Zambujal: C’era una volta il campo degli ulivi


Zambujal, il «campo degli ulivi», non è più campagna ma un’anonima periferia urbana abitata da immigrati, rom e famiglie scappate dalle ex colonie portoghesi. Qui sono presenti i missionari e le missionarie della Consolata.

A Zambujal, un bairro dentro l’area metropolitana della città di Lisbona, circa 15mila persone vivono per la gran parte in casermoni di quattro o cinque piani tutti uguali con finestre piccole e strette. Gran parte delle finestre dei primi piani è chiusa da pesanti grate. Le inferriate sono presenti anche all’interno dei palazzi nei quali quasi tutte le porte degli appartamenti sono protette da cancelli con catene e lucchetti. Le ampie strade lastricate, molte chiuse al traffico, che separano i caseggiati sono vuote.

Il nome Zambujal viene da una parola araba che significa campo di olivi, ma qui è difficile trovare qualcosa che richiami il verde o l’aria accogliente di un uliveto. Si incontra solo qualche fila di alberi appena piantati che lottano per sopravvivere.

Vivere insieme alla gente che si serve

Tre missionari della Consolata, padre José Matías, padre Albino Brás, entrambi portoghesi, e il diacono Geoffrey Menya, kenyano, risiedono e lavorano nel quartiere. I tre non vivono in una casa religiosa o in una canonica, ma hanno affittato un appartamento al terzo piano di uno di quei tanti anonimi palazzoni di cemento. «Abbiamo fatto la scelta di vivere non solo in mezzo alla gente, ma anche come la gente», dice padre Matías (che non si fa chiamare José per non essere confuso con i tanti altri che portano il suo stesso nome). «In questo modo stiamo mettendo in pratica la missione ad gentes che abbiamo scelto quando siamo diventati missionari».

Padre Matías è stato uno dei primi a venire a Zambujal, già nel 2003, quando dalla casa dei missionari a Cacem, a una decina di minuti di macchina da qui, ha cominciato a visitare le famiglie del quartiere e celebrare la messa dove poteva al piano terra di qualcuno dei grandi edifici residenziali dell’area. «Ma il fatto che non vivessimo qui, rendeva difficile avere contatti profondi e duraturi con la gente», ricorda padre Matías.

Quando lui è stato trasferito in Spagna, i suoi confratelli hanno continuato a collaborare con la parrocchia di Zambujal, fino al 2012, anno in cui hanno deciso di prendere una residenza permanente nel quartiere per iniziare una presenza regolare in collaborazione con le suore della Consolata. Padre Albino Brás, con un confratello e un seminarista del Kenya, ha così iniziato la nuova avventura.

Padre Matías, lasciata la Spagna, è tornato in Portogallo all’inizio del 2016. «Il lavoro qui è molto impegnativo. I bisogni umani e spirituali della gente sono tantissimi», sottolinea il missionario che un tempo è stato in Mozambico, «e, anche se qualche volta è davvero dura, non c’è alternativa alla scelta di vivere insieme alla gente che si serve».

È quello che pensano anche le missionarie della Consolata, suor Severa Riva e Ivaní de Morais che hanno preso un appartamento non molto distante da quello dei missionari condividendo lo stesso spirito.

Il multiculturalismo di Zambujal

Nonostante il loro impegno, i missionari riescono ad avere contatti regolari solo con una piccola parte della popolazione di Zambujal. È una realtà molto difficile, resa ancora più complicata dalle divisioni etniche del quartiere. Gli abitanti sono, infatti, divisi in tre grandi gruppi, con innumerevoli sottogruppi. Ci sono i portoghesi nativi del posto, poi gli immigrati che parlano portoghese e provengono dalle ex colonie (soprattutto da Capo Verde) e infine i Rom. Ognuno dei gruppi tende a non mescolarsi con gli altri e fare vita a sé. Normalmente la convivenza, pur difficile, è pacifica, ma ogni tanto si carica di tensione e violenza. I pesanti cancelli davanti alle porte di ingresso degli appartamenti, ne sono un segno.

Virtualmente tutti gli appartamenti di Zambujal ricadono sotto la categoria del social housing (come le nostre case popolari, ndr). Infatti furono costruiti dal governo negli anni ’60 e ’70 per accogliere i molti portoghesi che scappavano dalle ex colonie man mano che queste recuperavano l’indipendenza, non senza guerre e violenze, abbandonando i loro possedimenti oltremare. Il processo di decolonizzazione dei territori oltremare – da Capo Verde all’Angola al Mozambico in Africa, da Timor Est a Goa a Macao in Asia – causò un grande afflusso nel paese di ex coloni portoghesi e di immigranti di ogni gruppo etnico.

Quello portoghese è stato il più longevo tra gli imperi coloniali europei e uno dei più estesi, cominciato con la conquista di Ceuta in Marocco nel 1415, e continuato con la conquista e colonizzazione di parte dell’Africa, del Brasile e dell’Asia. Il processo di decolonizzazione, partito dal 1822, con la perdita del Brasile, proseguito negli anni ’60 e ’70 del Novecento con l’indipendenza delle colonie africane, si è concluso all’inizio del nuovo millennio, con il trasferimento di Macao alla Cina nel 1999 e la concessione della sovranità a Timor Est nel 2002. Più di cinquanta stati possono oggi rintracciare le loro origini nell’impero portoghese.

Per molti portoghesi che sono stati obbligati a lasciare le antiche colonie, il Portogallo era in realtà una terra straniera. La gran parte di loro, come i loro padri e i loro nonni, erano nati e cresciuti nei territori d’oltremare. Pur parlando portoghese erano degli stranieri e per molti di loro l’integrazione nella società nazionale è stata molto difficile. Al numero di questi forestieri si è poi aggiunta la grande quantità di migranti provenienti da quelle stesse ex colonie. I due gruppi vengono spesso uniti sotto l’unica definizione di Palops (gente proveniente da Países Africanos de Língua Oficial Portuguesa): proprio per loro il governo ha costruito quartieri come Zambujal.

Le iniziative di aggregazione

Scendiamo con i padri Albino e Matías le sei rampe di scale che portano dal loro piccolo appartamento al marciapiede sulla strada principale del quartiere. Giriamo a sinistra e, dopo pochi passi, attraversiamo un’ampia porta di ferro e vetri. Entriamo nel Centro de Consolação e Vida. Da qui partono tutte le attività dei missionari. Una vivacissima ed energica suor Ivaní ci fa da guida.

Oltrepassato l’ampio corridoio che fa da ingresso, nel quale si apre una stanzetta che serve da ufficio di accoglienza e sala d’attesa, entriamo nel laboratorio di taglio e cucito. Un gruppo di donne intente ai loro lavori ci accoglie: c’è chi taglia la stoffa, chi cuce, chi ricama, il tutto sotto lo sguardo attento di Elisa Cruz, una laica missionaria della Consolata. Stanno confezionando borse di vario tipo, tutte fatte a mano, dall’A alla Z. Ne esaminiamo alcune, la qualità è eccellente. La suora apre allora un grande armadio e abbiamo modo di apprezzare la bellezza e il disegno originalissimo dei tessuti creati e lavorati da quelle donne. Elisa ci spiega che tutta la loro produzione è su commissione e, quindi, tutto è già venduto ancor prima di essere fatto. Pagate le spese, il guadagno va tutto a sostenere il centro e le sue attività.

Dietro il laboratorio ci sono due piccole aule che servono per corsi di alfabetizzazione e scuola serale per gli adulti. Una piccola cappella con una porta che dà direttamente sulla strada è il cuore del Centro di Consolazione e Vita. Lì ci si ritrova per la messa e per la preghiera personale o a piccoli gruppi. Naturalmente non manca l’angolo cucina, necessario per quando si organizzano piccole feste, anche se la maggior parte del cibo viene portata già pronta da casa.

Il Caza (Centro artístico do Zambujal) è il punto d’orgoglio e di gioia di tutti coloro che sono coinvolti nel centro. Quando i locali non sono usati per la scuola o per il laboratorio, si trasformano in un vivaio di creatività: musica, arte, cinema, danza, yoga e tante altre attività.

Alla base di tutto c’è, sempre presente, l’obiettivo dello sviluppo umano e spirituale delle persone, gli interventi sociali, l’opera di dialogo e incontro tra i vari gruppi, l’attenzione all’ambiente, la catechesi e preparazione ai sacramenti, l’evangelizzazione. «Le vie del Signore sono infinite», dice sorridendo padre Albino. «Abbiamo fatto molti progressi con i diversi gruppi che vivono in zona, soprattutto con i Capoverdiani. Rimane però il grande problema dei Rom, che tendono a isolarsi e non interagiscono molto con gli altri. A volte arrivano al punto di escludere dalla loro comunità chi tra loro frequenta il centro. Ma noi continuiamo con i tentativi di coinvolgerli».

Usciamo dal Caza e ci dirigiamo alla palestra, un’altra delle iniziative di aggregazione dei missionari. Ci accoglie Luis, un giovane capoverdiano, che si presta subito a farci da guida. È una palestra perfettamente funzionante come potreste trovare ovunque. I macchinari non sono proprio all’ultimo grido, ma funziona tutto perfettamente. Tutti gli attrezzi sono stati regalati da altre palestre quando hanno rinnovato il loro equipaggiamento. Attraverso quest’attività i missionari raggiungono tre obiettivi: offrono un servizio molto pratico soprattutto ai giovani, creano un centro di aggregazione e di incontro dove persone di diverse provenienze possono interagire tra loro e allo stesso tempo incontrare i missionari, e, attraverso la quota di iscrizione (degli oltre duecento membri) si autofinanziano e pagano il personale addetto.

Il bel colore dell’olivo

Tornando verso l’appartamento dei missionari, c’imbattiamo in un gruppo che esce da un caffè che fa anche da drogheria, dove puoi comprare di tutto a tutte le ore. Alcuni di quegli uomini riconoscono padre Matías e il diacono Geoffrey. Non possiamo non fermarci. C’è una gran voglia di chiacchierare. Un anziano ci fa vedere un sacchetto pieno di caracóis (lumache) che ha appena raccolto in un prato, con la moglie ci farà una bella zuppa. Dal bar una voce di donna ci chiama. Dobbiamo proprio entrare. La signora Clara, nativa dell’arcipelago Madeira, ci accoglie con un grande sorriso e grande cordialità, sprizzando giovialità da tutti i pori. Ci offre un espresso, a spese della casa. Vicino a noi un uomo beve un bicchiere di vino, aperitivo prima della cena.

Il quartiere può sembrare squallido e triste, ma per un momento la gente di Zambujal dimentica i suoi problemi. Il cemento non sembra più così impenetrabile e i piccoli alberi che fiancheggiano la strada potrebbero anche crescere grandi e forti e riprendersi un po’ il bel colore dell’olivo.

Domenic Cusmano*

* Testo tradotto e adattato da Gigi Anataloni dalla rivista «Consolata Missionaries» (n. 1, 2017), pubblicata in inglese e francese dai missionari della Consolata in Canada e negli Stati Uniti.




Sudan: La speranza sottile


La guerra in Sud Sudan non si è fermata. Anzi, è diventata più cruenta e caotica. Con il moltiplicarsi dei gruppi guerriglieri e lo strapotere dell’esercito «regolare». Milioni sono le persone in fuga dalla propria terra. Anche a causa della fame che uccide. Il governo lancia un dialogo, reputato da molti di facciata. I responsabili di tre chiese chiedono aiuto al papa.

È il 28 ottobre 2016 quando tre capi religiosi del Sud Sudan giungono in Vaticano per incontrare papa Francesco. Sono monsignor Paulino Lukudu Loro, vescovo di Juba, il reverendo Daniel Deng Bul Yak, vescovo anglicano e il reverendo Peter Gai, moderatore della chiesa presbiteriana. Il papa li ha convocati qualche giorno prima, preoccupato dell’inasprirsi del conflitto nel paese. Nel luglio 2016, il cardinale Peter Turkson, presidente del Pontificio consiglio della giustizia e della pace si era recato in Sud Sudan per verificare la situazione.

Il paese più giovane dell’Africa (e del mondo), indipendente dal luglio 2011, è scosso da una guerra civile che sta assumendo connotati disastrosi (si veda MC agosto-settembre 2016).

Una guerra tra fratelli

Dal dicembre 2013 l’esercito governativo del presidente Salva Kiir, di etnia Dinka, fronteggia i ribelli dell’ex vicepresidente (lo è stato fino al luglio 2016) Riek Machar, di etnia Nuer. La situazione sul terreno è andata complicandosi e la guerra ha assunto connotazioni etniche. Delle 64 etnie presenti nel Sud Sudan, la quasi totalità si è schierata contro i Dinka. «Stanno nascendo nuovi gruppi guerriglieri – conferma padre Daniele Moschetti, fino a dicembre scorso superiore dei missionari Comboniani nel paese -. Poche settimane fa è nato un gruppo ribelle legato all’etnia Bari e comandato da Thomas Cyrillo». Giovanissimo, Cyrillo, vice capo dell’esercito regolare, ha disertato ed è subito stato accusato di corruzione. Poco dopo ha annunciato la nascita del suo gruppo guerrigliero. Altri gruppi, come quello intorno alle etnie Zande, Shilluk, stanno nascendo.

«L’esercito regolare invade le terre ancestrali dei vari popoli. Le donne e i bambini scappano, i giovani si organizzano per difenderle. In questo senso la guerra è etnica». Ma a loro volta i nuovi gruppi si macchiano di crimini efferati, perché devono sostentarsi, spostarsi. Per cui saccheggiano e usano ogni forma di violenza contro la popolazione civile (si veda box).

«Così oggi abbiamo oltre un milione e mezzo di sud sudanesi fuggiti all’estero, in Ciad, Etiopia, Kenya, Uganda. Altrettanti, su una popolazione totale di 12,5 milioni, sono sfollati interni, ovvero fuggiti dalle loro terre. Circa 300.000 sono in campi profughi nelle varie città sud sudanesi», continua padre Moschetti. E le uccisioni sono sempre più a sfondo etnico: la gente viene divisa per etnia e quindi massacrata per il solo fatto di appartenere a un dato gruppo.

Le Chiese unite per la pace

In questo contesto le chiese sono unite in una iniziativa ecumenica, sotto il South Sudan Council of Churches, e lavorano per il dialogo e la pace con programmi comuni e singole iniziative.

Lo scorso 26 febbraio papa Francesco, in visita alla parrocchia anglicana All Saints di Roma per le celebrazioni dei 200 anni della stessa, ha confermato di voler fare un viaggio nel paese. E, soprattutto, di volerlo fare insieme a Justin Welby, arcivescovo di Canterbury e capo della chiesa anglicana. Questo per dare un segnale forte.

Nonostante le numerose indiscrezioni di smentite, nel momento in cui scriviamo il Vaticano conferma questa possibilità. «Potrebbe svolgersi a ottobre – dice speranzoso padre Moschetti – dopo il viaggio in Colombia di settembre, probabilmente una visita lampo, una mezza giornata, ma sarebbe molto importante». E continua: «Però se penso ai mesi che ci separano da ottobre, con un conflitto che si sta allargando a macchia d’olio e può portare davvero a un’ecatombe, potrebbe addirittura essere tardi».

 

Dialogo «governativo»

Nel frattempo il governo di Salva Kiir ha lanciato il «suo» dialogo. Se ne parlava a dicembre ed è stato ufficializzato il 10 marzo scorso. Sono previsti incontri, conferenze. «Ma lui invita chi vuole. Non è stata un’operazione consultativa, ma nominativa. Il governo non si è consultato, ha invitato alcune personalità sud sudanesi che reputa rappresentative della società». Padre Daniele è scettico su questa iniziativa, dalla quale alcuni importanti esponenti si sono già defilati per evitare ogni strumentalizzazione. «Ad esempio monsignor Paride Thaban vescovo emerito di Torit, ha 81 anni e fa molto per la pace, ma ha preferito star fuori da questo dialogo organizzato dalle istituzioni».

Il dialogo sarebbe un paravento per il governo dietro cui nascondersi dalla comunità internazionale, Usa e Gran Bretagna in testa, che vorrebbero una stabilizzazione del paese. «Dovrebbe portare a far rispettare gli accordi del luglio 2015 di cui i governativi non hanno mai tenuto conto». L’accordo non piaceva, soprattutto ai cosiddetti «Dinka helders», personaggi influenti che stanno dietro o intorno al presidente. Uno di loro è il generale Paul Malong, potente capo dell’esercito, dinka ma di un clan diverso da quello di Kiir.

Machar fuori gioco?

Gli scontri sono iniziati a Juba e si sono estesi in diversi stati, a cominciare da quelli in cui c’è petrolio, che sono anche quelli a maggioranza nuer: Unity, Jonglei e Upper Nile. Ma è Unity il più colpito per morti e devastazione. È lo stato di cui è originario Riek Machar, l’altro signore della guerra.

Ma dove si trova oggi Machar? Fuggito nella foresta con 700 uomini dopo lo scoppio di violenti scontri a Juba, seguiti alla firma dell’accordo nell’estate 2015 e all’insediamento del governo provvisorio (aprile 2016), riparato in Congo, malato è stato poi curato a Khartum, capitale del Sudan. Ristabilito, ha fatto un appello a tutti i sud sudanesi di imbracciare le armi contro l’esercito governativo dei Dinka. «È in quell’occasione che abbiamo visto un cambiamento brusco della comunità internazionale rispetto all’appoggio a Machar, perché la sua chiamata alla guerra non è piaciuta». Andato in Sudafrica (dove peraltro ha delle proprietà) per farsi curare, ha tentato di organizzare un ritorno sul campo, ma è stato bloccato ad Addis Abeba (Etiopia). «Lontano dal terreno non riesce a comandare le truppe, ed ecco che stanno venendo fuori nuovi gruppi e nuovi leader militari, come Cyrillo, appunto».

