Perù. La verità difficile


Dal 1980 al 2000 il conflitto interno peruviano ha fatto quasi 70mila vittime tra morti e desaparecidos, soprattutto tra poveri e indigeni delle zone rurali presi tra i due fuochi di Sendero Luminoso e delle forze statali. La Commissione per la Verità e la Riconciliazione istituita nel 2001 ha affrontato il problema della memoria e della giustizia. Ma molto rimane ancora da fare.

Domenica, 10 del mattino. Ho appuntamento con i miei studenti dell’Università cattolica per visitare il «Lugar de la Memoria». Il grande edificio non è visibile dalla strada e si raggiunge con difficoltà scendendo scale piuttosto scomode. Quando arrivo trovo il posto pieno di visitatori, quasi tutti studenti, ma anche famiglie, suore e turisti stranieri.

Mentre spiego ai giovani la strage di Putis1 del 1984, l’assassinio di otto giornalisti a Uchuraccay2 del 1983 e il lavoro svolto dalle organizzazioni per i diritti umani, penso che senza il lavoro della Commissione Verità tutto ciò che stiamo visitando non esisterebbe.

Il contesto peruviano

Ci sono molte differenze fra la realtà peruviana e quelle di altri paesi dell’America Latina come il Cile, l’Argentina, il Brasile o l’Uruguay in cui furono istituite Commissioni per la verità.

Un primo fattore particolare è la proporzione della violenza: quanto accadde in Perù tra il 1980 e il 1993 non può essere ridotto alla categoria di incidenti di terrorismo o guerriglia urbana e repressione. In molte zone si raggiunse il livello di una guerra, con attacchi alle caserme, battaglie, stragi. Sendero Luminoso riuscì a operare su un territorio grande quasi come l’Italia (il Perù ha una superficie di circa quattro volte il nostro paese, ndr).

È vero che molti peruviani preferiscono parlare di terrorismo e di eccessi delle forze di sicurezza, ma questo succede perché è difficile accettare che sia stata una vera e propria guerra.

Una seconda particolarità del conflitto peruviano riguarda i due gruppi insorgenti, Sendero Luminoso e il Movimiento Rivoluzionario Túpac Amaru (Mrta), i quali furono molto violenti contro la popolazione civile, specialmente i contadini più poveri. I senderistas ammazzavano villaggi interi, compresi i bambini. Disprezzavano le comunità più fedeli alle proprie tradizioni come se fossero state composte da primitivi. Per questo motivo anche tra gli indigeni asháninka dell’Amazzonia soffrirono in tantissimi. Il Mrta assassinava omosessuali e tossicodipendenti in diverse città dell’Amazzonia.

Un terzo elemento specifico del caso peruviano è il fatto che, sul versante delle istituzioni, il maggior responsabile delle desapariciones, degli stupri di massa, delle esecuzioni extragiudiziali e delle torture non fu una dittatura militare ma un governo democratico, quello di Fernando Belaúnde (1980-1985). Belaúnde lasciò ai militari la responsabilità di lottare contro i sovversivi e, quando essi compirono le atrocità poi documentate dalla Commissione Verità, ne diventò complice proteggendoli tramite leggi ad hoc.

Infine, un’altra differenza sta nel fatto che negli altri paesi del Sud America molte delle vittime dei militari furono persone residenti in città, normalmente gente di sinistra appartenente alla classe media, in Perù, invece, le principali vittime furono indigeni poveri che abitavano in campagna e non parlavano spagnolo. I senderisti li uccidevano per rappresaglia e i militari seguivano la politica della tierra arrasada, «terra bruciata» (la repressione indiscriminata contro la popolazione sospetta di appartenere o fiancheggiare la guerriglia, ndr), uccidendo contadini innocenti.

I crimini commessi contro le comunità indigene avvennero in un contesto di forte odio razziale: i militari erano convinti dell’inferiorità degli indigeni ed erano sicuri di rimanere impuniti. Un razzismo, comunque, presente non solo tra i militari, ma diffuso tra la popolazione ancora oggi: un’eredità coloniale che continua a essere forte e viva due secoli dopo l’indipendenza (in un paese nel quale si stima che la popolazione indigena raggiunga il 45% dei quasi 31 milioni di abitanti; un altro 31% sarebbe composto da meticci, ndr). Molti peruviani di ascendenza europea, ad esempio, considerano gli indigeni i responsabili dell’arretratezza del paese. L’indifferenza è l’attitudine più comune nei confronti dei loro problemi: la povertà, lo sfruttamento e l’inquinamento dei loro territori.

Sconfitta e memoria

La violenza del governo di Belaúnde contro i contadini contribuì a fare crescere Sendero Luminoso. Il successore di Belaúnde, Alan García (presidente del Perù dal 1985 al 1990, e poi nuovamente dal 2006 al 2011, ndr) fermò la politica della «terra bruciata», ma le sparizioni e le violenze continuarono. Le stragi nei villaggi di Accomarca3 e Cayara4, o nelle carceri di Lima5, in cui ci furono più di duecento morti tra i detenuti, avvennero durante il suo governo. I seguenti governi di Alberto Fujimori (dal 1990 al 2000) furono caratterizzati da uno stile autoritario di cui è un esempio l’auto-golpe del 1992 tramite il quale il presidente fece sciogliere il parlamento e proclamò la legge marziale. Poco dopo, quando il leader di Sendero Luminoso, Abimael Guzmán, fu arrestato e imprigionato Fujimori, fu considerato il grande pacificatore. Il movimento terrorista andò in crisi e il governo riuscì a sbaragliarlo. Oggi resiste in alcuni luoghi isolati ed è molto vicino ai narcotrafficanti.

La sconfitta di Sendero Luminoso permise ai peruviani di recuperare la fiducia nella possibilità di continuare a vivere nel loro paese e di progettare il loro futuro: farsi una famiglia, studiare, costruire una casa. La gente cercò di dimenticare gli anni della violenza.

Il Perù incominciò a ricevere grandi investimenti. Aprirono nuovi negozi, grandi shopping center, ditte straniere. Si potrebbe dire che il lusso e il consumismo accecarono chi voleva essere abbagliato per dimenticare la violenza e le sue cause. I più poveri non potevano permettersi di acquistare nuove macchine o vestiti ma ricevevano dal governo fujimorista cibo e altre donazioni. E loro, cioè la parte di popolazione che maggiormente aveva sofferto nel conflitto, ringraziavano Fujimori per la pace.

Convocando la Commissione nel mezzo di una crisi

Otto anni dopo la cattura di Guzmán, nel 2000, pochi ricordavano il tempo della violenza e Fujimori, al suo terzo, contestato, mandato, era stato travolto da molti scandali di corruzione che lo avevano costretto a scappare in Giappone. Quando nel governo provvisorio di Valentín Paniagua si volle fare un’inchiesta sulla corruzione al tempo di Fujimori, gli organismi per i diritti umani ne approfittarono per proporre l’istituzione di una commissione sulle violazioni dei diritti umani.

Non solo convinsero Paniagua, ma riuscirono a fare in modo che l’inchiesta riguardasse un lasso di tempo che andava indietro fino al governo di Belaúnde durante il quale Paniagua era stato presidente della Camera di Deputati.

Ufficialmente Paniagua e poi il suo successore Alejandro Toledo*, volevano una commissione il più possibile plurale, e scelsero i commissari per il loro valore morale: un vescovo, un pastore evangelico, un militare, una imprenditrice. Fra i dodici membri c’erano anche Sofía Macher che era stata Segretaria esecutiva della Coordinadora Nacional de Derechos Humanos, il sacerdote Gastón Garatea*, il sociologo Rolando Ames che nel primo governo di García aveva partecipato come senatore di sinistra all’inchiesta sul massacro delle carceri, e Carlos Iván Degregori, antropologo che aveva lavorato ad Ayacucho ed era uno dei più grandi ricercatori su Sendero Luminoso. Come osservatore per la Chiesa Cattolica c’era il vescovo Luis Bambarén*. Questi cinque personaggi avevano lavorato molto per i diritti umani al tempo del conflitto, denunziando i crimini dei senderisti e dei militari.

Mi causò una certa sorpresa il fatto che, all’interno di questa pluralità, non si fosse nominato nessun rappresentante delle vittime. E la situazione più curiosa fu che, pur essendo il razzismo il fattore che causò strage tra molti innocenti, non si pensò di includere persone dai tratti indigeni fra i commissari: quasi tutti erano uomini bianchi che abitavano a Lima, nessuno parlava quechua, la lingua indigena predominante in Perù. La stessa Commissione avrebbe poi scoperto che il 75% delle vittime della violenza parlava quechua. In una società con tante divisioni etniche e sociali non fu la partenza migliore.

Un altro punto problematico fu il fatto che la Commissione, inizialmente, non capì che il suo lavoro non era nato da una domanda della società: per i crimini commessi da Sendero Luminoso e Mrta, i responsabili erano già in prigione e la gente non sentiva il bisogno di fare nuove ricerche. Nel caso dei crimini delle forze di sicurezza statali, era molto diffusa l’idea che fossero stati il prezzo da pagare per la pace.

Anche i contadini sentivano molto lontana la Commissione. Quando essa organizzò udienze pubbliche – ad esempio ad Ayacucho, uno dei posti in cui più aveva sofferto la popolazione indigena – nelle quali le vittime raccontavano le violenze subite, la gente pensò che i commissari volessero ascoltare i testimoni per semplice sadismo, perché ai bianchi piaceva vedere soffrire gli indigeni.

In più, alcune decisioni importanti della Commissione erano state prese senza valutarne le conseguenze sociali.

Informe final e conseguenze politiche

Nonostante i problemi menzionati, dopo mesi di lavoro intenso in tutto il Perù, sistemando e ordinando centinaia di testimonianze, la Cvr produsse un documento molto corposo e completo: l’«Informe Final», in nove volumi, un lavoro di ricerca che approfondiva molti aspetti della violenza e del suo contesto.

La difficoltà maggiore per la Commissione durante il suo lavoro non era stata tanto quella di scoprire i crimini del tempo de Belaúnde, quanto piuttosto quella di mostrare come la gente avesse accettato la situazione. Più difficile che mostrare l’orrore commesso da terroristi e militari, era stato mostrare la sua accettazione nell’opinione pubblica.

L’Informe Final ricevette quasi unanime rifiuto da parte della classe politica: i partiti di Belaúnde, García e Fujimori e i loro alleati non volevano nessuna responsabilità: dicevano che nel lavoro della commissione aveva pesato un preconcetto antimilitarista. Soltanto la sinistra riconobbe il valore del documento.

Anche il capo della Chiesa peruviana del tempo, il cardinale Cipriani*, fu contro l’Informe, specialmente perché si era sentito chiamato in causa nei passaggi in cui esso parlava di un ruolo negativo della Chiesa nella zona del conflitto. Va notato che nel periodo più cruento, Cipriani non era ancora vescovo ad Ayacucho.

Data la resistenza nell’accoglienza del documento, alcuni settori numericamente piccoli della società civile (i cattolici legati alla teologia della liberazione e le Ong che si occupavano dei diritti umani) lavorarono per promuoverne la diffusione e la conoscenza. Al loro impegno si devono i risultati positivi di questi anni.

Giustizia. L’Informe final continua a essere uno strumento per tutti quelli che cercano giustizia. Le Ong per i diritti umani hanno avviato processi giudiziari per molti casi. Il più conosciuto è quello contro Fujimori, il quale, arrestato in Cile dopo gli anni di autoesilio in Giappone, ed estradato in Perù, è stato condannato al carcere per violazioni dei diritti umani, soprattutto per le vicende legate al Gruppo Colina6 che rapì e ammazzò gli studenti dell’università La Cantuta7 e fece stragi come quella di Barrios Altos8. Altra condanna importante è stata quella relativa alla strage di Accomarca9 accaduta nel 1985.

Purtroppo i processi sono molto lenti e diverse vittime muoiono senza ottenere giustizia. Migliaia di desaparecidos non sono ancora stati rintracciati e le famiglie probabilmente moriranno senza sapere dove si trovano.

Riparazioni. Molte vittime hanno ricevuto riparazioni individuali e collettive sotto forma di opere di sviluppo delle comunità più povere. C’è un Registro Central de Víctimas che ha funzionato con molta attenzione per consegnare la riparazione a chi veramente aveva sofferto nel conflitto.

Memoria. In questo ambito le difficoltà continuano a essere grandi. I militari e i fujimoristi sono stati molto abili nel manipolare il ricordo di quegli anni allo scopo di minare la credibilità della Commissione presentando ogni denuncia a carico loro come un attentato dei terroristi e dei loro alleati. Il presidente Belaúnde, ad esempio, continua a essere ricordato come un uomo gentile e innocuo: in pochi sanno che durante quegli anni migliaia di contadini furono assassinati.

Per coltivare la memoria, in un primo momento si è formato il gruppo «Para que no se repita», il quale però non legava la violenza dei decenni passati a problemi permanenti del paese come il razzismo, o ai crimini contro i diritti umani più recenti, come quelli contro molti contadini uccisi negli ultimi anni.

Nel 2005 è stato aperto il memoriale «El ojo que llora» (l’occhio che piange), opera di una scultrice olandese, Lika Mutal, fatta secondo la logica di uno spazio buddista di meditazione. Sarebbe stato meglio in Perù un memoriale più vicino alla tradizione cristiana, alla quale apparteneva la maggioranza delle vittime, o laica. Comunque, l’assenza di altri spazi ha motivato i famigliari delle vittime a andare lì.

Alla fine del 2015 è stato aperto il Lum «Lugar de la Memoria, la Tolerancia y la Inclusión Social», grazie al finanziamento del governo tedesco. Si trova in un quartiere benestante ed è difficile da raggiungere, come «El ojo que llora», ma è sempre pieno di gente. Sembra che molti abbiano capito che questo spazio è fondamentale per ricordare ciò che ha vissuto il Perù nel conflitto.

Ultimamente, pare che alcuni cambiamenti possano avvenire con il nuovo governo di Pedro Pablo Kuczynski. La ministra della Giustizia Marisol Pérez Tello pare intenzionata a fare in modo che lo stato accetti le sue responsabilità: è andata al «Ojo que llora» a chiedere perdono alle vittime della violenza. In più il governo sta per iniziare un programma per cercare i desaparecidos.

La via peruviana ha le sue caratteristiche e difficoltà, ma lo sforzo della Commissione e della gente impegnata nella costruzione di una società più giusta può lentamente ottenere risultati.

Wilfredo Ardito Vega

L’autore

Avvocato, insegnante universitario e scrittore. Ha conseguito il master in Diritto Internazionale dei diritti umani all’Università di Essex, in Inghilterra, il dottorato in Legge alla Pontificia Università Cattolica del Perù (Pucp). È docente alla Facoltà di Legge della Pucp, all’Università del Pacifico e all’Università Nazionale San Marco. Eletto a difensore universitario della Pucp. Ha pubblicato diversi volumi sui diritti umani, la discriminazione e i popoli indigeni, e tre romanzi di cui il primo tradotto in italiano nel 2011 per Emi con il titolo Cercando Almuneda.

Archivio MC

Sul Perù MC ha pubblicato numerosi articoli, ne segnaliamo solo alcuni:

Sul web

http://www.cverdad.org.pe/ifinal/index.php

Note

1- Nel dicembre del 1984, 123 persone, tra cui 19 bambini e ragazzi, furono assassinate dai militari della base di Putis, provincia di Huanta, Ayacucho, zona con forte presenza di Sendero Luminoso. I militari, dopo aver violentato alcune donne, uccisero i contadini buttandone i corpi nelle fosse che le vittime stesse avevano scavato (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 14).

2- Nella località quechua di Uchuraccay, Ayacucho, il 26 gennaio 1983 furono assassinati otto giornalisti, la loro guida e un membro della comunità per mano dei membri della comunità di Uchuraccay stessa costituiti in un gruppo di autodifesa contro i Sendero Luminoso. Essi credevano che i giornalisti fossero parte della guerriglia. Uchuraccay si spopolò completamente nel giro di pochi mesi in seguito alle 135 morti provocate da Sendero Luminoso e dalla repressione dell’esercito (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo V, cap 2, 14).

