune letture, tra cui La Fertilità della Terra di Ehrenfried Pfeiffer e i libri di Rudolf Steiner,
fondatore dell’antroposofia, mi sono avvicinato all’agricoltura biodinamica.
Così, leggendo, sperimentando e coltivando la terra, ho capito che
l’agroecologia è la via – o comunque una delle vie ecologiste – che può salvare
il pianeta dalla catastrofe sia ambientale, sia sociale.

L’agricoltura industriale praticata nel Nord del
mondo inquina l’acqua e l’aria, distrugge il naturale humus fertile del suolo,
elimina la biodiversità mettendo brevetti alle sementi. L’agroecologia rispetta
la natura e al contempo la dignità umana».

Pierre Rabhi è uno degli antesignani in Europa
dell’agroecologia, che poi si è diffusa in altre zone del globo, in particolare
in Africa, attraverso efficaci progetti da lui stesso cornordinati. Il suo lavoro
è apparentemente semplice, perché non ha fatto altro che ritornare
all’agricoltura, la più antica attività dell’uomo, fonte di cibo.

Pierre Rabhi è però ritornato alla terra
eliminando prodotti chimici, pesticidi, sementi brevettate, fertilizzando il
terreno con i vecchi metodi usati ancora dai nostri nonni come i concimi
naturali e i rifiuti organici. Agroecologia significa rispettare gli equilibri
della terra.

L’uomo nella visione di Rabhi non è il
dominatore, né lo sfruttatore della natura per ottenere profitto, piuttosto è
compartecipe dei cicli naturali: semina utilizzando le stesse sementi
provenienti dal suo raccolto, aiuta a creare quell’humus indispensabile a far
germogliare i frutti, partecipa al mantenimento della salute della terra,
nutrendola, rispettandola.

No alle logiche del profitto

Pierre Rabhi, in Francia, richiama sempre
centinaia di persone ai suoi incontri sui temi dell’ecologia, della biodiversità
e della decrescita. I suoi libri sono letti da adolescenti, uomini e donne di
mezza età, anziani. Egli è una calamita per quanti ricercano uno stile di vita
diverso dalle logiche del profitto fine a se stesso. Con il suo modo di parlare
così pacato e gentile racconta alla gente che si può scegliere di vivere
diversamente, senza subire i diktat dell’industria agroalimentare, divenendo
autonomi attraverso la creazione di un proprio orto.

Per Pierre Rabhi, l’agroecologia è
indissolubilmente intrecciata alla sobrietà felice, in totale antitesi con chi
crede ancora nel paradigma economico della crescita. Pensare di produrre ancora
di più, pensare di sfruttare le risorse del pianeta ancora di più, pensare a un
«di più» illimitato (e incerto) conduce l’umanità su una strada pericolosa,
poiché disumanizza l’uomo e lo allontana dalla natura, sua vera nutrice.

Apertura al mondo

Queste idee Pierre Rabhi le ha trasposte nei
suoi numerosi progetti di agroecologia avviati con successo in Francia.
Diventato nel 1978 responsabile per la formazione in agroecologia del Centro di studi rurali applicati (che ha oggi sede a Lione), Pierre Rabhi ha
trasmesso la sua esperienza al di fuori dei confini francesi ed europei. Nel
1981 si è recato in Burkina Faso, invitato dal governo per aiutare a risolvere
la crisi ambientale ed economica del paese.

«Il Burkina all’epoca stava vivendo importanti
trasformazioni. C’era molta instabilità. Poi con l’arrivo di Thomas Sankara
qualcosa iniziò a cambiare. Quando lo incontrai per descrivergli i miei
progetti fu molto interessato all’agroecologia. Mi diede carta bianca per
rivalorizzare l’agricoltura nella “terra degli uomini integri” (significato di
Burkina Faso, ndr). C’era tanto da fare. Risolvere le continue
carestie e trovare alternative all’uso di pesticidi e di semi industriali erano
le priorità.

Nel 1985, riuscii a creare a Gorom Gorom, nel
Nord del paese, il primo Centro africano di
formazione in agroecologia.
Spiegai ai contadini burkinabè quanto è importante ritornare a usare concimi
naturali e, tra l’altro, a basso costo: i fertilizzanti per il suolo li potevano
produrre loro stessi grazie ai principi dell’agricoltura biodinamica.

La prematura e tragica morte di Sankara è stata
un duro colpo e ha costretto a ridimensionare il progetto in Burkina, ma non ad
annullarlo. Avevamo formato 900 persone, tra contadini e agronomi, così che le
pratiche legate all’agroecologia si sono potute diffondere anche in altre zone.
In Burkina sono oltre 100mila i contadini che oggi impiegano concimi organici
per fertilizzare il suolo».

Grazie a questo e ad altri programmi in Marocco,
Palestina, Algeria, Tunisia, Senegal, Togo, Benin, Mauritania, Pierre Rabhi,
alla fine degli anni Ottanta, viene riconosciuto come esperto internazionale
per la sicurezza alimentare e la lotta contro la desertificazione. Un fenomeno,
quest’ultimo, che lo preoccupa molto, insieme ai cambiamenti climatici.

Risorsa Terra

«A livello globale la siccità è un fenomeno in
aumento. Nella regione del Sahel ci sono state carestie terribili che hanno
abbattuto greggi, distrutto alberi, segnato la vita di famiglie e interi
villaggi. La siccità collegata ai cambiamenti climatici e al riscaldamento
globale è un problema che tocca la terra, le popolazioni, l’alimentazione. È
necessario modificare il nostro stile di vita.

