Mali: il conflitto nel paese saheliano cambia velocità


In Mali si vive una guerra a «bassa intensità» dal 2012. L’avanzata dei gruppi fondamentalisti islamici è bloccata dall’intervento militare francese. L’Onu registra una delle missioni con maggiori perdite umane della sua storia. Gli accordi di pace firmati nel 2015 sono «parziali» e la loro applicazione è complessa. E da alcuni mesi il conflitto sta assumendo pericolose connotazioni etniche. Mentre il Daesh «apre» ufficialmente nel Sahara.

Bamako. Il traffico della capitale del Mali è simile a quello di molte grandi città saheliane. Le auto
si bloccano in lunghe file ai semafori, mentre le moto passano in ogni possibile breccia. Qui il grande fiume Niger da un lato e la collina di Kouluba dall’altro strozzano il centro città, costringendolo a svilupparsi nel senso della lunghezza. Dall’altra parte del fiume, i quartieri dormitorio. Si passa tramite tre ponti, chiamati comunemente primo, secondo e terzo ponte: i colli di bottiglia naturali di questa città che vede la sua popolazione riversarsi sul lato sinistro al mattino e tornare sul lato destro alla sera. Anche i frequenti controlli della polizia creano rallentamenti. Verificano la circolazione di armi, ma normalmente è sufficiente aprire il vano del cruscotto per soddisfare il frettoloso poliziotto.

Tutto tranquillo, dunque, in una grande città che pulsa con i suoi oltre due milioni di abitanti e temperature che ad aprile raggiungono i 47 gradi.

Ma non c’è più la serenità di un tempo. Gli abitanti di Bamako si ricordano quel 20 novembre 2015 in cui un commando di jihadisti si è materializzato dal nulla e ha preso in ostaggio clienti e lavoratori dell’Hotel Radisson Blu. L’attacco ha lasciato sul terreno 22 vittime innocenti. Quel giorno la città si è ricordata di essere la capitale di un paese in guerra, peggio, un paese diviso.

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Intesa nazionale?

Il 2 aprile scorso si è conclusa, proprio a Bamako, la Conferenza d’intesa nazionale, nome pomposo per un incontro di cinque giorni di alcuni tra i protagonisti del conflitto maliano. «Non è servita a nulla», ci dice un osservatore straniero. In effetti mancavano due leader jihadisti fondamentali: Iyad Ag Ghali, storico capo tuareg fondamentalista del Nord e Amadou Koufa, peulh, fondatore del Fronte di liberazione di Macina, nel centro del paese. Neppure l’opposizione politica era presente, in quanto ha boicottato la conferenza, mentre molti altri gruppi non sono stati soddisfatti del risultato. La Conferenza fa parte della difficile applicazione degli accordi di pace di Algeri firmati tra maggio e giugno 2015. Intanto nel paese si è registrato un preoccupante salto di qualità del conflitto, già a partire dalla metà dell’anno scorso.

Ma per capire cosa succede in Mali occorre fare un passo indietro.

Da democrazia a caos

Negli anni 2000, il Mali era un esempio di democrazia e alternanza al governo per tutta l’Africa dell’Ovest. Il presidente Amadou Toumani Touré (Att) aveva tuttavia trascurato il Nord, una regione di oltre 800.000 km quadrati (quasi tre volte l’Italia), in gran parte desertica, che si incunea tra Mauritania, Algeria e Niger. Regione tradizionalmente tuareg e araba, chiamata da questi popoli Azawad. Qui i movimenti indipendentisti tuareg esistono da tempo, e storicamente sono sfociati in periodiche ribellioni, l’ultima delle quali si era conclusa nel 2006.

Ma in quegli anni si è assistito ad altri fenomeni, come l’arrivo di predicatori mediorientali, che hanno iniziato a diffondere il wahabismo, l’ideologia islamista promossa dall’Arabia Saudita. Al tempo stesso i gruppi integralisti salafiti algerini, gli ex Gia (Gruppi islamici armati) che avevano insanguinato l’Algeria negli anni ’90, hanno iniziato a stabilirsi sul suolo maliano. Nel deserto le frontiere non esistono e i due paesi confinano per oltre 1.000 km. Il potere centrale di Bamako è lontanissimo da queste terre, sia fisicamente che culturalmente. Così sono cresciuti i movimenti radicali islamisti che a inizio 2012 hanno dichiarato guerra allo stato centrale. Sono molti e diversificati. Ci sono i tuareg laici, i tuareg fondamentalisti, i gruppi jihadisti salafiti di origine algerina (si veda MC settembre 2006, MC dicembre 2010). Nel 2007 i salafiti hano aderito ad Al Qaeda internazionale fondando Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb islamico). Nel marzo 2012 Att ha subito anche un goffo colpo di stato da parte di una frangia dell’esercito, fatto che ha indebolito ulteriormente lo stato centrale maliano. Dopo un periodo di transizione si sono svolte le elezioni in cui è stato eletto Ibrahim Boubakar Keita (Ibk) nell’agosto del 2013.

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La guerra si estende

La galassia di gruppi armati nel Nord del Mali è in rapido cambiamento. Si alternano coalizioni e scontri tra gli stessi, piattaforme, coordinamenti, in una geometria di alleanze estremamente variabile. Ma quando nel gennaio 2013 l’esercito regolare maliano era allo sbando e il fronte ribelle, islamisti di Aqmi compresi, puntava su Bamako, è intervenuta la Francia, ex potenza coloniale, inviando le sue forze militari d’élite, con l’operazione denominata Serval, respingendo i combattenti. Questi sono tornati nelle loro roccaforti nel deserto del Nord. Una missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Mali, Minusma, ha preso il via nell’aprile dello stesso anno. Ne fanno parte 13.000 uomini di 26 nazionalità, tra cui quelle dei confinanti Burkina Faso e Niger. È diventata una delle missioni dell’Onu con più morti tra i caschi blu di tutti i tempi. Importante è la partecipazione del contingente tedesco, forte di un migliaio di militari, oltre a otto elicotteri, blindati e droni e due arei per trasporto truppe basati a Niamey, Niger. Anche l’Europa ha in Mali un suo contingente, l’Europen Union trainig force (Eutf), con l’obiettivo di formare e riorganizzare le Forze armate maliane. Ha un effettivo di circa 600 uomini di 20 paesi.

Il primo agosto 2014 l’operazione Barkhane ha sostituito Serval. Barkhane, sempre francese, copre cinque stati (Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad), e ha comando a Ndjamena capitale del Ciad.

La pace finta che scontenta

In questo contesto estremamente complesso e frammentato si è arrivati alla firma della pace tra maggio e giugno 2015. Accordo quanto mai parziale, perché coinvolge solo alcune sigle. In particolare la Cma (Coalizione dei movimenti dell’Azawad), di cui fa la parte del leone il Movimento per la liberazione dell’Azawad (Mnla). Ha firmato anche la Plateforme, ribelli detti «filo governativi» attive a Menaka, ad Est . L’accordo prevede la smobilitazione dei combattenti; la creazione del Moc (Meccanismo operativo di coordinamento), ovvero pattuglie miste governo – ex ribelli firmatari conto i jihadisti; l’installazione di autorità ad interim nelle città del Nord (gli amministratori sono tutti fuggiti a causa della guerra) con la partecipazione degli ex ribelli, e la Conferenza d’intesa nazionale, con l’obiettivo di una definizione politica dell’Azawad. Ridefinizione che però non è arrivata, scontentando le parti tuareg.

Il conflitto cambia livello

«A partire da metà 2016 abbiamo visto un cambio di velocità nel conflitto», ci dice la nostra fonte che chiede l’anonimato, «undici gruppi sono usciti dalle coalizioni firmatarie, in dissenso con l’accordo, ritornando nella lotta armata». «Un altro elemento fondamentale è l’estensione del conflitto nel centro del paese, la regione di Mopti. Questa zona è sempre stata legata al governo, molto più del Nord, ma adesso lo stato sembra averne perso il controllo». In effetti «si è partiti con la guerra a Nord, ma andando di questo passo non si può escludere che tra qualche tempo il conflitto interesserà anche il Sud, quindi tutto il paese», rivela un’altra fonte locale.

Un osservatore maliano basato a Gao ci conferma: «La crisi sta prendendo un’altra dimensione, molto più preoccupante. Prima si trattava di gruppi armati ribelli che combattevano contro lo stato centrale, adesso sta diventando un conflitto con caratteristiche comunitarie, ovvero comunità etniche diverse che si affrontano».

La nostra fonte si riferisce agli scontri tra diverse comunità che avvengono nel Nord, ad esempio a Gao, tra Tuareg, Arabi e Songo. «A causa dell’applicazione dell’accordo di pace, è frequente che un gruppo si senta leso o emarginato e quindi entri in conflitto con gli altri per far valere i suoi diritti». È il caso di gruppi Songo di Gao, che si sentono discriminati dai gruppi Tuareg che hanno partecipato al negoziato. O ancora, l’applicazione delle pattuglie miste ha visto l’entrata in città di combattenti armati che prima erano considerati nemici e tenuti alla larga, e questo «ha suscitato percezioni diverse nella popolazione e creato tensioni». «Bisogna anche dire che tutti questi gruppi etnici hanno dei movimenti di supporto all’estero che li sobillano soprattutto grazie all’uso dei social network».

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Il contagio si diffonde

Altra questione importante dell’ultimo anno è l’estensione del conflitto alla regione centrale del paese. Qui i gruppi ribelli sono a base etnica peulh, popolazioni di allevatori nomadi che vivono in tutto il Sahel. In questa zona il predicatore radicalizzato Amadou Koufa (o Hamadou Kouffa) ha costituito il gruppo armato jihadista Fronte di Liberazione di Macina (Flm, dal nome di un antico regno di questa zona), ora noto come Ansar Dine in Macina. Koufa è stato a lungo legato al tuareg fondamentalista Iyad Ag Ghali, fondatore di Ansar Dine e di Aqmi e ora basato nell’area di Kidal, nel Nord. Dal Flm si è generato anche il primo gruppo fondamentalista tutto burkinabè, sempre a base etnica peulh, del leader e predicatore Ibrahim Mallam Dicko, che opera nel Nord del Burkina e a cavallo tra i due paesi (provincia del Lorum in Burkina e quella di Douentza in Mali).

Anche nel centro si assiste a un’aggravante a sfondo etnico. I militari dell’esercito regolare, le Fama (Forze armate maliane), mandano a fare i lavori sporchi i Dozo, cacciatori di etnia bambara (maggioritaria nel Sud del paese). Questi, sono tradizionalmente nemici degli allevatori peulh e, coperti dal clima di impunità, hanno cominciato ad ammazzare civili di quell’etnia senza farsi troppe domande. Inoltre è stato osservato che la Fama e la polizia arrestano quasi esclusivamente Peulh e mai Bambara. Il conflitto comunitario sta quindi andando verso uno scontro tra milizie organizzate a base etnica.

«La gente nel centro non è coinvolta nell’accordo di pace, che interessava solo i gruppi del Nord, per cui non beneficia dei dividendi della pace (come le indennità pagate alla smobilitazione, ndr). E si sentono ora abbandonati dal governo di Bamako». Tutti questi elementi stanno dando una deriva etnica al conflitto.

«Assistiamo a un cambiamento nella società maliana. Il tessuto sociale si sta strappando. Si è passati dal multiculturalismo alla contrapposizione etnico-culturale. Ad esempio sono saltati i meccanismi sociali di risoluzione dei conflitti. E questo è gravissimo», commenta la nostra fonte.

«Inoltre l’occupazione di queste zone da parte dei jihadisti è inquietante, ed è aggravata dal fatto che il governo non la riconosce per non dover ammettere un suo fallimento».

Anche l’Isis nel Sahel

Un ulteriore elemento di preoccupazione è la comparsa ufficiale, sempre nell’estate 2016, del Daesh nel Sahel. Si tratta del Mujao che proclama la propria affiliazione e si fa chiamare Stato Islamico nel Grande Sahara. Con a capo Adnane Abou Walid Al-Saharwi, sarebbe per ora ad Est, nella zona di Menaka. «Il Daesh si sta ormai installando nella regione, e questo vuol dire che vedremo dei grossi cambiamenti nei prossimi 12-18 mesi».

Intanto nel Sud e a Bamako si acuisce la crisi sociale, oltre al crescente malcontento verso il governo e la presenza dei militari stranieri della Minusma. Dal 9 marzo scorso tutto il settore sanitario è in sciopero, e questo – per un paese come il Mali – vuole dire un aumento dei decessi tra i pazienti. Ultimamente anche gli operatori del settore educazione hanno iniziato a scioperare. Le rivendicazioni sono di tipo salariale, ma le manifestazioni e l’astensione dal lavoro paralizzano questi settori. Il presidente Ibk si è affrettato a modificare il governo, nominando il quarto primo ministro dall’inizio del suo mandato. Aboulaye Idrissa Maiga ha costituito il suo governo l’11 aprile. Simile al precedente: ha cambiato i ministri di Salute ed Educazione nel tentativo di calmare le piazze. Anche il dicastero della Difesa, occupato proprio da Maiga nel precedente governo è stato cambiato.

Nel 2018 ci saranno le elezioni ed è facile che Ibk siariconfermato. Non ci sono infatti oppositori in grado di vincere e anche il rischio di colpo di stato pare limitato, vista la militarizzazione del paese.

Un tuareg che occupa una posizione importante in una Ong condivide la sua preoccupazione: «I problemi del Mali stanno prendendo dimensioni sempre più serie. L’aggravarsi dei conflitti etnici, i gruppi islamisti che hanno più terreno. La situazione è fuori da ogni controllo ed è difficile essere ottimisti per il futuro del Mali».

Marco Bello


Incontro con l’abbé Timothée Diallo,
responsabile dei media cattolici

Occorre un cambiamento di mentalità

I cattolici in Mali sono una minoranza. Ma sono ben integrati e la collaborazione con gli islamici è grande. A tutti i livelli, a partire dalle scuole. Solo così si può creare una cultura di dialogo e porre un freno all’avanzata del radicalismo.

BAMAKO. L’abbé Timothée Diallo è parroco della Cattedrale di Bamako da 15 anni. Giornalista, ha studiato alla scuola di comunicazione sociale dei salesiani a Roma. È attualmente il responsabile dei media cattolici della Conferenza episcopale del Mali. Lo abbiamo incontrato nel suo ufficio, nel centro di Bamako.

Abbé Timothée, chi sono oggi i cattolici in Mali?

«Come cristiani stimiamo di essere il 5% e noi cattolici siamo distribuiti in sei diocesi. Negli ultimi tempi i battesimi sono aumentati. Le etnie che hanno maggiormente abbracciato il cattolicesimo sono i Bobo, nella diocesi di San. Però quasi tutte le etnie vedono la presenza di cristiani: Bambara, Peulh, Soninka, Sonrai, ecc.

I missionari sono arrivati in Mali nel 1888 dal Senegal, la prima missione è stata Tuba, nella diocesi di Kayes. Erano degli spiritani (i padri dello Spirito Santo, ndr), perché i missionari d’Africa hanno tentato per ben due volte di arrivare in Mali dall’Algeria, ma in entrambi i casi i convogli furono massacrati prima di arrivare a Timbuctu. Gli spiritani lasciarono la missione ai padri Bianchi che portarono avanti l’evangelizzazione in Mali».

Quali sono le maggiori difficoltà che state vivendo come minoranza?

«Siamo una minoranza, ma abbiamo la fortuna di avere molti matrimoni misti, tra cristiani e musulmani. Negli ultimi anni in certi ambienti è diventato difficile esprimere la propria fede cristiana. Conosco delle famiglie che non accettano più di accogliere un cristiano e dargli da bere o da mangiare (accoglienza che nel Sahel e nel deserto è sempre stata sacra verso chiunque, ndr). Ma nella maggioranza dei casi c’è buona coabitazione, si celebrano insieme le feste, musulmane come quelle cristiane. Per esempio io sono sempre invitato da famiglie musulmane per la Tabaski o la fine del Ramadam.

Nel campo dell’educazione abbiamo scuole cristiane dappertutto nel paese. Qu i in cattedrale la nostra scuola ha 800 allievi e solo il 5% sono cattolici, gli altri sono mu sul mani . Ci sono i movimenti di azione cattolica in Mali, come la Gioc, gioventù operaia cattolica, qui la chiamiamo “credente”, Comunità di studenti credenti e poi Gli amici di Kizito, per i bambini fino a 12 anni. In questi movimenti ci sono anche molti musulmani. Questo ci permette di dialogare e comprenderci tra di noi. Preghiamo insieme, ognuno si esprime secondo la sua religione. I genitori musulmani fanno frequentare ai figli la scuola cattolica perché pensano che dia una buona educazione. E poi li mandano anche a i movimenti cattolici.

Non abbiamo per nulla un approccio volto alla conversione, ma piuttosto a dialogo e coabitazione per la pace e il benessere della persona umana. È qu e sto c he fa l a nostra fortuna in Mali . Qu an do certi leader religiosi hanno reclamato che il Mali diventasse uno stato islamico, sono proprio i musulmani che si sono opposti, preservando la laicità».

Ma ci sono dei segni di radicalizzazione nella società?

«Ci sono molte più donne con il velo e sono state costruite molte moschee, tutte uguali, sorte come funghi e finanziate da paesi arabi. Questo per mostrare che il paese è islamico. Ma è un a questi one di facciata perché non sono frequentate. In una zona che conosco, la maggioranza delle persone segue culti tradizionali e ci sono anche molti più cristiani. Soprattutto nelle grandi città sentiamo la presenza dell’islam con molte moschee, m a non è così nelle campagne».

C’è ancora una chi es a missionaria in Mali?

«Ci sono ancor a dei padri bianchi, nella arcidiocesi di Bamako, abbiamo 11 parrocchie di c ui 2 son o tenute dai padri Bianchi, una dai A Salesiani. Ci sono i fratelli del Sacro Cuore, in tre diocesi. Anche i Salesiani. C’è ancora molto lavoro di evangelizzazione da fare in Mali, ci sono molte zone che non sono state toccate, dove i missionari non sono mai andati. Io penso che se si creassero altre parrocchie ci sarebbero molte più conversioni. È il personale che manca, abbiamo ancora bisogno di missionari».

A livello istituzionale come collaborate con le altre confessioni?

«Le chiese protestanti ed evangeliche sono riunite in gruppo che ha un proprio presidente. Quelle che non fanno parte di questo gruppo sono considerate sette. I musulmani hanno l’Alto consiglio islamico, con un suo presidente. Poi ci siamo noi cattolici con l’arcivescovo. Di fronte ai problemi del paese – come ad esempio gli attuali scioperi degli insegnanti e dei lavoratori sanitari – ci riuniamo e riflettiamo, per proporre una via d’uscita alla crisi. Stessa cosa quando ci sono delle elezioni, cerchiamo di promuovere la pace, per esempio incontrando i candidati. Cerchiamo di lavorare anche sulla riconciliazione nazionale. A livello ufficiale la Chiesa cattolica lavora molto per la pace. Quando ci sono le elezioni, vengono diffuse lettere pastorali indirizzate ai cristiani e a tutti i maliani di buona volontà. C’è anche la Caritas che talvolta fa l’osservazione delle elezioni».

Quali sono i problemi attuali del Mali?

«Attualmente ci sono molti problemi nel paese. In particolare lo stato non ha autorità, questo è il problema principale, non arriva a imporsi ormai dal 2012. Come arrivare a uno stato più forte? E a una riconciliazione? Ci sono gli attentati, la guerra e i massacri intercomunitari, sempre di più. Occorre finire con tutto questo. Il tessuto sociale sta andando in rovina. Penso che l’occupazione del Nord abbia giocato molto, poi ogni etnia o comunità vuole imporsi. Assistiamo alla continua formazione di nuovi gruppi ribelli. Anche su base etnica. Tutto questo è causato dalla mancanza di autorità dello stato.

Il Nord è stato abbandonato, ma anche a Bamako si sente la mancanza dello stato, e i politici non riescono a migliorare la situazione. Invece di vedere il bene del paese, ognuno vede i suoi interessi personali. Occorre che i maliani prendano coscienza di questo, altrimenti la situazione non cambierà. I problemi tra Bambara e Peulh, nel centro del paese sono tradizionali, tra allevatori e agricoltori, ma adesso hanno assunto un’altra dimensione, una vera guerra».