Morire di fame

Il paese è in ginocchio anche per la fame. Una fame causata dalla carestia, ma soprattutto dalla guerra, dalla fuga della popolazione, dall’impossibilità di coltivare. «Oggi nell’Unity State si muore di stenti e di fame. Sono bambini, donne e vecchi che muoiono per primi. Gli altri sono nelle milizie o sono scappati. Il papa è cosciente della situazione, per cui vuole intervenire. Anche le Nazioni Unite non riescono a soddisfare tutte le esigenze. Il governo non lascia creare i corridoi umanitari per portare il cibo. E la gente ha iniziato a morire».

Il Sud Sudan è anche al collasso dal punto di vista economico. La moneta ha visto una svalutazione dell’850% nel 2016. «La banca centrale deve farsi prestare la valuta dalle banche commerciali ugandesi e keniane, perché non ha riserve e paga gli interessi.

Molti stranieri dei paesi confinanti dell’Africa dell’Est (Uganda, Kenya, Etiopia, ecc.), che mandavano avanti attività di tipo economico se ne sono andati. Tutto si è paralizzato».

AFP PHOTO / Charles Atiki Lomodong

Alleanze e risorse

I pozzi di petrolio rimasti attivi sono pochi. La strategia dei ribelli era di impedire le estrazioni per bloccare l’economia e i finanziamenti al governo. Nonostante questo, però, l’esercito di Kiir ha armi nuove come gli elicotteri da combattimento con i quali bombarda. È appoggiato da Russia, Ukraina, Israele. La Cina compra il petrolio. I ribelli sono molto meno armati, ma riescono comunque ad ottenere dei successi sul terreno. «Bisogna capire chi sponsorizza i ribelli. Gli interessi in campo sono molti: acqua (il Nilo), minerali, foreste. E poi il transito del petrolio, che porta soldi e prestigio. Attualmente gli oleodotti vanno tutti verso Nord, verso il Sudan, ma il Kenya sta costruendo un porto a Lamu, che sostituirà quello di Mombasa e vorrebbe farci arrivare un oleodotto dal Sud Sudan dal Jonglei, passando per Isiolo. Anche l’Etiopia vorrebbe che il petrolio sud sudanese passasse sul suo territorio, per andare al porto di Gibuti. Sono progetti enormi, del valore di diversi miliardi di dollari. L’Uganda invece è da sempre alleata di Salva Kiir». Così i capi guerriglieri fanno accordi con i governi interessati e ottengono armi in cambio di promesse di vantaggi futuri. Padre Daniele ha visto le varie fasi della storia del Sud Sudan. Oggi ha poche speranze.

«Non si vedono grandi sbocchi. Speravamo che questa nuova iniziativa del governo fosse sincera. Siamo all’assurdo: miseria, fame, insicurezza generale, fuga dal paese. Tutti segni negativi.

Un’iniziativa positiva darebbe una speranza alla gente. Il governo ha fallito e non vuole ammetterlo. Anche i ribelli saccheggiano, rubano, stuprano. Nel paese si ha paura dei propri giovani, un abbrutimento di chi dovrebbe proteggere i cittadini ed è diventato fautore di violenze continue. Ora la speranza è rappresentata solo dalle chiese. Spero davvero che papa Francesco vada in Sud Sudan il prima possibile».

Marco Bello


Testimonianza di un operatore umanitario

Il mio consiglio? Andatevene!

Le statistiche snocciolano freddi numeri. Mentre caldi ragazzi soldato devastano il proprio paese. La gente viene uccisa in base all’etnia. Gli occhi delle donne sfollate sono svuotati dalla fame e da ciò che hanno visto. E alcuni (pochi)?leader diventano ricchissimi. Racconto di un cooperante dal Sud Sudan.

Juba. «La sicurezza alimentare in Sudan del Sud continua a deteriorarsi con 4,9 milioni di persone (circa il 42% della popolazione) a rischio di grave fame prima dell’estate, e una prospettiva di crescita fino a 5,5 milioni di persone a luglio 2017, nel pieno della stagione delle piogge. Si afferma che la portata di questa insicurezza alimentare sia senza precedenti» (Ipc – Integrated Food Security Phase Classification in South Sudan gennaio – luglio 2017). Questo indica il bisogno, anzi il dovere, di intervenire subito, attraverso aiuti umanitari, sia in termini di distribuzioni di sementi e attrezzi agricoli – prima che inizi la stagione delle piogge (aprile-maggio) per riuscire ad avere un raccolto in un paio di mesi -, sia, e soprattutto, di distribuzione di cibo, cosa che non è assolutamente sostenibile e, probabilmente, fattibile, se consideriamo quante emergenze umanitarie ci sono nel mondo in questo momento.

Gli sfollati interni sono 1,89 milioni, più di 1 milione e mezzo i rifugiati nei paesi confinanti, e non solo a causa del conflitto cominciato nel dicembre 2013, ma anche per la mancanza di cibo. Possiamo però cominciare a contare anche chi ritorna dai campi rifugiati in Kenya (Kakuma) e da quelli ugandesi, visto che le condizioni di accesso al cibo lì non sono migliori, come pure all’educazione e alla salute.

Sono 7,5 milioni le persone che necessitano di assistenza e protezione umanitaria, su una popolazione stimata in 12 milioni, quindi più della metà (dati Ocha febbraio 2017 e Unhcr febbraio 2017).

Numeri freddi

Numeri, solo numeri, che potrebbero non dire molto, e in effetti come possiamo figurarci di quanta gente si sta parlando? Restano cifre e appelli, in attesa che qualcuno mobiliti qualcosa per rispondere a questa ennesima emergenza. Tutto questo è il risultato di più di tre anni di conflitto, di cui probabilmente nessuno sa la ragione, perché forse la conosce solo chi sta al potere. Motivi che non sono certo quelli di migliorare le condizioni della gente, fosse anche solo della propria etnia. Ormai chi va al governo ci sta giusto il tempo necessario per mettere da parte qualche soldo e prepararsi un rifugio all’estero, lontano da questo paese in cui più nessuno vuole vivere (nemmeno gli operatori umanitari). Ormai è un gioco noto.

I leader

Mentre i leader non si sa più chi siano, visto che ogni giorno nasce una nuova fazione etnica e politica, e, cosa ancora più grave, che ormai non hanno più il controllo delle forze armate, si moltiplicano i gruppi armati senza uniforme e senza bandiera. Nessuno sa più chi è colui che ha di fronte.

A questa gente ormai triste, spenta, senza speranze, con le case bruciate, distrutte, saccheggiate, chi ci pensa? Ma questi gruppi non sono stanchi di combattere inutilmente? Sì, perché fanno la guerra contro qualcuno che si sta arricchendo di denaro e di potere, mentre la gente continua a non avere nessuna prospettiva di miglioramento.

Le donne sanno solo che ogni giorno, dal momento in cui si alzano al momento in cui andranno a dormire, dovranno andare alla ricerca di cibo da dare ai propri figli e di acqua. Le case bruciate rimangono così per mesi, nonostante il materiale per la ricostruzione delle abitazioni sia disponibile localmente, perché per tutto il giorno le persone sono nella foresta a cercare cibo. Il wild food, ossia piccoli frutti degli alberi, è ciò che mangiano una volta al giorno, nient’altro. Per avere l’acqua occorre salire la montagna dove c’è la sorgente e rimanerci tutta la notte per riempire un secchio da 20 litri, perché scende goccia a goccia. E poi non è consigliato per le donne camminare ore a cercare cibo e materiale da costruzione, visto che i dintorni rigurgitano di gruppi armati informali e il rischio di violenza è altamente diffuso.

Alla domanda «qual è il maggiore problema?», è dura sentirsi dire «la mancanza di cibo», «la fame». Come è dura vedere gli occhi spenti e le espressioni vuote di ragazze adolescenti che non hanno nemmeno energia e forza per capire quello che dici, per rispondere.

Quale futuro?

La frequenza scolastica ormai è bassa, sia perché le mense sono senza cibo, sia perché le famiglie non hanno soldi per pagare la scuola. A questo si somma l’esodo dal paese, dei bambini e degli insegnanti, a causa di insicurezza e fame. Tra i molti sfollati interni sono tante le famiglie nelle quali i figli sono separati dai genitori. La gente del villaggio si occuperà dei minori non accompagnati, ma quale impatto psicosociale avrà il conflitto su questi bambini e su un’intera generazione (se non due generazioni)? Un conflitto che non vede una fine, mentre ogni giorno si apre o si riaccende un focolaio di scontri. E non si sa più tra quali parti. I gruppi contrapposti non sono più due, ma decine o centinaia. E forse l’etnia è la variabile che c’entra di meno. Oltrettutto gli operatori umanitari sono ormai un bersaglio comune, sia staff locale, sia internazionale, come pure le loro abitazioni e uffici, continuamente saccheggiati.

Crimini contro l’umanità

Esiste un sistema giuridico internazionale e un sistema penale internazionale, e ancora crediamo nella loro efficacia. Ormai è noto a tutti che qui le diverse fazioni si stanno macchiando di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. È visibile il genocidio, come denunciato dall’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, rimasto inascoltato. Quando si avvicinano a un’auto e chiedono se all’interno c’è gente della tale etnia per uccidere e bruciare solo quelli e far passare gli altri, cos’è? Perché non si possono fermare, attraverso azioni legali, coloro che stanno commettendo quotidianamente questi crimini?

Non si intravede nessuna svolta, si contano invece centinaia di persone lasciare ogni giorno la propria casa, per cercare rifugio in un paese confinante o un villaggio più pacifico all’interno del Sud Sudan, dove però si diventa facilmente vittime della fame, ormai diffusa anche nelle regioni che producevano per l’agricoltura interna, come le tre regioni del Sud. Lo scorso luglio, poi, il conflitto si è esteso pure a quelle zone. L’insicurezza diffusa ha progressivamente impedito l’accesso alla terra, la mancanza di sementi e attrezzi agricoli (spesso saccheggiati o abbandonati perché le famiglie sono state costrette a scappare) e la siccità, che ha colpito l’area lo scorso anno bruciando i raccolti, hanno fatto il resto. Se qualcuno mi chiedesse cosa consiglio, direi «andatevene», lasciate al più presto questo paese dove i politici fanno i loro giochi di potere e di denaro, mentre la gente resta loro sottomessa, perché, secondo la loro cultura, si abbassa la testa e si annuisce di fronte all’autorità.

Antonio La Torre*
* Nome di fantasia di un cooperante che vive e lavora in Sud Sudan ormai da mesi e preferisce mantenere l’anonimato.

 




Il botanico divenuto missionario


Farmacista, botanico e missionario, il gesuita moravo Josef Kamel (1661-1706) dall’Impero asburgico andò nelle Filippine, dove continuò il suo lavoro e le sue ricerche. Fu talmente bravo che Carlo Linneo, il famoso medico e naturalista svedese, gli dedicò il genere Camellia.

Il tè è una delle bevande più semplici e naturali al mondo. Una suggestiva leggenda racconta che la sua scoperta avvenne per puro caso nel terzo millennio a.C. ad opera del mitologico imperatore cinese Shennong. Questi stava scaldando dell’acqua quando alcune foglie staccatesi dai rami dall’albero sotto cui stava riposando, andarono a cadere nella tazza cambiando il colore del liquido in essa contenuto. Curioso, Shennong assaggiò la miscela gustandone il sapore e trovandola corroborante. Così fu scoperto, o inventando, il tè. Per secoli le foglie del tè furono considerate e utilizzate come medicamento più che come bevanda e non è certo un caso che Shennong, oltre ad essere considerato colui che insegnò l’arte dell’agricoltura agli uomini, è anche il maestro che diede avvio alla medicina tradizionale cinese. Passando dalla mitologia ai fatti storici, il primo documento in cui si attesta in modo inequivocabile l’uso del tè come bevanda risale al 59 a.C., durante la dinastia Han. Secondo un recente studio effettuato nel 2015 da un’equipe di ricercatori cinesi e pubblicato dalla rivista Nature, il suo uso si diffuse anche nelle aree occidentali della Cina, in particolare nel Tibet e nell’attuale Xinjiang, nel II secolo d.C., almeno quattro secoli prima di quanto si fosse fino ad oggi supposto.

Esiste un solo albero che produce le foglie con cui si prepara l’infuso del tè: la Camellia sinensis. Come suggerisce l’aggettivo sinensis, la pianta ha origine in Cina (esattamente nella Cina meridionale). Ma da dove deriva il termine «Camellia»?

Il farmacista di Brno

Il nome della pianta fu dato dal medico e naturalista svedese Carlo Linneo (1707-1778), il quale latinizzò il nome Camellia in omaggio ad un semisconosciuto gesuita moravo: Ji?i Josef Kamel (1661-1706), fratello laico e missionario nelle Filippine.

Kamel nacque a Brno (ora in Repubblica Ceca), il 21 aprile 1661. Sua madre era austriaca, mentre il padre era moravo. Brno, facente parte dell’Impero asburgico, era da poco stata nominata unica capitale del Mangraviato di Moravia, premiando la strenua difesa opposta dalla città alle truppe svedesi le quali, dopo aver conquistato la città di Olomouc, minacciavano di marciare su Vienna. L’ordine dei Gesuiti stava godendo di grande popolarità perché uno degli eroi della resistenza era stato Martin St?eda, rettore del Collegio gesuita cittadino. Sull’onda dell’entusiasmo per la vittoria, il pittore Martin Antonin Lublinsky dipinse uno dei rari ritratti di St?eda, oggi conservato nella Galleria Morava di Brno. È una raffigurazione mistica, che mostra la temporanea ascensione al cielo del rettore nel momento in cui gli svedesi decidono di abbandonare l’assedio. La Madonna che gli rende omaggio e al tempo stesso la medaglia che mostra l’imperatore Ferdinando III d’Asburgo vogliono accentuare il ruolo avuto dal prelato come difensore dell’Impero asburgico e la sua figura di mediatore tra l’imperatore e Dio.

Forte degli onori attribuiti alla compagnia, la famiglia di Ji?i fu ben felice di donare il proprio figlio ai Gesuiti. Fu in questa istituzione che Kamel studiò con passione la botanica e divenne, nel 1679, farmacista, praticando la professione nella farmacia del collegio.

Il 12 novembre 1682 Kamel entrò in noviziato a Brno e dal 1685 diresse come fratello laico la farmacia del collegio della Santa Trinità di Jind?ichuv Hradec per poi trasferirsi, l’anno seguente, a ?esky Krumlov. Nella piccola cittadina boema restò solo pochi mesi perché fu lui stesso a chiedere, ed ottenere, di essere mandato missionario oltreoceano.

Nelle Filippine

Nel 1688, dopo essere partito da Cadice, arrivò nelle Filippine, colonia spagnola, dove venne assegnato al Colegio Màximo de San Ignacio, il collegio centrale dei Gesuiti di Manila. L’esperienza farmaceutica maturata in Boemia e la profonda passione per la botanica, indussero il superiore di Kamel ad affidargli il compito di fondare la prima farmacia del paese. Lui stesso preparava le medicine, che distribuiva gratuitamente ai più poveri, approfondendo la conoscenza della flora e della fauna locale.

Il nuovo ambiente in cui operava, però, era assai diverso da quello in cui era cresciuto e in cui aveva fatto pratica: il clima, la cultura, la flora riducevano spesso le sue conoscenze farmacologiche acquisite in Europa a teorie poco concretizzabili e la frustrazione per la sua impotenza nel comprendere le proprietà curative di questa o quella specie sono chiaramente percepibili nei suoi diari e nelle sue lettere.

Kamel decise, dunque, di intraprendere nuove ricerche botaniche, disegnando nei suoi appunti ogni genere di pianta, frutta, foglia che riteneva utile per il suo lavoro e identificando ognuna di queste con i nomi locali cercando di tradurli in diverse lingue europee.

Ji?i Josef Kamel fu così il primo a classificare le piante e gli animali delle Filippine e durante le sue ricerche scoprì le proprietà del «fagiolo (fava) di Sant’Ignazio» (Strychnos ignatia), che prese il nome dal fondatore dell’ordine gesuita ed i cui semi, essiccati e triturati, sono oggi utilizzati in omeopatia per l’estrazione della stricnina.

Per poter avere sottomano gli ingredienti necessari al fine di approntare i farmaci in modo veloce e poco dispendioso, Kamel iniziò a coltivare le erbe in un orto che, in pochi anni, si sarebbe trasformato nel primo orto botanico della colonia spagnola.

La collaborazione con la «Royal Society»

In meno di un decennio il gesuita moravo si meritò l’applauso non solo dei suoi confratelli (il suo superiore, il boemo Paul Klein, si sentì in dovere di scriverne gli elogi in una lettera indirizzata ai gesuiti in Boemia), ma anche di James Petiver, farmacista e botanico, nonché membro della prestigiosa Royal Society di Londra. La società britannica aveva da poco adottato il concetto scientifico baconiano: la «veracitas naturae» doveva essere cercata nell’autorità dei sensi. Era quindi indispensabile studiare i fenomeni non sui libri, ma inserirsi all’interno della natura. I nuovi scienziati dovevano viaggiare o, se questo non fosse stato possibile, appoggiarsi a qualcuno di assoluta e provata fiducia e preparazione che lavorava sul campo. Kamel poteva essere uno di questi uomini e il tempo avrebbe premiato la stima riposta da Petiver sul fratello laico gesuita.

