L’invasione dei «coccodrilli» cinesi


Era conosciuta come la «fabbrica del mondo». Imitava e copiava. Metteva sul mercato merci tossiche e di bassa qualità. Quel tempo è passato. Oggi la Cina produce ed esporta nel mondo prodotti di alto livello a prezzi molto competitivi.

Un coccodrillo può battere uno squalo se si trova a combattere nel fiume Azzurro. Con questa metafora, nel 2003 Jack Ma, fondatore del colosso cinese dell’e-commerce Alibaba, prevedeva in tempi non sospetti come le aziende cinesi (i coccodrilli) avrebbero fatto fuori i concorrenti stranieri (gli squali) intenzionati a farsi largo nel mercato cinese (il fiume Azzurro).

Solo l’anno seguente Taobao, piattaforma di shopping online legata ad Alibaba, superava eBay per vendite in Cina. Con il tempo, storie come questa sono diventate la norma, non l’eccezione.

Pensiamo all’uscita di Uber dal mercato cinese, acquisita nel 2016 dalla rivale Didi Chuxing, tutt’oggi l’app di ride hailing (servizio di auto con autista) più popolare nel Paese.

I progressi cinesi

Per anni si è sostenuto che il successo delle aziende tecnologiche cinesi andasse ricercato nella mancanza di competizione straniera: secondo questa scuola di pensiero, chiudendo il paese a Facebook e Google il governo cinese avrebbe permesso la nascita di surrogati autoctoni, come WeChat e Baidu. Eppure la parabola di eBay e Uber, se non smentisce la vecchia tesi, quantomeno dimostra come la mancanza di alternative non sia sufficiente a giustificare l’afferma- zione delle big tech (aziende tecnologiche) locali. Soprattutto ora che i «coccodrilli» cinesi si stanno mangiando gli «squali» non più nel solo «fiume Azzurro», ma anche oltreoceano.

Nomi cinesi fino a poco tempo fa semisconosciuti hanno conquistato la fedeltà dei consumatori occidentali: TikTok, creatura della cinese ByteDance, governa il mondo dei video brevi. Shein ha rivoluzionato il fast fashion un tempo associato a marchi come Zara e H&M, mentre i cellulari di Huawei e Xiaomi hanno rosicchiato fette di mercato ad Apple e Samsung.

Tra il rallentamento dell’economia cinese, un quadro normativo sempre più stringente, e l’ascesa di competitor nazionali, aumenta il numero delle azien-de tecnologiche cinesi intenzionate (o costrette) a cercare fortuna all’estero. Il segreto del loro successo? Prezzi bassi e prestazioni sempre migliori. È passato il tempo della Cina «fabbrica del mondo», dei prodotti tossici e di bassa qualità. I «coccodrilli» cinesi hanno sempre meno da invidiare agli «squali» occidentali.

Un laboratoio del Guanglong high tech industry park a Guilin, Guangxi, Cina. Foto Glsun Mall – Unsplash.

Il peso delle sovvenzioni

Alla trasformazione ha contribuito enormemente il supporto di Pechino: basti pensare che, secondo rapporti annuali e registri pubblici, al 2019 Huawei aveva ricevuto centinaia di milioni di dollari in sovvenzioni statali, terreni per la costruzione di impianti e appartamenti per i dipendenti, bonus da distribuire ai migliori ingegneri e massicci prestiti da erogare ai clienti internazionali disposti a comprare i propri prodotti. Lo stesso sta avvenendo nel settore dell’automotive.

A inizio gennaio la casa automobilistica cinese Byd ha superato per la prima volta la statunitense Tesla nelle vendite di veicoli elettrici. Traguardo varcato in parte proprio grazie alle sovvenzioni che il governo cinese ripartisce alle aziende automobilistiche, funzionali agli obiettivi ecologici nazionali.

Per il think tank statunitense Csis, la spesa statale nel settore dei veicoli elettrici ha superato i 125 miliardi di dollari tra il 2009 e il 2021.

I cambiamenti

Comprendere l’avanzata globale delle aziende tecnologiche cinesi risulta difficile senza tenere in considerazione il modello di sviluppo promosso da Pechino.

Nati e cresciuti nell’arco dell’ultimo ventennio, i giganti cinesi di internet hanno beneficiato dei cambiamenti vertiginosi che hanno travolto il paese asiatico a partire dai primi anni Duemila: l’urbanizzazione rampante, la costruzione di reti di trasporti e telecomunicazioni, nonché la diffusione dei telefoni cellulari, hanno aperto la strada a nuovi modelli di business, dal commercio elettronico al food delivery (consegne a domicilio), passando per il social commerce (commercio elettronico direttamente sui social).

Ugualmente decisivo, anche se meno evidente, è l’impatto esercitato dalla storia meno recente. Il Ventesimo secolo, con i suoi stravolgimenti, ha posto le condizioni necessarie alla maturazione di uno spirito imprenditoriale. A sostenerlo sono Guoli Chen, docente di Insead (Francia), una delle business school più prestigiose al mondo, e Jianggan Li, fondatore di Momentum Works, società di ricerca con base a Singapore.  Nel loro manuale «Seeing the unseen: behind chinese tech giants’ global venturing» (Vedere l’invisibile: dietro l’avventura globale dei giganti tecnologici cinesi), i due esperti individuano le basi dello sviluppo tecnologico nelle pagine più buie del periodo maoista.

Può sembrare strano, ma anche la Rivoluzione culturale, in tutta la sua brutalità, contribuendo a scardinare le vecchie gerarchie sociali e i potentati locali, ha favorito alcune misure inaspettatamente «business friendly» (favorevoli agli affari): l’imposi-

zione su scala nazionale della stessa lingua (il mandarino standard), dello stesso sistema educativo (nove anni di scuola dell’obbligo) e degli stessi programmi di intrattenimento, ha trasformato la Cina in un mercato relativamente omogeneo, nonostante l’enorme estensione geografica.

Smentendo il luogo comune della Cina brava solo a copiare, Li e Chen attribuiscono proprio a Mao la capacità di riadattare in chiave cinese quanto appreso dall’estero: invece di replicare ciecamente il modello sovietico, che individuava nel proletariato urbano la propria base rivoluzionaria, negli anni Quaranta il Grande Timoniere sconfisse i nazionalisti grazie al supporto delle campagne. Strategia simile sembrano averla adottata la piattaforma di e-commerce Pinduoduo e il venditore di servizi online Meituan: anziché sfidare Alibaba nei grandi centri urbani hanno puntato tutto sulle aree rurali e sulle città più piccole, conquistando una nicchia numericamente consistente anche se con un potere d’acquisto più basso. Risultato: il 29 novembre scorso Pinduoduo ha superato la creatura di Jack Ma per capitalizzazione di mercato.

Un’auto della polizia cinese di marca Byd, produttore in crescita vertiginosa e ormai pronto a invadere i mercati occidentali. Foto James Young 8167.

Modulare l’offerta

Questo approccio incrementale all’innovazione si riflette nella capacità di modulare l’offerta in base alla domanda. Specialmente in contesti poco familiari. In Africa i cellulari made in China hanno schermi resistenti alla sabbia e fotocamere più sensibili alla pelle scura. Nei mercati più competitivi, come quello europeo, per bilanciare l’inferiorità delle prestazioni dei propri dispositivi, i colossi della telefonia Huawei e Zte hanno deciso di fornire un’assistenza al cliente particolarmente sollecita.

L’attenzione per i prodotti costituisce uno dei pilastri della «pop-leadership», l’acronimo con cui Li e Chen spiegano il successo planetario dei «coccodrilli» cinesi: persone, organizzazione, prodotti e leadership sono i quattro fattori che compongono un mix vincente se gestiti correttamente.

Cominciamo con la leadership: l’importanza dei vertici aziendali in Cina è particolarmente evidente proprio nella fase di «go global». Se nel 2020 il fondatore di ByteDance, Zhang Yiming, non avesse predisposto un’espansione verso l’estero, probabilmente TikTok non sarebbe diventata l’app più scaricata al mondo. Né Xiaomi sarebbe diventato il cellulare più venduto in India, se il Ceo Lei Jun non avesse scommesso sul subcontinente, da lui personalmente visitato già nel 2001.

Chi siede ai gradini intermedi della piramide ricopre un ruolo altrettanto decisivo. Quelle che Li e Chen chiamano genericamente «persone».

Negli ultimi anni le big tech cinesi hanno stanziato budget sostanziosi per il reclutamento di risorse giovani e qualificate, non molte quelle disponibili rispetto alla domanda. Nel 2017 Huawei ha raddoppiato gli stipendi a 4mila dollari per arruolare ingegneri in Giappone. Ma non è solo una questione di soldi. I marchi cinesi hanno un netto vantaggio rispetto ai competitor occidentali: possono infatti avvalersi di una vasta comunità diasporica che condivide lingua e abitudini con la squadra in Cina, conosce bene il Paese in cui opera, e sa quindi come adattare meglio la produzione al nuovo contesto.

Raccolta di dati sensibili

Assumere decisioni strategiche, gestire le risorse, e ridefinire i prodotti per le esigenze dei mercati in cui operano, quindi saper «organizzare»: sono alcune delle mansioni che, una volta sbarcate all’estero, le società cinesi delegano ai team in loco. L’obiettivo è, da una parte, riuscire a trovare un equilibrio in tempi rapidi tra standardizzazione e localizzazione dei prodotti. Dall’altra, rispondere ai timori sempre più diffusi sul controllo della tecnologia. Soprattutto dopo l’introduzione di leggi in Cina che da anni conferiscono al governo l’accesso ai dati sensibili.

Problema che TikTok – e non solo – ha cercato di risolvere  (senza troppo successo) separando il marchio internazionale da quello cinese (che si chiama Douyin), creando data center all’estero e team indipendenti nei mercati di sbocco. In India, paese con cui Pechino ha in sospeso contenziosi territoriali, circa 300 app cinesi – compresa Tik Tok – sono state bandite per motivi di sicurezza.

Insomma, il successo dei «coccodrilli» cinesi oltremare non è affatto privo di ostacoli.

Il Partito e la concorrenza

Come dicevamo, l’ascesa delle aziende tecnologiche cinesi è strettamente collegata a un paradigma di sviluppo che prevede un intervento massiccio dello Stato nell’allocazione delle risorse. In Occidente questo basta a parlare di concorrenza sleale. Non giova la crescente ingerenza del Partito comunista, l’unica vera forza politica del Paese, nella gestione economica a scapito dell’imprenditoria privata. Il valore di mercato di Alibaba è crollato ai livelli dell’Ipo (Initial public offering, Offerta pubblica iniziale) da quando nel 2020 la leadership cinese ha lanciato una campagna di regolamentazione contro i colossi nazionali del tech, temuti per la loro capacità di fornire servizi (come microcredito) fuori dai circuiti ufficiali e senza grandi protezioni per i consumatori.

Con il rallentamento dell’immobiliare, la ricerca di nuove locomotive per la crescita cinese sta dirottando l’interesse di Pechino verso i cosiddetti «nuovi tre»: veicoli elettrici, celle solari e batterie al litio. Cambiano i settori privilegiati dal governo ma non il paradigma di sviluppo. Anche i rischi restano grossomodo gli stessi. Se in passato fare affidamento sul settore delle costruzioni, da una parte ha tenuto a regime la crescita economica anche durante la crisi internazionale del 2008, dall’altra ha alimentato una bolla speculativa ormai difficile da domare. Mutatis mutandis, l’enfasi attribuita oggi all’industria verde rischia di tradursi in un nuovo eccesso.

Le auto di Pechino

Secondo il «New York Times», la Cina ha già un numero di fabbriche automobilistiche sufficiente a sfornare il doppio delle macchine necessarie a soddisfare il mercato interno.

Cosa se ne farà il gigante asiatico delle giacenze invendute? A febbraio è salpata da Shenzhen la prima nave cargo di Byd diretta verso i Paesi Bassi, con 5mila automobili a bordo. Per ora l’azienda piazza l’80% della produzione in Cina. Ma i consumi interni stentano a ripartire e il settore presenta già i segni di un possibile stallo, come evidenzia il recente calo dei prezzi delle auto. Seguendo un copione non nuovo, l’Unione europea sta valutando possibili dazi sulle importazioni; la stessa strategia adottata dieci anni fa contro i pannelli solari made in China. Prevedendo «un successo significativo al di fuori della Cina, a seconda di quali barriere tariffarie o commerciali verranno stabilite», il fondatore di Tesla Elon Musk a gennaio ha avvertito che, senza adeguati provvedimenti, i costruttori di auto degli altri paesi «verrebbero sostanzialmente demoliti» dai «coccodrilli» del fiume Azzurro.

Uno schermo mobile con le applicazioni più comuni dei quattro giganti tecnologici cinesi Baidu, Alibaba, QQ di Tencent e MI di Xiaomi.  Foto Riccardo Milani / Hans Lucas / AFP.

Restrizioni e nuovi mercati

Negli Stati Uniti, dove da tempo sono già presenti restrizioni sull’import di veicoli elettrici cinesi, gli spettri cinesi si chiamano Shein e Temu: con il loro modello di business on-demand (beni e servizi su richiesta), le due aziende stanno stravolgendo l’e-commerce statunitense. Disposte ad accettare profitti marginali o persino perdite, hanno ormai fagocitato ampie quote di mercato americano offrendo merci a prezzi stracciati. Non solo. Spedendo pacchi con un valore inferiore agli 800 dollari, Shein e Temu si mantengono sotto la soglia prevista per l’imposizione di dazi. Una situazione a cui il Congresso ha già detto che cercherà di porre fine.

Intanto il clima politico sfavorevole in Europa e America sta spingendo le aziende cinesi verso altri lidi. Secondo il «Nikkei», Byd ha in programma di aprire uno stabilimento in Messico: il paese dell’America Latina, infatti, permette di accedere agevolmente al mercato statunitense grazie agli accordi di libero scambio firmati con Washington.

L’e-commerce cinese, invece, vira verso mete più accoglienti. Ad agosto Temu ha lanciato la sua piattaforma per le Filippine, prima espansione nel Sud-Est asiatico, regione giovane, in crescita e con una consistente componente etnica di origini cinesi. L’oceano non è l’habitat naturale degli alligatori. Ma il fiume Azzurro è ormai troppo affollato e tornare indietro non sembra un’opzione praticabile per i coccodrilli cinesi.

Alessandra Colarizi

 




Se l’arte salverà il Burkina


Silvia è una ragazza tranquilla. Un’intuizione le dice che vivrà lontana dalla sua città di provincia. Studia, poi lavora nel sociale. Ha un’innata propensione all’aiuto agli altri, e una importante vena artistica. Invece di aspettare l’occasione, se la costruisce. E la sua vita sboccia.

Silvia Ferraris è nata nel 1977 ad Asti, e da oltre dieci anni vive a Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso. «Fino da ragazzina – ci confida al telefono – qualcosa mi diceva che avrei vissuto molto lontano dalla mia città. E questa intuizione ha attraversato tutta la mia vita».

Silvia si trasferisce a Torino per studiare Scienze della comunicazione nel 2000. «In quel periodo feci un viaggio con amici in India, e questo mi fece venire l’idea di lavorare nella cooperazione internazionale». Ma le opportunità sono altre e Silvia fa un anno di servizio civile presso l’ufficio minori stranieri: «Lavoravo in comunità con i cosiddetti baby pusher e le ragazze rumene sfruttate. Nel cuore avevo sempre il desiderio di scoprire i luoghi da dove venivano questi ragazzi».

Nel frattempo, continua a formarsi e consegue una seconda laurea triennale in Scienze dell’educazione. Silvia ha una sua «parte artistica» che non trascura: «Facevo i ritratti ai ragazzi delle comunità. Ho poi deciso di iscrivermi alla scuola di arte terapia, a Milano, della durata di tre anni. Questo percorso mi ha dato la possibilità di coniugare due desideri: spendere le mie competenze in una attività di aiuto, e lavorare nel settore dell’arte».

Il grande salto

In quegli anni conosce anche l’associazione Wai Brasil di Torino (oggi Relamondo), e realizza con alcuni soci un viaggio in Brasile.

Ma tutto questo non basta. Silvia segue anche un master in cooperazione «nei week end, così potevo continuare a lavorare». Capisce che deve fare un’esperienza di lungo periodo: «Ho cominciato a preparare questa idea nel 2010 e due anni dopo sono riuscita a partire. Avevo 33 anni».

