Cina: Calcio, se Pechino porta il pallone


Acquisto di squadre europee e italiane. Ingaggi di giocatori e allenatori famosi. Il tutto mettendo sul piatto investimenti milionari. La Cina è entrata nel business del calcio con la forza della sua potenza economica. Cosa sta dietro un fenomeno che ha assunto proporzioni gigantesche? Una cosa è certa: la passione calcistica del presidente Xi Jinping non spiega tutto.

Il calcio moderno è un prodotto britannico della seconda metà del XIX secolo. Il calcio antico invece fu inventato nella Cina imperiale di qualche millennio fa, con il nome di cuju (??). A quei tempi non era visto come un gioco competitivo a squadre, ma solo come un tipo di allenamento adatto per i soldati. Tanta acqua è passata sotto i ponti da allora. Tuttavia il calcio, come noi lo abbiamo sempre inteso in Europa o in Sud America, non ha mai attecchito veramente né nella Cina antica né nella Cina moderna. Solo di recente, a partire dalla primavera del 2015, grazie alle politiche governative promosse da Pechino a favore del gioco del calcio e al diretto interessamento di grandi gruppi economici cinesi pubblici e privati, su tutti il gruppi Wanda, Suning, Alibaba, Evergrande, la passione del calcio giocato sembra cominciare molto lentamente a conquistare i cuori e le menti dei giovani cinesi.

((Xinhua/Li Xiang)

Ma spendere non basta

Nel 1930 si ebbe la prima edizione del Campionato del Mondo di calcio. La grande Italia di Pozzo lo vinse nel 1934 e nel 1938. Poi fu la volta, molti anni dopo, degli azzurri guidati da Bearzot nel 1982 e di quelli allenati da Lippi nel 2006. Detto ciò, pensiamo che solo nel 2001 la squadra nazionale cinese è riuscita a qualificarsi alla fase finale di un Campionato del mondo, che in quell’occasione si tenne per la prima volta in Asia, diviso tra Giappone e Corea del Sud. Tuttavia, la nazionale cinese venne subito eliminata, perdendo le prime tre partite. Un altro dato: solo nel 2013 fu vinta la prima Coppa dei campioni asiatica da parte di una squadra professionista cinese, il Guangzhou Evergrande della città di Canton, nel Sud della Cina.

Il fenomeno calcistico cinese si sta sviluppando in parallelo alla crescita economica del paese e in conseguenza dell’introduzione nella Cina comunista dei primi istituti giuridici e delle prime pratiche proprie del capitalismo. Il calcio dei professionisti in Cina è stato quindi istituito solo nel 1994. Il primo contatto diretto tra calcio cinese e calcio italiano si ebbe nel 2000, quando il giocatore Ma Mingyu venne ingaggiato dalla squadra del Perugia. Ma solo nel 2004, con l’istituzione della Super League, il campionato di serie A cinese passò da attività di dilettanti a lavoro da professionisti.

In ogni caso, prima di poter affermare che il popolo cinese sia diventato un popolo di calciofili e aspiranti campioni del pallone passeranno probabilmente ancora molti anni. Oppure, nella peggiore delle ipotesi, tutto questo investire capitali e parlare di calcio potrebbe essere semplicemente un fuoco di paglia, come ad esempio fu del tentativo, portato avanti fra gli anni Settanta e Ottanta, di far appassionare gli statunitensi al gioco del calcio.

Nel frattempo, quest’anno il calciomercato cinese si è rivelato il quinto più ricco al mondo, dopo quelli relativi ai campionati inglese, tedesco, spagnolo, italiano, con un esborso da parte delle squadre cinesi di quasi 545 milioni di dollari, una cifra triplicata rispetto a un anno prima.

Un tifoso d’eccezione: Xi Jinping

Il presidente della Repubblica popolare, nonché segretario generale del Partito comunista cinese, Xi Jinping ha più volte ribadito che il grande sogno cinese di rinascita patriottica non è per nulla slegato dal gioco del calcio. A partire da una visita ufficiale in Corea del sud nel 2011, quando era ancora vicepresidente, prospettò al mondo un triplice obiettivo per la Cina: qualificarsi per un Mondiale, ospitare un Mondiale e vincere un Mondiale entro il 2050. Costruire le premesse per la vittoria della Coppa del Mondo di calcio entro il 2050 sarebbe la ciliegina sulla torta dei festeggiamenti previsti nel 2049 per l’anniversario dei cento anni della dichiarazione di indipendenza del paese, avvenuta sotto la guida di Mao Zedong nel 1949.

La direzione è quindi tracciata e tutti devono agire uniformandosi a questa linea politica. Il calcio non è solo un passatempo per il pubblico o un business fruttuoso per gli investitori e gli sponsor, ma in Cina diventa un fatto politico e sociale di fondamentale importanza. Si tratta del grande sogno del rinascimento cinese.

Nei soli ultimi due o tre anni, tra campagna acquisti di giocatori, acquisto di squadre di calcio estere – tra cui Manchester City, Wba, Aston Villa, Birmingham, Wolverhampton, Atletico Madrid, Espanyol, Granada, Sochaux, Auxerre, Nizza, Lione e le italiane Inter e Milan -, e l’ammodernamento delle infrastrutture, si sono già spesi diversi miliardi. E siamo solo agli inizi. Ma coloro che ne hanno saputo approfittare più di altri sono i cosiddetti immobiliaristi. Cioè tutti quegli imprenditori che si sono arricchiti con la speculazione edilizia, la quale ha come controparte le realtà governative ad ogni livello. Infatti i terreni in Cina sono statali e per renderli edificabili servono i permessi amministrativi. Così gli immobiliaristi sono tra gli imprenditori più ricchi, ma anche quelli più dipendenti dai rapporti con la politica. Non stupisce quindi che nella China Super League, il campionato di serie A in corso, 11 squadre su 16 abbiano proprietari i cui affari sono riconducibili anche al settore immobiliare.

