Scivolando nel baratro

 

Neppure il tempo di riprendersi da una guerra civile durata 15 anni. Un presidente vuole ricandidarsi, a dispetto della Costituzione. Un popolo che non ci sta e chiede vera democrazia. La repressione è violenta. Intanto c’è chi si arma nella foresta.

«Aspetta, senti questi colpi?», stiamo parlando via computer con un giornalista di Bujumbura, capitale del Burundi, quando sento in cuffia diversi spari singoli, seguiti da almeno tre raffiche di mitra. «Stanno sparando vicino a casa mia», continua un po’ turbato, ma non troppo. Poi torna il silenzio e la conversazione riprende normalmente. «Ieri ho rischiato di cadere in un’imboscata. Ero in auto con mia moglie, di passaggio su una grossa arteria di Bujumbura. Alcuni poliziotti inseguivano dei motociclisti e volevano ucciderli. Altri poliziotti sono sopraggiunti e stavano per sparare verso i fuggiaschi, ma noi eravamo in mezzo. Poi si sono fermati perché i loro colleghi sarebbero stati sulla traiettoria. Sono scene che si vedono nei film!».

Il piccolo paese dell’Africa centrale, da nove mesi a questa parte, sta vivendo una crisi politica sempre più acuta e sta, di fatto, precipitando in una nuova guerra civile.

Le premesse

Dopo una guerra fratricida durata dal 1993 al 2003, con strascichi fino al 2008, gli accordi di Arusha (2000) e Pretoria (2003) misero le basi per una nuova Costituzione che ha portato alla coabitazione delle diverse forze in campo. Il paese ha vissuto quindi un decennio di relativa pace.

Con le prime elezioni del nuovo corso (2005) sale al potere Pierre Nkurunziza, ex comandante guerrigliero, ora capo politico del partito Cndd-Fdd (Consiglio nazionale per la difesa della democrazia – Forze per la difesa della democrazia). Ma è alle elezioni successive, nel 2010, che il partito di Nkurunziza viene accusato di brogli elettorali (cfr. MC maggio 2011 e giugno 2013). Lui tira dritto e, mentre l’opposizione boicotta il secondo tuo, il suo partito prende la quasi totalità dei seggi in parlamento. Nkurunziza diventa presidente-padrone del paese, iniziando a imporre metodi da «partito unico». Restrizioni alla libertà di stampa, violenze verso i leader di opposizione e i giornalisti, uso della tortura tornano a essere all’ordine del giorno, così come le fughe all’estero dei perseguitati.

La nuova Costituzione prevede un limite di due mandati di cinque anni per il presidente della Repubblica. L’uomo forte di Bujumbura non vuole lasciare il potere e si inventa un cavillo per potersi ripresentare. Così il 25 aprile dello scorso anno presenta ufficialmente la sua candidatura. Immediata è la reazione della società civile e della gente comune che scende in piazza per manifestare il proprio dissenso.

Ma le manifestazioni erano state proibite, e subito si registrano scontri tra polizia e popolazione indifesa.

Nei giorni seguenti il governo impone il silenzio alle radio private, prima fra tutte la scomoda Radio pubblica africana (Rpa). Sono una decina le vittime dei primi giorni. La comunità internazionale si schiera all’unanimità contro la terza candidatura, ma non riesce a far desistere il presidente.

Tentato golpe ed elezioni farsa

Il 13 maggio, forti della pressione popolare che continua nelle strade e di una visita all’estero del presidente, un gruppo di generali tenta di rovesciarlo. Ma i fedelissimi di Nkurunziza riescono ad arginarli e ad arrestare diversi golpissti, mentre alcuni riescono a scappare.

Nel frattempo oltre 100.000 burundesi fuggono nei paesi confinanti: Tanzania, Repubblica Democratica del Congo e, soprattutto, Rwanda. Qui, appoggiati dal presidente rwandese Paul Kagame, alcuni esuli si organizzano e si armano.

Anche questa volta Nkurunziza va avanti, gestisce le elezioni di luglio, alle quali non partecipano gli osservatori inteazionali, e si conferma al potere. Ormai la stretta sugli oppositori politici e sui media indipendenti è totale. Inizia una vera e propria caccia all’uomo: chiunque si opponga, o si sia opposto, alla terza candidatura, diventa un potenziale «nemico della patria», a cominciare dagli stessi compagni di partito del presidente non allineati.

Verso la guerra civile

Il conflitto sale di livello l’11 dicembre scorso. I gruppi dell’opposizione armata, ormai presenti nel paese, escono allo scoperto, attaccando tre campi militari, due a Bujumbura e uno nell’interno. Il bilancio si salda con 12 morti tra gli assalitori, che riescono a recuperare armi dell’esercito regolare. Questa data sancisce la presenza della ribellione sulle colline intorno alla capitale Bujumbura. Si fanno chiamare Forze repubblicane del Burundi (Forebu) e Resistenza per uno stato di diritto in Burundi. A capo del Forebu sarebbe il generale Godefroid Niyombare, leader del tentato golpe di maggio.

Anche la repressione fa un salto di qualità. Nella notte tra venerdì 11 e sabato 12 dicembre la polizia rastrella i quartieri cosiddetti «contestatari» dove si annidano gli oppositori. La mattina sono oltre 150 i cadaveri di giovani trovati lungo le strade della città, che ben presto le autorità fanno scomparire.

«L’opposizione armata si è ormai dichiarata. Sono ben equipaggiati, hanno preso anche materiale radio dai depositi dell’esercito, e sono sulle colline intorno a Bujumbura», ci racconta un cornoperante straniero che chiede l’anonimato. «Ogni tanto fanno delle incursioni in città. L’altro giorno hanno assaltato la casa del presidente del Parlamento, nel quartiere Mutanga Nord». E continua: «L’esercito è diviso. Non tutti sono d’accordo con il potere. Ci sono disertori che raggiungono la ribellione. Chi resta non si esprime contro, altrimenti lo fanno secco».

Il lavoro di rastrellamento nei quartieri lo fa la polizia. Avviene ormai ogni notte. «Ai posti di blocco o a fare le perquisizioni sono sempre gli stessi poliziotti, perché molti si rifiutano. Inoltre ci sono diversi rwandesi tra loro, mercenari. Hanno le stesse divise, ma si capisce la loro provenienza perché parlano kinyarwanda e non kirundi (due lingue molto simili, parlate nei due paesi, ma con evidenti differenze, ndr)». Si tratta dei famigerati interamwe, gli hutu rwandesi che vivono nel confinante Congo Rd dai tempi del genocidio in Rwanda (1994), in costante guerra con il regime di Kagame.

«Questo spiega perché i quartieri a maggioranza tutsi, come Nyakabiga, sono maggiormente presi di mira», ci dice il nostro interlocutore. Intanto, a fine gennaio Amnesty Inteational mostra le prove di fosse comuni.

Conflitto etnico?

La questione etnica, che sembrava risolta grazie agli accordi di Arusha, rischia di riaffiorare.

Il giornalista burundese, raggiunto via computer, ci spiega: «C’è una piccola dose di etnicismo, ma in realtà è piuttosto un problema politico. Ovvero tutti quelli che sono contro il terzo mandato sono messi nello stesso gruppo e sono da eliminare, che siano essi hutu o tutsi. Però se vivi in un quartiere come Musaga, Nyakabiga, Jabe, a maggioranza tutsi, è più facile che, una volta arrestato, tu sia ucciso».

E continua: «La polizia cerca oppositori nei quartieri, tutti i giorni e le notti. E se sei un giovane tra i 15 e i 20 anni vieni subito arrestato». I giovani fermati sono picchiati e drogati, alcuni finiscono in carcere, altri vengono rilasciati.

«Un giovane che conosco, di 15 anni, si trovava in centro per caso, e durante un rastrellamento lo hanno preso. Dopo averlo picchiato e imbottito di pasticche lo hanno liberato. Ora è a casa in stato di choc», ci racconta il cornoperante. «Qualche giorno fa hanno arrestato 104 ragazzi nel quartiere di Mutakura. Alcuni li rilasceranno, altri li terranno in prigione. Ci sono 26.000 prigionieri nelle carceri».

Continua il giornalista: «Oltre alla polizia, i miliziani imbonerakure sono molto attivi. Si tratta della lega dei giovani del partito al potere. Sono potenti e pattugliano i quartieri soprattutto la notte. In un grosso quartiere, Ciarama, a Nord della capitale, ogni famiglia deve pagare loro 1.000 franchi (60 centesimi, nda) per assicurare la sicurezza dell’area. È un quartiere nuovo, ci sono molti militari e dignitari e vogliono mantenere questa milizia». Gli imbonerakure sono una vera e propria milizia al servizio del potere, utilizzata per i lavori più sporchi e agiscono nella totale impunità.

Verso il collasso

Il presidente vive ormai nascosto: «Nkurunziza non risiede quasi mai in capitale, ma resta nella sua città natale, Ngozi, nel Nord del paese», conferma il giornalista.

Rincara il cornoperante: «Non può neanche fidarsi dei propri compagni di partito. I soldi sono finiti e avrà difficoltà a pagare la polizia, i funzionari, i ministri e il loro entourage. Per ora cerca di recuperare soldi dalle Organizzazioni inteazionali, obbligandole ad aprire conti in valuta alla Banca della Repubblica del Burundi. Il resto lo farà la corruzione. Inoltre, alle Ong inteazionali arrivano insolite ingiunzioni di pagamento di tasse non giustificate».

I finanziatori, per prima l’Unione europea, hanno congelato i fondi, mentre gli investitori hanno rallentato. L’economia è bloccata: «I prezzi degli alimenti sono raddoppiati in città, perché i contadini non si arrischiano a venirli a vendere. Nelle campagne si sopravvive con l’agricoltura di sussistenza, ma in capitale diventa difficile e comunque dispendioso, procurarsi da mangiare», continua il cornoperante.

Dialogo, tra sordi

Dei tentativi di «dialogo» si svolgono il 28 dicembre 2015 a Kampala, in Uganda. Qui si incontrano governo burundese, opposizione e società civile. Questo incontro fa seguito a quello tenuto poco prima delle elezioni e fallito perché abbandonato dai rappresentanti dell’esecutivo.

Il governo burundese rifiuta di riconoscere, e quindi dialogare, con il Consiglio nazionale per il rispetto dell’accordo di Arusha e il ritorno dello stato di diritti in Burundi (Cnared). Si tratta di una piattaforma composta da ex compagni di partito del presidente, oppositori e società civile che chiede al presidente di farsi da parte. Ci racconta il giornalista burundese: «Nel dialogo a Kampala, il governo ha detto che non può sedersi con il Cnared. Alla testa della piattaforma, nella quale si incontrano tutti gli oppositori in esilio, c’è Léonard Nyangoma, anche lui ex ribelle. Tutti i vecchi del Cndd che si sono opposti al terzo mandato. Il governo non vuole parlare con loro. La situazione si complica. La mediazione del presidente ugandese Museveni non è abbastanza forte». Il governo accusa i membri del Cnared di aver partecipato al tentato golpe del maggio 2015. Così la data successiva prevista dalla mediazione per il dialogo, il 6 gennaio, salta.

Intanto il Consiglio di pace e sicurezza dell’Unione africana (Ua) vorrebbe mandare una missione multinazionale di interposizione per bloccare l’escalation di violenze, ma il governo di Nkurunziza non ne vuole sapere e la vede come una «forza d’invasione straniera».

«Sì, l’Ua vuole inviare delle truppe, ma il governo le ha rifiutate. L’ultima parola è all’Ua, ma per intervenire in un paese membro sono necessari i due terzi dei voti favorevoli dell’assemblea. Io non penso che si potranno avere, perché la maggior parte dei presidenti sono dei dittatori, e sono al potere da decine di anni. C’è Kagame che ha ufficializzato il suo terzo mandato (potrà governare fino al 2034, nda), Museveni ha più di 20 anni al potere, Mugabe è il più vecchio».

Così pure l’iniziativa dell’Ua, decisa il 18 dicembre, rimane senza seguito.

Tre scenari per il futuro

Anche l’Onu vuole evitare il peggio e potrebbe finanziare la missione dell’Ua. L’operazione più veloce sarebbe spostare in Burundi parte dei caschi blu della Minusco, presenti nel vicino Congo.

Un rapporto confidenziale per il Consiglio di sicurezza dell’Onu, realizzato da Hervé Ladsous, capo delle operazioni per il mantenimento della pace in Burundi, diventato pubblico a inizio gennaio, ha ipotizzato tre possibili scenari futuri. Primo: la situazione resta stabile, con gravi ripetute violazioni dei diritti umani. In questo caso occorre favorire una missione dell’Ua. Secondo: la violenza sale di livello, in seguito a una scissione nell’esercito o a un assassinio politico. La guerra diventa aperta tra fazioni e si diffonde in tutto il paese. Non ci sono negoziati politici. Il rischio umanitario interessa due milioni di persone. Terzo: le violenze divampano e assumono una connotazione etnica, con incitazione a crimini contro l’umanità, crimini di guerra e genocidio.

Il memorandum ipotizza l’invio di una missione di caschi blu, possibile solo con risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Fatto più allarmante, secondo l’autore del testo: «L’Onu non sarebbe attualmente in grado di proteggere la popolazione burundese senza un aiuto degli stati membri». Un primo effetto del rapporto è la missione del consiglio di sicurezza nel paese il 20 gennaio.

Il consigliere per la comunicazione della presidenza del Burundi, Willy Nyamitwe, reagisce immediatamente con un tweet: «Il rapporto mente». Anche il cornoperante ci confida la sua visione: «Può essere un periodo che durerà. Può instaurarsi una guerra civile. Sono andati troppo oltre. A livello internazionale gli interventi economici per mettere in difficoltà il governo sono stati fatti. Ma questi sono ex guerriglieri, abituati a stare in foresta, a vivere con poco, ad ammazzare. Quindi resisteranno fino alla fine».

Marco Bello

 




Il presidente che iniziò al Boca

 

Dal 10 dicembre a guidare l’Argentina c’è un nuovo presidente, il conservatore Mauricio Macri, figlio di un ricco imprenditore italiano. La sua carriera pubblica iniziò nel 1995 quando fu eletto alla presidenza del Boca Juniors, una delle più conosciute e titolate squadre di calcio al mondo. Adesso Macri è alla guida di una nazione dove i problemi – a cominciare da quelli economici – non mancano mai. E la sua coalizione, riunita sotto la slogan Cambiemos (Cambiamo), non ha la maggioranza al Congresso.

San Paolo (Brasile), 7 febbraio. L’hotel è pieno di argentini in attesa di un volo per l’Europa. L’occasione è propizia per fare qualche domanda. «Come si sta comportando il nuovo presidente?», chiediamo a un gruppo di loro. «L’uomo si sta dando da fare per chiudere con l’epoca di Cristina», è il coro unanime. Facciamo notare che la (ex) presidenta ha varato programmi sociali importanti e che ha combattuto a livello internazionale contro la speculazione finanziaria, un cappio al collo dell’Argentina. I cosiddetti «fondi avvoltornio» (fondos buitre) ne sono ancora oggi la manifestazione più vergognosa e intollerabile (sotto qualsivoglia punto di vista). Non riusciamo tuttavia a convincere i nostri interlocutori, i quali – con visibile disapprovazione – elencano gli ultimi casi di corruzione. Forse è una casualità o forse sono le normali contumelie – consuete in (quasi) tutto il mondo – nei riguardi dei rappresentanti politici. Di sicuro Mauricio Macri, l’inatteso vincitore delle elezioni presidenziali dello scorso dicembre, rappresenta un cambio in un certo qual modo «storico» perché si colloca al di fuori – almeno in teoria – delle due grandi coalizioni politiche argentine, quella giustizialista-peronista (di cui fa parte la corrente kirchnerista, una sorta di peronismo di sinistra) e quella radicale.

Handout picture released by the City Govement of Buenos Aires, showing Pope Francis (L) greeting Buenos Aires Mayor Mauricio Macri (C), his wife Juliana Awada and their daughter Antonia, during a private audience in Vatican City on September 19, 2013. AFP PHOTO / GCBA / Antonello Nusca --- RESTRICTED TO EDITORIAL USE - MANDATORY CREDIT "AFP PHOTO / GCBA / Antonello Nusca " - NO MARKETING NO ADVERTISING CAMPAIGNS - DISTRIBUTED AS A SERVICE TO CLIENTS / AFP / GCBA / Antonello Nusca
AFP / GCBA / Antonello Nusca

Il calcio è potere

Chi è, e da dove proviene il nuovo presidente? Figlio di un italiano che in Argentina ha costruito un impero economico1, Macri ha trovato la sua personale rampa di lancio non nel mondo dell’impresa, bensì in quello del calcio, che nel paese latinoamericano costituisce – senza timore di smentita – una vera e propria «religione». Soprattutto quando si parla del Boca (Juniors), la squadra dell’omonimo quartiere di Buenos Aires, fondata nel 1905 da un gruppo di ragazzi figli di immigrati italiani. Il Boca è uno dei club più famosi a livello mondiale, in cui hanno militato campioni celebrati, come Diego Armando Maradona e oggi Carlos Tévez.

Macri ne è stato lungamente (dal 1995 al 2008) presidente, e soprattutto un presidente vittorioso. Durante e dopo quell’esperienza di dirigente calcistico, si collocano anche le sue fortune politiche, prima come deputato nazionale e poi come governatore del distretto di Buenos Aires, cuore pulsante del paese.

