Cercando la democrazia

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I burkinabè hanno eletto un nuovo presidente dopo 27 anni di potere di Blaise Compaoré. Ma è stato necessario fare un’insurrezione e sventare un colpo di stato. Riuscirà il nuovo regime, figlio del vecchio, a portare il cambiamento chiesto dalla popolazione?

Roch Marc Christian Kabore waves to supporters at party headquarter in Ouagadougou on December 1, 2015 after winning Burkina Faso's presidential election, official results showed, after a year of turmoil that saw the west African country's former leader deposed and the military try to seize power in a coup. AFP PHOTO / ISSOUF SANOGO / AFP / ISSOUF SANOGO

«Era il 29 ottobre [2014], verso le otto di sera. Decidemmo di dormire nei pressi della rotonda delle Nazioni unite, per essere i primi ad andare, il giorno dopo, all’Assemblea nazionale (Parlamento, nda)». Chi racconta è Daoda Soma, giovane ingegnere informatico burkinabè, ma soprattutto militante di Le Balai Citoyen (la scopa cittadina) tra le associazioni più agguerrite nell’insurrezione popolare del 2014. Il 30 ottobre era previsto che i deputati votassero la modifica costituzionale dell’articolo 37, che avrebbe permesso a Blaise Compaoré, al potere dal 1987, di ricandidarsi alle presidenziali. (cfr. Mc gen-feb 2015). «La polizia è arrivata e ci ha aggrediti con i gas lacrimogeni. Siamo dovuti partire. Ma molto presto, il mattino dopo, siamo tornati. C’era una folla enorme: fare un minuto di ritardo significava restare indietro di un chilometro. C’era di tutto: bambini, adolescenti, giovani e vecchi. Penso sia intervenuta la mano di Dio, perché i militari che erano appostati intorno al palazzo non hanno sparato sulla folla».

Quel giorno, la pacifica gente di Ouagadougou prese d’assalto la sede dell’Assemblea nazionale, il parlamento, mettendola a ferro e fuoco, per impedire ai deputati di votare. Daoda continua il suo racconto: «La maggioranza della gente non voleva questa modifica. Anche se i media e i comunicati ufficiali dicevano l’esatto contrario. Sarebbe stato come subire un colpo di stato. Per questo ci mobilitammo per evitare che succedesse. Voci dicevano che molti deputati erano stati “comprati” dal potere e che la modifica sarebbe passata. Una volta votata la legge, i politici avrebbero potuto fare quello che volevano». Così quel giorno non si votò perché i deputati non poterono riunirsi. Il 31 ottobre Blaise Compaoré fuggì, grazie alla Francia, in Costa d’Avorio, e si aprì una nuova stagione politica per il paese, dopo 27 anni di «regno» incontrastato.

Fu definito dalle forze della nazione un periodo di transizione di 12 mesi, con un governo, un presidente della Repubblica e il Consiglio nazionale di transizione (parlamento). Gli organi della transizione avevano il compito di portare il paese alle elezioni dello scorso 29 novembre.

Elezioni che si sono tenute nella calma, con un grande afflusso. Non le prime elezioni democratiche, come qualcuno ha scritto, ma certo le prime senza lo strapotere di un partito, il Cdp (Congresso per la democrazia e il progresso) di Compaoré, in grado di controllare tutto e tutti e assicurarsi la vittoria, anche in parlamento, con percentuali altissime.

L’esito è stata la vittoria del favorito Roch Marc Christian Kaboré, uno dei pilastri del regime Compaoré fin dalle origini, che si era staccato dal Cdp nel gennaio 2014 fondando il suo movimento, l’Mpp (Movimento del popolo per il progresso). Ma vediamo cosa ha portato a questo cambiamento epocale.

L’insurrezione burkinabè

Scrutineers are at work during the counting of Burkina Faso's presidential election votes at a polling station in Ouagadougou on November 29, 2015. After Voters in Burkina Faso cast ballots on November 29 for a new president and parliament, hoping to tu the page on a year of turmoil during which the west African nation's people ousted a veteran ruler and repelled a military coup. AFP / ISSOUF SANOGO / AFP / ISSOUF SANOGO

«L’insurrezione è un concorso di circostanze tra un processo storico e avvenimenti interni ed estei. La società civile non è la sola depositaria dell’insurrezione. Ha giocato un ruolo importante, significativo, ma non sufficiente. Occorrevano altre forze». Ci racconta Antornine Raogo Sawadogo, sociologo, presidente dell’istituto di ricerca Laboratornire Citoyennetés, ed ex ministro dell’Amministrazione territoriale e del decentramento.

«La grande manifestazione che ha cacciato Blaise si è svolta a Ouagadougou, ma c’erano anche i partiti politici, i sindacati, e il cittadino della strada non organizzato. Era una domanda collettiva. Le rivendicazioni dei diversi gruppi che hanno cacciato Compaoré riguardavano un maggiore stato di diritto, la richiesta di uno stato democratico capace di fare una redistribuzione di ricchezze, dei frutti della crescita e di praticare una giustizia uguale per tutti. È questo che ha motivato tutta la comunità nazionale».

«La maggior parte degli attori dell’ottobre 2014 non hanno conosciuto che Blaise Compaoré da quando sono nati. Avevano voglia di cambiare presidente». Ci dice Germain Nama, direttore del giornale burkinabè L’Événement. «Occorre fare un passo indietro. Storicamente i movimenti di contestazione in Burkina si organizzavano dietro ai sindacati. I partiti politici li utilizzavano per portare le loro rivendicazioni.

Ma, in questo modo, i sindacati facevano molta ombra ai partiti politici. E ultimamente si rifiutavano di fare questa parte. I partiti stessi hanno capito che occorreva prendere il proprio destino in mano. Sono così entrati in gioco. Negli anni 2012-13-14 si è vista la crescita dei partiti politici che hanno cominciato a organizzarsi intorno al capo fila dell’opposizione. Sono stati anni di profondo cambiamento e di presa di potere da parte loro. Le imponenti manifestazioni di piazza del 2014 sono state organizzate da loro.

Il 4 gennaio 2014, c’era stata la rottura in seno al partito di Compaoré, il Cdp che aveva portato alla crazione del nuovo partito Mpp».

Continua Nama: «Il 28 ottobre si è tenuta la più grande manifestazione che il Burkina abbia mai visto. Quel giorno, se Blaise Compaoré fosse stato furbo, avrebbe chiamato i partiti politici che lo contestavano per cercare un terreno d’intesa. Avrebbe dovuto capire che il limite era stato passato».

La fuga del dinosauro

«Ero nella piazza della Rivoluzione ricolma di gente, avevo la maglia nera di Le Balai Citoyen – ricorda Daoda -. Sono arrivati dei militari, tra loro Isaac Zida (membro della guardia presidenziale, ha preso il potere alla fuga di Blaise per poi renderlo ai civili. È stato quindi nominato primo ministro di transizione, ndr). Non lo conoscevo. Un militare mi tocca la schiena e mi chiede: “Come fate per far passare la gente?”. Rispondo: “Qui non c’è violenza. Dove volete andare?”. “Il capo deve passare”. E io: “Ok, seguitemi”. Ero davanti e, con il linguaggio del ghetto, della strada, ho detto: “il capo arriva e ci porta buone notizie”. La folla si è allora aperta e Zida, arrivato al centro della piazza, ha iniziato a parlare con il microfono. Quando ha annunciato che Blaise aveva dato le dimissioni l’euforia della gente è stata grande».

Continua Nama: «I partiti politici hanno acquistato molta importanza in questa occasione. Sfortunatamente per loro, però, non avevano previsto la partenza di Compaoré che li ha presi completamente alla sprovvista. Non avevano soluzioni pronte. Ancora una volta i militari si sono precipitati sul potere. L’esercito è sembrata la sola forza con una certa coesione».

Un anno dopo: il fulmine

Soldiers of Burkina Faso's loyalist troops stand guard near the Naba Koom II barracks, the base of the Presidential Security Regiment (RSP) in Ouagadougou on September 30, 2015, within the visit of interim leader Michel Kafando. General Gilbert Diendere, the leader of a failed coup by RSP in Burkina Faso, was in talks on September 30 on handing himself in to the govement that his elite force tried to unseat, after troops stormed the putschists' barracks. AFP PHOTO / SIA KAMBOU / AFP / SIA KAMBOU

Il 16 settembre 2015 i militari del Reggimento di sicurezza presidenziale (Rsp), durante una riunione del Consiglio dei ministri, prendono in ostaggio il presidente di transizione Michel Kafando e alcuni ministri. È golpe. Il generale Gilbert Diéndéré, fedelissimo di Compaoré, già coinvolto in numerosi crimini del regime, si proclama capo di stato. Parte una caccia all’uomo nei confronti dei responsabili dei movimenti che hanno guidato l’insurrezione di ottobre. Gli effettivi del Rsp, circa 1.300 uomini scelti e ben armati, si sparpagliano per la città allo scopo di bloccare ogni possibile reazione. Il pretesto del putsch è che le elezioni, previste l’11 ottobre, non sarebbero inclusive, perché escludono alcuni personaggi troppo vicini a Compaoré. Di fatto da mesi c’erano attriti tra il primo ministro Isaac Zida, lui stesso ex Rsp, e il reggimento. Ed era sul tavolo la dissoluzione stessa del corpo.

I burkinabè sono attoniti, si vedono scippare il cambiamento per cui hanno tanto lottato e alcuni di loro sono morti. «Sì, la notizia ci è arrivata addosso. Ci siamo subito detti: la lotta deve continuare. Era qualcosa davvero di inimmaginabile, anche se qualche preoccupazione in realtà io l’avevo avuta», ricorda Daoda.

«Siamo andati alla rotonda della Patte d’Oie e abbiamo deciso di marciare verso Kosyam (il palazzo presidenziale dove presidente e primo ministro erano agli arresti, ndr) la sera stessa. Andando avanti, abbiamo incontrato uomini del Rsp che hanno cominciato a sparare. Siamo tutti fuggiti allo sbando».

«Abbiamo girato per Ouagadougou per riprendere la mobilitazione. La gente era irritata. I militari entravano nei quartieri e sparavano pallottole reali, facevano togliere le barricate. Ma appena se ne andavano, gli abitanti le rifacevano. I militari del Rsp non erano troppo umani in quel momento. Se li guardavi in faccia, sentivi l’alcornol, la droga, vedevi occhi di gente che non aveva più niente da perdere».

Durante una settimana la capitale del Burkina Faso rimane bloccata. I sindacati proclamano uno sciopero generale su tutto il territorio nazionale che ottiene la massima adesione. Nelle altre città si riescono a fare delle manifestazioni contro i golpisti. La repressione dell’Rsp causa almeno 17 morti e 108 feriti. Molte vittime sono colpite alla schiena.

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Mediazione insufficiente

Intanto si attiva una mediazione della Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa dell’Ovest), che coinvolge mons. Paul Ouedraogo, vescovo di Bobo-Dioulasso, l’ex presidente Jean-Baptiste Ouedraogo e il capo di stato maggiore dell’esercito Pingrenoma Zagré. Il mediatore principale è il presidente del Senegal, Macky Sall, aiutato dall’omologo del Benin, Boni Yayi. La proposta di accordo che elaborano non piace però ai burkinabè che la respingono. È troppo filo putschisti: prevede l’amnistia per loro e la reintegrazione dei politici pro Compaoré alle elezioni.

La mossa decisiva arriva dall’esercito repubblicano. All’alba del 22 settembre colonne di blindati lasciano le città di Bobo, Kaya, Fada N’Gourma, Koudougou, Ouahigouya acclamati dalla folla lungo le strade. Gli ufficiali a capo di diversi corpi si sono cornordinati e hanno deciso di muovere verso la capitale. Sono momenti di grande tensione perché si teme uno scontro fratricida tra le due fazioni dell’esercito. Viene invece intavolato un negoziato. Molti ufficiali delle due parti si conoscono per aver frequentato i corsi insieme. È presente anche il Mogho Naaba, re dei Mossì, come autorità morale riconosciuta da tutti. L’accordo, prevede il rientro nella caserma del Rsp e l’allontanamento a 50 km dalla capitale delle truppe dell’esercito repubblicano.

Ma circa 300 irriducibili si asserragliano nel campo militare Naaba Koom a ridosso del palazzo presidenziale. L’esercito circonda la caserma, e il 29 mattina si odono colpi di obice. Naaba Koom viene bombardato e gli Rsp finalmente si arrendono. Il generale Diendéré era già fuggito e, rifiutato dalle ambasciate di Francia e Usa, si era rifugiato alla nunziatura, per poi consegnarsi alle autorità.

Nei foitissimi depositi del Naaba Koom si trovano anche armi provenienti dalla Costa d’Avorio e dal Togo.

Nei giorni successivi sono rese note intercettazioni telefoniche tra Guillaume Soro, presidente dell’Assemblea nazionale della Costa d’Avorio, e Djibril Bassolé, generale, già ministro della difesa di Compaoré. La casa di Soro a Ouagadougou viene perquisita mentre Bassolé è arrestato per essere giudicato come complice del golpe. Risulta chiaro un fatto gravissimo: la Costa d’Avorio, dove Compaoré è in esilio, ha appoggiato i golpisti.

Michel Kafando viene rimesso alla testa della transizione, è il governo ripristinato. Nel primo Consiglio dei ministri viene formalizzata la dissoluzione del Rsp. Successivamente è rivista la Costituzione e l’articolo 37 che limita i mandati presidenziali è reso non modificabile.

MC 1-16 Burkina 8Niente più come prima

«C’è una frase su tutte le labbra: “Nulla sarà più come prima”». Ricorda Antornine Sawadogo. «Sono d’accordo con questo, ma può essere in meglio o in peggio. Abbiamo appena evitato il peggio con il colpo di stato del 16 settembre. Se il presidente che è stato eletto non terrà conto di tutto quello che è successo, il paese sarà ingovernabile, perché la gente è abituata a sollevarsi spontaneamente, appena c’è una indelicatezza commessa da un’autorità.

Io penso che il nuovo regime deve dotarsi di una dimensione democratica, giocare il gioco della democrazia, dello stato di diritto. Quando la gente si renderà conto che il figlio del povero ha gli stessi diritti di quello del ricco, quando gli operatori economici vedranno che gli appalti pubblici non vanno sempre agli stessi personaggi, o quando si vedrà che studiare in periferia nelle cittadine offre le stesse opportunità che studiare in Europa, la gente sarà un po’ più tollerante».

Non sembra un’utopia? «Tutto questo non è irreale, perché i burkinabè sanno fare la differenza tra quello che lo stato può fare o no. Il problema in Burkina è l’esclusione massiccia di gran parte della popolazione. Politicamente è necessario trasformare il cittadino insorto in cittadino atto a fare il controllo di cittadinanza, a chiedere conto a chi governa, e organizzarsi per fare una censura quando gli eletti stanno deviando e o esagerando, poter dire “fermatevi”. L’insurrezione non può andare al di là dell’espressione cittadina, ovvero saccheggiare, bruciare l’asfalto, distruggere palazzi istituzionali.

Penso che il nuovo regime debba negoziare un periodo di transizione, di grazia, per fare le riforme essenziali, per arrivare a uno stato di diritto: giustizia, educazione, sanità, esercito».

L’avanguardia

«I responsabili dei partiti politici sono burkinabè, capiscono i problemi della gente. Hanno visto come Blaise è scappato. Penso che abbiano imparato la lezione», ci dice Germain Nama. «Nonostante questo, noi non possiamo incrociare le braccia, bisognerà organizzarsi, come contropotere, per pesare nella bilancia e ottenere i cambiamenti qualitativi necessari. La società civile deve restare vigilante, le organizzazioni del popolo, i partiti politici di opposizione, devono avere un ruolo di risveglio di coscienze».

Per questo i media sono particolarmente importanti: «I media burkinabè sono molto critici. Ci differenziamo dai media africani in generale. Come in Costa d’Avorio, Mali, dove c’è molta corruzione nei media. Un po’ anche in Burkina, ma ci sono dei limiti che non sono stati superati. In maggioranza la stampa burkinabè resta una stampa di qualità, impegnata, cosciente, responsabile, ed è questo che ha contribuito a un livello elevato al cambiamento politico che abbiamo avuto. L’insurrezione di ottobre è stata preceduta da un’insurrezione mediatica. Non abbiamo mai fatto regali a Compaoré. Siamo l’avanguardia della lotta per un cambiamento qualitativo in Burkina. La stampa ha giocato il suo ruolo e continua a farlo».

Marco Bello




La guerra facile dei droni

Si comandano da molto lontano. Utilissimi per cercare informazioni sul nemico in battaglia. Ma anche per sparare su convogli e bunker sospetti senza rischi. Tutti gli eserciti li vogliono. E ora sono anche diventati tascabili e ambiti giochi per appassionati e ragazzi.

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Nei cieli africani si combatte una guerra nuova e silenziosa, ma non per questo meno micidiale di quelle tradizionali. È la guerra dei droni. Sempre più presenti sui campi di battaglia del continente, i velivoli senza pilota rappresentano un sostegno alle truppe impegnate sul terreno, ma anche un’arma efficacissima per l’eliminazione mirata di capi politici o comandanti militari di movimenti ribelli.