Lippi e gli altri: tanti stranieri, pochi nativi

Nel 2011 per le squadre di calcio cinesi si aprì il mercato degli acquisti all’estero. Il primo giocatore straniero ad essere ingaggiato fu il centrocampista argentino Dario Conca, che giocava nella serie A brasiliana, il quale venne acquistato dalla squadra cinese del Guangzhou Evergrande con un ingaggio milionario. Ovviamente le immense disponibilità valutarie, anche in valuta estera, che caratterizzano ancora oggi l’economia cinese, da quel momento cominciarono ad essere investite nel nascente mondo del calcio cinese. Così un solo anno più tardi, nel 2012, anche Marcello Lippi, di fronte all’offerta di parecchi milioni, accettò di fare l’allenatore del Guangzhou Evergrande, riportando diverse vittorie sia in campionato che nelle coppe, come la vittoria, ricordata sopra, nella Champions League asiatica nel 2013. Attualmente Lippi allena la nazionale cinese.

Altri giocatori e tecnici italiani lo hanno seguito nella nuova avventura. Parliamo tra i primi di Gilardino, Cannavaro e Diamanti. Nel 2016 un altro importante allenatore italiano, Alberto Zaccheroni, approda al massimo campionato cinese nella squadra del Beijing Guoan. Ai cinesi serviva avere in casa buoni esempi di calcio giocato e altrettanti buoni modelli tecnici e tattici, da cui imparare e prendere spunto per migliorare le prestazioni sul campo. I campioni e gli allenatori stranieri ingaggiati a suon di milioni da parte loro non hanno deluso le aspettative. Così nel mondo del calcio cinese si è avviato un volano positivo fatto di investimenti, di ingaggi e di buoni giocatori e tecnici venuti dall’estero, brasiliani, francesi, italiani, africani, giapponesi, sudcoreani. Tra i tanti, troviamo anche Oscar, Hulk, Alex Teixeira, Jackson Martinez, Ramires, Gervinho, Guarin, Burak Y?lmaz, Lavezzi, Tevez, Felipe Scolari e l’italiano Pellè. Tuttavia quello che ancora manca non è tanto la bravura degli stranieri, ma la qualità dei nativi. Insomma alla Cina manca un numeroso e forte vivaio di giocatori giovani nati e cresciuti in Cina.

Scuola calcio, campi e corruzione

Nonostante i cospicui investimenti, la mancanza di talenti cinesi si fa sentire in modo negativo nel calcio cinese, soprattutto durante le partite della nazionale, che, dopo il 2 a 2 con la Siria (giugno 2017), è già praticamente eliminata dalla corsa di qualificazione al Campionato del mondo del 2018, che si terrà in Russia. Per ovviare alla mancanza di talenti tra le fila dei giovani cinesi, il vicepresidente della Federazione calcistica cinese, Wang Dengfeng ha dichiarato che è operativo un piano nazionale per legare l’attività calcistica ai piani di educazione dei giovani studenti nelle scuole, con l’annuncio della creazione entro il 2025 di cinquantamila scuole di calcio o meglio veri e propri collegi super attrezzati e con partnership straniere, ognuno dei quali sarà in grado di formare un migliaio di nuovi giocatori; col fine di portare a cinquanta milioni il numero di giocatori di calcio in Cina, di cui almeno centomila di livello. Si procederà anche alla costruzione di 70 mila nuovi campi sportivi nelle contee sparse per tutto il paese.

Dove girano molti soldi però la corruzione è in agguato. La Cina in questo non fa certo differenza rispetto a tutti gli altri paesi. Per combattere i fenomeni devianti legati allo scambio di «favori» e di mazzette, il presidente Xi Jinping già dal suo insediamento, come vertice politico della Repubblica popolare cinese, ha dichiarato la caccia aperta alle cosiddette «tigri», cioè gli alti funzionari corrotti nel partito e nell’amministrazione; alle «mosche», i medi e piccoli funzionari corrotti e infine alle «volpi», cioè tutti quelli che sono scappati all’estero col maltolto.

Buchi di bilancio e nuove regole

Anche il sogno, legato alla diffusione del gioco del calcio nel paese, rischiava di trasformarsi in un incubo. Infatti come un treno, che sta per deragliare, i denari spesi negli acquisti all’estero e negli ingaggi dei giocatori stranieri sono cominciati ad apparire davvero eccessivi, anche per le ricche tasche cinesi. Il calcio non è diverso da qualsiasi altro settore economico e dovrà uniformarsi alle stesse limitazioni e agli stessi controlli delle autorità governative. Così di fronte a un buco complessivo di 670 miliardi di dollari, non si può far altro che constatare che a fronte di miliardi di investimento ancora non si producono utili. Ognuna delle sedici squadre che partecipano alla Super League ha, in media, una perdita finanziaria di 74 milioni di dollari. La responsabilità di tutto ciò è anche da ascrivere all’incapacità dimostrata dalle squadre di fidelizzare i tifosi e di sviluppare il settore del merchandising. Su queste basi l’Amministrazione generale dello sport cinese ha dettato nuove regole, imponendo, oltre a un tetto per le spese durante il calcio mercato, anche il limite di cinque stranieri in squadra, di cui solo tre schierabili durante la partita, e due giovani cinesi con meno di ventitré anni, uno dei quali da schierare dal primo minuto. Una stretta governativa è stata data anche all’esportazione dei capitali fuori dalla Cina, creando anche difficoltà alle normali transazioni per l’acquisto di squadre e giocatori.

Tuttavia, come ricorda Pan Gongsheng, vice governatore della Banca centrale cinese, le autorità governative non hanno deciso di bloccare i capitali finalizzati al potenziamento del settore calcistico, ma hanno semplicemente cercato di razionalizzare il settore sotto l’aspetto finanziario e di sensibilizzare gli imprenditori legati al calcio sulla fondamentale prospettiva di avere un modello di bilancio sostenibile sul medio-lungo periodo. Ma anche evitare che, con la scusa degli investimenti, si nascondano capitali all’estero, creando fondi neri fuori dalla possibilità di controllo della pubblica amministrazione.

