Nyaatha è Beata

Da Nyeri, Cronache
della Beatificazione

Narrare un evento
come quello della beatificazione di suor Irene Stefani, a Nyeri, non è facile.
Ogni cerimonia avrebbe bisogno di pagine e pagine, le quali tuttavia non
riuscirebbero a trasmettere a chi non era presente i sentimenti e le emozioni
che hanno attraversato la vita di chi vi ha partecipato.

La cronaca dei tre
giorni – 22-24 maggio 2015 – potrebbe essere paragonata a un trittico, opera
pittorica divisa in tre parti autonome ma complementari, che, pur mostrando
forme e colori in tre spazi ben distinti tra loro, cerca di armonizzare una
scena, o un soggetto: nel nostro caso, la bellezza della vita e della missione di
Irene Stefani.

1. Gekondi, il villaggio
di Nyaatha

Vigilia
di Tutti i Santi del 1930, la piccola comunità cristiana di Gekondi, sugli
altopiani centrali del Kenya, era già in chiesa e si meravigliava del ritardo
del missionario per la messa. Quando finalmente arrivò, aveva il volto triste e
annunciò: «Carissimi, la notte scorsa alle 10,30 suor Irene, la vostra Nyaatha,
è stata chiamata nella casa del Padre». La sorpresa e il dolore si impadronì
dei presenti. Tutti cominciarono a piangere e a scuotere il capo sconsolati.

La
notizia della morte di suor Irene si propagò velocemente, e tutti – cattolici,
protestanti e «pagani» – si ritrovarono uniti in un profondo cordoglio.

Il 1°
novembre la salma composta nella bara fu trasportata, su un camioncino, da
Gekondi a Nyeri, per essere tumulata nel cimitero della missione del Mathari.
Una grande folla giunse per dare l’ultimo saluto alla mware mwendi ando,
«la suora che vuol bene a tutti». Il 2 novembre, il funerale fu un vero
trionfo.

Ottantacinque
anni dopo, il 22 maggio 2015, di nuovo una fiumana di gente si snoda sulle
strade che salgono verso Gekondi, non più per piangere la scomparsa di suor
Irene, ma per celebrare le meraviglie che Dio ha compiuto in quella giovane donna,
che aveva promesso di «Amare la carità più di se stessa» e che in questa terra,
domani 23 maggio, sarà proclamata Beata.

Alle
16,00, la chiesa dedicata alla Madonna della Divina Provvidenza e tutti gli
spazi attorno sono gremiti. Due maxi schermi permettono a tutti di seguire la
veglia di preghiera. La celebrazione inizia con una danza eseguita da un gruppo
di ragazzine che indossano i costumi di diverse etnie. Due di loro sono vestite
da musulmane. La danza vuole sottolineare una delle caratteristiche della vita
di suor Irene Stefani: l’accoglienza e l’attenzione verso tutti senza
distinzioni etniche o religiose.

La
veglia continua con la lettura tratta da Siracide 44 che tesse l’elogio degli
antenati. Al termine, un ritratto di suor Irene viene portato in processione e
deposto ai piedi dell’altare. Poi il sacerdote legge uno stralcio da
Matteo  28 che riporta il mandato di Gesù
agli apostoli: «Andate in tutto il mondo, battezzate, insegnate».

Dopo
avere ascoltato la Parola, vengono proposti flash della vita di suor
Irene alternati a canti. Inizia quindi la carrellata dei testimoni. Don
Rutilio
, parroco di Anfo per quarant’anni, ringrazia per l’esempio e la
vita di questa giovane donna consacrata a Dio e alla missione. La superiora
generale delle suore di Maria Immacolata di Nyeri, fondate da mons. Filippo
Perlo, Imc, sottolinea come suor Irene sia considerata la loro «mamma», perché
lei aveva accompagnato gli inizi della Congregazione insegnando alle future
suore, con l’esempio, cosa significasse consacrarsi al Signore.

Toccante è la testimonianza di tre persone che hanno
conosciuto suor Irene. John Mbutia (95 anni), ricorda che la missionaria
convertì suo nonno e suo zio e a lui, che faceva il chierichetto, insegnò a
rispondere, in latino, alle preghiere della santa messa. Per dimostrare che ciò
che dice è vero, con voce ferma e decisa, comincia a cantare in latino, come
suor Irene gli aveva insegnato, il Kyrie, il Gloria, il Santus.

Elizabeth
Wangui
, centenaria, racconta che suor Irene era molto buona e faceva
chilometri e chilometri per raggiungere i bisognosi e curare i malati, ma era
anche molto esigente verso le giovani a cui insegnava i principi della fede e
molti canti per onorare la Madonna. Poi, all’improvviso, con grande stupore dei
presenti, Elizabeth comincia a cantare l’Ave Maris Stella, in latino.

Elizabeth
ricorda che sua mamma fu mandata alla missione del Mathari, Nyeri, ad avvisare
la superiora che suor Irene stava male. Purtroppo, nonostante la lunga corsa,
quando questa arrivò a Gekondi, la missionaria era già morta.

Milka
Wambui Itunde
(95 anni), protestante, rammenta che era facile
scorgere suor Irene anche da lontano, perché indossava un grande cappello
bianco e rotondo (il casco coloniale) e un lungo vestito bianco che, per la sua
camminata veloce, svolazzava. Irene, continua Milka, conosceva bene la lingua
kikuyu, perciò la gente si confidava con lei. «Un giorno la missionaria seppe
che io, i miei fratelli e le mie sorelle avevamo una malattia che consumava le
dita dei piedi; subito, anche se non eravamo cattolici si affrettò a
raggiungere la nostra abitazione e a curarci. Toò parecchie volte finché
fummo guariti. Ho detto ai miei figli che senza le cure di suor Irene non avrei
potuto camminare!». L’anziana protestante termina la sua testimonianza cantando
un ritornello che l’assemblea ripete danzando: «Cosa posso fare per ripagare la
bontà di suor Irene?».

Prima
di terminare la veglia di preghiera, padre Gottardo Pasqualetti,
postulatore della causa di beatificazione, riassume i passi fatti per giungere
a questa meta, mentre padre Giuseppe Frizzi narra il miracolo di Nipepe,
Mozambico.

Infine,
madre Simona Brambilla, superiora generale delle missionarie della
Consolata, conclude indirizzando una lettera a suor Irene, che esprime
sentimenti di gioia e di ringraziamento.

I
canti ci accompagnano mentre, verso le 21, usciamo dalla chiesa di Gekondi e,
quasi «portati» dalla folla, scendiamo l’unica strada sterrata che porta ai
piedi della collina. La luce della luna, e ancor più la presenza di suor Irene,
madre misericordiosa, rischiara il nostro cammino.

2. Irene beata

L’ampia
area verde della Dedan Kimathi University alle porte di Nyeri, il 23
maggio 2015, è diventata una chiesa all’aperto e senza confini, sì perché le
persone che la gremiscono sono arrivate non solo dai vari angoli del Kenya
(Meru, Nanyuki, Loyangalani, Mombasa…), ma anche da altre nazioni dell’Africa,
Europa, America e Asia, per celebrare la beatificazione di suor Irene Stefani.

Alle
7 del mattino, per entrare nell’area assegnata alle suore si passa per parecchi
chilometri tra due ali di folla in attesa. Niente, neppure il calore del sole
riesce a fermare la gente che vuole essere testimone di un evento mai avvenuto
in questo scampolo di terra.

Dalla
zona dell’altare posto in alto, il colpo d’occhio lascia senza fiato: 300 mila
persone riempiono la spianata di prati verdi. I vestiti dai colori sgargianti e
caldi dell’Africa, le acconciature accurate, i canti accompagnati dai tamburi,
le danze, i volti sorridenti, contribuiscono a creare un’atmosfera di gioia e
ringraziamento.

La
bandiera del Kenya e quella del Vaticano sventolano ai lati dell’altare e nella
zona dove il presidente del Kenya, Uhuru Kenyatta, e i membri del suo governo
sederanno per partecipare alla cerimonia.

Alle
10,00, la danza di una cinquantina tra bambine e bambini del Children
helping children
(Infanzia Missionaria) accompagnate dai canti del coro
composto di 600 membri appartenenti a 49 Parrocchie della Diocesi di Nyeri,
apre il corteo dei Vescovi (28) e dei Sacerdoti (500 ca.).

Il
primo saluto è quello dell’arcivescovo di Nyeri, mons. Peter Kairo, che
descrive suor Irene Stefani come modello di virtù che ogni cristiano dovrebbe
imitare per seguire il Maestro.

Suor
Linda Hill, missionaria della Consolata, legge una breve biografia di suor
Irene. Poi l’inviato del papa, l’arcivescovo di Dar-es-Salaam, Tanzania, il
cardinal Polycarp Pengo, legge la Bolla papale della beatificazione in latino e
il cardinale di Nairobi, John Njue, la ripete in inglese concludendo che la
festa liturgica della Beata Irene Stefani, sarà il 31 ottobre, giorno della sua
morte.

Dopo
la lettura della Bolla, il prolungato battimani dei partecipanti e gli
armoniosi trilli di gioia delle donne risuonano e rimbalzano in ogni parte
dell’assemblea. Quando viene srotolata la tela che ritrae la nuova Beata,
mentre madre Simona ne porta all’altare il reliquiario, il coro intona un
ritornello, ripetuto più volte dalla gente: «Ni Baraka» (è una benedizione).

Il reliquiario consegnato da madre Simona al cardinal
Njue verrà  dato al parroco della chiesa
di Gekondi, segno della continua presenza della Beata su quelle colline dove
aveva annunciato con la vita che l’Amore non ha confini.

Poi
una lunga processione danzante porta la Bibbia verso il leggio. Dalla Parola,
in controluce, emerge il volto e la vita della nuova Beata.

La
prima lettura, da Isaia 52, 7-10, esalta la «bellezza» dei piedi e dei passi di
coloro che fanno risuonare la «buona notizia», che diventano messaggeri di
pace, di gioia e che proclamano la salvezza. La prima lettera di san Paolo ai
Corinti, 13, 1-13, descrive le caratteristiche della carità. Mentre il Vangelo
di Matteo, 25, 31-40, svela le azioni che identificano i seguaci del maestro.

Il
cardinal Njue, nell’omelia sollecita i presenti ad attualizzare il messaggio di
suor Irene: «Oggi, il Signore ci chiede di guardare la beata Irene Stefani, che
ci insegna ad amare e apprezzare la bellezza dell’umanità unita e in pace, ad
andare al di là delle diversità di cultura, nazionalità e religione. Non
importa da dove veniamo, o il gruppo etnico a cui apparteniamo, importa ciò che
siamo, che valori ci guidano; solo camminando in questa direzione diventeremo
come la nuova Beata: strumenti di pace e di unità. Sì, oggi è il momento di
guardare al passato e di sottolineare che cosa questa umile missionaria ha
fatto, ma è anche il tempo di guardare avanti e avere il coraggio di assumerci
le nostre responsabilità: tocca a noi curare e fare crescere il seme da lei
piantato, affinché porti frutto».

Il
cardinal Njue poi si rivolge ai giovani invitandoli a «coltivare i veri valori
e a impegnarsi nel tessuto della società per renderla migliore». Ai genitori,
invece, chiede di «assumere le proprie responsabilità nel crescere i figli in
maniera adeguata e saggia».

Chiudendo
l’omelia incoraggia le Congregazioni religiose a imitare la vita della Beata
affinché «la gente possa amare e servire Dio».

Al
termine della celebrazione vari membri del governo centrale e della Contea di
Nyeri si alternano per ringraziare e sottolineare gli aspetti significativi
della figura della nuova Beata. Il presidente, Uhuru Kenyatta, concludendo
questo grande evento nazionale sottolinea: «La beatificazione di suor Irene
Stefani ricorda a tutti i kenioti l’importanza dell’umiltà, la forza e la
potenza della misericordia e la bellezza dell’amore. Questa lezione non è per i
politici, ma ogni singola persona deve incominciare questo cammino, il solo
capace di cambiare la società, di portare pace e unità». Il presidente, con
forza poi ribadisce: «Il Kenya rispetta tutte le religioni perché non c’è una
fede superiore a un’altra, per questo continueremo a proteggere tutti, sicuri
che insieme saremo capaci di fare prevalere la tolleranza e la beata Irene ci
guiderà su questa strada».

Verso le 16,00, questa lunga giornata si conclude ed
entra nella storia e nei cuori dei presenti e di chi ha seguito l’evento in
diretta Tv oppure in streaming. L’augurio è che tutti siano toccati
dalla vita di questa umile missionaria che ha saputo scegliere e vivere
l’Amore, incarnando il proposito: «Gesù solo! Tutta con Gesù! Nulla da me!
Tutta di Gesù! Nulla di me! Tutta per Gesù! Nulla per me!».

3. Camminando con Suor
Irene

Il 24
maggio 2015, mentre a piedi, dietro le spoglie di suor Irene, percorro i 7
chilometri dalla parrocchia del Mathari a Nyeri, mi rivolgo alla mia Beata
consorella.

«Suor
Irene carissima, il tuo ultimo passaggio nella terra dei Kikuyu che, mentre eri
in vita percorrevi calzando i tuoi duri e scomodi scarponi chiodati per portare
il messaggio del Vangelo a tutti coloro che con libertà di cuore ti
ascoltavano, è stato un trionfo.

Quest’ultima
camminata non l’hai affrontata da sola, ma ti sei lasciata portare, prima a
spalle dai militari della British Army, commilitoni di coloro con i
quali avevi collaborato per curare i soldati feriti durante la prima guerra
mondiale. Poi, i tuoi resti sono stati posti su di un furgoncino sul quale sono
salite alcune tue consorelle, vescovi e rappresentanti legali. Mentre quattro
poliziotti a cavallo ti scortavano, una fiumana di gente: uomini, donne,
bambini, giovani e vecchi vestiti a festa, ti seguiva.

Umiltà,
povertà, obbedienza, preghiera, ospitalità, perdono, ma soprattutto la carità
è stata la molla, il “fuoco”, che ha acceso la tua vita e, per riflesso, tutte
le persone che ti hanno incontrato nel tuo rapido passaggio nel tempo e nella
storia. Oggi, sugli antichi sentirneri, ormai divenuti strade asfaltate, la gente
ti ripete, pregando e cantando, che ha capito il tuo messaggio: la carità non
si racconta, ma si vive con gratuità e diventa compassione, condivisione,
servizio.

La
tua vita, segnata da gesti discreti, semplici, ha rivelato che l’Amore è il
filo conduttore che si dipana e, nel tempo, tesse la nostra storia, come la
spola del tessitore che corre avanti e indietro sul telaio mentre il tessuto
cresce e il disegno, prima invisibile, si va completando.

I tuoi gesti non sono rimasti statici, incatenati a uno
spazio, o a un luogo, ma sono liberi e sono certa che lo Spirito che ti ha
spinta su e giù per le colline vicino a Gekondi per annunciare l’Amore di Dio,
muoverà anche chi ti sta accompagnando nella tua nuova “dimora”, a impegnarsi
per migliorare la propria vita e a lasciarsi toccare dalle necessità del
“prossimo”, come tu hai fatto, cara Nyaatha. Aiutaci a riappropriarci
della gioia della fede, della gioia dell’annuncio, della fierezza e
dell’audacia della testimonianza cristiana.

La
Chiesa, le tue consorelle, la gente del Kenya, non possono fare altro che
cantare con gioia: “Grazie Beata Irene!”».

Maria Luisa Casiraghi

Maria Luisa Casiraghi




Cooperazione senz’anima

Un libro,
un’esperienza di vita, una proposta concreta.
Un ex volontario. Uno
che ci crede. Ritorna in Africa dopo 15 anni e trova un sistema cambiato: sono venute meno le motivazioni di un tempo. Propone una
riflessione ad ampio spettro. Per un cambiamento: andare verso il futuro, ripartendo
dai valori di una volta.

Alberto Zorloni, classe 1961, è nato e cresciuto in montagna, e là
di quello che un tempo si chiamava «Terzo Mondo» non si parlava proprio, non si
conosceva nulla. A Milano, nel corso di un processo di ricerca su come
concretizzare i suoi ideali, entra in contatto con alcune Ong e gli si apre un
mondo. «Per me l’incontro con le Ong è stata una cosa fantastica. In esse si
realizzava una sintesi ideale tra i valori cristiani nei quali credevo (e
ancora credo) e gli ideali di giustizia propugnati, ma, negli anni ’70 del mio
liceo, poco praticati dalla tradizione di sinistra».

«Le
Ong, come le ho conosciute negli anni ’80, non solo erano l’unione teorica tra
questi due discorsi, ma lo erano anche in pratica. Davano la possibilità a
tanti giovani, come me, di partire per paesi lontani e impegnarsi in
realizzazioni concrete».