Questo significa rivedere il paradigma economico
basato sul capitalismo internazionale, che escogita sempre nuove forme di
sfruttamento per ottenere profitto. Penso a quelle multinazionali che
utilizzano le terre dei paesi del Sud del mondo, in particolare in Africa, per
produrre nuove merci. Molte industrie agroalimentari sono alla continua ricerca
di nuovi terreni da sfruttare e l’Africa è un continente con enormi risorse.
Questo è il fenomeno del land grabbing (accaparramento di terra, ndr),
che causa la distruzione delle foreste e facilita l’ingresso degli Ogm
(organismi geneticamente modificati, ndr), che a mio avviso sono un
crimine contro l’umanità. I popoli oggetto del land grabbing sono privati del loro diritto a vivere, a causa di un processo di
spoliazione perpetrato da altri.

Ciò viene aggravato da capi di stato corrotti.
Se i politici al posto di essere disonesti proteggessero il loro popolo, la
situazione cambierebbe enormemente. Thomas Sankara stava cercando di cambiare
le cose, ma proprio a causa delle sue idee e per quello che stava realizzando
venne assassinato. Sankara stava andando contro gli interessi delle
multinazionali, come la Monsanto.

Ogni volta che si afferma un essere umano con
grandi qualità, gli si impedisce di vivere. Penso a Gandhi, a Martin Luther
King.

Ritengo che solo eliminando la corruzione a
livello politico sia possibile ostacolare e interrompere il fenomeno del land grabbing. Solo dicendo “No” alle multinazionali che danno soldi agli uomini di
stato per corromperli è possibile migliorare la vita delle persone. Si può e si
deve condurre una politica di resistenza alle pressioni e ai ricatti.

Personalmente, spero si possa sviluppare una
politica globale, intelligente e saggia per la gestione del bene comune, cioè
per il bene del pianeta. Noi dobbiamo scegliere e accettare solo persone con
un’alta levatura morale. Non possiamo più accettare rappresentanti istituzionali
che tolgono all’umanità ciò che è dell’umanità, come le risorse naturali, la
terra, l’acqua.

Il denaro non dovrebbe permettere tutto, perfino
confiscare alla specie umana i propri diritti. Abbiamo bisogno di una politica
attenta all’essere umano, quindi è necessaria una politica fondata
sull’umanesimo che permette di dire: “Il pianeta non appartiene a nessuno, ma
appartiene alla vita, a ogni essere vivente, alle generazioni future,
appartiene a tutti e non alle persone che hanno denaro!”.

È la società civile che deve mobilitarsi, che
deve agire in modo propositivo. La politica ovunque, in Francia, in Europa, in
Africa è ormai arcaica. Occorre l’azione della società civile ed è ciò che
stiamo cercando di fare».

Bisogno di umanesimo

Pierre Rabhi, coi suoi 76 anni di saggezza,
continua a realizzare progetti di agroecologia un po’ in tutto il mondo. Per
esempio, in Marocco è impegnato a dare vita a un centro nella zona di Marrakech
simile a quello di Gorom Gorom, destinato a formare i contadini locali e a diffondere
l’agricoltura ecologica. Importante è il lavoro effettuato anche in Medio
Oriente.

«In Palestina abbiamo lanciato tempo fa un
programma di agroecologia per eliminare prodotti chimici e per valorizzare
meglio le risorse della terra. Adesso non lo seguo più personalmente, dato che
il programma viene perseguito in modo autonomo dalle comunità locali di
Falamia, una regione desertica dove si trova anche la città di Tulkarem.

A questo proposito vorrei sottolineare che la
questione palestinese a mio avviso non è soltanto legata a dinamiche economiche
o a questioni territoriali, ma è anche condizionata da motivazioni etiche,
morali, umane, come avviene in altri teatri conflittuali.

Abbiamo bisogno di “umanesimo”, di quello
slancio etico e morale che ci spinge ad accorrere nel momento in cui altre
persone hanno bisogno quando si trovano in difficoltà».

Proprio per diffondere i principi
dell’agroecologia e della sobrietà felice, nel 2007 Pierre Rabhi ha fondato il movimento Colibris, per aiutare le persone – attraverso dibattiti, libri, documentari,
incontri – a costruire nuovi modelli sociali fondati sull’autonomia, l’ecologia
e l’umanesimo.

Gandhi disse: «Sono le azioni che contano. I
nostri pensieri, per quanto buoni possano essere, sono perle false fintanto che
non vengono trasformati in azioni. Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire
nel mondo». Pierre Rabhi ha voluto essere il cambiamento che vorrebbe vedere
nella società nel suo complesso. Lui, la sua famiglia e tutta la rete del
movimento Colibris stanno mettendo in atto una «rivoluzione silenziosa», sul
piano della partecipazione democratica, dell’educazione, dell’agricoltura e
dell’economia. Un esempio è il progetto chiamato Les Amanins, sito ecologico, nonché pedagogico, realizzato a La Roche-sur-Grâne,
nella Drôme francese. Qui, oltre ad applicare l’agroecologia e a difendere la
biodiversità, c’è una scuola molto speciale. I bambini, circa una trentina dai
5 ai 10 anni, imparano attraverso la cooperazione, la ricerca e la
sperimentazione diretta, costruendo con le loro stesse mani i giochi e altri
oggetti didattici, in un clima di collaborazione. Elemento importante nella
pedagogia di questa scuola è l’educazione alla pace, attraverso l’ascolto
attivo e la pratica della mediazione.