Per mantenere i contatti e scambiare missive, informazioni, metodi di studio, ci si serviva delle rotte commerciali e delle compagnie navali che solcavano i mari in lungo e in largo tra le varie colonie. Anche allora, come oggi, sussistevano problemi diplomatici e politici che impedivano le regolari comunicazioni tra le parti del mondo governate da paesi rivali. I rapporti tra Spagna e Gran Bretagna erano tesi e le navi della Compagnia delle Indie Orientali non avevano il permesso di attraccare nei porti delle colonie spagnole. La Compagnia si avvalse, quindi di intermediari, generalmente indiani, armeni e portoghesi affittando vascelli battenti bandiere amiche della corona spagnola.

Inoltre ogni stato e ogni istituzione, religiosa o secolare che fosse, conservava gelosamente le proprie scoperte e non gradiva che queste, di qualunque natura fossero, venissero divulgate a nazioni o organizzazioni rivali. Kamel ebbe, però, la fortuna di avere come rettore Martinus Sola, il quale lo aiutò a eludere i controlli delle autorità spagnole, permettendogli di mantenere la corrispondenza con la Royal Society.

Un’altra difficoltà era la lingua, in particolare per Kamel, che non conosceva l’inglese. Le missive, quindi, si esplicitavano in latino.

Nel gennaio 1698 Kamel spedì tramite intermediari armeni e portoghesi a Samuel Browne, un chirurgo della Compagnia delle Indie Orientali, il suo libro «Herbarium aliarumque stirpium in insula Luzone Philippinarum primaria nascentium Syllabus» (Rassegna delle piante e degli arbusti che crescono a Luzon). Browne avrebbe poi dovuto inviare il pacco a James Petiver e al suo collega John Ray. Assieme al suo lavoro, Kamel inviò anche alcuni semi di alberi. Nulla, però, giunse in Gran Bretagna perché la nave venne attaccata dai pirati. Dopo un primo, comprensibile, scoramento per aver perso dieci anni di intenso lavoro, il gesuita si rimise all’opera e nel gennaio 1699 rispedì libro e semi che, questa volta, arrivarono nelle mani dei botanici. Lo studio fu apprezzato e nel 1704 venne pubblicato come appendice di 96 pagine al terzo volume della «Historia plantarum; species hactenus editas insuper multas noviter inventas & descriptas complectens» di John Ray. Oltre a descrivere erroneamente Kamel come reverendo padre (in realtà Kamel non prese mai i voti), nell’appendice vennero eliminati i preziosi disegni del gesuita, essenziali per una corretta comprensione del trattato. Questa omissione, causata da questioni economiche, oltre a contrariare l’autore degradò il lavoro di Kamel, tanto che i maggiori botanici del secolo, tra cui Linneo (nato l’anno dopo la morte di Kamel), reputarono il supplemento di nessun interesse.

Per sua fortuna, però, pochi mesi prima la Royal Society aveva pubblicato «Observationes de Avibus Philippensibus», il primo studio in assoluto sugli uccelli nelle Filippine e, soprattutto, il «Gazophylacium naturae et artis», decadi prima di Petiver, in cui furono inseriti numerosi disegni di Kamel. Entrambi questi lavori concessero al gesuita la fama internazionale.

L’omaggio di Carlo Linneo

Un grosso contributo nel far conoscere il farmacista moravo al mondo della botanica arrivò dall’Indonesia. Kamel, nel tentativo di cercare un’alternativa alla via di comunicazione con l’Europa, la trovò nella rotta per Batavia (oggi Giacarta), colonia olandese. Qui, in modo fortuito, Willem ten Rhijne, il più esperto botanico nel Sud Est asiatico, ebbe a trovarsi tra le mani uno dei lavori del gesuita. Nel luglio 1698 ten Rhijne propose a Kamel una collaborazione che durò fino alla morte dell’olandese, avvenuta nel giugno 1700. Da parte sua Linneo, dopo l’iniziale delusione dell’appendice dell’«Historia plantarum», cominciò a capire lo spessore scientifico del lavoro di Kamel e nel 1753 decise di onorarlo dedicandogli il nome di Camellia, l’albero da cui si raccolgono le foglie del tè. Contrariamente a quanto generalmente si scrive, sembra che Kamel riuscì effettivamente a vedere di persona l’albero del tè o, almeno, la sua foglia. Un suo esemplare venne trovato nell’erbario personale del missionario gesuita e lui stesso ne riportò anche un disegno, assieme al frutto, nominandola come «tchia» (il nome che molte culture orientali danno al tè). Disegno datato 1700 e oggi conservato nell’Università Cattolica di Lovanio, in Belgio.

La notizia della morte di Ji?i Josef Kamel, occorsa per un’infezione intestinale il 2 maggio 1706 a Manila, arrivò in Europa solo nel marzo 1710, quando il suo principale corrispondente, Petiver, seppe dell’accaduto da Vincenzo Serrano, confratello di Kamel. Le comunicazioni con le Filippine, già difficili in condizioni normali, divennero proibitive a causa della guerra di successione spagnola.

La pianta del tè

Nonostante Linneo conferì a Kamel l’onore della denominazione botanica della Camellia sinensis, il missionario moravo, come detto in precedenza, poco o nulla scrisse della pianta.

Fu, invece, il medico tedesco Andreas Cleyer che, durante le sue due visite in Giappone nel 1682-84 e nel 1685-87, descrisse per primo la pianta del tè. Nel 1712 il naturalista e dottore tedesco Engelbert Kaempfer, che viveva a Nagasaki, scrisse il «Amoenitates Exoticarum», considerato il primo studio scientifico europeo sulla pianta del tè (che Kaempfer descrisse con il nome giapponese di «tsubakki» e «sasanqua»), pur dedicando all’albero un trattato di sole due pagine e mezzo. Da parte sua Linneo non sospettò mai che la pianta di Thea sinensis, il nome botanico dato alla pianta da James Petiver nel 1702, fosse la stessa della Camellia. Nel suo libro «Species Plantarum», Linneo distinse la Thea sinensis dalla Camellia sinensis.

Solo nel 1818 Robert Sweet si accorse dell’errore dello scienziato svedese e decise di rinominare tutte le specie di Thea sinensis come Camellia. Oggi vi sono quattro varietà riconosciute di Camellia: la Camellia sinensis sinensis, la Camellia sinensis assamica, la Camellia sinensis pubilimba e la Camellia sinensis dehungensis.

I lavori di Jiri Josef Kamel oggi sono custoditi nel British Museum, mentre nella facoltà teologica dell’Università di Lovanio (Belgio) sono depositati 260 disegni di piante medicinali, animali e minerali delle Filippine redatti dal missionario di Brno.

Piergiorgio Pescali




Colombia: La pace bussa due volte


I guerriglieri delle Farc hanno lasciato i loro rifugi per andare nei «campi di normalizzazione». Dopo il referendum del 2 ottobre 2016, la fine di 52 anni di conflitto interno sembrava in pericolo. Invece, la pace ha bussato due volte. Il 24 novembre è stato firmato un nuovo accordo e il processo di pace ha avuto inizio. Di questo e altro abbiamo parlato con mons. Luis Augusto Castro Quiroga, presidente della Conferenza episcopale colombiana e mediatore nelle lunghissime trattative tra il governo di Manuel Santos e le Farc.

L unedì 3 ottobre tutto sembrava sfumato, volatilizzato: quattro anni di negoziati, la possibilità di porre fine a 52 anni di guerra civile, la speranza di un nuovo inizio per il paese. Il referendum sull’accordo di pace tra governo?Santos e le Farc – peraltro disertato dalla maggioranza dei colombiani – aveva visto prevalere, per poche migliaia di voti, il «no». Invece di perdersi d’animo, le parti si sono subito rimesse attorno a un tavolo per ascoltare le voci dissenzienti e per rinegoziare i punti più controversi.

In poco più di 40 giorni si è arrivati a una nuova edizione dell’accordo, che il 24 novembre è stato firmato dal presidente Manuel Santos e dal comandante Rodrigo Londoño, alias Timochenko, leader delle Farc. Pochi giorni dopo il testo è passato al vaglio del Senato e della Camera dei rappresentanti, che lo hanno approvato. Alla votazione non ha partecipato lo schieramento dell’ex presidente?Álvaro Uribe Vélez, contrario all’accordo per definizione (oltre che per precisi calcoli politici).

Considerata la lunghezza e difficoltà del percorso, è ancora troppo presto per dire se la pace arriverà per davvero. Quello che però si può dire con certezza è che le Farc (a parte piccole frange isolate) stanno rispettado gli impegni sottoscritti. A gennaio e febbraio migliaia di guerriglieri – tra cui 87 donne incinte e 65 madri allattanti – hanno lasciato montagne, foreste e accampamenti per andare nei 27 «campi transitori di normalizzazione» (Zonas veredales transitorias de normalización e Puntos transitorios de normalización) dislocati sul territorio del paese. Qui, al momento stabilito, consegneranno le armi nelle mani dei rappresentanti delle Nazioni Unite e cominceranno la preparazione per il loro reinserimento nella vita civile e il passaggio alla legalità.

«È cominciata l’ultima marcia delle Farc», ha annunciato l’Alto Commissariato per la pace (Alto Comisionado para la paz). Una frase ad effetto, ma fedele a ciò che sta accadendo.

Il prossimo settembre papa Francesco visiterà la Colombia. Al suo viaggio è stato dato un titolo significativo: «Demos el primer paso», «Facciamo il primo passo». Ad accogliere il papa non ci sarà mons. Luis Augusto Castro Quiroga, attuale presidente della Conferenza episcopale colombiana (Cec), che a luglio concluderà il suo mandato. Uno scherzo del destino considerando quanto, fin dagli anni Ottanta in Caquetá, mons. Castro si è speso per la pace e il suo ruolo di mediatore (non sempre compreso e sostenuto anche all’interno della stessa Chiesa cattolica colombiana) nei colloqui tra il governo?Santos e le Farc.

Abbiamo incontrato mons. Castro per parlare non soltanto del processo di pace, ma anche di tutti i problemi che pesano sulla Colombia a partire dalle diseguaglianze e dal narcotraffico.

Margot Silva, della FARC, con suo figlio  / AFP PHOTO / Luis Acosta

Dal «no» al nuovo accordo

Mons. Castro, al referendum del 2 ottobre ha vinto il «no» all’accordo di pace. Si è trattato di una sconfitta o semplicemente di uno stop temporaneo sul cammino verso la pace?

«È stata innanzitutto una sconfitta che però si è convertita in un passaggio interlocutorio. È stata una sconfitta sì, ma in una partita giocata tra due minoranze estreme perché la grande maggioranza dei colombiani non ha votato. E non ha votato soprattutto perché non aveva inteso di cosa si trattasse, cosa fosse in gioco.

Continuamente, direi tutti i giorni, io ripetevo al governo: fate un po’ di pedagogia, spiegate questa domanda bene e con semplicità.

Non da avvocato ad avvocato, ma a una persona semplice per aiutare a capire l’importanza di tutto questo. Non lo hanno fatto. Quindi, quelli del no invece di spiegare hanno iniziato a instillare terrore nei colombiani. Sembrava che il processo di pace fosse un processo di guerra. Sembrava un processo contro i colombiani e non a loro favore. Questa propaganda piena di terrore ha fatto sì che molti colombiani abbiano votato per il no.

E alla fine, per pochissimo, quelli del no hanno battuto quelli del sì.

Fin qui, dunque, è stata una sconfitta. Questa è però servita affinché sia quelli del sì come quelli del no s’incontrassero. E soprattutto s’incontrassero quelli del no e il governo per vedere quali fossero le modifiche che essi chiedevano per poter essere soddisfatti e dire sì al processo. Per molti giorni si sono riuniti e alla fine si è arrivati a una nuova edizione dell’accordo».

Le Farc come hanno reagito alla bocciatura dell’accordo iniziale, quello di agosto?

«La guerriglia è stata molto responsabile. Ha accettato tutte le osservazioni acconsentendo che esse entrassero nel nuovo schema d’accordo. Io stesso sono rimasto tutto un giorno con loro, mostrando le debolezze che c’erano nel testo di agosto e dicendo che avrebbero dovuto considerarle. E così hanno fatto.

Non si è tornati a votare con un referendum. Tutto è passato al Congresso (Senato e Camera dei rappresentanti, ndr), che è l’organo naturale di un paese, e questo ha iniziato a studiare e votare tutti i punti. E a votare le leggi necessarie affinché i punti si traducano in misure legalmente operative».

Mi permetta di insistere sul referendum di ottobre. Pur lavorando da sempre per la pace, come presidente della Conferenza episcopale, lei non si era dichiarato chiaramente a favore del «sì». Come mai?

«È stata una decisione della Conferenza episcopale, assunta tutti insieme.

Ci siamo dichiarati a favore del voto: che tutti i colombiani e tutti i cattolici andassero a votare. Però non abbiamo dato un’indicazione: né a favore del “no”, né a favore del “sì”. Doveva maturare nella coscienza dei cittadini ciò che a essi appariva come la scelta migliore. E così hanno fatto. Liberamente. Così abbiamo proceduto. Certamente a molti non è piaciuto quello che abbiamo fatto, neppure ai sostenitori del no. Tuttavia, il comportamento era corretto: fare appello alla coscienza di ogni colombiano, invitare a studiare la questione e quindi prendere una decisione. Questo è stato il nostro suggerimento».

Il post conflitto e le «nuove stanze» della Colombia

Lei parla continuamente di «pedagogia della pace». Cosa intende?

«È cercare di far capire alla Colombia il significato di questo processo. Soprattutto il post conflitto. Io mi sono dato un compito: disegnare un’immagine che la gente semplice capisca. Il post conflitto è come la costruzione di una casa nuova. In cosa consiste la novità delle diverse stanze? Che ognuna ha qualcosa che prima non esisteva. Per esempio, la stanza della politica. Essa necessita dell’elemento dell’inclusione, un elemento sempre assente in questi anni. Tutti coloro che erano esclusi dalla politica presero le armi contro lo stato. Prendiamo l’economia. In Colombia essa dà vantaggi solamente a un gruppo molto piccolo di colombiani. È un’economia a cui manca l’elemento della solidarietà. Se si firma la pace, occorre inventarsi un’economia solidale, come sempre richiesto dalla Chiesa. E così per gli altri settori: l’istruzione, la cultura.

Tuttavia, una casa senza cemento cade. Ci sono tre tipi di cemento. Quello etico, che naturalmente ha a che vedere con l’onestà. Come in qualsiasi parte del mondo la corruzione è un elemento molto dannoso. Essa danneggia profondamente la vita di ogni colombiano. Ecco perché è necessario un cemento etico. In secondo luogo, è necessario un cemento spirituale. Esso è il perdono e la riconciliazione. Infine, c’è il cemento culturale. È necessario avere una cultura della vita, dei diritti, delle relazioni umane. L’elemento culturale è molto importante per costruire questa nuova società.

Bene, questa è la pedagogia che può entrare facilmente nella testa di qualsiasi persona, perché tutti sappiamo come si costruisce una casa. Secondo me, questa immagine aiuta a capire il futuro della Colombia in termini di pace».

Monsignor Castro, ci spieghi perché le vittime dovrebbero perdonare.

«In Colombia, le vittime comprovate ufficialmente sono 8 milioni. Però per ognuna di loro ce ne sono almeno due in più: un figlio con mamma e papà, un padre con moglie e figli. Se per ogni vittima ce ne sono altre due coinvolte, arriviamo alla cifra di 24 milioni di vittime. Questo significa il 50% della popolazione. Se non ci sarà il loro perdono, mai smetteranno di essere vittime.

Non esiste la vittima felice. Una vittima sarà sempre infelice. Per questo è importante passare dalla condizione di vittima a quella di sopravvissuto. “Con l’aiuto di Dio io sono stato capace di superare l’odio e il sentimento di vendetta e costruirmi un futuro differente”. Questa è la speranza per ogni vittima. Per questo si insiste sul perdono. E sulla riconciliazione».

Le Farc non sono un cartello

Secondo rapporti internazionali e reportage, già dagli anni Novanta le Farc si sarebbero trasformate da organizzazione guerrigliera (o terrorista, per alcuni) in un cartello del narcotraffico che guadagna milioni di dollari. Questa interpretazione è realistica o è manipolata per motivi politici?

«Io direi più la seconda ipotesi che la prima. Le Farc sempre hanno negato di essersi convertite in un cartello della droga.

I guadagni che avevano venivano dalle imposte: se un narcotrafficante voleva droga, doveva pagare alla guerriglia una tassa. Il business rimaneva però nelle mani dei narcotrafficanti.

Per non essere troppo radicale direi che la gran parte delle Farc ha vissuto di questa imposta, nota come vacuna. Non possiamo scartare l’ipotesi che qualcuno si sia messo nel narcotraffico. Però non a livello di organizzazione.

Alcuni guerriglieri non hanno accettato il processo di pace e si sono staccati (sarebbero circa 100 uomini del Frente Primero, di stanza in Guaviare, guidato da Iván Mordisco e Gentil Duarte, e alcune decine appartenenti ad altri fronti, ndr). E credo, come tanti, che lo abbiano fatto perché si sono messi in questa attività. A costoro interessa il denaro e non la pace in Colombia. Sono delinquenti comuni. Però nelle Farc non c’è mai stata una scelta ufficiale di trasformarsi in trafficanti di droga veri e propri. L’hanno usata per ottenere risorse. Come lo hanno fatto con altri strumenti – orribili! – tipo il sequestro (le cosiddette «pescas milagrosas», ndr).