Il 7 marzo è stata rapita suor Gloria Cecilia Narvaez Argoti, missionaria colombiana.

«Il rapimento di suor Gloria, a Karangasso nei pressi di Sikasso, nel Sud del paese preoccupa tutte le comunità religiose. Ci chiediamo perché è stata rapita. È perché è una religiosa cattolica o perché chi l’ha rapita cerca soldi? Non ci sono state richieste di riscatto, rivendicazioni. Suor Gloria, delle francescane di Maria Immacolata, era in Mali già da una decina di anni».

Abbé Timothée, come vede la soluzione della crisi in Mali?

«Occorre cambiare mentalità. Prendere coscienza. È la menzogna che ci ha messi in questi problemi, il fatto che la gente non dica la verità. Non c’è la coscienza che occorre proteggere il bene comune. Solo con questo il Mali potrà cambiare. La chiesa lavora per questo ma c’è molto da fare e occorre molto tempo. I politici, i lavoratori, a tutti i livelli, tutti gli strati sociali, dalla testa ai piedi».

Marco Bello




Siria 2017:

Sulla pelle dei siriani 2


La guerra siriana è entrata nel suo settimo anno. Una guerra che ha devastato e smembrato un paese laico dove la convivenza era la norma. Terroristi, mercenari e paesi stranieri hanno cacciato i siriani che si sono riversati nei paesi confinanti e in Europa. In questa intervista, molto diversa dalle verità propagandate, mons. Haddad, siriano della Chiesa melchita, difende il presidente Assad e accusa la Turchia e l’Arabia Saudita. Intanto Trump…

«Come a Damasco, anche fuori della capitale le strade sono belle, asfaltate e poco trafficate. Viaggiando verso Aleppo si vedono campi coltivati a ortaggi, verdura e frutta di vari tipi. […] Maaloula, villaggio cristiano di antichissime origini, è uno splendore con le case abbarbicate alla roccia e il monastero di Santa Tecla conservato come un gioiello. […] Aleppo è una bella, ricca e intraprendente città commerciale. Lo si vede e lo si annusa. Ad esempio, nel suo suq, uno dei più grandi mercati coperti dell’intero Medio Oriente. Ad Aleppo chiese e moschee sono vicine e nulla contraddice quella tolleranza religiosa che pare essere un connotato acquisito di questo paese. […]».

Queste righe risalgono al lontano giugno 1993, scritte durante il mio primo e unico viaggio in Siria. Tanti anni sono trascorsi e il paese di allora è scomparso sotto i colpi di quasi sette anni di una guerra – forse civile o forse soltanto importata -, fatta sulla pelle dei siriani tra cui si contano 320 mila morti, 6 milioni di sfollati interni e 5 milioni di profughi (dati delle Nazioni Unite). Una guerra che nessuno sembra in grado di fermare.

Per parlare di questo abbiamo incontrato mons. Mtanious Haddad, archimandrita della Chiesa melchita (chiesa cattolica di rito bizantino e lingua araba), a tre anni di distanza dalla prima intervista (MC, 12/2013). Nel frattempo la guerra siriana si è incancrenita e la speranza di tornare alla Siria di un tempo si è assottigliata, anche se mons. Haddad – nativo di Yabroud (Damasco), per anni in Libano e Terrasanta – rimane fiducioso, forse in virtù del suo ruolo più che per reale convinzione. Quando lui parla della sua «amata Siria» lo fa con grande partecipazione, quasi senza prendere il respiro e agitando le mani. Non ha vie di mezzo, mons. Haddad: parla chiaro e senza giri di parole, pur scusandosi – di tanto in tanto – per il fatto di dire una verità scomoda. Fastidiosa perché diversa e spesso opposta da quanto viene normalmente raccontato.

«Siriani, non lasciate la vostra terra»

Mons. Haddad, sono trascorsi tre anni dal nostro primo incontro. Da allora com’è cambiata la situazione nella sua Siria, entrata ormai nel settimo anno di guerra?

«È sempre la mia amata Siria. Mi auguro che il settimo anno non arrivi. Vorrei dare un messaggio di speranza: torneremo a vivere in Siria. Purtroppo, questi ultimi anni sono stati duri e difficili. La povertà è cresciuta. L’emigrazione dei siriani, sia musulmani che cristiani, è aumentata. Sia verso la Turchia che il Libano e l’Europa e l’America. I nostri 5 patriarchi d’Antiochia (Chiesa ortodossa siriaca, Chiesa greco-ortodossa, Chiesa cattolica sira, Chiesa cattolica maronita, Chiesa cattolica greco-melchita, ndr) hanno detto (8 giugno 2015, ndr): “Non lasciate la vostra terra”. Ma non è facile».

In queste condizioni, in cosa lei riesce a intravvedere una speranza?

«Nell’arrivo della Russia. Non solo per l’esercito, ma anche per il suo ruolo di pacificazione. La base militare russa di Hmeimim (nel nord est della Siria vicino a Ltakya, ndr) è diventata un centro di riconciliazione tra siriani».

Il presidente Assad e i media

Qual è il suo pensiero rispetto al presidente Assad? 

«Vorrei dare un saluto a questo signore che rimane sempre il presidente legittimamente eletto. E finora ha lottato per conservare e difendere l’unità del suo paese e dei siriani. Dobbiamo rispettare questo presidente che non agisce per sé, né per la sua appartenenza religiosa. Non lo abbiamo mai sentito parlare a nome dell’islam. Lui parla a nome della Siria. E questo gli fa onore».

Eppure non passa giorno senza che i media non accusino Assad di ogni nefandezza, compreso l’uso di armi chimiche. Come lo spiega?

«Mi spiace vedere il comportamento dei mass media europei. La sera io ascolto Al Arabiya (emittente degli Emirati Arabi con sede a Dubai, ndr) e Al Jazeera (emittente del Qatar con sede a Doha, ndr). Poi, al mattino seguente, mi accorgo che i mass media traducono quello che hanno detto le due emittenti arabe. Da sei anni viene ripetuto lo stesso concetto: che Assad è un dittatore, definizione ripresa da Obama e dalla Clinton. E l’Europa di seguito: “Assad ha perso la sua legittimità”, “Assad deve andarsene”. Assad invece deve finire il suo legittimo mandato. L’Europa non vuole ammettere che un presidente è garantito dal suo popolo e lui è il garante del popolo».

Putin ed Erdogan

Lei ritiene positivo l’intervento della Russia di Putin in Siria?

«Sì, lo vedo come portatore di pace. Abbiamo visto che la loro presenza è importante. Prima a livello militare: hanno distrutto migliaia di obiettivi di Isis-Daesh e migliaia e migliaia di cisterne che portavano fuori dai confini il petrolio siriano. In tanti traevano profitti dalla guerra in Siria. L’arrivo di Putin ha dato fastidio all’Europa e all’America (che già da tempo hanno decretato l’embargo contro la Russia).

Questo paese è arrivato con la sua forza militare per dire “basta”: basta al furto del petrolio siriano, basta all’arrivo nel paese di migliaia di terroristi attraverso la Turchia.

Allo stesso tempo i russi hanno portato tonnellate di cibo e medicine. E hanno perso due medici in un ospedale da campo messo su per dare cure mediche al popolo siriano, senza differenze tra musulmani o cristiani (fatto accaduto il 5 dicembre 2016 a causa di un bombardamento sull’ospedale mobile civile appena montato, ndr).

In tante zone dove lo stato siriano e l’esercito sono tornati, i cittadini sono tornati a vivere insieme».

Passiamo a Erdogan, il presidente-dittatore della Turchia. Qual è il suo ruolo nel conflitto siriano?

«Mi spiace dire la verità. Dall’inizio Erdogan ha tradito la causa siriana. Ci sono 910 chilometri di frontiera in comune tra la Siria e la Turchia e lui le ha aperte per far entrare migliaia di uomini per combattere, perché “Assad deve partire, Assad non rappresenta il suo popolo”. Ma chi lo rappresenta? Lui incolpa Assad di essere un dittatore. In arabo si dice “Medico abbi cura di te stesso” (proverbio, molto famoso nell’antichità, in ambiente greco, giudaico e arabo, è usato di solito in riferimento a chi dà consigli agli altri e poi non corregge i propri errori, ndr). Erdogan non ha mai voluto il bene della Siria e soprattutto oggi è tornato al suo sogno preferito: quell’impero ottomano che portò al paese guerra, fame e vittime. Non crediate voi europei che aver dato 6 miliardi delle vostre tasse (e dalle vostre tasche) per far parcheggiare i siriani nei campi della Turchia (accordo del marzo 2016, vedere scheda cronologica) sia stato un buon affare».

È stato un accordo sbagliato?

«Avete sbagliato. Avete aiutato un dittatore, che mira ad avere benefici personali e a far parte della Comunità europea. Come vivono i siriani nei campi della Turchia? Vivono nella miseria. I nostri bimbi sono o sfruttati nel lavoro nero o uccisi per il traffico d’organi umani tra la Turchia e Israele e da qui per il resto del mondo. Sono i fatti che lo raccontano. Mi spiace dire queste cose, ma in Turchia non si può parlare di ospitalità».

E quella della Germania è ospitalità? 

«La Germania aveva bisogno di manodopera tecnica e i siriani sono veramente intelligenti e hanno voglia di lavorare. Certo, con questi 700-800 mila profughi in Europa sono arrivati anche i terroristi, che però non sono siriani».

Erdogan parla molto di terrorismo.

«Ma la Turchia non può certamente essere un garante della pace. Non può esserlo, perché è stata garante dei terroristi, perché ha fatto nascere la gran parte dei terroristi». 

L’ex presidente Usa Barack Obama era molto critico verso Assad.

«Obama diceva che Assad aveva perso la sua legittimità. Oggi Obama è andato per la sua strada e il nostro presidente continua a essere il legittimo presidente.

Non dovevano immischiarsi negli affari dei paesi altrui. Chi ha dato ad Obama la procura divina per dire Assad può rimanere o Assad deve andare? Doveva guardare al suo paese e lasciare gli altri fare la propria storia. Non è che l’America o l’Arabia Saudita possano darci la democrazia secondo il modello americano o saudita».

Raqqa, eletta a capitale dello?Stato islamico, è in Siria. L’Isis è ancora forte o sta perdendo terreno come si dice?

«Secondo la mia visione sta perdendo terreno. Però va a fasi. Quando la Turchia è un po’ coerente o sotto pressione dell’America e chiude le frontiere e non arrivano più terroristi, allora l’Isis perde.

Finora non ho visto l’Europa fare molto contro l’Isis, che riceve armi e terroristi tramite la Turchia. Finché questo accade, esso può rinascere o crescere. Tutti i terroristi che hanno rifiutato di fare la pace con lo stato siriano, dovrebbero tornare al loro paese».

Papa Benedetto e le armi

Si arriva sempre alle armi: a chi le fa, a chi le vende, a chi le compra…

«Papa Benedetto XVI, durante il suo viaggio in Libano (14-16 settembre 2012, ndr), aveva detto: “Io vorrei mandare un messaggio di pace per la Siria con tre parole: chiudere le tasche che pagano il prezzo delle armi, chiudere le fabbriche che fanno le armi e chiudere le frontiere da dove passano le armi”.

Se tutto questo avvenisse, i siriani non avrebbero bisogno di più di sei mesi per riunirsi tra loro e terminare con il conflitto».

Un conflitto nel quale i gruppi combattenti sembrano moltiplicarsi.

«Questi gruppi sono fluidi e anche in concorrenza tra loro. Dipende della zona dove operano. Dove sono un po’ indeboliti, si raggruppano di nuovo. Dove sono in concorrenza per il territorio, allora si fanno la guerra tra loro. Abbiamo visto anche molti cambiamenti dei loro nomi. Ad es al-Nusra oggi Hayat Tahrir al-Sham. È vero: sono tantissimi gruppi che non si arriva neppure a nominarli perché, da un giorno all’altro, cambiano nome e terreno d’azione. Vorrei non sentire più né nomi né gruppi perché la Siria ha bisogno della pace».

Arabia Saudita: soldi e sharia

Tutti questi gruppi di miliziani che combattono in Siria perché lo fanno?

«Ah, è una bella domanda questa! La gran parte sono stranieri. Combattono per avere soldi e basta. Alcuni sono arrivati in nome dell’islam per uccidere e portare la democrazia musulmana, cioè la sharia, alla Siria. La loro vocazione musulmana li spinge a porre fine alla convivenza siriana, alla democrazia siriana.

Un saudita viene a combattere perché non può sopportare i siriani, il loro modo di vivere, il loro modo di stare insieme. Non può vedere la chiesa vicina alla moschea, o il prete camminare in strada con suo fratello imam o sheik. Costoro vogliono distruggere il modello siriano in nome dell’islam, in nome del Corano. Per loro ogni cristiano è un eretico da combattere e da uccidere. Alcuni sono venuti con questa missione. E poi avranno 72 vergini in cielo, no? Detto questo, la gran parte dei combattenti sono venuti per soldi. Vanno con chi li paga di più».

A proposito di combattenti e di dollari, che ruolo hanno l’Arabia Saudita, il Kuwait, il Qatar, paesi sunniti?

«Questo è un punto importante, perché lì ci sono le tasche. Arabia Saudita, Qatar, Kuwait hanno tantissimi soldi e non sanno che farne. Non hanno pensato che potevano costruire un ospedale in ogni villaggio della Siria, della Turchia o del loro stesso paese. Se un giorno finirà il loro petrolio, che faranno questi paesi? Da sempre non vogliono né la convivenza né la presenza dei cristiani. Dicono che a Vienna c’è il più grande centro di dialogo interreligioso d’Europa (il Kaiciid, inaugurato nel novembre 2012 e finanziato dall’Arabia Saudita, www.kaiciid.org, ndr). Ma in Arabia Saudita c’è una chiesa?».

Mi pare che non sia consentito.

«L’anno scorso, il 15 agosto, hanno preso una ventina di cristiani che pregavano la Madonna, peraltro citata e rispettata nel Corano. Erano andati per pregare in una stanza senza croce e senza canti, ma forse un vicino li ha traditi. Sono arrivati gli uomini dello stato saudita e le persone sono state espulse. Allora mi chiedo: è questo il modello di convivenza che loro vorrebbero esportare in Siria?

In Siria cristiani e musulmani frequentano la stessa università, cosa che i sauditi non possono accettare. Come non possono accettare questo presidente che viene da una piccola famiglia musulmana alawita (Assad, ndr) e che loro vogliono mandare a casa per porre fine alla convivenza e instaurare la sharia anche in Siria.

In Arabia Saudita non c’è neppure una chiesa, mentre in America, ad esempio, ci sono 3.500 moschee. In Europa si accolgono molti musulmani in nome dei diritti dell’uomo. Sono d’accordo, ma dov’è la reciprocità? Io dico: chiedete per noi almeno una chiesa in Arabia Saudita, chiedete per noi i diritti come cittadini in paesi che non accettano neppure un cristiano.

A La Mecca, il loro luogo sacro, c’è una strada per i credenti e una strada per gli eretici. Se facciamo un paragone, a San Pietro, a Roma, non c’è nulla di simile. Il dialogo interreligioso deve essere fatto sulla base dell’eguaglianza: stessi diritti e stessi doveri. Nei paesi dove vige la sharia non è così».

Lei sembra molto critico verso l’Arabia Saudita.

«Finora l’Arabia Saudita da sola ha pagato 200 miliardi per distruggere le infrastrutture in Siria. Dove sono andati questi soldi? A chi fa la guerra in Siria e una gran parte in America per pagare le armi. Gli Stati Uniti hanno incassato miliardi e miliardi dall’Arabia Saudita. A prezzo del sangue siriano innocente, sia cristiano che musulmano».

I cristiani travolti dalla guerra

A proposito di cristiani, qual è la condizione di coloro che sono rimasti nella Siria in guerra?

«Nella mia amata Siria la comunità cristiana fa parte della comunità siriana. Come altri siriani anche i cristiani, avendo avuto le proprie case distrutte, hanno dovuto sfollare andando in altre zone del paese. Invece di lasciare la Siria per rifugiarsi in Libano, in Giordania o, in maniera inferiore, in Turchia hanno preferito una migrazione interna. I terroristi mettono al primo posto i cristiani, a meno che essi non accettino di convertirsi all’islam. Questo è il prezzo pagato da chi è rimasto.

Se voi europei volete aiutare i cristiani della Siria, dovreste aiutare i siriani a vivere con dignità a casa loro, ricostruendo gli ospedali, le scuole, le infrastrutture. Ma soprattutto dovreste aiutare a ricostruire la convivenza nel paese».

Aleppo caduta, Aleppo liberata

Quando la visitai Aleppo era una ricca città commerciale. Oggi è assurta a simbolo della devastazione della guerra.

«La tragedia della Siria è Aleppo. Aleppo che era nel mirino della Turchia. Dall’inizio della guerra i turchi sono venuti a smontare le fabbriche tessili della città. Quello che non hanno potuto smontare e portare in Turchia lo hanno distrutto. 

Quando è stato detto “Aleppo è caduta”, noi siriani abbiamo detto con gioia “Aleppo è stata liberata”. Questa è la differenza tra chi vuole bene e chi vuole male alla Siria.

Aleppo era una città viva, commerciale, tanto da essere la capitale economica del paese. Hanno voluto ucciderla, distruggerla. Alla fine l’esercito siriano – anche con l’aiuto, come abbiamo detto, dei nostri amici russi e libanesi – ha riconquistato Aleppo. Mi auguro che anche le altre città saranno liberate e torneranno in seno allo stato siriano».

I kurdi e la Siria

I kurdi sono in prima linea nella guerra contro l’Isis.  

«Da sempre i kurdi fanno parte della Siria e si sentono cittadini siriani. Nel parlamento ci sono rappresentanti kurdi, nell’esercito ci sono kurdi che fanno il servizio di leva e anche la guerra. Alcuni giocano la carta dell’indipendenza, ma la gran parte dei kurdi si sente siriana».

Tornare a una Siria unita

Mons. Haddad, se dovesse fare un appello per il suo paese, cosa direbbe?

«Di aiutare i siriani a tornare nel loro paese. Tornare a stare insieme e a ricostruire la Siria come era: un punto d’incontro tra religioni, culture ed etnie e un ponte tra Occidente e Oriente. Questa è la Siria. Noi siriani vogliamo tornare ad essere un popolo unito in una Siria unita».


Così parlava mons. Haddad prima che la devastante guerra siriana conoscesse i drammatici eventi di aprile. Se sull’attacco alla Siria è comprensibile (ma non giustificabile) il plauso di Israele, Turchia e Arabia Saudita, paesi nemici, ridicoli e imbarazzanti sono stati gli elogi al decisionismo di Trump fatti dalla gran parte dei media e dei politici occidentali.

Indirettamente lo ha fatto capire anche il vescovo siriano Georges Abou Khazen, vicario apostolico di Aleppo, che all’agenzia Fides ha dichiarato: «Una cosa che sconcerta, davanti all’attacco militare Usa in territorio siriano, è la rapidità con cui è stato deciso e realizzato, senza che prima fossero state condotte indagini adeguate sulla tragica vicenda della strage con le armi chimiche avvenuta nella provincia di Idlib».

Sul presunto attacco chimico il vescovo siriano Antornine Audo, presidente di Caritas Siria, ha aggiunto: «Non riesco proprio a immaginare che il governo siriano sia così sprovveduto e ignorante da poter fare degli ‘errori’ così madornali».