Tutto questo avviene a stretto contatto con la
natura. Perché questa Terra – come ricorda Pierre Rabhi – è l’unica nostra oasi
che conosciamo in cui possiamo vivere.

Silvia C. Turrin

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Silvia C. Turrin




Di guerra in guerra


Nel mondo un’inflazione di conflittualità

Esaminando i dati sulle guerre in essere, si scopre che dal
1945 la conflittualità nel mondo è in costante aumento. Per ragioni
ideologiche, per conquistare il governo, per motivi etnici, per controllare le
risorse naturali. Il panorama e le prospettive sono desolanti. Tanto che papa
Francesco parla di «Terza guerra mondiale».


Quanti conflitti si stanno consumando nel mondo? Non è
possibile dare una risposta esauriente e definitiva a questa domanda visto che,
a seconda dei vari criteri di analisi, il numero, l’intensità e la tipologia di
violenza possono risultare sensibilmente diversi da uno studio all’altro.

Una valutazione complessiva, però, la si può dare, e non è
certo positiva: nel corso del 2013, la tendenza a risolvere le divergenze con
le dispute armate è stata in costante aumento.

I dati di Uppsala

Il principale rapporto su cui molti analisti e studiosi
basano le proprie osservazioni sul tema viene stilato annualmente dal
Dipartimento di pace dell’Università di Uppsala, in Svezia.

L’istituto svedese divide l’intensità e la gravità degli
scontri secondo parametri che tengono conto sia del numero di vittime accertate
nel corso dell’intero anno, sia delle parti in causa coinvolte.

Secondo questo criterio si può parlare di guerra conclamata
solo se i morti superano le 1.000 unità, mentre se le vittime accertate sono
comprese tra un minimo di 25 e un massimo di 1.000 lo stato di belligeranza
viene declassificato come conflitto minore.

Un altro principio utilizzato dagli studiosi di Uppsala per
accertare la tipologia di scontro è l’identificazione degli attori coinvolti
nelle operazioni belliche, generalmente forze armate governative o gruppi
militari organizzati (anche se privi di una sigla o di un nome ufficiale) le
cui azioni si concentrano contro la popolazione civile.

Secondo l’Uppsala
Conflict Data Program
(Ucdp), nel 2013 erano in atto 7 guerre con più di
mille vittime all’anno e 18 conflitti armati (vedere il riquadro).

Gli scontri più sanguinosi si sono registrati in Siria
(73.455 morti), nel Sud Sudan e in Messico, nella guerra delle cosche per il
controllo del traffico di droga (ognuna con più di 10.000 morti). A ruota
seguono il conflitto iracheno (7.818 morti), quello in Afghanistan (5.648),
Pakistan (5.366), Nigeria (1.614), Egitto e Repubblica Centrafricana (più di
1.000).

In due stati i conflitti sono diminuiti di intensità (Rwanda
e Azerbaijan), ma in compenso nel 2014 si sono aggiunti il conflitto ucraino
(che a luglio 2014 ha già causato più di 1.100 morti) e la guerra
israelo-palestinese ha avuto, dopo alcuni anni di relativo stallo, una nuova
recrudescenza (8 luglio – 26 agosto 2014) con l’invasione di Gaza da parte
delle forze israeliane e un bilancio di circa 2.200 morti (2.100 palestinesi e
72 israeliani).

Rispetto al 2013, nei primi mesi del 2014 si sono registrati
aumenti di vittime in conflitti di bassa intensità nel Nagoo Karabakh,
Azerbaijan (da 2 a 16), nello Xinjiang, Cina (da 88 a 103), nello Yemen (da
230-250 a più di 400), nella Repubblica Democratica del Congo (da 63 a 288), in
Libia (da 165 a più di 500), nel Mali (da 9 a circa 100).

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Piergiorgio Pescali




Laici missionari sulla frontiera


Le realtà laicali del mondo missionario italiano
Dal 31 maggio al 2 giugno scorsi si è svolto, presso la casa
dei missionari della Consolata di Bevera (Lecco), il secondo convegno dei laici
missionari allo scopo di creare rete e valorizzare le esperienze in atto.



L’evento, che ha coinvolto più di cento persone provenienti da una dozzina di realtà
laicali legate a vario titolo agli istituti missionari o alle diocesi, ha avuto
come tema: «Laici Missionari: cristiani impegnati sulla frontiera tra Chiesa e
società».
Una laica missionaria ce lo racconta.

Per i membri dei vari movimenti laicali missionari
è una grande ricchezza riuscire a riunirsi e ragionare insieme sulle strategie
per fare missione qui e ora. Il
convegno – organizzato dal comitato dei laici missionari che raccoglie
esponenti dei gruppi laicali legati ai rami maschili e femminili di Consolata,
Saveriani e Pime, ramo maschile dei Comboniani e Fidei donum – tenutosi nella
scorsa primavera ha evidenziato come le diverse realtà laicali missionarie
siano unite, pur nella diversità e nella ricchezza dei carismi originari, nel
compito di impegnarsi in una missione che sempre più spesso è di frontiera.
Dopo aver riflettuto, nella prima edizione del dicembre 2012, sul ruolo del
laico missionario nella Chiesa di oggi, in questa sessione abbiamo affrontato
tematiche più legate all’agire missionario: qual è il rapporto tra noi laici e
gli istituti missionari (meglio: le famiglie missionarie) di riferimento? Quali
le difficoltà nell’annuncio del Vangelo oggi? E ancora: come fare animazione
missionaria nelle nostre Chiese locali? Quale impegno nel volontariato e sui
temi di giustizia e pace? E infine: qual è la spiritualità che sentiamo più
nostra come laici e famiglie del XXI secolo?