Naturalmente, in questo momento, le Farc cercano di dimostrare che mai sono state dei mercanti di droga. Allo stesso tempo ammettono che chiedevano soldi ai narcotrafficanti per autofinanziarsi».

Con quali esponenti delle Farc lei ha avuto modo di parlare?

«Con molta gente. Con i dirigenti. Con Iván Márquez, per esempio. Una delle ultime volte mi ha sorpreso. Durante una conversazione, a l’Avana, venne fuori una espressione latina. “Mi ricordo ancora qualche frase in latino”, disse lui. “E dove lo ha imparato?”, chiesi. “In seminario”, rispose. “E chi glielo insegnò?”, continuai io. Non so se posso dirlo in questa intervista, ma i padri della Consolata erano stati quelli che gli avevano insegnato il latino.

Un giorno egli decise di lasciare il seminario, ma chiese al vescovo se avesse potuto dargli un lavoro. Lui lo nominò professore in una struttura educativa. Il problema di Iván Márquez era che credeva che quel vescovo fossi io. Invece era mons. Cuniberti. In ogni caso, l’uomo ha maturato un grande rispetto per i missionari della Consolata che sono stati suoi formatori in filosofia, latino e altre discipline.

Questo lo racconto per dire che il dialogo fluiva in maniera molto facile, tranquilla e sincera. Quando il mio collaboratore portava una lista di richieste della gente, Márquez le prendeva e le distribuiva tra i suoi uomini affinché se ne occupassero. Con lui si dialogava. Con Timochenko, il leader maximo delle Farc, ci siamo incontrati solamente una volta. Verso la fine, quando capimmo che loro erano realmente decisi a fare il passo dalla guerra alla pace. E che non c’erano possibilità di tornare indietro».

Le cause economiche e sociali che, nel 1964, portarono alla guerra sono tuttora presenti: concentrazione della terra in poche mani, diseguaglianze, carenza di sanità e istruzione pubbliche. Lei non crede che senza una soluzione concreta di queste problematiche, la pace non potrà mai diventare effettiva?

«La prima causa della ribellione delle Farc contro lo stato fu la loro esclusione dalla politica. Non fu per la povertà né per altri motivi. Il fatto è che, essendo esclusi dalla politica, non potevano lavorare sugli altri aspetti dell’esistenza. Oggi l’obiettivo è integrarsi nella politica. Detto questo, l’accordo di pace non è tanto sugli elementi politici, dati per acquisiti, quanto su tutti gli altri aspetti della vita colombiana. In primo luogo, l’aspetto della terra, una terra superconcentrata in poche mani che non sono certamente quelle dei poveri. E poi il problema agricolo. Tutto è stato studiato nell’accordo di pace che è stato approvato. Una cosa è deciderlo, un’altra è metterlo in pratica. Per fare questo si richiedono ingenti quantità di denaro. Per fortuna molti paesi hanno iniziato ad aiutare».

L’applicazione di cui lei parla ha avuto inizio?

«È iniziata il primo dicembre del 2016. È iniziata con la definizione delle aree dove si concentrerà la guerriglia per le varie fasi del processo. La prima fase è quella del disarmo. Poi la formazione per integrarsi positivamente nella società. Formazione anche dal punto di vista lavorativo, apprendendo elementi che servano per aprirsi le porte nel mondo del lavoro. In generale, la implementazione di un accordo è più difficile della sua approvazione» .

Uribe, il grande oppositore

Mons. Castro, la sua opinione su Álvaro Uribe e sulle Autodefensas unidas de Colombia (Auc).

«Mettere questi due soggetti nella stessa domanda è una cosa… maliziosa… Sono due cose differenti. Io credo che il presidente Uribe

sia stato ferito quando Santos, già ministro sotto la sua presidenza, fu nominato presidente e prese una linea totalmente autonoma rispetto alla sua. E lo fece fin dal suo discorso iniziale. Questo ha fatto sì che Uribe sia diventato un grande oppositore.

Quando papa Francesco ha invitato Santos in Vaticano ha chiamato anche Uribe per cercare un riavvicinamento tra i due, ma non vi è riuscito (a dicembre 2016, ndr). Naturalmente Uribe ha molti nemici e si dice che, in passato, egli abbia avuto rapporti con i gruppi paramilitari come le Auc, composti da delinquenti. Su questa cosa però io non dico nulla perché non ho elementi per giudicare».

Chiudere il «ciclo del dolore»

Abbiamo visto che i numeri delle vittime sono impressionanti. Cosa può dire a una persona che ha perso un familiare o a un profugo?

«A queste persone si possono dire due cose. In primis, che esse hanno la possibilità di fare reclamo contro lo stato per i danni e le conseguenze sofferte perché la guerra era contro lo stato. Questo c’è negli accordi di pace.

In secondo luogo, come ho già spiegato, nel Tribunale per la pace ogni guerrigliero è obbligato a dire ciò che sa in termini di sparizioni, morti, sequestri. Se vuole avere degli sconti di pena, deve dire tutto quello che sa. Come successe in Sudafrica dove la commissione di conciliazione diceva: “Se dice la verità, lo favoriremo. In caso contrario, la giustizia cadrà su di lei con tutto il peso della legge”.

Le vittime, molte vittime possono ottenere risposte in termini di verità, che poi è quello che chiedono. “Che è successo a mio figlio?”, “Che è successo a mio marito?”, “Dove sta il cadavere? Se lo hanno ammazzato, che si possa almeno fare il funerale”. Tutto questo per chiudere il ciclo del dolore. Se esso non si chiude, lascia tutti nell’incertezza continuando a soffrire tremendamente.

Pertanto, da un lato ci sarà l’azione del Tribunale per la pace (organo giudiziale, ndr), dall’altro la Commissione della verità (organo extragiudiziale, ndr).

Da ultimo, l’ho già detto, bisogna invitare le vittime a fare un atto di coraggio: perdonare per non essere più vittime, perché il futuro che meritano non deve essere questo. Non cioè una triste vittima, ma una persona che si è conquistata un progetto di vita, un futuro differente. Una persona che, con l’aiuto di Dio, riconquista la tranquillità e serenità che merita».

Dunque, possiamo riassumere tutto in tre parole: verità, giustizia, perdono. È così?

«Sì, è corretto. Tutte e tre sono parole importanti. Verità per le vittime. Giustizia perché la guerriglia deve rispondere di quello che ha fatto. E perdono che è la motivazione interna di una persona per essere nuovamente felice».

Gli indigeni e il conflitto

L’oltre mezzo secolo di conflitto interno come ha influenzato la vita delle minoranze etniche?

«Le minoranze non sono state colpite in quanto minoranze, ma in quanto colombiane. Tutti siamo stati colpiti dalla guerra. Anche le minoranze etniche. Una delle conseguenze della guerra è stata la confisca della terra principalmente ai contadini e appunto agli indigeni. Sono stati soprattutto i gruppi paramilitari a farlo per beneficio di alcuni. Questo ha prodotto grandi sofferenze. Ci sarebbero molte cose da dire sulle minoranze indigene».

Per esempio?

«Per esempio che la Costituzione della Colombia afferma che esso è un paese multietnico. È un’espressione che a me provoca vergogna. Dire multietnico significa dire che è un paese di diversi, dove ognuno vive e lascia vivere e nulla di più. Mi sembra che sia troppo poco. Noi abbiamo bisogno non di un paese multietnico ma plurietnico. Anzi, ancora meglio sarebbe la parola interetnico in cui la maggioranza e le minoranze si relazionano, imparano le une dalle altre, crescono in un contatto mutuo. Invece, dicendo multietnico è come dire: “Io sono qui e tu là”, “Io non ti disturbo e tu non mi disturbi”. Una minoranza etnica che si chiuda (come succede in Colombia) poco a poco va a sparire perché le culture non crescono per intra-fecondazione ma per inter-fecondazione. Tutte le culture, tutti i popoli si arricchiscono. Se, al contrario, uno si chiude, va a debilitarsi.

Ricordo che, in questo momento, c’è un problema molto grave nel Nord della Colombia, tra i Guajiros: i loro bambini stanno morendo. Morendo di fame» (sono stati oltre 60 i bimbi morti nel 2016, ndr).

La coca e la narcoeconomia

È difficile non ricordare che la Colombia è nota in tutto il mondo per la droga. Oggi, nel suo paese, qual è il peso della narcoeconomia?

«Io non definirei assolutamente così la nostra economia. È un fatto che ci sia un lavaggio di dollari. Tuttavia, da parte dello stato c’è una coscienza ben chiara che esso non può funzionare con questo tipo di denaro. Il contrasto di questo business è molto grande. Le tonnellate e tonnellate di droga che si individuano ogni mese e anno testimoniano che stiamo lottando contro questo problema. Che è molto grande e che è internazionale.

All’interno dell’accordo di pace si stabilisce di aiutare a chiudere con la coltivazione della coca. Prima si era pensato di farlo attraverso la cosiddetta fumigazione (disinfestazione con glifosato, un erbicida probabilmente cancerogeno, ndr). Ci furono molte proteste, alcune corrette, altre meno».

La fumigazione avveniva anche tramite il Plan Colombia degli Stati Uniti…

«Sì, esso aiutava anche in quel senso. Comunque, ci furono proteste e dunque si decise di sradicare le piante manualmente. In tal modo non si contamina l’aria e non si causano problemi addizionali. Adesso anche le Farc andranno a distruggere le piantagioni di coca e lo faranno assieme all’esercito. Questa mi pare una buona cosa».

Però i cocaleros, i piccoli produttori, coltivano la coca perché non hanno alternative…

«No, non direi questo. Per 13 anni io sono stato vescovo del Caquetà, un dipartimento con una notevole produzione di coca. In quel momento – erano gli anni Ottanta-Novanta – la coltivazione della coca si poteva “giustificare”, detto tra virgolette. Cioè si potevano trovare ragioni sul perché si faceva: non c’erano strade, non c’erano aiuti per i campesinos; c’era un’assenza dello stato. Non c’erano né assistenza tecnica, né risorse. Da fuori arrivarono dunque i narcotrafficanti che dissero ai campesinos: “Vi invitiamo a seminare un altro tipo di semi che noi vi daremo”. Erano semi di coca. “Vi offriremo assistenza tecnica. In tre mesi ci sarà il raccolto che noi compreremo”. Insomma, tutto ciò che dovrebbe fare uno stato. “Voi – spiegavano i narcotrafficanti – guadagnerete 10 volte di più di quello che guadagnate in questo momento”. Che campesino poteva resistere a un’offerta di questo tipo? Individualmente, nessuno. Per fare una lotta adeguata contro questo occorreva formare comunità, come nell’esperienza di padre Franzoi (missionario della Consolata, ndr). Comunità unite che si opposero alla coca, avendo però delle alternative. Era il programma “No alla coca, sì al cacao”. Però, lo ripeto, erano attività comunitarie. Un individuo da solo non aveva la capacità di opporsi alla coca.

Questo per spiegare che, a causa dell’assenza dello stato, in quel momento le coltivazioni si giustificavano. Oggi no».

Cosa è cambiato oggi rispetto a un tempo?

«Oggi lo stato non è quello di allora. La Colombia è un paese molto diverso. Con strade, metodi di coltivazione.

La coca è un prodotto miracoloso: in tre mesi la semini e la raccogli. Se un professore può chiedere tre mesi di licenza, va, semina la sua coca e ritorna. Questo è un esempio ironico per spiegare che è una coltivazione molto rapida. Per questo genera molti profitti.

Tutti i produttori di qualsiasi cosa lottano sempre perché non trovano consumatori in numero sufficiente. Al contrario, per la coca i consumatori abbondano e stanno tutti negli Stati Uniti e nel mondo industrializzato. Ogni volta chiedono di più e chi maneggia il business sa che più produce, più venderà.

Questa è la situazione. Però, lo ripeto, c’è tutto un programma per sradicare le coltivazioni di coca e per controllare questo businness».

Lei ritiene che ciò sia possibile?

«Io credo di sì. Credo sia possibile. Perché oggi c’è più volontà, più forza. Non c’è un gruppo che favorisca la produzione come le Farc che da lì traevano le imposte. Anzi, adesso andranno a lavorare per il suo sradicamento. Pertanto, io credo che, se si vuole, si può fare».

AFP PHOTO / OSSERVATORE ROMANO

La Colombia e Francesco

La prossima visita del papa in Colombia potrà aiutare il processo di pace?

«Per prima cosa va detto che il papa già ha aiutato in maniera importante il processo di pace nel paese. Ogni volta che c’era un evento speciale lui faceva un intervento speciale. Quando visitò l’Avana fece un intervento illuminante per il paese. Tutto il tavolo delle trattative e specialmente la guerriglia chiedeva di incontrarsi con il papa. Questo non fu possibile. Fummo a l’Avana. Ci spiegarono la richiesta. Parlammo con il cardinal Ortega per capire che possibilità ci fossero. Ci rispose che non c’era alcuna possibilità perché era già tutto programmato e non si poteva cambiare. Allora si chiese non di variare il programma, ma che il papa dicesse qualcosa nell’ambito degli eventi previsti. Il papa accettò e disse parole importanti sulla pace, parole che aiutarono moltissimo.

In ogni caso, il suo interesse per il processo di pace è stato continuo. Tanto che, dal presidente Santos agli altri protagonisti, tutti gli sono grati».

Se dovesse fare un appello finale, lei che direbbe?

«Direi, prima di tutto, che Dio ci illumini per continuare a lavorare per la pace. Per una pace che sia integrale, che non si riduca solamente a lotta di forze per ottenere il potere, che sia veramente la costruzione di relazioni sane tra tutti i colombiani, tra i colombiani e la natura, tra i colombiani e Dio. Una pace completa, insomma.

Come Chiesa, in questi anni di conflitto e di polarizzazione, abbiamo un compito molto difficile da perseguire. Però, poco a poco, tutti stanno cominciando a capire l’importanza e il valore di questo sforzo per la pace».

Paolo Moiola

Il dono della «penna della pace» da presidente Juan Manuel Santos prior a papa Francesco il 16/12/2016 in Vaticano. / AFP PHOTO / POOL / VINCENZO PINTO




Le Società Benefit: una realtà in crescita


Una grande ambizione: essere un nuovo modello economico alternativo alla vecchia concezione di impresa orientata solo al profitto. Dal vecchio modello industriale e societario prendono l’obiettivo di generare utili e ricchezza, e dal mondo del no profit quello di essere impegnate al servizio del bene comune. È solo un cambio di pelle o una risposta genuina ai bisogni del nostro tempo?

Oltre la metà della popolazione mondiale oggi possiede un buon tenore di vita, ma vive in un mercato saturo che porterà il suo benessere a diminuire. Al contempo, quasi tre miliardi di persone hanno ancora bisogno di tutto. In Italia, nel prossimo quinquennio, mancheranno poco meno di 100 miliardi di Euro per coprire la spesa sanitaria e i bisogni sociali. Lo stato se n’è sempre occupato da solo o sostenendo privati che non hanno rischiato di tasca propria: perciò, se alla fine il modello non è stato efficiente, chi ci ha rimesso è sempre stato «solo» il contribuente.

Mentre i bisogni della popolazione crescono e aumenta la domanda sociale, i governi si trovano in una crescente condizione di ristrettezza di risorse. Ma i bisogni insoddisfatti sono un problema irrisolto che non conviene a nessuno e allora si devono cercare altre risorse. Questo richiede un approccio nuovo che non sia il solito aumento delle tasse. Nel mondo ci sono imprenditori e finanzieri che hanno iniziato a ragionare sulla possibilità che il connubio impresa-finanza possa essere utilizzato anche per generare maggior benessere sociale e soddisfare gli interessi di tutte le parti: secondo loro l’impresa può creare risorse e generare impatto sociale e la finanza può essere un vero moltiplicatore di ricchezza.

Nasce la «Società Benefit»

Alle svariate «forme giuridiche d’impresa» esistenti se n’è quindi aggiunta una nuova: la Benefit Corporation (società Benefit – B Corp). Le sue origini risalgono al 2006 e hanno portato alla formalizzazione nel 2010, negli Usa, della forma giuridica delle B Corp, che ora esiste in 31 stati degli Usa, e che ha stimolato la recentissima nascita in Italia delle «Società Benefit». Nel 2014 le prime B Corp italiane certificate (da B Lab, una organizzazione no profit a cui tutte le società Benefit fanno riferimento, vedi www.bcorporation.eu) hanno promosso un progetto politico e giuridico la cui disciplina è entrata in vigore a partire dal 1 Gennaio 2016.

Il 26 febbraio dello stesso anno le prime cinque aziende italiane hanno trasformato la propria forma giuridica da mera società for profit a società Benefit e da allora decine di altre aziende italiane si sono trasformate (alla data odierna sono più di 80). Attualmente nel mondo sono oltre 2.000 le B Corp certificate e si stima che altre 50.000 stiano valutando la propria identità per ottenere la certificazione. Città come New York City hanno addirittura dato vita a progetti come il Best for NYC, per incoraggiare imprenditori sociali a stabilire le loro attività sul proprio territorio, per il miglioramento dell’intera città e delle proprie attività di welfare.

