Honduras Berta si è moltiplicata


Sono stati 185 gli attivisti per la giustizia ambientale uccisi nel 2015 nel mondo. Berta Cáceres, hondureña, sarà contata tra le vittime del 2016. Il suo paese è tra i più pericolosi per chi vuole difendere i territori e, con essi, la vita, la storia, la cultura delle comunità che li abitano. A rappresentare la minaccia è spesso l’industria estrattiva, mineraria ed energetica. Industria che, con cinismo, non manca di autodescriversi come sostenibile, green, attenta ai bisogni delle popolazioni locali.

Il rapporto di Global Witness uscito a giugno e riferito al 2015, intitolato in modo significativo «Su un terreno pericoloso » (On dangerous ground) registra un aumento del 59% rispetto all’anno prima degli omicidi ai danni di attivisti ambientali (185 in 16 paesi del mondo)1. L’accurato lavoro di ricerca con cui l’organizzazione non governativa denuncia l’elevato livello di violenza che si produce nei luoghi di estrazione di materie prime e di fonti energetiche in tutto il mondo, è dedicato quest’anno all’attivista Berta Cáceres2, uccisa nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2016 in uno dei paesi che risultano essere tra i piú pericolosi negli ultimi anni per chi lotta per la giustizia ambientale: l’Honduras.

I Lenca sotto assedio

Berta Cáceres, cornordinatrice del Consejo de Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras – Copinh -, viene brutalmente assassinata nella sua casa in La Esperanza, nella valle del rio Blanco-Gualcarque, da almeno due sicari. Ospite a casa sua quel giorno, sopravvissuto all’attacco ma ferito alle mani e a un orecchio, c’era Gustavo Soto, presidente di Otros Mundos Chiapas Amici della Terra Messico, che partecipava a un workshop di formazione con il Copinh sul tema delle energie rinnovabili comunitarie. La comunità La Esperanza, dove Berta si era trasferita da poco, si trova nella regione delle comunità lenca, uno dei principali gruppi indigeni del paese, appartenente alla cultura maya. Quelle abitate dai Lenca sono terre fertili e ricche d’acqua. Per questo vengono considerate la nuova frontiera dell’economia estrattiva. Il Copinh denuncia da molti anni le modalità con cui vengono rilasciate le concessioni minerarie, quelle per lo sfruttamento del legname e per la costruzione di centrali idroelettriche con dighe sui principali fiumi del territorio.

Insicurezza, deportazioni, criminalizzazione della protesta

Non solo il Copinh si occupa delle terre lenca: anche la Commissione Interamericana dei Diritti Umani (Cidu) nel suo ultimo rapporto sull’Honduras lancia un allarme per la grave insicurezza, l’uso eccessivo della forza, le deportazioni forzate, la criminalizzazione della protesta. Tutto ciò trova la strada spianata soprattutto a partire dal 2009, durante i governi creatisi dopo i golpe di Micheletti e poi di Porfilio Lobo Sosa. Il 24 agosto 2009 si approva la Ley General de Agua (la legge generale sull’acqua), che apre a nuove concessioni idriche, e il decreto 233 che deroga qualsiasi impedimento a concessioni idroelettriche in aree protette, in violazione della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli indigeni, che l’Honduras ha firmato nel 2007. Organizzazioni della società civile hanno informato la Cidu di almeno 837 potenziali progetti minerari, che coinvolgerebbero il 35% del territorio nazionale, 76 progetti idroelettrici che già vantano uno studio di fattibilità e/o un contratto per operare già approvato, in un totale di 14 dei 18 dipartimenti del paese.

Progetto Agua Zarca

Tra il 2010 e il 2013 viene approvato uno dei progetti più controversi, conosciuto come Agua Zarca. Contro di esso il Copinh e Berta Cáceres non risparmiano critiche e denunce: la centrale è una infrastruttura di per sé piccola, con una potenza stimata di 21,3 Mw, ma che comporta un profondo impatto ambientale e culturale nel territorio. L’esistenza delle comunità lenca è infatti strettamente legata ai boschi e ai fiumi, fonte di vita e luogo in cui vivono gli spiriti delle niñas indigenas. La zona è considerata inoltre eredità del Cacique Lempira, eroe nazionale che ha lottato per la libertà di quei territori dall’invasione coloniale spagnola. L’arrivo senza preavviso dell’industria estrattiva con conseguenti zone disboscate, macchinari nel letto dei fiumi, strade bloccate, presenza di militari e forze di sicurezza armate, ha purtroppo diviso la popolazione. Alcuni Lenca hanno infatti creduto alla promessa di «sviluppo» fatta dall’impresa, una strategia corporativa piuttosto comune per rompere il fronte critico delle comunità locali, soprattutto se organizzate.

«Consultazioni zero»

«Sviluppo locale», «protezione dell’ambiente attraverso l’energia verde, rinnovabile», sono le parole d’ordine, gli slogan usati per presentare il progetto ai finanziatori e alla comunità internazionale. Nel 2012, la Banca Centroamericana di Integrazione Economica (Cabei) concede all’impresa hondureña Desarrollos Energéticos (Desa) un prestito di 24,4 milioni di dollari. Desa a sua volta stipula un contratto con il gigante cinese dell’idroelettrico Sinohydro, che viene presto accusato dalla popolazione lenca di non rispettare il diritto alla consultazione previa e informata della popolazione locale, così come sancito dall’Ilo (Oganizzazione internazionale del lavoro) nella Convenzione 169, firmata dall’Honduras nel 1995. Anche la tedesca Voith Hydro Holding GmbH & Co. KG è coinvolta nella foitura delle turbine, e accusata delle stesse violazioni. Di fronte alla protesta e alle denunce, Sinohydro si ritira dal progetto, così come la Corporazione Finanziaria Internazionale (Ifc) della Banca Mondiale.

I paradossi locali dell’economia estrattiva

Agua Zarca indica chiaramente che i conflitti non sorgono solo contro progetti di grandi dimensioni, ma da situazioni in cui diversi fattori d’ingiustizia si combinano insieme. In terra lenca, infatti, sono ben 17 le nuove dighe in previsione o già in costruzione, ma l’elettricità prodotta da questi impianti è principalmente destinata alle industrie e al settore minerario. Questo territorio non ha mai beneficiato di servizi statali, di salute, di educazione, se non in misura insufficiente. Tanto che l’Istituto Nazionale di Statistica registra, per esempio, un 30% di analfabetismo nel municipio di Intibuncá, 16 punti sopra la media nazionale. Ma il paradosso più grande sembra però essere il fatto che, appunto, alle comunità non è mai arrivato il collegamento all’energia elettrica. Un’analisi comparata delle realtà dove opera l’industria estrattiva rivela che questo è un fenomeno ricorrente che si verifica in maniera sistematica soprattutto in zone rurali dove la popolazione viene emarginata e i cui diritti di partecipazione e di espressione sono violati.

«Svegliati, umanità, vegliati!»

La morte di Berta Cáceres ha destato indignazione e rabbia in tutto il mondo. Espressioni di solidarietà sono arrivate da tutti i continenti perché il suo lavoro era conosciuto: il suo sguardo e le sue parole avevano suscitato forti emozioni, ad esempio, durante la consegna proprio a lei del premio ambientale Goldman nel 2015. Premio che Berta Cáceres aveva dedicato al popolo lenca e alla sua forza e dignità. In quell’occasione aveva invitato la comunità internazionale ad agire: «Svegliati, umanità, svegliati! Non c’è più tempo!». Parole che sono risuonate mille e mille volte nei social media dopo il suo assassinio, come un monito e un grido di dolore per le tante persone che subiscono repressione e violenza.

Una scia di sangue troppo lunga

Solo pochi giorni dopo la morte di Berta, viene ucciso nella sua dimora in Rio Lindo Nelson Garcia, per essersi opposto a deportazioni e sfollamenti forzati della sua comunità. Nel 2013, il giovane Tomas Garcia era stato ucciso durante una repressione della polizia. Entrambi i Garcia erano membri del Copinh assieme a Berta. Nel vicino Messico, Noé Vasquez della piattaforma anti dighe Mapder era stato vittima di un’imboscata mentre raccoglieva fiori e pietre per la cerimonia di apertura dell’incontro annuale del movimento nel 2013. Nello stesso anno due ragazzi erano stati assassinati da un sicario presso la diga Santa Rita in Guatemala, e un anno prima Andrés Francisco Miguel era morto durante le proteste per la diga Barillas Santa Cruz per mano delle guardie di sicurezza. Questi sono solo alcuni dei molti casi3 che dimostrano la grande violenza che accompagna l’industria estrattiva e i suoi progetti energetici e infrastrutturali, la connivenza fra imprese e autorità pubbliche e forze di «sicurezza» in Centroamerica.

L’eredità di Berta

Berta Cáceres però ha lasciato un’eredità speciale: «Il suo assassinio ha lasciato un segno profondo nei movimenti per la giustizia ambientale. Qualcosa è cambiato dalla sua morte», ci dice un attivista in Cile. C’è stata infatti una grande mobilitazione a molti livelli, dalle reti sociali al Parlamento europeo, che ha chiesto con forza al governo hondureño di intervenire per identificare i colpevoli materiali, per indagare sul ruolo delle imprese di Agua Zarca, e per rilasciare immediatamente Gustavo Soto, unico testimone diretto di quella tragica notte, che per settimane è stato trattenuto in Honduras nonostante avesse già riferito alle autorità tutto ciò che sapeva. Tra il 17 e il 21 marzo la Missione Internazionale Justícia per Berta Cáceres Flores ha partecipato a una visita nel paese, assieme a membri del Copinh e altre organizzazioni dell’Honduras. Anche dai paesi europei molte reti si sono attivate e hanno fatto pressione anche sui finanziatori del progetto, tra cui BankTrack, Both Ends, Inteational Rivers e la grande rete della campagna Stop Corporate Impunity. Fmo, la banca finanziatrice olandese, già coinvolta in altri progetti come Barro Blanco nello stesso Honduras e Santa Rita in Guatemala, e Finnfund, hanno deciso di sospendere il loro appoggio alla centrale pochi giorni dopo l’assassinio. La Cabei, che al principio aveva espresso fiducia sul fatto che per «il caso di Mrs. Cáceres ci sarà la dovuta accuratezza nelle indagini da parte delle autorità», il 4 aprile finalmente ha deciso di sospendere il finanziamento a Agua Zarca.

Resistenza all’imposizione

Nel mese di maggio è venuta in Europa una delegazione del Copinh, tra cui una delle figlie di Berta, che porta il suo stesso nome. Due lunghe settimane di incontri con dirigenti di banche, agenzie per lo «sviluppo», e imprese per raccontare, testimoniare ma anche per interrogare chi decide la destinazione di fondi e chi investe in nome di quello sviluppo e quell’energia che non si dimostrano né sostenibili né puliti. «Noi Lenca viviamo il nostro territorio con altre relazioni socio-ambientali », dice Bertita, che per la sua sicurezza ha dovuto vivere molti anni fuori dal paese e lontana dalla madre, durante un incontro a Barcellona. «Ora capiamo che tutto quello che facciamo, dalle iniziative per la salute comunitaria, alle piccole energie rinnovabili per le nostre case, all’educazione secondo i valori lenca, è una forma di resistenza alla cultura imposta da uno stato estrattivista e capitalista, oligarchico e patriarcale». E, concludendo, saluta con quanto gridato più volte dalla sua gente: «Mia madre no murío, se multiplicó ».

Daniela Del Bene
Co-editrice dell’Ejatlas


Note:

1- «Global Witness ha documentato in totale 185 omicidi in 16 paesi nel 2015, un aumento del 59% rispetto al 2014, e il numero totale più alto da quando abbiamo iniziato la raccolta di dati nel 2002. Difensori del territorio e dell’ambiente vengono uccisi a un ritmo impressionante di più di 3 a settimana. La maggior parte dei casi registrati sono avvenuti in paesi dell’America Latina e del Sud-Est asiatico, con il più alto pedaggio registrato ancora in Brasile (50) e nelle Filippine (33). I popoli indigeni difensori delle loro terre ancestrali sono stati i più colpiti, rappresentano infatti quasi il 40% delle vittime. Industrie minerarie e estrattive sono state collegate ad almeno 42 delitti. Ma anche industrie agroalimentari (20 omicidi), idroelettriche (15) e del legname (15). Abbiamo trovato un coinvolgimento sospetto di gruppi paramilitari in 16 casi, delle forze armate in 13, della polizia in 11, e di guardie di sicurezza private in altri 11». (da On dangerous ground, p. 5).

2- «Intoo alla mezzanotte del 2 marzo 2016, uomini armati hanno sfondato la porta della casa in cui Berta Cáceres si trovava a La Esperanza, Honduras, hanno sparato e l’hanno uccisa. Berta era un’attivista ambientale e per i diritti della terra indigena di alto profilo. L’anno scorso aveva ricevuto il premio ambientale Goldman, un prestigioso riconoscimento per l’attivismo ambientale di base in tutto il mondo. Nel suo discorso alla premiazione Berta aveva parlato delle minacce di morte e dei tentativi di rapimento subiti a causa della sua lotta contro la diga di Agua Zarca. Global Witness ha evidenziato il suo lavoro coraggioso in How many more? (quanti altri?), una ricerca in cui l’Honduras veniva descritto come il paese più pericoloso al mondo per i difensori della terra e dell’ambiente. Questo rapporto (On dangerous ground, ndr.) è dedicato a Berta Cáceres e ai molti attivisti coraggiosi che, come lei, resistono al potere, nonostante i pericoli per la loro vita». (da On dangerous ground, p. 2).

3- Circa l’assassinio sistematico degli indigeni in America Latina si veda MC 6/2016, p. 10-12.




Trincee dimenticate


Senza sbocchi sul mare, in prevalenza montagnoso, teoricamente parte dell’Azerbaigian, di fatto occupato dall’Armenia, il Nagoo-Karabakh (o Artsakh) è uno stato non riconosciuto da alcun paese al mondo. Quasi scomparsi gli azeri musulmani (appoggiati dall’Azerbaigian), l’attuale popolazione è armeno cristiana. Ignorato da tutti, in questa enclave il conflitto non è però mai terminato. Come testimoniano gli scontri e i morti del 2016.

Alle frontiere dell’Europa, dimenticato da tutti, c’è un luogo dove migliaia di giovani bruciano le loro esistenze nel fango e nel gelo delle trincee, mese dopo mese, anno dopo anno. Un luogo dove il tempo sembra sospeso da più di vent’anni all’epoca della Grande Guerra, come in un’oscura maledizione da cui nessuno riesce più a liberarsi. Ma anche un luogo da favola, fatto di paesaggi incontaminati, gente dal cuore antico, splendidi monasteri e ottimo cibo prodotto in loco da mani sapienti. È il Nagoo-Karabakh: un luogo dal nome che evoca, ai pochi che lo conoscono, uno dei conflitti più dimenticati del nostro tempo, a cui tutti – anche la comunità internazionale – sembrano essersi oggi arresi con un odioso fatalismo, quasi fosse un evento naturale e inevitabile.

Ma questo territorio, ricco di poesia e contraddizioni, è molto di più. Il Nagoo-Karabakh – per chi lo conosce in prima persona – non è soltanto una guerra: dai suoi tanti villaggi, dove si aprono squarci di grande umanità ma anche di vera disperazione, alla sua capitale de facto, Stepanakert – sonnolenta eppure ridente città di provincia -, fino alla natura che sembra avere la meglio – a tratti – sulla follia dell’uomo e sulle sue bandiere di morte. E non mancano anche moschee e minareti, in questo fazzoletto di terra, a ricordarci che – prima del drammatico spartiacque della guerra tra Armenia e Azerbaigian, scoppiata con la dissoluzione dell’Urss nel 1991 – questa era una terra plurale da un punto di vista etnico e religioso. Il Nagoo-Karabakh porta con sé storie di fughe e abbandoni, di rancore e nostalgia, di molti che questa terra amara e dolce – dove ci sarebbe posto per tutti – l’hanno dovuta lasciare per sempre. Ci riferiamo alle centinaia di migliaia di azeri che, da un giorno all’altro – con l’esplosione del conflitto – hanno dovuto abbandonare le loro case e i loro beni a rischio della vita.

Il Nagoo-Karabakh è oggi uno stato non riconosciuto da alcun paese al mondo, ed è tuttora ufficialmente parte della repubblica dell’Azerbaigian. Ma è anche un crogiuolo di storie che si incrociano, storie di chi, vent’anni fa, è stato costretto a partire senza poter più ritornare e di chi ci è arrivato partendo da lontano. Perché in questo lembo di terra si trovano anche migliaia di profughi che sono dovuti fuggire dall’Azerbaigian in quei drammatici anni, insieme – più di recente – ad alcune decine di famiglie di cristiani armeni (in molti casi, figli e nipoti dei sopravvissuti al genocidio armeno del 1915), fuggiti dalla guerra in Siria.