Osservazione e omicidi mirati

A dispiegarli per primi sono state le forze armate statunitensi. Washington, stretta tra la preoccupazione per l’impatto mediatico che può avere la morte di soldati americani in Africa (ricordiamo la grande eco che ebbe nel 1993 la morte di 19 ranger nella battaglia di Mogadiscio che convinse Clinton al ritiro delle truppe Usa dalla Somalia) e la necessità di contrastare il fondamentalismo islamico jihadista, ha deciso di scommettere su quest’arma, sia a livello tattico che strategico. È così che nel 2001 gli Stati Uniti prendono in affitto dal governo di Gibuti la base di Camp Lemonnier, nella cittadina di Ambouli, sul lato meridionale dell’aeroporto internazionale di Gibuti. Oltre alle truppe delle forze speciali, Washington vi trasferisce alcuni droni. La posizione è strategica. Partendo da Gibuti si possono tenere sotto controllo sia la Somalia, dove dagli anni Duemila si è assistito a una progressiva radicalizzazione dei movimenti ribelli jihadisti, sia lo Yemen, per anni base delle milizie qaediste.

Dall’alto, i droni sono un alleato silenzioso che osserva gli spostamenti delle truppe nemiche, ne individua le basi, i rifugi dei comandanti. Inizialmente i vertici militari Usa li utilizzano prevalentemente con funzioni di osservazione e controllo. Un surrogato degli agenti dei servizi segreti. Qualsiasi operazione dei servizi speciali è preparata e accompagnata dai voli dei droni. Ma poi capiscono che essi possono diventare un’arma potentissima per le eliminazioni mirate, quelle che, in gergo militare, vengono chiamate «targeting killings». Sui velivoli senza pilota vengono montati missili aria-terra Hellfire che sono poi sparati sui rifugi o sulle vetture che trasportano i comandanti delle milizie.

«Non esistono, ovviamente, statistiche ufficiali – spiega Giulia Tilenni, junior analist di Caffè Geopolitico -, però, alcuni documenti riservati di cui sono venuta in possesso parlano di una ventina di attacchi offensivi in cui sono perite 108 persone. Le uccisioni mirate sono avvenute negli ultimi anni nel Coo d’Africa e hanno preso di mira i capi del movimento Al Shabaab».

Se su Camp Lemmonier ci sono notizie certe, poco si sa invece delle altre basi statunitensi sul continente. Anche in questo caso, di ufficiale non esiste nulla. Da alcuni leaks diffusi dalla stampa internazionale però si è venuto a sapere che Washington ne avrebbe diverse: Camerun, Ciad, Etiopia, Niger e Seychelles.

Quelle in Ciad (stanziati in una vecchia base francese) e in Niger (una ad Agadez e l’altra a Niamey) avrebbero l’obiettivo di tenere sotto controllo gli spostamenti dei miliziani jihadisti in Africa dell’Ovest.

Da questi aeroporti, oltre ai droni, decollerebbero anche piccoli aerei bianchi e senza alcuna insegna e con sofisticate apparecchiature elettroniche per l’osservazione a bordo. I velivoli verrebbero tenuti lontani dalle zone di combattimento per evitare che un eventuale abbattimento possa mettere a rischio i piloti. Questi ultimi sono agenti dei servizi segreti, ma anche contractors assunti ad hoc.

Dal Camerun i droni svolgerebbero funzioni di intelligence e sorveglianza sulla vicina Nigeria, offrendo informazioni alle truppe camerunensi, nigeriane e nigerine in azione contro le milizie di Boko Haram. Probabilmente verranno impiegati anche a sostegno del piccolo contingente Usa schierato al confine tra Camerun e Nigeria. In Etiopia, ad Arba Minch, e nelle isole Seychelles invece i droni vengono utilizzati prevalentemente per la sorveglianza delle rotte che dall’Oceano Indiano si spingono, attraverso lo Stretto di Aden, verso il Mar Rosso.

«Le forze statunitensi – sottolinea Luca Mainoldi, giornalista, esperto di Africa – utilizzano, anche a livello tattico, piccoli droni, molto simili a modelli radiocomandati, che volano nel raggio di pochi chilometri per osservare eventuali pericoli o minacce. Di questi velivoli sono dotate, per esempio, le truppe speciali Usa che danno la caccia al ribelle ugandese Joseph Kony» (cfr. MC luglio 2012).

Droni transalpini

Gli Stati Uniti non sono gli unici a utilizzare gli «aeromobili a pilotaggio remoto» in Africa. Anche Parigi ha iniziato a impiegare i droni a supporto delle proprie truppe. L’Aeronautica militare francese ha attualmente in dotazione quattro Harfang, velivoli derivati dagli Heron israeliani. Questi droni sono costati alle casse di Parigi 440 milioni di euro contro i 100 preventivati. L’aumento del costo è legato alla necessità di adeguarlo alle specifiche pretese dai comandi dell’Armée de l’air.

Nonostante l’alto costo, i generali transalpini non sono soddisfatti di questo apparecchio. Ha, infatti, impianti di videoripresa con risoluzioni basse, costi di volo alti e necessita di una manutenzione continua. Per questo motivo, Parigi ha deciso di acquistare dagli Stati Uniti tre Reaper (altri due sarebbero in arrivo) che hanno prestazioni decisamente migliori rispetto agli Harfang. Per il momento le truppe transalpine non hanno armato i velivoli. Ma, con l’omologazione per i droni dei missili prodotti da Mdba, un’azienda di proprietà di Airbus, Bae Systems e Finmeccanica, i comandi starebbero progettando di impiegarli anche sui Reaper.

Finora la Francia ha impiegato i suoi droni in Africa occidentale. A partire dal 2013, Parigi ha dislocato a Niamey (Niger) due droni a sostegno delle truppe dell’Operation Barkhane, la missione transalpina nel Nord del Mali. Le truppe francesi sul terreno impiegherebbero anche piccoli droni portatili che li aiuterebbero nelle operazioni contro le milizie ribelli, come già fanno le forze speciali statunitensi.

Stati Uniti e Francia non condividono solo le tattiche di combattimento, ma anche le basi. A Niamey infatti i velivoli a stelle e strisce e quelli transalpini partono dallo stesso aeroporto.

«In Africa – continua Luca Mainoldi – corre voce che Parigi e Washington abbiano aperto una base comune e segreta anche in Libia. Da lì farebbero partire i droni per tenere sotto controllo il Sud della Libia e l’Algeria. Difficile dire se si tratti di una diceria o se ci sia un fondamento. Così come è difficile confermare la notizia secondo la quale gli Stati Uniti avrebbero una base di droni proprio in Algeria. Secondo alcune indiscrezioni, infatti, Washington avrebbe riaperto una lunga pista che le era stata data in concessione da Algeri a Tamanrasset, in pieno Sahara, per gli atterraggi di emergenza dello Space Shuttle. Ma nessuna conferma ufficiale è mai arrivata dal Segretario alla Difesa Usa o dal Pentagono».

E anche i paesi africani…

Nei cieli del continente volano anche droni africani. I primi a svilupparli sono stati i sudafricani. Ai tempi del regime dell’apartheid (1945-1993), Pretoria aveva ottime relazioni con Tel Aviv e le industrie belliche dei due paesi collaboravano in diversi ambiti. Tra questi lo sviluppo dei droni. Negli anni Sessanta e Settanta si trattava soprattutto di modelli non dissimili dai normali aeroplani telecomandati, poi, col tempo, sono andati tecnologicamente evolvendo. La fine dell’apartheid non ha portato alla chiusura del progetto. Anche dopo il 1993 l’industria bellica ha continuato a sviluppare aerei senza pilota. Probabilmente la collaborazione con Israele è terminata, certamente c’è un rapporto con gli Emirati arabi uniti che, a loro volta, stanno sviluppando un progetto insieme all’Italia.

«In Africa – conclude Giulia Tilenni – possiedono droni anche la Nigeria, la Guinea Equatoriale e l’Angola. Ma non li usano per scopi militari quanto per tenere sotto controllo gli impianti petroliferi e gli oleodotti e difenderli da eventuali attacchi o minacce. Anche l’Algeria ha propri droni, acquistati dal Sudafrica, così come l’Egitto, che invece li ha comperati da Stati Uniti e Russia. Eh sì, perché anche Russia e Cina hanno propri velivoli senza piloti, anche se, per il momento, non volano sui cieli africani».

Enrico Casale




Colori sgargianti ma fibre sintetiche

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Pagode antiche e magnifiche, paesaggi incantevoli, gentili ingegneri affittacamere, ma anche architetture in disfacimento, strade piene di miseria, bambini lavoratori e racconti di campi profughi. Il Myanmar dei profondi cambiamenti politici, in transizione verso la democrazia dopo 50 anni di dominio militare e 60 anni di una guerra civile ancora in corso in diverse zone del paese, ci viene raccontato attraverso lo sguardo attento di una viaggiatrice critica.

 

MC 1-16 Myanmar1-06Yangon sta cambiando velocemente, pur non essendo più la capitale ufficiale, rimane comunque il centro più importante del Myanmar. Vent’anni fa era una città silenziosa, ferma nel tempo, sprofondata nel verde dei suoi parchi e dei suoi viali. Ora, all’inizio del 2015, essi non bastano a contenere un traffico esagerato che ha spinto in questi giorni gli autisti dei bus a lasciare il lavoro, protestando per gli ingorghi che bloccano per ore le strade. Cantieri di nuovi edifici, alberghi e centri commerciali sorgono ovunque e occupano gli spazi verdi che ancora rimangono.

Scelgo una sistemazione vicina al centro e alla cattedrale cattolica, dove grandiosi edifici pubblici in stile classico, con archi e colonne in mattoni, ricordano il ruolo di capitale nel periodo coloniale britannico. Nei viali che conducono alla Sule pagoda, trovo cucine di strada. Mi siedo su sgabelli minuscoli tra i veicoli parcheggiati. Mi vengono serviti gustosi piatti tipici: zuppe di vermicelli, ravioli fritti, insalate piccanti di papaia. Gli indiani friggono di tutto, lattuga, uova, melanzane e tortini di farina di ceci e riso. Le interiora di animali sono infilate in spiedini che vengono fatti cuocere in orci pieni di brodo bollente.

Yangon ha ancora molto fascino, anche se il degrado continua implacabile. Lungo i marciapiedi, le lastre di pietra sconnesse lasciano intravedere lo scolo delle acque luride. Sulle facciate elaborate di edifici decrepiti e coperti di muffa resta una traccia di delicati colori pastello. Lungo i muri e sui tetti crescono cespugli e, addirittura, alberi, che lentamente apriranno ferite.

Ho parlato con Kaythi, una signora birmana di Sydney conosciuta in albergo: vuole farmi conoscere suo padre che ha 86 anni e sta scrivendo le memorie degli ultimi 70 anni di storia birmana. Era in marina durante la guerra, poi ha combattuto contro i Karen1. Per molti anni ha lavorato nel commercio marittimo, riuscendo a far emigrare la famiglia in Australia. Oggi ammette che se avessero vinto i Karen la storia del Myanmar sarebbe stata certamente migliore.

Conobbi la popolazione Karen nel 1994, a Pathein, capoluogo della regione di Ayeyarwady, sul delta del fiume Irrawaddy, apprezzando la loro fierezza, l’onestà e l’ospitalità. Ebbi un’esperienza molto bella nel complesso cattolico di S. Peter. Era zona off limits per noi stranieri, vi rimasi per 10 giorni sorvegliata dall’esercito, con la proibizione di uscire dal convento senza la compagnia di almeno due suore.

Ora che è possibile viaggiare nelle regioni un tempo proibite, dove le minoranze sono sempre state ostili alla dittatura, cercherò di scoprire altre realtà.

Bagan, regione Mandalay

MC 1-16 Myanmar1-08Mi trovo davanti alla pagoda più famosa di Bagan, Ananda. Mi fermo a chiacchierare con il ragazzino che sta vendendo bottiglie di benzina per le motorette. Si chiama So. Il nostro è un discorso fatto a gesti. Non conosco il birmano, e lui sa solo poche parole in inglese. Chiedo se mi può scrivere il suo nome. Non può. Non è mai andato a scuola.

Incontrerò ancora bambini lavoratori come lui, efficienti e professionali nelle loro mansioni. So ha 10 anni, cinque fratelli, una mamma semi cieca, il padre non lo ha mai conosciuto.

Una signora in moto si ferma per fare benzina. Si presenta, e mi spiega: la scuola è a pagamento e molte famiglie non possono permettersi la spesa, e nemmeno di rinunciare al lavoro dei bambini. So Mi U mi pare piccolo per i suoi 10 anni. Lo guardo: ha una macchia scura sul volto, i capelli neri sono ritti e corti.

Bagan è zona di interesse storico archeologico, ma l’Unesco non ha approvato i pesanti lavori di restauro fatti dalla giunta militare. I siti protetti del Myanmar sono altri, poco conosciuti e di difficile fruizione. Comunque qui, nascosti nella boscaglia, sorgono alberghi con piscina e campi da golf. Un tempo vi erano le case di bambù, sparse tra le rovine. Vent’anni fa gli abitanti furono spostati nella New Bagan. A ciascuna famiglia fu assegnato un lotto di terreno su cui costruirsi una casa, nulla di più.

All’ostello incontro Valentina e Francisca, due cilene di Santiago. Ambedue laureate in legge e di famiglia palestinese. I genitori, da piccoli, lasciarono i loro villaggi presso Betlemme nel ’47, e vi ritornarono in visita coi figli solo 50 anni dopo. Jessa e il fidanzato, invece, sono originari di un paesino di Vancouver Island, Canada. Insegnanti di inglese, non avendo trovato un impiego in patria, si sono trasferiti in Cina, dove lavorano in una scuola privata.

Ne incontro molti di cinesi o di stranieri che vivono in Cina.

Ngapali, stato Rakhine

MC 1-16 Myanmar1-05Lo stato Rakhine si trova nell’estremo Ovest del Myanmar, al confine col Bangladesh. Il volo fa scalo a Ngapali, località turistica sul mare delle Andamane.

Su Su e Simon sono miei vicini di capanno e mi invitano per un pranzo tipico birmano: zuppa di budi, una specie di zucchino, in brodo di cipolle e zenzero, e pollo fritto alla curcuma. Su Su è nata a Pathein e lavora come infermiera a Londra. Simon è nato nel ‘46 dal matrimonio di un ufficiale di marina inglese, di stanza a Moulmein, capitale dello stato Mon, con una donna birmana. «Avevo sei anni quando ci siamo trasferiti a Londra. Mia madre ha trovato difficile adattarsi alla nuova vita, con quattro figli da allevare senza gli aiuti che aveva in patria». Ora Simon vorrebbe ritornare a vivere a Yangon, ma il lavoro che sa fare, urbanista, è pagato pochissimo.

A Ngapali i terreni vicini al mare sono stati acquistati da cinesi e da grossi gruppi che hanno costruito alberghi di lusso.

Prendo la bici e raggiungo un villaggio di pescatori. La tradizione di fare seccare al sole il pesce piccolo è rimasta limitata a una zona della spiaggia. Vedo scaricare decine di grosse razze e mi unisco al drappello di curiosi. Poi proseguo per il capo che chiude la baia a Sud. Qui attraccano barche che portano passeggeri e casse di pesce molto pesanti. Noto la fatica dei quattro uomini che sollevano le casse. Fatica e povertà non sono cambiate, anche se ci sono alberghi e ristoranti ottimi.

Vedo che si lavora per sistemare le strade e costruire ponti in cemento. Sono molte le ragazzine occupate nei cantieri a spalare ghiaia e trasportare mattoni per 4-5 dollari al giorno.

Conosco Benno, un altornatesino che abita a Bangkok con la moglie, artista cinese. Lì ha fondato una onlus «Aiutare senza confini». Conosce il Myanmar da 15 anni e mi aggioa. Pare che a Mandalay i funzionari governativi corrotti facciano avere ai cinesi documenti falsi per poter comprare proprietà.

Thandwe

MC 1-16 Myanmar1-02Il pick up carico di passeggeri sale nella valle un tempo coltivata a riso. Vedo che hanno costruito una casa di riposo, un campo sportivo e due monasteri. Le giovanissime monachelle e le anziane con il loro abito rosa e la testolina rapata, un tempo erano rare. Credo che i monasteri femminili siano utili come ricoveri per donne anziane e sole, e per giovani orfane. Qualche edificio storico, dal sapore esotico, è rimasto. Scomparso in un incendio il bel mercato di legno nero, dove gentili sartine con grappoli di orchidee sui capelli erano al lavoro nel settore dei tessuti. Ora, in una nuova e anonima struttura in cemento, si vende roba cinese, dai colori sgargianti e fibre sintetiche.

Salgo su una moto taxi e mi faccio portare alla missione cattolica, a un paio di km dal centro. Trovo il parroco, padre Michele, che è appena arrivato dopo la visita ai suoi villaggi.

Quando arrivarono i primi missionari francesi, dedicarono la chiesa a Nostra Sisgnora de la Salette, ed eressero il bel crocifisso sul colle.

Siamo sulla cresta di una serie di colline che si perdono all’orizzonte. Cupole dorate di piccole pagode brillano lontane. La maggioranza dei birmani è buddista, e i missionari portato il vangelo presso le minoranze, da sempre ribelli verso il potere centrale.

Sittwe, stato Rakhine

MC 1-16 Myanmar1-04Il territorio che sorvolo oggi è fatto di estuari, isole di sabbia, meandri di fiumi e rari segni di insediamenti umani. Prima di atterrare noto gli allevamenti di gamberi e una struttura che potrebbe essere un campo profughi. Penso alla comunità musulmana che sta attraversando un periodo drammatico della sua storia nel paese2. La maggioranza buddista dello stato Rakhine discrimina ed emargina le minoranze su base religiosa ed etnica.

Un monaco buddista di Mandalay (Ashin Wirathu, fondatore del movimento «969», riquadro p. 25, ndr), è tra i più violenti sostenitori di tale politica.