Una tradizione non si costruisce a tavolino

Il calcio non fa parte della tradizione cinese. Il governo sta tentando di farne un’industria prima ancora che una consuetudine popolare. La strada si prospetta lunga e tortuosa. La ricchezza non sempre va a braccetto con il genio calcistico. Per vedere i primi campioni cinesi dovremo aspettare almeno una generazione e non è detto che provengano dalle accademie del calcio progettate dai burocrati di stato.

Gianni Scravaglieri
(cinaforum.net)




Brasile: Dove un indio

non vale una vacca /2


Nel Brasile degli scandali e dei politici corrotti, l’oligarchia dei proprietari terrieri ha assunto il potere e sta smantellando l’apparato giuridico che aveva riconosciuto i diritti dei popoli indigeni, a iniziare dal diritto alla terra. La vicenda che vede coinvolti i Guarani Kaiowá del Mato Grosso del Sud è soltanto uno dei tanti esempi possibili. Ne abbiamo parlato con il cacique Ládio Veron (Ava Taperendi), il cui padre venne assassinato nel 2003 dai sicari dei latifondisti.

Tra il 1915 e il 1928 nello stato brasiliano del Mato Grosso del Sud furono create 8 riserve indigene per un totale di 17.975 ettari. La maggiore (e più problematica) tra queste riserve è quella di Dourados, sorta nel 1917. Dourados è vasta circa 3.600 ettari, oggi occupati da una popolazione di due etnie (Guarani e Terena) per un totale di oltre 15.000 abitanti (1).

I numeri sono importanti, ma detti così non sono sufficienti per riuscire a comprendere la situazione. È utile allora fare una piccola e facile ricerca sul web. Cerchiamo, per esempio, le fazendas (aziende agricole) in vendita nel Mato Grosso del Sud, esteso quanto la Germania ma con nemmeno tre milioni di abitanti. Ebbene, su YouTube (2) ne possiamo trovare varie. Prendiamone tre a caso. Le loro estensioni sono di 22.410 ettari, di 28.000 ettari e di 41.000 ettari. Si possono vedere le grandi case dei proprietari (costruite nei pressi dei pochi alberi rimasti), i recinti con le vacche e i cavalli, gli immensi pascoli o le estensioni con le monoculture, le strade sterrate in terra rossa, i corsi d’acqua o i laghetti. La terza fazenda viene ceduta con tutta la mandria di 22.000 bovini.

Istruttivo è leggere i commenti di chi ha visto i video di queste fazendas in vendita. Uno dei visitatori virtuali chiede: «È con indigeni o senza? I senzaterra sono tutti una piaga» («é com índios o sem índios os sem terra todos são uma praga»).

Esproprio bianco

Lungi dal voler tentare un’analisi critica del diritto di proprietà, vogliamo mettere in evidenza alcuni fatti concreti. «A partire dal 1920, e più intensamente a partire dal 1960, ebbe inizio una colonizzazione sistematica ed effettiva dei territori guarani, innescando un processo di espropriazione metodica delle loro terre da parte dei coloni bianchi» (pib.socioambiental.org). Insomma, i proprietari originari delle terre erano gli indigeni e lo erano da secoli. Con la creazione delle riserve indigene da parte del «Servizio di protezione dell’indigeno» (Spi) nel Mato Grosso del Sud si diffuse il convincimento che «le fazendas occupate attualmente dai coloni e rivendicate dagli indigeni non siano mai appartenute ad essi, poiché l’idea dominante è che le terre degli indigeni siano le riserve» (XXII Simpósio nacional de história, 2003).

In un Brasile travolto dagli scandali, il Mato Grosso del Sud è un esempio lampante del progetto di criminalizzazione dei popoli indigeni e dei loro alleati messo in moto negli ultimi anni da latifondisti, potere politico dominante e molti media.

Oggi nel Mato Grosso del Sud, oltre alle riserve, ci sono 96 terre indigene (fonte Cimi, agosto 2016), quasi tutte teoriche. Nella realtà gli indigeni vivono confinati nei ghetti delle riserve o in fazzoletti di terra, se non addirittura ai margini delle strade. Stanchi di attendere di vedere attuati i propri diritti, molti gruppi hanno preso l’iniziativa da soli con la cosiddetta «retomada», il recupero, la riconquista delle loro terre.

Di fronte alla resistenza e alle iniziative indigene sono aumentati la violenza e l’odio nei loro confronti. Sono decine gli attacchi compiuti da squadre paramilitari al soldo dei latifondisti (con la complicità delle autorità). Secondo i dati del Consiglio indigenista missionario (Cimi), nel Mato Grosso del Sud sono stati 36 gli indigeni assassinati nel 2015 e 426 nel periodo tra il 2003 e il 2015. E dove non è arrivata la violenza diretta sono arrivati i suicidi: 45 nel solo 2015 e ben 752 tra il 2000 e il 2015.

L’offensiva anti-indigena del governo Temer

Il Consiglio indigenista missionario ha sperimentato sulla propria pelle cosa significhi lottare per i diritti indigeni e contro il sistema che li nega. L’Assemblea legislativa del Mato Grosso del Sud ha istituito una Commissione parlamentare d’inchiesta (Comissão Parlamentar de Inquérito, Cpi) per mettere sotto accusa il Cimi, inclusi i suoi primi rappresentanti, il presidente dom Roque Paloschi e il segretario esecutivo Cleber César Buzatto.

Nelle 222 pagine della relazione finale (Relatório final da Cpi do Cimi), presentata nel maggio 2016, le parole sono forti: «Causa indignazione, perplessità e repulsione il fatto che un’entità legata alla Chiesa cattolica abbia causato tanti danni» (pag. 194); ci sono indizi fortissimi sulla «partecipazione del Cimi nell’incitamento alla violenza e nell’invasione di proprietà private» da parte degli indigeni (pag. 205).