Testimoni in un mondo di «eterni giovani»

Il
primo giorno è intervenuto don Armando Matteo, docente di teologia fondamentale
presso la Pontificia Università Urbaniana, dal 2005 al 2011, assistente
ecclesiastico centrale della Federazione Universitaria Cattolica Italiana
(Fuci), grande conoscitore del mondo giovanile e autore de La prima
generazione incredula
, edito da Rubbettino.

Egli
ha analizzato in maniera puntuale la situazione giovanile in Italia, a partire
da una spietata ma vera fotografia degli adulti di oggi che si distinguono per
un diffuso culto della giovinezza, il quale censura figure quali la crescita, l’esperienza
del limite, l’insuperabilità della malattia, e che conduce sino
all’esorcizzazione linguistica della vecchiaia e della morte. «Gli adulti
stanno costruendo una società che ruba avidamente spazi e tempi ai giovani e
non riesce più a prestare sufficiente attenzione né alla loro reale condizione
né alla possibilità del loro futuro sviluppo». In questo modo aumenta una sorta
di «risentimento» da parte degli adulti nei confronti dei giovani, dal momento
che gli stessi giovani con la loro «pura» presenza «ricordano ciò che gli
adulti vorrebbero a ogni costo dimenticare: lo scorrere del tempo,
l’avvicinarsi della malattia, l’inesorabile ora del congedo da questa vita».

Per
questo motivo i giovani si trovano spesso a confronto con figure adulte
demotivate e poco autorevoli, incapaci di testimoniare ragioni di vita che
suscitino amore e dedizione. Secondo don Armando all’interno della relazione
educativa adulto-giovane, il giovane dovrebbe trovare adulti felici di essere
adulti che lo invitano a seguirli nella crescita: «Cammina, datti da fare».
L’attuale rivoluzione dell’immaginario circa le età della vita, però, comporta
che nella carne vivente di ogni adulto il giovane trovi un rifiuto dell’età
adulta e una sorta d’invidia della gioventù: «Non ti muovere. Tu sei nel
paradiso. Tu sei paradiso. L’unico a dover uscire (e-ducere) dal suo possibile
cammino sull’orlo della vecchiaia sono io adulto. Tu puoi star fermo».

Secondo
don Armando i giovani osservano gli adulti per apprendere il vero senso della
vita e del loro futuro. Per questo motivo è necessaria un’autentica conversione
del mondo degli adulti: essi sono chiamati a passare «da un amore viscerale per
la giovinezza e il suo irresistibile fascino a un amore e una cura per i
giovani e il loro bisogno d’incontrare adulti testimoni».

L’intervento
di don Matteo ha voluto rendere chiaro lo scenario in cui i laici missionari
sono chiamati a lavorare. Gettando uno sguardo ai partecipanti al convegno ci
siamo resi conto della scarsa presenza di giovani. A noi quindi, che siamo
adulti, spetta l’arduo compito di essere testimoni credibili della fede. Spesso
parliamo di giovani e ci domandiamo come lavorare con loro. La risposta
impegnativa è che dobbiamo essere adulti: contenti di essere adulti e di essere
cristiani.

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Chiara Viganò




Finalmente Angola


I missionari della Consolata sbarcano in un nuovo paese africano
lo scorso mese di agosto i missionari della Consolata hanno
realizzato un sogno: inaugurare la loro prima missione in Angola. Era dal 2005,
anno del loro XI Capitolo generale, che studiavano la possibilità di
un’apertura in un nuovo paese africano.


Da quando sono arrivati in Kenya nel
1902, si sono sparsi nel continente nei seguenti paesi: Etiopia (1913-1941,
1970), Tanzania (1919), Somalia (1924-1930), Mozambico (1925), Sudafrica
(1971), Zaire-Congo RD (1982), Uganda (1985), Costa d’Avorio (2001) e Gibuti
(2004).

I primi tre giovani missionari per l’Angola sono i
padri Fredy Gomez colombiano (38 anni, ordinato nel 2011), Sylvester Ogutu (31
anni, ordinato nel 2014) keniano, e Dani Romero (29 anni, ordinato nel 2013)
venezuelano. I tre si trovano ora nella città di Viana, nella provincia di
Luanda, e vivono temporaneamente nella casa dei missionari colombiani di
Yarumal. La diocesi di Viana è geograficamente piccola, ma con un’altissima
densità di popolazione. Le parrocchie sono esageratamente grandi, non tanto
come area, quanto per il numero di persone che vi abitano.

Il vescovo, mons. Joaquim Ferreira Lopes, un francescano,
ha accolto con grande gioia i nuovi arrivati, contento che l’Istituto abbia
cominciato a lavorare e produrre vita nuova in quella porzione del Regno di
Dio. Ai missionari della Consolata ha affidato tutto il distretto di Kapalanga,
smembrando dalla parrocchia della santissima Trinità quella che prossimamente
sarà la nuova parrocchia di S. Agostino.

