Buddhismo: Tra Oriente e Occidente


È la corrente più antica del Buddhismo. Quella della liberazione dall’eterno ciclo morte-rinascita, praticata dai monaci della foresta. Dalle sue tecniche meditative nasce in Occidente la «Mindfulness», per una maggiore consapevolezza di emozioni e pensieri. Con l’idea di aumentare la qualità della vita.

«Ho rivelato la scienza che distrugge le radici della vita e della morte. Dopo di me questa scienza non morirà con me, ma continuerà perenne nel pensiero e, esteriormente, nella pratica del giusto operare e del retto intendere».

In queste parole del Buddha (in italiano anche Budda) storico troviamo racchiusa una saggezza profonda, che mette in luce come i suoi insegnamenti siano sviluppati in modo da oltrepassare confini geografici e culturali, andando oltre l’epoca in cui vennero diffusi. Non conosciamo l’esatto anno della nascita del Buddha, si ritiene che il periodo da considerare sia quello che va dal 536 al 563 a.C.

Sappiamo con certezza che egli discendeva da una famiglia nobile, della stirpe degli Shakya, e che visse presso Kapilavastu, l’attuale area di Lumbini, in Nepal (un sito protetto dall’Unesco dal 1997 proprio per la sua importanza a livello storico-filosofico). Il padre, il re Suddhodana, e la madre Maha-Maya gli diedero il nome di Siddharta. La sua vita, almeno fino all’età di 29 anni, fu caratterizzata dalla prosperità, lontano dalle sofferenze del mondo. In questa prima fase della sua vita Siddharta si dedicò con grande impegno allo studio di testi religiosi e di poemi classici. Nonostante tutte le attenzioni del padre e la protezione di chi gli era accanto, qualcosa a un certo punto cambiò, come era stato profetizzato. Infatti, Siddharta ancora bambino, oltre a essere stato presentato al tempio del dio Abhaya – come era consuetudine per l’epoca nella regione in cui nacque l’induismo – ricevette la visita del saggio Asita, il quale annunciò al re Suddhodana che suo figlio sarebbe diventato o un grande imperatore o un asceta che avrebbe liberato il mondo dalla sofferenza. Fu per questa profezia che Siddharta venne tenuto all’oscuro dai mali che affliggono il genere umano.

Nel mondo reale

Verso i 30 anni però, il suo impulso in direzione della ricerca spirituale lo spinse a varcare la porta del palazzo reale. Povertà, malattia, morte si mostrarono a lui nel loro più freddo e inquietante aspetto. Fu così che il velo dell’ignoranza venne squarciato e Siddharta comprese la vanità dei piaceri terreni e la vacuità della vita. Abbandonò – come Francesco d’Assisi secoli dopo e ad altra latitudine – agi, vesti nobiliari, lasciò la famiglia e il palazzo reale per abbracciare una vita da asceta errante. Per anni si dedicò alla pratica meditativa e diventò così un bodhisattva, un essere sulla via dell’«Illuminazione». Si nutriva pochissimo, talvolta – narra la leggenda – con un solo chicco di riso al giorno e spesso rimaneva così assorto nella sua meditazione da non curarsi dei bisogni del corpo. Dopo anni scanditi da preghiere, ritiri meditativi, privazioni e annullamento dei sensi, Siddharta divenne un «Illuminato», scoprendo «la Via di Mezzo» e realizzando la vera natura del mondo fenomenico (ovvero così come appare per il tramite delle esperienze sensoriali). Predicando ed errando, il Buddha giunse a Sarnath e qui, nel parco delle Gazzelle, pronunciò il suo primo sermone, col quale mise in moto la ruota del Dharma. Attorno al Buddha accorsero allievi, che poi divennero suoi discepoli e coloro che formarono la prima comunità monastica buddhista (Sangha). Verso il 483 a.C. a Kushinagar, avvenne il suo Parinirvana, la morte fisica, ovvero l’estinzione completa, quindi l’assenza di ulteriori rinascite.

Il Nirvana e le correnti

L’Illuminato non lasciò alcun testo scritto. La sua più importante eredità furono i discorsi che udirono i suoi discepoli e che poi vennero sistematizzati in una serie di raccolte. Dopo la morte del Buddha vennero organizzati diversi Concili che misero in luce differenti interpretazioni dei suoi insegnamenti. Il primo grande Concilio di anziani cercò di formulare alcune norme, ma nel corso del secondo emersero contrasti al riguardo. Fu in questa fase di transizione che sorsero varie correnti all’interno del buddhismo. Le più note sono quella Mah?y?na, quella Vajray?na e quella Therav?da.

Il buddhismo Mah?y?na, chiamato del «grande veicolo», costituisce lo sviluppo del buddhismo in senso filosofico e mistico. Strutturata in forme meno rigide, la scuola Mah?y?na pone al centro la compassione universale e il ruolo del bodhisattva, colui che agisce per liberare tutti gli esseri dal ciclo di morte e rinascita. È presente in Cina, Vietnam, Corea, Giappone, Nepal, in Tibet ed è ormai molto diffusa anche in vari monasteri edificati in Occidente.

Il buddhismo Vajray?na, detto anche «la via del diamante», è la corrente che più si è concentrata sulle pratiche rituali e sulla mistica. Si è affermata verso il VI sec., diffondendosi prevalentemente in Tibet, ma anche in Nepal, Cina e Giappone. Questa corrente esoterica attribuisce importanza centrale alla ripetizione di formule sacre (dette mantra) per raggiungere l’Illuminazione.

Abbiamo poi la tradizione Therav?da, che è la corrente buddhista più antica; i suoi seguaci ritengono infatti che racchiuda gli insegnamenti che ricalcano in modo originario le parole del Buddha.

Le tre correnti buddhiste hanno in comune diversi elementi, primo fra tutti l’idea della liberazione degli esseri dall’eterno ciclo di morte e rinascita, ovvero il samsara, la ruota della vita (un concetto che troviamo anche nell’induismo). Questo ciclo è causato dal karma, cioè dalle azioni compiute in vita. Solo compiendo azioni virtuose e percorrendo un cammino spirituale si può spezzare, raggiungendo la liberazione finale.

Le varie correnti buddhiste hanno inoltre in comune cinque importanti precetti a cui ogni monaco o anche buddhista laico deve conformarsi. Queste regole sono: astenersi dall’uccidere o danneggiare qualunque creatura vivente; astenersi dal prendere ciò che non ci è stato dato; astenersi da una condotta sessuale irresponsabile; astenersi da un linguaggio falso o offensivo; astenersi dall’assumere bevande alcoliche e droghe. Queste sono le norme basilari di un cammino lungo, che permette al praticante di andare oltre la sofferenza.

La corrente Therav?da

Il buddhismo Therav?da, conosciuto anche come scuola buddhista meridionale o H?nay?na (del piccolo veicolo), è presente in Sri Lanka, Laos, Cambogia, Birmania e Thailandia. Therav?da è una parola pali che significa «Dottrina dei più anziani dell’Ordine» o «Via degli Anziani», un nome derivante dalla stretta aderenza all’insegnamento originale e alle regole di vita monastica che il Buddha ha trasmesso. Nella dottrina Therav?da è fondamentale il concetto di liberazione del singolo dall’eterno ciclo di morte e rinascita: ciò significa che è l’individuo stesso, una volta comprese le cause della sofferenza come il desiderio, l’ignoranza (intesa come non conoscenza della realtà) e gli attaccamenti, a dover agire compiendo azioni virtuose per raggiungere il nirvana. La corrente Therav?da è caratterizzata al suo interno da una tradizione ancor più rigorosa, che è quella dei monaci della foresta. Si tratta di un sentirnero sviluppatosi soprattutto in Sri Lanka. Infatti, su quest’isola gli insegnamenti Therav?da sono stati conservati e protetti in modo particolare: fu qui che venne trascritto su foglie di palma il Canone Pali, sino ad allora tramandato solo in forma orale da monaco anziano a novizio, per evitare che potesse andare perduto. Il Canone Pali è anche chiamato Tipitaka, che in lingua pali significa «tre canestri» e comprende il Vinaya-pi?aka, relativo alle regole comportamentali e morali dei monaci; il Sutta-pi?aka che contiene varie raccolte di discorsi del Buddha; e l’Abhidhamma-pi?aka, più incentrato sulla filosofia buddhista. La tradizione Therav?da dei monaci della foresta è la più antica, essendo quella che più si attiene agli insegnamenti primigeni del Buddha. Questo sentirnero è detto anche dei «monaci morti in vita», poiché come pratica spirituale prevede l’abbandono dello stile di vita mondano: i monaci eliminano qualsiasi attaccamento e qualsiasi oggetto, incluso in molti casi anche il documento d’identità, a eccezione della ciotola e della veste. I jungle temples (gli eremitaggi della foresta) sono i luoghi dove i monaci vivono, studiano e praticano la meditazione dormendo in grotte naturali.

Mindfulness immaginale

Il buddhismo Therav?da negli ultimi decenni ha conosciuto un’espansione anche in Occidente per effetto dei suoi insegnamenti centrati sulla pratica meditativa. Molti laici si sono avvicinati a queste conoscenze per migliorare la qualità della loro vita, partendo da tecniche meditative buddhiste che calmano la mente e conducono a una maggiore consapevolezza delle emozioni e dei pensieri. Alcune ricerche scientifiche hanno infatti dimostrato come la meditazione buddhista produca numerosi effetti positivi: per esempio, sviluppa una mente dinamica, aumenta la creatività e stimola una sorta di risveglio mentale. Ciò è possibile poiché la meditazione agisce sulle sinapsi cerebrali e sulla produzione di endorfine, acuendo intuizione e gioia, come dimostrato da vari studi. Tra questi ricordiamo quelli compiuti dallo psicologo statunitense Richard Davidson (vedi bibliografia), il quale ha inserito la meditazione nella lista degli esercizi che allenano il cervello a sviluppare connessioni neuronali portatrici di felicità.

Da queste ricerche si è sviluppata in particolare negli ambienti statunitensi la Mindfulness, ovvero la meditazione applicata alle neuroscienze e alla psicologia, con l’intento di sanare stati psicofisici – quali ansia e angoscia – particolarmente dilaganti nella società contemporanea. In ambito europeo è sorta la Mindfulness immaginale, la quale, rispetto alla Mindfulness che viene dagli Stati Uniti, costituisce un passo ulteriore di avvicinamento della meditazione alla psicologia e alla psicoterapia. La Mindfulness immaginale unisce la tradizione orientale Therav?da all’approccio immaginale, ed è stata sviluppata da Selene Calloni Williams, scrittrice e documentarista esperta di filosofie orientali, insieme a Gotatuwe Sumanaloka Thero, monaco eremita buddhista. Era il 1982 quando Selene incontrò per la prima volta l’allora giovane novizio buddhista, il quale abitava in una grotta nell’eremo della foresta di Abharana, in compagnia del venerabile maestro Ghata Thera. Fu con loro che Selene imparò tecniche meditative legate alla tradizione Therav?da. L’impegno di Selene Calloni Williams e di Gotatuwe Sumanaloka Thero è rendere la meditazione fruibile a tutti, senza però snaturarne il carattere profondamente spirituale (temi approfonditi nel libro Mindfulness Immaginale, Edizioni Mediterranee, 2016).

In questo contesto, la parola mindfulness si allinea in modo specifico al termine sati, che in pali significa «consapevolezza», ovvero «attenzione cosciente». La Mindfulness immaginale si ispira da un lato ai principi della tradizione Therav?da, dall’altro, come suggerisce il nome, si rifà al movimento immaginale, che prende l’avvio in Occidente con la psicologia analitica e prosegue nella psicologia archetipica. Nella visione immaginale il corpo e il mondo sono interni alla psiche. «Il movimento simbolo-immaginale attinge alle psicologie immaginali d’Occidente e d’Oriente. L’efficacia del paradigma simbolo-immaginale sta nella sua capacità di favorire una percezione attiva degli eventi. A mezzo dell’applicazione della visione immaginale è possibile riappropriarsi della realtà come di un’emanazione della propria psiche e trovare in sé le energie per agire su questa emanazione in termini costruttivi», afferma Selene Calloni Williams. L’approccio immaginale unito alla filosofia Therav?da porta l’individuo ad abbandonare la gabbia dell’Io e a raggiungere il Sé: solo così si va oltre i comuni parametri mentali di vantaggio, svantaggio, piacere e dolore. In pratica il giudizio è sospeso. La visione di sé e del mondo è di assoluta equanimità.

Tra Oriente e Occidente

Il cammino della Mindfulness immaginale prevede un protocollo specifico denominato Imaginal Mindfulness meditation approach knowing and seeing strutturato in ?sana (posture yoga), pr?n?y?ma (tecniche di respirazione), meditazioni quotidiane ed esercizi di risveglio. Se attuato in maniera regolare questo percorso produce una serie di benefici, sia a breve, sia a medio lungo termine: praticando la Mindfulness immaginale le onde dei pensieri si stabilizzano, si tranquillizzano e otteniamo la pacificazione della mente; sviluppiamo e affiniamo l’attenzione cosciente; impariamo a vivere in una condizione priva di pensieri dicotomici, come bello/brutto, buono/cattivo; viviamo nell’assenza di giudizio; riusciamo a trasvalutare, cioè ad attribuire un diverso giudizio di valore agli eventi e a ciò che ci accade. I problemi, i disagi sono amici, poiché permettono di vedere gli attaccamenti inconsci e liberarci da essi. La trasvalutazione ci aiuta ad allentare tutti i condizionamenti sociali, culturali, familiari che ci portiamo dietro.

Silvia C. Turrin




Albania: Il call center dell’Europa


Durante la lunga dittatura comunista l’isolamento del paese era scalfito soltanto dalle televisioni commerciali italiane. L’italiano divenne la lingua straniera più parlata. Dopo l’arrivo (nel 1992) di un regime più democratico, l’Albania è rimasta un paese con molte contraddizioni ma in rapida crescita. Il sistema economico liberista e i bassi salari hanno attratto consistenti investimenti. Con l’Italia in prima fila.

Non c’è paese dove l’Italia sia più rilevante, eppure per la maggioranza degli italiani l’Albania rimane il più lontano dei posti vicini: un «Oriente sotto casa». Tra le due sponde adriatiche la storia ha pesato più della geografia. Nei due millenni dell’era cristiana, il navigatissimo canale d’Otranto ha funto anche da fossato culturale: di qui Roma, Rinascimento e capitalismo; di là Bisanzio, Impero Ottomano e comunismo. In tempo di Guerra fredda, l’Italia costituzionale fu ben lieta di scordare l’ex colonia mussoliniana. Paradosso dei paradossi, in quegli stessi anni le nostre Tv commerciali esercitarono un ineguagliabile potere fascinatorio sulle vittime del comunismo più isolato d’Europa. Frutto della contingenza internazionale, questa sorta di colonialismo involontario riuscì la fare ciò che il fascismo non avrebbe osato sognare: fece dell’italiano la seconda lingua d’Albania, e dell’Italia «Lamerica» degli albanesi. A venticinque anni dall’attracco della nave Vlora al porto di Bari (8 agosto 1991; si legga a pag. 27, ndr), sebbene risiedano in Italia mezzo milione di albanesi, è ancora difficile parlare di «reciproca conoscenza». Questo perché tra i due paesi il rapporto non è mai stato alla pari. I pregiudizi degli anni Novanta sono finalmente tramontati, ma allo «stereotipo leghista» è andata via via sostituendosi una narrazione giornalistica tanto positiva quanto plastificata: l’Albania indicizzata su Google è un paese dinamico che ha davanti a sé la crescita che gli italiani hanno già consumato. Buona o cattiva che sia, anche questa semplificazione non rende giustizia alla realtà: è un disinteresse con il segno più. Chi, da italiano, voglia conoscere l’Albania, dovrà smettere di usare se stesso come unità di misura. «Mi ricorda il Sud Italia del dopoguerra» o «il mare è bellissimo, sembra la Grecia» sono frasi che parlano di noi.

In questo articolo proveremo a fare un po’ d’ordine partendo dalla storia per arrivare fino ai giorni nostri.