Sulla stessa linea critica è stato l’arcivescovo siriano Jacques Behnan Hindo: «(L’attacco Usa) era già predisposto, per questo non hanno voluto prendere in nessuna considerazione le richieste di indagini più approfondite sulle responsabilità (del fatto) avvenuto nella provincia di Idlib». Che Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, sia il vendicatore dei siriani oppressi da Assad è un’affermazione che forse neppure i suoi più accesi sostenitori potrebbero portare avanti. Il presidente dal tweet compulsivo aveva molti motivi (in primis interni) per l’attacco missilistico del 7 aprile, ma certamente non quelli umanitari. L’uomo lo ha anche pubblicamente ammesso durante l’annuncio televisivo: l’intervento era necessario per la sicurezza degli Stati Uniti («vital national security interest»). È altrettanto certo che l’intervento Usa non ha salvato un solo bambino siriano dalla guerra. Anzi, rafforzando il terrorismo jihadista (che stava perdendo davanti all’offensiva di Assad e alleati), ha giocato sulla pelle di tutti i siriani che ancora vivono e resistono nel loro paese. Costoro ancora una volta pagheranno il prezzo di decisioni e interessi estranei alla Siria. E anche a noi occidentali verrà presentato il conto.

Paolo Moiola

La videointervista è qui: https://youtu.be/spzNh_W_Cn8

Scheda 1
Cronologia: dagli ottomani ai missili di Trump

Siria, un paese in frantumi. Damasco, Aleppo, Kobane, Palmira, Homs, Raqqa, Idlib da città a fronti di battaglia. Eppure la pace – sostengono politici e media – sarebbe a portata di mano senza Assad al potere. Peccato che, nel recente passato, operazioni simili abbiano prodotto disastri.

  • 1516 – 1918 – L’Impero ottomano domina su Siria e Libano, parti della regione denominata «Grande Siria».
  • 1916, 16 maggio – Trattato (segreto) di Sykes-Picot: Gran Bretagna e Francia si spartiscono il Medio Oriente.
  • 1919 – 1946 – Dopo la fine della prima guerra mondiale e il trattato di Versailles, la Francia ottiene il protettorato su Siria e Libano.
  • 1940 – 1947 – Nasce e si sviluppa il partito Ba’th (Baath). Uno dei fondatori è il cristiano Michel Aflaq.
  • 1946 – Indipendenza della Siria.
  • 1963 – Il partito Ba’th va al potere.
  • 1967 – Dopo la «guerra dei sei giorni», Israele si annette unilateralmente il territorio siriano delle Alture del Golan, da cui non si è mai ritirato.
  • 1971 (febbraio) – 2000 (giugno) – Diventa presidente della Siria Hafiz al-Assad, alawita del partito Ba’th.
  • 1973, marzo – Viene varata la prima Costituzione siriana.
  • 2000, luglio – Diventa presidente Bashar al-Assad, di professione medico, figlio di Hafiz.
  • 2011, marzo – Manifestazioni di protesta sulla scia delle cosiddette «primavere arabe». Inizia il conflitto.
  • 2012, 27 febbraio – Il referendum popolare approva la nuova Costituzione siriana: non c’è più il partito unico (art. 8) e sono posti limiti alla carica presidenziale (art. 88).
  • 2012, luglio – Iniziano i combattimenti a Damasco e soprattutto ad Aleppo.
  • 2013, agosto – Si diffonde la notizia dell’uso di gas nervino a Damasco. Le forze ribelli accusano il governo, che nega qualsiasi coinvolgimento. Nessuna notizia certa, neppure sul numero delle vittime.
  • 2014, gennaio – Lo Stato islamico (Daesh) conquista Raqqa, nel Nord del paese, e ne fa la propria capitale.
  • 2014, maggio – Le forze di Assad riconquistano Homs, terza città del paese.
  • 2014, 3 giugno – Assad e il partito Ba’th vincono nettamente le elezioni presidenziali. Dall’estero si contesta duramente il risultato.
  • 2015, giugno – Lo Stato islamico perde Kobane, città a maggioranza kurda alla frontiera con la Turchia. La liberazione è opera delle forze kurde riunite nel Ypg, l’esercito della regione (autonoma de facto) di Rojava, il Kurdistan siriano.
  • 2015, settembre – La Russia di Putin inizia raid aerei a sostegno del governo di Damasco.
  • 2016, 17 marzo – Viene firmato un accordo tra Unione europea e Turchia sulla questione dei migranti. Erdogan avrà fino a 6 miliardi di euro entro il 2018 per la gestione dei campi profughi.
  • 2016, settembre – novembre – La Germania di Angela Merkel apre le porte ai profughi siriani, salvo poi richiuderle visto l’altissimo numero di richieste di asilo e le proteste delle organizzazioni di estrema destra.
  • 2016, dicembre – Le truppe di Damasco riconquistano Aleppo Est, da anni in mano ai ribelli. La città, patrimonio dell’Unesco, è un cumulo di macerie.
  • 2017, marzo – L’esercito siriano riconquista Palmira, sito archeologico di fama mondiale messo a ferro e fuoco dai miliziani dello Stato islamico. La città è passata più volte da uno all’altro dei contendenti.
  • 2017, 4 aprile – Viene diffusa la notizia di un attacco chimico a Khan Sahykhun (provincia di Idlib). Si contano oltre 70 morti. Immediatamente la responsabilità è attribuita all’aviazione di Assad (un’azione illogica vista la sua posizione di forza). Damasco e Mosca danno una versione opposta: è stato colpito un deposito in cui i ribelli avevano stivato delle bombe chimiche.
  • 2017, 6 aprile – Due navi da guerra statunitensi di stanza nel Mediterraneo lanciano 59 missili Tomahawk contro la base siriana di Shayrat, nei pressi di Homs. Vengono distrutti aerei, piste e postazioni di rifornimento. Ci sono 15 morti. Applausi da Israele e Arabia Saudita e dai «ribelli» (terroristi, compresi). Consensi da Hollande, Merkel e Gentiloni. Dure critiche da parte di Russia e Iran.
  • 2017, 15 aprile – Un pick up imbottito di esplosivo viene fatto saltare in aria accanto a un convoglio di autobus e ambulanze adibiti al trasferimento verso Aleppo della popolazione sciita, soprattutto donne, anziani e bambini. Rimangono uccise 126 persone, tra cui oltre 60 bambini. L’attentato è opera di una delle milizie sunnite anti-Assad. Al contrario dei fatti di Idlil, nessuno sdegno internazionale, nessuna protesta ufficiale alle Nazioni Unite, nessuna prima pagina.
  • 2017, 16 aprile – In Turchia, dopo un referendum costituzionale falsato dai brogli, il presidente Erdogan amplifica il proprio potere. Applausi di Trump e (timide) proteste internazionali. Lui risponde parlando di «crociati», la stessa terminologia usata dai terroristi dell’Isis.
  • 2017, 25 aprile – Aerei turchi colpiscono avamposti kurdi nell’Iraq settentrionale e in Siria, vicino alla città di al-Malikiya. Erdogan è disposto a tutto pur di impedire la nascita di uno stato kurdo indipendente.
  • 2017, 3-5 maggio – Ad Astana in Kazakhstan riprendono i colloqui di pace tra governo siriano e gruppi ribelli con la mediazione di Russia, Iran e Turchia. Si stabilisce la costituzione di 4 zone cuscinetto.
  • 2017, 16 maggio – A Ginevra, sotto l’egida delle Nazioni Unite, riprendono i colloqui di pace (V sessione), ma l’attenzione e le speranze sono riposte in Astana.

Pa.Mo.

L’arcivescovo maronite Joseph Tobji di Aleppo nelal cattedrale maronita bombardata nella Citta Vecchia.

 

Scheda 2
Dietro la guerra. Chi arma diavoli e terroristi

Come in tutte le guerre anche in quella siriana c’è chi fa enormi affari con le armi. Ma va detto sottovoce.

«Non vedo Assad come il diavolo – ha detto mons. Joseph Tobji, arcivescovo cattolico maronita di Aleppo in un’audizione alla Commissione esteri del Senato (4 ottobre 2016) -. In Siria prima stavamo bene, era un mosaico vivibile, con un Islam moderato e aperto. Adesso viviamo in compagnia della morte. […] Qualcuno ci accusa di essere venduti al governo, ma perché mi devono imporre l’idea che Assad sia il diavolo? I ribelli sono seguiti convintamente da pochissime persone. I terroristi hanno buoni rapporti con i turchi. Ho visto terroristi dell’Isis parlare amichevolmente con militari turchi. In più ci sono gli stranieri wahabiti sauditi che strumentalizzano l’Islam per scatenare la guerra».

Dopo gli eventi di aprile, la sporchissima guerra siriana è tornata ancora una volta in prima pagina. Peccato che poche volte si ricordi che questa è una guerra alimentata dal gigantesco e profittevole mercato delle armi sul quale tutte le potenze mondiali sono attori protagonisti nelle vesti di produttori e venditori.

Stando ai dati dell’istituto Sipri (Stockholm International Peace Research Institute – www.sipri.org), gli Stati Uniti continuano a guidare – con ampio margine – la classifica mondiale dei paesi esportatori di sistemi d’arma. Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Germania rappresentano il 74 per cento del volume delle esportazioni. Tra i maggiori compratori va segnalato il quarto posto dell’Arabia Saudita (con il 10% del Pil speso in armi nel 2016), attore occulto nella guerra in Siria e palese in quella (peraltro da tutti ignorata) in Yemen.

In tempi di fortissima competizione internazionale, crisi economica e occupazionale e ora anche di dilagante terrorismo è chiaro (ma non giustificato) che la produzione e la vendita di armi non vengano messe in discussione, pur se eticamente immorali. Quello che è insopportabile è l’ipocrisia e la retorica messe in campo dalle élite politiche e da molti media.

Tra i produttori ed esportatori di armi c’è anche l’Italia, ben piazzata. Stando ai dati di Sipri, l’italiana Finmeccanica-Leonardo (il cui azionista principale è lo stato) è il nono produttore mondiale. A livello di paese, l’Italia è l’ottavo maggiore esportatore.

Il problema sta proprio in questo: che una buona parte delle armi vengono vendute a paesi in guerra, palese o a bassa intensità che sia. Gli stessi paesi che poi producono milioni di profughi che andranno a spingere sulle frontiere europee e occidentali in generale.

In un mercato così florido e poco trasparente per i gruppi terroristici è quasi uno scherzo procurarsi armi (Si vedano le ricerche di Conflict Armament Research, associazione finanziata dall’Unione europea). Soltanto un esempio per intenderci. Nel sito archeologico di Palmira, i miliziani islamici del Daesh hanno seminato migliaia di mine antiuomo (di cui un tempo anche l’Italia era grande e rispettata produttrice).

La giustificazione più immediata per il businness delle armi non è cambiata nel tempo perché regge sempre: «Se non le vendiamo noi, le venderà qualcun altro». Giusto, no?

Paolo Moiola




India: Water grabbing sul tetto del mondo


Gli stati himalayani sono determinati a sfruttare tutto il loro enorme potenziale idrico. Risulta infatti esponenziale l’aumento di richieste di sfruttamento della risorsa, sia da parte di imprese pubbliche (che ricevono fondi dalle grandi banche internazionali), che di imprese private. E le dighe, con il loro devastante impatto ambientale e sociale, si moltiplicano.

Enormi riserve idriche, ghiacciai, fiumi d’acqua abbondante e limpida, scarsa popolazione e poca industria: una ricetta perfetta per alimentare il nuovo grande gioco dell’Asia sulle risorse idriche. Cina e India si contendono uno dei beni più preziosi su quello che viene chiamato il «tetto del mondo», le montagne himalayane. Qui si concentrano le riserve di acqua dolce più vaste del globo terrestre e vi sgorgano i fiumi più importanti dell’Asia, il Brahmaputra, il Mekong, l’Indo e il Gange. Fiumi le cui acque, flora e fauna sono minacciate da inquinamento industriale, pesca sregolata, deforestazione e dalla costruzione di grandi infrastrutture, soprattutto dighe per la produzione di energia.

Il governo indiano e cinese si sfidano nello sfruttamento non solo delle acque del proprio territorio, ma anche di quelle dei paesi confinanti come il Nepal e il Bhutan. Un vero water grabbing (accaparramento idrico) fatto a colpi di trattati internazionali.

Da un lato ci sono i rappresentanti dei governi, dall’altro grandi imprese private o pubbliche costruttrici di infrastrutture idriche. Il tutto con la supervisione e il beneplacito delle istituzioni finanziarie nazionali e internazionali per lo «sviluppo», tra queste ultime la Banca Mondiale e la Banca Asiatica per lo Sviluppo.

Il ritorno di Banca Mondiale

Le priorità della finanza internazionale sembrano cambiate, dunque, dagli anni ’90, quando la Banca Mondiale aveva dimostrato interesse per le istanze dei diritti ambientali. Nel 1991, infatti, era stata la stessa Banca Mondiale a commissionare una valutazione sulla diga Sardar Sarovar sul fiume Narmada, ascoltando le proteste locali e la solidarietà internazionale.

L’ex membro del congresso Usa e alto funzionario dell’Onu, Bradford Morse, insieme all’avvocato canadese per i diritti umani Thomas Berger, viaggiarono nell’area per valutare l’impatto della diga sugli abitanti locali.

Il rapporto scritto dai due, noto come Morse Report, pubblicato nel 19921, rivolse pesanti critiche alla diga, promossa nel nome dello sviluppo e della riduzione della povertà. Puntò il dito sui maltrattamenti delle comunità indigene e sul fatto che i benefici economici attesi erano stati solo momentanei e non avevano favorito le comunità locali, mentre gli impatti ambientali e la frammentazione sociale cadevano sulle spalle dei soggetti più vulnerabili. Anche gli aiuti stanziati per «compensare» le famiglie danneggiate dalla diga erano risultati essere solo palliativi e avevano creato dipendenza economica tra coloro che prima potevano contare sulla propria terra e beni comuni gestiti dalla collettività.

In nome della sostenibilità

Il Rapporto Morse era stato il risultato di una lunga lotta da parte di movimenti sociali, in primis il Narmada Bachao Andolan (Movimento per la Salvezza della Narmada), e aveva portato la Banca Mondiale a ritirarsi dagli investimenti sulle grandi dighe.

Ora però il colosso finanziario fa finta di aver dimenticato e torna sui suoi passi. Nel 2013 ha rilanciato il water grab delle grandi dighe durante il «Fragility Forum» tenutosi a Washington, dichiarando che «l’idroelettrico a grande scala rappresenta una soluzione [al cambio climatico e alla povertà] per l’Africa, l’Asia Meridionale e il Sudest Asiatico». Nelle parole di Rachel Kyte, la vicepresidente della Banca per lo sviluppo sostenibile e influente voce dell’istituzione, «la scelta degli anni ’90 fu un errore»2.

I paesi «fragili» da soccorrere, in cui consolidare le economie garantendo generose infrastrutture, questa volta in nome della sostenibilità, sono tanti. Fra questi l’India, che gode di fondi diretti della Banca Mondiale e della sua branca asiatica, la Banca Asiatica per lo Sviluppo (Adb).

Il governo indiano appoggia pienamente il piano e non vede di buon occhio obiezioni in merito.

Per lo studioso indiano Ramachanda Guha, la lobby pro-idroelettrico ha avuto successo nell’eliminare le voci contrarie, inclusi gli studi ambientali scientifici esistenti, pur di non mettere a rischio lucrosi progetti3.

Sfruttare il più possibile

Gli stati himalayani, soprattutto Himachal Pradesh, Uttarakhand, Sikkim e Arunachal, sono determinati a sfruttare tutto il potenziale individuato. Risulta infatti esponenziale l’aumento di richieste di sfruttamento della risorsa idrica, sia da parte di imprese pubbliche (che ricevono fondi dalle grandi banche internazionali), che di imprese private grosse e piccole.

Per la geomorfologia delle strette valli himalayane, sono pochi i progetti che prevedono grandi laghi artificiali. Tuttavia, i cosiddetti progetti Run-of-River, cioè impianti a pompaggio o ad accumulazione, comportano lo scavo di numerose gallerie per le derivazioni d’acqua. Per scavarle, si ricorre, soprattutto nelle ore notturne, alla dinamite, e si sono registrati smottamenti sismici, innumerevoli crepe nelle case, prosciugamento di fonti d’acqua e importanti perdite nell’agricolura (soprattutto alberi da frutta) dovute alle polveri che si accumulano sulla terra e sulle foglie.

I nuovi progetti spesso non hanno un solido studio di fattibilità alle spalle. Secondo una fonte governativa, mentre una volta in Himachal Pradesh l’individuazione di un sito per un progetto idroelettrico prevedeva una visita in loco per considerare diverse variabili, ora si avvale della tecnologia remote sensing, attraverso satelliti e applicazioni cartografiche, per individuare i salti d’acqua. Molto spesso poi i permessi vengono concessi senza una visita sul luogo, che può essere ad esempio una vallata lontana e dalle strade non facilmente percorribili.

Il caso delle inondazioni dell’Uttarakhand

Per la fatalità della storia, nello stesso anno in cui la Banca Mondiale annunciava il suo ritorno nel grande giro d’affari delle dighe, una pesante pioggia di più giorni cadde sulla regione occidentale dell’Himalaya. Nello stato dell’Uttarakhand causò violente inondazioni e smottamenti del terreno. Fu il disastro «ambientale» più grave nel paese dopo lo tsunami del 2004. Era giugno, piena stagione turistica per i numerosi siti di pellegrinaggio hindu presenti nella zona. Ci volle molto tempo al governo per fare una stima delle vittime, che si aggira poco sotto le 6.000 e di cui si sono trovati pochissimi corpi.

Gli esperti climatologi ammisero che l’entità delle piogge era fuori dalla media stagionale, ma affermarono che il colpevole non si poteva cercare nel meterno. «Avete sentito alcuni arrivare a dire che è stato un omicidio. Ma io lo chiamo ecocidio», affermò Devinder Sharma del Forum for Biotechnology and Food Security alla Cnn. «La copertura forestale è stata ridotta terribilmente [per fare spazio a strade, linee di trasmissione e altre infrastrutture per le dighe], c’è una considerevole attività mineraria nella regione [soprattutto di estrazione di sabbie per cemento], e le strade sono costruite senza un piano ragionato. In più, i grandi progetti idroelettrici in varie fasi di costruzione sono nell’ordine delle centinaia, con i loro tunnel che sfregiano le montagne».

Vimal Bhai dell’organizzazione Matu Jan Sanghatan denunciò la situazione intorno alla diga di Tehri, la più alta di tutta la regione. Mentre ai tempi il governo e l’impresa pubblica che la gestisce, la Thdc, ne difendeva l’utilità per controllare inondazioni improvvise, ora si trovano con una infrastruttura danneggiata che rappresenta un rischio per la popolazione. In più, nei mesi immediatamente successivi al disastro, Thdc non volle diminuire l’altezza dell’acqua del lago e anzi chiese il permesso per aumentarne il livello e generare così maggiore elettricità.

L’urgenza di rivedere l’intera politica energetica

Dopo il disastro, la Corte Suprema dette immediatamente l’indicazione al Ministero dell’Ambiente di istituire una commissione d’inchiesta. Il documento finale dell’Expert Body (Eb) diretto dal Dr. Ravi Chopra e pubblicato nell’aprile successivo riconobbe la relazione diretta tra l’instabilità del terreno, le alluvioni e i progetti idroelettrici, e dichiarò chiaramente l’urgenza assoluta di fermare almeno 23 progetti e di rivedere profondamente l’intera politica energetica nella regione.

Il collettivo India Climate Justice ribadì che le cause erano state molteplici: eccessiva deforestazione che aveva creato instabilità del terreno e non permetteva l’assorbimento dell’acqua, turismo di montagna e traffico su strada sregolati, estrazione di sabbie dai letti dei fiumi, costruzioni inadatte senza regolari permessi e studi di hotel e altri edifici4.

Un concetto non condiviso e selvaggio di «sviluppo» per questa regione porta dunque inevitabilmente a politiche irresponsabili e complici. Il collettivo riaffermò che «questa tragedia è un crimine, perché i nostri legislatori e amministratori sono parte della grande ingiustizia climatica su scala globale, che minaccia, sfolla e uccide coloro che si trovano più impoveriti e marginalizzati».

La sconcertante perseveranza

Dopo la grande commozione e dolore provocati dalla tragedia, ciò che sconcerta è la perseveranza nelle stesse politiche energetiche e di gestione del territorio. E che non si limitano all’Uttarakhand.