Ho l’occasione di incontrare un gruppo di giovani australiane che lavorano nei campi profughi. Quando chiedo notizie dei Rohingya, vedo che i loro visi si rabbuiano e mi correggono subito. Questi islamici perseguitati non vogliono essere chiamati così, il termine per loro è offensivo. Capisco che il tema è delicato e che le ragazze non sono autorizzate a parlarne con estranei. Incontro a cena Laura, un’italiana impegnata anche lei sul campo, qui da tre anni. Mi da alcune informazioni utili, che non trovo su guide e web. Anche gli alberghi usati dagli operatori di Ong sono difficili da trovare, si scoraggiano le visite.

Nelly

Una donna mi invita in casa sua, in un andito chiuso da un’inferriata. Nelly mi fa sedere su un minuscolo sgabello di plastica e si presenta. È un’insegnante, e mi parla della sua vita. Poi si offre di accompagnarmi alla chiesa cattolica di Sittwe. Quando il conducente del risciò si ferma davanti alla scuola di Sant’Anna, Nelly incomincia a recitare il Padre Nostro in inglese. Ho visto le immagini buddiste nella sua casa e la foto di un monaco cui è molto devota, ma il ricordo della Convent school, dove ha studiato da ragazza, la commuove. «Ho pianto quando hanno nazionalizzato le scuole cattoliche (nel 1965, ndr). Mia madre era insegnante, di sangue cinese. Mi aveva mandato a Yangon a studiare dalle suore, ho ricordi felici di quegli anni». Entriamo nella scuola matea, frequentata da bimbi di etnia Chin. Anche le maestre e il parroco sono Chin, come gli orfani che vengono ospitati nel complesso di edifici voluti dai missionari americani 140 anni fa. Anche qui la chiesa è dedicata a N.S. de la Salette.

Mrauk U, stato Rakhine

Per arrivare a Mrauk U, capitale nel secolo 16°, luogo remoto dove sorgono monumenti straordinari ancora poco visitati, ci vogliono quattro ore di navigazione. Arrivo al molo che fa ancora buio. Salgo sul ponte superiore del battello e osservo lo spettacolo dell’imbarco. Le passerelle sono due assi sulle quali la gente passa con carichi incredibili, senza perdere l’equilibrio. Fa freddo, ma mi accoccolo sull’assito del ponte in compagnia di donne e bambini, avvolti da coperte. In lontananza vedo monti azzurri e voli di gabbiani su un fiume ampio che sconfina col mare. Più avanti il fiume si restringe e compaiono delle reti triangolari. I pescatori sono al lavoro, le loro capanne su palafitte e le barche formano un paesaggio sereno. Prendo alloggio in una struttura vecchia ma simpatica, dove incontro viaggiatori come Beate e Volkmar, da tre mesi in giro per il Myanmar. Lui è un fisico di Friburgo. Beate è stata infermiera e ora che è in pensione ha convinto Volkmar a lasciare il lavoro per viaggiare. Ceniamo insieme a Htum Shwe, un ingegnere birmano che ha ereditato il complesso e lo sta trasformando in una pensione. Vive e lavora a Yangon, dove risiede con moglie e figli. Una volta al mese arriva per seguire i lavori. La sua era una famiglia di proprietari terrieri di Sittwe che perse tutto con la riforma socialista.

MC 1-16 Myanmar1-07Pagode a Mrauk U

Vedo le bambine andare al pozzo, caricarsi sul fianco grandi brocche di alluminio. Una di loro ha un viso assorto, bello, con la pasta di tanakha sulle guance. Veste alla marinara, con la casacca bianca e blu che contrasta con la povertà dell’ambiente. Mi indica un colle con la pagoda più bella, Mahabodi swegu. Mi avvio su un sentirnero impervio e raggiungo la pagoda nascosta dai cespugli. Entro e noto le pareti scolpite a fasce, con le storie di Buddha e la vita di villaggio di 400 anni fa. Battaglie, animali, anche un uomo con la testa in giù, come quelli che ho visto scolpiti sulle chiese più antiche in Sardegna. Proseguo per visitare altre pagode e vedo una ragazzina, seduta al bordo della strada sterrata, con un neonato in grembo. Ha una piaga sul viso triste, il suo sguardo sgomento mi dice che non è consapevole del fatto di essere madre, non credo abbia più di quindici anni. Le capanne sono povere e sporche, si cucina sulla terra, si dorme su pavimenti di bambù sollevati da palafitte, tutti insieme. Promiscuità, miseria e ignoranza.

Mrauk U è un cantiere aperto, stanno aprendo alberghi e asfaltando strade, sperando nel turismo. Alle 7 del mattino passano i pick up a prendere le giovani che lavorano nei cantieri. Le più grandi lavorano sulle strade in costruzione, lisciando la graniglia nera con le mani. Con un cappello conico e un bavero sul viso spalano la sabbia e la ghiaia. Gli uomini guidano rumorosi mezzi che sembrano assemblati per gioco.

I templi sono di pietra scura, sembrano fortezze con tanti stupa a campana. Chi arriva qui rimane incantato dai tramonti e dalle albe che si possono ammirare dall’alto dei colli, in un’atmosfera magica.

Claudia Caramanti

(fine prima parte – continua)

In this photograph taken on November 8, 2015, Myanmar opposition leader Aung San Suu Kyi and head of the National League for Democracy (NLD) party casts her ballot at a polling center in Yangon. Myanmar's powerful army chief has congratulated Aung San Suu Kyi's opposition party for winning a majority in the country's historic general election, in a statement released late November 11, 2015 on the military's official Facebook page. AFP PHOTO / STR / AFP / -
Novembre 8, 2015, Aung San Suu Kyi capo del partito National League for Democracy (NLD) vota in una stazione elettorale di Yangon. AFP PHOTO / STR / AFP / –

Note:

1- Il conflitto, che gli esperti definiscono a «bassa intensità», continua a mietere vittime e a causare sofferenza. Tutto è iniziato nel 1949. Dopo aver ottenuto l’indipendenza dalla Gran Bretagna, alla fine del secondo conflitto mondiale, il nuovo presidente del paese, Aung San – padre di Aung San Suu Kyi, futuro leader della Lega nazionale per la democrazia (Ndl) e Nobel per la pace – aveva firmato, in accordo con i capi delle diverse comunità etniche che compongono il complesso mosaico birmano, il «Trattato di Planglong». L’accordo offriva a ciascun popolo la possibilità di scegliere – entro il termine di dieci anni – il proprio destino politico e sociale. Questo trattato non è stato mai rispettato da Rangoon (Yangon) perché, dopo un colpo di stato e l’uccisione di Aung San, il potere è passato alla dittatura militare del generale Ne Win. Così, da sessantasei anni a questa parte, i Karen – un popolo che conta ben sette milioni di persone – imbracciano le armi.

2- Sulla situazione vedi Stefano Vecchia, Quando l’islamofobia è buddhista, MC luglio 2013.




La forma dello spirito

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Il santuario di Lourdes accoglie ogni anno 80mila malati e disabili. Ma la Via Crucis è poco accessibile. Così una scultrice trasforma 100 tonnellate di marmo di Carrara in un’opera dello spirito. Incontro con l’artista.

Il santuario di Lourdes è un luogo singolare, unico, dove le persone che vi giungono riescono a riconciliarsi col mondo, aprendo il cuore alla fede. Il miracolo della vita viene percepito con una forza straordinaria e la malattia diventa strumento che conduce al mistero dell’amore di Dio. A Lourdes si raccoglie conforto spirituale, si ricerca una guarigione che può essere non solo fisica, ma anche interiore. A Lourdes si può dare nuovo significato all’esistenza, si colmano vuoti, si trova un’alternativa alla solitudine, e le sofferenze vengono alleviate dal balsamo della preghiera.

annunciazione - scultura presso il museo a cielo aperto in ProvenzaLe apparizioni

Sono migliaia le persone che ogni anno giungono al santuario, dove, l’11 febbraio 1858, Beadette, recandosi insieme a due amiche verso Massabielle, lungo il fiume Gave, in un’ampia grotta ubicata vicino al corso d’acqua, vide per la prima volta «la Signora» – come Beadette chiamò, per la sua grazia, la Madonna – abbellita da una rosa su ciascun piede, e dalla corona del rosario al braccio. Quellaa prima apparizione Beadette la raccontò così: «Avevo appena tolto la prima calza che sentii un rumore come se ci fosse stato un colpo di vento. Allora voltai la testa dalla parte del prato (dal lato opposto alla grotta, nda). Vidi che gli alberi non si muovevano. […] Appena alzai la testa guardando la grotta, scorsi una Signora. Aveva un vestito bianco, un velo bianco e una cintura azzurra e una rosa su ogni piede, del colore della catenella del suo rosario. Allora fui un po’ impressionata. Credevo di sbagliarmi. Mi strofinai gli occhi. Guardai ancora e vidi sempre la stessa Signora. Misi la mano in tasca; vi trovai il mio rosario. Volevo fare il segno della croce. Non potei arrivare con la mano fino alla fronte. La mano mi cadeva. Allora lo sbigottimento s’impadronì ancor più di me. La mia mano tremava. Tuttavia non fuggii. La Signora prese il rosario che teneva tra le mani e fece il segno della croce. Allora provai una seconda volta a farlo e potei. Appena ebbi fatto il segno di croce scomparve il grande sbigottimento che provavo. Mi misi in ginocchio. Ho recitato il rosario in presenza di quella bella Signora. La visione faceva scorrere i grani del suo, ma non muoveva le labbra. Quando ebbi finito il mio rosario, mi fece segno di avvicinarmi, ma non ho osato. Allora scomparve all’improvviso. […] Cammin facendo ho domandato alle mie compagne se non avevano visto niente. No, mi risposero. L’ho domandato loro ancora. Mi dissero che non avevano visto niente. Allora aggiunsero: – E tu hai visto qualcosa? Allora dissi loro: – Se non avete visto niente, neppure io».

Le apparizioni si susseguirono e Beadette ebbe la visione della Madonna ancora una seconda, una terza volta, fino a quindici volte di seguito dal 19 febbraio al 4 marzo 1858. Quattro anni dopo, nel 1862, il vescovo di Tarbes riconobbe ufficialmente l’autenticità delle apparizioni. La grotta di Lourdes, da allora, si è trasformata in luogo di pellegrinaggio, cui accorrono sempre più fedeli, tanto da diventare terzo santuario cristiano al mondo per numero di visitatori all’anno.

Guarigioni e preghiere

scultura Maria De FaykodLa fede, la devozione profonda, la pace e la speranza presenti in questo angolo degli Alti Pirenei francesi derivano sia dalle apparizioni e dalla meravigliosa storia di Beadette, sia dalle numerose guarigioni registrate a seguito del pellegrinaggio stesso, o per effetto di un’invocazione sincera a Nostra Signora di Lourdes. Le guarigioni, pur se reali, rimangono un mistero. Tuttavia, sono spiegabili se si ricordano le parole della Madonna: «Andate a bere alla sorgente e a lavarvi». L’acqua che scorre a Lourdes – nelle fontane, nelle piscine, lungo il cammino chiamato proprio dell’acqua – ha in sé del miracoloso. Questo elemento liquido trae la sua forza dall’autenticità della fede, dalle preghiere, dall’intenzione con cui le orazioni vengono pronunciate.

Proprio questa preghiera la si osserva segnata da un incredibile ardore lungo «la Via Crucis», o meglio, «le Vie Crucis». Quella più nota a Lourdes è stata realizzata e completata nel 1912 sulla collina detta delle espélugues (spelonche). Pur suggestivo, si tratta però di un Cammino della Croce difficoltoso per le persone con handicap. Come ha ricordato Francis Dehaine, direttore generale dei servizi dei santuari a Lourdes, oggi in pensione: «Lourdes accoglie ogni anno più di 80mila persone malate e disabili». Proprio per rendere più agevole l’esperienza del pellegrinaggio a Lourdes a quanti hanno difficoltà motorie è stato avviato, nel 2001, il progetto di realizzare una nuova Via Crucis. L’idea ha preso forma concreta quando monsignor Jacques Perrier, vescovo di Tarbes e Lourdes, decise di proporre come riflessione ai pellegrini questo tema: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati». Per facilitare l’incontro delle persone disabili, affaticate e oppresse, col fervore spirituale di Lourdes venne ufficializzata l’idea di un nuovo Cammino della Croce, più adatto e degno per i malati. Il progetto fu affidato alla scultrice franco-ungherese Maria de Faykod, già nota in tutto il mondo per le sue opere intrise di devozione cristiana.

Più attenzione ai malati

Questa scelta è stata abbastanza naturale, considerata la profonda fede dell’artista. Inoltre, la scultrice aveva già realizzato, nel 1981, per il santuario di Lourdes una statua della Pietà.

Abbiamo incontrato Maria de Faykod presso la sua casa-museo nel Sud della Francia per capire la genesi della sua rivisitazione della Via Crucis. Ci ha raccontato come questo lavoro l’abbia coinvolta totalmente e come abbia iniziato a realizzare le sculture con molto entusiasmo. «Dal 2003 al 2008 mi sono dedicata con grande fervore a questo progetto. Grazie a tanti benefattori siamo riusciti subito a trovare il finanziamento per avviarlo. Come artista non ho voluto accettare alcun compenso, ma abbiamo dovuto sostenere una serie di spese, legate all’acquisto del materiale e del relativo trasporto».

Per cinque intensi anni Maria de Faykod ha plasmato un’imponente opera, ricavata dall’estrazione di quasi cento tonnellate di marmo di Carrara. Un’opera composta da 17 sculture, che ripercorre il cammino di Cristo, dalla Passione alla Resurrezione. «Per me lavorare questa materia significa andare oltre la materia stessa – ci spiega Maria – poiché non vedo tanto l’oggetto in sé, piuttosto mi lascio trasportare dalle sensazioni e da ciò che percepisco modellando il marmo. La mia fonte di ispirazione è certamente la spiritualità, sono cristiana e dunque mi riconosco nell’amore di Dio incarnato in Gesù. Allo stesso tempo, quando ho concepito le sculture per il santuario di Lourdes volevo manifestare qualcosa di diverso rispetto alla Via Crucis tradizionale.

Ho sottolineato la continua unione tra il cielo e la terra, tra il divino, il Cristo e l’umanità. Questo legame è possibile per il tramite della spiritualità. Le sculture mostrano il profondo amore di Gesù verso l’essere umano, testimoniato dal suo sacrificio. Egli porta sulle sue spalle una grande, pesante croce, simbolo delle sofferenze umane, e queste sofferenze le fa proprie. Ma in questo calvario possiamo vedere un ritorno alla sorgente. Gesù ritorna al Padre e attraverso la croce e l’essere umano può ridiventare essere spirituale, ritornando al divino».

Dalla materia alla spiritualità

museo sculture 2014-09-21 119Ogni scultura, quindi ogni tappa della Via Crucis concepita e realizzata da Maria, parla al cuore con un linguaggio metaforico in cui sono racchiuse sofferenza e speranza, lacrime e sorrisi, dolore e gioia. Le opere hanno un forte impatto visivo, sia per la luminosità del marmo – volutamente bianco proprio per evocare la luce divina -, sia per le loro dimensioni. Le 17 sculture hanno un’altezza che varia dai 2,20 ai 2,60 metri, e una larghezza tra 1,30 e 1,80 metri. Sono statue imponenti, capaci di trasmettere la presenza dello Spirito. Osservandole lo sguardo si posa sul visibile e al contempo sull’invisibile.

Come sottolinea Maria: «Per me fare arte significa mostrare ciò che non si vede, ciò che gli occhi non possono o non vogliono osservare, ciò che non sembra esserci nella materia. Potrei dire che la mia prospettiva artistica ed esistenziale sia basata su questo adagio: “Credo nel mondo reale ma vivo nella dimensione spirituale”. Quest’ultima, per me, è molto più forte della dimensione materiale».

Questa angolazione consente a Maria di guardare al mondo in maniera diversa, abbracciando una visione sintetizzabile in una parola: transustanziazione. La materia, sia essa marmo o altro, viene trasfigurata in entità fisica spirituale. Ecco perché le sue sculture riescono a rivelare l’essenza dell’anima: ciò è possibile attraverso un processo di spiritualizzazione infuso dall’artista. Questa prospettiva nutre anche la concezione esistenziale di Maria. Infatti, alla nostra domanda: «Come è possibile non cadere nel pessimismo vivendo in un’epoca così fortemente materialistica e violenta?» Maria ci ha risposto: «Bisogna partire da una visione complessiva. Personalmente, osservo ciò che accade nel presente e vivo nel presente, vedo la materia e il genere umano, però il mio sguardo è più ampio. Guardo alla totalità. Ritengo che questa fase storica, certamente molto materialistica, sia solo un passaggio nell’evoluzione umana, poiché noi andiamo verso un’evoluzione spirituale. Siamo ancorati alla terra ma siamo collegati al cielo e ci proiettiamo verso il cielo. Cristo ci dice: “Evolvete interiormente per incontrare il mio amore”. La Via Crucis è simbolo dell’amore di Cristo che prende su di sé tutta la sofferenza del genere umano per trasformarla, appunto, in amore».

Accessibili a tutti

Inizialmente, il Cammino della Croce realizzato da Maria de Faykod sarebbe dovuto essere collocato in una posizione sopraelevata rispetto alla prateria, ma nel 2008 venne deciso di installarlo provvisoriamente in basso, in attesa che venissero portati avanti lavori di sistemazione della grotta e della piscina. Dopo la drammatica alluvione del 2013 che ha investito i Pirenei e anche Lourdes, danneggiando il ponte Jumeau-Gemello, si stanno finalmente intraprendendo azioni per riprogettare l’ubicazione delle 17 sculture, anche per la loro stessa conservazione. Alcune opere, per effetto delle escursioni termiche e soprattutto per effetto della pioggia caduta nel 2013, e nell’ottobre 2015, hanno subìto danni. Nel momento in cui scriviamo non si sa esattamente quale sarà la loro futura ricollocazione. È certo che le migliaia di pellegrini malati e impossibilitati a camminare hanno il diritto di seguire il Cammino della Croce in tutta tranquillità.