Latifondisti e politici non si sono fermati qui, ma hanno replicato la strategia alla Camera dei deputati federale creando una Commissione d’inchiesta sulla Funai (Fundação Nacional do Índio) e sull’Incra (Instituto Nacional de Colonização e Reforma Agrária). Con essa si chiede l’incriminazione di decine di leader indigeni, antropologi e procuratori della Repubblica (questi ultimi successivamente esclusi) che difendono la demarcazione delle terre indigene.

L’offensiva anti-indigena del governo (golpista e corrotto) di Michel Temer pare inarrestabile. Lo scorso 9 maggio a capo della Funai è stato nominato, come ai tempi della dittatura, un generale dell’esercito, Franklimberg Ribeiro de Freitas. La Federazione dei popoli indigeni del Brasile (Articulação dos Povos Indígenas do Brasil, Apib) ha giustamente parlato di un’inaccettabile militarizzazione dell’organo in vista dell’espansione delle frontiere agricole e dei progetti imprenditoriali sulle terre indigene. Queste ultime rischiano di essere ridimensionate o spazzate via se dovesse essere approvata la Proposta di emendamento costituzionale n. 215 (Proposta de Emenda à Constituição, Pec 215). Essa prevede di trasferire al Congresso nazionale la prerogativa di demarcare le terre indigene, trasformando un diritto originario in un mero oggetto di negoziazione.

Ládio Veron e la «retomada de Takuara»

Ládio Veron non vuole sorridere davanti alla fotocamera. «Non c’è niente da ridere» dice serio. Lo comprendiamo.

Cinquant’anni, cinque figli ed otto nipoti, maestro di scuola, Ládio Veron (Ava Taperendi, in lingua indigena) è cacique della comunità Guaranì Kaiowá di Takuara. La terra indigena Takuara, nel municipio di Juti, ha una superficie di 9.700 ettari. Essa coincide con alcune aziende agricole, in particolare con la fazenda Brasilia do Sul, dedita soprattutto alla monocoltura della soia (foriera di pesanti conseguenze sull’ambiente).

Tra l’11 e il 13 gennaio del 2003 il fazendeiro Jacinto Honório da Silva e suoi dipendenti assalirono l’accampamento indigeno. Alla fine arrivò anche un gruppo di sicari (pistoleiros) che attaccarono la comunità. Nella lotta che ne seguì rimase coinvolto il cacique Marcos Veron di 72 anni, che morì in ospedale per le ferite subite. Marcos era il padre di Ládio, che nella lotta per il diritto alla terra ha perso anche fratelli e parenti. «Perché dobbiamo morire per una terra che è nostra?», chiede.

Se i primi anni erano occupazioni (retomadas) di una terra reclamata, oggi Takuara ha superato il lungo e complesso processo di riconoscimento giuridico ed è a tutti gli effetti una terra di proprietà indigena. Eppure non è stata ancora restituita. Anzi, i giudici del Mato Grosso del Sud emettono continuamente ordini di sgombero. «La Funai – spiega Ládio – non ha la forza per procedere con la demarcazione delle nostre terre. Chiediamo un cambio. Chiediamo di avere in essa alcuni nostri rappresentanti. Abbiamo indigeni preparati per questo».

«A Takuara siamo circa 70 famiglie che occupano non più di 90 ettari di territorio», assicura Ládio. «Eppure dobbiamo sopportare che centinaia di camion carichi di soia passino per la nostra aldeia».

Una lotta, quella dei popoli indigeni, disperata e disperante che genera rabbia e impotenza. Ci affidiamo alle parole di un editoriale di Porantim, rivista del Cimi: «La terra è un bene comune, ereditato da tutti gli esseri che su di essa abitano. Il suo valore è incalcolabile e, proprio per questo, essa non dovrebbe essere ridotta a una merce ed essere commercializzata come un qualsiasi altro prodotto» (3).

Proprietà privata: sempre legale e legittima?

Il sentimento prevalente verso i popoli indigeni è ricordato dal missionario Egon Heck: «Rivelatrice è l’affermazione dell’ex governatore [del Mato Grosso del Sud] André Puccinelli (2007-2014): “È un crimine dare un palmo di terra produttiva agli indigeni”».

Sul sito della potente Federazione dei produttori agricoli e degli allevatori dello stato (Federação da Agricultura e Pecuária do Estado de Mato Grosso do Sul, Famasul), sospettata di armare milizie paramilitari, di indigeni non si parla se non per ricordare uno sgombero di terre da loro occupate (4).

È opinione dominante che l’agrobusiness (agronegócio) e lo sviluppo non possano fermarsi davanti alle rivendicazioni territoriali dei popoli indigeni e, men che meno, davanti alla cosmovisione indigena, considerata un insieme di concetti astratti se non inverosimili. Non importa se i diritti sono sanciti dalla Costituzione del 1988 e se l’agrobusiness arricchisce un’esigua minoranza e distrugge un bene comune quale l’ambiente naturale.

Nella presentazione dell’annuale rapporto «Violenza contro i popoli indigeni in Brasile» (Violência contra os povos indígenas no Brasil) (5), dom Roque Paloschi, presidente del Cimi, ha scritto: «Denunciamo il potere giudiziario che, nei suoi giudizi, dà la priorità alla difesa della proprietà – non sempre legale, non sempre legittima – a discapito dei diritti originari dei popoli indigeni».

Paolo Moiola

Note al testo

(1) I dati sulle terre indigene sono visibili su questo sito: https://terrasindigenas.org.br.
(2) La ricerca può essere fatta con questa richiesta: «fazendas para comprar no estado de Mato Grosso do Sul».
(3) Editoriale di Porantim, gennaio-febbraio 2013, pag. 2.
(4) Testuale: «a reintegração de posse de quatro fazendas ocupadas por índios guarani-kaiowá». Il sito della Federazione: famasul.com.br.
(5) Conselho Indigenista Missionário – Cimi, Violência contra os povos indígenas no Brasil – Datos de 2015, pag. 11; il rapporto è scaricabile dal sito www.cimi.org.br.