Il vicino stato dell’Himachal Pradesh ha fatto dell’idroelettrico il fiore all’occhiello della sua promozione come green state, con una economia verde e con esclusiva produzione di energia rinnovabile. Tuttavia, anche qui si parla di centinaia di progetti in fase di pianificazione o costruzione, tra cui la più grande diga privata del paese, la Karchham Wangtoo5 dalla capacità installata di 1.200 Mw e di proprietà del colosso indiano Jindal Group.

Il vice chancellor dell’Università dell’Himachal Pradesh, prof. A. D. N. Bajpai ha messo in allerta per il rischio enorme a cui è esposto l’intero distretto del Kinnaur nel malaugurato caso di un terremoto nella regione, che è per altro dichiarata ad alto rischio sismico6.

Energia che non serve

Questo scenario risulta ancora più difficile da comprendere se si consultano i dati ufficiali, come ricordano organizzazioni quali Sandrp e il Manthan Centre. L’elettricità prodotta da queste grandi dighe non trova facilmente un acquirente, per il prezzo troppo alto o per l’eccessiva offerta, a seconda della stagione7.

Gli abitanti locali, soprattutto in Kinnaur, hanno lanciato lo slogan di una «no-go zone» per l’idroelettrico e difendono orgogliosamente la loro economia basata sull’agricoltura e sulla produzione di frutta. Si organizzano in comitati di supporto e in più occasioni le loro domande si sono unite a quelle dei lavoratori del cantiere, quando hanno incrociato le braccia per le condizioni di lavoro e l’insicurezza nell’escavazione dei tunnel, già costata la vita a un numero non registrato di lavoratori.

Nonostante in molti casi gli sforzi della resistenza non siano stati sufficienti, hanno alimentato una sempre maggiore coscienza della necessità di un cambio non solo nella tecnologia dei progetti. Poco a poco si diffonde una domanda più di fondo: per cosa viene usata questa energia e chi ne risulta beneficiato? Quali sono le altre tecnologie che si potrebbero utilizzare? Su quale scala? Quali sono le infrastrutture di cui davvero la gente locale ha bisogno, in un’ottica di decentralizzazione?

Anche se le risposte e le proposte alternative sembrano ancora lontane, spesso è proprio all’interno della resistenza che si schiudono le prime sementi di qualcosa di diverso, e la presa di coscienza ne è il primo fertilizzante.

Daniela Del Bene
Coeditrice di Ejatlas

Note

  • 1- Bradford Morse & Thomas R. Berger, Sardar Sarovar – Report of the Independent Review, reperibile in formato pdf nel sito ielrc.org.
  • 2- Howard Schneider, World Bank turns to hydropower to square development with climate change, «The Washington Post», 08-05-2013.
  • 3- Ramachandra Guha: Expediency trumps expertise, «The Gulf Today», 13-07-13.
  • 4- La dichiarazione si può leggere in Climate justice statement on the Uttarakhand catastrophe, «Sandrp. South Asia Network on Dams, Rivers and People», sandrp.wordpress.com, 25-06-2013.
  • 5- Il progetto Karchham-Wangtoo è la più grande infrastruttura idroelettrica dell’India in mano privata, del Jindal Group. Il gruppo austriaco Andritz ha partecipato con alcune componenti. Al momento 800 abitanti della zona hanno avviato un’azione legale per ottenere le compensazioni pattuite che non vengono rispettate.
  • 6- Rakhee Thakur, Mega projects endangering Himachal Pradesh, «The Times of India», 07-11-2015.
  • 7- Per informazioni più dettagliate: Ankur Paliwal, Drowned in power, «Down To Earth», downtoearth.org.in, 15-04-2014; e Hydropower in Himachal: Do we even know the costs?, «Sandrp. South Asia Network on Dams, Rivers and People», sandrp.wordpress.com, 04-10-2014.




Zambujal: C’era una volta il campo degli ulivi


Zambujal, il «campo degli ulivi», non è più campagna ma un’anonima periferia urbana abitata da immigrati, rom e famiglie scappate dalle ex colonie portoghesi. Qui sono presenti i missionari e le missionarie della Consolata.

A Zambujal, un bairro dentro l’area metropolitana della città di Lisbona, circa 15mila persone vivono per la gran parte in casermoni di quattro o cinque piani tutti uguali con finestre piccole e strette. Gran parte delle finestre dei primi piani è chiusa da pesanti grate. Le inferriate sono presenti anche all’interno dei palazzi nei quali quasi tutte le porte degli appartamenti sono protette da cancelli con catene e lucchetti. Le ampie strade lastricate, molte chiuse al traffico, che separano i caseggiati sono vuote.

Il nome Zambujal viene da una parola araba che significa campo di olivi, ma qui è difficile trovare qualcosa che richiami il verde o l’aria accogliente di un uliveto. Si incontra solo qualche fila di alberi appena piantati che lottano per sopravvivere.

Vivere insieme alla gente che si serve

Tre missionari della Consolata, padre José Matías, padre Albino Brás, entrambi portoghesi, e il diacono Geoffrey Menya, kenyano, risiedono e lavorano nel quartiere. I tre non vivono in una casa religiosa o in una canonica, ma hanno affittato un appartamento al terzo piano di uno di quei tanti anonimi palazzoni di cemento. «Abbiamo fatto la scelta di vivere non solo in mezzo alla gente, ma anche come la gente», dice padre Matías (che non si fa chiamare José per non essere confuso con i tanti altri che portano il suo stesso nome). «In questo modo stiamo mettendo in pratica la missione ad gentes che abbiamo scelto quando siamo diventati missionari».

Padre Matías è stato uno dei primi a venire a Zambujal, già nel 2003, quando dalla casa dei missionari a Cacem, a una decina di minuti di macchina da qui, ha cominciato a visitare le famiglie del quartiere e celebrare la messa dove poteva al piano terra di qualcuno dei grandi edifici residenziali dell’area. «Ma il fatto che non vivessimo qui, rendeva difficile avere contatti profondi e duraturi con la gente», ricorda padre Matías.

Quando lui è stato trasferito in Spagna, i suoi confratelli hanno continuato a collaborare con la parrocchia di Zambujal, fino al 2012, anno in cui hanno deciso di prendere una residenza permanente nel quartiere per iniziare una presenza regolare in collaborazione con le suore della Consolata. Padre Albino Brás, con un confratello e un seminarista del Kenya, ha così iniziato la nuova avventura.

Padre Matías, lasciata la Spagna, è tornato in Portogallo all’inizio del 2016. «Il lavoro qui è molto impegnativo. I bisogni umani e spirituali della gente sono tantissimi», sottolinea il missionario che un tempo è stato in Mozambico, «e, anche se qualche volta è davvero dura, non c’è alternativa alla scelta di vivere insieme alla gente che si serve».

È quello che pensano anche le missionarie della Consolata, suor Severa Riva e Ivaní de Morais che hanno preso un appartamento non molto distante da quello dei missionari condividendo lo stesso spirito.

Il multiculturalismo di Zambujal

Nonostante il loro impegno, i missionari riescono ad avere contatti regolari solo con una piccola parte della popolazione di Zambujal. È una realtà molto difficile, resa ancora più complicata dalle divisioni etniche del quartiere. Gli abitanti sono, infatti, divisi in tre grandi gruppi, con innumerevoli sottogruppi. Ci sono i portoghesi nativi del posto, poi gli immigrati che parlano portoghese e provengono dalle ex colonie (soprattutto da Capo Verde) e infine i Rom. Ognuno dei gruppi tende a non mescolarsi con gli altri e fare vita a sé. Normalmente la convivenza, pur difficile, è pacifica, ma ogni tanto si carica di tensione e violenza. I pesanti cancelli davanti alle porte di ingresso degli appartamenti, ne sono un segno.

Virtualmente tutti gli appartamenti di Zambujal ricadono sotto la categoria del social housing (come le nostre case popolari, ndr). Infatti furono costruiti dal governo negli anni ’60 e ’70 per accogliere i molti portoghesi che scappavano dalle ex colonie man mano che queste recuperavano l’indipendenza, non senza guerre e violenze, abbandonando i loro possedimenti oltremare. Il processo di decolonizzazione dei territori oltremare – da Capo Verde all’Angola al Mozambico in Africa, da Timor Est a Goa a Macao in Asia – causò un grande afflusso nel paese di ex coloni portoghesi e di immigranti di ogni gruppo etnico.

Quello portoghese è stato il più longevo tra gli imperi coloniali europei e uno dei più estesi, cominciato con la conquista di Ceuta in Marocco nel 1415, e continuato con la conquista e colonizzazione di parte dell’Africa, del Brasile e dell’Asia. Il processo di decolonizzazione, partito dal 1822, con la perdita del Brasile, proseguito negli anni ’60 e ’70 del Novecento con l’indipendenza delle colonie africane, si è concluso all’inizio del nuovo millennio, con il trasferimento di Macao alla Cina nel 1999 e la concessione della sovranità a Timor Est nel 2002. Più di cinquanta stati possono oggi rintracciare le loro origini nell’impero portoghese.

Per molti portoghesi che sono stati obbligati a lasciare le antiche colonie, il Portogallo era in realtà una terra straniera. La gran parte di loro, come i loro padri e i loro nonni, erano nati e cresciuti nei territori d’oltremare. Pur parlando portoghese erano degli stranieri e per molti di loro l’integrazione nella società nazionale è stata molto difficile. Al numero di questi forestieri si è poi aggiunta la grande quantità di migranti provenienti da quelle stesse ex colonie. I due gruppi vengono spesso uniti sotto l’unica definizione di Palops (gente proveniente da Países Africanos de Língua Oficial Portuguesa): proprio per loro il governo ha costruito quartieri come Zambujal.

Le iniziative di aggregazione

Scendiamo con i padri Albino e Matías le sei rampe di scale che portano dal loro piccolo appartamento al marciapiede sulla strada principale del quartiere. Giriamo a sinistra e, dopo pochi passi, attraversiamo un’ampia porta di ferro e vetri. Entriamo nel Centro de Consolação e Vida. Da qui partono tutte le attività dei missionari. Una vivacissima ed energica suor Ivaní ci fa da guida.

Oltrepassato l’ampio corridoio che fa da ingresso, nel quale si apre una stanzetta che serve da ufficio di accoglienza e sala d’attesa, entriamo nel laboratorio di taglio e cucito. Un gruppo di donne intente ai loro lavori ci accoglie: c’è chi taglia la stoffa, chi cuce, chi ricama, il tutto sotto lo sguardo attento di Elisa Cruz, una laica missionaria della Consolata. Stanno confezionando borse di vario tipo, tutte fatte a mano, dall’A alla Z. Ne esaminiamo alcune, la qualità è eccellente. La suora apre allora un grande armadio e abbiamo modo di apprezzare la bellezza e il disegno originalissimo dei tessuti creati e lavorati da quelle donne. Elisa ci spiega che tutta la loro produzione è su commissione e, quindi, tutto è già venduto ancor prima di essere fatto. Pagate le spese, il guadagno va tutto a sostenere il centro e le sue attività.

Dietro il laboratorio ci sono due piccole aule che servono per corsi di alfabetizzazione e scuola serale per gli adulti. Una piccola cappella con una porta che dà direttamente sulla strada è il cuore del Centro di Consolazione e Vita. Lì ci si ritrova per la messa e per la preghiera personale o a piccoli gruppi. Naturalmente non manca l’angolo cucina, necessario per quando si organizzano piccole feste, anche se la maggior parte del cibo viene portata già pronta da casa.

Il Caza (Centro artístico do Zambujal) è il punto d’orgoglio e di gioia di tutti coloro che sono coinvolti nel centro. Quando i locali non sono usati per la scuola o per il laboratorio, si trasformano in un vivaio di creatività: musica, arte, cinema, danza, yoga e tante altre attività.

Alla base di tutto c’è, sempre presente, l’obiettivo dello sviluppo umano e spirituale delle persone, gli interventi sociali, l’opera di dialogo e incontro tra i vari gruppi, l’attenzione all’ambiente, la catechesi e preparazione ai sacramenti, l’evangelizzazione. «Le vie del Signore sono infinite», dice sorridendo padre Albino. «Abbiamo fatto molti progressi con i diversi gruppi che vivono in zona, soprattutto con i Capoverdiani. Rimane però il grande problema dei Rom, che tendono a isolarsi e non interagiscono molto con gli altri. A volte arrivano al punto di escludere dalla loro comunità chi tra loro frequenta il centro. Ma noi continuiamo con i tentativi di coinvolgerli».

Usciamo dal Caza e ci dirigiamo alla palestra, un’altra delle iniziative di aggregazione dei missionari. Ci accoglie Luis, un giovane capoverdiano, che si presta subito a farci da guida. È una palestra perfettamente funzionante come potreste trovare ovunque. I macchinari non sono proprio all’ultimo grido, ma funziona tutto perfettamente. Tutti gli attrezzi sono stati regalati da altre palestre quando hanno rinnovato il loro equipaggiamento. Attraverso quest’attività i missionari raggiungono tre obiettivi: offrono un servizio molto pratico soprattutto ai giovani, creano un centro di aggregazione e di incontro dove persone di diverse provenienze possono interagire tra loro e allo stesso tempo incontrare i missionari, e, attraverso la quota di iscrizione (degli oltre duecento membri) si autofinanziano e pagano il personale addetto.

Il bel colore dell’olivo

Tornando verso l’appartamento dei missionari, c’imbattiamo in un gruppo che esce da un caffè che fa anche da drogheria, dove puoi comprare di tutto a tutte le ore. Alcuni di quegli uomini riconoscono padre Matías e il diacono Geoffrey. Non possiamo non fermarci. C’è una gran voglia di chiacchierare. Un anziano ci fa vedere un sacchetto pieno di caracóis (lumache) che ha appena raccolto in un prato, con la moglie ci farà una bella zuppa. Dal bar una voce di donna ci chiama. Dobbiamo proprio entrare. La signora Clara, nativa dell’arcipelago Madeira, ci accoglie con un grande sorriso e grande cordialità, sprizzando giovialità da tutti i pori. Ci offre un espresso, a spese della casa. Vicino a noi un uomo beve un bicchiere di vino, aperitivo prima della cena.

Il quartiere può sembrare squallido e triste, ma per un momento la gente di Zambujal dimentica i suoi problemi. Il cemento non sembra più così impenetrabile e i piccoli alberi che fiancheggiano la strada potrebbero anche crescere grandi e forti e riprendersi un po’ il bel colore dell’olivo.

Domenic Cusmano*

* Testo tradotto e adattato da Gigi Anataloni dalla rivista «Consolata Missionaries» (n. 1, 2017), pubblicata in inglese e francese dai missionari della Consolata in Canada e negli Stati Uniti.




Sudan: La speranza sottile


La guerra in Sud Sudan non si è fermata. Anzi, è diventata più cruenta e caotica. Con il moltiplicarsi dei gruppi guerriglieri e lo strapotere dell’esercito «regolare». Milioni sono le persone in fuga dalla propria terra. Anche a causa della fame che uccide. Il governo lancia un dialogo, reputato da molti di facciata. I responsabili di tre chiese chiedono aiuto al papa.

È il 28 ottobre 2016 quando tre capi religiosi del Sud Sudan giungono in Vaticano per incontrare papa Francesco. Sono monsignor Paulino Lukudu Loro, vescovo di Juba, il reverendo Daniel Deng Bul Yak, vescovo anglicano e il reverendo Peter Gai, moderatore della chiesa presbiteriana. Il papa li ha convocati qualche giorno prima, preoccupato dell’inasprirsi del conflitto nel paese. Nel luglio 2016, il cardinale Peter Turkson, presidente del Pontificio consiglio della giustizia e della pace si era recato in Sud Sudan per verificare la situazione.

Il paese più giovane dell’Africa (e del mondo), indipendente dal luglio 2011, è scosso da una guerra civile che sta assumendo connotati disastrosi (si veda MC agosto-settembre 2016).

Una guerra tra fratelli

Dal dicembre 2013 l’esercito governativo del presidente Salva Kiir, di etnia Dinka, fronteggia i ribelli dell’ex vicepresidente (lo è stato fino al luglio 2016) Riek Machar, di etnia Nuer. La situazione sul terreno è andata complicandosi e la guerra ha assunto connotazioni etniche. Delle 64 etnie presenti nel Sud Sudan, la quasi totalità si è schierata contro i Dinka. «Stanno nascendo nuovi gruppi guerriglieri – conferma padre Daniele Moschetti, fino a dicembre scorso superiore dei missionari Comboniani nel paese -. Poche settimane fa è nato un gruppo ribelle legato all’etnia Bari e comandato da Thomas Cyrillo». Giovanissimo, Cyrillo, vice capo dell’esercito regolare, ha disertato ed è subito stato accusato di corruzione. Poco dopo ha annunciato la nascita del suo gruppo guerrigliero. Altri gruppi, come quello intorno alle etnie Zande, Shilluk, stanno nascendo.

«L’esercito regolare invade le terre ancestrali dei vari popoli. Le donne e i bambini scappano, i giovani si organizzano per difenderle. In questo senso la guerra è etnica». Ma a loro volta i nuovi gruppi si macchiano di crimini efferati, perché devono sostentarsi, spostarsi. Per cui saccheggiano e usano ogni forma di violenza contro la popolazione civile (si veda box).

«Così oggi abbiamo oltre un milione e mezzo di sud sudanesi fuggiti all’estero, in Ciad, Etiopia, Kenya, Uganda. Altrettanti, su una popolazione totale di 12,5 milioni, sono sfollati interni, ovvero fuggiti dalle loro terre. Circa 300.000 sono in campi profughi nelle varie città sud sudanesi», continua padre Moschetti. E le uccisioni sono sempre più a sfondo etnico: la gente viene divisa per etnia e quindi massacrata per il solo fatto di appartenere a un dato gruppo.

Le Chiese unite per la pace

In questo contesto le chiese sono unite in una iniziativa ecumenica, sotto il South Sudan Council of Churches, e lavorano per il dialogo e la pace con programmi comuni e singole iniziative.

Lo scorso 26 febbraio papa Francesco, in visita alla parrocchia anglicana All Saints di Roma per le celebrazioni dei 200 anni della stessa, ha confermato di voler fare un viaggio nel paese. E, soprattutto, di volerlo fare insieme a Justin Welby, arcivescovo di Canterbury e capo della chiesa anglicana. Questo per dare un segnale forte.

Nonostante le numerose indiscrezioni di smentite, nel momento in cui scriviamo il Vaticano conferma questa possibilità. «Potrebbe svolgersi a ottobre – dice speranzoso padre Moschetti – dopo il viaggio in Colombia di settembre, probabilmente una visita lampo, una mezza giornata, ma sarebbe molto importante». E continua: «Però se penso ai mesi che ci separano da ottobre, con un conflitto che si sta allargando a macchia d’olio e può portare davvero a un’ecatombe, potrebbe addirittura essere tardi».

 

Dialogo «governativo»

Nel frattempo il governo di Salva Kiir ha lanciato il «suo» dialogo. Se ne parlava a dicembre ed è stato ufficializzato il 10 marzo scorso. Sono previsti incontri, conferenze. «Ma lui invita chi vuole. Non è stata un’operazione consultativa, ma nominativa. Il governo non si è consultato, ha invitato alcune personalità sud sudanesi che reputa rappresentative della società». Padre Daniele è scettico su questa iniziativa, dalla quale alcuni importanti esponenti si sono già defilati per evitare ogni strumentalizzazione. «Ad esempio monsignor Paride Thaban vescovo emerito di Torit, ha 81 anni e fa molto per la pace, ma ha preferito star fuori da questo dialogo organizzato dalle istituzioni».

Il dialogo sarebbe un paravento per il governo dietro cui nascondersi dalla comunità internazionale, Usa e Gran Bretagna in testa, che vorrebbero una stabilizzazione del paese. «Dovrebbe portare a far rispettare gli accordi del luglio 2015 di cui i governativi non hanno mai tenuto conto». L’accordo non piaceva, soprattutto ai cosiddetti «Dinka helders», personaggi influenti che stanno dietro o intorno al presidente. Uno di loro è il generale Paul Malong, potente capo dell’esercito, dinka ma di un clan diverso da quello di Kiir.

Machar fuori gioco?