Boca_P1040111 copia

Conservatore e liberista

Le prime mosse di Macri sono state quelle proprie di un politico conservatore e liberista.

Alcuni giorni dopo la sua entrata alla Casa Rosada, il neopresidente ha annunciato (14 dicembre) la sua prima misura di carattere economico: l’eliminazione delle tasse (retenciones) sull’esportazione per i produttori agricoli di frumento, mais e carne; la riduzione di quella per i produttori di soia (il prodotto principe delle esportazioni, una fonte d’oro e di disastri ambientali). Un regalo di enorme valore per i latifondisti argentini, che dal 2008 lottavano contro il regime fiscale imposto da Cristina Kirchner Feández. La seconda misura è stata varata pochi giorni dopo: la cancellazione del regime di controllo cambiario sul dollaro, che limitava gli acquisti della valuta statunitense per cittadini e imprese. La liberalizzazione ha prodotto una immediata svalutazione della moneta nazionale, il peso, rendendo i prodotti argentini più competitivi (ma facilitando anche la fuga di capitali e l’inflazione).

La politica economica del neopresidente piace ai ricchi. E probabilmente piacerà anche alle istituzioni inteazionali che contano, tra cui non rientra l’Assemblea generale della Nazioni Unite. Va ricordato che quest’ultima, il 10 settembre 2015, aveva votato una risoluzione – con 136 voti a favore, 41 astensioni e 6 contrari (Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Giappone, Germania e Israele) – per limitare le azioni dei fondi speculativi nei confronti dei debiti sovrani (dell’Argentina e di molti altri paesi). Si era trattato di una bella vittoria per Cristina, ma una vittoria meramente morale, senza alcuna ricaduta pratica. L’inefficacia di quella risoluzione ha ribadito come nel mondo finanziario le decisioni siano prese da pochissimi a spese della stragrande maggioranza.

Tanto per intenderci, a pochi giorni dalle elezioni argentine il Financial Times aveva pubblicato un articolo con un titolo emblematico: Anything bests Feández (Qualsiasi cosa sarà meglio di Cristina)2.

Il de profundis del Clarín

Se è vero che al Congresso la coalizione di Macri (Cambiemos) non ha la maggioranza, è altrettanto vero che il neopresidente non si troverà a dover combattere con il Grupo Clarín, come invece è capitato ai governi di Néstor e Cristina Kirchner.

Il Gruppo Clarín è di gran lunga la principale industria editoriale dell’Argentina3. Ad esso fanno capo giornali (tra cui il quotidiano El Clarín), televisioni, radio, reti di comunicazione. Tra il Clarín e i Kirchner – rei di voler limitare per legge (Ley de Medios) il monopolio mediatico del gruppo – è sempre stata guerra. Una guerra senza esclusione di colpi.

Subito dopo la vittoria di Mauricio Macri, il gruppo editoriale non solo ha recitato il de profundis del kirchnerismo, ma ne ha scritto le memorie, non salvando praticamente nulla dei 12 anni di governo. Lo ha fatto, utilizzando le sue migliori risorse umane e tecnologiche, con il corposo dossier El legado K (L’eredità K)4 e con il film Ficción K, el documental del relato (Commedia K, il documentario del racconto)5.

Quello fatto dal Clarín è un dipinto a tinte fosche, quasi da far rimpiangere l’epoca di Carlos Menem (1989-1999) o addirittura i tempi della dittatura (1976-1983): un paese diviso, l’aumento della povertà (1 argentino su 4), la distruzione dell’agricoltura e dell’allevamento, la forte contrazione dell’industria. Anche la battaglia per i diritti umani – con la celebrazione dei processi a un migliaio di militari golpisti – alla fine viene interpretata come un’arma di seduzione e di acquisto di consensi nelle mani dei Kirchner6.

Adesso tutto cambierà, prevede il dossier del Clarín. «Il quinquennio 2016-2020 e il nuovo scenario politico – vi si legge – offrono una piattaforma di opportunità per avanzare»7.

Talentuosa, ma indisciplinata

Qualunque sia l’eredità lasciata dall’epoca dei Kirchner, la presidenza di Mauricio Macri non sarà comunque una passeggiata. Il quadro economico generale è problematico e imprevedibile, sia a livello nazionale che latinoamericano. Il paese rimane potenzialmente molto ricco, ma afflitto da patologie che paiono inguaribili (corruzione generalizzata, diseguaglianze sociali marcate).

Semplificando, si potrebbe forse dire che l’Argentina è un po’ come i suoi calciatori: talentuosa, ma indisciplinata.

Paolo Moiola
(seconda parte – fine)

 

Note

(1) Il fondatore è Francesco Macri, nato a Roma nel 1930.
(2) Articolo del 21 ottobre, reperibile sul sito del quotidiano britannico: www.ft.com
(3) Il sito: www.grupoclarin.com.ar
(4) Il dossier sui 12 anni di kirchnerismo si può leggere liberamente a questo link: http://especiales.clarin.com/el-legado-K/
(5) Il documentario si può vedere liberamente a questo link: http://www.clarin.com/politica/Ficcion-capitulos-peor-relato_0_1489651181.html
(6) Silvana Boschi, Las conquistas que terminaron siendo manipuladas por el relato, in dossier citato.
(7) Dante Sica, La industria, de la expansión a una fuerte contracción, in dossier citato.




Una porta santa nel deserto

 

Quando il vescovo di Inhambane ha annunciato che anche Guiúa sarebbe stata meta del pellegrinaggio giubilare, ci siamo sentiti più che imbarazzati. Certo il titolo di «Santuario di Maria Regina dei Martiri» era stato conferito con tanto di decreto vescovile tre anni fa. Ma il Santuario è appena il cimitero dei nostri catechisti martirizzati nel 1992 con una cappella che ci riunisce ogni 22 del mese per venerae la memoria e il 22 di marzo per il grande pellegrinaggio diocesano.

Essere meta del giubileo vuol dire pellegrinaggio, indulgenza e anche «porta santa». Dove troviamo una porta santa nel deserto di Guiúa?

Padre Gabriele Casadei, uomo di grandi idee e realizzazioni, ha fatto due colonne di mattoni all’entrata del Cimitero dei Martiri, in fondo al grande viale. Ma le porte? In un container spedito anni fa da amici di Lissone (Lecco), c’erano giunte delle grandi lastre di lamiera che erano rimaste nel magazzino perché non avevamo la più pallida idea di come utilizzarle. Ecco, finalmente realizzato il loro destino: diventare la porta santa. Una volta poste una accanto all’altra, appoggiate ai due pilastri, chiudono bene il passaggio al santuario e fanno un figurone. Non è la bellezza della porta, abbiamo spiegato ai fedeli, ma è l’atto di entrare da quella porta nel santuario, come pellegrini bisognosi della misericordia del Signore, che conta. E così abbiamo iniziato la celebrazione.

Ci siamo radunati attorno alla fontana con la statua della Madonna benedicente, e abbiamo iniziato: lettura del Vangelo e della Bolla del papa. Erano tanti i nostri cristiani: la maggior parte proveniente dai villaggi lontani fino a 30 Km. Albertina, anziana catechista di Ngala, era partita alle tre del mattino, assieme a quasi tutto il villaggio. Così pure Filomena, Jacinto, Felizmeta si erano messi in viaggio a piedi sulle dune della nostra terra, per arrivare presto alla missione. Bambini, giovani, adulti e anziani. Vedendo donna Simplícia che, curva su se stessa, reggendosi appena col suo bastone, camminava lentissimamente, ultima nella processione, mi sono chiesto: «Chi glielo ha fatto fare?». La risposta mi è subito venuta: «Solo il Signore e la sua Misericordia, Lui solo». Poi la processione è iniziata con tutta la solennità del caso. Non avevo un piviale viola, ma uno bianco, donato da qualche sacerdote lombardo, arrivato anch’esso con un container: bellissimo. Avevo pensato di indossarlo il giorno del Corpus Domini per la processione, ma aveva piovuto così tanto che non avevo voluto bagnarlo. Questa è stata la sua occasione. Croce, incenso, Vangelo, come il papa in san Pietro, e la processione si è snodata lungo i viali della missione verso il Cimitero dei Martiri. I fedeli cantavano con fervore e gioia, senza stancarsi: le litanie dei santi, canti di giubilo, canti di misericordia… non sentivamo i raggi violenti del sole, né il freno della sabbia.

DSCN5765 DSCN5794

DSCN5797DSCN5811

DSCN5834DSCN5819

DSCN5888 DSCN5922

Davanti alla porta santa un profondo silenzio. Il tamburo, quello che si usa per gli annunci importanti, rullava lungamente. «Io sono la Porta», dice Gesù nel Vangelo. Io ho pregato: «Aprite la porta della giustizia», e il popolo ha risposto: «I giusti entreranno in essa». Per tre volte ho battuto col martello, e la porta finalmente si è aperta. Applauso, canto, poi in ginocchio in silenzio. Silenzio profondo di preghiera. «Il Signore ci doni la sua Misericordia». Davanti a noi, un bellissimo quadro del Gesù Misericordioso che tutti accoglie col suo cuore che emana luce e calore. Quindi, bagnando la mano nell’acqua benedetta e segnandosi col segno della croce, i fedeli entravano nel santuario, ordinatamente con devozione, preghiera e canto. Nella cappella non ci stavamo tutti. Il sole di dicembre era davvero cocente, ma alcune nuvole e brezza leggera alleviavano la calura, e così, seduti attorno alla cappella, tutti con tanta devozione hanno partecipato alla santa messa.

«Il Dio di misericordia ci perdona e ci accoglie. Adesso, attraversata ancora questa porta, torniamo alle nostre case e portiamo a tutti, in casa e nel villaggio, compassione e misericordia».

Sandro Faedi

DA GUIÚA PER LA MISSIONE

Un altro gruppo di 14 famiglie, formate nel Centro Catechistico Nazionale di Guiúa, ha ricevuto il mandato missionario, per le diocesi del Mozambico.

DSCN5632 DSCN2966

DSCN2960

«Ricevete la Bibbia, annunciate con la parola e la vita il nome del Signore Gesù». Con queste parole il vescovo di Inhambane, mons. Adriano Langa, durante la Messa del 26 novembre scorso ha inviato 14 famiglie di catechisti alle proprie comunità di origine, dopo il corso realizzato in Guiúa.

Guiúa, è un piccolo villaggio a 12 km dalla città di Inhambane, in Mozambico, sede della omonima diocesi, dove nel 1970 si aprì il Centro di Promozione Umana per formare alla leadership sociale e religiosa i laici più dinamici e inviarli nei villaggi più lontani e remoti della regione. Il centro fu attivo fino al 1987, quando un gruppo di guerriglieri lo assaltarono uccidendo il catechista Peres Manuel e rapendo molti altri, rilasciati solo dopo alcuni mesi. Era la lunga guerra civile.

Nel 1992, quando già il dialogo tra le parti in conflitto era ben avanzato, il centro fu riaperto. Ma nella notte tra il 21 e 22 marzo dello stesso anno ci fu un altro attacco. I guerriglieri sequestrarono tutti, grandi e piccoli, e li radunarono in una radura a 3 km dal centro. Là, furono interrogati, maltrattati e infine barbaramente trucidati. I morti furono 23. Sono i Catechisti Martiri di Guiúa, le cui tombe sono meta di pellegrinaggi e venerazione. Dodici anni dopo, nel 2004, il Centro Catechistico riaprì con 17 famiglie, segnando l’inizio di una nuova tappa nella vita della chiesa del Mozambico.

Al corso appena terminato hanno partecipato 14 famiglie da tre diocesi, per un totale di 70 persone. I catechisti hanno studiato teologia, pastorale, storia, politica e legge al mattino, mentre al pomeriggio hanno fatto pratica di agricoltura, falegnameria, meccanica, informatica per prepararsi a essere animatori della vita sociale e cristiana dei loro villaggi. Le signore, oltre che in teologia e catechesi, hanno migliorato le loro conoscenze di cucina, puericultura, cucito, infermieristica. I bambini si sono sistemati nelle varie scuole secondo l’età. La chiesa missionaria che ha portato a maturità la giovane chiesa africana, può stare tranquilla. Questi fratelli e sorelle, neo catechisti, continueranno con buon spirito evangelico il lavoro che Gesù ha lasciato ai suoi, con dinamismo e creatività, per annunciare a tutti che Lui è il Signore.

S. F.




Cercando la democrazia

Clicca sulla pagina per aprire il pdf sfogliabile.
Clicca sulla pagina per aprire il pdf sfogliabile.

I burkinabè hanno eletto un nuovo presidente dopo 27 anni di potere di Blaise Compaoré. Ma è stato necessario fare un’insurrezione e sventare un colpo di stato. Riuscirà il nuovo regime, figlio del vecchio, a portare il cambiamento chiesto dalla popolazione?

Roch Marc Christian Kabore waves to supporters at party headquarter in Ouagadougou on December 1, 2015 after winning Burkina Faso's presidential election, official results showed, after a year of turmoil that saw the west African country's former leader deposed and the military try to seize power in a coup. AFP PHOTO / ISSOUF SANOGO / AFP / ISSOUF SANOGO

«Era il 29 ottobre [2014], verso le otto di sera. Decidemmo di dormire nei pressi della rotonda delle Nazioni unite, per essere i primi ad andare, il giorno dopo, all’Assemblea nazionale (Parlamento, nda)». Chi racconta è Daoda Soma, giovane ingegnere informatico burkinabè, ma soprattutto militante di Le Balai Citoyen (la scopa cittadina) tra le associazioni più agguerrite nell’insurrezione popolare del 2014. Il 30 ottobre era previsto che i deputati votassero la modifica costituzionale dell’articolo 37, che avrebbe permesso a Blaise Compaoré, al potere dal 1987, di ricandidarsi alle presidenziali. (cfr. Mc gen-feb 2015). «La polizia è arrivata e ci ha aggrediti con i gas lacrimogeni. Siamo dovuti partire. Ma molto presto, il mattino dopo, siamo tornati. C’era una folla enorme: fare un minuto di ritardo significava restare indietro di un chilometro. C’era di tutto: bambini, adolescenti, giovani e vecchi. Penso sia intervenuta la mano di Dio, perché i militari che erano appostati intorno al palazzo non hanno sparato sulla folla».

Quel giorno, la pacifica gente di Ouagadougou prese d’assalto la sede dell’Assemblea nazionale, il parlamento, mettendola a ferro e fuoco, per impedire ai deputati di votare. Daoda continua il suo racconto: «La maggioranza della gente non voleva questa modifica. Anche se i media e i comunicati ufficiali dicevano l’esatto contrario. Sarebbe stato come subire un colpo di stato. Per questo ci mobilitammo per evitare che succedesse. Voci dicevano che molti deputati erano stati “comprati” dal potere e che la modifica sarebbe passata. Una volta votata la legge, i politici avrebbero potuto fare quello che volevano». Così quel giorno non si votò perché i deputati non poterono riunirsi. Il 31 ottobre Blaise Compaoré fuggì, grazie alla Francia, in Costa d’Avorio, e si aprì una nuova stagione politica per il paese, dopo 27 anni di «regno» incontrastato.

Fu definito dalle forze della nazione un periodo di transizione di 12 mesi, con un governo, un presidente della Repubblica e il Consiglio nazionale di transizione (parlamento). Gli organi della transizione avevano il compito di portare il paese alle elezioni dello scorso 29 novembre.

Elezioni che si sono tenute nella calma, con un grande afflusso. Non le prime elezioni democratiche, come qualcuno ha scritto, ma certo le prime senza lo strapotere di un partito, il Cdp (Congresso per la democrazia e il progresso) di Compaoré, in grado di controllare tutto e tutti e assicurarsi la vittoria, anche in parlamento, con percentuali altissime.

L’esito è stata la vittoria del favorito Roch Marc Christian Kaboré, uno dei pilastri del regime Compaoré fin dalle origini, che si era staccato dal Cdp nel gennaio 2014 fondando il suo movimento, l’Mpp (Movimento del popolo per il progresso). Ma vediamo cosa ha portato a questo cambiamento epocale.

L’insurrezione burkinabè

Scrutineers are at work during the counting of Burkina Faso's presidential election votes at a polling station in Ouagadougou on November 29, 2015. After Voters in Burkina Faso cast ballots on November 29 for a new president and parliament, hoping to tu the page on a year of turmoil during which the west African nation's people ousted a veteran ruler and repelled a military coup. AFP / ISSOUF SANOGO / AFP / ISSOUF SANOGO

«L’insurrezione è un concorso di circostanze tra un processo storico e avvenimenti interni ed estei. La società civile non è la sola depositaria dell’insurrezione. Ha giocato un ruolo importante, significativo, ma non sufficiente. Occorrevano altre forze». Ci racconta Antornine Raogo Sawadogo, sociologo, presidente dell’istituto di ricerca Laboratornire Citoyennetés, ed ex ministro dell’Amministrazione territoriale e del decentramento.

«La grande manifestazione che ha cacciato Blaise si è svolta a Ouagadougou, ma c’erano anche i partiti politici, i sindacati, e il cittadino della strada non organizzato. Era una domanda collettiva. Le rivendicazioni dei diversi gruppi che hanno cacciato Compaoré riguardavano un maggiore stato di diritto, la richiesta di uno stato democratico capace di fare una redistribuzione di ricchezze, dei frutti della crescita e di praticare una giustizia uguale per tutti. È questo che ha motivato tutta la comunità nazionale».