Primi in Europa

Una volta tanto l’Italia ha fatto scuola e ha introdotto, prima in Europa e prima al mondo fuori dagli Usa, le società Benefit per consentire a imprenditori, manager, azionisti e investitori di distinguersi sul mercato attraverso una forma giuridica virtuosa e innovativa. Tali società rappresentano l’evoluzione del concetto stesso di azienda poiché, mentre le società tradizionali esistono con l’unico scopo di creare profitto e distribuire dividendi agli azionisti, le società Benefit integrano nella propria ragione sociale, oltre agli obiettivi di profitto, lo scopo di avere un impatto positivo sulla società e sull’ambiente.

A differenza delle altre organizzazioni non profit (Onlus, Aps/Associazioni di promozione sociale, Imprese Sociali, ecc.) le società Benefit mantengono sì lo scopo di lucro, ma a questo aggiungono il perseguimento di uno o più effetti positivi o la riduzione di effetti negativi su persone, comunità, territorio e ambiente, beni e attività culturali e sociali, enti e associazioni e altri portatori di interesse. Il tutto in modo responsabile, sostenibile e trasparente con una gestione che richiede ai manager un serio bilanciamento tra l’interesse dei soci e l’interesse della collettività.

Un profitto condiviso

Il profitto come obiettivo primario è sempre stato il criterio dominante nei processi decisionali ma molti ora vedono questo come un ostacolo nella creazione di valore a lungo termine per tutti gli stakeholder (o attori, secondo la Treccani: «Chi ha interessi nell’attività di un’organizzazione o di una società, ne influenza le decisioni o ne è condizionato»), inclusi gli azionisti stessi, i cosiddetti shareholder. Gli azionisti sono sempre più coscienti che non si può più solo speculare sul breve termine e che comportamenti non in linea con l’aspettativa dei clienti alla lunga penalizzano, perché questi non comprano più né prodotti né servizi. Il meccanismo è analogo a quanto è successo nel biologico, dove c’erano individui che volevano un prodotto più sano e più rispettoso dell’ambiente e, mentre all’inizio questo rappresentava solo una nicchia, oggi è diventato un vero settore di mercato.

Le società Benefit pertanto vanno oltre un semplice modello di breve periodo e prendono in considerazione tutte le parti interessate nelle loro decisioni: ciò garantisce loro la flessibilità necessaria a creare valore per tutti gli stakeholder nel lungo periodo, anche a fronte di cessioni parziali e acquisizioni, entrata di nuovi manager, capitali, passaggi generazionali o quotazioni in borsa.

Non i migliori del mondo ma migliori per il mondo

Non appare trascurabile anche il fatto che i nuovi talenti per lavorare scelgono le aziende che hanno un impatto sociale positivo. È un fatto importante che il 77% dei millenials affermi che «lo scopo dell’azienda è parte fondamentale del motivo per cui hanno scelto di lavorare in essa». I millennials (generazione nata tra i primi anni ‘80 e il 2000, ndr) costituiscono da soli oltre il 50% della futura forza lavoro, che diventerà il 75% entro il 2025.

Inoltre, le informazioni non finanziarie sono diventate fondamentali poiché la maggior parte degli investitori ritiene che le imprese non siano adeguatamente trasparenti in merito ai rischi non finanziari e quasi la metà degli investitori esclude determinati investimenti sulla base di informazioni non finanziarie (come impatto sull’ambiente, inquinamento e riciclo, trattamento dei dipendenti in particolare le donne, uso di materie prime certificate, non essere associati con produzione e vendita di armi, ecc.). In fondo non si vuole un’azienda che sia «la migliore del mondo» ma «migliore per il mondo».

Ridefinire il «valore»

Aristotele pensava che ci fosse un «giusto prezzo per ogni cosa» e Marx pensava che il valore fosse generato dal lavoro ma, più di recente, la maggior parte degli economisti ha accettato che l’unico concetto di valore che abbia senso nasce dall’interazione tra domanda e offerta sui mercati: «qualcosa ha valore solo se qualcuno è disposto a pagare per essa». Tale definizione di valore costringe gli economisti a osservare il comportamento reale, piuttosto che cercare di scoprire realtà nascoste. Molti elettori sono disposti a pagare le tasse per le forze di polizia e le scuole primarie e molti governi sono in grado di fornire questi servizi. Molti donatori sono disposti a finanziare l’assistenza sanitaria per i bambini nei paesi in via di sviluppo e molte associazioni locali sono in grado di fornire tale assistenza. In questi ambiti, analizzare il valore sociale non è difficile, perché i legami tra ciò che vogliono i finanziatori e ciò che i fornitori possono offrire è chiaro. Ma, per altre questioni sociali i legami tra domanda e offerta sono carenti e, in alcuni casi, la domanda effettiva può mancare perché finanziatori, politici o privati cittadini non percepiscono un bisogno come sufficientemente urgente da giustificare l’impiego delle loro risorse.

Consorzio Auxilium

A Torino, nel 2016, è nato il Consorzio Auxilium, facente capo a una generazione di imprenditori che credono nelle società Benefit e che desiderano, al contempo, promuovere un approccio culturale al tema del valore di impresa che non sia basato solo in termini di profitto.

Attraverso gli strumenti legali e finanziari messi a disposizione dal mondo delle Sb, essi hanno la possibilità di spiegare ai stakeholder e ai shareholder come le risorse investite in tali aziende possono contribuire al raggiungimento di risultati coerenti con la propria mission, generando al contempo un impatto sociale positivo.

Al Consorzio si aderisce per spirito mutualistico e di interesse reciproco, ma anche con l’obiettivo dichiarato che una percentuale del fatturato generato per mezzo degli scambi promossi dal Consorzio sia destinata ad alimentare attività sociali di vario genere, a partire dall’ambito locale. Nel suo primo anno di vita il Consorzio ha dato lavoro a famiglie «trovate» davanti ai supermercati della Città, promosso corsi di italiano per l’integrazione degli stranieri, attivato progetti di formazione, finanziato progetti di cooperazione sociale e internazionale… e siamo solo all’inizio.

Paolo Rossi*

* Ha una laurea in Economia e master in Sviluppo umano e ambiente, con esperienze di studio, volontariato e lavoro all’estero; è presidente della Col’Or Ong, impegnato nel Consorzio Auxilium e assegnista di ricerca presso l’Università del Piemonte Orientale.

Bibliografia e Sitografia

Barrow CJ, Valutazione dell’Impatto Sociale: una introduzione, Hodder Arnold, London, UK, 2000
Becker Henk. A. e Vanclay F. (a cura di), The International Handbook of Social Impact Assessment, Edward Elgar Publishing, Cheltenham, UK, 2006
Boltanski L., Laurent T., Sulla giustificazione: Economie di ciò che conta, Università di Princeton Press, Princeton, NJ, 2006
Chouinard Y. E Stanley V., The Responsible Company: what we’ve learned form Patagonia’s firts 40 years, Patagonia Books, Ventura, CA, USA, 2011
Dewey J., Teoria della Valutazione, Università di Chicago, 1939
Edmondson B., Ice cream social: the struggle for the soul of Ben&Jerry’s, Berret-Koehler Publisher, Oakland, CA, USA, 2014
Honeyman R., The B Corp handbook, Berrett-Koehler Publishers, USA, 2014
Lazzaroni M., Agora partnership: structuring a seed stage investment in Nicaragua, INCAE Business School, 2005
Mulgan G., Kelly G. e Muers S., Creazione di Valore Pubblico, Ufficio del Gabinetto del Regno Unito, Londra, UK, 2002
Mulgan G., Potts G., Carmona M., De Magalhaes C. e Sieh L., Rapporto sul valore della Commissione di Architettura e l’ambiente edificato, Fondazione Young, Londra, UK, 2006

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https://www2.deloitte.com/content/dam/Deloitte/global/Documents/About-Deloitte/gx-millenial-survey-2016-exec-summary.pdf
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http://www.ey.com/it/it/about-us/corporate-responsibility/fondazione-ernst-and-young-italia#.WExAuneh10s
http://www.youtube.com/user/bcorporstions
http://www.societabenefit.net/news/




RD Congo: Le pietre che danno il pane


A Kinshasa una cava di pietre fa vivere decine di persone. Ma è un lavoro durissimo, svolto anche da donne e bambini. Il sito è sorvegliato da militari ed è impossibile accedervi. Un giovane giornalista congolese è riuscito a penetrarvi e ci ha affidato questo strabiliante reportage.

Kinshasa. Non solo coltan, oro e minerali preziosi. In Repubblica Democratica del Congo, anche la semplice pietra è oggetto di sfruttamento artigianale. Anche dove meno te l’aspetti: ad esempio in una una cava di ghiaia in piena capitale. E non in qualche periferia degradata, ma nel cuore di Kinshasa, nel quartiere Ngaliema, uno dei più antichi, a poca distanza dal palazzo presidenziale. Siamo sul fiume Congo: qui si trova la lussuosa residenza di Joseph Kabila, il presidente «scaduto» che non vuole lasciare la poltrona (il 19 dicembre 2016 Kabila ha terminato il suo mandato, ndr), poco oltre, un inferno di ghiaia bianca, dove la miseria spinge disperati di ogni età a un lavoro durissimo, senza alcuna tutela, solo per guadagnare i pochi spiccioli necessari a sbarcare il lunario. Da un lato chi ha in sedici anni di potere ammassato una fortuna stimata in 15 miliardi di dollari, dall’altro una massa di miserabili che paiono usciti da un racconto ottocentesco. La cava è sorvegliata da militari e accedervi non è possibile, salvo alcune rare eccezioni.

Un popolo di clochard

Parliamo di un popolo «clochardisé» (ovvero: reso clochard o barbone, ndr), le cui condizioni di vita continuano a deteriorarsi. Alla ricerca del pane quotidiano, alcuni congolesi si lanciano in una attività piena di potenziali rischi: la produzione di pietre e ghiaia per l’edilizia. In un paese che non offre opportunità e in cui il tasso di disoccupazione cresce ogni giorno, l’80% dei congolesi sono esposti alla mancanza di lavoro. Abbandonati a se stessi, migliaia di persone vengono qui nella cava a cercare lavoro, a volte anche a rischio della vita.

La Repubblica Democratica del Congo non ha solo ingenti ricchezze nel sottosuolo, ma offre anche enormi rocciosi, persino all’interno della capitale. Ogni categoria di persone si ritrova qui con un solo obiettivo: tagliare pietre. Uomini, donne, giovani, vecchi e anche bambini. Nessuna età è risparmiata. Se la convenzione internazionale dei diritti del bambino, istituita dall’Onu nel 1989, all’art. 32 stabilisce che «il bambino ha il diritto di essere protetto da ogni tipo di lavoro che metta in pericolo la sua salute, la sua educazione e il suo sviluppo», in questo luogo accade il contrario: i bambini sono esposti a ogni genere di rischi, privati della loro educazione, dei loro diritti sociali e sono presi nella trappola della miseria. Un futuro compromesso che non offre speranza di riscatto.

In questo luogo, anche le donne prendono parte attiva per nutrire la famiglia. Malgrado sia un lavoro esercitato normalmente da uomini, a causa della forza fisica richiesta, anche le donne, per necessità si ritrovano a svolgerlo, in un universo nel quale la povertà rovina la popolazione. Tutti sono alla ricerca della sopravvivenza, non importa il prezzo da pagare. Per ottenere una buona quantità di ghiaia alla fine della giornata, le donne sono infatti esposte a ogni tipo di rischio.

Finita la fatica fatta per spaccare le pietre, resta poi la difficoltà di trovare un compratore, tappa cruciale che fa parte della penitenza di questa attività. E il prezzo è irrisorio: 700 franchi congolesi, mezzo euro, a secchio. Le donne sono obbligate a lavorare anche tutta la giornata per arrivare a raccogliere una media di cinque secchi e portare così a casa 3500 franchi, il minimo necessario per la sopravvivenza.

La maggioranza di queste donne vive sotto la soglia della povertà, a volte sono senza marito oppure vedove. Sotto un caldo torrido, a rischio di malattie trasmesse dall’acqua e di pesanti infortuni.

Jacobo, il giovane

Nessuna età è esclusa da questa attività. Jacobo Cédrick è un giovane di 28 anni: aveva lasciato la Rdc per cercare lavoro in Congo Brazzaville, ma il suo sogno si è trasformato nel peggiore degli incubi. Espulso da Brazzaville, si è ritrovato in questo sito a spaccare pietre e produrre ghiaia, producendo da 10 a 20 secchi al giorno, per guadagnare dai 5 ai 10 euro. Ha un figlio a carico ma nessuna moglie. Copre i suoi bisogni e quelli del bambino con questa attività. Anziché darsi alla criminalità o alle rapine, fenomeno in crescita a Kinshasa e spesso praticato dai giovani kinois (nome degli abitanti della capitale) espulsi da Brazzaville, Jacobo lavora ogni giorno, domeniche comprese, per mantenersi. «Sono fiero di questo lavoro – dice a testa alta – malgrado il governo non si occupi di noi. Ciò che deploriamo sono le cattive condizioni di sicurezza nella nostra attività».

Christine, la madre

Maman Christine, madre di 9 bambini, fa questo lavoro dal 2001. Tutti i figli sono stati allevati e scolarizzati grazie alla sua fatica quotidiana nella cava. Con un marito disoccupato, Christine si batte quotidianamente per la sopravvivenza. «Siamo molto esposti in questo lavoro e i rischi sono ingenti. Malgrado ciò, non abbiamo altra scelta. Mio marito non lavora da oltre 15 anni e la vita con i bambini diventa dolorosa, sono obbligata a fare qualcosa. Gli inizi sono stati molto complicati, ma alla fine…», sospira, senza terminare la frase. «Molte ragazze sono esposte a causa della povertà», conclude.

Papy, il padre di famiglia

Papy lavora in questo luogo da due anni. Sposato e padre di quattro bambini, ogni settimana riesce a produrre l’equivalente di 100 dollari di pietre. Martello, scalpello e ferri vecchi, sono questi gli attrezzi del mestiere che Papy utilizza per ridurre quantità di pietra in ghiaia. Per mancanza di un minimo di struttura e organizzazione nella cava, spesso questi artigiani perdono pure quel minimo che spetterebbe loro a causa dei «commissionnaires», agenti che si propongono come mediatori fra venditore e acquirente e che lucrano impietosamente sui guadagni di Papy e degli altri.

L’appropriazione indebita avviene regolarmente in complicità con le autorità municipali. Le proteste degli artigiani della cava restano sempre inascoltate, in un paese in cui il livello di corruzione ha ormai raggiunto il grado di metastasi. «L’unico vantaggio in questa attività – sottolinea Papy – è che posso sfamare e mantenere i miei figli».

Isaac, il Robot

Isaac, detto «Robot», è un ragazzo molto dinamico. Cinque anni d’esperienza, Robot si è conquistato il suo personale successo nella cava. La sua forza, la sua determinazione, la sua motivazione lo portano a dimenticare il tempo che passa e a continuare a lavorare indefessamente. Se all’epoca si utilizzavano dinamite ed esplosivi per rompere le pietre, oggi tutto è vietato e la forza manuale resta l’unica che permette la produzione e decide la quantità di merce prodotta e ciò che si può sperare di guadagnare. Per inciso, che gli esplosivi siano stati vietati non è stata una misura a tutela dei lavoratori, ma una decisione imposta da un senatore che abita nel quartiere, probabilmente disturbato dal rumore delle esplosioni.

La vita in questo luogo non è per nulla facile. Serve forza, coraggio, determinazione e accettare ogni rischio che può arrivare. «Siamo pronti e sappiamo molto bene che ci sono rischi permanenti in questa attività senza protezione, siamo esposti anche a pericolo di vita, a volte. Ma se incrociamo le braccia, la manna non scenderà mai dal cielo, è il nostro destino».

Jean, l’anziano

Jean Ndota Kiwuta è tra i pionieri di questa attività. Responsabile di una spazio da sfruttare in questo sito dal 1972, coi suoi 4 figli, questo anziano lavoratore della cava si rallegra di aver retto per anni in questa attività così pericolosa. Oggi, con la vecchiaia incombente, pensa di lasciare il lavoro, fiero di aver scolarizzato i suoi figli con dura fatica.

Hyppolite

Un sorriso che contiene molte pene e angosce: lui è Hyppolite, 37 anni e 5 figli, fa questo lavoro da 10 anni. «Ciò che è già tuo vale di più di ciò che potresti avere in futuro», afferma, riassumendo la sua ragion d’essere in questo sito con la citazione di un adagio di La Fontaine.

Esther e Deborah

Di 13 e 14 anni, Esther e Deborah lavorano nella cava con la madre già da due anni, aiutandola a racimolare una buona quantità di ghiaia per trovare qualcosa da mangiare. La miseria in Congo porta molti minori a esporsi a qualunque attività.

Eternel, l’uomo vampiro

Una dimostrazione di forza: Eternel, soprannome dovuto alla sua forza incredibile, può sollevare ogni giorno fino a una cinquantina di pietre che pesano da 70 a 100 kg. Soprannominato anche l’uomo vampiro. Per questo, il suo ruolo è il caricamento delle pietre nei camion, altra tappa fondamentale e pericolosa del lavoro nella cava. Quando un compratore arriva, massi e ghiaia vanno caricati sui mezzi. È il momento più atteso dagli lavoratori, la risposta a tutti gli sforzi della giornata. Se i veicoli arrivano al sito, significa che la vendita è fruttuosa e l’energia impiegata troverà ricompensa.