Anno 1991: lo scoppio

La questione del Nagoo-Karabakh è nata col tramonto del sistema sovietico che – pur con tutti i suoi limiti e contraddizioni – era riuscito a tenere a bada antiche tensioni più volte riesplose fra cristiani armeni e musulmani azeri, due popolazioni che per lungo tempo avevano condiviso nel bene e nel male i frutti di questa terra. «Nel nero velluto della notte sovietica», come la definiva il poeta russo Osip Mandelstam, le questioni di nazionalità – come ogni altro tema politico – erano semplicemente bandite, o tuttalpiù materia da discutere di nascosto, fra le quattro mura di casa. Con la Perestrojka di Gorbaciov, quel silenzio ha avuto finalmente fine. Senonché, come una pentola a pressione tenuta coperta per troppo tempo, lo scoppio è arrivato ancora più forte e fragoroso, provocando una improvvisa e irrefrenabile violenza. Il Nagoo-Karabakh è un piccolo territorio, grande poco più della Basilicata o dell’Abruzzo, situato nel Caucaso del Sud, una regione stretta fra tre giganti: la Turchia, la Russia e l’Iran. Oggi vi si trovano poco meno di 150.000 abitanti. Il genio criminale di Stalin decise, per ragioni di opportunità politica, di assegnarlo negli anni venti alla Repubblica socialista sovietica dell’Azerbaigian, nonostante vi si trovasse già all’epoca una larga preponderanza di armeni. Una maggioranza non omogenea, allora, in una terra – il Caucaso – da sempre declinata al plurale. Cosa che si evince anche dal nome di questo stato non riconosciuto: Nagoo-Karabakh, tre lingue che si fondono in un solo toponimo. Il «giardino nero di montagna», così potremmo tradurlo in italiano, è un’espressione che coniuga russo («nagoo», che vale per montagnoso), turco («kara», ovvero di colore nero) e persiano («bakh» significa giardino). I suoi abitanti, invece, preferiscono chiamarlo con il toponimo esclusivamente armeno di Artsakh.

Ebbene, con l’entrata in crisi dell’Urss alla fine degli anni Ottanta, la maggioranza armena del Karabakh si attiva per rivendicare l’indipendenza dall’Azerbaigian e ricongiungersi con l’Armenia. Lo fa con un referendum, nel 1991. Una cosa inaccettabile, per gli azeri, tant’è vero che ne nascerà un conflitto destinato a durare per un quarto di secolo, arrivando fino ad oggi.

Bilancio di una guerra lontana dai riflettori

Trentamila morti, oltre un milione fra profughi e sfollati (vedi riquadro), interi villaggi rasi al suolo, una corsa agli armamenti che produce povertà e insicurezza: questo il tragico bilancio di un conflitto che in molti, per lungo tempo, si sono ostinati a considerare congelato. Questo almeno fino all’inizio di aprile, di quest’anno, quando la tensione è tornata a esplodere incontrollata. Oltre trecento morti in quattro giorni di scontri, fra carri armati ed elicotteri abbattuti, e ancora interi villaggi da cui la popolazione civile è stata costretta a sfollare. Quest’improvvisa esplosione di violenza ha riportato a galla una questione – quella del Karabakh – a lungo sepolta, sempre lontana dai riflettori. Ma non si è sparato soltanto ad aprile. Morti lungo quella lunghissima frontiera si hanno praticamente ogni mese, se non ogni settimana, da tantissimi anni. Il cessate il fuoco raggiunto nel maggio del 1994 ha prodotto uno stallo diplomatico a cui non è seguito alcun accordo di pace. Ogni iniziativa diplomatica è naufragata, e così – nonostante periodi di calma apparente – non si è mai finito di morire.

Per gli armeni, che la guerra l’hanno vinta conquistando per intero il territorio, questa terra è loro, tant’è vero che l’hanno proclamata repubblica indipendente, pur senza riuscire a giungere ad alcun riconoscimento internazionale. Il Karabakh si è provvisto di un presidente, un parlamento e istituzioni, ed elegge con votazioni democratiche i suoi rappresentanti. Per gli azeri, invece, che non si sono rassegnati alla sconfitta, questa terra non può essere che loro, e puntano a riavere indietro tutto il territorio conteso.

Benvenuti a Stepanakert

Ma come si presenta il Nagoo-Karabakh, e come ci si arriva? Si tratta di una regione quasi inaccessibile, senza alcun aeroporto attivo, che si raggiunge solo via terra attraverso un’unica, tortuosissima strada, che parte dall’Armenia. Tutte le altre vie e frontiere sono chiuse e inaccessibili. Giunti al confine di questo stato che non c’è, per entrare alla fine basta un visto – curiosamente scritto a mano – rilasciato a una piccola dogana, ma anche presso un ufficio di rappresentanza a Yerevan.

Dopo circa sei ore di viaggio dalla capitale armena, in macchina o in autobus, si arriva a Stepanakert, il centro maggiore della regione. Si tratta di una cittadina di oltre 50.000 abitanti che, a differenza di tutti gli altri centri urbani del Karabakh, si trova in un ottimo stato. Qui hanno sede il parlamento e le varie istituzioni dell’autoproclamata repubblica, ma anche molti negozi, ottimi ristoranti, e persino un pub dove si può assaggiare una birra prodotta in loco. Nonostante la tensione resti alta, si è persino riusciti a sviluppare, pur senza toccare grandi numeri, il settore turistico. Vi si trovano così diversi ottimi alberghi, e persino un piccolo ufficio turistico nel centro di Stepanakert.

Ma onnipresente è la guerra, almeno nel pensiero. Qui tutti hanno combattuto, tutti hanno parenti o amici che hanno perso la vita. Sotto l’apparenza di normalità, scorrono vene profonde di dolore, per quanto non subito percettibili. Eppure, in superficie, l’atmosfera di provincia è quella che si respira in ogni altra parte del mondo. In piazza della Repubblica, che costituisce il cuore di questa cittadina, fra una macchina e l’altra si può sentire il frinire dei grilli anche in pieno giorno. Gli sforzi per tirare a lucido la città – anch’essa distrutta dalla guerra – sono stati notevoli, e il risultato è tutt’altro che sgradevole.

Benvenuti a Shushi

Ben diverso il caso di Shushi (chiamata ?u?a in lingua azera). Nonostante gli sforzi del governo, la cittadina non si è più ripresa dal conflitto. Benché sia solo a pochi chilometri da Stepanakert, i prezzi delle case sono molto più bassi. Facile capire il perché: molti gli edifici abbandonati, e ancor più numerosi quelli che portano segni di proiettili o esplosioni. Tutto qui odora di macerie. Le nuove costruzioni, molto curate – un ufficio del turismo, il mercato coperto e un albergo di proprietà di un armeno libanese – non fanno che mettere in risalto ancor più la desolazione circostante, in contrasto stridente. Qui i bambini giocano alla guerra fra gli edifici sventrati dalle bombe, mentre gli adulti – in molti casi profughi che hanno lasciato l’Azerbaigian negli anni Novanta – trasudano disperazione.

Tanti anche i monumenti che raccontano il passato multietnico della città, ormai perduto, e la storia di questo conflitto: due moschee e una scuola coranica, alcune case di chiara impronta islamica. La cittadina di Shushi – situata su un’altura da cui le truppe azere bombardavano notte e giorno Stepanakert – fu al centro della battaglia più importante della guerra del Nagoo-Karabakh. La sua presa nel 1992 da parte degli armeni rappresentò una svolta del conflitto, e tutti qui ancora la ricordano con emozione. Prima dell’entrata nella città, provenendo dalla capitale, un carro armato T-72 – usato dagli armeni e divenuto simbolo della vittoria – è lì a ricordarlo.

Freddo, fango e filo spinato

La strada che congiunge la capitale de facto, Stepanakert, alla cittadina di Martakert è un vero pugno allo stomaco. Uno dopo l’altro scorrono, accanto a chi la percorre, villaggi distrutti e in rovina. Il caso più celebre è quello di Aghdam, chiamata l’Hiroshima del Caucaso, dato che è completamente rasa al suolo. Terribile anche la situazione in cui versa il villaggio di Talish, dove si è combattuto casa per casa ad aprile, e la popolazione è oggi interamente sfollata.

A pochissimi chilometri dalla strada e da questo villaggio, scorre l’infinita frontiera con l’Azerbaigian dove, da una parte e dall’altra, i giovani del Caucaso trascorrono il loro tempo chiusi in trincea. Uno spettacolo agghiacciante: ragazzi con un kalashnikov in mano che, nel freddo e nel fango, prigionieri di una noia e di una solitudine impossibili da combattere, passano le loro giornate in condizioni di estrema povertà e privazioni. Lungo il filo spinato, pendono barattoli di latta, usati – insieme ai cani lupo alla catena – per prevenire possibili incursioni. La tecnologia pare completamente assente, in un paesaggio in tutto e per tutto simile a quello della prima guerra mondiale.

Una waste land che è un fallimento di tutti, e non solo dei governi locali. Tutti i tentativi – invero neanche troppo convinti – dell’Ue, della Russia e degli Stati Uniti per arrivare a una soluzione diplomatica sono naufragati. Il risultato è paradossale, assurdo. Una terra a bassissima densità abitativa, verde, boschiva e dall’enorme potenziale per allevamento e agricoltura, resta così imprigionata in un limbo che ha l’amaro sapore dell’inferno. Entrambi membri del Consiglio d’Europa, Azerbaigian e Armenia mandano a morire i loro figli, compromettendo il loro stesso futuro, ormai da un quarto di secolo per contendersi questo fazzoletto di terra privo di risorse quali petrolio o gas. Un grido, il loro, troppo a lungo dimenticato, qui ed altrove.

Simone Zoppellaro*

 

* Simone Zoppellaro, giornalista freelance, per 7 anni ha lavorato fra l’Iran, l’Armenia e la Germania. È corrispondente per l’Osservatorio Balcani e Caucaso. Scrive tra gli altri per il Manifesto e La Stampa. Autore del libro «Armenia oggi» (Guerini e Associati). Roberto Travan, giornalista professionista. Come fotografo indipendente ha seguito le missioni militari italiane in Afghanistan, Repubblica Centrafricana, Kosovo. Ha documentato la guerra in Ucraina e le recenti tensioni in Tunisia. Per i servizi realizzati in Nagoo-Karabakh, non potrà entrare in?Azerbaigian per i prossimi 5 anni. I suoi servizi sono stati pubblicati da La Stampa – giornale in cui lavora dal 1989 – e tradotti in diverse lingue.

 




L’Africa in scena


Il cinema africano cresce. I temi trattati sono impegnati: dalla migrazione al rapporto con l’Europa, l’Aids e i conflitti generazionali. La tradizione e la modeità. E spunta il tema dell’integralismo islamico. Dai festival nel continente africano alle sale europee. Ma è un cinema non sempre compreso.

La bandiera nera del califfato sventola sulla mitica città di Timbuktu, al centro del Sahara dove per secoli si sono incrociate le carovane tuareg che trasportavano da una costa all’altra del continente africano tonnellate di oro e avorio e migliaia di schiavi neri. Nella città capitale della cultura i jihadisti hanno raso al suolo i mausolei dei profeti islamici e bruciato i manoscritti quattrocenteschi, mentre le donne sono costrette a vendere il cibo al mercato, oltreché avvolte nei veli, anche con le mani guantate. Fare musica non è permesso, giocare al pallone in un polveroso spiazzo tra le case nemmeno. Il jihad non lo consente.
E non consente neppure che il  pastore e la sua compagna vivano sotto la stessa tenda senza essere sposati. Per questo motivo saranno lapidati.

È questa la scena su cui si chiude «Timbuktu», del regista mauritano Abderrahmane Sissako. Uno dei pochi film di produzione africana che sia riuscito a conquistare il pubblico europeo nei canali tradizionali delle prime visioni. In Francia l’hanno visto un milione di spettatori, in Italia ha incassato 70 mila euro nel primo fine settimana, 428 mila in totale, una performance più che modesta in sé, ma in grado di generare fiducia nei progressi di un cinema prodotto in Africa da registi africani.

«Timbuktu» è stato persino indicato nella cinquina dei candidati all’Oscar 2015 per il miglior film straniero, «dramma poetico e struggente con cui Sissako mostra come il jihad porti dolore e lutto in terre che vorrebbero solo vivere in pace. Il regista rappresenta una comunità di islamici moderati forse un po’ idealizzata e facile da amare. Pur nella tragicità delle situazioni, riesce a coniugare realismo e lirismo, non negandosi neppure un’inaspettata vena di humour che ricorda il cinema del regista palestinese Elia Suleiman. Si apprezza soprattutto l’appassionata difesa delle donne, prime vittime dell’integralismo». Sono parole scritte da Roberto Nepoti su La Repubblica, nel febbraio 2015, quando il film approdò sugli schermi italiani. «Roba da matti. Questo filmino di un regista mauritano, dal nome impossibile, corre all’Oscar per il miglior film straniero. Nobili gli intenti, mortale la noia» fu, negli stessi giorni, il commento di Massimo Bertarelli su Il Gioale.

Certo la noia può fare capolino, se si giudica questa pellicola con gli stessi criteri di un «cinepanettone» (peraltro anche quest’ultimo ne può provocare altrettanta) e se non si conoscono i ritmi di vita di un mondo dove silenzi, spazi e tempi sono dilatati al massimo rispetto a quelli cui siamo abituati noi europei. In Africa l’impatto del film è stato forte: il regista Abderrahmane Sissako è stato consulente del premier della Mauritania Mohamed Ould Abdel Aziz e per questo è stato accusato di parlare dei crimini del Califfato in Mali, anziché riversare il suo sdegno politico sulla schiavitù ancora praticata proprio in Mauritania da un regime giudicato corrotto e repressivo dall’autorevole sito «Mondafrique.com». Intanto però i numerosi premi inteazionali conquistati da «Timbuktu», tra cui sette César, gli Oscar francesi, hanno portato il cinema dell’intero continente alla ribalta mondiale. Intanto, al successivo Fespaco di Ouagadougou, nel 2015 non si voleva ammettere il film al festival stesso, proprio per la paura di dividere anziché unire. E invece Timbuktu vi ha vinto pure due premi (miglior arredamento e migliore musica).

Il festival

Già, Fespaco ancora una volta alla ribalta, perché se finalmente si parla con ottimismo di cinema africano lo si deve soprattutto a questa rassegna del cinema panafricano che tiene banco ogni due anni nella capitale del Burkina Faso, dal 1969, e che nel prossimo 2017 affronterà la sua 25° edizione. Obiettivo: «Far capire agli africani di non cercare altrove ciò che hanno già», ovvero quel patrimonio culturale millenario che va oggi espresso secondo nuove regole. Lo affermò il senegalese Sembène Ousmane, lo scomparso decano dei cineasti africani, presenza fissa di quel festival che da 40 anni ormai proietta a ogni edizione centinaia di film e documentari nel centro della capitale, in periferia, in zone rurali, nelle scuole e nelle arene all’aperto sempre affollate da burkinabè e da stranieri.

Il festival è un momento importantissimo di incontro anche per gli addetti ai lavori che ne approfittano per fare sfoggio di abiti eccentrici a rimarcare diversità e analogie tra produzioni che hanno avuto la loro culla nel Sahel, tra Senegal e Burkina Faso, e che ancora oggi distinguono la loro cinematografia da quella del Maghreb, pur tutte francofone, a quelle anglofone di Sudafrica ed Etiopia, e lusofona dell’Angola. Prima di questa nuova vitalità il cinema africano affrontò (e subì) le produzioni di stampo coloniale e poi etnografico, sino a darsi un’identità con un film da tutti i critici ormai riconosciuto come modello di nuove consapevolezze, quell’«Afrique sur Seine», fatto da africani per africani, che nel 1955, come si intuisce dal titolo, con una pur incerta qualità raccontò la vita dei neri esiliati a Parigi. Gli anni ’70 portarono poi nel cinema subsahariano, concepito soprattutto in Senegal, occasioni di crescita complessiva di mentalità e di rinnovo nell’estetica e nella narrazione, tanto che nei successivi anni ’80 si videro nelle sale generi diversi da quelli trattati sino ad allora, ovvero parodie weste, commedie, melodrammi, film d’azione, musical, diretti – altra novità – anche da registi donna.