Il 17 agosto 2014 i nuovi pastori hanno assunto
ufficialmente dalle mani del vescovo la responsabilità della futura parrocchia,
che comprende sette grandi comunità di base, in una solenne celebrazione
eucaristica carica di gioia e di speranza. Il vescovo ha detto ai presenti: «Per
una
migliore cura pastorale della diocesi di Viana, oggi, pieni di gratitudine al
Signore, riceviamo tra di noi, e ve li presentiamo, questi tre giovani
missionari della Consolata, affinché insieme a voi costruiscano un nuovo sogno,
una nuova pagina della vostra storia, quella di farvi diventare una vera
comunità parrocchiale».

Padre Fredy Gomez, a nome dell’Istituto ha ringraziato il
vescovo, i missionari di Yarumal e tutto il popolo di Dio per la calorosa
accoglienza e la fiducia accordata.

È stato proprio un bell’incoraggiamento per i tre giovani
missionari, i cui anni di sacerdozio assommano tutti insieme a cinque,
all’inizio di nuovissima esperienza missionaria.

La quasi parrocchia di S. Agostino conta un grande
numero di fedeli provenienti da quasi tutte le province dell’Angola, un bel
miscuglio di gruppi diversi attirati dal miraggio della capitale Luanda. Ha una
vita comunitaria attiva e partecipata anche se mancano completamente le
strutture e la gente si trova a pregare sotto gli alberi.

Sono
molte le sfide che i nuovi missionari dovranno affrontare, tra queste la più
impegnativa sarà quella di riuscire ad accompagnare bene il cammino spirituale
di così tanti cristiani, dando la testimonianza che è possibile vivere insieme
pur nella diversità. La loro forza sta proprio nella testimonianza di vita che
potranno offrire come comunità composta da sacerdoti di tre paesi diversi. C’è
poi il bisogno di una formazione cristiana più approfondita per tutti, e di far
crescere il senso comunitario in una popolazione multietnica e provata da anni
di guerra, abbandonata a se stessa, lontana dai propri villaggi di origine e
senza il supporto della società tradizionale. Oltre al creare comunità, che è
la priorità, sarà poi anche necessario costruire una vera chiesa che diventi
casa di tutti e alcune strutture minime, come un salone per gli incontri e
salette per il catechismo e la formazione, e poi anche la casa parrocchiale,
per non essere più ospiti, ma «cittadini».

Dani Romero

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Dani Romero




Il piccolo regno di Kadyrov


Ai confini dell’Europa (3):
la Cecenia
Dopo la deportazione staliniana del 1944 e due sanguinose
guerre civili, nella piccola repubblica caucasica pare vigere la calma. Il
presidente Ramzan Kadyrov, fedelissimo di Putin, tiene in pugno il paese. Senza
alcuna preoccupazione per i diritti umani.


Luci colorate brillano nel cielo di Grozny, la città è
animata da traffico e commerci. Ovunque fervono cantieri. Una situazione molto
diversa da qualche anno fa, quando la capitale della Repubblica cecena era
ancora un ammasso di edifici in rovina, crivellati dalle bombe. Oggi la strada
principale è intitolata a Putin, il presidente russo che ha distrutto Grozny in
passato ma che ora ne finanzia la ricostruzione, sotto la supervisione del capo
della Repubblica cecena Ramzan Kadyrov.

Secondo dati del ministero delle Finanze russo, negli ultimi
anni Mosca ha finanziato più del 90 per cento del bilancio totale della
Cecenia. Grazie a questa ingente iniezione di danaro – e a un sistema
repressivo ben radicato – Ramzan Kadyrov e i suoi stanno riuscendo a tener fede
allo slogan lanciato qualche anno fa: «La Cecenia senza segni di guerra».
Almeno per quanto riguarda la capitale.

Dopo le bombe, la paura

Se Grozny sta rinascendo dal punto di vista architettonico,
non tutte le tracce della guerra sono state però cancellate. Dietro la facciata
splendente della città, c’è un mondo di miseria di cui pochi parlano. Molti
ceceni vivono ancora in case provvisorie e la disoccupazione è altissima (sopra
il 40% secondo i dati ufficiali). La corruzione è molto diffusa e senza
tangenti è impossibile trovare lavoro. Molti lasciano il paese per cercare rifugio
in Europa, dove, secondo la Jamestown Foundation, vivono circa 70.000 rifugiati
ceceni. La più grande comunità si trova in Austria con circa 17.000 persone.

Su Grozny le bombe non cadono più dal 2009 (vedi riquadro
storico), ma la paura è ancora presente. Secondo le associazioni non
governative Human Right Watch e Amnesty Inteational in Cecenia minacce
e intimidazioni sono all’ordine del giorno nei confronti di chi si batte per il
rispetto dei diritti umani e cerca la verità sulle responsabilità delle
violenze e delle sparizioni.

Il regime giustifica il metodo repressivo come parte della
lotta contro il terrorismo. La direttiva di Mosca è chiara: eliminare qualsiasi
manifestazione di ribellione o estremismo con ogni mezzo.

Ramzan Kadyrov è stato scelto da Vladimir Putin nel 2007
alla guida della Cecenia e, in cambio della fedeltà al Cremlino, ha ottenuto
potere e aiuti per la ricostruzione.

L’amicizia e la devozione di Kadyrov verso Putin è arrivata
persino a cancellare il passato più remoto. Quest’anno, per la prima volta
nella storia recente, non vi è stata a Grozny alcuna commemorazione ufficiale
della deportazione staliniana del 1944. La celebrazione del 70° anniversario
dell’evento che coinvolse ceceni, ingusci e balcari sarebbe coincisa con la cerimonia
di chiusura dei Giochi olimpici invernali di Sochi, il 23 febbraio 2014. Così
per evitare di gettare un’ombra sulla festa sportiva, tanto importante per
l’amico Putin, Kadyrov ha vietato ogni manifestazione.