Dentro i confini del 1913

Gli albanesi esistono da prima del loro stato. Sulle origini (illiriche?) della lingua e dell’etnia albanese esistono discussioni accorate ma meno studi, quello che è certo è che sangue e idioma furono le basi ideologiche della Rilindje, il Risorgimento albanese. Inizialmente restii ad abbandonare la compagine ottomana, i patrioti che il 28 novembre 1912 proclamarono da Valona la nascita dell’Albania – nello stesso simbolico giorno in cui, cinquecento anni prima, l’eroe nazionale Skanderbeg aveva dichiarato guerra ai turchi dal suo feudo di Kruja -, lo fecero con il placet della potenze europee, nel tentativo di arginare l’espansionismo serbo e greco che, da Nord e da Sud, spingeva sulle province albanesi della Sublime Porta (termine indicante l’Impero ottomano, ndr). La nascita dello stato albanese somiglia a quella di altri stati emersi dalla dissoluzione dei grandi imperi multietnici. È una storia fatta di visione e di afflato ideale, ma anche di contingenza e di realismo politico. Il riconoscimento internazionale arrivò nel luglio 1913, durante la Conferenza di Londra (sostenitrice della necessità di uno stato albanese era proprio l’Italia liberale). Nel febbraio dell’anno seguente gli stati europei fissarono confini e governo del Principato d’Albania: per dare un’idea del livello di empatia che gli albanesi del tempo dovettero provare nei confronti del nuovo assetto statuale basti ricordare che a insediarsi sul trono fu un perfetto estraneo: il principe Guglielmo di Wied, uno dei nipoti della Regina Elisabetta di Romania. Giunta al porto di Durazzo il 7 marzo 1914, sotto la protezione di una sparuta milizia olandese, la famiglia reale resistette fino al 3 settembre, quando una rivolta la costrinse ad abbandonare il paese. Da quel giorno, l’indipendenza formale dell’Albania ha subito diverse interruzioni – all’occupazione italiana durante la Grande guerra seguirono il debole regno di Zog, l’occupazione fascista del 1939 e mezzo secolo di comunismo – ma i confini stabiliti dagli ambasciatori del 1913, i quali non includono tutti gli albanesi entici, sono gli stessi dell’Albania odierna.

Il comunismo di Hoxha

Questi precedenti giocarono un ruolo determinante all’indomani della II guerra mondiale. Scelto dagli iugoslavi nel fuoco della Resistenza condotta contro i nazisti che dopo l’8 settembre avevano occupato i territori italiani della Balcania (Badoglio lasciò in Albania 130 mila soldati privi di ordini), il comandante partigiano Enver Hoxha governò l’Albania comunista dal 1944 al 1985 (anno della sua morte) combinando spregiudicate alleanze internazionali a un discorso politico nazionalista di stampo appunto risorgimentale. Nei primi anni del dopoguerra l’Albania sembrava avviata a diventare la settima repubblica della Federazione Jugoslava, ma nel giugno del 1948 Stalin ruppe con Tito. Per conservarsi al potere, Hoxha preferì schierarsi con l’Urss, lasciando il Kosovo alla Jugoslavia e resuscitando sul piano interno la secolare narrazione anti serba. Un decennio dopo, il copione sarebbe stato simile: ribelle alle ingerenze sovietiche dello «slavo Krusciov» l’Albania Popolare siglò un’improbabile alleanza con la Cina di Mao: tra gli applausi dell’Occidente, i sottomarini sovietici abbandonarono i porti mediterranei mentre la scelta dottrinaria del marxismo-leninismo isolava il piccolo paese balcanico anche all’interno del Secondo mondo (quello, appunto, orbitante attorno all’Urss).

Il comunismo albanese fu una risposta violenta ai bisogni di una società agropastorale, rimasta a livelli di vita primordiali: ad appena un milione di abitanti – per l’80% contadini poveri, con il 9% della terra del paese a disposizione – un leader finalmente «autoctono» offrì la possibilità di credere al progresso materiale della propria patria. Il prezzo pagato dagli albanesi per la modernizzazione realizzata da Hoxha non è ancora materia di storici altrettanto «locali». Le difficoltà che gli albanesi incontrano nella rielaborazione del loro passato recente si devono al fatto che in quella dittatura «il comunismo» fu poco più di una grammatica dell’economia e della propaganda: una lingua straniera utilizzata per adattare al contesto della Guerra fredda quella peculiare narrazione etnica che affonda le sue radici nell’identità culturale albanese e il cui frutto moderno è, appunto, lo stato albanese. Studiare il regime enveriano implicherebbe la sua comprensione all’interno della storia che lo ha preceduto; se, ancora oggi, quest’operazione viene rimandata è perché l’intoccabile mito nazionalista fonda anche l’Albania democratica. Purtroppo, nessuna coscienza storica ha mai illuminato il cammino della nascente democrazia albanese: né a livello accademico, né a livello di élite politiche. Il risultato, visibile, sono ferite non rimarginate. Lasciate senza spiegazioni, le persone comuni, cresciute lacerate tra due mondi, sanno soltanto che si stava peggio (o meglio) «quando c’erano i comunisti»: come se anche questi ultimi fossero invasori venuti da fuori.

Passaggi complessi

L’Albania è uno stato balcanico e in quanto tale si pensa e si racconta come «unico» (il nazionalismo balcanico è fondato sull’appartenenza etnica) e «mutilato» (non soltanto del Kosovo, ma anche di parte della Macedonia e del Sud della Grecia). Nel 2014 hanno fatto il giro del mondo le immagini di Serbia-Albania, partita valida per la qualificazione all’Europeo di Francia, sospesa per rissa dopo che un drone telecomandato aveva fatto piovere sullo stadio una bandiera dell’«Albania etnica» munita di Kosovo. L’accaduto venne derubricato a «poco edificante folklore sportivo», ma non sfuggì alle cancellerie europee la rinuncia del primo ministro albanese Edi Rama alla storica visita in programma pochi giorni dopo a Belgrado (gli ultimi leader a incontrarsi erano stati Hoxha e Tito, nel 1948). Se il mito risorgimentale della nazione rimane il discorso politico più comprensibile all’opinione pubblica interna, l’Europa è oggi presente nelle esternazioni di tutti i politici albanesi, indipendentemente dall’appartenenza di partito. Come lo stesso Rama ama ricordare in ogni visita all’estero, «l’Albania è il paese più europeista d’Europa». Un’asserzione che contiene elementi di verità, ma che non indaga le ragioni di questa propensione. Per la maggior parte degli albanesi l’Ue – che il giornalismo albanese confonde volentieri con la Germania di Angela Merkel – è un club di paesi ricchi dal quale non si vuole venire esclusi. Che l’integrazione esiga dei doveri è chiaro a tutti, ma che questa implichi il superamento culturale dell’idea di confine nazionale non è ben spiegato ai cittadini albanesi: né dai propri politici nazionali, ferventi europeisti anzitutto quando parlano in inglese, né dalla delegazione della Commissione europea aperta a Tirana, che con i suoi report monitora l’avanzamento delle riforme necessarie all’apertura dei negoziati d’adesione, faticando a rendersi comprensibile al di fuori di una ristretta cerchia di privilegiati della capitale.

Lo sbandierato «europeismo» di un’Albania, che – dal 2014 – è ufficialmente candidata all’Ue, va dunque collocato all’interno di quella generica e ingenua «esterofilia» che ha accompagnato il passaggio del paese dal socialismo paranoico al liberismo selvaggio. Da questo punto di vista, la discontinuità incarnata dal governo Rama si ridimensiona.

Dopo Sali Berisha

Le elezioni politiche del 2013 hanno posto fine all’era di Sali Berisha – il leader del Partito democratico (la destra albanese) che dal 1992 aveva gestito, seppur con qualche interruzione, la transizione dal comunismo. Ma, nonostante la vittoria di una ritrovata coalizione socialista, la strategia economica del paese rimane appiattita sul paradigma neoliberista: apertura alla delocalizzazione estera, riassorbimento della domanda di lavoro affidato agli investimenti stranieri, nessuna tutela per i lavoratori albanesi che rimangono in patria. La proliferazione di call center internazionali che lucrano sul plurilinguismo dei giovani retribuendolo 200 euro al mese è la manifestazione più simbolica dell’assenza di politica nazionale. Più di dieci anni fa, sulle pagine di questa stessa rivista, Pier Paolo Ambrosi osservava che «finché una parte importante della popolazione, a causa delle serie condizioni di povertà in cui vive, rimane praticamente esclusa dal circuito economico, essa non avrà alcun legame né interesse verso le forme di pratica della democrazia». Questa drammatica considerazione è altrettanto attuale oggi, e trova conferma nelle promesse clientelari che precedono ogni tornata elettorale, nell’elezione del faccendiere Ilir Meta a presidente del parlamento, nelle proteste di diversi governi europei per le domande d’asilo che ancora giungono dall’Albania e nel fenomeno di «spedizione» di minori non accompagnati denunciato di recente proprio dai servizi sociali italiani. I gommoni non ci sono più, ma la corruzione, il disagio sociale, la disillusione e il conseguente sogno d’emigrazione a tutti i costi sono lungi dall’essersi esauriti.

Tra corruzione e riforme

Per cercare di traghettare il paese nel futuro, il nuovo governo «socialista» ha rilanciato con abilità l’immagine dell’Albania all’estero – talvolta sbandierando che «qui da noi non ci sono i sindacati», talvolta ottenendo importanti riconoscimenti come l’agognata candidatura all’Europa – ma ha anche affrontato difficili riforme, come quella dell’Università, mirata a fare ordine nel caotico panorama degli istituti privati, e quella della giustizia, che dovrebbe aprire la strada a una magistratura finalmente indipendente. Nonostante la corruzione del sistema politico e sebbene il parlamento continui a dimostrarsi permeabile agli interessi della criminalità organizzata, la riforma della giustizia è passata all’unanimità. La stampa internazionale e le istituzioni europee hanno salutato con soddisfazione il «risultato epocale», fingendo di non sapere che nei giorni immediatamente precedenti la delegazione Ue e l’ambasciatore americano in persona avevano minacciato i deputati albanesi di pesanti ritorsioni nel caso in cui avessero votato contro. In attesa che il futuro ci dimostri che in questo caso il fine europeo ha giustificato i mezzi, è doloroso constatare come una volta superato lo strapotere di Berisha la «democrazia albanese» non possa ancora togliersi le virgolette.

Ammessi i ritardi socio economici, dopo vent’anni di sviluppo caotico ma ininterrotto, l’Albania continua a possedere un notevole potenziale. Stiamo parlando di un paese demograficamente giovane, straripante di bellezze naturalistiche e seduto su un invidiabile patrimonio storico: al confine (strategico) tra Oriente e Occidente, balcanica ma non iugoslava, ex comunista ma non ex sovietica, musulmana ma occidentalizzata, la storia di questo piccolo stato è costellata di apparenti contraddizioni che una volta accettate dal popolo, che ne è custode, potrebbero sprigionare la loro inestimabile ricchezza.

Statue, piramidi, rifugi

Per godere delle contraddizioni albanesi, basta una passeggiata nel centro di Tirana: una città cui la speculazione edilizia degli anni Novanta ha negato per sempre l’aggettivo «turistica», ma che anche per questo risulta interessante a tutti i visitatori stranieri, peraltro in crescita esponenziale. Facciamo due passi in piazza Skanderbeg: in quale altra piazza del mondo s’incontrano a distanza di pochi metri gigantismo sovietico, neoclassico italiano e una moschea ottomana? Circondato dal pastiche architettonico dei dominatori stranieri, al centro della piazza campeggia la statua equestre dell’eroe dell’etnia: uno Skanderbeg invincibile, mitologico e, in quanto tale, poco propenso a valorizzare le strepitose contaminazioni che, certo figlie delle sconfitte, hanno reso unica l’Albania. Pochi metri più a Sud, lungo il boulevard di costruzione italiana, si trova la «Galleria nazionale delle arti». Se al suo interno un piano è dedicato alle opere del regime, la celebre statua di Stalin che, fino al 1968, occupava il posto di Skanderbeg è nascosta, incappucciata, dietro l’edificio. Nello stesso oblio versa l’incredibile piramide che la figlia del dittatore volle erigere a memoria del padre (1988). Per tutta la transizione democratica, questi segni, fonte di fascino e d’interesse per i forestieri, sono stati ragione d’imbarazzo per gli albanesi: il «Baffo» è rimasto in punizione dietro la galleria che poteva ospitarlo e la piramide, altrettanto abbandonata, ha rischiato a più riprese la demolizione. Soltanto nel novembre 2014, in occasione dei 70 anni dalla Liberazione, Edi Rama ha finalmente messo mano alla memoria collettiva, aprendo alla cittadinanza il rifugio militare che Hoxha fece costruire tra il 1970 e il 1972 alle pendici del monte Dajti. Ogni ambiente del sotterraneo, furbescamente ribattezzato Bunk’Art, è oggi adibito a museo. In una delle stanze più visitate, nominata «camera di Hoxha», foto a mezzo busto del dittatore circondano una televisione d’epoca: in onda, a loop, le immagini del suo funerale. Sono indimenticabili le facce dei bambini albanesi che si assiepano davanti a quella Tv. I genitori, timorosi di un passato che hanno vissuto, in genere fanno per tirarli via; ma i piccoli insistono, ipnotizzati da una storia che in fin dei conti è anche loro. Sono quei bambini, e non vecchi eroi a cavallo, il futuro, l’unico possibile, dell’Albania. Futuri cittadini cui i governanti attuali dovranno saper fornire una memoria e una direzione: un motivo per rimanere. Quando la giovane Albania democratica si dimostrerà capace di accettare, ricostruire e raccontare in autonomia la propria complessa storia, nel cuore dei suoi giovani figli nasceranno senza dubbio nuove motivazioni, il desiderio di scriverne il seguito.

Nicola Pedrazzi*

* Nicola Pedrazzi (Bologna, 1986) è giornalista pubblicista e redattore dell’agenzia stampa NEV-Notizie Evangeliche. A nome dell’Università di Pavia ha speso in Albania tre anni di ricerca dottorale. È stato corrispondente da Tirana per l’Osservatorio Balcani e Caucaso (Obc) e per Kosovo 2.0.




Giappone: Il prezzo del Mercato


Tra i grandi paradossi dell’era moderna non c’è solamente quello di un mondo diviso tra chi soffre la fame e chi invece ha fatto dello spreco una parte integrante del proprio stile di vita, c’è anche quello di un mondo in cui, mentre molti soffrono per la disoccupazione (il tasso in Grecia è del 28%, in Spagna del 26% e quella giovanile in Italia del 40%), altri soffrono (e muoiono) per troppo lavoro. Emblematico un caso di morte da troppo lavoro a Tokyo che ha scosso la coscienza dell’intero Giappone.

Lei aveva solo ventiquattro anni, lavorava presso una delle più grandi agenzie pubblicitarie del Giappone. A Natale del 2015 si è gettata dal terzo piano, dalla stanza del dormitorio nella quale viveva.

Seppure i morti sul lavoro in Giappone siano all’ordine del giorno, questo suicidio ha avuto una risonanza mediatica senza precedenti.

Matsuri, questo il nome della giovane donna, lavorava per la Dentsu, ovvero il gigante della pubblicità noto proprio per le troppe ore di lavoro a cui sottopone i sui dipendenti e per una gestione del personale spietata. Una delle prime morti per troppo lavoro nella stessa azienda risale addirittura al 1991 quando un uomo, anche lui di ventiquattro anni, si era impiccato in casa. Nel 2000 la più alta corte del Giappone aveva stabilito che quel suicidio era stato causato da insostenibili condizioni di lavoro. In quell’occasione l’azienda aveva concordato con la famiglia della vittima un risarcimento di quasi due milioni di dollari.

Il caso di Matsuri è diventato emblematico perché grazie ai social media su cui lei regolarmente comunicava possiamo ricostruirne passo per passo il lungo calvario: dalla grande euforia iniziale per essere stata assunta da una grande azienda, sino ai messaggi finali, quelli che in rete sono diventati virali. È da questi ultimi che si capisce distintamente lo strazio interiore della giovane: «Hanno deciso ancora una volta che dovrò lavorare sabato e domenica. Ho seriamente voglia solo di farla finita», si legge in uno dei suoi tweet.

Una storia di «successo»

Matsuri aveva ventitré anni quando è entrata nell’azienda dopo una laurea presso l’Università di Tokyo (una delle più importanti di tutto il Giappone). Era una ragazza piena di speranza e di ottimismo, così l’hanno descritta i suoi amici.

L’azienda Dentsu aveva ridotto il numero di dipendenti da 14 a sei all’interno della divisione nella quale Matsuri era impiegata. Ma il carico di lavoro non era diminuito. Matsuri aveva iniziato il suo primo lavoro accumulando la bellezza di 100 ore di straordinari al mese. Sul suo micro blog raccontava la crescente fatica di tenere il passo con quei ritmi forsennati: «Il mio capo mi ha detto che i documenti che ho scritto dopo il ritorno dalle vacanze erano spazzatura. Sono mentalmente e fisicamente devastata»; «Ho perso ogni sentimento, tranne il desiderio di dormire»; «Forse la morte è un’opzione molto più felice».

Moltissimi giapponesi si sono commossi quando questi tweet sono stati resi noti e hanno lasciato messaggi di solidarietà. In particolare, numerosi sono stati i messaggi da parte di donne infuriate nel sapere che a Matsuri, sul procinto di crollare mentalmente e fisicamente, veniva richiesto da parte del capo (di sesso maschile) di mostrare un maggior appeal femminile, e di mantenere un aspetto più attraente. Un tipo di richiesta che non è affatto un caso isolato: sono molte le lavoratrici in Giappone che prima o poi ricevono questo tipo di richiesta durante la loro carriera.