La cava di Ngaliema, sulla riva del fiume Congo, è a suo modo un ambiente di lavoro conviviale, molto solidale, che ricorda un formicaio dove ognuno ha il suo compito: gli uni tagliano le pietre, gli altri le trasportano e le caricano su camion.

La Rdc è un paese potenzialmente ricco, ma di tale ricchezza beneficia una minoranza dei dirigenti al potere. Oggi, la fortuna dell’attuale presidente uscente Joseph Kabila è stimata in oltre 15 miliardi di dollari e la sua famiglia detiene più di 70 imprese, secondo un’inchiesta pubblicata recentemente1. Mentre la popolazione continua a vivere nella miseria. E la pesante crisi politica in corso non agevola certo la vita quotidiana dei congolesi: nulla assicura la speranza in un avvenire migliore.

Grevisse Musema*
(tradotto e adattato da Giusy Baioni)
* Grevisse Musema è un giornalista congolese indipendente, specializzato in questioni umanitarie e in zone di conflitto. Appassionato di ambiente ha lavorato alla Televisione nazionale congolese (Rtnc2).

Nota (1): Bloomberg.com, With his family’s fortune at stake, president Kabila digs in, 15 dicembre 2016.




Cantare la bellezza dell’amore del Padre


L’incontro con l’Africa, i suoi ritmi e le sue musiche; amici con esperienze di volontariato missionario; giovani missionari italiani, latinoamericani e africani; un cuore aperto al mondo; l’amore del Padre di tutti; la passione per la musica: questi gli ingredienti che hanno dato origine al coro TataNzambe, al suo decimo anniversario.

«Dio ci ha chiamati per andare nel mondo, siamo partiti con un cuore profondo, colmo di amore per la missione, siamo tornati più ricchi con una nuova canzone, e per non rendere vano questo grande tesoro, un gruppo di amici è diventato un coro…». In questa strofa dell’inno del coro TataNzambe si racchiude l’inizio della nostra breve storia nelle case dei missionari della Consolata di Vittorio Veneto e Nervesa della Battaglia (Tv). Dieci anni fa alcuni di noi, di ritorno da un campo di conoscenza nella missione di Loyangalani in Kenya, si sono chiesti: come possiamo annunciare la bellezza dell’essere una missione su questa terra?

Comunicare con la musica

L’esperienza nel Nord del Kenya è stata determinante. Con baba (padre, in kiswahili) Godfrey Msumange, tanzaniano allora impegnato come animatore missionario nella nostra zona, abbiamo vissuto per quasi tre settimane a Loyangalani, in riva al lago Turkana, mettendoci a disposizione delle necessità della missione: abbiamo imbiancato la chiesa, fatto alcune giornate di animazione stile «grest» con i moltissimi bambini e i giovani, distribuito il cibo ai poveri, visitato gli ammalati, incontrato le varie comunità disperse su quel vasto territorio semidesertico.

In un’area con diversi gruppi etnici, Turkana, Samburu, El Molo e anche Gabbra, ciascuno con la sua lingua e non sempre fluenti in kiswahili e tantomeno in inglese, non era semplice comunicare. Abbiamo allora scoperto che con il violino di Elena e la chitarra di Marco le distanze si accorciavano. I bambini hanno imparato subito l’«Alleluia delle lampadine», tradotto in kiswahili dal nostro «baba», e quando ci vedevano in giro con il fuoristrada (da quelle parti i Suv non sono certo un lusso, ma una dura necessità), subito portavano le mani alle spalle e cantavano.

Volevamo mettere a disposizione i talenti che Dio ci aveva donato, però la «lingua» ce lo impediva: la musica e il canto sono stati la risposta. La musica arriva al cuore delle persone; la melodia, il ritmo, i colori, ci portano in un istante in altri mondi: le percussioni ci trasportano nei villaggi dell’Africa, le melodie in minore nelle grandi periferie dell’America Latina, i suoni meditativi all’Asia.

La nostra idea quindi è stata di portare anche in Italia, nella zona in cui viviamo, la bellezza e la gioia del Vangelo con lo strumento della musica e del canto, usando melodie e testi religiosi provenienti da diverse culture. Abbiamo costituito un coro, al quale però occorreva dare un nome. «Tata Nzambe» vuol dire Dio (Nzambe) Padre (Tata) in lingua lingala. Due parole ricorrenti nel ritornello di una delle prime canzoni che abbiamo imparato: perché non chiamare così il nostro coro?

Il mondo in musica

La maggior parte dei coristi, chi prima, chi poi, è stata in qualche missione della Consolata per un campo di lavoro e conoscenza e ha portato a casa il fuoco della missione e le musiche sentite, partecipate e danzate laggiù. Proprio quelle musiche sono il repertorio che ci caratterizza.

Come tutto ciò che diventa un po’ nostro, prendendo le nostre sembianze, anche i canti hanno avuto un’inculturazione europea. L’aggiunta di strumenti nuovi (violino e arpa) alle musiche di altri paesi e culture ha permesso di esplorare nuove potenzialità racchiuse in quelle melodie.

Al coro, in questi 10 anni hanno partecipato tante persone: chi è ancora presente dalla fondazione, chi ha lasciato per impegni familiari, chi ha lasciato perché cercava altro, chi (come i missionari) per obbedienza. Altri si sono aggiunti. Siamo felici di aver fatto un pezzo di strada con ciascuno. Dopotutto, come dice un nostro caro amico, la missione è condividere la vita, là dove ci si trova. L’amicizia, e ciò che è stato costruito insieme, rimane nel cuore.

Il nostro esordio come coro è stato nel Natale del 2006, nella chiesetta della Consolata a Vittorio Veneto. Nessuno ancora ci conosceva e allora abbiamo giocato in casa. Quella sera, Mwokozi Bwana (lett. «Salvatore Signore», un canto in kiswahili che si adatta al Natale – amezaliwa = è nato – o alla Pasqua – amefufuka = è risorto -), Junto a ti Maria e Los peces en el Rio («Unito a te, Maria» e «I pesci nel fiume», due canti tipici del Natale latinoamericano) furono alcuni dei brani che cantammo e che tuttora fanno parte dei nostri concerti natalizi.

Alcuni anni dopo, è nato anche l’inno del coro TataNzambe: musiche e testo dei nostri bravissimi musicisti e parolieri. È stato un lavoro a più mani in cui, chi aveva le competenze, ha dato il suo prezioso apporto, e così ora, nei nostri concerti, il primo brano è sempre l’inno, che racconta chi siamo. Anche se non siamo un coro di professionisti, cerchiamo di fare del nostro meglio, perché come l’Allamano ci insegna, bisogna «fare bene il bene».

Eventi, eventi, eventi

Diversi eventi importanti hanno segnato il nostro percorso. Abbiamo partecipato a due Consolata Festival, uno in Veneto e l’altro nel Salento. I Consolata Festival sono stati appuntamenti, o meglio «campi» estivi canori e musicali con concerti serali nelle piazze. Che gioia incontrare gli altri cori della Consolata in Italia, e cantare tutti insieme.

Ci siamo arricchiti di musica, ma specialmente di relazioni, che tuttora manteniamo con tutti gli amici coristi e musicisti di Torino e Martina Franca, senza dimenticare i tanti missionari che sono stati con noi, e i seminaristi del seminario di Bravetta che ci hanno accompagnati e sono stati parte integrante degli spettacoli che andavamo a fare.

Il TataNzambe poi è stato anche in televisione, invitato da Tv2000. È stato un bel momento di coesione, ed è stato significativo soprattutto il fatto che nonostante fossimo in una trasmissione che selezionava i cori per un concorso («La canzone di noi»), abbiamo mantenuto la nostra specificità parlando di missione con la musica. E l’ultimo evento particolare è stato il capodanno del 2016, quando con una parte del coro, siamo stati in Portogallo, e abbiamo condiviso una serata in musica con i Laici Missionari della Consolata a Lisbona e poi, il 31 dicembre, a Fatima, abbiamo fatto un concerto e animato la messa all’interno dell’Hotel Consolata.

Nel corso di questo decennio abbiamo incontrato, durante le animazioni delle messe e dopo i concerti, moltissime persone, e tutti sono stati concordi nel dirci che il nostro coro trasmette gioia. La gioia, la felicità che al mondo d’oggi è ricercata dappertutto, la troviamo nel messaggio evangelico, come ci suggerisce l’Evangelii Gaudium.

Avanti in Domino

Nonostante il nostro impegno ad attingere dal Vangelo l’acqua viva che rende piena la nostra gioia, il nostro cammino non è stato esente da difficoltà ed è segnato da luci e ombre. Non è sempre facile essere presenti alle prove e ai concerti; sono sempre dolorosi i distacchi di chi se ne va; si fa fatica a non giudicare l’impegno degli altri; alcune volte il fuoco della missione si spegne… Cosa fare quindi? Rimboccarci le maniche e ripartire sempre con la speranza che nel cammino qualcosa ci sconvolga positivamente e ci faccia vedere nuovi orizzonti.

Per il futuro stiamo cercando di mettere in cantiere uno spettacolo – concerto ispirato all’Evangelii Gaudium, e poi magari… cantare a una messa con il Papa. Chissà. Intanto «Avanti in Domino», avanti nel Signore, come diceva il beato Allamano.

Roberta Biz*
* Partecipante al primo campo a Loyangalani, tra i fondatori del coro e direttrice dello stesso.

www.tatanzambe.com
Canale Youtube: thetatanzambe

Note in cammino

Inno di TataNzambe

Dio ci ha chiamati
Per andare nel mondo
Siamo partiti
Con un cuore profondo
Colmo di amore
Per la missione
Siamo tornati più ricchi
Con una nuova canzone
E per non rendere vano
Questo grande tesoro
Un gruppo di amici
È diventato un coro

Rit: Siamo note in cammino
Verso nostro Signore
Abbiamo il cuore nel mondo
Ed il mondo nel cuor,
Siamo note in viaggio
Verso una nuova missione
Che è portare un messaggio
Nei cuori delle persone

Mano con mano
Preghiamo cantando
Parliamo di Cristo
Al prossimo e al mondo
Senza timore
Di lingue o confini
Perché musica e note
Ci fanno vicini
Serviamo il signore
Con la testimonianza
E se vi tocchiamo nel cuore
Unitevi alla danza (Rit.)




Perù. La verità difficile


Dal 1980 al 2000 il conflitto interno peruviano ha fatto quasi 70mila vittime tra morti e desaparecidos, soprattutto tra poveri e indigeni delle zone rurali presi tra i due fuochi di Sendero Luminoso e delle forze statali. La Commissione per la Verità e la Riconciliazione istituita nel 2001 ha affrontato il problema della memoria e della giustizia. Ma molto rimane ancora da fare.

Domenica, 10 del mattino. Ho appuntamento con i miei studenti dell’Università cattolica per visitare il «Lugar de la Memoria». Il grande edificio non è visibile dalla strada e si raggiunge con difficoltà scendendo scale piuttosto scomode. Quando arrivo trovo il posto pieno di visitatori, quasi tutti studenti, ma anche famiglie, suore e turisti stranieri.

Mentre spiego ai giovani la strage di Putis1 del 1984, l’assassinio di otto giornalisti a Uchuraccay2 del 1983 e il lavoro svolto dalle organizzazioni per i diritti umani, penso che senza il lavoro della Commissione Verità tutto ciò che stiamo visitando non esisterebbe.

Il contesto peruviano

Ci sono molte differenze fra la realtà peruviana e quelle di altri paesi dell’America Latina come il Cile, l’Argentina, il Brasile o l’Uruguay in cui furono istituite Commissioni per la verità.

Un primo fattore particolare è la proporzione della violenza: quanto accadde in Perù tra il 1980 e il 1993 non può essere ridotto alla categoria di incidenti di terrorismo o guerriglia urbana e repressione. In molte zone si raggiunse il livello di una guerra, con attacchi alle caserme, battaglie, stragi. Sendero Luminoso riuscì a operare su un territorio grande quasi come l’Italia (il Perù ha una superficie di circa quattro volte il nostro paese, ndr).

È vero che molti peruviani preferiscono parlare di terrorismo e di eccessi delle forze di sicurezza, ma questo succede perché è difficile accettare che sia stata una vera e propria guerra.

Una seconda particolarità del conflitto peruviano riguarda i due gruppi insorgenti, Sendero Luminoso e il Movimiento Rivoluzionario Túpac Amaru (Mrta), i quali furono molto violenti contro la popolazione civile, specialmente i contadini più poveri. I senderistas ammazzavano villaggi interi, compresi i bambini. Disprezzavano le comunità più fedeli alle proprie tradizioni come se fossero state composte da primitivi. Per questo motivo anche tra gli indigeni asháninka dell’Amazzonia soffrirono in tantissimi. Il Mrta assassinava omosessuali e tossicodipendenti in diverse città dell’Amazzonia.

Un terzo elemento specifico del caso peruviano è il fatto che, sul versante delle istituzioni, il maggior responsabile delle desapariciones, degli stupri di massa, delle esecuzioni extragiudiziali e delle torture non fu una dittatura militare ma un governo democratico, quello di Fernando Belaúnde (1980-1985). Belaúnde lasciò ai militari la responsabilità di lottare contro i sovversivi e, quando essi compirono le atrocità poi documentate dalla Commissione Verità, ne diventò complice proteggendoli tramite leggi ad hoc.

Infine, un’altra differenza sta nel fatto che negli altri paesi del Sud America molte delle vittime dei militari furono persone residenti in città, normalmente gente di sinistra appartenente alla classe media, in Perù, invece, le principali vittime furono indigeni poveri che abitavano in campagna e non parlavano spagnolo. I senderisti li uccidevano per rappresaglia e i militari seguivano la politica della tierra arrasada, «terra bruciata» (la repressione indiscriminata contro la popolazione sospetta di appartenere o fiancheggiare la guerriglia, ndr), uccidendo contadini innocenti.

I crimini commessi contro le comunità indigene avvennero in un contesto di forte odio razziale: i militari erano convinti dell’inferiorità degli indigeni ed erano sicuri di rimanere impuniti. Un razzismo, comunque, presente non solo tra i militari, ma diffuso tra la popolazione ancora oggi: un’eredità coloniale che continua a essere forte e viva due secoli dopo l’indipendenza (in un paese nel quale si stima che la popolazione indigena raggiunga il 45% dei quasi 31 milioni di abitanti; un altro 31% sarebbe composto da meticci, ndr). Molti peruviani di ascendenza europea, ad esempio, considerano gli indigeni i responsabili dell’arretratezza del paese. L’indifferenza è l’attitudine più comune nei confronti dei loro problemi: la povertà, lo sfruttamento e l’inquinamento dei loro territori.

Sconfitta e memoria

La violenza del governo di Belaúnde contro i contadini contribuì a fare crescere Sendero Luminoso. Il successore di Belaúnde, Alan García (presidente del Perù dal 1985 al 1990, e poi nuovamente dal 2006 al 2011, ndr) fermò la politica della «terra bruciata», ma le sparizioni e le violenze continuarono. Le stragi nei villaggi di Accomarca3 e Cayara4, o nelle carceri di Lima5, in cui ci furono più di duecento morti tra i detenuti, avvennero durante il suo governo. I seguenti governi di Alberto Fujimori (dal 1990 al 2000) furono caratterizzati da uno stile autoritario di cui è un esempio l’auto-golpe del 1992 tramite il quale il presidente fece sciogliere il parlamento e proclamò la legge marziale. Poco dopo, quando il leader di Sendero Luminoso, Abimael Guzmán, fu arrestato e imprigionato Fujimori, fu considerato il grande pacificatore. Il movimento terrorista andò in crisi e il governo riuscì a sbaragliarlo. Oggi resiste in alcuni luoghi isolati ed è molto vicino ai narcotrafficanti.

La sconfitta di Sendero Luminoso permise ai peruviani di recuperare la fiducia nella possibilità di continuare a vivere nel loro paese e di progettare il loro futuro: farsi una famiglia, studiare, costruire una casa. La gente cercò di dimenticare gli anni della violenza.

Il Perù incominciò a ricevere grandi investimenti. Aprirono nuovi negozi, grandi shopping center, ditte straniere. Si potrebbe dire che il lusso e il consumismo accecarono chi voleva essere abbagliato per dimenticare la violenza e le sue cause. I più poveri non potevano permettersi di acquistare nuove macchine o vestiti ma ricevevano dal governo fujimorista cibo e altre donazioni. E loro, cioè la parte di popolazione che maggiormente aveva sofferto nel conflitto, ringraziavano Fujimori per la pace.

Convocando la Commissione nel mezzo di una crisi

Otto anni dopo la cattura di Guzmán, nel 2000, pochi ricordavano il tempo della violenza e Fujimori, al suo terzo, contestato, mandato, era stato travolto da molti scandali di corruzione che lo avevano costretto a scappare in Giappone. Quando nel governo provvisorio di Valentín Paniagua si volle fare un’inchiesta sulla corruzione al tempo di Fujimori, gli organismi per i diritti umani ne approfittarono per proporre l’istituzione di una commissione sulle violazioni dei diritti umani.

Non solo convinsero Paniagua, ma riuscirono a fare in modo che l’inchiesta riguardasse un lasso di tempo che andava indietro fino al governo di Belaúnde durante il quale Paniagua era stato presidente della Camera di Deputati.