L’Africa reale

Le tematiche sono oggi innanzitutto sociali, politiche, di denuncia, di riflessione sulle guerre e sulle riconciliazioni nazionali, di rielaborazione del passato storico e della colonizzazione, sul dialogo con l’Europa come momento di incontro e scontro tra le culture, di indagine sui meccanismi del potere, sui conflitti generazionali e famigliari tra genitori e figli, sulle morti per Aids. C’è attenzione per l’eterno dilemma di conciliare tradizione e innovazione, per il ruolo fondamentale delle religioni, per l’emancipazione femminile, per le migrazioni con camere in presa diretta sulla realtà quotidiana.

I problemi più rilevanti sul tappeto restano quelli del finanziamento, i più urgenti da risolvere. Falliti, una ventina di anni fa, alcuni tentativi velleitari di fare da sé, oggi la stragrande produzione è francofona con sostegni economici che giungono da radio e tv francesi appoggiati dall’Unione europea. L’obiettivo odierno è però svincolarsi dai possibili condizionamenti che questa scelta comporta e raggiungere l’autosufficienza attraverso partenariati privati e contemporanee agevolazioni statali su tasse e diritti di ripresa. Serve insomma professionalizzare tutto il settore con la creazione di centri di formazione per cineasti e attori, affiancati da strutture proprie di distribuzione delle pellicole utili a svincolarsi dalle majors interessate prima di tutto a creare profitti.

Il Fespaco fortunatamente non è la sola manifestazione cinematografica del continente. A Zanzibar, di fronte alle coste della Tanzania, di cui l’isola costituisce parte integrante, siamo giunti alla 19° edizione dello Ziff, lo Zanzibar Inteational Film Festival, il più importante evento culturale dell’Africa orientale, noto anche come Festival of Dhow Countries, ovvero la rassegna del paese dei sambuchi,  sempre ricca di eventi collaterali pensati per la popolazione locale con riflessioni sulla condizione femminile e giovanile in genere. Vi partecipano anche film mediorientali e indiani con proiezioni nella suggestiva capitale Stone Town e nelle isole di Pemba e Unguja che pure non possiedono sale cinematografiche.

Anche in Italia

Il film vincitore del Fespaco partecipa di diritto al Festival del cinema africano di Verona, un’iniziativa voluta dai missionari Comboniani di Nigrizia, e ormai consolidata in Italia, per far luce su quel mondo spesso, come già detto, in crisi di visibilità. In Italia un altro aiuto viene da Milano, che da 25 anni propone ai Bastioni di Porta Venezia il Festival del cinema africano, d’Asia e di America Latina. Tra gli obiettivi della rassegna del Coe (Centro Orientamento Educativo), ci sono, citiamo testualmente: «Approfondire la conoscenza dei temi e dei linguaggi delle cinematografie meno conosciute e mettere in evidenza le potenzialità della creatività artistica dei tre continenti; veicolare un’immagine dell’attualità e della cultura d’Africa, Asia e America Latina, attraverso il punto di vista dei registi locali; proporre un’alternativa concreta alla cultura e all’informazione corrente dei mass media in rapporto al Sud del Mondo; dare un’opportunità ai registi di entrare in contatto con le istituzioni europee di produzione e distribuzione cinematografica; stimolare uno scambio culturale tra gli artisti, il pubblico, i giornalisti e i professionisti del settore degli audiovisivi; favorire relazioni di scambio tra le istituzioni, i festival, gli organismi europei impegnati nella promozione della cinematografia africana; creare un luogo di riflessione annuale sulle nuove tendenze e prospettive del cinema del Sud del mondo; offrire alle comunità straniere in Italia un’opportunità d’incontro con la propria cultura d’origine; sollecitare nelle scuole l’introduzione degli audiovisivi come strumenti didattici per l’educazione all’immagine e per l’approccio interculturale».

Insomma un insieme di buone intenzioni e pratiche che si sono materializzate strada facendo anche in tante altre città e che fioriscono ogni anno soprattutto tra la fine primavera e l’estate. A Torino nel maggio scorso si è parlato di migranti con la rassegna voluta dal Csa, Centro piemontese di Studi africani, intitolata la «Diaspora dei giorni nostri», con la proiezione di quattro film che raccontano di identità perdute, nostalgia, ma anche di opportunità per un riscatto, dei registi Alain Gomis, Haile Gerima, Ahmed El Maanouni, Pocas Pascoal. E da Torino a fine maggio scorso è anche partita un’importante rassegna itinerante con 20 tappe in otto regioni per presentare 20 titoli tra lungometraggi e cortometraggi, foiti dal catalogo Coe, l’unico in Italia esclusivamente dedicato a film realizzati da registi provenienti dai tre continenti, selezionati o premiati proprio al festival  milanese. La rassegna si chiama «Sconfinamenti. Le culture si incontrano al cinema» ed è organizzata da Engim Internazionale Piemonte in collaborazione con Pianeta Africa.

Due esempi

Nella pellicola di Gomis, «Tey, aujourd’hui», coproduzione franco senegalese del 2012, un giovane uomo di ritorno a Dakar dall’America in cui avrebbe potuto avere un futuro certo, pur sano nel fisico, sente di essere giunto all’ultimo dei suoi giorni, e lo sanno anche amici, conoscenti e persino le autorità locali che in municipio gli confezionano una festa d’addio. Satchè, il protagonista, viene salutato dai familiari radunati nel patio di casa tra lacrime e preghiere, gli amici lo avvolgono del loro affetto mentre percorre le vie della sua infanzia. Lo zio, che celebra funerali, lo dispone sulla terra compiendo le stesse operazioni che farà sul suo cadavere. Il suo primo amore lo scaccia rimproverandogli l’abbandono, così come la moglie prima lo respinge perché non può accettare la cruda realtà, e poi lo accoglie nel suo letto.

Un’altra parabola su aspettative, ritorni e speranze deluse è «Teza», coproduzione franco tedesca ed etiope. Anberber, studente etiope di belle speranze si laurea medico in Germania, ha la fidanzata tedesca, così come l’ha il suo amico Tesfaye. Quando Menghistu prende il potere, i due uomini, impegnati politicamente a sinistra, salutano il nuovo regime marxista come il rinnovamento tanto auspicato e tornano in patria, dove saranno clamorosamente delusi dal corso degli eventi. Tesfaye, che per gli ideali ha abbandonato in Europa anche il figlio, perderà la vita colpito dal repressivo regime, e Anberber si salverà attraverso l’amore per una donna ripudiata dalle regole della tradizione e per il suo dedicarsi all’insegnamento nei villaggi restituendo ai locali il sapere che lui aveva avuto il privilegio di acquisire.

L’Africa è dunque oggi scenario per rappresentare i luoghi dove agiscono gli individui, non più esotico sfondo. Ci sono villaggi da cui ci si sposta per andare a vivere in città o a cercare fortuna in Europa e in Usa, toccando i temi del viaggio come riscatto, ma anche come raggiungimento di una meta non sempre soddisfacente, piena di trappole, imprevisti, desideri non avverati che fanno talvolta rimpiangere, idealizzandola, la protezione della casa d’origine irrimediabilmente perduta. Un cinema finalmente maturo capace di riservarci molte piacevoli sorprese.

Mario Ghirardi*

  • Gioalista ed editore con esperienza trentennale nel campo dell’informazione locale. Ha partecipato a progetti di cooperazione in Sahel. Attualmente è docente di corsi di formazione universitaria in criminologia.



Una storia troppo sporca


«Gli abitanti si atteggiano a vittime per ottenere risarcimenti». «Gli ambientalisti esagerano sempre e ostacolano il progresso». Anche in Ecuador è normale sentire giudizi di questo tenore. Siamo andati a vedere e toccare con mano cosa ha lasciato nell’Amazzonia ecuadoriana la multinazionale petrolifera Chevron-Texaco. Il disastro – ambientale, umano, culturale – è pesantissimo e certificato dai tribunali. Eppure, a distanza di 6 anni dalla condanna, la compagnia statunitense nega qualsiasi risarcimento. A dispetto di quest’arroganza e impunità, le vittime, riunite in un’associazione, non si arrendono.

Nueva Loja (Lago Agrio) – Ci mostra le carte. Soltanto in queste stanze sono archiviate – in bell’ordine – centinaia di buste gialle contenenti documenti processuali di ogni tipo. Mentre prende dagli scaffali una busta qualsiasi, ci spiega: «Conserviamo più di 250.000 fogli». La apre: «Anno 2003, Corte Superior de Justicia de Nueva Loja, contra Chevron Corporation», si legge sul frontespizio della prima pagina.

Siamo con Donald Moncayo nella sede di Udapt, Unión de afectados y afectadas por las operaciones petroleras de Texaco, l’organizzazione nata a Nueva Loja nel 2001 per riunire tutte le vittime – sia indigeni che coloni – della compagnia petrolifera statunitense.

Come accaduto a Coca, anche qui ci viene proposto di andare a vedere e toccare con mano i danni prodotti dall’attività petrolifera1. Con la nostra guida lasciamo dunque la sede di Udapt per andare al pozzo denominato Lago 8 e perforato nel 1968, poco fuori della città.

Prove contundenti

Per ridurre al minimo i costi, la Texaco aveva scelto di costruire le vasche di contenimento per l’acqua di produzione (altamente contaminata) nel terreno e a cielo aperto.

«E soprattutto – spiega Donald – esse erano poste molto vicine a fiumi o a esteros (zone paludose). In questo modo, tutti i reflui delle estrazioni andavano in queste piscine e da qui, attraverso tubi, venivano dispersi nei corsi d’acqua e nella palude con conseguenze devastanti per l’ecosistema. Come ciò non bastasse, con l’espansione urbana, oggi ci sono case costruite a pochi metri da queste vasche».

La Texaco si è sempre difesa affermando di aver completato la bonifica delle piscine – ne sono state individuate 880 – nel 19982.

«Cosa hanno fatto? Semplicemente hanno tappato le vasche con circa 50-90 centimetri di terra pulita. E così dicono di avere bonificato. Un’operazione in cui hanno speso 40 milioni di dollari. L’ironico della vicenda è che, per difendersi dal giudizio, la compagnia sta spendendo 2.000 milioni di dollari. Se a quei tempi questa cifra fosse stata investita in un adeguato ripristino ambientale, adesso non ci sarebbero simili problemi».

Indossiamo degli stivali per andare a vedere una delle piscine incriminate. Una di quelle che Texaco dice di aver sistemato e ripulito. Donald prende una bottiglia d’acqua, un machete e un aese per fare buche, una specie di trivella manuale. Passiamo accanto a un tubo dell’oleodotto. «Qui passa il petrolio del pozzo Lago 29. Un petrolio leggero, un buon petrolio».

Arriviamo in uno spazio coperto da sterpaglia. «Questa era una piscina – ci indica Donald -. Il problema sta sotto la copertura di terra. Sta nell’acqua sotterranea che è stata contaminata. Purtroppo le persone quell’acqua la utilizzano».

Donald comincia a liberare un pezzo di terreno con il machete e poi, indossati un paio di guanti, inizia a bucarlo con la trivella a mano.

Lo scavo dura qualche minuto. La terra asportata dall’attrezzo comincia a diventare via via più nera. «Annusate», ci dice Donald a un certo punto. L’odore inizia ad essere pungente. «È l’odore tipico dei cosiddetti composti aromatici, altamente tossici per l’uomo e l’ambiente».

Viene estratto un sacchetto di plastica. «Nel pozzo erano gettati sacchi di sale. Neppure quelli hanno tolto in una decontaminazione che loro hanno definito perfetta».

«Facciamo una prova», dice Donald. Prende la bottiglia di acqua e ne taglia la parte superiore con il machete. «Mettiamo nell’acqua pulita un po’ della terra che abbiamo raccolto. Poi, con un pezzetto di legno pulito, mescoliamo il tutto. Come potete notare, la terra si deposita mentre il petrolio, più leggero, va verso l’alto». L’evidenza è clamorosa: siamo davanti a una bottiglia di petrolio, trovato a meno di 50 centimetri dalla superficie. Una prova evidente del danno ambientale procurato dalla Texaco.

Donald immerge la propria mano inguantata nel liquido. La risolleva e la apre davanti ai nostri occhi e al nostro naso. Sì, è proprio petrolio. «E poi dicono di aver risanato» chiosa Donald.

Ci propone di sentire quanto bruci la mano sporca di petrolio dopo pochi secondi al sole. «Mettetevi un guanto». Obbediamo e sì, la mano si riscalda subito.

Sono state 105 le relazioni degli esperti di ogni campo – chimici, biologi, naturalisti – che hanno dimostrato il danno che i signori di Texaco hanno prodotto. Un danno che continua, anche se in apparenza non si nota. «Qui non abbiamo acqua potabile, né acqua trattata. Se manca la pioggia, la gente deve per forza ricorrere all’acqua sotterranea. Non c’è altra possibilità». Donald parla di razzismo: «È un razzismo completo di tutte le sue lettere: r-a-c-i-s-m-o – scandisce -. È una lotta tra chi ha denaro e chi no. Tra chi preferisce spendere milioni di dollari in processi piuttosto che in azioni di bonifica ambientale».

Più di tutto può la necessità di lavorare. «La gente sa. Molti però preferiscono non parlare perché prestano servizio nelle imprese petrolifere. Che pagano bene: un addetto può guadagnare 800-900 dollari al mese, una cifra impossibile da raggiungere se lavori nella finca. Ti pagano per lavorare. E per tacere. Se inizi a parlare, fanno presto a licenziarti».

È arrivato il cancro

Forse la piscina del pozzo Lago 8 è semplicemente un caso isolato. Una piscina che non è stata ripulita bene dalla Texaco. Una situazione particolare, ingigantita dagli esponenti di Udapt per giustificare i propri reclami.

Risaliamo in auto per andare in un’altra zona, distante chilometri da qui. «Andiamo a trovare una famiglia che è stata vittima della Texaco», ci spiega Donald. Entriamo in foresta fino a raggiungere la casa su palafitte della famiglia Cabrera. Troviamo Ilterio Cabrera seduto all’ombra della palafitta proprio mentre è intento a sfogliare un recente libro fotografico sulle vittime della Texaco.

Alla sua famiglia l’autore ha dedicato alcune pagine perché essa è stata duramente colpita dalle operazioni della multinazionale, che nella sua finca aveva costruito una piscina. Per una «strana coincidenza» nella famiglia ci sono stati 3 morti per cancro: il fratello minore nel 1999, la mamma nel 2004 e il papà nel 2006. «Anche i nostri vicini hanno avuto morti per tumore» ci spiega l’uomo con un sorriso amaro.

Ilterio Cabrera vive qui con la moglie Marlene e 3 dei 5 figli. «Quando non trovo lavoro, coltivo la terra: cacao e mais soprattutto». Un’esistenza sul filo perché la contaminazione continua ancora oggi.

Una guerra di resistenza

Andiamo al pozzo chiamato Charapa 1. A ricordarlo, oltre al cartello con il nome, c’è un misuratore di pressione e qualche tubo arrugginito.

«Fu perforato da Texaco nel 1971. Per esso costruirono tre piscine. Una là e altre due da questa parte. Una di esse sta a 40 metri dalla casa della famiglia Cabrera». Ci muoviamo verso una di esse. È differente da quella del pozzo Lago 29, perché qui il petrolio è immediatamente visibile sotto le foglie sparse sul terreno. «Qui versavano – spiega Donald – il cosiddetto petrolio di prova. Quando si riempiva il buco, il petrolio defluiva fuori. I contadini chiamavano l’impresa che mandava qualcuno ad aspirarlo. Poi esso veniva riversato sulle strade per – si giustifica la compagnia – evitare la polvere. Peccato che qui le piogge siano frequenti e che esse spargessero il petrolio per ogni dove. Ecco perché non occorre vivere nei pressi di una piscina per ammalarsi di cancro o di altre patologie. Oltre a questa opzione, ce n’era poi una seconda: bruciare il petrolio della piscina. Bruciava per giorni e la colonna di fumo generata si vedeva da ovunque».

Donald scende nella buca con il badile. Il terreno è morbido. Non occorre scavare: già con la prima badilata si estrae un materiale vischioso dal colore e odore inconfondibili. È petrolio.

I responsabili di tutto questo hanno perso il giudizio, ma non hanno mai pagato. «In Ecuador la Texaco non possiede più nulla e pertanto siamo andati a reclamare in altri paesi dove essa opera: in Argentina, in Brasile e in Canada abbiamo aperto dei procedimenti per sequestrare i beni della compagnia. Purtroppo, facciamo fatica perché non abbiamo denaro. Loro pensano che allungando i tempi dei processi alla fine noi desisteremo per mancanza di risorse. Ma questo non succederà».

La passione con cui la nostra guida ci ha condotto in questo itinerario tra i disastri della Texaco è contagiosa. Impossibile rimanere indifferenti.

«Questa – conclude Donald Moncayo – è come una scuola, un’università. Noi abbiamo il dovere di mostrare al mondo cosa fanno le imprese multinazionali fuori dei loro paesi. Perché ciò che è accaduto qui non si ripeta in altri luoghi».