La mattina di Natale (2015) la ventiquattrenne ha inviato il suo ultimo messaggio, diretto alla madre che viveva a Shizuoka, non molto distante da Tokyo. Il testo era un laconico: «Grazie di tutto». La madre, presagendo la disgrazia, ha chiamato immediatamente la figlia pregandola di non uccidersi. Ma neppure la voce di sua madre è stata sufficiente a farla desistere.

Karoshi

Certamente il concetto di lavorare troppo non riguarda solo i giapponesi (in molti altri paesi, e non solo dell’Asia, lavoratori sono sottoposti a orari da schiavi senza neppure il beneficio di giusti salari), ma in Giappone la questione è presa molto più seriamente, al punto da coniare un termine ad hoc per parlarne.

Karoshi, (parola composta da tre caratteri kanji, ? ? ?, che significano letteralmente “eccessivo”, “lavoro”, “morte”), è il termine per definire appunto la morte da troppo lavoro.

Le cause di morte possono essere attacchi di cuore o ictus risultato di lunghi periodi di stress. Spesso però il super lavoro porta direttamente al suicidio, fenomeno per il quale esiste un’altra parola specifica, ? ? ??, karojisatsu. E mentre il Giappone sta tentando di aprire ai nuovi migranti (per lo più cinesi e filippini) per bilanciare il declino delle nascite e dunque delle nuove generazioni che si affacciano sul mondo del lavoro, anche gli stranieri cominciano a tremare per i trattamenti a cui potrebbero essere sottoposti, vedendo quanto è accaduto recentemente a una filippina di ventisette anni che ha fatto karoshi. I suoi straordinari avevano toccato il picco di 123 ore in un mese.

Un fenomeno diffuso

Il primo caso ufficialmente riconosciuto come suicidio per stress da lavoro nel Sol Levante fu registrato nel 1969, ma è solo un decennio più tardi (1978) che venne creato il vocabolo specifico karoshi e solo negli anni ’80 venne riconosciuto come un serio problema sociale, non a caso proprio durante il boom economico.

In quegli anni alcuni dirigenti aziendali di alto livello erano morti senza alcun accenno di malattia pregressa. Queste morti vennero riprese dai media suscitando una crescente preoccupazione. È a questo punto che il governo iniziò la raccolta e la pubblicazione di informazioni sul karoshi come possibile causa di morte.

In un recente sondaggio del governo giapponese – una ricerca mirata a circa 10.000 aziende e 20.000 lavoratori – si è dimostrato che un quinto dei dipendenti del paese deve vedersela con il rischio di morte da superlavoro.

Lo studio ha rilevato che circa il 22 per cento dei dipendenti giapponesi accumula più di 50 ore al mese di straordinari, mentre nel Regno Unito e in Francia le percentuali sono del 10-15 per cento.

Il 22,7 per cento delle imprese ha riferito che alcuni dei loro impiegati producono più di 80 ore di straordinario al mese. Queste 80 ore – circa quattro ore al giorno da aggiungere al normale orario di ufficio – sono ufficialmente conosciute come soglia oltre la quale il rischio di darsi la morte si intensifica in modo drammatico.

Il top delle aziende stacanoviste sarebbe però il 12% del totale, quelle i cui dipendenti toccano la vetta delle 100 ore di straordinari al mese. Quasi il 30 per cento di questi dipendenti oberati di lavoro sono impiegati nel settore Information Technology e delle comunicazioni, come anche quelli del mondo accademico, dei servizi postali e di trasporto.

Va aggiunto che il lavoro supplementare di ogni impiegato è composto anche da straordinari non dichiarati, detti furoshiki, (nome che deriva dalla tradizionale stoffa giapponese per avvolgere – dunque nascondere – scatole o regali). E tantissime sono le ore di straordinario che non vengono registrate e che quindi non vengono prese in considerazione dalle statistiche.

Ora l’obiettivo del governo giapponese è quello di abbassare la percentuale di dipendenti che lavorano più di 60 ore alla settimana per arrivare a una soglia «salutare» del cinque per cento del totale dei lavoratori.

Super lavoro, storia antica

Il mondo del super lavoro in Giappone non è però una realtà recente, risale a prima della seconda guerra mondiale, in un periodo dove le leggi sul lavoro appena esistevano. Quel periodo è stato immortalato sia nel cinema che in letteratura. Su tutti spicca il saggio di Tsuneichi Miyamoto, Nihon zankoku Monogatari (Racconti crudeli dal Giappone). Miyamoto descrive nei minimi dettagli la situazione dei lavoratori sfruttati negli anni precedenti la guerra. In quelle storie ci troviamo di fronte a una realtà brutale in cui uomini e donne, giovani e vecchi, venivano spogliati dei loro diritti e costretti a turni massacranti di 15 ore al giorno.

Erano gli anni ’20, quando si lavorava gomito a gomito all’interno di fabbriche tessili improvvisate in spazi ridottissimi. Non erano rare le epidemie di colera e tubercolosi che decimavano in pochissimo tempo i lavoratori. Chi si ammalava veniva semplicemente abbandonato. In questo sistema di lavoro molti si suicidavano.

Ma il Giappone di oggi non ha apparentemente nulla a che fare con quello di un secolo fa, e i giovani giapponesi non fanno certo i lavori massacranti dei loro antenati, lavori oggi svolti quasi totalmente da immigrati stranieri.

In più il curriculum di Matsuri era invidiabile: laureata nella più importante università del paese, giovanissima, aveva trovato impiego nella più grande agenzia pubblicitaria del Giappone. Nonostante il clamore suscitato dalla sua morte e, conseguentemente, da tutto ciò che di torbido è emerso sulla compagnia per la quale lavorava, sono tantissimi i giovani che ancora oggi ambiscono lavorare per quell’azienda.

Vita e lavoro

Una possibile spiegazione di questo atteggiamento apparentemente irragionevole la si può ricavare da un recente sondaggio. Si è dimostrato come il 90% dei lavoratori giapponesi non comprenda affatto il concetto di equilibrio tra tempo dedicato al lavoro e quello dedicato alla vita privata, in quanto per molti il lavoro coincide esattamente con la propria esistenza: quattro su cinque dipendenti sono pronti ad annullare tutti i propri impegni pregressi nel caso venisse chiesto loro di fare degli straordinari.

Lo sa bene Emiko Teranishi, 67 anni, a capo di una rete nazionale di familiari delle vittime di karoshi, la quale ha recentemente raccontato la vicenda di suo marito. Era un manager in un ristorante di soba noodle (tagliatelle giapponesi) nella prefettura di Kyoto, lavorava più di 4000 ore l’anno (oltre 10 ore al giorno nei 365 giorni dell’anno, ndr). Si è suicidato in seguito a una lunga depressione dovuta alla mancanza di sonno causata dal troppo lavoro.

Solo pochi giorni prima della sua morte il marito aveva avuto il coraggio di parlare con il proprio capo circa i propri disturbi di salute: non aveva più appetito, non riusciva a dormire ed era esausto.

Una società gerarchizzata

Ma perché i lavoratori si lasciano convincere così facilmente a compiere straordinari oltre le proprie forze fisiche e mentali? Solo dieci anni fa tutti gli analisti di questo fenomeno avrebbero risposto: per mostrare la fedeltà alla loro azienda. Ma oggi la flessibilità lavorativa è una realtà anche in Giappone, e un impiego a vita per la stessa azienda è un fatto più unico che raro, la risposta va cercata nel rispetto che i subalterni nutrono verso i propri superiori.

Basta pensare che già a partire dalle scuole medie, cioè ad appena 12 anni, si viene educati al valore e al rispetto assoluto della gerarchia sociale: ogni studente infatti deve rivolgersi al proprio compagno/a di età superiore (basta anche un solo anno) con un linguaggio formale (keigo) ovvero mostrando una riverenza implicita già a partire dalla scelta delle parole. Questa formalità viene abbandonata solo nel caso in cui la persona che si trova nella posizione gerarchica superiore ne concede la possibilità.

I giovani a rischio

E non c’è da meravigliarsi che a togliersi la vita siano i più giovani. In Giappone infatti i ragazzi già un anno prima della laurea iniziano a partecipare a dei colloqui di lavoro chiamati shukatsu. Lo shukatsu comporta intensi colloqui con decine di aziende. È un lavoro vero e proprio – ci sono decine di manuali su come prepararsi al meglio per lo shukatsu – che comporta stress elevatissimi.

Ragazzi appena laureati e già in recruit suit (uniforme nera standard che si indossa durante la ricerca di lavoro), affrontano decine di colloqui con la più grande paura: quella di non riuscire a trovare immediatamente un buon lavoro. Ed è per questo che partecipano al maggior numero di colloqui possibile (mediamente sono 60), così da assicurarsi un impiego anche al di là dei propri interessi di studio: ciò che conta è tornare a casa e mostrare ai propri genitori un posto sicuro sul quale poter costruire un futuro.

Un professore di una nota Università giapponese ha recentemente innescato una polemica ribadendo come quella dei ventenni di oggi sia una generazione di sfaticati che rispetto alle vecchie generazioni non avrebbe la stamina sufficiente per compiere il proprio dovere (vedi appunto le decine di ore di straordinari). Molti giovani hanno trovato il coraggio, anche grazie all’anonimato di cui godono nei social media, di far notare a quel professore come al giorno d’oggi è anche abbastanza normale che le ore di lavoro si riducano semplicemente perché gli strumenti tecnologici permettono a un impiegato di produrre molto di più di quanto non avvenisse trent’anni fa.

Riforma del lavoro

In ogni caso dopo l’ultimo scandaloso caso di suicidio per troppo lavoro il governo sembra aver finalmente preso atto della situazione, «La riforma del lavoro non è solo un problema sociale, è di tipo economico», ha detto recentemente il primo ministro Shinzo Abe ai giornalisti, «se rivediamo le regole del lavoro straordinario potremo migliorare l’equilibrio tra tempo dedicato alla vita e al lavoro, rendendo più facile per i dipendenti – tra cui donne e anziani – avere un lavoro sereno».

Cinquanta aziende, tra cui i grandi gruppi Daiwa Securities Group Inc. e Seven & I Holdings Co., hanno firmato un accordo per eliminare addirittura gli straordinari.

La Yahoo Japan Corp. sta prendendo in considerazione la possibilità di introdurre una settimana lavorativa di soli quattro giorni. Perfino il nuovo governatore di Tokyo, Yuriko Koike, ha recentemente messo per iscritto che il personale negli uffici governativi non può restare a lavoro oltre le otto di sera.

Questi sono tutti piccoli segnali ma se messi insieme dicono che forse, gradualmente, le cose in Giappone sul fronte del lavoro, possono davvero migliorare.

Cristian Martini Grimaldi*

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* Scrittore e giornalista. Ha vissuto negli Stati Uniti, India, Corea, Cina. Vive a Tokyo. Collabora con varie testate italiane ed estere, si occupa di cultura, religione, condizione delle minoranze e diritti umani in Asia ed Estremo Oriente (da www.huffingtonpost.com).




Guatemala: La pace è una chimera


In un paese di solida tradizione machista, confermata anche dal nuovo presidente Jimmy Morales, le donne che riescono a emergere sono una forza della natura. Come Claudia Samayoa, cornordinatrice di Udefegua, un’organizzazione che protegge i difensori dei diritti umani. Perché in Guatemala la guerra è finita da tempo, ma la pace non è mai arrivata. Lo sperimentano sulla propria pelle non soltanto le donne, ma anche gli indigeni che pure costituiscono la metà della popolazione totale.

Sono trascorsi venti anni. La guerra civile è infatti ufficialmente terminata nel dicembre del 1996. Eppure, in Guatemala la pace rimane una chimera. La violenza, la povertà, le ingiustizie sono la quotidianità. Il paese conta 16,5 milioni di abitanti (stime 2016). Circa il 45 per cento di essi sono indigeni (Xinka, Garifuna e soprattutto Maya, questi ultimi divisi in una ventina di gruppi). Secondo i dati ufficiali dell’Istituto nazionale di statistica (Ine), il 59,3 per cento della popolazione vive in povertà. In particolare, ogni 5 indigeni 4 sono poveri, in maggioranza nelle aree rurali (2014).

Esasperati da una classe politica corrotta e malavitosa, nell’ottobre del 2015 i cittadini guatemaltechi hanno ritenuto di individuare una soluzione eleggendo presidente un personaggio sui generis, Jimmy Morales, noto attore comico e membro di una chiesa evangelica. Come quasi sempre accade, il nuovo è però diventato vecchio in brevissimo tempo.

In un contesto tanto complicato chiedere il rispetto dei diritti umani è un’impresa difficile e spesso molto pericolosa. Un dato per capire meglio: tra gennaio e novembre 2016 in Guatemala ci sono state 223 aggressioni contro difensori dei diritti umani, 14 dei quali sono stati assassinati. Si trattava di persone che difendevano l’ambiente, il diritto alla verità e alla giustizia, il diritto alla terra e quello al lavoro.

Per proteggere e aiutare i difensori dei diritti umani o – come recita lo slogan – «per il diritto a difendere i diritti» (por el derecho a defender derechos), dal 2000 nel paese centroamericano opera l’organizzazione «Unità di protezione per le difensore e i difensori dei diritti umani in Guatemala» (Unidad de Protección a Defensoras y Defensores de Derechos Humanos Guatemala), in sigla Udefegua.

Di tutto questo abbiamo parlato con la fondatrice e responsabile dell’organizzazione, Claudia Samayoa, che lo scorso novembre per la sua attività è stata premiata dal Procuratore nazionale per i diritti umani (Pdh), Jorge Eduardo De León Duque.

Dopo la guerra, nessuna pace

Claudia, due parole per auto presentarti.

«Sono guatemalteca. Ho il privilegio di avere 3 figli e un compagno di vita che mi ha accompagnato in questa mia esistenza tutta dedicata ai diritti umani. Sono laureata in filosofia ma il mio paese mi ha costretto, fin dagli anni Ottanta, a occuparmi di diritti. Diritti alla verità e alla giustizia, all’educazione, diritti degli indigeni».

Chiusi 36 anni di sanguinosa guerra civile, per il Guatemala la strada pareva in discesa. Invece, a 20 anni dagli accordi di pace, il paese pare pacificato soltanto formalmente. Come mai?

«Dopo la firma della pace, ingenuamente credevamo di essere finalmente liberi. Invece, tra il 1998 e il 2000 – all’epoca io ero direttrice della Fondazione Rigoberta Menchú – il controllo del paese è stato ripreso da quella che io chiamo la mafia militare. Si tratta di un’organizzazione che include militari della contro-insurrezione guatemalteca e uomini del crimine organizzato (quello che si occupa di narcotraffico, contrabbando, traffico di esseri umani). Assunto il potere, costoro hanno iniziato a combattere tutti coloro che lavoravano per la pace e i diritti. Giovani e donne, in primo luogo».

La nascita di Udefegua

Davanti a questo potere intollerante avete deciso di reagire. In che modo, esattamente? 

«Assieme a varie entità abbiamo deciso di fare qualcosa di diverso: non lasciare solo chi lotta per i diritti. È così nata l’“Unità di protezione dei difensori dei diritti umani”, Udefegua, con un solo obiettivo: tutti – indipendentemente dalla propria ideologia, non importa se sono giovani o anziani, indigeni o non indigeni – hanno il diritto di lavorare per la difesa dei diritti umani. Perché non occorre essere un avvocato o appartenere a un’organizzazione per farlo».

In concreto, cosa fa Udefegua per coloro che lottano per i diritti umani?

«Noi li affianchiamo. Ci prendiamo carico di loro e delle loro investigazioni affinché possano svolgere il loro lavoro in sicurezza. Facciamo opera di informazione producendo bollettini (El Acompañante) con analisi, grafici e statistiche. In Guatemala abbiamo seguito più di 5.200 casi. Oggi lavoriamo non soltanto qui da noi, ma anche in molti altri paesi, dal Messico a Panama».

Sul corpo delle donne

Voi lavorate per la protezione dei difensori dei diritti umani, ma la violenza si manifesta già tra le mura domestiche. Si ritiene che nel paese 8 donne su 10 subiscano violenza fisica, psicologica, sessuale e patrimoniale da parte del proprio marito o compagno.

«Sì, c’è tanta violenza. La violenza sessuale ha raggiunto livelli mai visti prima. In soli due mesi ci sono state quasi 1.000 violenze sessuali denunciate. Questo significa che nella realtà sono state molte ma molte di più. In tutta la regione stiamo vivendo una guerra sul corpo delle donne. Come dimostra l’assassinio di Berta Caceres».