La prima partenza

E così
Alberto, diventato medico veterinario, decide di far seguire a questa «sintesi»
un impegno pratico, e parte volontario per un progetto nel Sud Kivu, in Congo
RD. È l’epoca dello Zaire di Mobutu: «Lavoravo in una zona poverissima –
ricorda – una situazione quasi di emergenza. Secondo me, non c’erano le
condizioni minime per un progetto di sviluppo».

«Ero partito con molto entusiasmo e molta carica e, pur
nelle mille difficoltà logistiche che ho trovato sul posto, è stato un periodo
molto bello». Alberto è grato a quella Ong per la preparazione ricevuta prima
della partenza: «Mi aveva offerto un corso di formazione ottimo. Quello che ho
imparato è stato poi fondamentale in tutte le esperienze africane. Tagliare i
fondi per una formazione seria ai volontari in partenza (come succede oggi, ndr) è un suicidio».

 
L’impegno in Italia

Poi
il rientro. Ma Alberto intende il volontariato internazionale come «un ponte a
doppio senso». Il suo impegno diventa parlare in prima persona dell’esperienza
vissuta, nell’ambito di quella che viene chiamata «educazione allo sviluppo»: «Quando
si tornava, bisognava contribuire a dare un’informazione corretta. E su questo
io ho investito molto negli anni ‘90. Ho fatto almeno una cinquantina di ore in
scuole di ogni ordine e grado della mia zona e mi ero trovato bene».

Ma non basta. Sempre in linea con i suoi valori di base,
Alberto si occupa di commercio equo e poi di finanza etica. Fonda insieme ad
alcuni amici un’associazione di volontariato. Oltre al volontario, fa il
veterinario, e completa la sua formazione professionale seguendo un corso di
medicina veterinaria tropicale al Anversa, allo scopo di migliorare le sue
competenze che mette a disposizione in brevi esperienze nei paesi del Sud.

«È stato un periodo di “successo”, anche se, come avviene
spesso in Africa, si fanno dei progetti che però non si traducono in vero empowerment»
(termine usato per definire un aumento della consapevolezza delle proprie
capacità e della possibilità di farle valere, ndr). Alberto lamenta però
che queste belle esperienze restano spesso circoscritte.

 
Ripartire

Alberto
rimane quindi nell’ambiente del volontariato internazionale, pur non
effettuando più missioni lunghe. Però l’idea di ripartire cova dentro. «A un
certo punto mi sono deciso: volevo ripartire per l’Africa. Dopo alcune
selezioni non andate a buon fine, finalmente una Ong mi propone un posto in
Etiopia, dove hanno urgentemente bisogno di un veterinario». Così Alberto
riparte, a 15 anni dalla prima esperienza. «Sono partito con un contratto di 13
mesi, ma mi sono trovato del tutto spaesato. I valori, la carica ideale erano
venuti meno, e al loro posto c’era tutta una serie di comportamenti, quasi un
teatrino, un castello di carta vuoto, fatto di rapporti scritti, relazioni,
budget, fund raising (raccolta
fondi, ndr). Si giocava a fare i manager». Alberto non accetta il nuovo
approccio della cooperazione, e inoltre vive anche una serie di disavventure
con l’Ong che lo ha assunto e il suo personale italiano in Etiopia.

«I
valori che provavo a propugnare, che erano state le Ong stesse a infondermi,
provocavano ilarità. Come se mi fossi vestito alla maniera dell’800 e,
vedendomi andare in giro, la gente si domandasse: “Ma da dove esce questo?”».

 
Il rapporto con gli africani

Con i colleghi etiopi, al contrario, Alberto instaura un
ottimo rapporto, e sperimenta un modo di lavorare molto arricchente. «Non sono
stato io a mettere in piedi un approccio partecipativo con i locali, ma sono
stati loro. Io sono semplicemente stato disponibile, e mi è piaciuto molto,
perché è stato qualcosa che hanno preso in mano loro. Mi hanno dato coraggio.
Io mi sono sentito strumento, ma mai oggetto. Strumento in un ruolo che
valorizzava la mia soggettività: l’apertura, la disponibilità alla cultura, ai
mezzi locali, anche se non ortodossi secondo noi occidentali, anche se non
facilmente inquadrabili nei nostri schemi. Io ero aperto al loro modo di fare,
e loro hanno “preso il potere”. Per me è stato molto bello, mi sono sentito
responsabilizzato e al tempo stesso valorizzato e questo mi ha restituito la
motivazione, che ormai pensavo di aver perso».

Alberto,
che è sul punto di abbandonare a causa dei comportamenti dei colleghi italiani,
decide di restare proprio grazie al rapporto instaurato con l’équipe locale. Con
alcuni di loro rimarrà in contatto anche dopo il rientro in Italia, e aiuterà
un giovane collaboratore molto promettente a studiare in Europa.

«Una persona molto in gamba. Lui è riuscito a valorizzare
me per quella che era la mia apertura ai sistemi locali, e io ho valorizzato
lui per quelle che erano le sue capacità».

I
problemi invece ci sono con gli italiani. «Era vero e proprio mobbing –
sostiene Alberto -. Perché il rappresentante dell’Ong nel paese faceva da padre
e padrone. Questo anche perché dall’Italia le attività in Etiopia erano seguite
da una persona che non parlava l’inglese, che quindi non poteva neppure leggere
progetti e rapporti».

Il
rappresentante si era fatto largo a gomitate, aveva lavorato in condizioni
eroiche, si era fatto una famiglia. In Italia l’Ong non sapeva niente, per cui
l’Etiopia, per quella Ong, era identificata con quella persona che aveva le sue
regole monolitiche. Tra esse c’era quella per cui il volontario che arrivava
per primo doveva diventare il capo progetto.

«Il
mio collega diretto, arrivato sei mesi prima di me, era un giovane neolaureato.
Il progetto da realizzare era in ambito veterinario. Per questi motivi il
responabile ero io, ma a loro due questo non andava giù. Pur senza mettersi
d’accordo, tendevano sempre a fare rilevare la mia inefficienza. Ovvio, ero
arrivato lì e non mi avevano detto quasi niente. Non sapevo neanche i nomi dei
villaggi. è stata un po’ dura
all’inizio. Ma lo staff locale ha fatto tutta un’altra scelta. Alla fine è
stata una bella esperienza per me».

Alla
scadenza del contratto c’è ancora la possibilità – e la necessità – di
continuare, e l’Ong propone un rinnovo ad Alberto, salvo poi fare dietrofront,
sotto le pressioni dei due colleghi italiani. Un epilogo un po’ triste.
Probabilmente Alberto si è trovato in una situazione particolarmente
sfortunata, perché normalmente le relazioni tra volontari espatriati, nei paesi
più diversi e complessi, sono molto buone e costruttive.

 
Un’idea, un libro

Alberto rientra in Italia e riprende il suo lavoro di
veterinario alla Asl di Domodossola. E intanto matura l’idea di scrivere un
libro. Ma poi va oltre, con un’idea per il futuro del volontariato
internazionale.

«Quando
ero in Africa scrivevo delle lunghe lettere a un indirizzario di diverse decine
di persone, con le quali avevo condiviso l’impegno negli ambiti di commercio
equo e finanza etica. Illustravo la situazione. Loro mi hanno sempre suggerito
di pubblicarle».

Alberto
inizia una collaborazione con l’Università di Pretoria (Sudafrica) che sfocerà
poi in un master di ricerca per approfondire i metodi tradizionali di cura dei
pastori nomadi dell’Etiopia, proprio sulla scia del lavoro effettuato in quel
paese. «È stato un periodo molto impegnativo. Nel 2009 ho ripreso in mano 18
lettere, e ho cercato di trasformarle in un libro. Inizialmente il testo aveva
una forte impronta storica, perché l’Etiopia ha una storia entusiasmante e io
ne sono un appassionato. Lo sottoposi allo storico Angelo del Boca, il quale mi
disse: “La parte storica è molto valida, ma
la tolga tutta”. Perché? chiesi. “Molte cose interessanti sono state scritte
sulla storia dell’Etiopia, diversi studiosi seri ci si sono cimentati. Al
contrario non ho mai letto una presentazione del volontariato internazionale
che fosse così scevra da tentativi di commuovere o raccogliere fondi, o di
mostrare interessi di parte, o di come siamo bravi. è piuttosto una critica dall’interno che propone un
cambiamento positivo. E dal punto di vista intellettuale è indipendente ed
emotivamente sofferta, in prima persona. Non come altre critiche fatte
guardando solo i conti e i bilanci”.». Così, dopo quasi sei anni di lavoro e un
paio di decine di versioni, è nato nel 2015 il libro «Ripartire da ieri, la
nuova sfida del volontariato internazionale» (ed. Emi, 2015), che oltre a
contenere parte della storia personale e professionale di Alberto Zorloni, in
particolare riguardante l’esperienza etiope, propone un nuovo concetto di
volontariato internazionale, che ha radici nel passato.

La proposta

«La
mia proposta è rilanciare il volontariato internazionale “partendo da ieri”, da
quelle motivazioni e da quella spinta valoriale che abbiamo lasciato cadere. E
non vale solo per questo ambito. Infatti, tornato in Italia, parlandone con
diverse persone, ho capito che è lo stesso in politica, nel sindacato, nella
scuola, nell’assistenza sociale. Non capiamo più dove stiamo andando, non ci
riconosciamo più in quello che stiamo facendo. È un libro in cui c’è una
riflessione arricchita anche dal confronto con altri. Questo è un primo punto:
il bagaglio di valori non è una zavorra che riduce l’efficienza, ma è qualcosa
grazie al quale si riesce a essere più efficienti.

Le
Ong devono cercare di esprimere motivazioni e ridare valore agli ideali,
cercare di staccarsi il più possibile da un arido elenco di dati. Riaprire il
discorso alle valutazioni del proprio lavoro, discutere su quello che si fa,
sul senso che ha. In Etiopia, quando cercavo di far ripartire queste
discussioni, mi dicevano “ma cosa me ne frega, è previsto nel budget, lo
facciamo e chiuso”.

Secondo punto: va finalmente messo in pratica il concetto
per cui il volontariato deve essere uno scambio. Io sono stato valorizzato
dagli africani, mi hanno aiutato. Vivo le cose in modo molto intenso, per cui
sono anche soggetto ad ansia, ma loro hanno saputo costruirmi attorno un
contesto, nel quale io mi sentissi sicuro, tranquillo e potessi operare al
meglio. Ho visto che anche questo è uno strumento che ti fa lavorare bene, più
efficace di altre amenità tecnologiche, come l’impiego del satellite o altro.
Una serie di strumenti avanzati possono essere utili all’Africa, per noi
invece, visto come stanno andando le cose nella società, sarebbe importante
avvalersi di questi strumenti relazionali, comunitari, che erano anche nostri
in passato. In Africa resistono ancora, anche se, di questo passo, pure gli
africani li stanno perdendo. Il tutto in un’ottica di scambio.

Io
come veterinario sul campo, ho avuto la fortuna di conoscere quell’Africa che
dicono non ci sia più. Conoscendo lo swahili, ho potuto relazionarmi con
persone la cui voce non si sente o non si è mai sentita.

In
generale i dirigenti di Ong africane o piccoli imprenditori della classe media
europeizzata, sono impostati sul nostro modello di società e vedono di buon
occhio l’arrivo di qualunque investimento. Ma con l’aumento delle già enormi
differenze tra ricchi e poveri, ho notato anche una maggiore presa di coscienza
da parte delle Ong locali. La società civile africana è cresciuta, questo è
positivo. Si sono resi conto che è in gioco la cultura, l’essere africani».

 


«Professione volontario»?

Ci
chiediamo se ha ancora senso la cooperazione internazionale. «Io sono per il sì.
Sono sicuro». Ma ormai è diventato un lavoro come un altro, senza le
motivazioni di ieri. Esistono pure dei corsi universitari per prepararsi. È
come se il volontariato si fosse professionalizzato.

«Ribalterei il discorso. Secondo me si è
deprofessionalizzato, perché le Ong hanno avuto una grande occasione per far
valere la propria maggiore professionalità, ad esempio il fatto di relazionarsi
in un certo modo con le persone, avere una visione che parte da determinati
valori. Quella dei valori non è una questione morale, è proprio uno strumento
che ti permette di lavorare meglio. Quindi una parte della professionalità,
anche quella di accontentarsi di stipendi bassi, che non incidano troppo sul
budget del progetto, è una caratteristica professionale perché avrai più fondi
da investire nelle attività aumentandone l’efficienza».

Alberto
non ha molti riscontri sul suo libro da parte del mondo Ong, nonostante la
tematica.

«Ho avuto tante risposte positive da parte di persone
comuni, anche gente che non si occupa dell’argomento o di Africa. Da parte
delle Ong ho avuto solo due feedback: uno diretto e l’altro tramite la presentazione del
libro sul sito istituzionale dell’organizzazione.

Al di
fuori di questo non ho ricevuto né critiche, né apprezzamenti, pur avendo
scritto a molti, comprese le federazioni di Ong».

 
Qualcosa di più

Le
riflessioni contenute nel libro di Alberto sono estese a livello ampio
all’intera società.

«Sento
la necessità di un nuovo umanismo. Ma non intendo fare una nuova associazione.

È un
cammino da fare a livello individuale, fin dalle più piccole cose: mettere
determinati valori in cima alla scala delle proprie scelte quotidiane, ad
esempio nel consumo, le scelte di sobrietà, ecc. Sono convinto che, se si dà
importanza a queste cose, se non le si considera delle bazzecole, ma cose
importanti per la nostra vita, ci si ritroverà concordi su obiettivi comuni.
Occorre un cambiamento di priorità di valori». Un cambiamento sulla lunga
scadenza ma con risultati in tempi ragionevoli: «Altrimenti si perde fiducia.
Penso a un nuovo che però riparta dal vecchio, dai valori che già c’erano».

 
Esperienze

«Mi
piacerebbe che tutte le persone, anche in altri campi, che sentono questa
esigenza, riuscissero a fare una cosa comune. Come un sito web in cui
presentare le esperienze che già funzionano in questo “ripartire da ieri”. Per
dare un messaggio che le cose si possono realizzare. L’importanza del fare, del
concreto. Vorrei che uscissero allo scoperto quanti condividono questo pensiero
e insieme si riuscisse a concretizzarlo, realizzando progetti in Africa in un
certo modo. Per me non è un sogno, deve essere una realtà».

Marco
Bell
o

Nota:

per volere dell’intervistato e coerenza con il libro, in
questo testo non si fanno nomi di persone o enti. Tuttavia i «non nomi», come
li chiama Zorloni, corrispondono a persone e fatti realmente accaduti.

Marco Bello




«Ci sono solo viaggi di andata»

Diario di un giovane da Isiro / 4

Anche prendersi la malaria
fa parte dell’esperienza di missione, così come veder morire chi non si può
curare, oppure contemplare la luna che sorride nella notte. Ecco le ultime
pagine del racconto di Tommaso della sua avventura «dell’essere, piuttosto che
del fare», in Congo RD. Dopo nove mesi di Africa che lo «hanno cambiato», è
tornato in Italia a inizio giugno.

17 Aprile 2015

«Neisu»
in lingua locale significa «cuore». In effetti, starci significa proprio vivere
nel cuore della foresta, e della vita della gente.

Durante
la settimana trascorsa a Neisu mi sono dato all’esplorazione, visitando i
diversi quartieri e soprattutto fermandomi a conoscere la gente.

Una
bambina di 7 anni si è presentata alla missione per chiedere aiuto per sé e per
i suoi fratellini: i loro genitori sono partiti da più di un anno, dicendo che
sarebbero andati a una matanga (funerale), e li hanno lasciati a una
nonna malata che non può sostenerli. La cosa che fa più tenerezza, e pena, è
l’attesa di quei bimbi che ancora sperano nel ritorno dei genitori. Comunque
abbiamo contattato il capo del villaggio in modo che risolvesse la situazione e
trovasse qualcuno a cui affidarli.

È la
stagione dei manghi: alberoni enormi gonfi di frutti. In missione ce ne sono
troppi, ne mangiamo due per pasto, e ancora sovrabbondano. Credo che presto mi
metterò a fae la marmellata. Per restare in tema di frutta, ho riscoperto
l’avocado: se si prende la sua polpa e si mischia con miele o zucchero sembra
mascarpone. E se aggiungi un po’ di caffè ti ritrovi il tiramisù. Forse
incomincio a essere in astinenza da cibo italiano.

Ho
assistito al giorno del grande mercato: una distesa dei più vari prodotti,
alimentari e non. Ho visto pure qualcuno che girava con un intero macaco morto
per venderlo. Sono stato molto criticato perché facevo foto o video. Il
problema è che la gente pensa che noi «bianchi» facciamo foto per andare in
Europa a dire che loro sono poveri per farci dare soldi. Questa cosa mi ha
fatto riflettere. Effettivamente è vero: queste foto, per noi, mostrano la
povertà, ma per la gente di questo villaggio è sbagliato e forse addirittura
offensivo chiamare «povertà» la loro quotidianità.