Gli scontri sono iniziati a Juba e si sono estesi in diversi stati, a cominciare da quelli in cui c’è petrolio, che sono anche quelli a maggioranza nuer: Unity, Jonglei e Upper Nile. Ma è Unity il più colpito per morti e devastazione. È lo stato di cui è originario Riek Machar, l’altro signore della guerra.

Ma dove si trova oggi Machar? Fuggito nella foresta con 700 uomini dopo lo scoppio di violenti scontri a Juba, seguiti alla firma dell’accordo nell’estate 2015 e all’insediamento del governo provvisorio (aprile 2016), riparato in Congo, malato è stato poi curato a Khartum, capitale del Sudan. Ristabilito, ha fatto un appello a tutti i sud sudanesi di imbracciare le armi contro l’esercito governativo dei Dinka. «È in quell’occasione che abbiamo visto un cambiamento brusco della comunità internazionale rispetto all’appoggio a Machar, perché la sua chiamata alla guerra non è piaciuta». Andato in Sudafrica (dove peraltro ha delle proprietà) per farsi curare, ha tentato di organizzare un ritorno sul campo, ma è stato bloccato ad Addis Abeba (Etiopia). «Lontano dal terreno non riesce a comandare le truppe, ed ecco che stanno venendo fuori nuovi gruppi e nuovi leader militari, come Cyrillo, appunto».

Morire di fame

Il paese è in ginocchio anche per la fame. Una fame causata dalla carestia, ma soprattutto dalla guerra, dalla fuga della popolazione, dall’impossibilità di coltivare. «Oggi nell’Unity State si muore di stenti e di fame. Sono bambini, donne e vecchi che muoiono per primi. Gli altri sono nelle milizie o sono scappati. Il papa è cosciente della situazione, per cui vuole intervenire. Anche le Nazioni Unite non riescono a soddisfare tutte le esigenze. Il governo non lascia creare i corridoi umanitari per portare il cibo. E la gente ha iniziato a morire».

Il Sud Sudan è anche al collasso dal punto di vista economico. La moneta ha visto una svalutazione dell’850% nel 2016. «La banca centrale deve farsi prestare la valuta dalle banche commerciali ugandesi e keniane, perché non ha riserve e paga gli interessi.

Molti stranieri dei paesi confinanti dell’Africa dell’Est (Uganda, Kenya, Etiopia, ecc.), che mandavano avanti attività di tipo economico se ne sono andati. Tutto si è paralizzato».

AFP PHOTO / Charles Atiki Lomodong

Alleanze e risorse

I pozzi di petrolio rimasti attivi sono pochi. La strategia dei ribelli era di impedire le estrazioni per bloccare l’economia e i finanziamenti al governo. Nonostante questo, però, l’esercito di Kiir ha armi nuove come gli elicotteri da combattimento con i quali bombarda. È appoggiato da Russia, Ukraina, Israele. La Cina compra il petrolio. I ribelli sono molto meno armati, ma riescono comunque ad ottenere dei successi sul terreno. «Bisogna capire chi sponsorizza i ribelli. Gli interessi in campo sono molti: acqua (il Nilo), minerali, foreste. E poi il transito del petrolio, che porta soldi e prestigio. Attualmente gli oleodotti vanno tutti verso Nord, verso il Sudan, ma il Kenya sta costruendo un porto a Lamu, che sostituirà quello di Mombasa e vorrebbe farci arrivare un oleodotto dal Sud Sudan dal Jonglei, passando per Isiolo. Anche l’Etiopia vorrebbe che il petrolio sud sudanese passasse sul suo territorio, per andare al porto di Gibuti. Sono progetti enormi, del valore di diversi miliardi di dollari. L’Uganda invece è da sempre alleata di Salva Kiir». Così i capi guerriglieri fanno accordi con i governi interessati e ottengono armi in cambio di promesse di vantaggi futuri. Padre Daniele ha visto le varie fasi della storia del Sud Sudan. Oggi ha poche speranze.

«Non si vedono grandi sbocchi. Speravamo che questa nuova iniziativa del governo fosse sincera. Siamo all’assurdo: miseria, fame, insicurezza generale, fuga dal paese. Tutti segni negativi.

Un’iniziativa positiva darebbe una speranza alla gente. Il governo ha fallito e non vuole ammetterlo. Anche i ribelli saccheggiano, rubano, stuprano. Nel paese si ha paura dei propri giovani, un abbrutimento di chi dovrebbe proteggere i cittadini ed è diventato fautore di violenze continue. Ora la speranza è rappresentata solo dalle chiese. Spero davvero che papa Francesco vada in Sud Sudan il prima possibile».

Marco Bello


Testimonianza di un operatore umanitario

Il mio consiglio? Andatevene!

Le statistiche snocciolano freddi numeri. Mentre caldi ragazzi soldato devastano il proprio paese. La gente viene uccisa in base all’etnia. Gli occhi delle donne sfollate sono svuotati dalla fame e da ciò che hanno visto. E alcuni (pochi)?leader diventano ricchissimi. Racconto di un cooperante dal Sud Sudan.

Juba. «La sicurezza alimentare in Sudan del Sud continua a deteriorarsi con 4,9 milioni di persone (circa il 42% della popolazione) a rischio di grave fame prima dell’estate, e una prospettiva di crescita fino a 5,5 milioni di persone a luglio 2017, nel pieno della stagione delle piogge. Si afferma che la portata di questa insicurezza alimentare sia senza precedenti» (Ipc – Integrated Food Security Phase Classification in South Sudan gennaio – luglio 2017). Questo indica il bisogno, anzi il dovere, di intervenire subito, attraverso aiuti umanitari, sia in termini di distribuzioni di sementi e attrezzi agricoli – prima che inizi la stagione delle piogge (aprile-maggio) per riuscire ad avere un raccolto in un paio di mesi -, sia, e soprattutto, di distribuzione di cibo, cosa che non è assolutamente sostenibile e, probabilmente, fattibile, se consideriamo quante emergenze umanitarie ci sono nel mondo in questo momento.

Gli sfollati interni sono 1,89 milioni, più di 1 milione e mezzo i rifugiati nei paesi confinanti, e non solo a causa del conflitto cominciato nel dicembre 2013, ma anche per la mancanza di cibo. Possiamo però cominciare a contare anche chi ritorna dai campi rifugiati in Kenya (Kakuma) e da quelli ugandesi, visto che le condizioni di accesso al cibo lì non sono migliori, come pure all’educazione e alla salute.

Sono 7,5 milioni le persone che necessitano di assistenza e protezione umanitaria, su una popolazione stimata in 12 milioni, quindi più della metà (dati Ocha febbraio 2017 e Unhcr febbraio 2017).

Numeri freddi

Numeri, solo numeri, che potrebbero non dire molto, e in effetti come possiamo figurarci di quanta gente si sta parlando? Restano cifre e appelli, in attesa che qualcuno mobiliti qualcosa per rispondere a questa ennesima emergenza. Tutto questo è il risultato di più di tre anni di conflitto, di cui probabilmente nessuno sa la ragione, perché forse la conosce solo chi sta al potere. Motivi che non sono certo quelli di migliorare le condizioni della gente, fosse anche solo della propria etnia. Ormai chi va al governo ci sta giusto il tempo necessario per mettere da parte qualche soldo e prepararsi un rifugio all’estero, lontano da questo paese in cui più nessuno vuole vivere (nemmeno gli operatori umanitari). Ormai è un gioco noto.

I leader

Mentre i leader non si sa più chi siano, visto che ogni giorno nasce una nuova fazione etnica e politica, e, cosa ancora più grave, che ormai non hanno più il controllo delle forze armate, si moltiplicano i gruppi armati senza uniforme e senza bandiera. Nessuno sa più chi è colui che ha di fronte.

A questa gente ormai triste, spenta, senza speranze, con le case bruciate, distrutte, saccheggiate, chi ci pensa? Ma questi gruppi non sono stanchi di combattere inutilmente? Sì, perché fanno la guerra contro qualcuno che si sta arricchendo di denaro e di potere, mentre la gente continua a non avere nessuna prospettiva di miglioramento.

Le donne sanno solo che ogni giorno, dal momento in cui si alzano al momento in cui andranno a dormire, dovranno andare alla ricerca di cibo da dare ai propri figli e di acqua. Le case bruciate rimangono così per mesi, nonostante il materiale per la ricostruzione delle abitazioni sia disponibile localmente, perché per tutto il giorno le persone sono nella foresta a cercare cibo. Il wild food, ossia piccoli frutti degli alberi, è ciò che mangiano una volta al giorno, nient’altro. Per avere l’acqua occorre salire la montagna dove c’è la sorgente e rimanerci tutta la notte per riempire un secchio da 20 litri, perché scende goccia a goccia. E poi non è consigliato per le donne camminare ore a cercare cibo e materiale da costruzione, visto che i dintorni rigurgitano di gruppi armati informali e il rischio di violenza è altamente diffuso.

Alla domanda «qual è il maggiore problema?», è dura sentirsi dire «la mancanza di cibo», «la fame». Come è dura vedere gli occhi spenti e le espressioni vuote di ragazze adolescenti che non hanno nemmeno energia e forza per capire quello che dici, per rispondere.

Quale futuro?

La frequenza scolastica ormai è bassa, sia perché le mense sono senza cibo, sia perché le famiglie non hanno soldi per pagare la scuola. A questo si somma l’esodo dal paese, dei bambini e degli insegnanti, a causa di insicurezza e fame. Tra i molti sfollati interni sono tante le famiglie nelle quali i figli sono separati dai genitori. La gente del villaggio si occuperà dei minori non accompagnati, ma quale impatto psicosociale avrà il conflitto su questi bambini e su un’intera generazione (se non due generazioni)? Un conflitto che non vede una fine, mentre ogni giorno si apre o si riaccende un focolaio di scontri. E non si sa più tra quali parti. I gruppi contrapposti non sono più due, ma decine o centinaia. E forse l’etnia è la variabile che c’entra di meno. Oltrettutto gli operatori umanitari sono ormai un bersaglio comune, sia staff locale, sia internazionale, come pure le loro abitazioni e uffici, continuamente saccheggiati.

Crimini contro l’umanità

Esiste un sistema giuridico internazionale e un sistema penale internazionale, e ancora crediamo nella loro efficacia. Ormai è noto a tutti che qui le diverse fazioni si stanno macchiando di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. È visibile il genocidio, come denunciato dall’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, rimasto inascoltato. Quando si avvicinano a un’auto e chiedono se all’interno c’è gente della tale etnia per uccidere e bruciare solo quelli e far passare gli altri, cos’è? Perché non si possono fermare, attraverso azioni legali, coloro che stanno commettendo quotidianamente questi crimini?

Non si intravede nessuna svolta, si contano invece centinaia di persone lasciare ogni giorno la propria casa, per cercare rifugio in un paese confinante o un villaggio più pacifico all’interno del Sud Sudan, dove però si diventa facilmente vittime della fame, ormai diffusa anche nelle regioni che producevano per l’agricoltura interna, come le tre regioni del Sud. Lo scorso luglio, poi, il conflitto si è esteso pure a quelle zone. L’insicurezza diffusa ha progressivamente impedito l’accesso alla terra, la mancanza di sementi e attrezzi agricoli (spesso saccheggiati o abbandonati perché le famiglie sono state costrette a scappare) e la siccità, che ha colpito l’area lo scorso anno bruciando i raccolti, hanno fatto il resto. Se qualcuno mi chiedesse cosa consiglio, direi «andatevene», lasciate al più presto questo paese dove i politici fanno i loro giochi di potere e di denaro, mentre la gente resta loro sottomessa, perché, secondo la loro cultura, si abbassa la testa e si annuisce di fronte all’autorità.

Antonio La Torre*
* Nome di fantasia di un cooperante che vive e lavora in Sud Sudan ormai da mesi e preferisce mantenere l’anonimato.

 




Il botanico divenuto missionario


Farmacista, botanico e missionario, il gesuita moravo Josef Kamel (1661-1706) dall’Impero asburgico andò nelle Filippine, dove continuò il suo lavoro e le sue ricerche. Fu talmente bravo che Carlo Linneo, il famoso medico e naturalista svedese, gli dedicò il genere Camellia.

Il tè è una delle bevande più semplici e naturali al mondo. Una suggestiva leggenda racconta che la sua scoperta avvenne per puro caso nel terzo millennio a.C. ad opera del mitologico imperatore cinese Shennong. Questi stava scaldando dell’acqua quando alcune foglie staccatesi dai rami dall’albero sotto cui stava riposando, andarono a cadere nella tazza cambiando il colore del liquido in essa contenuto. Curioso, Shennong assaggiò la miscela gustandone il sapore e trovandola corroborante. Così fu scoperto, o inventando, il tè. Per secoli le foglie del tè furono considerate e utilizzate come medicamento più che come bevanda e non è certo un caso che Shennong, oltre ad essere considerato colui che insegnò l’arte dell’agricoltura agli uomini, è anche il maestro che diede avvio alla medicina tradizionale cinese. Passando dalla mitologia ai fatti storici, il primo documento in cui si attesta in modo inequivocabile l’uso del tè come bevanda risale al 59 a.C., durante la dinastia Han. Secondo un recente studio effettuato nel 2015 da un’equipe di ricercatori cinesi e pubblicato dalla rivista Nature, il suo uso si diffuse anche nelle aree occidentali della Cina, in particolare nel Tibet e nell’attuale Xinjiang, nel II secolo d.C., almeno quattro secoli prima di quanto si fosse fino ad oggi supposto.

Esiste un solo albero che produce le foglie con cui si prepara l’infuso del tè: la Camellia sinensis. Come suggerisce l’aggettivo sinensis, la pianta ha origine in Cina (esattamente nella Cina meridionale). Ma da dove deriva il termine «Camellia»?

Il farmacista di Brno

Il nome della pianta fu dato dal medico e naturalista svedese Carlo Linneo (1707-1778), il quale latinizzò il nome Camellia in omaggio ad un semisconosciuto gesuita moravo: Ji?i Josef Kamel (1661-1706), fratello laico e missionario nelle Filippine.

Kamel nacque a Brno (ora in Repubblica Ceca), il 21 aprile 1661. Sua madre era austriaca, mentre il padre era moravo. Brno, facente parte dell’Impero asburgico, era da poco stata nominata unica capitale del Mangraviato di Moravia, premiando la strenua difesa opposta dalla città alle truppe svedesi le quali, dopo aver conquistato la città di Olomouc, minacciavano di marciare su Vienna. L’ordine dei Gesuiti stava godendo di grande popolarità perché uno degli eroi della resistenza era stato Martin St?eda, rettore del Collegio gesuita cittadino. Sull’onda dell’entusiasmo per la vittoria, il pittore Martin Antonin Lublinsky dipinse uno dei rari ritratti di St?eda, oggi conservato nella Galleria Morava di Brno. È una raffigurazione mistica, che mostra la temporanea ascensione al cielo del rettore nel momento in cui gli svedesi decidono di abbandonare l’assedio. La Madonna che gli rende omaggio e al tempo stesso la medaglia che mostra l’imperatore Ferdinando III d’Asburgo vogliono accentuare il ruolo avuto dal prelato come difensore dell’Impero asburgico e la sua figura di mediatore tra l’imperatore e Dio.

Forte degli onori attribuiti alla compagnia, la famiglia di Ji?i fu ben felice di donare il proprio figlio ai Gesuiti. Fu in questa istituzione che Kamel studiò con passione la botanica e divenne, nel 1679, farmacista, praticando la professione nella farmacia del collegio.

Il 12 novembre 1682 Kamel entrò in noviziato a Brno e dal 1685 diresse come fratello laico la farmacia del collegio della Santa Trinità di Jind?ichuv Hradec per poi trasferirsi, l’anno seguente, a ?esky Krumlov. Nella piccola cittadina boema restò solo pochi mesi perché fu lui stesso a chiedere, ed ottenere, di essere mandato missionario oltreoceano.

Nelle Filippine

Nel 1688, dopo essere partito da Cadice, arrivò nelle Filippine, colonia spagnola, dove venne assegnato al Colegio Màximo de San Ignacio, il collegio centrale dei Gesuiti di Manila. L’esperienza farmaceutica maturata in Boemia e la profonda passione per la botanica, indussero il superiore di Kamel ad affidargli il compito di fondare la prima farmacia del paese. Lui stesso preparava le medicine, che distribuiva gratuitamente ai più poveri, approfondendo la conoscenza della flora e della fauna locale.

Il nuovo ambiente in cui operava, però, era assai diverso da quello in cui era cresciuto e in cui aveva fatto pratica: il clima, la cultura, la flora riducevano spesso le sue conoscenze farmacologiche acquisite in Europa a teorie poco concretizzabili e la frustrazione per la sua impotenza nel comprendere le proprietà curative di questa o quella specie sono chiaramente percepibili nei suoi diari e nelle sue lettere.

Kamel decise, dunque, di intraprendere nuove ricerche botaniche, disegnando nei suoi appunti ogni genere di pianta, frutta, foglia che riteneva utile per il suo lavoro e identificando ognuna di queste con i nomi locali cercando di tradurli in diverse lingue europee.

Ji?i Josef Kamel fu così il primo a classificare le piante e gli animali delle Filippine e durante le sue ricerche scoprì le proprietà del «fagiolo (fava) di Sant’Ignazio» (Strychnos ignatia), che prese il nome dal fondatore dell’ordine gesuita ed i cui semi, essiccati e triturati, sono oggi utilizzati in omeopatia per l’estrazione della stricnina.

Per poter avere sottomano gli ingredienti necessari al fine di approntare i farmaci in modo veloce e poco dispendioso, Kamel iniziò a coltivare le erbe in un orto che, in pochi anni, si sarebbe trasformato nel primo orto botanico della colonia spagnola.

La collaborazione con la «Royal Society»

In meno di un decennio il gesuita moravo si meritò l’applauso non solo dei suoi confratelli (il suo superiore, il boemo Paul Klein, si sentì in dovere di scriverne gli elogi in una lettera indirizzata ai gesuiti in Boemia), ma anche di James Petiver, farmacista e botanico, nonché membro della prestigiosa Royal Society di Londra. La società britannica aveva da poco adottato il concetto scientifico baconiano: la «veracitas naturae» doveva essere cercata nell’autorità dei sensi. Era quindi indispensabile studiare i fenomeni non sui libri, ma inserirsi all’interno della natura. I nuovi scienziati dovevano viaggiare o, se questo non fosse stato possibile, appoggiarsi a qualcuno di assoluta e provata fiducia e preparazione che lavorava sul campo. Kamel poteva essere uno di questi uomini e il tempo avrebbe premiato la stima riposta da Petiver sul fratello laico gesuita.

Per mantenere i contatti e scambiare missive, informazioni, metodi di studio, ci si serviva delle rotte commerciali e delle compagnie navali che solcavano i mari in lungo e in largo tra le varie colonie. Anche allora, come oggi, sussistevano problemi diplomatici e politici che impedivano le regolari comunicazioni tra le parti del mondo governate da paesi rivali. I rapporti tra Spagna e Gran Bretagna erano tesi e le navi della Compagnia delle Indie Orientali non avevano il permesso di attraccare nei porti delle colonie spagnole. La Compagnia si avvalse, quindi di intermediari, generalmente indiani, armeni e portoghesi affittando vascelli battenti bandiere amiche della corona spagnola.

Inoltre ogni stato e ogni istituzione, religiosa o secolare che fosse, conservava gelosamente le proprie scoperte e non gradiva che queste, di qualunque natura fossero, venissero divulgate a nazioni o organizzazioni rivali. Kamel ebbe, però, la fortuna di avere come rettore Martinus Sola, il quale lo aiutò a eludere i controlli delle autorità spagnole, permettendogli di mantenere la corrispondenza con la Royal Society.

Un’altra difficoltà era la lingua, in particolare per Kamel, che non conosceva l’inglese. Le missive, quindi, si esplicitavano in latino.