Silvia ha pensato a un progetto di arte terapia, da attuare in un Paese africano: sarà il tirocinio della sua formazione. Bussa a diverse porte di Ong, ma non trova un appoggio. Poi, una mattina, durante una sua ricerca su internet, appare il nome di una piccola Ong francese: Hamap humanitaire. «Ho scritto loro. Hanno valutato la mia idea e si sono detti interessati a fare un crowd funding per finanziarla. E così parto, con la metà del finanziamento coperto da una raccolta popolare francese».

Silvia vive un anno in Burkina Faso, dove applica quanto ha appreso nella scuola di arte terapia. «In quell’anno ho capito che il popolo del Burkina Faso è permeato dall’arte. La mia proposta di arte terapia era molto simile a tante pratiche locali, ma si trattava di cambiare prospettiva. Ho anche capito che un anno non sarebbe bastato: volevo continuare a scoprire delle cose».

La vita professionale s’intreccia con quella sentimentale: nel Paese conosce il burkinabè che sarebbe diventato suo marito. Dopo un breve rientro in Italia, decidono di stabilirsi a Ouagadougou nel 2014. Intanto nasce la prima figlia. Qualche anno dopo sarebbe arrivato anche il fratellino.

Una nuova famiglia

«La mia vita è diventata la routine dell’organizzazione famigliare, sebbene in Burkina. Le priorità sono cambiate. Ho iniziato a fare diverse collaborazioni nell’ambito educativo. Intanto mio marito si occupava di una fattoria biologica. Ma anche l’arte terapia era un lavoro che volevo fare crescere».

In Burkina Silvia conosce altre persone impegnate nel sociale e nell’arte. Sono Alice Ouedraogo che lavora con un’associazione per i diritti delle donne e dei bambini, e suo marito, l’italiano Stefano Dotti. Poi c’è Véronique, sorella di Alice, impegnata nell’arte dei tessuti burkinabè. Successivamente incontra l’attore di teatro e regista Sie Palinfo, che subito si trova in sintonia con le sue idee. Anche Elisa Chiara, italiana che lavora nella cooperazione, integra il gruppo, che diventa di tre italiani e tre burkinabè, quattro donne e due uomini.

Insieme, danno vita a un’associazione, «Waga studio», dove Waga suona come Ouaga, il diminutivo famigliare con cui è chiamata la capitale del Paese.

«Le prime attività risalgono al 2015, mentre a livello giuridico è registrata dal 2021. L’obiettivo è promuovere il savoir faire locale nell’ambito della cultura, delle arti e del benessere. Ma un’altra finalità è valorizzare l’aspetto “terapeutico” delle arti. Ovvero usare le varie forme d’arte come strumento di sviluppo personale, soprattutto con persone bisognose. Ad esempio, i ragazzi e le donne in situazioni difficili. Questo aspetto è anche frutto della mia esperienza personale, in quanto arte terapeuta».

Il Paese in crisi

Intanto la situazione sociopolitica del Burkina peggiora. Dal 2016 gruppi armati islamisti imperversano nell’interno del Paese, costringendo molte scuole a chiudere e i centri sanitari a evacuare. La popolazione di molte aree fugge e si riversa in capitale, in improvvisati campi di sfollati che vanno a gonfiare i quartieri periferici. Il governo del presidente Roch Marc Christian Kaboré non riesce a mettere un freno. Tale situazione di instabilità porta a un primo colpo di stato militare, il 24 gennaio del 2022 (cfr MC maggio 2022) e a quello successivo del settembre dello stesso anno. La giunta militare è oggi guidata dal capitano Ibrahim Traoré, giovane ufficiale dell’esercito, e demagogo. Di fatto la situazione della sicurezza è peggiorata mentre si sono intensificati gli arresti arbitrari e le sparizioni politiche, perpetrati da emissari del governo militare.

Il Burkina Faso, insieme a Mali e Niger, anch’essi guidati da giunte militari, ha costituito la coalizione «Alleanza dei paesi del Sahel», che ha voltato le spalle agli alleati storici, come la Francia, e si è avvicinata alla Russia di Vladimir Putin.

«Oggi in molti incroci di Ouagadougou hanno messo quattro bandiere: oltre a quella nazionale, quelle di Niger, Mali e Russia», ci dice Silvia, aggiungendo: «è quasi grottesco». Il Paese vive una situazione molto difficile di instabilità, insicurezza e aumento della povertà, acuita dall’incremento dei prezzi dei generi alimentari, oltre che a una grave regressione del processo democratico e del rispetto dei diritti umani.

In tutto questo Silvia non si scoraggia: «Io credo sempre nella saggezza dei burkinabè».

Arti per la vita

Il gruppo di Waga studio scrive un progetto, «Le arti per la vita, appoggio alla gioventù vulnerabile», che viene presentato alla Tavola valdese nel 2022 ed è finanziato nel 2023. Silvia ci descrive le attività: «Il cuore del progetto è una delle finalità di Waga studio, realizzare dei percorsi artistici dedicati ai ragazzi per fare loro conoscere le proprie potenzialità e aiutarli nello sviluppo personale». L’équipe di Waga studio ha lavorato con venti giovani, alcuni dei quali studenti universitari, che erano fermi per una delle tante sospensioni della didattica.

«Abbiamo proposto loro momenti bisettimanali, atelier di alcune ore, di diverse discipline artistiche, secondo un tema. Si trattava, in una prima fase, di un momento di espressione corporea: danza libera con ritmi particolari, ascolto del proprio corpo, esercizi vicini al teatro e alla danza terapia. Seguiva una parte di arte visiva: dopo che ci si è espressi con il corpo, si mette il vissuto sul foglio, oppure sull’argilla. Parliamo di sviluppo personale, perché questo metodo, attraverso l’arte, fa venire fuori qualcosa, un vissuto, da dove vengo, il presente qui e ora, un’idea di futuro.

Una ragazza ha disegnato il suo villaggio, e poi ha pianto. Dovrebbe servire anche per dare risposte, ad esempio a un’idea da realizzare, oppure a un passato che fa male, a un trauma che continua a riemergere».

A questo progetto hanno partecipato anche l’associazione italiana Relamondo e la belga Nyangazam. Poi il finanziamento è finito e così anche il progetto.

Oggi l’équipe di Waga studio segue diverse attività, da atelier di arte terapia con bambini affetti da noma (malattia che colpisce i più piccoli e ne deturpa il volto), al lavoro con un gruppo di donne sfollate, per il recupero della plastica nel quartiere dove sono accampate. In questo caso il fine è il riciclo per realizzare oggetti di utilità o piccole opere artistiche.

Il sogno

Ma il grande sogno di Silvia, che condivide con gli altri membri dell’associazione è la creazione di un centro culturale permanente a Ouagadougou.

«L’idea è quella di valorizzare il potenziale artistico presente in Burkina – ci spiega -, prendendo spunto dal progetto “Le arti per la vita”, utilizzando le competenze artistiche per formare gruppi di giovani all’arte della performance nei vari settori, con l’obiettivo di permettere loro di scoprire il proprio potenziale e di coltivarlo. È come un coaching, attraverso esperienze artistiche». E continua: «Alla fine della scuola ci sono le restituzioni in performance, ciascuno avrà la sua reazione, ma l’importante è il processo di presa di fiducia in se stessi, di consapevolezza del proprio potenziale».

Il centro vuole essere uno spazio la cui «finalità principale è quella di agire da volano di cambiamento sociale attraverso le arti, per promuovere la cultura della pace e del rispetto reciproco in un processo di costruzione di valori comuni», recita il testo che descrive il progetto. E si tratterà di un centro italo-burkinabè, non solo perché realizzato da un gruppo misto, ma perché vedrà una commistione delle arti dei due paesi.

Tante attività

Avrà un ristorante con cucina delle due culture, italiana e burkinabè, e la fusion tra esse, inoltre ci sarà un coworking. Queste due attività dovranno servire anche all’auto sostentamento economico.

Il centro sarà basato su una scuola di performance: «Questo perché la performance racchiude tutte le arti e permette di comprendere al meglio qual è il campo d’azione privilegiato degli allievi. Inoltre ha potenti ricadute arte terapeutiche: il miglioramento dell’autostima, della fiducia in sé stessi, della capacità di ascolto ed espressione davanti a un pubblico».

Nel centro si realizzeranno anche tutte le attività già svolte nel progetto «Le arti per la vita», con atelier di sviluppo personale in coaching e arte terapia, e formazioni professionali di tipo artistico nei diversi ambiti. Si potranno fare anche dei coach a distanza con professionisti in Italia e Belgio.

E poi sarà uno spazio per corsi di fotografia per ragazzi svantaggiati, esposizioni fotografiche e artistiche, atelier di lettura, spettacoli di vario tipo e festival e molto altro.

La questione resta sempre il finanziamento per partire. Silvia e gli altri stanno presentando il loro progetto a diversi enti, ma sono rari quelli disposti a promuovere la cultura. Anche se, in questo contesto, può voler dire occupare giovani, riempire loro un vuoto e toglierli dalle grinfie dei gruppi armati che li stanno reclutando in gran numero.

Silvia, inoltre, sta portando avanti diversi progetti personali, legati alla danza e all’arte visiva.

La scuola di performance è proprio frutto di questo percorso di formazione artistica.

«A volte, l’idea del centro culturale mi sembra un sogno irraggiungibile. Nel periodo storico che sta vivendo il Burkina è ancora più difficile. Però è stato il frutto di una riflessione profonda, e più immagino cosa vorrei realizzare, più vedo quello. Sia per la mia storia personale, sia perché ci sono tanti artisti bravi in questo Paese».

Marco Bello




Il diritto di essere figli


Il numero di adozioni internazionali in Italia è in calo da alcuni anni. Le motivazioni sono tante, dai Paesi che chiudono ai costi troppo elevati. Secondo il presidente di un ente autorizzato occorre cambiare sistema. Per fare sì che i genitori adottivi non siano di serie B.

Non è un Paese per l’adozione. Con il groppo in gola e anche con più di un pizzico di rabbia, è difficile scrivere qualcosa di diverso quando si sceglie di raccontare come vanno le adozioni internazionali in Italia. I numeri sono impietosi, e fa male vedere che in troppi continuano a dimenticarsi del diritto inviolabile di ogni bambino del mondo ad avere una famiglia che possa accoglierlo e amarlo. Il diritto di essere figlio, insomma. Eppure questo diritto, per ragioni che è fin troppo facile individuare, non viene tenuto sufficientemente in considerazione.

Partiamo proprio dai numeri, che regalano una fotografia della situazione. Nel 2023 si è toccato il fondo: i bambini nati in tante parti del mondo che hanno trovato una famiglia in Italia, infatti, sono stati 478, il 15 per cento in meno rispetto all’anno precedente, quando le adozioni erano state 565. Non era andata così male nemmeno nel 2020, l’anno passato alla storia per via della pandemia da Covid, che, comprensibilmente, aveva bloccato anche le adozioni internazionali: allora di adozioni internazionali ce ne furono 563.

Perché il calo

Ma cosa c’è dietro questo calo drammatico? Tanti elementi. Le situazioni di conflitto che hanno coinvolto e continuano a coinvolgere alcune aree del mondo. Scelte – più o meno difficili da comprendere – fatte da alcuni Paesi, che hanno deciso di chiudere all’Italia le adozioni internazionali. Relazioni di politica estera non ottimali. Forse anche il fatto che, mentre sulle pratiche di procreazione medicalmente assistita si puntano i riflettori, sul mondo delle adozioni internazionali capita molto meno. Anche di questo, con un briciolo di cinismo, ma con tanto realismo, non è così difficile comprendere la ragione. Nell’immaginario di una coppia c’è un bambino piccolo, da crescere e magari perfino da svezzare, un «profilo» che non corrisponde all’adozione internazio- nale, la quale rischia di diventare un’opzione di serie B.

Ci sono poi le ombre che hanno velato alcune pratiche del passato (ma non in Italia): in Danimarca, per esempio, l’agenzia per le adozioni internazionali ha chiuso la sua attività per il prossimo biennio, dopo che un’agenzia governativa aveva sollevato dubbi su alcune pratiche adottive concluse negli anni scorsi.

Insomma, sono tempi duri per le adozioni internazionali. E soprattutto all’orizzonte non si vedono possibili soluzioni per risollevare il trend.

Inoltre, alcuni Paesi da cui fino a qualche tempo fa arrivavano in adozione molti bambini che si trovavano in stato di abbandono, hanno iniziato a mostrare nei loro confronti una maggiore cura, agevolando anche le adozioni nazionali, che così avanzano, anche se timidamente.

Ma torniamo ai numeri che raccontano la crisi in Italia: stando al rapporto diffuso dalla Commissione adozioni internazionali (Cai), l’ennesima contrazione del numero delle adozioni concluse nel corso del 2023 è dovuta «ad alcune conclamate criticità riscontrate in Paesi di origine da cui storicamente provenivano molti minori adottati da famiglie italiane quali la Federazione russa, l’Ucraina, la Repubblica popolare cinese e la Bielorussia e da una riorganizzazione interna all’Autorità centrale colombiana che ha rallentato i percorsi adottivi delle coppie instradate nel Paese». Sempre a proposito dello scorso anno, l’India è stato il Paese da cui è arrivato il maggior numero di bambini adottati in Italia: le pratiche concluse sono state infatti 119. Subito dopo, con 71 adozioni, c’è l’Ungheria. A seguire, nonostante i rallentamenti, troviamo la Colombia, con 68 adozioni concluse. Si segnala, nota positiva, che dalla Sierra Leone, realtà con cui gli enti autorizzati hanno iniziato a collaborare recentemente, sono arrivati i primi nove bambini.

Paesi «chiusi»

Come scritto poco sopra, sono decisamente dolenti le note che arrivano dalla Bielorussia, che registra uno zero allarmante, proprio come era accaduto nell’anno precedente, il 2022. A preoccupare, oltre allo zero, ci sono ben 206 procedure pendenti, vale a dire 206 coppie di aspiranti genitori che sono in attesa di abbinamento con il proprio figlio.

Le cose vanno poco meglio nella Federazione russa, che ha chiuso il 2023 con appena quattro adozioni e che ha sospeso fino al 2027 tutti gli enti italiani. Male anche la Cina, dove si sono concluse soltanto due procedure. Proprio riguardo alla Cina si segnalano ben 87 coppie con procedure di adozione pendenti. Tra queste una trentina ha già ricevuto la famosa «pergamena verde», vale a dire l’abbinamento con un bambino che da ormai parecchi anni aspetta di incontrare mamma e papà, in attesa della «pergamena rossa», cioè l’invito ufficiale a recarsi in Cina per poter completare l’intero iter adottivo.

La voce degli enti autorizzati

Infine, una panoramica sugli enti autorizzati: quello che da sempre riesce a concludere il maggior numero di adozioni è il Cifa di Torino, che ha chiuso il 2023 con 44 adozioni. Subito dopo c’è Asa, con 36, poi Gvs, che ne ha portate a termine 28. Abbiamo fatto il punto della situazione proprio con il dottor Gianfranco Arnoletti, presidente di Cifa. «Il Covid ha sicuramente complicato una situazione già di per sé molto critica, perché ha bloccato ogni tipo di spostamento, elemento imprescindibile quando si tratta di adozioni internazionali. Credo però che le motivazioni di una crisi delle adozioni così dirompente siano anche altre – spiega l’esperto -. Penso al tema economico, per esempio. Pur con la possibilità di portare in detrazione fiscale le spese sostenute per accogliere un bambino nato in un Paese lontano, i costi rappresentano ancora un deterrente importante per le famiglie che non possono contare su un reddito alto. Potrà sembrare un pensiero banale, ma sarebbe bello che l’adozione internazionale fosse “gratuita” come quella nazionale, e che quindi fosse lo Stato a farsene carico. E poi ci sono i tempi, che sono oggettivamente lunghi da sopportare anche dal punto di vista emotivo. Perché se è pur vero che l’adozione è quell’istituto che permette a ogni bambino di vedere rispettato il proprio diritto a diventare figlio, è altrettanto vero che non si può pretendere che gli aspiranti genitori siano dei supereroi con il mantello. Sono esseri umani, come ciascuno di noi, e attendere qualcosa come cinque anni è oggettivamente un fardello pesante da sopportare, anche per chi è animato da tanta volontà».

A oggi, stando sempre al report della Commissione adozioni internazionali, le coppie in attesa di concludere la loro procedura di adozione sono infatti 2.395, ed è facile arrivare alla previsione di attesa di ben cinque anni tenendo conto del numero esiguo di pratiche che vengono portate a termine ogni anno. E in un periodo così lungo in una coppia può capitare di tutto, pur con le migliori intenzioni di questo mondo. Anche che si rinunci a diventare genitore.

