Nigeria: Boko Haram califatto made Africa


Boko Haram è un nome che incute paura. La sua storia è legata a un’area ben definita della Nigeria. Ma vanta legami inteazionali. Come si è arrivati a questo fenomeno africano? E cosa rappresenta nello scacchiere del terrorismo internazionale? E il jihad in Africa in che direzione sta andando? Un libro appena uscito cerca di dare queste e molte altre risposte.

«Boko Haram è una realtà del jiahadismo internazionale, in particolare dopo l’adesione di Aboubakar Shekau al califfato di al Bagdhadi. L’Africa è stata scoperta essere uno scenario importante dal terrorismo, prima ancora che dalla politica internazionale e dall’Europa. Il terrorismo internazionale, infatti, investe molto nel continente africano». Chi ci parla è Raffaele Masto, giornalista, specialista di Africa, esperto di Nigeria e delle sue storie. Masto ha appena pubblicato «Califfato Nero», editori Laterza, nel quale racconta le origini e le gesta della setta integralista nigeriana. Il vero nome di questa formazione è «Gruppo della gente della Sunna per la propaganda religiosa e il Jihad», mentre Boko Haram signigica: «L’educazione occidentale è vietata».

«Si tratta dell’unica realtà del terrorismo internazionale che ha una logica locale, e ha avuto un’origine tutta africana. Gli altri gruppi presenti in Africa, per esempio in Mali, sono un’emanazione del jihadismo magrebino, un tentativo delle formazioni del Nord di penetrare in Africa nera e controllare quel vasto e remoto deserto che è la scena di traffici inteazionali molto lucrosi. Dall’altra parte, sulla costa orientale, in Somalia, c’è al Shabaab che è un’emanazione di Al Qaeda. Boko Haram rientra in questo scenario, ed evidentemente copre un territorio ambito dal terrorismo internazionale».

This video grab image created on August 14, 2016 taken from a video released on youtube purportedly by Islamist group Boko Haram showing what is claimed to be one of the groups fighters at an undisclosed location standing in front of girls allegedly kidnapped from Chibok in April 2014. Boko Haram on August 14, 2016 released a video of the girls allegedly kidnapped from Chibok in April 2014, showing some who are still alive and claiming others died in air strikes. The video is the latest release from embattled Boko Haram leader Abubakar Shekau, who earlier this month denied claims that he had been replaced as the leader of the jihadist group. / AFP PHOTO / HO / RESTRICTED TO EDITORIAL USE - MANDATORY CREDIT "AFP PHOTO / BOKO HARAM" - NO MARKETING NO ADVERTISING CAMPAIGNS - DISTRIBUTED AS A SERVICE TO CLIENTS
This video grab image created on August 14, 2016 taken from a video released on youtube purportedly by Islamist group Boko Haram showing what is claimed to be one of the groups fighters at an undisclosed location standing in front of girls allegedly kidnapped from Chibok in April 2014.
Boko Haram on August 14, 2016 released a video of the girls allegedly kidnapped from Chibok in April 2014, showing some who are still alive and claiming others died in air strikes. The video is the latest release from embattled Boko Haram leader Abubakar Shekau, who earlier this month denied claims that he had been replaced as the leader of the jihadist group. / AFP PHOTO / BOKO HARAM

Così vicini

Ma che importanza ha oggi Boko Haram sullo scacchiere internazionale? E perché un europeo ha interesse a conoscere l’esistenza e le azioni di un gruppo sanguinario che agisce nel cuore dell’Africa?

«Per l’Europa tutto ciò ha grande importanza, perché solo il Maghreb, sempre più burrascoso, e quel deserto, il Sahara, che è un territorio di traffici e affari, la separano dalla zona dove tutto questo avviene. Ma è anche quell’Africa che sfoa profughi, rifugiati e migranti verso il vecchio continente. Voglio dire che è una realtà abbastanza vicina a noi europei e ci conviene conoscerla». Continua Masto: «Non è che dobbiamo farlo per buonismo o per occuparci di un’Africa dimenticata. No, l’Africa è diventata uno scenario importante, ci è vicina per una serie di questioni, per cui dovremmo capire meglio che cosa accade “là dentro”. Questo ci spiega anche, in questo momento, alcune dinamiche inteazionali che ci sfuggono».

Raffaele Masto dal 1989 lavora nella redazione di Radio Popolare e ha seguito, come inviato, crisi in Medio Oriente, America Latina, e in particolare in Africa, continente per il quale è diventato un vero riferimento nel giornalismo italiano. E non solo.

Anche questo suo ultimo lavoro nasce da anni di frequentazione della Nigeria, da una raccolta minuziosa di dati e testimonianze dirette sul campo. Ci confida: «La Nigeria è un paese difficile da percorrere, ci vuole molto denaro, perché spesso bisogna essere scortati. Io non ho dei grandi budget per i viaggi, ho dietro una testata che non è ricca, anche se è prestigiosa nel suo genere, e quindi la prima difficoltà è stata quella di conciliare le spese per viaggi d’inchiesta con i soldi a disposizione».

E continua: «Ma direi che i viaggi sono stati essenziali, perché un fenomeno studiato dall’Europa continua ad avere dei buchi che si riempiono e si comprendono solo se si riesce ad andare sul posto.

Io ho cercato di farlo preparando molto bene le missioni, creando e mantenendo relazioni con persone fidate in loco, e cercando di risparmiare».

Il libro «Califfato Nero» descrive un fenomeno complesso con parole semplici, intervallando descrizioni di situazioni nigeriane ricche di spunti, con parti di storia, cronaca e analisi approfondite.

«La dinamica locale di Boko Haram, secondo me, è la cosa veramente importante. Questo gruppo terrorista è nato dalla necessità di alcune lobby politiche ed economiche della Nigeria del Nord. Solo in un secondo momento è stato inglobato in una dinamica più ampia. Questo è esattamente quello che si poteva prevenire. Se si fosse affrontato prima il problema non ci troveremmo di fronte a un jihadismo africano radicato in tre regioni con il rischio che si crei un cornordinamento».

La ribalta mediatica

Boko Haram «buca» i notiziari di tutto il mondo guadagnandosi la fama internazionale nell’aprile 2014. Un gruppo di guerriglieri, in quel momento semisconosciuti fuori dai confini della Nigeria, realizza un clamoroso rapimento di massa di ragazze da un collegio femminile a Chibok, nel Nord Est del paese. «C’erano tutti gli elementi necessari per solleticare l’immaginario occidentale: 276 adolescenti in mano a miliziani oscurantisti, sessuofobici, abituati alla violenza e ostili all’universo femminile, considerato utile solamente a soddisfare le necessità materiali maschili», scrive nel suo libro Masto.

L’opinione pubblica si mobilita, viene lanciata una campagna internazionale: Bring back our girls, che non avrà molto effetto.

Ma che origini ha Boko Haram?

«A partire dal 2002, anno della sua nascita, e per circa sette anni, la setta fondata dal predicatore Mohammed Yusuf si rende protagonista dei una netta opposizione al potere costituito, inscenando manifestazioni che degenerano in disordini, scontri, violenti attacchi alle forze di polizia e all’esercito. Questa formazione radicale, che assume da subito una forte valenza religiosa, si scaglia contro la corruzione delle autorità e della politica, così come contro il lassismo dei costumi, criticando duramente quella che ritengono un’applicazione troppo blanda dei dettami della religione islamica».

Yusuf, predicatore dotato di grande carisma, trova terreno fertile nei giovani nigeriani disadattati «che vedevano in un fustigatore dei potenti un’alternativa al sistema imperante della corruzione e nella stretta osservanza della sharia (legge islamica) una possibilità di ristabilire una giustizia e un ordine sociale».

Ma Yusuf è anche bravo nella «real politik», e fin dall’inizio, riceve soldi dal senatore Ali Modu Sheriff, che sarebbe poi diventato governatore dello stato di Boo (proprio dove è nato Boko Haram), e quindi un alto rappresentante di quella classe politica che la setta contestava. Scrive Masto: «Il sodalizio tra Sheriff e Yusuf parve funzionare, perlomeno per qualche tempo: in cambio del sostegno alle elezioni locali, il futuro governatore promise una rigida applicazione della sharia nel Boo». Ma qualcosa in seguito va storto, la legge coranica non viene applicata nella modalità auspicata da Yusuf e presto gli alleati occulti si trovano su barricate opposte.

Al contrario di molti altri gruppi e sette che fioriscono in Nigeria «Il gruppo di Mohammed Yusuf intersecava questioni religiose e politiche, cioè la moralizzazione dei costumi e la critica senza appello della corruzione; e forse fu proprio questa particolarità a fae un movimento diverso degli altri, più incisivo e con un seguito più fedele e radicato».

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La svolta

Nel luglio del 2009, violenti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine scoppiano in diversi stati del Nord della Nigeria, con epicentro lo stato del Boo, nel Nord Est, dove ha origine Boko Haram. La repressione dell’esercito federale è violentissima anche con i civili (le cifre ufficiali parlano di 700 morti, nella realtà saranno molti di più). Yusuf è arrestato e sarà poi giustiziato senza processo. Questo fatto, e il conseguente mutamento di leader, producono il salto di qualità della setta. Dopo una lotta intea con altri tre pretendenti alla successione di Yusuf, emerge Aboubakar Shekau, che si rivelerà spietato e sanguinario, portando, tra l’altro, il gruppo terrorista al record di uccisioni, che nel 2014 superano quelle dello Stato islamico (Isis).

«Da movimento insurrezionale è diventato una formazione terroristica capace di mettere in campo una grande versatilità con veri e propri attacchi militari, quando è possibile sferrarli, e capace di ripiegare su attentati kamikaze quando è necessario.

Di certo la sua evoluzione e la sua crescita costituiscono una vera e propria novità. L’insurrezione del 2009 era stata messa in campo con un esercito di militanti impreparati al combattimento, c’erano poche armi e perlopiù la polizia veniva fronteggiata con machete e bastoni. Oggi questa setta può contare su grandi quantità di esplosivo, su esperti che lo sanno usare, su una buona capacità logistica, su mezzi rapidi ed efficienti per gli spostamenti e su combattenti preparati». Il merito di tutto questo è in gran parte di Abubakar Shekau, ma anche «il risultato di alleanze e relazioni con i movimenti del jihadismo internazionale».Dopo aver raccontato la figura del fondatore Yusuf, Masto dedica un intero capitolo a tratteggiare il ritratto di Shekau, detto l’«immortale», perché lo si è dato per morto ormai innumerevoli volte ma è sempre ricomparso con video e dichiarazioni. Una figura oscura, ma fondamentale, che è necessario tentare di comprendere.

L’autore descrive anche le modee tecniche di comunicazione usate del gruppo terrorista e il loro sviluppo negli ultimi anni.

Espansione di Boko Haram

Sul terreno l’escalation degli attacchi di Boko Haram dal 2010 in poi è innegabile. Assalti a moschee, chiese, mercati, villaggi, postazioni di esercito e polizia e poi scuole, diventano quasi quotidiani. Gli attacchi vengono eseguiti tramite kamikaze con autobombe o miliziani armati, e talvolta rapimenti. Sono colpiti interessi occidentali, ma anche locali, cristiani e musulmani. Da Maiduguri (capitale del Boo) gli assalti si spostano negli altri stati del Nord (clamorosi quelli a Kano nel 2012), anche nel centro (a Jos nel Plateau) e nella capitale Abuja, come l’attentato alla sede delle Nazioni Unite (agosto 2011) che causa 23 morti e decine di feriti.

A partire dal 2013 il gruppo comincia un’operazione di conquista territoriale, che lo porterà, come spiega l’autore, sulla scia del Isis a proclamare il Califfato africano: «Superata la metà del 2014, Boko Haram corona la sua strategia di controllo territoriale: il 24 agosto, dalla cittadina di Gwoza, nel Boo, a Sud Est di Maiduguri, Abubakar Shekau annuncia la nascita del suo Califfato». Boko Haram controlla un territorio più vasto di una grande regione italiana, include la foresta di Samibisa ed è vicino al Camerun e non lontano dal Ciad.

Dopo alcuni interventi extraterritoriali, inizia una vera guerra di eserciti combattuata in quella frontiera quadrupla che è il lago Ciad: nel febbraio del 2015 i miliziani attaccano per la prima volta Diffa, una città nel territorio del Niger, paese che fino a quel momento era servito come base a cellule di terroristi e quindi risparmiato. Ciad, Camerun, Niger e pure Benin creano una coalizione militare contro Boko Haram. I villaggi sulle isole del lago Ciad sono più volte conquistati e liberati. Solo in Niger sono decine di migliaia gli sfollati (cfr. MC ottobre 2015).

Fedeltà al califfo

Shekau cerca poi alleati inteazionali. Il 7 marzo del 2015 proclama l’adesione al Daesh (Isis) e, soprattutto, la «sottomissione» di Boko Haram al Califfo Abu Bakr al Baghdadi, il quale pochi giorni dopo, tramite il portavoce Abu Muhammad al-Adnani lo riconosce ufficialmente come «espansione del Califfato in Africa Occidentale». Il passaggio è importante: Boko Haram, fenomeno tutto nigeriano, con la sua propria dinamica e regole, si sottomette al jihadismo mediorientale. Può essere un segno che i finanziamenti «interni» nigeriani si sono ridotti.

Il controllo territoriale presto lo perderà. Nel maggio del 2015 viene eletto presidente della Nigeria Mamadou Buhari, musulmano del Nord, che succede a Goodluck Johnatan, cristiano del Sud. Il nuovo presidente cambia strategia: «Senz’altro Buhari, ha messo in campo un’offensiva militare maggiore di quella che era stato in grado di fare Johnatan, e non tutto per colpa sua. Così ha strappato il territorio dal quale Shekau aveva proclamato lo stato islamico in Africa dell’Ovest. Un’area di una volta e mezza il Belgio, quindi abbastanza significativa. Un classico perché lo Stato islamico irrideva le frontiere coloniali. Ricordiamo che quella è una zona, nello stato del Boo, l’estremità Nord orientale della Nigeria, in cui si ha convergenza di quattro confini e per farli, in epoca coloniale, erano scesi in campo i migliori negoziatori del tempo. Lo Stato Islamico nasce esattamente lì, non è casuale, perché proprio in quella zona può frantumare l’idea di confini, di equilibrio, che provengono da una storia occidentale che il califfato sbeffeggia, rifiuta, non riconosce». Molti analisti danno Boko Haram in declino dai primi mesi del 2016 a causa dell’offensiva del governo federale. Non la pensa esattamente così Raffaele Masto: «Buhari è riuscito a riconquistare il territorio di Boko Haram, ma queste vittorie sul campo sono abbastanza di Pirro. Il terrorismo jihadista ha una caratteristica, lo vediamo anche in Siria e Iraq: adotta la strategia dell’elastico. Se ha un territorio lo amministra, ci ricava ricchezze, risorse, fa addestramento, propaganda. Se non ha il territorio ritorna al terrorismo puro. Boko Haram non ha smesso di fare attentanti».

Cambio di leader?

Per alcuni mesi Shekau non si fa sentire. Poi il 2 agosto scorso, tramite una pubblicazione, lo Stato islamico indica in Abu Musab al-Baawi, portavoce di Boko Haram, il nuovo governatore dello Stato islamico in Africa Occidentale. Ma già la sera successiva, è reso pubblico un audio di Shekau indirizzato ad al Baghdadi, nel quale dichiara che al-Baawi è un deviato e chiede al califfo di posizionarsi. In un video del 7 agosto Shekau si autoproclama «imam del gruppo Boko Haram in Nigeria e nel mondo intero».

Ci spiega Masto: «Oggi la setta è bicefala. Al Baawi, nominato direttamente da Abu Bakr al Baghdadi, dimostra che per il nuovo Isis, la realtà di Boko Haram, la provincia africana, è qualcosa di importante. Per questo hanno nominato un personaggio a loro fedele. Perché Abubakar Shekau è un personaggio sopra le righe, ingombrate, sanguinario, quasi imbarazzante per al Baghdadi. Ai tempi dell’adesione all’Isis qualcuno disse che rovinava l’immagine dello stesso Califfato. Ora con questa nomina, si capisce che lo Stato islamico aveva bisogno di qualcuno di più canonico, e più controllabile, a capo di questa provincia africana. Shekau rappresenta il Boko Haram della metamorfosi, nasce con una dinamica locale, aderisce allo Stato islamico ma vuole mantenere una logica anche locale, mentre Boko Haram di al-Baawi è qualcosa di diverso, più dentro le fila dello Stato Islamico vero e proprio».

Ma sembra chiaro che Shekau è in difficoltà, sia militarmente sia finanziariamente. Siamo lontani dalle disponibilità economiche e conseguenti azioni del 2014 e 2015.

Conclude Masto: «Non si sa quale delle due fazioni avrà maggiore forza, non si sa chi abbia la pateità di alcuni degli ultimi attentati. Di certo la situazione della Nigeria Nord orientale non è tranquillizzante. Rimarrà molto grave anche dal punto di vista umanitario. Inoltre un collegamento dei combattenti e addestratori del califfato mediorientale con gli uomini di al-Baawi sarebbe molto preoccupante. Diventa un cartello del terrorismo e l’Africa è parte di un teatro globale, questa è la cosa più inquietante».

È del 23 agosto, la notizia da fonte governativa nigeriana, che Shekau sarebbe stato «ferito mortalmente» in seguito a un attacco dell’esercito federale. Resta da vedere se e quando, l’immortale, toerà a farsi sentire.

Marco Bello

Archivio MC

Su MC abbiamo trattato a più riprese questioni relative al terrorismo africano: M. Alban e M. Bello, Terrorismo: il grande vuoto, dicembre 2010; E. Casale e M.Bello, Jihad africana, dossier, novembre 2012; M. Bello, Chiesa, dialogo contro terrore, ottobre 2015.




Brasile grida perdute nell’indifferenza


Dimenticate le Olimpiadi, il Brasile è tornato ai problemi di questi ultimi anni: crisi economica e crisi morale. Il governo Temer, nato da un golpe parlamentare ed espressione dell’oligarchia, non ha in agenda la difesa dei diritti dei popoli indigeni. Al contrario, accentuerà la loro erosione, spinto da un Congresso dominato dagli «uomini BBB» (pallottole, vacche, Bibbia). Ne abbiamo parlato con dom Roque Paloschi, arcivescovo di Porto Velho e presidente del Cimi, la combattiva organizzazione indigenista contro la quale il governo del Mato Grosso del Sud ha addirittura istituito una Commissione d’inchiesta. Per aver difeso i popoli indigeni dalle violenze dei propri latifondisti.