«La maggior parte degli attori dell’ottobre 2014 non hanno conosciuto che Blaise Compaoré da quando sono nati. Avevano voglia di cambiare presidente». Ci dice Germain Nama, direttore del giornale burkinabè L’Événement. «Occorre fare un passo indietro. Storicamente i movimenti di contestazione in Burkina si organizzavano dietro ai sindacati. I partiti politici li utilizzavano per portare le loro rivendicazioni.

Ma, in questo modo, i sindacati facevano molta ombra ai partiti politici. E ultimamente si rifiutavano di fare questa parte. I partiti stessi hanno capito che occorreva prendere il proprio destino in mano. Sono così entrati in gioco. Negli anni 2012-13-14 si è vista la crescita dei partiti politici che hanno cominciato a organizzarsi intorno al capo fila dell’opposizione. Sono stati anni di profondo cambiamento e di presa di potere da parte loro. Le imponenti manifestazioni di piazza del 2014 sono state organizzate da loro.

Il 4 gennaio 2014, c’era stata la rottura in seno al partito di Compaoré, il Cdp che aveva portato alla crazione del nuovo partito Mpp».

Continua Nama: «Il 28 ottobre si è tenuta la più grande manifestazione che il Burkina abbia mai visto. Quel giorno, se Blaise Compaoré fosse stato furbo, avrebbe chiamato i partiti politici che lo contestavano per cercare un terreno d’intesa. Avrebbe dovuto capire che il limite era stato passato».

La fuga del dinosauro

«Ero nella piazza della Rivoluzione ricolma di gente, avevo la maglia nera di Le Balai Citoyen – ricorda Daoda -. Sono arrivati dei militari, tra loro Isaac Zida (membro della guardia presidenziale, ha preso il potere alla fuga di Blaise per poi renderlo ai civili. È stato quindi nominato primo ministro di transizione, ndr). Non lo conoscevo. Un militare mi tocca la schiena e mi chiede: “Come fate per far passare la gente?”. Rispondo: “Qui non c’è violenza. Dove volete andare?”. “Il capo deve passare”. E io: “Ok, seguitemi”. Ero davanti e, con il linguaggio del ghetto, della strada, ho detto: “il capo arriva e ci porta buone notizie”. La folla si è allora aperta e Zida, arrivato al centro della piazza, ha iniziato a parlare con il microfono. Quando ha annunciato che Blaise aveva dato le dimissioni l’euforia della gente è stata grande».

Continua Nama: «I partiti politici hanno acquistato molta importanza in questa occasione. Sfortunatamente per loro, però, non avevano previsto la partenza di Compaoré che li ha presi completamente alla sprovvista. Non avevano soluzioni pronte. Ancora una volta i militari si sono precipitati sul potere. L’esercito è sembrata la sola forza con una certa coesione».

Un anno dopo: il fulmine

Soldiers of Burkina Faso's loyalist troops stand guard near the Naba Koom II barracks, the base of the Presidential Security Regiment (RSP) in Ouagadougou on September 30, 2015, within the visit of interim leader Michel Kafando. General Gilbert Diendere, the leader of a failed coup by RSP in Burkina Faso, was in talks on September 30 on handing himself in to the govement that his elite force tried to unseat, after troops stormed the putschists' barracks. AFP PHOTO / SIA KAMBOU / AFP / SIA KAMBOU

Il 16 settembre 2015 i militari del Reggimento di sicurezza presidenziale (Rsp), durante una riunione del Consiglio dei ministri, prendono in ostaggio il presidente di transizione Michel Kafando e alcuni ministri. È golpe. Il generale Gilbert Diéndéré, fedelissimo di Compaoré, già coinvolto in numerosi crimini del regime, si proclama capo di stato. Parte una caccia all’uomo nei confronti dei responsabili dei movimenti che hanno guidato l’insurrezione di ottobre. Gli effettivi del Rsp, circa 1.300 uomini scelti e ben armati, si sparpagliano per la città allo scopo di bloccare ogni possibile reazione. Il pretesto del putsch è che le elezioni, previste l’11 ottobre, non sarebbero inclusive, perché escludono alcuni personaggi troppo vicini a Compaoré. Di fatto da mesi c’erano attriti tra il primo ministro Isaac Zida, lui stesso ex Rsp, e il reggimento. Ed era sul tavolo la dissoluzione stessa del corpo.

I burkinabè sono attoniti, si vedono scippare il cambiamento per cui hanno tanto lottato e alcuni di loro sono morti. «Sì, la notizia ci è arrivata addosso. Ci siamo subito detti: la lotta deve continuare. Era qualcosa davvero di inimmaginabile, anche se qualche preoccupazione in realtà io l’avevo avuta», ricorda Daoda.

«Siamo andati alla rotonda della Patte d’Oie e abbiamo deciso di marciare verso Kosyam (il palazzo presidenziale dove presidente e primo ministro erano agli arresti, ndr) la sera stessa. Andando avanti, abbiamo incontrato uomini del Rsp che hanno cominciato a sparare. Siamo tutti fuggiti allo sbando».

«Abbiamo girato per Ouagadougou per riprendere la mobilitazione. La gente era irritata. I militari entravano nei quartieri e sparavano pallottole reali, facevano togliere le barricate. Ma appena se ne andavano, gli abitanti le rifacevano. I militari del Rsp non erano troppo umani in quel momento. Se li guardavi in faccia, sentivi l’alcornol, la droga, vedevi occhi di gente che non aveva più niente da perdere».

Durante una settimana la capitale del Burkina Faso rimane bloccata. I sindacati proclamano uno sciopero generale su tutto il territorio nazionale che ottiene la massima adesione. Nelle altre città si riescono a fare delle manifestazioni contro i golpisti. La repressione dell’Rsp causa almeno 17 morti e 108 feriti. Molte vittime sono colpite alla schiena.

MC 1-16 Burkina 5

Mediazione insufficiente

Intanto si attiva una mediazione della Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest), che coinvolge mons. Paul Ouedraogo, vescovo di Bobo-Dioulasso, l’ex presidente Jean-Baptiste Ouedraogo e il capo di stato maggiore dell’esercito Pingrenoma Zagré. Il mediatore principale è il presidente del Senegal, Macky Sall, aiutato dall’omologo del Benin, Boni Yayi. La proposta di accordo che elaborano non piace però ai burkinabè che la respingono. È troppo filo putschisti: prevede l’amnistia per loro e la reintegrazione dei politici pro Compaoré alle elezioni.

La mossa decisiva arriva dall’esercito repubblicano. All’alba del 22 settembre colonne di blindati lasciano le città di Bobo, Kaya, Fada N’Gourma, Koudougou, Ouahigouya acclamati dalla folla lungo le strade. Gli ufficiali a capo di diversi corpi si sono cornordinati e hanno deciso di muovere verso la capitale. Sono momenti di grande tensione perché si teme uno scontro fratricida tra le due fazioni dell’esercito. Viene invece intavolato un negoziato. Molti ufficiali delle due parti si conoscono per aver frequentato i corsi insieme. È presente anche il Mogho Naaba, re dei Mossì, come autorità morale riconosciuta da tutti. L’accordo, prevede il rientro nella caserma del Rsp e l’allontanamento a 50 km dalla capitale delle truppe dell’esercito repubblicano.

Ma circa 300 irriducibili si asserragliano nel campo militare Naaba Koom a ridosso del palazzo presidenziale. L’esercito circonda la caserma, e il 29 mattina si odono colpi di obice. Naaba Koom viene bombardato e gli Rsp finalmente si arrendono. Il generale Diendéré era già fuggito e, rifiutato dalle ambasciate di Francia e Usa, si era rifugiato alla nunziatura, per poi consegnarsi alle autorità.

Nei foitissimi depositi del Naaba Koom si trovano anche armi provenienti dalla Costa d’Avorio e dal Togo.

Nei giorni successivi sono rese note intercettazioni telefoniche tra Guillaume Soro, presidente dell’Assemblea nazionale della Costa d’Avorio, e Djibril Bassolé, generale, già ministro della difesa di Compaoré. La casa di Soro a Ouagadougou viene perquisita mentre Bassolé è arrestato per essere giudicato come complice del golpe. Risulta chiaro un fatto gravissimo: la Costa d’Avorio, dove Compaoré è in esilio, ha appoggiato i golpisti.

Michel Kafando viene rimesso alla testa della transizione, è il governo ripristinato. Nel primo Consiglio dei ministri viene formalizzata la dissoluzione del Rsp. Successivamente è rivista la Costituzione e l’articolo 37 che limita i mandati presidenziali è reso non modificabile.

MC 1-16 Burkina 8Niente più come prima

«C’è una frase su tutte le labbra: “Nulla sarà più come prima”». Ricorda Antornine Sawadogo. «Sono d’accordo con questo, ma può essere in meglio o in peggio. Abbiamo appena evitato il peggio con il colpo di stato del 16 settembre. Se il presidente che è stato eletto non terrà conto di tutto quello che è successo, il paese sarà ingovernabile, perché la gente è abituata a sollevarsi spontaneamente, appena c’è una indelicatezza commessa da un’autorità.

Io penso che il nuovo regime deve dotarsi di una dimensione democratica, giocare il gioco della democrazia, dello stato di diritto. Quando la gente si renderà conto che il figlio del povero ha gli stessi diritti di quello del ricco, quando gli operatori economici vedranno che gli appalti pubblici non vanno sempre agli stessi personaggi, o quando si vedrà che studiare in periferia nelle cittadine offre le stesse opportunità che studiare in Europa, la gente sarà un po’ più tollerante».

Non sembra un’utopia? «Tutto questo non è irreale, perché i burkinabè sanno fare la differenza tra quello che lo stato può fare o no. Il problema in Burkina è l’esclusione massiccia di gran parte della popolazione. Politicamente è necessario trasformare il cittadino insorto in cittadino atto a fare il controllo di cittadinanza, a chiedere conto a chi governa, e organizzarsi per fare una censura quando gli eletti stanno deviando e o esagerando, poter dire “fermatevi”. L’insurrezione non può andare al di là dell’espressione cittadina, ovvero saccheggiare, bruciare l’asfalto, distruggere palazzi istituzionali.

Penso che il nuovo regime debba negoziare un periodo di transizione, di grazia, per fare le riforme essenziali, per arrivare a uno stato di diritto: giustizia, educazione, sanità, esercito».

L’avanguardia

«I responsabili dei partiti politici sono burkinabè, capiscono i problemi della gente. Hanno visto come Blaise è scappato. Penso che abbiano imparato la lezione», ci dice Germain Nama. «Nonostante questo, noi non possiamo incrociare le braccia, bisognerà organizzarsi, come contropotere, per pesare nella bilancia e ottenere i cambiamenti qualitativi necessari. La società civile deve restare vigilante, le organizzazioni del popolo, i partiti politici di opposizione, devono avere un ruolo di risveglio di coscienze».

Per questo i media sono particolarmente importanti: «I media burkinabè sono molto critici. Ci differenziamo dai media africani in generale. Come in Costa d’Avorio, Mali, dove c’è molta corruzione nei media. Un po’ anche in Burkina, ma ci sono dei limiti che non sono stati superati. In maggioranza la stampa burkinabè resta una stampa di qualità, impegnata, cosciente, responsabile, ed è questo che ha contribuito a un livello elevato al cambiamento politico che abbiamo avuto. L’insurrezione di ottobre è stata preceduta da un’insurrezione mediatica. Non abbiamo mai fatto regali a Compaoré. Siamo l’avanguardia della lotta per un cambiamento qualitativo in Burkina. La stampa ha giocato il suo ruolo e continua a farlo».

Marco Bello




La guerra facile dei droni

Si comandano da molto lontano. Utilissimi per cercare informazioni sul nemico in battaglia. Ma anche per sparare su convogli e bunker sospetti senza rischi. Tutti gli eserciti li vogliono. E ora sono anche diventati tascabili e ambiti giochi per appassionati e ragazzi.

Clicca sulla pagina per aprire il pdf sfogliabile.
Clicca sulla pagina per aprire il pdf sfogliabile.

Nei cieli africani si combatte una guerra nuova e silenziosa, ma non per questo meno micidiale di quelle tradizionali. È la guerra dei droni. Sempre più presenti sui campi di battaglia del continente, i velivoli senza pilota rappresentano un sostegno alle truppe impegnate sul terreno, ma anche un’arma efficacissima per l’eliminazione mirata di capi politici o comandanti militari di movimenti ribelli.

Osservazione e omicidi mirati

A dispiegarli per primi sono state le forze armate statunitensi. Washington, stretta tra la preoccupazione per l’impatto mediatico che può avere la morte di soldati americani in Africa (ricordiamo la grande eco che ebbe nel 1993 la morte di 19 ranger nella battaglia di Mogadiscio che convinse Clinton al ritiro delle truppe Usa dalla Somalia) e la necessità di contrastare il fondamentalismo islamico jihadista, ha deciso di scommettere su quest’arma, sia a livello tattico che strategico. È così che nel 2001 gli Stati Uniti prendono in affitto dal governo di Gibuti la base di Camp Lemonnier, nella cittadina di Ambouli, sul lato meridionale dell’aeroporto internazionale di Gibuti. Oltre alle truppe delle forze speciali, Washington vi trasferisce alcuni droni. La posizione è strategica. Partendo da Gibuti si possono tenere sotto controllo sia la Somalia, dove dagli anni Duemila si è assistito a una progressiva radicalizzazione dei movimenti ribelli jihadisti, sia lo Yemen, per anni base delle milizie qaediste.

Dall’alto, i droni sono un alleato silenzioso che osserva gli spostamenti delle truppe nemiche, ne individua le basi, i rifugi dei comandanti. Inizialmente i vertici militari Usa li utilizzano prevalentemente con funzioni di osservazione e controllo. Un surrogato degli agenti dei servizi segreti. Qualsiasi operazione dei servizi speciali è preparata e accompagnata dai voli dei droni. Ma poi capiscono che essi possono diventare un’arma potentissima per le eliminazioni mirate, quelle che, in gergo militare, vengono chiamate «targeting killings». Sui velivoli senza pilota vengono montati missili aria-terra Hellfire che sono poi sparati sui rifugi o sulle vetture che trasportano i comandanti delle milizie.

«Non esistono, ovviamente, statistiche ufficiali – spiega Giulia Tilenni, junior analist di Caffè Geopolitico -, però, alcuni documenti riservati di cui sono venuta in possesso parlano di una ventina di attacchi offensivi in cui sono perite 108 persone. Le uccisioni mirate sono avvenute negli ultimi anni nel Coo d’Africa e hanno preso di mira i capi del movimento Al Shabaab».

Se su Camp Lemmonier ci sono notizie certe, poco si sa invece delle altre basi statunitensi sul continente. Anche in questo caso, di ufficiale non esiste nulla. Da alcuni leaks diffusi dalla stampa internazionale però si è venuto a sapere che Washington ne avrebbe diverse: Camerun, Ciad, Etiopia, Niger e Seychelles.

Quelle in Ciad (stanziati in una vecchia base francese) e in Niger (una ad Agadez e l’altra a Niamey) avrebbero l’obiettivo di tenere sotto controllo gli spostamenti dei miliziani jihadisti in Africa dell’Ovest.

Da questi aeroporti, oltre ai droni, decollerebbero anche piccoli aerei bianchi e senza alcuna insegna e con sofisticate apparecchiature elettroniche per l’osservazione a bordo. I velivoli verrebbero tenuti lontani dalle zone di combattimento per evitare che un eventuale abbattimento possa mettere a rischio i piloti. Questi ultimi sono agenti dei servizi segreti, ma anche contractors assunti ad hoc.

Dal Camerun i droni svolgerebbero funzioni di intelligence e sorveglianza sulla vicina Nigeria, offrendo informazioni alle truppe camerunensi, nigeriane e nigerine in azione contro le milizie di Boko Haram. Probabilmente verranno impiegati anche a sostegno del piccolo contingente Usa schierato al confine tra Camerun e Nigeria. In Etiopia, ad Arba Minch, e nelle isole Seychelles invece i droni vengono utilizzati prevalentemente per la sorveglianza delle rotte che dall’Oceano Indiano si spingono, attraverso lo Stretto di Aden, verso il Mar Rosso.

«Le forze statunitensi – sottolinea Luca Mainoldi, giornalista, esperto di Africa – utilizzano, anche a livello tattico, piccoli droni, molto simili a modelli radiocomandati, che volano nel raggio di pochi chilometri per osservare eventuali pericoli o minacce. Di questi velivoli sono dotate, per esempio, le truppe speciali Usa che danno la caccia al ribelle ugandese Joseph Kony» (cfr. MC luglio 2012).

Droni transalpini

Gli Stati Uniti non sono gli unici a utilizzare gli «aeromobili a pilotaggio remoto» in Africa. Anche Parigi ha iniziato a impiegare i droni a supporto delle proprie truppe. L’Aeronautica militare francese ha attualmente in dotazione quattro Harfang, velivoli derivati dagli Heron israeliani. Questi droni sono costati alle casse di Parigi 440 milioni di euro contro i 100 preventivati. L’aumento del costo è legato alla necessità di adeguarlo alle specifiche pretese dai comandi dell’Armée de l’air.