 

 


01- Breve scheda storica

La terra indigena sono le riserve

È questo l’obiettivo dei governi brasiliani. 

  • 1610 – In una vasta regione comprendente Paraguay e porzioni di Bolivia, Brasile, Argentina e Uruguay, i gesuiti fondano le prime «riduzioni» (reducciones de indios) dove vengono accolte le locali popolazioni indigene.
  • 1759 – 1767 – I gesuiti vengono espulsi prima dalle colonie portoghesi e poi da quelle spagnole; nel 1773 il loro ordine sarà soppresso da papa Clemente XIV; i Guaranì delle riduzioni vengono uccisi o ridotti in schiavitù.
  • 1915 – 1928 – Il «Servizio di protezione degli indigeni» (Serviço de Proteção aos Índios, Spi) costituisce in Mato Grosso (nel 1977 divenuto Mato Grosso del Sud) 8 riserve indigene.
  • 1920 – 1960 – A partire dal 1920 e ancora con più intensità dal 1960 inizia una sistematica colonizzazione dei territori guaranì da parte di coloni bianchi che si installano sulle loro terre distruggendo la foresta per far posto all’allevamento e all’agricoltura estensiva.
  • 1946 – 1988 – Nel suo documento conclusivo (del 2014), la «Commissione nazionale della verità» conferma le gravi violazioni dei diritti dei popoli indigeni perpetrate nel periodo esaminato.
  • 1967 – Durante la dittatura militare, lo Spi viene sostituito dalla «Fondazione nazionale dell’indio» (Fundação Nacional do Índio, Funai) che non cambierà le modalità d’azione.
  • 1988 – Il Brasile adotta una nuova Costituzione nella quale vengono riconosciuti i diritti dei popoli indigeni.
  • 2016, maggio – Viene resa pubblica la relazione finale della «Commissione parlamentare d’inchiesta» (Cpi) del Mato Grosso del Sud sull’operato del Consiglio indigenista missionario (Cimi). È un durissimo attacco all’operato del Cimi. La magistratura archivierà la relazione della Cpi nell’aprile del 2017.
  • 2017, 9 maggio – Il governo nomina alla presidenza della Funai un generale dell’esercito Franklimberg Ribeiro de Freitas.
  • 2017, 17 maggio – A Brasilia viene approvata la relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta (Cpi) sulla Funai e Incra. Il relatore è il deputato Nilson Leitão, presidente del Fronte parlamentare degli imprenditori agricoli e degli allevatori (Frente parlamentar da agropecuária).
  • 2017, 24 maggio – Impopolare, accusato di corruzione e abbandonato anche da Rede Globo, il presidente Temer rischia di essere esautorato.

(Pa.Mo.)

 


02 – Breve scheda etnografica

Le popolazioni dei Guaranì

Sono distribuite in cinque stati dell’America Meridionale. 

  • Famiglia linguistica: tupi-guarani;
  • Dove sono: in Argentina (provincia di Misiones), in Bolivia (Chaco boliviano), in Uruguay, in Paraguay e in Brasile (Mato Grosso del Sud);
  • Quanti sono: in totale circa 90.000 (ma le cifre sono spesso incerte e variabili a seconda delle fonti);
  • Sottogruppi principali: Kaiowá (45.000, localizzati soprattutto nel Mato Grosso del Sud), Mbya (30.000, la maggior parte nel Paraguay) e Ñandeva (13.000);
  • Organizzazione: i Guaranì Kaiowá sono organizzati in comunità macrofamiliari (2-5 famiglie estese), riunite in un luogo denominato «tekoha», inteso come unico luogo – di terra, foresta, acqua, piante, animali – dove si può realizzare la propria condizione («teko») di Guaranì.
  • Film sui Guarani: «Mission», film del 1986, ambientato nel 1750, nella foresta sopra le Cascate dell’Iguazú al confine tra Argentina, Brasile e Paraguay dove i missionari gesuiti avevano aperto alcune missioni (note come «riduzioni») tra gli indios guaranì; «La terra degli uomini rossi», film del 2008, ambientato in Mato Grosso del Sud e riguardante la lotta tra i Guaranì Kaiowá e i fazendeiros (latifondisti).

(Pa.Mo.)


03 – Breve scheda del Mato Grosso del Sud

Latifondisti al potere

In questo stato brasiliano comandano i latifondisti. A?Brasilia anche.

  • Superficie del Mato Grosso del Sud (MS): 357 mila chilometri quadrati (superficie Portogallo: 93 mila kmq);
  • Popolazione: 2,6 milioni (fonte Ibge);
  • Economia: allevamento bovino e agricoltura (soia, canna da zucchero, cotone, eucalipto);
  • Bovini in MS: 21 milioni e settecentomila (9 vacche per abitante); sono 215,2 milioni in Brasile (fonte Ibge, settembre 2016);
  • Popolazioni indigene in MS: 77 mila, di cui 43 mila Guaranì (fonte Ibge, 2010), seguiti dai Terena e – con poche centinaia di individui – dai Kadiwéu, dai Guató e dagli Ofaié ;
  • Riserve indigene in MS: 8 (istituite dallo scomparso Spi);
  • Terre indigene in MS: 96 (fonte Cimi, agosto 2016);
  • Indigeni assassinati in MS: 36 nel 2015 (fonte Cimi); 426 tra il 2003 e il 2015;
  • Indigeni suicidatisi in MS: 752 tra il 2000 e il 2015 (fonte Cimi);
  • Proprietari terrieri in MS: contro il Cimi (Consiglio indigenista missionario) con una Commissione parlamentare d’inchiesta (settembre 2015 – maggio 2016); accuse poi archiviate;
  • Proprietari terrieri a Brasilia: la «bancada ruralista», in alleanza con la «bancada evangelica», è schierata a favore dell’emendamento costituzionale – noto come «Pec 215» – che trasferirebbe dall’organo esecutivo a quello legislativo l’ultima parola sulle questioni relative alle terre indigene.