Bambini Macuxi del Villaggio Jawarizinho

Genitori di serie B

Continua a spiegarci il presidente del Cifa Arnoletti: «La ricerca di un figlio è qualcosa che ormai arriva piuttosto tardi con l’età. Una serie di incertezze con cui si è costretti a fare i conti, anche e soprattutto dal punto di vista economico, portano a rimandare sempre di più la decisione. Capita che i 40 anni si avvicinino senza accorgersene, e a quel punto la via più semplice è quella di provare ad avere un figlio biologico. Capita che poi questo figlio biologico magari non arrivi, anche perché non si è più giovanissimi. Solitamente si tenta con qualche pratica di procreazione medicalmente assistita e poi si arriva all’adozione, come ultima spiaggia. Senza voler giudicare, questo tipo di approccio non aiuta. Resta il fatto che sarebbe davvero bello se questa forma di genitorialità non venisse considerata sempre e soltanto di serie B, come un ripiego a una strada che fino a quel momento non ha portato da nessuna parte». Tanto più che, spesso, soprattutto nelle adozioni internazionali, le proposte di abbinamento sono di bambini inseriti nella categoria special needs. Si tratta di bambini dai bisogni speciali , che spesso hanno più di otto anni e problemi di salute più o meno gravi e più o meno reversibili. Continua a spiegarci Arnoletti: «Senza contare che a volte le informazioni legate allo stato di salute del bambino sono scarne ed è difficile conoscere con precisione le condizioni del piccolino. Che sia chiaro, le mie non vogliono essere parole di terrorismo e l’ultima cosa che desidero è allontanare le persone che scelgono di intraprendere questa strada. Quello che maggiormente mi sta a cuore, come presidente di un ente autorizzato, come nonno e soprattutto come padre di una figlia adottata nell’ormai lontano 1981, è che le adozioni continuino a garantire ai bambini di poter diventare figli e di non restare bambini e basta. L’unica certezza è che dobbiamo cambiare marcia, tutti insieme, e che questo cambiamento deve riguardare l’intero sistema e deve arrivare dall’alto, in modo che ne sia garantita la buona riuscita e la completa trasparenza. Servono misure volte a sostenere le famiglie che nascono, e naturalmente non soltanto quelle che sbocciano grazie all’adozione internazionale».

Burocrazia inutile

«Così come è importante debellare il razzismo – prosegue Arnoletti -, una questione ancora tristemente di attualità, che non può non preoccupare un genitore in attesa di adottare un bambino con tratti somatici diversi da quelli caucasici». Insomma, di lavoro da fare ce n’è tanto. E sarebbe bello che il 2024 potesse essere l’anno della svolta. Magari partendo dagli enti autorizzati. Conferma Arnoletti: «Nel 2023 su un totale di 48 organizzazioni, 9 non hanno concluso adozioni, mentre 29 ne hanno realizzata meno di una al mese e solo uno ha superato le 40. Questo significa che le adozioni si concentrano soltanto su 17 enti, che di fatto corrispondono al 35 per cento di quelli regolarmente registrati nell’albo. Questo quadro è intriso di adempimenti burocratici inutili alla realizzazione della procedura adottiva ma dovuti, caso unico in Italia, per le attività di vigilanza sulla rete degli enti e di raccolta dati. La rete delle autorità centrali volute dalla Convenzione dell’Aja (sull’adozione internazionale, ndr) è molto frammentata e variegata nei compiti e non ha permesso accordi di cooperazione tra Stati in materia di adozioni che abbiano portato a un incremento dei numeri. Che fare? Vedo una sola soluzione: che gli enti svolgano la loro attività in regime di concessione simile a quello dei servizi forniti da privati alla pubblica sanità. In questo si potrebbero assistere in modo appropriato le coppie alle prese con le difficoltà di inserimento di un minore nella società, senza dover badare alle risorse disponibili. L’albo degli enti autorizzati andrebbe rivisto sulla base di un’attività annuale minima che consenta di formare una squadra compatta con l’autorità centrale per affrontare le sfide che il mondo ci pone per rispettare i diritti dei bambini».

Già, i bambini. È per loro che vale la pena lottare. Perché l’adozione è anche gioia, come raccontano mamma Claudia e papà Fausto che, dopo avere adottato in Cina, nel 2015, il loro Lorenzo Ai Guo, da pochi mesi sono tornati in Italia con Poornima Sofia, adottata in India: «Che percorso incredibile è quello dell’adozione! Noi la definiamo una giostra che alterna tante emozioni. Siamo partiti sette anni fa con grande slancio per la nostra seconda disponibilità, ma poi il cammino è stato tortuoso e difficile, tanto che in alcuni momenti abbiamo pensato di mollare tutto. Il nostro primogenito ci ha dato la forza di andare avanti, combattere, perseverare e finalmente eccoci qua con il nostro pezzettino mancante, il nostro dono grande. Non potremmo essere più felici e fieri della nostra famiglia colorata. Alle coppie in attesa diciamo di non mollare perché la felicità è dietro l’angolo, e vi assicuriamo che prima o poi arriva e tutte le fatiche a quel punto svaniranno. Forza, quindi!».

Paola Strocchio




Paradosso conservazione

 


Ambientalisti poco radicati nell’ambiente, governi che fingono di proteggere la natura dei loro paesi per interessi economici. Il tutto a scapito delle culture e della sapienza ancestrale locali. Come si sdoganano pratiche non appropriate per la conservazione degli ecosistemi. In tutto il pianeta.

Come anche le persone più distratte si saranno accorte, a volte le tragedie sono simili a Nord come al Sud del mondo, ma la portata è ben diversa. Ad esempio, in Europa gli incidenti stradali di mezzi pubblici coinvolgono raramente più di poche persone, mentre ad altre latitudini le vittime si contano spesso a decine. Idem per attentati, malattie, infortuni sul lavoro, scontri di piazza e così via. Negli ultimi deccenni si è fatta strada un’altra similitudine: i paradossi del conservazionismo ambientale.

Nel nostro Paese la questione si è resa evidente nel nuovo millennio con il ritorno del lupo che, a partire dai pochi nuclei sopravvissuti sull’Appennino centromeridionale (dove alla fine degli anni Sessanta aveva raggiunto il minimo storico di nemmeno cento unità), in virtù delle misure protezionistiche, si è rapidamente diffuso verso nord e ora conta di oltre 3.300 esemplari in tutta Italia.

Il Piemonte, per la sua conformazione che lo rende un ponte naturale tra aree alpina e appenninica, è la regione montana maggiormente interessata al fenomeno e oggi vi si trova più di metà dei circa mille lupi censiti sulle Alpi italiane. Man mano che il numero di esemplari cresceva, alla soddisfazione degli ecologisti andava affiancandosi la preoccupazione, ben presto trasformatasi in aperta protesta, degli allevatori. Le predazioni sul bestiame allevato sono infatti cresciute di pari passo, e le misure di prevenzione (recinti elettrificati, cani da guardiania e pastori retribuiti) proposte dal programma Life Wolfalps dell’Unione europea, si sono rivelate applicabili ed efficaci solo in alcuni casi.

Nel contempo, la concessione dei pascoli comunali in affitto al migliore offerente, misura decisa in sede comunitaria, ha di fatto favorito le grosse aziende e cooperative, molte delle quali costituite ad hoc per ottenere fondi pubblici.

Alla conseguente moltiplicazione delle frodi ha fatto seguito un inasprimento dei provvedimenti da parte di carabinieri forestali e aziende sanitarie locali, penalizzando ulteriormente le piccole unità produttive che mal si adattano a richieste troppo fiscali (scadenze burocratiche, controllo sull’identificazione degli animali, aggiornamento puntuale dei registri aziendali, ecc.). Va poi tenuto conto che in Italia la maggior parte dei piccoli allevatori ha un’età media relativamente elevata, per cui i fattori citati sopra hanno agito su un tessuto sociale di per sé fragile e poco incline al cambiamento. Di fatto, negli ultimi anni un numero crescente di piccoli allevatori ha chiuso i battenti, con conseguente abbandono di aree montane che prima venivano tenute in ordine da essi a costo zero per la comunità. Il conseguente danno ambientale è enorme, poiché numerosi studi evidenziano senza ombra di dubbio come l’abbandono delle attività agro-silvo-pastorali comporti inevitabilmente una diminuzione della biodiversità e un aumento dei rischi idrogeologici.

Ma non è tutto, bisogna mettere in conto anche il ruolo sociale svolto dal piccolo allevamento, ad esempio nel prevenire l’inattività degli anziani, e trasmettere i saperi alle giovani generazioni per non perdere i patrimoni culturali. Non a caso, in un articolo apparso su MC nel luglio del 2017 veniva segnalato che «la montagna, se non è vissuta e protetta dai residenti, crolla».

Ambientalismo da città

In Italia l’ambientalismo ha avuto tra i suoi molti esponenti, a partire dagli anni sessanta, uomini politici come Arturo Osio e Fulco Pratesi, che nel 1967 hanno fondato la sezione italiana del World Wildlife Fund (Wwf). Come avvenuto per altri sodalizi di rilevanza nazionale (un esempio tra tutti è il Club alpino italiano), la spinta costitutiva è venuta da ambienti politico culturali del tutto estranei a chi in montagna doveva guadagnarsi da vivere faticando ogni giorno; pertanto, l’attività di tali enti si è sviluppata, nel migliore dei casi, a latere dei contesti sociali rurali, avendo invece come protagonisti alcuni cittadini che consideravano l’ambiente naturale in termini ideali e ricreativi. L’integrazione tra i due mondi è stata minima per cui, quando ci si è trovati di fronte a un punto forte divergente, come la questione del lupo, la contrapposizione è risultata molto dura.

Oggi, a causa dell’eccessiva importanza acquisita dai social network, anche a tale riguardo si sono formati due schieramenti che cercano di screditarsi l’un l’altro invece di dialogare.

Io ho lavorato trent’anni in qualità di veterinario pubblico in Val d’Ossola, incontrando centinaia di piccoli allevatori, e nessuno di loro è favorevole al ritorno del lupo. Vorrà ben dire qualcosa.

Fuori gli indigeni

Ma allarghiamo lo sguardo: secondo i dati di Survival International, al mondo esistono ben 120mila aree protette che coprono il 13% delle terre emerse. Il problema è che diversi milioni di indigeni, che su tale superficie si procuravano il cibo, sono stati sfrattati e si sono trasformati in «rifugiati ambientali». Dal 1872 (anno di fondazione del parco nazionale di Yellowstone, il primo al mondo) a oggi, la decisione di istituire delle misure conservazioniste in determinate aree è stata presa ignorando cultura, interessi e opinioni di chi ci viveva. Si è discusso a più riprese sui benefici per le specie da proteggere, sull’estensione di tali aree, sulle regolamentazioni di utilizzo, sui finanziamenti necessari e via dicendo, ma, anche quando lo si è fatto in buona fede, quasi sempre è stato dal di fuori.

Il grave errore metodologico è stato lo stesso commesso nel caso della cooperazione internazionale, laddove progetti decisi da esperti che vivevano altrove, sono stati calati sulla testa degli abitanti locali ignorandone la competenza elaborata attraverso secoli di vita in quei luoghi. Non a caso, in occasione del quinto congresso dell’Unione internazionale per la conservazione della natura svoltosi a Durban (Sudafrica) nel 2003, una delegazione di popoli indigeni ha rilasciato una dichiarazione in cui affermava che «prima ci hanno sfrattato in nome di re e imperatori, poi nel nome dello sviluppo e ora nel nome della conservazione». Oggi, dopo decenni di «cattedrali nel deserto», la valorizzazione delle esperienze locali si sta facendo strada in vari programmi di cooperazione, seppur a fatica e non certo abbastanza. Nel contempo, studi sempre più precisi riconoscono la validità delle metodiche di gestione tradizionale dell’ambiente. Tra questi, MC dello scorso novembre segnala una ricerca, pubblicata dalla rivista Nature sustainability a inizio 2023, che mette in risalto il ruolo importante delle popolazioni indigene nella conservazione forestale.

Infatti, secondo il rapporto Parks need people, redatto da Survival International nel 2014, la stragrande maggioranza dei luoghi a più alta biodiversità al mondo si trova in aree abitate da popoli tribali, i quali hanno saputo conservarla mirabilmente proprio perché si trattava di una qualità necessaria alla loro sopravvivenza. Ritenere che biologi e operatori turistici sappiano fare meglio, è un esempio di supponente arroganza.

Sviluppo e conservazione

Si commetterebbe però un errore a pensare che il cosiddetto «altrove» nel quale vengono prese decisioni sulla testa della gente abbia sede solo nei Paesi del Nord del mondo. Al contrario, certe politiche sviluppiste e conservazioniste sono oggi portate avanti soprattutto da funzionari dei governi e delle Ong di Paesi africani, asiatici e sudamericani sul territorio dei quali tali politiche vengono applicate. «Più realiste del re», queste figure non esitano a varare misure e progetti che possano inserirsi in programmi di sviluppo e conservazione elaborati dalle grandi agenzie internazionali, così da riceverne i finanziamenti.

Nel periodo coloniale, le risorse dei suoli intertropicali erano destinate ad arricchire le nazioni occupanti. Oggi il meccanismo non è cambiato, ma si è parzialmente rimodulato nello spazio, cosicché nelle capitali di tanti Paesi del Sud del mondo, Africa in primis, si sono sviluppati dei centri direttivi che, in sinergia con i dettami provenienti da governi stranieri e dalle grandi agenzie internazionali, sfornano politiche che scavalcano culture e interessi del mondo rurale in nome di uno sviluppo incentrato su forme e modi importati dall’estero. «Anche noi abbiano diritto ad avere le cose che avete voi», mi sono tante volte sentito dire da persone africane che vivono in città. Peccato che questo «avere» per pochi si traduca in un «togliere» per molti.

In altri termini, di tanti progetti pensati al Nord, ne hanno beneficiato solo un piccolo numero di persone, le quali potevano permettersi di adeguarsi alle nostre idee sviluppiste occidentali. Si è così contribuito a formare dei piccoli nuclei di persone egoiste tanto quanto noi. E le politiche di indebitamento proposte e consentite, sulle quali si sono poi innestati gli aggiustamenti strutturali imposti dal Fondo monetario internazionale per far fronte a tale debito, hanno costituito lo sfondo sul quale tutto ciò si è realizzato.

Guerrieri maasai seduti in cerchio.

Il caso Ngorongoro

Un esempio eloquente è quello del famoso cratere di Ngorongoro che, con i suoi 16 km di diametro, è in diretta continuazione con il celebre parco nazionale del Serengeti, in Tanzania. Frequentato dai pastori locali da tempo immemorabile, non ha mai avuto problemi di sovra sfruttamento poiché i suoi pascoli e le sue fonti idriche riuscivano a soddisfare le esigenze di ruminanti domestici e selvatici allo stesso tempo, e poiché la caccia tradizionale avveniva nel rispetto di norme conservazioniste tramandate da una generazione all’altra. Tuttavia, a partire dagli anni 60 si sono levate alcune voci preoccupate per determinate specie che sarebbero state a rischio, e da quel momento in poi l’accesso per le mandrie locali è stato sempre più ridotto. Nei decenni seguenti, l’apertura a operatori turistici ha fatto aumentare il numero dei visitatori annui fin oltre il mezzo milione. Si è quindi capito che il problema non erano i piccoli allevatori del posto, tanto che nel 2013 il governo tanzaniano ha dovuto riconoscere che «i pastori tradizionali masai sono di fatto degli ottimi conservazionisti» e a considerazioni analoghe sono giunti anche i consulenti della Banca mondiale.

L’esperienza ha infatti mostrato che, allontanando i popoli indigeni dai parchi, non solo si contribuisce allo sviluppo di un tessuto sociale di persone culturalmente sradicate, le quali cadono più facilmente preda di alcolismo e piccola criminalità (se non addirittura, in certi casi, finiscono per diventare manovalanza alle compagini terroristiche), ma si priva il territorio di un efficace controllo, a costo zero, nei confronti del bracconaggio su larga scala, della diffusione di specie invasive che diminuiscono la biodiversità e degli incendi, questi ultimi ben diversi dei tanto discussi interventi tradizionali di diserbo tramite fuoco messi in atto sotto la sorveglianza dei pastori stessi.