3 e 9- Il 14 agosto 1985 una pattuglia dell’esercito uccise 62 persone, tra cui donne, anziani e bambini, di Accomarca, provincia di Vilcashuamán, Ayacucho (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 15).

4- In seguito a un attacco di Sendero Luminoso contro l’esercito il 13 maggio 1988, ci fu una violenta risposta delle forze armate che nei giorni seguenti, nelle comunità di Cayara, Erusco e Mayopampa, dipartimento di Ayacucho, provocò la morte o la sparizione di 39 persone accusate di far parte della guerriglia (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 27).

5- Il 19 giugno 1986 più di 200 detenuti nel carcere di San Pedro (Lurigancho) e nell’ex carcere di San Juan Bautista sull’isola El Fronton, accusati di terrorismo o già condannati, furono assassinati da agenti dello stato nel contesto di alcuni disordini scoppiati nei penitenziari (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 67).

6- Il Grupo Colina era lo squadrone della morte, costola dei servizi segreti, che operò durante il periodo di governo di Fujimori, catturando, arrestando e assassinando chi fosse sospettato di sovversione (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo III, cap 2, 3).

7- Per Sendero Luminoso, l’università La Cantuta fu la principale fonte di reclutamento e base per la trasmissione della sua ideologia. Nel luglio del 1992 furono sequestrati e uccisi 9 suoi studenti e il professore Hugo Muñoz (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 22).

8- Il 3 novembre 1991 il Grupo Colina assassinò 15 persone (compreso un bimbo di 8 anni) nella zona centrale di Lima, Barrios Altos (ndr., cfr. Cvr, Informe Final, Tomo VII, cap 2, 47).

[*] I personaggi segnati con l’asterisco sono stati tutti, in diversi momenti, intervistati da MC.

 




Haiti: «La cultura ci salverà»


Haitiano di origine italiana. Noto per il suo impegno sociale e politico. Da subito si è schierato contro la dittatura di Duvalier e per il rispetto dei diritti umani. Con i suoi lavori ha denunciato soprusi e violazioni. Al suo attivo ha oltre 50 film, tra documentari e fiction. Ci regala la sua visione del rapporto cultura-popolazione nel paese caraibico.

Port-au-Prince. Arnold Antonin, al secolo Celesti Corbanese, è il più famoso cineasta e produttore haitiano, soprattutto per quanto riguarda i documentari. Si contende il primo posto solo con Raoul Peck, altro grande regista, che ha realizzato in prevalenza fiction e il cui recente «I am not your negro» è stato candidato agli Oscar quest’anno come miglior documentario.

Classe 1942, Antonin è di origine italiana ed è molto conosciuto per il suo impegno sociale, politico e culturale. In esilio in Venezuela dal 1973, durante gli anni del duvalierismo (1957-1986) è in prima linea in quel settore della società civile haitiana, costituito dagli intellettuali, che ha lottato contro la dittatura in patria e all’estero. La cacciata di Jean-Claude Duvalier, il 7 febbraio 1986, vede nei mesi successivi il ritorno in patria della maggior parte di loro.

Così è anche per Arnold Antonin, che ha fondato in Venezuela il Centro Pétion-Bolívar, dai nomi di Alexandre Pétion, uno dei padri della nazione haitiana, e Simón Bolívar, il maggiore rivoluzionario e promotore dell’indipendenza dei paesi latinoamericani. Già nel dicembre dell’86 Antonin torna nella sua città natale, Port-au-Prince, e vi trasferisce il Centro culturale. «Si tratta di un centro polivalente di pubblica utilità», ci spiega. Antonin, sempre sorridente e ironico, ci riceve nella nuova sede del Centro. Ci conduce in una sala alle cui pareti sono appesi decine dei suoi premi e riconoscimenti. Oltre che locandine dei film. I più importanti sono il premio Djibril Diop Mambety, ricevuto a Cannes nel 2002 per il documentario Courage de femmes e il premio Paul Robeson, vinto in tre edizioni del Fespaco (Festival del cinema panafricano a Ouagadougou), 2007, 2009 e 2011. Il suo primo film, Duvalier accusé, risale al 1974, mentre tra le sue opere più note ci sono Les amours d’un zombie, e Le président a-t-il le sida?. Antonin, inoltre, insegna alla Facoltà di Scienze umane dell’Università e alla Scuola nazionale d’arte.

«Il Centro si è occupato molto di diritti umani negli anni ‘86-‘87, poi di formazione, anche sindacale, di organizzazioni di giovani e di donne. Il Centro ha fatto formazione politica ai parlamentari, ai sindaci alle autorità locali». Antonin continua a raccontarci del Centro e si percepisce quanto vi si identifichi: «Ci siamo interessati alla produzione audiovisiva in genere, e di materiale educativo, ma da qualche tempo il Pétion-Bolívar è soprattutto un centro di produzione dei miei film».

Il Centro diffonde la cultura e crea dibattito. Ogni mese viene organizzato il forum del giovedì, ovvero un incontro su un tema di interesse nazionale. «È un’attività che facciamo da 28 anni. L’anno scorso gli incontri si sono concentrati su soggetti politici, tranne l’ultimo che è stato sui cambiamenti climatici, e qui abbiamo presentato i risultati della Conferenza sul clima di Parigi».

Il Centro era anche sede dell’Associazione haitiana dei cineasti che, fino a pochi anni fa, realizzava formazioni periodiche e regolari nel campo della cinematografia. «Attualmente abbiamo un cinelcub, frequentato da giovani tra i 20 e i 25 anni, che hanno accesso a film che altrimenti non avrebbero la possibilità di vedere».

L’occasione mancata

Dopo il terribile terremoto del 12 gennaio 2010, Antonin realizza un documentario di 20 minuti, crudo e di denuncia: Chronique d’une catastrophe annoncée ou Haïti: apocalypse now.

«Il terremoto è stato catastrofico con proporzioni inimmaginabili, a causa dello stato di precarietà nel quale viveva la popolazione. Ci sono stati terremoti della stessa intensità che hanno causato centinaia di morti, mentre ad Haiti sono stati centinaia di migliaia», riprende Antonin. «Noi speravamo che il sisma avrebbe segnato una svolta nella storia del paese, cioè che a partire da quell’evento avremmo potuto ricostruire Haiti su nuove basi. Innanzitutto ambientali, economiche, sociali e anche politiche. Io dicevo che grazie al terremoto avremmo potuto fare di Port-au-Prince la “città faro” dei Caraibi. Tutti i grandi architetti del mondo erano disposti a fare dei progetti gratuitamente per Haiti. Anche Renzo Piano lo avrebbe fatto. Ma chi era al potere non ha voluto, perché la catastrofe è stata anche un gigantesco mercato. Il sisma, come anche il caos politico e la povertà di massa, è stato un’occasione per diverse persone di guadagnare molti soldi. Per altri di farsi una specie di credito politico. Così non è stata fatta la ricostruzione. La sola cosa che il potere di Michel Martelly (presidente dal 2011 al 2016, ndr) è riuscito a fare è ripulire gli spazi pubblici e i parchi di Port-au-Prince dai terremotati. Ma hanno creato nuove bidonville all’uscita della città, che sono peggiori di quelle precedenti».

Poco è stato fatto, denuncia il regista, qualcosa nel centro amministrativo e poi l’aeroporto che oggi è moderno. «Quello che chiedevamo noi era un nuovo piano di gestione del territorio, in modo che si potesse sapere, in un piccolo paese come il nostro con 10 milioni di abitanti, come fare una suddivisione in zone di diverse tipologie: abitazioni, industrie, agricoltura».

«Port-au-Prince è diventata una città nella quale si trovano baraccopoli ovunque. A causa dell’esodo rurale per la mancanza di lavoro, la maggior parte degli abitanti sono dei sotto proletari, quelli che possiamo chiamare Lumpenproletariat (in tedesco “proletariato straccione”, termine creato da Karl Marx, per indicare il ceto infimo delle grandi città, formato di elementi economicamente e socialmente instabili, ndr), per cui possiamo parlare di “lumpenizzazione” della società haitiana. Si tratta di individui che sono molto facili da manipolare, non hanno delle vere radici, non sanno dove sono e sono affamati, alla mercé di chiunque, in primis dei politici e criminali».

La cultura che salva

Haiti è il paese più povero delle Americhe e uno dei più destrutturati del Mondo. Gli esperti lo classificano come «stato fallito». Chiediamo al regista e attivista politico se la cultura potrà salvare Haiti. «Sì, in un certo senso la cultura può salvare Haiti. Perché la cultura salva tutti i paesi che sono in pericolo. Se non c’è nella testa della gente, nel loro modo di fare, nella loro cultura in generale, una volontà di salvare o cambiare il paese, allora non è possibile. Solo la cultura può cambiare un paese in grande difficoltà come il nostro. Ma non deve essere una cultura che confonde il sogno con la realtà. Ad Haiti troppo spesso domina il pensiero magico, un sistema per cui agli uomini al potere basta dire una cosa e le parole si trasformano in realtà. Occorre pensare a delle azioni concrete sulla realtà socio politica se si vuole salvare questo paese. Ma alla base ci sono questioni politiche e culturali. Ovvero se c’è la volontà politica, allora occorre che la cultura giochi il suo ruolo.

Qui la cultura è molto forte. In generale questi paesi sono complicati e difficili. Un uomo politico statunitense diceva: “Haiti è il paese che abbiamo occupato più a lungo – ci sono stati 19 anni di occupazione statunitense dell’isola – ma è l’unico nei Caraibi dove non si gioca a baseball”. È vero, è uno sport che non ci ha mai penetrati. Allo stesso modo c’è una forma di democrazia e di sviluppo che non riescono a imporsi ad Haiti.

Tutto lo sviluppo deve partire da una realtà culturale del paese. Non bisogna credere che per un paese differente occorra una democrazia al ribasso, elezioni fasulle o truccate. Gli haitiani hanno dimostrato che non lo accettano».

E lo stato come si pone nei confronti di questa ricchezza culturale?

«Ad Haiti diciamo che questo è il paese della cultura, però non esiste alcun aiuto dello stato alla cultura. Un paese di 10 milioni di abitanti in cui non c’è una sala per spettacoli, non un cinema, c’è un solo quotidiano. E non c’è un museo degno di questo nome. Lo stato appoggia solo il carnevale che è il grande evento culturale di Haiti. Ma anche questo è un carnevale povero, del sotto proletariato».

«Io ho realizzato diversi film su artisti haitiani, sia pittori e scultori che scrittori. Devo riconoscere che esiste una situazione generale, nel tropico, per la quale le crisi (politico sociali, ndr) generano una grande perdita di energia. E ogni crisi ne innesca un’altra che crea una maggiore perdita di energia. In questa dissipazione, dovuta in gran parte alla follia distruttrice di uomini avidi di potere e soldi, ovvero quelli che sono sempre stati i dirigenti di questo paese, troviamo l’energia creatrice di una parte della popolazione. Ed è questo che mi interessa e che studio.

Nel mezzo di questa situazione incredibile, ci sono persone che senza alcun aiuto scrivono, e fanno della buona letteratura, che dipingono dei quadri superlativi, realizzano sculture ottime senza essere mai stati a una scuola di anatomia. Poi c’è la gente del popolo. Ne parlo nel documentario che ho realizzato su due donne spacca pietre che, invece di prostituirsi, o prostituire i figli, in mezzo alla miseria inumana fanno un lavoro duro. Oppure c’è la storia della donna meccanico che ha un progetto di vita per diventare tra i migliori di questo paese nel suo lavoro, in mezzo agli uomini».

La cultura che resiste

La cultura ad Haiti è anche cultura tradizionale, radicata soprattutto in ambito rurale. Che momento storico sta passando e che relazioni ha con la politica?

«La cultura haitiana è in crisi. La cultura rurale, malgrado il vodù che ne è alla base, è molto attaccata dalle sètte protestanti che pullulano (si veda anche articolo a pag. 51). Il vodù stesso sta subendo delle grandi trasformazioni, si sta mercantilizzando. Sotto Duvalier c’era già una specie di volontà di controllo da parte della politica, che utilizzava molti preti vodù ai suoi scopi. Tutte le religioni e tutte le culture hanno aspetti positivi e negativi. Fattori che ti portano verso la trasformazione e il cambiamento, altri alla resistenza per sopravvivere e altri ancora verso la chiusura al cambiamento. Nella società haitiana troviamo tutto questo. Di fronte a una modernizzazione che è copiata dall’estero e sponsorizzata da certi dirigenti del paese, assistiamo a una resistenza, e quelli che resistono fondamentalmente sono i contadini.

Jacques Roumain (grande poeta e scrittore haitiano, impegnato in politica, scomparso misteriosamente nel 1944, ndr) diceva che gli unici elementi validi di questo paese sono i contadini. Sono i soli che hanno una cultura propria e questo ha permesso loro di sopravvivere. Hanno un attaccamento alla terra natale e hanno una tradizione. Ma la popolazione rurale sta diminuendo e stiamo diventando un paese con una maggioranza di popolazione urbanizzata. Però non c’è una vera cultura urbana, perché lì c’è gente che ha lasciato la campagna ed è come piovuta in città, dove non ha nessun attaccamento, mentre perde le radici rurali. Sono persone declassate e disorientate che vanno ad abitare le immense bidonville delle diverse città haitiane, ma anche tutte le piccole baraccopoli che troviamo ovunque a Port-au-Prince, in centro, in periferia, di fianco ai quartieri dei ricchi. Questo fenomeno crea una situazione molto particolare, paradossale. E i paradossi interessano molto gli artisti. Si dice che Haiti sia un “paradiso infernale”, è un ossimoro. Un ossimoro invivibile per molte persone. Non per noi della classe media, gli intellettuali. Noi riusciamo a sopravvivere, ad avere un minimo livello di vita dignitosa. Ma per la maggioranza, ovvero i contadini che non riescono a vivere in campagna, emigrare diventa obbligatorio. Molti vanno in Repubblica Dominicana e nelle Antille.

La classe media, gli intellettuali, i professori, contribuiscono alla cultura tramite la letteratura, la musica, ecc. Ma anche loro sono in difficoltà in modo permanente, perché a ogni crisi economica e politica si innesca una fuga di cervelli, un’emorragia che costituisce un duro colpo per chi rimane.

Le gallerie d’arte sono sempre meno numerose, gli artisti non vivono più di pittura, devono avere un altro mestiere. Chi fa cinema pure. Ci sono artisti che hanno tre o quattro mestieri».

Il nuovo presidente di Haiti Jovenel Moise, insediato il 7/2/2017. / AFP PHOTO / HECTOR RETAMAL

 

Una politica miope

L’ex presidente René Preval, morto il 3/3/2017.

Ad Haiti esiste un potenziale enorme di produzione artistica e culturale che potrebbe essere valorizzato e dare un apporto economico notevole, oltre che diffondere un’immagine molto più positiva del paese nel mondo. Al contrario, dopo il terremoto l’impostazione dei politici è stata quella di attirare un «turismo di alta gamma». Così sono stati costruiti tre hotel di lusso, di un livello inesistente prima nel paese. E sono stati favoriti gli sbarchi delle crociere sulle più belle spiagge, opportunamente isolate dal resto del contesto. Tutto questo anziché appoggiare gli artisti, o la creazione culturale in genere.

«È un paese potenzialmente ricco di cultura. C’è una ricchezza immateriale enorme qui. La storia di Haiti può attirare molti. Poi ci sono anche ricchezze materiali, come le rovine coloniali. Haiti è il paese dei Caraibi che ne ha di più: forti militari, palazzi coloniali, ecc. Ma ho visto la gente togliere le pietre di Fort Mercredi per andare a costruirsi la casa. Se non c’è una politica statale per preservare e valorizzare queste ricchezze, presto si deterioreranno.

Poi c’è il vodù. In Luisiana, a New Orelans, fanno uno sfruttamento turistico enorme del vodù, e si paga per vedere cerimonie fasulle. Le manifestazioni del vodù, come il Guédé (pronuncia ghedé, sono gli spiriti degli antenati morti, molto presenti nelle cerimonie, ndr) si stanno deteriorando, lumpenizzando. In passato erano spettacoli incredibili.

Per questo occorrerebbe una politica turistica intelligente, radicata nella cultura. Poi c’è un contesto globale: occorre togliere le immondizie per strada altrimenti i turisti saranno disgustati.