25 Aprile 2015

Come
dicono alcuni, «non hai vissuto veramente l’Africa se non hai preso la malaria».
Beh, ecco: ho ricevuto il battesimo dell’Africa. Tornato da Neisu, dopo un paio
di giorni, mi è salita una febbre da cavallo. La malaria è una malattia un po’
antipatica perché in certi momenti ti senti come in una sauna, in altri tremi
dal freddo. Comunque sono andato all’ospedale per fare gli esami del sangue: la
mattina ero in fase «tremo come una foglia», quindi immaginate la scena comica
per tenermi fermo e prelevare il sangue, poi sono entrato in fase «vulcano»
mentre mi visitava la dottoressa. Per far scendere la febbre mi hanno fatto
un’iniezione, e io sono svenuto come una pera. A quel punto ho iniziato simpaticissime
perfusioni di chinino: quattro ore per volta, per due volte al giorno, per due
giorni. Consiglio vivamente la perfusione nella fascia oraria tra mezza notte e
le quattro. Ad ogni modo, tra la dose di chinino e la valanga di farmaci presa,
ora sto bene.

Ho
capito cosa provano i locali martoriati dalla malaria più volte l’anno.  Immaginate chi ha a malapena i soldi per i
farmaci, o chi è solo. Moltissime persone, soprattutto bambini, di malaria
muoiono. Penso che le migliaia di persone che ancora oggi, nel 2015, muoiono
per malattie curabili (diarrea, malaria, febbre tifoide, ecc.) rappresentino
uno scandalo enorme e un’ingiustizia. Eppure tutto tace, nessuno fa nulla, e la
gente muore. È incredibile l’assenza dell’Africa nei nostri telegiornali. C’è un
disperato bisogno di pace. Come dice madre Teresa: «Se oggi non abbiamo la pace
è perché ci siamo dimenticati che quell’uomo, quella donna, quel bambino è mio
fratello o mia sorella».

 


08 Maggio 2015

La
povertà è una realtà che turba la coscienza, viene istintivo cambiare strada o
girare la testa dall’altra parte. Qui però la povertà è talmente grande e
diffusa che qualunque strada tu prenda, o dovunque giri la testa, la incontri.
Un giorno ho accompagnato Ivo a fare la spesa in un negozio. Mentre eravamo lì,
è comparsa una signora (un po’ fuori di testa) che ha iniziato a domandarci
soldi. La scena è durata una trentina di minuti: lei domandava soldi, noi
rifiutavamo, lei continuava a domandare soldi. In una realtà come questa non è
giusto dare a destra e a manca: oltre al fatto che non ce n’è per tutti, si
rischierebbe di creare una mentalità di dipendenza. Fatto sta che, nonostante
fossimo nel «giusto», rifiutare di donare 10 centesimi a quella donna, mentre
il bancone si riempiva di merce, mi ha, in un certo modo, infastidito. Forse
perché mi risuonavano nelle orecchie parole come: «Ero affamato e non mi avete
dato da mangiare», ma qui gli affamati li incontri ogni dieci metri.

Se
solo le ricchezze fossero incanalate nel modo giusto!

La
malaria, grazie a Dio, è passata e mi sono rimesso al 100%. Ora non potete
immaginare cosa provo quando a Gajen incontro i bambini che soffrono di
malaria, quando sento il loro corpo che scotta e vedo la stanchezza nei loro
occhi.

Non
so se vi ricordate di Jefthen, un membro della banda bassotti di qualche tempo
fa, guarito e rientrato a casa. Ho ricevuto la notizia che è morto: una volta
tornato nel villaggio ha preso la malaria, lo hanno curato con le medicine
tradizionali pensando che fosse un’infiammazione della milza (sintomo possibile
della malaria nei bambini). Di conseguenza la malaria è peggiorata velocemente
e l’ha ucciso. Mentre riguardavo foto e video del periodo in cui era a Gajen,
non ci potevo credere che fosse morto, e ho provato un certo senso di rabbia nel
pensare che era «morto per niente», che se avessero subito identificato e
curato la malaria Jefthen sarebbe ancora vivo. Morire per colpa dell’ignoranza è
una cosa che proprio non riesco ad accettare, eppure qua è «normale»: in quasi
tutte le famiglie che ho conosciuto, almeno un figlio è morto in situazioni
analoghe. Come direbbe padre Tarcisio: «Cosa non abbiamo visto in 40 anni di
Congo!». Anche io, in meno di un anno, ne ho viste veramente tante.

L’altra
mattina è arrivato un ragazzo (23 anni) che cercava un donatore di sangue per
suo figlio malarico. Era una specie di corsa contro il tempo, tra la vita e la
morte del figlio. Qui, i donatori vengono pagati. Questo significa che, se non
hai i soldi, stai senza trasfusione e muori. Negli ospedali non c’è una banca
del sangue, anche per le difficoltà di conservazione, per cui, se hai
un’urgenza, prima di tutto devi trovare il donatore, e poi trovare i soldi per
pagarlo. «Cosa non abbiamo visto…».

 
18 Maggio 2015

Al
centro è arrivato un piccoletto di due anni. È accompagnato dalla zia perché ha
perso la mamma quando aveva meno di un anno. Questo dolore lo ha segnato:
rifiuta di parlare, annuisce soltanto, e inoltre non gioca con nessun bambino. È
veramente una pena vederlo così.

Con i
bambini del quartiere ho organizzato una serata con balli intorno al fuoco. C’è
da dire che qui in «città», rispetto ai villaggi di Makpulu, non sono abituati
a farlo, quindi siamo finiti per ripetere sempre gli stessi 5-6 canti a
ripetizione. Comunque ci siamo divertiti un sacco, e mi hanno chiesto se
possiamo farlo ancora.

Sta
per iniziare l’ultimo periodo di questa esperienza. Dopo tutto questo tempo è
difficile immaginare di partire. Incomincio a sentire che non sarò qui per
sempre, e che quando me ne andrò continuerà tutto senza di me, che non sono
essenziale. Mi consola il fatto che la mia non è mai stata un’esperienza del
fare, quanto piuttosto dell’essere.

Padre
Tarcisio, per motivi di salute, da Kinshasa deve rientrare in Italia. Vi chiedo
di ricordarlo nelle preghiere, è una grande persona e qua tutti ne sentiamo la
mancanza.

 
26 Maggio 2015


Ora
capisco quando mi dicevano che «l’inizio della stagione delle piogge è il
periodo della malaria». Le pediatrie sono piene di bambini ricoverati che
purtroppo spesso vengono portati troppo tardi.

È
incredibile come, anche dopo diversi mesi, ogni giorno continuo a stupirmi di
questa realtà. Ciò che amo dell’essere all’equatore è che qualche volta, la sera,
quando guardo il cielo, vedo la luna che mi sorride.

Sono
esemplari i sacrifici che alcuni studenti fanno per pagarsi gli studi
universitari. Thérese, una donna che sta studiando medicina, ci da una mano
nell’orto in cambio di un aiuto. Mi ha detto che i soldi ricevuti li consegna
direttamente all’università. Quando finirà gli studi curerà di più la sua
bellezza e i suoi vestiti. È un grande sacrifico per una donna di qua, perché
l’esteriorità è molto importante. Sono storie difficili quelle di questi studenti,
soprattutto se si pensa che, nel paese in cui vivono, non sanno se gli studi
universitari che conducono con grandi sforzi daranno loro una vita migliore.

 
30 Maggio 2015

Lasciare
Isiro non è stato semplice, eppure nemmeno difficile come pensavo. È stato
bello salutare tutte le persone e scambiarci gli auguri di una buona vita.

Nella
sala d’attesa dell’aeroporto di Isiro contemplo la meravigliosa foresta che
riempie il panorama oltre le vetrate. Padre Andrés che mi ha accompagnato, mi
dice che per i missionari non ci sono viaggi di ritorno, ma solo viaggi di
andata.

Quindi
salgo sul piccolo aereo e compio serenamente a ritroso quello stesso viaggio
che qualche mese fa mi aveva traumatizzato. Noto un cambiamento: non ho voglia
di ascoltare musica isolandomi, contemplo la realtà dell’aereo: i passeggeri,
il personale, ecc., e faccio conoscenza con il mio vicino. È un libanese che
lavora a Isiro e sta rientrando a casa per le vacanze. Il tempo vola immerso in
questa «musica alternativa» che è l’umanità che mi circonda. Atterriamo a
Kinshasa. Nell’attesa dei bagagli mi si presenta uno dei tanti omini che ti
vogliono aiutare in cambio di soldi. Che soddisfazione poter sfoderare il mio
lingala: «Dio mi ha dato due mani per portare le cose, faccio da solo, grazie
papà». Dopo un primo momento di sconcerto, si mette a ridere e non insiste più.
Io e Alì (il mio compagno libanese) recuperiamo i bagagli e usciamo
salutandoci. Vado in strada da padre Santino e padre Mathias che mi attendono.
Arrivo alla missione di Saint Hilaire, nella periferia della grande e caotica
capitale del Congo. Stradine tutte uguali con case e persone ovunque, musica a
ogni angolo della strada a volume altissimo. Dopo la tranquillità di Isiro,
ammetto che Kinshasa mi traumatizza parecchio. Comunque la voglia di conoscere
anche questo ambiente è grande.

Accompagnato
dal giovane padre Mathias esploro il quartiere e l’organizzatissima parrocchia.
Anche qui è presente tra i giovani un gran numero di analfabeti e l’Aids è
tremendamente diffusa.

Un
giorno vedo un gruppo di ragazzi vicino a un semaforo, quando i taxi pulmini
rallentano, questi vi si aggrappano, e dopo un po’ scendono per tornare
indietro. Domandano di trasportare i sacchi di cibo (25-50 kg) dei passeggeri
in cambio di qualcosa. Se un passeggero accetta, loro rimangono attaccati al
pulmino e accompagnano a casa il cliente, altrimenti saltano giù.

Dopo
qualche giornata movimentata, ricevo un regalo inaspettato. La prima volta mi
avevano detto che era il «buongiorno dell’Africa», questa volta penso sia «l’arrivederci».
Dopo una notte passata in bagno per la nausea, vado all’ospedale a fare gli
esami, e l’esito è quello che ci aspettavamo: malaria. Unico problema: fra due
giorni devo prendere un altro aereo per tornare in Italia.

 
01 Giugno 2015

Fortunatamente
la malaria questa volta è molto meno forte della prima, allora decidiamo che
posso imbottirmi di farmaci e viaggiare comunque. La sera padre Symphorien mi
accompagna in aeroporto. La partenza è alle 4,40 della notte, ma noi ci avviamo
verso le 23,00 per evitare il rischio del banditismo, frequente in quegli
orari. Quando salgo sull’aereo finalmente posso dormire un poco. Arrivo a
Casablanca per aspettare il volo su Bologna: l’aeroporto mi disorienta, troppi
negozi, troppi cibi, troppa superficialità, troppi bianchi. Quando si fa l’ora
di imbarcarsi mi metto in fila e sento parlare i classici turisti italiani di
una certa età che si lamentano di ogni cosa: mi viene la nausea.

Sull’aereo
il mio posto è di fianco a Iole, signora italiana che torna da una vacanza in
Marocco. Ci presentiamo e mi dice che sembro suo figlio: ho in testa un
cappello uguale al suo. Scopro poi che suo figlio è morto, e che amava
viaggiare. Quando le dico che rientro dopo tanto tempo dal Congo si commuove.
Ci facciamo compagnia per tutta la durata del volo. Arrivati a Bologna ci
auguriamo buona fortuna e ognuno prosegue per la sua strada.

Con
la malaria di mezzo non ho ancora realizzato di essere rientrato in Italia.

Sono
qui ora. Il mio «viaggio di andata» mi ha portato alla mia nuova destinazione,
in questi giorni un’altra persona che non scorderò mai ha fatto il suo ultimo
viaggio di andata, padre Tarcisio: destinazione paradiso.

Tommaso Degli Angeli

Essere, piuttosto che
fare

Una secchiata d’acqua fredda, ecco com’è vivere il
ritorno alla vita occidentale. La semplicità, l’accoglienza, la povertà,
l’essenzialità, nel «nostro mondo», sembrano così difficili da vivere! Eppure
sono proprio le cose che ci renderebbero più felici.

L’esperienza in Congo mi ha
cambiato. È cambiato il mio modo di guardare le persone e le cose, è cambiato
il mio modo di vivere e percepire la realtà. Questa è soltanto un’intuizione a
caldo, sono sicuro che l’Africa illuminerà la mia vita con il tempo. Certamente
ora ho chiaro quali sono lo stile di vita e i valori che mi rendono felice. La
sfida sarà quella di viverli qui, anche con il rischio di non essere capito.

Mio dovere
sarà anche impegnarmi perché queste convinzioni non scoloriscano con il tempo.
Posso farlo perché in questo tempo non ho solamente partecipato alla vita, ma
l’ho vissuta.

Vorrei
evitare di passare buona parte della mia vita a cercare modi per impiegare il
tempo che mi sono affannato a risparmiare, vorrei stare dentro ogni momento, ed
essere piuttosto che fare. Ogni giorno essere consapevole delle cose bellissime
che ci sono in questo mondo e imparare qualcosa di nuovo su me stesso e sugli
altri. Mettere al centro delle relazioni le persone, togliendosi gli occhiali
del pregiudizio o del profitto, ed evitare che la finestra del nostro cuore
diventi uno specchio. Essere vero ed essere me stesso, avere la serenità di
sostenere uno sguardo e di entrare in contatto con un altro meraviglioso
universo misterioso. Vorrei evitare, preso dal vortice degli impegni
quotidiani, di dimenticare quella luce che è dentro di noi e di lasciarla
spegnere.

L’Africa mi ha regalato anche una
bellissima preghiera: «Signore, fa di me una lampada. Brucerò me stesso, ma darò
luce agli altri». Non siamo fatti per vivere soli. Nel «bruciare noi stessi»,
oltre a portare luce nel buio, illuminiamo, e quindi possiamo vedere i volti
dei fratelli intorno a noi.

I pensieri sono tanti, i ricordi e
le emozioni ancora di più. La riconoscenza per le comunità che mi hanno accolto
è enorme. Si conclude così questo viaggio che in realtà è stato la preparazione
per il viaggio più grande: la vita.

T.D.A.

Tommaso Degli Angeli




L’Angelo dei Carriers /4

Ultima puntata della vita a fumetti della Beata Irene Stefani, Nyaatha per la gente dell’altipiano centrale del Kenya.
Una vita spesa per amore, fino alla donazione totale di sé.







SULLA TOMBA DI UNA SUORA
4.000 battesimi – Vittima volontaria
da Missioni Consolata, aprile 1931
Abbiamo annunziato, nel numero di gennaio u. s. (1931), la morte della rev. suor Irene, Missionaria della Consolata al Kenya. Ora la Superiora di quelle Suore comunica alla Madre Generale di Torino le seguenti notizie sulla dolorosa perdita, notizie che crediamo bene di pubblicare perché siamo certi che faranno del bene ai nostri cari lettori.