Saggezza versus economia

Purtroppo, come spesso accade, la saggezza derivante dall’esperienza viene trascurata dagli interessi economici di parte. Così, si contrabbanda come «ambientalista» la ridicola proposta di continuare a sostenere un’economia basata sullo sfruttamento di risorse energetiche fossili controbilanciandola con l’istituzione di aree protette sul 30% delle terre disponibili, nell’ottica di ciò che vengono definite «soluzioni basate sulla natura» (in inglese Nbs). In questo modo, per non mettere in discussione il diritto a inquinare di popolazioni ricche e nazioni emergenti, si condannano alla scomparsa popoli e culture che su quel 30% di terre hanno sempre vissuto in modo ecologicamente sostenibile e che verranno privati dei basilari mezzi di sostentamento.

Il paradosso è simile a quello che riguarda la produzione di auto elettriche: mentre in molti si rallegrano per il notevole progresso ecologico, in pochi si preoccupano per le terribili condizioni alle quali sono sottoposti i bambini in Repubblica democratica del Congo che vengono sfruttati nelle miniere dei minerali necessari a realizzare le batterie.

Intanto, attorno alla fauna selvatica circolano somme da capogiro, e in Africa subsahariana (dove il numero di persone sottonutrite ha superato i 280 milioni) i cacciatori stranieri pagano fino a 60mila euro per abbattere legalmente un elefante o un leone.

Forse sarebbe il caso di rimettere la persona al centro di ogni ragionamento.

Alberto Zorloni




Somaliland. L’accordo della discordia


Il Paese cerca il riconoscimento internazionale, mentre l’Etiopia cerca il mare. I due annunciano di aver siglato un accordo. Ma la Somalia non ci sta e rivendica la sua sovranità su un territorio autonomo – di fatto – dal 1991. I grandi della terra si schierano per l’integrità territoriale somala, che in realtà non esiste.

Non c’è. Sulle cartine geografiche non si trova. Ufficialmente non ha una capitale, né confini. Non fa parte di grandi organizzazioni internazionali. Non ha rapporti (ufficiali) con altri Paesi. Il Somaliland è una nazione fantasma. Eppure esiste. Ha un presidente, un parlamento e istituzioni democratiche. Ha una posizione strategicamente rilevante all’imbocco del Mar Rosso e una propria economia, anche se molto povera. Da 33 anni chiede un riconoscimento ufficiale ma, finora, nessun Paese al mondo gliel’ha mai accordato. Almeno finora, perché dal primo gennaio il Somaliland è entrato con prepotenza e astuzia nella politica africana e rischia di minare i già fragili equilibri della regione orientale del continente.

Una terra pacifica

Per comprendere meglio la tormentata vicenda del Somaliland bisogna fare un salto indietro nella storia e, in particolare, al 1960, anno che rappresenta una svolta per la Somalia. Un tempo divisa tra la colonia italiana, al Sud, e quella britannica (Somaliland), al Nord, al momento dell’indipendenza si forma un unico Paese, all’insegna di un nazionalismo che vuole superare le divisioni causate dal passato coloniale. La Somalia vive una breve primavera democratica per poi trasformarsi in una dittatura sotto il pugno di ferro del presidente Mohamed Siad Barre, un ex carabiniere, molto vicino ai governi di Roma.

Il suo regime è particolarmente repressivo e dura un ventennio ma, progressivamente, si indebolisce fino a crollare definitivamente nel 1991. Sgretolandosi, lascia un vuoto di potere che viene presto occupato dai signori della guerra e dalle loro milizie. Nelle regioni meridionali, un tempo ex colonia italiana, si scatena un conflitto civile i cui effetti si trascinano fino a oggi. Nel Nord del Paese quella che era l’ex colonia britannica prende le distanze dal Sud e dalle lotte fra le varie cabile (gruppi clanici, ndr).

Nel 1991, di fronte al collasso delle istituzioni di Mogadiscio (la capitale, nel Sud), il Somaliland dichiara la propria indipendenza, elegge Hargeisa come propria capitale e crea nuove istituzioni e un esercito. Per un trentennio rappresenta un modello di stabilità in una regione dominata dai conflitti (pensiamo alla guerra civile nella vicina Somalia, a quella tra Eritrea ed Etiopia, a quella in Tigray). In verità, qualche tensione la vive anche il Somaliland che lotta contro cellule di terrorismo islamista e contro il Puntland, la confinante regione somala, con la quale ha una disputa territoriale. Fondamentalmente, però, rimane un Paese pacifico.

Dal punto di vista economico intrattiene relazioni informali con l’Etiopia e ha stretti rapporti commerciali e industriali con Taiwan, altro Stato paria a livello mondiale. Le grandi organizzazioni internazionali e regionali e i principali attori della politica internazionale continuano a negare ad Hargeisa quel riconoscimento politico che ne sancirebbe l’indipendenza. La comunità internazionale, da sempre, ribadisce la volontà di mantenere l’unità territoriale somala e la stessa Somalia continua a rivendicare la propria sovranità sulla regione settentrionale.

Una nuova intesa

Lo stallo si rompe il primo gennaio 2024. Etiopia e Somaliland annunciano di aver siglato un’intesa che prevede un accesso facilitato della prima al porto di Berbera e la possibilità per le forze armate etiopi di costruire una base navale sul Golfo di Aden. L’accordo è stato cercato con determinazione soprattutto da Addis Abeba. Con l’indipendenza dell’Eritrea nel 1993, l’Etiopia si è trovata senza uno sbocco al mare. I porti di Massaua e di Assab che, fino ad allora, erano serviti per l’export delle merci attraverso il Mar Rosso, passarono sotto la sovranità di Asmara. La successiva guerra combattuta da Eritrea ed Etiopia alla fine degli anni Novanta ha precluso definitivamente le banchine degli scali eritrei alle aziende etiopi. Gli unici sbocchi al mare rimasti per Addis Abeba sono quelli di Port Sudan e di Gibuti che però sono lontani e male collegati, almeno fino a pochi anni fa, quando sono state costruite migliori tratte ferroviarie e stradali.

Per l’Etiopia la ricerca di uno sbocco al mare diventa una priorità assoluta. Il 19 ottobre, il premier Abiy Ahmed dichiara: «Un Paese di 150 milioni di abitanti non può essere tenuto in una prigione geografica. E come non è un tabù discutere del Nilo con Sudan ed Egitto non deve esserlo per il Mar Rosso e l’Oceano Indiano».

Successivamente, rincara la dose citando un famoso generale, Ras Alula, che nel XIX secolo aveva dichiarato che il Mar Rosso è il confine naturale dell’Etiopia e che Addis Abeba «vuole ottenere un porto con mezzi pacifici. Ma se ciò fallisce, useremo la forza».

L’opposizione internazionale

Da qui le trattative a 360 gradi e la disponibilità del Somaliland a siglare un accordo dietro la velata promessa di riconoscimento politico da parte etiope. L’intesa che ne è scaturita cozza però contro una serie di scogli diplomatici. Stati Uniti, Unione europea, Cina, Unione africana e Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, organizzazione dei paesi del Corno d’Africa, ndr) la condannano, fin dal primo momento. Tutti si proclamano a favore dell’integrità della Somalia che, da sempre, rivendica la propria sovranità sulla regione settentrionale.

Molly Phee, sottosegretario di Stato per gli Affari africani degli Stati Uniti, dichiara, secondo quanto riporta il sito Shabelle media, che la violazione della sovranità della Somalia da parte dell’Etiopia potrebbe essere «un ostacolo alla guerra contro al-Shabaab (milizia jihadista legata ad al Qaeda che da anni opera in Somalia, ndr)». E aggiunge: «Siamo preoccupati che l’accordo Somaliland-Etiopia possa ostacolare la nostra lotta comune che, negli ultimi anni, ha visto anche Addis Abeba in prima linea». Il governo Usa inoltre afferma di sostenere i colloqui tra il governo federale di Mogadiscio e quello di Hargeisa sul futuro del Paese all’insegna dell’unità.

Anche la Cina si dice preoccupata per l’intesa. Pechino è interessata alla stabilità della regione orientale dell’Africa (strategica per le rotte commerciali Europa-Asia), ma anche alla situazione interna. Un eventuale riconoscimento del Somaliland rischierebbe di diventare un precedente che Taiwan potrebbe far valere nei confronti della Cina continentale. «La Cina – dichiara Mao Ning, portavoce del ministro degli Esteri di Pechino – sostiene il governo federale della Somalia nella salvaguardia dell’unità nazionale, della sovranità e dell’integrità territoriale. Ci auguriamo che i Paesi dell’area gestiscano bene il dossier attraverso il dialogo diplomatico e raggiungano uno sviluppo comune attraverso una cooperazione amichevole».

Equilibri regionali a rischio

L’intesa non può non avere ricadute anche sugli assetti regionali. Il primo a schierarsi contro l’accordo è l’Egitto. Il Cairo, insieme a Khartoum (Sudan), ha un annoso contenzioso con Addis Abeba sul dossier della Grande diga del millennio sul Nilo Azzurro, in territorio etiope. I due Paesi a valle temono che questa struttura riduca i flussi di acqua del Nilo mettendo in crisi le rispettive economie. Il Cairo cerca quindi in qualsiasi modo di contenere le manovre di Addis Abeba per poter avere più carte da giocare sul piano negoziale. Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi si schiera subito a fianco di Mogadiscio e dichiara che l’intesa è «una violazione della sovranità somala». Ancora più duro il ministro degli Affari esteri egiziano, Sameh Shoukry che, in un intervento tenuto alla Lega Araba, definisce l’accordo «un atto di aggressione» e ammonisce Addis Abeba dall’avventurarsi in «politiche unilaterali». Per gli Emirati arabi uniti, l’avventurismo di Abiy è un’opportunità e un rischio: l’Etiopia potrebbe diventare una potenza del Mar Rosso e un alleato degli Emirati, ma nuove tensioni nel Corno potrebbero mettere a repentaglio l’influenza di Abu Dhabi nella regione. L’Arabia Saudita è invece turbata dal modo in cui si sta comportando l’Etiopia. Se Abiy dovesse esagerare, Riad potrebbe superare la sua diffidenza nei confronti dell’Eritrea e sostenerla.

La Somalia, colpita direttamente dall’intesa, ritira il proprio ambasciatore da Addis Abeba. Il presidente Hassan Sheikh Mohamud dichiara nullo l’accordo tra Etiopia e Somaliland. Il premier Hamza Abdi Barre alza i toni e avverte: «L’Etiopia non può interferire nelle terre somale. Se tentassero un simile intervento, si ritirerebbero portando con sé i loro morti».

Le tensioni toccano, però, lo stesso Somaliland. Il 13 febbraio, le due camere del Parlamento diffondono una nota congiunta nella quale rifiutano l’accordo del governo con l’Etiopia. I membri del parlamento dichiarano «illegale» e «dannoso» l’accordo per l’unità del popolo del Somaliland. «Abbiamo rifiutato l’accordo e la sua attuazione e chiediamo al governo di fermare e ritirare il memorandum d’intesa», si legge nella nota. La firma dell’accordo ha infatti rivitalizzato le tensioni interne, in particolare quelle con l’Awdal, provincia che da tempo lotta per la riunificazione con lo Stato somalo. In allerta anche le milizie claniche nella regione che minacciano una resistenza armata contro il presidente Muse Bihi se il memorandum d’intesa dovesse procedere. E anche lo Stato fantasma potrebbe sprofondare nell’instabilità.

Enrico Casale

Somaliland, Hargeisa.




Da Jenin. «Mi basta morire nella mia terra»


Uomini armati, volti coperti dal passamontagna, droni, cecchini, funerali, cimiteri, morti e feriti. Questa è la Cisgiordania (West Bank). Reportage da Jenin, la piccola Gaza.

Jenin. Un nutrito gruppo di persone si affolla davanti all’uscita dell’ospedale Khalil Suleiman. Ci sono molti ragazzi armati e con il volto coperto da un passamontagna. Alcuni di loro srotolano delle bandiere del partito di Al-Fatah.

Questa notte è morto, in seguito alle ferite riportate dopo l’esplosione di un razzo, Jamal Mashaqa, combattente della resistenza di Jenin. Oggi si celebra il suo funerale. Il corpo viene portato fuori dall’ospedale su una barella, trasportata dai suoi amici. Jamal è avvolto nella bandiera delle «Brigate dei martiri di Al-Aqsa», movimento di cui faceva parte. Attorno alla testa una kefiah. Sul corpo sono posate le armi che usava durante i combattimenti. Il corteo funebre si muove a passo veloce, quasi di corsa. Fa il giro della città. I combattenti sparano in aria, cantano, intonano inni a Dio, ad Hamas, e urlano il nome di Jamal aggiungendo: «La tua morte ci ha spezzato il cuore. Seguiremo l’esempio del tuo martirio».

Sono stati così tanti i morti a Jenin nel 2023, anche prima del 7 ottobre, che è stato necessario creare un nuovo cimitero. È qui che termina la marcia. Jamal viene posato per terra davanti all’imam, ai suoi parenti e agli amici. Si recitano le ultime preghiere, il corpo viene adagiato nella fossa appena scavata.

A pochi passi dalle tombe, un grande murales raffigura la giornalista di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, uccisa durante un attacco israeliano, proprio qui, nel 2022.

Jenin, Cisgiordania: durante il corteo funebre i membri delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa si fermano a inneggiare al compagno deceduto sparando in aria. Foto Angelo Calianno.

Martiri e soldati

Dal cimitero, insieme ad altri uomini, mi sposto in un centro sportivo per ragazzi. È qui che, dal 7 ottobre, si tengono tutte le veglie funebri. Ci sono solo uomini, fumano, bevono tè, discutono. Le foto di Jamal, in mimetica, che imbraccia un fucile, sono ovunque.

Qui incontro suo fratello, IIyad Azmi: «Jamal – mi racconta – era un ragazzo sorridente, sempre pronto a scherzare, lo conoscevano tutti per il suo senso dell’umorismo. Noi a Jenin abbiamo sempre rispettato ogni cultura e religione, lo vedi anche tu da quanti cristiani ci sono e che vivono fianco a fianco con noi. Israele pensa di scoraggiarci raid dopo raid. Pensa che distruggere le nostre case, uccidere i nostri giovani, ci spezzerà. Non ha capito che noi non ci arrenderemo mai, non ci piegherà: noi non alzeremo mai bandiera bianca».

Mentre intervisto altri ragazzi, mi si avvicina un uomo: è scortato da due giovani armati. Si presenta usando uno pseudonimo: Abu Arab (tradotto «padre degli arabi», soprannome del poeta della rivoluzione palestinese Ibrahim Mohammed Saleh). Mi chiede chi io sia e cosa stia facendo qui.

Abu Arab è uno dei portavoce del campo di Jenin. Anche lui è stato un combattente, durante la seconda intifada, e ha passato diversi anni in carcere. Quando gli chiedo se i palestinesi, pur avendo pochi mezzi a disposizione, siano davvero in grado di fronteggiare Israele, mi risponde: «Oggi si combatte in maniera diversa rispetto a quando lo facevo io. I nostri ragazzi sanno usare la tecnologia, questo è sicuramente un vantaggio. I nostri combattenti, più che all’unisono, agiscono come “lupi solitari”. Questo li rende più efficaci. La cosa più importante però è che, a differenza degli israeliani, qui sono tutti pronti a combattere per la libertà dei palestinesi, anche se questo vorrà dire aspettare due, tre generazioni. I soldati israeliani, spesso, sono giovani di leva che vengono mandati a combattere, ma vorrebbero essere ovunque tranne che qui, magari su una bella spiaggia di Tel Aviv. I ragazzi della resistenza palestinese invece, sanno che, molto probabilmente, moriranno durante gli scontri. Sono disposti a dare la propria vita come martiri. È questo spirito di sacrificio che manca a Israele, è per questo che non riescono a piegarci o mandarci via».

La moschea di Mahmoud Tawalba nel campo profughi di Jenin. Foto Angelo Calianno.

La piccola Gaza

Il campo profughi di Jenin è nato nella periferia dell’omonima città, costruito per ospitare i palestinesi in fuga durante la Nakba del 1948. Molte famiglie sono arrivate qui da Haifa, provincia dalla quale, nel 1953, cinquemilamila soldati israeliani avevano deportato ottantamila palestinesi.

Anche se quello di Jenin viene chiamato «campo» profughi, non è una tendopoli.

Anche se poverissimo e con infrastrutture pericolanti, è una vera e propria cittadina di ventimila abitanti, fatta di case in muratura, moschee e negozietti. Jenin è anche conosciuta, in questi mesi, come «la piccola Gaza». È qui, infatti, che si concentrano la maggior parte degli attacchi di Israele in Cisgiordania.