Di presidente in presidente: da un corrotto a un comico

Nel settembre 2015 i guatemaltechi hanno cacciato il presidente Otto Fernando Pérez Molina, eletto nel 2012 e coinvolto in un grave scandalo. Due mesi dopo hanno eletto presidente, a grande maggioranza, Jimmy Morales, di professione attore comico. Com’è accaduto?

«Non aveva nessuna possibilità, poi – a partire da giugno 2015 – i pastori evangelici hanno iniziato a dire di votare per lui, perché Jimmy era la soluzione. Ad essi si sono presto uniti i militari e gli ex paramilitari (appartenenti alle Pac, le Patrullas de autodefensa civil, nate nel 1981 e formalmente sciolte nel 1996, ndr). Morales non aveva alcuna proposta, però ha vinto con una grande partecipazione popolare».

In campagna elettorale il suo slogan è stato: «Ni corrupto, ni ladrón». Che presidente è Jimmy Morales?

«È machista, razzista, autoritario. Per Jimmy Morales i popoli indigeni sono soltanto dei guatemaltechi e non capisce perché debbano essere trattati diversamente. Lui sta promuovendo visioni vecchie di stampo nazionalista: tutti siamo Guatemala, dice. Però il suo Guatemala è il Guatemala che parla soltanto spagnolo e che non riconosce modi diversi di fare politica. La sua concezione è molto machista: le donne non possono fare politica se non dopo aver chiesto il permesso ai loro mariti. Sono posizioni molto antiche che hanno a che vedere con la sua appartenenza a una chiesa evangelica fondamentalista di matrice statunitense».

Nonostante i disastri perpetrati dalla destra, i partiti di sinistra – da Urng-Maiz a Winaq, dal Frente Amplio a Encuentro por Guatemala – non hanno mai ottenuto un consenso significativo. Come si spiega?

«Il Guatemala è un paese molto conservatore e di destra. La sinistra è sempre stata assolutamente minoritaria: in parlamento oggi ci sono pochissimi deputati di sinistra e centrosinistra. Per la gente è difficile votare diversamente, considerando valido il detto “meglio il vecchio conosciuto, che il nuovo sconosciuto”».

La condizione indigena

Circa metà della popolazione del Guatemala è indigena. La sua condizione continua a essere drammatica.

«Negli ultimi anni la popolazione indigena si è impoverita. Nelle comunità indigene la miseria è aumentata del 12 per cento. Nel paese c’è denutrizione cronica: uno ogni due bambini è denutrito e questa percentuale sale tra i bambini indigeni. Sono cifre ufficiali. In Guatemala tutto si manipola, ma in questo caso neppure il governo può nascondere la realtà. Purtroppo, non abbiamo ottenuto quanto sognavamo negli anni Ottanta, eppure c’è stata una mobilitazione importante dei popoli indigeni».

Intende dire che, nonostante le oggettive difficoltà, c’è stato un cambio in positivo?

«Quando io lavoravo per la Fondazione Menchú, l’enfasi era sull’educazione bilingue. Oggi questo è stato superato. Oggi i popoli indigeni lottano come comunità e non più come singoli soggetti. Lottano per i loro diritti (incluso il diritto allo sviluppo e quello a essere consultati). Hanno anche iniziato a costruire ponti con la popolazione non-indigena. In questo modo si riducono le barriere del razzismo e quelle nate durante la guerra armata. È un modo per arrivare a una conciliazione».

L’avanzata evangelica

Anche in Guatemala le chiese evangeliche sono in continua crescita a scapito della chiesa cattolica. Come vede la situazione?

«Gli evangelici sono ormai il 35 per cento della popolazione. Quanto alla chiesa cattolica, è divisa in due correnti, come accade in molti paesi. Una è quella della gente, quella che lotta per l’ambiente e contro il crimine organizzato. Una chiesa che fa molto arrabbiare la destra, che l’accusa di promuovere la guerra, di essere marxista e comunista (come si diceva un tempo). Con l’arrivo di Francesco questa chiesa è stata rafforzata. Poi c’è la chiesa tradizionale che non appoggia i poveri, che dice di voler mantenere una posizione distaccata. Questa è rappresentata dalla Nunziatura, per esempio. Come cattolica io spero che, presto o tardi, il messaggio di Francesco arrivi a tutta la struttura. Già oggi abbiamo vescovi molto compromessi con la realtà. Mons. Ramazzini e mons. Cabrera sono i più rappresentativi, ma non sono più soli».

Il Guatemala cambierà

Claudia, passano i decenni ma sembra che il Guatemala abbia sempre gli stessi problemi e qualsiasi soluzione, alla fine, sia destinata al fallimento. C’è troppo pessimismo in questa visione?

«Secondo me, il nostro presente e il nostro futuro stanno nel diritto a difendere i diritti umani. In questi anni mi ha mantenuta viva la visione di tanta gente. Se riusciremo a liberarci delle forze intolleranti, il Guatemala cambierà e non soltanto esso, ma l’intera regione. Assieme abbiamo un grande potere e questa è la mia speranza».

Paolo Moiola




Good morning Korea


Diciotto missionari provenienti da undici paesi diversi, sparsi in Asia fra i grattacieli e le steppe, confusi tra miliardi di persone, un sussurro di Vangelo che cerca di arrivare, anzi, che arriverà, sulle ali dello Spirito, al cuore del grande continente. Questa la realtà dei missionari della Consolata tra Sud Corea, Mongolia e Taiwan. Questo è il pensiero che mi accompagna «turisteggiando» a Seul.

Cammino per le strade di Seul ormai da un paio d’ore. Mi sono preso una giornata di vacanza per girare liberamente in città, visto che forse è l’ultima volta che ho l’opportunità di farlo. La capitale coreana mi piace molto. Ho imparato a sentirmi a casa qui, pur senza conoscere la lingua della gente, cosa che mi avrebbe permesso di apprezzare di più un mondo tanto diverso, eppure così affascinante. Vagolo senza meta, dopo aver pagato il dazio alla cultura visitando il tempio confuciano di Jongmyo che ancora mancava alla mia agenda di turista, ovviamente interessato, in quanto missionario, alle religioni dell’Estremo Oriente. Bighellono per Tapgol Park, dove un anziano mi ferma, mi chiede da dove vengo e con fatica, in un inglese improbabile, mi racconta perché quel luogo è così importante per l’anima coreana: «Independence from Japan». Mi racconta fatti che risalgono all’inizio del secolo scorso, ma che sembrano di millenni fa se si pensa a cosa è successo qui da cento anni a questa parte e alla velocità che la storia ha impresso a questo angolo di mondo. La Corea (ma lo stesso si può dire di Taiwan, altro posto che ho imparato a conoscere in questi anni) è passata dalle stalle alle stelle alla velocità della luce: sulle rovine di un paese frantumato e diviso dalla guerra civile degli anni ’50 si è innestato il turbo di un progresso vertiginoso.

Zigzagando per il centro

Seul è immensa. Venticinque milioni di coreani, dei cinquanta complessivi che compongono la popolazione nazionale, vivono in questa immensa area metropolitana che non dista molti chilometri dal sempre turbolento confine con la Corea del Nord. Tuttavia, almeno in centro, ormai mi oriento senza troppa difficoltà, anche se ogni tanto sono costretto a estrarre la cartina dallo zainetto perché sotto ai grattacieli la città ti può confondere e il fatto di girare a sinistra invece che a destra ti può complicare non poco la vita. Gli isolati sono enormi e, se ci si sbaglia, i percorsi si possono allungare a dismisura prima di rendersi conto che si sta camminando nella direzione errata. Guardo la mappa quasi di nascosto perché il coreano è solitamente persona gentilissima e si avvicina come un falco appena intuisce la benché minima difficoltà del turista. Iniziano allora conversazioni surreali con l’improvvisata guida che non capisce dove tu vuoi andare, ma ti spiega come fare a raggiungere luoghi di cui manco avresti immaginato l’esistenza. Quanto mi piacerebbe poter andare oltre agli stereotipati annyeonghaseyo (buongiorno) o gamsahabnida (grazie), le uniche due parole di coreano che conservo da un viaggio all’altro. Ho provato ad ammucchiae qualcuna in più nel mio improvvisato bagaglio di viaggiatore, ma il coreano è lingua impegnativa, il cui studio esige dedizione costante e pratica. Alla fine mi sono arreso.

Oggi, dopo questi anni di servizio all’Istituto che mi hanno portato a viaggiare più volte in Oriente, mi resta la nostalgia, condita da un pizzico di rammarico, dei passi non fatti, dei libri non letti… dei film non visti, insomma, della Corea che avrei potuto esplorare anche dalla mia camera e che invece è rimasta sconosciuta. In questi anni mi sono accorto che per capire l’Asia (e la Corea non fa certo eccezione) non basta il «mordi e fuggi», occorre immergersi, entrare nel tessuto, accettare la sfida di rimanere ai margini di un mondo che quando inizia ad essere minimamente intellegibile è soltanto perché vuole fuggire di nuovo, inseguito senza concedersi. Percorrendo Insa-dong, la via dei turisti, non posso far altro che strisciare i piedi con fatica in mezzo a gente di ogni dove. Riconosco facilmente alcuni americani – sono ancora parecchi, molti di loro militari – alcuni europei. Ogni tanto, forse, mi pare di riconoscere un accento australiano, che poi magari è neo-zelandese, o canadese, o chi lo sa… Per non parlare delle migliaia di asiatici che intasano i piccoli negozietti di souvenir: cinesi, giapponesi, taiwanesi, vietnamiti, eccetera, eccetera. Insa-dong è una babele orizzontale, una spremuta di mondo in poche centinaia di metri che terminano in Yulgok-ro, la grande arteria che separa il turista dai tesori della Seul reale. A destra il meraviglioso palazzo di Changdeokgung, patrimonio dell’Unesco, costruito originariamente nel 1405 e a tutt’oggi uno degli edifici storici meglio conservati della nazione. Camminando a sinistra, si raggiunge invece il palazzo di Gyeongbokgung, la più grande delle cinque residenze reali che arricchiscono oggi la Seul storica e culturale. Distrutta completamente durante la dominazione giapponese e ricostruita grande e bella per urlare in faccia al mondo che il corpo muore ma l’anima sopravvive e alimenta la fiamma dell’orgoglio nazionale. Come quello del vecchietto di Tapgol Park: «Independence from Japan».

Nel cuore della gente

Evito i palazzi storici e opto per tornare sui miei passi, puntando diritto verso Jogyesa, il più famoso tempio buddhista di Seul e il più frequentato della Corea. Entro nel grande cortile che si apre di fronte al tempio principale e mi fermo a guardare tante persone che arrivano come formiche, lasciano le scarpe davanti agli ingressi ed entrano, piazzandosi in ginocchio di fronte alle tre grandi statue di Buddha, raffigurato nelle principali fasi della vita: giovinezza, età matura e vecchiaia. Chissà cosa portano nel cuore queste persone che si inchinano ritmicamente di fronte all’Illuminato. Che pensieri si celano dietro i mantra con cui ritmicamente recitano le loro preghiere? Non si immaginano neppure che dietro di loro, a pochi metri di distanza e in rispettosa attesa, un missionario cattolico li sta guardando con interesse e timore, chiuso nel suo mutismo ignorante. Vorrei fare tante domande… non consisterebbe anche in questo il dialogo interreligioso?

Mi smarco dalla folla religiosa di Jogyesa e cammino fino a immergermi in quella chiassosa, variopinta e globalizzata di Myeong-dong. Se non fosse per le scritte in coreano potresti pensare di essere a Milano, New York o Rio de Janeiro… luci, musica, colori, persino i vestiti della gente sembrano essere stati fotocopiati ed applicati in serie alle varie persone. E qui che Asia c’è? Cosa vede il missionario, in piedi, in rispettosa e curiosa attesa dietro alle vetrine di uno delle migliaia di negozi di maquillage che intasano i marciapiedi con i loro banchetti promozionali? O di quel negozio di moda giovanile, dove personale bellissimo, frutto di sacrifici non indifferenti in palestra e cosmesi aspetta le frotte di giovani che vi accorrono rapidi. Che Asia è quella che si apre davanti ai miei occhi, così familiare che mi sembra di averla già vissuta altrove, eppure così diversa? Che pensano quei giovani? Che cercano nella vita? Cosa studiano? Andranno al tempio?

Qualcuno di essi forse andrà in Chiesa. Il Cristianesimo si è diffuso moltissimo in Corea, soprattutto quello protestante, diviso in centinaia di chiese dalla diversa denominazione, ma dalla simile architettura. Le grandi croci luminose che squarciano il cielo notturno della capitale con raggi di vario colore confermano che la presenza evangelica è numerosa e appariscente. A Myeong-dong si staglia la cattedrale cattolica, dedicata all’Immacolata Concezione. Costruita originariamente in una piazzetta del vecchio quartiere, conquistando metri quadrati a ristoranti e negozietti, oggi la grande chiesa si è ritagliata una spianata importante e un colpo d’occhio più imponente. Come i cattolici stessi, del resto. Anch’essi hanno guadagnato il loro spazio importante in seno alla società coreana. Oggi, sono circa il 10% della popolazione, ben organizzati, strutturati, con un clero abbondante e efficiente.

Il gruppo dei missionari della Consolata in Asia (Corea, Mongolie e Taiwan) con i membri della direzione generale dell’Istituto.

I missionari e l’Asia

Dentro questa chiesa, dal 1988, siamo anche noi Missionari della Consolata. Ci rifletto un po’ nel lungo viaggio in metropolitana che mi riporta a casa. Penso ai vari confratelli che si sono succeduti in questo angolo di mondo e alle domande che sicuramente devono essersi fatti per confrontarsi con la realtà quotidiana della Corea. Penso ai giovani coreani che hanno intercettato nel loro cammino, al linguaggio che hanno dovuto imparare per confrontarsi con loro. Sette di essi sono oggi Missionari della Consolata e lavorano in varie parti del mondo. Uno, padre Han Pedro, è rientrato in Corea e aiuta i nuovi arrivati a entrare più velocemente nel tessuto della società coreana. Lui per primo sa che non è facile capire la Corea, al punto che lui stesso ha sentito il bisogno, dopo tanti anni passati in Italia e in Brasile, di rimettersi a studiare. La sua sensibilità verso la pace e la giustizia lo ha portato ad avvicinarsi al tema del riavvicinamento fra le due Coree, un campo vastissimo per esercitare il ministero missionario della consolazione.

Altri si sono dedicati al dialogo interreligioso, cercando di comunicare nella vita di tutti i giorni, negli incontri di studio specializzati e nella condivisione di momenti di spiritualità, la ricchezza del proprio essere cristiano, il valore della comunità, la bellezza dell’interculturalità. Altri ancora hanno cercato i poveri, gli scarti di questa società del benessere, e sono andati a vivere con loro, lontani dalle luci del centro e dai grandi schermi digitali che dalle pareti dei grattacieli trasmettono la pubblicità di paradisi artificiali e inni al consumo. Oggi, diversi migranti giunti dall’Africa o dall’America Latina chiedono aiuto a missionari che li capiscono perché ne parlano le lingue e ne hanno conosciuto le culture provenendo dai loro stessi paesi di origine o avendovi lavorato.

A cena racconto il giro che ho fatto. Conto i confratelli intorno alla tavola. Ci sono tutti perché si sono riuniti per salutarmi visto che presto ripartirò per l’Italia. Seul è proprio immensa, mi dico, e loro sono così pochi. Mentalmente allargo lo sguardo oltre la Corea per cogliere anche il saluto dei tre missionari che vivono a Taiwan e dei quattro confratelli della Mongolia. La Consolata in Asia è tutta racchiusa in quel pensiero che subito diventa preghiera: 18 missionari provenienti da 11 paesi diversi, persi fra i grattacieli e le steppe, confusi tra miliardi di persone, un sussurro di Vangelo che cerca di arrivare, anzi, che arriverà, sulle ali dello Spirito, al cuore di questo grande continente.

Ugo Pozzoli
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Già direttore di MC, ora consigliere generale dell’istituto con responsabilità per l’Europa e l’Asia.




Congo Brazzaville: voci dalla rivolta


Come in Senegal, Burkina Faso e Congo Rd, anche a Brazzaville i giovani si mobilitano. Trascinati dai loro eroi musicali, i rapper, scendono in piazza. Chiedono democrazia e diritti. Con coraggio, rivendicano un futuro diverso da quello dei loro padri. Il movimento di chi «ne ha abbastanza» cerca di svegliare i congolesi.

Martial Pa’nucci si definisce artista-rapper, attivista, autore, compositore e poeta urbano. Di certo è un giovane congolese che si è messo in gioco per il suo paese. Lo abbiamo sentito per il suo ruolo di portavoce del movimento sociale giovanile «Ral-le-bol», che si è opposto alla ricandidatura e rielezione di Denis Sassou Nguesso a presidente della Repubblica. E per questo ne ha subito le conseguenze.