Ven.ma Madre Generale,
Venerdì, 31 ottobre 1930, serenamente spirava nel bacio del Signore la nostra carissima Sr. Irene, dopo breve malattia. Si può dire senz’ombra d’esagerazione, ch’era una santa. Nel suo apostolato di ben 16 anni, ci fu sempre di edificazione sia come religiosa perfetta in tutte le virtù, sia come missionaria instancabile. I battesimi da lei amministrati in articulo mortis raggiungono i quattro mila, e Dio sa le fatiche, gli sforzi eroici per convertire le anime… I neri stessi, in questa ultima sua malattia, dicevano: «Mware Irene ci ha sempre tanto beneficati ed è per questo che sì è ammalata…». Infatti cadde sulla breccia.
Il 20 ottobre, festa di Santa Irene, sua patrona, era andata in visita ai villaggi indigeni per il catechismo, e s’incontrò in un vecchio, ammalato di peste polmonare abbastanza gravemente. Cercò allora di fargli un po’ di istruzione religiosa, ma l’infermo non ne volle sapere ed ella dovette lasciarlo. Cammin facendo, seppe di un’altra ammalata, pure colpita da peste polmonare. Senza indugio si recò presso di lei ed ebbe la consolazione di poterla battezzare. Dopo una giornata così piena e faticosa, ritoò alla Missione, ma, appena giuntavi, venne a sapere che il vecchio ostinato del mattino, si era aggravato assai e difficilmente avrebbe passato la notte. Suor Irene, non badando a stanchezza, accompagnata da un bravo catechista, ritoò dal poverino. Nella lurida capanna, al bagliore del focherello che scoppiettava vicino al moribondo, si fermò per ben tre ore, dopo le quali il trionfo su quell’anima era compiuto. Il vecchio accettava il battesimo e, al mattino seguente, l’anima di lui volava in seno a Dio.
Uscita dalla calda capanna, al fresco della notte, la sorella sentì un’impressione strana… ma, benché molto tardi, se ne toò a casa tutta felice per la grande vittoria riportata sul demonio.
Intanto, da quel giorno, la sua robusta salute fu scossa. Tuttavia ella proseguì nel suo pesante lavoro ed ancora dal mercoledì al giovedì 23 ottobre, passò parecchie ore accanto ad un altro infermo. Giunta a casa, ancora digiuna, alle 10 del mattino, essendosi il rev. padre assentato perché chiamato d’urgenza, attese e si comunicò alle 11,30.
La cara Sorella si consumava per lo zelo della gloria del Signore. Lavorò sino alla domenica 26, e poi la fibra cedette. Dopo la s. Messa si mise a letto con febbre a 40°. Al lunedì accorrevo presso l’inferma, ed al martedì, visto il caso abba­stanza grave e la febbre persistente, feci chiamare il dottore di Nyeri, il quale dichiarò la malattia polmonite lobare che, salvo complicazioni, non presentava pericoli…
«La morte è eco della vita», aveva scritto un giorno Suor Irene. Potrei scrivere molte pagine se volessi riferire quanto ci fu di edificazione in quest’ultima malattia. Era assetata di bene, viveva di abnegazione e di sacrificio, e nel delirio che le sopravvenne in ultimo spiegava il catechismo, parlava di Dio alle anime.
Al giovedì il male si aggravò tanto, che alle tre di notte si dovette amministrarle la Estrema Unzione, e poi per l’ultima volta ricevette il suo Gesù, che aveva sempre fe­delmente servito. Al venerdì sera, alle 10 e mezza, serenamente e placidamente lasciava questa valle di lagrime…
Fra moltissimi altri si ricorda il seguente mirabile atto di coraggio e di zelo compiuto da Suor Irene durante la guerra mondiale. Suor Irene da parecchio tempo stava preparando al battesimo un povero portatore indigeno gravemente ammalato in un ospedaletto da campo a Kilwa, nel Tanganyka. Un mattino non trovò più il suo ammalato, e, domandate informazioni, seppe che essendo morto nella notte, era stato portato con una cinquantina di altri cadaveri sulla spiaggia del mare, per risparmiare il disturbo della fossa e della sepoltura. La Suora provò un indicibile dolore, ma non volle credere che il Signore avesse lasciato sfuggire un’anima ormai così ben preparata al battesimo, e corse sulla spiaggia del mare per cercare quel poveretto nel mucchio terrificante di cadaveri. Non avendolo trovato alla superficie, con un coraggio sovrumano rimuove ad uno ad uno quei cadaveri, finché rinviene il suo catecumeno, lo estrae dolcemente, lo adagia sulla sabbia, ascolta il polso ed i respiro… Miracolo della carità! Il creduto morto era ancora vivo… Alle grida di aiuto accorrono alcuni infermieri indigeni, che riportano il moribondo all’ospedaletto, ove per mezzo di forti eccitanti vien fatto rinvenire ai sensi. Poté così ricevere il santo battesimo e meno di un’ora dopo se ne va in Paradiso.
Madre veneratissima, abbiamo perduto un tesoro, ma abbiamo acquistato una protettrice in cielo. Quindici giorni prima di morire, stimandosi – come ella diceva – inutile e buona a nulla, anzi solo capace a guastare le cose, aveva chiesto, per essere utile, di offrire la sua vita per il bene dell’Istituto. L’olocausto fu accettato e proprio due venerdì dopo, la vittima volava al Creatore.
I funerali furono un trionfo. Per desiderio comune venne tumulata a Nyeri, ed attorno alla salma fu un succedersi continuo di visitatori. I neri tutti vollero accostarsi alla loro «Mware Irene» che tanto li aveva amati e copiose lagrime scendevano dai loro occhi. Numerosissimi intervennero alla sepoltura ed ora la sua tomba è divenuta mèta di frequenti visite, godendo essi di inginocchiarsi presso la tomba della loro mware per contarle ancora le loro giornie e i loro dolori…

Suor Ferdinanda, M.C.

a cura di Gigi Anataloni




Noi siamo Makuxi


Lungo il Rio Branco. Viaggio a Roraima?/ 3

La battaglia per la demarcazione e l’omologazione della terra indigena Raposa Serra do Sol è stata lunghissima e non pacifica. Ancora oggi, tra ricorsi e progetti di legge, non pare conclusa. Siamo stati a Barro (Surumu), in una comunità di indios makuxi.

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Br-174. Finalmente arriva l’alba. La luce ci permette di vedere il paesaggio: grandi spazi pianeggianti e aperti, interrotti ogni tanto da isole alberate. L’Amazzonia non è soltanto foresta, ma anche savana. Qui la chiamano lavrado. La Br-174 è diritta e con scarsissimo transito. Un cartello avverte che stiamo passando accanto a São Marcos, una delle tante terre indigene della parte nordorientale dello stato di Roraima. La Br-174 prosegue fino a Pacaraima, al confine con il Venezuela. Partiti da Boa Vista, noi la lasciamo dopo circa 200 chilometri per girare a destra e imboccare una strada sterrata. Entriamo nella terra indigena Raposa Serra do Sol.

La comunità di Barro

Attualmente il 46% della superficie di Roraima è demarcata come terra indigena1. Quella di Raposa Serra do Sol è la seconda per estensione, dopo la terra degli Yanomami. È abitata da cinque popolazioni: Wapixana, Taurepang, Patamona, Ingarikó e soprattutto dai Makuxi2, l’etnia indigena più numerosa dello stato (con oltre 20mila persone). Dopo lo sterrato, ecco un ponte su cui è stato collocato un posto di blocco. La polizia ci fa passare dopo un cenno del nostro guidatore. «Siamo arrivati», ci dice dom Roque Paloschi, vescovo di Roraima, che per tutto il tragitto ha pigiato sull’acceleratore dell’auto.

Il villaggio appartiene alle comunità makuxi di Barro. È una strada con qualche casa e alcuni luoghi pubblici. C’è un ambulatorio medico della Sesai, un locale per la foitura dell’acqua e una chiesetta. Sulla strada transita, libero e tranquillo, un gruppo di vacche: dopo l’agricoltura, l’allevamento costituisce un’importante attività di sostentamento per la popolazione indigena. Dom Roque è qui per un impegno ufficiale: deve officiare la cresima a un gruppo di Makuxi. Dato che la chiesetta è troppo piccola per ospitare una celebrazione con 20 cresimandi, gli organizzatori hanno spostato tutto sotto una vicina tettornia, dove una cantante e alcuni musicisti stanno già provando, tra le bizze dell’impianto di amplificazione. I cresimandi - donne e uomini di varie età - arrivano in gruppo indossando una elegante tunica rossa. Sono scalzi come lo stesso dom Roque. La cerimonia, molto partecipata e coinvolgente, si conclude con il taglio di una grande torta ricoperta di cioccolato. Ad aiutare il vescovo c’è padre Carlos Eduardo Alarcón, missionario della Consolata colombiano, che dal 2007 lavora in area indigena. Carlos si offre di accompagnarci e raccontarci le vicende di questa comunità makuxi.

Sequestri, incendi, violenza (e impunità)

A Surumu c’è una scuola, la «Escola Estadual Indigena Padre José de Anchieta», di insegnamento fondamentale. Poco fuori del villaggio ce n’è una seconda. Viene annunciata da un cippo levigato posto al centro della stradina. Sulla pietra è stato scritto il nome: «Centro indígena de formação e cultura Raposa Serra do Sol». E il suo motto: «Sabedoria, trabalho, paciência». «Saggezza, lavoro, pazienza: queste tre bellissime parole sono raffigurate dal libro, dalla zappa e dalla tartaruga», ci spiega padre Carlos. Il Centro indigeno di formazione e cultura è nato nel 1997 su iniziativa del Consiglio indigeno di Roraima (Conselho Indígena de Roraima, Cir3) e della diocesi con l’obiettivo di formare tecnici specializzati in agricoltura, allevamento e gestione ambientale. Il posto è bello: una collinetta alberata sulla e attorno alla quale sono sorti alcuni edifici. Ma la prima impressione è incompleta. Avvicinandoci ci accorgiamo che una parte delle costruzioni sono scatole vuote: hanno soltanto i muri estei. È tutto ciò che rimane della missione Surumu fondata dai missionari e missionarie della Consolata4. Schierata al fianco delle popolazioni indigene e a favore della demarcazione in area continua delle loro terre, la missione era invisa ai bianchi che di quelle terre si erano impossessati. Insulti, intimidazioni e violenze erano all’ordine del giorno. Quando il ministro Marcio Thomas Bastos annunciò che il presidente Lula avrebbe firmato l’omologazione di Raposa Terra do Sol, le azioni dei fazendeiros bianchi si fecero più eclatanti a Boa Vista e in tutto lo stato. Nel gennaio del 2004 la missione fu assaltata e tre missionari della Consolata furono sequestrati e tenuti in ostaggio per alcuni giorni. Gli autori erano un gruppo di indigeni contrari alla demarcazione, ma dietro di loro si nascondevano i bianchi (e la chiesa evangelica della regione)5. Quasi un anno e mezzo dopo - era l’aprile del 2005 - Lula firmò il decreto d’omologazione.   Anche in questo caso la reazione fu violenta. «Il 17 settembre - racconta padre Carlos - oltre un centinaio di indios assaltò la missione. Vennero devastati e bruciati la chiesa, la mensa e il dormitorio degli studenti, una parte dell’ospedale e degli alloggiamenti delle suore compresa la cappella, la biblioteca e la sala per gli incontri. Un professore fu picchiato. Non ci furono altre vittime soltanto perché quel giorno i missionari, le suore e la coppia di volontari laici erano fuori sede. Come nel 2004, anche in questo caso i mandanti erano i fazendeiros guidati da Paulo César Quartiero». Quella di Paulo César Quartiero è una storia di potere e impunità. È stato il latifondista (produttore di riso) più importante della regione, responsabile della maggior parte delle azioni violente contro la demarcazione, almeno fino al 2009. In quell’anno il Supremo tribunale federale obbliga i non-indigeni a lasciare Raposa. I media si dividono. Alcuni si schierano contro la decisione. Altri parlano di evento storico: per la prima volta sono i latifondisti a doversene andare (dietro indennizzo) e non gli indigeni. Quartiero, sempre impunito, cambia strategia. Nel 2010 acquista 12 mila ettari di terra sull’isola di Marajó, nello stato del Pará (tra l’altro, innescando anche lì una serie di conflitti). Nello stesso anno viene eletto deputato federale, distinguendosi subito per la sua attività anti indigena. Nell’ottobre del 2014 viene eletto vicegovernatore di Roraima. Quello che farà nella sua nuova veste lo vedremo nei prossimi mesi. Oggi i corsi del Centro di formazione e cultura Raposa Serra do Sol sono seguiti da 32 studenti di varie etnie. Accanto alle discipline classiche (matematica, chimica, biologia, ecc.), vengono insegnate la cultura e la tradizione indigene. Perché si vogliono preparare tecnici, ma anche leaders comunitari. Questo legame studenti-comunità è stato rinforzato dall’introduzione del sistema dell’alternanza (sistema de alteância), come ci spiega il cornordinatore: «Sono 4 anni di studio, ma ogni 2 mesi gli alunni tornano nelle proprie comunità per mettere in pratica ciò che qui stanno apprendendo». Anselmo parla con voce bassa, però l’orgoglio indigeno traspare chiaramente dalle sue parole. «In ragione della sua funzione, il centro è sempre stato visto come una minaccia da parte degli invasori, garimpeiros o arrozeiros. Per questo lo attaccarono». Il cippo incontrato all’entrata del centro non riportava soltanto il motto «Saggezza, lavoro, pazienza», ma anche tre altre parole, che sintetizzano il progetto politico delle comunità indigene: terra, identità e autonomia. Un progetto malvisto dalle autorità locali. «Il governo di Roraima - spiega Anselmo - continua ad attuare una politica anti indigena. A tal punto che ha creato proprie organizzazioni indigene per dividerci e per contrastarci dal di dentro, cercando di impedirci di attuare i nostri progetti»6. Quello di Anselmo non è un giudizio influenzato dall’essere parte in causa. I governi di Roraima hanno sempre contrastato i diritti indigeni e in particolare la demarcazione in area continua. Il progetto era (ed è) di demarcare le terre indigene in isole, dividendo in tal modo non soltanto l’area geografica, ma le stesse popolazioni indigene (demarcação contínua versus demarcação em ilhas).   Risaliamo sull’auto di dom Roque. Lasciamo la comunità makuxi e Raposa Serra do Sol. Ci aspettano 200 chilometri sull’asfalto della Br-174 prima di rientrare a Boa Vista, capitale di Roraima. Una capitale bianca che non ha mai nascosto la propria insofferenza per le terre indigene e i suoi abitanti.

Paolo Moiola (fine terza puntata - continua)

Note

1 - Cfr. Instituto Socioambiental (Isa), Diversidade Socioambiental de Roraima, São Paulo 2011, pag. 19. 2 - Il termine «makuxi» si può incontrare scritto anche come «macuxi». L’eventuale accento di makuxí e Surumú viene utilizzato soltanto per facilitare la pronuncia in lingua italiana. 3 - Il sito del Consiglio indigeno di Roraima: www.cir.org.br. 4 - Sulla missione di Surumu si veda il dossier firmato da Consiglio indigeno di Roraima, Benedetto Bellesi e Carlo Miglietta, Anche gli angeli perdono le ali, in MC luglio-agosto 2001. 5 - Si tratta della chiesa evangelica della Assembléia de Deus, una delle più potenti in Brasile. Sul tema si veda: Folha de S.Paulo, 28 agosto 2008. 6 - Si tratta delle organizzazioni Arikon, Alicidir e Sodiur (Sociedade de Defesa dos Índios Unidos do Norte de Roraima). Quest’ultima, in particolare, si è resa responsabile della distruzione della missione di Surumu nel settembre del 2005.

Paolo Moiola




Cure, dignità e rispetto

Albert Schweitzer: 50
anni dalla morte
.
Geniale organista e
teologo, fin da bambino vorrebbe alleviare le sofferenze altrui. A 30 anni
decide di diventare medico per i più poveri. Nel 1913 fonda l’ospedale-villaggio
di Lambaréné, in Gabon. L’obiettivo è portare cure mediche modee, ma nel
rispetto totale delle culture locali.

È pioniere nell’uso di alcuni farmaci a
quelle latitudini. Fermo nel principio del «rispetto per la vita», come
riflesso dello spirito del cristianesimo.


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«Poiché ritengo che il
compito della mia vita sia quello di lottare sotto cieli lontani a favore degli
ammalati, ritengo che dovremmo considerare il lavoro che occorre compiere per
le misere genti di colore non semplicemente come un buon lavoro ma come un
dovere che non deve essere evitato». È questa una delle più celebri e profonde
affermazioni di Albert Schweitzer, organista geniale, teologo protestante,
filosofo e medico filantropo (di cui quest’anno ricorre il 50° della morte,
avvenuta il 4 settembre 1965), ancora oggi considerato una delle figure etiche
e spirituali più significative del nostro tempo. Nato il 14 gennaio 1875 a
Kaysersberg, nell’Alta Alsazia (Francia), quest’uomo, interiormente tormentato
(ancora giovane era già famoso in tutta Europa per le sue straordinarie
interpretazioni di Bach), sentiva di non condividere totalmente la vita di quel
Cristo che venerava profondamente, e avvertiva insistentemente l’esigenza di
rispondere ai bisogni dell’umanità. Si chiedeva sovente, arrivato al suo
trentesimo anno di vita, quale fosse il vero significato delle parole di Gesù: «Colui
che intende salvare la sua vita la perderà, ma colui che vuole perdere la sua
vita per me e per il Vangelo, la salverà». Significativa è la sua opera,
pubblicata nel 1906, dal titolo «Storia della ricerca sulla vita di Gesù»,
nella quale si proponeva di fare il punto su tutta la letteratura scientifica
riguardante la figura di Cristo. Uno studio profondo, mirante a concludere: «Ciò
che è permanente ed eterno in Gesù è del tutto indipendente dalla conoscenza
storica e può essere compreso solo in forza del suo spirito tuttora operante
nel mondo».

Il male del mondo

«Anche da bambino – ricorda Luigi Grisoni (Como 1937 –
Roma 2001), scrittore e biografo schweitzeriano, in un passo della sua ricca
biografia dedicata al medico – a scuola mi era chiaro che nessuna spiegazione
del male nel mondo mi avrebbe mai soddisfatto. Sentivo che tutte le spiegazioni
finivano con stupide scuse alla base delle quali non c’era altra motivazione
che quella di rendere possibile alla gente di rendersi conto della infelicità
circostante senza avvertirla realmente».