Paolo Moiola
(fine quarta puntata – continua)


Note

1 – Nella precedente puntata (MC 7/2016, pp. 51-57) è stato raccontato il «toxitour» a Coca, la seconda città petrolifera del paese, dopo Nueva Loja. I toxitour non sono gite turistiche. Chi li organizza lo fa per motivi informativi e didattici. Non esiste un prezzo. Chi vuole, lascia un’offerta.

2 – Il 30 settembre del 1998 la Texaco si accordò con il governo di Jamil Mahuad certificando di aver riparato i danni prodotti in Amazzonia e liberandosi di ogni futura responsabilità. Riparazioni poi giudicate parziali o fittizie.

 




Guardandosi in cagnesco


Mentre questi articolo era in stampa, a partire dl 10 luglio la situazione è precipitata nel Sud Sudan e gli scontri tra Dinka e Nuer si sono riesplosi con grande violenza a partire da Juba, dove ci sarebbe dovuto essere un incontro di pace.


È durata due anni e mezzo. La guerra civile sud sudanese ha fatto vedere i delitti più efferati. Due milioni e mezzo di sfollati, decine di migliaia di vittime civili. L’uso sistematico dello stupro come arma di guerra. L’Onu parla di crimini contro l’umanità. Ma il mondo non lo sa neppure. Ora c’è una pace instabile, con tutti i problemi ancora sul tavolo.

Riek Machar, il capo dei ribelli, è tornato a Juba. È il 26 aprile 2016. Dopo due settimane spese a Gambella in Etiopia per definire quali armamenti poteva portare con sé (missili terra-aria, anticarro, stringer, etc.), ha finalmente avuto l’ok delle autorità etiopi e poi dal presidente del Sud Sudan, il suo acerrimo nemico Salva Kiir Mayardit, per atterrare nella capitale. Fuori città c’è l’esercito regolare Spla (Sudan people liberation army) schierato in caso di necessità. «C’era un grande fermento in quei giorni. Io ero sul terreno e tutti stavano attaccati alla radio, perché non funzionavano i telefoni, ma solo radio e internet» ci racconta Angela Osti, da alcuni mesi nel paese come cornordinatrice di un progetto di emergenza per una Ong italiana. «Lo staff locale era agitato. Poi finalmente Machar arriva, ed è festa. Salva Kiir lo chiama fratello. Ma, pochi giorni dopo, tutti sono delusi dai nomi del governo transitorio di unità nazionale: sono gli stessi di due anni e mezzo prima, quando è scoppiata la guerra civile. La pace l’aspettavano tutti: “adesso che arriva la pace, sarà diverso…”, dicevano».

Sono passati due anni e nove mesi da quando è scoppiato il cruento conflitto interno al Sud Sudan, il nuovo stato africano, nato appena il 9 luglio del 2011.

«È la guerra più atroce che questi popoli abbiano mai vissuto. Non è stato così neppure nei decenni di guerre contro gli arabi del Nord. C’è stato un combattimento acerrimo tra due etnie che si sono massacrate a vicenda». Chi parla è Daniele Moschetti, superiore regionale dei missionari Comboniani in Sud Sudan.

Ma per capire come si è arrivati a questo punto, occorre fare un passo indietro.

Un paese giovane

Il Sud Sudan, è il 54° stato africano. Ha una superficie di 619.745 chilometri quadrati (due volte l’Italia) per 11,5 milioni di abitanti. Confina con Etiopia, Kenya, Uganda, Congo Rd, Repubblica Centrafricana e, ovviamente, Sudan dal quale si è staccato.

Paese con infrastrutture quasi inesistenti, ha una zona più umida e produttiva a livello agricolo ad Ovest, un’area paludosa nel centro Sud ed arido nell’Est.

È uno dei paesi più poveri del mondo ma rigurgita di acqua e di petrolio.

Le guerre del Sudan

Prima dell’indipendenza dal Sudan si contano due guerre tra i popoli del Sud, neri e cristiani o animisti, e il Nord, arabo e musulmano. Il Sud ha le risorse, come la terra coltivabile, l’acqua, e soprattutto il petrolio (l’80% dei giacimenti si concentrano qui). Le multinazionali iniziano a sfruttare il greggio sudanese intorno agli anni ’70.

Tra il 1956 (anno dell’indipendenza da Egitto e Gran Bretagna) e il 1972, si colloca la prima guerra civile sudanese, con connotazione più religiosa.

Nel 1983 scoppia la seconda guerra: il Sud, chiede l’indipedenza dal Nord, che non vuole mollare le risorse. Tra i vari eserciti del Sud che combattono contro l’esercito sudanese si distingue il Sudan people liberation army (Spla), comandato dal carismatico John Garang dell’etnia dinka, maggioritaria.

Con gli accordi di pace del 2005 viene sancita una grande autonomia del Sud, e si prevede un referendum per la secessione. John Garang diventa vicepresidente del Sudan. «Il sogno di Garang – racconta Moschetti – non era la divisione del Sudan e quindi l’indipendenza del Sud, ma il cosiddetto New Sudan», un paese unito e in pace. Ma non tutti la pensano come lui, sia dentro l’Spla, sia all’estero. Fondamentale è infatti la posizione del presidente dell’Uganda, Yoweri Museveni, che ha sempre appoggiato la secessione del Sud e contrastato il Nord di Omar al-Bashir. Museveni rappresenta gli interessi geopolitici degli Stati Uniti nell’area. Mentre l’Uganda sosteneva l’Spla contro al-Bashir, questi finanziava il Lord resistence army (Lra, vedi MC giugno 2012) di Joseph Kony contro Museveni.

Dopo 5 mesi di vicepresidenza, l’elicottero che trasporta Garang e la sua guardia ristretta da Kampala, Uganda, verso il Sudan precipita misteriosamente. Il mezzo era stato fornito dallo stesso presidente ugandese.

Si registra qualche tafferuglio a Karthum (capitale del Sudan) e a Juba (capitale del Sud), poi tutto è messo a tacere, e molto rapidamente Salva Kiir, vice di Garang, anche lui dinka, prende il suo posto. Curiosamente Kiir è proprio di quel gruppo nel Spla che spingeva per la secessione del Sud Sudan. Non è un leader carismatico come Garang, ma ha alle sue spalle Museveni e soprattutto l’amministrazione Usa, con George W. Bush prima e Barak Obama poi, che ha investito miliardi di dollari in questa operazione.

Così dall’accordo del 2005 si arriva al referendum (vedi MC marzo 2011) a gennaio 2011, con il quale il 98,8% dei votanti chiede la secessione dal Nord.

Storie di etnie e di potere

C’è un passaggio importante da analizzare per capire la crisi Sud sudanese degli ultimi anni.

«Il Nord non ha mai voluto mollare il Sud, perché voleva dire un collasso economico per Karthum, che di fatti c’è stato dopo il 2011», ricorda Moschetti. Ma esiste un altro piano di scontro tutto interno al Sud. Qui sono presenti 64 etnie o tribù, delle quali i popoli maggioritari sono Dinka (quattro milioni) e Nuer (un milione di persone), gli altri contano centinaia di migliaia di individui, come ad esempio i Bari. «Questi due popoli, cugini tra loro, sono entrambi allevatori nomadi, e hanno milioni di vacche. Occorre sapere che nella cultura pastorale la vendetta è un valore fondamentale».

Le frizioni tra Nuer e Dinka erano già state uno dei problemi grossi, durante la seconda guerra col Nord. Tra ’91 e il ’97 Nuer e Dinka, all’interno dello stesso Spla, si erano scontrati, per un contrasto tra i generali Riek Machar (nuer) e Salva Kiir (dinka). I Nuer avevano compiuto un massacro di Dinka a Bor, nel 1991 e per sette anni i due popoli sono stati divisi. Machar si era alleato con il Nord ed era sostenuto con armi di al-Bashir, al quale faceva molto comodo poter controllare la situazione. E questo ha innescato una voglia di vendetta del popolo dinka. Con la mediazione statunitense, il Spla si è ricomposto e si è arrivati all’accordo con il Nord del 2005. Ma le braci sono rimaste accese.

Indipendenza

«Si arriva al 2011 e all’indipendenza. La grossa difficoltà per Machar è stata accettare che il presidente eletto fosse ancora Salva Kiir, e lui fosse rimesso ancora, solo, vicepresidente. C’erano difficoltà e divisioni, anche perché sono due personaggi completamente diversi. Kiir è militare, generale, l’altro invece, pur essendo militare, ha studiato a Londra.

Sono andati avanti per due anni insieme, con grandi difficoltà, poi nel 2013 il gruppo dinka ha preso sempre più il potere e occupato tutte le posizioni nel governo e nel paese. A luglio ha scaricato Riek Machar, e ha mandato via tutti i ministri, sostituendoli con gente del proprio gruppo, per di più non preparata. Il 30 novembre ha smantellato l’ufficio politico del partito unico Splm (Sudan people liberation mouvement)». Intanto, ricorda sempre Moschetti, «si stavano preparando delle manifestazioni di diversi gruppi contro i Dinka. Il governo ha chiesto un dialogo e indetto tre giorni d’incontri: 13-15 dicembre 2013. Alla sera del 15, una domenica, abbiamo iniziato a sentire i primi spari a Juba. Non si erano messi d’accordo».

Scatta così una corsa al massacro dei Nuer a opera dei Dinka. Kiir cerca di giustificare goffamente la violenta repressione accusando Machar di tentativo di colpo di stato. I Nuer, attaccati, reagiscono. Il Spla si divide e nasce il Spla-io, ovvero «in opposition», quello dei Nuer. Inizialmente gli scontri sono a Juba, poi si estendono ovunque sia presente popolazione nuer. Dalle caserme, dove i militari nuer vengono uccisi, ai massacri della popolazione, compiuti sia da militari che da miliziani dinka. Gli stati più colpiti sono quelli a maggioranza nuer, che sono anche quelli a maggior concentrazione di pozzi petroliferi del Sud Sudan: Unity, Upper Nile e Jonglei.

Secondo Moschetti: «In parte si tratta della vendetta del massacro compiuto 22 anni prima ai danni dei Dinka. Ma probabilmente è anche uno dei modi con cui l’élite dinka aveva pensato di far fuori Machar, senza però riuscirci. Lui è scappato, e il governo ha poi accusato le Nazioni Unite di aver agevolato la sua fuga, il che è un po’ assurdo».

La guerra più atroce

La guerra civile Sud-Sud, durata due anni e mezzo è stata particolarmente violenta. Una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sui diritti umani, cornordinata da David Marshall, nel marzo 2016 ha pubblicato un rapporto sulle violazioni. Parla esplicitamente di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi in particolare dalle forze regolari del Spla e dalle milizie in appoggio: «Fino dal 2013 tutte le parti in conflitto hanno perpetrato attacchi conto civili, stupri e altri crimini, arresti e detenzioni arbitrarie, rapimenti e privazioni di libertà, sparizioni forzate, e attacchi al personale Onu e loro strutture. Oltre due milioni di Sud sudanesi sono sfollati interni, quasi mezzo milione nei paesi confinanti, e decine di migliaia uccisi.

«L’ampiezza e il tipo di violenza sessuale – principalmente realizzata dal Spla governativo e milizie a esso collegate – è descritto con bruciante, devastante dettaglio, come l’attitudine alla macellazione di civili e distruzione di proprietà e mezzi di sussistenza», dice l’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite Zeid Ra’a Al Hussein. «Tuttavia la quantità di stupri e stupri di gruppo descritti dal rapporto sono solo una foto della realtà totale. Questa è una delle più orrende situazioni di violazione dei diritti umani nel mondo, con l’uso massiccio della violenza sessuale come strumento di terrore e arma di guerra, ma è stato praticamente assente dall’attenzione internazionale».

Le violazioni continuano per tutto il 2015, anche dopo la firma dell’accordo, e insanguinano in particolare gli stati Unity e Upper Nile, a maggioranza nuer e anche i Wester e Central Equatoria.

Il rapporto Onu descrive inoltre come «civili sospettati di appoggiare l’opposizione, inclusi bambini e disabilli, fossero uccisi, bruciati vivi, soffocati nei container sotto il sole, fucilati, impiccati agli alberi o tagliati a pezzi con il machete». Sempre secondo il rapporto «lo stupro è stato parte di una strategia per terrorizzare e punire i civili». L’Onu riconosce che anche le forze dell’opposizione hanno commesso atrocità, ma a un livello inferiore. Nelle 102 pagine del rapporto si legge che 10.533 civili sono stati uccisi solo nel 2015, fino a novembre, la maggior parte in modo deliberato. Gli inviati Onu hanno poi documentato più di 1.300 casi di stupro nel periodo tra aprile e settembre 2015 e solo nello Stato del Unity.

Museveni appoggia ancora una volta Kiir, inviando pure truppe ugandesi, che saranno di stanza a Bor (capoluogo del Jonglei), per impedire l’avanzata verso Sud del Spla-io, ovvero i Nuer nel Nord Jonglei.

Pressioni inteazionali

Dopo una decina di firme per la pace, sempre disattese, nell’agosto 2015 arriva quella buona. E si organizza il rientro di Machar, che avverrà solo ad aprile dell’anno successivo. Nel frattempo gli scontri continuano. Pochi giorni dopo l’arrivo di Machar a Juba si forma il governo transitorio di unità nazionale.

«Il nuovo governo è esattamente uguale a quello precedente al luglio 2013, quando il vice presidente Machar fu defenestrato dal presidente Kiir». Conferma Samuele Tognetti, rappresentate dell’Ong Comitato Collaborazione Medica, che vive nel paese dal 2013. «Sotto pressione dei grandi donatori inteazionali, in particolare Nazioni Unite, Usaid e Ukaid (le ultime due sono le cornoperazioni governative di Usa e Regno Unito), il presidente è stato costretto a scendere a patti con il rivale. Ha mantenuto anche l’altro vice, quello nominato dopo la cacciata di Machar, il generale James Wani Iggia di etnia bari». Non si tratta quindi di un negoziato, con una mediazione, in cui le parti si sono messe d’accordo, ma di una situazione artificiale nella quale i problemi restano irrisolti. «Al momento non cambia niente. Non vediamo alcun miglioramento generale delle condizioni del Sud Sudan dopo l’insediamento del nuovo governo, avvenuto pochi giorni dopo il ritorno di Machar a Juba» continua Tognetti. «L’economia invece di migliorare peggiora, il dollaro è scambiato contro il pound Sud sudanese 1 a 40. Nel 2013 era 1 a 4. Permangono i campi profughi, anche qui a Juba, e soprattutto negli stati nei quali la guerra è stata più cruenta, ovvero Unity e Upper Nile.

Oltre lo smantellamento dei campi, occorrerebbe poi far ripartire i pozzi petroliferi, fermi a causa della guerra, per rilanciare l’economia e far entrare valuta pregiata, in modo che il cambio e l’inflazione comincino a stabilizzarsi o a diminuire. Ma non sta avvenendo niente e non c’è un programma».

«Le Nazioni Unite vorrebbero chiudere tutti i campi di sfollati entro dicembre» ci dice Angela Osti, che lavora proprio con le vittime del conflitto «ma i ritorni devono essere spontanei e la gente deve tornare nelle zone di origine in sicurezza e in condizioni tali per cui non si crei un’altra crisi umanitaria. Tra gli altri c’è il campo di Bentiu, il più grande con circa 105.000 persone, in una zona di pozzi petroliferi, contesa tra Dinka e Nuer. Nei campi poi scoppiano scene di guerriglia tra le etnie e le strutture sono distrutte e date alle fiamme».

Chi comanda il Sud Sudan

I Dinka, pur non essendo la maggioranza assoluta, sono circa il 35% dei Sud sudanesi, di fatto controllano tutti i posti chiave, e non solo dell’amministrazione. «Noi lavoriamo molto con alcuni ministeri – continua il cornoperante – e possiamo constatare che sono quasi tutti Dinka». Conferma Moschetti: «Le zone petrolifere sono Nuer, ma quelli che ne approfittano sono Dinka. Anche alcune altre etnie, ma loro hanno mangiato miliardi di dollari, senza sviluppare il paese».

«Osserviamo molto nepotismo, clanismo. Gli altri gruppi accusano oggi i Dinka di mettere le proprie persone a tutti i livelli. È anche vero che sono la maggioranza. Poi c’è un’alta corruzione, dovuta ai soldi derivati dal petrolio. Fino al 2011, tutti i proventi dell’estrazione andavano a Karthum, anche se nel Sud c’era un governo semi autonomo, mentre i soldi per far funzionare le cose arrivavano dal Nord. Gli oleodotti vanno tutti dal Sud al Nord, a Port Sudan, dove il petrolio viene imbarcato. E il Sud Sudan deve pagare un dazio fisso a barile, indipendente dal prezzo del greggio sul mercato. Sia i generali del Spla, sia i pezzi grossi del governo hanno ingrossato i propri conti in banca in giro per il mondo, non certamente a Juba».