Nel gennaio 1698 Kamel spedì tramite intermediari armeni e portoghesi a Samuel Browne, un chirurgo della Compagnia delle Indie Orientali, il suo libro «Herbarium aliarumque stirpium in insula Luzone Philippinarum primaria nascentium Syllabus» (Rassegna delle piante e degli arbusti che crescono a Luzon). Browne avrebbe poi dovuto inviare il pacco a James Petiver e al suo collega John Ray. Assieme al suo lavoro, Kamel inviò anche alcuni semi di alberi. Nulla, però, giunse in Gran Bretagna perché la nave venne attaccata dai pirati. Dopo un primo, comprensibile, scoramento per aver perso dieci anni di intenso lavoro, il gesuita si rimise all’opera e nel gennaio 1699 rispedì libro e semi che, questa volta, arrivarono nelle mani dei botanici. Lo studio fu apprezzato e nel 1704 venne pubblicato come appendice di 96 pagine al terzo volume della «Historia plantarum; species hactenus editas insuper multas noviter inventas & descriptas complectens» di John Ray. Oltre a descrivere erroneamente Kamel come reverendo padre (in realtà Kamel non prese mai i voti), nell’appendice vennero eliminati i preziosi disegni del gesuita, essenziali per una corretta comprensione del trattato. Questa omissione, causata da questioni economiche, oltre a contrariare l’autore degradò il lavoro di Kamel, tanto che i maggiori botanici del secolo, tra cui Linneo (nato l’anno dopo la morte di Kamel), reputarono il supplemento di nessun interesse.

Per sua fortuna, però, pochi mesi prima la Royal Society aveva pubblicato «Observationes de Avibus Philippensibus», il primo studio in assoluto sugli uccelli nelle Filippine e, soprattutto, il «Gazophylacium naturae et artis», decadi prima di Petiver, in cui furono inseriti numerosi disegni di Kamel. Entrambi questi lavori concessero al gesuita la fama internazionale.

L’omaggio di Carlo Linneo

Un grosso contributo nel far conoscere il farmacista moravo al mondo della botanica arrivò dall’Indonesia. Kamel, nel tentativo di cercare un’alternativa alla via di comunicazione con l’Europa, la trovò nella rotta per Batavia (oggi Giacarta), colonia olandese. Qui, in modo fortuito, Willem ten Rhijne, il più esperto botanico nel Sud Est asiatico, ebbe a trovarsi tra le mani uno dei lavori del gesuita. Nel luglio 1698 ten Rhijne propose a Kamel una collaborazione che durò fino alla morte dell’olandese, avvenuta nel giugno 1700. Da parte sua Linneo, dopo l’iniziale delusione dell’appendice dell’«Historia plantarum», cominciò a capire lo spessore scientifico del lavoro di Kamel e nel 1753 decise di onorarlo dedicandogli il nome di Camellia, l’albero da cui si raccolgono le foglie del tè. Contrariamente a quanto generalmente si scrive, sembra che Kamel riuscì effettivamente a vedere di persona l’albero del tè o, almeno, la sua foglia. Un suo esemplare venne trovato nell’erbario personale del missionario gesuita e lui stesso ne riportò anche un disegno, assieme al frutto, nominandola come «tchia» (il nome che molte culture orientali danno al tè). Disegno datato 1700 e oggi conservato nell’Università Cattolica di Lovanio, in Belgio.

La notizia della morte di Ji?i Josef Kamel, occorsa per un’infezione intestinale il 2 maggio 1706 a Manila, arrivò in Europa solo nel marzo 1710, quando il suo principale corrispondente, Petiver, seppe dell’accaduto da Vincenzo Serrano, confratello di Kamel. Le comunicazioni con le Filippine, già difficili in condizioni normali, divennero proibitive a causa della guerra di successione spagnola.

La pianta del tè

Nonostante Linneo conferì a Kamel l’onore della denominazione botanica della Camellia sinensis, il missionario moravo, come detto in precedenza, poco o nulla scrisse della pianta.

Fu, invece, il medico tedesco Andreas Cleyer che, durante le sue due visite in Giappone nel 1682-84 e nel 1685-87, descrisse per primo la pianta del tè. Nel 1712 il naturalista e dottore tedesco Engelbert Kaempfer, che viveva a Nagasaki, scrisse il «Amoenitates Exoticarum», considerato il primo studio scientifico europeo sulla pianta del tè (che Kaempfer descrisse con il nome giapponese di «tsubakki» e «sasanqua»), pur dedicando all’albero un trattato di sole due pagine e mezzo. Da parte sua Linneo non sospettò mai che la pianta di Thea sinensis, il nome botanico dato alla pianta da James Petiver nel 1702, fosse la stessa della Camellia. Nel suo libro «Species Plantarum», Linneo distinse la Thea sinensis dalla Camellia sinensis.

Solo nel 1818 Robert Sweet si accorse dell’errore dello scienziato svedese e decise di rinominare tutte le specie di Thea sinensis come Camellia. Oggi vi sono quattro varietà riconosciute di Camellia: la Camellia sinensis sinensis, la Camellia sinensis assamica, la Camellia sinensis pubilimba e la Camellia sinensis dehungensis.

I lavori di Jiri Josef Kamel oggi sono custoditi nel British Museum, mentre nella facoltà teologica dell’Università di Lovanio (Belgio) sono depositati 260 disegni di piante medicinali, animali e minerali delle Filippine redatti dal missionario di Brno.

Piergiorgio Pescali




Colombia: La pace bussa due volte


I guerriglieri delle Farc hanno lasciato i loro rifugi per andare nei «campi di normalizzazione». Dopo il referendum del 2 ottobre 2016, la fine di 52 anni di conflitto interno sembrava in pericolo. Invece, la pace ha bussato due volte. Il 24 novembre è stato firmato un nuovo accordo e il processo di pace ha avuto inizio. Di questo e altro abbiamo parlato con mons. Luis Augusto Castro Quiroga, presidente della Conferenza episcopale colombiana e mediatore nelle lunghissime trattative tra il governo di Manuel Santos e le Farc.

L unedì 3 ottobre tutto sembrava sfumato, volatilizzato: quattro anni di negoziati, la possibilità di porre fine a 52 anni di guerra civile, la speranza di un nuovo inizio per il paese. Il referendum sull’accordo di pace tra governo?Santos e le Farc – peraltro disertato dalla maggioranza dei colombiani – aveva visto prevalere, per poche migliaia di voti, il «no». Invece di perdersi d’animo, le parti si sono subito rimesse attorno a un tavolo per ascoltare le voci dissenzienti e per rinegoziare i punti più controversi.

In poco più di 40 giorni si è arrivati a una nuova edizione dell’accordo, che il 24 novembre è stato firmato dal presidente Manuel Santos e dal comandante Rodrigo Londoño, alias Timochenko, leader delle Farc. Pochi giorni dopo il testo è passato al vaglio del Senato e della Camera dei rappresentanti, che lo hanno approvato. Alla votazione non ha partecipato lo schieramento dell’ex presidente?Álvaro Uribe Vélez, contrario all’accordo per definizione (oltre che per precisi calcoli politici).

Considerata la lunghezza e difficoltà del percorso, è ancora troppo presto per dire se la pace arriverà per davvero. Quello che però si può dire con certezza è che le Farc (a parte piccole frange isolate) stanno rispettado gli impegni sottoscritti. A gennaio e febbraio migliaia di guerriglieri – tra cui 87 donne incinte e 65 madri allattanti – hanno lasciato montagne, foreste e accampamenti per andare nei 27 «campi transitori di normalizzazione» (Zonas veredales transitorias de normalización e Puntos transitorios de normalización) dislocati sul territorio del paese. Qui, al momento stabilito, consegneranno le armi nelle mani dei rappresentanti delle Nazioni Unite e cominceranno la preparazione per il loro reinserimento nella vita civile e il passaggio alla legalità.

«È cominciata l’ultima marcia delle Farc», ha annunciato l’Alto Commissariato per la pace (Alto Comisionado para la paz). Una frase ad effetto, ma fedele a ciò che sta accadendo.

Il prossimo settembre papa Francesco visiterà la Colombia. Al suo viaggio è stato dato un titolo significativo: «Demos el primer paso», «Facciamo il primo passo». Ad accogliere il papa non ci sarà mons. Luis Augusto Castro Quiroga, attuale presidente della Conferenza episcopale colombiana (Cec), che a luglio concluderà il suo mandato. Uno scherzo del destino considerando quanto, fin dagli anni Ottanta in Caquetá, mons. Castro si è speso per la pace e il suo ruolo di mediatore (non sempre compreso e sostenuto anche all’interno della stessa Chiesa cattolica colombiana) nei colloqui tra il governo?Santos e le Farc.

Abbiamo incontrato mons. Castro per parlare non soltanto del processo di pace, ma anche di tutti i problemi che pesano sulla Colombia a partire dalle diseguaglianze e dal narcotraffico.

Margot Silva, della FARC, con suo figlio  / AFP PHOTO / Luis Acosta

Dal «no» al nuovo accordo

Mons. Castro, al referendum del 2 ottobre ha vinto il «no» all’accordo di pace. Si è trattato di una sconfitta o semplicemente di uno stop temporaneo sul cammino verso la pace?

«È stata innanzitutto una sconfitta che però si è convertita in un passaggio interlocutorio. È stata una sconfitta sì, ma in una partita giocata tra due minoranze estreme perché la grande maggioranza dei colombiani non ha votato. E non ha votato soprattutto perché non aveva inteso di cosa si trattasse, cosa fosse in gioco.

Continuamente, direi tutti i giorni, io ripetevo al governo: fate un po’ di pedagogia, spiegate questa domanda bene e con semplicità.

Non da avvocato ad avvocato, ma a una persona semplice per aiutare a capire l’importanza di tutto questo. Non lo hanno fatto. Quindi, quelli del no invece di spiegare hanno iniziato a instillare terrore nei colombiani. Sembrava che il processo di pace fosse un processo di guerra. Sembrava un processo contro i colombiani e non a loro favore. Questa propaganda piena di terrore ha fatto sì che molti colombiani abbiano votato per il no.

E alla fine, per pochissimo, quelli del no hanno battuto quelli del sì.

Fin qui, dunque, è stata una sconfitta. Questa è però servita affinché sia quelli del sì come quelli del no s’incontrassero. E soprattutto s’incontrassero quelli del no e il governo per vedere quali fossero le modifiche che essi chiedevano per poter essere soddisfatti e dire sì al processo. Per molti giorni si sono riuniti e alla fine si è arrivati a una nuova edizione dell’accordo».

Le Farc come hanno reagito alla bocciatura dell’accordo iniziale, quello di agosto?

«La guerriglia è stata molto responsabile. Ha accettato tutte le osservazioni acconsentendo che esse entrassero nel nuovo schema d’accordo. Io stesso sono rimasto tutto un giorno con loro, mostrando le debolezze che c’erano nel testo di agosto e dicendo che avrebbero dovuto considerarle. E così hanno fatto.

Non si è tornati a votare con un referendum. Tutto è passato al Congresso (Senato e Camera dei rappresentanti, ndr), che è l’organo naturale di un paese, e questo ha iniziato a studiare e votare tutti i punti. E a votare le leggi necessarie affinché i punti si traducano in misure legalmente operative».

Mi permetta di insistere sul referendum di ottobre. Pur lavorando da sempre per la pace, come presidente della Conferenza episcopale, lei non si era dichiarato chiaramente a favore del «sì». Come mai?

«È stata una decisione della Conferenza episcopale, assunta tutti insieme.

Ci siamo dichiarati a favore del voto: che tutti i colombiani e tutti i cattolici andassero a votare. Però non abbiamo dato un’indicazione: né a favore del “no”, né a favore del “sì”. Doveva maturare nella coscienza dei cittadini ciò che a essi appariva come la scelta migliore. E così hanno fatto. Liberamente. Così abbiamo proceduto. Certamente a molti non è piaciuto quello che abbiamo fatto, neppure ai sostenitori del no. Tuttavia, il comportamento era corretto: fare appello alla coscienza di ogni colombiano, invitare a studiare la questione e quindi prendere una decisione. Questo è stato il nostro suggerimento».

Il post conflitto e le «nuove stanze» della Colombia

Lei parla continuamente di «pedagogia della pace». Cosa intende?

«È cercare di far capire alla Colombia il significato di questo processo. Soprattutto il post conflitto. Io mi sono dato un compito: disegnare un’immagine che la gente semplice capisca. Il post conflitto è come la costruzione di una casa nuova. In cosa consiste la novità delle diverse stanze? Che ognuna ha qualcosa che prima non esisteva. Per esempio, la stanza della politica. Essa necessita dell’elemento dell’inclusione, un elemento sempre assente in questi anni. Tutti coloro che erano esclusi dalla politica presero le armi contro lo stato. Prendiamo l’economia. In Colombia essa dà vantaggi solamente a un gruppo molto piccolo di colombiani. È un’economia a cui manca l’elemento della solidarietà. Se si firma la pace, occorre inventarsi un’economia solidale, come sempre richiesto dalla Chiesa. E così per gli altri settori: l’istruzione, la cultura.

Tuttavia, una casa senza cemento cade. Ci sono tre tipi di cemento. Quello etico, che naturalmente ha a che vedere con l’onestà. Come in qualsiasi parte del mondo la corruzione è un elemento molto dannoso. Essa danneggia profondamente la vita di ogni colombiano. Ecco perché è necessario un cemento etico. In secondo luogo, è necessario un cemento spirituale. Esso è il perdono e la riconciliazione. Infine, c’è il cemento culturale. È necessario avere una cultura della vita, dei diritti, delle relazioni umane. L’elemento culturale è molto importante per costruire questa nuova società.

Bene, questa è la pedagogia che può entrare facilmente nella testa di qualsiasi persona, perché tutti sappiamo come si costruisce una casa. Secondo me, questa immagine aiuta a capire il futuro della Colombia in termini di pace».

Monsignor Castro, ci spieghi perché le vittime dovrebbero perdonare.

«In Colombia, le vittime comprovate ufficialmente sono 8 milioni. Però per ognuna di loro ce ne sono almeno due in più: un figlio con mamma e papà, un padre con moglie e figli. Se per ogni vittima ce ne sono altre due coinvolte, arriviamo alla cifra di 24 milioni di vittime. Questo significa il 50% della popolazione. Se non ci sarà il loro perdono, mai smetteranno di essere vittime.

Non esiste la vittima felice. Una vittima sarà sempre infelice. Per questo è importante passare dalla condizione di vittima a quella di sopravvissuto. “Con l’aiuto di Dio io sono stato capace di superare l’odio e il sentimento di vendetta e costruirmi un futuro differente”. Questa è la speranza per ogni vittima. Per questo si insiste sul perdono. E sulla riconciliazione».

Le Farc non sono un cartello

Secondo rapporti internazionali e reportage, già dagli anni Novanta le Farc si sarebbero trasformate da organizzazione guerrigliera (o terrorista, per alcuni) in un cartello del narcotraffico che guadagna milioni di dollari. Questa interpretazione è realistica o è manipolata per motivi politici?

«Io direi più la seconda ipotesi che la prima. Le Farc sempre hanno negato di essersi convertite in un cartello della droga.

I guadagni che avevano venivano dalle imposte: se un narcotrafficante voleva droga, doveva pagare alla guerriglia una tassa. Il business rimaneva però nelle mani dei narcotrafficanti.

Per non essere troppo radicale direi che la gran parte delle Farc ha vissuto di questa imposta, nota come vacuna. Non possiamo scartare l’ipotesi che qualcuno si sia messo nel narcotraffico. Però non a livello di organizzazione.

Alcuni guerriglieri non hanno accettato il processo di pace e si sono staccati (sarebbero circa 100 uomini del Frente Primero, di stanza in Guaviare, guidato da Iván Mordisco e Gentil Duarte, e alcune decine appartenenti ad altri fronti, ndr). E credo, come tanti, che lo abbiano fatto perché si sono messi in questa attività. A costoro interessa il denaro e non la pace in Colombia. Sono delinquenti comuni. Però nelle Farc non c’è mai stata una scelta ufficiale di trasformarsi in trafficanti di droga veri e propri. L’hanno usata per ottenere risorse. Come lo hanno fatto con altri strumenti – orribili! – tipo il sequestro (le cosiddette «pescas milagrosas», ndr).

Naturalmente, in questo momento, le Farc cercano di dimostrare che mai sono state dei mercanti di droga. Allo stesso tempo ammettono che chiedevano soldi ai narcotrafficanti per autofinanziarsi».

Con quali esponenti delle Farc lei ha avuto modo di parlare?

«Con molta gente. Con i dirigenti. Con Iván Márquez, per esempio. Una delle ultime volte mi ha sorpreso. Durante una conversazione, a l’Avana, venne fuori una espressione latina. “Mi ricordo ancora qualche frase in latino”, disse lui. “E dove lo ha imparato?”, chiesi. “In seminario”, rispose. “E chi glielo insegnò?”, continuai io. Non so se posso dirlo in questa intervista, ma i padri della Consolata erano stati quelli che gli avevano insegnato il latino.

Un giorno egli decise di lasciare il seminario, ma chiese al vescovo se avesse potuto dargli un lavoro. Lui lo nominò professore in una struttura educativa. Il problema di Iván Márquez era che credeva che quel vescovo fossi io. Invece era mons. Cuniberti. In ogni caso, l’uomo ha maturato un grande rispetto per i missionari della Consolata che sono stati suoi formatori in filosofia, latino e altre discipline.

Questo lo racconto per dire che il dialogo fluiva in maniera molto facile, tranquilla e sincera. Quando il mio collaboratore portava una lista di richieste della gente, Márquez le prendeva e le distribuiva tra i suoi uomini affinché se ne occupassero. Con lui si dialogava. Con Timochenko, il leader maximo delle Farc, ci siamo incontrati solamente una volta. Verso la fine, quando capimmo che loro erano realmente decisi a fare il passo dalla guerra alla pace. E che non c’erano possibilità di tornare indietro».

Le cause economiche e sociali che, nel 1964, portarono alla guerra sono tuttora presenti: concentrazione della terra in poche mani, diseguaglianze, carenza di sanità e istruzione pubbliche. Lei non crede che senza una soluzione concreta di queste problematiche, la pace non potrà mai diventare effettiva?

«La prima causa della ribellione delle Farc contro lo stato fu la loro esclusione dalla politica. Non fu per la povertà né per altri motivi. Il fatto è che, essendo esclusi dalla politica, non potevano lavorare sugli altri aspetti dell’esistenza. Oggi l’obiettivo è integrarsi nella politica. Detto questo, l’accordo di pace non è tanto sugli elementi politici, dati per acquisiti, quanto su tutti gli altri aspetti della vita colombiana. In primo luogo, l’aspetto della terra, una terra superconcentrata in poche mani che non sono certamente quelle dei poveri. E poi il problema agricolo. Tutto è stato studiato nell’accordo di pace che è stato approvato. Una cosa è deciderlo, un’altra è metterlo in pratica. Per fare questo si richiedono ingenti quantità di denaro. Per fortuna molti paesi hanno iniziato ad aiutare».

L’applicazione di cui lei parla ha avuto inizio?

«È iniziata il primo dicembre del 2016. È iniziata con la definizione delle aree dove si concentrerà la guerriglia per le varie fasi del processo. La prima fase è quella del disarmo. Poi la formazione per integrarsi positivamente nella società. Formazione anche dal punto di vista lavorativo, apprendendo elementi che servano per aprirsi le porte nel mondo del lavoro. In generale, la implementazione di un accordo è più difficile della sua approvazione» .

Uribe, il grande oppositore

Mons. Castro, la sua opinione su Álvaro Uribe e sulle Autodefensas unidas de Colombia (Auc).

«Mettere questi due soggetti nella stessa domanda è una cosa… maliziosa… Sono due cose differenti. Io credo che il presidente Uribe

sia stato ferito quando Santos, già ministro sotto la sua presidenza, fu nominato presidente e prese una linea totalmente autonoma rispetto alla sua. E lo fece fin dal suo discorso iniziale. Questo ha fatto sì che Uribe sia diventato un grande oppositore.

Quando papa Francesco ha invitato Santos in Vaticano ha chiamato anche Uribe per cercare un riavvicinamento tra i due, ma non vi è riuscito (a dicembre 2016, ndr). Naturalmente Uribe ha molti nemici e si dice che, in passato, egli abbia avuto rapporti con i gruppi paramilitari come le Auc, composti da delinquenti. Su questa cosa però io non dico nulla perché non ho elementi per giudicare».