(Pa.Mo.)

 

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Arabia Saudita – Usa: Trump d’Arabia


All’Arabia Saudita, paese ritenuto il principale sponsor (ideologico e finanziario) del terrorismo jihadista, Donald Trump ha venduto armi per miliardi di dollari. Il presidente e il re saudita hanno indicato l’Iran sciita come l’unico responsabile del terrore. Pochi giorni dopo la visita l’Isis ha attaccato Tehran.

Riyadh, Arabia Saudita, 21 maggio 2017. Nessuno dimenticherà presto quell’inquietante immagine, rimbalzata nei media e nei social network di tutto il mondo, che ritrae intorno a un globo luminoso il presidente Usa Donald Trump, il re Salman Bin Adbulaziz Bin al-Saud, padrone di casa, il presidente egiziano al-Sisi e, ai loro lati, i leader di altri 50 paesi islamici. La scena pare evocare rappresentazioni di fratellanze occulte per il dominio sul mondo.

Armi e miliardi

Il primo viaggio estero di Donald Trump aveva obiettivi politici, ma soprattutto economici a tutto vantaggio degli Stati Uniti. L’accordo stipulato con Riyadh prevede una vendita di armi all’Arabia Saudita per un valore di 110 miliardi di dollari da pagare subito e altri 350 miliardi in dieci anni. Un accordo elefantiaco che – come scrive John Wight (counterpunch.org, 23 maggio) – potrebbe essere un «incentivo che la politica e i media statunitensi richiedono per girarsi dall’altra parte quando [l’Arabia Saudita] decapita, crocifigge, cava gli occhi pubblicamente, e esegue altre punizioni crudeli e barbare su base regolare». Tale arsenale di distruzione dovrà difendere il già ben difeso Israele e rappresenterà una minaccia sia per l’Iran, uno dei bersagli preferiti della propaganda bellica di Trump, sia per tutto il Vicino e Medio Oriente e Nordafrica.

Trump: Iran terrorista

Nella sua visita, Trump non ha lesinato elogi per il regime di Riyadh, esaltandolo, paradossalmente, per la «lotta al terrorismo» e lanciando, allo stesso tempo, dure accuse all’Iran. Visti gli ampi studi e la documentazione al riguardo, non è un segreto per nessuno che la dottrina salafita wahhabita dell’Arabia Saudita sia la matrice ideologica e metodologica del jihadismo sia di al-Qa‘ida sia del Daesh, e responsabile del sostegno materiale all’estremismo cosiddetto islamico.

Appare dunque un chiaro segno di appoggio alle politiche di Riyadh, il discorso aggressivo e manipolatorio di Trump verso l’Iran: «Dal Libano all’Iraq allo Yemen, l’Iran finanzia, arma e addestra terroristi, milizie e altri gruppi estremisti che diffondono distruzione e caos nella regione. Per decenni, l’Iran ha alimentato il fuoco dei conflitti settari e del terrore. È un governo che parla apertamente di omicidi di massa, promettendo la distruzione di Israele, la morte dell’America, e la rovina per molti leader e nazioni riunite in questa stanza. Tra gli interventi più tragici e destabilizzanti dell’Iran c’è la Siria. […] Le nazioni responsabili devono lavorare insieme per porre fine alla crisi umanitaria in Siria, sradicare l’Isis, e riportare la stabilità nella regione. […] Finché il regime iraniano non diventerà un partner per la pace, tutte le nazioni con coscienza devono lavorare insieme per isolarlo, impedirgli di finanziare il terrorismo e pregare per il giorno in cui gli iraniani avranno il governo giusto che si meritano».

Trump attacca un paese che due giorni prima, il 19 maggio, era andato alle urne e aveva rieletto il moderato e filo occidentale Hassan Rohani (vedi sotto).

AFP PHOTO / Saudi Royal Palace / BANDAR AL-JALOUD

Re al-Saud: l’Iran è il colpevole

Ancora più grottesta la dichiarazione di re Salman Bin Adbulaziz Bin al-Saud: «L’Arabia Saudita rifiuta ogni estremismo e lotterà per fermarne il finanziamento. Vogliamo una vera collaborazione con gli Stati Uniti per perseguire la via dello sviluppo e della pace, così come chiede la nostra religione. L’islam sarà sempre la religione della pietà e della tolleranza. Oggi, tuttavia, alcuni presunti musulmani vogliono presentare un quadro distorto della nostra religione. L’Arabia Saudita non ha mai conosciuto il terrorismo fino alla rivoluzione khomeinista. L’Iran interferisce negli affari interni di altri paesi, come dimostra il suo intervento nello Yemen (Riyahd è protagonista in quella guerra, ndr). Noi non consideriamo nemico il popolo iraniano ma il regime iraniano. Con l’accordo di Sua eccellenza Trump colpiremo il terrorismo, divulgheremo inoltre la cultura della tolleranza contro il terrore e la sua propaganda».

Pecunia non olet

La chiave di lettura di tutta l’operazione di propaganda Usa-Saudita sta qui: «Vi ringraziamo per la creazione di questo grande momento storico – ha affermato Trump -, e per il vostro massiccio investimento in America, nella sua industria e lavoro. Vi ringraziamo anche per i vostri investimenti nel futuro di questa parte del mondo».

Pecunia non olet (il denaro non puzza): questo vale per qualsiasi potente, ma ancora di più per Trump, che, oltre a essere un capo di Stato è anche, o soprattutto, un uomo d’affari miliardario. In qualche modo, è quanto ha fatto notare il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, che, secondo quanto ha riportato l’agenzia iraniana ParsToday, ha sottolineato come uno degli obiettivi di Trump è «mungere i sauditi». Zarif ha ricordato che Riyadh è il più importante acquirente delle armi americane e, con Israele, il primo alleato di Washington nel Medio Oriente .