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Dopo dieci anni e mezzo come vescovo di Boa Vista, nello stato di Roraima, dal dicembre 2015 mons. Roque Paloschi è arcivescovo di Porto Velho, capitale di Rondonia. Alcuni mesi prima del suo trasferimento, il prelato – nato nella cittadina di Progresso, nello stato di Rio Grande do Sul, da una famiglia di origine italiana – era stato nominato presidente del Conselho indigenista missionário (Cimi), l’organizzazione creata nel 1972 per appoggiare la lotta dei popoli indigeni del Brasile. A fine luglio il Cimi ha ottenuto lo status di consulente per la tematica indigena nel Consiglio economico e sociale (Ecosoc) delle Nazioni Unite.

Questo momento storico

Mons. Paloschi, il Brasile sta vivendo un periodo storico molto particolare.

«Sicuramente. È un momento che nasce anche da una lotta contro le conquiste sociali ottenute negli ultimi anni. Il nuovo governo (vedere tabella di pagina 53, ndr) è composto da corrotti, come dimostra la situazione di vari ministri».

Nel corso dell’ultimo anno, lei è passato dalla diocesi di Boa Vista a quella di Porto Velho. È diventato anche presidente del Consiglio indigenista missionario (Cimi). Quale dei due compiti ritiene che sarà più difficile?

«Sono due sfide nuove che esigono molto impegno. Tuttavia, non c’è dubbio che la questione indigena è oggi una tematica cruciale in Brasile».

Parliamo allora del Cimi, l’organismo della Conferenza episcopale brasiliana.

«È stato creato negli anni Settanta per accompagnare il cammino dei popoli indigeni. Dopo otto anni con alla guida mons. Erwin Kräutler1, da un anno io ne ho assunto la presidenza. Oggi l’organismo sta vivendo un momento molto impegnativo a causa della difficile condizione degli indigeni. In Mato Grosso do Sul è stata addirittura creata una commissione (Comissão parlamentar de inquérito, Cpi) per investigare sul suo comportamento (vicenda raccontata nel riquadro di pagina 54, ndr)».

Il Cimi ha da poco reso pubblico, come fa ogni anno, il rapporto sulle violenze perpetrate ai danni dei popoli indigeni in Brasile. Che quadro ne è uscito?

«Che anche nel corso del 2015 i popoli indigeni hanno subito un gran numero di violenze. Il nostro rapporto annuale – Violência contra os povos indígenas no Brasil – è un lavoro riconosciuto a livello internazionale. Con esso noi denunciamo la violenza delle imprese minerarie, di quelle dell’agroindustria e del legno, ma anche del governo con le sue repressioni poliziesche».

A fine dicembre un bambino di etnia Kaingang è stato ucciso alla stazione dei bus davanti agli occhi della mamma. Come ha reagito il paese?

«L’assassinio di Vitor2, un bambino di 2 anni, dimostra che la società è discriminatoria, spesso alimentata dai grandi media del Brasile. La sua morte ha provocato, evidentemente, una certa commozione, ma non c’è un atteggiamento di accettazione della società brasiliana verso gli indigeni e la loro cultura. È violenta».

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I popoli indigeni e la politica «Bala, Boi, Bíblia»

Provi a farci un elenco dei principali problemi dei popoli indigeni del Brasile.

«Il primo grande problema è l’indifferenza della società brasiliana. Un’indifferenza storica, che parte dai colonizzatori che vedevano nei popoli indigeni una cultura arretrata. Come non fossero persone con una dignità. Il secondo problema è l’aggressione ai diritti che, a costi altissimi, furono introdotti nella Costituzione del 1988. Oggi c’è un tentativo di de-costruzione di questi diritti attraverso tante proposte di modifiche costituzionali (Proposta de emenda constitucional, Pec). C’è poi l’invasione delle terre demarcate per mano di vari soggetti: le compagnie minerarie, le imprese del legno, le compagnie per le grandi opere del governo. Possiamo qui ricordare le centrali di Belo Monte, Balbina, Jirau3 e molte altre. C’è infine il grande problema della salute indigena, che versa in un caos generalizzato: le sue prospettive sono molto difficili».

Prima di essere esautorata, la presidenta Dilma non aveva fatto molto per la questione indigena. Basti pensare che, come ministra dell’agricoltura, aveva Kátia Abreu, nota ruralista e anti-indigena.

«Per i popoli indigeni il governo Temer costituirà una prova ben più difficile rispetto al governo Dilma. L’obiettivo di questo governo è eliminare i diritti dei popoli indigeni. È di aprire l’accesso alle loro terre. È tagliare tutte le politiche di promozione indigena: dall’educazione differenziata alle università. Noi non ci facciamo illusioni sul governo Temer. Come non ce ne facciamo sul Congresso nazionale, sempre più ostile verso la causa indigena e verso quella afro. È un Congresso estremamente conservatore e interessato soltanto al capitale internazionale».

Dom Roque, lei dunque conferma che il Congresso brasiliano è dominato da partiti avversi ai popoli indigeni?

«Confermo. Nel Congresso nazionale noi abbiamo tre schieramenti (bancadas) anti-indigeni: la bancada della Bibbia (Bíblia), quella della pallottola (bala) e quella della vacca (boi)4. Anche il potere giudiziario ha un atteggiamento completamente contrario. Insomma tutti i poteri dello stato mostrano una grande insofferenza nei confronti dei popoli indigeni».

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L’illusione dello sviluppo

Dom Roque, una delle obiezioni che si fanno alle politiche indigeniste può essere riassunta in una frase: troppa terra per pochi indigeni.

«È una obiezione infondata. In primis, perché tutta la terra del Brasile era loro. Essi l’abitavano da tanto tempo. Secondo, gli indigeni hanno un usufrutto della terra e non la proprietà. Terzo, è generalmente riconosciuto, anche dallo stesso governo brasiliano, che le terre indigene sono meglio conservate delle altre. Non mostrano la distruzione della natura come le altre. I fiumi in terra indigena, quelli non inquinati dai garimpos (miniere), sono di acqua cristallina. Da ultimo, non è che la terra appartenga agli indigeni, sono gli indigeni che appartengono alla terra. Appartenere alla terra invece che essee proprietario è ciò che definisce un indigeno. Questa è una differenza che, a prima vista, ai nostri occhi pare incomprensibile».

Un’altra obiezione riguarda la necessità dello sviluppo economico, soprattutto ora che il paese è passato dal miracolo economico alla crisi.

«Il paese deve trovare un equilibrio. Tutti questi progetti servono? Noi dobbiamo chiederci che sviluppo vogliamo. Uno sviluppo dove pochi hanno molto e molti non hanno niente? Oppure uno sviluppo equilibrato in cui ci sia una relazione corretta con l’ambiente e la creazione? Questa Casa comune – come la chiama il papa – è amministrata molto male. I popoli indigeni sono quelli che possono insegnarci come curarla e mantenerla. Secondo: con questo ritmo di sviluppo non ci potranno essere risorse per tutti. È necessario un percorso di austerità, una vita più sobria invece dell’attuale che prevede il consumo per il consumo».

È un fatto che in?Amazzonia si stia facendo di tutto. In modo legale e illegale.

«L’Amazzonia è stata sempre vista come il luogo dell’abbondanza. Per il Portogallo prima, per il Brasile poi, ma non per i popoli indigeni. Le sue risorse sono state messe al servizio del capitale, nazionale e internazionale. I progetti vengono calati dall’alto e non rispettano i modi di vivere di chi l’Amazzonia la abita da sempre. In altre parole, sono fatti per servire i grandi interessi e non certo i popoli amazzonici».

Come Cimi siete spesso accusati di fare politica. Come sono le vostre relazioni con il potere?

«La nostra è una relazione estremamente discreta. Il nostro lavoro non ha bisogno di presidenti. Noi seguiamo il Vangelo».

La missione istituzionale della Funai, organo ufficiale dello stato brasiliano, sarebbe quella di proteggere e promuovere i diritti dei popoli indigeni del paese. È un compito che essa assolve in modo adeguato?

«Storicamente il Brasile non ha mai svolto un lavoro di promozione indigena. La Funai è stata fondata dai militari e guidata per molto tempo secondo la filosofia della sicurezza nazionale5. Oggi è un organismo totalmente disorganizzato e limitato dalle stesse leggi brasiliane».

La Casa comune: distruttori e difensori

Dom Roque, cosa pensa dell’atteggiamento di papa Francesco rispetto ai popoli indigeni? E degli errori commessi in passato dalla Chiesa cattolica nei loro riguardi?

«Già nella Evangelii Gaudium il papa aveva parlato dei popoli indigeni. Nella Laudato si’ il papa è andato oltre scrivendo quasi un inno di riconoscenza verso la ricchezza dei popoli indigeni. Quanto al passato, in vari discorsi tenuti in Bolivia e in Messico Francesco ha riconosciuto i peccati commessi dalla Chiesa cattolica rispetto a loro. Noi aspettiamo la sua visita in Brasile nel 2017. Stiamo cercando di inserire una tappa nel Pará e in particolare nella regione del rio Tapajós, dove la costruzione delle dighe – ne sono previste ben 43 – sta mettendo a repentaglio l’esistenza di molti popoli, compresi alcuni incontattati6».

Da sempre i popoli indigeni vengono additati come popolazioni retrograde. Voi sostenete che le loro modalità di vita possono insegnare molto a noi occidentali.

«Da 500 anni i popoli indigeni hanno messo in discussione la rapina e la violenza contro la Madre Terra, imposta dall’Occidente con il suo modello economico e di sviluppo fortemente distruttivo. I popoli indigeni ci possono insegnare una relazione armoniosa con l’ambiente e la natura. Ci possono insegnare a vivere senza essere schiavi del denaro e dell’accumulazione».

Dom Roque, come presidente del Cimi come vede il futuro?

«La decisione è nelle nostre mani: o accogliere le grida dei popoli indigeni o distruggere la nostra Casa comune nel nome del profitto e del benessere di pochi».

Paolo Moiola

Note

1 – Il suo pensiero in: Ewin Kräutler, Ho udito il grido dell’Amazzonia, Prefazione di Leonardo Boff, Emi, Bologna 2015.
2 – Su questo fatto di cronaca e sugli assassini di indigeni in America Latina, si veda: Paolo Moiola, Una vita a buon mercato, MC, giugno 2016.
3 – Sulle dighe di Jirau e Santo Antonio rimandiamo a: Paolo Moiola, Le dighe della felicità, MC, ottobre 2012.
4 – Lo schieramento (bancada) della Bibbia è guidato dal pastore neopentecostale Marco Feliciano, quello della vacca dal medico e ruralista Ronaldo Caiado e quello della pallottola dal militare Jair Bolsonaro.
5 – La Funai è nata nel 1967, sostituendo il Serviço de proteção ao índio (Spi), che era stato creato da Candido Rondon, un militare di origini indigene.
6 – Sulle opere in terre indigene si veda: Cimi, Empreendimentos que impactam terras indígenas, Brasilia 2014. E sulle violenze: Cimi, Relatório. Violência contra os povos indígenas no Brasil. Datos de 2015, Brasilia 2016.

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Archivio MC e Video

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Mato Grosso del Sud

Dove un indio non vale una vacca…

… o un campo di soia o di canna da zucchero o di eucalipto. È lo stato brasiliano dove si contano più violenze ai danni delle popolazioni indigene per mano dei proprietari terrieri (fazendeiros). Nel 2015 sono stati ammazzati 36 indigeni e 45 si sono tolti la vita.

Il Mato Grosso del Sud è uno stato brasiliano del centro-ovest. È esteso come la Germania, ma ospita soltanto 2,5 milioni di abitanti. I numeri che lo caratterizzano sono i seguenti: 21,7 milioni di bovini (9 vacche per abitante), 1,1 milione di ettari di terra coltivati a soia (per 5 milioni di tonnellate prodotte annualmente), 550 mila ettari di terra coltivati a canna da zucchero (soprattutto per il mercato dell’etanolo), 380 mila ettari coltivati ad eucalipto (per il mercato della cellulosa)1. Vi risiedono anche circa 77 mila indigeni, tra i quali i Kaingang e almeno 43 mila Guarani-Kaiowá, abitanti originari2. Un tempo erano i «padroni» di queste terre, poi – a partire dalla fine del XIX secolo – iniziarono a essee espulsi dai bianchi. Oggi vivono – letteralmente – in accampamenti ai margini delle strade (come la Br-290 e la Br-386) o in qualche angusto spicchio delle 63 terre indigene (Ti) ufficialmente esistenti nello stato secondo la Funai3. La gravità di questa condizione è riassunta in un dato impressionante: nel solo 2015, tra gli indigeni del Mato Grosso del Sud, sono stati registrati 45 suicidi4, con un tasso d’incidenza molto più elevato che nel resto della popolazione brasiliana.

In questi anni di aumento della domanda di prodotti, nel Mato Grosso del Sud la frontiera agricola ha continuato ad espandersi e a concentrarsi nelle mani dell’oligarchia fondiaria, sempre a discapito delle popolazioni indigene.

Quando si ribellano, magari riprendendosi (retomada, è il termine utilizzato dagli indigeni; invasão, è il termine utilizzato dai non-indigeni) parte delle terre (Tekoha, che in lingua guarani significa «il luogo del modo di essere guarani») che appartenevano ai loro avi, vengono vessati dalle autorità locali e soprattutto fatti oggetto di violenza da parte dei sicari (pistoleiros) dei locali produttori agricoli (fazendeiros), i quali mai pagano per le loro azioni delittuose. Da anni il Mato Grosso do Sul è lo stato brasiliano che registra il più alto numero di violenze e di omicidi ai danni delle popolazioni indigene. Nel 2015 sono stati 36 gli indigeni assassinati su un totale di 137 nell’intero Brasile5.

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Una scia di omicidi (impuniti)

Per capire quanto il problema sia radicato, è utile ricordare i casi più eclatanti degli ultimi anni, iniziando dall’11 gennaio del 2003. Quel giorno viene ucciso Marcos Veron, un cacique guarani-kaiowá di 72 anni. Il suo gruppo di famiglie indigene si era installato su un piccolo appezzamento della fazenda Brasília do Sul, un latifondo di 9.972 ettari sorto in terra indigena, nel municipio di Juti. Nello sgombero violento attuato dalle forze di sicurezza dei fazendeiros l’anziano leader indigeno perde la vita.

Il 18 novembre 2011 viene ucciso Nizio Gomes, un altro cacique guarani-kaiowá. Un gruppo di indigeni aveva ripreso un piccolo pezzo della fazenda Nova Aurora, svilluppatasi su un’area indigena. A sgombrare l’accampamento arrivano gli uomini della Gaspem Segurança, un’impresa di sicurezza privata nota per i suoi metodi violenti. Nell’azione Nizio Gomes rimane ucciso.

Alla fine di ottobre del 2009 scompaiono due professori indigeni guarani-kaiowá, Genivaldo Vera e Rolindo Vera, dopo essere stati attaccati dagli agenti di sicurezza della fazenda São Luiz, nel municipio di Paranhos. Il corpo di Genivaldo, che aveva 21 anni ed era professore di informatica, viene trovato dieci giorni dopo la sua sparizione.

Ancora più triste è l’omicidio di Denilson Barbosa, un ragazzo kaiowá di soli 15 anni. Il giovane viene ammazzato con un colpo di fucile alla testa il 17 febbraio 2013 dal fazendeiro Orlandino Caeiro Gonçalves. Denilson era stato colto a pescare in un laghetto della fazenda, sorta su un territorio indigeno.

Il 30 maggio 2013 muore Oziel Gabriel, indio del popolo Terena, il cui accampamento era stato montato sulla terra occupata dalla fazenda Buriti, sorta su un’area dichiarata indigena.

L’8 dicembre 2014, un gruppo armato attacca indigeni  sistemati su una piccola area della fazenda Burana, sviluppatasi su un’area indigena. Una ragazza guarani-kaiowá di 17 anni, Julia Venezuela, scompare, dopo essere stata colpita e caricata su un fuoristrada dagli assalitori.

Il 29 agosto 2015 Semião Vilhalva, giovane kaiowá di 24 anni, viene assassinato nel municipio di Antônio João da un gruppo di fazendeiros accorsi per sgombrare le fazendas Barra e Fronteira da un gruppo di indigeni. A conferma di una storica impunità, poche settimane dopo l’omicidio di Vilhalva, nel settembre del 2015 l’Assemblea legislativa del Mato Grosso del Sud, sottomessa agli interessi dell’oligarchia rurale, elegge una Commissione parlamentare d’inchiesta (Comissão parlamentar de inquérito, Cpi) per indagare se il Consiglio indigenista missionario (Cimi) inciti e finanzi l’occupazione di proprietà private da parte delle popolazioni indigene.

L’ultimo assassinato in ordine di tempo è Clodiodi Aquileu Rodrigues de Souza, agente di salute indigena di 26 anni. Lo scorso 14 giugno un gruppo di una settantina di fazendeiros, accompagnati da uomini armati in uniforme e cappuccio, a bordo di decine dei consueti (e costosissimi) fuoristrada, attaccano un piccolo accampamento indigeno sistemato su un terreno occupato dalla fazenda Yvu, sorta su una terra indigena già ufficialmente riconosciuta e delimitata. Clodiodi rimane ucciso, molti altri feriti.

Il prezzo di una vita

Quelli sommariamente descritti sono soltanto alcuni episodi della cruenta guerra in corso nel Mato Grosso do Sul per il possesso della terra. Una guerra tra i proprietari di oggi e i proprietari di ieri, quei popoli indigeni ai quali non si riesce o non si vuole restituire dignità e giustizia6.

Per tutto questo e molto altro non è un’esagerazione giornalistica affermare che il Mato Grosso del Sud è uno stato dove la vita di un indio non vale quella di una vacca. O – a scelta – di un campo di soia, di canna da zucchero o di eucalipti.

Paolo Moiola

Note

(1) Dati Conab, www.conab.org.br.
(2) Ibge, Censo demografico 2010.
(3) L’elenco e la descrizione delle terre indigene è visibile sul sito della «Fundação nacional do índio» (Funai), www.funai.gov.br.
(4) Dato della «Secreteria especial de saúde indígena» (Sesai), organo del ministero della salute. In Brasile, nella fascia d’età tra i 15 e i 29 anni, il tasso d’incidenza è di 6,9 casi ogni 100 mila abitanti.
(5) Conselho indigenista missionário (Cimi), Violência contra os povos indígenas no Brasil – Ano 2015.
(6) Sulla situazione nel Mato Grosso do Sul: Reporter Brasil, Em terras alheias. A?produção de soja e cana em áreas Guarani no Mato Grosso do Sul, 2013; Cimi, As violências contra os povos indígenas em Mato Grosso do Sul. E as resistências do Bem Viver por uma Terra Sem Males, 2011. Entrambe le pubblicazioni sono reperibili sul web in formato Pdf.