Il suo nome da artista, Martial, lo ha voluto in italiano, «perché – ci dice – sono un fan della cultura italiana». Si tratta di un acronimo, Pa’nucci, il cui significato è: Purista, a’ccro (ovvero: attaccato al rap puro), negro, ultra-rivoluzionario, cosciente e contro l’ingiustizia.

Ral-le-bol, invece, in francese significa letteralmente esasperazione, «en avoir ral-le-bol», vuol dire avee abbastanza. Martial accetta di rispondere alle domande di MC sulla situazione del paese.

Come si caratterizza il vostro movimento e cosa chiedete?

«Ral-le-bol è un movimento pro democrazia che lotta per il risveglio della coscienza cittadina. Quando ancora c’erano le autorità in Congo – adesso non c’è più uno stato legittimo – chiedevamo il rispetto dell’ordine costituzionale. Ma la Costituzione del nostro paese è stata purtroppo violata e oggi chiediamo ancora uguaglianza per tutti, acqua potabile, cibo, casa. Sono problemi di base, ma continuano a porsi con una certa ampiezza in Congo. Noi rivendichiamo la giustizia sociale, il benessere, il rispetto dei diritti umani e della democrazia.

Il movimento Ral-le-bol è nato nel dicembre 2014, ben prima che la situazione precipitasse, ed è stato un “ral-le-bol” di giovani, studenti, artisti, che ne avevano abbastanza di vedere il paese in continua regressione, i diritti umani non rispettati, la gente che non mangia a sazietà, la qualità dell’educazione che non è buona, la mancanza di acqua ed elettricità, la violenza poliziesca continua. Vediamo tutti i momenti delle ingiustizie, il saccheggio dei beni pubblici e dei fondi. Così siamo nati per cercare di portare una soluzione a tutti questi problemi, utilizzando lo strumento della rivendicazione».

Chi sono i membri di Ral-le-bol?

«È un movimento con molti giovani, direi dai 20 ai 30 anni. All’inizio eravamo in maggioranza artisti e studenti, ma poi si sono uniti lavoratori, funzionari, disoccupati. È un movimento che raggruppa tutti. Io sono musicista rapper e scrittore».

Cosa avete fatto per il referendum e per le elezioni e come ha reagito il potere?

«Per lottare contro la modifica della Costituzione, nel 2015 abbiamo iniziato a portare la Carta verso i cittadini, per spiegare loro perché è importante rispettarla. E anche se ci sono delle modifiche da fare, occorre che si prenda il tempo necessario. Il presidente della Repubblica aveva terminato i suoi mandati e il testo gli proibiva di ricandidarsi. Abbiamo cominciato quindi con campagne di sensibilizzazione su tutto il territorio nazionale, in particolare a Brazzaville e Point Noire, le due città principali del paese, dove c’è una forte concentrazione di popolazione.

È stato un “porta a porta” per sensibilizzare, e alla fine abbiamo organizzato, insieme ad altri movimenti, una marcia di protesta pacifica il 9 ottobre 2015. Purtroppo questa manifestazione è stata repressa dalla polizia e dalla gendarmeria che ci hanno dispersi, e hanno arrestato 6 dei nostri attivisti. Questi sono stati giudicati, e condannati a 3 mesi di prigione e a una multa di 150.000 franchi (ca. 228 euro). Intanto, quelli che erano scampati all’arresto non erano tranquilli perché temevano che la polizia volesse prendere tutti. Fortunatamente sono stati risparmiati. Gli arrestati sono stati condannati a torto in quanto esigevamo solo il rispetto della Costituzione e il diritto alla manifestazione».

Sostenitori del presidente Denis Sassou Nguesso
/ AFP PHOTO / MARCO LONGARI

Con voi c’erano altri movimenti sociali?

«Assieme a noi, il 9 ottobre c’era il movimento dei giovani cittadini (Mjc), che purtroppo dopo si è alleato alla maggioranza presidenziale, e ha tradito la causa. Il leader di questo movimento si è poi ritrovato consigliere di uno dei ministri eletti alle elezioni truccate. E c’era l’Amicale nell’organizzazione di questa manifestazione di protesta».

Anche tu sei stato arrestato?

«No, fortunatamente sono riuscito a salvarmi e sono fuggito, quando hanno iniziato a tirare le bombe lacrimogene. Perché sapevo che sarebbe finita con degli arresti. In seguito il mio ruolo è stato capitale nella denuncia della situazione attraverso certi media inteazionali, cosa che ha evitato che i nostri amici fossero accusati di essere ribelli. Infatti i governativi, al loro arresto, per accusarli hanno messo loro in mano delle armi. Trenta minuti dopo abbiamo informato la stampa internazionale, che ha fatto fallire questa messa in scena».

Dopo gli arresti del 2015 avete avuto altri problemi con le autorità?

«Due mesi dopo la marcia è stato arrestato un altro nostro militante, Andy Bemba, che è stato rilasciato solo a fine agosto. Ha passato otto mesi senza processo, poi è stato liberato anche grazie a delle pressioni nazionali e inteazionali. Recentemente, non più tardi di qualche giorno fa, (20 ottobre) abbiamo ancora subito attacchi al nostro movimento, con minacce di arresto per Franck Nzila, un altro militante. Sono andati al suo ristorante, hanno arrestato il suo cuoco perché lui non c’era e poi lo hanno liberato dopo 5 giorni di detenzione. È stato poi liberato con l’aiuto dell’Ocdh (Organizzazione congolese per i diritti umani, ndr)».

Poi ci sono state le elezioni presidenziali anticipate.

«La posizione di Ral-le-bol era quella di rimandare le elezioni, perché secondo noi non c’erano le condizioni affinché si tenessero consultazioni libere, trasparenti e rispettose di tutte le regole democratiche. Abbiamo pubblicato un comunicato su questo, ma il potere, che si manifesta sempre con la forza, ha fatto in modo che si tenessero a tutti i costi il 20 marzo. Avevamo anche messo in piedi un’operazione di prossimità, per dire ai cittadini che eravamo contro queste elezioni, perché il presidente si sarebbe imposto con la forza.

Abbiamo detto alla gente, quando votate, restate sul posto per aspettare i risultati, per mostrare alla comunità nazionale e internazionale come questo signore froderà. Nella notte del 20 marzo tutti sapevano già che Sassou aveva perso le elezioni. E aspettavamo di vedere cosa sarebbe successo. Ma il seguito è stato drammatico.

In effetti tutte le previsioni lo davano perdente. A causa delle condizioni nelle quali ha messo il paese, i congolesi non volevano rieleggerlo. Sassou ha sempre imbrogliato e non ha mai vinto un’elezione in maniera trasparente. La prima votazione libera fu nel 1992, e lui la perse.

Per questo noi di Ral-le-bol, sapevamo che avrebbe perso ma che avrebbe voluto imporsi».

Protesta contro il presidente, giocando sull’assonanza di parole: Sossou/ça suffit – basta! / AFP PHOTO / Laudes Martial Mbon

Parlando della società civile in Repubblica del Congo, oggi a che punto siamo?

«È molto indebolita. Sassou sapeva che è stata proprio la società civile a farlo cadere nel 1992. Così appena è tornato al potere, con le armi, ha fatto di tutto per metterla all’angolo. Oggi in Congo possiamo dire che una parte della società civile è comprata dal potere e parla il suo stesso linguaggio. Poi c’è qualche piattaforma di organizzazioni che riesce ad andare avanti, ma è debole e con il clima di terrore che regna nel paese non riescono a fare grandi cose. Quindi è allo stesso tempo indebolita o asservita al potere. E un paese non può svilupparsi con una società civile di questo tipo.

Posso dire che tra noi c’è collaborazione, perché con certe piattaforme riusciamo a comunicare e anche a collaborare. Parlo ad esempio della fondazione Ebina, che fa parte delle Ful-d (Forze unite per la libertà e la democrazia), dell’Ocdh e dell’Associazione per la promozione della cultura, la pace e la nonviolenza».

Siete in una rete internazionale?

«Abbiamo collegamenti con movimenti di cittadinanza attiva come il nostro in altri paesi africani. Con le tecnologie di oggi possiamo comunicare regolarmente e scambiare idee. Talvolta riusciamo a incontrarci in occasione di qualche festival. Penso a Balai Citoyen del Burkina Faso, Filimbi e Lucha della Rdc e Y en a marre del Senegal, con i quali collaboriamo e scambiamo idee. In particolare ci siamo ispirati ai senegalesi, che sono stati i primi a costituirsi».

Come fate a finanziare le vostre attività, i viaggi, gli incontri?

«Nel rispetto dei testi statutari di Ral-le-bol noi funzioniamo grazie alle quote associative dei membri, ma accettiamo anche doni, aiuti e finanziamenti che possono aiutarci a realizzare le attività. Questo non vuol dire che ne abbiamo già ricevuti, finora abbiamo potuto contare solo sui nostri mezzi.

Come membri attivi siamo un centinaio e come membri con partecipazione saltuaria e simpatizzanti siamo a circa 500».

Cosa sta succedendo nel dipartimento del Pool?

«A livello ufficiale c’è una ribellione che sarebbe ricominciata. Quello che si può dire è che da ottobre 2015 a oggi, Sassou ha iniziato un processo nel quale chiunque si opponga al regime o esiga il rispetto della legge, o chieda giustizia, è sistematicamente arrestato, oppure scompare, o viene torturato. Oggi ci sono circa 100 persone in prigione per questi motivi, di cui diversi oppositori, ma il governo sostiene che non ci sono detenuti politici in Congo.

Il 4 aprile 2016 il potere di Brazzaville ha fomentato un colpo di mano. Lo stesso momento in cui hanno iniziato a sparare, verso le 2 del mattino, si proclamavano i risultati ufficiali delle presidenziali. E gli scontri sono proseguiti fino alle 16. Si sparava nei quartieri Sud di Brazzaville. Questo è stato fatto per evitare che la gente scendesse in strada a protestare contro i risultati. Ma non è stato sufficiente, e allora si è cercato un capro espiatorio per dire che c’era un colpevole. Per questo si è accusato Pasteur Ntumi di essere alla testa di un gruppo di ninja, quando tutti sappiamo che questi sono stati disarmati oltre 15 anni fa. Come hanno avuto le armi per attaccare e fare la guerra? I ninja si nasconderebbero nel Pool e così si è cominciato a bombardare la popolazione civile. Sono i civili innocenti che stanno morendo nel Pool, non sono dei guerriglieri.

In quale paese si può accettare che l’esercito bombardi con elicotteri militari la popolazione disarmata? Non è uno scontro con un altro paese. È terribile quello che sta succedendo».

La comunità internazionale, i cosiddetti «amici del Congo», le potenze come Francia e Usa, cosa fanno?

«Oggi i congolesi sono molto delusi dal comportamento della Francia che appoggia ancora il regime di Brazzaville. Perché non dimentichiamo cosa ha detto Hollande quattro giorni prima del referendum anticostituzionale del 2015. Di fatto ha autorizzato il governo a violare la Costituzione, quando qualche tempo prima all’Assemblea generale della Francofonia (organizzazione mondiale che raggruppa i paesi francofoni, ndr), in Senegal, si era opposto alla ricandidatura di Nguesso.

Sono delusi del comportamento della comunità internazionale, perché tutte le nazioni che si dicono protettrici dei diritti dell’uomo, quando si tratta di altri paesi parlano, ma quando si tratta del Congo tacciono. In Congo continuano a morire cittadini che non hanno nulla a che vedere con la politica. Ed è terribile vedere che si continui a uccidere congolesi senza che la Francia dica qualcosa. Siamo molto delusi da tutti questi paesi che non fanno assolutamente nulla per aiutare il Congo a uscire dalla dittatura».

Pensi sia dovuto agli interessi per il petrolio?

«La Francia e gli altri stati guardano le situazioni dei paesi con gli occhi dei loro interessi. Ovvero se hanno affari in un paese, e questi sono garantiti, allora si possono anche uccidere le persone, tutti i giorni. Non è un loro problema. Ma questo è triste perché sono paesi che si dicono culla dei diritti e delle libertà.

Gli Usa hanno condannato la deriva in atto, ma questo non basta. Occorrono sanzioni, bisogna tagliare gli aiuti e la cooperazione, è così che si può aiutare la popolazione. È necessaria un’inchiesta internazionale, ma non è in agenda.

Inoltre si parla poco della Repubblica del Congo a livello di media inteazionali.

Quando, durante le elezioni, siamo rimasti quasi una settimana isolati dal mondo, poco si è scritto. E dopo un tale black out, Sassou si è imposto con la forza e ha utilizzato l’esercito contro la popolazione. Ma nessuno ne parla. Non lo trovo normale. L’opinione pubblica non capisce perché i congolesi si rivoltano, ma noi sappiamo che questo potere è illegittimo, illegale».

Pa’Nucci concert

Qual è la vostra visione sul futuro del paese?

«Il movimento Ral-le-bol esiste soprattutto per far crescere la coscienza cittadina. Come ci sono problemi oggi, ce ne saranno in futuro. Ma bisogna che tutti i congolesi si alzino in piedi come un solo uomo per dire no all’ingiustizia. E noi continueremo a lavorare su questo terreno. Siamo sicuri che il Congo sarà libero ma occorrerà che tutti i congolesi possano impegnarsi per lottare contro la dittatura e i crimini economici che si stanno perpetrando.

C’è infatti anche una grave crisi economica, la cui causa è il governo. Ma chi detiene il potere crea diversivi, come la presunta guerriglia, in modo da non essere scoperti e continuare a dirigere il paese.

Noi vogliamo che il Congo sia un paese di diritto, giustizia e uguaglianza e che quelli che lo hanno messo in questa situazione siano giudicati e paghino per quanto hanno fatto».

Marco Bello




Europa: cervelli migranti


Sempre di più arrivano migranti con elevato livello culturale. Ma la valorizzazione delle loro competenze è ancora lontana. L’Unione europea inizia a parlare di «corridoi educativi» e alcune città italiane si muovono. Occorre inserire i talenti esteri. Il migrante, percepito come peso, può così diventare risorsa.

Le decine di migliaia di persone migranti che ogni anno concludono il loro drammatico viaggio verso l’Italia nei centri di accoglienza, per certi aspetti, non sono tutte uguali: uno dei fattori importanti che le differenzia le une dalle altre è il loro grado di istruzione. Tuttavia nessuna istituzione a livello governativo sembra ancora curarsene come si potrebbe e dovrebbe fare, nonostante l’inserimento attivo nella società di nuovi arrivati con alte professionalità possa essere un notevole valore aggiunto. Chi ha studiato in patria può diventare infatti un elemento chiave per favorire i percorsi di inclusione di altri stranieri e combattere i processi di radicalizzazione nel contesto sociale in cui andrà a collocarsi. Non solo. Il rischio è che la frustrazione crescente di chi non trova un’occupazione adeguata alle sue possibilità degeneri in fenomeni di marginalità e violenza.

Primi passi

Se lo stato italiano latita, non così fortunatamente fanno le associazioni religiose, le organizzazioni del volontariato, la società civile e molti enti di livello locale, che hanno già mosso i primi passi concreti per la valorizzazione del livello culturale dei migranti e hanno iniziato a valutare gli esiti delle esperienze capofila.

Un convegno, presieduto da Janiki Cingoli e Federico Daneo, direttori rispettivamente del Centro italiano per la pace in Medio Oriente (Cipmo) e del Centro piemontese di studi africani (Csa), cornordinato da Ilda Curti, rappresentante per l’Italia dell’Associazione delle città interculturali del Consiglio d’Europa, ricchissimo di qualificati interventi, si è svolto recentemente a Torino. Lo scopo era verificare le attività cosiddette di «capacity building» (letteralmente costruzione di competenze) delle cosiddette «associazioni diasporiche med-africane» – ovvero di quelle comunità che si fanno carico di accogliere e includere in società i migranti provenienti dalla costa africana del Mediterraneo – nelle realtà del capoluogo piemontese stesso e nell’area milanese.

Intanto anche l’Unione europea si sta muovendo per far emergere i rifugiati «high skilled», ovvero ad elevate competenze. Sono allo studio sistemi per valorizzare le loro lauree attraverso «corridoi educativi» e una cooperazione territoriale che tocchi atenei, ma anche fondazioni bancarie e Ong. «Finalmente l’Europa ha la sua strategia di diplomazia culturale per rafforzare la dimensione culturale ed educativa delle relazioni inteazionali». È il commento alla «Towards a Eu strategy in inteational cultural relations» (Verso una strategia Ue per le relazioni culturali inteazionali) adottata nel giugno scorso, di Silvia Costa, intervenuta al convegno come presidente della Commissione Cultura del Parlamento Europeo. «La strategia – ha proseguito – fu proposta dall’Italia durante il suo semestre di presidenza. Ora l’Europa ha uno strumento potente che la può aiutare ad affrontare la nuova dimensione delle politiche culturali sempre più connesse con le politiche per lo sviluppo e la pace. Il conflitto drammatico nell’area del Mediterraneo, il terrorismo, l’emergenza dei rifugiati ci spingono con urgenza a rivedere modelli di cooperazione e di partenariato alla luce di un approccio interculturale e interreligioso, promosso dalla nuova strategia, anche in chiave competitiva ed economica». L’obiettivo è di arrivare a un piano globale di co-sviluppo (inteso come sviluppo nei paesi di provenienza in cui le associazioni della diaspora hanno un ruolo preciso), sfruttando le reti che regolano le migrazioni, ovvero le persone, le loro rimesse economiche, le loro competenze, le imprese sul territorio e i consolati.