I continui raid sono volti a fiaccare quella che è una delle resistenze più coriacee della Palestina: le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, gruppo armato del partito di Al-Fatah, nato in questo campo profughi nel 2000, durante la seconda intifada.

I responsabili del campo controllano le mie credenziali, il mio lavoro, gli articoli scritti in passato. Vogliono assicurarsi che riporti la verità su quello che vedrò. Dopo qualche giorno e, dopo essermi fatto conoscere, vengo accolto con molta ospitalità. Comincio a frequentare il campo con regolarità.

Mi ritrovo spesso a chiacchierare con gli anziani e i giovani combattenti. Mi raccontano le loro vicissitudini, quelle delle loro famiglie. Passiamo ore bevendo tè e giocando a backgammon. I raid israeliani, nel frattempo, non si fermano mai e anch’io ne sono testimone.

Bambini accanto a una casa sventrata da un’esplosione nel campo di Balata. Foto Angelo Calianno.

Le modalità degli attacchi

Gli attacchi avvengono sempre nella stessa modalità: cominciano con una ricognizione di droni, seguita dal lancio di ordigni esplosivi. Subito dopo, i soldati installano dei check-point mobili per chiudere ogni varco di ingresso o uscita dal campo. Le operazioni continuano con l’entrata dei bulldozer, che distruggono le strade principali e qualsiasi cosa si trovi sul loro cammino.

Ai mezzi pesanti segue l’ingresso dei soldati. I cecchini si appostano sui punti più alti, i militari entrano nelle case per perquisirle, molto spesso distruggendole e picchiando chi si trova all’interno. I raid, in media, vanno avanti tutta la notte fino a tarda mattinata.

Il 29 novembre, durante l’ennesima incursione, un cecchino spara in testa a un bambino di otto anni: Adam Samer Al-Ghoul. Il bambino è colpevole di aver lanciato un sasso contro un mezzo blindato israeliano. Adam Samer si accascia sul selciato. Un altro ragazzino, di quindici anni, Basil Suleiman, cerca di trascinare il bambino più piccolo al riparo dietro una macchina, ma anche lui viene colpito al petto dallo stesso cecchino.

Durante i raid, i soldati bloccano anche le ambulanze, che, per ore, aspettano all’ingresso del campo. Anche Basil Suleiman muore.

Alla fine delle operazioni, il comando dell’Israel defense forces (Idf) dichiara che i due ragazzi avevano attaccato usando ordigni esplosivi. Ai media israeliani si comunica che, durante il raid a Jenin del 29 novembre, sono stati uccisi «Two high-ranking terrorists», due terroristi di alto grado.

L’attivista ebrea Arna Mer-Khamis (1929-1994). Foto Freedom Theater.

La storia di Arna, l’ebrea

Dal 7 ottobre, a Jenin, ogni giorno c’è almeno un funerale. Quasi sempre si tratta di minori di 18 anni, o comunque giovanissimi. Uno dei luoghi simbolo del campo di Jenin è il Freedom Theater.

Nel 1953, dopo essere stata testimone degli attacchi di Israele contro le case dei palestinesi, Arna Mer-Khamis, ebrea israeliana (1929-1994), decide di andare a Jenin e aiutare le migliaia di arabi in fuga. Arna Mer-Khamis fonda una Ong, porta aiuti in cibo, medicine e contribuisce all’istruzione dei bambini. Durante la prima intifada costruisce anche un teatro: The Stone Theater. Successivamente chiuso. Dopo la morte di Arna Mer- Khamis, suo figlio Juliano, nel 2006, decide di aprire un nuovo teatro: il Freedom Theater. Juliano viene assassinato nel 2011. Nessuno ha mai scoperto chi sia stato. Israele e Palestina, ancora oggi, si accusano a vicenda del suo omicidio.

Oggi, il direttore del teatro è Mustafà Sheta. Mi accoglie facendomi visitare la struttura: «Il teatro è anche una forma di lotta. Ognuno resiste con le armi che ha, noi lo facciamo con l’arte. Per molti, all’ inizio, sembrava una follia avere un teatro in un posto come questo: un campo profughi sempre sotto attacco. Ma è proprio in luoghi come questo che è più necessario. Noi portiamo in scena grandi classici come La fattoria degli animali di Orwell, Alice nel paese delle meraviglie e altri. Ogni rappresentazione è riletta alla luce della situazione palestinese: raccontiamo la nostra storia attraverso opere famose, così che il pubblico possa avere un riferimento. Come puoi vedere, ora non ci è possibile lavorare, dopo il 7 ottobre è diventato troppo pericoloso. Abbiamo spostato le nostre attività nelle scuole fuori dal campo».

Mustafà mi mostra i danni fatti dagli ultimi raid. Pur essendo chiuso, il teatro viene comunque vandalizzato dai soldati dell’Idf. Ci sono fori di proiettili, involucri di granate. Sul palco, Mustafà mi racconta: «Un giorno stavamo facendo uno spettacolo per bambini. Gli israeliani hanno cominciato ad attaccare. I più piccoli si sono stretti ai genitori. Gli attori, nonostante il rumore delle esplosioni, hanno continuato a recitare. Nessuno si è mosso. Quello, per noi, è stato un vero atto di resistenza. È questo che il nostro teatro rappresenta».

Il 13 dicembre, dopo la nostra visita, i soldati israeliani faranno nuovamente irruzione nel teatro, ne distruggeranno l’interno, soprattutto le apparecchiature elettroniche (telecamere, microfoni, schermi e amplificatori). Mustafà Sheta sarà arrestato.

Di lui, ancora oggi, non ci sono più notizie. Insieme a un gruppo di altri giornalisti europei, vicini al teatro, abbiamo scritto all’ufficio pubbliche relazioni delle carceri israeliane – l’Israel prison service – per chiedere informazioni. Nessuna delle nostre domande ha, però, ottenuto risposta.

Nablus e il campo di Balata

Subito dopo Jenin, in Cisgiordania, il secondo luogo più attaccato è il campo profughi di Balata, alla periferia di Nablus. Sorge di fronte alla chiesa del Pozzo di Giacobbe, oggi amministrata dalla diocesi greco ortodossa. Balata è il campo più popolato della Palestina. In mezzo a piccole stradine fangose, qui vivono circa 32.500 persone.

Anche prima del 7 ottobre, gli scontri erano molto frequenti in questa zona.

Molti settlers, i coloni ebrei, si recavano al Pozzo (rientrante nel perimetro di proprietà della chiesa) in pellegrinaggio, armati e scortati dai soldati. A ogni visita, i militari installavano i check-point, chiudevano le strade e i negozi nelle vicinanze. Queste operazioni scatenavano la rabbia dei palestinesi di Balata, che rispondevano attaccando. Così si è andati avanti per decenni. Oggi la chiesa è chiusa e, di conseguenza, anche i pellegrinaggi dei coloni al Pozzo di Giacobbe.

Anche qui, come a Jenin, l’obiettivo di Israele è quello di sconfiggere la resistenza e chi la supporta. Malgrado gli attacchi quotidiani, Balata continua le sue attività, anche in ambito culturale. Per gli abitanti di Nablus, è il simbolo dei giovani che non si vogliono arrendere.

Adhan mostra la facciata della sua casa, distrutta dai soldati israeliani e nascosta da un lenzuolo. Foto Angelo Calianno.

I soldati a casa di Adhan

Quando ci arrivo, alcuni uomini mi mostrano ciò che resta delle proprie case: camere da letto bombardate, buchi sul tetto, fori di proiettile ovunque.

Vengo invitato in una di queste abitazioni, dove una famiglia vuole raccontarmi la sua storia. Ad accompagnarmi c’è Adhan. La facciata della sua casa è coperta da lenzuola per nascondere il danno fatto dai soldati. In questa palazzina di tre piani, vivono venti persone, tutte della stessa famiglia ma di generazioni diverse. Ci accomodiamo in quello che era il soggiorno. Oggi è una stanza vuota con qualche sedia.

La madre di Adhan, Izdehar, mi  serve del tè e mi racconta: «Durante l’ultima irruzione, i militari hanno distrutto tutti i mobili. Quindi, adesso lasciamo la stanza vuota. Non era la prima volta che entravano, usavano spesso questa casa per piazzare i cecchini. Però, in precedenza, prima del 7 ottobre, con i soldati potevamo almeno parlarci, erano più ragionevoli. La violenza e le aggressioni che abbiamo subìto l’ultima volta, sono qualcosa di nuovo. Una notte, abbiamo sentito delle esplosioni, poi l’arrivo dei bulldozer. Era una cosa che accadeva spesso, quindi, ci siamo stretti tra noi aspettando che passasse. Dalla porta sul retro sono arrivati i primi spari, i proiettili hanno perforato le finestre arrivando dentro casa. I soldati hanno sfondato la porta, sono entrati, si sono trovati davanti mio suocero, una persona molto anziana. Lo hanno colpito in testa con il calcio del fucile».

«Mia sorella – continua Adhan – aveva suo figlio piccolo in braccio, ma l’hanno colpita ugualmente. Abbiamo urlato: “Come potete picchiare una donna con un bambino?” Allora hanno radunato tutti noi uomini, ci hanno portato in strada, ammanettati e messi faccia a terra. Hanno cominciato a picchiarci, mio fratello Anas è stato il più colpito. Gli hanno dato così tanti calci in faccia, che ha perso conoscenza. Nonostante questo, un soldato gli ha ordinato di leccare il sangue dal suo stivale. Mio fratello era ormai svenuto, non rispondeva più. Abbiamo chiesto di far arrivare un’ambulanza, ma l’hanno bloccata impedendo a qualsiasi aiuto di arrivare. Lo hanno ridotto così – mi spiega, mostrandomi una foto del fratello in ospedale: la testa bendata, il volto tumefatto e livido -. Avremmo voluto reagire, ma con i fucili puntati in testa, cosa avremmo potuto fare?».

Tutto questo avveniva davanti agli occhi dei bambini, pietrificati nell’assistere a quelle scene. Ci rivolgiamo al fratello piccolo di Adhan, Ahmad di nove anni, chiedendogli cosa abbia visto quella notte: «C’erano i soldati, picchiavano forte gli uomini…». Ahmad si porta le mani al volto, finisce la frase in un pianto strozzato.

Izdehar ci dice ancora: «Durante quei momenti, a noi donne dicevano delle cose che non posso ripeterti, insulti orribili che fanno ancora male. Non mi trovo a mio agio a raccontare queste cose pubblicamente, anche se so che è importante per le persone sapere. Il mondo deve sapere».

Il mio interprete mi sussurra: «I soldati sanno bene cosa offende le donne musulmane. Gli insulti che rivolgono loro sono cose così orribili che nessuna donna li ripeterà mai, tanta è la vergogna».

Il nuovo cimitero del campo profughi di Jenin ospita soprattutto giovani. Foto Angelo Calianno.

I cecchini non sbagliano

Mentre termino l’intervista, la tensione nel campo cresce visibilmente. Dei ragazzini cominciano a posizionare dei grandi massi sulle strade principali. Arrivano gruppi di giovani armati e con il volto coperto. In lontananza si sente il ronzio dei droni: sta arrivando un nuovo raid. Per strada incontro alcuni colleghi fotografi. Appena cominciamo a sentire le esplosioni dei primi droni che bombardano il campo decidiamo di ripararci in un punto più coperto. Mentre camminiamo, i cecchini aprono il fuoco anche contro di noi. Colpiscono bersagli ai nostri lati, sparano contro l’asfalto che abbiamo appena calpestato, contro il taxi che si è fermato per farci salire.

Il tassista ci dice: «I cecchini non sbagliano. Se avessero voluto, sareste già morti. Vi vogliono spaventare».

Durante la mia lunga permanenza in Cisgiordania, le vicessitudini di cui sono stato testimone a Jenin e Nablus si sono ripetute anche a Hebron, Tulkarem, Ramallah. Eppure, anche durante gli attacchi, ogni stazione radiofonica, ogni canale televisivo era sintonizzato su Gaza. Alla fine di ogni raid, anche dopo gli arresti, le umiliazioni e la perdita di decine di familiari, tutti mi dicevano: «Dobbiamo andare avanti per rispetto di quello che sta accadendo a Gaza. Nulla è paragonabile a Gaza. Non possiamo piangere».

Angelo Calianno

Un murale ricorda Shireen Abu Aklehdi, giornalista di Al-Jazeera, uccisa nel maggio 2022.; sono decine i giornalisti uccisi nell”ultima guerra. Foto. Angelo Calianno.

Su MC 01/2024. Essere palestinesi in Cisgiordania / 1: «Cacciati come bestiame dai coloni»

 




Brasile. I «tifosi» di Santa Barbara


Al Nordest del Brasile si trova Salvador de Bahia de Todos los Santos. È in questa città che si tocca con mano l’eredità africana del Paese. Abbiamo assistito alla cerimonia religiosa afrobrasiliana in onore di Santa Barbara – Iansã.

Salvador Bahia. Il quartiere di Pelourinho – nome che, in portoghese, indica la «gogna» che veniva usata per legare e frustare le persone schiavizzate – è un quartiere dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Raccoglie tracce importanti dell’architettura coloniale locale del XVII e XVIII secolo. In esso, dicono le guide, si trovano più di trecento chiese.

Una di esse è quella di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos (Nostra Signora del Rosario dei Neri), la cui costruzione durò quasi cento anni e che è uno dei simboli del sincretismo religioso e culturale della città brasiliana.

La resistenza degli schiavi

È proprio qui che il 4 dicembre scorso ha avuto luogo la celebrazione in onore di Santa Barbara, martire dei primi secoli dopo Cristo (terzo e quarto) che la tradizione colloca tra la Turchia e l’Italia. La festa cattolica si unisce a quella dei fedeli dell’umbanda in onore di Iansã, un’orixá (divinità afro) dei culti afrobrasiliani.

Abbiamo partecipato all’intera giornata di celebrazioni per vedere in prima persona una ritualità nata in epoca coloniale dalla popolazione nera schiavizzata come esercizio di resistenza e di conservazione delle sue radici religiose e culturali.

La festa per Santa Barbara – Iansã ha inizio alle prime luci dell’alba quando, di fronte alla chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos, tutto comincia a colorarsi di rosso e bianco: petali di rose rosse ricoprono le strade del quartiere, rossi e bianchi sono i vestiti dei pellegrini e dei commercianti, rosse e bianche le collane, i palloncini, i chioschi, le ghirlande di fiori, i tappeti e ogni ornamento portato in dono per celebrare questa santa a due facce.

Per questo, fin dalle cinque del mattino, di fronte alla chiesa, sono appostati i venditori di rose, così come i commercianti che vendono una miniatura della santa che cerca di riprodurne lo splendore.

Una devota di Santa Barbara – Iansa in adorazione davanti alla chiesa di Nossa Senhora do Rosário dos Pretos, Largo do Pelourinho (4 dicembre 2023). Foto Diego Battistessa.

Dal mondo degli Yoruba

La figura di Iansã, sotto nomi e forme diverse, si può far risalire a una divinità del popolo Yoruba, originario del sud della Nigeria, Benin e Togo. È una delle principali divinità femminili venerate in varie tradizioni religiose africane sia in Brasile che nei Caraibi.

È conosciuta e venerata per essere la divinità del vento, dell’acqua e delle tempeste, però i primi pellegrini che arrivano di fronte alla chiesa ci spiegano che le funzioni di questa orixá sono anche riconducibili all’ambito della sfera privata. Infatti, Iansã si occupa anche di allontanare gli spiriti maligni da luoghi o persone e di risolvere le questioni di coppia, come l’infedeltà.

Allontanare gli spiriti maligni, ricevere una profonda purificazione o ringraziare per una grazia ricevuta sono gli obiettivi di questa marea biancorossa di persone che, ogni anno, giungono da tutto il Brasile e anche dall’estero per prendere parte alle celebrazioni.

Le porte dell’edificio di culto si aprono di primo mattino e subito la statua della santa riceve i fedeli che fanno la fila per avere pochi istanti di intimità al suo cospetto. Fuori inizia la musica, e, non più tardi delle sette, quando il caldo si fa già sentire, scoppiano i primi fuochi d’artificio.

Nel centro della piazza, nota come Largo do Pelourinho, di fronte alla Casa museo di Jorge Amado, indimenticato scrittore della Bahia, è stato preparato un palco sul quale verrà celebrata una messa campale per la folla dei fedeli festanti, folla che non può essere accolta tutta dentro Nossa Senhora do Rosario dos Pretos. Mentre le processioni e le richieste a Santa Barbara – Iansã si susseguono all’interno, fuori, negli spazi adiacenti il palco, si moltiplicano i riti di purificazione, nei quali si invocano i poteri dell’orixá per avere protezione, salute e serenità.