Chiudere il «ciclo del dolore»

Abbiamo visto che i numeri delle vittime sono impressionanti. Cosa può dire a una persona che ha perso un familiare o a un profugo?

«A queste persone si possono dire due cose. In primis, che esse hanno la possibilità di fare reclamo contro lo stato per i danni e le conseguenze sofferte perché la guerra era contro lo stato. Questo c’è negli accordi di pace.

In secondo luogo, come ho già spiegato, nel Tribunale per la pace ogni guerrigliero è obbligato a dire ciò che sa in termini di sparizioni, morti, sequestri. Se vuole avere degli sconti di pena, deve dire tutto quello che sa. Come successe in Sudafrica dove la commissione di conciliazione diceva: “Se dice la verità, lo favoriremo. In caso contrario, la giustizia cadrà su di lei con tutto il peso della legge”.

Le vittime, molte vittime possono ottenere risposte in termini di verità, che poi è quello che chiedono. “Che è successo a mio figlio?”, “Che è successo a mio marito?”, “Dove sta il cadavere? Se lo hanno ammazzato, che si possa almeno fare il funerale”. Tutto questo per chiudere il ciclo del dolore. Se esso non si chiude, lascia tutti nell’incertezza continuando a soffrire tremendamente.

Pertanto, da un lato ci sarà l’azione del Tribunale per la pace (organo giudiziale, ndr), dall’altro la Commissione della verità (organo extragiudiziale, ndr).

Da ultimo, l’ho già detto, bisogna invitare le vittime a fare un atto di coraggio: perdonare per non essere più vittime, perché il futuro che meritano non deve essere questo. Non cioè una triste vittima, ma una persona che si è conquistata un progetto di vita, un futuro differente. Una persona che, con l’aiuto di Dio, riconquista la tranquillità e serenità che merita».

Dunque, possiamo riassumere tutto in tre parole: verità, giustizia, perdono. È così?

«Sì, è corretto. Tutte e tre sono parole importanti. Verità per le vittime. Giustizia perché la guerriglia deve rispondere di quello che ha fatto. E perdono che è la motivazione interna di una persona per essere nuovamente felice».

Gli indigeni e il conflitto

L’oltre mezzo secolo di conflitto interno come ha influenzato la vita delle minoranze etniche?

«Le minoranze non sono state colpite in quanto minoranze, ma in quanto colombiane. Tutti siamo stati colpiti dalla guerra. Anche le minoranze etniche. Una delle conseguenze della guerra è stata la confisca della terra principalmente ai contadini e appunto agli indigeni. Sono stati soprattutto i gruppi paramilitari a farlo per beneficio di alcuni. Questo ha prodotto grandi sofferenze. Ci sarebbero molte cose da dire sulle minoranze indigene».

Per esempio?

«Per esempio che la Costituzione della Colombia afferma che esso è un paese multietnico. È un’espressione che a me provoca vergogna. Dire multietnico significa dire che è un paese di diversi, dove ognuno vive e lascia vivere e nulla di più. Mi sembra che sia troppo poco. Noi abbiamo bisogno non di un paese multietnico ma plurietnico. Anzi, ancora meglio sarebbe la parola interetnico in cui la maggioranza e le minoranze si relazionano, imparano le une dalle altre, crescono in un contatto mutuo. Invece, dicendo multietnico è come dire: “Io sono qui e tu là”, “Io non ti disturbo e tu non mi disturbi”. Una minoranza etnica che si chiuda (come succede in Colombia) poco a poco va a sparire perché le culture non crescono per intra-fecondazione ma per inter-fecondazione. Tutte le culture, tutti i popoli si arricchiscono. Se, al contrario, uno si chiude, va a debilitarsi.

Ricordo che, in questo momento, c’è un problema molto grave nel Nord della Colombia, tra i Guajiros: i loro bambini stanno morendo. Morendo di fame» (sono stati oltre 60 i bimbi morti nel 2016, ndr).

La coca e la narcoeconomia

È difficile non ricordare che la Colombia è nota in tutto il mondo per la droga. Oggi, nel suo paese, qual è il peso della narcoeconomia?

«Io non definirei assolutamente così la nostra economia. È un fatto che ci sia un lavaggio di dollari. Tuttavia, da parte dello stato c’è una coscienza ben chiara che esso non può funzionare con questo tipo di denaro. Il contrasto di questo business è molto grande. Le tonnellate e tonnellate di droga che si individuano ogni mese e anno testimoniano che stiamo lottando contro questo problema. Che è molto grande e che è internazionale.

All’interno dell’accordo di pace si stabilisce di aiutare a chiudere con la coltivazione della coca. Prima si era pensato di farlo attraverso la cosiddetta fumigazione (disinfestazione con glifosato, un erbicida probabilmente cancerogeno, ndr). Ci furono molte proteste, alcune corrette, altre meno».

La fumigazione avveniva anche tramite il Plan Colombia degli Stati Uniti…

«Sì, esso aiutava anche in quel senso. Comunque, ci furono proteste e dunque si decise di sradicare le piante manualmente. In tal modo non si contamina l’aria e non si causano problemi addizionali. Adesso anche le Farc andranno a distruggere le piantagioni di coca e lo faranno assieme all’esercito. Questa mi pare una buona cosa».

Però i cocaleros, i piccoli produttori, coltivano la coca perché non hanno alternative…

«No, non direi questo. Per 13 anni io sono stato vescovo del Caquetà, un dipartimento con una notevole produzione di coca. In quel momento – erano gli anni Ottanta-Novanta – la coltivazione della coca si poteva “giustificare”, detto tra virgolette. Cioè si potevano trovare ragioni sul perché si faceva: non c’erano strade, non c’erano aiuti per i campesinos; c’era un’assenza dello stato. Non c’erano né assistenza tecnica, né risorse. Da fuori arrivarono dunque i narcotrafficanti che dissero ai campesinos: “Vi invitiamo a seminare un altro tipo di semi che noi vi daremo”. Erano semi di coca. “Vi offriremo assistenza tecnica. In tre mesi ci sarà il raccolto che noi compreremo”. Insomma, tutto ciò che dovrebbe fare uno stato. “Voi – spiegavano i narcotrafficanti – guadagnerete 10 volte di più di quello che guadagnate in questo momento”. Che campesino poteva resistere a un’offerta di questo tipo? Individualmente, nessuno. Per fare una lotta adeguata contro questo occorreva formare comunità, come nell’esperienza di padre Franzoi (missionario della Consolata, ndr). Comunità unite che si opposero alla coca, avendo però delle alternative. Era il programma “No alla coca, sì al cacao”. Però, lo ripeto, erano attività comunitarie. Un individuo da solo non aveva la capacità di opporsi alla coca.

Questo per spiegare che, a causa dell’assenza dello stato, in quel momento le coltivazioni si giustificavano. Oggi no».

Cosa è cambiato oggi rispetto a un tempo?

«Oggi lo stato non è quello di allora. La Colombia è un paese molto diverso. Con strade, metodi di coltivazione.

La coca è un prodotto miracoloso: in tre mesi la semini e la raccogli. Se un professore può chiedere tre mesi di licenza, va, semina la sua coca e ritorna. Questo è un esempio ironico per spiegare che è una coltivazione molto rapida. Per questo genera molti profitti.

Tutti i produttori di qualsiasi cosa lottano sempre perché non trovano consumatori in numero sufficiente. Al contrario, per la coca i consumatori abbondano e stanno tutti negli Stati Uniti e nel mondo industrializzato. Ogni volta chiedono di più e chi maneggia il business sa che più produce, più venderà.

Questa è la situazione. Però, lo ripeto, c’è tutto un programma per sradicare le coltivazioni di coca e per controllare questo businness».

Lei ritiene che ciò sia possibile?

«Io credo di sì. Credo sia possibile. Perché oggi c’è più volontà, più forza. Non c’è un gruppo che favorisca la produzione come le Farc che da lì traevano le imposte. Anzi, adesso andranno a lavorare per il suo sradicamento. Pertanto, io credo che, se si vuole, si può fare».

AFP PHOTO / OSSERVATORE ROMANO

La Colombia e Francesco

La prossima visita del papa in Colombia potrà aiutare il processo di pace?

«Per prima cosa va detto che il papa già ha aiutato in maniera importante il processo di pace nel paese. Ogni volta che c’era un evento speciale lui faceva un intervento speciale. Quando visitò l’Avana fece un intervento illuminante per il paese. Tutto il tavolo delle trattative e specialmente la guerriglia chiedeva di incontrarsi con il papa. Questo non fu possibile. Fummo a l’Avana. Ci spiegarono la richiesta. Parlammo con il cardinal Ortega per capire che possibilità ci fossero. Ci rispose che non c’era alcuna possibilità perché era già tutto programmato e non si poteva cambiare. Allora si chiese non di variare il programma, ma che il papa dicesse qualcosa nell’ambito degli eventi previsti. Il papa accettò e disse parole importanti sulla pace, parole che aiutarono moltissimo.

In ogni caso, il suo interesse per il processo di pace è stato continuo. Tanto che, dal presidente Santos agli altri protagonisti, tutti gli sono grati».

Se dovesse fare un appello finale, lei che direbbe?

«Direi, prima di tutto, che Dio ci illumini per continuare a lavorare per la pace. Per una pace che sia integrale, che non si riduca solamente a lotta di forze per ottenere il potere, che sia veramente la costruzione di relazioni sane tra tutti i colombiani, tra i colombiani e la natura, tra i colombiani e Dio. Una pace completa, insomma.

Come Chiesa, in questi anni di conflitto e di polarizzazione, abbiamo un compito molto difficile da perseguire. Però, poco a poco, tutti stanno cominciando a capire l’importanza e il valore di questo sforzo per la pace».

Paolo Moiola

Il dono della «penna della pace» da presidente Juan Manuel Santos prior a papa Francesco il 16/12/2016 in Vaticano. / AFP PHOTO / POOL / VINCENZO PINTO




Le Società Benefit: una realtà in crescita


Una grande ambizione: essere un nuovo modello economico alternativo alla vecchia concezione di impresa orientata solo al profitto. Dal vecchio modello industriale e societario prendono l’obiettivo di generare utili e ricchezza, e dal mondo del no profit quello di essere impegnate al servizio del bene comune. È solo un cambio di pelle o una risposta genuina ai bisogni del nostro tempo?

Oltre la metà della popolazione mondiale oggi possiede un buon tenore di vita, ma vive in un mercato saturo che porterà il suo benessere a diminuire. Al contempo, quasi tre miliardi di persone hanno ancora bisogno di tutto. In Italia, nel prossimo quinquennio, mancheranno poco meno di 100 miliardi di Euro per coprire la spesa sanitaria e i bisogni sociali. Lo stato se n’è sempre occupato da solo o sostenendo privati che non hanno rischiato di tasca propria: perciò, se alla fine il modello non è stato efficiente, chi ci ha rimesso è sempre stato «solo» il contribuente.

Mentre i bisogni della popolazione crescono e aumenta la domanda sociale, i governi si trovano in una crescente condizione di ristrettezza di risorse. Ma i bisogni insoddisfatti sono un problema irrisolto che non conviene a nessuno e allora si devono cercare altre risorse. Questo richiede un approccio nuovo che non sia il solito aumento delle tasse. Nel mondo ci sono imprenditori e finanzieri che hanno iniziato a ragionare sulla possibilità che il connubio impresa-finanza possa essere utilizzato anche per generare maggior benessere sociale e soddisfare gli interessi di tutte le parti: secondo loro l’impresa può creare risorse e generare impatto sociale e la finanza può essere un vero moltiplicatore di ricchezza.

Nasce la «Società Benefit»

Alle svariate «forme giuridiche d’impresa» esistenti se n’è quindi aggiunta una nuova: la Benefit Corporation (società Benefit – B Corp). Le sue origini risalgono al 2006 e hanno portato alla formalizzazione nel 2010, negli Usa, della forma giuridica delle B Corp, che ora esiste in 31 stati degli Usa, e che ha stimolato la recentissima nascita in Italia delle «Società Benefit». Nel 2014 le prime B Corp italiane certificate (da B Lab, una organizzazione no profit a cui tutte le società Benefit fanno riferimento, vedi www.bcorporation.eu) hanno promosso un progetto politico e giuridico la cui disciplina è entrata in vigore a partire dal 1 Gennaio 2016.

Il 26 febbraio dello stesso anno le prime cinque aziende italiane hanno trasformato la propria forma giuridica da mera società for profit a società Benefit e da allora decine di altre aziende italiane si sono trasformate (alla data odierna sono più di 80). Attualmente nel mondo sono oltre 2.000 le B Corp certificate e si stima che altre 50.000 stiano valutando la propria identità per ottenere la certificazione. Città come New York City hanno addirittura dato vita a progetti come il Best for NYC, per incoraggiare imprenditori sociali a stabilire le loro attività sul proprio territorio, per il miglioramento dell’intera città e delle proprie attività di welfare.

Primi in Europa

Una volta tanto l’Italia ha fatto scuola e ha introdotto, prima in Europa e prima al mondo fuori dagli Usa, le società Benefit per consentire a imprenditori, manager, azionisti e investitori di distinguersi sul mercato attraverso una forma giuridica virtuosa e innovativa. Tali società rappresentano l’evoluzione del concetto stesso di azienda poiché, mentre le società tradizionali esistono con l’unico scopo di creare profitto e distribuire dividendi agli azionisti, le società Benefit integrano nella propria ragione sociale, oltre agli obiettivi di profitto, lo scopo di avere un impatto positivo sulla società e sull’ambiente.

A differenza delle altre organizzazioni non profit (Onlus, Aps/Associazioni di promozione sociale, Imprese Sociali, ecc.) le società Benefit mantengono sì lo scopo di lucro, ma a questo aggiungono il perseguimento di uno o più effetti positivi o la riduzione di effetti negativi su persone, comunità, territorio e ambiente, beni e attività culturali e sociali, enti e associazioni e altri portatori di interesse. Il tutto in modo responsabile, sostenibile e trasparente con una gestione che richiede ai manager un serio bilanciamento tra l’interesse dei soci e l’interesse della collettività.

Un profitto condiviso

Il profitto come obiettivo primario è sempre stato il criterio dominante nei processi decisionali ma molti ora vedono questo come un ostacolo nella creazione di valore a lungo termine per tutti gli stakeholder (o attori, secondo la Treccani: «Chi ha interessi nell’attività di un’organizzazione o di una società, ne influenza le decisioni o ne è condizionato»), inclusi gli azionisti stessi, i cosiddetti shareholder. Gli azionisti sono sempre più coscienti che non si può più solo speculare sul breve termine e che comportamenti non in linea con l’aspettativa dei clienti alla lunga penalizzano, perché questi non comprano più né prodotti né servizi. Il meccanismo è analogo a quanto è successo nel biologico, dove c’erano individui che volevano un prodotto più sano e più rispettoso dell’ambiente e, mentre all’inizio questo rappresentava solo una nicchia, oggi è diventato un vero settore di mercato.

Le società Benefit pertanto vanno oltre un semplice modello di breve periodo e prendono in considerazione tutte le parti interessate nelle loro decisioni: ciò garantisce loro la flessibilità necessaria a creare valore per tutti gli stakeholder nel lungo periodo, anche a fronte di cessioni parziali e acquisizioni, entrata di nuovi manager, capitali, passaggi generazionali o quotazioni in borsa.

Non i migliori del mondo ma migliori per il mondo

Non appare trascurabile anche il fatto che i nuovi talenti per lavorare scelgono le aziende che hanno un impatto sociale positivo. È un fatto importante che il 77% dei millenials affermi che «lo scopo dell’azienda è parte fondamentale del motivo per cui hanno scelto di lavorare in essa». I millennials (generazione nata tra i primi anni ‘80 e il 2000, ndr) costituiscono da soli oltre il 50% della futura forza lavoro, che diventerà il 75% entro il 2025.

Inoltre, le informazioni non finanziarie sono diventate fondamentali poiché la maggior parte degli investitori ritiene che le imprese non siano adeguatamente trasparenti in merito ai rischi non finanziari e quasi la metà degli investitori esclude determinati investimenti sulla base di informazioni non finanziarie (come impatto sull’ambiente, inquinamento e riciclo, trattamento dei dipendenti in particolare le donne, uso di materie prime certificate, non essere associati con produzione e vendita di armi, ecc.). In fondo non si vuole un’azienda che sia «la migliore del mondo» ma «migliore per il mondo».

Ridefinire il «valore»

Aristotele pensava che ci fosse un «giusto prezzo per ogni cosa» e Marx pensava che il valore fosse generato dal lavoro ma, più di recente, la maggior parte degli economisti ha accettato che l’unico concetto di valore che abbia senso nasce dall’interazione tra domanda e offerta sui mercati: «qualcosa ha valore solo se qualcuno è disposto a pagare per essa». Tale definizione di valore costringe gli economisti a osservare il comportamento reale, piuttosto che cercare di scoprire realtà nascoste. Molti elettori sono disposti a pagare le tasse per le forze di polizia e le scuole primarie e molti governi sono in grado di fornire questi servizi. Molti donatori sono disposti a finanziare l’assistenza sanitaria per i bambini nei paesi in via di sviluppo e molte associazioni locali sono in grado di fornire tale assistenza. In questi ambiti, analizzare il valore sociale non è difficile, perché i legami tra ciò che vogliono i finanziatori e ciò che i fornitori possono offrire è chiaro. Ma, per altre questioni sociali i legami tra domanda e offerta sono carenti e, in alcuni casi, la domanda effettiva può mancare perché finanziatori, politici o privati cittadini non percepiscono un bisogno come sufficientemente urgente da giustificare l’impiego delle loro risorse.

Consorzio Auxilium

A Torino, nel 2016, è nato il Consorzio Auxilium, facente capo a una generazione di imprenditori che credono nelle società Benefit e che desiderano, al contempo, promuovere un approccio culturale al tema del valore di impresa che non sia basato solo in termini di profitto.

Attraverso gli strumenti legali e finanziari messi a disposizione dal mondo delle Sb, essi hanno la possibilità di spiegare ai stakeholder e ai shareholder come le risorse investite in tali aziende possono contribuire al raggiungimento di risultati coerenti con la propria mission, generando al contempo un impatto sociale positivo.

Al Consorzio si aderisce per spirito mutualistico e di interesse reciproco, ma anche con l’obiettivo dichiarato che una percentuale del fatturato generato per mezzo degli scambi promossi dal Consorzio sia destinata ad alimentare attività sociali di vario genere, a partire dall’ambito locale. Nel suo primo anno di vita il Consorzio ha dato lavoro a famiglie «trovate» davanti ai supermercati della Città, promosso corsi di italiano per l’integrazione degli stranieri, attivato progetti di formazione, finanziato progetti di cooperazione sociale e internazionale… e siamo solo all’inizio.

Paolo Rossi*

* Ha una laurea in Economia e master in Sviluppo umano e ambiente, con esperienze di studio, volontariato e lavoro all’estero; è presidente della Col’Or Ong, impegnato nel Consorzio Auxilium e assegnista di ricerca presso l’Università del Piemonte Orientale.

Bibliografia e Sitografia

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Becker Henk. A. e Vanclay F. (a cura di), The International Handbook of Social Impact Assessment, Edward Elgar Publishing, Cheltenham, UK, 2006
Boltanski L., Laurent T., Sulla giustificazione: Economie di ciò che conta, Università di Princeton Press, Princeton, NJ, 2006
Chouinard Y. E Stanley V., The Responsible Company: what we’ve learned form Patagonia’s firts 40 years, Patagonia Books, Ventura, CA, USA, 2011
Dewey J., Teoria della Valutazione, Università di Chicago, 1939
Edmondson B., Ice cream social: the struggle for the soul of Ben&Jerry’s, Berret-Koehler Publisher, Oakland, CA, USA, 2014
Honeyman R., The B Corp handbook, Berrett-Koehler Publishers, USA, 2014
Lazzaroni M., Agora partnership: structuring a seed stage investment in Nicaragua, INCAE Business School, 2005
Mulgan G., Kelly G. e Muers S., Creazione di Valore Pubblico, Ufficio del Gabinetto del Regno Unito, Londra, UK, 2002
Mulgan G., Potts G., Carmona M., De Magalhaes C. e Sieh L., Rapporto sul valore della Commissione di Architettura e l’ambiente edificato, Fondazione Young, Londra, UK, 2006

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https://www2.deloitte.com/content/dam/Deloitte/global/Documents/About-Deloitte/gx-millenial-survey-2016-exec-summary.pdf
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http://www.youtube.com/user/bcorporstions
http://www.societabenefit.net/news/




RD Congo: Le pietre che danno il pane


A Kinshasa una cava di pietre fa vivere decine di persone. Ma è un lavoro durissimo, svolto anche da donne e bambini. Il sito è sorvegliato da militari ed è impossibile accedervi. Un giovane giornalista congolese è riuscito a penetrarvi e ci ha affidato questo strabiliante reportage.