Argentina San José Gabriel Brochero un pastore odora pecore


San José Gabriel Brochero, il «cura gaucho», era profondamente convinto che avrebbe potuto essere un buon pastore solo con un’azione missionaria ispirata dall’affetto, dall’interesse e dalla compassione per tutte le persone colpite dalla sofferenza, dalla povertà e dalle ingiustizie.

Nel volto di Brochero incontriamo la misericordia di Dio. Il 22 gennaio 2016 papa Francesco ha firmato il decreto che riconosce il secondo miracolo ottenuto grazie all’intercessione del beato José Gabriel Brochero. Il miracolo riconosciuto è quello della guarigione di una bambina che è tornata a camminare dopo un infarto cerebrale. Si tratta di Camila Brusotti, che all’età di otto anni, brutalmente picchiata da sua madre e dal suo patrigno, era rimasta per più di due mesi incosciente in terapia intensiva.

Il cura gaucho (cura = prete, gaucho = equivalente al cowboy, mandriano a cavallo), come era conosciuto, sarà canonizzato da papa Francesco il 16 ottobre e diventerà il primo santo tutto «argentino» perché nato e morto in Argentina. Mentre san Héctor Valdivielso Sáez (1910-1934), considerato da molti il «primo santo argentino», nacque nel paese, ma visse in Spagna da quando aveva quattro anni, e là fu fucilato insieme ai suoi confratelli quando aveva solo 24 anni, durante la rivoluzione delle Asturie, prima dell’inizio della guerra civile spagnola.

Il cura Brochero, la cui causa di beatificazione era iniziata nel 1967, era stato dichiarato venerabile da Giovanni Paolo II nel 2004 e poi beatificato da Benedetto XVI alla fine del 2012.

Chi era il Cura Gaucho?

cura_brochero_01Nacque nelle vicinanze di Santa Rosa de Río Primero (Córdoba, Argentina) il 16 marzo 1840 da una famiglia di contadini, quarto di dieci figli, crebbe nel seno di una famiglia profondamente cristiana. Due sue sorelle si fecero suore Figlie di Maria Santissima dell’Orto, fondate da sant’Antonio Maria Gianelli. Entrò nel seminario Nostra Signora di Loreto il 5 marzo 1856 e fu ordinato sacerdote il 4 novembre 1866. Destinato come collaboratore pastorale presso la cattedrale di Córdoba, si prodigò durante l’epidemia di colera che colpì la città nel 1867 e mieté più di quattromila vite. In qualità di prefetto agli studi del seminario maggiore, ottenne il titolo di maestro in filosofia presso l’Università di Córdoba il 12 novembre 1869.

Verso la fine del 1869 fu nominato parroco di sant’Alberto, un paese a tre giorni a cavallo dalla città; situata sulle Sierras Grandes, alte più di 2 mila metri, la parrocchia contava più di 10 mila abitanti che vivevano in luoghi isolati e impervi senza strade, senza scuole e servizi sociali. La situazione morale e l’indigenza materiale degli abitanti avrebbe scoraggiato chiunque, ma non il cura gaucho che da quel momento dedicherà tutta la sua vita a portare non solo il Vangelo, ma anche a promuovere la vita delle sua gente attraverso la scuola e tante altre iniziative sociali.

Appena un anno dopo il suo arrivo convinse uomini a donne a recarsi a Córdoba per fare gli esercizi spirituali, percorrendo in tre giorni gli oltre 150 km di distanza a cavallo o a dorso di mulo, in carovane che spesso superavano le 500 persone. Più di una volta furono sorpresi da forti tormente di neve. Al ritorno, dopo nove giorni di silenzio, preghiera e penitenza, i suoi parrocchiani cambiavano poco a poco la loro vita, diventando cristiani più convinti, impegnati anche nello sviluppo umano della loro terra.

Nel 1875, con l’aiuto dei suoi parrocchiani, iniziò la costruzione della Casa degli Esercizi del paese allora chiamato Villa del Transito (località che oggi porta il suo nome di Villa Cura Brochero). Fu inaugurata nel 1877 e, durante il ministero del cura gaucho vi passarono più di 40 mila persone con tui di 700 persone alla volta. Come complemento costruì la casa per le suore, un collegio per le ragazze e la residenza per i sacerdoti.

Con i suoi parrocchiani costruì più di 200 km di strade e varie chiese, fondò paesi e si preoccupò per l’educazione di tutti.

Richiese alle autorità e ottenne uffici postali e telegrafici. Progettò il ramo ferroviario che avrebbe attraversato la Valle de Traslasierra unendo Villa Dolores e Soto per liberare i suoi cari montanari dalla povertà in cui giacevano, «abbandonati da tutti, ma non da Dio», come amava ripetere.

Predicò il Vangelo adattando il linguaggio a quello dei suoi fedeli per renderlo comprensibile. Celebrò la santa messa anche nei luoghi più remoti della sua parrocchia, portando sempre con sé il necessario sulla sua mula. Nessun infermo rimaneva senza sacramenti perché né la pioggia, né il freddo lo fermavano, «altrimenti il diavolo mi ruba un’anima», diceva. Tra questi c’erano numerosi lebbrosi, che visitava regolarmente e con cui beveva il mate, la tipica bevanda argentina che si condivide da uno stesso recipiente. Si donava a tutti, specialmente ai poveri e ai lontani, che cercava con sollecitudine per avvicinarli a Dio.

Pochi giorni dopo la sua morte, il giornale cattolico di Córdoba scrisse: «È risaputo che il cura Brochero ha contratto la malattia che lo ha portato alla tomba perché non solo visitava ma anche abbracciava un lebbroso abbandonato da quelle parti». Diventato lebbroso, nel 1908 rinunciò alla parrocchia, toò a Córdoba e andò a vivere con le sue sorelle a Santa Rosa de Río Primero, la sua città natale. Non vi restò per molto: sollecitato dai suoi vecchi parrocchiani, toò a Villa del Tránsito nel 1912, preoccupandosi dell’opera che aveva sospeso, ossia l’installazione di una linea ferroviaria. Infine, il 26 gennaio 1914, rese l’anima a Dio. Le sue ultime parole, pronunciate in dialetto, furono: «Ora ho gli attrezzi pronti per il viaggio» («Ahora tengo ya los aparejos listos pa’l viaje»).

«Sarete miei testimoni»

Il cura Brochero prese alla lettera queste parole di Gesù e le visse da vero missionario praticando la spiritualità delle «tre A: aquí, allí, allá». Sono le tre dimensioni che egli ha sempre conservato nella sua vita.

Aquí – qui dentro il proprio cuore: la missione inizia in noi stessi, ma è necessario entrare nel proprio cuore, in profondità e con sincerità; spesso è il viaggio più difficile e lungo da percorrere.

Allí – qui e ora, in questo posto: nella propria diocesi, nella propria parrocchia, nella propria realtà.

Allá – Là, oltre:  fino ai confini della terra che ci è affidata. Il cura Sapeva aprire le porte e lasciare entrare e nello stesso tempo sapeva uscire al di là delle frontiere tradizionali. Iniziava con un orizzonte concreto e limitato per ampliarlo poco a poco. Nello stesso modo il cammino missionario che egli apriva a coloro che lo aiutavano era proposto seguendo uno schema simile, partendo dal «di dentro», continuando nel «qui e ora» per aprirsi allo sguardo della missione nel «là e oltre» i confini e le barriere.

Juan Carlos Greco*

*Juan Carlos Greco, missionario della Consolata argentino. Il testo è stato tradotto e adattato da Misiones Consolata n. 470, luglio-agosto 2016, pubblicata a Buenos Aires, Argentina.
Foto di questo articolo tratte da: www.curabrochero.org.ar

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Le 3 «A»

Proviamo ad approfondire le tre dimensioni della spiritualità del cura con un po’ di allegria, qualche sua frase e brevi testimonianze.

1. Aquí – qui dentro

cura-brochero_gaucho«Un certo padre Juan è appena morto. Il vescovo durante il funerale abbonda di elogi: “Il defunto era un buon sacerdote, un vero amico di tutti, un padre umile e povero, un missionario esemplare!”. La sacrestana guarda uno dei chierichetti e gli dice all’orecchio: “Vai a vedere nella cassa e guarda se chi sta dentro è proprio p. Juan”».

Non è necessario fare molti elogi di Brochero. Egli sapeva aiutare le persone a entrare dentro di sé, a prendere coscienza della propria situazione e iniziare un cammino di vera conversione.

Diceva: «Non siamo cristiani per un’idea o una decisione etica, ma per incontrarci con Gesù». E a proposito della sua ordinazione sacerdotale: «Ho avuto molta paura. Sono solo un povero peccatore, così pieno di limiti e miserie. E mi domandavo: “Saprò essere fedele alla vocazione? In che imbroglio mi sono messo?”. Ma subito una sensazione immensa di pace invase il mio essere. Perché se il Signore mi aveva chiamato, Egli sarebbe stato fedele e avrebbe sostenuto la mia fedeltà; inoltre, Gesù Buon Pastore, non nega mai i suoi doni a coloro che lo seguono e sono “altri Gesù”» «Solo convertendo noi stessi in un nuovo magnificat potremo diventare ciò che Dio vuole che siamo, umili servitori, sui quali si effonde la misericordia di Dio per poter offrire la propria vita per amore al mondo. Oggi, per intercessione della Madre della misericordia, dobbiamo essere artefici della pace, strumenti di riconciliazione, costruttori di unità e testimoni della misericordia, affinché Dio voglia servirsi di noi e ricordarsi della sua eterna misericordia, ossia della grande promessa di Dio fatta ai nostri padri a favore di Abramo, di noi e del suo popolo per i secoli dei secoli».

«L’ostia consacrata è un miracolo di amore, un prodigio di amore, una meraviglia dell’amore, un complemento di amore ed è la prova più chiara del suo infinito amore verso di me, verso voi e verso l’uomo».

«Egli non fu un cristiano triste, sapeva della gioia che dà Gesù e la voleva contagiare», scrivono i vescovi argentini, «per questo, visitando la gente nelle case, diceva: “Vengo a portarvi la musica”. La musica di sapersi amati da Dio».

Per questo se non si è capaci di ascoltare la musica «che è dentro» (di noi) non si può cantare né in «questo posto» né «oltre», fino ai confini del mondo.

bro192. Allí – qui e ora

Nel confessionale:
– Cosa posso fare con i miei peccati, padre?
– Ora (prega).
– (Hora?) Sono le quattro e un quarto. Però, che posso fare con i miei peccati?

Seduto… Camminare verso il «qui e ora», ma seduto, confessando lunghe ore. «Il sacerdote che non prova molta pena per i peccatori è mezzo sacerdote. Questi paramenti benedetti che indosso non mi fanno sacerdote; se non alberga dentro di me la carità non sono nemmeno cristiano».

E ai suoi sacerdoti che lo aiutavano raccomandò per iscritto «che quanto più i fedeli sono peccatori o rudi o incivili, tanto più li dovete trattare con dolcezza e amabilità nel confessionale, dal pulpito e nella relazione personale».

Camminando… verso i poveri. «Brochero si caratterizzava per l’andare incontro ai bisognosi. Non gli mancavano mai aiuti da donare ai poveri della zona. Il suo vestito era sempre umile e povero. Molte volte, la signora Zoraida Viera de Recalde che gli lavava i vestiti gli domandava: “Signor Brochero, e quella camicia nuova che aveva?!”. Il prete rispondeva: “L’ho data a un altro che ne aveva più bisogno di me”». Diceva sempre: «Dio è come i pidocchi, c’è dappertutto, ma preferisce i poveri».

Con la predicazione itinerante e gli esercizi spirituali. Un sacerdote che lo conobbe ha testimoniato: «Dato che nella sua parrocchia regnavano l’ignoranza, l’indifferenza, l’alcolismo e il latrocinio, iniziò l’opera di evangelizzazione per mezzo degli Esercizi Spirituali e si propose di portare alla città di Córdoba i suoi fedeli perché potessero farli. Ma come trascinare quella gente che non aveva idea di che cosa fossero? Come condurre un numero considerevole di uomini e donne per sentirneri molto difficili lungo gli oltre 150 km attraverso le montagne?

Brochero commentava: “Chiedevo in giro chi era la persona più ‘condannata’, più ubriacona e ladrona della zona. Le scrivevo allora un bigliettino dicendole che desideravo trascorrere due giorni nella sua casa, celebrare messa, predicare e confessare, e che quindi avvisasse i suoi amici. In questo modo sapevo che quella gente veniva ad ascoltarmi perché se fossi andato da una buona famiglia quei furbacchioni non si sarebbero avvicinati. E là dicevo solo che volevo fare il loro bene a mie spese e che volevo insegnar loro il modo di salvarsi e qui tiravo fuori il Santo Cristo invitandoli agli Esercizi Spirituali”. In questo modo, invitando la gente non solo della sua parrocchia, ma anche quella della Rioja e di San Luis riuscì a portare circa 700 persone agli esercizi, procurando loro i cavalli e il denaro necessari e rispondendo personalmente per tutte le necessità dei più poveri. Tutte quelle persone tornavano da Córdoba piene di gioia e completamente trasformate».

3. Allá – Là, oltre

Un prete durante la predica disse: «In questo paese si è persa la fede». Al che un ubriaco rispose ad alta voce: «E allora da qui non esce nessuno finché non venga ritrovata!».

Ma se si è persa la fede, Brochero sapeva che bisognava andare a «riscattarla» e nello stesso tempo a seminarla nei cuori che non l’avevano mai avuta. E dove si diresse? È nelle periferie – come ha spiegato in molte occasioni Papa Francesco – che il cura Brochero si impegnò a restare. «Andare verso coloro che non conoscono l’amore di Dio perché non è stato loro annunciato o perché la triste realtà in cui vivono dice loro che Dio è assente dalle loro vite». E faceva questo non solo con le parole, ma anche con le opere in ambienti che non erano certo normali per gli ecclesiastici di quel tempo.

«Come la Madonna alle nozze di Cana, anch’egli ha saputo dire a Gesù: “Non hanno acqua”, “non hanno educazione”, “non hanno strade”, “non hanno mezzi adatti per incontrarsi come fratelli e commercializzare i loro prodotti…”».

«Il cura Brochero come uomo di fede, povero e generoso, era già presente nel cuore della gente a Cordoba nel 1857 quando ci fu l’epidemia del colera. Allo scoppio di quella terribile epidemia egli era già prete. Piuttosto che fuggire dal flagello quel giovane sacerdote, rischiando di contagiarsi per servire gli infermi, andò di casa in casa consolando e assistendo nelle loro necessità materiali e spirituali gli ammalati. Consolò le famiglie e diede sepoltura cristiana alle vittime dell’epidemia. È proprio a partire da questo fatto che la gente iniziò a scoprire che in mezzo ad essa c’era un uomo di Dio».

«Visitando i lebbrosi della zona contrasse la malattia che sopportò durante i suoi ultimi anni, la lebbra. Si può ben dire che fu un martire della carità. Una persona che lo conobbe, ricorda che nella parrocchia c’era un lebbroso che aveva un brutto carattere, bestemmiava e nessuno voleva avvicinarsi a lui. Brochero gli si avvicinò, gli portava da mangiare, lo puliva, beveva il mate con lui. La sua stessa nipote gli diceva di non andare da lui ed egli le rispondeva: “Forse l’anima di questo pover’uomo non vale niente?!”, e continuò a servirlo; lo trasformò in un mite agnello. Il lebbroso si confessò da lui e morì santamente avendo ricevuto tutti i sacramenti».

Juan Carlos Greco

Villa del Cura Brochero
Villa del Cura Brochero




Honduras Berta si è moltiplicata


Sono stati 185 gli attivisti per la giustizia ambientale uccisi nel 2015 nel mondo. Berta Cáceres, hondureña, sarà contata tra le vittime del 2016. Il suo paese è tra i più pericolosi per chi vuole difendere i territori e, con essi, la vita, la storia, la cultura delle comunità che li abitano. A rappresentare la minaccia è spesso l’industria estrattiva, mineraria ed energetica. Industria che, con cinismo, non manca di autodescriversi come sostenibile, green, attenta ai bisogni delle popolazioni locali.

Il rapporto di Global Witness uscito a giugno e riferito al 2015, intitolato in modo significativo «Su un terreno pericoloso » (On dangerous ground) registra un aumento del 59% rispetto all’anno prima degli omicidi ai danni di attivisti ambientali (185 in 16 paesi del mondo)1. L’accurato lavoro di ricerca con cui l’organizzazione non governativa denuncia l’elevato livello di violenza che si produce nei luoghi di estrazione di materie prime e di fonti energetiche in tutto il mondo, è dedicato quest’anno all’attivista Berta Cáceres2, uccisa nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2016 in uno dei paesi che risultano essere tra i piú pericolosi negli ultimi anni per chi lotta per la giustizia ambientale: l’Honduras.

I Lenca sotto assedio

Berta Cáceres, cornordinatrice del Consejo de Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras – Copinh -, viene brutalmente assassinata nella sua casa in La Esperanza, nella valle del rio Blanco-Gualcarque, da almeno due sicari. Ospite a casa sua quel giorno, sopravvissuto all’attacco ma ferito alle mani e a un orecchio, c’era Gustavo Soto, presidente di Otros Mundos Chiapas Amici della Terra Messico, che partecipava a un workshop di formazione con il Copinh sul tema delle energie rinnovabili comunitarie. La comunità La Esperanza, dove Berta si era trasferita da poco, si trova nella regione delle comunità lenca, uno dei principali gruppi indigeni del paese, appartenente alla cultura maya. Quelle abitate dai Lenca sono terre fertili e ricche d’acqua. Per questo vengono considerate la nuova frontiera dell’economia estrattiva. Il Copinh denuncia da molti anni le modalità con cui vengono rilasciate le concessioni minerarie, quelle per lo sfruttamento del legname e per la costruzione di centrali idroelettriche con dighe sui principali fiumi del territorio.

Insicurezza, deportazioni, criminalizzazione della protesta

Non solo il Copinh si occupa delle terre lenca: anche la Commissione Interamericana dei Diritti Umani (Cidu) nel suo ultimo rapporto sull’Honduras lancia un allarme per la grave insicurezza, l’uso eccessivo della forza, le deportazioni forzate, la criminalizzazione della protesta. Tutto ciò trova la strada spianata soprattutto a partire dal 2009, durante i governi creatisi dopo i golpe di Micheletti e poi di Porfilio Lobo Sosa. Il 24 agosto 2009 si approva la Ley General de Agua (la legge generale sull’acqua), che apre a nuove concessioni idriche, e il decreto 233 che deroga qualsiasi impedimento a concessioni idroelettriche in aree protette, in violazione della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli indigeni, che l’Honduras ha firmato nel 2007. Organizzazioni della società civile hanno informato la Cidu di almeno 837 potenziali progetti minerari, che coinvolgerebbero il 35% del territorio nazionale, 76 progetti idroelettrici che già vantano uno studio di fattibilità e/o un contratto per operare già approvato, in un totale di 14 dei 18 dipartimenti del paese.