C’è pure una natura che resiste, nonostante tutto quello che è stato fatto contro di lei in questo paese. È qualcosa di miracoloso. Mare, montagna, deserto, microclimi differenti. Poi la grande gentilezza della gente. Tutte condizioni molto favorevoli al turismo».

La cultura per chi?

Chi ha accesso alla cultura, nelle sue varie forme?

«Come valore di utilizzo, da non confondere con il valore commerciale, la cultura è alla portata di tutti. Le persone che officiano nei templi vodù producono cultura e allo stesso tempo la consumano. Così come i musicisti rap, che copiano i rapper statunitensi, una moda che sta invadendo le bidonville con i suoi modelli. È una cultura trash.

Se parliamo di belle arti, allora non ci sono molti consumatori ad Haiti. C’è un impresario haitiano che ha prodotto la maggior parte dei musicisti del paese che mi dice: “Ad Haiti ci sono 300 consumatori per i prodotti che facciamo, i dvd dei tuoi film e i cd che io produco”. Non ci sono consumatori paganti.

In passato c’erano i turisti che compravano i quadri e altri prodotti culturali, adesso questo mercato non esiste più. Anche per questo gli artisti non riescono più a vivere.

Allora ci chiediamo: come riuscire a fare dei film in un paese così povero come Haiti? Io, per fortuna, sono conosciuto e ho qualcuno che mi apprezza e finanzia i miei film. Inoltre ci sono diverse televisioni che li acquistano».

Il regista si gira e ci mostra un quadro alle sue spalle. Raffigura uno scheletro, sul cranio un cappello nero a tese larghe, intento a suonare una chitarra elettrica.

«Alle mie spalle avete il più grande Guedé di tutto l’universo. Lo riconoscete? È Micheal Jackson, è lui il re dei Guedé».

Marco Bello




Kenya: Stampa 3D per «piedi felici»


In Kenya è nata una piccola compagnia che si occupa di stampa tridimensionale. L’African Born 3D printing (Ab3D) è la prima start up africana che stampa oggetti in materiali plastici, produce stampanti 3D e fa formazione al loro uso. La società progetta, disegna e costruisce i suoi prodotti usando materiale elettronico riciclato, parti meccaniche reperibili localmente e software open source. La sua mission è quella di usare la tecnologia per migliorare la vita.

All’origine della Ab3D c’è la fantasia e l’ingegno di Roy Ombatti. Roy, un giovane keniano di 27 anni, proviene da una famiglia cattolica della classe media che però fa fatica a pagargli gli studi fino a completare l’università a causa della severa crisi economica che in Kenya, nei primi anni del 2000, colpisce in particolare il ceto medio. Conscio di questo, Roy fa tesoro dei suoi studi anche più di molti suoi coetanei e si impegna a fondo per realizzare il sogno coltivato fin da bambino di diventare un ingegnere meccanico e creare oggetti meravigliosi, usando e sfidando le leggi della fisica e della matematica, e di portare cambiamenti positivi nella società attraverso il suo lavoro.

Dopo aver fatto la scuola primaria nella Consolata School di Nairobi, ha frequentato la secondaria alla Strathmore School e ottiene l’ammissione nell’Università di Nairobi, la più antica del paese, fondata nel 1956, ben prima dell’indipendenza del Kenya. Nell’attesa di cominciare il corso di Ingegneria meccanica cui si è iscritto, Roy coglie l’occasione offertagli da un suo zio, volontario di una Ong, e va in Malawi a condividerne l’esperienza con bambini orfani a causa dell’Aids o Hiv positivi. Un’esperienza traumatica per lui, come ricorderà in seguito, perché «oggi sono lì a giocare con uno di loro, e domani mi dicono che è morto».

Vedendo di persona lo stato pietoso del sistema sanitario del Malawi, non diverso dallo stato in cui versano quelli di molte altre nazioni nel continente, Roy sente che deve fare qualcosa e non solo stare a guardare. Ritorna in Kenya per iniziare l’università e comincia a tenere gli occhi aperti sulla sua stessa comunità per individuarne i bisogni e capire cosa lui possa fare per cambiare la situazione. Scopre presto che molti bambini delle famiglie più povere – quelli che vivono negli slum, le periferie degradate di Nairobi dove manca acqua, non ci sono fogne e nelle case non ci sono reti antizanzara – soffrono a causa di molte malattie che potrebbero essere facilmente curabili, anzi, anche evitate con un’adeguata prevenzione. Purtroppo la gente degli slum non ha le risorse per uscire da quella situazione.

Il salto nella stampa 3D

All’università ha un’occasione unica: partecipare ad una competizione internazionale di stampa 3D, la 3D4D (3D for Development) organizzata dalla Techfor Trade, una onlus inglese impegnata a «cercare, promuovere e sostenere un’innovazione tecnologica rispettosa dell’ambiente che aiuti gli scambi commerciali e allevi la povertà». Roy vi partecipa con un progetto che gli è caro: stampare delle scarpe su misura per piedi resi deformi dalle pulci penetranti, quegli stessi piedi che aveva visto in troppi bambini degli slum. Chiama il suo progetto «Happy Feet», Piedi felici.

Le pulci penetranti sono terribili, perché si infilano sotto la pelle dei piedi e lì si installano facendovi il nido che diventa sempre più grosso. Di solito è facile toglierle se sono in superficie, ma se trascurate (come può succedere ai bambini non curati attentamente dai loro genitori o da famigliari) possono causare infiammazioni dolorose fino a impedire una deambulazione corretta o a lasciare piedi deformi. Per rimuovere le pulci si usano spine, lame, spilli o aghi che, non disinfettati o usati su diverse persone, aumentano il pericolo di trasmettere e/o ricevere l’Hiv. Il fatto di camminare a piedi nudi espone poi al rischio di essere infestati di nuovo dalle pulci.

Il progetto è bello e fa sognare, ma per realizzarlo Roy ha bisogno di poter usare stampanti 3D che siano alla portata delle sue tasche di studente universitario. Questo in Kenya non è facile, visto che sono tutte importate dall’estero e costano molto.

Roy capisce allora che se vuole realizzare il suo sogno di «Piedi felici» deve risolvere il problema fondamentale: l’accesso facile alle stampanti 3D e alla relativa tecnologia. Convinto della potenzialità del mezzo per migliorare la vita della gente comune, si concentra allora sulla nuova sfida, riesce a ottenere dei finanziamenti e così fonda la sua start up per la produzione e uso di stampanti 3D.

Nasce così la Ab3D per costruire stampanti 3D usando materiale elettronico riciclato, software open source e parti meccaniche reperibili sul mercato locale. Questo abbatte i costi e facilita manutenzione e riparazioni. Una stampante 3D usa meno energia di un frigorifero e come materia prima per stampare oggetti può riutilizzare plastica dai rifiuti. «L’uso della plastica riciclata non costituisce un rischio, anzi risolve un problema, e i filamenti ottenuti permettono di stampare gli oggetti utili alla comunità», dice oggi Roy spiegando che fino a quando useremo derivati dal petrolio avremo sempre a che fare con la plastica. Tanto vale allora usarla in modo positivo. Le statistiche provano che la plastica è uno dei maggiori elementi inquinanti nel mondo. Oltre otto milioni di tonnellate ne sono riversate negli oceani ogni anno. Di questo passo entro il 2050 sarà un disastro, nel mare ci sarà più plastica che pesci, questo è l’allarme lanciato al World Economic Forum del 2016.

Promuovere una coltura 3D

A questi primi passi Roy ne aggiunge un altro: promuovere la stampa 3D nelle scuole di modo che le future generazioni di giovani lavoratori possano imparare a pensare la tecnologia a servizio di uno sviluppo che non aumenti i problemi, ma li risolva. Tale formazione aumenterebbe la possibilità dei ragazzi di trovare impiego e le loro capacità imprenditoriali.

Secondo Roy è importante applicare il 3D all’apprendimento pratico nelle scuole. «Avessimo meno teoria e più pratica sia nelle scuole che nelle nostre università, avremmo studenti che finirebbero i loro studi con capacità reali, più gente capace di soluzioni nuove per risolvere i problemi globali». Secondo lui troppi giovani finiscono l’università con la testa piena di teorie ma incapaci di tradurle in pratica nel mondo vero del lavoro.

Tre prestigiose scuole private in Kenya hanno già comperato le stampanti dell’Ab3d: Makini School, Banda School e Nova Academia, seguite a ruota anche da tre scuole di informatica. Tra le università, quella di Gondar in Etiopia e quella di Bristol in Inghilterra. L’obiettivo è quello di diffondere le stampanti nel maggior numero di scuole possibile, anche se sembrano più apprezzate all’estero che in patria. Mentre i giovani studenti sono aperti alle novità e al futuro, i dirigenti scolastici sono ancora della vecchia generazione e, purtroppo, sono loro che tengono i cordoni della borsa.

La stampa 3D può essere applicata in molti campi diversi, le sue possibilità sono ancora tutte da scoprire. L’Ab3D sta stampando ora microscopi per laboratori nel settore della sanità e per le scuole, protesi per chi ne ha bisogno, siringhe speciali per uso medico e ovviamente le scarpe «Happy Feet». «Sono tutte iniziative orientate al bene della comunità», sottolinea Roy, «ma stiamo cercando nuove strade per aiutare in modo più diretto ed efficace». Per questo Roy e il gruppo dei suoi collaboratori stanno cercando di essere sempre più propositivi e attenti ai bisogni di ogni giorno. Un dialogo più serrato tra «i tecnici» e la comunità con le sue necessità concrete è importante per tutti. La gente si apre ai benefici del progresso tecnologico e i tecnici imparano dalla gente ad affrontare e risolvere problemi reali.

Katya Nyangi Mwita*

*Giovane russo-keniana che dopo aver insegnato inglese a Mosca e lavorato come giornalista della stessa lingua in un’agenzia di informazione russa, ora, in Kenya, lavora in un centro specializzato in educazione e comunicazione.

Vedi su Youtube (in inglese) African Born 3D Printing
e Intermission with 3D Printing Innovators Carl & Roy




Tanzania: Kabula e i suoi nipoti


Nonna Kabula quando morì contava 113 anni. Forse anche di più, o forse meno, nessuno conosceva la data precisa della sua nascita. Era una nonna speciale, tanto da stupire gli stessi figli, nipoti e pronipoti fino alla sua morte nel 1995. Per non parlare del suo funerale. Infatti, dentro il lenzuolo che avvolgeva il suo corpo, volle che mettessero pure un sacchetto di «farmaci tradizionali africani», un tasbihi islamico, nonché un rosario cattolico.

Kabula nacque nell’isola di Ukerewe, nel cuore del maestoso Lago Vittoria, Tanzania. Apparteneva alla tribù dei Wasukuma.

Da ragazza, era pagana o seguace della «religione tradizionale». Sposandosi con un arabo di Mombasa (Kenya), si convertì all’islam. I due vissero sereni e generarono quattro figli. Improvvisamente lui morì e lei si trovò vedova, ancora giovane e bella.

Un giorno, a Mombasa, Kabula incontrò un modesto commerciante del Tanzania, della tribù dei Wahehe. I due convolarono presto a nozze a Tosamaganga (Iringa), mentre i quattro figli di Kabula rimasero a Mombasa con i parenti del padre defunto. Poi, siccome il nuovo marito era cattolico, la musulmana Kabula non esitò a farsi battezzare.

La donna era entusiasta della nuova fede: andare a messa la domenica vestita a festa, nella magnifica chiesa di Tosamaganga, ascoltare la parola di Dio, pregare cantando e ballando con uomini e donne, giovani e bambini… Ma che bello! E fu pure bello mettere al mondo altri due figli, ovviamente cattolici.

Però un giorno Kabula scoprì che il marito giocava a carte, buttando via tanti scellini, e beveva, beveva, quasi da impazzire.

La moglie non ce la fece a vivere con un uomo scialacquone, beone e folle. Affidò i due figli alla famiglia del marito e ritornò nell’Isola di Ukerewe a respirare la dolce brezza del Lago Vittoria.

Qui fece una scoperta. Kabula avvertì che Dio onnipotente l’aveva arricchita di un dono straordinario. Sì, quella donna era una «guaritrice», che conosceva i segreti arcani di tante erbe e piante terapeutiche. Donne sterili, uomini sessualmente impotenti, «indemoniati» che avevano perso il bene dell’intelletto, persino i lebbrosi… accorrevano da quella dottoressa, guarivano, e riprendevano a sorridere mormorando «asante sana» (grazie).

A 33 anni, Kabula si sposò per la terza volta. Gli abitanti di Ukerewe affermano che non si videro mai nozze come quelle di Kabula, vestita di bianco con l’abito del battesimo di Tosamaganga e il capo incoronato da un velo sontuoso. Il tutto in barba alla cultura dei Wasukuma, che vietano tanta pompa magna ad una donna al terzo matrimonio. Ma Kabula era speciale.

Due nipoti pure speciali

Con il trascorrere delle stagioni, Kabula diventò nonna e bisnonna di uno stuolo di nipoti e pronipoti che accorrevano a lei per un consiglio. Alcuni erano musulmani, altri cristiani e altri pagani.

Pietro è uno dei nipoti cattolici, nato a Tosamaganga. Da ragazzo aveva studiato in seminario per diventare prete. Un giorno domandò a Kabula:

– Nonna, qual è la tua religione?

– La religione di un solo vero Dio, creatore di tutti.

– Nonna, noi crediamo che solo il Cristianesimo sia la religione giusta.

– Lo so, Pietro, perché anch’io sono cristiana, ma sono pure musulmana.

E aggiunse: «C’è un problema spinoso, dovuto al fatto che sia i cristiani sia i musulmani ritengono che solo la loro religione sia vera. Nipote mio, ricorda: i fedeli di ogni religione sono tutti, allo stesso modo, figli amati dello stesso Dio creatore».

Pietro, divenuto sacerdote, poco dopo abbandonò la Chiesa Cattolica. Ne fondò un’altra con il nome di «Chiesa del Cristianesimo vivo» che si opponeva alla Chiesa di Roma, cui rinfacciava di essere schiava del Diritto Canonico e di altri precetti occidentali, mentre dimenticava quelli ben più significativi del Vangelo.

Un altro nipote di Kabula si chiama Amani, musulmano, ma sposato con una donna cattolica. Vivono in piena armonia a Mwanza, ognuno secondo i dettami della propria fede.

Quando Amani informò la famiglia che intendeva sposare una cattolica, sua madre lo apostrofò con furore: «Guai a te! Saresti la nostra vergogna! Avresti il coraggio di unirti ad una selvaggia infedele?».

Il nipote di Kabula non solo sposò «una selvaggia infedele», bensì commise pure un altro reato: tradusse il Corano in swahili, voltando le spalle all’arabo glorioso del profeta Muhammad. Eresse anche una moschea per «i musulmani tolleranti».

Un venerdì Amani predicò: «Il vero musulmano, timorato di Dio, non è colui che prega rivolto verso la Mecca, bensì colui che dona i suoi averi ai bisognosi, agli orfani, ai rifugiati…».

I nemici di Amani aumentarono. Fra questi, persino il fratello minore.

Una notte, senza luna e senza stelle, in casa di Amani esplose un ordigno che incenerì tutto, lui compreso, con moglie e i figli. Subito da un altoparlante si udì: «Allah akbar! Questa è la vendetta sacra dei combattenti di Allah contro i nemici dell’islam vero del profeta Muhammad!».

La bomba era stata posta dal fratello minore di Amani.

C’è una religione giusta?

La storia di «Kabula e i suoi nipoti» è tratta dal romanzo «I timorati di Dio di nonna Kilihona» di Gabriel Ruhumbika1. Nel suo testo Ruhumbika affronta argomenti impegnativi, quali: l’indagine sulla cultura tradizionale africana, il confronto fra le religioni, la riforma della religione e il suo valore intrinseco. Temi cruciali. Per questo l’autore merita apprezzamento.

Nel romanzo un genitore dichiara al proprio figlio: «Vedi, ragazzo mio, senza religione, io non saprei lavorare. E, da quando è morta tua madre, non saprei neppure vivere, oppure diventerei matto».