In questi brevi ma intensi rituali sono i sigari, le erbe, l’acqua e l’olio santo a diventare protagonisti, tra grida e sussurri, momenti di trance ed estasi, in una sublimazione simbolica della religione afrobrasiliana.

Mentre quel mare rosso e bianco di fedeli che inneggiano a Santa Barbara – Iansã balla e canta la sua devozione, poco dopo le otto, la statua della Santa viene portata in processione dalla chiesa fino al palco. Un percorso che suscita commozione, in un clima allegro e solenne allo stesso tempo, tra tamburi, incenso e petali di rosa.

La messa inizia pochi minuti dopo e anche in essa sono evidenti le tracce della cultura e della religiosità afrobrasiliana. Finita la celebrazione, esplode la festa in tutto Pelourinho, con manifestazioni artistiche e concerti che durano per tutto il giorno.

I ristoranti servono caruru (piatto tradizionale della cucina afrobrasiliana a base di gamberetti, cipolla, anacardi e arachidi, tipico di Bahia e di questa festività), si ascolta l’atabaque (strumento rituale simile a un tamburo) che batte al ritmo del cuore e si cantano canzoni come la famosa «Sorriso negro» di Dona Ivone Lara: «Negro é a raiz da liberdade» (Il nero è alla radice della libertà).

Verso le undici il grande corteo parte per attraversare tutto il centro storico passando per Largo do Pelourinho e per Terreiro de Jesus, Praça da Sé, Praça Municipal, Ladeira da Praça, fermandosi alla sede dei vigili del fuoco (la santa è la loro patrona), continuando poi per Praça dos Veteranos, per Baixa dos Sapateiros e fino al Mercado da Santa Barbara per ritornare poi al punto di partenza.

Qui i devoti si riuniscono di nuovo per ascoltare i gruppi musicali che si susseguono sul palco di fronte alla chiesa di Nossa Senhora do Rosario dos Pretos nel centro del Peló (così viene popolarmente chiamato il Pelourinho dagli abitanti della città). L’energia e la magia della celebrazione continuano dopo il tramonto quando le luci natalizie fanno la loro comparsa, illuminando il selciato delle strette strade irregolari, tortuose e in pendenza del quartiere (sono chiamate «ladeiras»), vie ancora spumeggianti di vita e allegria.

La chiesa Nosso Senhor do Bonfim, a Salvador Bahia, uno dei luoghi più importanti per le manifestazione del sincretismo religioso tra cattolicesimo e religioni afrobrasiliane. Foto Diego Battistessa.

Un pieno di feste

Quelle in onore di Santa Barbara – Iansã (ricorrenti fin dal 1641) fanno parte di un ricco calendario di celebrazioni che interessano la capitale dello stato di Bahia durante tutto l’anno. Dopo il 4 dicembre, la prima data da segnare è l’8 dello stes-so mese, quando si celebra la festa religiosa più antica del Brasile, nella basilica de Nossa Senhora da Conceição da Praia, in onore all’Immacolata Concezione.

Successivamente, il 13 dicembre si celebra la festa di Santa Luzia (Santa Lucia), mentre nella notte tra l’anno vecchio e quello nuovo, si rende omaggio al Bom Jésus dos Navegantes (Buon Gesù dei Naviganti). A gennaio, il 5 e il 6, si celebrano i Re Magi, mentre nella seconda metà del mese ha luogo uno dei riti sincretici più importanti della capitale della Bahia: il «Lavagem do Bonfim» (riquadro a lato).

Il primo mese dell’anno si chiude con la festa di San Lazzaro, ma è febbraio che ospita il clou. Infatti, nei giorni 1 e 2 del mese si celebra quella che è considerata la più grande manifestazione religiosa pubblica del candomblé nello stato di Bahia: il festival Iemanjá (Yemanjá), celebrato in onore della divinità dell’oceano sulle spiagge e nelle acque di Salvador.

Tra questa e l’inizio del Carnevale, si celebra in città anche il Lavagem de Itapuã, festa popolare che ha già compiuto più di 100 anni.

Tocca poi al Carnevale che, qui e nel resto del Brasile, è la più grande festa dell’anno nel quale, ancora una volta, si mischiano e si fondono le simbologie cattoliche e quelle delle religioni afrobrasiliane. Giugno è il mese di Santo Antônio, São João, São Pedro, rispettivamente il 13, il 24 e il 29, mentre il 2 di luglio si celebra a Bahia l’indipendenza del Brasile.

L’ultima festa che citiamo, ma non per importanza, è quella del 13 di agosto, giorno nel quale si rende omaggio a Santa Dulce dos Pobres, conosciuta come «il Buon angelo di Bahia», donna laboriosa ed esempio di dedizione a poveri e ammalati, canonizzata da papa Francesco il 13 di ottobre del 2019.

Diego Battistessa

 

La chiesa del Santissimo Sacramento in Rua do Passo 52°, quartiere di Santo Antônio Além do Carmo, Salvador. Foto Diego Battistessa.

Il sincretismo

QUANDO IL CATTOLICESIMO SI MESCOLÒ ALL’AFRO

Il sincretismo tra la religione cattolica e quelle africane è un elemento caratteristico di Salvador de Bahia e del Brasile. Esso si esprime in un ampio ventaglio di concezioni e pratiche religiose continuamente create, ricreate e adattate a un contesto spazio-temporale diverso da quello di origine.

La parola sincretismo deriva dal greco «synkrasis», ovvero mescolare insieme. Il sincretismo religioso nel mondo latinoamericano ha vissuto numerose tappe che hanno visto, in modo alterno, il protagonismo di popolazioni indigene, coloni europei, criollos (meticci, ndr)e afrodiscendenti.

Poiché durante il periodo coloniale la Chiesa di Roma dominava il campo spirituale di tutti i Paesi latinoamericani, le credenze afro vi si sono inserite e ne hanno – a loro volta – tratto diversi elementi, assimilandoli.

Mappando le religioni afrolatinoamericane, possiamo identificare il Brasile come un centro focale. Nel Paese, in fatti, si riscontra la sublimazione di questo processo di resistenza delle tradizioni ancestrali africane da un lato, e di mescolanza (krasis) con le molteplici spiritualità presenti nel territorio, dall’altro. Siamo di fronte a una grande complessità di rituali e simbologie che, in Brasile, trovano nel candomblé e nell’umbanda* le espressioni più note e diffuse.

D.B.


La chiesa di Nostro Signore del Buon fine

LE BAHIANE DEL CANDOMBLÉ

Quella di Nostro Signore del Buon fine è una delle chiese cattoliche più tradizionali della città, dedicata al Senhor do Bonfim, santo patrono dei bahiani e simbolo del sincretismo religioso di Salvador de Bahia. Costruita sulla cima della Collina sacra, questo edificio di culto è lo scenario del famoso «Lavagem do Bonfim», evento nel quale le donne bahiane del candomblé lavano in modo rituale i gradini della chiesa con abbondante acqua. Si tratta di uno dei rituali più importanti del Salvador, rispettato e celebrato sia dai fedeli cattolici che da quelli afro.

Proprio da questa chiesa proviene il famoso braccialetto colorato (fita, in portoghese) che si può vedere in tutta Salvador de Bahia. Il nastro originale fu creato nel 1809 e misurava esattamente 47 centimetri di lunghezza, la misura del braccio destro della statua di Gesù Cristo, Signore di Bonfim, situata sull’altare di questa chiesa, sicuramente tra le più famose di Bahia. Venduto o regalato in diversi colori in tutta la città, il nastro del Senhor do Bonfim rappresenta, a seconda del colore, un orixá diverso. In questo modo, gli orixá, divinità centrali del candomblé, si uniscono al messaggio rappresentato da Gesù di Nazaret, creando un nuovo spazio di devozione inclusiva che trascende i confini della religione e si estende alla cultura e all’identità afrobrasiliana.

D.B.

Vista mattutina della Rua Alfredo Brito, Pelourinho, con sullo sfondo la Chiesa di Igreja de Nossa Senhora do Rosário dos Pretos. Foto Diego Battistessa.

 


Sul sito MC si può leggere:

– Paolo Moiola, «I tamburi di oxalá» (giugno 2015);

– Paolo Moiola, «Balli di libertà» (luglio 2015).




Congo Rd. Un futuro a tinte fosche


Il 20 dicembre scorso contestate elezioni hanno mantenuto al potere Félix Tshisekedi. Le sfide che dovrà affrontare il presidente sono enormi: il conflitto nell’Est, l’economia che barcolla, le mire straniere sulle risorse del Paese, ma anche la corruzione a tutti i livelli. Le premesse non sono delle migliori.

Oltre 2.300 chilometri di strade, soprattutto sterrate e percorribili in almeno quaranta ore di auto, separano Kinshasa, capitale della Repubblica democratica del Congo (RdC), da Lubumbashi, capitale dell’Haut-Katanga, la provincia più meridionale. Per recarsi a Goma, capitale del Nord Kivu al confine orientale con il Rwanda, invece i chilometri diventano 2.700 e le ore di viaggio più di cinquanta.

Il tragitto su strada da Kinshasa verso Lubumbashi e Goma, interminabile e difficile, è metafora di quello che è la RdC oggi: un Paese immenso, dal potenziale enorme, ma estremamente fragile. La distanza tra la capitale e molte province non è solo geografica, ma anche politica, economica e sociale. I soli 200mila chilometri di strade – che attraversano uno Stato di 2,3 milioni di chilometri quadrati (7,8 volte l’Italia) – sono solo un esempio di questo scollamento.

Il territorio congolese è estremamente frammentato: non c’è un solido legame tra la capitale e il resto del territorio dilaniato da conflitti armati e in perenne crisi umanitaria, depredato delle proprie ricchezze e attraversato da una corruzione endemica. Molte sfide – alcune di lunga data, altre più recenti – attendono Félix Tshisekedi, riconfermato presidente a seguito delle caotiche e contestate elezioni del 20 dicembre scorso. Il presidente uscente ha ottenuto il 73% dei voti, e il secondo, Moise Katumbi, solo il 18%. Conflitti, economia e corruzione spiccano tra le sfide.

Campo di sfollati nei pressi di Goma, Nord Kivu. Foto Christophe Mutaka

La lunga guerra nell’Est

Da Nord a Sud, da Est a Ovest, la RdC è travolta da violenze. Conflitti diversi e causati da motivazioni differenti, ma riconducibili a un unico denominatore comune: la scarsa governance e la mancanza di istituzioni politiche, militari e sociali efficienti, affidabili e diffuse su tutto il territorio nazionale.

Movimenti secessionisti operano nell’Haut-Katanga che già nel luglio 1960, subito dopo l’indipendenza, aveva tentato di separarsi dal resto del Paese. A Nord, nell’Haut-Uélé e nel Bas-Uélé avvengono incursioni e saccheggi di ribelli coinvolti nella guerra civile centrafricana e negli scontri con il governo del Sud Sudan. Tensioni intercomunitarie per le terre sono diffuse su tutto il territorio nazionale. Mentre da inizio 2022, le province occidentali, storicamente le più stabili, sono messe a ferro e fuoco dalla milizia Mobondo, nata a causa di tensioni tra comunità per il pagamento di tasse sulla terra.

Nell’Est (Ituri, Nord e Sud Kivu), i conflitti si protraggono da tre decenni e sono profondamente legati al contesto regionale. Infatti, fin dalle due guerre del Congo, alcuni Paesi della regione dei Grandi Laghi – Rwanda, Uganda e Burundi – mirano a estendere la propria influenza sulle province orientali della Rdc, data la loro posizione strategica nel cuore dell’Africa e la ricchezza di risorse minerarie.

La moltitudine di attori, statali e non, coinvolti, l’intrecciarsi di differenti obiettivi, la fragilità delle alleanze e le interferenze degli altri Paesi della regione sono tutti fattori che hanno reso in passato e rendono ancora oggi difficile la pacificazione dell’area. In particolare, l’interventismo ruandese ha recentemente raggiunto livelli tali da causare una crisi diplomatica tra Kinshasa e Kigali e rischiare un conflitto aperto tra i due Paesi. Dalla primavera del 2022, truppe ruandesi sono infatti intervenute in territorio congolese a supporto del Movimento del 23 marzo (M23), il gruppo armato più violento del Nord Kivu, capace di giungere, a fine 2023, a pochi chilometri da Goma.

Disastro umanitario

«La guerra ha creato un incredibile disastro umanitario», dice Viateur, cooperante del Nord Kivu e analista dei processi di cambiamento nella regione dei Grandi Laghi. L’Unhcr (agenzia Onu per i rifugiati) conta sei milioni di sfollati interni, mentre un altro milione ha cercato rifugio nei Paesi vicini. Chi resta nei territori controllati dagli attori armati «vive ogni giorno le afflizioni della guerra come vessazioni, stupri, saccheggi e lavori forzati. I gruppi armati portano via tutto quello che i locali possiedono: cibo, denaro, bestiame e coltivazioni. I bambini non vanno più a scuola, gli agricoltori non lavorano più i campi, le attività economiche sono paralizzate», racconta Viateur.

Come prevedibile, la promessa di Tshisekedi di un intervento militare tale da porre fine alle violenze in tempo affinché le elezioni si potessero svolgere in tutto il Paese non è stata mantenuta: gli abitanti dei territori di Masisi e Rutshuru, occupati dall’M23 (oltre a Kwamouth, epicentro della violenza dei Mobondo), non hanno potuto votare.

Raramente le Forze armate della Rdc registrano successi contro i gruppi armati e lo stato d’assedio, introdotto a maggio 2021, non ha portato cambiamenti. La Missione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Congo (Monsuco), operativa dal 2000 per proteggere la popolazione, è costantemente accusata di inefficacia, data la frequenza di attacchi e uccisioni nei confronti dei civili, e il governo congolese ne ha chiesto il ritiro. Così come, dopo un solo anno, ha iniziato ad abbandonare il Paese anche la Forza regionale della Comunità dell’Africa orientale (Eac), criticata da Kinshasa per l’approccio poco aggressivo nei confronti dei gruppi armati.

Il costante fallimento delle operazioni militari evidenzia la necessità di rafforzare altre tipologie di interventi. Ne derivano azioni diverse, frutto dell’intersecarsi delle dimensioni politica, sociale ed economica: rafforzamento di governance e trasparenza delle istituzioni, sviluppo di programmi efficaci e duraturi per la smobilitazione e il reinserimento socioeconomico dei combattenti e realizzazione di dialoghi intercomunitari e piani per la ripartizione inclusiva delle risorse.

Economia fragile

Un’altra sfida che attende il presidente congolese è quella economica. Secondo la Banca mondiale, nel 2020, a causa della pandemia da Covid-19 che aveva paralizzato scambi e produzione, il Prodotto interno lordo (Pil) era crollato di quasi tre punti percentuali rispetto al +4,4% del 2019. Tuttavia, dall’anno successivo, la consistente domanda cinese di minerali ha trainato la ripresa del Pil, cresciuto del 6,2% nel 2021 e dell’8,9% nel 2022. L’economia congolese è però estremamente fragile: il 90% delle esportazioni è costituito da minerali e idrocarburi, e questo rende il Paese dipendente dalle fluttuazioni dei loro prezzi sul mercato internazionale.

L’analisi di un quadro socioeconomico più dettagliato mostra poi che la crescita del Pil, esaltata da Tshisekedi come risultato positivo delle sue politiche di rilancio post pandemia, è un dato isolato, non una tendenza. La guerra in Ucraina ha spinto l’inflazione dal 9% (2021) al 13,2% (2023) e l’incremento dei prezzi dei beni di base sta impattando soprattutto su quel 60% della popolazione che, secondo la Banca mondiale, vive con meno di 2,15 dollari al giorno. Tra essi, moltissimi giovani, il cui tasso di disoccupazione supera l’80%.

La carenza di reti stradali e ferroviarie ostacola lo sviluppo dei commerci su tutti i livelli: nazionale, regionale e internazionale. I conflitti armati nelle province orientali – le più ricche di risorse – costituiscono un pesante fardello per la crescita economica del Paese, mentre la diffusione di economia informale, illegale e corruzione riduce le risorse statali.

La transizione ecologica

La transizione ecologica globale passa anche per i minerali della RdC: le province meridionali producono il 70% del cobalto mondiale, le riserve congolesi di rame sono considerevoli e la metà del tantalio, contenuto nei telefoni e nei computer di tutto il mondo, proviene dai suoi territori. Dai primi anni Duemila, l’impennata della domanda globale di minerali per la transizione ecologica ha trainato la crescita della produzione congolese, esacerbando però anche gli aspetti negativi a essa connessi: conflitti armati, violazioni dei diritti umani e sfruttamento da parte delle multinazionali.