Nel 2018 sono previste le prossime elezioni presidenziali. Ma «non si possono vivere due anni con una tensione così» ci dice Tognetti. «A livello politico è un rapporto di forza tra due fronti: oggi non si vede una volontà di dialogo tra i due, altrimenti ci sarebbero delle politiche per migliorare le condizioni di questa nazione. Il dialogo deve essere frutto di buona politica che oggi è assente. È una fase molto incerta. Dove si va a finire? Di sicuro la città è militarizzata in modo massiccio, se si accende un cerino nel posto sbagliato, succede un pandemonio».

Ricorda Daniele Moschetti: «Diventa sempre più difficile resistere per la gente. Si mangia una volta al giorno, i salari sono rimasti gli stessi, ma è aumentato tutto, cibo compreso. In un paese che è uno dei più poveri al mondo. Dopo la Siria, il Sud Sudan è il peggiore».

Marco Bello




Nepal terremoto dimenticato


La notizia del devastante sisma che ha colpito il paese nel 2015 è passata veloce. Alle difficoltà orografiche si è sommata l’incapacità del nuovo governo a far fronte alla ricostruzione. I grossi finanziamenti si sono bloccati nella burocrazia. Mentre piccole associazioni continuano a lavorare con e per la gente.

È trascorso più di un anno dal terremoto in Nepal, uno dei paesi più poveri del continente asiatico. Era il 25 aprile 2015 quando la terra ha tremato nella zona tra Kathmandu e Pokhara. Il sisma, di magnitudo 7,9 della scala Richter, è stato seguito da numerose scosse si assestamento. Il governo nepalese, dopo due giorni, ha dichiarato lo stato di emergenza. Il 12 maggio 2015, neanche un mese dopo la prima scossa, la stessa regione è stata soggetta a un altro forte movimento tellurico, di magnitudo 7,4 della scala Richter. Il bilancio totale è di quasi 9.000 persone decedute (difficile stabilie l’esatto numero in una nazione dove vi sono tante case costruite in remote zone di montagna), mentre altre migliaia (16mila secondo i dati delle Nazioni Unite) sono rimaste ferite o costrette a spostarsi dal proprio villaggio. Più di 600mila abitazioni sono state distrutte o gravemente danneggiate. Una catastrofe sia per le perdite umane, sia per la distruzione di siti importanti a livello storico, archeologico e religioso, come lo stupa (monumento buddista) Swayambhunath, considerato il più antico al mondo. Bisogna tornare al 1934 per registrare l’ultimo tra i peggiori terremoti avvenuti nella regione nepalese: all’epoca morirono 8.500 persone.

Di fronte all’ecatombe del 2015 numerose Ong di tutto il mondo si sono attivate per portare aiuti economici e soccorsi tangibili alla popolazione, malgrado le iniziali difficoltà logistiche e le complessità burocratiche. Le prime forme di assistenza si sono concentrate nel fornire alle persone sfollate beni di prima necessità (acqua, cibo, coperte), teloni, ripari per dormire e per proteggersi dalle intemperie. La solidarietà internazionale si è mossa con celerità, manifestando una forte compartecipazione al dramma: privati cittadini hanno elargito importanti donazioni. Tante organizzazioni hanno raccolto fondi per la ricostruzione e svariate nazioni hanno inviato al governo nepalese ingenti aiuti finanziari. A oltre un anno di distanza da questa catastrofe facciamo il punto della situazione.

Una ricostruzione difficile

Migliaia di case, scuole, ospedali, templi e monumenti storici aspettano ancora di essere riedificati. Le difficoltà dipendono soprattutto da fattori burocratici, dalla corruzione e dall’incapacità gestionale del nuovo governo nepalese, installatosi solo nello scorso mese di ottobre. L’inefficienza è stata dimostrata, dapprima, nella gestione dei blocchi in vari punti della frontiera tra India e Nepal, poi con la mancata attuazione dell’Autorità nazionale per la ricostruzione. «È dal dicembre 2015 che si discute di questa proposta, ma sembra sia svanita dall’agenda politica» spiega Patrizia Broggi, vicepresidente di Eco-Himal, associazione di volontariato Onlus (www.ecohimal.org) impegnata nella conservazione delle aree himalayane attraverso la cooperazione con le popolazioni che vi abitano.

«Il governo nepalese – precisa Patrizia – aveva annunciato che avrebbe dato dei fondi a chi aveva perso tutto a causa del sisma. Per questo si era parlato dell’apertura di un ufficio ad hoc per le relative procedure e per la distribuzione del denaro. In realtà, dell’ufficio o dell’Autorità nazionale per la ricostruzione non se ne sa nulla. Sulle prime, sembrava che la problematica principale fosse l’accesso ai fondi messi a disposizione. I richiedenti avrebbero dovuto compilare determinati moduli, ma la maggior parte delle persone che hanno diritto a un sostegno sono analfabete. Per ovviare a questo ostacolo, all’inizio, come Onlus, avevamo pensato di intervenire attraverso un nostro referente locale, che avremmo pagato proprio per assistere alcune famiglie bisognose nella compilazione dei moduli. Oltre alle procedure molto nebulose per ottenere i fondi, in seguito si era ventilata una clausola secondo cui per ottenere un sostegno finanziario sarebbe stato necessario avere un conto corrente bancario, il che è assurdo in un paese come il Nepal. E lo è ancora di più considerate le condizioni socio economiche in cui si trovano le persone colpite dal terremoto».

Fondi bloccati?

Questo è, in effetti, il paradosso di una tragedia che avrebbe potuto essere gestita diversamente. Il Nepal ha ricevuto, grazie alla solidarietà internazionale, più di quattro miliardi di dollari per la ricostruzione, ma la maggior parte di questo denaro è fermo in qualche ufficio del palazzo governativo nepalese.

Gli aiuti sono stati distribuiti con il contagocce e secondo criteri discriminatori. Infatti, come ha evidenziato Amnesty Inteational, gli interventi post terremoto non hanno raggiunto gruppi emarginati a livello sociale ed etnico: l’appartenenza di classe, di casta (un aspetto discriminante che deriva dalla forte influenza culturale esercitata dall’India sul Nepal) e il credo religioso risultano elementi discriminanti per ottenere o meno i sussidi. Sono state proprio queste forme di discriminazione, in particolare a danno delle minoranze madhese e tharu che vivono nella regione meridionale di Terai, a spingere l’India ad attuare un blocco parziale alla frontiera con il Nepal.

Appena insediatosi, il nuovo governo nepalese, con a capo Khadga Prasad Sharma Oli, ha infatti varato una Costituzione che non tiene conto dei diritti e delle peculiarità delle minoranze etniche presenti sul territorio nepalese. La diatriba politico-diplomatica tra India e Nepal, durata dall’ottobre 2015 sino a febbraio 2016, ha aggravato le condizioni in cui versano i terremotati. Nel mese di novembre, il governo nepalese – proprio per affrontare l’emergenza dovuta alla mancanza di carburante – aveva disposto la vendita delle riserve di legna come combustibile. Ciò aveva creato lunghissime code, poiché migliaia di persone ne necessitavano per poter cucinare. Solo agli inizi del 2016 India e Nepal hanno trovato un accordo, culminato in un’intesa che rafforza le relazioni economiche e culturali tra i due paesi.

Piccoli progetti, grande aiuto

Eco-Himal – ci racconta ancora Patrizia Broggi – proprio come altre organizzazioni di piccole e medie dimensioni, riesce a lavorare e a realizzare progetti perché opera direttamente sul territorio, avendo referenti locali fidati e preparati. Sono loro che permettono alle Ong di intervenire concretamente a favore della popolazione.

«Noi di Eco-Himal – precisa Patrizia – una volta raccolti i fondi, li mandiamo ai nostri collaboratori in Nepal. Tra questi ci sono Ghana Shyam Paudel e Narayan Kumar Shrestha. Narayan è nato a Salleri, nel distretto del Solu-Khumbu e con lui ormai collaboriamo da anni, anche perché lavora spesso in Italia, nei rifugi di montagna, nella zona dell’Ossola, in provincia di Verbania».

Grazie a questi intermediari locali, Eco-Himal sta portando avanti progetti concreti nel Nepal post terremoto. «Abbiamo innanzitutto contribuito alla ricostruzione del monastero femminile di Deboche nella valle dell’Everest, che è stato quasi totalmente distrutto. Quando sono stata in Nepal nel novembre 2015 avevo visto che gli operai locali lo stavano già ricostruendo. Questo grazie anche naturalmente alla collaborazione di altre organizzazioni inteazionali che operano sul territorio. Adesso, come Eco-Himal, stiamo indirizzando i nostri progetti d’aiuto nella zona di Salleri, nel Nepal centro-orientale. Per esempio, abbiamo mandato fondi per la costruzione di una strada che permette l’accesso a un piccolo ospedale. Si tratta di una struttura sanitaria che è diventata molto importante dopo il sisma, poiché permette alle persone del posto di accedere a cure immediate. La strada risulta fondamentale per raggiungere l’ospedale.

Poi, sempre nell’area di Salleri, precisamente a Gaidu, stiamo lavorando alla ricostruzione della scuola primaria Ramilo Joati, uno dei sette edifici scolastici della zona completamente crollati. Gli studenti, in tutto 150, oggi fanno lezione all’interno di grandi tende con enormi difficoltà. I problemi non sono solo logistici e pratici, ma anche, soprattutto, psicologici. Molti bambini sono rimasti traumatizzati dal sisma. Quindi, in questo caso, e come in altre situazioni, è indispensabile continuare in parallelo un lavoro di supporto psicologico».

Eco-Himal sta inoltre portando avanti un progetto per sostenere un piccolo orfanotrofio, con sede a Kathmandu, dove sono stati accolti nove bambini, di età compresa fra i 6 e i 10 anni. I bambini ospitati hanno perso il padre o la madre, e sono stati abbandonati. Sono stati avviati anche programmi di adozione a distanza: «Con 500 euro all’anno – ci dice Patrizia – si contribuisce a pagare i libri, i vestitini e la tassa scolastica, quindi l’istruzione di bambini che altrimenti non avrebbero la possibilità di imparare a leggere e scrivere».

Non solo stranieri

Molto attiva nella regione del Timal è l’organizzazione nepalese Sahakarya Ra Bikas (connessa al Nepal Center for Cooperation and Development, Ccd, ccdnepal.org), diretta da Salam Singh Tamang, a cui sono collegate diverse Ong italiane, tra cui Libri contro fucili e 12 dicembre.

Collabora con Sahakarya Ra Bikas anche Enrico Crespi, da oltre un decennio impegnato in Asia nell’implementazione di vari progetti educativi, sanitari e di sviluppo comunitario. Enrico ha lavorato, oltre che in Tibet, Cambogia, Sikkim e Mozambico, anche in Nepal, dove per 13 anni ha visto l’alternarsi di monarchie e governi, il tutto inframmezzato dalla guerriglia maoista. Conosce bene la situazione nepalese ed è per questo che sostiene il progetto «Take care 1 Village Nepal», attivato da un network di Ong proprio per fornire sostegni per la ricostruzione. In particolare, la zona interessata dagli aiuti è chiamata Timal, nel distretto di Kavre. Il progetto è gestito dagli stessi abitanti dei villaggi coinvolti, ovvero Bolde Pediche, Thulo Prasel, Narayansthan, Meche, Chapakori. In quest’area sono crollate 1.519 case, per questo le Ong coinvolte nel progetto hanno individuato le famiglie più disagiate da sostenere e da aiutare. Nel marzo 2016 l’organizzazione Sahakarya Ra Bikas aveva consegnato i fondi per la ricostruzione di due scuole, una con sede a Mukpa (Meche), l’altra ubicata nel villaggio di Dhulkhu.

Emergenza in montagna

Tra i maggiori problemi, oltre alla realizzazione di ripari adeguati e stabili, soprattutto per affrontare le stagioni monsoniche, vi è quello della difficile reperibilità di acqua potabile nella zona del Langtang, duramente colpita dal sisma. In quest’area, situata a Nord di Kathmandu, famosa per le sue vette, è stato istituito, nel 1971, il primo parco nazionale in Nepal. Nel Langtang durante e dopo il terremoto ci sono state moltissime frane, che hanno chiuso le sorgenti. Ciò ha creato enormi problemi legati alla disponibilità di acqua potabile.

In altre regioni, come nel distretto del Solukhumbu frequentato da tanti appassionati di trekking, le maggiori difficoltà sono state risolte. Un problema molto delicato riguarda tutte le aree remote di montagna, non ancora raggiunte da nessuna Ong. Molte persone che abitano in case isolate, dopo il sisma, non hanno ricevuto alcun aiuto e lentamente stanno abbandonando i luoghi nativi e i loro campi coltivati a orzo e ad altri cereali, per raggiungere i centri urbani più vicini. Non avendo la possibilità di ricostruirsi la casa, perché non hanno avuto alcun sostegno, nemmeno da parte del governo nepalese, tanti contadini di montagna cercano altre soluzioni spostandosi dalle loro valli ancestrali.

Un fenomeno, già presente in Nepal prima del terremoto (come in tante altre zone di montagna nel mondo), si è negli ultimi mesi intensificato, producendo un duplice effetto: da un lato, l’aumento delle persone urbanizzate e un affollamento nei campi di tende degli sfollati; dall’altro, lo spopolamento delle aree montane, che può provocare gravi conseguenze a medio e lungo termine. È in queste aree remote che il governo nepalese dovrebbe intervenire, anche per il tramite di progetti specifici, magari concordati e implementati con Ong locali e inteazionali.

Silvia C. Turrin


Ricordiamo che in Nepal sono presenti da anni i missionari Salesiani, Gesuiti e Camilliani, sia italiani che indiani. Tutti sono molto attivi nella ricostruzione con particolare attenzione a ospedali, scuole e case per orfani (ndr).




Italia risorse migranti


Da Trieste a Catania, dal Piemonte alla Calabria, decine di realtà lavorano per accogliere degnamente migranti e rifugiati, vedendo in loro una risorsa, costruendo insieme esperimenti di futuro possibile. Eccone alcune, tra musica, video, radio e case in affitto.

Mori e monti

«Fija mia pijlo pa, che chiel-lì a l’ha la barba» (figlia mia, quello non prenderlo, che ha la barba). Il canto comincia con la classica invocazione del genitore in disaccordo con le scelte sentimentali della figlia, la quale senza timore risponde per le rime. Strofa per strofa, il genitore diffida la testarda fanciulla dal maritarsi con chiunque le piaccia, e lei imperterrita risponde «ma ci vogliamo bene». Il testo è in lingua piemontese. Ma a far rivivere le canzoni popolari delle valli sopra Torino sono sette ragazzoni dalla pelle nera, provenienti da Senegal, Gambia, Ghana. Musa Jobe, Boto Samoure, Maurice Bathia, Alinho Barca Sabaly, Omar Sini, Saiku Senghore e Idrissa Lam sono arrivati come richiedenti asilo nel 2014 tra Pessinetto e Ceres, due paesini delle montagne in provincia di Torino.

«Sono valli chiuse, ed è chiusa anche la mentalità», racconta Luca Baraldo, torinese, trasferitosi qui nel 2009 insieme alla compagna Laura Castelli. «Abbiamo fatto di tutto per integrarci – dice – persino partecipare a un gruppo di canto popolare, che poi abbiamo abbandonato». All’arrivo dei profughi, la coppia si mobilita per cercare di dare un po’ di lezioni di italiano. «A un certo punto eravamo arenati», ricorda Luca. Difficile per due volontari, non professionisti, destreggiarsi tra A di albero e B di bacio con uomini che dall’apprendimento di quella lingua dovrebbero partire nel loro percorso di integrazione. «Abbiamo provato un’altra strada, imparare brani di cantautori italiani, ma nemmeno quello funzionava». Finché un pomeriggio Luca e Laura si mettono a canticchiare in dialetto.