Progetto Agua Zarca

Tra il 2010 e il 2013 viene approvato uno dei progetti più controversi, conosciuto come Agua Zarca. Contro di esso il Copinh e Berta Cáceres non risparmiano critiche e denunce: la centrale è una infrastruttura di per sé piccola, con una potenza stimata di 21,3 Mw, ma che comporta un profondo impatto ambientale e culturale nel territorio. L’esistenza delle comunità lenca è infatti strettamente legata ai boschi e ai fiumi, fonte di vita e luogo in cui vivono gli spiriti delle niñas indigenas. La zona è considerata inoltre eredità del Cacique Lempira, eroe nazionale che ha lottato per la libertà di quei territori dall’invasione coloniale spagnola. L’arrivo senza preavviso dell’industria estrattiva con conseguenti zone disboscate, macchinari nel letto dei fiumi, strade bloccate, presenza di militari e forze di sicurezza armate, ha purtroppo diviso la popolazione. Alcuni Lenca hanno infatti creduto alla promessa di «sviluppo» fatta dall’impresa, una strategia corporativa piuttosto comune per rompere il fronte critico delle comunità locali, soprattutto se organizzate.

«Consultazioni zero»

«Sviluppo locale», «protezione dell’ambiente attraverso l’energia verde, rinnovabile», sono le parole d’ordine, gli slogan usati per presentare il progetto ai finanziatori e alla comunità internazionale. Nel 2012, la Banca Centroamericana di Integrazione Economica (Cabei) concede all’impresa hondureña Desarrollos Energéticos (Desa) un prestito di 24,4 milioni di dollari. Desa a sua volta stipula un contratto con il gigante cinese dell’idroelettrico Sinohydro, che viene presto accusato dalla popolazione lenca di non rispettare il diritto alla consultazione previa e informata della popolazione locale, così come sancito dall’Ilo (Oganizzazione internazionale del lavoro) nella Convenzione 169, firmata dall’Honduras nel 1995. Anche la tedesca Voith Hydro Holding GmbH & Co. KG è coinvolta nella foitura delle turbine, e accusata delle stesse violazioni. Di fronte alla protesta e alle denunce, Sinohydro si ritira dal progetto, così come la Corporazione Finanziaria Internazionale (Ifc) della Banca Mondiale.

I paradossi locali dell’economia estrattiva

Agua Zarca indica chiaramente che i conflitti non sorgono solo contro progetti di grandi dimensioni, ma da situazioni in cui diversi fattori d’ingiustizia si combinano insieme. In terra lenca, infatti, sono ben 17 le nuove dighe in previsione o già in costruzione, ma l’elettricità prodotta da questi impianti è principalmente destinata alle industrie e al settore minerario. Questo territorio non ha mai beneficiato di servizi statali, di salute, di educazione, se non in misura insufficiente. Tanto che l’Istituto Nazionale di Statistica registra, per esempio, un 30% di analfabetismo nel municipio di Intibuncá, 16 punti sopra la media nazionale. Ma il paradosso più grande sembra però essere il fatto che, appunto, alle comunità non è mai arrivato il collegamento all’energia elettrica. Un’analisi comparata delle realtà dove opera l’industria estrattiva rivela che questo è un fenomeno ricorrente che si verifica in maniera sistematica soprattutto in zone rurali dove la popolazione viene emarginata e i cui diritti di partecipazione e di espressione sono violati.

«Svegliati, umanità, vegliati!»

La morte di Berta Cáceres ha destato indignazione e rabbia in tutto il mondo. Espressioni di solidarietà sono arrivate da tutti i continenti perché il suo lavoro era conosciuto: il suo sguardo e le sue parole avevano suscitato forti emozioni, ad esempio, durante la consegna proprio a lei del premio ambientale Goldman nel 2015. Premio che Berta Cáceres aveva dedicato al popolo lenca e alla sua forza e dignità. In quell’occasione aveva invitato la comunità internazionale ad agire: «Svegliati, umanità, svegliati! Non c’è più tempo!». Parole che sono risuonate mille e mille volte nei social media dopo il suo assassinio, come un monito e un grido di dolore per le tante persone che subiscono repressione e violenza.

Una scia di sangue troppo lunga

Solo pochi giorni dopo la morte di Berta, viene ucciso nella sua dimora in Rio Lindo Nelson Garcia, per essersi opposto a deportazioni e sfollamenti forzati della sua comunità. Nel 2013, il giovane Tomas Garcia era stato ucciso durante una repressione della polizia. Entrambi i Garcia erano membri del Copinh assieme a Berta. Nel vicino Messico, Noé Vasquez della piattaforma anti dighe Mapder era stato vittima di un’imboscata mentre raccoglieva fiori e pietre per la cerimonia di apertura dell’incontro annuale del movimento nel 2013. Nello stesso anno due ragazzi erano stati assassinati da un sicario presso la diga Santa Rita in Guatemala, e un anno prima Andrés Francisco Miguel era morto durante le proteste per la diga Barillas Santa Cruz per mano delle guardie di sicurezza. Questi sono solo alcuni dei molti casi3 che dimostrano la grande violenza che accompagna l’industria estrattiva e i suoi progetti energetici e infrastrutturali, la connivenza fra imprese e autorità pubbliche e forze di «sicurezza» in Centroamerica.

L’eredità di Berta

Berta Cáceres però ha lasciato un’eredità speciale: «Il suo assassinio ha lasciato un segno profondo nei movimenti per la giustizia ambientale. Qualcosa è cambiato dalla sua morte», ci dice un attivista in Cile. C’è stata infatti una grande mobilitazione a molti livelli, dalle reti sociali al Parlamento europeo, che ha chiesto con forza al governo hondureño di intervenire per identificare i colpevoli materiali, per indagare sul ruolo delle imprese di Agua Zarca, e per rilasciare immediatamente Gustavo Soto, unico testimone diretto di quella tragica notte, che per settimane è stato trattenuto in Honduras nonostante avesse già riferito alle autorità tutto ciò che sapeva. Tra il 17 e il 21 marzo la Missione Internazionale Justícia per Berta Cáceres Flores ha partecipato a una visita nel paese, assieme a membri del Copinh e altre organizzazioni dell’Honduras. Anche dai paesi europei molte reti si sono attivate e hanno fatto pressione anche sui finanziatori del progetto, tra cui BankTrack, Both Ends, Inteational Rivers e la grande rete della campagna Stop Corporate Impunity. Fmo, la banca finanziatrice olandese, già coinvolta in altri progetti come Barro Blanco nello stesso Honduras e Santa Rita in Guatemala, e Finnfund, hanno deciso di sospendere il loro appoggio alla centrale pochi giorni dopo l’assassinio. La Cabei, che al principio aveva espresso fiducia sul fatto che per «il caso di Mrs. Cáceres ci sarà la dovuta accuratezza nelle indagini da parte delle autorità», il 4 aprile finalmente ha deciso di sospendere il finanziamento a Agua Zarca.

Resistenza all’imposizione

Nel mese di maggio è venuta in Europa una delegazione del Copinh, tra cui una delle figlie di Berta, che porta il suo stesso nome. Due lunghe settimane di incontri con dirigenti di banche, agenzie per lo «sviluppo», e imprese per raccontare, testimoniare ma anche per interrogare chi decide la destinazione di fondi e chi investe in nome di quello sviluppo e quell’energia che non si dimostrano né sostenibili né puliti. «Noi Lenca viviamo il nostro territorio con altre relazioni socio-ambientali », dice Bertita, che per la sua sicurezza ha dovuto vivere molti anni fuori dal paese e lontana dalla madre, durante un incontro a Barcellona. «Ora capiamo che tutto quello che facciamo, dalle iniziative per la salute comunitaria, alle piccole energie rinnovabili per le nostre case, all’educazione secondo i valori lenca, è una forma di resistenza alla cultura imposta da uno stato estrattivista e capitalista, oligarchico e patriarcale». E, concludendo, saluta con quanto gridato più volte dalla sua gente: «Mia madre no murío, se multiplicó ».

Daniela Del Bene
Co-editrice dell’Ejatlas


Note:

1- «Global Witness ha documentato in totale 185 omicidi in 16 paesi nel 2015, un aumento del 59% rispetto al 2014, e il numero totale più alto da quando abbiamo iniziato la raccolta di dati nel 2002. Difensori del territorio e dell’ambiente vengono uccisi a un ritmo impressionante di più di 3 a settimana. La maggior parte dei casi registrati sono avvenuti in paesi dell’America Latina e del Sud-Est asiatico, con il più alto pedaggio registrato ancora in Brasile (50) e nelle Filippine (33). I popoli indigeni difensori delle loro terre ancestrali sono stati i più colpiti, rappresentano infatti quasi il 40% delle vittime. Industrie minerarie e estrattive sono state collegate ad almeno 42 delitti. Ma anche industrie agroalimentari (20 omicidi), idroelettriche (15) e del legname (15). Abbiamo trovato un coinvolgimento sospetto di gruppi paramilitari in 16 casi, delle forze armate in 13, della polizia in 11, e di guardie di sicurezza private in altri 11». (da On dangerous ground, p. 5).

2- «Intoo alla mezzanotte del 2 marzo 2016, uomini armati hanno sfondato la porta della casa in cui Berta Cáceres si trovava a La Esperanza, Honduras, hanno sparato e l’hanno uccisa. Berta era un’attivista ambientale e per i diritti della terra indigena di alto profilo. L’anno scorso aveva ricevuto il premio ambientale Goldman, un prestigioso riconoscimento per l’attivismo ambientale di base in tutto il mondo. Nel suo discorso alla premiazione Berta aveva parlato delle minacce di morte e dei tentativi di rapimento subiti a causa della sua lotta contro la diga di Agua Zarca. Global Witness ha evidenziato il suo lavoro coraggioso in How many more? (quanti altri?), una ricerca in cui l’Honduras veniva descritto come il paese più pericoloso al mondo per i difensori della terra e dell’ambiente. Questo rapporto (On dangerous ground, ndr.) è dedicato a Berta Cáceres e ai molti attivisti coraggiosi che, come lei, resistono al potere, nonostante i pericoli per la loro vita». (da On dangerous ground, p. 2).

3- Circa l’assassinio sistematico degli indigeni in America Latina si veda MC 6/2016, p. 10-12.




Trincee dimenticate


Senza sbocchi sul mare, in prevalenza montagnoso, teoricamente parte dell’Azerbaigian, di fatto occupato dall’Armenia, il Nagoo-Karabakh (o Artsakh) è uno stato non riconosciuto da alcun paese al mondo. Quasi scomparsi gli azeri musulmani (appoggiati dall’Azerbaigian), l’attuale popolazione è armeno cristiana. Ignorato da tutti, in questa enclave il conflitto non è però mai terminato. Come testimoniano gli scontri e i morti del 2016.

Alle frontiere dell’Europa, dimenticato da tutti, c’è un luogo dove migliaia di giovani bruciano le loro esistenze nel fango e nel gelo delle trincee, mese dopo mese, anno dopo anno. Un luogo dove il tempo sembra sospeso da più di vent’anni all’epoca della Grande Guerra, come in un’oscura maledizione da cui nessuno riesce più a liberarsi. Ma anche un luogo da favola, fatto di paesaggi incontaminati, gente dal cuore antico, splendidi monasteri e ottimo cibo prodotto in loco da mani sapienti. È il Nagoo-Karabakh: un luogo dal nome che evoca, ai pochi che lo conoscono, uno dei conflitti più dimenticati del nostro tempo, a cui tutti – anche la comunità internazionale – sembrano essersi oggi arresi con un odioso fatalismo, quasi fosse un evento naturale e inevitabile.

Ma questo territorio, ricco di poesia e contraddizioni, è molto di più. Il Nagoo-Karabakh – per chi lo conosce in prima persona – non è soltanto una guerra: dai suoi tanti villaggi, dove si aprono squarci di grande umanità ma anche di vera disperazione, alla sua capitale de facto, Stepanakert – sonnolenta eppure ridente città di provincia -, fino alla natura che sembra avere la meglio – a tratti – sulla follia dell’uomo e sulle sue bandiere di morte. E non mancano anche moschee e minareti, in questo fazzoletto di terra, a ricordarci che – prima del drammatico spartiacque della guerra tra Armenia e Azerbaigian, scoppiata con la dissoluzione dell’Urss nel 1991 – questa era una terra plurale da un punto di vista etnico e religioso. Il Nagoo-Karabakh porta con sé storie di fughe e abbandoni, di rancore e nostalgia, di molti che questa terra amara e dolce – dove ci sarebbe posto per tutti – l’hanno dovuta lasciare per sempre. Ci riferiamo alle centinaia di migliaia di azeri che, da un giorno all’altro – con l’esplosione del conflitto – hanno dovuto abbandonare le loro case e i loro beni a rischio della vita.

Il Nagoo-Karabakh è oggi uno stato non riconosciuto da alcun paese al mondo, ed è tuttora ufficialmente parte della repubblica dell’Azerbaigian. Ma è anche un crogiuolo di storie che si incrociano, storie di chi, vent’anni fa, è stato costretto a partire senza poter più ritornare e di chi ci è arrivato partendo da lontano. Perché in questo lembo di terra si trovano anche migliaia di profughi che sono dovuti fuggire dall’Azerbaigian in quei drammatici anni, insieme – più di recente – ad alcune decine di famiglie di cristiani armeni (in molti casi, figli e nipoti dei sopravvissuti al genocidio armeno del 1915), fuggiti dalla guerra in Siria.

Anno 1991: lo scoppio

La questione del Nagoo-Karabakh è nata col tramonto del sistema sovietico che – pur con tutti i suoi limiti e contraddizioni – era riuscito a tenere a bada antiche tensioni più volte riesplose fra cristiani armeni e musulmani azeri, due popolazioni che per lungo tempo avevano condiviso nel bene e nel male i frutti di questa terra. «Nel nero velluto della notte sovietica», come la definiva il poeta russo Osip Mandelstam, le questioni di nazionalità – come ogni altro tema politico – erano semplicemente bandite, o tuttalpiù materia da discutere di nascosto, fra le quattro mura di casa. Con la Perestrojka di Gorbaciov, quel silenzio ha avuto finalmente fine. Senonché, come una pentola a pressione tenuta coperta per troppo tempo, lo scoppio è arrivato ancora più forte e fragoroso, provocando una improvvisa e irrefrenabile violenza. Il Nagoo-Karabakh è un piccolo territorio, grande poco più della Basilicata o dell’Abruzzo, situato nel Caucaso del Sud, una regione stretta fra tre giganti: la Turchia, la Russia e l’Iran. Oggi vi si trovano poco meno di 150.000 abitanti. Il genio criminale di Stalin decise, per ragioni di opportunità politica, di assegnarlo negli anni venti alla Repubblica socialista sovietica dell’Azerbaigian, nonostante vi si trovasse già all’epoca una larga preponderanza di armeni. Una maggioranza non omogenea, allora, in una terra – il Caucaso – da sempre declinata al plurale. Cosa che si evince anche dal nome di questo stato non riconosciuto: Nagoo-Karabakh, tre lingue che si fondono in un solo toponimo. Il «giardino nero di montagna», così potremmo tradurlo in italiano, è un’espressione che coniuga russo («nagoo», che vale per montagnoso), turco («kara», ovvero di colore nero) e persiano («bakh» significa giardino). I suoi abitanti, invece, preferiscono chiamarlo con il toponimo esclusivamente armeno di Artsakh.

Ebbene, con l’entrata in crisi dell’Urss alla fine degli anni Ottanta, la maggioranza armena del Karabakh si attiva per rivendicare l’indipendenza dall’Azerbaigian e ricongiungersi con l’Armenia. Lo fa con un referendum, nel 1991. Una cosa inaccettabile, per gli azeri, tant’è vero che ne nascerà un conflitto destinato a durare per un quarto di secolo, arrivando fino ad oggi.

Bilancio di una guerra lontana dai riflettori

Trentamila morti, oltre un milione fra profughi e sfollati (vedi riquadro), interi villaggi rasi al suolo, una corsa agli armamenti che produce povertà e insicurezza: questo il tragico bilancio di un conflitto che in molti, per lungo tempo, si sono ostinati a considerare congelato. Questo almeno fino all’inizio di aprile, di quest’anno, quando la tensione è tornata a esplodere incontrollata. Oltre trecento morti in quattro giorni di scontri, fra carri armati ed elicotteri abbattuti, e ancora interi villaggi da cui la popolazione civile è stata costretta a sfollare. Quest’improvvisa esplosione di violenza ha riportato a galla una questione – quella del Karabakh – a lungo sepolta, sempre lontana dai riflettori. Ma non si è sparato soltanto ad aprile. Morti lungo quella lunghissima frontiera si hanno praticamente ogni mese, se non ogni settimana, da tantissimi anni. Il cessate il fuoco raggiunto nel maggio del 1994 ha prodotto uno stallo diplomatico a cui non è seguito alcun accordo di pace. Ogni iniziativa diplomatica è naufragata, e così – nonostante periodi di calma apparente – non si è mai finito di morire.

Per gli armeni, che la guerra l’hanno vinta conquistando per intero il territorio, questa terra è loro, tant’è vero che l’hanno proclamata repubblica indipendente, pur senza riuscire a giungere ad alcun riconoscimento internazionale. Il Karabakh si è provvisto di un presidente, un parlamento e istituzioni, ed elegge con votazioni democratiche i suoi rappresentanti. Per gli azeri, invece, che non si sono rassegnati alla sconfitta, questa terra non può essere che loro, e puntano a riavere indietro tutto il territorio conteso.

Benvenuti a Stepanakert

Ma come si presenta il Nagoo-Karabakh, e come ci si arriva? Si tratta di una regione quasi inaccessibile, senza alcun aeroporto attivo, che si raggiunge solo via terra attraverso un’unica, tortuosissima strada, che parte dall’Armenia. Tutte le altre vie e frontiere sono chiuse e inaccessibili. Giunti al confine di questo stato che non c’è, per entrare alla fine basta un visto – curiosamente scritto a mano – rilasciato a una piccola dogana, ma anche presso un ufficio di rappresentanza a Yerevan.