Nonostante l’alto costo, i generali transalpini non sono soddisfatti di questo apparecchio. Ha, infatti, impianti di videoripresa con risoluzioni basse, costi di volo alti e necessita di una manutenzione continua. Per questo motivo, Parigi ha deciso di acquistare dagli Stati Uniti tre Reaper (altri due sarebbero in arrivo) che hanno prestazioni decisamente migliori rispetto agli Harfang. Per il momento le truppe transalpine non hanno armato i velivoli. Ma, con l’omologazione per i droni dei missili prodotti da Mdba, un’azienda di proprietà di Airbus, Bae Systems e Finmeccanica, i comandi starebbero progettando di impiegarli anche sui Reaper.

Finora la Francia ha impiegato i suoi droni in Africa occidentale. A partire dal 2013, Parigi ha dislocato a Niamey (Niger) due droni a sostegno delle truppe dell’Operation Barkhane, la missione transalpina nel Nord del Mali. Le truppe francesi sul terreno impiegherebbero anche piccoli droni portatili che li aiuterebbero nelle operazioni contro le milizie ribelli, come già fanno le forze speciali statunitensi.

Stati Uniti e Francia non condividono solo le tattiche di combattimento, ma anche le basi. A Niamey infatti i velivoli a stelle e strisce e quelli transalpini partono dallo stesso aeroporto.

«In Africa – continua Luca Mainoldi – corre voce che Parigi e Washington abbiano aperto una base comune e segreta anche in Libia. Da lì farebbero partire i droni per tenere sotto controllo il Sud della Libia e l’Algeria. Difficile dire se si tratti di una diceria o se ci sia un fondamento. Così come è difficile confermare la notizia secondo la quale gli Stati Uniti avrebbero una base di droni proprio in Algeria. Secondo alcune indiscrezioni, infatti, Washington avrebbe riaperto una lunga pista che le era stata data in concessione da Algeri a Tamanrasset, in pieno Sahara, per gli atterraggi di emergenza dello Space Shuttle. Ma nessuna conferma ufficiale è mai arrivata dal Segretario alla Difesa Usa o dal Pentagono».

E anche i paesi africani…

Nei cieli del continente volano anche droni africani. I primi a svilupparli sono stati i sudafricani. Ai tempi del regime dell’apartheid (1945-1993), Pretoria aveva ottime relazioni con Tel Aviv e le industrie belliche dei due paesi collaboravano in diversi ambiti. Tra questi lo sviluppo dei droni. Negli anni Sessanta e Settanta si trattava soprattutto di modelli non dissimili dai normali aeroplani telecomandati, poi, col tempo, sono andati tecnologicamente evolvendo. La fine dell’apartheid non ha portato alla chiusura del progetto. Anche dopo il 1993 l’industria bellica ha continuato a sviluppare aerei senza pilota. Probabilmente la collaborazione con Israele è terminata, certamente c’è un rapporto con gli Emirati arabi uniti che, a loro volta, stanno sviluppando un progetto insieme all’Italia.

«In Africa – conclude Giulia Tilenni – possiedono droni anche la Nigeria, la Guinea Equatoriale e l’Angola. Ma non li usano per scopi militari quanto per tenere sotto controllo gli impianti petroliferi e gli oleodotti e difenderli da eventuali attacchi o minacce. Anche l’Algeria ha propri droni, acquistati dal Sudafrica, così come l’Egitto, che invece li ha comperati da Stati Uniti e Russia. Eh sì, perché anche Russia e Cina hanno propri velivoli senza piloti, anche se, per il momento, non volano sui cieli africani».

Enrico Casale




Colori sgargianti ma fibre sintetiche

Clicca sulla pagina per aprire il pdf sfogliabile.
Clicca sulla pagina per aprire il pdf sfogliabile.

Pagode antiche e magnifiche, paesaggi incantevoli, gentili ingegneri affittacamere, ma anche architetture in disfacimento, strade piene di miseria, bambini lavoratori e racconti di campi profughi. Il Myanmar dei profondi cambiamenti politici, in transizione verso la democrazia dopo 50 anni di dominio militare e 60 anni di una guerra civile ancora in corso in diverse zone del paese, ci viene raccontato attraverso lo sguardo attento di una viaggiatrice critica.

 

MC 1-16 Myanmar1-06Yangon sta cambiando velocemente, pur non essendo più la capitale ufficiale, rimane comunque il centro più importante del Myanmar. Vent’anni fa era una città silenziosa, ferma nel tempo, sprofondata nel verde dei suoi parchi e dei suoi viali. Ora, all’inizio del 2015, essi non bastano a contenere un traffico esagerato che ha spinto in questi giorni gli autisti dei bus a lasciare il lavoro, protestando per gli ingorghi che bloccano per ore le strade. Cantieri di nuovi edifici, alberghi e centri commerciali sorgono ovunque e occupano gli spazi verdi che ancora rimangono.

Scelgo una sistemazione vicina al centro e alla cattedrale cattolica, dove grandiosi edifici pubblici in stile classico, con archi e colonne in mattoni, ricordano il ruolo di capitale nel periodo coloniale britannico. Nei viali che conducono alla Sule pagoda, trovo cucine di strada. Mi siedo su sgabelli minuscoli tra i veicoli parcheggiati. Mi vengono serviti gustosi piatti tipici: zuppe di vermicelli, ravioli fritti, insalate piccanti di papaia. Gli indiani friggono di tutto, lattuga, uova, melanzane e tortini di farina di ceci e riso. Le interiora di animali sono infilate in spiedini che vengono fatti cuocere in orci pieni di brodo bollente.

Yangon ha ancora molto fascino, anche se il degrado continua implacabile. Lungo i marciapiedi, le lastre di pietra sconnesse lasciano intravedere lo scolo delle acque luride. Sulle facciate elaborate di edifici decrepiti e coperti di muffa resta una traccia di delicati colori pastello. Lungo i muri e sui tetti crescono cespugli e, addirittura, alberi, che lentamente apriranno ferite.

Ho parlato con Kaythi, una signora birmana di Sydney conosciuta in albergo: vuole farmi conoscere suo padre che ha 86 anni e sta scrivendo le memorie degli ultimi 70 anni di storia birmana. Era in marina durante la guerra, poi ha combattuto contro i Karen1. Per molti anni ha lavorato nel commercio marittimo, riuscendo a far emigrare la famiglia in Australia. Oggi ammette che se avessero vinto i Karen la storia del Myanmar sarebbe stata certamente migliore.

Conobbi la popolazione Karen nel 1994, a Pathein, capoluogo della regione di Ayeyarwady, sul delta del fiume Irrawaddy, apprezzando la loro fierezza, l’onestà e l’ospitalità. Ebbi un’esperienza molto bella nel complesso cattolico di S. Peter. Era zona off limits per noi stranieri, vi rimasi per 10 giorni sorvegliata dall’esercito, con la proibizione di uscire dal convento senza la compagnia di almeno due suore.

Ora che è possibile viaggiare nelle regioni un tempo proibite, dove le minoranze sono sempre state ostili alla dittatura, cercherò di scoprire altre realtà.

Bagan, regione Mandalay

MC 1-16 Myanmar1-08Mi trovo davanti alla pagoda più famosa di Bagan, Ananda. Mi fermo a chiacchierare con il ragazzino che sta vendendo bottiglie di benzina per le motorette. Si chiama So. Il nostro è un discorso fatto a gesti. Non conosco il birmano, e lui sa solo poche parole in inglese. Chiedo se mi può scrivere il suo nome. Non può. Non è mai andato a scuola.

Incontrerò ancora bambini lavoratori come lui, efficienti e professionali nelle loro mansioni. So ha 10 anni, cinque fratelli, una mamma semi cieca, il padre non lo ha mai conosciuto.

Una signora in moto si ferma per fare benzina. Si presenta, e mi spiega: la scuola è a pagamento e molte famiglie non possono permettersi la spesa, e nemmeno di rinunciare al lavoro dei bambini. So Mi U mi pare piccolo per i suoi 10 anni. Lo guardo: ha una macchia scura sul volto, i capelli neri sono ritti e corti.

Bagan è zona di interesse storico archeologico, ma l’Unesco non ha approvato i pesanti lavori di restauro fatti dalla giunta militare. I siti protetti del Myanmar sono altri, poco conosciuti e di difficile fruizione. Comunque qui, nascosti nella boscaglia, sorgono alberghi con piscina e campi da golf. Un tempo vi erano le case di bambù, sparse tra le rovine. Vent’anni fa gli abitanti furono spostati nella New Bagan. A ciascuna famiglia fu assegnato un lotto di terreno su cui costruirsi una casa, nulla di più.

All’ostello incontro Valentina e Francisca, due cilene di Santiago. Ambedue laureate in legge e di famiglia palestinese. I genitori, da piccoli, lasciarono i loro villaggi presso Betlemme nel ’47, e vi ritornarono in visita coi figli solo 50 anni dopo. Jessa e il fidanzato, invece, sono originari di un paesino di Vancouver Island, Canada. Insegnanti di inglese, non avendo trovato un impiego in patria, si sono trasferiti in Cina, dove lavorano in una scuola privata.

Ne incontro molti di cinesi o di stranieri che vivono in Cina.

Ngapali, stato Rakhine

MC 1-16 Myanmar1-05Lo stato Rakhine si trova nell’estremo Ovest del Myanmar, al confine col Bangladesh. Il volo fa scalo a Ngapali, località turistica sul mare delle Andamane.

Su Su e Simon sono miei vicini di capanno e mi invitano per un pranzo tipico birmano: zuppa di budi, una specie di zucchino, in brodo di cipolle e zenzero, e pollo fritto alla curcuma. Su Su è nata a Pathein e lavora come infermiera a Londra. Simon è nato nel ‘46 dal matrimonio di un ufficiale di marina inglese, di stanza a Moulmein, capitale dello stato Mon, con una donna birmana. «Avevo sei anni quando ci siamo trasferiti a Londra. Mia madre ha trovato difficile adattarsi alla nuova vita, con quattro figli da allevare senza gli aiuti che aveva in patria». Ora Simon vorrebbe ritornare a vivere a Yangon, ma il lavoro che sa fare, urbanista, è pagato pochissimo.

A Ngapali i terreni vicini al mare sono stati acquistati da cinesi e da grossi gruppi che hanno costruito alberghi di lusso.

Prendo la bici e raggiungo un villaggio di pescatori. La tradizione di fare seccare al sole il pesce piccolo è rimasta limitata a una zona della spiaggia. Vedo scaricare decine di grosse razze e mi unisco al drappello di curiosi. Poi proseguo per il capo che chiude la baia a Sud. Qui attraccano barche che portano passeggeri e casse di pesce molto pesanti. Noto la fatica dei quattro uomini che sollevano le casse. Fatica e povertà non sono cambiate, anche se ci sono alberghi e ristoranti ottimi.

Vedo che si lavora per sistemare le strade e costruire ponti in cemento. Sono molte le ragazzine occupate nei cantieri a spalare ghiaia e trasportare mattoni per 4-5 dollari al giorno.

Conosco Benno, un altornatesino che abita a Bangkok con la moglie, artista cinese. Lì ha fondato una onlus «Aiutare senza confini». Conosce il Myanmar da 15 anni e mi aggioa. Pare che a Mandalay i funzionari governativi corrotti facciano avere ai cinesi documenti falsi per poter comprare proprietà.

Thandwe

MC 1-16 Myanmar1-02Il pick up carico di passeggeri sale nella valle un tempo coltivata a riso. Vedo che hanno costruito una casa di riposo, un campo sportivo e due monasteri. Le giovanissime monachelle e le anziane con il loro abito rosa e la testolina rapata, un tempo erano rare. Credo che i monasteri femminili siano utili come ricoveri per donne anziane e sole, e per giovani orfane. Qualche edificio storico, dal sapore esotico, è rimasto. Scomparso in un incendio il bel mercato di legno nero, dove gentili sartine con grappoli di orchidee sui capelli erano al lavoro nel settore dei tessuti. Ora, in una nuova e anonima struttura in cemento, si vende roba cinese, dai colori sgargianti e fibre sintetiche.

Salgo su una moto taxi e mi faccio portare alla missione cattolica, a un paio di km dal centro. Trovo il parroco, padre Michele, che è appena arrivato dopo la visita ai suoi villaggi.

Quando arrivarono i primi missionari francesi, dedicarono la chiesa a Nostra Sisgnora de la Salette, ed eressero il bel crocifisso sul colle.

Siamo sulla cresta di una serie di colline che si perdono all’orizzonte. Cupole dorate di piccole pagode brillano lontane. La maggioranza dei birmani è buddista, e i missionari portato il vangelo presso le minoranze, da sempre ribelli verso il potere centrale.

Sittwe, stato Rakhine

MC 1-16 Myanmar1-04Il territorio che sorvolo oggi è fatto di estuari, isole di sabbia, meandri di fiumi e rari segni di insediamenti umani. Prima di atterrare noto gli allevamenti di gamberi e una struttura che potrebbe essere un campo profughi. Penso alla comunità musulmana che sta attraversando un periodo drammatico della sua storia nel paese2. La maggioranza buddista dello stato Rakhine discrimina ed emargina le minoranze su base religiosa ed etnica.

Un monaco buddista di Mandalay (Ashin Wirathu, fondatore del movimento «969», riquadro p. 25, ndr), è tra i più violenti sostenitori di tale politica.

Ho l’occasione di incontrare un gruppo di giovani australiane che lavorano nei campi profughi. Quando chiedo notizie dei Rohingya, vedo che i loro visi si rabbuiano e mi correggono subito. Questi islamici perseguitati non vogliono essere chiamati così, il termine per loro è offensivo. Capisco che il tema è delicato e che le ragazze non sono autorizzate a parlarne con estranei. Incontro a cena Laura, un’italiana impegnata anche lei sul campo, qui da tre anni. Mi da alcune informazioni utili, che non trovo su guide e web. Anche gli alberghi usati dagli operatori di Ong sono difficili da trovare, si scoraggiano le visite.

Nelly

Una donna mi invita in casa sua, in un andito chiuso da un’inferriata. Nelly mi fa sedere su un minuscolo sgabello di plastica e si presenta. È un’insegnante, e mi parla della sua vita. Poi si offre di accompagnarmi alla chiesa cattolica di Sittwe. Quando il conducente del risciò si ferma davanti alla scuola di Sant’Anna, Nelly incomincia a recitare il Padre Nostro in inglese. Ho visto le immagini buddiste nella sua casa e la foto di un monaco cui è molto devota, ma il ricordo della Convent school, dove ha studiato da ragazza, la commuove. «Ho pianto quando hanno nazionalizzato le scuole cattoliche (nel 1965, ndr). Mia madre era insegnante, di sangue cinese. Mi aveva mandato a Yangon a studiare dalle suore, ho ricordi felici di quegli anni». Entriamo nella scuola matea, frequentata da bimbi di etnia Chin. Anche le maestre e il parroco sono Chin, come gli orfani che vengono ospitati nel complesso di edifici voluti dai missionari americani 140 anni fa. Anche qui la chiesa è dedicata a N.S. de la Salette.

Mrauk U, stato Rakhine

Per arrivare a Mrauk U, capitale nel secolo 16°, luogo remoto dove sorgono monumenti straordinari ancora poco visitati, ci vogliono quattro ore di navigazione. Arrivo al molo che fa ancora buio. Salgo sul ponte superiore del battello e osservo lo spettacolo dell’imbarco. Le passerelle sono due assi sulle quali la gente passa con carichi incredibili, senza perdere l’equilibrio. Fa freddo, ma mi accoccolo sull’assito del ponte in compagnia di donne e bambini, avvolti da coperte. In lontananza vedo monti azzurri e voli di gabbiani su un fiume ampio che sconfina col mare. Più avanti il fiume si restringe e compaiono delle reti triangolari. I pescatori sono al lavoro, le loro capanne su palafitte e le barche formano un paesaggio sereno. Prendo alloggio in una struttura vecchia ma simpatica, dove incontro viaggiatori come Beate e Volkmar, da tre mesi in giro per il Myanmar. Lui è un fisico di Friburgo. Beate è stata infermiera e ora che è in pensione ha convinto Volkmar a lasciare il lavoro per viaggiare. Ceniamo insieme a Htum Shwe, un ingegnere birmano che ha ereditato il complesso e lo sta trasformando in una pensione. Vive e lavora a Yangon, dove risiede con moglie e figli. Una volta al mese arriva per seguire i lavori. La sua era una famiglia di proprietari terrieri di Sittwe che perse tutto con la riforma socialista.

MC 1-16 Myanmar1-07Pagode a Mrauk U

Vedo le bambine andare al pozzo, caricarsi sul fianco grandi brocche di alluminio. Una di loro ha un viso assorto, bello, con la pasta di tanakha sulle guance. Veste alla marinara, con la casacca bianca e blu che contrasta con la povertà dell’ambiente. Mi indica un colle con la pagoda più bella, Mahabodi swegu. Mi avvio su un sentirnero impervio e raggiungo la pagoda nascosta dai cespugli. Entro e noto le pareti scolpite a fasce, con le storie di Buddha e la vita di villaggio di 400 anni fa. Battaglie, animali, anche un uomo con la testa in giù, come quelli che ho visto scolpiti sulle chiese più antiche in Sardegna. Proseguo per visitare altre pagode e vedo una ragazzina, seduta al bordo della strada sterrata, con un neonato in grembo. Ha una piaga sul viso triste, il suo sguardo sgomento mi dice che non è consapevole del fatto di essere madre, non credo abbia più di quindici anni. Le capanne sono povere e sporche, si cucina sulla terra, si dorme su pavimenti di bambù sollevati da palafitte, tutti insieme. Promiscuità, miseria e ignoranza.