Il 18 febbraio nella cittadina di Gekhi, a pochi chilometri
da Grozny, Ruslan Kutaev, noto attivista per i diritti umani e presidente
dell’Associazione dei Popoli del Caucaso settentrionale, ha sfidato le autorità
organizzando comunque una conferenza di commemorazione. Due giorni dopo il suo intervento
Kutaev è stato invitato telefonicamente dalle autorità cecene a presentarsi per
un colloquio. Il 21 febbraio il servizio stampa del ministero degli Intei ha
comunicato che Kutaev era stato trovato in possesso di 3 grammi di eroina e di
conseguenza era stato arrestato. La pratica di nascondere droghe sulle persone
ritenute scomode dal regime per poterle arrestare e metterle a tacere è
largamente diffusa in Cecenia come in altre parti della Federazione russa.

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Roberta Bertoldi




Torino riscopre la Consolata

A trecento anni dalla proclamazione «ufficiale» dell’alleanza tra la Consolata e Torino, riscopriamo il millenario legame tra questa città e la «sua» Madonna. Consolatrice e Consolata, una «Madonna del Popolo» che, da Torino, come aiuto dei cristiani e Consolatrice degli afflitti, ha raggiunto gli estremi confini del mondo.

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Tag: Consolata, Torino, santuario

Giampietro Casiraghi




Ancora e sempre Taliban

Tante ombre sul dopo Karzai.
Le lunghissime elezioni presidenziali hanno evidenziato (ancora una volta) la divisione etnica del paese. Davanti al costoso fallimento dell’intervento occidentale e all’espansione dei campi di oppio, in Afghanistan a vincere sono sempre i Taliban, sebbene anch’essi divisi in vecchi e nuovi gruppi.

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Piergiorgio Pescali




Roraima 1: Foreste, Savane e Popoli indigeni

Terra amazzonica di foreste e savane, Roraima è lo stato brasiliano con la maggiore percentuale di popolazione indigena. I cui diritti sono stati conquistati con una lotta quasi sempre cruenta (e tuttora non conclusa). A Boa Vista, capitale di Roraima, abbiamo visitato la Casa de Saúde Indigena (Casai), scoprendo che i «mondi indigeni» resistono nelle proprie diversità.

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Tag: Roraima, Yanomami

Paolo Moiola




i sogni europei di Chişinău



Ai confini dell’Europa (2): la Moldavia


Indipendente dal 1991, la Moldavia è il paese più povero d’Europa. Un terzo della sua popolazione vive all’estero. In Italia i moldavi sono 150 mila. Lo scorso giugno il paese ha salutato con entusiasmo l’«Accordo di associazione» con l’Unione europea. Ma la strada per uscire dalla condizione attuale è ancora lunga e complessa.

Alle spalle del bulvardul Ştefan cel Mare, il viale principale della capitale, c’è il mercato. Tutto il groviglio di strade qui intorno è un bazar all’aperto. Ma, rispetto ai bazar orientali, non ha nulla di caratteristico. Polvere e confusione, marciapiedi rotti e fustini di detersivi colorati, merce scadente proveniente dalla Cina e quarti di bue poggiati sui grossi banchi di cemento. E in mezzo la gente, i moldavi, che brulicano attorno alle masserizie tutti i giorni dell’anno, tanto ai 40 gradi d’agosto quanto ai meno 20 di febbraio, pur di risparmiare qualche leu. Perché qui la roba arriva dalle campagne, o dai furgoni che di notte passano la frontiera con l’Ucraina, e costa meno che nei negozi.
Sorina viene al bazar a comprare i suoi vestiti, ma non le piace che si sappia: non è chic. «Ogni tanto vado a fare una passeggiata nel Mall Dova, ma lì di fare shopping non se ne parla con uno stipendio normale». Il centro commerciale Mall Dova gioca con le parole. È l’unico vero mall di tipo occidentale in tutta la Moldavia, ma senza le code alle casse e la ressa per i saldi. L’edificio in vetro e cemento si staglia tra le strade fangose. Le insegne dei marchi globali pendono silenziose sul marmo lucido della galleria e i commessi non si ammazzano certo dal lavoro. Sorina ha studiato in Italia, e un giorno vorrebbe tornarci per viverci. «Allora, quando avrò i soldi, mi comprerò un sacco di vestiti italiani». Come molti moldavi della classe media, vuole scrollarsi di dosso quell’alone di miseria che circonda il suo paese, e lo fa con un paio di jeans di marca o una borsetta. Non fa niente se vengono dal mercato.
Chişinău è la vetrina della Moldavia, in tutti i sensi. Qui vedi parcheggiare i grossi Hammer extralusso davanti alle boutique di Gucci e Prada, ma anche la povera gente delle periferie e delle campagne con una busta lisa in una mano mentre cerca di mettere insieme il pranzo con la cena.