Per molti dei circa 120 movimenti armati attivi nelle province orientali «i minerali hanno un ruolo preponderante – dice Viateur -. Certi gruppi sfruttano direttamente o fanno sfruttare da altri per loro, le cave e i minerali ottenuti sono venduti attraverso negozianti che li portano oltre confine, in Rwanda e Uganda». Il contrabbando è infatti un’importante fonte di finanziamento per molti attori armati e, in questo modo, sebbene nella RdC siano applicate certificazioni che impediscono la vendita di minerali legati a conflitti e violazioni dei diritti umani, molti di essi entrano nel mercato internazionale. Buona parte della produzione è artigianale: i minatori estraggono senza tecnologie o macchinari e fronteggiano dure condizioni di vita. La crescente domanda mondiale non si traduce in un incremento dei guadagni per i lavoratori locali che «rimangono nella povertà e muoiono ogni giorno a causa di malattie respiratorie e frane, mentre molti bambini non vanno a scuola». Viateur ricorda quanto lo sfruttamento minorile sia diffuso, soprattutto nelle miniere di rame e cobalto dell’Haut-Katanga, nonostante sia proibito dalla legge.

Proteste anti Rwanda (Photo by Aubin Mukoni / AFP)

I minerali

Anche le multinazionali straniere, con un atteggiamento predatorio, contribuiscono a rendere ancora più difficili le precarie condizioni di vita dei congolesi, drenando dal Paese grandi quantità di risorse a fronte di compensazioni decisamente inadeguate.

L’accordo siglato nel 2008 dall’allora presidente Joseph Kabila con la Cina ne è un esempio. Le aziende di Pechino hanno ottenuto concessioni su giacimenti di rame e cobalto del valore di circa 90 miliardi di dollari a Kolwezi (Haut-Katanga). In cambio, la Cina si è impegnata a investire sei miliardi in progetti di sviluppo. Ma, di fatto, ancor meno – tre miliardi circa – sono stati realmente destinati alla costruzione di strade, scuole e ospedali, e gli interventi sono stati appaltati esclusivamente a compagnie cinesi, impedendo la creazione di posti di lavoro e crescita economica nella RdC. Anche se nel 2021 Tshisekedi ha annunciato la rinegoziazione dell’accordo, non sono mai stati rilasciati dettagli sulle nuove discussioni, facendo temere che la revisione non si traduca in miglioramenti tangibili per i congolesi.

I minerali estratti nella Rdc, quando sfuggono al contrabbando, sono esportati, soprattutto in Cina, dove vengono processati. In questo modo, il Paese perde la maggior parte delle proprie risorse ancora in forma grezza, traendone un guadagno limitato, e non beneficia della creazione di opportunità lavorative e della generazione di reddito derivanti da attività di lavorazione interne alla RdC. Un’evoluzione necessaria, quest’ultima, e che è stata timidamente avviata da Tshisekedi con l’istituzione del Consiglio congolese della batteria, cui è stato affidato il compito di creare una filiera per la produzione di batterie elettriche nel Paese. Un progetto che, se realizzato, permetterebbe alla RdC e ai suoi abitanti di trarre maggiori guadagni dalle proprie risorse, ma che deve avvenire al riparo dalla corruzione, imperante nel settore ed endemica nel Paese. Gécamines, la principale compagnia mineraria statale, è infatti ciclicamente coinvolta in scandali e accusata di essere un mezzo per l’accaparramento di risorse da parte dell’élite politica ed economica della Rdc.

Corruzione e potere

Con il giuramento di fine gennaio, Tshisekedi si è confermato alla guida di un Paese dilaniato da conflitti armati e in difficoltà economica. Ma fronteggia anche accuse di corruzione, scarsa trasparenza e manipolazione dei risultati elettorali al fine di soddisfare una sete personale di potere e assicurare favori alla propria cerchia di amici e familiari.

Nulla di nuovo nella RdC. Fin dalla cleptocrazia di Mobutu Sese Seko (1965-1997), corruzione e clientelismo si sono infiltrati a fondo nell’apparato statale, totalmente piegato alla volontà e ai desideri del dittatore e dei suoi alleati. Anche Laurent Désiré Kabila (1997-2001) e il figlio Joseph (2001-2018), sebbene avessero annunciato una cesura con la dittatura precedente, hanno contribuito a istituzionalizzare corruzione e clientelismo. È continuato l’accaparramento di risorse statali – Joseph Kabila è accusato di essersi appropriato, tra il 2013 e il 2018, di 138 milioni di dollari destinati alle casse nazionali – e familiari e amici sono stati posizionati alla guida di aziende pubbliche: nel 2018, secondo il Centro di ricerca sul Congo, 80 compagnie erano riconducibili alla cerchia di Kabila.

L’elezione nel 2018 di Tshisekedi – frutto di un accordo tra quest’ultimo e Kabila affinché l’ex presidente potesse continuare a influenzare la politica congolese dalle retrovie – non ha segnato un’inversione di tendenza. Ancora oggi, la Rdc resta uno dei paesi più corrotti al mondo, al 166esimo posto su 180 nell’Indice sulla percezione della corruzione di Transparency international (ente indipendente che monitora la corruzione globale).

Criticato per aver perpetuato un clima di impunità, Tshisekedi ha visto alcuni dei suoi collaboratori colpiti da accuse, come Vital Kamerhe incolpato di essersi appropriato di 48 milioni di dollari pubblici. Mentre, in vista del voto del 2023, ha posto l’alleato Denis Kadima alla guida della Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni), assicurandosi il controllo della macchina elettorale e la rielezione.

Conflitti, difficoltà economiche e corruzione continuano a segnare il presente e il futuro della Rdc, guidata da un’élite più interessata a mantenersi al potere e ad accrescere le proprie ricchezze che a soddisfare le reali esigenze della popolazione. Ancora una volta, un futuro fosco attende un Paese estremamente fragile.

Aurora Guainazzi

© Christophe Mutaka




Cina. La ciotola di ferro


L’economia di Pechino cresce meno rispetto al passato e la disoccupazione giovanile è alta. Anche per questo si sono diffusi termini come «tangping» (stare sdraiati), «neijuan» (involuzione), «bailan» (lasciare marcire), indicatori di un malessere preoccupante, soprattutto tra i più giovani.

«Posso semplicemente dormire nella mia botte godendomi un bagno di sole come Diogene, o vivere in una grotta come Eraclito e pensare al “logos”. Poiché su questa terra non è mai esistita davvero una scuola di pensiero che esalti la soggettività umana, posso crearla io stesso. Stare sdraiati (tangping) è il mio movimento filosofico: solo stando sdraiato l’uomo può diventare misura di tutte le cose».

Nell’aprile 2021, sul forum Baidu Tieba, un giovane cinese di nome Luo Huazhong spiegava il motivo che lo aveva portato a scegliere uno stile di vita sobrio e minimalista.

Annoiato dalla routine, nel 2016 il ventiseienne aveva lasciato un lavoro in fabbrica poco gratificante. Inforcata la sua bici, aveva poi pedalato per 2.100 chilometri dalla provincia del Sichuan al Tibet tra vallate sconfinate e paesaggi mozzafiato. Tornato nella sua città natale, nella Cina orientale, all’epoca del suo post, trascorreva il tempo leggendo libri di filosofia e tirava a campare con lavoretti da 60 dollari al mese. Certo, ormai poteva permettersi solo due pasti al giorno, ma – come recitava il post – meglio stare sdraiati ad assaporare i piccoli piaceri della quotidianità piuttosto che trascorrere le proprie giornate sulla catena di montaggio.

Cinesi e «sdraiati»

Luo non è l’unico a pensarla così. Nel 2021, la parola tangping è stata annoverata tra i dieci meme più popolari dell’anno dal «Centro nazionale di monitoraggio e ricerca delle risorse linguistiche», agenzia affiliata al ministero dell’Istruzione cinese. Secondo un sondaggio condotto nel 2022 dalla società di ricerca Tsingyan Group, circa il 96% di seimila rispondenti ha affermato di conoscere persone «sdraiate», con una concentrazione maggiore tra la popolazione di età compresa tra i 26 e i 40 anni.

La viralità del tangping non è, però, solo un fenomeno di costume, una moda del momento. È il sintomo di un malessere più ampio: come altrove, anche in Cina, le aspettative personali cambiano di generazione in generazione. Ma nella Repubblica popolare, più che altrove, l’insolita «apatia giovanile» rispecchia la mancanza di prospettive professionali.

D’altronde gli «sdraiati» sono in buona compagnia. Negli ultimi anni la blogosfera cinese ha generato espressioni simili a tangping: neijuan (involuzione) e bailan (lasciare marcire) sono termini che – sebbene con gradi diversi – esprimono ugualmente il profondo pessimismo dei più giovani verso il futuro. La crescita cinese rallenta e i millennials (si intende la generazione nata negli anni ‘80 e prima metà ‘90, ndr), cresciuti nell’era della prosperità, sperimentano le prime difficoltà economiche.

Grafico con i dati sul tasso di disoccupazione in Cina. Immagine Statista.com.

Stipendi da 256 euro

Stando alla Banca mondiale, nel 2022 il reddito pro capite cinese si aggirava sui 13mila dollari rispetto ai mille scarsi del 2000. Ma ora «l’ascensore» sembra essersi un po’ fermato.

Dall’inizio del Covid, per molte categorie professionali gli stipendi sono rimasti invariati o sono persino diminuiti. Secondo uno studio della Beijing Normal University, circa 964 milioni di persone in Cina guadagnano ancora meno di 2.000 yuan al mese (256 euro). Nel migliore dei casi si tratta di una fase di assestamento. Nel peggiore degli scenari, sono già i primordi della famigerata «trappola del reddito medio»: se così fosse, esaurita la scintilla del progresso, il gigante asiatico sarebbe condannato a restare bloccato in una fase di stagnazione. D’altronde, la mobilità sociale è in evidente fase di stallo.

Settori che hanno trainato la locomotiva cinese nei primi anni Duemila sono entrati in crisi: l’immobiliare – bene rifugio per molte famiglie cinesi – risulta distorto da decenni di bolla speculativa. L’economia digitale – miniera d’oro di Alibaba, Tencent & Co. – sconta ancora il colpo di coda della pandemia. Complice la stretta normativa avviata dal Governo tre anni fa per disciplinare le big tech: come in Occidente, anche in Cina sono fioccate accuse di pratiche anticompetitive, ma anche di sfruttamento. Non è un caso che i vari meme tangping, neijuan e bailan, abbiano attecchito soprattutto tra gli impiegati nell’Information technology (It), mediamente ben pagati, certo, ma sottoposti a turni di lavoro mortali (nel vero senso della parola).

Per ammortizzare il calo dei ricavi, nel 2022, Alibaba ha ridotto la propria forza lavoro di 19.576 unità, per poi effettuare un ulteriore taglio di 11.065 posti, arrivando a circa 230mila dipendenti (luglio 2023). «Ottimizzazioni» simili sono state annunciate da Tencent e dagli altri principali competitor nazionali per un totale di 216.800 posizioni chiuse tra luglio 2021 e marzo 2022. Strage anche nel comparto del tutoring online, sottoposto a un’analoga campagna di rettificazione. Mentre il Governo cinese puntava ad alleggerire la spesa delle famiglie e il carico degli studenti, l’unico risultato concreto della ferrea regolamentazione è riscontrabile nella perdita di almeno un milione di posti di lavoro. L’impatto in termini occupazionali è molto più devastante considerata la popolarità del settore tra i giovani alle prime esperienze professionali. Un bel problema per i neolaureati che, secondo stime del ministero dell’Istruzione, il prossimo anno raggiungeranno quota 11,79 milioni, 210mila in più rispetto al 2023. Quel che è peggio i numeri vanno proiettati nel calo generalizzato del settore dei servizi, e in particolare del comparto privato; proprio quello che assorbe ben l’80% dell’occupazione urbana, ma lo scorso anno quello stesso comparto privato ha rappresentato solo il 40% delle 100 maggiori società quotate del paese, il valore più basso dal 2019.

Panorama di Shenzhen. Foto Darmau – Unsplash.

Voglia di pubblico

Al tentativo di rafforzare il controllo statale sull’economia, i giovani hanno risposto come prevedibile. Ovvero facendo a gomitate per aggiudicarsi la cosiddetta «ciotola di ferro»: lavori nel settore pubblico retribuiti così così, ma stabili e con numerosi benefit. A novembre, 2,25 milioni di persone hanno sostenuto l’esame nazionale per diventare dipendenti pubblici a fronte di soli 39.600 posti vacanti. Altri, al contrario, valutando la precarietà del momento, hanno optato per soluzioni di transizione. Nel 2021 erano circa 200 milioni i «lavoratori flessibili», inclusi 4 milioni di rider e oltre 1,6 milioni di live streamer (coloro che trasmettono in diretta via web). Un trend, quello della gig economy, rimasto costante anche una volta rimosse le misure anti Covid. Secondo un rapporto pubblicato dalla principale piattaforma di reclutamento Zhilian Zhaopin e dall’Università di Jinan, nel primo trimestre del 2023 la domanda per lavoretti temporanei è continuata ad aumentare nonostante il graduale calo dell’offerta.

Chiariamo: seppure con il freno a mano tirato, l’economia cinese continua a generare milioni di posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione complessivo è rimasto stabile, poco sopra il 5%. Ma, si sa, i numeri ufficiali vanno presi con le molle. Non solo perché tengono conto esclusivamente della popolazione urbana, laddove il 40% dei cinesi vive ancora in campagna. Dopo aver segnalato a giugno un tasso di disoccupazione giovanile del 21,3%, il livello più alto mai registrato, l’Ufficio nazionale di statistica ha sospeso «momentaneamente» la pubblicazione dei dati. E quando, a gennaio, l’ha ripresa, l’indice era sceso al 15%, secondo un nuovo sistema di valutazione.

Percorrere altre strade

In assenza di stime attendibili, sono proprio le testimonianze sporadiche dei giovani internauti la risorsa più utile per ricostruire la situazione lavorativa nel Paese. Oltre agli «sdraiati», gli ultimi anni di incertezze hanno favorito la diffusione di abitudini di vita parimenti «anticonformiste»: è questo il caso della popolarità riscossa dai luoghi sacri. Stando ai dati diffusi dalla piattaforma turistica Qunar, le visite ai templi sono aumentate del 367% nel primo trimestre del 2023. Una conversione mistica in buona parte associata ai millennials, tanto che circa la metà dei visitatori risultava nata dopo il 1990.

«Qui mi sento rilassato e a mio agio», spiega al Lianhe Zaobao un trentenne entrato come volontario in un tempio di Shenzhen per sperimentare una «vita diversa». Anziché pregare per trovare un buon lavoro, qualcuno ha tentato la fortuna. Tra gennaio e ottobre 2023, i biglietti della lotteria sono andati a ruba, con vendite in aumento del 53% rispetto all’anno precedente.

© Chi Lok Trang – Unsplash

Migrazione verso gli Usa

Optando per un’esistenza più rilassante in tipico spirito tangping, sono sempre di più i giovani cinesi che si trasferiscono nelle località più selvagge e amene del Paese; chi in smart working chi in cerca di forme più hipster di sostentamento. Qualcun altro ha, invece, deciso di rifarsi una vita all’estero. Anche a costo di finire nelle grane.

Secondo dati del Dipartimento per la Sicurezza nazionale americana, il numero di persone con passaporto cinese ad aver attraversato il confine degli Stati Uniti senza documenti validi è più che raddoppiato negli ultimi anni. Quasi 60mila immigrati cinesi sono stati arrestati per aver attraversato illegalmente il confine negli ultimi 14 mesi. In confronto ammontano solo a 24.603 i visti rilasciati regolarmente. Ma non serve andare tanto lontani per trovare una stabilità economica. A marzo 2023, in Cina, risultavano esserci 16 milioni di «figli a tempo pieno»: adulti (perlopiù disoccupati) disposti a vivere a casa assistendo i propri genitori in cambio di una retribuzione mensile.

Occupazioni digitali

Consapevoli del problema, le autorità stanno cercando di correre ai ripari. Nuove linee guida dovrebbero regolamentare meglio la gig economy. Nel 2022, la Cina ha aggiunto 158 nuove occupazioni al suo elenco dei lavori ufficialmente riconosciuti: 97 riguardano l’economia digitale, dal marketing online all’intelligenza artificiale.