Mrauk U è un cantiere aperto, stanno aprendo alberghi e asfaltando strade, sperando nel turismo. Alle 7 del mattino passano i pick up a prendere le giovani che lavorano nei cantieri. Le più grandi lavorano sulle strade in costruzione, lisciando la graniglia nera con le mani. Con un cappello conico e un bavero sul viso spalano la sabbia e la ghiaia. Gli uomini guidano rumorosi mezzi che sembrano assemblati per gioco.

I templi sono di pietra scura, sembrano fortezze con tanti stupa a campana. Chi arriva qui rimane incantato dai tramonti e dalle albe che si possono ammirare dall’alto dei colli, in un’atmosfera magica.

Claudia Caramanti

(fine prima parte – continua)

In this photograph taken on November 8, 2015, Myanmar opposition leader Aung San Suu Kyi and head of the National League for Democracy (NLD) party casts her ballot at a polling center in Yangon. Myanmar's powerful army chief has congratulated Aung San Suu Kyi's opposition party for winning a majority in the country's historic general election, in a statement released late November 11, 2015 on the military's official Facebook page. AFP PHOTO / STR / AFP / -
Novembre 8, 2015, Aung San Suu Kyi capo del partito National League for Democracy (NLD) vota in una stazione elettorale di Yangon. AFP PHOTO / STR / AFP / –

Note:

1- Il conflitto, che gli esperti definiscono a «bassa intensità», continua a mietere vittime e a causare sofferenza. Tutto è iniziato nel 1949. Dopo aver ottenuto l’indipendenza dalla Gran Bretagna, alla fine del secondo conflitto mondiale, il nuovo presidente del paese, Aung San – padre di Aung San Suu Kyi, futuro leader della Lega nazionale per la democrazia (Ndl) e Nobel per la pace – aveva firmato, in accordo con i capi delle diverse comunità etniche che compongono il complesso mosaico birmano, il «Trattato di Planglong». L’accordo offriva a ciascun popolo la possibilità di scegliere – entro il termine di dieci anni – il proprio destino politico e sociale. Questo trattato non è stato mai rispettato da Rangoon (Yangon) perché, dopo un colpo di stato e l’uccisione di Aung San, il potere è passato alla dittatura militare del generale Ne Win. Così, da sessantasei anni a questa parte, i Karen – un popolo che conta ben sette milioni di persone – imbracciano le armi.

2- Sulla situazione vedi Stefano Vecchia, Quando l’islamofobia è buddhista, MC luglio 2013.




La forma dello spirito

Clicca sulla pagina per aprire il pdf sfogliabile.
Clicca sulla pagina per aprire il pdf sfogliabile.

Il santuario di Lourdes accoglie ogni anno 80mila malati e disabili. Ma la Via Crucis è poco accessibile. Così una scultrice trasforma 100 tonnellate di marmo di Carrara in un’opera dello spirito. Incontro con l’artista.

Il santuario di Lourdes è un luogo singolare, unico, dove le persone che vi giungono riescono a riconciliarsi col mondo, aprendo il cuore alla fede. Il miracolo della vita viene percepito con una forza straordinaria e la malattia diventa strumento che conduce al mistero dell’amore di Dio. A Lourdes si raccoglie conforto spirituale, si ricerca una guarigione che può essere non solo fisica, ma anche interiore. A Lourdes si può dare nuovo significato all’esistenza, si colmano vuoti, si trova un’alternativa alla solitudine, e le sofferenze vengono alleviate dal balsamo della preghiera.

annunciazione - scultura presso il museo a cielo aperto in ProvenzaLe apparizioni

Sono migliaia le persone che ogni anno giungono al santuario, dove, l’11 febbraio 1858, Beadette, recandosi insieme a due amiche verso Massabielle, lungo il fiume Gave, in un’ampia grotta ubicata vicino al corso d’acqua, vide per la prima volta «la Signora» – come Beadette chiamò, per la sua grazia, la Madonna – abbellita da una rosa su ciascun piede, e dalla corona del rosario al braccio. Quellaa prima apparizione Beadette la raccontò così: «Avevo appena tolto la prima calza che sentii un rumore come se ci fosse stato un colpo di vento. Allora voltai la testa dalla parte del prato (dal lato opposto alla grotta, nda). Vidi che gli alberi non si muovevano. […] Appena alzai la testa guardando la grotta, scorsi una Signora. Aveva un vestito bianco, un velo bianco e una cintura azzurra e una rosa su ogni piede, del colore della catenella del suo rosario. Allora fui un po’ impressionata. Credevo di sbagliarmi. Mi strofinai gli occhi. Guardai ancora e vidi sempre la stessa Signora. Misi la mano in tasca; vi trovai il mio rosario. Volevo fare il segno della croce. Non potei arrivare con la mano fino alla fronte. La mano mi cadeva. Allora lo sbigottimento s’impadronì ancor più di me. La mia mano tremava. Tuttavia non fuggii. La Signora prese il rosario che teneva tra le mani e fece il segno della croce. Allora provai una seconda volta a farlo e potei. Appena ebbi fatto il segno di croce scomparve il grande sbigottimento che provavo. Mi misi in ginocchio. Ho recitato il rosario in presenza di quella bella Signora. La visione faceva scorrere i grani del suo, ma non muoveva le labbra. Quando ebbi finito il mio rosario, mi fece segno di avvicinarmi, ma non ho osato. Allora scomparve all’improvviso. […] Cammin facendo ho domandato alle mie compagne se non avevano visto niente. No, mi risposero. L’ho domandato loro ancora. Mi dissero che non avevano visto niente. Allora aggiunsero: – E tu hai visto qualcosa? Allora dissi loro: – Se non avete visto niente, neppure io».

Le apparizioni si susseguirono e Beadette ebbe la visione della Madonna ancora una seconda, una terza volta, fino a quindici volte di seguito dal 19 febbraio al 4 marzo 1858. Quattro anni dopo, nel 1862, il vescovo di Tarbes riconobbe ufficialmente l’autenticità delle apparizioni. La grotta di Lourdes, da allora, si è trasformata in luogo di pellegrinaggio, cui accorrono sempre più fedeli, tanto da diventare terzo santuario cristiano al mondo per numero di visitatori all’anno.

Guarigioni e preghiere

scultura Maria De FaykodLa fede, la devozione profonda, la pace e la speranza presenti in questo angolo degli Alti Pirenei francesi derivano sia dalle apparizioni e dalla meravigliosa storia di Beadette, sia dalle numerose guarigioni registrate a seguito del pellegrinaggio stesso, o per effetto di un’invocazione sincera a Nostra Signora di Lourdes. Le guarigioni, pur se reali, rimangono un mistero. Tuttavia, sono spiegabili se si ricordano le parole della Madonna: «Andate a bere alla sorgente e a lavarvi». L’acqua che scorre a Lourdes – nelle fontane, nelle piscine, lungo il cammino chiamato proprio dell’acqua – ha in sé del miracoloso. Questo elemento liquido trae la sua forza dall’autenticità della fede, dalle preghiere, dall’intenzione con cui le orazioni vengono pronunciate.

Proprio questa preghiera la si osserva segnata da un incredibile ardore lungo «la Via Crucis», o meglio, «le Vie Crucis». Quella più nota a Lourdes è stata realizzata e completata nel 1912 sulla collina detta delle espélugues (spelonche). Pur suggestivo, si tratta però di un Cammino della Croce difficoltoso per le persone con handicap. Come ha ricordato Francis Dehaine, direttore generale dei servizi dei santuari a Lourdes, oggi in pensione: «Lourdes accoglie ogni anno più di 80mila persone malate e disabili». Proprio per rendere più agevole l’esperienza del pellegrinaggio a Lourdes a quanti hanno difficoltà motorie è stato avviato, nel 2001, il progetto di realizzare una nuova Via Crucis. L’idea ha preso forma concreta quando monsignor Jacques Perrier, vescovo di Tarbes e Lourdes, decise di proporre come riflessione ai pellegrini questo tema: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati». Per facilitare l’incontro delle persone disabili, affaticate e oppresse, col fervore spirituale di Lourdes venne ufficializzata l’idea di un nuovo Cammino della Croce, più adatto e degno per i malati. Il progetto fu affidato alla scultrice franco-ungherese Maria de Faykod, già nota in tutto il mondo per le sue opere intrise di devozione cristiana.

Più attenzione ai malati

Questa scelta è stata abbastanza naturale, considerata la profonda fede dell’artista. Inoltre, la scultrice aveva già realizzato, nel 1981, per il santuario di Lourdes una statua della Pietà.

Abbiamo incontrato Maria de Faykod presso la sua casa-museo nel Sud della Francia per capire la genesi della sua rivisitazione della Via Crucis. Ci ha raccontato come questo lavoro l’abbia coinvolta totalmente e come abbia iniziato a realizzare le sculture con molto entusiasmo. «Dal 2003 al 2008 mi sono dedicata con grande fervore a questo progetto. Grazie a tanti benefattori siamo riusciti subito a trovare il finanziamento per avviarlo. Come artista non ho voluto accettare alcun compenso, ma abbiamo dovuto sostenere una serie di spese, legate all’acquisto del materiale e del relativo trasporto».

Per cinque intensi anni Maria de Faykod ha plasmato un’imponente opera, ricavata dall’estrazione di quasi cento tonnellate di marmo di Carrara. Un’opera composta da 17 sculture, che ripercorre il cammino di Cristo, dalla Passione alla Resurrezione. «Per me lavorare questa materia significa andare oltre la materia stessa – ci spiega Maria – poiché non vedo tanto l’oggetto in sé, piuttosto mi lascio trasportare dalle sensazioni e da ciò che percepisco modellando il marmo. La mia fonte di ispirazione è certamente la spiritualità, sono cristiana e dunque mi riconosco nell’amore di Dio incarnato in Gesù. Allo stesso tempo, quando ho concepito le sculture per il santuario di Lourdes volevo manifestare qualcosa di diverso rispetto alla Via Crucis tradizionale.

Ho sottolineato la continua unione tra il cielo e la terra, tra il divino, il Cristo e l’umanità. Questo legame è possibile per il tramite della spiritualità. Le sculture mostrano il profondo amore di Gesù verso l’essere umano, testimoniato dal suo sacrificio. Egli porta sulle sue spalle una grande, pesante croce, simbolo delle sofferenze umane, e queste sofferenze le fa proprie. Ma in questo calvario possiamo vedere un ritorno alla sorgente. Gesù ritorna al Padre e attraverso la croce e l’essere umano può ridiventare essere spirituale, ritornando al divino».

Dalla materia alla spiritualità

museo sculture 2014-09-21 119Ogni scultura, quindi ogni tappa della Via Crucis concepita e realizzata da Maria, parla al cuore con un linguaggio metaforico in cui sono racchiuse sofferenza e speranza, lacrime e sorrisi, dolore e gioia. Le opere hanno un forte impatto visivo, sia per la luminosità del marmo – volutamente bianco proprio per evocare la luce divina -, sia per le loro dimensioni. Le 17 sculture hanno un’altezza che varia dai 2,20 ai 2,60 metri, e una larghezza tra 1,30 e 1,80 metri. Sono statue imponenti, capaci di trasmettere la presenza dello Spirito. Osservandole lo sguardo si posa sul visibile e al contempo sull’invisibile.

Come sottolinea Maria: «Per me fare arte significa mostrare ciò che non si vede, ciò che gli occhi non possono o non vogliono osservare, ciò che non sembra esserci nella materia. Potrei dire che la mia prospettiva artistica ed esistenziale sia basata su questo adagio: “Credo nel mondo reale ma vivo nella dimensione spirituale”. Quest’ultima, per me, è molto più forte della dimensione materiale».

Questa angolazione consente a Maria di guardare al mondo in maniera diversa, abbracciando una visione sintetizzabile in una parola: transustanziazione. La materia, sia essa marmo o altro, viene trasfigurata in entità fisica spirituale. Ecco perché le sue sculture riescono a rivelare l’essenza dell’anima: ciò è possibile attraverso un processo di spiritualizzazione infuso dall’artista. Questa prospettiva nutre anche la concezione esistenziale di Maria. Infatti, alla nostra domanda: «Come è possibile non cadere nel pessimismo vivendo in un’epoca così fortemente materialistica e violenta?» Maria ci ha risposto: «Bisogna partire da una visione complessiva. Personalmente, osservo ciò che accade nel presente e vivo nel presente, vedo la materia e il genere umano, però il mio sguardo è più ampio. Guardo alla totalità. Ritengo che questa fase storica, certamente molto materialistica, sia solo un passaggio nell’evoluzione umana, poiché noi andiamo verso un’evoluzione spirituale. Siamo ancorati alla terra ma siamo collegati al cielo e ci proiettiamo verso il cielo. Cristo ci dice: “Evolvete interiormente per incontrare il mio amore”. La Via Crucis è simbolo dell’amore di Cristo che prende su di sé tutta la sofferenza del genere umano per trasformarla, appunto, in amore».

Accessibili a tutti

Inizialmente, il Cammino della Croce realizzato da Maria de Faykod sarebbe dovuto essere collocato in una posizione sopraelevata rispetto alla prateria, ma nel 2008 venne deciso di installarlo provvisoriamente in basso, in attesa che venissero portati avanti lavori di sistemazione della grotta e della piscina. Dopo la drammatica alluvione del 2013 che ha investito i Pirenei e anche Lourdes, danneggiando il ponte Jumeau-Gemello, si stanno finalmente intraprendendo azioni per riprogettare l’ubicazione delle 17 sculture, anche per la loro stessa conservazione. Alcune opere, per effetto delle escursioni termiche e soprattutto per effetto della pioggia caduta nel 2013, e nell’ottobre 2015, hanno subìto danni. Nel momento in cui scriviamo non si sa esattamente quale sarà la loro futura ricollocazione. È certo che le migliaia di pellegrini malati e impossibilitati a camminare hanno il diritto di seguire il Cammino della Croce in tutta tranquillità.

Silvia C. Turrin




Chiesa, dialogo contro terrore

Laurent Lompo, il
primo vescovo nigerino della storia

Giovanissimo, ma già
sperimentato. La sua parola d’ordine è «dialogo interreligioso», non
raccontato, ma applicato. È la nuova guida della piccola comunità dei cattolici
nella diocesi di Niamey. Con approccio «missionario».

1. Intervista con mons. Laurent Lompo

Niamey. Monsignor Laurent Djalwana Lompo è il nuovo arcivescovo
dell’arcidiocesi di Niamey. È il primo vescovo del Niger di nazionalità
nigerina ed è stato intronizzato dal cardinale Philippe Ouedraogo (del Burkina
Faso) il 14 giugno scorso. Originario di Makalondi, 100 Km a Ovest della
capitale, è nato nel 1967. Dopo la scuola primaria nella città natale, il
collegio a Say e il liceo a Niamey, ha passato dieci anni di seminario in
Burkina. È stato ordinato prete nel 1997, e in seguito ha lavorato un anno alla
parrocchia St. Gabriel a Niamey. È stato poi responsabile al foyer Samuel, dove ci si occupa dei giovani che
vengono per maturare la loro vocazione.

Dopo una fase di studi in Francia è rientrato nel 2003, e monsignor Michel
Cartateguy, arcivescovo di Niamey, lo ha nominato vicario generale. Ruolo che
ha ricoperto per dieci anni. Nel 2013 papa Benedetto ha nominato mons. Lompo
vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Niamey e dall’11 ottobre 2014, è stato
chiamato a sostituire mons. Michel.

In Niger, paese a maggioranza
musulmana, i cristiani sono un’esigua minoranza: si parla di alcune decine di
migliaia di persone su 17 milioni. Le diocesi sono due, quella metropolitana di
Niamey e quella di Maradi, il cui pastore è monsignor Ambroise Ouedraogo (cfr.
MC settembre 2007).

Il 29 giugno scorso mons. Lompo era
a Roma per concelebrare la messa con papa Francesco, durante la festa dei santi
Pietro e Paolo. In quell’occasione il santo padre ha benedetto il palio per i
46 arcivescovi metropoliti nominati nell’anno. L’insegna ecclesiastica di lana
bianca «è simbolo del pastore che sente l’odore del gregge e ne porta il peso,
facendo l’unità della Chiesa», ci racconta monsignor Lompo, che incontriamo nel
suo ufficio, a ridosso della sobria cattedrale di Niamey, in pieno centro città.

«Voglio continuare la missione di
mons. Michel, che ha molto operato per questa diocesi, e ha vissuto il suo
motto “Che lui diventi più grande e che io diminuisca”, spingendo il clero
diocesano a prendere le sue responsabilità. Penso sia in questa linea che papa
Francesco mi ha nominato arcivescovo».


Che sentimento prova, in quanto nigerino, a ricoprire questo ruolo
importante per la Chiesa cattolica, in un paese in cui i cattolici sono una
minoranza?