In fuga da Mosca

La Moldavia è il paese più povero d’Europa, ma è anche quello tra i paesi del partenariato orientale ad aver fatto i progressi più rapidi per arrivare alla firma dell’«Accordo di associazione» con l’Unione europea. Partita in forte svantaggio rispetto ad altri paesi come l’Ucraina, la Moldavia è riuscita ad arrivare alla fatidica firma lo scorso giugno. Non è certo come essere entrata nell’Ue, obiettivo quanto mai lontano, ma la firma è stata salutata a Chişinău con uno sventolio di bandiere blu, a sottolineare la voglia di Europa dei suoi abitanti. Non è una cosa scontata. La Moldavia è un paese giovane, indipendente dal 1991, fortemente condizionato da un pesante passato di repubblica socialista sovietica e da una cospicua componente etnica russa e ucraina. Durante la travagliata conquista dell’indipendenza, nel momento in cui l’Urss si scioglieva in 15 nuovi stati, la Moldavia perdeva una fetta del proprio territorio – la Transnistria (MC luglio 2014, ndr) – abitata in prevalenza da russi e ucraini, mentre ancora oggi nella meridionale Găgăuzia – regione autonoma abitata dai găgăuzi, una popolazione di origine turca – si fanno sentire spinte secessioniste, accentuate proprio dal recente avvicinamento all’Europa. Ucraini e bessarabi, ebrei e lipovani (ortodossi russi scismatici, ndr), russi e romeni, turchi e tatari, găgăuzi e mongoli hanno calpestato questa terra: la Moldavia è un gilgul (ciclo, groviglio) di anime che vortica nella steppa.
Parte della storica Bessarabia, che condivide con le vicine Romania e Ucraina attorno al delta del Danubio, fu abitata dai Daci sin dall’antichità, prima di entrare sotto il controllo romano e poi dell’Impero bizantino. La Moldavia è sempre stata un crocevia delle rotte verso l’Asia e il suo territorio è stato attraversato dalle ondate dell’espansione delle tribù orientali – mongoli, tatari di Crimea, turchi – per tutto il Medioevo. Conobbe il suo periodo di massima espansione nel XVI secolo sotto il regno di Ştefan cel Mare, Stefano il Grande, l’eroe nazionale a cui sono intitolate strade e piazze in tutto il paese. La Moldavia ha avuto una storia recente travagliata con ripetute unioni e separazioni dalla Romania, cui l’accomunano le tradizioni e la lingua neolatina, fino a divenire una repubblica dell’Urss e infine l’attuale stato indipendente dopo la dissoluzione sovietica. È stato allora che le province a maggioranza russa e ucraina al di là del fiume Nistru hanno dichiarato l’autonomia della Transnistria. Ne è seguito un conflitto tuttora congelato e che ha lasciato la situazione immutata dal 1992.
Con la firma dell’Accordo di associazione, la Moldavia ha compiuto una scelta di campo. Chişinău ha voltato le spalle alla Russia e alla sua Unione economica eurasiatica, chiudendo definitivamente il capitolo del proprio passato sovietico, e ha intrapreso un lungo percorso di avvicinamento economico e politico all’Europa. L’entusiasmo con cui la Moldavia ha compiuto questo passo è stato testimoniato dalla stupefacente rapidità con cui il parlamento ha ratificato l’accordo: soltanto tre giorni. Gli effetti si possono già vedere. I cittadini moldavi possono finalmente viaggiare all’interno dell’area Schengen senza bisogno di alcun visto (per massimo 90 giorni e non per motivi di lavoro, ndr). È un risultato importante per chi ha un parente che lavora in Europa, vale a dire per almeno un terzo dei moldavi, ma anche una grande prova del soft power europeo sui paesi del Partenariato orientale.

Emigrazione e rimesse

Il sabato sera a Chişinău c’è lo struscio. Il bulvardul è affollato di giovani che ciondolano tra il McDonald’s e il parco della cattedrale. Sull’immensa piazza Marii Adunări Naţionale l’enorme palazzo del Governo è un transatlantico bianco che solca un mare d’asfalto. Nei tempi sovietici era usata per le magniloquenti parate militari. Oggi ci pensano i ragazzi in skateboard a renderla più vivace e colorata. Cezar beve da una bottiglia di birra vicino a un chiosco e aspetta che si faccia l’ora di andare in discoteca. Si presenta come Cesare, in italiano. Ha vissuto alcuni anni in provincia di Verona, dove c’è una grossa comunità moldava. «Sono dovuto venire via perché non c’era più lavoro. Qui, però, è ancora peggio. La gente scappa, il lavoro è poco e pagato una miseria. Forse tornerò in Italia» (dove i moldavi sono 150 mila, ndr). Si calcola che quasi due milioni di moldavi abbiano lasciato il paese in cerca di un vita migliore. Su una popolazione residente di quasi quattro milioni di abitanti significa che un terzo dei moldavi vive all’estero. È una percentuale enorme, che lecitamente fa parlare di tragedia dell’emigrazione, un’emorragia che prosciuga il paese delle sue risorse migliori. D’altro canto però, le rimesse dei migranti sono la prima fonte di ricchezza nazionale, contando per circa il 40% del Pil.
Anche se Chişinău non è una città facile, è il posto migliore del paese per chi ha le carte giuste da giocare. Nella vicina boulange Crème de la crème non c’è da sgomitare per trovare un tavolo libero, ma non si può dire che manchino i clienti. C’è una sorta di selezione naturale, ed è la colonna di destra del menù a farla. Il tipo che gli si adatta parcheggia il Suv sul marciapiede proprio davanti all’entrata, indossa vestiti italiani e ha una serie completa di gadget elettronici con una mela luminosa sul dorso. Il locale non poteva avere un nome più appropriato.
Al calare del sole, ragazze su tacchi vertiginosi scendono lungo il viale come trampolieri aggraziati, mentre una limousine lunga e bianca come un panfilo passa con una musica tanto alto che i bassi fanno tremare i vetri. Cesare guarda di sottecchi e tira un altro sorso di birra. «Ai moldavi piace apparire. Siamo un po’ tutti squattrinati, ma se guardi quelle ragazze sono tutte firmate dalla testa ai piedi. Qui a Chişinău sembra che la gente se la passi bene, ma basta andare fuori città per rendersi conto di com’è messa la Moldavia». La distanza tra la capitale e il resto del paese è siderale. La vita notturna di Chişinău può competere con quella di qualsiasi capitale europea, ma la vita della maggior parte dei moldavi è ben lontana dai fumi e dai laser delle piste da ballo.