Il libro termina così: «La religione nasce nel cuore della persona e si manifesta nelle sue opere buone. In chiesa o in moschea non c’è fede, e neppure nei sacrifici agli spiriti della cultura africana. I timorati di Dio di ogni religione sono tutti figli diletti di Dio creatore. Alcuni generano divisioni nella società, allorché dichiarano che solo la loro religione è giusta».

Forse per questo Kabula fu, a pari merito, musulmana, cristiana e seguace della religione tradizionale africana.

E cristiano e pagano

«La persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni da coercizione da parte di singoli individui, gruppi e qualsivoglia potestà umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza, né sia impedito ad agire in conformità ad essa». È una dichiarazione del Concilio Ecumenico Vaticano II2.

Nel riconoscere il diritto alla libertà religiosa, hai pure la facoltà di essere, nello stesso tempo, pagano, musulmano e cristiano? Sì, ce l’hai.

Tuttavia, in Africa, la scelta di «varie fedi religiose» è motivata da altri criteri, senza scomodare il diritto alla libertà religiosa.

Il terrore degli spiriti maligni, la paura dell’altro, l’incertezza sulla salute, l’ansia nel trovare lavoro… fanno sì che l’africano «affianchi» alla fede cristiana o islamica quella della tradizione degli antichi.

Si tratta di una «duplice appartenenza religiosa». Un fenomeno che i vescovi del continente africano, nel loro II Sinodo del 2009, giudicano come un problema, una sfida3.

La «duplice appartenenza religiosa» è giudicata una mancanza di fiducia nel proprio credo.

Il cardinale Polycarp Pengo, arcivescovo di Dar Es Salaam, commenta: «Dobbiamo maturare nella nostra fede, perché molti cristiani, specialmente durante la malattia, mettono da parte il Dio di Gesù Cristo per affidarsi al guaritore tradizionale e, persino, allo stregone»4.

In altre parole, al mattino si va in chiesa e nel pomeriggio si bussa alla porta dello stregone.

«Solo cristiano» si può

È possibile scegliere e praticare «una sola religione»? È possibile, anche in Africa. Uno splendido esempio ci proviene dall’Uganda con San Mattia Malumba, uno dei 22 martiri locali.

Mattia, prima di scegliere di essere cattolico, rifletté a lungo sull’islam. Si confrontò pure con la Chiesa protestante pentecostale. Infine, a 50 anni, dopo aver meditato sul comportamento dei missionari cattolici, decise di abbracciare per sempre la loro religione. Morì martire nel 1886 tra atroci sofferenze.

Il suo sangue, come quello dei suoi 21 eroici compagni, fu un seme che generò altri cristiani.

Francesco Bernardi*

* Già direttore di MC; in Tanzania è direttore della rivista «Enendeni» (Andate).

______________

Note:

1) Titolo originale del romanzo di Gabriel Ruhumbika, Wacha Mungu wa Bibi Kilihona, E & D Vision Publishing, Dar Es Salaam 2014. Scritto in swahili, non esiste traduzione in altre lingue.
2) Dignitatis Humanae, 1045.
3) Cfr. Africarne Munus, 93 (Esortazione apostolica di Benedetto XVI, Roma 2009).
4) Enendeni, Januari/Februari 2012. Enendeni è la rivista dei Missionari della Consolata, Tanzania.




Isis, il terrore come spettacolo


Prima puntata: Comprendere (tra paure e diffidenze)


La nostra inchiesta sul radicalismo islamico e le sue cause si sposta in Italia. A Ravenna abbiamo incontrato Marisa Iannucci, musulmana e islamologa. Con lei, autrice del saggio «Contro l’Isis», abbiamo parlato della posizione degli studiosi islamici e delle comunità dei fedeli rispetto all’ideologia e al terrorismo delle milizie del califfo al-Baghdadi. Ma anche della compatibilità tra islam e democrazia e del (timido) femminismo musulmano.

Marisa Iannucci è musulmana e islamologa, nonché ricercatrice e autrice del saggio «Contro l’Isis».

Impegnata a livello sociale, culturale e politico (anche come presidente dell’associazione «Life Onlus»), Marisa Iannucci ha affrontato, e vinto, diverse battaglie, tra cui quella giudiziaria a seguito di una sua dichiarazione sulla scarsa trasparenza nella gestione contabile di una moschea di Ravenna, e quella contro le intimidazioni e discriminazioni nei confronti delle donne da parte di alcune realtà islamiche italiane. Lei, donna musulmana, aveva osato sfidare «poteri forti» all’interno dell’islam nazionale ed era stata attaccata da persone e entità abituate a vincere sugli altri, a intimorirli, a imporre il proprio diktat e ad avere, da anni (dalle «primavere arabe»), la simpatia di politici e dei media mainstream. In questa prospettiva di coraggio e lucidità di pensiero e di azione, non poteva mancare il suo impegno nella denuncia di ciò che è e rappresenta il Daesh per l’islam mondiale e per l’umanità.

Le strategie comunicative del Daesh

Secondo lei, cos’è e quali sono le «cause» del Daesh?

«La guerra d’Iraq del 2003 è il terreno su cui nasce il Daesh, che è apparso per molti versi come un fenomeno nuovo, ma non lo è affatto. Ha saputo caratterizzarsi come tale grazie a una intensa strategia comunicativa, e un uso attento del web e delle tecnologie mediatiche che hanno creato nell’opinione pubblica il fenomeno del terrore come spettacolo. Ma vi sono elementi di continuità tra Isis/Daesh e al-Qa‘ida e i gruppi a essa affiliati, da cui il Daesh nasce per poi rendersi autonomo, conquistare e controllare territori soprattutto inserendosi in fratture esistenti e facilitato anche dalla guerra civile siriana. La leadership e parte dei combattenti del Daesh provengono da formazioni già esistenti, e lo stesso nucleo di al-Baghdadi è un ramo di al-Qa‘ida ribellatosi all’autorità dei capi. Anche dal punto di vista ideologico non vi sono grandi novità. L’organizzazione ha i suoi riferimenti politici e religiosi in un pensiero di tipo neo salafita wahabita come al-Qa‘ida e altri gruppi che utilizzano il terrorismo internazionale, oltre alla guerriglia, e veicola tra i musulmani una lettura letteralista dei testi per convincerli a prendere le armi per realizzare un nuovo ordine politico e sociale di tipo salafita. Il cosiddetto «califfato» di al-Baghdadi non si differenzia in questo, né nella legittimazione della violenza, né nei riferimenti teologici, dalla dottrina di Ibn Taymiyya o altri, che pure sono ampiamente distorti per la loro causa. Nonostante questo il Daesh rifiuta l’autorità di altri gruppi e ha sempre rifiutato l’arbitrato di altri esponenti islamici, perseguendo un atteggiamento assolutamente “takfirista”, ovvero escludendo e tacciando di miscredenza chiunque non sia a loro sottomesso. L’ostilità non è diretta solo contro i non musulmani (cristiani o yazidi), ma all’interno del mondo islamico contro gli sciiti (ad esempio, contro alawiti, ismailiti, drusi e altri). Va ricordato che anche i sunniti che si rifiutano di aderire alla visione del Daesh e alla sua causa sono considerati miscredenti e quindi nemici. Il Daesh è cresciuto sull’instabilità territoriale, politica e sociale, sulle macerie della guerra dell’Iraq e del governo di stampo sciita di al-Maliki (appoggiato da Usa e Iran), sotto il quale i sunniti iracheni sono stati penalizzati. Le profonde divisioni tra sciiti, sunniti e curdi hanno favorito un gruppo che senz’altro proponeva una strada per la possibile rivalsa sunnita nell’area. Ma il Daesh ha stretto alleanze con altre realtà locali in Nordafrica e in Africa – prima di tutto con Boko Haram -, e ha allargato il campo al terrorismo internazionale».

Senza dimenticare la guerra in Siria…

«La Siria è il campo di battaglia per Arabia Saudita e Iran e per chi li supporta nei loro progetti. La comunità internazionale si è trovata di fronte a una scelta: sostenere il regime siriano contro il Daesh legittimando Bashar al-Assad, dittatore che si è macchiato di crimini contro l’umanità, oppure sostenere la sua variegata opposizione, che ha numerose infiltrazioni e ciò comporta il rischio di rafforzare gruppi che un domani potrebbero costituire un’ulteriore minaccia per l’equilibrio dell’area e il futuro della Siria. Ciò che non si è stati in grado di fare è proteggere i civili da ogni fazione, e creare le condizioni per garantire il soccorso umanitario, questo è molto grave. Era necessario creare dei corridoi umanitari per garantire l’intervento delle agenzie internazionali in favore della popolazione civile: non si è fatto abbastanza in questo senso».

Mosul, Iraq, gennaio 2017 / Yunus Keles / Anadolu Agency

Il mondo islamico davanti al Daesh

Che cosa possono fare le comunità islamiche?

«Le comunità islamiche possono fare molto soprattutto fuori dai contesti di guerra, per impedire la radicalizzazione e isolare l’ideologia fondamentalista. È, tuttavia, un lavoro molto difficile, considerando che un’altra “guerra” (quella della propaganda) viene combattuta senza armi, ma con grandi somme di denaro, che arrivano anche in Europa, e con le quali si controllano centri islamici e moschee. Lo fanno anche gli stati a maggioranza musulmani come l’Arabia Saudita, il Qatar e l’Iran. Ognuno gioca la sua parte.

È importante che i musulmani in Occidente lavorino per l’integrazione, e agiscano attraverso la partecipazione politica alle società in cui vivono e la cittadinanza attiva. L’emarginazione e la povertà culturale in cui versano molti immigrati provenienti da paesi a maggioranza musulmana, in particolare Nordafrica, fornisce materiale per le attività di radicalizzazione. Grandi responsabilità hanno i governi europei e le loro politiche sull’immigrazione. Probabilmente ci sono molti mercenari nei “foreign fighters” arruolati nel Daesh, e non mancano certo gli apporti dei vari servizi segreti, ma non si può ignorare che l’indottrinamento esiste, ed è rivolto alle fasce più vulnerabili tra cui gli emarginati, disagiati anche psichici e con dipendenze da sostanze, detenuti, persone che passano dall’essere lontanissimi dalla religione al fanatismo. Si fa leva sul bisogno di riscatto, e sul risentimento di questi giovani, che non è poca cosa. Inoltre, bisogna saper dare delle risposte teologiche e politiche alle esigenze dei musulmani in epoca moderna, che siano un’alternativa al salafismo o all’islamismo dei Fratelli Musulmani».

Dal suo libro emerge che molte voci islamiche autorevoli si sono sollevate contro il cosiddetto jihadismo, dal 2014, quando ormai la situazione era diventata drammatica. Secondo lei, come mai nei tre anni precedenti, in coincidenza con lo scoppio della guerra civile in Libia (2011) e in Siria (2012), c’è stato silenzio o addirittura appoggio ad alcune organizzazioni o gruppi?

«Noi abbiamo considerato le dichiarazioni emesse a partire dal giugno 2014, ovvero dalla proclamazione del cosiddetto califfato da parte di al-Baghdadi. Volevamo fare emergere l’aspetto teologico e la delegittimazione religiosa del califfato, poiché abbiamo concepito il volume come uno strumento, nel suo piccolo, contro il radicalismo, da fare circolare anche nelle moschee. Condivido che l’appoggio di alcuni sapienti salafiti alle organizzazioni o, in misura maggiore, il silenzio di fronte al loro operato, è grave. L’idea che la profonda ingiustizia politica e sociale presente nel mondo arabo e musulmano e le ferite della storia possano essere guarite con le armi o, peggio, con il terrorismo o l’odio verso l’Occidente è presente e va isolata e contrastata dagli stessi salafiti.

Un dibattito c’è tra gli studiosi e c’è una presa di coscienza di questo, abbiamo riportato anche nel libro alcune riflessioni di esponenti del neo salafismo che fanno autocritica. Segnalo però che un grande numero di fatwa, sentenze giuridiche islamiche, sono state emesse in tutto il mondo contro i gruppi che compiono attentati terroristici e uccidono civili, e in generale contro il terrorismo di matrice religiosa. Nel libro diamo anche indicazioni per accedere ad archivi online di questi documenti, almeno dal 2001, dall’attentato alle Torri Gemelle. Al-Qa‘ida è stata oggetto di molte prese di posizione forti».

Dalle fatwa emerge che alcuni professori e scienziati islamici condannano il Daesh ma non altri gruppi jihadisti qaedisti, come Jabhat al-Nusra. Perché?

«Nel libro abbiamo preso in considerazione le opinioni dei sapienti solo sul Daesh, ma ci sono state molte fatwa anche contro al Qa‘ida e affiliati, anche all’epoca di Bin Laden. In alcuni testi tradotti nel volume emerge che il Fronte al-Nusra è stato visto inizialmente come una importante forza anti Assad, mentre il Daesh è un’organizzazione che ha contrastato e indebolito l’opposizione ad Assad. La condanna delle azioni terroristiche, però, è un punto fermo, indipendentemente dai gruppi».

Alcuni studiosi occidentali, come Massimo Campanini e Bruno Étienne, vedono nel «fondamentalismo» islamico una sorta di «potere costituente», cioè rivoluzionario, contro l’oppressione sia interna sia esterna al mondo islamico. Cosa ne pensa?

«Il pensiero politico islamico, l’islamismo nelle sue varie forme, è una importante eredità del Novecento e non va demonizzato. Il mondo musulmano ha elaborato teorie politiche diverse per risolvere i problemi dovuti al colonialismo, al sionismo, agli autoritarismi nati dalla decolonizzazione, mai avvenuta in realtà. Io credo che il pensiero di Sayyid Qutb, o di Ali Shari‘ati, ma anche di Hassan al-Banna abbia avuto un ruolo fondamentale nell’acquisizione di consapevolezza della propria condizione rispetto a queste questioni. Anche pensatori più recenti come Ghannushi hanno elaborato teorie che possiamo inserire nel quadro del costituzionalismo islamico. Ma il terreno è pieno di insidie, come abbiamo visto dopo le cosiddette primavere arabe. Si può vedere però anche in positivo. L’islamismo militante degli ultimi decenni è anche un segnale della rinascita del mondo islamico e del rialzarsi delle società civili nonostante i governi, e può essere letto come l’affermazione di una potenza costituente dell’islam. Le correnti che si rifanno alla “teologia islamica della liberazione”, e anche il femminismo musulmano, che è emerso negli ultimi decenni del secolo scorso, sono degli esempi. Nell’elaborazione politica di un potere islamico entrano discorsi complessi, come la sovranità – di Dio e del popolo – i diritti umani e la tutela delle minoranze, la forma di governo dei musulmani, lo stato e le sue fonti di legge, la shari‘a.

La questione della forma di governo, così attuale dopo il fallimento delle primavere arabe e il fanta-califfato siriano, è divenuta centrale già nel 1924, dopo la caduta dell’ultimo califfato».

Islam e democrazia

Hukûmatu-l-lah, «il governo di Dio», e hakimiyya, «la sovranità di Dio», concetti chiave dell’islamismo politico, sono contrapposti alla visione occidentale della democrazia. Che risposte danno gli intellettuali musulmani?

«Il nodo attorno cui hanno discusso e discutono ancora i teorici musulmani è la liceità per i credenti di dotarsi di un governo che abbia le caratteristiche del costituzionalismo occidentale. In particolare, può una concezione democratica, che richiede la sovranità popolare, realizzarsi in paesi dove i popoli scelgono la sovranità di Dio e quindi lo stato è confessionale, oppure indica nella costituzione il riferimento all’islam come religione di stato e alla shari‘a come fonte primaria della legge? Al momento non vi è risposta a una domanda così complessa, e il mondo musulmano sembra lontano dal trovare una soluzione: il dibattito è aperto. Diversi intellettuali musulmani contemporanei hanno elaborato teorie sia di ispirazione islamista che liberale, cercando di affrontare la problematica che, soprattutto dopo le cosiddette primavere del 2011, si è concretizzata in difficili processi di transizione democratica e, ad eccezione della Tunisia, in tragici fallimenti. Gli studiosi riformisti musulmani oggi mettono costantemente in rapporto l’islam e la democrazia, perché i progetti politici dei partiti islamisti, che, seppur si siano inseriti con successo nella competizione elettorale, hanno dimostrato grandi difficoltà alla prova di governo, prevedono, sì, la confessionalità dello stato ma non ignorano che vi sia una richiesta dalle società di maggiore partecipazione politica, tutela delle libertà, e delle minoranze. La democrazia non è una, ma ha preso nella storia forme e percorsi differenti. Non vi è ragione di credere che ciò non possa accadere anche nel mondo musulmano, che potrebbe aprirsi a nuove esperienze politiche, a meno che non si sostenga la teoria dell’incompatibilità tra islam e democrazia. Una sfida per il mondo musulmano nel XXI secolo, in cui oggi si combattono – nel Vicino Oriente – la maggior parte delle guerre in atto, è proprio l’autodeterminazione nella forma di governo.