Schweitzer intendeva, in ogni caso, impegnarsi in un
servizio direttamente umanitario: raccogliere i bambini abbandonati o
maltrattati e occuparsi di loro. Ma le regole di assistenza ai bambini
abbandonati non consentivano di occuparsene in maniera non ufficiale; e il
richiamo di coloro che soffrivano in paesi bisognosi di ogni intervento aveva
su di lui il sopravvento.

Per le sue profonde convinzioni, e di fronte a queste
realtà, decise di diventare medico per l’Africa, di sperimentare in prima
persona i dolori del mondo e tentare di alleviae le sofferenze. Fu così che
il 13 ottobre 1905 abbandonò i suoi impegni di direttore del Seminario di St.
Thomas di Strasburgo, di docente, di predicatore alla Chiesa di St. Nicolas di
Strasburgo per iscriversi alla facoltà di medicina.

In questo periodo trovò anche il tempo per occuparsi del
pensiero dell’apostolo Paolo. Si trattava di un bisogno interiore di Albert che
gli richiese di occuparsi del pensiero paolino nella ricerca e di dae una
spiegazione storica. «Se la dottrina mistica della Redenzione e le idee paoline
non possono trovare una spiegazione piena nell’influenza ellenica, allora –
approfondiva Schweitzer – occorrerà comprenderla nel quadro del giudaismo
dell’ultima epoca».

Lambaréné, Gabon

È trascorso oltre un secolo dalla fondazione del suo
primo ospedale di Lambaréné, uno sperduto villaggio sulle rive dell’Ogooué nel
Gabon, allora la più povera delle colonie della ricca Francia. Albert
Schweitzer vi giunse il 15 aprile 1913, con la moglie Hélène Bresslau che gli
fu sempre vicina in quella straordinaria avventura. Iniziò ad assistere e curare
persone affette da lebbra, malaria, tumori, eie, elefantiasi, malattie
mentali, e a combattere superstizione e fame nel clima equatoriale pesante per
l’umidità.

Sin dalle prime settimane il dottor Schweitzer ebbe
l’occasione di constatare che la miseria corporale della popolazione locale era
ancora più grave di quanto non avesse immaginato. «Ai malati indigeni –
scriveva – occorre dire tutta la verità. Essi vogliono saperla per meglio
sopportarla. La morte per loro è una cosa naturale, non la temono e la guardano
tranquillamente in faccia. Domandavo ai miei malati di manifestare, nel limite
del possibile, con degli atti di riconoscenza i loro sentimenti per le cure
avute… Al momento di lasciare l’ospedale, guariti, mi chiedevano il permesso di
diventare loro amico». «Le grand docteur», come veniva chiamato, sosteneva inoltre che tre
questioni sono importanti: il progresso nel sapere e nella tecnica; il
progresso nella socializzazione dell’uomo; il progresso nella spiritualità.
Quest’ultimo è il più importante. Profonde convinzioni dettate dalla sua
saggezza. Schweitzer sostiene il principio «l’uomo appartiene all’uomo», ovvero
l’essere umano è tenuto a rispettare in ogni senso la vita e la dignità dei
suoi simili. Egli riassume il suo concetto morale nella formula «Rispetto per
la vita».

Grandezza di azioni umane che, come scrisse Pasteur: «Si
misura dall’ispirazione che le ha fatte nascere. Felice colui che porta in sé
un Dio, un ideale di bellezza e gli obbedisce: ideale dell’arte, ideale della
scienza, ideale della patria, ideale della virtù del Vangelo! Sono queste le
vere fonti vive delle grandi idee e delle grandi azioni…».

Un villaggio – ospedale a
dimensione umana

L’ospedale «Albert Schweitzer» di Lambaréné sorge sulla
riva sinistra del fiume Ogooué, a circa 200 chilometri dall’Oceano Atlantico.

La regione è coperta da una foresta equatoriale quasi
impenetrabile, il clima è dei peggiori a causa dell’elevato tasso di umidità.
Il villaggio-ospedale all’inizio aveva grandi baracche di legno, col tetto in
lamiera per reggere alle continue piogge equatoriali.

Le famiglie prendevano alloggio gratuito e vivevano
secondo le proprie usanze, in attesa che il parente infermo guarisse.
Innumerevoli i tabù, i riti, le abitudini degli abitanti che non vivevano, e
non vivono, in grandi comunità come le nostre, nelle quali i costumi si sono
uniformati, bensì in piccoli gruppi tribali, ognuno dei quali strettamente
vincolato a particolari consuetudini e usi.

Sarebbe stato impensabile pretendere di cambiare mentalità
e atteggiamenti primordiali: per il «locale» è più importante rispettare il
proprio tabù che cercare una guarigione corporale, in quanto ha più valore il
legame con il suo ambiente spirituale che la speranza o la fiducia di scampare
alla morte. E Schweitzer lo aveva ben capito, come si evince soprattutto nel
suo libro «Histornires de la
forêt vierge» dalla profonda analisi
psicologica delle popolazioni africane.

Modeità passo passo

Schweitzer pensava di poter rendere il suo ospedale più
moderno solamente procedendo per gradi. «Noi – spiegava ai suoi interlocutori
che gli facevano visita – non siamo qui soltanto per curare eie o filariosi:
abbiamo anche il dovere di aiutare questa gente a imparare a camminare da sola.
Ed è insensato pretendere che l’uomo della foresta apprenda ciò che della
nostra civiltà tecnologica e spirituale possa essergli utile tutto d’un colpo,
partendo da zero. Bisogna condurlo per gradi.

Il mio ospedale per lui vuole essere, non soltanto il
surrogato più efficiente dello stregone, ma una scuola di vita. Così io gli
insegno di amare il prossimo anche se è di una etnia diversa. Gli insegno a
lavorare, gli faccio vedere che quando il fiume si abbassa nella stagione secca
si può disboscare la riva e piantare qualcosa di diverso dalla manioca. Gli
dimostro che unendo le forze si ottiene un risultato più rapido e più utile per
tutti: deve sentire che le risorse stanno in lui, dentro di lui, che può
operare in questo suo ambiente, purché lo voglia.

Il mio villaggio-ospedale dovrà progredire, da un punto
di vista tecnico, insieme con il progresso generale di tutti i villaggi che gli
stanno intorno per centinaia di miglia: dovrà sempre essere un poco più avanti,
per fare da guida, ma senza perdere il contatto».

Pioniere nei farmaci

Durante la sua permanenza in Gabon Schweitzer si dedicò
prevalentemente all’attività medica e chirurgica, che fu incrementata con
l’arrivo del dottor Marc Lautemburg. «Il dottor Schweitzer, nel campo della
scienza medica – precisa Adriano M. Sancin, chirurgo e ginecologo triestino,
che per oltre trent’anni si è dedicato ad attività organizzative nell’ambito
dell’assistenza sanitaria in Africa ed Estremo Oriente – non fu un genio e non
ha mai inventato nulla. Vanno quindi eliminate certe idee sulla sua genialità
riportate varie volte dai media. Quello che invece ci stupisce di Schweitzer, e
ciò vale per tutte le sfere della sua attività, non è tanto la sua capacità
geniale quanto la pazienza di apprendere. Una pazienza sostenuta indubbiamente
da una straordinaria forza di volontà e favorita, pure, come egli stesso
affermava, da una buona dose di fortuna». Gli interventi principali
riguardavano eie giganti, elefantiasi (malattia provocata dall’ostruzione dei
vasi linfatici da parte di microfilarie, nda), fibromi uterini, gozzi, piaghe e ferite
causate soprattutto dall’attività di disboscamento. Diversi i casi disperati.

Si operava in anestesia generale o locale, e i pazienti
ben presto si resero conto che nessuna magia o farmacopea africana li avrebbe
potuti guarire. Nel 1939 gli interventi furono 700. Contro patologie come
filariosi, malaria, malattia del sonno, lebbra, ulcera fagedenica, affezioni
intestinali, dissenteria, Tbc polmonare o ossea, avitaminosi, etc., venivano
usate sostanze biochimiche sperimentate e prodotte con rigore medico
dall’industria farmaceutica d’oltre oceano.

Ospedale di riferimento

Gli ammalati arrivavano da villaggi che distavano
centinaia di chilometri dall’ospedale, sia lungo il fiume in canoa, sia percorrendo le piste che attraversavano
la foresta vergine. «Dopo un viaggio di 400 o 500 chilometri – osservava
Schweitzer – arrivavano in condizioni pietose (spesso disperate), affamati,
denutriti; e per varie settimane, prima di operarli, dovevamo nutrirli e
rimetterli in sesto». In mancanza di denaro ai pazienti veniva chiesto un
contributo in natura e lavoro.

Si può immaginare quali fossero le difficoltà di
organizzazione e funzionamento di un ospedale nel cuore dell’Africa agli inizi
del secolo scorso, creato dal nulla in un habitat e un clima ostili, senza
collaboratori tecnici competenti.

Anche se Schweitzer non scoprì nulla in ambito medico,
sotto certi aspetti è da considerarsi un pioniere nel trattamento di alcune
patologie tropicali: fu il primo, ad esempio, che introdusse

nell’Africa equatoriale il Promine e il Diasone, due
prodotti per il trattamento della lebbra. Fu il primo pure a sostituire
l’Atoxyl e l’arseno benzolo (farmaci dagli effetti collaterali pericolosi) con
il Germanyl, il Moranyl e il Tryparsamide, molecole che, grazie alla scoperta
della statunitense dottoressa Pearce, avevano rivoluzionato il trattamento
della malattia del sonno. Il farmaco venne sperimentato in parallelo da
Schweitzer a Lambaréné e presso l’Istituto Pasteur di Parigi, ed era
incredibile vedere quei pazienti riprendersi lentamente. Purtroppo sull’impiego
del Tryparsamide gravava il dubbio che provocasse lesioni del nervo ottico con
conseguente cecità permanente. Durante un rientro in Europa, Schweitzer
frequentò la Clinica Odontostomatologica di Strasburgo per perfezionare le sue
conoscenze stomatologiche (ramo della medicina che studia le affezioni del cavo
orale e dei suoi annessi, ndr). Dopo vari viaggi all’interno dell’Europa per tenere
concerti, si fermò ad Amburgo per aggioarsi sui progressi della terapia del
sonno, e frequentare un corso di chirurgia che gli consentisse di affrontare e
risolvere la quasi totalità delle patologie chirurgiche.

Troppa inculturazione?

Non sono mancate le critiche a lui e al suo ospedale, ma
è bene rammentare che l’obiettività è frutto delle cose nella situazione stessa
e nel loro momento storico. Ed è ciò che Schweitzer applicò in pratica nel suo
tanto discusso villaggio sanitario ove accolse gli ammalati e le loro famiglie,
assieme agli animali, e acconsentì a lasciare che i vari gruppi etnici
vivessero secondo i loro costumi, adattandosi egli stesso alla cultura dei
popoli locali e rispondendo alle esigenze degli ammalati, rispettoso com’era,
sino all’eccesso, della libertà individuale degli africani.

Tollerò le loro abitudini tribali, la poligamia, le loro
interminabili discussioni… Risultati di un’improvvisazione che ha avuto come
scopo combattere le sofferenze e guarire i suoi ammalati. «Tutto questo –
affermava – è insito nello spirito del cristianesimo, e come tale si manifesta
più o meno in tutte le religioni delle varie civiltà».

«Le grand docteur» visse in povertà nel suo ospedale, ove il superfluo
era bandito, e fu per questo che le illusioni e le ambizioni nate dall’indipendenza
politica negli anni ’60, determinarono quell’atteggiamento di disprezzo, di
avversione che indusse molti a giudicare la struttura superata o, peggio
ancora, vergognosa.

Forse tardi, ma ancora in tempo, Schweitzer comprese che
l’amore per il prossimo (il vero fine dell’esistenza, la poetica «escatologica»
alla quale il mistero della fede portava, ben al di là delle questioni
filosofiche e teologiche) non poteva avvenire se non sacrificando la propria
vita. Egli trasse l’amara constatazione di vivere in un periodo di decadenza
spirituale, dove la rinuncia a pensare è una dichiarazione di fallimento, ma
risvegliava in lui la forza di combattere per far recuperare dignità all’essere
umano. Nel 1952 gli fu riconosciuto il premio Nobel per la Pace (33.480
dollari) che utilizzò per ampliare e completare «le village lumière»
(villaggio della luce), per la cura fisica e spirituale dei suoi lebbrosi.

Eesto Bodini
_____________________

MC ha già pubblicato scritti dello stesso autore su
Schweitzer a maggio 2004 e gennaio 2008.

Eesto Bodini




La rivolta della dignità 

28-31 ottobre 2014. I quattro giorni che
cambiarono la storia

Blaise Compaoré è
stato cacciato dal potere che teneva saldamente nelle sue mani da 27 anni. La
popolazione, stremata dalla crisi, non era più disposta a subire una classe
politica che viveva nel lusso. Alla rivolta è seguito un processo di
transizione, pacifico e consensuale. Degno di un popolo di pace. Un esempio per
l’Africa.

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Blaise Compaoré è fuggito. A fine ottobre scorso
il «quasi presidente a vita» del Burkina Faso è stato rovesciato da una rivolta
popolare.

Ancora
una volta la gente del Burkina Faso – paese tra i più poveri del mondo, secondo
gli indici dell’Onu – ha voluto dire basta ai soprusi, alla corruzione e allo
strapotere di una certa classe dominante. Una rivolta che molti media hanno
troppo in fretta etichettato come «colpo di stato militare». E invece no, non è
stato un golpe, anche se in qualche modo, i militari hanno cercato di
approfittae.

Il «regno» Compaoré

Ma
facciamo un passo indietro.

Il 15 ottobre del 1987, il presidente carismatico e
visionario Thomas Sankara viene freddato con 12 dei suoi più stretti
collaboratori. Poche ore dopo, sulle onde radio, il capitano Blaise Compaoré,
dichiara che un fantomatico Fronte Popolare «ha deciso di mettere fine al
potere autocratico di Thomas Sankara, e di bloccare il processo di
restaurazione neo-coloniale intrapreso da questo traditore della rivoluzione di
agosto […]». Compaoré, numero due della rivoluzione burkinabè iniziata quattro
anni prima, compagno d’armi e amico di Sankara, aveva deciso di prendere tutto
il potere con la forza. Il comunicato, fitto di menzogne, si rivela il
programma politico di Compaoré. Seguiranno gli anni della «restaurazione
contro-rivoluzionaria», l’amicizia stretta con la Francia, il potere e il
denaro per una ristretta casta che circonda il presidente.

Da quel lontano 15 ottobre Blaise Compaoré è rimasto capo
di stato per 27 anni: il periodo del dopo golpe, seguito da due settennati
(1992-2005) e due mandati di cinque anni. Durante questo lungo regno è
stato scaltro ed equilibrato. Ha dato stabilità al paese e anche saputo farsi
amare dal popolo. Il suo potere ha vacillato solo due volte.

Il 13
dicembre del 1998 il celebre giornalista investigativo Norbert Zongo viene
trovato carbonizzato nella sua auto con due compagni. Zongo stava indagando sul
cruento assassinio dell’autista del fratello minore di Blaise, François.
L’omicidio colpisce fortemente l’opinione pubblica e la gente scende in piazza
per chiedere giustizia. Compaoré, fine imbonitore, inventa «La giornata del
perdono». Riduce i mandati presidenziali da 7 a 5 anni e li limita a un massimo
di due.

Nel
2011 sembra finita l’era Compaoré. La tensione sociale è molto elevata a causa
di una gestione clientelare e corrotta che ha impoverito la maggioranza della
popolazione. Mentre si costruiscono interi quartieri di sfarzose ville a
Ouagadougou – per investire soldi di vari traffici regionali e quelli distolti
dalla cooperazione internazionale – nel resto del paese mancano acqua potabile,
centri medici, scuole elementari. La malnutrizione è, ancora oggi, causa
diretta o indiretta del 35% dei decessi.

Alcune
manifestazioni della società civile di studenti, magistrati, commercianti
scaldano il clima politico. Ma i veri rischi arrivarono dai militari, a più
riprese con un primo ammutinamento a marzo e una rivolta nella guardia
presidenziale il mese successivo. Compaoré tenta di placare gli animi con un
cambio di governo e misure per calmierare i prezzi dei beni alimentari più
diffusi.

Poi,
per la prima volta, deve reprimere nel sangue un’insurrezione di un gruppo di
militari a Bobo Dioulasso, la seconda città del paese.

Infine… la crisi

Blaise Compaoré non potrà più presentarsi come candidato
alle elezioni previste nel 2015, ma non vuole farsi da parte. Qualcuno sostiene
che il suo entourage voglia mantenerlo al potere, preoccupato di perdere i
privilegi acquisiti. Lui potrebbe terminare il mandato e poi essere nominato ai
vertici di una organizzazione internazionale. Invece no, e fin dal 2012 si
preoccupa di modificare l’articolo 37 della Costituzione che limita a due i
mandati presidenziali. Tenta pure di
creare il Senato (il parlamento burkinabè è unicamerale), che sarebbe
strumentale alla modifica costituzionale.