Ortodossi contro ebrei

Il sabato non è solo il giorno dello struscio e delle discoteche. Nella sinagoga di strada Habad Liubavici ci si prepara a festeggiare la fine dello Shabbat. Agli inizi del Novecento si contavano una settantina di sinagoghe e una dozzina di scuole ebraiche. Ed erano sempre piene. All’incirca metà degli abitanti di Chişinău erano ebrei, il calendario delle festività ebraiche cadenzava la vita della città e l’yiddish era la seconda lingua dopo il rumeno. Non poteva durare. L’onda d’urto dell’antisemitismo moderno stava accumulando la sua tensione in tutta la Russia zarista, alimentata dalla pubblicazione dei falsi «Protocolli dei savi di Sion» (in cui si parlava di una cospirazione ebraica, ndr). Lo tsunami d’odio si abbatté, con una veemenza mai vista prima, su Chişinău nel 1903, con il primo grande pogrom del Novecento, e poi di nuovo nel 1905. La macchina del male assoluto s’era messa in moto, e non si sarebbe più fermata. È qui che ha avuto inizio il secolo della Shoah.
Rabbi Avrhom è un omone largo e robusto come una credenza in noce. Indossa un pesante pastrano nero di foggia ottocentesca e lo shtreimel, il tradizionale colbacco degli ebrei ashkenaziti. Sembra che porti un pastore tedesco acciambellato sulla testa. «La vita qui non è facile per nessuno, nemmeno per noi. La gente deve trovare il modo di vivere, alla giornata. La povertà a volte è un terreno fertile per l’intolleranza». Qualche anno fa l’amministrazione cittadina aveva acconsentito a erigere un grosso hanukkiah – un candelabro (menorah) a nove braccia usato nei riti Chabad – in pieno centro città. Ma per i fedeli ortodossi si trattò di un affronto alla Moldavia cristiana. Un corteo sfilò per le vie del centro cantando inni sacri e sventolavano striscioni che inneggiavano a Cristo. Il prete che lo guidava tirò giù l’hanukkiah a colpi di martello e al suo posto piantò una croce. I pezzi furono poi posati ai piedi della vicina statua di Stefano il Grande che, disse il prete, aveva «difeso la patria da tutti i tipi di giudei». Il fatto è che la coesistenza di religioni diverse è ancora oggi tutt’altro che scontata. E, benché le autorità si siano affrettate a rimettere a posto l’hanukkiah, gli episodi di antisemitismo non si contano e non passa giorno che dalla facciata della sinagoga si debbano cancellare svastiche e simboli delle SS.

La vita fuori da Chişinău

La R1 è disseminata di buche. Eppure è una delle strade principali che portano dalla capitale al confine con la Romania. Uscire da Chişinău e dai suoi grandi viali ortogonali è come fare un salto in un’Europa che non c’è più. Un’Europa rurale di carri trainati dai cavalli e contadini a piedi con la vanga in spalla, e dove i covoni di paglia non sono ancora stati sostituiti dalle rotoballe. Vasile è seduto coi piedi ben puntati al pavimento e si regge alla maniglia del furgoncino stipato di persone. Su queste strade si balla. Suo fratello è in Italia, fa il badante. «Adesso che si può, voglio andare anche io a Milano per dargli una mano, e magari trovare anch’io qualcuno che ha bisogno di me». Intanto oggi va in pellegrinaggio al monastero di Căpriana per chiedere una grazia per la sua anziana madre. Non ci si pensa mai abbastanza, ma ogni badante che viene ad accudire i nostri vecchi lascia qualcuno qui di cui nessuno si prende cura. Per Vasile e suo fratello è una mamma malata.
Il monastero è a un’ora da Chişinău. È un luogo sacro dal XV secolo, ma oggi è anche la meta preferita per le gite domenicali degli abitanti della capitale. Qui le giovani coppie amano venire a sposarsi nella bella stagione. Le funzioni sono finite da poco, silenzio e penombra riempiono di nuovo la navata. Vasile accende un cero, il volto della Madonna si dipana alla luce tremula. «Bisognerà che prima o poi qualcuno si prenda cura di questa nostra terra, magari saranno i nostri figli che torneranno ad abitarla», dice lasciando cadere qualche leu nella cassetta delle offerte. Il rumore risveglia per un attimo un monaco che sembrava addormentato in un angolo. Emergere nel sole accecante è come venire alla luce una seconda volta. Le spose frusciano leggere sulle scale, gli sposi si muovono impacciati negli abiti nuovi di zecca e le mamme piangono a dirotto. Insieme a loro tutto il paese guarda al futuro con occhi di speranza.

Danilo Elia

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