Probabilmente, come diversi analisti indipendenti hanno rilevato, le accuse di Trump, e di tutti gli altri presidenti Usa, contro l’Iran sono parte di una strategia volta a creare timori e minacce in Medio Oriente, e a vendere costosi arsenali bellici ai paesi arabi e islamici della regione.

Il «pacchetto di armamenti» (oltre 450 miliardi di dollari per tank, navi militari, sistemi missilistici di difesa, radar e comunicazioni, e tecnologia della sicurezza cibernetica) servirà – secondo quanto affermato dalla Casa Bianca – a «promuovere la sicurezza del Regno e della regione del Golfo di fronte alle minacce iraniane». Servirà anche a espandere le attività delle aziende statunitensi in Medio Oriente e a creare decine di migliaia di posti di lavoro nell’industria della «difesa», come si legge nella dichiarazione.

Sunniti contro sciiti

Il gotha dell’islam sunnita riunito in Arabia Saudita, tra sabato 20 e domenica 21 maggio, aveva l’aria minacciosa di una coalizione anti-sciita in procinto di organizzare una guerra a tutto campo contro gli odiati avversari religiosi, ma soprattutto geopolitici, nel Vicino e Medio Oriente. Infatti, il terrorismo mediorientale, cioè al-Qa‘ida e le sue filiazioni (compresa quella definita «moderata» di Jabat al-Nusra), e il Daesh (Isis), hanno origine e supporto nel paese ospite del vertice arabo e non certo in Iran. Una farsa pericolosa, dunque, portata avanti da leader irresponsabili.

Da parte sua, il nuovo inquilino della Casa Bianca ha perseguito due obiettivi importanti allo stesso tempo, e interconnessi tra loro: quello del business miliardario e dell’affondo all’Iran, in una prospettiva di conflitto totale tra i due schieramenti mediorientali: il sunnita – con i paesi del Golfo e la Turchia, determinati a dominare nella regione -, e quello sciita – con l’Iran, il Libano degli Hezbollah e la Siria di Assad. Fondamentale, in questo risiko giocato sulla pelle di milioni di esseri umani, sarà il ruolo della Russia di Putin e della Cina, che per il momento mantengono una certa compostezza.

Attraverso il business degli armamenti e di tutto l’indotto bellico l’economia statunitense prenderà fiato. Inoltre, gli Usa forniranno ulteriore protezione e sicurezza incondizionate a Israele – nonostante i crimini di cui continua a macchiarsi contro gli autoctoni Palestinesi -, e stabiliranno un predominio sul sempre strategico Medio Oriente. Insomma, siamo in una nuova fase del neocolonialismo occidentale, con gli Stati Uniti di Trump a ricoprire il ruolo di attore principale, in competizione o alleanza conflittuale con Gran Bretagna e Francia, e in antagonismo con Russia e Cina.

Il tornaconto dei leader arabi

Come storicamente hanno già dimostrato più volte, a partire dalla fine del secolo XIX e proseguendo nel XX, i leader arabi si distinguono per la totale incapacità di guardare oltre il loro tornaconto personale e familiare, e di seguire una politica estera autonoma, unitaria e in contrasto con quella delle potenze coloniali. Per comprendere la situazione odierna, infatti, è fondamentale ritornare alla storia dei paesi arabi dei primi decenni del Novecento e ai fallimentari accordi tra sceicchi arabi e potenze europee per la spartizione del Vicino e Medio Oriente, e alle vicende coloniali europee in Libia. Insomma, gli errori arabi si ripetono all’infinito, senza lasciar intravedere una maturazione.

La storia è ciclica, soprattutto nel mondo arabo e islamico e quando ci sono di mezzo potere e affari. Speriamo che questa nuova e macabra farsa non si trasformi in un’altra tragedia.

Angela Lano

1 / Il terrorismo e la «svolta» del 5 giugno 2017

Arabia Saudita contro Qatar

Lo scorso 5 giugno Arabia Saudita, Egitto, Bahrein ed Emirati arabi uniti hanno rotto le relazioni diplomatiche con il Qatar. L’Arabia Saudita, genitrice ideologica e materiale di ogni forma di devianza dottrinale, e i suoi alleati accusano Doha di «finanziare il terrorismo». E qui s’intende l’Iran e le sue relazioni con Siria e Hezbollah che, secondo il Trump-pensiero, sono all’origine del terrorismo, e non – invece – al-Qa’ida e il Daesh, come noto finanziate da Arabia Saudita e altri paesi del Golfo. Riyadh investe soldi a palate in Europa, Asia, Africa e Americhe sia per «business» sia per attività di «catechesi» (wahhabi). Il Qatar ha comprato mezza Europa e anch’esso finanzia qua e là per diffondere la stessa ideologia wahhabi. Tra i due paesi è in atto da tempo una guerra per procura che si allarga sempre di più, e il cui obiettivo è il controllo di vaste aree di Africa e Medio Oriente. Entrambi sono appoggiati da potenze occidentali (Stati Uniti, Israele, Gran Bretagna, Francia) che vedono in certe dinamiche l’«utile caos» per continuare a colonizzare militarmente ed economicamente ampie regioni del mondo. La crisi tra i paesi del Golfo sembra essere precipitata dopo la visita del businessman nonché presidente Usa, Trump, in Arabia Saudita.

Angela Lano

2 / Iran: le prime conseguenze

Tehran sotto attacco

Mercoledì 7 giugno terroristi dell’Isis hanno attaccato il parlamento di Tehran facendo almeno 12 morti. Il fatto è avvenuto dopo la rielezione di Hassan Rohani e dopo la rottura delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e suoi alleati con il Qatar (notizia a lato). Con Razie Amani, giornalista iraniana e docente all’Università di Tehran, abbiamo parlato delle accuse di Trump all’Iran.