Si tratta di elaborare una teologia islamica che tenga presente la realtà attuale, le esigenze dei nostri tempi».

Per un femminismo islamico

Marisa, cosa fa la Onlus (lifeonlus.net) di cui è presidente?

«L’associazione Life Onlus è un’associazione culturale e di volontariato fondata nel 2000 a Ravenna da un gruppo di donne musulmane di varia nazionalità. Si occupa di tutela dei diritti, con particolare attenzione alle donne e ai bambini; mediazione interculturale, per la prevenzione dei conflitti e l’educazione alle differenze, contro razzismo e discriminazione, dialogo interreligioso, solidarietà, cultura.

Io mi occupo principalmente di diritti umani e di questioni di genere, e in particolare studio i femminismi musulmani. Ritengo che la questione dell’equità di genere sia fondamentale per l’islam del XXI secolo. Le donne possono dare un grande contributo attraverso le loro battaglie di liberazione, per svegliare la coscienza dei musulmani su molti temi e per vivere questi tempi in maniera autonoma affrancandosi dal colonialismo culturale, e non solo, da cui non si sono mai liberati davvero».

Angela Lano
(seconda puntata – continua)




America Latina: Scalare il potere

(con religione)


In?America Latina l’espansione delle nuove chiese evangeliche, pentecostali e neopentecostali, pare inarrestabile. Il loro proselitismo va soprattutto a scapito della Chiesa cattolica che vede ridursi i propri fedeli. Un tempo considerate movimenti esogeni (esportati dagli?Stati Uniti), da alcuni decenni queste chiese hanno assunto caratteri distinti e autoctoni. Anche la loro funzione sociale si è trasformata: da istituzioni che spingevano al  disimpegno sono spesso diventate attori politici influenti e ambiziosi.  Sempre però in un’ottica conservatrice e sovente fondamentalista. I casi del Guatemala e del Brasile.

«Pagare le bollette è una lotta tutti i mesi? I debiti sembrano non finire mai? […] Sapete che ogni 27 minuti un brasiliano entra nel club dei milionari? […] Molti hanno già preso una decisione per cambiare la propria vita finanziaria, raggiungere il successo e, principalmente, essere felici».

Queste parole eccitanti e piene di speranza per il futuro non sono tratte da un annuncio di una società finanziaria o di scommesse. No, sono le promesse di una chiesa. Per la precisione della «Igreja Universal do Reino de Deus» (Chiesa Universale del Regno di Dio), una chiesa evangelica neopentecostale nata in Brasile pochi anni fa (era il 1977). Siamo partiti da essa per tentare di dar conto di un fenomeno: la nascita e la diffusione di centinaia di chiese evangeliche in un continente, quello latinoamericano, dove – come ha scritto Pietro Canova nel suo noto saggio – «fin verso il 1930 la Chiesa cattolica si presenta come un blocco monolitico»1. Si tratta di chiese nate nella galassia del movimento protestante (quest’anno si celebrano i 500 anni dall’affissione delle «95 tesi» di Lutero sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg, in Germania), eppure da esso ben distinte.

La genesi storica

Una delle tesi più sostenute (e dibattute) per spiegare il fenomeno delle chiese evangeliche in America Latina è quella dell’interesse degli Stati Uniti: quel paese aveva necessità di intervenire (anche) in ambito religioso per difendere la propria posizione egemonica sul continente.

Sono due gli elementi teorici quasi sempre ricordati per suffragare questa affermazione. Il primo è una semplice citazione, datata 1912, di Theodore Roosevelt, già presidente Usa e sostenitore della dottrina Monroe (quella che giustificava la supremazia statunitense sull’America Latina): «A mio giudizio, finché questi paesi (latinoamericani, ndr) rimarranno cattolici, la loro assimilazione agli Stati Uniti sarà un compito lungo e difficile». Il secondo elemento è il «Rapporto Rockefeller», presentato nel 1969 all’allora presidente Usa Richard Nixon. In esso, nel descrivere la situazione del continente latinoamericano, Nelson Rockefeller affermava tra l’altro che, dopo 400 anni, la Chiesa cattolica stava rompendo con il proprio passato, schierandosi in favore del cambio sociale e politico. Va ricordato che quelli erano gli anni della teologia della liberazione, nata e diffusasi proprio in America Latina e accusata (anche da una parte dello stesso mondo cattolico) di essere portatrice di un’ideologia filocomunista, contraria alla proprietà privata, al sistema capitalistico e agli Stati Uniti. La Chiesa cattolica – si legge ancora nel rapporto – si era trasformata «in una forza di cambiamento, cambiamento anche rivoluzionario, se sarà necessario». Per contrastare quelle idee era dunque necessario rafforzare tutti quei movimenti che si muovessero in un’ottica di conservazione sociale e di fondamentalismo religioso. Le chiese evangeliche rispondevano a quest’obiettivo.

Negli ultimi decenni, il fenomeno è continuato (e continua) a ritmi serrati, ma cambiando e precisamente assumendo connotati meno coloniali. «Mentre – scrive Pietro Canova nel suo saggio – prima potevano essere considerate movimenti “esogeni”, oggi esse (le nuove chiese evangeliche) si presentano profondamente inculturate e contano milioni di adepti. In varie nazioni costituiscono ampi settori della popolazione rurale e suburbana ed i loro dirigenti sono tutti autoctoni e profondamente incarnati nella realtà».

Il caso del Guatemala

Oltre al legame ombelicale con gli Stati Uniti, anche un’altra caratteristica di queste chiese è mutata nel tempo: l’approccio alla realtà e il disinteresse verso il mondo politico.

«La chiesa (evangelica) – ha scritto il pastore valdese Giorgio Bouchard – dialoga con la realtà storica, predica, annunzia, testimonia del messaggio evangelico, però non “crea” la società civile, non la cristianizza. La sintesi della posizione comune a tutti gli evangelici è l’autonomia del politico rispetto al religioso»2. Un’affermazione questa che forse vale (o valeva) per le chiese evangeliche storiche, ma non per le nuove denominazioni.

Rese forti dal crescente numero di seguaci, le nuove chiese non soltanto non sono neutrali verso la realtà politica, ma intervengono attivamente per indirizzarla o – lo spiegheremo – diventano esse stesse strumenti di pressione politica.

Uno dei primi a usare per fini elettorali e di potere i nuovi movimenti religiosi fu il generale guatemalteco Ríos Montt che nel 1978 lasciò la Chiesa cattolica per entrare nella «Iglesia Cristiana del Verbo», una chiesa pentecostale legata alla californiana «Christian Church of the Word» e alla destra religiosa statunitense. Nel 1982 egli assunse la presidenza del paese con un golpe militare. In seguito ricoprì varie cariche prima di finire sotto processo per genocidio. Nel 1991 divenne presidente un suo collaboratore, Jorge Serrano Elías, anche lui evangelico. Di nuovo, nell’ottobre 2015, è stato eletto presidente l’evangelico Jimmy Morales. La conclamata appartenenza religiosa di questi leader non ha portato benefici (meno corruzione, più moralità, ecc.) al Guatemala. Al contrario, il paese centroamericano continua ad essere tra i più poveri e ingiusti del continente.

Il caso del Brasile

E poi c’è il caso del Brasile, il più grande paese cattolico del mondo (circa 123,2 milioni di persone, pari al 64,2% della popolazione nel 2010)3 e allo stesso tempo uno dei paesi dove l’avanzata evangelica è più evidente e densa di conseguenze.

Attenendoci ai dati del Censimento 2010 realizzato dall’Istituto brasiliano di geografia e statistica (Ibge), in Brasile esistono venti chiese evangeliche ufficiali, conteggiando le nuove (pentecostali e neopentecostali) e quelle storiche (luterana, battista, presbiteriana, metodista). Stando a queste statistiche, in totale esse raccolgono 42.275.438 persone. Tuttavia, dal 2010 al 2016 la crescita delle chiese evangeliche è continuata: secondo un’inchiesta dell’istituto Datafolha4, gli evangelici sono oggi il 29% dei fedeli brasiliani, sette punti percentuali in più del censimento del 2010, quasi totalmente ascrivibili alle nuove chiese. La stessa inchiesta segnala che il 44% degli evangelici si dichiara ex cattolico.

Questa rapidissima avanzata delle nuove chiese ha avuto ed ha conseguenze importanti sulla politica del paese. A Brasilia i parlamentari evangelici sono 90 (su 594), di cui 87 deputati e tre senatori (dato del settembre 2016). Tra le nuove chiese evangeliche emergono la Assembleia de Deus con 19 deputati, la Universal con 7 e la Evangelho Quadrangular con 4.

A conferma della visione conservatrice che le caratterizza, va detto che al Congresso i politici evangelici sono alleati con i latifondisti e con i fautori dell’ordine («bandido bom é bandido morto», il solo delinquente buono è quello morto), formando il cosiddetto schieramento BBB («bancada Bíblia, Boi e Bala», gruppo Bibbia, vacca e pallottola). Uno schieramento che, tra maggio e agosto del 2016, ha votato compatto per destituire la presidenta eletta Dilma Rousseff ed eleggere al suo posto Michel Temer. Questi ha poi trovato in Marcos Pereira, vescovo della Chiesa Universale, il suo ministro dello sviluppo, industria e commercio. Un altro vescovo dell’Universale, Marcelo Crivella, già senatore, è il nuovo sindaco di Rio de Janeiro dal 1 gennaio 2017.

Edir Macedo, fondatore e capo indiscusso della Chiesa Universale, sa come muoversi nel mondo dei media. Non soltanto egli controlla il colosso Rede Record, il secondo network televisivo del Brasile, ma sforna anche libri di successo. La sua autobiografia in tre volumi, «Nada a perder» (Niente da perdere), ha venduto milioni di copie. In essa, tra l’altro, il vescovo Macedo non nasconde il proprio astio verso la Chiesa cattolica: «Il destino della Chiesa Universale è di fermare quella cattolica» (A sina da Universal é barrar a Igreja Católica). Ancora più interessante è «Plano de poder», un suo libro del 2008, in cui spiega che la conquista del potere e l’instaurazione di una repubblica evangelica in Brasile sono un passo inevitabile. Anzi, l’ascesa degli evangelici è – secondo Macedo – qualcosa di determinato dalla Bibbia e una nazione evangelica risponde a un piano divino.

Successo, salute, felicità

Fatto questo breve excursus sul fenomeno, va ora affrontata una domanda chiave: a cosa si deve il successo delle nuove chiese evangeliche e la contemporanea perdita di consensi della Chiesa cattolica?

I motivi sono molteplici. Si può iniziare ricordando un proselitismo fondato su un uso molto efficace dei media (si pensi al «televangelismo» d’importazione statunitense). C’è poi una disponibilità economica che spesso è considerevole. Essa deriva dalle entrate per gli eventi speciali, dalla vendita di prodotti (musica, libri) e soprattutto dalla raccolta del «dizimo» (la decima ovvero l’offerta che dovrebbe corrispondere a un decimo delle entrate del fedele), considerato indispensabile per ottenere la benevolenza divina. Né vanno taciuti gli scandali di ordine sessuale che, in vari paesi, hanno coinvolto preti cattolici, allontanando i fedeli.

C’è poi la cosiddetta «teologia della prosperità» che attrae. E se ne capisce facilmente il motivo: essa promette – ne abbiamo parlato all’inizio – successo, salute, felicità.

A San Paolo, in Avenida Celso Garcia 605, sorge il Templo de Salomão della Chiesa Universale. Costruito a somiglianza dell’antico Tempio di Salomone a Gerusalemme, può ospitare 10.000 persone. Il giorno dell’inaugurazione, il 31 luglio del 2014, tra le decine di autorità, in prima fila accanto a Edir Macedo, c’era anche l’allora presidente Dilma Rousseff e il suo vice Michel Temer, presidente attuale.

Impossibile sapere quanti dei due milioni di fedeli della Chiesa Universale (che sarebbero 9 secondo fonti dell’organizzazione) siano stati baciati dal successo. Di certo lo è stato il suo fondatore e proprietario. Edir Macedo è infatti uno degli uomini più ricchi del Brasile. Secondo la rivista statunitense Forbes, specialista in tema di finanza, Macedo si situava al 1.638° posto nella lista mondiale dei miliardari del 2015.

A dirla tutta, egli non è l’unico pastore brasiliano ad essersi arricchito con una chiesa. Altri quattro vantano patrimoni multimilionari: Valdemiro Santiago della «Igreja Mundial do Poder de Deus», Silas Malafaia della «Assembleia de Deus Vitória em Cristo», Romildo Ribeiro Soares della «Igreja Internacional da Graça de Deus», Estevam Hernandes Filho della «Igreja Apostólica Renascer em Cristo». L’inchiesta di Forbes5 si conclude così: «Come dice la Bibbia, la fede muove le montagne. E anche il denaro» (As the Bible says, faith moves mountains. And money, too). Parlando in maniera un po’ meno irriverente della rivista nordamericana, possiamo dire che la teologia della prosperità funziona. Soprattutto per chi la predica.

Paolo Moiola
(prima puntata – continua)

Note

1- Pietro Canova, Un vulcano in eruzione. Le sètte in America Latina, Emi, Bologna 1987, pag. 23.
2- Giorgio Bouchard, Chiese e movimenti evangelici del nostro tempo, Claudiana, Torino 2003, pag. 10.
3- Questo dato è del censimento Ibge del 2010. Adesso i numeri sono più bassi, anche se sulle cifre non c’è accordo.
4- Instituto Datafolha, Perfil e opinião dos evangélicos no Brasil, dicembre 2016.
5- Anderson Antunes, The Richest Pastors In Brazil, Forbes, 17 gennaio 2013.

Siti internet

  • www.universal.org -Il sito della Chiesa Universale (Iurd), la maggiore chiesa neopentecostale del Brasile.

Archivio MC




Il web ti vede


Il social network più popolare si è lanciato alla conquista del mondo. Per far questo stringe accordi con compagnie telefoniche e fornisce servizi gratuiti. Qualche stato, spinto dalla società civile, dice no. Facebook punta al controllo totale della rete e a incamerare enormi quantità di dati su ognuno di noi. Per poi orientare le nostre vite.

Uno scontro tra due delle più popolose potenze mondiali si è consumato tra il 2014 e il 2015: da una parte l’India, con un miliardo e 250 milioni di abitanti, dall’altra Facebook, con un miliardo e mezzo di utenti. I due giganti sono venuti ai ferri corti, legali, per l’iniziativa Facebook Free Basics, lanciata dal social network in 53 paesi in Africa, Medio Oriente, Asia, Oceania e America Latina, economie emergenti in cui la maggior parte della popolazione ha accesso limitato a internet a causa della scarsa diffusione di computer e smartphone, o per la parziale copertura di rete del territorio nazionale, o ancora per i costi proibitivi delle connessioni. Il programma Facebook Free Basics, fortemente voluto da Mark Zuckerberg in persona (fondatore di Facebook, ndr), consiste essenzialmente nella stipulazione di accordi con operatori mobili locali per fornire un accesso a Facebook di default, ovvero senza la necessità di usare un browser (programma per la navigazione in rete, ndr) per aprire il sito del social network, e con costi di navigazione completamente a carico della compagnia mobile.

Facebook o internet?

Il fatto che l’iniziativa si chiamasse precedentemente Internet.org rivela la vera ambizione del progetto: quella di rendere Facebook non solo la porta d’accesso alla rete, ma un vero e proprio sinonimo di internet. Questa tendenza, in realtà, precede il lancio di Internet.org nel 2014 in Zambia. Due anni prima, nel 2012, nel corso di uno studio per l’organizzazione Research ICT Africa, il capo del team di ricerca, Richard Stork, aveva notato un dato bizzarro: il numero degli intervistati che dichiarava di usare Facebook era superiore a quello di chi affermava di usare internet.