Dopo circa sei ore di viaggio dalla capitale armena, in macchina o in autobus, si arriva a Stepanakert, il centro maggiore della regione. Si tratta di una cittadina di oltre 50.000 abitanti che, a differenza di tutti gli altri centri urbani del Karabakh, si trova in un ottimo stato. Qui hanno sede il parlamento e le varie istituzioni dell’autoproclamata repubblica, ma anche molti negozi, ottimi ristoranti, e persino un pub dove si può assaggiare una birra prodotta in loco. Nonostante la tensione resti alta, si è persino riusciti a sviluppare, pur senza toccare grandi numeri, il settore turistico. Vi si trovano così diversi ottimi alberghi, e persino un piccolo ufficio turistico nel centro di Stepanakert.

Ma onnipresente è la guerra, almeno nel pensiero. Qui tutti hanno combattuto, tutti hanno parenti o amici che hanno perso la vita. Sotto l’apparenza di normalità, scorrono vene profonde di dolore, per quanto non subito percettibili. Eppure, in superficie, l’atmosfera di provincia è quella che si respira in ogni altra parte del mondo. In piazza della Repubblica, che costituisce il cuore di questa cittadina, fra una macchina e l’altra si può sentire il frinire dei grilli anche in pieno giorno. Gli sforzi per tirare a lucido la città – anch’essa distrutta dalla guerra – sono stati notevoli, e il risultato è tutt’altro che sgradevole.

Benvenuti a Shushi

Ben diverso il caso di Shushi (chiamata ?u?a in lingua azera). Nonostante gli sforzi del governo, la cittadina non si è più ripresa dal conflitto. Benché sia solo a pochi chilometri da Stepanakert, i prezzi delle case sono molto più bassi. Facile capire il perché: molti gli edifici abbandonati, e ancor più numerosi quelli che portano segni di proiettili o esplosioni. Tutto qui odora di macerie. Le nuove costruzioni, molto curate – un ufficio del turismo, il mercato coperto e un albergo di proprietà di un armeno libanese – non fanno che mettere in risalto ancor più la desolazione circostante, in contrasto stridente. Qui i bambini giocano alla guerra fra gli edifici sventrati dalle bombe, mentre gli adulti – in molti casi profughi che hanno lasciato l’Azerbaigian negli anni Novanta – trasudano disperazione.

Tanti anche i monumenti che raccontano il passato multietnico della città, ormai perduto, e la storia di questo conflitto: due moschee e una scuola coranica, alcune case di chiara impronta islamica. La cittadina di Shushi – situata su un’altura da cui le truppe azere bombardavano notte e giorno Stepanakert – fu al centro della battaglia più importante della guerra del Nagoo-Karabakh. La sua presa nel 1992 da parte degli armeni rappresentò una svolta del conflitto, e tutti qui ancora la ricordano con emozione. Prima dell’entrata nella città, provenendo dalla capitale, un carro armato T-72 – usato dagli armeni e divenuto simbolo della vittoria – è lì a ricordarlo.

Freddo, fango e filo spinato

La strada che congiunge la capitale de facto, Stepanakert, alla cittadina di Martakert è un vero pugno allo stomaco. Uno dopo l’altro scorrono, accanto a chi la percorre, villaggi distrutti e in rovina. Il caso più celebre è quello di Aghdam, chiamata l’Hiroshima del Caucaso, dato che è completamente rasa al suolo. Terribile anche la situazione in cui versa il villaggio di Talish, dove si è combattuto casa per casa ad aprile, e la popolazione è oggi interamente sfollata.

A pochissimi chilometri dalla strada e da questo villaggio, scorre l’infinita frontiera con l’Azerbaigian dove, da una parte e dall’altra, i giovani del Caucaso trascorrono il loro tempo chiusi in trincea. Uno spettacolo agghiacciante: ragazzi con un kalashnikov in mano che, nel freddo e nel fango, prigionieri di una noia e di una solitudine impossibili da combattere, passano le loro giornate in condizioni di estrema povertà e privazioni. Lungo il filo spinato, pendono barattoli di latta, usati – insieme ai cani lupo alla catena – per prevenire possibili incursioni. La tecnologia pare completamente assente, in un paesaggio in tutto e per tutto simile a quello della prima guerra mondiale.

Una waste land che è un fallimento di tutti, e non solo dei governi locali. Tutti i tentativi – invero neanche troppo convinti – dell’Ue, della Russia e degli Stati Uniti per arrivare a una soluzione diplomatica sono naufragati. Il risultato è paradossale, assurdo. Una terra a bassissima densità abitativa, verde, boschiva e dall’enorme potenziale per allevamento e agricoltura, resta così imprigionata in un limbo che ha l’amaro sapore dell’inferno. Entrambi membri del Consiglio d’Europa, Azerbaigian e Armenia mandano a morire i loro figli, compromettendo il loro stesso futuro, ormai da un quarto di secolo per contendersi questo fazzoletto di terra privo di risorse quali petrolio o gas. Un grido, il loro, troppo a lungo dimenticato, qui ed altrove.

Simone Zoppellaro*

 

* Simone Zoppellaro, giornalista freelance, per 7 anni ha lavorato fra l’Iran, l’Armenia e la Germania. È corrispondente per l’Osservatorio Balcani e Caucaso. Scrive tra gli altri per il Manifesto e La Stampa. Autore del libro «Armenia oggi» (Guerini e Associati). Roberto Travan, giornalista professionista. Come fotografo indipendente ha seguito le missioni militari italiane in Afghanistan, Repubblica Centrafricana, Kosovo. Ha documentato la guerra in Ucraina e le recenti tensioni in Tunisia. Per i servizi realizzati in Nagoo-Karabakh, non potrà entrare in?Azerbaigian per i prossimi 5 anni. I suoi servizi sono stati pubblicati da La Stampa – giornale in cui lavora dal 1989 – e tradotti in diverse lingue.

 




L’Africa in scena


Il cinema africano cresce. I temi trattati sono impegnati: dalla migrazione al rapporto con l’Europa, l’Aids e i conflitti generazionali. La tradizione e la modeità. E spunta il tema dell’integralismo islamico. Dai festival nel continente africano alle sale europee. Ma è un cinema non sempre compreso.

La bandiera nera del califfato sventola sulla mitica città di Timbuktu, al centro del Sahara dove per secoli si sono incrociate le carovane tuareg che trasportavano da una costa all’altra del continente africano tonnellate di oro e avorio e migliaia di schiavi neri. Nella città capitale della cultura i jihadisti hanno raso al suolo i mausolei dei profeti islamici e bruciato i manoscritti quattrocenteschi, mentre le donne sono costrette a vendere il cibo al mercato, oltreché avvolte nei veli, anche con le mani guantate. Fare musica non è permesso, giocare al pallone in un polveroso spiazzo tra le case nemmeno. Il jihad non lo consente.
E non consente neppure che il  pastore e la sua compagna vivano sotto la stessa tenda senza essere sposati. Per questo motivo saranno lapidati.

È questa la scena su cui si chiude «Timbuktu», del regista mauritano Abderrahmane Sissako. Uno dei pochi film di produzione africana che sia riuscito a conquistare il pubblico europeo nei canali tradizionali delle prime visioni. In Francia l’hanno visto un milione di spettatori, in Italia ha incassato 70 mila euro nel primo fine settimana, 428 mila in totale, una performance più che modesta in sé, ma in grado di generare fiducia nei progressi di un cinema prodotto in Africa da registi africani.

«Timbuktu» è stato persino indicato nella cinquina dei candidati all’Oscar 2015 per il miglior film straniero, «dramma poetico e struggente con cui Sissako mostra come il jihad porti dolore e lutto in terre che vorrebbero solo vivere in pace. Il regista rappresenta una comunità di islamici moderati forse un po’ idealizzata e facile da amare. Pur nella tragicità delle situazioni, riesce a coniugare realismo e lirismo, non negandosi neppure un’inaspettata vena di humour che ricorda il cinema del regista palestinese Elia Suleiman. Si apprezza soprattutto l’appassionata difesa delle donne, prime vittime dell’integralismo». Sono parole scritte da Roberto Nepoti su La Repubblica, nel febbraio 2015, quando il film approdò sugli schermi italiani. «Roba da matti. Questo filmino di un regista mauritano, dal nome impossibile, corre all’Oscar per il miglior film straniero. Nobili gli intenti, mortale la noia» fu, negli stessi giorni, il commento di Massimo Bertarelli su Il Gioale.

Certo la noia può fare capolino, se si giudica questa pellicola con gli stessi criteri di un «cinepanettone» (peraltro anche quest’ultimo ne può provocare altrettanta) e se non si conoscono i ritmi di vita di un mondo dove silenzi, spazi e tempi sono dilatati al massimo rispetto a quelli cui siamo abituati noi europei. In Africa l’impatto del film è stato forte: il regista Abderrahmane Sissako è stato consulente del premier della Mauritania Mohamed Ould Abdel Aziz e per questo è stato accusato di parlare dei crimini del Califfato in Mali, anziché riversare il suo sdegno politico sulla schiavitù ancora praticata proprio in Mauritania da un regime giudicato corrotto e repressivo dall’autorevole sito «Mondafrique.com». Intanto però i numerosi premi inteazionali conquistati da «Timbuktu», tra cui sette César, gli Oscar francesi, hanno portato il cinema dell’intero continente alla ribalta mondiale. Intanto, al successivo Fespaco di Ouagadougou, nel 2015 non si voleva ammettere il film al festival stesso, proprio per la paura di dividere anziché unire. E invece Timbuktu vi ha vinto pure due premi (miglior arredamento e migliore musica).

Il festival

Già, Fespaco ancora una volta alla ribalta, perché se finalmente si parla con ottimismo di cinema africano lo si deve soprattutto a questa rassegna del cinema panafricano che tiene banco ogni due anni nella capitale del Burkina Faso, dal 1969, e che nel prossimo 2017 affronterà la sua 25° edizione. Obiettivo: «Far capire agli africani di non cercare altrove ciò che hanno già», ovvero quel patrimonio culturale millenario che va oggi espresso secondo nuove regole. Lo affermò il senegalese Sembène Ousmane, lo scomparso decano dei cineasti africani, presenza fissa di quel festival che da 40 anni ormai proietta a ogni edizione centinaia di film e documentari nel centro della capitale, in periferia, in zone rurali, nelle scuole e nelle arene all’aperto sempre affollate da burkinabè e da stranieri.

Il festival è un momento importantissimo di incontro anche per gli addetti ai lavori che ne approfittano per fare sfoggio di abiti eccentrici a rimarcare diversità e analogie tra produzioni che hanno avuto la loro culla nel Sahel, tra Senegal e Burkina Faso, e che ancora oggi distinguono la loro cinematografia da quella del Maghreb, pur tutte francofone, a quelle anglofone di Sudafrica ed Etiopia, e lusofona dell’Angola. Prima di questa nuova vitalità il cinema africano affrontò (e subì) le produzioni di stampo coloniale e poi etnografico, sino a darsi un’identità con un film da tutti i critici ormai riconosciuto come modello di nuove consapevolezze, quell’«Afrique sur Seine», fatto da africani per africani, che nel 1955, come si intuisce dal titolo, con una pur incerta qualità raccontò la vita dei neri esiliati a Parigi. Gli anni ’70 portarono poi nel cinema subsahariano, concepito soprattutto in Senegal, occasioni di crescita complessiva di mentalità e di rinnovo nell’estetica e nella narrazione, tanto che nei successivi anni ’80 si videro nelle sale generi diversi da quelli trattati sino ad allora, ovvero parodie weste, commedie, melodrammi, film d’azione, musical, diretti – altra novità – anche da registi donna.

L’Africa reale

Le tematiche sono oggi innanzitutto sociali, politiche, di denuncia, di riflessione sulle guerre e sulle riconciliazioni nazionali, di rielaborazione del passato storico e della colonizzazione, sul dialogo con l’Europa come momento di incontro e scontro tra le culture, di indagine sui meccanismi del potere, sui conflitti generazionali e famigliari tra genitori e figli, sulle morti per Aids. C’è attenzione per l’eterno dilemma di conciliare tradizione e innovazione, per il ruolo fondamentale delle religioni, per l’emancipazione femminile, per le migrazioni con camere in presa diretta sulla realtà quotidiana.

I problemi più rilevanti sul tappeto restano quelli del finanziamento, i più urgenti da risolvere. Falliti, una ventina di anni fa, alcuni tentativi velleitari di fare da sé, oggi la stragrande produzione è francofona con sostegni economici che giungono da radio e tv francesi appoggiati dall’Unione europea. L’obiettivo odierno è però svincolarsi dai possibili condizionamenti che questa scelta comporta e raggiungere l’autosufficienza attraverso partenariati privati e contemporanee agevolazioni statali su tasse e diritti di ripresa. Serve insomma professionalizzare tutto il settore con la creazione di centri di formazione per cineasti e attori, affiancati da strutture proprie di distribuzione delle pellicole utili a svincolarsi dalle majors interessate prima di tutto a creare profitti.

Il Fespaco fortunatamente non è la sola manifestazione cinematografica del continente. A Zanzibar, di fronte alle coste della Tanzania, di cui l’isola costituisce parte integrante, siamo giunti alla 19° edizione dello Ziff, lo Zanzibar Inteational Film Festival, il più importante evento culturale dell’Africa orientale, noto anche come Festival of Dhow Countries, ovvero la rassegna del paese dei sambuchi,  sempre ricca di eventi collaterali pensati per la popolazione locale con riflessioni sulla condizione femminile e giovanile in genere. Vi partecipano anche film mediorientali e indiani con proiezioni nella suggestiva capitale Stone Town e nelle isole di Pemba e Unguja che pure non possiedono sale cinematografiche.

Anche in Italia

Il film vincitore del Fespaco partecipa di diritto al Festival del cinema africano di Verona, un’iniziativa voluta dai missionari Comboniani di Nigrizia, e ormai consolidata in Italia, per far luce su quel mondo spesso, come già detto, in crisi di visibilità. In Italia un altro aiuto viene da Milano, che da 25 anni propone ai Bastioni di Porta Venezia il Festival del cinema africano, d’Asia e di America Latina. Tra gli obiettivi della rassegna del Coe (Centro Orientamento Educativo), ci sono, citiamo testualmente: «Approfondire la conoscenza dei temi e dei linguaggi delle cinematografie meno conosciute e mettere in evidenza le potenzialità della creatività artistica dei tre continenti; veicolare un’immagine dell’attualità e della cultura d’Africa, Asia e America Latina, attraverso il punto di vista dei registi locali; proporre un’alternativa concreta alla cultura e all’informazione corrente dei mass media in rapporto al Sud del Mondo; dare un’opportunità ai registi di entrare in contatto con le istituzioni europee di produzione e distribuzione cinematografica; stimolare uno scambio culturale tra gli artisti, il pubblico, i giornalisti e i professionisti del settore degli audiovisivi; favorire relazioni di scambio tra le istituzioni, i festival, gli organismi europei impegnati nella promozione della cinematografia africana; creare un luogo di riflessione annuale sulle nuove tendenze e prospettive del cinema del Sud del mondo; offrire alle comunità straniere in Italia un’opportunità d’incontro con la propria cultura d’origine; sollecitare nelle scuole l’introduzione degli audiovisivi come strumenti didattici per l’educazione all’immagine e per l’approccio interculturale».

Insomma un insieme di buone intenzioni e pratiche che si sono materializzate strada facendo anche in tante altre città e che fioriscono ogni anno soprattutto tra la fine primavera e l’estate. A Torino nel maggio scorso si è parlato di migranti con la rassegna voluta dal Csa, Centro piemontese di Studi africani, intitolata la «Diaspora dei giorni nostri», con la proiezione di quattro film che raccontano di identità perdute, nostalgia, ma anche di opportunità per un riscatto, dei registi Alain Gomis, Haile Gerima, Ahmed El Maanouni, Pocas Pascoal. E da Torino a fine maggio scorso è anche partita un’importante rassegna itinerante con 20 tappe in otto regioni per presentare 20 titoli tra lungometraggi e cortometraggi, foiti dal catalogo Coe, l’unico in Italia esclusivamente dedicato a film realizzati da registi provenienti dai tre continenti, selezionati o premiati proprio al festival  milanese. La rassegna si chiama «Sconfinamenti. Le culture si incontrano al cinema» ed è organizzata da Engim Internazionale Piemonte in collaborazione con Pianeta Africa.

Due esempi

Nella pellicola di Gomis, «Tey, aujourd’hui», coproduzione franco senegalese del 2012, un giovane uomo di ritorno a Dakar dall’America in cui avrebbe potuto avere un futuro certo, pur sano nel fisico, sente di essere giunto all’ultimo dei suoi giorni, e lo sanno anche amici, conoscenti e persino le autorità locali che in municipio gli confezionano una festa d’addio. Satchè, il protagonista, viene salutato dai familiari radunati nel patio di casa tra lacrime e preghiere, gli amici lo avvolgono del loro affetto mentre percorre le vie della sua infanzia. Lo zio, che celebra funerali, lo dispone sulla terra compiendo le stesse operazioni che farà sul suo cadavere. Il suo primo amore lo scaccia rimproverandogli l’abbandono, così come la moglie prima lo respinge perché non può accettare la cruda realtà, e poi lo accoglie nel suo letto.

Un’altra parabola su aspettative, ritorni e speranze deluse è «Teza», coproduzione franco tedesca ed etiope. Anberber, studente etiope di belle speranze si laurea medico in Germania, ha la fidanzata tedesca, così come l’ha il suo amico Tesfaye. Quando Menghistu prende il potere, i due uomini, impegnati politicamente a sinistra, salutano il nuovo regime marxista come il rinnovamento tanto auspicato e tornano in patria, dove saranno clamorosamente delusi dal corso degli eventi. Tesfaye, che per gli ideali ha abbandonato in Europa anche il figlio, perderà la vita colpito dal repressivo regime, e Anberber si salverà attraverso l’amore per una donna ripudiata dalle regole della tradizione e per il suo dedicarsi all’insegnamento nei villaggi restituendo ai locali il sapere che lui aveva avuto il privilegio di acquisire.

L’Africa è dunque oggi scenario per rappresentare i luoghi dove agiscono gli individui, non più esotico sfondo. Ci sono villaggi da cui ci si sposta per andare a vivere in città o a cercare fortuna in Europa e in Usa, toccando i temi del viaggio come riscatto, ma anche come raggiungimento di una meta non sempre soddisfacente, piena di trappole, imprevisti, desideri non avverati che fanno talvolta rimpiangere, idealizzandola, la protezione della casa d’origine irrimediabilmente perduta. Un cinema finalmente maturo capace di riservarci molte piacevoli sorprese.

Mario Ghirardi*

  • Gioalista ed editore con esperienza trentennale nel campo dell’informazione locale. Ha partecipato a progetti di cooperazione in Sahel. Attualmente è docente di corsi di formazione universitaria in criminologia.