Silvia C. Turrin




Chiesa, dialogo contro terrore

Laurent Lompo, il
primo vescovo nigerino della storia

Giovanissimo, ma già
sperimentato. La sua parola d’ordine è «dialogo interreligioso», non
raccontato, ma applicato. È la nuova guida della piccola comunità dei cattolici
nella diocesi di Niamey. Con approccio «missionario».

1. Intervista con mons. Laurent Lompo

Niamey. Monsignor Laurent Djalwana Lompo è il nuovo arcivescovo
dell’arcidiocesi di Niamey. È il primo vescovo del Niger di nazionalità
nigerina ed è stato intronizzato dal cardinale Philippe Ouedraogo (del Burkina
Faso) il 14 giugno scorso. Originario di Makalondi, 100 Km a Ovest della
capitale, è nato nel 1967. Dopo la scuola primaria nella città natale, il
collegio a Say e il liceo a Niamey, ha passato dieci anni di seminario in
Burkina. È stato ordinato prete nel 1997, e in seguito ha lavorato un anno alla
parrocchia St. Gabriel a Niamey. È stato poi responsabile al foyer Samuel, dove ci si occupa dei giovani che
vengono per maturare la loro vocazione.

Dopo una fase di studi in Francia è rientrato nel 2003, e monsignor Michel
Cartateguy, arcivescovo di Niamey, lo ha nominato vicario generale. Ruolo che
ha ricoperto per dieci anni. Nel 2013 papa Benedetto ha nominato mons. Lompo
vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Niamey e dall’11 ottobre 2014, è stato
chiamato a sostituire mons. Michel.

In Niger, paese a maggioranza
musulmana, i cristiani sono un’esigua minoranza: si parla di alcune decine di
migliaia di persone su 17 milioni. Le diocesi sono due, quella metropolitana di
Niamey e quella di Maradi, il cui pastore è monsignor Ambroise Ouedraogo (cfr.
MC settembre 2007).

Il 29 giugno scorso mons. Lompo era
a Roma per concelebrare la messa con papa Francesco, durante la festa dei santi
Pietro e Paolo. In quell’occasione il santo padre ha benedetto il palio per i
46 arcivescovi metropoliti nominati nell’anno. L’insegna ecclesiastica di lana
bianca «è simbolo del pastore che sente l’odore del gregge e ne porta il peso,
facendo l’unità della Chiesa», ci racconta monsignor Lompo, che incontriamo nel
suo ufficio, a ridosso della sobria cattedrale di Niamey, in pieno centro città.

«Voglio continuare la missione di
mons. Michel, che ha molto operato per questa diocesi, e ha vissuto il suo
motto “Che lui diventi più grande e che io diminuisca”, spingendo il clero
diocesano a prendere le sue responsabilità. Penso sia in questa linea che papa
Francesco mi ha nominato arcivescovo».


Che sentimento prova, in quanto nigerino, a ricoprire questo ruolo
importante per la Chiesa cattolica, in un paese in cui i cattolici sono una
minoranza?

«In un paese in cui il 98% della
gente è musulmana, per me è una gioia, un onore, sapere che la comunità
cristiana ha fatto il suo cammino, è arrivata a maturità. È anche un dovere,
quello di mettere le basi per consolidare il dialogo interreligioso in questo
paese. Gli avvenimenti del 16 e 17 gennaio scorso (manifestazioni anti
cristiane, vedi box, ndr) ci danno ancora l’occasione concreta per
affermare che il dialogo interreligioso è di una importanza capitale. E non
deve restare solo a livello della gerarchia, ovvero dei responsabili e leader
religiosi, ma deve partire dalla base e andare fino in cima. Perché gli eventi
che si sono prodotti hanno mostrato che la gioventù è molto coinvolta. Quindi
vogliamo fare in modo che il dialogo sia vero e sincero. Siamo in un paese
laico, le autorità politiche devono tenere conto del rispetto delle minoranze.
I cristiani hanno il loro posto. Preghiamo affinché questo impegno possa essere
concreto, e noi cristiani possiamo intenderci con i musulmani e continuare la
missione in Niger».

Nella pratica, quale programma avete con i capi religiosi musulmani?

«Siamo rimasti molto stupiti delle
manifestazioni di gennaio. Viste le relazioni che abbiamo, non avremmo mai
immaginato che in Niger si sarebbero potuti produrre degli eventi simili. Noi
stiamo continuando quanto faceva mons. Michel Cartateguy: il dialogo
interreligioso, a tutti i livelli. Il programma sul quale abbiamo riflettuto si
chiama “Vivere insieme”, e tiene conto della formazione della gioventù di oggi.
Una gioventù sbandata, che ha bisogno di contatto tra cristiani e musulmani.
Contiamo di mettere in opera un programma, con il supporto di partner interni
ed estei, affinché possiamo formare i giovani alla tolleranza, al rispetto
mutuo, alla conoscenza dell’altro. Perché quando conosci qualcuno lo rispetti.
Questo rispetto, pensiamo si possa avere se ciascuno è radicato nella sua fede:
i cristiani nella propria fede e così i musulmani. Insieme possiamo coltivare
la pace di cui il Niger ha bisogno oggi».

Vi cornordinate con i leader musulmani?

«Lavoriamo con tutti gli strati
sociali. Abbiamo diverse scuole cattoliche, nelle quali la maggioranza degli
studenti sono musulmani. La formazione mette l’accento sul vivere insieme, e
questo per ogni ordine e grado di scuola. Lo stesso accade nelle attività come
la Caritas, in cui lavoriamo con i musulmani. Anche a livello dei nostri
dispensari cerchiamo la collaborazione con gli altri.

Abbiamo una Commissione nazionale di
dialogo interreligioso che raggruppa musulmani e cattolici a livello di diocesi
di Maradi e di Niamey, insieme costituiscono la commissione interdiocesana, di
cui monsignor Ambroise Ouedraogo è cornordinatore. Alla mia intronizzazione c’è
stato un gran numero di musulmani presenti. Penso che la Commissione permetta
di avvicinarci ulteriormente e di togliere le paure e le incomprensioni dovute
agli eventi del 16 e 17 gennaio scorso. In quei giorni, in seguito alle
caricature del profeta Maometto uscite su Charlie Hebdo, c’è stata una reazione a livello internazionale, che
in altri paesi si è potuta contenere, ma in Niger purtroppo no. C’era un certo
numero di giovani infiltrati, e la gioventù sbandata è una porta aperta agli
attacchi, ai saccheggi e alla profanazione che abbiamo vissuto nelle nostre
diverse chiese. Ci siamo visti con le spalle al muro. Hanno bruciato tutto. Non
accusiamo la comunità musulmana, ma c’è stata una intromissione dall’esterno.
La tattica secondo noi è quella di Boko Haram. Il modo con cui hanno attaccato
le chiese era pianificato, si erano organizzati per bruciare. Stiamo lottando
contro questo nemico comune, che sia cristiano come musulmano. Boko Haram è un
nemico di tutti».

In Niger l’islam è stato sempre molto tollerante. Queste infiltrazioni
riescono a influenzare e radicalizzare i musulmani comuni?

«Oggi non possiamo non parlare di
radicalizzazione, quando vediamo il comportamento esteriore, l’abbigliamento,
le reazioni, penso che l’islam si stia radicalizzando poco a poco in un paese
in cui è stato sempre tollerante. L’influenza estea ha un peso, e noi nel
dialogo interreligioso lo diciamo. Non credevamo che sarebbe potuto succedere,
ma il fatto che ci sia questa radicalizzazione può avere un effetto negativo.
Durante gli assalti a Zinder c’erano delle persone con la bandiera di Boko
Haram, che gridavano parole d’ordine tipiche del gruppo. Queste cose hanno buon
gioco con la grande massa.

Al momento non abbiamo preoccupazione
perché non crediamo che possano capitare ancora questi fatti. Quando
incontriamo i musulmani, le associazioni, i leader politici, tutti condannano
quello che è successo. E penso che delle disposizioni siano state prese. Per
questo diciamo, rispetto a quello che è successo: occorre che lo freniamo con
il dialogo, il mutuo rispetto e il rispetto delle minoranze. Se continuiamo a
operare, cristiani e musulmani insieme, in questa direzione possiamo fermare
questo fenomeno».

Collaborate con altre chiese sorelle in altre parti del mondo?

«In Niger ci sono cattolici ed evangelici. Collaboriamo e
vogliamo impostare l’ecumenismo, affinché tra cristiani ci possiamo conoscere
ancora meglio e lavorare insieme di più.

A livello regionale facciamo parte
della Conferenza episcopale Burkina Faso – Niger e lavoriamo con le chiese
sorelle del Burkina e del Benin. All’intronizzazione c’erano cinque vescovi del
Benin.

Collaboriamo anche con l’Europa, ad
esempio con le diocesi italiane di Lodi, Belluno, Milano e Genova, delle quali
abbiamo dei missionari qui con noi. Recentemente ho fatto un viaggio
nell’ambito di questa collaborazione per rinforzare la cooperazione missionaria
e allo stesso tempo presentare i progetti di ricostruzione per le nostre
chiese.Ho avuto un’accoglienza calorosa e
sono tornato con un’immagine molto bella della chiesa italiana».

Ci sono anche dei missionari di ordini religiosi?

«Sì, ci sono i padri Bianchi, i
Redentoristi, la Società delle missioni africane oltre ai sacerdoti fidei donum, sia dell’Italia che della Francia. Inoltre
abbiamo molte altre congregazioni religiose che vengono dal Benin, Togo,
Burkina Faso, ma anche da Canada e Francia. La maggior parte delle
congregazioni lavorano nelle scuole e nei dispensari. È una fetta importante
della cooperazione missionaria».

Quali sono le sfide maggiori che sente e qual è il suo programma per i
prossimi anni?

«Portiamo avanti la visione che
recita: “Tutti sono missionari in una chiesa famiglia che testimonia l’evangelo
nella realtà del Niger”. Vivere la parola di Dio nel Niger di oggi ha come
sfide, prima di tutto, il dialogo interreligioso, la formazione dei nostri
cristiani alla cultura della tolleranza, la formazione dei cristiani ad avere
una fede solida e a radicarsi ancora di più nella Parola. Perché quando si è
forti a livello spirituale, si regge meglio davanti alle prove. Vogliamo
sviluppare la Caritas diocesana, come servizio ai più poveri del paese, che
sono molti. Mettere l’accento sulla responsabilizzazione. I missionari ci danno
uno stimolo esaltante e dobbiamo fare in modo che tutti i preti, i religiosi, i
laici, ad ogni livello, possano essere responsabili. Una chiesa che poco a poco
prenderà se stessa in carico. È il nostro programma. Noi abbiamo bisogno delle
chiese straniere, ma dobbiamo prima di tutto contare sulle nostre forze. Le
altre vengono a complemento».

In Niger molti cattolici sono di origine straniera. Avete una pastorale
per la diffusione del cattolicesimo?

«È vero, molti cattolici vengono da
altri paesi, ma molti cristiani nelle parrocchie di campagna sono autoctoni.
Prendo il caso di Dogon Doutchi, in zona haussa (prima etnia per numero,
presente anche in Nigeria, ndr) oppure la
zona sonrai: entrambe hanno molti cristiani. Un centro importante è Makalondi,
che raggruppa le parrocchie di Makalondi, Bomanga, Torodi e Kankani. Non posso
dire che si tratta del polmone dei cristiani nigerini, ma in quella zona sono
tutti nazionali. Quest’anno su 400 battesimi, oltre 150 sono stati di persone
originari di quella regione. Lì la gente ha sete di fede, le chiese sono piene
e quando sono stato in visita pastorale, mi hanno detto: “Siamo in
soprannumero, non è che potete trovare i mezzi per costruire altre chiese?”.
Conteremo sulla partecipazione locale per poter costruire luoghi di culto in
queste regioni, dove il cristianesmo avanza rapidamente in numero e qualità.

Penso anche, in questa prospettiva,
alla promozione delle vocazioni, perché il clero diocesano è una necessità.
Abbiamo una pastorale vocazionale. A livello del seminario maggiore ci sono
nove seminaristi, e altri tre stanno facendo l’anno propedeutico. Altri giovani
sono al foyer
Samuel dove si
preparano fino all’esame di maturità.

I missionari sono venuti in passato,
ma adesso vediamo la rarità di quelli che vengono dall’Europa. È il nostro
tuo di fare uno sforzo missionario affinché le comunità comprendano
l’importanza della missione oggi in Niger. Facendo la promozione delle
vocazioni preghiamo ogni giorno e ci mettiamo in opera affinché ci sia un
accompagnamento a livello delle parrocchie. Nella diocesi di Niamey ci sono
circa 45.000 cattolici. La maggioranza si trova della zona di Makalondi. E ogni
anno aumentano».

Come concilia la sua cultura e tradizione africana con la spiritualità
cattolica?

«A livello della nostra diocesi
crediamo molto nello sforzo dell’inculturazione: partire dai valori positivi
delle nostre culture e li leggiamo alla luce del Vangelo che viene a
purificarli in modo che possiamo comprenderli. Un impegno importante è la
traduzione della Bibbia nelle diverse lingue del Niger. Il giorno della mia
intronizzazione abbiamo fatto la processione delle offerte, e hanno partecipato
tutte le etnie del paese nel loro vestito tradizionale, per mostrare
l’universalità. Il Vangelo è venuto per tutte le etnie, non per una sola, tutte
hanno la possibilità di aprirsi al Vangelo. Abbiamo anche utilizzato il griot (importante figura del cantastorie in Africa
dell’Ovest, ndr). Nel paese gourmanché (altra etnia
presente in Niger e Burkina, ndr), il messaggio
trasmesso dal griot diventa un messaggio popolare,
ascoltato da tutto il mondo. Per questo anche il testo che ratifica che sono
diventato arcivescovo e stato tradotto in lingua locale e letto, in modo tale
che tutti potessero comprendere meglio. Prendiamo quello che è positivo nelle
nostre culture e vediamo come si inserisce nel Vangelo. Facciamo questo sforzo
in modo che la Parola prenda più forza nelle nostre culture, perché sappiamo
che il Vangelo entra nella cultura e la purifica, così la nostra fede diventa
solida».

Marco Bello


2. La situazione

A pochi mesi dalle
elezioni, il Niger deve fare i conti con Boko Haram

Stretto tra due
fuochi

Un paese tra i più poveri al mondo si vede costretto a
combattere una guerra. E a vegliare sulla propria sicurezza intea. Un governo
che in oltre quattro anni è riuscito a realizzare infrastrutture e promuovere
l’agricoltura. Una società che tende a islamizzarsi sempre di più a causa di
infiltrazioni e influenze estee.

Niamey. È un torrido
pomeriggio di fine giugno, le piogge stagionali sono in ritardo, e
dall’aeroporto internazionale di Niamey, Diori Hamani, vediamo uno strano
velivolo decollare e dileguarsi rapidamente. È un drone militare,
verosimilmente Usa (non ne esistono altri nella regione). È pilotato da
qualcuno dietro a dei monitor, molto lontano dal caldo e dalla sabbia del
Niger. Si alza in missione verso Est, per ricognizione o per sparare contro gli
uomini di Boko Haram, con i quali è ormai guerra aperta dal febbraio scorso.

Qualche settimana fa, sulla pista del piccolo aeroporto
di Zinder, seconda città del paese, a 900 km a Est della capitale, due caccia
bombardieri Sukhoi, di fabbricazione russa e con insegne nigerine, erano
parcheggiati in attesa di decollo. Sempre all’aeroporto di Zinder, il 24
giugno, una quindicina di militari francesi, facevano una rapida sosta, per
ripartire con il loro turboelica alla volta di Diffa, città a 460 km più ad
Est, zona di guerra.

Paese saheliano con territorio in gran parte desertico, tra i più
poveri del mondo, il Niger è ormai da alcuni anni stretto in una morsa di
guerra. A Nord imperversano i jihadisti di Aqmi (Al Qaida nel Maghreb
islamico, cfr. MC luglio 2012) e vari altri gruppi, attivi in Mali, contro i
quali è in corso una guerra che ormai dura da marzo 2012, con l’intervento
della Francia nel gennaio 2013 (operazione Barckhane) e della successiva
Missione di stabilizzazione delle Nazioni unite (Minusma).

A Sud Est, nella confinante Nigeria, opera da metà anni
‘90 la setta, gruppo integralista Boko Haram (cfr. MC luglio 2012). Questa ha
di fatto cambiato il livello del conflitto, quando nel febbraio scorso, ha
attaccato la città nigerina di Diffa e cominciato incursioni in diversi
villaggi lungo il confine. Oltre al Niger e alla Nigeria sono coinvolti nella
guerra Ciad e Camerun, tant’è che militari nigerini e ciadiani controllano
alcune città in Nigeria, nello stato del Boo (Nord Est), dopo averle
sottratte a Boko Haram. È del luglio scorso la creazione di una nuova
coalizione militare per combattere i terroristi: la Forza d’intervento
multinazionale
, della quale fa parte, oltre ai quattro paesi citati, anche
il Benin, confinante con la Nigeria a Ovest.