Un’altra
via sarebbe passare per un referendum costituzionale, ma il presidente lo teme,
perché sarebbe, di fatto, un voto sulla sua persona.

Nel
2013 il clima politico si scalda. La società civile non vuole che la
Costituzione sia modificata e manifesta contro il referendum. Il movimento Le
balai citoyen, (letteralmente: La scopa cittadina) fondato da
due cantanti di successo, è tra i più attivi. Contrari sono anche i partiti
politici dell’opposizione come l’Upc (Unione per il progresso e il cambiamento)
del leader Zéphirin Diabré e l’Unir-PS dell’avvocato Bénéwende Sankara.

La
capitale Ouagadougou diventa teatro di diverse manifestazioni di piazza contro
l’impunità, la corruzione e in opposizione al cambiamento costituzionale: a
maggio, giugno e luglio. Sono organizzate dalla Coalizione contro il carovita,
che riunisce sindacati a associazioni della società civile.

A sorpresa il 15 luglio 2013 i 16 vescovi del Burkina
pubblicano una lettera pastorale che esprime grande preoccupazione per la «frattura
sociale» in aumento e prende posizioni forti chiedendo un impegno a chi
governa: «Affinché il Burkina Faso non diventi una polveriera occorre ricercare
la giustizia, operare per una trasformazione sociale e democratica profonda
promuovere i valori cardinali di solidarietà e sussidiarietà». E raccomanda: «Più
equità nella distribuzione della ricchezza, più trasparenza nella gestione
degli affari pubblici, più etica nei comportamenti sociali e politici» (si veda
MC dicembre 2013).

La
svolta politica avviene nel marzo 2014: un gruppo di stretti collaboratori di
Blaise lascia il partito per creae uno nuovo, il Mpp (Movimento del popolo
per il progresso). Tra loro Salif Diallo, Roch Marc Christian Kaboré e Simon
Compaoré, tutti pezzi grossi del regime. La macchina di potere che Compaoré ha
messo in piedi in 27 anni inizia a mostrare segni di debolezza.

Tentato scacco matto

Il
presidente ha un asso nella manica. Ottiene un accordo con Gilbert Ouedraogo, leader
del Adf/Rda (Alleanza per la democrazia e la federazione), terzo partito del
paese: i suoi deputati voteranno la modifica costituzionale. In questo modo
Blaise avrà 99 voti contro 28 dell’opposizione: la maggioranza qualificata per
modificare la Costituzione è garantita e il referendum evitato.

Partiti di opposizione e società civile fanno un fronte
unico per impedire a Compaoré di ricandidarsi. Il 28 ottobre scorso si svolge a
Ouagadougou una grande manifestazione chiamata: «Giornata nazionale di protesta».
Si conta quasi un milione di persone che sfilano pacificamente per le strade
della capitale.

Ma la
tensione sale. All’alba del 30 ottobre, giorno previsto per il voto
all’Assemblea Nazionale, la folla si dirige verso l’emiciclo e lo occupa
distruggendo e appiccando il fuoco. La stessa sorte tocca alla sede della Tv di
stato e alle sedi del partito al potere Cdp (Congresso per la democrazia e il
progresso) e dell’Adf/Rda. Anche le case di molti politici sono saccheggiate.

Poi la folla si sposta verso l’enorme palazzo
presidenziale Kosyam, che Compaoré si è fatto costruire a Ouaga2000, il
quartiere di lusso della capitale. Qui si evita il bagno di sangue grazie a una
negoziazione tra guardia presidenziale e manifestanti. A fine giornata si
conteranno comunque 24 morti e alcune centinaia di feriti.

Il presidente Compaoré tenta ancora di usare il suo
talento di imbonitore. Dichiara disciolto il governo e l’Assemblea Nazionale e
afferma che ci sarà una transizione di 12 mesi. Ma non si fa da parte. È troppo
tardi. Il popolo burkinabè non ne vuole più sapere di lui.

Sono
ore cruciali, tutto dipende dalla posizione che prenderà l’esercito. La
negoziazione tra vertici militari, uomini del presidente e delegati dei
manifestanti è serrata.

«Vattene!»

Il 31
ottobre, gli autobus arrivano numerosi dai quattro angoli del Burkina. La
parola d’ordine è «Blaise dégage!»
(vattene). «La folla è composta in gran parte da giovani e da donne» ci
racconta un testimone, «e sono tutti molto determinati». E ancora: «Affronteremo
i militari a mani nude, a mani alzate. Sparateci se volete, noi non ci
spostiamo. Staremo in piazza finché Compaoré non si dimette. Senza violenza».

Se è
difficile che un militare burkinabè spari su un suo connazionale indifeso, non è
detto che sia lo stesso per militari e mercenari togolesi, di cui si è
circondato il fratello di Blaise, François, e con buona probabilità lo stesso
presidente.

Alle 13 Compaoré fa leggere un suo comunicato di «dimissioni»
alla radio. Lui è già su un convoglio che lo conduce verso la frontiera con il
Ghana. Ma sarà un elicottero francese di base a Ouagadougou a mettere in salvo
lui e la famiglia. Saranno poi trasferiti in Costa d’Avorio e, infine, in
Marocco.

Dopo
l’annuncio la tensione si rilassa. Seguono ore di confusione per il vuoto di
potere. L’esercito, unica istituzione funzionante rimasta, prende il controllo
e gli alti graduati nominano capo di Stato il colonnello Yacouba Isaac Zida il
numero due della guardia presidenziale.

Transizione

L’uomo
forte sospende la Costituzione ma, da subito, dichiara di voler gestire una
transizione con l’accordo tra tutte le parti: «Per noi è importante arrivare a
un consenso a partire dal quale potremo, nell’arco di un anno, andare a
elezioni il cui risultato sia accettato da tutti. Percorreremo una nuova via
costituzionale nella pace e nella serenità per tutti i burkinabè».

La
preoccupazione della comunità internazionale è che la transizione sia gestita
dai civili.

Le
consultazioni tra militari, partiti di opposizione e responsabili religiosi
(tra i quali il cardinal Philippe Ouedraogo, vedi inervista MC dicembre 2013)
portano alla definizione degli organi di transizione e di come saranno messi in
piedi. Presidente, governo e Consiglio nazionale di transizione resteranno in
carica 12 mesi con l’obiettivo di organizzare le elezioni del novembre 2015. Il
processo è definito nei dettagli nella Carta di transizione, che, firmata da
tutte le parti il 16 novembre, va a completare la Costituzione del 2 giugno 1991.

Tutte
le persone nominate, ad eccezione dei componenti del Consiglio nazionale (il
parlamento provvisorio) non potranno essere ricandidate alle legislative e
presidenziali del 2015.

Un
Collegio di designazione composto da società civile, partiti politici e
militari sceglie così il presidente di transizione nella figura di Michel
Kafando. Settantadue anni, diplomatico di carriera, è stato ministro degli
esteri e ambasciatore del Burkina alle Nazioni Unite. Non si è mai iscritto a
un partito politico.

Kafando
nomina primo ministro lo stesso tenente colonnello Isaac Zida, 49 anni,
militare poliglotta, con diverse esperienze inteazionali.

Il
paese è nelle mani di due uomini: l’anziano saggio e il giovane dinamico. Il
civile e il militare. A sottolineare l’importanza dell’esercito nella
transizione. I due identificano i ministri del governo di transizione e li
presentano domenica 23 novembre. Zida mantiene il dicastero della Difesa,
mentre Kafando tiene per se quello degli Esteri.

I
militari si aggiudicano anche il ministero dell’Amministrazione territoriale e
Sicurezza (Inteo) e quello strategico dell’Energia e Miniere, oltre a quello
dello Sport. Altri dicasteri vanno alla società civile, mentre i responsabili
dei partiti politici non entrano nel governo per non essere esclusi dalle
prossime elezioni.

Il
ministero della Giustizia è affidato a Joséphine Ouedraogo, già ministro di
Thomas Sankara (1984-1987), esperta internazionale di questioni di genere. È
molto conosciuta in Africa ma poco nel suo paese, dove è rientrata solo nel
2012. A lei sarà affidata la riforma della giustizia che, insieme a quella di
difesa ed economia, sarà uno dei cavalli di battaglia del governo di
transizione, ha dichiarato il premier Zida dopo il primo consiglio dei
ministri.

Contestato
invece, il ministro della Cultura, Adama Sanon, in quanto già procuratore al
tempo del processo sull’assassinio di Norbert Zongo, è accusato dalla società
civile di aver affossato il dossier e impedito il corso della giustizia. Si
dimette pochi giorni dopo la nomina.

La
comunità internazionale tira un respiro di sollievo, in particolare Usa e
Francia, che hanno contingenti militari in Burkina nell’ambito della guerra
contro il terrorismo.

In
Burkina Faso il 60% dei 17 milioni di abitanti ha meno di 25 anni. Giovani nati
e cresciuti sotto il regime Compaoré e che ora hanno deciso di rischiare tutto
per cambiare. È la vera forza di una nazione, giovane e vivace, che ha saputo
dare una svolta al proprio destino: «Osare inventare l’avvenire», diceva Thomas
Sankara.

Marco Bello

Marco Bello




Narrare la misericordiadi Dio

Il pensiero di papa Francesco
Papa Francesco ha una visione di Dio come luogo della misericordia. Essa è un vero e proprio baricentro del modo di vedere e operare di Dio. «Non c’è alcun limite alla misericordia», diceva domenica 6 aprile 2014. E ancora: «Dio ha tanta misericordia con noi. Impariamo anche noi ad avere misericordia con gli altri, specialmente con quelli che soffrono».

 

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Come papa Francesco, anche Giovanni Paolo II sottolineava il tema della misericordia: «Al di fuori della misericordia di Dio non c’è nessun’altra fonte di speranza per gli esseri umani», e aggiungeva: «In Cristo Gesù, Dio ha assunto davvero un cuore divino, ricco di misericordia e di perdono, ma anche un cuore umano, capace di tutte le vibrazioni dell’affetto». Questo spiega come mai Giovanni Paolo II abbia istituito un giorno dedicato proprio alla misericordia, la domenica dopo la Pasqua, nonostante tutta la liturgia sia già, di per sé, piena di termini che rimandano a essa.

Ciò che caratterizza la catechesi di papa Francesco è il primato della misericordia in tutta la sua azione pastorale.

Il primato della misericordia, riferito a una delle Beatitudini («Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia», Mt 5, 7), è stato indicato dal papa anche come tema della giornata mondiale della gioventù che si terrà nel 2016 a Cracovia, la città polacca dove Giovanni Paolo II fu vescovo negli anni 1964-1978.

Ma il tema scelto da papa Bergoglio ci suggerisce che sono misericordiosi anche gli uomini capaci di sentire come proprie le miserie e le difficoltà degli altri, che si preoccupano e si danno da fare di fronte alla sofferenza altrui. È questa una grazia, un puro dono di Dio. Chi lo riceve rimane radicalmente orientato a comportarsi allo stesso modo di Dio con tutti gli altri, uomini e donne, di qualsiasi età e condizione sociale.

Papa Francesco parla continuamente di misericordia, e la gente ha recepito subito e bene. Uno dei ricordini che a Roma i pellegrini comprano di più è la «misericordina», una scatoletta simile a quelle dei farmaci con dentro un rosario. Non soltanto ai pellegrini papa Francesco parla in questo modo, ma anche agli intellettuali agnostici, come è successo con la lettera che ha scritto a Eugenio Scalfari, il fondatore del quotidiano la Repubblica: «La misericordia di Dio è infinita, non ha limiti, la verità di Dio è l’amore…». Papa Francesco definisce Dio come misericordia, così come l’evangelista Giovanni definisce Dio come amore; in fondo entrambi dicono la stessa cosa, perché per sua natura l’amore è misericordioso.


Vi è un testo molto bello nel libro del profeta Osea: «A Efraim io insegnavo a camminare, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincolo di amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare. Come potrei abbandonarti, Efraim […]. Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione […] perché sono Dio e non uomo; sono santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira» (Os 11, 1-9).

Efraim è il secondo figlio di Giuseppe, nato in Egitto, fratello di Manasse. I profeti usarono questo nome per indicare l’intero regno di Israele. Ma che cosa dice il testo?

  • * Dio si cura di noi e ci insegna a camminare, ci guida come un padre.
  • * Usa verso di noi legami di bontà e vincoli di amore.
  • * Ci porta in braccio fino a toccare la nostra guancia con la sua.
  • * Si china su di noi e non ci abbandona.
  • * Si commuove e freme di compassione.

E tutto questo perché è santo e non si adira contro di noi.

Siamo di fronte al paradosso incomprensibile dell’amore di Dio per noi. Dio è il santo, il trascendente: la sua santità, la sua natura misteriosa è il solo fondamento possibile della sua misericordia verso chi si allontana da Lui e lo abbandona con il peccato (Gr 3, 12-19; 31, 20).

Vi è un altro testo del profeta Osea che mette bene in luce la bontà amorosa di Dio: «Ella inseguirà i suoi amanti, ma non li raggiungerà; li cercherà senza trovarli. Allora dirà: “Ritoerò al mio marito di prima perché ero più felice di ora […]. Perciò, ecco, l’attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò sul suo cuore […]. Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (Os 2, 8-9. 16. 21-22).

Osea ha fatto l’esperienza di un amore che l’ha tradito, la sua donna lo ha lasciato. Attraverso l’esperienza del peccato Israele ha penetrato a poco a poco la profondità della bontà e della misericordia di Dio. Dio è sempre disposto all’amore per un figlio ingrato; è lo sposo sempre fedele, pronto ad accogliere la sposa infedele. Dio è solidale con il suo popolo, lo mette davanti al suo peccato e lo provoca al pentimento.

Ma fino a che punto Dio si può impegnare con gli uomini? Fino a che punto arriva il suo perdono e la sua misericordia? Gesù solo può rispondere a queste domande. Egli, infatti, ha il compito di rivelare la misericordia del Padre. Fin dall’inizio del suo Vangelo, Luca canta la misericordia di Dio: essa si estende di età in età, di generazione in generazione; si manifesta nella nascita di Giovanni Battista; Zaccaria proclama che Dio ha concesso la sua misericordia ai padri antichi e che, con la nascita di Giovanni, inaugura l’opera della sua misericordia.

Tutti gli atti di Gesù si pongono in questa linea: «Io voglio misericordia, non sacrifici», «Sono venuto per i peccatori, non per i giusti». È il suo programma di vita e di annuncio. È la misericordia di Dio. Per questo Gesù predilige i poveri, è l’amico dei pubblicani, siede alla loro tavola, lascia che gli si avvicini una peccatrice e con infinita delicatezza la perdona. Gesù è venuto a «cercare e salvare ciò che era perduto» (Lc 19, 10; cfr. Lc 4, 18; 7, 22.34.39; 19, 5).

Spesso gli evangelisti usano un verbo molto significativo per indicare la misericordia di Dio verso di noi: «Commuoversi fin nell’interiora», sentire uno sconvolgimento simile a quello della madre verso il figlio portato nell’utero. Misericordia è come la dimensione matea dell’amore. E questo termine è usato dagli evangelisti per descrivere le azioni di Gesù che ne evidenziano la missione. Ecco alcuni esempi: «Sbarcando, Gesù vide una folla numerosa e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» (Mc 6, 34; cfr. Mt 14, 14). Matteo usa un’espressione che riassume il mistero di Gesù: «Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore senza pastore» (Mt 9, 36).

Gesù si comporta come il Dio di misericordia descritto nell’A.T., le cui viscere tremarono alla vista del popolo oppresso dai peccati e dalla schiavitù d’Egitto. Così Gesù appare senza difesa davanti alla miseria e alla sofferenza degli uomini, è la misericordia incarnata di Dio. La parabola del Figliol Prodigo o, meglio, del Padre buono e misericordioso, del Padre con viscere di madre, è una chiara testimonianza. Vi è evocata tutta la storia dell’A.T. Il figlio più giovane (come Israele), si allontana dal padre (da Dio), e fa esperienza di peccato, di povertà e fame. Ricorda il tempo dell’abbondanza e, come la sposa di Osea, dice: «Mi leverò e andrò da mio padre». Il padre è lì in attesa e, quando il figlio è ancora lontano, lo vede, si commuove, gli corre incontro e lo bacia. Di fronte a questo atteggiamento, scribi e farisei sono sconcertati.

La misericordia di Dio si estende a tutti gli uomini. Lo sottolinea in particolare Paolo: «Dico infatti che Cristo si è fatto servitore dei circoncisi in favore di Dio vero, per compiere le promesse dei padri: le nazioni pagane invece glorificano Dio per la sua misericordia» (Rm 15, 8-9). Pagani e giudei, tutti sono uguali davanti a Dio, perché tutti hanno peccato e tutti hanno assoluto bisogno della misericordia di Dio. È questa la teologia contenuta nella lettera ai Romani, riassunta con incisività e vigore in Ef 2, 4-7: «Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere in Cristo; per grazia infatti siete stati salvati e ci ha risuscitati in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù». A causa della sua misericordia Dio ci salva. La parola chiave di tutta la storia umana in relazione a Dio è dunque la misericordia.