Troppi sprechi

Su questo percorso oggi si incontrano troppi sprechi di risorse e competenze. Basti pensare agli 1,1 miliardi di euro – sui 3,3 miliardi investiti per la totalità delle operazioni di salvataggio e cure sanitarie – che si spendono ogni anno per tenere 130 mila persone nel limbo dei centri di accoglienza e degli ostelli dove sopravvivono abbandonati al loro destino (questi dati sono riferiti al 2015; mentre i rifugiati nel 2016 sono cresciuti a 170 mila con relativo aumento di spesa previsto a 1,6 miliardi). Questo modello di accoglienza costa allo Stato 35 euro al giorno per ciascuno di loro, cifra che sale a 45 se si tratta di minori (20 mila è il numero di quelli non accompagnati). E non sono soldi che finiscono nelle tasche dei migranti, come vorrebbero certe speculazioni politiche. Il vero «pocket money» per loro è di 2,5 euro giornalieri pro capite.

È necessario dunque rovesciare gli stereotipi che considerano l’immigrato un peso per la società. Papa Francesco l’ha ribadito più volte con forza: l’accoglienza deve essere bagaglio di ognuno di noi e i governanti non si possono permettere il lusso di salvare le banche e non trovare i capitali necessari a una accoglienza dignitosa per chi chiede aiuto per soddisfare i bisogni essenziali.

Le città di Torino e Milano hanno saputo offrire un esempio di ciò che si potrebbe ottenere mettendo insieme le loro esperienze grazie anche al retroterra antico di volontariato, welfare e istituzioni sensibili. Magari lo si può fare in nome del cosiddetto «altruismo egoista» che può sfruttare le risorse che il paese di origine ha speso per la formazione dei suoi cittadini. Un esempio viene dalla Germania dove, sotto il cappello propagandistico dello slogan di accoglienza di un milione di rifugiati lanciato la scorsa primavera da Angela Merkel, sono state inserite persone provenienti dalla Siria in maggioranza di ceto borghese, benestante e istruito, che sono così diventati risorsa e non peso per la società tedesca.

Il capitale culturale

Dunque qualcosa si muove. Lo certifica nero su bianco una ricerca dell’istituto romano di studi politici San Pio V, che sottolinea come l’immigrazione contribuisca a non abbassare il capitale culturale dell’Italia e conferisca spessore concreto alla «circolazione dei cervelli».

La presenza di scambi con l’estero di lavoratori con un livello di istruzione superiore offre un reciproco arricchimento. Non per caso però, la ricerca segnala come la circolazione dei migranti qualificati sia più accentuata nelle nazioni ad alto sviluppo, nelle quali si riescono a creare più posti ad alta qualificazione con conseguente inserimento di immigrati culturalmente preparati.

In Italia invece non solo non si è attrattivi, ma neppure si sa frenare l’esodo dei nostri laureati ai quali il paese ha destinato ingenti risorse in formazione, e di cui altri godranno i benefici. Ecco qualche dato statistico che parla da sé: da noi si spendono 134 mila dollari per formare un diplomato, 178mila per un laureato magistrale, 228 mila per un dottore di ricerca.

Nel periodo 2000 – 2011 i diplomati e laureati fuggiti all’estero sono stati 180mila, a fronte di un arrivo di 243mila laureati e 841mila diplomati stranieri. Tra il 2012 e il 2014 sono espatriati 60mila laureati italiani e 15mila sono rimpatriati, mentre gli stranieri hanno contato 100mila laureati in più, tra residenti e cittadini.

Per valutare l’impatto delle alte qualifiche sulla presenza straniera in Italia notiamo che nel censimento 2001 gli italiani residenti sono circa 54 milioni con il 7,5% di laureati, il 25,9% di diplomati, mentre gli stranieri residenti sono 1 milione 200mila con il 12,1% di laureati e il 27,7% di diplomati. Dieci anni dopo, nel 2011, la popolazione italiana passa ad oltre 56 milioni con l’11,2% di laureati e il 30,2% di diplomati, con incidenza di questi ultimi dunque in netto aumento. Quintuplicata rispetto al censimento del 2001 è nel contempo la presenza straniera, salita a 5,42 milioni di unità. Nel 2014, secondo l’Istat, la popolazione straniera residente con 15 anni e più conta il 39,7% di diplomati e il 10,3% di laureati, ovvero circa mezzo milione di persone, per cui si può affermare che questa presenza compensa numericamente il flusso dei laureati italiani verso l’estero, se non fosse che resta, come già sottolineato, troppo scarsamente valorizzata.

Gli investimenti in ricerca e sviluppo sono nel contempo solo l’1,29% del Pil (contro il 2,03% di media nell’Ue) con le imprese private che battono largamente il settore pubblico, senza contare che un quarto degli investimenti privati in ricerca è fatto in Italia da imprese estere. Il risultato è che solo 1 manager su 4 ha una laurea, contro i 2 su 3 della Francia, fattore che non favorisce certo l’innovazione.

Un saldo positivo

Secondo un’altra stima del Dossier Statistico sull’immigrazione, datato 2015, stilato dal Centro studi e ricerche Idos di Roma e dalla rivista interreligiosa «Confronti», tornando al nodo lavoro, 2,3 milioni sono gli stranieri con un posto di lavoro, il 10,3% del totale degli occupati. In agricoltura, uno dei settori più esposti allo sfruttamento, lavorano ufficialmente 328mila braccianti nati all’estero. Le entrate fiscali e previdenziali totali, nonostante i fenomeni diffusi di caporalato e lavoro in nero, ricollegabili ai lavoratori immigrati sono state nel 2013 (ultimo dato disponibile) di 16,6 miliardi di euro contro uscite nei loro confronti di 13,5 miliardi, dunque con un forte saldo attivo, contribuendo con l’8,8% al valore del Pil nazionale.

Il problema del sistema Italia, conclude la ricerca dell’istituto San Pio V, non consiste dunque tanto nella mancanza di personale con un’istruzione superiore quanto nell’incapacità di usarlo in maniera adeguata, così da contenere la partenza dei talenti italiani e da inserire con maggiore apertura i talenti esteri, soprattutto extracomunitari.

È questa una delle scommesse da vincere per lo sviluppo futuro e la crescita equilibrata di tutto il nostro paese.

Mario Ghirardi




Nicaragua. Rosario&Daniel Ortega spa


Lo scorso novembre Daniel Ortega è stato rieletto presidente del Nicaragua. Sua moglie Rosario Murillo, vicepresidente. In questa intervista María López Vigil, caporedattrice di Envío, prestigiosa rivista dell’Università Centroamericana (Uca) di Managua, traccia un quadro fosco della coppia presidenziale che da 10 anni guida il paese.

Quell’uomo con i baffetti, gli occhiali «a goccia» e un’uniforme verde militare era per molti – anche per chi scrive – un’icona. Lui, Daniel Ortega Saavedra, era il leader del Frente sandinista de liberación nacional (Fsln) che aveva liberato il piccolo Nicaragua dalla dittatura di Anastasio Somoza e resistito per 10 anni (dal 1979 al 1989) alle pressioni militari e politiche degli Stati Uniti, all’epoca guidati da Ronald Reagan.

Dopo gli accordi di Managua (agosto 1989), il paese centroamericano toò alla normale dialettica democratica. Daniel Ortega fu sconfitto nelle presidenziali del 1990 (da Violeta Chamorro), del 1996 (da Aoldo Alemán) e del 2001 (da Enrique Boloños). Nel 2006 Ortega vinse le elezioni, ripetendosi nel 2011.

Lo scorso 6 novembre Daniel Ortega, oggi 71enne, è stato eletto presidente per la terza volta consecutiva, mentre sua moglie Rosario Murillo è stata nominata vicepresidente. Un’abbinata familiare che non rappresenta un delitto, ma certamente non appare come una scelta eticamente opportuna.

María López Vigil

Per parlare delle elezioni e del decennio della famiglia Ortega abbiamo rivolto qualche domanda a María López Vigil, giornalista e scrittrice, caporedattrice di Envío, la rivista pubblicata dall’Università Centroamericana (Uca) di Managua. Va ricordato che la Uca, fondata dalla Compagnia di Gesù nel 1960, è senza dubbio uno dei più noti e prestigiosi istituti universitari dell’America Latina.

I dubbi sulle elezioni

Maria, Daniel Ortega e Rosario Murillo hanno vinto di nuovo. Tutto bene?

«Non sapremo mai i numeri ufficiali di queste elezioni. Da otto anni le autorità elettorali mentono e tutti lo sanno in Nicaragua. Eppure Daniel Ortega non ha stravinto. In ogni caso, ha vinto perché ha preparato tutto per non avere né osservatori inteazionali né partiti reali in competizione. Noi abbiamo calcolato un 70% di aventi diritto che non sono stati a votare, arrivando all’80% nelle zone rurali. Quindi, il 72,5% ottenuto da Ortega è stato calcolato su appena un 30% di votanti. Sarebbe corretto definirla una vittoria di Pirro».

Dopo le elezioni, l’emittente TeleSur ha commentato: «Con il suo processo elettorale esemplare, la democrazia nicaraguense è attaccata con aggressività dai governi e dai media occidentali. (…) Nelle elezioni statunitensi del 2012 Barack Obama vinse con l’appoggio del 31,5% (…). Daniel Ortega ha vinto con un appoggio del 49,4%» (TeleSur, 10 novembre). Dove sta la verità?

«In queste elezioni chi ha vinto è stata l’astensione. Qualcosa di molto significativo in Nicaragua, dove alla gente piace votare, perché le persone hanno “fede elettorale”. Le cifre diffuse dal disprezzato Comitato elettorale non sono credibili. Sono state precedute da tre frodi elettorali provate (2008, 2011 e 2012). Il problema elettorale in Nicaragua è molto grave perché il sistema è collassato».

La povertà resiste

Nel 2015 l’economia nicaraguense ha registrato una crescita del 4,5% (dato Fmi). Significa che il modello economico di Ortega funziona?

«Il governo di Ortega non è progressista. La spinta che ha avuto l’economia del Nicaragua si è basata sull’aiuto venezuelano (si tratta di ingenti prestiti petroliferi che tuttavia sono molto diminuiti negli ultimi due anni, ndr), aiuti che il presidente ha privatizzato. Il modello economico ha favorito fondamentalmente il grande capitale e per questo l’Fmi ogni anno si congratula con Daniel Ortega».

In questi anni il livello della povertà generale è diminuito in maniera significativa: era del 44,7% nel 2009, è sceso al 39,0% nel 2015 (dati Fideg).

«Ortega e Murillo sono al governo ormai da dieci anni. Sono diventati milionari con le entrate della cooperazione petrolifera venezuelana. La diseguaglianza sociale è maggiore oggi che dieci anni fa. I problemi principali del paese sono la disoccupazione e i cattivi impieghi (la cosiddetta occupazione informale): 8 su 10 nicaraguensi lavorano in proprio, senza un salario fisso e senza previdenza sociale. L’emigrazione verso Costa Rica e Panamá è massiccia. Le rimesse in dollari che gli emigrati inviano alle loro famiglie sono un sostegno importante per la gente più povera del paese. Il Nicaragua continua a detenere il record di paese più povero del continente dopo Haiti, anche se la differenza tra i due paesi rimane abissale».

Secondo la Cepal, organizzazione delle Nazioni Unite, nella classifica della povertà il Nicaragua viene però dopo di Haiti, Honduras, Guatemala e Messico.

«Premesso che entrare nella “competizione” per chi è più povero è comunque un fatto negativo, le prove per stabilire chi lo è di più sono sempre differenti».

La povertà è un’eredità storica. Cosa manca per diminuirla?

«Il problema principale da risolvere perché il paese superi la sua storica povertà è il sistema educativo di bassissima qualità. Abbiamo le maestre e i maestri peggio pagati dell’America Centrale e la minore percentuale del bilancio nazionale investito nell’educazione (2,5%). L’attuale governo non ha fatto nulla per migliorare l’istruzione».

Nicaragua 2009-2016: tassi di povertà generale (sinistra) ed estrema (destra).

Gli Ortega sostengono che il loro governo è un governo inclusivo.

«Ortega ha incluso nel suo governo la grande impresa privata e la élite imprenditoriale di sempre. Sono i suoi alleati più sicuri, suoi soci anche in varie attività. Per i più poveri ci sono i cosiddetti “programmi sociali”: borse alimentari mensili, maiali e galline per le donne rurali, lamiere di zinco per i tetti, crediti senza interesse per micro-attività urbane… Non c’è dubbio che alleviano la povertà e che i poveri gradiscano molto queste misure, però non risolvono il problema. La sola cosa che sradicherebbe la povertà sarebbe una occupazione stabile con un salario dignitoso.

Il 6 novembre molti di questi poveri, pur beneficiati con i programmi sociali, non sono andati a votare per Ortega. La gente è stanca del controllo sociale che questo governo impone, che si manifesta in varie maniere, più nelle zone rurali che a Managua e in altre città».

Ciò che resta del sandinismo

Mi pare che il sandinismo di oggi sia completamente differente da quello di ieri. Mi sto sbagliando?

«Tutti abbiamo ammirato il sandinismo e da anni siamo tristi per la situazione che viviamo qui. Però non serve a nulla dissimulare e mentire sul Fsln e su Ortega e la sua gente. Non sono sandinisti. Il sandinismo continua a essere vivo in Nicaragua, tuttavia non nelle istituzioni. In altre parole, non c’è alcun sandinismo nell’attuale Fsln».

Cos’è il sandinismo, María?

«È una delle radici di questa nazione. Il sandinismo è giustizia sociale e sovranità nazionale. Oggi invece ci sono diseguaglianza e ingiustizie».

Sovranità nazionale… Com’è la storia del progetto del Grande canale interoceanico nelle mani di Wang Jing, proprietario del gruppo cinese Hknd?

«Ortega è un “vendepatria” come diceva Sandino dei politici del suo tempo. Ha venduto il paese a una impresa cinese perché faccia un canale interoceanico. E anche se non lo facesse, perché questo progetto è una truffa e una pazzia, c’è una legge che già oggi permette a quella impresa e al gruppo di Ortega di appropriarsi delle terre per l’ipotizzato canale e i progetti ad esso associati».

Tuttavia, il Fronte sandinista di liberazione nazionale (Fsln) continua a vivere ed esistere, o no?

«In realtà il Fsln non esiste, perché è un partito privo di strutture. Quello che c’è è l’”orteguismo”, un progetto politico-familiare che viene comparato con quello di Somoza. In varie occasioni è stato detto: “Ortega e Somoza sono la stessa cosa”. Evidentemente sono passati gli anni, il mondo è diverso, il Nicaragua anche. Assomiglia a Somoza per l’autoritarismo, per il controllo familiare del paese, per la capacità repressiva (specialmente nelle zone rurali), per l’arricchimento personale e del gruppo dei suoi amici, per la corruzione e l’utilizzo privato delle risorse pubbliche».

In Nicaragua operano società multinazionali?

«Certamente. C’è la Cargill, ricevuta con tutti gli onori da Ortega.

C’è l’impresa mineraria canadese B2Gold. C’è la Monsanto. Ci sono zone franche coreane, taiwanesi, statunitensi. Perché il Nicaragua attira tanti investimenti stranieri, di multinazionali e altre imprese importanti? La ragione principale è che il Nicaragua ha i salari più bassi di tutta l’America Centrale. La manodopera è così a buon mercato che è l’unica che può competere con i più bassi salari dei paesi asiatici. Il Salvador ha un salario minimo del 50% superiore al nostro, quello dell’Honduras è due volte maggiore, quello del Guatemala è appena più alto di quello honduregno e quello del Costa Rica è quattro volte maggiore».

Queste multinazionali provocano disastri come negli altri paesi dell’America Latina? Anche in Nicaragua l’ambiente e la natura sono in pericolo?

Le imprese minerarie stanno facendo disastri ambientali ovunque esse lavorino, come nel resto dell’America Latina. In questo momento il governo ha dato in concessione il 10% del territorio nazionale per lo sfruttamento minerario, specialmente dell’oro».