«In un paese in cui il 98% della
gente è musulmana, per me è una gioia, un onore, sapere che la comunità
cristiana ha fatto il suo cammino, è arrivata a maturità. È anche un dovere,
quello di mettere le basi per consolidare il dialogo interreligioso in questo
paese. Gli avvenimenti del 16 e 17 gennaio scorso (manifestazioni anti
cristiane, vedi box, ndr) ci danno ancora l’occasione concreta per
affermare che il dialogo interreligioso è di una importanza capitale. E non
deve restare solo a livello della gerarchia, ovvero dei responsabili e leader
religiosi, ma deve partire dalla base e andare fino in cima. Perché gli eventi
che si sono prodotti hanno mostrato che la gioventù è molto coinvolta. Quindi
vogliamo fare in modo che il dialogo sia vero e sincero. Siamo in un paese
laico, le autorità politiche devono tenere conto del rispetto delle minoranze.
I cristiani hanno il loro posto. Preghiamo affinché questo impegno possa essere
concreto, e noi cristiani possiamo intenderci con i musulmani e continuare la
missione in Niger».

Nella pratica, quale programma avete con i capi religiosi musulmani?

«Siamo rimasti molto stupiti delle
manifestazioni di gennaio. Viste le relazioni che abbiamo, non avremmo mai
immaginato che in Niger si sarebbero potuti produrre degli eventi simili. Noi
stiamo continuando quanto faceva mons. Michel Cartateguy: il dialogo
interreligioso, a tutti i livelli. Il programma sul quale abbiamo riflettuto si
chiama “Vivere insieme”, e tiene conto della formazione della gioventù di oggi.
Una gioventù sbandata, che ha bisogno di contatto tra cristiani e musulmani.
Contiamo di mettere in opera un programma, con il supporto di partner interni
ed estei, affinché possiamo formare i giovani alla tolleranza, al rispetto
mutuo, alla conoscenza dell’altro. Perché quando conosci qualcuno lo rispetti.
Questo rispetto, pensiamo si possa avere se ciascuno è radicato nella sua fede:
i cristiani nella propria fede e così i musulmani. Insieme possiamo coltivare
la pace di cui il Niger ha bisogno oggi».

Vi cornordinate con i leader musulmani?

«Lavoriamo con tutti gli strati
sociali. Abbiamo diverse scuole cattoliche, nelle quali la maggioranza degli
studenti sono musulmani. La formazione mette l’accento sul vivere insieme, e
questo per ogni ordine e grado di scuola. Lo stesso accade nelle attività come
la Caritas, in cui lavoriamo con i musulmani. Anche a livello dei nostri
dispensari cerchiamo la collaborazione con gli altri.

Abbiamo una Commissione nazionale di
dialogo interreligioso che raggruppa musulmani e cattolici a livello di diocesi
di Maradi e di Niamey, insieme costituiscono la commissione interdiocesana, di
cui monsignor Ambroise Ouedraogo è cornordinatore. Alla mia intronizzazione c’è
stato un gran numero di musulmani presenti. Penso che la Commissione permetta
di avvicinarci ulteriormente e di togliere le paure e le incomprensioni dovute
agli eventi del 16 e 17 gennaio scorso. In quei giorni, in seguito alle
caricature del profeta Maometto uscite su Charlie Hebdo, c’è stata una reazione a livello internazionale, che
in altri paesi si è potuta contenere, ma in Niger purtroppo no. C’era un certo
numero di giovani infiltrati, e la gioventù sbandata è una porta aperta agli
attacchi, ai saccheggi e alla profanazione che abbiamo vissuto nelle nostre
diverse chiese. Ci siamo visti con le spalle al muro. Hanno bruciato tutto. Non
accusiamo la comunità musulmana, ma c’è stata una intromissione dall’esterno.
La tattica secondo noi è quella di Boko Haram. Il modo con cui hanno attaccato
le chiese era pianificato, si erano organizzati per bruciare. Stiamo lottando
contro questo nemico comune, che sia cristiano come musulmano. Boko Haram è un
nemico di tutti».

In Niger l’islam è stato sempre molto tollerante. Queste infiltrazioni
riescono a influenzare e radicalizzare i musulmani comuni?

«Oggi non possiamo non parlare di
radicalizzazione, quando vediamo il comportamento esteriore, l’abbigliamento,
le reazioni, penso che l’islam si stia radicalizzando poco a poco in un paese
in cui è stato sempre tollerante. L’influenza estea ha un peso, e noi nel
dialogo interreligioso lo diciamo. Non credevamo che sarebbe potuto succedere,
ma il fatto che ci sia questa radicalizzazione può avere un effetto negativo.
Durante gli assalti a Zinder c’erano delle persone con la bandiera di Boko
Haram, che gridavano parole d’ordine tipiche del gruppo. Queste cose hanno buon
gioco con la grande massa.

Al momento non abbiamo preoccupazione
perché non crediamo che possano capitare ancora questi fatti. Quando
incontriamo i musulmani, le associazioni, i leader politici, tutti condannano
quello che è successo. E penso che delle disposizioni siano state prese. Per
questo diciamo, rispetto a quello che è successo: occorre che lo freniamo con
il dialogo, il mutuo rispetto e il rispetto delle minoranze. Se continuiamo a
operare, cristiani e musulmani insieme, in questa direzione possiamo fermare
questo fenomeno».

Collaborate con altre chiese sorelle in altre parti del mondo?

«In Niger ci sono cattolici ed evangelici. Collaboriamo e
vogliamo impostare l’ecumenismo, affinché tra cristiani ci possiamo conoscere
ancora meglio e lavorare insieme di più.

A livello regionale facciamo parte
della Conferenza episcopale Burkina Faso – Niger e lavoriamo con le chiese
sorelle del Burkina e del Benin. All’intronizzazione c’erano cinque vescovi del
Benin.

Collaboriamo anche con l’Europa, ad
esempio con le diocesi italiane di Lodi, Belluno, Milano e Genova, delle quali
abbiamo dei missionari qui con noi. Recentemente ho fatto un viaggio
nell’ambito di questa collaborazione per rinforzare la cooperazione missionaria
e allo stesso tempo presentare i progetti di ricostruzione per le nostre
chiese.Ho avuto un’accoglienza calorosa e
sono tornato con un’immagine molto bella della chiesa italiana».

Ci sono anche dei missionari di ordini religiosi?

«Sì, ci sono i padri Bianchi, i
Redentoristi, la Società delle missioni africane oltre ai sacerdoti fidei donum, sia dell’Italia che della Francia. Inoltre
abbiamo molte altre congregazioni religiose che vengono dal Benin, Togo,
Burkina Faso, ma anche da Canada e Francia. La maggior parte delle
congregazioni lavorano nelle scuole e nei dispensari. È una fetta importante
della cooperazione missionaria».

Quali sono le sfide maggiori che sente e qual è il suo programma per i
prossimi anni?

«Portiamo avanti la visione che
recita: “Tutti sono missionari in una chiesa famiglia che testimonia l’evangelo
nella realtà del Niger”. Vivere la parola di Dio nel Niger di oggi ha come
sfide, prima di tutto, il dialogo interreligioso, la formazione dei nostri
cristiani alla cultura della tolleranza, la formazione dei cristiani ad avere
una fede solida e a radicarsi ancora di più nella Parola. Perché quando si è
forti a livello spirituale, si regge meglio davanti alle prove. Vogliamo
sviluppare la Caritas diocesana, come servizio ai più poveri del paese, che
sono molti. Mettere l’accento sulla responsabilizzazione. I missionari ci danno
uno stimolo esaltante e dobbiamo fare in modo che tutti i preti, i religiosi, i
laici, ad ogni livello, possano essere responsabili. Una chiesa che poco a poco
prenderà se stessa in carico. È il nostro programma. Noi abbiamo bisogno delle
chiese straniere, ma dobbiamo prima di tutto contare sulle nostre forze. Le
altre vengono a complemento».

In Niger molti cattolici sono di origine straniera. Avete una pastorale
per la diffusione del cattolicesimo?

«È vero, molti cattolici vengono da
altri paesi, ma molti cristiani nelle parrocchie di campagna sono autoctoni.
Prendo il caso di Dogon Doutchi, in zona haussa (prima etnia per numero,
presente anche in Nigeria, ndr) oppure la
zona sonrai: entrambe hanno molti cristiani. Un centro importante è Makalondi,
che raggruppa le parrocchie di Makalondi, Bomanga, Torodi e Kankani. Non posso
dire che si tratta del polmone dei cristiani nigerini, ma in quella zona sono
tutti nazionali. Quest’anno su 400 battesimi, oltre 150 sono stati di persone
originari di quella regione. Lì la gente ha sete di fede, le chiese sono piene
e quando sono stato in visita pastorale, mi hanno detto: “Siamo in
soprannumero, non è che potete trovare i mezzi per costruire altre chiese?”.
Conteremo sulla partecipazione locale per poter costruire luoghi di culto in
queste regioni, dove il cristianesmo avanza rapidamente in numero e qualità.

Penso anche, in questa prospettiva,
alla promozione delle vocazioni, perché il clero diocesano è una necessità.
Abbiamo una pastorale vocazionale. A livello del seminario maggiore ci sono
nove seminaristi, e altri tre stanno facendo l’anno propedeutico. Altri giovani
sono al foyer
Samuel dove si
preparano fino all’esame di maturità.

I missionari sono venuti in passato,
ma adesso vediamo la rarità di quelli che vengono dall’Europa. È il nostro
tuo di fare uno sforzo missionario affinché le comunità comprendano
l’importanza della missione oggi in Niger. Facendo la promozione delle
vocazioni preghiamo ogni giorno e ci mettiamo in opera affinché ci sia un
accompagnamento a livello delle parrocchie. Nella diocesi di Niamey ci sono
circa 45.000 cattolici. La maggioranza si trova della zona di Makalondi. E ogni
anno aumentano».

Come concilia la sua cultura e tradizione africana con la spiritualità
cattolica?

«A livello della nostra diocesi
crediamo molto nello sforzo dell’inculturazione: partire dai valori positivi
delle nostre culture e li leggiamo alla luce del Vangelo che viene a
purificarli in modo che possiamo comprenderli. Un impegno importante è la
traduzione della Bibbia nelle diverse lingue del Niger. Il giorno della mia
intronizzazione abbiamo fatto la processione delle offerte, e hanno partecipato
tutte le etnie del paese nel loro vestito tradizionale, per mostrare
l’universalità. Il Vangelo è venuto per tutte le etnie, non per una sola, tutte
hanno la possibilità di aprirsi al Vangelo. Abbiamo anche utilizzato il griot (importante figura del cantastorie in Africa
dell’Ovest, ndr). Nel paese gourmanché (altra etnia
presente in Niger e Burkina, ndr), il messaggio
trasmesso dal griot diventa un messaggio popolare,
ascoltato da tutto il mondo. Per questo anche il testo che ratifica che sono
diventato arcivescovo e stato tradotto in lingua locale e letto, in modo tale
che tutti potessero comprendere meglio. Prendiamo quello che è positivo nelle
nostre culture e vediamo come si inserisce nel Vangelo. Facciamo questo sforzo
in modo che la Parola prenda più forza nelle nostre culture, perché sappiamo
che il Vangelo entra nella cultura e la purifica, così la nostra fede diventa
solida».

Marco Bello


2. La situazione

A pochi mesi dalle
elezioni, il Niger deve fare i conti con Boko Haram

Stretto tra due
fuochi

Un paese tra i più poveri al mondo si vede costretto a
combattere una guerra. E a vegliare sulla propria sicurezza intea. Un governo
che in oltre quattro anni è riuscito a realizzare infrastrutture e promuovere
l’agricoltura. Una società che tende a islamizzarsi sempre di più a causa di
infiltrazioni e influenze estee.

Niamey. È un torrido
pomeriggio di fine giugno, le piogge stagionali sono in ritardo, e
dall’aeroporto internazionale di Niamey, Diori Hamani, vediamo uno strano
velivolo decollare e dileguarsi rapidamente. È un drone militare,
verosimilmente Usa (non ne esistono altri nella regione). È pilotato da
qualcuno dietro a dei monitor, molto lontano dal caldo e dalla sabbia del
Niger. Si alza in missione verso Est, per ricognizione o per sparare contro gli
uomini di Boko Haram, con i quali è ormai guerra aperta dal febbraio scorso.

Qualche settimana fa, sulla pista del piccolo aeroporto
di Zinder, seconda città del paese, a 900 km a Est della capitale, due caccia
bombardieri Sukhoi, di fabbricazione russa e con insegne nigerine, erano
parcheggiati in attesa di decollo. Sempre all’aeroporto di Zinder, il 24
giugno, una quindicina di militari francesi, facevano una rapida sosta, per
ripartire con il loro turboelica alla volta di Diffa, città a 460 km più ad
Est, zona di guerra.

Paese saheliano con territorio in gran parte desertico, tra i più
poveri del mondo, il Niger è ormai da alcuni anni stretto in una morsa di
guerra. A Nord imperversano i jihadisti di Aqmi (Al Qaida nel Maghreb
islamico, cfr. MC luglio 2012) e vari altri gruppi, attivi in Mali, contro i
quali è in corso una guerra che ormai dura da marzo 2012, con l’intervento
della Francia nel gennaio 2013 (operazione Barckhane) e della successiva
Missione di stabilizzazione delle Nazioni unite (Minusma).

A Sud Est, nella confinante Nigeria, opera da metà anni
‘90 la setta, gruppo integralista Boko Haram (cfr. MC luglio 2012). Questa ha
di fatto cambiato il livello del conflitto, quando nel febbraio scorso, ha
attaccato la città nigerina di Diffa e cominciato incursioni in diversi
villaggi lungo il confine. Oltre al Niger e alla Nigeria sono coinvolti nella
guerra Ciad e Camerun, tant’è che militari nigerini e ciadiani controllano
alcune città in Nigeria, nello stato del Boo (Nord Est), dopo averle
sottratte a Boko Haram. È del luglio scorso la creazione di una nuova
coalizione militare per combattere i terroristi: la Forza d’intervento
multinazionale
, della quale fa parte, oltre ai quattro paesi citati, anche
il Benin, confinante con la Nigeria a Ovest.

Il Niger, è da sempre patria di un islam tollerante, ma qualcosa
sta cambiando. Il paese ha vissuto alcuni avvenimenti mai visti il 16 e 17
gennaio scorso. In seguito all’attentato al settimanale satirico Charlie
Hebdo
a Parigi e alla reazione del mondo contro l’accaduto, a Zinder e
Niamey si sono verificate due violente manifestazioni, rapidamente degenerate,
contro la minoranza cattolica. Chiese e case parrocchiali sono state attaccate
e incendiate, così come scuole cattoliche. Le forze dell’ordine sono riuscite a
intervenire troppo tardi. Monsignor Ambroise Ouedraogo, vescovo di Maradi,
diocesi di cui fa parte anche Zinder, ci racconta: «Qualche giorno prima degli
eventi, padre Léo (missionario d’Africa, originario della Rdc, da anni nel paese,
ndr) aveva mandato una lettera al prefetto per chiedere protezione.
Erano state mandate due camionette di gendarmi. Ma quando c’è stato l’attacco
nessuno ha fermato gli assalitori. Solo la Guardia nazionale, in seguito, è
intervenuta per fermare i manifestanti quando questi hanno tentato di attaccare
l’altra scuola cattolica. A Niamey sono state bruciate sei chiese su otto, di
cui una inaugurata pochi mesi prima. I preti e le suore hanno abbandonato
Zinder per paura. Andiamo a celebrare la messa ogni due settimane da Maradi
(230 km). Ma la chiesa è stata completamente bruciata, come la scuola e i
locali parrocchiali. La celebrazione si effettua sotto una tettornia».

Secondo un professore dell’Università di Niamey, che ha chiesto di
mantenere l’anonimato: «I partiti politici di opposizione hanno usato il
pretesto di Charlie Hebdo per tentare di destabilizzare il paese e i
cristiani sono stati le vittime innocenti della manovra. Diversi esponenti di
questi partiti sono stati riconosciuti durante le violenze e poi arrestati. Gli
studenti del campus di Niamey hanno testimoniato che elementi dei partiti di
opposizione sono andati dalle associazioni studentesche per convincerle a
partecipare massivamente alle manifestazioni, ma queste si sono rifiutate».
Un’analisi, questa, condivisa anche in ambito ecclesiale. Sta di fatto che
membri di Boko Haram erano infiltrati tra i manifestanti e i metodi usati sono
stati quelli della setta nigeriana.

«È certo – ci dice ancora mons. Ouedraogo – che membri
di Boko Haram sono in mezzo a noi».

Il governo di Issoufou Mahamadou è giunto ormai al suo quinto anno
e, a inizio 2016, si terranno le elezioni. Mahamadou, del partito Pnds (Partito
nigerino per la democrazia e il socialismo), oppositore storico dei regimi
succedutisi a partire dagli anni ’90, è arrivato finalmente al potere grazie
alle elezioni del gennaio 2011, che misero fine a 13 mesi di governo di
transizione della giunta militare (cfr. MC giugno-luglio 2011). È stato come se
i nigerini avessero chiesto una svolta, affidando la guida del paese a chi non
l’aveva mai avuta.

L’anno prossimo Mahamadou potrebbe vedere confermata
questa fiducia, oppure potrebbero tornare alcuni falchi del passato, come il
potente ex primo ministro Hama Amadou. Per questo, la campagna elettorale è, di
fatto, già cominciata e il tema «sicurezza contro il terrorismo» è cruciale.