Il Niger, è da sempre patria di un islam tollerante, ma qualcosa
sta cambiando. Il paese ha vissuto alcuni avvenimenti mai visti il 16 e 17
gennaio scorso. In seguito all’attentato al settimanale satirico Charlie
Hebdo
a Parigi e alla reazione del mondo contro l’accaduto, a Zinder e
Niamey si sono verificate due violente manifestazioni, rapidamente degenerate,
contro la minoranza cattolica. Chiese e case parrocchiali sono state attaccate
e incendiate, così come scuole cattoliche. Le forze dell’ordine sono riuscite a
intervenire troppo tardi. Monsignor Ambroise Ouedraogo, vescovo di Maradi,
diocesi di cui fa parte anche Zinder, ci racconta: «Qualche giorno prima degli
eventi, padre Léo (missionario d’Africa, originario della Rdc, da anni nel paese,
ndr) aveva mandato una lettera al prefetto per chiedere protezione.
Erano state mandate due camionette di gendarmi. Ma quando c’è stato l’attacco
nessuno ha fermato gli assalitori. Solo la Guardia nazionale, in seguito, è
intervenuta per fermare i manifestanti quando questi hanno tentato di attaccare
l’altra scuola cattolica. A Niamey sono state bruciate sei chiese su otto, di
cui una inaugurata pochi mesi prima. I preti e le suore hanno abbandonato
Zinder per paura. Andiamo a celebrare la messa ogni due settimane da Maradi
(230 km). Ma la chiesa è stata completamente bruciata, come la scuola e i
locali parrocchiali. La celebrazione si effettua sotto una tettornia».

Secondo un professore dell’Università di Niamey, che ha chiesto di
mantenere l’anonimato: «I partiti politici di opposizione hanno usato il
pretesto di Charlie Hebdo per tentare di destabilizzare il paese e i
cristiani sono stati le vittime innocenti della manovra. Diversi esponenti di
questi partiti sono stati riconosciuti durante le violenze e poi arrestati. Gli
studenti del campus di Niamey hanno testimoniato che elementi dei partiti di
opposizione sono andati dalle associazioni studentesche per convincerle a
partecipare massivamente alle manifestazioni, ma queste si sono rifiutate».
Un’analisi, questa, condivisa anche in ambito ecclesiale. Sta di fatto che
membri di Boko Haram erano infiltrati tra i manifestanti e i metodi usati sono
stati quelli della setta nigeriana.

«È certo – ci dice ancora mons. Ouedraogo – che membri
di Boko Haram sono in mezzo a noi».

Il governo di Issoufou Mahamadou è giunto ormai al suo quinto anno
e, a inizio 2016, si terranno le elezioni. Mahamadou, del partito Pnds (Partito
nigerino per la democrazia e il socialismo), oppositore storico dei regimi
succedutisi a partire dagli anni ’90, è arrivato finalmente al potere grazie
alle elezioni del gennaio 2011, che misero fine a 13 mesi di governo di
transizione della giunta militare (cfr. MC giugno-luglio 2011). È stato come se
i nigerini avessero chiesto una svolta, affidando la guida del paese a chi non
l’aveva mai avuta.

L’anno prossimo Mahamadou potrebbe vedere confermata
questa fiducia, oppure potrebbero tornare alcuni falchi del passato, come il
potente ex primo ministro Hama Amadou. Per questo, la campagna elettorale è, di
fatto, già cominciata e il tema «sicurezza contro il terrorismo» è cruciale.

Il governo ha ingaggiato una guerra a trecentosessanta
gradi contro il terrorismo islamico, sul fronte Sud Est e su quello Nord,
intervenendo con il pugno di ferro. Dopo gli attentati a Bamako (capitale del
Mali, a marzo) e a Ndjamena (capitale del Ciad, giugno e luglio), i servizi
segreti – molto efficienti in Niger – mantengono l’allerta alta. La nostra
fonte universitaria: «Si tratta di una guerra “asimmetrica”, un esercito contro
singoli attentatori incontrollabili che si mischiano alla popolazione. Il
governo ha sensibilizzato la popolazione dicendo che se si osserva qualcuno di
sospetto si deve subito avvisare il capo quartiere. Adesso la gente è più
tranquilla, non c’è la fobia che si è avuta subito dopo gli eventi di gennaio.
Penso che il governo sia stato bravo ad assicurare la sicurezza, in un paese
povero, senza mezzi, stretto tra Libia, Mali e Nigeria».

Ma nell’Est, vicino alla frontiera con lo stato nigeriano di Boo,
gruppi di Boko Haram attaccano direttamente i villaggi. È della notte tra il 17
e 18 giugno uno dei peggiori massacri, compiuto nei villaggi Lamana, Boulamare
e Goumao, a circa 50 km da Diffa. Trentotto civili uccisi, di cui 10 bambini,
tre feriti, un centinaio di case bruciate, così come i granai e alcune auto. Un
attacco peggiore era avvenuto solo sull’isola Karamga nel lago Ciad, ad aprile,
con 74 morti tra civili e militari. Gli attacchi sulle isole hanno anche creato
oltre 30.000 sfollati interni, sempre all’estremo Est del paese.

Ci confida una personalità vicina al primo ministro: «Molti
membri di Boko Haram che agiscono sulla frontiera sono ormai nigerini, non
nigeriani. Molti nostri giovani hanno ingrossato le fila dei miliziani. Li
conosciamo e la gente del posto sa chi sono».

Intanto si osservano evidenti cambiamenti nella società nigerina.
Secondo monsignor Ouedraogo «assistiamo a una certa radicalizzazione islamica,
che avviene poco a poco. Ad esempio nel 2001 erano ancora molte le donne che
non portavano il velo. Oggi sono tutte velate». Secondo il professore
universitario «si assiste a una “islamizzazione” piuttosto che a una
radicalizzazione. La gente è più islamizzata a causa della povertà crescente.
Non è tanto dovuto al fatto che abbiano paura dei gruppi radicali. Quella è
stata palpabile dopo gli avvenimenti del 16 e 17 gennaio e l’entrata di Boko
Haram in Niger a febbraio».

E mentre il governo impone regole più stringenti sulle
prediche nelle moschee, in particolare quelle, sempre più diffuse, realizzate
da imam mediorientali, la chiesa cattolica incontra i leader islamici grazie
alla Commissione per il dialogo interreligioso, che ha lo scopo di
sensibilizzare e promuovere dialogo e tolleranza.

Marco Bello

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Marco Bello




2 Istituti, 1 Missione


Stesse domande, due intervistati: la superiora e il superiore generali delle missionarie e dei missionari della Consolata, eredi, insieme, del beato Giuseppe Allamano.

Suor Simona Brambilla è brianzola, cinquant’anni, infermiera e psicologa, a fine anni Ottanta sceglie la missione ad gentes e diventa missionaria della Consolata. Nel 2011 è eletta superiora generale. I suoi modi tranquilli e un’apparente timidezza incuriosiscono i suoi interlocutori, almeno quanto la luce, la gioia e l’entusiasmo che ha negli occhi quando racconta della missione e del suo Istituto.

Padre Stefano Camerlengo, marchigiano Doc ma cittadino del mondo, cinquantanove anni, ordinato sacerdote il 19 marzo del 1984 a Wamba, Congo RD, nel 2011 è eletto superiore generale dei missionari della Consolata. Ciò che colpisce di padre Stefano è l’entusiasmo irrefrenabile, l’amore, la dedizione alla missione, e un’apertura mentale plasmata dal pensiero del beato Allamano.

Quando ha scelto di diventare missionario/a? Cosa l’ha spinto/a a lasciare tutto per dedicarti a Dio e alla missione? E perché proprio in questo Istituto?

SUOR SIMONA – Ho deciso quando avevo circa 22 anni e lavoravo come infermiera professionale in un ospedale. Il contatto coi malati ha suscitato in me una serie di domande sul senso della vita e della sofferenza. Da lì è iniziato il mio avvicinamento al Signore e il progressivo e intenso desiderio di consacrarmi a Lui. Ero indecisa tra la clausura e la missione ad gentes. Ho conosciuto i Missionari della Consolata e, dopo un cammino di accompagnamento spirituale con uno di loro, ho chiesto di conoscere le Suore Missionarie della Consolata. A 23 anni sono entrata nel mio Istituto e… eccomi qua. Da allora sono passati, velocissimi, altri 27 anni!

PADRE STEFANO –  La storia della mia vocazione è molto semplice e molto «umana». Ancora molto giovane ho sentito la necessità di condividere la mia vita con i più poveri, da questa spinta iniziale è nato tutto il resto. Sono stati i poveri che mi hanno portato a Gesù, e poi è stato Gesù che mi ha riportato ai poveri. Per questo dono ringrazio in primo luogo il Signore che mi ha fatto «degno» di questa «sublime vocazione», come la chiama il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano. In secondo luogo, ringrazio i miei confratelli missionari che mi hanno aiutato e plasmato sulle orme della missione, e infine ringrazio tutte le persone che ho incontrato finora nella mia vita che mi hanno aiutato a essere quello che sono, senza dimenticare la mia famiglia che con la sua presenza e vicinanza mi ha insegnato i valori che contano e che non si dimenticano più. Ho scelto l’Istituto dei Missionari della Consolata perché sono stati i primi missionari che ho incontrato sulla mia strada e che, ora, amo come la mia vera famiglia.

Mi racconti l’emozione più grande che ha provato girando il mondo e incontrando tante realtà in questi anni.

SUOR SIMONA – C’è un’emozione che provo tante volte visitando i nostri posti, i nostri popoli: è quella di sentirmi accolta, di ricevere tantissimo. Questo mi fa sentire piccola davanti a tanta gratuità. L’emozione di arrivare alla missione di Arvaiheer in Mongolia e trovare donne, vestite col bellissimo abito tradizionale, che ci offrono la loro bevanda tipica e la sciarpa blu in segno di accoglienza. Di arrivare a Vilacaya, Bolivia, e trovare i rappresentanti del popolo indigeno che ci ornano con pannocchie di mais e un aguayo (panno tipico boliviano, coloratissimo) in segno di benvenuto; di arrivare a Gibuti e trovare i ragazzi del centro di alfabetizzazione di Ali Sabieh coi loro maestri che per dimostrare l’amore verso le nostre sorelle ci decorano le mani con impasto di henna… e tanti, tanti gesti di accoglienza che ci fanno sperimentare come la missione è davvero uno scambio, è un dare e un ricevere.

PADRE STEFANO –  In questi anni di servizio all’Istituto, in cui mi trovo a visitare tanti paesi, tante comunità e tanti missionari, la cosa che più mi emoziona è la forza della debolezza. Mi meraviglia sempre e mi fa cadere in ginocchio a ringraziare, vedere che piccoli uomini in posti sperduti e difficili, con pochi mezzi, tra tantissimi problemi, possono cambiare la storia di un popolo, di un gruppo, sono riferimento e segno di speranza per tanti, sono luci accese in mezzo alla notte del mondo. Un’altra emozione forte te la danno sempre i bambini. Lo sguardo dei bambini, la loro gioia di vivere, la loro pura bellezza sono sempre e ovunque un’emozione fortissima che ti riempie il cuore e ti fa camminare.

Infine, mi piace ricordare che, come missionario, mi sento sempre a casa sua dovunque sia e dovunque vada. Che spettacolo poter trovare sempre delle persone amiche che ti accolgono, ti fanno trovare il calore di una famiglia. Che dono grande l’organizzazione e lo spirito missionario.

Come vede il futuro dell’Istituto. Quali sono secondo lei i punti di forza e quali, qualora ci fossero, le debolezze?

SUOR SIMONA – Un punto di forza è senza dubbio la vivacità del nostro carisma, la missione rivolta ai non cristiani nel segno della Consolazione. L’identità nostra, il nostro Dna è vivo, originalissimo, e chiede di esprimersi oggi in forme nuove, diverse. È sempre se stesso e proprio per questo capace di rinnovarsi, di rivelare aspetti inediti a seconda delle epoche, delle culture, delle circostanze. Un altro aspetto di forza è la passione missionaria che davvero non ci manca.

Di debolezze ne abbiamo. Una è rappresentata dalle quotidiane sfide della vita comune, che chiamano ciascuna di noi a uscire da se stessa, verso la «mistica dell’incontro», vissuta non solo con l’altro là fuori, ma prima di tutto, con la sorella dentro casa nella fruttuosa convivialità delle differenze.  Siamo in cammino, un cammino non facile ma che assolutamente vale la pena di percorrere. Non si può pensare la missione se non a partire dalla comunione.

Il futuro dell’Istituto? Lo immagino luminoso. Dico luminoso, non grandioso. Stiamo diminuendo numericamente, ridimensionando e ridisegnando le nostre presenze, in vista di un rilancio secondo il fine specifico dell’Istituto che è la missione ad gentes nel segno della Consolazione. Per il futuro vedo un Istituto piccolo, umile, gioioso di essere ciò che è chiamato ad essere, impegnato a «fare bene il bene, senza rumore».

PADRE STEFANO –  Personalmente non sono eccessivamente preoccupato per il futuro dell’Istituto, sono più attento alla qualità dell’Istituto. Mi guida una frase della grande santa Edith Stein, Benedetta della Croce: «Noi spesso non sappiamo dove Dio ci conduce. Ma sappiamo che è Lui a condurci. E questo ci basta!». L’Istituto è opera di Dio, è nelle sue mani. Era questa la certezza dell’Allamano e sulla sua scia anche la nostra. I punti di forza della nostra famiglia missionaria sono diversi. Prima di tutto la persona dei missionari. Nelle nostre Costituzioni diciamo chiaramente che «la persona del missionario è il primo bene dell’Istituto», la meraviglia più grande è incontrare questi testimoni, e vederli vivere e lavorare con gioia e generosità nei luoghi più sperduti e difficili dell’umanità. Legata alle persone c’è anche la ricchezza dell’interculturalità: appartenere a diversi popoli e culture e cercare di essere segno insieme della comunione e della solidarietà universale, vivendo e servendo insieme la missione, è un grande messaggio per la nostra società oggi. L’Allamano parlava di «spirito di famiglia».

Certamente siamo umani e, grazie a Dio, non siamo perfetti. Abbiamo anche noi le nostre difficoltà e i nostri problemi a essere fedeli alla grande vocazione che Dio ci ha donato. Anche noi combattiamo ogni giorno con le nostre piccole e grandi infedeltà e fragilità, con il nostro individualismo che rende, a volte, dura la vita comunitaria, con una mancanza di spiritualità forte, per cui ci lasciamo prendere dai modi e dai ragionamenti del mondo. Inoltre, facciamo fatica ad aprirci e accogliere il nuovo, il rinnovamento…

Si parla di crisi di vocazioni, secondo me dovremmo parlare di crisi di valori e d’identità in Europa. Cosa ne pensa?

SUOR SIMONA – Sì, la crisi di vocazioni mi sembra un segno, un aspetto di qualcosa di molto più vasto. E non solo in Europa. Certamente questo fenomeno ci fa pensare. Che cosa stiamo proponendo? Il Vangelo è bello. Il nostro carisma, intuito e accolto dal Fondatore, il beato Giuseppe Allamano, e poi trasmesso a noi, è un tesoro inesauribile; la vocazione a essere Missionaria della Consolata è vocazione alla gioia. E allora, perché il calo vocazionale? Al di là di tutte le analisi sociali, credo che occorra chiedersi: che cosa proponiamo? Che cosa si vede e si legge sui nostri volti, nei nostri rapporti, nelle nostre scelte concrete? Non si tratta di colpevolizzarci. Ma di responsabilizzarci e di risvegliarci, sì. Non saremo mai, credo, un istituto dai grandi numeri e sono convinta che il discernimento vocazionale debba essere un processo molto serio, approfondito e esigente in tutte le sue fasi: «La porta stretta per entrare e larga per uscire» diceva l’Allamano. Per questo non spero in grandi numeri, ma nel coltivare in profondità la chiamata di quelle giovani donne che portano nel loro cuore «il Dna della Consolata», donne a cui possiamo proporre una vita che è davvero bella e intensissima. Non ho detto facile, ho detto bella, che è molto diverso.

PADRE STEFANO –  Circa la crisi vocazionale in Europa non ho molte letture sociali e psicologiche da fare, ma appare evidente la crisi di valori che blocca ogni ideale e sogno. Soprattutto, per me, c’è una crisi della gratuità e della donazione: siamo in una società dove tutto ci è dovuto e in cui io non devo niente; senza la gratuità non si capisce la vocazione, la donazione, l’attenzione all’altro. L’assenza di gratuità provoca anche una mancanza di amore verso i poveri, gli ultimi, gli esclusi. Quando si è troppo piegati su se stessi non si può più dare spazio agli altri; quando i miei problemi sono più grandi e importanti di tutto, non posso chinarmi sulle sofferenze degli altri; quando si perde la compassione non ho più passione per la vita e per la fede e vivo male.

Quali sono le realtà del suo Istituto che secondo lei hanno bisogno di maggiore attenzione e sacrificio?

SUOR SIMONA – Accennavo prima al processo del ridisegnare le presenze. Siamo un Istituto con «lavori in corso», in ristrutturazione, in ripensamento, proprio per essere fedeli nell’oggi al dono originario e originale che abbiamo ricevuto più di 100 anni fa. In questo processo abbiamo riscoperto come fondamento biblico l’icona evangelica della vite e dei tralci. Ogni vite che voglia produrre buon vino ha bisogno di molte cure, tra cui la potatura. Ecco, occorre saper potare i tralci giusti e curare i germogli giusti. La vite potata piange, ma il pianto della vite è preludio a nuovi tralci, a nuovi grappoli, a vino nuovo.

PADRE STEFANO –  Ce ne sono diverse perché siamo sempre in cammino e dobbiamo cercare di migliorare, di andare avanti. Ma posso fermare la mia attenzione su tre aspetti che oggi sono più urgenti.