La Chiesa cattolica e le chiese evangeliche

Qual è il ruolo della Chiesa cattolica del Nicaragua? Un tempo, specialmente con il cardinale Obando y Bravo, è stata una grande nemica del sandinismo. Oggi è alleata della famiglia presidenziale. Per favore, María, una spiegazione…

«La gerarchia della Chiesa cattolica è divisa, come in tutte le parti del mondo. Ci sono quattro dei dieci vescovi della Conferenza episcopale del Nicaragua che hanno posizioni critiche verso il governo Ortega. Gli altri mantengono posizioni ambigue: in alcuni momenti sono favorevoli al governo, ma generalmente preferiscono il silenzio. Il vescovo ausiliare di Managua, mons. Silvio José Báez, è l’unico che ha sempre mostrato una posizione critica. Nelle elezioni del 6 novembre non è andato a votare sostenendo pubblicamente che il processo elettorale era viziato alla radice».

E le chiese evangeliche? Come sta accadendo in molti paesi latinoamericani, anche in Nicaragua la loro diffusione tra la popolazione è rapida.

«Sì, come in tutto il Centramerica e in tutta l’America Latina, esse sono cresciute in maniera esponenziale. In generale, leggono la Bibbia in una maniera che porta al fondamentalismo e a passività e rassegnazione davanti alla realtà. Ci sono le chiese protestanti storiche (battisti, anglicani), ma sono in chiara minoranza rispetto alle denominazioni evangeliche, che sono sempre più numerose, soprattutto nei quartieri poveri delle città e nei distretti rurali».

Le minoranze indigene

Qual è la situazione delle etnie indigene del Nicaragua? Sono 520 mila persone pari all’8,9% della popolazione totale.

«L’etnia maggioritaria è la Miskita. Al secondo posto c’è l’etnia Mayangna. L’etnia Rama è molto ridotta. Ci sono poi i Garifunas come in Honduras.

Queste quattro etnie occupano zone del Nord e Sud Caribe. Storicamente queste regioni, immense e ricche di risorse naturali, erano state ignorate o soggiogate dal governo centrale. Oggi, ogni volta di più, quelle terre sono invase da gente di altre parti del paese, con il tacito consenso di questo governo. È sempre successo. Ma in questi anni è aumentato il conflitto, anche armato, tra gli indigeni e gli invasori, con l’esercito che rimane a guardare».

Cosa spera per il presente e per il futuro di questo paese?

«Spero in un paese migliore, più giusto e più felice. Credo che un altro Nicaragua sia possibile. Anche se non nel breve periodo».

Il potere e le persone

Le risposte di María López Vigil sono dure. A noi rimane in testa il solito dilemma: sono gli anni che cambiano le persone o è il potere che le cambia indipendentemente dagli anni?

Paolo Moiola


Siti internet:

  • www.envio.org.ni
    È il sito della rivista Envío, fondata nel 1981.
  • www.uca.edu.ni
    Il sito dell’Università Centroamericana di Managua.
  • www.cenidh.org
    Il sito del centro nicaraguense per i diritti umani.
  • www.ans21.org
    È il sito dell’associazione «Alteativa Nord Sud per il XXI secolo» che dal 1993 si occupa di Nicaragua (e di Guatemala) e traduce in italiano anche la rivista Envío.
  • www.cse.gob.ni
    Il sito del Comitato elettorale del Nicaragua.
  • www.telesurtv.net
    Il sito dell’emittente Telesur.

Archivio MC:




Catalogna toxic tour


Un gruppo di settanta attivisti ha visitato a fine ottobre alcuni siti industriali nella provincia di Terragona, in Catalogna, per valutae e denunciae l’impatto ambientale, culturale, sociale. Una carovana alla sua terza edizione che ha offerto uno spazio di libertà per indignarsi, intuire nuovi stili di vita, studiare alternative, costruire vincoli di affetto con il territorio.

Conoscere la propria terra e la sua gente, costruire narrative comuni, trovare strategie di resistenza, scoprire e condividere modi nuovi di vivere la vita e il mondo. Essere il filo che tesse insieme territori a volte isolati o dimenticati, o sacrificati. Questo è il senso dei cosiddetti toxic tours, carovane di attivisti che visitano e documentano siti ambientali in condizioni di particolare pericolo, per verificarne la tossicità, il livello di inquinamento a causa, spesso, dell’industria estrattiva ed energetica.

I toxic tours, nati nelle terre zapatiste del Messico, si sono diffusi negli Stati Uniti, in Italia, Ecuador, Colombia e altrove.

Il tour catalano

Lo scorso 29 ottobre uno di questi toxic tours si è svolto nella provincia di Terragona, territorio della comunità autonoma di Catalogna affacciato sul mar Mediterraneo, a Sud Ovest di Barcellona. Obiettivo, quello di visitare e valutare l’impatto ambientale di alcune attività industriali come quelle di Repsol o Dow Chemical nel polo petrolchimico della città di Tarragona, o della piattaforma di deposito di gas Castor nel territorio della cittadina di Alcanar, oltreché di interrogarsi sull’«architettura dell’impunità» con cui le grandi corporations operano.

Sovranità energetica

La terza edizione del Volt ha radunato, per tre giorni, un gruppo di 70 attivisti. Tra loro c’erano lavoratori di cornoperative, insegnanti, studenti, ingegneri, cooperanti, ricercatori, operai e rappresentanti di movimenti sociali indigeni colombiani e guatemaltechi. L’iniziativa, organizzata dalla Xarxa per la Sobirania Energètica (Xse, rete per la sovranità energetica1), ha riunito non solo un ventaglio ampio di competenze e conoscenze, ma anche di cittadini preoccupati per gli impatti ambientali, sociali ed economici dell’attuale modello energetico. Ha creato uno spazio «mobile», dove imparare, indignarsi, studiare alternative e costruire vincoli d’affetto con il territorio.

Central nuclear Vandellós

Grandi progetti (e interessi)

Molti degli attivisti del Volt3 avevano partecipato anche alle precedenti edizioni. Nella prima, con lo slogan «Anche sull’energia vogliamo decidere noi!», il gruppo aveva visitato, nella provincia di Terragona, la piattaforma terrestre del progetto di deposito di gas Castor, le centrali nucleari di Vandellós, le terre minacciate dall’immobiliare Bcn World, quelle che resistevano al fracking, le coste di Palamós a rischio per le prospezioni petrolifere marine. I progetti visitati dal Volt1 erano molto diversi tra loro, ma con alcuni comuni denominatori: l’assenza di consultazione della popolazione locale, gli insufficienti studi d’impatto ambientale e l’opacità dei grandi interessi economici e finanziari.

Il Volt2 aveva lanciato quindi «una sfida ai grandi progetti energetici» e riunito 90 partecipanti per visitare le grandi infrastrutture di interconnessione per il gas e l’elettricità tra la penisola iberica e il resto d’Europa: il gas-dotto Midcat, il deposito di gas di Balsareny, le torri dell’autostrada elettrica Mat di Graus (grandi investimenti per un progetto poi abbandonato a metà2) e Sabiñanigo in Aragona, paese già noto per il più grande caso di inquinamento chimico d’Europa3.

La Mat, il Midcat e molte altre infrastrutture simili vengono sponsorizzate con forza dall’Unione europea che ha messo a disposizione il fondo Connecting Europe Facility (Cef) e il Fondo europeo per gli investimenti strategici, meglio conosciuto come Plan Junker. Sono circa 248 i megaprogetti, spesso individuati senza un dibattito democratico nei paesi membri, in attesa di essere dichiarati Progetti di interesse comune (Pic), con cui Bruxelles spera di costruire «l’Unione dell’energia, integrando i mercati europei del settore e diversificando le fonti e le rotte». I Pic ufficialmente dovrebbero contribuire «a porre fine all’isolamento energetico che caratterizza alcuni stati membri e favoriranno la penetrazione delle rinnovabili nella rete, riducendo le emissioni di biossido di carbonio»4. Più sicurezza energetica, più servizi e più benessere: chi rifiuterebbe un’offerta così?

Tuttavia, da un esame più accurato, risulta che i progetti favoriranno più che altro la «sicurezza energetica» delle imprese che controllano il mercato degli idrocarburi. Le stesse in coda per completare il mercato unico europeo di gas ed elettricità attraverso infrastrutture di interconnessione tra i diversi paesi. Il piano lascia a desiderare per la mancanza di un processo democratico nelle decisioni e non spiega perché la Spagna debba aumentare il potenziale di produzione di energia e di trasporto di risorse quando quelle già esistenti sono sottoutilizzate e la produzione è superiore alla domanda e al bisogno. Rimane poi incredibile la mancanza di responsabilità e riparazione o compensazione delle imprese che spesso sono parte di grandi gruppi oligopolistici.

Dov’è finita la sovranità degli stati sul tema? È la garanzia democratica che ne dovrebbe guidare le scelte? A favore e a scapito di chi viene erosa la sovranità energetica, e come recuperarla?

Un’impunità che corre lungo la catena delle commodities

Quest’anno il Volt3, con lo slogan «Di fronte all’impunità corporativa, sovranità popolare!», si è interrogato su ciò che il prof. Juan Heandez Zubizarreta, docente dell’Università del País Vasco e promotore della campagna Dismantle Corporate Power5, ha chiamato l’«architettura dell’impunità» delle grandi corporazioni. Gli attivisti hanno visitato molti progetti, tra cui il polo industriale e petrolchimico della città di Terragona, enorme e costante produttore di rumore e fumi. Ciascuno indossava una mascherina foita dal collettivo di attivisti locali Cel Net (Cielo Pulito). In quel sito industriale imprese come Repsol o Dow Chemical trasformano il petrolio in derivati per gli usi più vari, da quello agricolo al bellico. Nell’aria, un forte odore di fumo e di bruciato che spesso impedisce alla gente residente nei dintorni di aprire le finestre di casa. Il collettivo locale Cel Net è impegnato nella costruzione di un «Tavolo per la qualità dell’aria», ne monitora la costituzione e denuncia i tentativi delle imprese di difendere la propria immagine a danno di verità e trasparenza.

Che cosa esattamente venga prodotto là dentro e da dove derivino le materie prime non è informazione facile da ottenere. Inoltre, la condotta di quelle stesse imprese in altri paesi non dice nulla di buono sui loro principi di trasparenza, giustizia e responsabilità. Sono casi noti, infatti, quelli di inquinamento massivo e di violenza sulle popolazioni locali nell’Amazzonia peruviana per l’estrazione di petrolio, o quello della exit strategy dall’India della Union Carbide (dal 2001 di proprietà della Dow Chemical) dopo aver provocato la più grande contaminazione della storia del paese nella città di Bhopal.

«Non avrei mai immaginato che queste imprese facessero danni anche nei paesi europei», ha affermato Aparicio, ricercatore dell’Università Indigena Autonoma del Cauca (Colombia), durante la visita, fissando la colonna di fumo: «Noi vediamo gli effetti dell’estrazione del petrolio, ma non immaginavamo cosa avviene durante la sua trasformazione e la produzione di derivati».

Un tribunale di giustizia della società civile organizzata

Il Volt3 ha voluto denunciare soprattutto il progetto Castor, la piattaforma di deposito di gas che ha drammaticamente socializzato le perdite mentre privatizzava i benefici a favore di oligarchie corporative. Di proprietà dell’impresa Escal Ugs, vede la partecipazione per il 66,7% dell’impresa costruttrice Acs, il cui presidente, Florentino Perez, è uno degli imprenditori più controversi del paese anche se il suo nome è più comunemente legato alla presidenza del Real Madrid. Al largo della costa di Alcanar, Acs ha costruito una piattaforma marina destinata a immagazzinare fino a 1,3 miliardi di metri cubi di gas, mentre nella terra ferma il suo terminale terrestre occupa una superfice di 28 ettari. La stessa impresa costruttrice in altri paesi è associata a dighe per la produzione di energia idroelettrica come la Renace in Guatemala, o la Inga in Congo RD, responsabili di violazioni del diritto ambientale e delle comunità locali. Ciò che doveva essere il progetto all’occhiello della Eu Project Bond Initiative per trovare sul mercato finanziario investitori di megaprogetti energetici, non ha fatto però i conti con il territorio e le sue condizioni geomorfologiche, nonché con le norme di legge. Il progetto di Acs ha creato più di mille terremoti che hanno recato danni materiali nei comuni di Vinarós e Alcanar e non ha rispettato le normative riguardanti il previo studio ambientale. Al manifestarsi della sua pericolosità, il governo ha sospeso l’attività nel settembre 2013 e la causa legale è tuttora in corso. Ciò che però è già deciso è chi paga il debito di 4,7 miliardi di euro venutosi a creare con lo stop al progetto: la clausola 14 del contratto prevede il diritto per l’impresa di reclamare indennizzi economici dal governo, cioè dai cittadini ignari di ciò che si celava fra le righe dell’accordo, che restituiranno il loro «debito» tramite una quota nella loro bolletta del gas per i prossimi 15 anni.

«L’impresa Escal Ugs e i suoi partner sono i veri debitori, ma ora è sparita dalla mappa degli attori coinvolti, e sembra che siamo noi i padroni di questo mostro: è diventato un impianto pubblico!», osserva sarcastico Joan Ferrando, portavoce della Plataforma en Defensa del Sénia, di fronte ai giornalisti presenti alla conferenza stampa convocata di fronte alla piattaforma terrestre6. Le entità promotrici del Volt3 seguono da anni ormai le vicissitudini del Castor e annunciano la nascita di un Tribunale Popolare per il giugno 20177. «Questo progetto è una vergogna, il simbolo dell’arroganza e dell’impunità delle imprese e dell’omertà del potere pubblico, nonché della politica europea chiaramente in difesa di interessi affaristici a discapito di un sistema energetico più ecologico e democratico», afferma il comitato promotore. Mònica Guiteras, rappresentante della Xse, afferma che «il giudizio è un’azione simbolica ma anche effettiva, perché non vogliamo che si zittisca questa resistenza».

Ricostruire il territorio

Il Volt si è riconfermato anche quest’anno come un importante momento conviviale per tessere relazioni, formarsi in una scuola itinerante, capire che lo spazio in cui abitiamo non è solo terra e aria e acqua, ma un territorio con la sua complessità ecologica, la sua memoria storica, i suoi abitanti, le persone e gli altri esseri viventi, meritano uguale ascolto. Uno spazio conviviale per ricostruire fiducia e narrative alternative, per difendere quei modi di vita e di gestire la «cosa pubblica» per il bene comune che vengono calpestati o negati; e per confermare legami di solidarietà internazionale, per arrivare laddove altri chiudono gli occhi.

Daniela Del Bene


Note:

1- La Xse (www.xse.cat) si è costituita nel 2012 su iniziativa di alcune Ong e comitati catalani allo scopo di ripensare collettivamente il modello energetico. Il Volt è uno dei suoi appuntamenti più importanti.

2- In Francia il progetto prevedeva linee sotterranee, mentre in Spagna erano previsti corridoi ampli fino a 400m sospesi su alte torri di 60 m. L’enorme impatto paesaggistico e ambientale si sarebbe sommato a quello sociale conseguente all’acquisizione forzosa di terre agricole e abitate. A Graus la popolazione si è organizzata nella Plataforma Unitaria contra la Autopista Electrica: autopistaelectricano.blogspot.com.es.

Ulteriori dettagli nell’Ejatlas: ejatlas.org

3- A Sabiñanigo, nella zona prepirenaica della comunità di Aragón, al confine con la Catalogna, dal 1975 si produceva il lindano, un insetticida usato in agricoltura per anni nonostante fosse altamente contaminante. I residui di produzione sono stati sistematicamente versati nel fiume Gallego dall’impresa responsabile, Inquinosa. Per la sua tossicità, la produzione è stata sospesa nel 1989, ma l’impresa l’ha continuata fino al 1994, dichiarando falsa attività. Successivamente il prodotto è stato bandito dall’Ue, ma l’impresa non ha mai ripulito il fiume e la terra. La fabbrica rimane in piedi, abbandonata, con barili di prodotto contaminante al suo interno. Se ne parla in ejatlas.org

4- Tratto dal comunicato stampa della Commissione europea, 18 novembre 2015.

5- La Global Campaign to Reclaim Peoples Sovereignty, Dismantle Corporate Power and Stop Impunity (Campagna Globale per reclamare la sovranità popolare, smantellare il potere corporativo e fermare l’impunità) nasce nel 2011. Nell’ottobre 2016 raggruppa piú di 200 organizzazioni da tutto il mondo, tra cui il Transnational institute, Friends of the earth inteational, La via campesina. La campagna lavora a piú livelli, dalla base dei movimenti sociali per studiare, analizzare, raccogliere prove, fino alla pressione in seno alle Nazioni unite con la finalità di ottenere un trattato internazionale vincolante contro le violazioni dei diritti umani da parte delle imprese multinazionali. Grazie a tale pressione, il Consiglio dei diritti umani dell’Onu ha accettato di lavorare su una proposta di trattato, nonostante le azioni di boicottaggio di molti paesi, tra cui diversi dell’Unione europea. Per maggiori informazioni: www.stopcorporateimpunity.org; e per approfondire alcuni casi: ejatlas.org

6- Il video della conferenza stampa si trova su Youtube: La Calamanda. Presentacio del Judici Popular contra el Projecte Castor.