Uno degli aspetti essenziali della misericordia di Dio è la gratuità. Dal momento in cui Dio ha deciso di avvicinarsi all’uomo per farsi conoscere, ha già preso la decisione di perdonarlo. L’incontro di Dio con l’uomo è sempre in vista del perdono, della pace, della riconciliazione. La storia della salvezza non è altro che la storia di questo incontro, che diventa totale e decisivo fino a farsi definitivo in Cristo Gesù. «Quando però si sono manifestati la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiuta, ma per sua misericordia mediante il lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna» (Tt 3, 4-7). Proprio perché totalmente gratuita, senza supporre nulla da parte dell’uomo peccatore, la misericordia chiede di essere accettata e creduta. Il Signore è vicino all’uomo per donargli la sua misericordia.

Dire misericordia è dire qualcosa di inaudito sulla vita intima di Dio. Non vuole dire quindi solo che Dio ci riconcilia a Lui, ma anche che egli si svela come misericordioso. È questo un mistero che supera le nostre capacità di comprendere Dio nella sua realtà. C’è un mistero di sovrabbondanza del dono di Dio, di misericordia, al punto che Paolo esclama: «Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza in rapporto al peccato, per usare a tutti misericordia […]. O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono impenetrabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! Infatti, chi mai ha potuto conoscere il pensiero del Signore? […] O chi gli ha dato qualcosa per primo, sì che abbia a ricevee il contraccambio? Poiché da lui, grazie a lui sono tutte le cose» (Rm 11, 32-36). La misericordia di Dio non è dunque un attributo secondario: è il volto stesso dell’amore di Dio per noi. Per questo Dio non si pentirà mai di essere misericordioso. La misericordia impegna l’amore infinito ed eterno che è Dio: «Dio è amore», ha scritto l’evangelista Giovanni.

Una misericordia che cancella totalmente il peccato. La misericordia che si manifesta attraverso la persona di Cristo non è mai arrogante, ma è quella di un servitore dolce e umile di cuore. Non cade dall’alto, non mantiene le distanze, si fa semplice, vicina. Non è sentimentalismo. È la misericordia di Dio che cancella veramente il peccato. Il suo primo effetto è di perdonare, rialzare, guidare.

A volte si dice che l’insistenza del cristianesimo sul peccato ha ossessionato patologicamente l’umanità. Un certo modo di presentare le verità cristiane può avere favorito una tale interpretazione, e avere dinanzi certi confessori anche. Occorre sempre ricordare che non si può mai slegare il peccato dal perdono e dalla misericordia di Dio. La misericordia ha la capacità di risvegliare il peccatore: «Se son caduto, mi rialzerò; se siedo nelle tenebre il Signore sarà la mia luce» (Michea 7, 7-9).

Infine, la misericordia è la prima e ultima parola della fede. Le difficoltà e la durezza dell’esistenza, per chi accetta la parola di Dio, acquisiscono un tono, un significato diverso e nuovo. Il mondo nella sua concreta realtà di bene e di male appare più accettabile. Accanto alla durezza della vita, il credente scopre la misericordia materna e paterna di Dio. Solo in questa prospettiva si possono comprendere il senso degli avvenimenti della nostra vita e della nostra storia umana. È questa la sconcertante rivelazione di fronte alle tragedie umane: «Voi siete i miei testimoni, che io mi sono scelto perché mi conosciate e crediate in me e comprendiate chi sono io». Chi crede osa leggere gli avvenimenti nel linguaggio della misericordia, dell’amore e della bontà di Dio per noi, e acquisisce la facoltà di illuminare la durezza dell’esistenza e della storia umana. Lo dice il salmo 103/102, 8: «Buono e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore», frase che l’evangelista Matteo invita a tradurre in una Beatitudine: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5, 7).

Giampietro Casiraghi

Giampietro Casiraghi




«Annunzia quanto ti dirò» Convegno Nazionale Missionario – Sacrofano 2014

IV CONVEGNO MISSIONARIO NAZIONALE /1
Sacrofano (Roma) 20-23/11/2014

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«
Annunzia quanto ti dirò»

Dopo la prima tappa, la preparazione durata un anno,
si è conclusa la seconda: la celebrazione del «IV Convegno missionario
nazionale 2014», organizzato nei giorni 20-23 novembre dall’Ufficio
nazionale per la cooperazione tra le Chiese della Cei
, dalla Fondazione
Missio
e dalla Fondazione Cum a Sacrofano (Roma). Inizia ora la
terza tappa: la continuazione. La sfida è narrare e testimoniare quanto
si è vissuto, passare dalle parole ai fatti. È l’impegno raccolto dagli 880
partecipanti provenienti da ogni angolo d’Italia: 520 giovani e adulti (di cui
50 volontari) impegnati con i Centri missionari delle varie diocesi d’Italia o
in associazioni di sostegno alla missione, 230 sacerdoti, missionari e fidei
donum
, e 130 religiosi e religiose.

Cominciato nel pomeriggio di giovedì, e concluso col
pranzo di domenica, il Convegno ha seguito un ritmo intensissimo, marcato da
preghiera, incontri, relazioni, lavori di gruppo, testimonianze e momenti di
festa. L’udienza con papa Francesco alle nove di sabato 22 ha scaldato il cuore
di tutti.

I relatori sono stati:

* il biblista mons. Ambrogio Spreafico, vecovo di
Frosinone e presidente dell’Ufficio nazionale per la cooperazione tra le
Chiese, che ha presentato una relazione dal titolo «Alzati e va’ a Ninive – La
Parola di Dio nella globalizzazione»;

* suor Antonietta Potente, della famiglia
domenicana, insegnante di teologia presso l’Università cattolica di Cochabamba
in Perù, che ha proposto una riflessione a partire dalle tentazioni di Gesù;

* il prof. Mauro Magatti, sociologo ed economista, e
la prof.ssa Chiara Giaccardi, sociologa, che – come coniugi e come
esperti – hanno affrontato il tema dell’incontro da un punto di vista
antropologico;

* il prof. Aluisi Tosolini, filosofo e pedagogista,
che ha presentato una fotografia del «battito della missione» oggi in Italia
attraverso la rilettura dei contributi arrivati negli scorsi mesi alla
commissione preparatoria del convegno;

* padre
Gustavo Gutiérrez
,
peruviano, uno dei padri storici della teologia della liberazione.

Pubblichiamo le prime tre parti del testo conclusivo del
Convegno, preparato dalla segreteria dello stesso. La seconda parte apparirà
sul prossimo numero di MC, riservandoci di tornare in futuro sulle singole
relazioni, per offrire ai nostri lettori materiale su cui continuare il cammino
del Convegno, e «far ricadere a livello locale (regionale e diocesano) quanto
vissuto a Sacrofano».

Gigi Anataloni


Linee e orientamenti pastorali per un rinnovato impegno
missionario «lontano» (fuori dall’Italia) e «ai lontani» delle nostre comunità
cristiane

A. LO SGUARDO INIZIALE

Ci sembra importante iniziare riaffermando brevemente gli
obiettivi generali che questo Convegno si era prefisso.

<
Riaccendere la passione e rilanciare la dedizione dei singoli e delle comunità
cristiane per la missio ad gentes e inter gentes, a
partire dai poveri, come paradigma dell’annuncio (missione «lontano»).

<
Studiare nuovi modi e stili di
presenza missionaria
nella nostra realtà (missione «ai
lontani»).

B. RIPARTIRE DALLA PAROLA

Vorremmo tornare sull’icona biblica che ha fatto da sfondo
al Convegno, quella di Giona, unendola a un’altra icona biblica, il racconto
evangelico della tempesta sedata nella versione di Marco 4. Proponiamo alcuni
spunti:

< «Alzati e va’ a Ninive, la grande città». Dio ci
chiama a «uscire» per andare verso la grande città, periferia ostile, abitata
da nemici. È Dio che chiama e manda, non siamo noi a scegliere.
Il problema di Giona è accettare di andare nella direzione giusta, non dove lo
spinge la paura. Ninive è la grande città, che fa paura a Giona e al mondo.
Giona non viene mandato per chiamare alla conversione. La parola che deve dire è
semplice: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta». Giona cioè deve far
emergere il male e la violenza della città. Certo il profeta si sarà chiesto:
chi sono io per andare a dire questo agli abitanti di Ninive? Noi siamo in un
mondo, dove il male è forte. Il male e la violenza sono il vero dramma di
Ninive
e del mondo. Lo abbiamo detto in questi giorni: la guerra, la violenza,
la povertà, l’abbandono dei vecchi, i profughi, le persecuzioni… in una parola:
la missio ad gentes è missio ad pauperes.

< Giona fugge. Questa missione fa paura. Ma senza coscienza
della forza del male non si capisce l’urgenza e la necessità della missione.
Per questo Giona deve sperimentare in se stesso la forza del male nell’abisso,
nel ventre di un pesce. Giona scopre così il bisogno di essere liberato,
salvato. Scopre che da solo non si può salvare, che esiste una forza
invincibile, che da soli non possiamo combattere.
Così è avvenuto ai discepoli di Gesù nel mare in tempesta. Erano sulla barca
con lui, ma con loro c’erano altre barche. Si potrebbero identificare le altre
barche con la vita dei tanti nella tempesta del mondo. C’è Gesù, ma c’è anche
la tempesta. Quel mare in tempesta è come quello di Giona. Paura, pericolo. Da
soli i discepoli non ce la fanno.
Gridano e Gesù li salva, fa tacere il mare e il vento.
Ma nel mondo si è persa la coscienza del male e della sua forza. Tutto è
anestetizzato, esorcizzato, giustificato. Tutto è normale, anche gli stranieri
che muoiono nel Mediterraneo o i vecchi abbandonati in istituto. Poca coscienza
del peccato, perché scarsa è la coscienza del male. Eppure non siamo liberi,
siamo al contrario pieni di paure che non riusciamo a vincere.
Solo nell’abisso, solo nella tempesta, i discepoli capiscono che c’è Ninive,
il male, ma che c’è anche Gesù.
Lui solo può vincere quella tempesta (che
rappresenta il male).

< La vita cristiana è lotta contro il male. Questa è
la missione ad extra e ad intra.
E il racconto della tempesta sedata, in Marco, giunge dopo le parabole del
seme, della Parola di Dio gettata nel campo del mondo. Il male la contrasta, la
vorrebbe soffocare. La missione fa rivivere la Parola annunciandola.
I Vangeli sono pieni di racconti di guarigione. Nel nostro tempo sono molte le
persone che vanno a Medjugorje, ai santuari, che si affidano a volte a
guaritori e santoni. Esiste una domanda di guarigione nella gente. La domanda è:
il Vangelo che noi viviamo e comunichiamo, guarisce, libera dall’abisso del
male?

< Senza andare
a Ninive, senza andare nelle periferie più ostili, non c’è missione.
I poveri ci evangelizzano, come ci ha detto in questi giorni Papa Francesco,
innanzitutto perché ci trascinano là dove il dramma del male è più forte.
Questa è la domanda della missione. Bisogna imparare a guardare con
compassione, entrando nella lotta per il bene.

Lasciamoci come icona finale quella che l’apostolo Paolo,
grande missionario del Vangelo alle genti, usa in Efesini quando esorta a
rivestirsi dell’armatura di Dio (Ef 6,10-20). Questa è anche una Chiesa in
uscita, una Chiesa che vive per la strada, incontra, ascolta, parla, dialoga,
lotta.

Il mondo non ha bisogno di una Chiesa dietro le barricate,
ma di una Chiesa che esce
e incontra,
perché la gioia del Vangelo raggiunga tutti, a cominciare dalle periferie più
lontane. Solo così sarà attraente.

Rivestiamoci allora di un nuovo entusiasmo e viviamo a
pieno la gioia e la bellezza della vita cristiana, senza pessimismi e lamenti.

C. QUELLO CHE NOI ABBIAMO UDITO, VEDUTO, CONTEMPLATO

Nell’elaborazione di questo nostro Convegno è stato scelto
di dare grande rilievo alla fase preparatoria e alla fase del post-Convegno. La
fase celebrativa che abbiamo vissuto non può infatti essere scissa dalle altre
due. E questo vorremmo sottolinearlo con forza: oggi non terminiamo il
nostro Convegno, ma iniziamo la terza fase del percorso
.

Riprendiamo i tre verbi da cui siamo partiti nel cammino
di preparazione: «Uscire, incontrare, donarsi», utilizzando come riferimento
quello da cui derivano tutti gli altri: uscire.

USCIRE.

< È la Parola di Dio la protagonista del cambiamento a
Ninive. Possiede una forza inaspettata. Ma non opera da sola: c’è bisogno di
qualcuno che accetti di uscire per andare alle periferie.

<
Uscire è rispondere alla chiamata di
Dio che ci chiede di andare al di là di noi stessi, del nostro individualismo
ed egoismo. In un mondo globalizzato, ma frammentato e tribale, la missione usa
una parola che unisce, crea comunione e aiuta a sognare la pace.

< Mentre viviamo la percezione di essere sotto assedio
perché non abbiamo ancora elaborato il lutto della fine della civiltà cattolica
(come abbiamo visto dall’analisi del materiale raccolto durante la fase
preparatoria), dobbiamo sfidare noi stessi per scegliere di uscire
dall’assedio.

< Uscire per correre il rischio di camminare in spazi
sconosciuti. Uscire per avere il coraggio di affrontare nuove domande e nuove
sfide.

Dal verbo «uscire», che dobbiamo imparare a declinare nel
nostro quotidiano, si dipanano, come in un lungo filo, altri verbi che sono
ricorsi in tutte le relazioni ascoltate in questi giorni.

Ma elencare questi verbi non esaurisce il processo che si è
messo in moto attraverso il Convegno. Ascoltare questi verbi è ascoltare una
storia che non avrà fine finché ci saranno narratori che avranno voglia di
raccontarla.

Immaginiamo quel vecchio gioco in cui un bambino comincia
una storia, che viene continuata dal suo vicino, e poi da un altro bambino, e
così via. Ecco, questo è quanto dobbiamo fare noi con le tante parole di questo
nostro Convegno, con i verbi che prendono slancio da «uscire». Non c’è nulla di
chiuso, nulla di concluso in queste righe che fanno da sintesi. Ciascuno di noi
è, anzi, invitato a riprendere questi verbi e a continuare il racconto.

< D’altronde, uno di questi verbi è proprio NARRARE.
Uscire dalle retoriche consuete per assumere nuove narrazioni. Evangelizzare è
narrare.
Per questo è tempo di testimoni che mostrino come l’eccedenza di fede sia
generatrice di vita. Quello che abbiamo sperimentato viene, così, detto
nuovamente, con una parola che racconta, che narra, in una prospettiva di
significato e di relazione.
Occorre trovare un linguaggio nuovo che non abbia come unico intento
quello dell’informazione, ma anche quello della narrazione, che è un’arte da
coltivare. Come l’antico griot africano capace di dare senso alla
memoria, alla tradizione, all’identità di un popolo.

< GUARDARE. Non è possibile fare a meno di uno sguardo
attento sulla realtà. Uno sguardo che sia capace di compassione. Giona non sa
guardare in questo modo, e la mancanza di compassione coincide con l’incapacità
di guardare oltre se stessi.
La missionarietà è coltivare uno sguardo nuovo e generativo, in grado di
cogliere il piccolo nel grande, di creare novità, e di ricomporre la
frammentazione in un mondo globale come quello in cui viviamo. Dobbiamo
cambiare il nostro sguardo per guardare la realtà, imparare a leggere i segni
dei tempi.

< E poi, ANDARE e STARE. L’uscire è un movimento
fatto di andare e stare. Che non sono due movimenti contrapposti, ma bensì
legati in un dinamismo che radica l’andare e apre lo stare. Allora andare non è
seguire l’itinerario tracciato da un altro, una strada prestabilita, ma essere
disponibili all’incontro
, a fermarsi per narrare, per testimoniare. E stare
non è rinchiudersi in se stessi in una dimensione intimistica, ma significa
stare con la porta aperta.

< ABITARE. Il quadro in cui stiamo vivendo in questi anni è quello
del villaggio globale, affiancato dalla città-mondo, in cui si concentra il 50%
della popolazione mondiale divisa tra luoghi di élite e luoghi di scarto. In
questo contesto abitare il mondo significa rendere reale una possibilità di
vita
.

Il rapporto tra centro e periferia non dipende più solo da fattori geografici.
Viviamo continue situazioni di frontiera, condizione che può essere luogo di
opposizione, ma anche di incontro.
Se utilizziamo uno sguardo nuovo, saremo capaci di abitare tempi, spazi e luoghi,
di far percepire la nostra presenza, abitare per esserci, dove la parte
importante del termine è la particella «ci».