Un caso simile si era verificato, nello stesso anno, in Indonesia, dove Helani Galpaya, una ricercatrice per il think tank LIRNEasia, aveva commentato così i risultati del suo studio: «Sembra che, per gli intervistati, internet non esista. C’è solo Facebook». Altre ricerche condotte in Africa e Asia del Sud confermarono questa tendenza: Facebook e internet sono ormai termini intercambiabili. Un fatto incoraggiante alla vigilia dello sbarco di Facebook Free Basics nella frontiera più ambita: l’India. Per Zuckerberg, intenzionato a far crescere la sua creatura nel più grande mercato mondiale ancora disponibile (in Cina Facebook è tuttora proibito) questo era tutt’altro che un problema: del resto, come ribadito dallo stesso fondatore del social network in interventi pubblici, articoli pubblicati su giornali locali e incontri a porte chiuse con autorità politiche indiane, il punto fondamentale del progetto era consentire a centinaia di milioni di persone di restare in contatto e condividere ricordi, notizie e opinioni. Cento milioni sono già utenti di Facebook ma il potenziale è di 800 milioni. Che tutto ciò avvenga all’interno di un recinto è, a detta della multinazionale, secondario. Facebook Free Basics, nelle parole di Zuckerberg, era un regalo. Che però l’India ha rifiutato.

Il presidente della Nigeria, Muhammadu Buhari (centro) e il Vice President eYemi Osinbajo (sinistra) posano con Mark Zuckerberg, fondatore di facebook,  2/09/2016. / AFP PHOTO / SUNDAY AGHAEZE

Il controllo del web

La campagna contro l’iniziativa di Zuckerberg ha portato per la prima volta al centro del dibattito pubblico il tema della neutralità della rete, ovvero il principio che i provider di banda larga debbano concedere a tutti i produttori di contenuti lo stesso spazio. Un controllore (in questo caso Facebook) a guardia dell’accesso al web avrebbe potuto decidere a quali organi d’informazione dare la priorità, lasciando in ombra altri. La scelta potrebbe essere dettata da ragioni politiche o di mercato, dando spazio a contenuti che hanno più possibilità di essere cliccati. La mobilitazione di attivisti ed esperti della rete ha così costretto l’autorità indiana per le telecomunicazioni a revocare l’autorizzazione al servizio offerto dal gigante digitale tramite un operatore di telefonia mobile locale. Un no, arrivato a febbraio 2016, che è stato il più traumatico nei 12 anni di esistenza di Facebook. Per Nikhil Pahlwa, fondatore di «Medianama», un sito d’informazione sul settore delle telecomunicazioni indiane, la minaccia principale sarebbe stata quella di rendere la compagnia di Menlo Park (Facebook) l’unica porta d’accesso al web per la gran parte dei cittadini indiani, che così avrebbero attinto prevalentemente alle informazioni disponibili nel social network per farsi delle opinioni sulla politica, l’economia e la società del proprio paese e del mondo intero.

False notizie, che costano

Non si tratta di riflessioni oziose tra addetti ai lavori, perché le conseguenze sono reali e riguardano la vita, e spesso la morte, di migliaia di persone. Sempre in India, nel novembre 2016, il governo di Navendra Modi ha deciso di mettere al bando, da un giorno all’altro, l’86% della carta moneta in circolazione come misura radicale contro la corruzione. Poche ore prima dell’annuncio ufficiale, la notizia del bando circolò a velocità vertiginosa su WhatsApp, il servizio di instant messaging di proprietà di Facebook, usato da 180 milioni di indiani, e sullo stesso Facebook, scatenando un vero e proprio assalto a banche e altri istituti finanziari per cambiare le banconote di piccolo taglio. Inoltre, secondo la voce che circolava sui social media, le nuove banconote da 500 e 2.000 rupie avrebbero contenuto un microchip per tracciarne i movimenti. La notizia era ovviamente falsa, ma aveva contribuito a seminare il panico e a rendere più frenetica la corsa all’accumulo di banconote di grosso taglio prima del passaggio al nuovo formato. Nella ressa, decine di persone hanno perso la vita.

Un effetto ancora più drammatico della diffusione di notizie false su Facebook si è verificato in Sud Sudan, il più giovane paese africano insanguinato da una guerra civile dal dicembre 2013. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato lo scorso novembre, «i social media sono stati usati dai sostenitori di tutte le fazioni, inclusi alcuni membri del governo, per esagerare incidenti, diffondere falsità e minacce o lanciare messaggi d’odio».

L’uso dei media per incitare alla violenza non è una novità: è nota l’esperienza di Radio Mille Colline, che contribuì attivamente ad aizzare estremisti Hutu nel 1994 in Rwanda contro i propri compatrioti di etnia Tutsi. E l’importanza delle notizie false come strumento di propaganda governativa per coalizzare le masse contro un nemico, o per inventare il nemico tout court, ha una lunga storia alle spalle. Certo, i social media consentono una circolazione più rapida e virale della propaganda, come il recente dibattito sulle fake news, esploso dopo la vittoria di Donald Trump alle ultime elezioni statunitensi, ha messo più volte in luce.

Visitatori al Africa Web Festival (AWF) in Abidjan il 29/11/2016. / AFP PHOTO / ISSOUF SANOGO

Cosa sono i Big Data?

Nella discussione sulla rivoluzione in atto nella comunicazione politica, resta sullo sfondo un elemento centrale. Facebook e altri social media consentono di identificare con estrema precisione gli individui non solo più recettivi nei confronti delle fake news, ma anche più autorevoli nella loro rete di contatti, cosicché una bufala rilanciata da loro ha maggiore credibilità. Tutto ciò è reso possibile dalla capacità di social media come Facebook di raccogliere una mole senza precedenti di informazioni personali, i cosiddetti Big Data.

Il tema dei Big Data sta suscitando l’entusiasmo di esperti di cooperazione per lo sviluppo e interventi umanitari, interessati al modo in cui le tecnologie digitali possono aumentare la precisione degli interventi e migliorarne l’efficienza. Meno discusso è il lato oscuro dei Big Data, ovvero quello che la matematica e attivista americana Cathy O’Neil chiama, nell’omonimo libro appena pubblicato, le Weapons of Math Destruction (armi di distruzione matematica, ndr), un gioco di parole sull’espressione Weapons of Mass Destruction, armi di distruzione di massa. Nel saggio della O’Neil le armi sono gli algoritmi usati per elaborare l’enorme quantità di dati prodotti dalle nostre comunicazioni sui social media, transazioni finanziarie e spostamenti fisici, per costruire dei profili che possono essere sfruttati per gli scopi più vari. Il mercato dei Big Data è particolarmente sofisticato negli Stati Uniti, dove sono usati per predire in quali aree urbane verranno commessi dei crimini, o il tasso di rischio per chi chiede un prestito, o il premio per un assicurato.

Cathy O’Neil sostiene che, attingendo alle reti sociali dei cittadini, questi servizi rischiano di cristallizzare delle disuguaglianze esistenti. Pertanto, una persona che proviene da un quartiere disagiato e ha amici o parenti con una storia di insolvenze alle spalle ha meno possibilità di ricevere un prestito e rischia di essere fermato e perquisito più spesso dalla polizia nella zona in cui vive. Anche nei paesi in via di sviluppo un numero crescente di fornitori di servizi finanziari sta usando dati estratti dai social media per stabilire il livello di rischio dei potenziali clienti: è il caso, ad esempio, di Branch e First Access, due fintech, ovvero compagnie finanziarie che usano tecnologie digitali, che offrono prestiti a centinaia di migliaia di utenti di denaro mobile (mobile money, vedi MC luglio, agosto-settembre e novembre 2014, ndr) in Kenya e Tanzania sulla base dei dati raccolti tra contatti telefonici e su Facebook.

Minaccia alla democrazia

Secondo Frank Pasquale, un giurista dell’Università del Maryland e autore di The Black Box Society, la fiducia cieca nei dati generati dall’uso di tecnologie digitali e soprattutto l’opacità dei meccanismi decisionali fondati sugli algoritmi, nasconde una minaccia al principio fondativo delle istituzioni democratiche, ovvero il «conoscere per deliberare». E qui, per chiudere il cerchio, conviene tornare ai social media, ai due maggiori terremoti politici del 2016, ovvero il referendum sul Brexit britannico e l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, e al filo rosso che lega questi due eventi.

Lo scorso dicembre, due giornalisti investigativi, Hannes Grassegger e Mikael Krogerus, hanno pubblicato sulla rivista svizzera Das Magazin il frutto di un’inchiesta durata diversi mesi che getta una luce inquietante sul modo in cui i Big Data estratti dai social media possono essere usati per individuare elettori tentennanti e condizionarli in una certa direzione. I due reporter hanno puntato la lente su un’agenzia con sede a Londra, la Cambridge Analytica, che ha prestato consulenza sia per Leave.EU, il fronte anti-europeista nel referendum del 23 giugno sulla permanenza britannica nell’Unione europea, che per la campagna elettorale di Trump nella corsa alla Casa Bianca. Cambridge Analytica appartiene al Scl (Strategic Communication Laboratories) Group, una società di comunicazione politica che ha seguito le campagne elettorali di partiti e movimenti politici in tutto il mondo, dalle elezioni in Sud Africa nel 1994 a quelle in Kenya nel 2013, passando da quelle in Ucraina nel 2004 a quelle in Romania nel 2008, incluso un progetto di ricerca condotto in Italia nel 2012 per un non specificato partito politico.

Identikit digitali

Guidata dal 41enne britannico Alexander James Ashburner Nix, la Cambridge Analytica è specializzata nella raccolta ed elaborazione di dati per «audience targeting», ovvero per identificare con la massima precisione i membri del corpo elettorale in modo da modulare messaggi politici che tocchino, per così dire, i tasti giusti. I social media offrono un enorme bacino di dati, e la potenza di calcolo degli strumenti a disposizione permette di trasformare questi dati in informazioni leggibili, stabilendo rilevanze statistiche. Ma ciò che trasforma queste informazioni in proiettili che colpiscono nel segno sono delle tecniche psicometriche ispirate alle ricerche di uno psicologo polacco dell’università di Cambridge, Michal Kosinski.

Durante i suoi studi nello Psychometric Centre dell’ateneo britannico, Kosinski si era occupato di ampliare le possibilità offerte da un modello per identificare diverse tipologie di personalità umana sviluppato negli anni ‘80, il cosiddetto modello Ocean, un acronimo dei termini che, in inglese, significano apertura (Openness), coscienziosità (Conscientiousness), estroversione (Extroversion), piacevolezza (Agreeableness) e nevrosi (Neuroticism). Secondo la teoria alla base di questo modello, la personalità di chiunque può essere ricondotta a una miscela, in parti diverse, di queste caratteristiche. Dopo aver messo a punto un test, MyPersonality App, per ricostruire le personalità dei partecipanti, Kosinski l’aveva condiviso su Facebook aspettandosi che poche decine di amici partecipassero al gioco. Aveva raccolto invece milioni di risposte.

Kosinski e il suo team di ricerca avevano lavorato su questa mole mastodontica di dati e, nel 2012, hanno pubblicato un articolo su un giornale accademico dimostrando che, conoscendo una media di 68 «mi piace» cliccati da utenti americani di Facebook, è possibile indovinare, al 95%, il colore della pelle e, all’85%, se il rispondente è democratico o repubblicano. Il ricercatore si spingeva fino al punto di affermare che conoscendo 70 «mi piace» di una persona la si conosce come se fosse un amico, con 150 come se fosse un figlio e con 300 come se fosse una moglie o un marito. Una disponibilità di oltre 300 «mi piace», elaborati secondo il modello Ocean, consente di conoscere l’utente più di quanto questo conosca se stesso.

Programmatori della start-up company Hacklab.in in Bangalore (India). / AFP PHOTO / Manjunath KIRAN

Big Data e politica

Secondo quanto riportato dai due giornalisti svizzeri, lo stesso giorno della pubblicazione dell’articolo Kosinski ha ricevuto una minaccia di denuncia e un’offerta di lavoro, entrambe da Facebook. Spaventato dai risultati della sua ricerca, e dalle sue implicazioni politiche, Kosinski però ha declinato l’offerta e, da quel momento, si è dedicato a mettere in guardia sull’impatto dei social media sul dibattito democratico, prevedendo il rischio che questa tecnica possa massimizzare l’influenza delle notizie false sui social media, marcando un pericoloso passaggio dal «conoscere per deliberare» al «conoscere per condizionare». Un incubo che è sembrato realizzarsi quando è emerso che Cambridge Analytica ha usato un metodo ispirato alla ricerca di Kosinski, e basato sull’applicazione del modello Ocean ai dati raccolti sui social media, sia per la campagna della Brexit che per quella di Trump. E che potrebbe rivelarsi molto più di una collaborazione una tantum: uno dei membri del consiglio di amministrazione di Cambridge Analytica è Stephen Bannon, ex direttore di Breitbart, il megafono della cosiddetta Alt-Right, la nuova estrema destra americana, stratega della vittoriosa campagna di Donald Trump e tuttora braccio destro dell’inquilino della Casa Bianca.

La tecnica, usata per la prima volta nel referendum britannico e nelle elezioni americane potrebbe trovare presto applicazione altrove. E potrebbe essere migliorata da agenzie concorrenti. Una delle più avanzate e opache compagnie che operano nel campo dei Big Data applicati alla comunicazione politica e alla raccolta d’intelligence è la Palantir Technologies, creata nel 2004 da Peter Thiel, miliardario tedesco-americano già fondatore di PayPal, il gigante dei pagamenti online nel 1999, e tra i primi a credere in Facebook, di cui tuttora detiene cinque milioni di azioni e siede nel consiglio d’amministrazione. Thiel, a differenza della grande maggioranza degli imprenditori della Silicon Valley, ha preso pubblicamente posizione a sostegno di Trump. La sua Palantir si occupa di analisi di antiterrorismo per il Dipartimento americano della difesa e per altre agenzie di spionaggio e attinge, tra gli altri, ai dati generati dalle comunicazioni sui social media.

Un semplice «mi piace» non dirà poi tanto, ma centinaia possono fornire un profilo completo. Un click non costa nulla ma, come nel famoso slogan forgiato dal video-artista Richard Serra nel 1973 e diventato popolare negli anni ‘90, «Se qualcosa è gratis, vuol dire che il prodotto sei tu».

Gianluca Iazzolino

 




Colombia: Giardini pensili


Alla scoperta delle bellezze di una natura ancora incontaminata e sempre capace di sorprendere, nello scenario dei grandi fiumi che dalle Ande colombiane scendono a confluire nel grande Rio delle Amazzoni.

Ricevo un’offerta che non posso rifiutare. «Andiamo in Colombia?». Ma dai! Quasi non ci credo. Subito penso che padre Angelo (Dutto) mi stia prendendo in giro perché conosce i miei interessi per lo studio degli insetti e la mia passione per le foreste tropicali. Ma il tono è serio e poi so che lui da sempre ci tiene a conoscere quella fetta di Sudamerica dopo quarant’anni passati in Africa orientale. Anzi, per la verità il Sudamerica era stata la sua prima scelta quando gli avevano domandato dove avesse voluto andare dopo l’ordinazione.

«D’accordo, ma purché si vada in Amazzonia», rispondo io. È la parte più «selvaggia» di quelle terre, ancora ricca di foreste percorse dai grandi corsi d’acqua che alimentano il re dei fiumi: il Rio delle Amazzoni.

Conosco padre Angelo da almeno una trentina di anni, da quando, missionario in Tanzania, sugli altopiani amati da Livingstone e da Hemingway, mi ospitava e prendeva parte attiva alle mie ricerche di entomologia. Ora è tornato a Torino ed è uno dei responsabili del Museo etnografico e di scienze naturali dei missionari della Consolata.

Trovato il volo che fa per noi, ci dividiamo la logistica: a me la parte tecnica, a lui il contatto con i colleghi missionari di quei luoghi. Come meta si sceglie Puerto Leguìzamo, cittadina ai confini col Perù posta sul fiume Putumayo, raggiungibile solo con piroga o con piccoli aerei. Saremo accolti nella casa del vescovo e qui troveremo, grazie all’appoggio di colleghi naturalisti, un aiuto insperato nella persona di un’ornitologa locale di nome Flor, una rarità per quelle latitudini.