7- Il Tribunale popolare per il progetto Castor si ispira alle molte iniziative di giurisprudenza popolare nate negli anni ’70 su iniziativa dell’avvocato e senatore italiano Lelio Basso. I Tribunali popolari si avvalgono di esperti di diritto, di diritti umani e del sapere radicato nei territori colpiti da ingiustizie con l’obiettivo che «la coscienza pubblica diventi fonte riconosciuta di diritto»: http://permanentpeoplestribunal.org/




Stati Uniti: nelle Americhe di Donald Trump


Da gennaio 2017 il 45.mo presidente degli Stati Uniti d’America è Donald Trump. È arrivato alla guida della maggiore potenza mondiale nonostante la sua fama di finanziere bancarottiere, evasore fiscale e molestatore. Cosa ha spinto gli statunitensi a questa scelta dirompente? Come cambierà la politica estera degli Usa? Come si comporterà la Chiesa cattolica statunitense (molto silente durante l’intera campagna elettorale)?

L’America ha parlato, e ha eletto Donald Trump presidente. A qualche settimana dal risultato del voto questo è ancora un paese sotto shock. Durante una campagna elettorale lunga quasi un anno e mezzo, che ha sfiancato la psiche e l’anima degli Stati Uniti, pochi pensavano che il finanziere bancarottiere, evasore fiscale e molestatore potesse raccogliere la maggioranza degli «electoral votes» (rappresentano i cosiddetti «grandi elettori» eletti su base statale, chi vince in uno stato – anche per un solo voto – prende tutto, ad esempio vincendo in Florida Trump ha preso tutti i 29 grandi elettori di quello stato, ndr) dell’arcaico sistema che ancora governa le elezioni presidenziali. Per la maggioranza degli americani che non hanno votato per lui è come non riuscire a svegliarsi da un incubo.

Il Partito repubblicano soggiogato e conquistato da Trump si trova ora a dover esercitare il potere nel governo federale che da anni ormai odia in modo quasi teologico, come incarnazione del male. Le elezioni dell’8 novembre 2016 non solo hanno portato Trump alla presidenza, ma hanno prodotto anche una solida maggioranza repubblicana alla Camera e al Senato, e in molti stati. La maggioranza della Corte Suprema federale sarà plasmata per decenni dalle nomine che farà l’amministrazione Trump. È un terremoto politico che ha sconvolto le aspettative: con un Partito repubblicano risorto dalle proprie ceneri, asservitosi al pirata che lo ha scalato e umiliato, e un Partito democratico senza una leadership e senza un messaggio se non quello perdente della «identity politics» (suddivisione della popolazione in base a elementi identificativi: nazionalità, genere, religione, lingua, ecc., ndr) in cui si sperava che la demografia di un paese sempre più multiculturale risolvesse il problema della mancanza di una visione.

Le spiegazioni

In un paese diviso lungo linee diverse che si sovrappongono – disparità sociali e di reddito, salti generazionali, identità culturali ed etniche-razziali, ubicazioni geografiche ed esistenziali, livelli di educazione scolastica – i messaggi lanciati e ricevuti con l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti sono vari. Ci sono due tentativi principali di spiegare quanto accaduto. La prima spiegazione è di tipo materialistico: Trump è stato eletto dai dimenticati e perdenti del sistema economico e finanziario, dagli snobbati del sistema informativo, dagli esclusi dal sistema educativo. La seconda spiegazione è di tipo identitario: Trump è stato eletto da quanti si sono ritrovati nel messaggio non solo anti-immigrazione e anti-musulmano (non sconosciuto all’Europa di oggi), ma nativista e razzista, chiaramente «white supremacist» e sottilmente antisemita, isolazionista e violento del candidato anti-establishment. Sono due spiegazioni che devono entrambe far parte del tentativo di spiegare quanto accaduto. Comprendere è un’altra questione, se con comprendere vogliamo intendere di mettersi nei panni di coloro che, l’8 novembre 2016, hanno accettato e normalizzato l’immaginario trumpiano, molto vicino a quello nativista (l’idea di un’America in cui sia ancora politicamente, socialmente e culturalmente dominante la parte della popolazione composta da bianchi e protestanti) e schiavista di metà Ottocento. Non tutti, né molti degli elettori di Trump sono razzisti, ma non tutti lo hanno votato per esprimere un disagio economico. È impossibile spiegare l’America solo con i meccanismi di classe, senza ricorrere alla storia dei rapporti tra razze e religioni, e senza una presa di coscienza di come le identità si intersecano e sovrappongono.

Il neo presidente Donal Trump visita il presidente uscente Obama alla Casa Bianca il 10/11/2016 / AFP PHOTO / JIM WATSON

Contro Obama

Il risultato dell’elezione non può essere spiegato senza ricordare che la campagna per la presidenza Trump l’ha, in un certo senso, iniziata anni fa, poco dopo l’elezione di Barack Obama nel 2008, accusando il nuovo presidente di non essere cittadino americano («Voglio che mostri il suo certificato di nascita», disse più volte) e quindi di essere stato eletto illegittimamente. Il mandato del primo presidente afroamericano ha incontrato da parte del Partito repubblicano una resistenza tesa non soltanto a ostacolae l’agenda, ma a delegittimae la funzione. Dal 2008 in poi negli stati governati dai repubblicani ci sono stati sistematici tentativi (in molti casi coronati da successo) di impedire il voto degli americani non bianchi, e degli afroamericani in particolare: in aiuto a questo tentativo di revocare le conquiste del civil rights movement, la Corte Suprema federale (guidata da un chief justice cattolico, John Roberts) ha cassato una parte della legislazione degli anni Sessanta promulgata per difendere il diritto di voto delle minoranze in quegli stati con una storia di tentativi di privare una parte della popolazione della possibilità concreta di esercitare il diritto di voto.

Contro Obama non vi è stata solo la resistenza politica da parte del Partito repubblicano. Anche la Chiesa cattolica, i sindacati di polizia, il sistema giudiziario hanno agito per delegittimare la sua presidenza e non hanno fatto molto per mascherare la loro convinzione di avere a che fare con la presidenza di un alieno rispetto al sistema.

L’elezione di Donald Trump è anche la reazione di un paese spaventato, specialmente nella sua componente bianca, da un futuro più multietnico e multiculturale. I silenzi della gran parte dei vescovi della Chiesa cattolica (che è la chiesa più grande del paese) durante i passaggi più foschi della campagna elettorale di Trump non verranno giudicati in modo benevolo dagli storici. È uno dei frutti di una politica cattolica tutta giocata sulla questione dell’aborto, peraltro in modo ideologico: è noto che le politiche dei repubblicani, tese a tagliare lo stato sociale indiscriminatamente (fino quasi ad azzerarlo), conducono di norma a un numero maggiore di aborti.

Un razzismo sistemico

Ad alcuni italiani l’elezione di Trump ha riportato alla memoria la sorpresa, ovvero lo sconcerto, per la prima vittoria elettorale di Silvio Berlusconi nel 1994. Nonostante gli evidenti paralleli tra la carriera e lo stile dei due personaggi, ci sono alcune fondamentali differenze, a parte quella ovvia di importanza sulla scena globale tra due paesi come l’Italia e gli Stati Uniti. La prima differenza è di ordine storico globale. Nel 1994 Berlusconi arrivava sulla scena come l’eccezione all’interno dello scenario europeo e occidentale del primo dopo guerra fredda; Trump è invece il punto più estremo di una serie di rivolgimenti all’interno delle democrazie occidentali (soprattutto il voto per «Brexit» di qualche mese fa, ma anche la decennale crisi dell’Unione Europea; le pulsioni autoritarie in Polonia e Ungheria) e nello scenario euro-asiatico (la fine della democrazia in Turchia e in Russia) che fanno temere per la pace e la stabilità, e soprattutto per la capacità della democrazia in Occidente di resistere ai populismi. La seconda differenza ha a che fare con la storia della democrazia e dei diritti negli Stati Uniti d’America. Nell’Italia di Berlusconi non c’era, come c’è negli Stati Uniti, una parte importante della popolazione con una memoria diretta e personale del razzismo legalmente sancito contro molti milioni di cittadini: la segregazione razziale, specialmente nel Sud degli Stati Uniti, fino alla metà degli anni Sessanta (per non parlare della memoria dei campi di inteamento per i giapponesi americani durante la Seconda guerra mondiale) non è storia dimenticata, e soprattutto non è qualcosa che appartenga solo al passato. Gli Stati Uniti sono ancora pervasi da un razzismo sistemico – nella politica, nell’economia, nella giustizia, nelle scuole – che, per continuare a produrre ineguaglianze radicali, non ha bisogno di persuasioni convintamente razziste dei singoli.

Queste due differenze spiegano la paura con cui molti americani hanno accolto l’elezione di Trump: una paura per il futuro del paese, specialmente dei propri figli, con un ruolo particolare per la questione ambientale visto il rifiuto sia di Trump che dei repubblicani di prendere seriamente le sfide della sostenibilità. Ma c’è anche una paura fisica, per la propria incolumità personale specialmente negli americani non bianchi (afroamericani, latinos, asiatici) e nelle minoranze sessuali. Di fronte al nativismo i documenti in regola rappresentano in molti casi una protezione tardiva. Dopo le elezioni si sono moltiplicate le notizie di incidenti a sfondo razziale nei campus universitari e contro chiese afroamericane. L’America non sembra essere accogliente come prima verso studenti e lavoratori stranieri. Potrebbe esserci un effetto Brexit anche su certi settori dell’economia americana, come l’educazione superiore.

L’anima religiosa (e le assenze della Chiesa)

Il Cardinal Daniel DiNardo. ( Brett Coomer / Houston Chronicle )

L’anima religiosa del paese non esce indenne da questa stagione politica che peraltro sembra essere appena iniziata. La prima domenica dopo le elezioni ha visto gli americani andare in chiesa con uno spirito molto diverso dal solito e diverso tra le varie chiese: alcune chiese hanno celebrato (tra cui quelle evangelicali bianche), altre hanno invocato coraggio e perseveranza nella prova (quelle afroamericane). La Chiesa cattolica ha faticato a nascondere l’imbarazzo che deriva dall’essere una chiesa più divisa di altre e più sprovveduta di altre a cogliere i segni dei tempi: è una chiesa che soffre di una divisione tra quelle realtà che operano sul terreno e la dirigenza, nonostante le buone nomine episcopali e cardinalizie di papa Francesco.

La Conferenza episcopale è stata una voce del tutto assente nell’assistere i cattolici a disceere l’importanza dell’elezione, e la sua neghittosità è stata confermata dall’assemblea dei vescovi tenutasi la settimana dopo le elezioni presidenziali. Il 15 novembre 2016 i vescovi hanno infatti eletto le nuove cariche tra cui il nuovo presidente (il cardinale Daniel DiNardo, uno dei tredici firmatari della lettera contro papa Francesco durante il Sinodo del 2015), il nuovo vicepresidente e quindi futuro presidente (l’arcivescovo di Los Angeles José Horacio Gómez, chierico vicino all’Opus Dei, nato in Messico e difensore degli immigrati) e altre cariche (tra cui il presidente della Commissione giustizia e pace, il vescovo Timothy Broglio, ordinario militare e non esattamente interprete della forte cultura «justice and peace» della chiesa americana di base). I vescovi americani stanno tentando di impostare il rapporto con Trump sulla base delle policies del suo governo, evitando di confrontarsi con la campagna di odio e di razzismo interpretata e scatenata dal suo movimento. Il timore è che l’episcopato americano non sia intellettualmente e moralmente in grado, tranne alcune eccezioni, di fare fronte all’emergenza morale e culturale della presidenza Trump (e del vicepresidente Mike Pence, un ex cattolico ora evangelicale che potrebbe essere il vero ideologo dell’amministrazione).

La politica estera

L’elezione di Trump apre una pagina tutta da scrivere per la politica estera americana. Ci sono in gioco questioni geopolitiche complesse e tragiche – Siria, Turchia, e il Medio Oriente; il ruolo della Russia; la nuclearizzazione dell’Asia orientale, Giappone e Cina; l’America Latina «cortile di casa» degli Usa; l’Unione Europea e Brexit – su cui la politica estera americana ha inanellato negli ultimi quindici anni una serie impressionante di sconfitte. I proclami di Trump per un nuovo isolazionismo dovranno fare i conti con il prezzo che il nazionalismo americano deve pagare per una supremazia globale che non è più incontrastata. Il rapporto con la Russia di Putin e il suo impatto sul risultato delle elezioni americane è una delle questioni che restano da indagare.

La politica vaticana, così come chiunque abbia a cuore la pace, la giustizia e la cooperazione, hanno molto da temere da un’amministrazione Trump. C’è da attendersi più vigilanza dal Vaticano di papa Francesco e del cardinal segretario di Stato Parolin che dall’episcopato negli Usa, tranne alcuni vescovi. Il cattolicesimo americano interessato alla politica si divide tra neo-conservatori (che cercheranno di trovare un accordo di desistenza con Trump sulle questioni bioetiche e biopolitiche) e cattolici radicali postmodeisti (per i quali la politica è terreno da evitare, se non da etichettare come devozione all’idolatria nazionalista americana). In mezzo tra questi due estremi il common ground cattolico americano è ridotto ai minimi termini sociologicamente e intellettualmente. Una delle questioni che l’elezione di Trump solleva per la chiesa americana è come possa risolvere le tensioni sempre più evidenti tra la sua cattolicità e il suo americanismo.

Massimo Faggioli

È docente ordinario nel dipartimento di teologia e scienze religiose della Villanova University (Philadelphia). Ha lavorato come ricercatore presso la «Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII» di Bologna dal 1996 al 2008 e ha conseguito il dottorato in Storia religiosa all’Università di Torino nel 2002. Collabora con varie riviste italiane e non, tra cui Il Regno, Jesus, Commonweal, e La Croix Inteational. Le sue pubblicazioni scientifiche si occupano di Vaticano II, di ecclesiologia, e di nuovi movimenti cattolici. Questo articolo è il suo esordio su Missioni Consolata.

  • www1.villanova.edu
    Il sito della Villanova University, istituto fondato nel 1842 dagli Agostiniani.

 


Approfondimento

Gli Usa di Trump e Cuba senza Fidel,
«El bloqueo» al tempo di Donald 

Con papa Francesco e Barack Obama l’Avana e Washington si stavano avviando – pian piano – a una normalizzazione delle relazioni. Dopo gli ultimi avvenimenti, tutto torna in forse.

Avevamo visto Fidel Castro, con il volto smunto ed emaciato e una voce fioca ed impastata, nell’intervista concessa a Gianni Minà – ultimo giornalista a incontrarlo – per il suo recentissimo documentario, «Papa Francesco, Cuba e Fidel». Il vecchio leader aveva parlato di Cuba, degli Stati Uniti e della chiesa cattolica, soprattutto del suo incontro privato con papa Francesco.

Il 25 novembre, subito dopo la morte di Fidel, da tempo malato e ritirato dalla politica attiva, sono iniziate le manifestazioni di giubilo dei cosiddetti esuli cubani di Miami, da sempre spina dorsale del partito repubblicano statunitense e dei suoi candidati in Florida (nonché ideatori ed esecutori di quasi tutte le attività illegali – terrorismo compreso – contro l’isola). Il Miami Herald, quotidiano ferocemente anticastrista, titolava: «La morte di Castro porta speranza, sollievo a Miami». È stato triste, perché giornire della morte altrui è sempre un atto di viltà.

Il neopresidente Donald Trump ha postato i suoi tweet – nuova ed «esaltante» frontiera della comunicazione modea – prima per dire che Castro era stato «un brutale dittatore che aveva oppresso il suo popolo per quasi sessant’anni», poi per affermare che adesso Cuba dovrà concedere di più altrimenti lui porrà fine agli accordi («I will terminate deal») siglati da Barack Obama.

Da miliardario (peraltro, molto controverso anche in questa sua veste) forse Trump pensa di riuscire – finalmente – a comprare quella dignità, morale e materiale, fino ad oggi salvaguardata dalla gente cubana con coraggio, fatica e rinunce, nonostante 55 anni di inflessibile embargo (el bloqueo) statunitense.

Qualsiasi cosa si pensi di Fidel – eroe o dittatore sono le due definizioni che vanno per la maggiore – la dignità della Cuba castrista rimarrà una testimonianza che nessuno (sia politico, editorialista, professore o blogger) riuscirà mai a cancellare.

Paolo Moiola