«Le canzoni popolari hanno destato la loro curiosità. E abbiamo cominciato a trovarci per cantare. Inizialmente in 12 o 15, poi il gruppo si è un po’ scremato perché non tutti se la sentivano di fare concerti». Il numero si riduce a nove e nasce così il «Coro Moro»: «In piemontese “moro” vuol dire nero», aggiunge. Concerto dopo concerto, mescolando la tradizione montanara con il linguaggio universale della musica, il coro porta Maurice, Omar e gli altri a sentirsi «paesani delle valli di Lanzo». Alle canzoni popolari si aggiungono strofe ad hoc: «Figlia mia, non lo prendere, che quello lì è un moro»; e nascono nuove canzoni come il «valzer del clandestino». I concerti si moltiplicano e il pubblico aumenta, fino ai quattrocento bambini delle scuole elementari, ai brani cantati in apertura dei concerti dei Mau Mau, e alla collaborazione nel singolo «Sto con chi fugge» del nuovo album della band torinese. «La cosa buffa del Coro Moro è che è una specie di medicina», dice Luca, «perché cantare in piemontese spiazza la gente, soprattutto i razzisti. Vengono alla fine del concerto a dirci: “Ho capito che quello lì potrebbe essere mio figlio”». Di lavoro da fare, però, ce n’è ancora. A due anni dal loro arrivo, a Omar e Maurice capita, per la prima volta, di subire aggressioni: dalla macchina che rallenta per gridare «bastardo» alle ragazze che si affacciano dal finestrino lanciando noccioline. L’altro problema è quello dei documenti, ai quali il coro dedica la rivisitazione di un’altra canzone, l’incontro tra una pastorella e un ragazzo che, alla domanda «come va?», risponde «non mi hanno dato i documenti». Tra burocrazia, attese e ricorsi, l’ambizione del coro è creare un’opportunità reale non solo di fare cultura, ma di lavorare (CoroMoro ha una pagina su Facebook e un canale su Youtube).

«Ci siamo costituiti come Onlus», dice Luca, «e anche se gli incassi non sono molti, in queste valli si riesce a vivere con poco». Già, perché su quei monti i «mori», ci sono finiti per caso. Ma di lasciarli, ormai, non se ne parla.

Tecnologia per i diritti

Dalla tradizione alla tecnologia: a Catania, l’Arci si è messa in rete con un’associazione austriaca per realizzare, attraverso un finanziamento europeo, una video guida on line in sei lingue (italiano, inglese, francese, arabo, farsi e tigrino), consultabile anche dal cellulare, per spiegare, con un linguaggio semplice, i diritti dei migranti e le procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. Accompagnati da illustrazioni o semplicemente nella versione audio, i diversi capitoli della guida Asyl Easy (asyleasy.com) spiegano cos’è la protezione internazionale, quali sono i diritti dei minorenni che viaggiano soli, le conseguenze del Regolamento di Dublino, come funzionano gli incontri con le commissioni territoriali dove si presenta il proprio caso.

I primi a creare una videoguida sono stati gli austriaci dell’associazione Plattform Rechtsberatung, e oggi, a lavorare con le tecnologie e i social network per i diritti di chi cerca rifugio, sono sempre di più. Su Facebook il gruppo «Techfugees» cornordina gli sviluppatori che creano applicazioni e strumenti digitali per i rifugiati: da Refunite.org che aiuta a ritrovare i familiari dispersi durante il viaggio, fino al sito web in cui si può postare il proprio curriculum per cercare in Europa un’occupazione qualificata simile a quella che si aveva nel paese di origine (iamnotarefugee.com). Innumerevoli i gruppi Facebook in cui ci si scambia informazioni su come riuscire a portare a termine il viaggio verso l’Europa: dagli orari degli autobus a qual è il prezzo giusto di una corsa in taxi.

Così, mentre i confini vengono chiusi da nuovi muri o protetti con il lancio di gas lacrimogeni, su internet ci si aiuta a scavalcare le frontiere e farsi riconoscere nella pratica i diritti che sarebbero garantiti dalle convenzioni inteazionali.

Il paese che affitta ai braccianti

Al di là dello stretto di Messina, risalendo la provincia di Reggio Calabria fino alla piana di Gioia Tauro, c’è Drosi, una frazione di 800 abitanti del Comune di Rizziconi. Case basse allineate su poche strade intorno alla chiesa, cactus rigogliosi nei cortili, aranceti tutt’intorno, a tratti interrotti dai filari di kiwi, la nuova coltura che comincia a imporsi soppiantando il profumo delle zagare.

Al piano terra di un piccolo caseggiato, in una casa che divide con altri quattro ragazzi africani, vive Masimbo, un ex bracciante burkinabè che in italiano si fa chiamare Massimo. «Prima raccoglievo arance e mandarini, a giornata. Ora lavoro a Palmi, nella raccolta differenziata dei rifiuti, in regola», racconta con il viso che si illumina di orgoglio nel pronunciare le due parole: «in regola».

Contro una parete, le mountain bike sgangherate che servono per andare al lavoro. Contro l’altra, in fila, gli stivali di gomma verdi e marroni, sporchi del fango degli aranceti. Poi c’è un piccolo spazio con due letti e una tv, prima di entrare nel cucinotto comune: un tavolino, qualche mobile dispensa, fornelli e scaffali ingombri di pentole. Masimbo è uno dei 150 giovani africani che oggi vivono in case in affitto a Drosi.

Rosao, la tendopoli di San Ferdinando e la fabbrica occupata che insieme ospitano, in pessime condizioni igieniche, oltre mille braccianti durante la stagione della raccolta degli agrumi, distano da qui una decina di chilometri. Basta allontanarsi pochi minuti con l’automobile, tra gli aranceti, per trovare altri insediamenti di braccianti, precari e abusivi, in casolari abbandonati.

«Qui ogni famiglia ha i suoi emigranti, chi è andato in Germania, chi in Australia, senza più tornare a casa. È per questo che hanno capito il nostro progetto», racconta Francesco Ventrice, per tutti Ciccio, una delle colonne della Caritas di Drosi. È lui, insieme ad altri volontari, a proporre ai compaesani di sistemare i braccianti nelle case in affitto.

L’idea nasce nel gennaio 2010, nei giorni concitati che seguono la rivolta degli africani e le successive violenze e rappresaglie. Mentre le forze dell’ordine organizzano pullman per trasferire centinaia di immigrati tra Bari e Crotone, e molti altri lasciano la piana di Gioia Tauro in treno, diretti a Nord, a Drosi si decide di puntare sull’accoglienza. «Fin dal 2003 frequentavo gli africani, andavo in tutti i loro accampamenti per aiutarli, portare vestiti, ascoltare i loro bisogni», racconta Ventrice. I braccianti si fidano di lui. I compaesani, pure. Grazie alla fiducia e alla mediazione dei volontari della Caritas, i primi proprietari di case si convincono a mettere i propri spazi in affitto, a un prezzo concordato e abbordabile, ai giovani africani che, dato il clima di violenza, hanno paura a dormire in baracche e casolari isolati e stanno meditando di andarsene anche dai dintorni di Drosi.

Dalle quattro case messe a disposizione in fretta e furia in quei giorni si arriva, anno dopo anno, alle 19 attuali. «In ognuna delle case stanno cinque, sei, sette ragazzi. Il lavoro è stagionale, non tutti restano tutto l’anno. Ma a prescindere da quanti occupano l’appartamento, il pagamento è di 50 euro al mese». Fondamentale il costante lavoro di mediazione svolto dai volontari: «Le spese sono incluse, e spesso ci è capitato di dover spiegare che le luci e gli scaldini elettrici non si possono lasciare sempre accesi», racconta Ciccio, «ma quasi sempre le persone progressivamente si sono rese autonome, e oggi ci sono diversi ragazzi che abitano in case che hanno affittato da soli. Tanti si sono fatti conoscere in paese, e non serve più che siamo noi a fare da tramite». Lo conferma anche Masimbo: «All’inizio, quando noi passavamo per le strade, la gente chiudeva in fretta le finestre. Ora, invece, questo non succede più».

«Perché io ho una storia»

Dall’altra parte d’Italia, a Nord Est, vive Khodadad, afghano di trent’anni. È arrivato via terra dopo un’odissea durata dodici anni, tra rimpalli burocratici, tentativi di integrazione in Grecia interrotti dalle aggressioni fasciste dei militanti di Alba Dorata, respingimenti dall’Inghilterra a causa del regolamento Dublino, ore e ore di viaggio aggrappato sotto un tir fino all’arrivo in Italia con il volto nero di olio del motore, davanti agli occhi di un incredulo benzinaio.

«Quando avrò imparato l’italiano, vorrei fare un libro o un film sulla mia vita, perché ho una storia che non si può credere», dichiara. Intanto Khodadad, che sorride sempre e dopo pochi mesi parla già in modo fluente, inizia con la radio. Nel grande palazzo di Trieste in cui vive, in fondo a un viale alberato a due passi dal centro commerciale Julia, ogni martedì si riunisce la redazione di «Specchio straniero» (amisnet.org/programmi/specchio-straniero).

La trasmissione radiofonica, trenta minuti alla settimana pubblicati sul sito web dell’agenzia radiofonica Amisnet e mandati in onda anche da una rete di radio popolari e comunitarie in diverse parti d’Italia, è curata da Tomas, uno degli operatori del Consorzio Italiano di Solidarietà (l’Ong che gestisce il progetto di accoglienza in collaborazione con il Comune di Trieste), da Stefano Tieri, giornalista, e dai giovani richiedenti asilo: Khodadad, Chagatai, Satar, Daniel e tanti altri. Alcuni partecipano più assiduamente, altri sono ospiti solo per una puntata.

«Abbiamo creato uno spazio radiofonico per dare voce a quelli di cui tutti parlano, ma che non hanno mai spazio per parlare di se stessi», racconta Tomas. Ogni puntata comincia con la rubrica di Satar, giovane afghano che risponde, garbato ma determinato, ai commenti razzisti letti sui giornali. Poi c’è la poesia, prima nelle lingue d’origine e poi in traduzione italiana, una scelta musicale «sempre di autori indipendenti», precisa Stefano, «come quelli che ci hanno fatto la sigla». Infine, ampio spazio a un tema monografico, scelto di volta in volta insieme: dalle vicende migratorie della Balkan Route alla situazione del Kashmir, dal dibattito sul film di Gianfranco Rosi, Fuocoammare, alla puntata in cui la redazione si sposta a Gorizia per descrivere le condizioni di vita del centro di accoglienza.

Daniel, rifugiato e blogger, racconta la storia a causa della quale ha dovuto lasciare il Bangladesh: «Quest’anno sono morti cinque blogger per terrorismo, e il partito politico che è al potere è molto duro verso i dissidenti», spiega tra italiano e inglese. «Ci siamo resi conto che raccontare di sé è essenziale per l’integrazione», riprende Tomas, che insieme a Stefano ha messo insieme, a costo bassissimo, l’attrezzatura di base per realizzare le puntate: un computer con un software di montaggio, due microfoni, due cuffie e una connessione a internet.

«La maggioranza dei richiedenti asilo che arrivano a Trieste viene dall’Asia e in particolare dall’Afghanistan. Si tratta di giovani intorno ai 18 anni sui quali le famiglie investono per farli viaggiare, in modo che sfuggano alle minacce di arruolamento e alle violenze dei talebani», ricorda Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio Italiano di solidarietà e rappresentante dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. E Satar traduce lo stesso concetto con parole sue nella rubrica della radio. «Qualcuno si chiede se abbiamo lasciato le donne e i bambini a casa a combattere – dice – ma non tutte le famiglie possono permettersi questi viaggi costosi e pericolosi. Bisogna fare delle scelte: se adesso è più pericoloso per me stare in Afghanistan, sono io che devo andarmene ad ogni costo».

I ritardi delle istituzioni

Con l’affermarsi della rotta balcanica e la tendenza di molti paesi a rifiutare la protezione umanitaria agli afghani, Trieste è diventata un punto di approdo. Accanto alla stazione c’è un deposito ora semi abbandonato, il silos, che dopo la Seconda guerra mondiale accolse i profughi italiani dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia e ora funge da alloggio precario per quasi tutti i giovani asiatici nei primi giorni dal loro arrivo, a volte anche per più tempo.

Una situazione che il Comune cerca di gestire per trasferire le persone prima possibile in appartamenti. I richiedenti asilo accolti in città sono circa 900 e da alcuni mesi è partito un progetto per ospitare chi ha già ottenuto i documenti presso famiglie, in modo da favorire la creazione di una rete di contatti e l’inserimento sociale. «Sono molti i progetti ben funzionanti in Italia», afferma Daniela Di Capua, direttrice del Servizio centrale dello Sprar, il Sistema di Protezione richiedenti asilo e rifugiati che cornordina le attività di accoglienza degli enti locali. È noto anche a livello internazionale il caso di Riace, in Calabria, paese che si è ripopolato grazie all’accoglienza. La Tent Foundation, in uno studio pubblicato nel 2016, ha sostenuto che per ogni euro speso dagli stati europei per i rifugiati ce ne saranno due di aumento del Pil. Intanto, però, è andata molto sotto le aspettative l’adesione dei Comuni italiani al bando per progetti di accoglienza Sprar nel 2016, e il 70% dei circa 100mila rifugiati nel nostro paese continua a essere accolto in centri straordinari, con un livello di servizi e possibilità di integrazione non sempre all’altezza. «I progetti di accoglienza possono dare occupazione e opportunità», riprende Daniela Di Capua. «Ma ci tengo a precisare una cosa: noi non accogliamo i rifugiati perché muovono l’economia. Li accogliamo perché abbiamo aderito a una norma internazionale che ci impone di proteggere chi fugge. E questa è una cosa che dovrebbe farci molto onore».

Giulia Bondi




Haiti


Nel Nord Ovest di Haiti, un braccio di mare cristallino separa la terraferma dall’isola dei bucanieri. Siamo a Port-de-Paix, il capoluogo del dipartimento più povero e arido del paese. A capo della diocesi omologa c’è un vescovo molto impegnato per la pace sociale, anche a livello nazionale.

Monsignor Pierre-Antornine Paulo, haitiano, è un religioso degli oblati di Maria Immacolata. Ha studiato negli Stati Uniti e a Roma ed è poi stato formatore di futuri missionari nel suo paese. Nato nel 1944, dal 2001 è vescovo coadiutore della diocesi di Port-de-Paix (dipartimento del Nord Ovest) e titolare dal 2008. È stato superiore regionale del suo ordine e dal 2011 è vice presidente della Conferenza episcopale haitiana (Ceh). Un fisico alto e asciutto, mons. Paulo ha un’agenda fitta d’impegni, ma è sempre molto disponibile. Arriviamo da lui un po’ all’improvviso, nella nuova sede del vescovado che deve ancora essere ultimata.

Ricostruzione?

Sono passati più di sei anni dal disastroso terremoto del 12 gennaio 2010, che non ha toccato il Nord del paese, ma la zona della capitale e parte del Sud. Monsignor Paulo ci parla della ricostruzione e ne evidenzia alcuni aspetti: «Positivo è stato l’interesse generale, mondiale, che l’umanità ha manifestato per Haiti. Le chiese in particolare. Interesse in parte finalizzato alla ricostruzione degli edifici, ma più in generale a tutto quanto concee le vittime, ovvero l’assistenza, l’apertura delle frontiere per i profughi, ecc.». C’è stata una grande generosità: molti paesi hanno contribuito e i loro popoli hanno dato denaro, ricorda il prelato, che però è critico: «Ma di tutto quello che è stato raccolto è arrivato ad Haiti, direi, un quarto. Gli altri tre quarti sono andati a degli intermediari, che hanno intercettato questi soldi prima che arrivassero sul terreno. Dei fondi, inoltre, gli attori haitiani, religiosi o politici, a seconda dei casi, non hanno avuto la gestione».

Anche i fondi per la chiesa non sono stati gestiti dalla Conferenza episcopale locale, ma dalle chiese sorelle di Usa, Francia e Germania tramite la struttura Proximité Catholique avec Haiti et son église, «Proche», in sigla, che in francese significa «vicino». In questo modo i tempi delle realizzazioni sono diventati molto lunghi, perché per qualsiasi operazione occorre l’approvazione delle conferenze episcopali straniere. «Quello che si sarebbe dovuto fare secondo me sarebbe stato porsi la domanda: perché c’è stato un così grande crollo di case? Forse c’è qualche problema nel modo in cui costruiamo. La mia idea era quella di formare i professionisti della costruzione, dai muratori agli ingegneri, nei metodi della costruzione antisismica». Il vescovo sta infatti lavorando per mettere in piedi nella sua diocesi una cellula di persone con competenze nella costruzione antisismica.

Un altro aspetto importante, che solo in parte è stato realizzato è il decentramento dei servizi, dalla capitale Port-au-Prince ai dipartimenti.

«A livello educativo il ministero dell’Educazione ha fondato università pubbliche in molti dipartimenti. E questo aiuta il decentramento accademico. Lo stato ha utilizzato le risorse della chiesa, perché molto spesso i rettori di queste università sono preti. È successo a Port-de-Paix, Gonaives, Les Cayes».