Se tutto andrà come da programma, entro il 2030 saliranno a 449 milioni i posti sostenuti dalla digitalizzazione. Nel frattempo, Pechino si affida a misure estemporanee.

Secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero delle Finanze, nel 2023 il governo centrale ha destinato 66,76 miliardi di yuan (9,17 miliardi di dollari) alle indennità di disoccupazione, un aumento annuo dell’8%. In alcune province, come lo Anhui, le imprese statali sono tenute non solo a reclutare neolaureati, ma anche a farlo rispettando quote prefissate.

Legittimità e benessere

Tanta premura è comprensibile: preservare la salute del mercato del lavoro è una questione in parte economica, in gran parte di stabilità sociale. Lo è soprattutto in Cina dove, in mancanza di elezioni popolari, il partito comunista fonda la propria legittimità politica sulla capacità di assicurare benessere economico. Dal movimento del 5 maggio 1919 alle proteste di piazza Tian’anmen, nel corso della storia cinese sono sempre stati i giovani a guidare le grandi mobilitazioni di piazza.

È proprio guardando al passato che, negli ultimi anni, la leadership cinese ha lanciato programmi di formazione di ispirazione maoista. Controllare la qualità delle coltivazioni, dipingere muri e ravvivare la lealtà politica dei contadini: sono alcune delle mansioni svolte dai giovani disposti a lavorare nelle campagne come ai tempi della Rivoluzione culturale. Oggi, tuttavia, non si vuole solo indottrinare le nuove generazioni. Domare la disoccupazione urbana è un’altra condizione imprescindibile per «costruire un paese socialista moderno», come vuole Xi. Questo aveva quasi certamente in mente il presidente quando ha ordinato di «guidare sistematicamente i laureati nelle zone rurali».

Propagandare l’ottimismo

Può sembrare una decisione disperata. Se così è, però, Pechino non lo dà a vedere. Alla parola disoccupazione la dirigenza comunista preferisce l’eufemismo «occupazione lenta»: secondo la vulgata ufficiale, il problema non sta nella mancanza di lavoro, ma nei giovani che, finiti gli studi, prendono tempo per pianificare il proprio futuro. L’importante è crederci, come si suol dire. D’altronde, la comunicazione o – meglio – la propaganda è tutto per il regime comunista che, dai tempi di Mao, legittima i propri (in)successi con la mobilitazione di massa.

Così, se la parola del 2021 era tangping, secondo i media governativi lo scorso anno è stata zhen, «rivitalizzazione». Uno sfoggio di ottimismo per incoraggiare i cittadini a sostenere il paese (e la sua leadership) davanti alle avversità economiche. Peccato che gli «sdraiati» di alzarsi non sembrano averne alcuna voglia.

Alessandra Colarizi

 




Torino. Missione Barriera


Periferia nord di Torino. Il quartiere più povero e multietnico della città dalla quale partirono i primi missionari della Consolata per il Kenya. Qui, un missionario keniano, da dieci anni, vive l’ad gentes tra italiani, stranieri, poveri, tossicodipendenti, migranti appena arrivati. L’annuncio attraverso la difesa dei diritti di chi non ha voce, l’accoglienza e la vicinanza.

I Missionari della Consolata sono arrivati nella parrocchia di Maria Speranza Nostra, zona Nord di Torino, nel 2013. Il parroco, padre Godfrey Msumange, classe 1973, era tanzaniano; il vice, padre Nicholas Muthoka, dell’81, keniano.

La stampa locale, ai tempi, aveva parlato del «parroco nero» con un certo stupore. Ad accoglierli, una donna italiana che lanciava insulti dal balcone.

Nello storico quartiere torinese di Barriera di Milano, il più multietnico della città, non tutti, forse, erano ancora pronti a vedere la chiesa locale guidata da sacerdoti africani.

Stile accogliente

Dal 2017 il parroco è padre Nicholas. Lo incontriamo in una fredda mattina d’inverno dopo dieci anni da quell’inizio per farci raccontare una delle frontiere della missione ad gentes dell’Imc in Europa.

Arriviamo in via Ceresole 44 alle 11. Le strutture della parrocchia prendono un intero isolato.

Suoniamo il citofono: viene ad aprire un giovane vietnamita che non dice una parola di italiano. È uno dei cinque migranti accolti in parrocchia.

Ci conduce dal parroco nel suo spartano ufficio ricavato in una stanzetta al fondo della chiesa.

Tra i banchi, nella navata, alcune persone fanno le pulizie: una donna nigeriana con suo figlio, un uomo brasiliano-peruviano, due donne italiane, una pugliese, l’altra piemontese.

Il missionario ci aspetta seduto su una poltrona in tessuto marrone. Maglioncino e camicia grigi, collarino bianco «d’ordinanza» in evidenza. Occhi brillanti, sorriso ironico, voce squillante. È in compagnia di padre Elmer Pelaez Epitacio, l’attuale viceparroco, messicano del 1982.

Il quartiere più straniero

La parrocchia, fondata nel 1929, si trova nel cuore di un quartiere popolare da sempre meta di migranti: prima dalle campagne piemontesi, poi dal Sud Italia, oggi da tutto il mondo.

La popolazione di «Barriera» è la più povera della città, con un reddito medio di 17mila euro, contro i 35mila del centro e i 47mila della collina, ma è anche la più giovane e, forse, vivace. Se nel capoluogo piemontese gli stranieri, provenienti per quasi la metà dall’Europa e per l’altra metà da Africa, Asia e America Latina, sono il 15,6% della popolazione (134mila su 858mila), in Barriera di Milano sono uno su tre (18mila su 50mila, il 36%), senza contare quelli che negli anni hanno acquisito la cittadinanza italiana.

Barriera è anche il quartiere nel quale viene sentita maggiore insicurezza da parte dei residenti, tanto da indurre le forze dell’ordine a fare frequenti retate che servono più a lavorare sulla percezione della popolazione che non sulla soluzione dei problemi. Proprio come denunciato più volte negli anni da padre Nicholas: le istituzioni parlano solo di degrado e mai delle persone che ne sono coinvolte, e affrontano lo spaccio, la violenza, i bivacchi di donne e uomini senza dimora, spostandoli da una zona all’altra del quartiere, senza offrire prospettive a chi volesse iniziare una vita più dignitosa.

Parrocchia colorata

Padre Nicholas ci fa accomodare. Accanto a lui, padre Elmer è seduto dietro la scrivania: volto ampio e allegro, capelli nerissimi, sciarpa beige sopra una maglia di pile grigia. Il missionario messicano è stato ordinato sacerdote nel 2021, ed è arrivato qui da un anno e mezzo, dopo un’esperienza tra gli indigeni Nasa della Colombia.

Racconta: «Sono felice di essere qua. Siamo in un territorio molto ricco. In questi dieci anni, la presenza missionaria ha dato un nuovo volto alla parrocchia». Poi elenca le attività: «Oltre alla pastorale ordinaria e al catecumenato, c’è l’oratorio aperto tutta la settimana, il gruppo caritativo che offre cibo ai poveri, il gruppo di mutuo aiuto per ex tossicodipendenti, il centro d’ascolto, due doposcuola. Poi abbiamo una prima accoglienza per stranieri: in uno spazio gestito dall’Ong Cisv ospitiamo una dozzina di donne; nella nostra canonica invece, in questo momento, stanno con noi cinque uomini».

Il missionario illustra anche l’ampia e variegata comunità Imc che vive in parrocchia: quattro sacerdoti (lui, p. Nicholas, p. Samuel Kabiru, keniano, e p. Frederick Odhiambo, keniano) e cinque seminaristi, provenienti da Etiopia, Tanzania, Kenya, Uganda e Costa d’Avorio, che studiano teologia e fanno pastorale in parrocchia. «Questo è un posto ricco di missione – chiosa -. Domenica scorsa, quattro donne africane e quattro adolescenti latinoamericani hanno chiesto ufficialmente il battesimo. Non è necessario andare in Africa o America o Asia. Oggi il mondo è qui».

Laicato e annuncio

Domandiamo da chi sono aiutati i missionari. «Ci sono suor Romana, una vincenziana, e Ivana, dell’Ordo virginum – risponde padre Nicholas -. Si occupano di catechesi, centro di ascolto, carità, anziani… praticamente di tutto. E poi ci sono i laici: il laicato qui è forte, non è solo manovalanza. Le cose le pensiamo e facciamo assieme».

Il missionario ha visto crescere, in questi dieci anni, il protagonismo dei laici e la loro attenzione ai «lontani», oltre che ai «vicini». «C’è stata anche una crescita nell’annuncio – aggiunge, dando una particolare forza a questa sottolineatura -. Una maggiore consapevolezza che non dobbiamo stare solo tra noi».

In oratorio le attività principali sono tre: l’oratorio feriale nel quale le persone, soprattutto ragazzi, vengono, giocano, stanno assieme. Questa è l’occasione per conoscerli. «Poi proponiamo il gruppo formativo – aggiunge padre Nicholas -. Infine, c’è il doposcuola due giorni alla settimana: sono quasi tutti magrebini, asiatici e africani. Poi c’è un gruppo di 35 bambini cinesi che fanno doposcuola la domenica, seguiti da una donna cinese. Per imparare la loro lingua e ripassare le materie di scuola. Da una parte, tutto questo è promozione umana, dall’altra è annuncio: all’estate ragazzi vengono tutti, sentono il Vangelo, cantano. La donna cinese, spesso, si ferma davanti alla madonna a pregare. Anche se non è cristiana».

La droga, il disagio

Nel quartiere, uno dei problemi più visibili è la droga: sia il consumo che lo spaccio.

Negli ultimi anni la stampa locale ha parlato spesso di un gruppo di tossicodipendenti che fino a poche settimane fa occupava il capannone abbandonato di un’azienda, la ex Gondrand.

Dopo l’ennesimo sgombero e l’inizio dell’abbattimento della struttura, ora i giovani si sono spostati. Sempre nei dintorni di Maria Speranza Nostra.

Padre Nicholas segue dal 2020 le persone coinvolte, e ha denunciato a più riprese l’indifferenza delle istituzioni nei loro confronti. «Per me sono prima di tutto dei giovani, non “tossici” o “migranti” o “barboni”. E sono nostri parrocchiani.

Hanno iniziato a venire da noi per il cibo – racconta -. Li abbiamo conosciuti e poi abbiamo iniziato ad andare a trovarli. C’è un gruppo più o meno fisso di venti, trenta persone. Ma il giro è più ampio: vengono da tutta la città e arrivano anche a cento. Formano una comunità. Stanno assieme, si picchiano, fanno di tutto, sono pieni di malattie.

Noi stiamo loro vicini con il cibo, le medicine, l’ascolto e con la difesa dei loro diritti presso chi dovrebbe occuparsene. Si spera che si muova qualcosa, ma sono anni che facciamo a pugni con l’aria».

Storie individuali

L’attenzione della parrocchia alle persone è segno della missione che si fa prossimità. Padre Nicholas ci racconta la storia di alcuni di loro: «Ad esempio, quella di un trentenne del Ghana: lavorava come meccanico, ma beveva molto, giocava alle macchinette, e poi chissà cos’altro faceva. Spendeva tutto in due giorni, ed era finito a vivere alla ex Gondrand. Io gli ho parlato molte volte, ma per due anni non c’è stato verso. Un giorno, cinque minuti prima della messa, arriva in lacrime: “Padre mi devi aiutare”. Io gli dico: “Proprio adesso? Cinque minuti prima della messa? Dopo due anni che ti sto dietro?” – ride padre Nicholas -. Mi sono fatto sostituire per la messa e l’ho ascoltato. Poi gli ho proposto: “Domani vieni con me al Sert, il servizio dell’Asl per le dipendenze. Una casa non te la trovo se prima non fai un percorso”. Allora lui ha iniziato a dirmi: “Sei cattivo, tu non mi vuoi aiutare…”, ma il giorno dopo è venuto con me. Dopo due mesi, era a posto.

Adesso è tranquillo, sereno, mi ha fatto pure un’offerta», conclude con un’altra risata.

Stupri e violenze

Un’altra storia riguarda una trentenne musulmana: «Una volta sono arrivato lì, alla Gondrand, proprio mentre la stupravano in tre – racconta padre Nicholas -. Meno male che mi conoscevano, e che, quando mi hanno visto, sono andati via. Per lei non era la prima volta, né l’ultima, ma non voleva denunciare per paura. Io le parlavo, ma lei non voleva andarsene. Quel gruppo è come una comunità. Si sentono legati tra loro, nel bene e nel male.

Un po’ di tempo dopo, è rimasta incinta. Non sapeva neanche chi fosse il padre. Allora si è convinta. Abbiamo contattato i servizi sociali ed è andata in una casa protetta. L’ho rivista poco tempo fa: era con il piccolo e abbiamo chiacchierato».

Nel gruppo non mancano le ragazze italiane: «Alla Gondrand, fino a un po’ di tempo fa, c’era un boss, originario dell’Africa occidentale. Era violento e controllava tutto, anche la droga che entrava e usciva. La sua ragazza di 25 anni era di Asti. Vivevano assieme al terzo piano della palazzina abbandonata. Un giorno sono stato chiamato con urgenza e, quando sono arrivato lì, ho trovato la ragazza con un ferro conficcato nella pancia. C’era sangue dappertutto. A mani nude ho tamponato la ferita e ho chiamato l’ambulanza. È stata salvata. Ma poi, quando è stata un po’ meglio, ha firmato l’uscita dall’ospedale ed è tornata lì con quell’uomo.

Io ho anche provato a chiamare la mamma, che però non ne voleva sapere. Poi se ne sono interessati i servizi sociali e alla fine è andata via. Dopo un po’ di tempo mi ha mandato un messaggio per farmi gli auguri di compleanno. In quel momento era a casa con la mamma. Qui non l’abbiamo più vista».

Spostare i problemi

Oggi alla ex Gondrand non c’è più nessuno. «La stanno buttando giù – dice padre Nicholas -. Ma è solo una questione di facciata. I giovani senza casa si sono semplicemente spostati».

Arrivano Franca e Mimma, due volontarie del gruppo caritativo, sulla sessantina. «Loro sono quelle a cui abbiamo sbolognato la faccenda della Gondrand», ride sornione il missionario.

«La maggior parte sono tossici, alcuni spacciatori – racconta Franca con voce calma e calda -. Ci sono anche donne italiane cui sono stati tolti i figli. Da poco siamo riusciti a sistemarne una che ha trovato un lavoretto ed è tornata a casa. Un’altra ha smesso di drogarsi da un mese. I ragazzi sono in gran parte di origine africana. Il problema di tutti loro è la droga. Vivono come randagi, un po’ qua e un po’ là.

Quando abbiamo iniziato, temevamo che fossero violenti, ma è bastato dire loro: “Ciao, come ti chiami, cosa fai, perché sei lì?”, e adesso ti salutano, ti ringraziano, ti abbracciano». «C’è una cosa che mi dà molta tristezza – interviene Mimma, che è rimasta in piedi accanto alla porta -. Questi ragazzi, uomini o donne che siano, non hanno la speranza di raggiungere un qualche obiettivo. È la droga che ammazza tutte le loro speranze. Quando vedi l’abbattimento totale di una persona ti manca il fiato».

«Sono gli “invisibili” – riprende Franca -. In realtà visibilissimi, perché sono per strada, da tutte le parti, ma sono invisibili per le istituzioni».

Vorremmo fotografare le volontarie, ma loro preferiscono di no: non vogliono «farsi pubblicità».

L’ad gentes in Europa

Si è fatto tardi. L’ora e mezza che avevamo a disposizione è già trascorsa. Rivolgiamo ai missionari le ultime due domande: «Cosa dice questa esperienza all’Istituto Missioni Consolata?».

Risponde padre Nicholas: «Penso che questa esperienza metta in luce qualcosa che sapevamo già: che la missione è anche in Europa. Facciamo opere di carità che hanno al centro l’annuncio. E indubbiamente qui siamo in un territorio ad gentes. Questa esperienza si inserisce nel nostro carisma e lo arricchisce. Qui non s’incontra un ambiente culturale omogeneo, come nella missione classica, ma molteplici culture in un contesto complesso».

Alla seconda domanda, «che cosa porta il carisma Imc in questo quartiere?», risponde invece padre Elmer: «Noi, come Imc, portiamo l’annuncio, e questo annuncio è la consolazione. E questo è un posto in cui offrire a poveri, adulti, bambini, anziani la vera consolazione».

Luca Lorusso

 Archivio MC