La formazione:

oggi più di ieri siamo chiamati a curare la formazione dei nostri giovani missionari per ben preparare l’avvenire. Senza una buona formazione non possiamo realizzare una buona missione. I giovani di oggi sono molto più preparati di noi di ieri, ma sono anche figli del loro tempo, per cui dentro di sé vivono profonde contraddizioni e fragilità.

Inoltre, c’è tutto un cambiamento sociale che necessita di introspezione e comprensione. In poche parole, oggi dobbiamo studiare molto per capire come funziona la realtà e che cosa possiamo fare per cambiarla o migliorarla. Anche i cambiamenti della teologia e della prassi missionaria meritano grande attenzione e riflessione e tutto questo rientra nella formazione che oggi preferiamo chiamare continua. Continua appunto, per significare che non ci si dovrebbe fermare mai, che lo studio, la riflessione, l’approfondimento dovrebbero essere il nostro pane quotidiano e la base su cui fondare tutto il nostro servizio alla gente nella missione.

La vita comunitaria:

è chiamata a essere il segno più importante e profetico della missione di domani. Le nostre comunità sono espressione dell’interculturalità e per questo sono un grande segno e progetto di solidarietà per un mondo nuovo e migliore. Tuttavia, anche se riconosciamo che è l’elemento fondamentale, tutti sappiamo che è uno degli aspetti più difficili da vivere in profondità. Sinceramente siamo ancora lontani dall’ideale, a volte viviamo la vita fraterna solo «sulla carta» o seguendo ciascuno il proprio gusto. Tutto questo è inconciliabile con la nostra vocazione e dobbiamo sempre essere vigilanti. Questa situazione necessita di una rivitalizzazione della vita fraterna in comunità, tenendo presente che questo è uno dei termometri principali per verificare la qualità della nostra vita evangelica.

L’economia:

la crisi economica, se da un lato è positiva perché ci permette di recuperare alcuni valori fondamentali e l’umanità di ognuno, dall’altro ci fa cadere in un’eccessiva preoccupazione per noi stessi, per la nostra sopravvivenza. Credo che sia un aspetto importante da curare per una conversione profonda. Il futuro della vita consacrata e della missione ce li giochiamo nell’economia. La crisi ci «obbliga» a rivedere il nostro stile e metodo di fare missione, ci invita a maggiore sobrietà e condivisione con la gente, a fare progetti e cammini decisamente insieme e in cordata con i popoli, le comunità e le persone che serviamo, e non da soli, da protagonisti. Un cammino questo che nello stesso tempo deve prendere in considerazione la difficoltà reale di reperire fondi per realizzare la missione e per dare un minimo di stabilità alle comunità.

Ecco, in sintesi, alcuni aspetti che reputo importanti da approfondire perché su questi si fonderà la vita consacrata per la missione di domani, almeno credo. Molto è il lavoro e ardua la fatica che ci attende su questi temi, ma merita la pena porre mano all’opera, perché dall’attenzione alla qualità dipenderà la fecondità della nostra missione e della nostra vita.

Messa festa della Consolata a Casa Madre, Torino, presieduta da p. Stefano Camerlengo superiore generale

Come pensa possano aiutare i laici e cosa potrebbero fare per l’Istituto?

SUOR SIMONA – Abbiamo diversi tipi di rapporto coi laici… ci sono gli amici, i benefattori, i volontari, e ci sono i «Laici missionari della Consolata», ai quali ci lega un particolare rapporto di fraternità nel carisma. Nel senso che i Lmc condividono con noi suore e con i confratelli missionari il dono dello stesso carisma, vissuto secondo le modalità proprie della vocazione specifica di ciascuno. Il primo aiuto che sicuramente essi ci offrono è quello dell’essere parte di una unica famiglia, con tutte le possibilità di dialogo, confronto e crescita nella comunione che questa appartenenza comune ci dona.

PADRE STEFANO –  Prima di parlare dei laici nell’Istituto e della loro importanza, vorrei sottolineare un atteggiamento che, reputo, dovrebbe essere alla base di tutto, e cioè la simpatia per il mondo, per la società in cui viviamo. La nostra missione comporta anche una simpatia con la società alla quale desideriamo portare la bella notizia del Vangelo, una simpatia che ci permette di entrare in dialogo con gli uomini e le donne di oggi per incontrarli e per condividere il Vangelo. La simpatia ci conduce ad avere una visione positiva del contesto e della cultura nella quale siamo immersi, scoprendo nella nostra realtà le opportunità inedite della grazia che il Signore ci offre per la nostra missione. In questo modo la missione sarà un cammino di andata e ritorno che comporterà l’atto di dare, ma anche quello di ricevere, in attitudine di dialogo fecondo e costruttivo. Con questo atteggiamento di simpatia possiamo valorizzare anche la presenza dei laici e l’importanza del loro ruolo e servizio nella Chiesa e nell’Istituto. La presenza dei laici è fondamentale nella missione, essi sono l’espressione di un carisma che non appartiene a un gruppo ma che va condiviso con tutti. Il carisma più è donato e più è credibile, fecondo e visibile. Nella diversità dei ministeri tutti i cristiani sono chiamati a rispondere generosamente al Signore che chiama ad annunciare la Buona Novella ai vicini e ai lontani. Oggi siamo chiamati a promuovere una missione condivisa con i laici, con le altre comunità religiose e con tutte le forze d’impegno per la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato. Certamente per arrivare a questo è necessaria una conversione profonda che ci faccia superare la mentalità «clericale» che tuttora ci portiamo dentro, in modo che i laici possano esercitare il loro diritto e dovere di partecipare alla conservazione, all’esercizio e alla professione della fede ricevuta e della missione condivisa.

Animazione missionaria. Come l’Istituto la sta portando avanti e cosa pensa dei nuovi metodi di comunicazione come i social network (Facebook, Twitter)? Potrebbero essere d’aiuto?

SUOR SIMONA – Beh, questa per noi è una domanda che si colloca nell’ambito dei «lavori in corso». Credo che anche nell’animazione missionaria la dimensione della comunione sia essenziale: comunità aperte, accoglienti, spazi di ascolto, di preghiera, di riflessione e di azione concertata (in unità di intenti, direbbe l’Allamano!), dove si veda, si assapori il carisma della Consolata in azione.

Vediamo la necessità di aperture missionarie nel mondo virtuale, nelle reti sociali. Stiamo pensando come fare per esserci di più e meglio, in questo mondo. Non abbiamo ancora risposte, ripeto, siamo nei «lavori in corso».

PADRE STEFANO –  Per una buona animazione missionaria sono fondamentali due cose: la testimonianza e la forza del Vangelo. Senza testimonianza evangelica missionaria della nostra vita non c’è un’autentica animazione. Ma la missione è fondata sulla forza del Vangelo. Se il Vangelo non ci riscalda il cuore e non lo conosciamo, le nuove tecniche non potranno fare nulla autonomamente. Personalmente credo che non ci sia cosa migliore del Vangelo come metodologia di animazione missionaria ma considerando il contesto sociale in cui viviamo oggi, ritengo che sia anche importante servirsi dei nuovi mezzi di comunicazione affinché la Parola e la missione arrivino a tutti, anche ai lontani. E su questo abbiamo già un problema, perché oggi noi facciamo fatica a entrare in contatto con i giovani e i lontani, abbiamo bisogno di creatività e fantasia evangelica, abbiamo bisogno di «sporcarci le mani di fango» per condividere con gli ultimi la loro situazione e allora saper narrare il Vangelo dell’esperienza, e non solo quello delle parole. La strada dell’animazione missionaria oggi è quella della vita vissuta e condivisa nelle aeree più difficili e povere del mondo. Come missionari dovremmo rimanere costantemente in contatto con la realtà della nostra gente e sentirci «mendicanti di senso». Ma troppo spesso siamo lontani dalla realtà, chiusi nelle nostre sicurezze, rispondiamo a domande che nessuno pone.

Per rispondere alle esigenze della missione attuale è necessaria una grande sensibilità sociale. In questo modo il contatto con la realtà, letta con gli occhi della fede, indicherà il progetto che il Signore propone per noi. È necessario leggere attentamente i segni dei tempi e dei luoghi, e lasciarsi interpellare da questi. L’impegno nella animazione missionaria comporta una profonda conversione personale, comunitaria e pastorale, altrimenti siamo come «cembali squillanti». La missione è sempre nel segno della speranza: speranza fondata in Cristo e nel Vangelo. Sperando contro ogni speranza. Una speranza d’origine pasquale che certamente avrà futuro perché fondata in Lui. Vivendo e facendo così ci saranno, certamente, ancora giovani generosi che sceglieranno di dare la vita per il Vangelo e per i poveri.

Voglio terminare con un messaggio di san Francesco, a me particolarmente caro in questo tempo, perché lo considero d’ispirazione riguardo la nostra presenza costruttiva nella storia attuale e guida della Chiesa e del nostro Istituto. Egli scriveva ai suoi frati inviati in missione: «Siamo pochi e non abbiamo prestigio. Che cosa possiamo fare per consolidare le colonne della Chiesa? Contro i Saraceni non possiamo lottare perché non possediamo armi. E poi che cosa si ottiene combattendo? Non possiamo lottare contro gli eretici perché ci mancano argomenti dialettici e preparazione intellettuale. Noi possiamo offrire solo le armi dei piccoli, cioè: amore, povertà, pace. Che cosa possiamo mettere al servizio della Chiesa? Solo questo: vivere alla lettera il Vangelo del Signore».

Che questo sia il nostro cammino e la nostra strada!

Romina Remigio




Il ritorno dell’impero?

Gli interessi di Istambul
in Africa e Medio Oriente

La Turchia ha
intrapreso un allargamento  dei propri
orizzonti. In particolare ha espanso la sua influenza in Medio Oriente e
Africa. Non senza intrecci con le primavere arabe. Per interessi economici,
religiosi o puramente geopolitici?

«Neottomanesimo», così è definito il
recente fenomeno dell’inedito protagonismo della Turchia in politica estera. A
partire dagli inizi degli anni Duemila, infatti, Ankara ha iniziato a tessere
intensi rapporti politici, economici e culturali in aree in cui non era
presente (a volte neanche con propri diplomatici). Questa espansione ha
ricordato a molti la vasta influenza che l’impero ottomano esercitò nei secoli
passati nei suoi domini non solo in Asia centrale e in Medio Oriente, ma anche
in Africa. Alcuni analisti vi hanno scorto una volontà di dominio regionale,
altri l’hanno letta come una necessità economica, altri ancora come un modo per
esportare l’islam. Ma di che cosa si tratta realmente? E quali effetti ha
avuto?

 

Origini e fondamenti

La nuova politica economica
turca nasce nel 2002 quando Ahmet Davuto?lu, fino ad allora, un anonimo
professore dell’Università di Beykent a Istanbul, dà alle stampe un corposo
volume dal titolo «Profondità strategica». Il volume teorizza un allargamento
degli orizzonti della politica estera turca verso altre regioni sulla base
degli interessi economici e strategici di Ankara. È una nuova visione del ruolo
della Turchia nel mondo che stravolge gli schemi adottati fino ad allora dai
politici della penisola anatolica. «A partire da Mustafa Kemal Atatürk – spiega
Eugenio Dacrema, esperto di politica mediorientale, ricercatore presso
l’Università di Trento -, la classe politica turca ha sempre guardato Stati
Uniti, Europa e Nato come uniche sponde di interesse. I rapporti con i vicini
sono stati per molto tempo conflittuali, quando non erano un ignorarsi a
vicenda. Con il nuovo trend dettato dall’opera di Davuto?lu, la visione si
amplia. La Turchia dovrebbe diventare un nuovo attore egemonico in una regione
più vasta e, pur non tagliando i rapporti con Europa e Usa, le relazioni con
l’Occidente dovrebbero passare in secondo piano.

Le direttrici dell’espansione della Turchia quindi si
indirizzano verso l’Asia centrale, il Medio Oriente e l’Africa (soprattutto il
Nord Africa). Davuto?lu viene progressivamente coinvolto in questa politica. Da
semplice teorizzatore, ne diventa protagonista, prima come ministro degli
Esteri e poi come premier (carica che ricopre attualmente). Così, le sue tesi
diventano la dottrina ufficiale dell’Akp, il partito al governo, e del suo
leader Recep Tayyip Erdo?an».

Quello
della Turchia è un espansionismo prevalentemente economico e politico. I politici
di Ankara non hanno mai accennato a un ruolo delle forze armate in questa
strategia. Ma ciò è comprensibile, se si considerano le cattive relazioni tra
l’Akp e le forze armate turche, depositarie dell’eredità laica di Atatürk.
Molto di questo entusiasmo deriva dal successo economico degli anni Duemila
quando la Turchia sembrava essere in grado di attrarre nella sua sfera i paesi
del Medio Oriente e di trasformarli in mercati per i propri prodotti. «In realtà
– aggiunge Dacrema -, l’economia turca si è rivelata molto fragile. Il sistema
si è basato sul credito facile volto al consumo e su un’industria nascente, ma
che produce beni di basso valore aggiunto, che fanno fatica a competere sui
medio-alti livelli tecnologici. Ciò ha aumentato la ricchezza, ma si è trattato
di una bolla. La Turchia ha vissuto la stessa crisi della Grecia ed è rimasta a
galla solo perché ha potuto svalutare la moneta (-40% nell’ultimo anno)». Ma
per tutti gli anni Duemila, è l’economia a far da traino alla politica estera
turca. In questo senso va letta la creazione di accordi di libero scambio con i
paesi limitrofi (Libano, Siria e Giordania) accompagnati dalla liberalizzazione
dei visti. Così come l’intesa con l’Iran che, per anni, diventa un partner
strategico per Ankara.

 

 

Le Primavere arabe

Sarebbe limitante, però,
vedere il «Neottomanesimo» solo in chiave economica. La nuova politica turca si
è nutrita anche di una visione politica che si è rivelata «attraente» per molti
paesi arabi.

Da anni, la Turchia si
presenta come un paese musulmano nel quale un partito islamico governa secondo
i principi della democrazia. Questa impostazione è diventata un modello di
riferimento per quelle nazioni che, uscite dalle rivolte arabe, stavano
cercando nuovi assetti politico costituzionali. «Va detto – osserva Valeria
Talbot, ricercatrice dell’Ispi, esperta in Medio Oriente e Nord Africa – che i
rapporti politici con i paesi del Medio Oriente e il Nord Africa hanno subìto
diverse fasi. Dopo la Primavera araba, la Turchia era certamente un modello
politico da imitare. Il successo delle visite di Erdo?an in Egitto e di Davuto?lu
in Tunisia ne sono la dimostrazione più lampante. La successiva apertura alla
Fratellanza musulmana ha però creato tensioni con i paesi del Golfo e con lo
stesso Egitto. Solo da qualche mese i rapporti con Riad sono nuovamente
migliorati e si sono registrate convergenze sul dossier siriano».

È proprio in questo legame
con la Fratellanza che molti hanno visto il limite della politica del
presidente turco. «Erdo?an cercava di prendere sotto la propria protezione la
Fratellanza musulmana internazionale – osserva Dacrema -. Voleva diventare cioè
un modello per gli altri paesi. Un progetto ostacolato tanto dalla Fratellanza
egiziana, che da sempre ha un ruolo di guida dell’organizzazione, sia dalla
tunisina Ennahda che, nonostante la buona accoglienza dei politici turchi, si è
sempre dimostrata piuttosto fredda rispetto all’idea di una guida turca della
Fratellanza. Qui giocano anche un po’ i rapporti non sempre facili tra il mondo
turco e quello arabo.

È un po’ come se la Cdu/Csu
tedesca in passato avesse voluto imporre un suo ruolo guida ai partiti
democristiani europei: i valori in comune c’erano, ma poi ogni Dc ha sempre
lavorato in modo autonomo nel suo paese».

A ciò si è aggiunto un
sostanziale fallimento della penetrazione economica nel Nord Africa e in Medio
Oriente. Inizialmente pareva che la Turchia potesse rubare il mercato agli
imprenditori occidentali. In realtà, non è avvenuto. Le imprese turche sono di
piccole dimensioni e realizzano beni con basso valore aggiunto. Questo, insieme
alla scarsa conoscenza delle dinamiche economiche dei paesi arabi, ha fatto sì
che la Turchia non sia riuscita a scardinare i decennali rapporti che le
aziende europee intrattenevano con i sistemi locali. E, complice la crisi
globale che ha interessato anche il sistema economico turco, la penetrazione
sui mercati arabi è sostanzialmente fallita.

 

 

L’Africa a portata di mano

La Turchia però è andata al
di là del Medio Oriente e del Nord Africa, spingendosi anche nell’Africa
subsahariana. «Il dinamismo turco nell’Africa subsahariana – osservano Marco
Cardoni e Andrea Marino, due funzionari diplomatici del ministero degli Affari
esteri e della Cooperazione internazionale, in una recente analisi pubblicata
per l’Ispi – si caratterizza per un approccio multidimensionale che si
concretizza in un intenso sforzo diplomatico senza precedenti. Ankara ha
proceduto ad ampliare la rete diplomatica, aprendo 19 ambasciate in Africa dal
maggio 2009 al 2014. Oggi in tutto il continente ne possiede 35, di cui 30
nella regione subsahariana». La rete diplomatica ha supportato anche un impegno
crescente negli investimenti diretti e, in particolar modo, nel campo della
cooperazione allo sviluppo. «I numeri parlano chiaro – sostengono Cardoni e
Marino -: il totale degli aiuti nella regione, sommando quelli governativi a
quelli delle Ong, è passato dai 28 milioni di dollari nel 2006 ai 425 nel 2011».
In questo settore il punto di riferimento è l’Agenzia ministeriale per la
cooperazione e lo sviluppo che opera in 37 paesi africani e ha tre sedi: Addis
Abeba, Dakar e

Khartoum. Ciò ha comportato
un impegno nella costruzione o ricostruzione di infrastrutture (porti,
aeroporti, strade, scuole, ospedali), ma anche un’assistenza capillare
attraverso la cooperazione e il volontariato.