< Guardare e abitare il villaggio globale, provoca
un’ulteriore azione inscindibile dalle altre due: DENUNCIARE. Non
possiamo solamente aiutare i poveri, gestire l’emergenza, ma dobbiamo
denunciare le cause della povertà
. La povertà dipende dall’uomo, è una
creazione dell’uomo. Non esiste solo l’aspetto economico, ma anche quello
spirituale, culturale e sociale. La povertà è multidimensionale. Siamo chiamati
a denunciare ingiustizia e oppressione, soprusi e violenze. Piccoli e grandi.
Partendo dai mille gesti quotidiani delle nostre giornate fino alle strutture
inique che governano il mondo.

< Ma dobbiamo anche FARE RETE.

Come Chiesa missionaria non possiamo che scoprirci come una grande rete
globale
.
Fare rete è l’azione chiave, elemento costitutivo su cui progettare e
concretizzare ogni nostro obiettivo e intento.
Viviamo nel tempo della società in rete, ma ci sentiamo incerti, fragili,
incapaci di controllare la realtà. La paura ci spinge a fare come Giona che
fugge. Invece noi siamo chiamati a camminare lungo tutte le strade delle Ninive
di oggi e scoprire che abbiamo già una grande rete globale che possiamo
utilizzare da un lato e servire dall’altro.

< Infine, STUDIARE.
Questa sollecitazione è emersa dai relatori, ma è emersa anche dai gruppi che
hanno lavorato insieme nei laboratori: il bisogno di formazione a vari
livelli
e la richiesta di orientamenti per concretizzarla.

Le parole chiave del Convegno sono quindi questi verbi che
abbiamo citato, ma i verbi sono lemmi grammaticali che hanno bisogno, per
connotare meglio l’azione che esprimono, di avverbi e di aggettivi. Per questo,
ci viene in aiuto Papa Francesco, con il discorso a noi rivolto durante
l’udienza privata di sabato 22 novembre.

Il Papa ha sottolineato come lo
spirito della missio ad gentes deve diventare lo spirito della missione
nel mondo
. «Una chiesa missionaria non può che essere in uscita: non ha
paura di incontrare, di scoprire le novità, di parlare della gioia del Vangelo».
E per questo – ha aggiunto – «vi chiedo di impegnarvi con passione».

Uscire significa superare la tentazione di parlarci tra
noi. Il Vangelo di Gesù si realizza nella storia. Gesù stesso fu un uomo di
periferia e la sua Parola è stata l’inizio di un cambiamento nella storia. «Tenete
alto nel vostro impegno lo spirito di Evangelii Gaudium» e siate testimoni «con
entusiasmo».

I nostri verbi quindi devono essere declinati «con
passione»
, «tenendo alto» e «con entusiasmo».

Un altro elemento da cui attingere per coniugare i verbi
chiave del Convegno, è indubbiamente il clima respirato, il tipo di interazione
che si è creata tra i partecipanti, che è stata certamente positiva. Non è
riduttivo definirla così: durante il confronto nei laboratori, si è infatti man
mano abbandonata la categoria del lamento, l’uso come filtro visivo della
fatica sperimentata quotidianamente, per lasciare invece spazio alla gioia
dell’incontro, dello scambio e al desiderio di ripartire. Alcuni spunti sono emersi dai
laboratori, ma altri sono venuti con libertà: ci sono stati ad esempio
rappresentanti di alcune diocesi che si sono riuniti spontaneamente per
riflettere, altri che si sono organizzati per proporre degli interventi comuni
in assemblea, dimostrando un forte desiderio di concretezza e la volontà di abitare
questo Convegno come gli spazi della nostra vita.

L’elenco dei verbi può forse apparire troppo schematico o
riduttivo. Ma leggiamolo come un’occasione di orientamento del nostro lavoro di
animazione missionaria, come, parafrasando Gianni Rodari, una «grammatica
della missione»
.


Continua il prossimo numero
con la quarta parte del documento:
«D. Quello che noi abbiamo narrato, ora lo desideriamo».


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Gigi Anataloni (a cura)




Le illusioni di Sofia

Ai confini dell’Europa (5): La Bulgaria

La Bulgaria è entrata
nell’Unione europea nel 2007, proprio in coincidenza con lo scoppio della crisi
economica. Afflitto da povertà, emigrazione e corruzione, il paese balcanico
contesta la propria classe politica. In attesa di tempi migliori.



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La Bulgaria è membro a pieno titolo dell’Unione europea dal primo gennaio
2007. A certificarlo, fisicamente e simbolicamente, le bandiere blu-stellate
dell’Unione che sventolano accanto al tricolore bulgaro davanti alle facciate
di tutte le istituzioni, grandi e piccole. Sul tetto in elegante stile liberty
dell’ex palazzo reale, nel cuore della capitale Sofia, campeggia addirittura lo
spartito, scolpito in bronzo, dell’attacco dell’«inno alla gioia» di Ludwig Van
Beethoven, dal 1972 anche inno dell’Unione.

Sfortunate
coincidenze

A otto anni di distanza da quel sospirato
traguardo, i sentimenti nel paese restano però contrastanti, quasi schizofrenici,
e molti cittadini bulgari si chiedono ancora se e quando potranno sentirsi
davvero europei.

È nella distanza tra quel successo formale e le
aspettative in buona parte disattese, che – a venticinque anni dalla caduta del
muro di Berlino – si misura l’incompiutezza della transizione. Non che in
Bulgaria si guardi a strade alternative: la scelta europea non viene messa in
discussione, e l’opinione pubblica bulgara resta oggi una delle più pro Ue del
Vecchio continente, con percentuali di sostegno intorno al 70%.

I dati dell’Eurobarometro, che piazzano
regolarmente il paese in fondo a tutte (o quasi) le classifiche comunitarie,
con la Bulgaria ormai abbonata al poco invidiabile titolo di «membro più povero
dell’Ue», raccontano però di un’opportunità colta soltanto in parte. Anche
perché, per un’amara coincidenza, l’ingresso della Bulgaria nel club europeo è
coinciso con lo scoppio della crisi economica, che ha aperto la fase più
critica e complessa che l’Unione deve affrontare dalla sua fondazione.

«La tempistica è stata tutt’altro che fortunata, è
evidente. D’altra parte, i cittadini bulgari sono consapevoli del fatto che,
anche e soprattutto in tempi difficili, è meglio essere parte dell’Unione che
restae fuori», è l’opinione dell’analista politico Dimitar Bechev, già
direttore della locale sezione dello European Council on Foreign Relations (Ecfr). «Senza i fondi di coesione di Bruxelles la Bulgaria sarebbe in
recessione. Il denaro proveniente dalle casse europee ha permesso al paese di
rimanere a galla in un momento turbolento e difficile».

Cifre alla mano, in questi anni l’economia
bulgara sembra essersela cavata meglio di molti altri paesi europei, pur
partendo da livelli iniziali molto più bassi del resto del continente. Dopo il
periodo ruggente della prima metà degli anni 2000, che ha visto sostanziosi
investimenti esteri, crescita sopra il 6% annuo e disoccupazione in calo, lo
stop che ha segnato la fase più acuta della crisi è stato seguito da tassi di
crescita più bassi, ma comunque col segno positivo. Molto più problematico è
invece il capitolo della ridistribuzione della ricchezza, dato il divario
crescente tra la piccola minoranza agiata e una larga maggioranza che fatica ad
arrivare a fine mese, tra i centri più grandi e le periferie sempre più spopolate
e depresse.

Le luci della
capitale

Sofia, la città che «cresce ma non invecchia»
(così recita il motto inciso ai piedi dello stemma della capitale bulgara), è
il luogo dove si possono meglio vedere i cambiamenti positivi che hanno
accompagnato gli ultimi anni, anche grazie ai fondi europei. Molti problemi
restano, ma cospicui investimenti nelle infrastrutture hanno rapidamente
trasformato il volto della città: due linee della metropolitana sono state
completate, l’aeroporto ha un nuovo terminal, il centralissimo bulevard «Vitosha»,
reso pedonale, è diventato un lungo salotto a cielo aperto.

In città si concentra buona parte della vita
economica e sociale bulgara: i livelli di Pil pro capite sono comparabili, se
non superiori, a quelli delle regioni dell’Italia meridionale. Ecco perché la
capitale è una vera calamita per i giovani in cerca di opportunità che
difficilmente riescono a trovare nel resto del paese. È a Sofia che nascono
iniziative imprenditoriali in grado di essere competitive e innovative anche a
livello internazionale. Come la «Telerik», compagnia di produzione di software
pensata e sviluppata da giovani imprenditori bulgari, e recentemente acquistata
dall’americana «Progress Software Corporation» per la cifra record di 260
milioni di dollari.

Basta lasciarsi alle spalle le ultime luci della
capitale, però, per incontrare una realtà molto contrastante.

Emigrazione e
spopolamento

In direzione Nord si alza la lunga catena dei
Balcani che taglia la Bulgaria da Ovest a Est, dal confine con la Serbia alle
acque del mar Nero. Quando si scollina al passo montano di Petrohan, appare un
paesaggio, fisico e umano, profondamente diverso.

«La nostra vita è difficile, e l’Unione europea
non l’ha resa migliore», racconta nella sua modesta cucina, riscaldata da
un’arroventata stufa a legna, Danche Milanova, 69 anni, una vita spesa come
commessa e foaia nel villaggio di Bela Rechka. «Dei 130 leva (75
euro) di pensione che prendo, 80 se ne vanno per le medicine. Col resto, si
prova ad arrivare a fine mese».

Bela Rechka, come il resto della Bulgaria Nord
occidentale, è l’emblema estremo di quanto in questi anni è andato storto. Dopo
l’affossamento del sistema economico pianificato socialista, la regione non è
riuscita a trovare una nuova vocazione economica durante la turbolenta
transizione verso l’economia di mercato. Risultato: spopolamento ed emigrazione
massiccia diretta soprattutto all’estero.

La cittadina di Varshetz, tanto per fare un
esempio, si è guadagnata in questi anni il nome di «città delle badanti», a
causa delle decine di donne partite per l’Italia, la Grecia e la Spagna in
cerca di lavoro, quasi sempre nel campo della cura degli anziani. Nonostante le
loro rimesse, i dati macroeconomici fanno ufficialmente della Bulgaria Nord
occidentale la regione più povera dell’intera Unione europea, con un Pil pro
capite di appena 6.500 euro l’anno.

Una situazione drammatica, certificata da un
gioco di parole disincantato e un po’ cinico, che ha trasformato la Bulgaria
Nord occidentale («severo-zapadna» in
lingua locale) in Bulgaria Nord decadente («severo-zapadnala»). Altre aree del
paese non se la passano però molto meglio. Secondo un recente studio,
finanziato dalla fondazione tedesca Friedrich Ebert, il 50% dei cittadini
bulgari vive oggi sotto la soglia di povertà, «con forti deprivazioni materiali
e difficoltà a realizzarsi sul mercato del lavoro». Tra gli anziani e le
minoranze etniche, soprattutto quella rom, le cifre appaiono ancora più
drammatiche.

A una situazione sociale pesante, negli ultimi
anni si è aggiunta forte instabilità politica. Nell’ultimo anno e mezzo la
Bulgaria ha visto succedersi due elezioni politiche anticipate, proteste di
piazza durate lunghi mesi e ben quattro governi, di cui due tecnici nominati
direttamente dal presidente per superare momenti di crisi istituzionale.

L’ultima tornata elettorale, nell’ottobre 2014,
ha portato alla formazione di un governo di centro destra guidato dal populista
Boyko Borisov, al suo secondo mandato. Davanti al nuovo esecutivo, supportato
da una maggioranza tutt’altro che solida, si erge ora il difficile compito di
ridare energia al processo democratico in Bulgaria. I livelli di fiducia nella
classe politica sono oggi ai minimi storici.

«Sulla carta la Bulgaria ha tutti gli attributi
di una vera democrazia – elezioni libere, sistema multipartitico, media
diversificati e così via -. Ma se si va sotto la superficie, ci si accorge che
la libertà di espressione è in declino dal 2006, che l’amministrazione non è
trasparente, che esistono censura e propaganda nel mondo politico.
L’impressione è che il potere politico sia ermeticamente chiuso, al di là della
capacità di influenza di cittadini e società civile», sostiene preoccupato
Bechev.

Le proteste della
piazza

Proprio la distanza tra l’élite e i cittadini è
stata la molla profonda che ha portato alle proteste di piazza più durature
della storia recente del paese. Per mesi le strade del centro di Sofia sono
state il palcoscenico di manifestazioni quotidiane, scatenate prima da bollette
energetiche «impazzite» e poi dal tentativo del governo socialista, salito al
potere nella primavera del 2013, di procedere a nomine importanti (nello
specifico, quella a capo dei servizi di sicurezza) con procedure non
trasparenti e forte sospetto di «scambio politico» tra gruppi di potere. Le
proteste, rafforzate dall’occupazione dell’Università statale «Sveti Kliment
Ohridski» di Sofia da parte degli studenti, hanno portato a un lunghissimo
braccio di ferro che ha mostrato una nuova vitalità politica della base, ma anche
tutti i limiti dell’attuale assetto di potere. «Il sistema partitico bulgaro
non ha reagito in modo profondo alle proteste», sostiene Antoniy Galabov,
professore di Scienze Politiche alla New Bulgarian University di Sofia. «Questo
significa che i partiti sono ormai così cinici e autoreferenziali, che non
riescono a cogliere le chiare richieste di un sistema trasparente e
responsabile provenienti dalla società».

La classe dirigente bulgara, che presenta oggi i
tratti di un’oligarchia chiusa, è emersa e si è consolidata durante gli anni più
difficili della transizione economica e politica, e non ha problemi di
credibilità soltanto con i propri cittadini. Anche le istituzioni europee, col
passare degli anni, sono state sempre meno timide nel criticare apertamente la
gestione del potere in Bulgaria: sotto processo soprattutto l’incapacità di
contrastare in modo efficace criminalità organizzata e corruzione.

(su i “muri” che dividono il mondo, leggi «Un mondo di muri» sul sito di Popoli.)

Il ritorno del filo
spinato

La tensione latente tra Bruxelles e Sofia ha
trovato sfogo negli ultimi anni sull’accesso del paese all’area Schengen di
libero movimento. Nonostante la Bulgaria abbia raggiunto da tempo standard
tecnici sufficienti per esservi ammessa, la crescente resistenza da parte di paesi chiave come Francia e Germania – che
tentano di utilizzare la questione come leva per forzare Sofia a rilanciare la
lotta alla corruzione – hanno bloccato ogni possibile progresso, tanto che l’«obiettivo
Schengen», a lungo sbandierato come priorità assoluta, è oggi mestamente
scomparso dal discorso pubblico in Bulgaria.

La discussione sui confini e il loro
attraversamento è però tornata al centro dell’attenzione, in modo drammatico ed
inaspettato, a partire dalla metà del 2013. Spinti alla fuga dal deteriorarsi
della situazione mediorientale, e soprattutto dagli orrori della guerra civile
in Siria, migliaia di profughi e richiedenti asilo hanno infatti iniziato a
varcare il confine tra Turchia e Bulgaria, nella ricerca di una via di fuga.
Per molti, la Bulgaria, confine esterno dell’Unione europea, è soltanto una
tappa verso la destinazione sognata, di solito la Germania o i paesi
scandinavi, dove sperano di ricostruire la propria vita.

Il paese balcanico, terra di fortissima
emigrazione e relativa povertà, si è fatto trovare del tutto impreparato ad
accogliere la massa di disperati che bussavano alla sua porta. I pochi centri
di accoglienza sono diventati in breve sovraffollati e ingestibili, e il
rischio di una catastrofe umanitaria s’è presto delineato all’orizzonte. Col
passare dei mesi, la situazione si è lentamente normalizzata, ma il dibattito
interno su cosa fare ha assunto toni sempre più allarmati.

Per dare un segnale forte, il governo di Sofia ha
deciso di ordinare l’innalzamento di una barriera di rete e filo spinato lunga
più di trenta chilometri sul confine, per fermare o almeno controllare il
fenomeno, a imitazione di quanto già fatto dalla Grecia alcuni anni fa.

Nelle politiche di chiusura della «fortezza
Europa» la Bulgaria non è certo da sola, né la principale protagonista. In
questo angolo del continente, però, è difficile non cogliere l’amara ironia del
destino nel ribaltamento avvenuto in poco più di vent’anni. Fino al 1989
barriere e reticolati sui confini bulgari servivano a sbarrare la via a chi
tentava di uscire dal mondo ermetico del regime totalitario. Smantellati nel
nome degli ideali europei, oggi nuovi muri vengono nuovamente levati, sempre in
nome dell’Europa, ma per un obiettivo molto meno ideale: tenere lontano ospiti
sgraditi.

Francesco Martino


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Francesco Martino