A Bogotá arriviamo ai primi di ottobre, ospiti della casa regionale dei missionari nel quartiere di Modelia. I 2.600 metri di altitudine si fanno sentire con una leggera emicrania che però passa presto. Il tempo di prendere fiato e già siamo di nuovo in volo per Florencia, una cittadina ai piedi delle Ande. È una soluzione di ripiego: i voli diretti per Puerto Leguìzamo sono al momento indisponibili e questa è la sola possibilità; da qui con un secondo volo potremo raggiungere l’Amazzonia. Come sempre siamo accolti a braccia aperte. Sorvolate le Ande ci troviamo a fare i primi incontri con la natura lussureggiante dei tropici.

Non è vero che i giardini pensili li hanno inventati i babilonesi. Sono creazioni degli alberi. Questi giganti che trovi nelle foreste sudamericane ospitano una quantità tale di epifite che non finiscono mai di stupirci: dagli umili muschi, ai licheni, alle felci, ai cactus, a decine di bromelie per giungere a orchidee dalle forme e dai colori che solo l’illimitata fantasia della natura può creare. Ogni albero è una serra che ospita decine di specie vegetali in continua eterna competizione, lottando per sfruttare le posizioni migliori di luce, umidità e temperatura. Ogni centimetro di corteccia è un piccolo mondo adatto a essere colonizzato dal più forte o da quello che meglio si sa adattare alle peculiari condizioni microclimatiche. Ogni specie ha il suo spazio preferenziale adatto alle proprie esigenze e grazie al quale riesce a prendere il sopravvento sulle specie rivali. A una osservazione superficiale sembra una disposizione caotica e disordinata, ma in realtà nulla è lasciato al caso, come una rigorosa scacchiera.

Sul fiume Putumayo. «Vedi Napoli e poi muori», recita un detto. Bisognerebbe dire «vedi i fiumi del bacino amazzonico e poi muori». Almeno per i naturalisti come noi. La grandiosità dello spettacolo che offrono è da mozzafiato. Viaggiare ore su una piroga con la foresta che fa da muro e a volte da tetto, fra stormi di pappagalli multicolori e chiassosi, tucani dai becchi enormi, farfalle dai colori impossibili, scorgendo la sagoma di qualche scimmia, su acque perennemente limacciose da cui puoi aspettarti di vedere emergere per pochi istanti la sagoma di un delfino rosa, è bellissimo. Dalla riva, dove si scorgono piccoli nuclei di capanne o isolate palafitte, pescatori ti guardano passare indifferenti, concentrati a lanciare le reti a sparviero con cui traggono a riva pesci dalle forme e dalle livree impensabili.

Sono le quattro del pomeriggio e il sole comincia a rifiatare dandomi un po’ di tregua. Il fiume è immobile. Calma piatta. Nemmeno gli uccelli si fanno sentire. La lenza penzola inerte dalla canoa. Se continua così stasera a cena si tira la cinghia. All’improvviso uno sciacquio: un branco di pesci schizza fuori dall’acqua. Sembrano impazziti. Pochi istanti e ne capisco la ragione: le inia sono in caccia! Eccoli finalmente i delfini rosa delle Amazzoni! Cominciavo a pensare di non poterli osservare. Sono almeno quattro, usano la stessa tattica delle balene con le sardine e con manovre circolari spingono i pesci a formare un branco nel quale entrare poi a turno per fare man bassa. Sono tranquilli. La calma della sera mi ha favorito. Ogni tanto emergono per respirare e Angelo ha la possibilità di scattare qualche difficile foto. Non li vedo saltare come i fratelli del mare, ma scivolano invisibili sotto la superficie, favoriti dalle acque perennemente torbide.

Uno strattone secco alla lenza. Ha abboccato finalmente. Emerge dall’acqua fangosa un figuro dai bargigli lunghissimi, un pesce gatto armato di spine pettorali e dorsali taglienti come rasoi. So che devo stare attento a slamarlo per non ferirmi. Inutile: come lo sfioro mi frega. Lo adagio sul fondo della canoa e non credo alle mie orecchie: parla! Emette suoni gutturali, una sorta di singhiozzo ripetuto forte e ben udibile. A vedere il mio stupore Flor si mette a ridere: «Los peces de aca, hablan, bailan y toman», «i nostri pesci parlano, ballano e bevono». Vengo così a sapere che questa non è un’eccezione, che l’enorme variegato siete-babas fa altrettanto. Giuro che non userò mai più l’espressione «muto come un pesce».

Oggi ho tempo, ho finito con gli insetti e mi viene di tentare i piraña. Il ragazzo della finca (fattoria) mi indica l’ansa giusta dove posso trovarli, mi procuro un pugno di carne e getto l’amo. Non devo attendere molto. Uno strattone e recupero il filo. Strano. È pesante, si sente che c’è qualcosa attaccato, ma si lascia trascinare inerte. Stai a vedere che ho pescato il classico scarpone. Con mia grande sorpresa emerge invece un granchio rosso. È enorme, trattiene nella chela più grande il mio pezzo di carne e pare non abbia alcuna intenzione di mollarlo. Anzi pare voglia sfidarmi ruotando la seconda chela. Cerco di convincerlo con le buone a mollare la presa e alla fine cede. Non sarà l’unico, praticamente non mi lasceranno portare a casa la cena: all’esca arrivano prima loro dei voraci piraña.

È tardi, mi rendo conto che tra meno di mezz’ora sarà buio e viaggiare sul fiume a notte fonda non è prudente. I grossi tronchi galleggianti trascinati dalla corrente possono sfondare una piccola imbarcazione come la nostra. Ma c’è troppo da fare e da vedere e da imparare. Quando il marito di Flor accende il motore della piroga la notte ci ha già sorpresi. Strano però, anche col buio siamo circondati da decine di uccelli in volo. No, non sono uccelli ma pipistrelli! Cacciano a fior d’acqua, agilissimi e silenziosi, con un volo vellutato. Sono di medie dimensioni, e la loro taglia mi fa pensare che la loro dieta non sia solo a base di insetti, ma anche di piccoli pesci e questa spiega la loro massiccia presenza sul fiume.

Certe cose si avvertono subito a pelle. È un tipo squinternato padre José Fernando (Florez Arias di Puerto Leguízamo), ma quando lo vedo arrivare di corsa in maglietta sudata, sporca quasi quanto la mia, stivaloni infangati, barba trascurata mi è subito simpatico. Capelli lunghi, occhi neri e penetranti, fisico atletico, avrà sì e no quarant’anni. Non fa complimenti ma col suo atteggiamento ti fa sentire subito a tuo agio. È un missionario da avamposti persi nella foresta, uno con gli attributi insomma. Sta preparando le provviste per ritornare alla comunità in cui vive, a un paio di ore di piroga a motore, sulla sponda opposta del fiume Putumayo, in Perù. In questi posti la frontiera esiste solo sulle mappe e la gente passa il confine senza problemi. Ci propone di andare con lui e ovviamente accettiamo. Il posto per un naturalista come me è incantevole, c’è la foresta a un tiro di schioppo, ma non è certo l’ideale per chi ama le comodità. Vive in due stanzette di pochi metri quadrati con l’indispensabile per sopravvivere: un letto con zanzariera, un fornello per cucinare e far bollire l’acqua da bere, una biblioteca tascabile, un lavabo, un servizio igienico. L’unica cosa grande è la chiesa, quella sì, in grado di accogliere una quarantina di fedeli: nessun banco ovviamente, solo sedie. Ma qui si trasforma, sembra un’altra persona e assume un carisma insospettato che catalizza il rispetto dei fedeli presenti. Inutile aggiungere che la messa domenicale diventerà una celebrazione commovente. Solo chi le ha vissute può comprenderne l’intensità emotiva.

Gianfranco Curletti*
* Curatore entomologico del Museo di Carmagnola (Torino).

_______________

I due viaggiatori ringraziano il vescovo del vicariato di San Vicente del Caguán, mons. Francisco Múnera, e quello del vicariato di Puerto Leguízamo, mons. Joaquín Pinzón, nonché tutti i padri che ci hanno aiutati nella ricerca entomologica, in particolare Rino Delaidotti a Solano. Per curiosità, la spedizione ha portato alla scoperta di nuove specie di insetti che saranno oggetto di pubblicazioni scientifiche. Ma questa è un’altra storia.

 




Liberia: Angeli contro il virus

Presenti nel paese dal 1963 le missionarie della Consolata hanno rappresentato un baluardo contro l’epidemia di ebola. Con umiltà e coraggio hanno curato le persone colpite dal virus e sensibilizzato la popolazione per ridurre l’espandersi della malattia. Oggi si prendono cura degli orfani. Ecco il racconto di quei giorni terribili.

Monrovia. Determinate, allegre e sempre indaffarate, Anna Rita, Annella, Eugenia e Clotilde sono le suore italiane della Consolata in missione in Liberia, piccola nazione dell’Africa occidentale. Insieme a loro Abela, dalla Tanzania, e Lucy, liberiana. Una dopo l’altra arrivate nel paese negli anni Sessanta, hanno vissuto due guerre civili (1989-1995 e 1999-2003) e non si sono fermate nemmeno quando il virus ebola, nel 2014, ha iniziato a mietere vittime con una facilità e una rapidità disarmanti.

Tra i 70 e gli 80 anni, vere forze della natura, sono sempre al servizio della comunità e anche in quel difficile, lungo periodo dell’epidemia non si sono risparmiate schierandosi in prima linea.

Fino a poco tempo fa impegnate anche a Ganta, città del Nord al confine con la Guinea, in un centro in cui vengono curate lebbra e tubercolosi, oggi le missionarie sono divise tra Buchanan, cittadina a Sud di Monrovia dove gestiscono una scuola frequentata da oltre 1.000 bambini, e la contea di Harbel, a 80 km dalla capitale, nei pressi dell’aeroporto.

«È stato un periodo tremendo quello dell’ebola: la malattia ha colpito tutte e tre le zone dove noi eravamo e siamo operative. Ogni giorno vedevamo morire persone che conoscevamo bene. A volte mi sono sentita impotente, ma ho sempre pensato che dovevo fare tutto ciò che era in mio potere per aiutare la mia comunità», ricorda con voce pacata suor Anna Rita Brustia, mescolando italiano e inglese in pieno stile liberiano. «Il governo e il sistema sanitario non erano pronti per gestire l’emergenza e le persone non erano informate: la cosa più difficile è stata far comprendere agli abitanti del posto che dovevano adottare alcune misure di sicurezza», precisa suor Annella Gianoglio (si veda MC novembre 2014).

Lavoro di squadra

Così le suore della Consolata hanno formato una squadra di 70 volontari incaricati di andare nei villaggi per sensibilizzare le persone circa le norme di igiene da rispettare, oltre che per verificare se c’erano casi sospetti da trasportare nei centri di trattamento istituiti dall’Ong Medici Senza Frontiere. «Li chiamavamo Health social mobilizers ed erano le persone che frequentavano il nostro corso di animazione pastorale durante il quale facevamo, insieme a due Health promoters (promotori di salute, ndr), sensibilizzazione contro l’Hiv. Non appena si sono palesati i primi casi di ebola nella nostra zona, abbiamo trasformato il gruppo per lottare contro il virus. Abbiamo iniziato a lavorare in questo senso ancora prima che il governo e l’Organizzazione mondiale della sanità dichiarassero l’emergenza e, quindi, in largo anticipo rispetto alle varie Ong che sono poi arrivate», racconta suor Anna Rita con umiltà.

A farle eco suor Eugenia Tappi che ammette: «Siamo state delle miracolate, me ne rendo conto solo ora. In quel periodo pensavo solo a ciò che dovevo fare giorno per giorno». «Setacciavamo quotidianamente i villaggi e se c’era qualche persona con sintomi sospetti mostravamo ai famigliari le precauzioni da seguire e poi lo segnalavamo alle sorelle», le fa eco Emmanuel Crusol, liberiano, capo squadra dei Social mobilizers.

Lavarsi le mani di continuo, non stringersele, non avere contatti, non frequentare luoghi affollati, a messa sedersi a una distanza di un metro l’uno dall’altra: l’indottrinamento promosso dalle missionarie della Consolata è stato costante. Ancora oggi, sia nel giardino della scuola di Buchanan sia davanti alla chiesetta che sorge accanto alla struttura dove vivono le sorelle, presso Harbel, vi è un grande bidone colmo di acqua clorata (con candeggina). «Molte persone si lavano ancora le mani prima di entrare in chiesa e altri faticano a stringersele: la paura persiste», dice suor Anna Rita.

Un mondo di orfani

Oltre alla paura, però, l’ebola ha lasciato anche un numero spaventoso di orfani: «Solo nella contea di Harbel ce ne sono 614. Appena finita l’emergenza erano 616 ma poi due sono morti. Chi ha perso solo la madre, chi il padre, chi entrambi. In ogni caso si tratta di vite spezzate», continua la missionaria interrompendosi in una breve pausa. A colmare il silenzio ci pensa suor Eugenia: «Noi ci prendiamo cura di loro, sfruttando al massimo i pochi mezzi che abbiamo. Per esempio aiutiamo le famiglie che li hanno presi in carico a pagare le rette scolastiche per offrire loro la possibilità di un futuro migliore». In Liberia, come in molti altri paesi africani, non esiste infatti la cultura dell’orfanotrofio: a preoccuparsi dei bambini che rimangono senza genitori ci pensano i parenti. Così si creano famiglie enormi, difficili da gestire.

«Mia sorella è morta dopo aver contratto l’ebola, i suoi due figli ora vivono con me e i miei tre bambini. Cerco di crescerli al meglio, dando loro dei pasti ogni giorno. Non riesco a pagare la scuola per tutti, è impossibile. Anche perché qui in Liberia la vita è davvero cara dal momento che quasi tutti i beni di prima necessità vengono importati», racconta un uomo che vive e lavora ad Harbel.

Ci sono anche famiglie, però, che rifiutano i piccoli rimasti orfani perché portano con sé lo stigma del virus. «Andiamo nelle case e cerchiamo di far comprendere alle persone che questi bambini sono come tutti gli altri, hanno solo più bisogno perché rimasti soli. Facciamo sensibilizzazione. Adesso, per fortuna, iniziamo a vedere qualche risultato, complice il passare del tempo che fa sentire sempre più lontano quel terribile periodo», spiega Anna Rita minimizzando sempre ciò che fa.

«Portiamo avanti un lavoro che abbiamo cominciato all’apice dell’epidemia», interviene suor Annella, di poche parole ma molto precisa. In quel momento di estrema emergenza era infatti fondamentale cercare di soddisfare i bisogni primari delle persone: tutto era bloccato, molte aziende chiuse, importazioni ferme, attività rallentate. «La gente non riusciva a procurarsi il cibo, anche perché molte persone avevano dovuto abbandonare il lavoro, così, oltre alla scarsa disponibilità di prodotti, a mancare erano anche i soldi. Inoltre i bambini che man mano perdevano i genitori erano allo sbaraglio», continua.

Fame ed emarginazione

La meticolosità delle suore nell’organizzare gli interventi ha permesso loro di salvare la vita a molte persone. A testimoniarlo il registro con l’elenco di tutti gli orfani di Harbel sul quale al tempo segnavano con attenzione la quantità di cibo fornita a ciascuno con accanto la firma della persona che li aveva presi in carico. «A cornordinarci c’era sister Maria Teresa Moser che ora purtroppo è dovuta rimpatriare a causa di problemi di salute. Siamo perfettamente consapevoli che donare il cibo non sia il modo giusto per risolvere i problemi di queste persone. In una situazione come quella però se non l’avessimo fatto, oltre alle vittime dell’ebola ci sarebbero stati anche tanti morti di fame», riprende suor Anna Rita.

Nel dicembre del 2015 le missionarie si sono preoccupate di registrare i 614 orfani al governo: «Noi continuiamo a fare ciò che possiamo ma le autorità devono attuare un intervento radicale dall’alto per sostenere questi ragazzi. A gestire la situazione dovrebbe essere il ministro delle Pari opportunità, ma per ora ha fatto poco o nulla», afferma con sconforto Eugenia.