Una storia troppo sporca


«Gli abitanti si atteggiano a vittime per ottenere risarcimenti». «Gli ambientalisti esagerano sempre e ostacolano il progresso». Anche in Ecuador è normale sentire giudizi di questo tenore. Siamo andati a vedere e toccare con mano cosa ha lasciato nell’Amazzonia ecuadoriana la multinazionale petrolifera Chevron-Texaco. Il disastro – ambientale, umano, culturale – è pesantissimo e certificato dai tribunali. Eppure, a distanza di 6 anni dalla condanna, la compagnia statunitense nega qualsiasi risarcimento. A dispetto di quest’arroganza e impunità, le vittime, riunite in un’associazione, non si arrendono.

Nueva Loja (Lago Agrio) – Ci mostra le carte. Soltanto in queste stanze sono archiviate – in bell’ordine – centinaia di buste gialle contenenti documenti processuali di ogni tipo. Mentre prende dagli scaffali una busta qualsiasi, ci spiega: «Conserviamo più di 250.000 fogli». La apre: «Anno 2003, Corte Superior de Justicia de Nueva Loja, contra Chevron Corporation», si legge sul frontespizio della prima pagina.

Siamo con Donald Moncayo nella sede di Udapt, Unión de afectados y afectadas por las operaciones petroleras de Texaco, l’organizzazione nata a Nueva Loja nel 2001 per riunire tutte le vittime – sia indigeni che coloni – della compagnia petrolifera statunitense.

Come accaduto a Coca, anche qui ci viene proposto di andare a vedere e toccare con mano i danni prodotti dall’attività petrolifera1. Con la nostra guida lasciamo dunque la sede di Udapt per andare al pozzo denominato Lago 8 e perforato nel 1968, poco fuori della città.

Prove contundenti

Per ridurre al minimo i costi, la Texaco aveva scelto di costruire le vasche di contenimento per l’acqua di produzione (altamente contaminata) nel terreno e a cielo aperto.

«E soprattutto – spiega Donald – esse erano poste molto vicine a fiumi o a esteros (zone paludose). In questo modo, tutti i reflui delle estrazioni andavano in queste piscine e da qui, attraverso tubi, venivano dispersi nei corsi d’acqua e nella palude con conseguenze devastanti per l’ecosistema. Come ciò non bastasse, con l’espansione urbana, oggi ci sono case costruite a pochi metri da queste vasche».

La Texaco si è sempre difesa affermando di aver completato la bonifica delle piscine – ne sono state individuate 880 – nel 19982.

«Cosa hanno fatto? Semplicemente hanno tappato le vasche con circa 50-90 centimetri di terra pulita. E così dicono di avere bonificato. Un’operazione in cui hanno speso 40 milioni di dollari. L’ironico della vicenda è che, per difendersi dal giudizio, la compagnia sta spendendo 2.000 milioni di dollari. Se a quei tempi questa cifra fosse stata investita in un adeguato ripristino ambientale, adesso non ci sarebbero simili problemi».

Indossiamo degli stivali per andare a vedere una delle piscine incriminate. Una di quelle che Texaco dice di aver sistemato e ripulito. Donald prende una bottiglia d’acqua, un machete e un aese per fare buche, una specie di trivella manuale. Passiamo accanto a un tubo dell’oleodotto. «Qui passa il petrolio del pozzo Lago 29. Un petrolio leggero, un buon petrolio».

Arriviamo in uno spazio coperto da sterpaglia. «Questa era una piscina – ci indica Donald -. Il problema sta sotto la copertura di terra. Sta nell’acqua sotterranea che è stata contaminata. Purtroppo le persone quell’acqua la utilizzano».

Donald comincia a liberare un pezzo di terreno con il machete e poi, indossati un paio di guanti, inizia a bucarlo con la trivella a mano.

Lo scavo dura qualche minuto. La terra asportata dall’attrezzo comincia a diventare via via più nera. «Annusate», ci dice Donald a un certo punto. L’odore inizia ad essere pungente. «È l’odore tipico dei cosiddetti composti aromatici, altamente tossici per l’uomo e l’ambiente».

Viene estratto un sacchetto di plastica. «Nel pozzo erano gettati sacchi di sale. Neppure quelli hanno tolto in una decontaminazione che loro hanno definito perfetta».

«Facciamo una prova», dice Donald. Prende la bottiglia di acqua e ne taglia la parte superiore con il machete. «Mettiamo nell’acqua pulita un po’ della terra che abbiamo raccolto. Poi, con un pezzetto di legno pulito, mescoliamo il tutto. Come potete notare, la terra si deposita mentre il petrolio, più leggero, va verso l’alto». L’evidenza è clamorosa: siamo davanti a una bottiglia di petrolio, trovato a meno di 50 centimetri dalla superficie. Una prova evidente del danno ambientale procurato dalla Texaco.

Donald immerge la propria mano inguantata nel liquido. La risolleva e la apre davanti ai nostri occhi e al nostro naso. Sì, è proprio petrolio. «E poi dicono di aver risanato» chiosa Donald.

Ci propone di sentire quanto bruci la mano sporca di petrolio dopo pochi secondi al sole. «Mettetevi un guanto». Obbediamo e sì, la mano si riscalda subito.

Sono state 105 le relazioni degli esperti di ogni campo – chimici, biologi, naturalisti – che hanno dimostrato il danno che i signori di Texaco hanno prodotto. Un danno che continua, anche se in apparenza non si nota. «Qui non abbiamo acqua potabile, né acqua trattata. Se manca la pioggia, la gente deve per forza ricorrere all’acqua sotterranea. Non c’è altra possibilità». Donald parla di razzismo: «È un razzismo completo di tutte le sue lettere: r-a-c-i-s-m-o – scandisce -. È una lotta tra chi ha denaro e chi no. Tra chi preferisce spendere milioni di dollari in processi piuttosto che in azioni di bonifica ambientale».

Più di tutto può la necessità di lavorare. «La gente sa. Molti però preferiscono non parlare perché prestano servizio nelle imprese petrolifere. Che pagano bene: un addetto può guadagnare 800-900 dollari al mese, una cifra impossibile da raggiungere se lavori nella finca. Ti pagano per lavorare. E per tacere. Se inizi a parlare, fanno presto a licenziarti».

È arrivato il cancro

Forse la piscina del pozzo Lago 8 è semplicemente un caso isolato. Una piscina che non è stata ripulita bene dalla Texaco. Una situazione particolare, ingigantita dagli esponenti di Udapt per giustificare i propri reclami.

Risaliamo in auto per andare in un’altra zona, distante chilometri da qui. «Andiamo a trovare una famiglia che è stata vittima della Texaco», ci spiega Donald. Entriamo in foresta fino a raggiungere la casa su palafitte della famiglia Cabrera. Troviamo Ilterio Cabrera seduto all’ombra della palafitta proprio mentre è intento a sfogliare un recente libro fotografico sulle vittime della Texaco.

Alla sua famiglia l’autore ha dedicato alcune pagine perché essa è stata duramente colpita dalle operazioni della multinazionale, che nella sua finca aveva costruito una piscina. Per una «strana coincidenza» nella famiglia ci sono stati 3 morti per cancro: il fratello minore nel 1999, la mamma nel 2004 e il papà nel 2006. «Anche i nostri vicini hanno avuto morti per tumore» ci spiega l’uomo con un sorriso amaro.

Ilterio Cabrera vive qui con la moglie Marlene e 3 dei 5 figli. «Quando non trovo lavoro, coltivo la terra: cacao e mais soprattutto». Un’esistenza sul filo perché la contaminazione continua ancora oggi.

Una guerra di resistenza

Andiamo al pozzo chiamato Charapa 1. A ricordarlo, oltre al cartello con il nome, c’è un misuratore di pressione e qualche tubo arrugginito.

«Fu perforato da Texaco nel 1971. Per esso costruirono tre piscine. Una là e altre due da questa parte. Una di esse sta a 40 metri dalla casa della famiglia Cabrera». Ci muoviamo verso una di esse. È differente da quella del pozzo Lago 29, perché qui il petrolio è immediatamente visibile sotto le foglie sparse sul terreno. «Qui versavano – spiega Donald – il cosiddetto petrolio di prova. Quando si riempiva il buco, il petrolio defluiva fuori. I contadini chiamavano l’impresa che mandava qualcuno ad aspirarlo. Poi esso veniva riversato sulle strade per – si giustifica la compagnia – evitare la polvere. Peccato che qui le piogge siano frequenti e che esse spargessero il petrolio per ogni dove. Ecco perché non occorre vivere nei pressi di una piscina per ammalarsi di cancro o di altre patologie. Oltre a questa opzione, ce n’era poi una seconda: bruciare il petrolio della piscina. Bruciava per giorni e la colonna di fumo generata si vedeva da ovunque».

Donald scende nella buca con il badile. Il terreno è morbido. Non occorre scavare: già con la prima badilata si estrae un materiale vischioso dal colore e odore inconfondibili. È petrolio.

I responsabili di tutto questo hanno perso il giudizio, ma non hanno mai pagato. «In Ecuador la Texaco non possiede più nulla e pertanto siamo andati a reclamare in altri paesi dove essa opera: in Argentina, in Brasile e in Canada abbiamo aperto dei procedimenti per sequestrare i beni della compagnia. Purtroppo, facciamo fatica perché non abbiamo denaro. Loro pensano che allungando i tempi dei processi alla fine noi desisteremo per mancanza di risorse. Ma questo non succederà».

La passione con cui la nostra guida ci ha condotto in questo itinerario tra i disastri della Texaco è contagiosa. Impossibile rimanere indifferenti.

«Questa – conclude Donald Moncayo – è come una scuola, un’università. Noi abbiamo il dovere di mostrare al mondo cosa fanno le imprese multinazionali fuori dei loro paesi. Perché ciò che è accaduto qui non si ripeta in altri luoghi».

Paolo Moiola
(fine quarta puntata – continua)


Note

1 – Nella precedente puntata (MC 7/2016, pp. 51-57) è stato raccontato il «toxitour» a Coca, la seconda città petrolifera del paese, dopo Nueva Loja. I toxitour non sono gite turistiche. Chi li organizza lo fa per motivi informativi e didattici. Non esiste un prezzo. Chi vuole, lascia un’offerta.

2 – Il 30 settembre del 1998 la Texaco si accordò con il governo di Jamil Mahuad certificando di aver riparato i danni prodotti in Amazzonia e liberandosi di ogni futura responsabilità. Riparazioni poi giudicate parziali o fittizie.

 




Guardandosi in cagnesco


Mentre questi articolo era in stampa, a partire dl 10 luglio la situazione è precipitata nel Sud Sudan e gli scontri tra Dinka e Nuer si sono riesplosi con grande violenza a partire da Juba, dove ci sarebbe dovuto essere un incontro di pace.


È durata due anni e mezzo. La guerra civile sud sudanese ha fatto vedere i delitti più efferati. Due milioni e mezzo di sfollati, decine di migliaia di vittime civili. L’uso sistematico dello stupro come arma di guerra. L’Onu parla di crimini contro l’umanità. Ma il mondo non lo sa neppure. Ora c’è una pace instabile, con tutti i problemi ancora sul tavolo.

Riek Machar, il capo dei ribelli, è tornato a Juba. È il 26 aprile 2016. Dopo due settimane spese a Gambella in Etiopia per definire quali armamenti poteva portare con sé (missili terra-aria, anticarro, stringer, etc.), ha finalmente avuto l’ok delle autorità etiopi e poi dal presidente del Sud Sudan, il suo acerrimo nemico Salva Kiir Mayardit, per atterrare nella capitale. Fuori città c’è l’esercito regolare Spla (Sudan people liberation army) schierato in caso di necessità. «C’era un grande fermento in quei giorni. Io ero sul terreno e tutti stavano attaccati alla radio, perché non funzionavano i telefoni, ma solo radio e internet» ci racconta Angela Osti, da alcuni mesi nel paese come cornordinatrice di un progetto di emergenza per una Ong italiana. «Lo staff locale era agitato. Poi finalmente Machar arriva, ed è festa. Salva Kiir lo chiama fratello. Ma, pochi giorni dopo, tutti sono delusi dai nomi del governo transitorio di unità nazionale: sono gli stessi di due anni e mezzo prima, quando è scoppiata la guerra civile. La pace l’aspettavano tutti: “adesso che arriva la pace, sarà diverso…”, dicevano».

Sono passati due anni e nove mesi da quando è scoppiato il cruento conflitto interno al Sud Sudan, il nuovo stato africano, nato appena il 9 luglio del 2011.

«È la guerra più atroce che questi popoli abbiano mai vissuto. Non è stato così neppure nei decenni di guerre contro gli arabi del Nord. C’è stato un combattimento acerrimo tra due etnie che si sono massacrate a vicenda». Chi parla è Daniele Moschetti, superiore regionale dei missionari Comboniani in Sud Sudan.

Ma per capire come si è arrivati a questo punto, occorre fare un passo indietro.

Un paese giovane

Il Sud Sudan, è il 54° stato africano. Ha una superficie di 619.745 chilometri quadrati (due volte l’Italia) per 11,5 milioni di abitanti. Confina con Etiopia, Kenya, Uganda, Congo Rd, Repubblica Centrafricana e, ovviamente, Sudan dal quale si è staccato.

Paese con infrastrutture quasi inesistenti, ha una zona più umida e produttiva a livello agricolo ad Ovest, un’area paludosa nel centro Sud ed arido nell’Est.

È uno dei paesi più poveri del mondo ma rigurgita di acqua e di petrolio.

Le guerre del Sudan

Prima dell’indipendenza dal Sudan si contano due guerre tra i popoli del Sud, neri e cristiani o animisti, e il Nord, arabo e musulmano. Il Sud ha le risorse, come la terra coltivabile, l’acqua, e soprattutto il petrolio (l’80% dei giacimenti si concentrano qui). Le multinazionali iniziano a sfruttare il greggio sudanese intorno agli anni ’70.

Tra il 1956 (anno dell’indipendenza da Egitto e Gran Bretagna) e il 1972, si colloca la prima guerra civile sudanese, con connotazione più religiosa.

Nel 1983 scoppia la seconda guerra: il Sud, chiede l’indipedenza dal Nord, che non vuole mollare le risorse. Tra i vari eserciti del Sud che combattono contro l’esercito sudanese si distingue il Sudan people liberation army (Spla), comandato dal carismatico John Garang dell’etnia dinka, maggioritaria.

Con gli accordi di pace del 2005 viene sancita una grande autonomia del Sud, e si prevede un referendum per la secessione. John Garang diventa vicepresidente del Sudan. «Il sogno di Garang – racconta Moschetti – non era la divisione del Sudan e quindi l’indipendenza del Sud, ma il cosiddetto New Sudan», un paese unito e in pace. Ma non tutti la pensano come lui, sia dentro l’Spla, sia all’estero. Fondamentale è infatti la posizione del presidente dell’Uganda, Yoweri Museveni, che ha sempre appoggiato la secessione del Sud e contrastato il Nord di Omar al-Bashir. Museveni rappresenta gli interessi geopolitici degli Stati Uniti nell’area. Mentre l’Uganda sosteneva l’Spla contro al-Bashir, questi finanziava il Lord resistence army (Lra, vedi MC giugno 2012) di Joseph Kony contro Museveni.

Dopo 5 mesi di vicepresidenza, l’elicottero che trasporta Garang e la sua guardia ristretta da Kampala, Uganda, verso il Sudan precipita misteriosamente. Il mezzo era stato fornito dallo stesso presidente ugandese.

Si registra qualche tafferuglio a Karthum (capitale del Sudan) e a Juba (capitale del Sud), poi tutto è messo a tacere, e molto rapidamente Salva Kiir, vice di Garang, anche lui dinka, prende il suo posto. Curiosamente Kiir è proprio di quel gruppo nel Spla che spingeva per la secessione del Sud Sudan. Non è un leader carismatico come Garang, ma ha alle sue spalle Museveni e soprattutto l’amministrazione Usa, con George W. Bush prima e Barak Obama poi, che ha investito miliardi di dollari in questa operazione.

Così dall’accordo del 2005 si arriva al referendum (vedi MC marzo 2011) a gennaio 2011, con il quale il 98,8% dei votanti chiede la secessione dal Nord.

Storie di etnie e di potere

C’è un passaggio importante da analizzare per capire la crisi Sud sudanese degli ultimi anni.

«Il Nord non ha mai voluto mollare il Sud, perché voleva dire un collasso economico per Karthum, che di fatti c’è stato dopo il 2011», ricorda Moschetti. Ma esiste un altro piano di scontro tutto interno al Sud. Qui sono presenti 64 etnie o tribù, delle quali i popoli maggioritari sono Dinka (quattro milioni) e Nuer (un milione di persone), gli altri contano centinaia di migliaia di individui, come ad esempio i Bari. «Questi due popoli, cugini tra loro, sono entrambi allevatori nomadi, e hanno milioni di vacche. Occorre sapere che nella cultura pastorale la vendetta è un valore fondamentale».

Le frizioni tra Nuer e Dinka erano già state uno dei problemi grossi, durante la seconda guerra col Nord. Tra ’91 e il ’97 Nuer e Dinka, all’interno dello stesso Spla, si erano scontrati, per un contrasto tra i generali Riek Machar (nuer) e Salva Kiir (dinka). I Nuer avevano compiuto un massacro di Dinka a Bor, nel 1991 e per sette anni i due popoli sono stati divisi. Machar si era alleato con il Nord ed era sostenuto con armi di al-Bashir, al quale faceva molto comodo poter controllare la situazione. E questo ha innescato una voglia di vendetta del popolo dinka. Con la mediazione statunitense, il Spla si è ricomposto e si è arrivati all’accordo con il Nord del 2005. Ma le braci sono rimaste accese.

Indipendenza

«Si arriva al 2011 e all’indipendenza. La grossa difficoltà per Machar è stata accettare che il presidente eletto fosse ancora Salva Kiir, e lui fosse rimesso ancora, solo, vicepresidente. C’erano difficoltà e divisioni, anche perché sono due personaggi completamente diversi. Kiir è militare, generale, l’altro invece, pur essendo militare, ha studiato a Londra.

Sono andati avanti per due anni insieme, con grandi difficoltà, poi nel 2013 il gruppo dinka ha preso sempre più il potere e occupato tutte le posizioni nel governo e nel paese. A luglio ha scaricato Riek Machar, e ha mandato via tutti i ministri, sostituendoli con gente del proprio gruppo, per di più non preparata. Il 30 novembre ha smantellato l’ufficio politico del partito unico Splm (Sudan people liberation mouvement)». Intanto, ricorda sempre Moschetti, «si stavano preparando delle manifestazioni di diversi gruppi contro i Dinka. Il governo ha chiesto un dialogo e indetto tre giorni d’incontri: 13-15 dicembre 2013. Alla sera del 15, una domenica, abbiamo iniziato a sentire i primi spari a Juba. Non si erano messi d’accordo».