L’impegno turco però non si è
realizzato solo attraverso il rafforzamento dei rapporti bilaterali, ma anche
mediante una sempre più ampia partecipazione a missioni inteazionali.
Attualmente, Ankara partecipa a cinque missioni di pace nel Continente: Monusco
nella Repubblica Democratica del Congo, Unamid in Darfur (Sudan), Unmiss nel
Sud Sudan, Unoci in Costa d’Avorio e Unmil in Liberia.

Due simboli della
penetrazione turca sono le Turkish Airlines e Hizmet, il movimento fondato dal
predicatore musulmano Fethullah Gülen. Le linee aeree hanno aperto numerose
rotte verso l’Africa. Oggi la Turkish ha 39 destinazioni in 26 paesi tra i
quali quelli più importanti politicamente e interessanti sotto il profilo
economico: Repubblica Democratica del Congo, Costa d’Avorio, Ruanda, Nigeria.
Ma anche destinazioni non coperte da nessun vettore non africano come la
Somalia e l’Eritrea.

L’organizzazione di Gülen,
che vanta più di 10 milioni di seguaci e ha creato un impero mediatico e
culturale, pur non essendo sempre in sintonia con l’Akp ha aperto una rete di
scuole in Africa che hanno contribuito ad avvicinare la società africana a
quella turca. Non solo ma ha favorito l’incontro tra imprenditori africani e
turchi.

Tutti
questi fattori hanno portato a un forte incremento dell’interscambio
commerciale (dai 742 milioni di dollari del 2000 ai 7 miliardi nel 2013) e a un
aumento dell’influenza politica (libera da fardelli coloniali che
appesantiscono i concorrenti). Ma questa influenza è destinata a durare? «Oggi
l’Africa concede molti spazi alla Turchia – concludono Cardoni e Marino -, ma
Pechino, Washington e Bruxelles hanno dalla loro la possibilità di far valere
sul medio-lungo periodo una dimensione economica complessiva maggiore».

 

Enrico Casale

Enrico Casale




La Consolata si è fatta coreana

Ridipinto in stile coreano il quadro della Madonna Consolata.

Lo scorso 20 giugno, anche noi qui in Corea
abbiamo celebrato solennemente la festa della nostra Consolata.

La
pioggia cadeva a dirotto quel giorno, ma in realtà è stata una vera e propria
benedizione perché da oltre un mese il paese stava soffrendo una siccità
terribile, che ha già distrutto molte coltivazioni e non ha nemmeno permesso a
molti contadini di piantare il riso.

Inoltre
pensavamo che la paura del Mers (Middle East respiratory syndrome), del
virus che ha contagiato molte persone, uccidendone quasi 30, e costringendone
migliaia a sottostare alla quarantena, frenasse la gente dal partecipare.
Invece, all’ora stabilita, alle 15, ci siamo ritrovati 200 persone nel salone
sotterraneo della nostra casa centrale di Yokkok.

La
festa della nostra tenerissima Madre è sempre una bella festa, con la gente che
partecipa attenta e commossa. Ma quest’anno c’era un motivo particolare che ha
colpito ancor di più l’attenzione dei nostri amici e fedeli coreani: lo «svelamento»
e la benedizione di un nuovo quadro della Consolata, dipinto in perfetto stile
coreano.

I
nostri amici e fedeli coreani, al vedere il nuovo quadro, sono tutti usciti in
un grande «oh!» di meraviglia, e davvero a loro piace molto: ce lo hanno detto
in tutti i modi possibili.

 

Un po’ di storia

Fin
dall’inizio della nostra presenza in Corea, ci siamo prodigati per fare
conoscere la nostra Consolata, quella originale, intendo. Poi, dopo diversi
anni, ha cominciato a far capolino in comunità l’idea di avee, prima o poi,
una versione «coreana». Si era fatto allora qualche timido tentativo, ma senza
grandi risultati. Qualche anno fa, in un’altra festa della Consolata, avevamo
addirittura lanciato una campagna di brain storming tra i nostri amici,
affinché ci dessero idee e suggerimenti su come sarebbe dovuta essere la
versione coreana della Consolata, ma anche in quell’occasione i risultati erano
stati piuttosto scarsi. La cosa, poco a poco, era finita nel serbatornio dei «sogni
irrealizzati». Fino all’anno scorso, quando il nostro missionario coreano Han
Pedro, durante un’eucaristia celebrata in uno dei santuari dei Martiri a Seoul,
ha avuto la buona sorte di conoscere personalmente la signora Shim Sun-hwa
Caterina: pittrice il cui nome è già molto noto nel paese e la cui arte molto
apprezzata nella Chiesa cattolica. Da quell’incontro provvidenziale e dal
susseguente rapporto di amicizia che ne è nato, il nostro desiderio di avere
una Consolata coreana ha ripreso forza e vigore. Abbiamo così chiesto alla
signora Caterina se poteva cimentarsi nell’impresa. E ha detto di sì.

Hanno
fatto seguito vari incontri, tra Caterina, padre Han Pedro e il nostro
superiore padre Pedro Louro, per presentare e far apprezzare all’artista il
quadro della Consolata nei suoi dettagli, e per rivedere e correggere diverse
volte, poi, le bozze di dipinto che la signora Caterina andava presentando.

Nel
frattempo, altri tasselli del mosaico sono andati provvidenzialmente al loro
posto: per esempio una corposa donazione da parte di una coppia di amici, e la
riflessione in comunità su come fare, una volta che fosse stato pronto il nuovo
quadro, per intronizzarlo solennemente all’entrata della casa di Yokkok, e per
la riproduzione dell’immagine in vari formati e materiali.

Alla
fine siamo arrivati alla bozza che ci soddisfaceva, e l’artista si è messa
d’impegno a «scrivere» l’icona della Consolata nella sua versione coreana.

 


Le parole dell’autrice

«Ho cercato di immergermi nei simboli dell’immagine della
Madre Consolata, e ho cercato di esprimere la stessa simbologia con lo stile
proprio delle immagini coreane. Il volto della Vergine l’ho reso con i
lineamenti teneri e leggermente arrotondati dei volti coreani, mentre lo
sguardo dolce della madre si fissa sul figlio Gesù. I capelli di Maria
Consolata stretti da una bella spilla tradizionale, dal colore oro, indicano in
lei la Madre celeste. Il colore del vestito tradizionale coreano della
Santissima Madre, salvando il senso simbolico della santità, è di un azzurro
oceano profondo, mentre la sua verginità è resa dalle parti in rosso. Il
riflesso dorato dell’anello esprime la sua fedeltà eterna, mentre la pietra di
giada simboleggia la sua mateità.

Gesù è
stato rappresentato in atteggiamento regale, simboleggiato dalla tunica verde
che ricopre l’indumento intimo e viene coperta a sua volta da un mantello
rosso. Un cordoncino tradizionale rosso ne completa l’abbigliamento».

 

A mo’ di conclusione

I missionari della Consolata sono arrivati in Corea ben
27 anni fa, nel 1988. Abbiamo potuto sperimentare sulla nostra carne come i
tempi per ogni cosa, in Corea, dall’imparare la lingua, all’assuefarsi a cibo e
cultura, sono molto lunghi. Anche i tempi per «mettere radici» in Corea,
dunque, sono stati molto lunghi. Ma, con l’aiuto della grazia del Signore,
crediamo proprio di averle messe, e abbastanza profonde. Il quadro della
Consolata «coreana» ne diventa per noi un po’ il simbolo e una bella evidenza.
Dopo tanti anni in Corea, finalmente la Consolata è diventata pienamente
coreana. Ora tocca alla Corea raccogliee il messaggio, e l’invito a diventare
sempre più «missionaria».

Diego Cazzolato

Diego Cazzolato




Le due piazze di Caracas

1. Un paese diviso
Colloquio col professor Giulio Santosusso

2. Anarchia, populismo e
bugie

Colloquio con padre
Pablo Urquiaga Feández

Indice:
1. Un paese diviso
2. Anarchia, populismo e bugie


1. Un paese diviso

Colloquio con il professor Giulio Santosusso

Il crollo del prezzo
del petrolio ha messo in ginocchio l’economia venezuelana. A questo evento
esogeno si aggiunge un clima interno di feroce contrapposizione politica,
acuita dalla decisione di Obama di dichiarare il paese una «minaccia» alla
sicurezza nazionale degli Stati Uniti. In questo scenario il Venezuela si appresta
alle elezioni parlamentari previste per il 6 dicembre. Analizziamo la
situazione attraverso due interviste. Entrambe fuori dal coro

Nato a Roma, una laurea summa cum laude in matematica,
Giulio Santosusso lascia l’Italia per il Venezuela nel lontano 1968. Dopo
essere stato professore presso l’Universidad de Oriente di Cumaná e l’Universidad
Simón Bolivar di Caracas, nel
1985 fonda la Editorial Galac, una casa editrice che si propone l’obiettivo di «appoggiare
la società nel cambio di paradigma verso l’economia della conoscenza». Egli
stesso è autore di due libri di successo: «Reinventar a Venezuela» (1992) e «Socialismo
en un paradigma liberal» (1999). A dispetto dell’età e del fisico minuto,
Giulio Santosuosso è una forza della natura.

Professore, a sentire
i principali media italiani e inteazionali il Venezuela è una dittatura senza
se e senza ma.

«È impressionante come i giornali abbiano perso la
capacità d’informare. E fanno realmente ridere

quando usano la parola “dittatura”. In Venezuela, negli
ultimi 15 anni si sono celebrate 19 elezioni e con un sistema elettorale che,
nel settembre 2012, Jimmy Carter, ex presidente degli Usa, ha dichiarato essere
il migliore del pianeta.

Mi chiedo: sono coscienti del fatto che stanno mentendo?

Siamo la prima dittatura nella storia del pianeta che
vuole che la gente sia istruita, colta. Non si può non ridere pensando che
esistono persone che chiamano dittatore un presidente come Chávez che affermava
“il libro libera” e che, nel suo programma televisivo (Aló Presidente),
suggeriva i libri da leggere (tra cui, una volta, anche uno mio). Un altro
dato, molto importante, secondo me. A inizio dicembre ci saranno le elezioni
per il parlamento. I candidati del Psuv (Partito socialista unito del
Venezuela, il gruppo principale della coalizione “Gran Polo Patriótico”, ndr) sono stati scelti lo
scorso 28 giugno dalla base attraverso le primarie alle quali hanno partecipato
quasi 3,2 milioni di persone. Dovevano scegliere tra 1.152 cittadini, dei quali
il 60% donne, e il 49% minori di 30 anni. Anche i partiti dell’opposizione hanno
fatto (il 17 maggio) le primarie, però con alcune “piccole” differenze: chi si
candidava doveva pagare 150.000 bolivares (equivalenti, al cambio
ufficiale, a 23.800 dollari); si sono presentati 110 candidati (dei quali
solamente il 10% donne) e in meno della metà delle circoscrizioni elettorali
(33 su 78). Per finire, hanno votato meno di 550 mila persone».

I media sostengono
però che il presidente Maduro e il suo governo imprigionano i propri avversari
politici…

«Le persone che stanno in prigione, chiamate dai mezzi di
disinformazione “prigionieri politici”, sono Leopoldo López, Daniel Ceballo e
Antonio Ledezma. Per colpa della loro chiamata alla protesta (guarimba), tra febbraio e
marzo 2014 ci sono stati 43 morti e più di 800 feriti. Ma c’è di più. La quasi
totalità dei morti erano sostenitori del governo o poliziotti!».

In un articolo del Corriere della Sera (6 giugno) Leopoldo
López viene descritto come un eroe senza paura e senza macchia.

«Ricordo che egli ha fondato il partito Primero Justicia (dal
quale è poi uscito) con fondi della compagnia statale Pdvsa di cui la madre era
una dirigente. Ma soprattutto, quando era sindaco di Chacao, ha partecipato
attivamente al golpe dell’aprile 2002. È uno dei primi responsabili delle
violenze del 2014. Gli aggettivi per questo “eroe senza paura e macchia” è
meglio che me li tenga in testa…».

Insisto su questo
tema. Su un altro quotidiano (La Stampa, 3 marzo), Antonio Ledezma è descritto
come un martire e Maduro come un affamatore.

«Prima di fare un’intervista, un giornalista dovrebbe
informarsi adeguatamente sulla persona alla quale rivolgerà le proprie domande».

Molti degli
oppositori di oggi appoggiarono a vario titolo il golpe del 2002.

«Che dire? In un eccesso di bontà, a fine dicembre 2007
il presidente Chávez amnistiò tutti. Lo ripeto sempre nelle mie conversazioni:
lui era un ingenuo».

La situazione
economica del Venezuela viene descritta come al limite del default. E ancora:
inflazione molto alta, carenza di beni di prima necessità, dollarizzazione
dell’economia. Come stanno le cose?

«I mezzi di disinformazione parlano della scarsezza, però
non riferiscono quasi mai notizie di segno opposto come il ritrovamento nei
magazzini di migliaia di tonnellate di un prodotto che scarseggia, volutamente
sottratto alla distribuzione. L’inflazione è senza dubbio molto alta, però la
grande domanda è: in che misura è indotta dalla speculazione? Una delle ipotesi
che si fanno è che molte imprese fissano i prezzi del prodotto usando il
dollaro parallelo come unità di misura (da cui la “dollarizzazione”
dell’economia), mentre li importarono con un dollaro a 6,3 bolivares (Bs).
Riguardo alla valuta americana, è poi importante leggere i numeri: più del 70%
dei movimenti in divisa si fanno con il cambio ufficiale a 6,3. Più del 20% si
fanno con il dollaro Sicad (per esempio: gli acquisti via internet e i dollari
per il turismo all’estero), che sta a 12 Bs. Infine, una quantità che non
arriva al 5% si fanno con il dollaro Simadi, che gira intorno ai 200 Bs. Però
chi vuole gridare alla pessima situazione economica del Venezuela usa il DollarToDay, una
pagina web in mano a gente dell’opposizione, che dice che il dollaro sta a più
di 400 Bs. A me piacerebbe molto sapere se veramente esiste gente che compra un
dollaro a 400 Bs. Neanche un narcotrafficante lo farebbe!».

Il Venezuela è uno
dei primi produttori mondiali di petrolio. Eppure non siete riusciti a gestire
adeguatamente questa ricchezza.

«Non sono affatto d’accordo! Io credo che la ricchezza
derivante dal petrolio sia stata gestita molto bene. I risultati lo dimostrano.
Per esempio, lo scorso aprile è stata consegnata la casa n. 700.000 della Gran Misión Vivienda.
L’obiettivo è che, entro il 2019, nessun venezuelano viva più in una baracca.
Una enorme quantità di barrios, specialmente quelli su colline pericolose, che con una
forte pioggia possono crollare, oggi non esistono più e tutti i loro abitanti
vivono in appartamenti donati dalla missione governativa (e completi di cucina,
scaldabagno, mobili, etc.). Quindici anni fa la povertà riguardava quasi il 50%
della popolazione, oggi il 27%. E poi uno dei numeri più importanti in
assoluto, è – io credo – l’investimento delle entrate petrolifere nel sistema
educativo. Nel 2005 l’Unesco dichiarò il Venezuela paese libero dall’analfabetismo.
Oggigiorno la percentuale di studenti universitari è la seconda a livello
latinoamericano e una delle prime a livello mondiale. In questi quindici anni
(dal 1999 al 2014), si sono spesi nell’area sociale – educazione, salute, casa,
etc. – ben 782 mila milioni di dollari, una cifra corrispondente al 62% delle
entrate statali. Guardando ai numeri, io dico che Venezuela è il primo paese
nella storia che sta trasformando in realtà la dichiarazione universale dei
diritti umani».

Il Venezuela importa
tutto o quasi tutto. È una grave debolezza, non crede?

«Non è vero che importiamo tutto o quasi tutto, ma è vero
che importiamo molto. Il problema è che finora abbiamo vissuto sulla cosiddetta
renta petrolera. Per fortuna, ogni medaglia ha due facce, e la faccia
(secondo me) positiva della discesa del prezzo del petrolio è che si comincia a
discutere sul tema. Ad esempio, si sta promovuendo molto l’agricoltura».

Tutti i principali
rapporti inteazionali attribuiscono al Venezuela altissimi tassi di criminalità.

«Il grande problema del Venezuela è di stare tra la
Colombia, il maggiore produttore di droga del pianeta, e gli Usa, il maggior
consumatore. La droga entra dalla frontiera colombiana, all’Ovest del paese, ed
esce dallo stato di Sucre, all’Est del paese, da dove va, si dice, a Trinidad e
da qui agli Usa e al resto del mondo. La grande maggioranza degli atti
delinquenziali è legato alla droga. Per esempio, la grande maggioranza degli
omicidi sono “aggiustamenti di conti” fra bande rivali, per il dominio del
territorio. Io vivo a Caracas da 45 anni, vado camminando da tutte le parti e
non sono mai stato testimone di un atto delinquenziale e una sola volta mi
hanno derubato del portafogli sulla metropolitana. Però, quando lo racconto,
molto spesso mi rispondono che sono una persona super fortunata! Quanto ai
sequestri, altro crimine molto diffuso, essi sono generalmente realizzati da
paramilitari colombiani. Altro dato importante: le inchieste dicono che la
percezione di insicurezza è maggiore della insicurezza reale».