Ufficialmente Paniagua e poi il suo successore Alejandro Toledo*, volevano una commissione il più possibile plurale, e scelsero i commissari per il loro valore morale: un vescovo, un pastore evangelico, un militare, una imprenditrice. Fra i dodici membri c’erano anche Sofía Macher che era stata Segretaria esecutiva della Coordinadora Nacional de Derechos Humanos, il sacerdote Gastón Garatea*, il sociologo Rolando Ames che nel primo governo di García aveva partecipato come senatore di sinistra all’inchiesta sul massacro delle carceri, e Carlos Iván Degregori, antropologo che aveva lavorato ad Ayacucho ed era uno dei più grandi ricercatori su Sendero Luminoso. Come osservatore per la Chiesa Cattolica c’era il vescovo Luis Bambarén*. Questi cinque personaggi avevano lavorato molto per i diritti umani al tempo del conflitto, denunziando i crimini dei senderisti e dei militari.

Mi causò una certa sorpresa il fatto che, all’interno di questa pluralità, non si fosse nominato nessun rappresentante delle vittime. E la situazione più curiosa fu che, pur essendo il razzismo il fattore che causò strage tra molti innocenti, non si pensò di includere persone dai tratti indigeni fra i commissari: quasi tutti erano uomini bianchi che abitavano a Lima, nessuno parlava quechua, la lingua indigena predominante in Perù. La stessa Commissione avrebbe poi scoperto che il 75% delle vittime della violenza parlava quechua. In una società con tante divisioni etniche e sociali non fu la partenza migliore.

Un altro punto problematico fu il fatto che la Commissione, inizialmente, non capì che il suo lavoro non era nato da una domanda della società: per i crimini commessi da Sendero Luminoso e Mrta, i responsabili erano già in prigione e la gente non sentiva il bisogno di fare nuove ricerche. Nel caso dei crimini delle forze di sicurezza statali, era molto diffusa l’idea che fossero stati il prezzo da pagare per la pace.

Anche i contadini sentivano molto lontana la Commissione. Quando essa organizzò udienze pubbliche – ad esempio ad Ayacucho, uno dei posti in cui più aveva sofferto la popolazione indigena – nelle quali le vittime raccontavano le violenze subite, la gente pensò che i commissari volessero ascoltare i testimoni per semplice sadismo, perché ai bianchi piaceva vedere soffrire gli indigeni.

In più, alcune decisioni importanti della Commissione erano state prese senza valutarne le conseguenze sociali.

Informe final e conseguenze politiche

Nonostante i problemi menzionati, dopo mesi di lavoro intenso in tutto il Perù, sistemando e ordinando centinaia di testimonianze, la Cvr produsse un documento molto corposo e completo: l’«Informe Final», in nove volumi, un lavoro di ricerca che approfondiva molti aspetti della violenza e del suo contesto.

La difficoltà maggiore per la Commissione durante il suo lavoro non era stata tanto quella di scoprire i crimini del tempo de Belaúnde, quanto piuttosto quella di mostrare come la gente avesse accettato la situazione. Più difficile che mostrare l’orrore commesso da terroristi e militari, era stato mostrare la sua accettazione nell’opinione pubblica.

L’Informe Final ricevette quasi unanime rifiuto da parte della classe politica: i partiti di Belaúnde, García e Fujimori e i loro alleati non volevano nessuna responsabilità: dicevano che nel lavoro della commissione aveva pesato un preconcetto antimilitarista. Soltanto la sinistra riconobbe il valore del documento.

Anche il capo della Chiesa peruviana del tempo, il cardinale Cipriani*, fu contro l’Informe, specialmente perché si era sentito chiamato in causa nei passaggi in cui esso parlava di un ruolo negativo della Chiesa nella zona del conflitto. Va notato che nel periodo più cruento, Cipriani non era ancora vescovo ad Ayacucho.

Data la resistenza nell’accoglienza del documento, alcuni settori numericamente piccoli della società civile (i cattolici legati alla teologia della liberazione e le Ong che si occupavano dei diritti umani) lavorarono per promuoverne la diffusione e la conoscenza. Al loro impegno si devono i risultati positivi di questi anni.

Giustizia. L’Informe final continua a essere uno strumento per tutti quelli che cercano giustizia. Le Ong per i diritti umani hanno avviato processi giudiziari per molti casi. Il più conosciuto è quello contro Fujimori, il quale, arrestato in Cile dopo gli anni di autoesilio in Giappone, ed estradato in Perù, è stato condannato al carcere per violazioni dei diritti umani, soprattutto per le vicende legate al Gruppo Colina6 che rapì e ammazzò gli studenti dell’università La Cantuta7 e fece stragi come quella di Barrios Altos8. Altra condanna importante è stata quella relativa alla strage di Accomarca9 accaduta nel 1985.

Purtroppo i processi sono molto lenti e diverse vittime muoiono senza ottenere giustizia. Migliaia di desaparecidos non sono ancora stati rintracciati e le famiglie probabilmente moriranno senza sapere dove si trovano.

Riparazioni. Molte vittime hanno ricevuto riparazioni individuali e collettive sotto forma di opere di sviluppo delle comunità più povere. C’è un Registro Central de Víctimas che ha funzionato con molta attenzione per consegnare la riparazione a chi veramente aveva sofferto nel conflitto.

Memoria. In questo ambito le difficoltà continuano a essere grandi. I militari e i fujimoristi sono stati molto abili nel manipolare il ricordo di quegli anni allo scopo di minare la credibilità della Commissione presentando ogni denuncia a carico loro come un attentato dei terroristi e dei loro alleati. Il presidente Belaúnde, ad esempio, continua a essere ricordato come un uomo gentile e innocuo: in pochi sanno che durante quegli anni migliaia di contadini furono assassinati.

Per coltivare la memoria, in un primo momento si è formato il gruppo «Para que no se repita», il quale però non legava la violenza dei decenni passati a problemi permanenti del paese come il razzismo, o ai crimini contro i diritti umani più recenti, come quelli contro molti contadini uccisi negli ultimi anni.

Nel 2005 è stato aperto il memoriale «El ojo que llora» (l’occhio che piange), opera di una scultrice olandese, Lika Mutal, fatta secondo la logica di uno spazio buddista di meditazione. Sarebbe stato meglio in Perù un memoriale più vicino alla tradizione cristiana, alla quale apparteneva la maggioranza delle vittime, o laica. Comunque, l’assenza di altri spazi ha motivato i famigliari delle vittime a andare lì.

Alla fine del 2015 è stato aperto il Lum «Lugar de la Memoria, la Tolerancia y la Inclusión Social», grazie al finanziamento del governo tedesco. Si trova in un quartiere benestante ed è difficile da raggiungere, come «El ojo que llora», ma è sempre pieno di gente. Sembra che molti abbiano capito che questo spazio è fondamentale per ricordare ciò che ha vissuto il Perù nel conflitto.

Ultimamente, pare che alcuni cambiamenti possano avvenire con il nuovo governo di Pedro Pablo Kuczynski. La ministra della Giustizia Marisol Pérez Tello pare intenzionata a fare in modo che lo stato accetti le sue responsabilità: è andata al «Ojo que llora» a chiedere perdono alle vittime della violenza. In più il governo sta per iniziare un programma per cercare i desaparecidos.

La via peruviana ha le sue caratteristiche e difficoltà, ma lo sforzo della Commissione e della gente impegnata nella costruzione di una società più giusta può lentamente ottenere risultati.

Wilfredo Ardito Vega

L’autore

Avvocato, insegnante universitario e scrittore. Ha conseguito il master in Diritto Internazionale dei diritti umani all’Università di Essex, in Inghilterra, il dottorato in Legge alla Pontificia Università Cattolica del Perù (Pucp). È docente alla Facoltà di Legge della Pucp, all’Università del Pacifico e all’Università Nazionale San Marco. Eletto a difensore universitario della Pucp. Ha pubblicato diversi volumi sui diritti umani, la discriminazione e i popoli indigeni, e tre romanzi di cui il primo tradotto in italiano nel 2011 per Emi con il titolo Cercando Almuneda.

Archivio MC

Sul Perù MC ha pubblicato numerosi articoli, ne segnaliamo solo alcuni:

Sul web

http://www.cverdad.org.pe/ifinal/index.php

Note

1- Nel dicembre del 1984, 123 persone, tra cui 19 bambini e ragazzi, furono assassinate dai militari della base di Putis, provincia di Huanta, Ayacucho, zona con forte presenza di Sendero Luminoso. I militari, dopo aver violentato alcune donne, uccisero i contadini buttandone i corpi nelle fosse che le vittime stesse avevano scavato (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 14).

2- Nella località quechua di Uchuraccay, Ayacucho, il 26 gennaio 1983 furono assassinati otto giornalisti, la loro guida e un membro della comunità per mano dei membri della comunità di Uchuraccay stessa costituiti in un gruppo di autodifesa contro i Sendero Luminoso. Essi credevano che i giornalisti fossero parte della guerriglia. Uchuraccay si spopolò completamente nel giro di pochi mesi in seguito alle 135 morti provocate da Sendero Luminoso e dalla repressione dell’esercito (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo V, cap 2, 14).

3 e 9- Il 14 agosto 1985 una pattuglia dell’esercito uccise 62 persone, tra cui donne, anziani e bambini, di Accomarca, provincia di Vilcashuamán, Ayacucho (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 15).

4- In seguito a un attacco di Sendero Luminoso contro l’esercito il 13 maggio 1988, ci fu una violenta risposta delle forze armate che nei giorni seguenti, nelle comunità di Cayara, Erusco e Mayopampa, dipartimento di Ayacucho, provocò la morte o la sparizione di 39 persone accusate di far parte della guerriglia (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 27).

5- Il 19 giugno 1986 più di 200 detenuti nel carcere di San Pedro (Lurigancho) e nell’ex carcere di San Juan Bautista sull’isola El Fronton, accusati di terrorismo o già condannati, furono assassinati da agenti dello stato nel contesto di alcuni disordini scoppiati nei penitenziari (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 67).

6- Il Grupo Colina era lo squadrone della morte, costola dei servizi segreti, che operò durante il periodo di governo di Fujimori, catturando, arrestando e assassinando chi fosse sospettato di sovversione (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo III, cap 2, 3).

7- Per Sendero Luminoso, l’università La Cantuta fu la principale fonte di reclutamento e base per la trasmissione della sua ideologia. Nel luglio del 1992 furono sequestrati e uccisi 9 suoi studenti e il professore Hugo Muñoz (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 22).

8- Il 3 novembre 1991 il Grupo Colina assassinò 15 persone (compreso un bimbo di 8 anni) nella zona centrale di Lima, Barrios Altos (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 47).

[*] I personaggi segnati con l’asterisco sono stati tutti, in diversi momenti, intervistati da MC.

 




Haiti: «La cultura ci salverà»


Haitiano di origine italiana. Noto per il suo impegno sociale e politico. Da subito si è schierato contro la dittatura di Duvalier e per il rispetto dei diritti umani. Con i suoi lavori ha denunciato soprusi e violazioni. Al suo attivo ha oltre 50 film, tra documentari e fiction. Ci regala la sua visione del rapporto cultura-popolazione nel paese caraibico.

Port-au-Prince. Arnold Antonin, al secolo Celesti Corbanese, è il più famoso cineasta e produttore haitiano, soprattutto per quanto riguarda i documentari. Si contende il primo posto solo con Raoul Peck, altro grande regista, che ha realizzato in prevalenza fiction e il cui recente «I am not your negro» è stato candidato agli Oscar quest’anno come miglior documentario.

Classe 1942, Antonin è di origine italiana ed è molto conosciuto per il suo impegno sociale, politico e culturale. In esilio in Venezuela dal 1973, durante gli anni del duvalierismo (1957-1986) è in prima linea in quel settore della società civile haitiana, costituito dagli intellettuali, che ha lottato contro la dittatura in patria e all’estero. La cacciata di Jean-Claude Duvalier, il 7 febbraio 1986, vede nei mesi successivi il ritorno in patria della maggior parte di loro.

Così è anche per Arnold Antonin, che ha fondato in Venezuela il Centro Pétion-Bolívar, dai nomi di Alexandre Pétion, uno dei padri della nazione haitiana, e Simón Bolívar, il maggiore rivoluzionario e promotore dell’indipendenza dei paesi latinoamericani. Già nel dicembre dell’86 Antonin torna nella sua città natale, Port-au-Prince, e vi trasferisce il Centro culturale. «Si tratta di un centro polivalente di pubblica utilità», ci spiega. Antonin, sempre sorridente e ironico, ci riceve nella nuova sede del Centro. Ci conduce in una sala alle cui pareti sono appesi decine dei suoi premi e riconoscimenti. Oltre che locandine dei film. I più importanti sono il premio Djibril Diop Mambety, ricevuto a Cannes nel 2002 per il documentario Courage de femmes e il premio Paul Robeson, vinto in tre edizioni del Fespaco (Festival del cinema panafricano a Ouagadougou), 2007, 2009 e 2011. Il suo primo film, Duvalier accusé, risale al 1974, mentre tra le sue opere più note ci sono Les amours d’un zombie, e Le président a-t-il le sida?. Antonin, inoltre, insegna alla Facoltà di Scienze umane dell’Università e alla Scuola nazionale d’arte.

«Il Centro si è occupato molto di diritti umani negli anni ‘86-‘87, poi di formazione, anche sindacale, di organizzazioni di giovani e di donne. Il Centro ha fatto formazione politica ai parlamentari, ai sindaci alle autorità locali». Antonin continua a raccontarci del Centro e si percepisce quanto vi si identifichi: «Ci siamo interessati alla produzione audiovisiva in genere, e di materiale educativo, ma da qualche tempo il Pétion-Bolívar è soprattutto un centro di produzione dei miei film».

Il Centro diffonde la cultura e crea dibattito. Ogni mese viene organizzato il forum del giovedì, ovvero un incontro su un tema di interesse nazionale. «È un’attività che facciamo da 28 anni. L’anno scorso gli incontri si sono concentrati su soggetti politici, tranne l’ultimo che è stato sui cambiamenti climatici, e qui abbiamo presentato i risultati della Conferenza sul clima di Parigi».

Il Centro era anche sede dell’Associazione haitiana dei cineasti che, fino a pochi anni fa, realizzava formazioni periodiche e regolari nel campo della cinematografia. «Attualmente abbiamo un cinelcub, frequentato da giovani tra i 20 e i 25 anni, che hanno accesso a film che altrimenti non avrebbero la possibilità di vedere».

L’occasione mancata

Dopo il terribile terremoto del 12 gennaio 2010, Antonin realizza un documentario di 20 minuti, crudo e di denuncia: Chronique d’une catastrophe annoncée ou Haïti: apocalypse now.

«Il terremoto è stato catastrofico con proporzioni inimmaginabili, a causa dello stato di precarietà nel quale viveva la popolazione. Ci sono stati terremoti della stessa intensità che hanno causato centinaia di morti, mentre ad Haiti sono stati centinaia di migliaia», riprende Antonin. «Noi speravamo che il sisma avrebbe segnato una svolta nella storia del paese, cioè che a partire da quell’evento avremmo potuto ricostruire Haiti su nuove basi. Innanzitutto ambientali, economiche, sociali e anche politiche. Io dicevo che grazie al terremoto avremmo potuto fare di Port-au-Prince la “città faro” dei Caraibi. Tutti i grandi architetti del mondo erano disposti a fare dei progetti gratuitamente per Haiti. Anche Renzo Piano lo avrebbe fatto. Ma chi era al potere non ha voluto, perché la catastrofe è stata anche un gigantesco mercato. Il sisma, come anche il caos politico e la povertà di massa, è stato un’occasione per diverse persone di guadagnare molti soldi. Per altri di farsi una specie di credito politico. Così non è stata fatta la ricostruzione. La sola cosa che il potere di Michel Martelly (presidente dal 2011 al 2016, ndr) è riuscito a fare è ripulire gli spazi pubblici e i parchi di Port-au-Prince dai terremotati. Ma hanno creato nuove bidonville all’uscita della città, che sono peggiori di quelle precedenti».

Poco è stato fatto, denuncia il regista, qualcosa nel centro amministrativo e poi l’aeroporto che oggi è moderno. «Quello che chiedevamo noi era un nuovo piano di gestione del territorio, in modo che si potesse sapere, in un piccolo paese come il nostro con 10 milioni di abitanti, come fare una suddivisione in zone di diverse tipologie: abitazioni, industrie, agricoltura».

«Port-au-Prince è diventata una città nella quale si trovano baraccopoli ovunque. A causa dell’esodo rurale per la mancanza di lavoro, la maggior parte degli abitanti sono dei sotto proletari, quelli che possiamo chiamare Lumpenproletariat (in tedesco “proletariato straccione”, termine creato da Karl Marx, per indicare il ceto infimo delle grandi città, formato di elementi economicamente e socialmente instabili, ndr), per cui possiamo parlare di “lumpenizzazione” della società haitiana. Si tratta di individui che sono molto facili da manipolare, non hanno delle vere radici, non sanno dove sono e sono affamati, alla mercé di chiunque, in primis dei politici e criminali».

La cultura che salva

Haiti è il paese più povero delle Americhe e uno dei più destrutturati del Mondo. Gli esperti lo classificano come «stato fallito». Chiediamo al regista e attivista politico se la cultura potrà salvare Haiti. «Sì, in un certo senso la cultura può salvare Haiti. Perché la cultura salva tutti i paesi che sono in pericolo. Se non c’è nella testa della gente, nel loro modo di fare, nella loro cultura in generale, una volontà di salvare o cambiare il paese, allora non è possibile. Solo la cultura può cambiare un paese in grande difficoltà come il nostro. Ma non deve essere una cultura che confonde il sogno con la realtà. Ad Haiti troppo spesso domina il pensiero magico, un sistema per cui agli uomini al potere basta dire una cosa e le parole si trasformano in realtà. Occorre pensare a delle azioni concrete sulla realtà socio politica se si vuole salvare questo paese. Ma alla base ci sono questioni politiche e culturali. Ovvero se c’è la volontà politica, allora occorre che la cultura giochi il suo ruolo.