Ma purtroppo alcune misure importanti non sono state prese, a cominciare dalla creazione di possibilità abitative in provincia. «Costruire villaggi nei dipartimenti avrebbe aiutato la gente a fermarsi nei luoghi in cui era sfollata. Ma purtroppo è successo il contrario. Sono stati fatti annunci di ricostruzioni a Port-au-Prince. Così chi aveva lasciato la capitale vi è tornato in cerca di abitazione, e addirittura chi non ci viveva prima ci è andato in cerca di fortuna. Il terremoto ha quindi contribuito a sovrappopolare ancora di più Port-au-Prince. E questo per mancanza di visione dei politici. Costruire in provincia avrebbe anche creato lavoro».

Una chiesa «mediatrice»

La chiesa cattolica ha avuto un ruolo molto importante per fare uscire il paese dalla crisi politica del 2013 e accompagnarlo verso le elezioni del 2015, seppure queste non siano andate poi a buon fine ed è oggi in corso una transizione verso nuove elezioni (cfr. MC aprile 16).

Monsignor Paulo, in veste di vice presidente della Ceh, ha partecipato agli incontri sul dialogo inter haitiano detti di «El Rancho», dal nome dell’hotel dove si sono tenuti nel gennaio 2014. «C’è qualcosa di fondamentale nelle relazioni tra haitiani – ci spiega il monsignore -, sia tra governanti e governati, sia tra gli stessi partiti politici, che ci impedisce di andare avanti: una mancanza profonda di fiducia. È la storia di un popolo che è sempre stato deluso da chi lo governava».

La chiesa, cosciente del problema, ha voluto provare a mettere gli haitiani uno di fronte all’altro, per sanare tutti i rancori, con un’«operazione verità». «Per gestire il nostro paese, cosa si deve fare? Si sente che c’è qualcosa che non va. Tutti chiedono il cosiddetto dialogo, sedersi intorno a un tavolo e dire le cose come stanno tra di noi haitiani. Ma se non ci sarà l’occasione di fare questo chiarimento, i problemi saranno sempre gli stessi. Lo abbiamo visto sotto i regimi precedenti e poi con Aristide, Préval, Martelly e ancora con Privert. Questi è il presidente provvisorio appena nominato, con il quale ci sono già dei problemi. Sono questioni ricorrenti, strutturali, non congiunturali».

A inizio 2014 la chiesa ha dunque accettato di giocare il ruolo di mediatrice. Si trattava di sbloccare la creazione del Consiglio elettorale provvisorio e di organizzare le elezioni generali, in ritardo di anni. Le consultazioni avvenute il 9 agosto e poi il 25 ottobre 2015, si sono nuovamente incagliate in quanto contestate da una parte dei partiti.

Mons. Paulo ricorda: «È stato straordinario lo spirito che si era creato, molto positivo, entusiasta. Cosa che ci dice che possiamo sederci e prendere decisioni per andare lontano. Ma poi si sono verificate delle complicazioni che non siamo riusciti a controllare e hanno fatto sì che il processo fallisse. Un aspetto molto positivo è stato vedere che c’era la volontà di conoscersi meglio, condividere le nostre idee».

Ma fuori dalla sala, poi, qualcosa non ha funzionato: «Altre idee hanno condizionato la situazione, con i supporter di certi partiti esclusi dall’incontro. Anche alcuni responsabili di partito, presenti al dialogo si sono chiesti: come possiamo concretizzare quello che abbiamo detto?

A mio parere il successo è stato quello di avere iniziato questo dialogo inter haitiano, di aver vissuto un certo spirito, che fa desiderare di rivivere momenti simili, ma con la volontà di realizzare sul terreno tutto quello che si decide nella sala dell’incontro».

Un dialogo necessario

Si parla di dialogo nazionale, ma ad Haiti la comunità internazionale, in particolare Stati Uniti, Canada e, in misura minore, Francia, e ora anche il Brasile, hanno sempre esercitato una grande influenza. «Il paese si è messo nella condizione di dovere utilizzare l’aiuto della comunità internazionale. Se gli haitiani non arrivano a capirsi tra di loro, su chi ha torto e chi ha ragione, accettandosi, si ha sempre bisogno dell’arbitraggio internazionale. Questo interviene per portare gli haitiani a regolare i conflitti tra di loro».

Se l’incontro di El Rancho era focalizzato sulle elezioni, è stato un incubatore di quello che monsignor Paulo vede come lavoro più approfondito da realizzare, un dialogo inter haitiano. «Avevo sperato che nel corso della transizione in atto, prima di arrivare alle elezioni presidenziali, si fosse potuto istituire un dialogo nazionale, anche prolungando nel periodo della transizione. Un dialogo più allargato, che coinvolgesse più settori della società. È il momento opportuno».

L’impunità è uno dei grandi problemi, così come la corruzione. «Ne abbiamo parlato a El Ranchio. Sono grandi sfide. Tutti noi ne siamo coinvolti; è una questione profonda, radicata nel nostro sistema politico-sociale. Dobbiamo bonificare il tessuto sociale».

Una società civile in difficoltà

La società civile ha avuto nella storia recente di Haiti una grande importanza. Ha però subito attacchi dai diversi regimi ed è molto divisa. Il vescovo di Port-de-Paix è noto per essere vicino ai movimenti contadini della sua diocesi. Durante le elezioni presidenziali e legislative di ottobre 2015 la partecipazione al voto è stata scarsa, e poi manifestazioni di piazza, a volte violente, hanno fatto rimandare e infine annullare il secondo tuo. Da questo impasse è nato l’attuale periodo, con presidente e governo provvisori. «Per quanto riguarda la reazione alle elezioni del mese di ottobre, posso dire che c’è stata una manipolazione di certi partiti politici. Non erano manifestazioni spontanee del popolo. Anche se è vero che la gente non è contenta. Ma osservo l’assenza di una società civile ben strutturata e motivata. Sarebbe il ruolo della società civile quello di fare il contrappeso alla politica. Va bene manifestare per far capire agli attori politici certe posizioni. È giusto gridare e rivendicare, ma senza scivolare nella violenza». E continua: «La società civile ad Haiti è molto debole, quando non è assente del tutto. È un punto sul quale occorre lavorare molto, per attivarla dappertutto, in tutti i dipartimenti. È un bisogno urgente. Abbiamo, inoltre, una certa tendenza che porta ad avere troppi partiti politici: un centinaio hanno corso per la presidenza. È anormale. Ci sono associazioni che si trasformano in movimenti politici e poi candidano qualcuno. Tutto ciò avviene senza preparazione, organizzazione e strutturazione. Credo che quello che ci vorrebbe per i partiti politici è che possano organizzarsi e federarsi, per avee 5 anziché 50, in rappresentanza delle diverse tendenze. Così il popolo avrà più facilità a scegliere».

Scuole «di fede»

La diocesi di Port-de-Paix coincide con il territorio amministrativo del Dipartimento Nord Ovest di Haiti. È l’area più povera del paese, e meno collegata con la capitale, in quanto le due strade di accesso sono sterrate e impervie. La parte più a Ovest viene anche definita Far West sia a causa della difficoltà di accesso, sia del paesaggio semidesertico e punteggiato di enormi cactus. Qui la malnutrizione infantile è una realtà.

«Ho partecipato all’incontro di Aparecida nel 2007 (V Conferenza dell’episcopato latinoamericano, 13-31 maggio), dove ci siamo resi conto di alcuni aspetti, sul piano pastorale. La fede, per noi cattolici, necessita di un approfondimento continuo, affinché diventi adulta. Ci sono cattolici coraggiosi, ma con una fede non molto profonda. È una delle ragioni che portano alcuni a scivolare verso altre religioni, o altre confessioni cristiane. Questo fatto è anche associato a una mancanza di formazione. La dottrina cristiana è una delle più complicate. Abbiamo la trinità, l’incarnazione, l’immacolata concezione, l’assunzione, la redenzione, cose difficili da spiegare. Ero a Miami recentemente, e ho incontrato dei latinoamericani molto attratti dall’islam, perché è una religione facile. Da qui sorge la domanda: come dare una formazione ai nostri cristiani, in modo umano e diretto?

Nella mia diocesi, in tutte le parrocchie, abbiamo creato quello che in creolo chiamiamo scuole “konnessans lafwa” (conoscenza della fede). Otto moduli di formazione, per conoscere la fede: da dove viene, come viverla, le grandi verità. Se fosse stato un uomo a fondare la religione sarebbe a taglia umana, e più facile da spiegare. Gesù è venuto per salvarci, per portare una buona notizia, non per fondare una religione. Ma questa, se è rivelata, diventa difficile abbordarla umanamente».

Un altro aspetto molto caro al prelato è la «chiesa comunità»: «Promuoviamo le cellule parrocchiali di evangelizzazione. Ce ne sono in Italia, a Milano. Papa Francesco ne ha parlato. Si tratta di una replica delle comunità ecclesiali di base (Ceb) dell’America Latina. Io ci credo molto, perché rispondono a una grande questione: tra i cattolici abbiamo una pastorale più funzionale che relazionale. Voglio dire: si va in chiesa ma poi nella comunità non ci si conosce, non c’è una condivisione di fede. È funzionale, nel senso che il prete ha la sua funzione, ci sono i sacramenti, ma poi la relazione di fede tra vicini non c’è.

La pastorale relazionale è qualcosa della chiesa primitiva. Si va a messa e si crea un gruppo che continua a incontrarsi dopo. Queste vogliono essere le cellule, una nuova espressione delle ceb, che noi chiamiamo in creolo «ti fanmi legliz» (piccola famiglia della chiesa). In questo modo vogliamo rinforzare la fede dei nostri cattolici qui nel Nord Ovest».

Marco Bello

 




Marocco la spoglia essenzialità


Anche la stabilità delle antiche cittadine fortificate è fatta di elementi precari come la terra mista a paglia. Mentre la precarietà delle tende berbere offre un sentimento di sicurezza, di contatto con le cose essenziali. E al termine di un breve viaggio si possono avere «incontri» inaspettati: da Charles de Foucauld al «gladiatore».

Partiamo di nuovo e abbandoniamo la strada principale per risalire il fiume, fino alle Gole del Todra: impressionanti muraglie che superano i trecento metri e si innalzano come pilastri di una porta monumentale. Poi, tornati indietro, riprendiamo la strada. Attraversiamo palmeti e villaggi in cui sorgono numerose kasbah. Con questo nome i berberi indicano le fortezze in cui risiedevano un tempo i signori locali con le loro corti e i loro armati. Ce ne sono moltissime, testimonianza della società feudale e tribale di un tempo. A Tinejdad (nella regione di Meknès-Tafilalet, ndr) lasciamo di nuovo la via principale, inoltrandoci nel deserto che, dopo Touroug, diventa sabbioso. Lungo una pista che solo l’autista riesce a scorgere in questa immensa e uniforme distesa, raggiungiamo Merzouga, dove si trova l’albergo. Lì ci attendono i dromedari, a dorso dei quali, dopo circa un’ora tra dune di sabbia altissime su cui saliamo e discendiamo mettendo a dura prova la schiena e i nostri addominali poco allenati per mantenerci in sella, arriviamo in un campo berbero. È circondato da dune alte decine e decine di metri. Nel silenzio interrotto solo dal vento della sera e da qualche verso dei dromedari, ci sistemiamo nelle tende. Sono tende di nomadi, prive delle comodità per turisti che abbiamo trovato in altri viaggi. Poi, sotto un cielo così terso che si possono vedere brillare le stelle nonostante la luna, ceniamo seduti attorno al fuoco. Si riconoscono benissimo Marte, grande e rosso, e la Croce del Sud. Ma lo spettacolo più affascinante è quello del mattino. Ci svegliano presto. Scalata la duna orientale, ci sediamo assistendo all’alba. Dal deserto sorge una luce bianchissima che si fa rapidamente sempre più luminosa ed estesa, finché un sole bianco e splendente si mostra come un’apparizione. Tra le (poche) albe e i moltissimi tramonti cui abbiamo assistito, questa è la più emozionante, per l’esperienza dell’intensa, pura gioia della vita che rinasce, di una natura essenziale, buona e bellissima.

Una bussola tuareg

Quando torniamo, di nuovo sui dromedari, all’albergo di Merzouga, troviamo il giovane Abdullah pronto a condurci nel fantastico giro del deserto da cui è iniziato questo racconto (cfr MC giugno, ndr). Al termine, ci fermiamo in albergo. Abbiamo mezza giornata di riposo. Il giorno dopo riprendiamo il viaggio con Hassan, il fratello di Abdullah, che ci porta a Erfoud e, più in là, a Rissani. Qui sono coinvolto in un’altra notevole contrattazione. Hassan, infatti, ci porta nel negozio di Mohammed, che vende un po’ di tutto ma in particolare giornielli in argento. La trattativa è lunga e paziente, con lui che scrive il prezzo richiesto su un foglio e io che vi aggiungo sotto la mia offerta. Secondo la consuetudine, domande e offerte debbono essere tre, dopo di che si dovrebbe raggiungere l’accordo. Ma non è così. Continuiamo a trattare senza più scrivere le cifre, finché raggiungiamo un prezzo che va bene a tutti e due. Non è una grande cifra. «Tu contratti come un berbero», mi dice Mohammed alla fine mentre, rilassati e sorridenti, sorbiamo l’ottimo tè che ci ha fatto preparare. Forse la cosa, che si è protratta molto, ha affaticato anche lui. Non nascondo di essere compiaciuto, anche se si tratta solo di un cortese complimento. Ci lasciamo andare pure questa volta a discorsi più intimi. Mohammed racconta dei suoi viaggi, con le carovane berbere e tuareg che si muovono tra il Sud del Marocco, l’Algeria, la Libia, fino alla Mauritania e al Mali, in cerca di bracciali, collane, tappeti, e ogni altro bene che possa poi rivendere nel suo bazar. Mi mostra un oggetto d’argento dalla vaga forma a croce, che mi incuriosisce. È una «bussola» tuareg. Si infila il pollice in un’apertura centrale e la si accosta agli occhi. Puntandolo sulla Croce del Sud si possono individuare i punti cardinali e, quindi, orientarsi nel deserto. Con un gesto d’amicizia che mi colpisce, me ne fa dono. Poi mi mostra delle bellissime monete romane. Mi spiega da dove provengono, ma non capisco il nome della località, forse pronunciato in arabo o forse in berbero. Provo a chiedergli, per scherzo, quanto vuole per una di esse, che mi pare di Augusto. Subito, di fronte al paventato riaprirsi di una nuova estenuante trattativa, ci mettiamo a ridere e lasciamo perdere.

«Chiavi in mano»

Salutiamo Mohammed e riprendiamo il nostro viaggio inoltrandoci nella città di Rissani. È giorno di mercato e molta gente vi è confluita dalla campagna. Il mezzo di trasporto, a parte qualche motorino, è l’asino. Così, all’ingresso della città, c’è un grande parcheggio in cui vengono lasciati mentre il padrone va a fare i suoi acquisti. È uno spettacolo vedere quei miti animali allineati in gran numero, legati per un piede a una lunga corda a sua volta fissata con dei picchetti al terreno perché non se ne vadano, mentre mangiano guardandosi ogni tanto intorno. Di fronte al parcheggio, in un altro grande spiazzo, vi sono altri asini, perfettamente bardati. Chiedo se anche quelli sono lì parcheggiati. «Sono in vendita», mi spiega Hassan. «Già tutti bardati?», domando sorridendo. «Come dite voi?», mi risponde la guida, «si comprano “chiavi in mano”».

La valle del Draa

Dopo aver visitato anche noi il mercato, torniamo all’auto. Ci aspetta un lungo trasferimento fino a Zagora (nella regione di Souss-Massa-Draâ, ndr). I colori del paesaggio cambiano. Lo avevamo già notato nei giorni scorsi, ma qui il deserto si trasforma in modo stupefacente: dal rosso vivo, uguale a quello dei nostri campi da tennis, al nero, al verde delle pietre che lo costellano e delle rocce dei monti sullo sfondo. L’aria è tersa e il cielo, anche quando si annuvola, facendo cadere un po’ di pioggia sottile, rimane luminoso. Incrociamo dromedari e pecore che brucano i radi cespugli, e qualche pastore che cammina solitario in lontananza. In alcuni punti si alzano rocce levigate dai venti che ricordano quelle dell’Arizona. Infine entriamo nella valle del Draa, il fiume più lungo e importante del Marocco, formato dalla confluenza del Dadès, che abbiamo incontrato nei giorni precedenti, e dell’Imini. È verdissima e ricca di palmeti. Gli abitanti possiedono appezzamenti, che coltivano per la propria sussistenza. Raccolgono i datteri, producono ortaggi e frutta. Ma le proprietà sono piccole e non bastano a soddisfare le esigenze di famiglie numerose. Da anni, quindi, almeno un membro della famiglia emigra, nelle città del Nord e in Europa. Con le rimesse che manda a casa, si riesce a tirare avanti. Questa agricoltura di sussistenza crea però un serio problema. Per irrigare i propri appezzamenti, i contadini hanno installato pompe che prendono l’acqua dal fiume. Sono talmente tante che ormai l’acqua comincia a scarseggiare. Il governo ha posto limiti severi al consumo, ma non è facile farli rispettare, anche perché, al momento, non paiono esserci alternative.