Secondo il presidente
Obama il Venezuela è una minaccia per gli Stati Uniti…

«Quindici anni fa, gli Usa dominavano il mondo intero.
Oggi la maggior parte dei paesi va per un altro cammino, soprattutto grazie a
Chávez. La consacrazione definitiva del nuovo corso è avvenuta nella “Cumbre de las Américas” (il
vertice dei paesi americani, ndr), tenutasi a Panamá lo scorso aprile, durante la quale
tutti i convenuti si sono espressi contro il decreto esecutivo di Obama, al
punto che il presidente se n’è andato per non sentir parlare contro di lui. Una
vera e propria fuga, la dimostrazione palese di una disfatta».

Il Venezuela ha
sempre aiutato economicamente Cuba. Adesso Cuba ha fatto pace con gli Stati
Uniti, il nemico di sempre. Cosa cambierà per voi?

«Questa è una lettura sbagliata della situazione. Credo
sia molto importante spiegare meglio la relazione tra Venezuela e Cuba. Se è
vero che noi l’abbiamo sempre aiutata economicamente, è altrettanto vero che
Cuba ha sempre ricambiato con le missioni sociali. Pensiamo ai medici cubani.
Prima di Chávez la gran parte dei venezuelani non aveva mai fatto una visita
medica. Oggi tutti le fanno, a poca distanza della propria casa e gratis. Se si
provasse a calcolare il valore monetario di tutte le consulte mediche,
operazioni, protesi, etc., è possibile che quella cifra risulterebbe maggiore
dello sconto fatto a Cuba sul prezzo del petrolio venezuelano».

I rapporti con la
vicina Colombia sono piuttosto tesi. Come mai?

«La Colombia è un paese realmente misterioso. Tutti
quanti sanno che Alvaro Uribe Vélez è uno dei suoi principali narcotrafficanti,
collocato al n. 82 nella lista stilata dalla Dia, l’agenzia d’intelligence
statunitense, però lo hanno eletto presidente, e adesso senatore. È il creatore
dei paramilitari, e quindi il responsabile morale di centinaia di migliaia di
morti. L’attuale presidente, Juan Manuel Santos, ha occupato incarichi
importanti durante la presidenza Uribe, e questa è una confessione di disonestà.
Oggi ci sono in Venezuela circa sei milioni di colombiani che sono scappati dal
proprio paese per la povertà, la guerra civile, la violenza. Troppi di loro
svolgono però attività disoneste, ad esempio comprano prodotti in Venezuela e
li vanno a rivendere alla frontiera colombiana. Al presidente Maduro, che il 4
di giugno aveva detto che i colombiani “vengono qui portando necessità e povertà,
e cercando educazione, lavoro, salute e casa”, il presidente Santos ha risposto
dicendo che “Colombia genera
prosperidad y no exporta pobreza”».
Un’affermazione francamente ridicola».

Secondo Freedom House
in Venezuela i mezzi di comunicazione non sono liberi.

«Quando Orson Welles, nella sua famosa pellicola “Il
cittadino Kane”, parla della stampa come del “quarto potere”, non immaginava
che qualche decennio dopo sarebbe diventata il primo!

Le dichiarazioni sulla mancanza di libertà di espressione
in Venezuela sono realmente comiche e il fatto che tanti media occidentali le
ripetano in maniera automatica e acritica è un pessimo segnale. Come non
rendersi conto della contraddizione esistente nell’affermare che “in questo
paese non abbiamo libertà d’espressione” davanti a decine di giornalisti che
poi fanno domande sul tema? Non è forse questo un sintomo evidente di
“analfabetismo funzionale”?

Nel 2000 in America apparve un libro, The Twilight of American Culture (Il crepuscolo della cultura americana), di Morris
Berman, in cui, alla pagina 42, afferma che “il numero di adulti realmente
istruiti negli Stati Uniti è il 3% della popolazione”. Cioè il 97% è analfabeta
funzionale. Io ripeto sempre che a quel libro occorrerebbe cambiare il titolo
in The Twilight of
Occidental Culture, perché quello che l’autore
dice sugli Usa si applica a tutto l’Occidente.

Quando vado a fare il turista a Roma, passo sempre a
salutare un amico, proprietario di una libreria dove cinquanta anni fa compravo
molti libri. Lui mi dice: “Giulio, io sopravvivo vendendo guide ai turisti…
Nessuno più compra un libro…”. Qui in Venezuela è esattamente l’opposto: tutti
gli anni aumenta il numero di libri che si vendono».

Paolo Moiola

2. Anarchia, populismo e
bugie

Colloquio con padre
Pablo Urquiaga Feández





Lo avevamo
intervistato subito dopo la morte del presidente Chávez. Due anni dopo, Pablo
Urquiaga, parroco in un quartiere di Caracas, è più critico e disilluso. Contro
il populismo del governo e le manovre (sporche) dell’opposizione. Ma non ha
perso la speranza.

Padre Pablo Urquiaga Feández è
parroco della chiesa La Resurrección del Señor nel quartiere di
Caricuao, a Caracas. Lo abbiamo ricontattato a due anni dalla nostra prima
intervista (giugno 2013).

Padre Urquiaga, a sentire i principali media italiani e inteazionali,
il Venezuela è – senza alcun dubbio – una dittatura.

«Dittatura? Certamente no. Anzi, è vero il contrario. Parlamento e
governo fanno leggi che nessuno rispetta e ognuno fa ciò che gli pare. Nel
Venezuela del 2015 c’è anarchia. Mi pare che dittatura e anarchia siano
incompatibili, no? Il problema è che l’impunità genera corruzione e delinquenza
senza freni».

Che dire delle persone in carcere?

«Certamente ci sono “politici incarcerati” che però non è lo stesso di
“prigionieri politici” (il gioco di parole è evidente in spagnolo: “politicos
presos” e “presos politicos”, ndr). Io credo che in nessuna parte del
mondo dovrebbero esistere “prigionieri politici”, siano essi del governo o
dell’opposizione, a meno che non abbiano commesso delitti da essere provati
davanti alle competenti autorità».

La situazione economica del paese viene descritta come al limite del
default. E poi: inflazione molto alta, scarsità di beni di prima necessità,
dollarizzazione dell’economia. Come stanno le cose?  

«A partire dallo scorso anno la situazione economica si è deteriorata
in maniera considerevole. L’inflazione alle stelle e la scarsità di alcuni
prodotti di prima necessità hanno più di una causa: una è la mancanza di
produzione di alcun prodotti, un’altra è il contrabbando di alcuni prodotti
verso l’estero e infine c’è la “guerra economica” allo scopo di danneggiare il
processo rivoluzionario. Da una parte, il populismo cerca di compiacere il
popolo per guadagnare voti, non pretende lavoro e responsabilità nella
produzione e regala le cose senza esigere sforzo e sacrificio. Dall’altra,
l’opposizione s’approfitta dell’inefficacia e inefficienza di questo governo
per peggiorare la situazione. Anche se gli imprenditori hanno qualche valida
ragione; non si può produrre con tanta instabilità economica. Non si può
soffocare chi produce e senza produzione non si può distribuire come sarebbe
dovere dello stato e del governo».

Il Venezuela è uno dei primi produttori mondiali di petrolio. Tuttavia,
forse non ha saputo gestire adeguatamente questa ricchezza. La causa risiede
nella corruzione?

«La questione del petrolio non dipende soltanto dalla “corruzione
amministrativa”, ma anche dalla mancanza di efficacia nella gestione delle
finanze pubbliche. È certo che la maggior parte delle entrate petrolifere è
stata utilizzata per migliorare le condizioni di vita dei più poveri
(investimenti sociali). Allo stesso
tempo è certo che molte di queste entrate hanno arricchito dei falsi
rivoluzionari. Dovremmo “seminare” il petrolio. Voglio dire: sviluppare
un’industria petrolchimica come, grazie a Dio, si è finalmente iniziato a fare,
anche se troppo tardi».

Le statistiche dicono che il Venezuela e in particolare la sua capitale
hanno i più alti tassi di criminalità al mondo. Per le strade di Caracas lei si
sente insicuro?

«L’insicurezza è uno dei nostri mali più terribili anche se sappiamo
che essa è conseguenza dell’impunità e della mancanza di etica che corrompe
ogni cosa. Il populismo cerca di essere blando con coloro che commettono
crimini, soprattutto se appartengono ai settori popolari. Qui non si tratta di
fare vendetta, si tratta di applicare una “giustizia correttiva”. Per questo
abbiamo necessità di istituti correttivi e non di carceri (che alla fine si
trasformano in vere scuole del crimine). C’è molta insicurezza. Tanto che noi
abbiamo dovuto sospendere gli orari nottui delle nostre attività ecclesiali.
Quanto alla mia persona, mi sento tranquillo perché credo che Dio mi protegga».

Stando all’«ordine esecutivo» firmato dal presidente Obama lo scorso 9
marzo, il Venezuela costituisce una minaccia per la sicurezza nazionale degli
Stati Uniti.

«Senza dubbio oggi noi siamo più rispettati come repubblica sovrana e
indipendente. Con la maggioranza dei paesi le nostre relazioni si sono
rafforzate. Pensiamo alla Russia, alla Cina, all’Europa (Italia inclusa) e
soprattutto ai paesi latinoamericani con cui ci sono progetti in comune (Alba,
Mercosur, Petrocaribe, ecc.). Nonostante negli ultimi anni si siano deteriorate
le relazioni con Washington, il Nord America è importante per il nostro
commercio esterno e noi amiamo i suoi abitanti. Il Venezuela non rappresenta
una minaccia per nessuno e per nessun popolo. Però lo è per qualsiasi Impero
(sia di dove sia) che voglia dividerci o voglia convertirci nel proprio
“cortile di casa”».

Secondo il rapporto 2015 di Freedom House, il Venezuela è un paese «non
libero» (not free) per quanto attiene i mezzi di comunicazione. Nella
classifica mondiale si piazza al 176.mo posto. Lei come giudica la situazione
dei media venezuelani?

«Freedom House, Paolo? Chiunque viaggi in Venezuela e accenda
una radio o una televisione o compri un giornale si rende conto che nel nostro
paese c’è piena libertà di espressione. Anzi, io direi che c’è una sorta di
“libertinaggio d’espressione”, che non è la stessa cosa. Credo che non dovrebbe
essere consentito utilizzare un mezzo di comunicazione per dire qualsiasi cosa
passi per la testa. La libertà d’opinione non dovrebbe prescindere dalla
comunicazione vera dei fatti senza cioè alterarli od ometterli per meschini
interessi di parte. In Venezuela la maggioranza delle emittenti radio e
televisive sono in mano a imprese private che rispondono agli interessi
dell’opposizione. Quello che dico vale anche per i media in mano allo stato».

Pare che la gerarchia della Chiesa cattolica venezuelana sia sempre
schierata con l’opposizione contro il presidente e il governo. È così, padre?

«Alcuni dell’“alta” gerarchia (ma anche della “bassa”) si oppongono a
tutto ciò che fa il governo fino all’estremo di non essere capaci di
riconoscere quanto di buono è stato fatto per i più poveri. Alcuni di noi
stanno lavorando (senza per questo essere affiliati a qualche parte politica)
affinché si correggano le distorsioni e la situazione migliori, soprattutto per
coloro che hanno più bisogno. L’“opzione preferenziale per i poveri” non può
continuare a essere uno slogan, ma deve trasformarsi in fatti concreti».

Papa Francesco è stato molto importante per il nuovo corso di Cuba. Lei
crede che potrà anche aiutare a promuovere la pacificazione in Venezuela?

«Se ci fosse buona volontà da entrambe le parti, il papa potrebbe senz’altro
favorire una riconciliazione che sarebbe una vittoria per tutti. Non
dimentichiamo che il pontefice ha nominato un nunzio (mons. Aldo Giordano, ndr)
che ha dato prova di essere una persona di spessore con il suo comportamento
umile e semplice, vicino al nostro popolo e lontano dai privilegi. Papa
Francesco ha aiutato a chiarire che stare a fianco dei poveri non è comunismo,
ma puro cristianesimo».

Paolo Moiola

Paolo Moiola




Il microfono dei frati

Nata nel 1997, Rádio
Santa Clara è un’emittente Am di Floriano. I proprietari sono i frati minori,
che dall’Italia arrivarono nella città del Piauí nel 1967. Subito molto attivi
nel campo educativo e sociale, i francescani divennero ben presto
un’istituzione radicata e rispettata.

Floriano (Piauí). Davanti al mixer siede Paulo Henrique, tecnico del suono. «Frei
Erivelton non c’è» ci dice. I locali sono quelli di Rádio Santa Clara, una delle principali emittenti della città, «la prima
nel cuore della gente» (a primeira no coração do
povo), se vogliamo dare credito allo slogan.

Paulo
ci suggerisce di cercare il direttore, frei Erivelton Pereira de Passos, al convento
francescano, nel bairro Ibiapaba, non lontano
da qui.

Una storia italiana

L’entrata del convento, stretto tra la chiesa e la scuola
appartenenti allo stesso ordine francescano (Ofm), si trova davanti a una
piazzuola di palme e fiori sul cui selciato risalta una grande scritta: Paz e Bem, il saluto dei francescani.

Frei Erivelton è minuto e scattante. È brasiliano, ma parla un
ottimo italiano, perché la storia dei frati di Floriano è una storia italiana
che inizia nell’Irpinia, a metà degli anni Sessanta. I francescani di quella
regione decidono di aprire una missione nel Piauí, uno degli stati più
arretrati del Brasile.

Frei Antonio

Il primo ad arrivare nella città di Floriano è frei Antonio Curcio
nel 1967. L’anno seguente dall’Italia arrivano altri quattro confratelli, tra
cui frei Vincenzo Cardone. Saranno questi due frati – attraverso la fondazione «Nostra
Signora delle Grazie» (Nossa Senhora das Graças) – l’anima della missione francescana.

Subito dopo la costruzione del convento e della chiesa, frei
Antonio dà inizio alla sua opera più ambiziosa. In un paese dove l’istruzione
pubblica è troppo spesso scadente, nel 1969 fonda una scuola, il Colégio Industrial São Francisco de Assis, che guiderà fino alla sua scomparsa (avvenuta nel giugno 2012)1. L’istituto diventa ben presto uno
dei migliori della regione e oggi conta circa 600 alunni tra scuola primaria e
secondaria2.

Non è certo da meno frei Vincenzo (Vicente), attivissimo nel campo
sociale. Promuove ad esempio il sindacato dei lavoratori rurali e
l’associazione dei piccoli produttori agricoli. E, nel 1995, acquista
un’emittente locale, la futura Rádio Santa Clara.

Frei Vicente

Quando lo incontrammo, pochi mesi prima della sua scomparsa
(avvenuta nel luglio 2014), il francescano di Pietrelcina (il paese di Padre
Pio), già indebolito dalla malattia e dal peso dei suoi 88 anni, ci raccontò
delle difficoltà burocratiche che l’acquisto aveva comportato e dei costi per
mantenerla, ma era convinto della bontà dell’operazione. «Non abbiamo dati
ufficiali – ci spiegò -, ma secondo le nostre rilevazioni alcuni programmi sono
stati seguiti da un pubblico di 5mila persone». E aggiunse: «Ad un certo
momento mi si è anche presentata la possibilità di avere un’emittente
televisiva locale, ma non essendo sicuro delle forze disponibili ho desistito.
Però ammetto di averci pensato. Bisogna accompagnare i tempi».

Racconta frei Erivelton: «Rádio Santa Clara è nata ufficialmente
l’11 agosto del 1997. Fra’ Vicenzo aveva capito le potenzialità del mezzo per
la diffusione del messaggio cristiano e dell’evangelizzazione. Possiamo
raggiungere facilmente migliaia di persone, diceva. E aveva ragione: questa è
una radio Am e dunque può arrivare lontana. Fino a 100 chilometri da Floriano».

In un paese dove le antenne paraboliche si trovano anche nei
luoghi più impensati, chiediamo a frei Erivelton se la radio sia ancora uno
strumento di comunicazione diffuso. «Secondo una recente inchiesta, su 100
persone 95 vedono la televisione ma di queste 80 ascoltano anche la radio. E questa
è una buona notizia. Quanto a internet, essa è ancora sotto il 50%, anche per
problemi di collegamento. Di certo però la radio non può rimanere da sola,
slegata dai nuovi mezzi di comunicazione. Per questo anche Rádio Santa Clara ha
una pagina web e usa internet per trasmettere in streaming».

L’emittente mette in onda musica, informazione, sport e
intrattenimento. «Abbiamo – spiega il direttore – quasi 17 ore di
programmazione dal vivo. La radio inizia a trasmettere in diretta alle 5 del
mattino con le notizie giornalistiche».

Un’attività impegnativa che richiede un organico adeguato. «A Rádio
Santa Clara lavorano 15 persone: 7 persone fisse più 8 collaboratori. Non
abbiamo professionisti veri e propri, ma soltanto persone appassionate3».

Domandiamo al direttore se esista qualche programma particolare. «Forse
“Siga bem caminhoneiro”, un programma dedicato ai camionisti, una categoria molto
importante in un paese come il Brasile, enorme e privo di ferrovie».

Un cambio di mentalità

A
chiusura della nostra conversazione chiediamo a frei Erivelton un giudizio sul
Brasile. «Rimaniamo la nazione delle disparità in cui molti hanno niente e
pochi hanno tutto. E ciò è legato (anche) a un problema di mentalità: a troppi
va bene o non importa che le cose siano così. Il futuro nasce dal cambiamento
di questa mentalità. Prima la gente si conformava alla situazione (“è sempre
andata così”), adesso invece reagisce. Sicuramente non dobbiamo illuderci, ma
pian piano le cose stanno cambiando».

Magari
una radio serve anche per questo: ad aiutare le persone a cambiare mentalità.

Paolo Moiola
(Fine quinta puntata – continua*)

Paolo Moiola