Kinshasa. Non solo coltan, oro e minerali preziosi. In Repubblica Democratica del Congo, anche la semplice pietra è oggetto di sfruttamento artigianale. Anche dove meno te l’aspetti: ad esempio in una una cava di ghiaia in piena capitale. E non in qualche periferia degradata, ma nel cuore di Kinshasa, nel quartiere Ngaliema, uno dei più antichi, a poca distanza dal palazzo presidenziale. Siamo sul fiume Congo: qui si trova la lussuosa residenza di Joseph Kabila, il presidente «scaduto» che non vuole lasciare la poltrona (il 19 dicembre 2016 Kabila ha terminato il suo mandato, ndr), poco oltre, un inferno di ghiaia bianca, dove la miseria spinge disperati di ogni età a un lavoro durissimo, senza alcuna tutela, solo per guadagnare i pochi spiccioli necessari a sbarcare il lunario. Da un lato chi ha in sedici anni di potere ammassato una fortuna stimata in 15 miliardi di dollari, dall’altro una massa di miserabili che paiono usciti da un racconto ottocentesco. La cava è sorvegliata da militari e accedervi non è possibile, salvo alcune rare eccezioni.

Un popolo di clochard

Parliamo di un popolo «clochardisé» (ovvero: reso clochard o barbone, ndr), le cui condizioni di vita continuano a deteriorarsi. Alla ricerca del pane quotidiano, alcuni congolesi si lanciano in una attività piena di potenziali rischi: la produzione di pietre e ghiaia per l’edilizia. In un paese che non offre opportunità e in cui il tasso di disoccupazione cresce ogni giorno, l’80% dei congolesi sono esposti alla mancanza di lavoro. Abbandonati a se stessi, migliaia di persone vengono qui nella cava a cercare lavoro, a volte anche a rischio della vita.

La Repubblica Democratica del Congo non ha solo ingenti ricchezze nel sottosuolo, ma offre anche enormi rocciosi, persino all’interno della capitale. Ogni categoria di persone si ritrova qui con un solo obiettivo: tagliare pietre. Uomini, donne, giovani, vecchi e anche bambini. Nessuna età è risparmiata. Se la convenzione internazionale dei diritti del bambino, istituita dall’Onu nel 1989, all’art. 32 stabilisce che «il bambino ha il diritto di essere protetto da ogni tipo di lavoro che metta in pericolo la sua salute, la sua educazione e il suo sviluppo», in questo luogo accade il contrario: i bambini sono esposti a ogni genere di rischi, privati della loro educazione, dei loro diritti sociali e sono presi nella trappola della miseria. Un futuro compromesso che non offre speranza di riscatto.

In questo luogo, anche le donne prendono parte attiva per nutrire la famiglia. Malgrado sia un lavoro esercitato normalmente da uomini, a causa della forza fisica richiesta, anche le donne, per necessità si ritrovano a svolgerlo, in un universo nel quale la povertà rovina la popolazione. Tutti sono alla ricerca della sopravvivenza, non importa il prezzo da pagare. Per ottenere una buona quantità di ghiaia alla fine della giornata, le donne sono infatti esposte a ogni tipo di rischio.

Finita la fatica fatta per spaccare le pietre, resta poi la difficoltà di trovare un compratore, tappa cruciale che fa parte della penitenza di questa attività. E il prezzo è irrisorio: 700 franchi congolesi, mezzo euro, a secchio. Le donne sono obbligate a lavorare anche tutta la giornata per arrivare a raccogliere una media di cinque secchi e portare così a casa 3500 franchi, il minimo necessario per la sopravvivenza.

La maggioranza di queste donne vive sotto la soglia della povertà, a volte sono senza marito oppure vedove. Sotto un caldo torrido, a rischio di malattie trasmesse dall’acqua e di pesanti infortuni.

Jacobo, il giovane

Nessuna età è esclusa da questa attività. Jacobo Cédrick è un giovane di 28 anni: aveva lasciato la Rdc per cercare lavoro in Congo Brazzaville, ma il suo sogno si è trasformato nel peggiore degli incubi. Espulso da Brazzaville, si è ritrovato in questo sito a spaccare pietre e produrre ghiaia, producendo da 10 a 20 secchi al giorno, per guadagnare dai 5 ai 10 euro. Ha un figlio a carico ma nessuna moglie. Copre i suoi bisogni e quelli del bambino con questa attività. Anziché darsi alla criminalità o alle rapine, fenomeno in crescita a Kinshasa e spesso praticato dai giovani kinois (nome degli abitanti della capitale) espulsi da Brazzaville, Jacobo lavora ogni giorno, domeniche comprese, per mantenersi. «Sono fiero di questo lavoro – dice a testa alta – malgrado il governo non si occupi di noi. Ciò che deploriamo sono le cattive condizioni di sicurezza nella nostra attività».

Christine, la madre

Maman Christine, madre di 9 bambini, fa questo lavoro dal 2001. Tutti i figli sono stati allevati e scolarizzati grazie alla sua fatica quotidiana nella cava. Con un marito disoccupato, Christine si batte quotidianamente per la sopravvivenza. «Siamo molto esposti in questo lavoro e i rischi sono ingenti. Malgrado ciò, non abbiamo altra scelta. Mio marito non lavora da oltre 15 anni e la vita con i bambini diventa dolorosa, sono obbligata a fare qualcosa. Gli inizi sono stati molto complicati, ma alla fine…», sospira, senza terminare la frase. «Molte ragazze sono esposte a causa della povertà», conclude.

Papy, il padre di famiglia

Papy lavora in questo luogo da due anni. Sposato e padre di quattro bambini, ogni settimana riesce a produrre l’equivalente di 100 dollari di pietre. Martello, scalpello e ferri vecchi, sono questi gli attrezzi del mestiere che Papy utilizza per ridurre quantità di pietra in ghiaia. Per mancanza di un minimo di struttura e organizzazione nella cava, spesso questi artigiani perdono pure quel minimo che spetterebbe loro a causa dei «commissionnaires», agenti che si propongono come mediatori fra venditore e acquirente e che lucrano impietosamente sui guadagni di Papy e degli altri.

L’appropriazione indebita avviene regolarmente in complicità con le autorità municipali. Le proteste degli artigiani della cava restano sempre inascoltate, in un paese in cui il livello di corruzione ha ormai raggiunto il grado di metastasi. «L’unico vantaggio in questa attività – sottolinea Papy – è che posso sfamare e mantenere i miei figli».

Isaac, il Robot

Isaac, detto «Robot», è un ragazzo molto dinamico. Cinque anni d’esperienza, Robot si è conquistato il suo personale successo nella cava. La sua forza, la sua determinazione, la sua motivazione lo portano a dimenticare il tempo che passa e a continuare a lavorare indefessamente. Se all’epoca si utilizzavano dinamite ed esplosivi per rompere le pietre, oggi tutto è vietato e la forza manuale resta l’unica che permette la produzione e decide la quantità di merce prodotta e ciò che si può sperare di guadagnare. Per inciso, che gli esplosivi siano stati vietati non è stata una misura a tutela dei lavoratori, ma una decisione imposta da un senatore che abita nel quartiere, probabilmente disturbato dal rumore delle esplosioni.

La vita in questo luogo non è per nulla facile. Serve forza, coraggio, determinazione e accettare ogni rischio che può arrivare. «Siamo pronti e sappiamo molto bene che ci sono rischi permanenti in questa attività senza protezione, siamo esposti anche a pericolo di vita, a volte. Ma se incrociamo le braccia, la manna non scenderà mai dal cielo, è il nostro destino».

Jean, l’anziano

Jean Ndota Kiwuta è tra i pionieri di questa attività. Responsabile di una spazio da sfruttare in questo sito dal 1972, coi suoi 4 figli, questo anziano lavoratore della cava si rallegra di aver retto per anni in questa attività così pericolosa. Oggi, con la vecchiaia incombente, pensa di lasciare il lavoro, fiero di aver scolarizzato i suoi figli con dura fatica.

Hyppolite

Un sorriso che contiene molte pene e angosce: lui è Hyppolite, 37 anni e 5 figli, fa questo lavoro da 10 anni. «Ciò che è già tuo vale di più di ciò che potresti avere in futuro», afferma, riassumendo la sua ragion d’essere in questo sito con la citazione di un adagio di La Fontaine.

Esther e Deborah

Di 13 e 14 anni, Esther e Deborah lavorano nella cava con la madre già da due anni, aiutandola a racimolare una buona quantità di ghiaia per trovare qualcosa da mangiare. La miseria in Congo porta molti minori a esporsi a qualunque attività.

Eternel, l’uomo vampiro

Una dimostrazione di forza: Eternel, soprannome dovuto alla sua forza incredibile, può sollevare ogni giorno fino a una cinquantina di pietre che pesano da 70 a 100 kg. Soprannominato anche l’uomo vampiro. Per questo, il suo ruolo è il caricamento delle pietre nei camion, altra tappa fondamentale e pericolosa del lavoro nella cava. Quando un compratore arriva, massi e ghiaia vanno caricati sui mezzi. È il momento più atteso dagli lavoratori, la risposta a tutti gli sforzi della giornata. Se i veicoli arrivano al sito, significa che la vendita è fruttuosa e l’energia impiegata troverà ricompensa.

La cava di Ngaliema, sulla riva del fiume Congo, è a suo modo un ambiente di lavoro conviviale, molto solidale, che ricorda un formicaio dove ognuno ha il suo compito: gli uni tagliano le pietre, gli altri le trasportano e le caricano su camion.

La Rdc è un paese potenzialmente ricco, ma di tale ricchezza beneficia una minoranza dei dirigenti al potere. Oggi, la fortuna dell’attuale presidente uscente Joseph Kabila è stimata in oltre 15 miliardi di dollari e la sua famiglia detiene più di 70 imprese, secondo un’inchiesta pubblicata recentemente1. Mentre la popolazione continua a vivere nella miseria. E la pesante crisi politica in corso non agevola certo la vita quotidiana dei congolesi: nulla assicura la speranza in un avvenire migliore.

Grevisse Musema*
(tradotto e adattato da Giusy Baioni)
* Grevisse Musema è un giornalista congolese indipendente, specializzato in questioni umanitarie e in zone di conflitto. Appassionato di ambiente ha lavorato alla Televisione nazionale congolese (Rtnc2).

Nota (1): Bloomberg.com, With his family’s fortune at stake, president Kabila digs in, 15 dicembre 2016.




Cantare la bellezza dell’amore del Padre


L’incontro con l’Africa, i suoi ritmi e le sue musiche; amici con esperienze di volontariato missionario; giovani missionari italiani, latinoamericani e africani; un cuore aperto al mondo; l’amore del Padre di tutti; la passione per la musica: questi gli ingredienti che hanno dato origine al coro TataNzambe, al suo decimo anniversario.

«Dio ci ha chiamati per andare nel mondo, siamo partiti con un cuore profondo, colmo di amore per la missione, siamo tornati più ricchi con una nuova canzone, e per non rendere vano questo grande tesoro, un gruppo di amici è diventato un coro…». In questa strofa dell’inno del coro TataNzambe si racchiude l’inizio della nostra breve storia nelle case dei missionari della Consolata di Vittorio Veneto e Nervesa della Battaglia (Tv). Dieci anni fa alcuni di noi, di ritorno da un campo di conoscenza nella missione di Loyangalani in Kenya, si sono chiesti: come possiamo annunciare la bellezza dell’essere una missione su questa terra?

Comunicare con la musica

L’esperienza nel Nord del Kenya è stata determinante. Con baba (padre, in kiswahili) Godfrey Msumange, tanzaniano allora impegnato come animatore missionario nella nostra zona, abbiamo vissuto per quasi tre settimane a Loyangalani, in riva al lago Turkana, mettendoci a disposizione delle necessità della missione: abbiamo imbiancato la chiesa, fatto alcune giornate di animazione stile «grest» con i moltissimi bambini e i giovani, distribuito il cibo ai poveri, visitato gli ammalati, incontrato le varie comunità disperse su quel vasto territorio semidesertico.

In un’area con diversi gruppi etnici, Turkana, Samburu, El Molo e anche Gabbra, ciascuno con la sua lingua e non sempre fluenti in kiswahili e tantomeno in inglese, non era semplice comunicare. Abbiamo allora scoperto che con il violino di Elena e la chitarra di Marco le distanze si accorciavano. I bambini hanno imparato subito l’«Alleluia delle lampadine», tradotto in kiswahili dal nostro «baba», e quando ci vedevano in giro con il fuoristrada (da quelle parti i Suv non sono certo un lusso, ma una dura necessità), subito portavano le mani alle spalle e cantavano.

Volevamo mettere a disposizione i talenti che Dio ci aveva donato, però la «lingua» ce lo impediva: la musica e il canto sono stati la risposta. La musica arriva al cuore delle persone; la melodia, il ritmo, i colori, ci portano in un istante in altri mondi: le percussioni ci trasportano nei villaggi dell’Africa, le melodie in minore nelle grandi periferie dell’America Latina, i suoni meditativi all’Asia.

La nostra idea quindi è stata di portare anche in Italia, nella zona in cui viviamo, la bellezza e la gioia del Vangelo con lo strumento della musica e del canto, usando melodie e testi religiosi provenienti da diverse culture. Abbiamo costituito un coro, al quale però occorreva dare un nome. «Tata Nzambe» vuol dire Dio (Nzambe) Padre (Tata) in lingua lingala. Due parole ricorrenti nel ritornello di una delle prime canzoni che abbiamo imparato: perché non chiamare così il nostro coro?

Il mondo in musica

La maggior parte dei coristi, chi prima, chi poi, è stata in qualche missione della Consolata per un campo di lavoro e conoscenza e ha portato a casa il fuoco della missione e le musiche sentite, partecipate e danzate laggiù. Proprio quelle musiche sono il repertorio che ci caratterizza.

Come tutto ciò che diventa un po’ nostro, prendendo le nostre sembianze, anche i canti hanno avuto un’inculturazione europea. L’aggiunta di strumenti nuovi (violino e arpa) alle musiche di altri paesi e culture ha permesso di esplorare nuove potenzialità racchiuse in quelle melodie.

Al coro, in questi 10 anni hanno partecipato tante persone: chi è ancora presente dalla fondazione, chi ha lasciato per impegni familiari, chi ha lasciato perché cercava altro, chi (come i missionari) per obbedienza. Altri si sono aggiunti. Siamo felici di aver fatto un pezzo di strada con ciascuno. Dopotutto, come dice un nostro caro amico, la missione è condividere la vita, là dove ci si trova. L’amicizia, e ciò che è stato costruito insieme, rimane nel cuore.

Il nostro esordio come coro è stato nel Natale del 2006, nella chiesetta della Consolata a Vittorio Veneto. Nessuno ancora ci conosceva e allora abbiamo giocato in casa. Quella sera, Mwokozi Bwana (lett. «Salvatore Signore», un canto in kiswahili che si adatta al Natale – amezaliwa = è nato – o alla Pasqua – amefufuka = è risorto -), Junto a ti Maria e Los peces en el Rio («Unito a te, Maria» e «I pesci nel fiume», due canti tipici del Natale latinoamericano) furono alcuni dei brani che cantammo e che tuttora fanno parte dei nostri concerti natalizi.

Alcuni anni dopo, è nato anche l’inno del coro TataNzambe: musiche e testo dei nostri bravissimi musicisti e parolieri. È stato un lavoro a più mani in cui, chi aveva le competenze, ha dato il suo prezioso apporto, e così ora, nei nostri concerti, il primo brano è sempre l’inno, che racconta chi siamo. Anche se non siamo un coro di professionisti, cerchiamo di fare del nostro meglio, perché come l’Allamano ci insegna, bisogna «fare bene il bene».

Eventi, eventi, eventi

Diversi eventi importanti hanno segnato il nostro percorso. Abbiamo partecipato a due Consolata Festival, uno in Veneto e l’altro nel Salento. I Consolata Festival sono stati appuntamenti, o meglio «campi» estivi canori e musicali con concerti serali nelle piazze. Che gioia incontrare gli altri cori della Consolata in Italia, e cantare tutti insieme.

Ci siamo arricchiti di musica, ma specialmente di relazioni, che tuttora manteniamo con tutti gli amici coristi e musicisti di Torino e Martina Franca, senza dimenticare i tanti missionari che sono stati con noi, e i seminaristi del seminario di Bravetta che ci hanno accompagnati e sono stati parte integrante degli spettacoli che andavamo a fare.

Il TataNzambe poi è stato anche in televisione, invitato da Tv2000. È stato un bel momento di coesione, ed è stato significativo soprattutto il fatto che nonostante fossimo in una trasmissione che selezionava i cori per un concorso («La canzone di noi»), abbiamo mantenuto la nostra specificità parlando di missione con la musica. E l’ultimo evento particolare è stato il capodanno del 2016, quando con una parte del coro, siamo stati in Portogallo, e abbiamo condiviso una serata in musica con i Laici Missionari della Consolata a Lisbona e poi, il 31 dicembre, a Fatima, abbiamo fatto un concerto e animato la messa all’interno dell’Hotel Consolata.

Nel corso di questo decennio abbiamo incontrato, durante le animazioni delle messe e dopo i concerti, moltissime persone, e tutti sono stati concordi nel dirci che il nostro coro trasmette gioia. La gioia, la felicità che al mondo d’oggi è ricercata dappertutto, la troviamo nel messaggio evangelico, come ci suggerisce l’Evangelii Gaudium.

Avanti in Domino

Nonostante il nostro impegno ad attingere dal Vangelo l’acqua viva che rende piena la nostra gioia, il nostro cammino non è stato esente da difficoltà ed è segnato da luci e ombre. Non è sempre facile essere presenti alle prove e ai concerti; sono sempre dolorosi i distacchi di chi se ne va; si fa fatica a non giudicare l’impegno degli altri; alcune volte il fuoco della missione si spegne… Cosa fare quindi? Rimboccarci le maniche e ripartire sempre con la speranza che nel cammino qualcosa ci sconvolga positivamente e ci faccia vedere nuovi orizzonti.

Per il futuro stiamo cercando di mettere in cantiere uno spettacolo – concerto ispirato all’Evangelii Gaudium, e poi magari… cantare a una messa con il Papa. Chissà. Intanto «Avanti in Domino», avanti nel Signore, come diceva il beato Allamano.

Roberta Biz*
* Partecipante al primo campo a Loyangalani, tra i fondatori del coro e direttrice dello stesso.

www.tatanzambe.com
Canale Youtube: thetatanzambe

Note in cammino

Inno di TataNzambe

Dio ci ha chiamati
Per andare nel mondo
Siamo partiti
Con un cuore profondo
Colmo di amore
Per la missione
Siamo tornati più ricchi
Con una nuova canzone
E per non rendere vano
Questo grande tesoro
Un gruppo di amici
È diventato un coro

Rit: Siamo note in cammino
Verso nostro Signore
Abbiamo il cuore nel mondo
Ed il mondo nel cuor,
Siamo note in viaggio
Verso una nuova missione
Che è portare un messaggio
Nei cuori delle persone

Mano con mano
Preghiamo cantando
Parliamo di Cristo
Al prossimo e al mondo
Senza timore
Di lingue o confini
Perché musica e note
Ci fanno vicini
Serviamo il signore
Con la testimonianza
E se vi tocchiamo nel cuore
Unitevi alla danza (Rit.)