Il governo ha ingaggiato una guerra a trecentosessanta
gradi contro il terrorismo islamico, sul fronte Sud Est e su quello Nord,
intervenendo con il pugno di ferro. Dopo gli attentati a Bamako (capitale del
Mali, a marzo) e a Ndjamena (capitale del Ciad, giugno e luglio), i servizi
segreti – molto efficienti in Niger – mantengono l’allerta alta. La nostra
fonte universitaria: «Si tratta di una guerra “asimmetrica”, un esercito contro
singoli attentatori incontrollabili che si mischiano alla popolazione. Il
governo ha sensibilizzato la popolazione dicendo che se si osserva qualcuno di
sospetto si deve subito avvisare il capo quartiere. Adesso la gente è più
tranquilla, non c’è la fobia che si è avuta subito dopo gli eventi di gennaio.
Penso che il governo sia stato bravo ad assicurare la sicurezza, in un paese
povero, senza mezzi, stretto tra Libia, Mali e Nigeria».

Ma nell’Est, vicino alla frontiera con lo stato nigeriano di Boo,
gruppi di Boko Haram attaccano direttamente i villaggi. È della notte tra il 17
e 18 giugno uno dei peggiori massacri, compiuto nei villaggi Lamana, Boulamare
e Goumao, a circa 50 km da Diffa. Trentotto civili uccisi, di cui 10 bambini,
tre feriti, un centinaio di case bruciate, così come i granai e alcune auto. Un
attacco peggiore era avvenuto solo sull’isola Karamga nel lago Ciad, ad aprile,
con 74 morti tra civili e militari. Gli attacchi sulle isole hanno anche creato
oltre 30.000 sfollati interni, sempre all’estremo Est del paese.

Ci confida una personalità vicina al primo ministro: «Molti
membri di Boko Haram che agiscono sulla frontiera sono ormai nigerini, non
nigeriani. Molti nostri giovani hanno ingrossato le fila dei miliziani. Li
conosciamo e la gente del posto sa chi sono».

Intanto si osservano evidenti cambiamenti nella società nigerina.
Secondo monsignor Ouedraogo «assistiamo a una certa radicalizzazione islamica,
che avviene poco a poco. Ad esempio nel 2001 erano ancora molte le donne che
non portavano il velo. Oggi sono tutte velate». Secondo il professore
universitario «si assiste a una “islamizzazione” piuttosto che a una
radicalizzazione. La gente è più islamizzata a causa della povertà crescente.
Non è tanto dovuto al fatto che abbiano paura dei gruppi radicali. Quella è
stata palpabile dopo gli avvenimenti del 16 e 17 gennaio e l’entrata di Boko
Haram in Niger a febbraio».

E mentre il governo impone regole più stringenti sulle
prediche nelle moschee, in particolare quelle, sempre più diffuse, realizzate
da imam mediorientali, la chiesa cattolica incontra i leader islamici grazie
alla Commissione per il dialogo interreligioso, che ha lo scopo di
sensibilizzare e promuovere dialogo e tolleranza.

Marco Bello

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Tag: missione, terrorismo, dialogo
Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Normal 0 14 false false false IT X-NONE X-NONE /* Style Definitions */ table.MsoNormalTable {mso-style-name:"Tabella normale"; mso-tstyle-rowband-size:0; mso-tstyle-colband-size:0; mso-style-noshow:yes; mso-style-priority:99; mso-style-parent:""; mso-padding-alt:0cm 5.4pt 0cm 5.4pt; mso-para-margin:0cm; mso-para-margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:10.0pt; }

Marco Bello




2 Istituti, 1 Missione


Stesse domande, due intervistati: la superiora e il superiore generali delle missionarie e dei missionari della Consolata, eredi, insieme, del beato Giuseppe Allamano.

Suor Simona Brambilla è brianzola, cinquant’anni, infermiera e psicologa, a fine anni Ottanta sceglie la missione ad gentes e diventa missionaria della Consolata. Nel 2011 è eletta superiora generale. I suoi modi tranquilli e un’apparente timidezza incuriosiscono i suoi interlocutori, almeno quanto la luce, la gioia e l’entusiasmo che ha negli occhi quando racconta della missione e del suo Istituto.

Padre Stefano Camerlengo, marchigiano Doc ma cittadino del mondo, cinquantanove anni, ordinato sacerdote il 19 marzo del 1984 a Wamba, Congo RD, nel 2011 è eletto superiore generale dei missionari della Consolata. Ciò che colpisce di padre Stefano è l’entusiasmo irrefrenabile, l’amore, la dedizione alla missione, e un’apertura mentale plasmata dal pensiero del beato Allamano.

Quando ha scelto di diventare missionario/a? Cosa l’ha spinto/a a lasciare tutto per dedicarti a Dio e alla missione? E perché proprio in questo Istituto?

SUOR SIMONA – Ho deciso quando avevo circa 22 anni e lavoravo come infermiera professionale in un ospedale. Il contatto coi malati ha suscitato in me una serie di domande sul senso della vita e della sofferenza. Da lì è iniziato il mio avvicinamento al Signore e il progressivo e intenso desiderio di consacrarmi a Lui. Ero indecisa tra la clausura e la missione ad gentes. Ho conosciuto i Missionari della Consolata e, dopo un cammino di accompagnamento spirituale con uno di loro, ho chiesto di conoscere le Suore Missionarie della Consolata. A 23 anni sono entrata nel mio Istituto e… eccomi qua. Da allora sono passati, velocissimi, altri 27 anni!

PADRE STEFANO –  La storia della mia vocazione è molto semplice e molto «umana». Ancora molto giovane ho sentito la necessità di condividere la mia vita con i più poveri, da questa spinta iniziale è nato tutto il resto. Sono stati i poveri che mi hanno portato a Gesù, e poi è stato Gesù che mi ha riportato ai poveri. Per questo dono ringrazio in primo luogo il Signore che mi ha fatto «degno» di questa «sublime vocazione», come la chiama il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano. In secondo luogo, ringrazio i miei confratelli missionari che mi hanno aiutato e plasmato sulle orme della missione, e infine ringrazio tutte le persone che ho incontrato finora nella mia vita che mi hanno aiutato a essere quello che sono, senza dimenticare la mia famiglia che con la sua presenza e vicinanza mi ha insegnato i valori che contano e che non si dimenticano più. Ho scelto l’Istituto dei Missionari della Consolata perché sono stati i primi missionari che ho incontrato sulla mia strada e che, ora, amo come la mia vera famiglia.

Mi racconti l’emozione più grande che ha provato girando il mondo e incontrando tante realtà in questi anni.

SUOR SIMONA – C’è un’emozione che provo tante volte visitando i nostri posti, i nostri popoli: è quella di sentirmi accolta, di ricevere tantissimo. Questo mi fa sentire piccola davanti a tanta gratuità. L’emozione di arrivare alla missione di Arvaiheer in Mongolia e trovare donne, vestite col bellissimo abito tradizionale, che ci offrono la loro bevanda tipica e la sciarpa blu in segno di accoglienza. Di arrivare a Vilacaya, Bolivia, e trovare i rappresentanti del popolo indigeno che ci ornano con pannocchie di mais e un aguayo (panno tipico boliviano, coloratissimo) in segno di benvenuto; di arrivare a Gibuti e trovare i ragazzi del centro di alfabetizzazione di Ali Sabieh coi loro maestri che per dimostrare l’amore verso le nostre sorelle ci decorano le mani con impasto di henna… e tanti, tanti gesti di accoglienza che ci fanno sperimentare come la missione è davvero uno scambio, è un dare e un ricevere.

PADRE STEFANO –  In questi anni di servizio all’Istituto, in cui mi trovo a visitare tanti paesi, tante comunità e tanti missionari, la cosa che più mi emoziona è la forza della debolezza. Mi meraviglia sempre e mi fa cadere in ginocchio a ringraziare, vedere che piccoli uomini in posti sperduti e difficili, con pochi mezzi, tra tantissimi problemi, possono cambiare la storia di un popolo, di un gruppo, sono riferimento e segno di speranza per tanti, sono luci accese in mezzo alla notte del mondo. Un’altra emozione forte te la danno sempre i bambini. Lo sguardo dei bambini, la loro gioia di vivere, la loro pura bellezza sono sempre e ovunque un’emozione fortissima che ti riempie il cuore e ti fa camminare.

Infine, mi piace ricordare che, come missionario, mi sento sempre a casa sua dovunque sia e dovunque vada. Che spettacolo poter trovare sempre delle persone amiche che ti accolgono, ti fanno trovare il calore di una famiglia. Che dono grande l’organizzazione e lo spirito missionario.

Come vede il futuro dell’Istituto. Quali sono secondo lei i punti di forza e quali, qualora ci fossero, le debolezze?

SUOR SIMONA – Un punto di forza è senza dubbio la vivacità del nostro carisma, la missione rivolta ai non cristiani nel segno della Consolazione. L’identità nostra, il nostro Dna è vivo, originalissimo, e chiede di esprimersi oggi in forme nuove, diverse. È sempre se stesso e proprio per questo capace di rinnovarsi, di rivelare aspetti inediti a seconda delle epoche, delle culture, delle circostanze. Un altro aspetto di forza è la passione missionaria che davvero non ci manca.

Di debolezze ne abbiamo. Una è rappresentata dalle quotidiane sfide della vita comune, che chiamano ciascuna di noi a uscire da se stessa, verso la «mistica dell’incontro», vissuta non solo con l’altro là fuori, ma prima di tutto, con la sorella dentro casa nella fruttuosa convivialità delle differenze.  Siamo in cammino, un cammino non facile ma che assolutamente vale la pena di percorrere. Non si può pensare la missione se non a partire dalla comunione.

Il futuro dell’Istituto? Lo immagino luminoso. Dico luminoso, non grandioso. Stiamo diminuendo numericamente, ridimensionando e ridisegnando le nostre presenze, in vista di un rilancio secondo il fine specifico dell’Istituto che è la missione ad gentes nel segno della Consolazione. Per il futuro vedo un Istituto piccolo, umile, gioioso di essere ciò che è chiamato ad essere, impegnato a «fare bene il bene, senza rumore».

PADRE STEFANO –  Personalmente non sono eccessivamente preoccupato per il futuro dell’Istituto, sono più attento alla qualità dell’Istituto. Mi guida una frase della grande santa Edith Stein, Benedetta della Croce: «Noi spesso non sappiamo dove Dio ci conduce. Ma sappiamo che è Lui a condurci. E questo ci basta!». L’Istituto è opera di Dio, è nelle sue mani. Era questa la certezza dell’Allamano e sulla sua scia anche la nostra. I punti di forza della nostra famiglia missionaria sono diversi. Prima di tutto la persona dei missionari. Nelle nostre Costituzioni diciamo chiaramente che «la persona del missionario è il primo bene dell’Istituto», la meraviglia più grande è incontrare questi testimoni, e vederli vivere e lavorare con gioia e generosità nei luoghi più sperduti e difficili dell’umanità. Legata alle persone c’è anche la ricchezza dell’interculturalità: appartenere a diversi popoli e culture e cercare di essere segno insieme della comunione e della solidarietà universale, vivendo e servendo insieme la missione, è un grande messaggio per la nostra società oggi. L’Allamano parlava di «spirito di famiglia».

Certamente siamo umani e, grazie a Dio, non siamo perfetti. Abbiamo anche noi le nostre difficoltà e i nostri problemi a essere fedeli alla grande vocazione che Dio ci ha donato. Anche noi combattiamo ogni giorno con le nostre piccole e grandi infedeltà e fragilità, con il nostro individualismo che rende, a volte, dura la vita comunitaria, con una mancanza di spiritualità forte, per cui ci lasciamo prendere dai modi e dai ragionamenti del mondo. Inoltre, facciamo fatica ad aprirci e accogliere il nuovo, il rinnovamento…

Si parla di crisi di vocazioni, secondo me dovremmo parlare di crisi di valori e d’identità in Europa. Cosa ne pensa?

SUOR SIMONA – Sì, la crisi di vocazioni mi sembra un segno, un aspetto di qualcosa di molto più vasto. E non solo in Europa. Certamente questo fenomeno ci fa pensare. Che cosa stiamo proponendo? Il Vangelo è bello. Il nostro carisma, intuito e accolto dal Fondatore, il beato Giuseppe Allamano, e poi trasmesso a noi, è un tesoro inesauribile; la vocazione a essere Missionaria della Consolata è vocazione alla gioia. E allora, perché il calo vocazionale? Al di là di tutte le analisi sociali, credo che occorra chiedersi: che cosa proponiamo? Che cosa si vede e si legge sui nostri volti, nei nostri rapporti, nelle nostre scelte concrete? Non si tratta di colpevolizzarci. Ma di responsabilizzarci e di risvegliarci, sì. Non saremo mai, credo, un istituto dai grandi numeri e sono convinta che il discernimento vocazionale debba essere un processo molto serio, approfondito e esigente in tutte le sue fasi: «La porta stretta per entrare e larga per uscire» diceva l’Allamano. Per questo non spero in grandi numeri, ma nel coltivare in profondità la chiamata di quelle giovani donne che portano nel loro cuore «il Dna della Consolata», donne a cui possiamo proporre una vita che è davvero bella e intensissima. Non ho detto facile, ho detto bella, che è molto diverso.

PADRE STEFANO –  Circa la crisi vocazionale in Europa non ho molte letture sociali e psicologiche da fare, ma appare evidente la crisi di valori che blocca ogni ideale e sogno. Soprattutto, per me, c’è una crisi della gratuità e della donazione: siamo in una società dove tutto ci è dovuto e in cui io non devo niente; senza la gratuità non si capisce la vocazione, la donazione, l’attenzione all’altro. L’assenza di gratuità provoca anche una mancanza di amore verso i poveri, gli ultimi, gli esclusi. Quando si è troppo piegati su se stessi non si può più dare spazio agli altri; quando i miei problemi sono più grandi e importanti di tutto, non posso chinarmi sulle sofferenze degli altri; quando si perde la compassione non ho più passione per la vita e per la fede e vivo male.

Quali sono le realtà del suo Istituto che secondo lei hanno bisogno di maggiore attenzione e sacrificio?

SUOR SIMONA – Accennavo prima al processo del ridisegnare le presenze. Siamo un Istituto con «lavori in corso», in ristrutturazione, in ripensamento, proprio per essere fedeli nell’oggi al dono originario e originale che abbiamo ricevuto più di 100 anni fa. In questo processo abbiamo riscoperto come fondamento biblico l’icona evangelica della vite e dei tralci. Ogni vite che voglia produrre buon vino ha bisogno di molte cure, tra cui la potatura. Ecco, occorre saper potare i tralci giusti e curare i germogli giusti. La vite potata piange, ma il pianto della vite è preludio a nuovi tralci, a nuovi grappoli, a vino nuovo.

PADRE STEFANO –  Ce ne sono diverse perché siamo sempre in cammino e dobbiamo cercare di migliorare, di andare avanti. Ma posso fermare la mia attenzione su tre aspetti che oggi sono più urgenti.

La formazione:

oggi più di ieri siamo chiamati a curare la formazione dei nostri giovani missionari per ben preparare l’avvenire. Senza una buona formazione non possiamo realizzare una buona missione. I giovani di oggi sono molto più preparati di noi di ieri, ma sono anche figli del loro tempo, per cui dentro di sé vivono profonde contraddizioni e fragilità.

Inoltre, c’è tutto un cambiamento sociale che necessita di introspezione e comprensione. In poche parole, oggi dobbiamo studiare molto per capire come funziona la realtà e che cosa possiamo fare per cambiarla o migliorarla. Anche i cambiamenti della teologia e della prassi missionaria meritano grande attenzione e riflessione e tutto questo rientra nella formazione che oggi preferiamo chiamare continua. Continua appunto, per significare che non ci si dovrebbe fermare mai, che lo studio, la riflessione, l’approfondimento dovrebbero essere il nostro pane quotidiano e la base su cui fondare tutto il nostro servizio alla gente nella missione.

La vita comunitaria:

è chiamata a essere il segno più importante e profetico della missione di domani. Le nostre comunità sono espressione dell’interculturalità e per questo sono un grande segno e progetto di solidarietà per un mondo nuovo e migliore. Tuttavia, anche se riconosciamo che è l’elemento fondamentale, tutti sappiamo che è uno degli aspetti più difficili da vivere in profondità. Sinceramente siamo ancora lontani dall’ideale, a volte viviamo la vita fraterna solo «sulla carta» o seguendo ciascuno il proprio gusto. Tutto questo è inconciliabile con la nostra vocazione e dobbiamo sempre essere vigilanti. Questa situazione necessita di una rivitalizzazione della vita fraterna in comunità, tenendo presente che questo è uno dei termometri principali per verificare la qualità della nostra vita evangelica.

L’economia:

la crisi economica, se da un lato è positiva perché ci permette di recuperare alcuni valori fondamentali e l’umanità di ognuno, dall’altro ci fa cadere in un’eccessiva preoccupazione per noi stessi, per la nostra sopravvivenza. Credo che sia un aspetto importante da curare per una conversione profonda. Il futuro della vita consacrata e della missione ce li giochiamo nell’economia. La crisi ci «obbliga» a rivedere il nostro stile e metodo di fare missione, ci invita a maggiore sobrietà e condivisione con la gente, a fare progetti e cammini decisamente insieme e in cordata con i popoli, le comunità e le persone che serviamo, e non da soli, da protagonisti. Un cammino questo che nello stesso tempo deve prendere in considerazione la difficoltà reale di reperire fondi per realizzare la missione e per dare un minimo di stabilità alle comunità.