«I nostri fondi ci permettono di aiutare economicamente solo poche famiglie. Ad alcuni bambini che frequentano la scuola a Buchanan non facciamo pagare le rette», spiega suor Clotilde mentre si avvicina a Patience, studentessa di 13 anni intenta a giocare con gli altri ragazzi durante l’intervallo. «Mio papà era un muratore, ha preso l’ebola e si è ammalato. Adesso vivo con mia mamma e i miei cinque fratelli. Mangiamo una volta al giorno, però possiamo frequentare la scuola perché le suore ci aiutano. Mi piace venire a lezione. Quando durante l’epidemia l’istituto è rimasto chiuso io mi sentivo molto triste», dice con maturità.

Ci sono anche ragazzi che sono stati abbandonati dai genitori: «Le persone che hanno contratto il virus e sono sopravvissute sono state emarginate dalla comunità, la paura era troppo forte», spiega Annella che viene interrotta da Clotilde: «Mi ricordo di un padre che portava i figli nella nostra scuola. Era un sopravvissuto. A un certo punto però è sparito. Dicono che sia scappato nella foresta perché non sosteneva più l’isolamento». A conferma di quanto raccontano le missionarie, vi è la testimonianza di Lela Glay, 45 anni, sguardo spento: «Ho contratto l’ebola andando a trovare un mio caro che si era ammalato. Da quel momento è stato l’inferno. Sono sopravvissuta ma i problemi non sono finiti: prima sono stata a lungo emarginata da amici e parenti, ora mi trovo a fare i conti con le conseguenze fisiche lasciate dal virus. Ho fortissimi dolori alle giunture che non mi permettono più di lavorare». Così anche lei è stata presa sotto l’ala dalle missionarie della Consolata.

Lo sguardo al futuro

Suor Anna Rita e le altre fanno parte della storia del paese e non smettono di guardare avanti. «Nel caso ci fosse una nuova epidemia il governo e il sistema sanitario sarebbero pronti a intervenire tempestivamente. Lo abbiamo già provato: dichiarata ebola free l’11 maggio 2015, i due casi che ci sono stati successivamente sono stati isolati immediatamente. Noi continuiamo a sensibilizzare le persone anche perché ci sono convinzioni popolari che rappresentano un ostacolo: come la credenza che all’origine della malattia ci sia il malocchio, giu giu, in lingua locale».

Oltre ai drammi lasciati dall’ebola, le suore affrontano i problemi di sempre. Come la situazione degli insegnanti: «Hanno stipendi molto bassi e fanno fatica a vivere. La corruzione così dilaga anche nelle scuole: i genitori li pagano per promuovere i propri figli e i maestri a volte accettano, così arrotondano. Noi cerchiamo di far fronte a questo problema, nei limiti del possibile», spiega Clotilde mentre richiama i bambini all’ordine.

Così, anno dopo anno, le suore missionarie della Consolata sono diventate un po’ liberiane anche loro e, soprattutto, sono divenute il punto di riferimento della comunità.

Valentina Giulia Milani




Cooperazione: I muri che uniscono


Oltre 20 anni fa un professore universitario capisce l’importanza del diritto alla casa. Da quel giorno mette le sue energie e la sua intelligenza al servizio dei baraccati. Inventa una tecnica costruttiva semplice ed efficace. Riproducibile da chiunque. Oggi, dopo la sua scomparsa, la sua famiglia e i suoi allievi continuano la sua opera. Perché tanto resta ancora da fare.

Gourcy, Nord del Burkina Faso. Dopo una giornata di lavoro e incontri arriviamo all’Auberge Cites. Una piccola oasi di buganville rosse, fucsia e arancioni nel secco e giallo panorama saheliano. Pur essendo fine novembre, quest’anno le temperature sono ancora elevate. Sarà a causa del cambiamento climatico, dicono i Burkinabè. Siamo sudati e coperti di polvere, situazione piuttosto tipica da queste parti. Scesi dall’auto vediamo subito due «nassara» («bianchi» in lingua moore), in maglietta e pantaloncini, piuttosto accaldati, seduti a un tavolino a sorseggiare una bevanda. Ci presentiamo. Sono la professoressa Gloria Pasero Mattone e suo figlio, Massimiliano Mattone. Vengono da Torino, sono a Gourcy per una missione nell’ambito della loro associazione, «Mattone su Mattone onlus». Sebbene avessimo già sentito parlare di loro, è la prima volta che li incontriamo. Subito la conversazione si fa interessante.

«L’attività che stiamo svolgendo qui rappresenta, in un certo senso, l’attività che mio marito Roberto Mattone, docente al Politecnico di Torino, scomparso sette anni fa, aveva iniziato proprio in Burkina Faso, a Nanorò, con la costruzione di un mercato coperto». Dopo una breve pausa, che tradisce una certa emozione nel parlare del compagno di una vita, la professoressa, ormai in pensione, prosegue: «Dopo la scomparsa del professore, questo sistema costruttivo che lui aveva messo a punto, facile, innovativo, sostenibile per quanto concerne l’uso dei materiali, facilmente appropriabile da chi non è muratore, è stato diffuso in altri paesi dell’Africa e dell’America Latina». Continua: «Recentemente è nata una proposta del comune di Grugliasco (To) per collaborare a questo progetto e con grande entusiasmo l’associazione ha aderito alla richiesta». Gloria Pasero, anch’essa alla facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, oltre ad essere docente e moglie, è stata l’assistente del professor Roberto Mattone per molti anni.

Così, dopo il tramonto, nella penombra, con il placarsi del caldo torrido e il sopraggiungere delle zanzare, tra un blackout elettrico e l’altro, Gloria e Massimiliano ci raccontano l’incredibile storia del «blocco Mattone».

L’idea di Mattone

Il professor Roberto Mattone, architetto, da sempre è attratto dalle tecnologie per costruzione cosiddette «povere», che utilizzano i materiali locali. Ha lavorato, tra l’altro, con il gesso, le fibre di sisal, il ferrocemento. Negli anni ’80 a Torino c’era la scuola del professor Giorgio Ceragioli che aveva creato una grande sensibilità sull’habitat adattato ai paesi in via di sviluppo. «L’attività di Roberto era autonoma, ma certo si è inserita in questa corrente di pensiero e di lavoro» ricorda la professoressa. Roberto Mattone inizia a occuparsi di costruzioni in «terra cruda» all’inizio degli anni ’90. Si reca in Brasile e le condizioni di vita nelle favelas lo colpiscono particolarmente. Il professore ha ottenuto un finanziamento dal Cnr (Consiglio Nazionale della Ricerca) per una ricerca dal titolo: «Abitazioni a basso costo nei paesi in via di sviluppo». Lo studio si svolge in partenariato con il professor Normando Perazzo Barbosa dell’Universidade Federal da Paraíba a João Pessoa. «Una realtà, quella delle favelas – ricorda la professoressa – che dopo 25 anni in alcuni casi non è cambiata di molto, come ho potuto constatare personalmente».

Il primo passo è quello di individuare il materiale da utilizzare: «Il più diffuso era la terra. Gli abitanti erano però molto scettici, perché terra significa povertà. Loro volevano i blocchi di cemento». In Brasile, soprattutto nel Nord Est si utilizza terra e fango su intelaiature di bastoni per fare delle casupole molto precarie e malsane, tipiche degli strati sociali più poveri. Sistema costruttivo chiamato «Taipa».

Innovazione «povera»

Il professore, con la sua ricerca, inizia a produrre mattoni in terra cruda stabilizzati con l’aggiunta di cemento e compattati con presse manuali. Ma non basta. Modifica la forma del blocco parallelepipedo convenzionale, facendone una specie di grande Lego, il gioco di costruzioni. «Il blocco fu dotato di risalti e riscontri che servono a facilitare la posa dei mattoni per fare i muri solidi senza bisogno di particolari strumenti o competenze», spiega Massimiliano. I favelados della zona in cui Roberto Mattone lavora, sono tagliatori di canna da zucchero e nulla sanno di costruzioni: impossibile trasformarli in muratori, occorre un sistema costruttivo particolarmente semplice. «Il blocco opportunamente modificato si posa facilmente per erigere muri, senza l’uso della cazzuola o del filo a piombo. Inoltre c’è bisogno di pochissimo legante tra un blocco e l’altro (circa 3 mm), mentre per i blocchi di cemento ne vengono usati 2,5 centimetri. E questo, oltre a semplificare, riduce notevolmente i costi».

Roberto Mattone adotta una pressa manuale, che modifica opportunamente in laboratorio e convince la casa costruttrice, la Altech francese, a farne una produzione. Recentemente i professori del Politecnico di Torino Giuseppe Quaglia, Walter Franco e Carlo Ferraresi, in collaborazione con l’ingegner Matteo Asteggiano, hanno realizzato una nuova pressa, che è quella attualmente usata nei progetti dell’associazione.

I materiali, il tipo di terra e stabilizzazione, le forme dei blocchi sono testati e migliorati da Roberto Mattone in un laboratorio allestito in facoltà, che diventa un luogo di formazione di generazioni di studenti, alcuni dei quali seguiranno le orme del professore e sono oggi membri dell’associazione. «Roberto – continua Gloria Pasero – era riuscito a raggiungere un obiettivo ottimale: quello di coniugare la ricerca scientifica con la solidarietà». Nasce così il «blocco Mattone – Politecnico di Torino».

La casa auto costruita

Costruire la propria casa, sulla propria terra, con la terra stessa diventa un mezzo di riscatto e di dignità per i più poveri ed emarginati. Il primo luogo in cui viene sperimentato il blocco è la favela Cuba da Baixo a Sapé, nello stato di Paraiba, in Brasile. È il 1995. Per Roberto Mattone «non bastava mandare l’attrezzatura e un manuale d’istruzioni». Si tratta di gente demotivata, rassegnata. Avranno voglia, riusciranno? È il dubbio che lo assale.

«Allora insisteva sul fatto che bisogna andare sul posto, condividere il lavoro con loro, cogliere i loro dubbi, lavorare con loro. Dimostrare che le cose che si propongono sono valide e alla loro portata, lasciarlo verificare dalla gente, in una dinamica di “appropriazione” della tecnica da parte degli abitanti-costruttori stessi. Fu così che i poveri di Cuba da Baixo videro che i mattoni non si scioglievano in acqua e che i muri eretti erano resistenti come quelli in cemento».

Lavoro sul campo

Massimiliano e sua madre sono in Burkina Faso per questo. Ci invitano il giorno successivo a visitare il cantiere dove stanno insegnando a un gruppo di giovani burkinabè a fabbricare il blocco Mattone. Una decina di giovani sono ormai abili nella produzione di mattoni stabilizzati. Dopo aver preparato con cura l’impasto di terra ricavata non lontano, con    5-10% di cemento, la miscela viene messa nella pressa. Con un semplice movimento di una persona sulla leva il blocco in terra cruda è prodotto. Subito viene testato con una pressione manuale e se ha difetti costruttivi o di solidità viene scartato. In caso contrario è riposto con cura in fila su dei teli di plastica stesi a terra, a «maturare». Qui i blocchi sono innaffiati periodicamente e devono passare almeno quattro settimane prima che siano pronti all’uso. I ragazzi sono molto contenti e sfornano un mattone dopo l’altro. Moussa Konkobo è uno dei giovani coinvolti: «Sono muratore e durante questa formazione posso dire che abbiamo imparato a fabbricare questo tipo di blocco. Abbiamo mischiato terra e sabbia con cemento e poi ci hanno insegnato a utilizzare la pressa. Costruiremo una piccola casa di prova con questi blocchi».

Anche la scelta della terra è stata fatta in modo scientifico. «Abbiamo chiesto a increduli cooperanti e missionari in viaggio tra Burkina e Italia di mettere in valigia campioni di terra, in modo da poterli verificare prima di affrontare noi il viaggio». Racconta Massimiliano. «Abbiamo così potuto fare diversi test in laboratorio in Italia, per misurare se la terra era adatta. Solo dopo questa certezza si può andare avanti con il progetto formativo». È una procedura che l’associazione adotta sempre: in queste settimane sono sotto test a Torino alcuni campioni di terra di Capo Verde.

Solidarietà senza confini

«L’interesse nel migliorare le condizioni di vita della gente era dentro di lui da sempre. Il mattone è poi stato ideato grazie alla ricerca in Brasile». Ricorda ancora Gloria Pasero parlando del marito. «Portare avanti questa scelta ha voluto dire penalizzare la carriera. Questa si faceva puntando su temi high tech. Lui era motivato da altre considerazioni: la solidarietà, la spinta umanitaria».

Questa esperienza di auto costruzione di case a basso costo per migliorare le condizioni di vita dei più poveri ha una potenzialità dirompente nel mondo di oggi, proprio a causa della vastità dei bisogni in termini di habitat.

Dopo la prima esperienza in Brasile il professore non si ferma. Entra nel giro degli accademici che si occupano di terra cruda, in Brasile e non solo. Il blocco Mattone viene «esportato» in altri paesi e continenti. «Mio marito impostò un analogo progetto con l’Università Tecnologica Nazionale Argentina, a Santa Fé».

I coniugi Mattone sono proprio in Argentina per predisporre le attività, quando, nel 2008, il professore muore improvvisamente. È un fulmine a ciel sereno. Un dramma. Gloria Mattone capisce che il suo compito è quello di continuare la missione del marito. Si fa forza, esce dalle retrovie e diventa la protagonista. Sempre con molta umiltà. Il 23 marzo 2009, a sei mesi esatti dalla scomparsa di Roberto Mattone, nasce l’associazione «Mattone su Mattone onlus», creata da famigliari, amici e colleghi dell’architetto.

«Al Politecnico non c’era nessuno che aveva seguito queste cose», ci racconta la professoressa. «Il rettore di allora mi invitava ad andare avanti per continuare l’attività di Roberto».

Il blocco Mattone, grazie all’associazione, approda così in Senegal, Tanzania, Etiopia, Costa d’Avorio e poi in Burkina Faso. Oggi sono arrivate richieste da Messico e Repubblica Democratica del Congo, mentre Capo Verde è già in fase di studio.

Puntare all’autonomia

«L’obiettivo quando si inizia in un paese è la riproducibilità dell’esperienza – spiega Massimiliano – una volta fatta la formazione pratica e acquisita la pressa, un’associazione locale, una cornoperativa o una piccola impresa, può diventare produttrice di bocchi stabilizzati in totale autonomia e diffonderne le tecniche costruttrici».

È anche una possibilità di creazione di impiego per giovani in Africa. Proprio per questo, recentemente, la formazione e la pressa sono stati inseriti in un progetto della Regione Piemonte finanziato dal ministero dell’Interno italiano in Senegal.

Il progetto che visitiamo oggi in Burkina Faso fa parte di un altro programma di cooperazione più vasto che coinvolge oltre al comune di Gourcy, il comune di Grugliasco (To), il Coordinamento dei comuni per la pace della provincia di Torino (Cocopa) e l’Ong Cisv. In alternativa a progetti più strutturati l’associazione cerca i fondi per i propri interventi con i sistemi classici: il 5×1000, la promozione o la vendita di manufatti da parte di soci volontari. Se non ci sono finanziamenti esterni l’associazione prende in carico tutte le spese vive, e i volontari non hanno mai alcun compenso, ma offrono il loro lavoro gratuitamente.

Sono molte le sollecitazioni che arrivano, anche grazie all’uso di internet e dei social. «Ci contattano, chiedono, interagiscono. E talvolta stabiliamo così nuove collaborazioni», racconta Massimiliano. «C’è molto interesse». Lui, che di professione fa il restauratore, dedica molto del suo tempo all’associazione come volontario, con l’idea che, in qualche modo «sia un dovere ereditario». Anche le sorelle Manuela e Monica sono coinvolte così come altri membri dell’associazione.

Mentre scriviamo la professoressa Pasero e suo figlio Massimiliano sono tornati in Burkina, per insegnare ai giovani la posa del blocco Mattone per la costruzione di un’abitazione.

Averli incontrati ci ha ricordato che la solidarietà autentica è ancora possibile, e prende svariate forme, come quella di trasmettere una conoscenza per promuovere diritti e dignità.

Marco Bello