La kasbah Oulad Othmane

Prima di arrivare all’albergo visitiamo la kasbah Oulad Othmane, una delle più antiche e caratteristiche tra le oltre 200 che costellano la valle del Draa. Costruita nel Settecento da un potente pascià, è abitata ora dai suoi discendenti, ridotti quasi in povertà. È affascinante nella sua spoglia essenzialità. Non ci sono decorazioni, né marmi, né altri materiali che siamo abituati a vedere nelle dimore signorili. È completamente nuda, tutta di terra e paglia. Solo un quadro, di ingenua fattura, mostra lo splendore di un tempo: il pascià, attorniato dalla sua corte, mentre riceve sudditi e vassalli, in una sala che oggi appare povera e buia. Eppure questo palazzo è importante dal punto di vista storico e architettonico: non è stato rimaneggiato, e si conserva quindi perfettamente integro nella sua struttura.

Attraversiamo Zagora, che è una città modea, costruita nel modo di tutte le città del Sud del Marocco, con case di qualche piano, del consueto colore ocra, attraversata da una grande via centrale e immersa nel verde della valle del Draa. L’albergo, come tutti gli altri, è molto accogliente. È ricavato da una grande abitazione tradizionale e ha un giardino lussureggiante e verdissimo.

Charles de Foucauld…

L’indomani è l’ultima tappa del viaggio. Dopo alcune ore ci coglie una nuova sorpresa. In un posto di ristoro lungo la strada, dove ci siamo fermati per bere qualcosa, scopriamo, appeso alla parete, un quadretto in cui è incoiciato uno scritto. Ricorda che qui è passato Charles de Foucauld quando, tra il 1883 e il 1884, ha percorso il Marocco, allora interdetto ai cristiani, facendosi passare per un rabbino ebreo. Aveva lasciato la precedente vita militare dissipata ed era alla ricerca di se stesso: quella che lo avrebbe portato, qualche anno dopo, alla scelta religiosa. Da qui ha attraversato il Jebel Sarho, di cui si intravedono le propaggini, visitando villaggi e zone mai esplorati da un europeo. Volendo, mi dice Hassan, si può ripetere il suo viaggio e, in alcuni giorni, raggiungere la valle del Dadès e la città di Boumalne. Egli è disposto ad accompagnarci. È una proposta molto attraente: le zone sono intatte, non ancora raggiunte dal turismo. In futuro, chissà…

… e «Il gladiatore»

Quando arriviamo a Ouarzazate completiamo il giro che, come un grande anello, ci ha fatto conoscere una parte delle terre berbere. La città è sede di studi cinematografici importanti, dove sono stati girati molti film ambientati nell’antico Egitto e anche il «Lawrence d’Arabia» di David Lean.

Riprendiamo a salire lungo i tortuosi tornanti del Grande Atlante e ci accorgiamo che ha piovuto abbondantemente nei giorni scorsi. I prati e le montagne sono di un verde smeraldo che non avevamo visto passando di qui all’andata. Deviamo dalla strada principale per raggiungere lo Ksar ait-ben Haddu: borgo fortificato sulle pendici di un monte, in cima al quale sorge una torre di avvistamento e difesa. È un luogo ben noto agli operatori turistici, molto bello ma ampiamente rimaneggiato. La parte più bassa, infatti, è stata costruita recentemente, rispettando per fortuna l’architettura tradizionale in mattoni e paglia, per girarvi dei film, tra cui scene del «Gladiatore». È ben visibile l’arena in cui Russell Crowe mostra, in un momento dell’improbabile storia hollywoodiana, le sue capacità combattenti.

La scalata alla torre si rivela un’impresa: è l’una, c’è un sole davvero africano, e non abbiamo ancora mangiato niente. Ci aiuta, per fortuna, il vento fresco e delizioso offerto dagli 800 metri d’altezza del luogo. Una volta in cima, comunque, la vista è spettacolare. Si individuano ancora bene, a qualche chilometro di distanza, le sorgenti dove gli abitanti della città si recavano con gli asini per rifoirsi d’acqua. Oggi c’è l’acquedotto che ha eliminato questa dura incombenza.

Percorriamo il tratto di strada che ci separa da Marrakech tra i paesaggi montani già visti all’andata. In città ritroviamo il nostro delizioso e fresco riad (abitazione urbana tradizionale, ndr). È una bella serata e ceniamo sul terrazzo da cui si gode un grande panorama. Una cicogna, che si avvicina e, quando ci ha quasi raggiunto, compie un’ampia virata, allontanandosi, è l’ultimo spettacolo di questo viaggio.

Paolo Bertezzolo

 




Singapore sovrano regna l’ordine


Stretto tra la Malesia e l’Indonesia, Singapore è uno degli stati del pianeta con più alti redditi, efficienza sociale ed economica, bassissima corruzione. Goveato per oltre 30 anni da Lee Kwan Yew e oggi da suo figlio Lee Hsien Loong, è un paese in cui patealismo, dispotismo e confucianesimo hanno prodotto una limitazione dei diritti civili a cui la popolazione (5,5 milioni di persone appartenenti a tre etnie) pare assuefatta. Sull’immediato futuro incombono poi altri due problemi molto concreti: l’aumento demografico e la mancanza di spazi.

Per sopravvivere bisogna essere eccezionali, ha detto lo scorso maggio Lee Hsien Loong, primo ministro di Singapore. E ammirando al crepuscolo le luci che iniziano a illuminare la piccola città stato asiatica dall’alto del Marina Bay Sands1, non si può fare a meno di convenire che Singapore è una nazione eccezionale. Non per niente l’aggettivo è uno dei vocaboli più utilizzati nella retorica politica cittadina.

Dallo Sky Park2 o dall’Infinity Pool3 la vista spazia a 360 gradi tra cantieri navali, enormi distese di verde e la downtown. Cerco di individuare, inutilmente, il punto in cui, due secoli fa, Sir Thomas Raffles, l’inglese ritenuto essere il fondatore della modea Singapore, sbarcò dall’Indiana, la nave comandata dal capitano James Pearl. Chissà cosa direbbe vedendo come si è trasformato il minuscolo e insignificante porticciolo di poche centinaia di abitanti in cui, nel 1819, era arrivato.

La sua statua, un tempo punto obbligato delle visite turistiche, oggi è pressoché ignorata, schiacciata e umiliata dai grattacieli a cui porge la schiena, quasi a significare l’incomprensione verso quegli alberi di cemento che hanno preso il posto delle palme. Lo sguardo di Raffles si dirige, invece, verso il parlamento e il museo della Civilizzazione asiatica. Il suo nome, del resto, per la maggior parte degli stranieri che scorrazzano per le vie della città, è associato più al candido ed elegante albergo di lusso (il Raffles Hotel) che si affaccia a pochi isolati dal Boat Quay4 piuttosto che al governatore britannico.

Agosto 1965: via dalla Malesia

Colonia britannica dal 1867 al 1962, è la storia stessa ad aver reso Singapore eccezionale, a partire da quel drammatico giorno del 9 agosto 1965, quando il leader Lee Kuan Yew con le lacrime agli occhi annunciò al mondo la separazione del territorio dalla Federazione malese dopo soli due anni. Allora furono in molti a prospettare un futuro di miserie e tribolazioni per la neonata nazione. Priva di risorse naturali e dipendente quasi totalmente dalla Malesia per il rifoimento idrico, il governo dell’isola si trovava in balìa di ritorsioni dall’esterno, nel caso la sua politica avesse irritato Kuala Lumpur.

Nel libro autobiografico The Singapore Story, Lee Kuan Yew denunciava la minaccia dell’allora primo ministro malese Tunku Abdul Rahman di chiudere i rubinetti del canale che da Johor portava l’acqua a Singapore se il governo di questo paese avesse adottato azioni aggressive nei confronti della Malesia.

Inoltre la città si trovava a punzecchiare, come una punta di spillo, un altro colosso asiatico: quell’Indonesia che si accingeva a epurare Sukao e il movimento comunista, particolarmente radicato anche a Singapore. Suharto, che prese il potere con un sanguinoso colpo di stato, era pronto a intervenire nel caso i comunisti fossero andati al potere nella neonata nazione.

Ma, cosa ben più allarmante per uno stato multirazziale, la vigilia dell’indipendenza era stata funestata da manifestazioni sfociate in violenti disordini etnici che, se non sedati, avrebbero potuto far piombare la repubblica in un caos difficilmente controllabile e decretae la fine ancor prima della nascita. La comunità cinese di Singapore si sentiva seriamente minacciata da quella malay, mentre, da parte sua, l’Umno (United Malays National Organisation), il partito di governo malese, temeva che la forza economica di Singapore deviasse il baricentro politico da Kuala Lumpur.

Sviluppo e pugno di ferro

Eppure cinquant’anni dopo Singapore continua a rimanere uno degli stati più benestanti del pianeta, con un reddito pro capite doppio rispetto a quello della Gran Bretagna, la nazione che per due secoli ha colonizzato la città asiatica, accompagnato da indici di sviluppo umani tra i più alti al mondo, una corruzione bassissima e un’efficienza sociale ed economica elevata. Insomma, un’eccezione del mondo asiatico che si traduce in un mercato affidabile per gli investimenti stranieri, che nel 2015 hanno raggiunto il 22% del Pil.

A trainare lo sviluppo è stato lo stesso Lee Kwan Yew, padre-padrone di Singapore, che ha governato con un misto di patealismo, dispotismo e confucianesimo. Opposizioni imbavagliate, censura, restrizioni nelle assemblee pubbliche che coinvolgono più di dieci persone, sono i mezzi che il governo ha utilizzato e utilizza ancora oggi per mantenere l’ordine cittadino in nome dell’armonia e della pacifica convivenza. Il pugno di ferro è servito per mantenere unite le diverse comunità etniche di cui è composta la nazione e a evitare la disgregazione sociale e politica. Le differenze culturali, linguistiche e religiose tra le principali etnie (cinesi, malay, indiani) si ripercuotono, anche se in misura meno evidente di quanto avvenga in Malesia, sulle condizioni economiche. Lavoratori sfruttati con la complicità di diritti sindacali inesistenti hanno nutrito le recriminazioni delle varie comunità, in particolare quella indiana. Nel 2013 a Little India, uno dei quartieri più disagiati di Singapore, vi sono stati violenti scontri.

Di padre in figlio

La scomparsa di Lee Kwan Yew, avvenuta nel marzo del 2015, è stato un colpo emotivo per tutti gli abitanti, ma soprattutto per i partiti dell’opposizione parlamentare che, dopo il calo di voti nelle elezioni del 2011 del «Partito di azione popolare» (Pap), il partito che domina incontrastato la scena politica della Repubblica dal 1959, speravano di incrementare la loro già misera schiera di deputati nel parlamento. Così non è stato: anche se dalla politica si era ritirato ufficialmente sin dal 1990, la dipartita di Lee Kwan Yew ha trascinato ad una nuova schiacciante vittoria il Pap, che nelle votazioni del settembre 2015 ha ottenuto il 70% delle preferenze occupando 83 seggi su 89.

L’immensa folla di persone che ha partecipato alle esequie e ha sfilato per ore davanti alla salma, è stata la dimostrazione del successo della retorica nazionalista adottata dal fondatore di Singapore sin dal giorno della sua indipendenza.

Prima di morire, da buon autocrate, Kwan Yew si è assicurato che il potere restasse saldamente nelle mani della famiglia, manovrando affinché il posto di primo ministro passasse al figlio, Lee Hsien Loong, sin dal 2004, anno in cui il reddito pro capite del paese superò addirittura quello degli Stati Uniti.

Questa mancanza di alternanza al potere ha causato una pericolosa assuefazione al totalitarismo e al rifiuto, anche di parte della popolazione più anziana, di aperture democratiche nel sistema.

Oggi, però, Singapore deve cominciare a fare i conti con il proprio futuro: il sistema scolastico, giudicato tra i migliori in Asia, ha formato una classe di nuovi cittadini più colta e attenta ai mutamenti culturali e politici inteazionali che difficilmente accetterà la politica assolutistica e dispotica del governo.

Immigrazione e spazi

La scarsa dimestichezza con il pluralismo rappresenterà una delle principali sfide per la nazione assieme ad altri due temi scottanti e strettamente correlati tra loro: l’immigrazione e la mancanza di spazio per una popolazione in continua crescita.

Ai ritmi attuali e con una politica di attenta e severa pianificazione dei flussi migratori, la popolazione di Singapore potrebbe, già nel 2030, subire una rivoluzione demografica. Attualmente, secondo il dipartimento di Statistica, il 74,3% della popolazione singaporeana è di etnia cinese, seguita da quella malay (13,3%) e indiana (9,1%). Nel giro di tre lustri, però, metà della popolazione potrebbe essere composta da immigrati, il che ha generato forti preoccupazioni, specie nella comunità cinese, sfociate in manifestazioni di protesta contro la politica immigratoria imposta dal governo. Ad aumentare le tensioni ci sono state le dichiarazioni del ministro dell’Inteo, Kasiviswanathan Shanmugam, il quale, commentando i recenti attacchi terroristici di Bruxelles, ha detto che, per quanto riguarda Singapore, non è più questione se ci sarà o meno un attacco terroristico, ma quando questo avverrà. Il segretariato per la Sicurezza nazionale, l’organismo creato per combattere il terrorismo in città, ha smantellato con successo diverse cellule locali di Jemaah Islamiah, il movimento legato a Abu Sayyaf responsabile dell’attentato di Bali nel 2002 che causò la morte di 202 persone, ma ha anche fatto sapere che altri militanti sono attivi in diversi paesi del Sud Est asiatico.

Infine c’è il pressante e costante dilemma dell’aumento di popolazione e del continuo bisogno di spazio. Nel 1965, all’atto dell’indipendenza, Singapore aveva 1,9 milioni di abitanti e una superficie di 581 kmq. Oggi, a cinquant’anni di distanza, la popolazione ha raggiunto i 5.535.000 di abitanti, di cui solo il 61% (3,37 milioni) sono cittadini della repubblica. Per far fronte all’aumento demografico, principalmente dovuto all’immigrazione, il governo ha avviato una imponente opera di bonifica, accrescendo le aree abitabili del 23% sino a raggiungere l’attuale superficie di 720 kmq e progettando un ulteriore allargamento di 100 kmq entro il 2030. Al tempo stesso, le rigide leggi ambientali autornimposte dal governo, assegnano il 10% del territorio a parchi e riserve naturali.

Nazione minuscola, ma ben armata

Per economizzare l’utilizzo degli spazi, anche le forze aeree del paese hanno istituito sette basi in tre nazioni alleate (una in Francia, quattro negli Stati Uniti e due in Australia). E proprio sulle forze armate Singapore ha puntato, sin dalla sua estromissione dalla Federazione malese, per garantire la propria indipendenza dal pericolo malese e indonesiano. Nonostante che la nazione sia minuscola in confronto con i vicini, la sua capacità militare è tra le più organizzate e preparate della regione, anche grazie alla stretta collaborazione instaurata con Israele, scelto come principale consulente in materia militare. Nel 2015 Singapore ha aumentato del 5,7% il bilancio per la Difesa, raggiungendo i 13,12 miliardi di dollari (il doppio di quanti ne spenda la Malesia), pari al 3,3% del Pil.

Pochi, in verità, a Singapore si lamentano dell’ingente flusso di denaro che viene incanalato nel ministero della Difesa, anche perché molte industrie presenti sul territorio collaborano, direttamente o indirettamente, con i militari.

Singapore è una città eccezionale, ma nella sua unicità ha anche molte sfaccettature che aprono molti interrogativi sulla sostenibilità di uno sviluppo così avanzato in un territorio ristretto. Il governo, inoltre, a fronte del massiccio impiego di forza lavoro da altri paesi, dovrà anche rivedere il concetto di singaporeanità.

Le aperture democratiche che inevitabilmente dovranno essere messe in atto nei prossimi anni, produrranno terreno fertile per la nascita di organizzazioni e individui che chiederanno il rispetto dei diritti civili, ma rappresenteranno anche uno spiraglio verso quei movimenti meno pacifici che da tempo cercano di sfruttare la perfetta logistica del paese asiatico al fine di trarre vantaggio per le loro azioni propagandistiche.

Su questi temi da tempo Singapore sta chiedendo la collaborazione delle nazioni dell’Asean (l’Associazione degli stati del Sud Est asiatico) senza, però, trovare intese.

Piergiorgio Pescali