Qui la cultura è molto forte. In generale questi paesi sono complicati e difficili. Un uomo politico statunitense diceva: “Haiti è il paese che abbiamo occupato più a lungo – ci sono stati 19 anni di occupazione statunitense dell’isola – ma è l’unico nei Caraibi dove non si gioca a baseball”. È vero, è uno sport che non ci ha mai penetrati. Allo stesso modo c’è una forma di democrazia e di sviluppo che non riescono a imporsi ad Haiti.

Tutto lo sviluppo deve partire da una realtà culturale del paese. Non bisogna credere che per un paese differente occorra una democrazia al ribasso, elezioni fasulle o truccate. Gli haitiani hanno dimostrato che non lo accettano».

E lo stato come si pone nei confronti di questa ricchezza culturale?

«Ad Haiti diciamo che questo è il paese della cultura, però non esiste alcun aiuto dello stato alla cultura. Un paese di 10 milioni di abitanti in cui non c’è una sala per spettacoli, non un cinema, c’è un solo quotidiano. E non c’è un museo degno di questo nome. Lo stato appoggia solo il carnevale che è il grande evento culturale di Haiti. Ma anche questo è un carnevale povero, del sotto proletariato».

«Io ho realizzato diversi film su artisti haitiani, sia pittori e scultori che scrittori. Devo riconoscere che esiste una situazione generale, nel tropico, per la quale le crisi (politico sociali, ndr) generano una grande perdita di energia. E ogni crisi ne innesca un’altra che crea una maggiore perdita di energia. In questa dissipazione, dovuta in gran parte alla follia distruttrice di uomini avidi di potere e soldi, ovvero quelli che sono sempre stati i dirigenti di questo paese, troviamo l’energia creatrice di una parte della popolazione. Ed è questo che mi interessa e che studio.

Nel mezzo di questa situazione incredibile, ci sono persone che senza alcun aiuto scrivono, e fanno della buona letteratura, che dipingono dei quadri superlativi, realizzano sculture ottime senza essere mai stati a una scuola di anatomia. Poi c’è la gente del popolo. Ne parlo nel documentario che ho realizzato su due donne spacca pietre che, invece di prostituirsi, o prostituire i figli, in mezzo alla miseria inumana fanno un lavoro duro. Oppure c’è la storia della donna meccanico che ha un progetto di vita per diventare tra i migliori di questo paese nel suo lavoro, in mezzo agli uomini».

La cultura che resiste

La cultura ad Haiti è anche cultura tradizionale, radicata soprattutto in ambito rurale. Che momento storico sta passando e che relazioni ha con la politica?

«La cultura haitiana è in crisi. La cultura rurale, malgrado il vodù che ne è alla base, è molto attaccata dalle sètte protestanti che pullulano (si veda anche articolo a pag. 51). Il vodù stesso sta subendo delle grandi trasformazioni, si sta mercantilizzando. Sotto Duvalier c’era già una specie di volontà di controllo da parte della politica, che utilizzava molti preti vodù ai suoi scopi. Tutte le religioni e tutte le culture hanno aspetti positivi e negativi. Fattori che ti portano verso la trasformazione e il cambiamento, altri alla resistenza per sopravvivere e altri ancora verso la chiusura al cambiamento. Nella società haitiana troviamo tutto questo. Di fronte a una modernizzazione che è copiata dall’estero e sponsorizzata da certi dirigenti del paese, assistiamo a una resistenza, e quelli che resistono fondamentalmente sono i contadini.

Jacques Roumain (grande poeta e scrittore haitiano, impegnato in politica, scomparso misteriosamente nel 1944, ndr) diceva che gli unici elementi validi di questo paese sono i contadini. Sono i soli che hanno una cultura propria e questo ha permesso loro di sopravvivere. Hanno un attaccamento alla terra natale e hanno una tradizione. Ma la popolazione rurale sta diminuendo e stiamo diventando un paese con una maggioranza di popolazione urbanizzata. Però non c’è una vera cultura urbana, perché lì c’è gente che ha lasciato la campagna ed è come piovuta in città, dove non ha nessun attaccamento, mentre perde le radici rurali. Sono persone declassate e disorientate che vanno ad abitare le immense bidonville delle diverse città haitiane, ma anche tutte le piccole baraccopoli che troviamo ovunque a Port-au-Prince, in centro, in periferia, di fianco ai quartieri dei ricchi. Questo fenomeno crea una situazione molto particolare, paradossale. E i paradossi interessano molto gli artisti. Si dice che Haiti sia un “paradiso infernale”, è un ossimoro. Un ossimoro invivibile per molte persone. Non per noi della classe media, gli intellettuali. Noi riusciamo a sopravvivere, ad avere un minimo livello di vita dignitosa. Ma per la maggioranza, ovvero i contadini che non riescono a vivere in campagna, emigrare diventa obbligatorio. Molti vanno in Repubblica Dominicana e nelle Antille.

La classe media, gli intellettuali, i professori, contribuiscono alla cultura tramite la letteratura, la musica, ecc. Ma anche loro sono in difficoltà in modo permanente, perché a ogni crisi economica e politica si innesca una fuga di cervelli, un’emorragia che costituisce un duro colpo per chi rimane.

Le gallerie d’arte sono sempre meno numerose, gli artisti non vivono più di pittura, devono avere un altro mestiere. Chi fa cinema pure. Ci sono artisti che hanno tre o quattro mestieri».

Il nuovo presidente di Haiti Jovenel Moise, insediato il 7/2/2017. / AFP PHOTO / HECTOR RETAMAL

 

Una politica miope

L’ex presidente René Preval, morto il 3/3/2017.

Ad Haiti esiste un potenziale enorme di produzione artistica e culturale che potrebbe essere valorizzato e dare un apporto economico notevole, oltre che diffondere un’immagine molto più positiva del paese nel mondo. Al contrario, dopo il terremoto l’impostazione dei politici è stata quella di attirare un «turismo di alta gamma». Così sono stati costruiti tre hotel di lusso, di un livello inesistente prima nel paese. E sono stati favoriti gli sbarchi delle crociere sulle più belle spiagge, opportunamente isolate dal resto del contesto. Tutto questo anziché appoggiare gli artisti, o la creazione culturale in genere.

«È un paese potenzialmente ricco di cultura. C’è una ricchezza immateriale enorme qui. La storia di Haiti può attirare molti. Poi ci sono anche ricchezze materiali, come le rovine coloniali. Haiti è il paese dei Caraibi che ne ha di più: forti militari, palazzi coloniali, ecc. Ma ho visto la gente togliere le pietre di Fort Mercredi per andare a costruirsi la casa. Se non c’è una politica statale per preservare e valorizzare queste ricchezze, presto si deterioreranno.

Poi c’è il vodù. In Luisiana, a New Orelans, fanno uno sfruttamento turistico enorme del vodù, e si paga per vedere cerimonie fasulle. Le manifestazioni del vodù, come il Guédé (pronuncia ghedé, sono gli spiriti degli antenati morti, molto presenti nelle cerimonie, ndr) si stanno deteriorando, lumpenizzando. In passato erano spettacoli incredibili.

Per questo occorrerebbe una politica turistica intelligente, radicata nella cultura. Poi c’è un contesto globale: occorre togliere le immondizie per strada altrimenti i turisti saranno disgustati.

C’è pure una natura che resiste, nonostante tutto quello che è stato fatto contro di lei in questo paese. È qualcosa di miracoloso. Mare, montagna, deserto, microclimi differenti. Poi la grande gentilezza della gente. Tutte condizioni molto favorevoli al turismo».

La cultura per chi?

Chi ha accesso alla cultura, nelle sue varie forme?

«Come valore di utilizzo, da non confondere con il valore commerciale, la cultura è alla portata di tutti. Le persone che officiano nei templi vodù producono cultura e allo stesso tempo la consumano. Così come i musicisti rap, che copiano i rapper statunitensi, una moda che sta invadendo le bidonville con i suoi modelli. È una cultura trash.

Se parliamo di belle arti, allora non ci sono molti consumatori ad Haiti. C’è un impresario haitiano che ha prodotto la maggior parte dei musicisti del paese che mi dice: “Ad Haiti ci sono 300 consumatori per i prodotti che facciamo, i dvd dei tuoi film e i cd che io produco”. Non ci sono consumatori paganti.

In passato c’erano i turisti che compravano i quadri e altri prodotti culturali, adesso questo mercato non esiste più. Anche per questo gli artisti non riescono più a vivere.

Allora ci chiediamo: come riuscire a fare dei film in un paese così povero come Haiti? Io, per fortuna, sono conosciuto e ho qualcuno che mi apprezza e finanzia i miei film. Inoltre ci sono diverse televisioni che li acquistano».

Il regista si gira e ci mostra un quadro alle sue spalle. Raffigura uno scheletro, sul cranio un cappello nero a tese larghe, intento a suonare una chitarra elettrica.

«Alle mie spalle avete il più grande Guedé di tutto l’universo. Lo riconoscete? È Micheal Jackson, è lui il re dei Guedé».

Marco Bello




Kenya: Stampa 3D per «piedi felici»


In Kenya è nata una piccola compagnia che si occupa di stampa tridimensionale. L’African Born 3D printing (Ab3D) è la prima start up africana che stampa oggetti in materiali plastici, produce stampanti 3D e fa formazione al loro uso. La società progetta, disegna e costruisce i suoi prodotti usando materiale elettronico riciclato, parti meccaniche reperibili localmente e software open source. La sua mission è quella di usare la tecnologia per migliorare la vita.

All’origine della Ab3D c’è la fantasia e l’ingegno di Roy Ombatti. Roy, un giovane keniano di 27 anni, proviene da una famiglia cattolica della classe media che però fa fatica a pagargli gli studi fino a completare l’università a causa della severa crisi economica che in Kenya, nei primi anni del 2000, colpisce in particolare il ceto medio. Conscio di questo, Roy fa tesoro dei suoi studi anche più di molti suoi coetanei e si impegna a fondo per realizzare il sogno coltivato fin da bambino di diventare un ingegnere meccanico e creare oggetti meravigliosi, usando e sfidando le leggi della fisica e della matematica, e di portare cambiamenti positivi nella società attraverso il suo lavoro.

Dopo aver fatto la scuola primaria nella Consolata School di Nairobi, ha frequentato la secondaria alla Strathmore School e ottiene l’ammissione nell’Università di Nairobi, la più antica del paese, fondata nel 1956, ben prima dell’indipendenza del Kenya. Nell’attesa di cominciare il corso di Ingegneria meccanica cui si è iscritto, Roy coglie l’occasione offertagli da un suo zio, volontario di una Ong, e va in Malawi a condividerne l’esperienza con bambini orfani a causa dell’Aids o Hiv positivi. Un’esperienza traumatica per lui, come ricorderà in seguito, perché «oggi sono lì a giocare con uno di loro, e domani mi dicono che è morto».

Vedendo di persona lo stato pietoso del sistema sanitario del Malawi, non diverso dallo stato in cui versano quelli di molte altre nazioni nel continente, Roy sente che deve fare qualcosa e non solo stare a guardare. Ritorna in Kenya per iniziare l’università e comincia a tenere gli occhi aperti sulla sua stessa comunità per individuarne i bisogni e capire cosa lui possa fare per cambiare la situazione. Scopre presto che molti bambini delle famiglie più povere – quelli che vivono negli slum, le periferie degradate di Nairobi dove manca acqua, non ci sono fogne e nelle case non ci sono reti antizanzara – soffrono a causa di molte malattie che potrebbero essere facilmente curabili, anzi, anche evitate con un’adeguata prevenzione. Purtroppo la gente degli slum non ha le risorse per uscire da quella situazione.

Il salto nella stampa 3D

All’università ha un’occasione unica: partecipare ad una competizione internazionale di stampa 3D, la 3D4D (3D for Development) organizzata dalla Techfor Trade, una onlus inglese impegnata a «cercare, promuovere e sostenere un’innovazione tecnologica rispettosa dell’ambiente che aiuti gli scambi commerciali e allevi la povertà». Roy vi partecipa con un progetto che gli è caro: stampare delle scarpe su misura per piedi resi deformi dalle pulci penetranti, quegli stessi piedi che aveva visto in troppi bambini degli slum. Chiama il suo progetto «Happy Feet», Piedi felici.

Le pulci penetranti sono terribili, perché si infilano sotto la pelle dei piedi e lì si installano facendovi il nido che diventa sempre più grosso. Di solito è facile toglierle se sono in superficie, ma se trascurate (come può succedere ai bambini non curati attentamente dai loro genitori o da famigliari) possono causare infiammazioni dolorose fino a impedire una deambulazione corretta o a lasciare piedi deformi. Per rimuovere le pulci si usano spine, lame, spilli o aghi che, non disinfettati o usati su diverse persone, aumentano il pericolo di trasmettere e/o ricevere l’Hiv. Il fatto di camminare a piedi nudi espone poi al rischio di essere infestati di nuovo dalle pulci.

Il progetto è bello e fa sognare, ma per realizzarlo Roy ha bisogno di poter usare stampanti 3D che siano alla portata delle sue tasche di studente universitario. Questo in Kenya non è facile, visto che sono tutte importate dall’estero e costano molto.

Roy capisce allora che se vuole realizzare il suo sogno di «Piedi felici» deve risolvere il problema fondamentale: l’accesso facile alle stampanti 3D e alla relativa tecnologia. Convinto della potenzialità del mezzo per migliorare la vita della gente comune, si concentra allora sulla nuova sfida, riesce a ottenere dei finanziamenti e così fonda la sua start up per la produzione e uso di stampanti 3D.

Nasce così la Ab3D per costruire stampanti 3D usando materiale elettronico riciclato, software open source e parti meccaniche reperibili sul mercato locale. Questo abbatte i costi e facilita manutenzione e riparazioni. Una stampante 3D usa meno energia di un frigorifero e come materia prima per stampare oggetti può riutilizzare plastica dai rifiuti. «L’uso della plastica riciclata non costituisce un rischio, anzi risolve un problema, e i filamenti ottenuti permettono di stampare gli oggetti utili alla comunità», dice oggi Roy spiegando che fino a quando useremo derivati dal petrolio avremo sempre a che fare con la plastica. Tanto vale allora usarla in modo positivo. Le statistiche provano che la plastica è uno dei maggiori elementi inquinanti nel mondo. Oltre otto milioni di tonnellate ne sono riversate negli oceani ogni anno. Di questo passo entro il 2050 sarà un disastro, nel mare ci sarà più plastica che pesci, questo è l’allarme lanciato al World Economic Forum del 2016.

Promuovere una coltura 3D

A questi primi passi Roy ne aggiunge un altro: promuovere la stampa 3D nelle scuole di modo che le future generazioni di giovani lavoratori possano imparare a pensare la tecnologia a servizio di uno sviluppo che non aumenti i problemi, ma li risolva. Tale formazione aumenterebbe la possibilità dei ragazzi di trovare impiego e le loro capacità imprenditoriali.

Secondo Roy è importante applicare il 3D all’apprendimento pratico nelle scuole. «Avessimo meno teoria e più pratica sia nelle scuole che nelle nostre università, avremmo studenti che finirebbero i loro studi con capacità reali, più gente capace di soluzioni nuove per risolvere i problemi globali». Secondo lui troppi giovani finiscono l’università con la testa piena di teorie ma incapaci di tradurle in pratica nel mondo vero del lavoro.

Tre prestigiose scuole private in Kenya hanno già comperato le stampanti dell’Ab3d: Makini School, Banda School e Nova Academia, seguite a ruota anche da tre scuole di informatica. Tra le università, quella di Gondar in Etiopia e quella di Bristol in Inghilterra. L’obiettivo è quello di diffondere le stampanti nel maggior numero di scuole possibile, anche se sembrano più apprezzate all’estero che in patria. Mentre i giovani studenti sono aperti alle novità e al futuro, i dirigenti scolastici sono ancora della vecchia generazione e, purtroppo, sono loro che tengono i cordoni della borsa.

La stampa 3D può essere applicata in molti campi diversi, le sue possibilità sono ancora tutte da scoprire. L’Ab3D sta stampando ora microscopi per laboratori nel settore della sanità e per le scuole, protesi per chi ne ha bisogno, siringhe speciali per uso medico e ovviamente le scarpe «Happy Feet». «Sono tutte iniziative orientate al bene della comunità», sottolinea Roy, «ma stiamo cercando nuove strade per aiutare in modo più diretto ed efficace». Per questo Roy e il gruppo dei suoi collaboratori stanno cercando di essere sempre più propositivi e attenti ai bisogni di ogni giorno. Un dialogo più serrato tra «i tecnici» e la comunità con le sue necessità concrete è importante per tutti. La gente si apre ai benefici del progresso tecnologico e i tecnici imparano dalla gente ad affrontare e risolvere problemi reali.

Katya Nyangi Mwita*

*Giovane russo-keniana che dopo aver insegnato inglese a Mosca e lavorato come giornalista della stessa lingua in un’agenzia di informazione russa, ora, in Kenya, lavora in un centro specializzato in educazione e comunicazione.

Vedi su Youtube (in inglese) African Born 3D Printing
e Intermission with 3D Printing Innovators Carl & Roy