Scatta così una corsa al massacro dei Nuer a opera dei Dinka. Kiir cerca di giustificare goffamente la violenta repressione accusando Machar di tentativo di colpo di stato. I Nuer, attaccati, reagiscono. Il Spla si divide e nasce il Spla-io, ovvero «in opposition», quello dei Nuer. Inizialmente gli scontri sono a Juba, poi si estendono ovunque sia presente popolazione nuer. Dalle caserme, dove i militari nuer vengono uccisi, ai massacri della popolazione, compiuti sia da militari che da miliziani dinka. Gli stati più colpiti sono quelli a maggioranza nuer, che sono anche quelli a maggior concentrazione di pozzi petroliferi del Sud Sudan: Unity, Upper Nile e Jonglei.

Secondo Moschetti: «In parte si tratta della vendetta del massacro compiuto 22 anni prima ai danni dei Dinka. Ma probabilmente è anche uno dei modi con cui l’élite dinka aveva pensato di far fuori Machar, senza però riuscirci. Lui è scappato, e il governo ha poi accusato le Nazioni Unite di aver agevolato la sua fuga, il che è un po’ assurdo».

La guerra più atroce

La guerra civile Sud-Sud, durata due anni e mezzo è stata particolarmente violenta. Una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sui diritti umani, cornordinata da David Marshall, nel marzo 2016 ha pubblicato un rapporto sulle violazioni. Parla esplicitamente di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi in particolare dalle forze regolari del Spla e dalle milizie in appoggio: «Fino dal 2013 tutte le parti in conflitto hanno perpetrato attacchi conto civili, stupri e altri crimini, arresti e detenzioni arbitrarie, rapimenti e privazioni di libertà, sparizioni forzate, e attacchi al personale Onu e loro strutture. Oltre due milioni di Sud sudanesi sono sfollati interni, quasi mezzo milione nei paesi confinanti, e decine di migliaia uccisi.

«L’ampiezza e il tipo di violenza sessuale – principalmente realizzata dal Spla governativo e milizie a esso collegate – è descritto con bruciante, devastante dettaglio, come l’attitudine alla macellazione di civili e distruzione di proprietà e mezzi di sussistenza», dice l’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite Zeid Ra’a Al Hussein. «Tuttavia la quantità di stupri e stupri di gruppo descritti dal rapporto sono solo una foto della realtà totale. Questa è una delle più orrende situazioni di violazione dei diritti umani nel mondo, con l’uso massiccio della violenza sessuale come strumento di terrore e arma di guerra, ma è stato praticamente assente dall’attenzione internazionale».

Le violazioni continuano per tutto il 2015, anche dopo la firma dell’accordo, e insanguinano in particolare gli stati Unity e Upper Nile, a maggioranza nuer e anche i Wester e Central Equatoria.

Il rapporto Onu descrive inoltre come «civili sospettati di appoggiare l’opposizione, inclusi bambini e disabilli, fossero uccisi, bruciati vivi, soffocati nei container sotto il sole, fucilati, impiccati agli alberi o tagliati a pezzi con il machete». Sempre secondo il rapporto «lo stupro è stato parte di una strategia per terrorizzare e punire i civili». L’Onu riconosce che anche le forze dell’opposizione hanno commesso atrocità, ma a un livello inferiore. Nelle 102 pagine del rapporto si legge che 10.533 civili sono stati uccisi solo nel 2015, fino a novembre, la maggior parte in modo deliberato. Gli inviati Onu hanno poi documentato più di 1.300 casi di stupro nel periodo tra aprile e settembre 2015 e solo nello Stato del Unity.

Museveni appoggia ancora una volta Kiir, inviando pure truppe ugandesi, che saranno di stanza a Bor (capoluogo del Jonglei), per impedire l’avanzata verso Sud del Spla-io, ovvero i Nuer nel Nord Jonglei.

Pressioni inteazionali

Dopo una decina di firme per la pace, sempre disattese, nell’agosto 2015 arriva quella buona. E si organizza il rientro di Machar, che avverrà solo ad aprile dell’anno successivo. Nel frattempo gli scontri continuano. Pochi giorni dopo l’arrivo di Machar a Juba si forma il governo transitorio di unità nazionale.

«Il nuovo governo è esattamente uguale a quello precedente al luglio 2013, quando il vice presidente Machar fu defenestrato dal presidente Kiir». Conferma Samuele Tognetti, rappresentate dell’Ong Comitato Collaborazione Medica, che vive nel paese dal 2013. «Sotto pressione dei grandi donatori inteazionali, in particolare Nazioni Unite, Usaid e Ukaid (le ultime due sono le cornoperazioni governative di Usa e Regno Unito), il presidente è stato costretto a scendere a patti con il rivale. Ha mantenuto anche l’altro vice, quello nominato dopo la cacciata di Machar, il generale James Wani Iggia di etnia bari». Non si tratta quindi di un negoziato, con una mediazione, in cui le parti si sono messe d’accordo, ma di una situazione artificiale nella quale i problemi restano irrisolti. «Al momento non cambia niente. Non vediamo alcun miglioramento generale delle condizioni del Sud Sudan dopo l’insediamento del nuovo governo, avvenuto pochi giorni dopo il ritorno di Machar a Juba» continua Tognetti. «L’economia invece di migliorare peggiora, il dollaro è scambiato contro il pound Sud sudanese 1 a 40. Nel 2013 era 1 a 4. Permangono i campi profughi, anche qui a Juba, e soprattutto negli stati nei quali la guerra è stata più cruenta, ovvero Unity e Upper Nile.

Oltre lo smantellamento dei campi, occorrerebbe poi far ripartire i pozzi petroliferi, fermi a causa della guerra, per rilanciare l’economia e far entrare valuta pregiata, in modo che il cambio e l’inflazione comincino a stabilizzarsi o a diminuire. Ma non sta avvenendo niente e non c’è un programma».

«Le Nazioni Unite vorrebbero chiudere tutti i campi di sfollati entro dicembre» ci dice Angela Osti, che lavora proprio con le vittime del conflitto «ma i ritorni devono essere spontanei e la gente deve tornare nelle zone di origine in sicurezza e in condizioni tali per cui non si crei un’altra crisi umanitaria. Tra gli altri c’è il campo di Bentiu, il più grande con circa 105.000 persone, in una zona di pozzi petroliferi, contesa tra Dinka e Nuer. Nei campi poi scoppiano scene di guerriglia tra le etnie e le strutture sono distrutte e date alle fiamme».

Chi comanda il Sud Sudan

I Dinka, pur non essendo la maggioranza assoluta, sono circa il 35% dei Sud sudanesi, di fatto controllano tutti i posti chiave, e non solo dell’amministrazione. «Noi lavoriamo molto con alcuni ministeri – continua il cornoperante – e possiamo constatare che sono quasi tutti Dinka». Conferma Moschetti: «Le zone petrolifere sono Nuer, ma quelli che ne approfittano sono Dinka. Anche alcune altre etnie, ma loro hanno mangiato miliardi di dollari, senza sviluppare il paese».

«Osserviamo molto nepotismo, clanismo. Gli altri gruppi accusano oggi i Dinka di mettere le proprie persone a tutti i livelli. È anche vero che sono la maggioranza. Poi c’è un’alta corruzione, dovuta ai soldi derivati dal petrolio. Fino al 2011, tutti i proventi dell’estrazione andavano a Karthum, anche se nel Sud c’era un governo semi autonomo, mentre i soldi per far funzionare le cose arrivavano dal Nord. Gli oleodotti vanno tutti dal Sud al Nord, a Port Sudan, dove il petrolio viene imbarcato. E il Sud Sudan deve pagare un dazio fisso a barile, indipendente dal prezzo del greggio sul mercato. Sia i generali del Spla, sia i pezzi grossi del governo hanno ingrossato i propri conti in banca in giro per il mondo, non certamente a Juba».

Nel 2018 sono previste le prossime elezioni presidenziali. Ma «non si possono vivere due anni con una tensione così» ci dice Tognetti. «A livello politico è un rapporto di forza tra due fronti: oggi non si vede una volontà di dialogo tra i due, altrimenti ci sarebbero delle politiche per migliorare le condizioni di questa nazione. Il dialogo deve essere frutto di buona politica che oggi è assente. È una fase molto incerta. Dove si va a finire? Di sicuro la città è militarizzata in modo massiccio, se si accende un cerino nel posto sbagliato, succede un pandemonio».

Ricorda Daniele Moschetti: «Diventa sempre più difficile resistere per la gente. Si mangia una volta al giorno, i salari sono rimasti gli stessi, ma è aumentato tutto, cibo compreso. In un paese che è uno dei più poveri al mondo. Dopo la Siria, il Sud Sudan è il peggiore».

Marco Bello




Nepal terremoto dimenticato


La notizia del devastante sisma che ha colpito il paese nel 2015 è passata veloce. Alle difficoltà orografiche si è sommata l’incapacità del nuovo governo a far fronte alla ricostruzione. I grossi finanziamenti si sono bloccati nella burocrazia. Mentre piccole associazioni continuano a lavorare con e per la gente.

È trascorso più di un anno dal terremoto in Nepal, uno dei paesi più poveri del continente asiatico. Era il 25 aprile 2015 quando la terra ha tremato nella zona tra Kathmandu e Pokhara. Il sisma, di magnitudo 7,9 della scala Richter, è stato seguito da numerose scosse si assestamento. Il governo nepalese, dopo due giorni, ha dichiarato lo stato di emergenza. Il 12 maggio 2015, neanche un mese dopo la prima scossa, la stessa regione è stata soggetta a un altro forte movimento tellurico, di magnitudo 7,4 della scala Richter. Il bilancio totale è di quasi 9.000 persone decedute (difficile stabilie l’esatto numero in una nazione dove vi sono tante case costruite in remote zone di montagna), mentre altre migliaia (16mila secondo i dati delle Nazioni Unite) sono rimaste ferite o costrette a spostarsi dal proprio villaggio. Più di 600mila abitazioni sono state distrutte o gravemente danneggiate. Una catastrofe sia per le perdite umane, sia per la distruzione di siti importanti a livello storico, archeologico e religioso, come lo stupa (monumento buddista) Swayambhunath, considerato il più antico al mondo. Bisogna tornare al 1934 per registrare l’ultimo tra i peggiori terremoti avvenuti nella regione nepalese: all’epoca morirono 8.500 persone.

Di fronte all’ecatombe del 2015 numerose Ong di tutto il mondo si sono attivate per portare aiuti economici e soccorsi tangibili alla popolazione, malgrado le iniziali difficoltà logistiche e le complessità burocratiche. Le prime forme di assistenza si sono concentrate nel fornire alle persone sfollate beni di prima necessità (acqua, cibo, coperte), teloni, ripari per dormire e per proteggersi dalle intemperie. La solidarietà internazionale si è mossa con celerità, manifestando una forte compartecipazione al dramma: privati cittadini hanno elargito importanti donazioni. Tante organizzazioni hanno raccolto fondi per la ricostruzione e svariate nazioni hanno inviato al governo nepalese ingenti aiuti finanziari. A oltre un anno di distanza da questa catastrofe facciamo il punto della situazione.

Una ricostruzione difficile

Migliaia di case, scuole, ospedali, templi e monumenti storici aspettano ancora di essere riedificati. Le difficoltà dipendono soprattutto da fattori burocratici, dalla corruzione e dall’incapacità gestionale del nuovo governo nepalese, installatosi solo nello scorso mese di ottobre. L’inefficienza è stata dimostrata, dapprima, nella gestione dei blocchi in vari punti della frontiera tra India e Nepal, poi con la mancata attuazione dell’Autorità nazionale per la ricostruzione. «È dal dicembre 2015 che si discute di questa proposta, ma sembra sia svanita dall’agenda politica» spiega Patrizia Broggi, vicepresidente di Eco-Himal, associazione di volontariato Onlus (www.ecohimal.org) impegnata nella conservazione delle aree himalayane attraverso la cooperazione con le popolazioni che vi abitano.

«Il governo nepalese – precisa Patrizia – aveva annunciato che avrebbe dato dei fondi a chi aveva perso tutto a causa del sisma. Per questo si era parlato dell’apertura di un ufficio ad hoc per le relative procedure e per la distribuzione del denaro. In realtà, dell’ufficio o dell’Autorità nazionale per la ricostruzione non se ne sa nulla. Sulle prime, sembrava che la problematica principale fosse l’accesso ai fondi messi a disposizione. I richiedenti avrebbero dovuto compilare determinati moduli, ma la maggior parte delle persone che hanno diritto a un sostegno sono analfabete. Per ovviare a questo ostacolo, all’inizio, come Onlus, avevamo pensato di intervenire attraverso un nostro referente locale, che avremmo pagato proprio per assistere alcune famiglie bisognose nella compilazione dei moduli. Oltre alle procedure molto nebulose per ottenere i fondi, in seguito si era ventilata una clausola secondo cui per ottenere un sostegno finanziario sarebbe stato necessario avere un conto corrente bancario, il che è assurdo in un paese come il Nepal. E lo è ancora di più considerate le condizioni socio economiche in cui si trovano le persone colpite dal terremoto».

Fondi bloccati?

Questo è, in effetti, il paradosso di una tragedia che avrebbe potuto essere gestita diversamente. Il Nepal ha ricevuto, grazie alla solidarietà internazionale, più di quattro miliardi di dollari per la ricostruzione, ma la maggior parte di questo denaro è fermo in qualche ufficio del palazzo governativo nepalese.

Gli aiuti sono stati distribuiti con il contagocce e secondo criteri discriminatori. Infatti, come ha evidenziato Amnesty Inteational, gli interventi post terremoto non hanno raggiunto gruppi emarginati a livello sociale ed etnico: l’appartenenza di classe, di casta (un aspetto discriminante che deriva dalla forte influenza culturale esercitata dall’India sul Nepal) e il credo religioso risultano elementi discriminanti per ottenere o meno i sussidi. Sono state proprio queste forme di discriminazione, in particolare a danno delle minoranze madhese e tharu che vivono nella regione meridionale di Terai, a spingere l’India ad attuare un blocco parziale alla frontiera con il Nepal.

Appena insediatosi, il nuovo governo nepalese, con a capo Khadga Prasad Sharma Oli, ha infatti varato una Costituzione che non tiene conto dei diritti e delle peculiarità delle minoranze etniche presenti sul territorio nepalese. La diatriba politico-diplomatica tra India e Nepal, durata dall’ottobre 2015 sino a febbraio 2016, ha aggravato le condizioni in cui versano i terremotati. Nel mese di novembre, il governo nepalese – proprio per affrontare l’emergenza dovuta alla mancanza di carburante – aveva disposto la vendita delle riserve di legna come combustibile. Ciò aveva creato lunghissime code, poiché migliaia di persone ne necessitavano per poter cucinare. Solo agli inizi del 2016 India e Nepal hanno trovato un accordo, culminato in un’intesa che rafforza le relazioni economiche e culturali tra i due paesi.

Piccoli progetti, grande aiuto

Eco-Himal – ci racconta ancora Patrizia Broggi – proprio come altre organizzazioni di piccole e medie dimensioni, riesce a lavorare e a realizzare progetti perché opera direttamente sul territorio, avendo referenti locali fidati e preparati. Sono loro che permettono alle Ong di intervenire concretamente a favore della popolazione.

«Noi di Eco-Himal – precisa Patrizia – una volta raccolti i fondi, li mandiamo ai nostri collaboratori in Nepal. Tra questi ci sono Ghana Shyam Paudel e Narayan Kumar Shrestha. Narayan è nato a Salleri, nel distretto del Solu-Khumbu e con lui ormai collaboriamo da anni, anche perché lavora spesso in Italia, nei rifugi di montagna, nella zona dell’Ossola, in provincia di Verbania».

Grazie a questi intermediari locali, Eco-Himal sta portando avanti progetti concreti nel Nepal post terremoto. «Abbiamo innanzitutto contribuito alla ricostruzione del monastero femminile di Deboche nella valle dell’Everest, che è stato quasi totalmente distrutto. Quando sono stata in Nepal nel novembre 2015 avevo visto che gli operai locali lo stavano già ricostruendo. Questo grazie anche naturalmente alla collaborazione di altre organizzazioni inteazionali che operano sul territorio. Adesso, come Eco-Himal, stiamo indirizzando i nostri progetti d’aiuto nella zona di Salleri, nel Nepal centro-orientale. Per esempio, abbiamo mandato fondi per la costruzione di una strada che permette l’accesso a un piccolo ospedale. Si tratta di una struttura sanitaria che è diventata molto importante dopo il sisma, poiché permette alle persone del posto di accedere a cure immediate. La strada risulta fondamentale per raggiungere l’ospedale.

Poi, sempre nell’area di Salleri, precisamente a Gaidu, stiamo lavorando alla ricostruzione della scuola primaria Ramilo Joati, uno dei sette edifici scolastici della zona completamente crollati. Gli studenti, in tutto 150, oggi fanno lezione all’interno di grandi tende con enormi difficoltà. I problemi non sono solo logistici e pratici, ma anche, soprattutto, psicologici. Molti bambini sono rimasti traumatizzati dal sisma. Quindi, in questo caso, e come in altre situazioni, è indispensabile continuare in parallelo un lavoro di supporto psicologico».

Eco-Himal sta inoltre portando avanti un progetto per sostenere un piccolo orfanotrofio, con sede a Kathmandu, dove sono stati accolti nove bambini, di età compresa fra i 6 e i 10 anni. I bambini ospitati hanno perso il padre o la madre, e sono stati abbandonati. Sono stati avviati anche programmi di adozione a distanza: «Con 500 euro all’anno – ci dice Patrizia – si contribuisce a pagare i libri, i vestitini e la tassa scolastica, quindi l’istruzione di bambini che altrimenti non avrebbero la possibilità di imparare a leggere e scrivere».

Non solo stranieri

Molto attiva nella regione del Timal è l’organizzazione nepalese Sahakarya Ra Bikas (connessa al Nepal Center for Cooperation and Development, Ccd, ccdnepal.org), diretta da Salam Singh Tamang, a cui sono collegate diverse Ong italiane, tra cui Libri contro fucili e 12 dicembre.