Ecco, in sintesi, alcuni aspetti che reputo importanti da approfondire perché su questi si fonderà la vita consacrata per la missione di domani, almeno credo. Molto è il lavoro e ardua la fatica che ci attende su questi temi, ma merita la pena porre mano all’opera, perché dall’attenzione alla qualità dipenderà la fecondità della nostra missione e della nostra vita.

Messa festa della Consolata a Casa Madre, Torino, presieduta da p. Stefano Camerlengo superiore generale

Come pensa possano aiutare i laici e cosa potrebbero fare per l’Istituto?

SUOR SIMONA – Abbiamo diversi tipi di rapporto coi laici… ci sono gli amici, i benefattori, i volontari, e ci sono i «Laici missionari della Consolata», ai quali ci lega un particolare rapporto di fraternità nel carisma. Nel senso che i Lmc condividono con noi suore e con i confratelli missionari il dono dello stesso carisma, vissuto secondo le modalità proprie della vocazione specifica di ciascuno. Il primo aiuto che sicuramente essi ci offrono è quello dell’essere parte di una unica famiglia, con tutte le possibilità di dialogo, confronto e crescita nella comunione che questa appartenenza comune ci dona.

PADRE STEFANO –  Prima di parlare dei laici nell’Istituto e della loro importanza, vorrei sottolineare un atteggiamento che, reputo, dovrebbe essere alla base di tutto, e cioè la simpatia per il mondo, per la società in cui viviamo. La nostra missione comporta anche una simpatia con la società alla quale desideriamo portare la bella notizia del Vangelo, una simpatia che ci permette di entrare in dialogo con gli uomini e le donne di oggi per incontrarli e per condividere il Vangelo. La simpatia ci conduce ad avere una visione positiva del contesto e della cultura nella quale siamo immersi, scoprendo nella nostra realtà le opportunità inedite della grazia che il Signore ci offre per la nostra missione. In questo modo la missione sarà un cammino di andata e ritorno che comporterà l’atto di dare, ma anche quello di ricevere, in attitudine di dialogo fecondo e costruttivo. Con questo atteggiamento di simpatia possiamo valorizzare anche la presenza dei laici e l’importanza del loro ruolo e servizio nella Chiesa e nell’Istituto. La presenza dei laici è fondamentale nella missione, essi sono l’espressione di un carisma che non appartiene a un gruppo ma che va condiviso con tutti. Il carisma più è donato e più è credibile, fecondo e visibile. Nella diversità dei ministeri tutti i cristiani sono chiamati a rispondere generosamente al Signore che chiama ad annunciare la Buona Novella ai vicini e ai lontani. Oggi siamo chiamati a promuovere una missione condivisa con i laici, con le altre comunità religiose e con tutte le forze d’impegno per la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato. Certamente per arrivare a questo è necessaria una conversione profonda che ci faccia superare la mentalità «clericale» che tuttora ci portiamo dentro, in modo che i laici possano esercitare il loro diritto e dovere di partecipare alla conservazione, all’esercizio e alla professione della fede ricevuta e della missione condivisa.

Animazione missionaria. Come l’Istituto la sta portando avanti e cosa pensa dei nuovi metodi di comunicazione come i social network (Facebook, Twitter)? Potrebbero essere d’aiuto?

SUOR SIMONA – Beh, questa per noi è una domanda che si colloca nell’ambito dei «lavori in corso». Credo che anche nell’animazione missionaria la dimensione della comunione sia essenziale: comunità aperte, accoglienti, spazi di ascolto, di preghiera, di riflessione e di azione concertata (in unità di intenti, direbbe l’Allamano!), dove si veda, si assapori il carisma della Consolata in azione.

Vediamo la necessità di aperture missionarie nel mondo virtuale, nelle reti sociali. Stiamo pensando come fare per esserci di più e meglio, in questo mondo. Non abbiamo ancora risposte, ripeto, siamo nei «lavori in corso».

PADRE STEFANO –  Per una buona animazione missionaria sono fondamentali due cose: la testimonianza e la forza del Vangelo. Senza testimonianza evangelica missionaria della nostra vita non c’è un’autentica animazione. Ma la missione è fondata sulla forza del Vangelo. Se il Vangelo non ci riscalda il cuore e non lo conosciamo, le nuove tecniche non potranno fare nulla autonomamente. Personalmente credo che non ci sia cosa migliore del Vangelo come metodologia di animazione missionaria ma considerando il contesto sociale in cui viviamo oggi, ritengo che sia anche importante servirsi dei nuovi mezzi di comunicazione affinché la Parola e la missione arrivino a tutti, anche ai lontani. E su questo abbiamo già un problema, perché oggi noi facciamo fatica a entrare in contatto con i giovani e i lontani, abbiamo bisogno di creatività e fantasia evangelica, abbiamo bisogno di «sporcarci le mani di fango» per condividere con gli ultimi la loro situazione e allora saper narrare il Vangelo dell’esperienza, e non solo quello delle parole. La strada dell’animazione missionaria oggi è quella della vita vissuta e condivisa nelle aeree più difficili e povere del mondo. Come missionari dovremmo rimanere costantemente in contatto con la realtà della nostra gente e sentirci «mendicanti di senso». Ma troppo spesso siamo lontani dalla realtà, chiusi nelle nostre sicurezze, rispondiamo a domande che nessuno pone.

Per rispondere alle esigenze della missione attuale è necessaria una grande sensibilità sociale. In questo modo il contatto con la realtà, letta con gli occhi della fede, indicherà il progetto che il Signore propone per noi. È necessario leggere attentamente i segni dei tempi e dei luoghi, e lasciarsi interpellare da questi. L’impegno nella animazione missionaria comporta una profonda conversione personale, comunitaria e pastorale, altrimenti siamo come «cembali squillanti». La missione è sempre nel segno della speranza: speranza fondata in Cristo e nel Vangelo. Sperando contro ogni speranza. Una speranza d’origine pasquale che certamente avrà futuro perché fondata in Lui. Vivendo e facendo così ci saranno, certamente, ancora giovani generosi che sceglieranno di dare la vita per il Vangelo e per i poveri.

Voglio terminare con un messaggio di san Francesco, a me particolarmente caro in questo tempo, perché lo considero d’ispirazione riguardo la nostra presenza costruttiva nella storia attuale e guida della Chiesa e del nostro Istituto. Egli scriveva ai suoi frati inviati in missione: «Siamo pochi e non abbiamo prestigio. Che cosa possiamo fare per consolidare le colonne della Chiesa? Contro i Saraceni non possiamo lottare perché non possediamo armi. E poi che cosa si ottiene combattendo? Non possiamo lottare contro gli eretici perché ci mancano argomenti dialettici e preparazione intellettuale. Noi possiamo offrire solo le armi dei piccoli, cioè: amore, povertà, pace. Che cosa possiamo mettere al servizio della Chiesa? Solo questo: vivere alla lettera il Vangelo del Signore».

Che questo sia il nostro cammino e la nostra strada!

Romina Remigio




Il ritorno dell’impero?

Gli interessi di Istambul
in Africa e Medio Oriente

La Turchia ha
intrapreso un allargamento  dei propri
orizzonti. In particolare ha espanso la sua influenza in Medio Oriente e
Africa. Non senza intrecci con le primavere arabe. Per interessi economici,
religiosi o puramente geopolitici?

«Neottomanesimo», così è definito il
recente fenomeno dell’inedito protagonismo della Turchia in politica estera. A
partire dagli inizi degli anni Duemila, infatti, Ankara ha iniziato a tessere
intensi rapporti politici, economici e culturali in aree in cui non era
presente (a volte neanche con propri diplomatici). Questa espansione ha
ricordato a molti la vasta influenza che l’impero ottomano esercitò nei secoli
passati nei suoi domini non solo in Asia centrale e in Medio Oriente, ma anche
in Africa. Alcuni analisti vi hanno scorto una volontà di dominio regionale,
altri l’hanno letta come una necessità economica, altri ancora come un modo per
esportare l’islam. Ma di che cosa si tratta realmente? E quali effetti ha
avuto?

 

Origini e fondamenti

La nuova politica economica
turca nasce nel 2002 quando Ahmet Davuto?lu, fino ad allora, un anonimo
professore dell’Università di Beykent a Istanbul, dà alle stampe un corposo
volume dal titolo «Profondità strategica». Il volume teorizza un allargamento
degli orizzonti della politica estera turca verso altre regioni sulla base
degli interessi economici e strategici di Ankara. È una nuova visione del ruolo
della Turchia nel mondo che stravolge gli schemi adottati fino ad allora dai
politici della penisola anatolica. «A partire da Mustafa Kemal Atatürk – spiega
Eugenio Dacrema, esperto di politica mediorientale, ricercatore presso
l’Università di Trento -, la classe politica turca ha sempre guardato Stati
Uniti, Europa e Nato come uniche sponde di interesse. I rapporti con i vicini
sono stati per molto tempo conflittuali, quando non erano un ignorarsi a
vicenda. Con il nuovo trend dettato dall’opera di Davuto?lu, la visione si
amplia. La Turchia dovrebbe diventare un nuovo attore egemonico in una regione
più vasta e, pur non tagliando i rapporti con Europa e Usa, le relazioni con
l’Occidente dovrebbero passare in secondo piano.

Le direttrici dell’espansione della Turchia quindi si
indirizzano verso l’Asia centrale, il Medio Oriente e l’Africa (soprattutto il
Nord Africa). Davuto?lu viene progressivamente coinvolto in questa politica. Da
semplice teorizzatore, ne diventa protagonista, prima come ministro degli
Esteri e poi come premier (carica che ricopre attualmente). Così, le sue tesi
diventano la dottrina ufficiale dell’Akp, il partito al governo, e del suo
leader Recep Tayyip Erdo?an».

Quello
della Turchia è un espansionismo prevalentemente economico e politico. I politici
di Ankara non hanno mai accennato a un ruolo delle forze armate in questa
strategia. Ma ciò è comprensibile, se si considerano le cattive relazioni tra
l’Akp e le forze armate turche, depositarie dell’eredità laica di Atatürk.
Molto di questo entusiasmo deriva dal successo economico degli anni Duemila
quando la Turchia sembrava essere in grado di attrarre nella sua sfera i paesi
del Medio Oriente e di trasformarli in mercati per i propri prodotti. «In realtà
– aggiunge Dacrema -, l’economia turca si è rivelata molto fragile. Il sistema
si è basato sul credito facile volto al consumo e su un’industria nascente, ma
che produce beni di basso valore aggiunto, che fanno fatica a competere sui
medio-alti livelli tecnologici. Ciò ha aumentato la ricchezza, ma si è trattato
di una bolla. La Turchia ha vissuto la stessa crisi della Grecia ed è rimasta a
galla solo perché ha potuto svalutare la moneta (-40% nell’ultimo anno)». Ma
per tutti gli anni Duemila, è l’economia a far da traino alla politica estera
turca. In questo senso va letta la creazione di accordi di libero scambio con i
paesi limitrofi (Libano, Siria e Giordania) accompagnati dalla liberalizzazione
dei visti. Così come l’intesa con l’Iran che, per anni, diventa un partner
strategico per Ankara.

 

 

Le Primavere arabe

Sarebbe limitante, però,
vedere il «Neottomanesimo» solo in chiave economica. La nuova politica turca si
è nutrita anche di una visione politica che si è rivelata «attraente» per molti
paesi arabi.

Da anni, la Turchia si
presenta come un paese musulmano nel quale un partito islamico governa secondo
i principi della democrazia. Questa impostazione è diventata un modello di
riferimento per quelle nazioni che, uscite dalle rivolte arabe, stavano
cercando nuovi assetti politico costituzionali. «Va detto – osserva Valeria
Talbot, ricercatrice dell’Ispi, esperta in Medio Oriente e Nord Africa – che i
rapporti politici con i paesi del Medio Oriente e il Nord Africa hanno subìto
diverse fasi. Dopo la Primavera araba, la Turchia era certamente un modello
politico da imitare. Il successo delle visite di Erdo?an in Egitto e di Davuto?lu
in Tunisia ne sono la dimostrazione più lampante. La successiva apertura alla
Fratellanza musulmana ha però creato tensioni con i paesi del Golfo e con lo
stesso Egitto. Solo da qualche mese i rapporti con Riad sono nuovamente
migliorati e si sono registrate convergenze sul dossier siriano».

È proprio in questo legame
con la Fratellanza che molti hanno visto il limite della politica del
presidente turco. «Erdo?an cercava di prendere sotto la propria protezione la
Fratellanza musulmana internazionale – osserva Dacrema -. Voleva diventare cioè
un modello per gli altri paesi. Un progetto ostacolato tanto dalla Fratellanza
egiziana, che da sempre ha un ruolo di guida dell’organizzazione, sia dalla
tunisina Ennahda che, nonostante la buona accoglienza dei politici turchi, si è
sempre dimostrata piuttosto fredda rispetto all’idea di una guida turca della
Fratellanza. Qui giocano anche un po’ i rapporti non sempre facili tra il mondo
turco e quello arabo.

È un po’ come se la Cdu/Csu
tedesca in passato avesse voluto imporre un suo ruolo guida ai partiti
democristiani europei: i valori in comune c’erano, ma poi ogni Dc ha sempre
lavorato in modo autonomo nel suo paese».

A ciò si è aggiunto un
sostanziale fallimento della penetrazione economica nel Nord Africa e in Medio
Oriente. Inizialmente pareva che la Turchia potesse rubare il mercato agli
imprenditori occidentali. In realtà, non è avvenuto. Le imprese turche sono di
piccole dimensioni e realizzano beni con basso valore aggiunto. Questo, insieme
alla scarsa conoscenza delle dinamiche economiche dei paesi arabi, ha fatto sì
che la Turchia non sia riuscita a scardinare i decennali rapporti che le
aziende europee intrattenevano con i sistemi locali. E, complice la crisi
globale che ha interessato anche il sistema economico turco, la penetrazione
sui mercati arabi è sostanzialmente fallita.

 

 

L’Africa a portata di mano

La Turchia però è andata al
di là del Medio Oriente e del Nord Africa, spingendosi anche nell’Africa
subsahariana. «Il dinamismo turco nell’Africa subsahariana – osservano Marco
Cardoni e Andrea Marino, due funzionari diplomatici del ministero degli Affari
esteri e della Cooperazione internazionale, in una recente analisi pubblicata
per l’Ispi – si caratterizza per un approccio multidimensionale che si
concretizza in un intenso sforzo diplomatico senza precedenti. Ankara ha
proceduto ad ampliare la rete diplomatica, aprendo 19 ambasciate in Africa dal
maggio 2009 al 2014. Oggi in tutto il continente ne possiede 35, di cui 30
nella regione subsahariana». La rete diplomatica ha supportato anche un impegno
crescente negli investimenti diretti e, in particolar modo, nel campo della
cooperazione allo sviluppo. «I numeri parlano chiaro – sostengono Cardoni e
Marino -: il totale degli aiuti nella regione, sommando quelli governativi a
quelli delle Ong, è passato dai 28 milioni di dollari nel 2006 ai 425 nel 2011».
In questo settore il punto di riferimento è l’Agenzia ministeriale per la
cooperazione e lo sviluppo che opera in 37 paesi africani e ha tre sedi: Addis
Abeba, Dakar e

Khartoum. Ciò ha comportato
un impegno nella costruzione o ricostruzione di infrastrutture (porti,
aeroporti, strade, scuole, ospedali), ma anche un’assistenza capillare
attraverso la cooperazione e il volontariato.

L’impegno turco però non si è
realizzato solo attraverso il rafforzamento dei rapporti bilaterali, ma anche
mediante una sempre più ampia partecipazione a missioni inteazionali.
Attualmente, Ankara partecipa a cinque missioni di pace nel Continente: Monusco
nella Repubblica Democratica del Congo, Unamid in Darfur (Sudan), Unmiss nel
Sud Sudan, Unoci in Costa d’Avorio e Unmil in Liberia.

Due simboli della
penetrazione turca sono le Turkish Airlines e Hizmet, il movimento fondato dal
predicatore musulmano Fethullah Gülen. Le linee aeree hanno aperto numerose
rotte verso l’Africa. Oggi la Turkish ha 39 destinazioni in 26 paesi tra i
quali quelli più importanti politicamente e interessanti sotto il profilo
economico: Repubblica Democratica del Congo, Costa d’Avorio, Ruanda, Nigeria.
Ma anche destinazioni non coperte da nessun vettore non africano come la
Somalia e l’Eritrea.

L’organizzazione di Gülen,
che vanta più di 10 milioni di seguaci e ha creato un impero mediatico e
culturale, pur non essendo sempre in sintonia con l’Akp ha aperto una rete di
scuole in Africa che hanno contribuito ad avvicinare la società africana a
quella turca. Non solo ma ha favorito l’incontro tra imprenditori africani e
turchi.

Tutti
questi fattori hanno portato a un forte incremento dell’interscambio
commerciale (dai 742 milioni di dollari del 2000 ai 7 miliardi nel 2013) e a un
aumento dell’influenza politica (libera da fardelli coloniali che
appesantiscono i concorrenti). Ma questa influenza è destinata a durare? «Oggi
l’Africa concede molti spazi alla Turchia – concludono Cardoni e Marino -, ma
Pechino, Washington e Bruxelles hanno dalla loro la possibilità di far valere
sul medio-lungo periodo una dimensione economica complessiva maggiore».

 

Enrico Casale

Enrico Casale