Collabora con Sahakarya Ra Bikas anche Enrico Crespi, da oltre un decennio impegnato in Asia nell’implementazione di vari progetti educativi, sanitari e di sviluppo comunitario. Enrico ha lavorato, oltre che in Tibet, Cambogia, Sikkim e Mozambico, anche in Nepal, dove per 13 anni ha visto l’alternarsi di monarchie e governi, il tutto inframmezzato dalla guerriglia maoista. Conosce bene la situazione nepalese ed è per questo che sostiene il progetto «Take care 1 Village Nepal», attivato da un network di Ong proprio per fornire sostegni per la ricostruzione. In particolare, la zona interessata dagli aiuti è chiamata Timal, nel distretto di Kavre. Il progetto è gestito dagli stessi abitanti dei villaggi coinvolti, ovvero Bolde Pediche, Thulo Prasel, Narayansthan, Meche, Chapakori. In quest’area sono crollate 1.519 case, per questo le Ong coinvolte nel progetto hanno individuato le famiglie più disagiate da sostenere e da aiutare. Nel marzo 2016 l’organizzazione Sahakarya Ra Bikas aveva consegnato i fondi per la ricostruzione di due scuole, una con sede a Mukpa (Meche), l’altra ubicata nel villaggio di Dhulkhu.

Emergenza in montagna

Tra i maggiori problemi, oltre alla realizzazione di ripari adeguati e stabili, soprattutto per affrontare le stagioni monsoniche, vi è quello della difficile reperibilità di acqua potabile nella zona del Langtang, duramente colpita dal sisma. In quest’area, situata a Nord di Kathmandu, famosa per le sue vette, è stato istituito, nel 1971, il primo parco nazionale in Nepal. Nel Langtang durante e dopo il terremoto ci sono state moltissime frane, che hanno chiuso le sorgenti. Ciò ha creato enormi problemi legati alla disponibilità di acqua potabile.

In altre regioni, come nel distretto del Solukhumbu frequentato da tanti appassionati di trekking, le maggiori difficoltà sono state risolte. Un problema molto delicato riguarda tutte le aree remote di montagna, non ancora raggiunte da nessuna Ong. Molte persone che abitano in case isolate, dopo il sisma, non hanno ricevuto alcun aiuto e lentamente stanno abbandonando i luoghi nativi e i loro campi coltivati a orzo e ad altri cereali, per raggiungere i centri urbani più vicini. Non avendo la possibilità di ricostruirsi la casa, perché non hanno avuto alcun sostegno, nemmeno da parte del governo nepalese, tanti contadini di montagna cercano altre soluzioni spostandosi dalle loro valli ancestrali.

Un fenomeno, già presente in Nepal prima del terremoto (come in tante altre zone di montagna nel mondo), si è negli ultimi mesi intensificato, producendo un duplice effetto: da un lato, l’aumento delle persone urbanizzate e un affollamento nei campi di tende degli sfollati; dall’altro, lo spopolamento delle aree montane, che può provocare gravi conseguenze a medio e lungo termine. È in queste aree remote che il governo nepalese dovrebbe intervenire, anche per il tramite di progetti specifici, magari concordati e implementati con Ong locali e inteazionali.

Silvia C. Turrin


Ricordiamo che in Nepal sono presenti da anni i missionari Salesiani, Gesuiti e Camilliani, sia italiani che indiani. Tutti sono molto attivi nella ricostruzione con particolare attenzione a ospedali, scuole e case per orfani (ndr).




Italia risorse migranti


Da Trieste a Catania, dal Piemonte alla Calabria, decine di realtà lavorano per accogliere degnamente migranti e rifugiati, vedendo in loro una risorsa, costruendo insieme esperimenti di futuro possibile. Eccone alcune, tra musica, video, radio e case in affitto.

Mori e monti

«Fija mia pijlo pa, che chiel-lì a l’ha la barba» (figlia mia, quello non prenderlo, che ha la barba). Il canto comincia con la classica invocazione del genitore in disaccordo con le scelte sentimentali della figlia, la quale senza timore risponde per le rime. Strofa per strofa, il genitore diffida la testarda fanciulla dal maritarsi con chiunque le piaccia, e lei imperterrita risponde «ma ci vogliamo bene». Il testo è in lingua piemontese. Ma a far rivivere le canzoni popolari delle valli sopra Torino sono sette ragazzoni dalla pelle nera, provenienti da Senegal, Gambia, Ghana. Musa Jobe, Boto Samoure, Maurice Bathia, Alinho Barca Sabaly, Omar Sini, Saiku Senghore e Idrissa Lam sono arrivati come richiedenti asilo nel 2014 tra Pessinetto e Ceres, due paesini delle montagne in provincia di Torino.

«Sono valli chiuse, ed è chiusa anche la mentalità», racconta Luca Baraldo, torinese, trasferitosi qui nel 2009 insieme alla compagna Laura Castelli. «Abbiamo fatto di tutto per integrarci – dice – persino partecipare a un gruppo di canto popolare, che poi abbiamo abbandonato». All’arrivo dei profughi, la coppia si mobilita per cercare di dare un po’ di lezioni di italiano. «A un certo punto eravamo arenati», ricorda Luca. Difficile per due volontari, non professionisti, destreggiarsi tra A di albero e B di bacio con uomini che dall’apprendimento di quella lingua dovrebbero partire nel loro percorso di integrazione. «Abbiamo provato un’altra strada, imparare brani di cantautori italiani, ma nemmeno quello funzionava». Finché un pomeriggio Luca e Laura si mettono a canticchiare in dialetto.

«Le canzoni popolari hanno destato la loro curiosità. E abbiamo cominciato a trovarci per cantare. Inizialmente in 12 o 15, poi il gruppo si è un po’ scremato perché non tutti se la sentivano di fare concerti». Il numero si riduce a nove e nasce così il «Coro Moro»: «In piemontese “moro” vuol dire nero», aggiunge. Concerto dopo concerto, mescolando la tradizione montanara con il linguaggio universale della musica, il coro porta Maurice, Omar e gli altri a sentirsi «paesani delle valli di Lanzo». Alle canzoni popolari si aggiungono strofe ad hoc: «Figlia mia, non lo prendere, che quello lì è un moro»; e nascono nuove canzoni come il «valzer del clandestino». I concerti si moltiplicano e il pubblico aumenta, fino ai quattrocento bambini delle scuole elementari, ai brani cantati in apertura dei concerti dei Mau Mau, e alla collaborazione nel singolo «Sto con chi fugge» del nuovo album della band torinese. «La cosa buffa del Coro Moro è che è una specie di medicina», dice Luca, «perché cantare in piemontese spiazza la gente, soprattutto i razzisti. Vengono alla fine del concerto a dirci: “Ho capito che quello lì potrebbe essere mio figlio”». Di lavoro da fare, però, ce n’è ancora. A due anni dal loro arrivo, a Omar e Maurice capita, per la prima volta, di subire aggressioni: dalla macchina che rallenta per gridare «bastardo» alle ragazze che si affacciano dal finestrino lanciando noccioline. L’altro problema è quello dei documenti, ai quali il coro dedica la rivisitazione di un’altra canzone, l’incontro tra una pastorella e un ragazzo che, alla domanda «come va?», risponde «non mi hanno dato i documenti». Tra burocrazia, attese e ricorsi, l’ambizione del coro è creare un’opportunità reale non solo di fare cultura, ma di lavorare (CoroMoro ha una pagina su Facebook e un canale su Youtube).

«Ci siamo costituiti come Onlus», dice Luca, «e anche se gli incassi non sono molti, in queste valli si riesce a vivere con poco». Già, perché su quei monti i «mori», ci sono finiti per caso. Ma di lasciarli, ormai, non se ne parla.

Tecnologia per i diritti

Dalla tradizione alla tecnologia: a Catania, l’Arci si è messa in rete con un’associazione austriaca per realizzare, attraverso un finanziamento europeo, una video guida on line in sei lingue (italiano, inglese, francese, arabo, farsi e tigrino), consultabile anche dal cellulare, per spiegare, con un linguaggio semplice, i diritti dei migranti e le procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. Accompagnati da illustrazioni o semplicemente nella versione audio, i diversi capitoli della guida Asyl Easy (asyleasy.com) spiegano cos’è la protezione internazionale, quali sono i diritti dei minorenni che viaggiano soli, le conseguenze del Regolamento di Dublino, come funzionano gli incontri con le commissioni territoriali dove si presenta il proprio caso.

I primi a creare una videoguida sono stati gli austriaci dell’associazione Plattform Rechtsberatung, e oggi, a lavorare con le tecnologie e i social network per i diritti di chi cerca rifugio, sono sempre di più. Su Facebook il gruppo «Techfugees» cornordina gli sviluppatori che creano applicazioni e strumenti digitali per i rifugiati: da Refunite.org che aiuta a ritrovare i familiari dispersi durante il viaggio, fino al sito web in cui si può postare il proprio curriculum per cercare in Europa un’occupazione qualificata simile a quella che si aveva nel paese di origine (iamnotarefugee.com). Innumerevoli i gruppi Facebook in cui ci si scambia informazioni su come riuscire a portare a termine il viaggio verso l’Europa: dagli orari degli autobus a qual è il prezzo giusto di una corsa in taxi.

Così, mentre i confini vengono chiusi da nuovi muri o protetti con il lancio di gas lacrimogeni, su internet ci si aiuta a scavalcare le frontiere e farsi riconoscere nella pratica i diritti che sarebbero garantiti dalle convenzioni inteazionali.

Il paese che affitta ai braccianti

Al di là dello stretto di Messina, risalendo la provincia di Reggio Calabria fino alla piana di Gioia Tauro, c’è Drosi, una frazione di 800 abitanti del Comune di Rizziconi. Case basse allineate su poche strade intorno alla chiesa, cactus rigogliosi nei cortili, aranceti tutt’intorno, a tratti interrotti dai filari di kiwi, la nuova coltura che comincia a imporsi soppiantando il profumo delle zagare.

Al piano terra di un piccolo caseggiato, in una casa che divide con altri quattro ragazzi africani, vive Masimbo, un ex bracciante burkinabè che in italiano si fa chiamare Massimo. «Prima raccoglievo arance e mandarini, a giornata. Ora lavoro a Palmi, nella raccolta differenziata dei rifiuti, in regola», racconta con il viso che si illumina di orgoglio nel pronunciare le due parole: «in regola».

Contro una parete, le mountain bike sgangherate che servono per andare al lavoro. Contro l’altra, in fila, gli stivali di gomma verdi e marroni, sporchi del fango degli aranceti. Poi c’è un piccolo spazio con due letti e una tv, prima di entrare nel cucinotto comune: un tavolino, qualche mobile dispensa, fornelli e scaffali ingombri di pentole. Masimbo è uno dei 150 giovani africani che oggi vivono in case in affitto a Drosi.

Rosao, la tendopoli di San Ferdinando e la fabbrica occupata che insieme ospitano, in pessime condizioni igieniche, oltre mille braccianti durante la stagione della raccolta degli agrumi, distano da qui una decina di chilometri. Basta allontanarsi pochi minuti con l’automobile, tra gli aranceti, per trovare altri insediamenti di braccianti, precari e abusivi, in casolari abbandonati.

«Qui ogni famiglia ha i suoi emigranti, chi è andato in Germania, chi in Australia, senza più tornare a casa. È per questo che hanno capito il nostro progetto», racconta Francesco Ventrice, per tutti Ciccio, una delle colonne della Caritas di Drosi. È lui, insieme ad altri volontari, a proporre ai compaesani di sistemare i braccianti nelle case in affitto.

L’idea nasce nel gennaio 2010, nei giorni concitati che seguono la rivolta degli africani e le successive violenze e rappresaglie. Mentre le forze dell’ordine organizzano pullman per trasferire centinaia di immigrati tra Bari e Crotone, e molti altri lasciano la piana di Gioia Tauro in treno, diretti a Nord, a Drosi si decide di puntare sull’accoglienza. «Fin dal 2003 frequentavo gli africani, andavo in tutti i loro accampamenti per aiutarli, portare vestiti, ascoltare i loro bisogni», racconta Ventrice. I braccianti si fidano di lui. I compaesani, pure. Grazie alla fiducia e alla mediazione dei volontari della Caritas, i primi proprietari di case si convincono a mettere i propri spazi in affitto, a un prezzo concordato e abbordabile, ai giovani africani che, dato il clima di violenza, hanno paura a dormire in baracche e casolari isolati e stanno meditando di andarsene anche dai dintorni di Drosi.

Dalle quattro case messe a disposizione in fretta e furia in quei giorni si arriva, anno dopo anno, alle 19 attuali. «In ognuna delle case stanno cinque, sei, sette ragazzi. Il lavoro è stagionale, non tutti restano tutto l’anno. Ma a prescindere da quanti occupano l’appartamento, il pagamento è di 50 euro al mese». Fondamentale il costante lavoro di mediazione svolto dai volontari: «Le spese sono incluse, e spesso ci è capitato di dover spiegare che le luci e gli scaldini elettrici non si possono lasciare sempre accesi», racconta Ciccio, «ma quasi sempre le persone progressivamente si sono rese autonome, e oggi ci sono diversi ragazzi che abitano in case che hanno affittato da soli. Tanti si sono fatti conoscere in paese, e non serve più che siamo noi a fare da tramite». Lo conferma anche Masimbo: «All’inizio, quando noi passavamo per le strade, la gente chiudeva in fretta le finestre. Ora, invece, questo non succede più».

«Perché io ho una storia»

Dall’altra parte d’Italia, a Nord Est, vive Khodadad, afghano di trent’anni. È arrivato via terra dopo un’odissea durata dodici anni, tra rimpalli burocratici, tentativi di integrazione in Grecia interrotti dalle aggressioni fasciste dei militanti di Alba Dorata, respingimenti dall’Inghilterra a causa del regolamento Dublino, ore e ore di viaggio aggrappato sotto un tir fino all’arrivo in Italia con il volto nero di olio del motore, davanti agli occhi di un incredulo benzinaio.

«Quando avrò imparato l’italiano, vorrei fare un libro o un film sulla mia vita, perché ho una storia che non si può credere», dichiara. Intanto Khodadad, che sorride sempre e dopo pochi mesi parla già in modo fluente, inizia con la radio. Nel grande palazzo di Trieste in cui vive, in fondo a un viale alberato a due passi dal centro commerciale Julia, ogni martedì si riunisce la redazione di «Specchio straniero» (amisnet.org/programmi/specchio-straniero).

La trasmissione radiofonica, trenta minuti alla settimana pubblicati sul sito web dell’agenzia radiofonica Amisnet e mandati in onda anche da una rete di radio popolari e comunitarie in diverse parti d’Italia, è curata da Tomas, uno degli operatori del Consorzio Italiano di Solidarietà (l’Ong che gestisce il progetto di accoglienza in collaborazione con il Comune di Trieste), da Stefano Tieri, giornalista, e dai giovani richiedenti asilo: Khodadad, Chagatai, Satar, Daniel e tanti altri. Alcuni partecipano più assiduamente, altri sono ospiti solo per una puntata.

«Abbiamo creato uno spazio radiofonico per dare voce a quelli di cui tutti parlano, ma che non hanno mai spazio per parlare di se stessi», racconta Tomas. Ogni puntata comincia con la rubrica di Satar, giovane afghano che risponde, garbato ma determinato, ai commenti razzisti letti sui giornali. Poi c’è la poesia, prima nelle lingue d’origine e poi in traduzione italiana, una scelta musicale «sempre di autori indipendenti», precisa Stefano, «come quelli che ci hanno fatto la sigla». Infine, ampio spazio a un tema monografico, scelto di volta in volta insieme: dalle vicende migratorie della Balkan Route alla situazione del Kashmir, dal dibattito sul film di Gianfranco Rosi, Fuocoammare, alla puntata in cui la redazione si sposta a Gorizia per descrivere le condizioni di vita del centro di accoglienza.

Daniel, rifugiato e blogger, racconta la storia a causa della quale ha dovuto lasciare il Bangladesh: «Quest’anno sono morti cinque blogger per terrorismo, e il partito politico che è al potere è molto duro verso i dissidenti», spiega tra italiano e inglese. «Ci siamo resi conto che raccontare di sé è essenziale per l’integrazione», riprende Tomas, che insieme a Stefano ha messo insieme, a costo bassissimo, l’attrezzatura di base per realizzare le puntate: un computer con un software di montaggio, due microfoni, due cuffie e una connessione a internet.

«La maggioranza dei richiedenti asilo che arrivano a Trieste viene dall’Asia e in particolare dall’Afghanistan. Si tratta di giovani intorno ai 18 anni sui quali le famiglie investono per farli viaggiare, in modo che sfuggano alle minacce di arruolamento e alle violenze dei talebani», ricorda Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio Italiano di solidarietà e rappresentante dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. E Satar traduce lo stesso concetto con parole sue nella rubrica della radio. «Qualcuno si chiede se abbiamo lasciato le donne e i bambini a casa a combattere – dice – ma non tutte le famiglie possono permettersi questi viaggi costosi e pericolosi. Bisogna fare delle scelte: se adesso è più pericoloso per me stare in Afghanistan, sono io che devo andarmene ad ogni costo».

I ritardi delle istituzioni

Con l’affermarsi della rotta balcanica e la tendenza di molti paesi a rifiutare la protezione umanitaria agli afghani, Trieste è diventata un punto di approdo. Accanto alla stazione c’è un deposito ora semi abbandonato, il silos, che dopo la Seconda guerra mondiale accolse i profughi italiani dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia e ora funge da alloggio precario per quasi tutti i giovani asiatici nei primi giorni dal loro arrivo, a volte anche per più tempo.

Una situazione che il Comune cerca di gestire per trasferire le persone prima possibile in appartamenti. I richiedenti asilo accolti in città sono circa 900 e da alcuni mesi è partito un progetto per ospitare chi ha già ottenuto i documenti presso famiglie, in modo da favorire la creazione di una rete di contatti e l’inserimento sociale. «Sono molti i progetti ben funzionanti in Italia», afferma Daniela Di Capua, direttrice del Servizio centrale dello Sprar, il Sistema di Protezione richiedenti asilo e rifugiati che cornordina le attività di accoglienza degli enti locali. È noto anche a livello internazionale il caso di Riace, in Calabria, paese che si è ripopolato grazie all’accoglienza. La Tent Foundation, in uno studio pubblicato nel 2016, ha sostenuto che per ogni euro speso dagli stati europei per i rifugiati ce ne saranno due di aumento del Pil. Intanto, però, è andata molto sotto le aspettative l’adesione dei Comuni italiani al bando per progetti di accoglienza Sprar nel 2016, e il 70% dei circa 100mila rifugiati nel nostro paese continua a essere accolto in centri straordinari, con un livello di servizi e possibilità di integrazione non sempre all’altezza. «I progetti di accoglienza possono dare occupazione e opportunità», riprende Daniela Di Capua. «Ma ci tengo a precisare una cosa: noi non accogliamo i rifugiati perché muovono l’economia. Li accogliamo perché abbiamo aderito a una norma internazionale che ci impone di proteggere chi fugge. E questa è una cosa che dovrebbe farci molto onore».

Giulia Bondi