«Le dichiarazioni di Trump sono in linea con la creazione di una Nato araba e con la presenza massiccia delle armi statunitensi in Medio Oriente, a difesa di Israele. L’attacco contro l’Iran è anche contro il Libano di Hezbollah e la Siria di Assad (cioè, gli “assi della resistenza”). Il Daesh, come fu per al-Qa‘ida, è stato creato per destabilizzare il Vicino e Medio Oriene, in particolare il Libano e la Siria».

A livello geopolitico che esiti avrà l’alleanza economico-militare tra Usa e Arabia, rafforzata dai recenti accordi? «Secondo me non esiste una vera alleanza, ma un affare enorme che gli Usa hanno fatto in Arabia Saudita, non solo a livello economico ma anche per rendere più forte la presenza statunitense in Medio Oriente. L’unica reale conseguenza geopolitica è il rafforzamento del regime di Riyadh in quanto suddito di Stati Uniti e Israele, e il tentativo di indebolimento dell’Iran nella regione. Dobbiamo comprendere che la Nato non gioca più a scacchi con la Russia sul territorio europeo, come decenni fa. Lo fa in Medio Oriente».

Rohani è stato rieletto. Quali sono le motivazioni e le prospettive? «È la figura che rappresenta la parte “moderata” e filo occidentale del paese. Rohani ha basato la sua propaganda elettorale sulla paura: “Se non voterete me, ci saranno guerra e sanzioni occidentali”. Come se le sanzioni non fossero in atto già da lungo tempo. La sua missione è realizzare un’apertura e una maggiore obbedienza dell’Iran agli Usa e alla grande finanza mondiale. Ma sappiamo che ciò non servirà a nulla, anzi, sarà dannoso». L’attentato del 7 giugno lo dimostra.

Angela Lano




Islam 3: I motivi della deriva islamica


Il radicalismo islamico ha le sue ragioni. Quelle endogene: le correnti del rinnovamento non hanno mai trovato sbocchi. E quelle esogene: i grossolani errori dell’Occidente come l’appoggio incondizionato a Israele, la corrività con regimi reazionari, le ingerenze neocoloniali. Incontro con il professor Massimo Campanini, islamologo.

Prosegue la nostra inchiesta sul radicalismo islamico, o «islam politico», per cercare di capire quali sono i termini, gli attori e le dinamiche in gioco, sia a livello storico che attuale, che coinvolgono popoli e aree travalicando frontiere e culture. Per una miglior comprensione del complesso fenomeno è importante definire sia una terminologia appropriata sia il contesto ideologico e storico.

Ne abbiamo parlato con il prof. Massimo Campanini, uno dei maggiori studiosi e islamologi contemporanei del Vicino e Medio Oriente arabo, docente associato di Storia dei paesi islamici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento e autore di numerosi e interessanti saggi sull’islam e il mondo arabo-islamico.

L’uso politico dell’islam

Prof. Campanini, fondamentalismo, integralismo, radicalismo, islam politico, islamismo: qual è il termine più corretto per definire l’uso politico dell’islam?

«La definizione di una terminologia precisa per definire un fenomeno sfuggente è naturalmente molto importante. Tutti quelli suggeriti sono nomi potenzialmente utili che catturano almeno un aspetto del fenomeno; ma ciò dimostra come tale fenomeno sia poliedrico e vario, e niente affatto monolitico, come perlopiù la stampa e i mass-media lo dipingono. Proprio per la complessità del fenomeno i termini elencati risultano comunque insoddisfacenti. Che l’islam nelle sue espressioni radicali sia fondamentalista è vero, ma è anche una verità ovvia: quale religione o ideologia non sono fondamentaliste? Un ebreo farebbe a meno di ricorrere alla Torah? O un cristiano ai Vangeli? O un comunista al Capitale di Marx? Dunque dire che l’islam è fondamentalista perché ricorre al Corano e alla sunna del Profeta è un’ovvietà che non spiega nulla. Oltre a questo, c’è da dire che la definizione di fondamentalismo è derivata dai cristiani radicali, soprattutto anglosassoni, per cui non è immediatamente applicabile a contesti storici e culturali diversi.

Il termine islam radicale è altrettanto corretto se si indicano le tendenze estremiste, magari di lotta armata, ma l’islamismo, cioè l’idea fondamentalista dell’islam, non è per ciò ipso facto radicale dal punto di vista politico, né automaticamente votato al jihad. Molte correnti che possono dirsi “islamiste” come i salafiti di al-Albani o Ibn Baz o l’organizzazione di origine palestinese di Nabhani sono a-politiche e/o quietiste. D’altro canto, islamismo in sé è troppo generico, poiché rappresenta un ombrello troppo ampio. A mio parere quindi, la locuzione migliore è quella di “islam politico” in quanto indica la volontà da parte degli islamisti riformatori di impegnarsi in politica mirando a ricostituire una società e uno stato islamici. Tuttavia, i suddetti salafiti quietisti non rientrano in questa prospettiva, per cui, per esempio, sono avversari dei Fratelli musulmani che partecipano all’agone elettorale o alle lotte sindacali. Insomma bisogna adattarsi a scelte terminologiche perlopiù soggettive, con la consapevolezza che nessun termine è davvero soddisfacente e onnicomprensivo».

Le correnti islamiche

Islam politico come «alternativa islamica»: è una lettura che decostruisce diversi luoghi comuni. Ce ne vuole parlare?

«La tesi che ho sostenuto in diversi libri tra cui, appunto, L’alternativa islamica è che l’islamismo riformista o riformismo islamista (le due locuzioni funzionano entrambe e sono speculari) hanno rappresentato per un breve periodo di tempo, diciamo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, una tendenza potenzialmente costituente di un nuovo ordine politico. Mi riferisco, ovviamente, in primo luogo al Khomeinismo, prima che degenerasse in clericalismo e autocrazia, e a realtà di grande complessità teorica e organizzativa come Hezbollah, ma anche alla cosiddetta “Sinistra islamica”, sunnita, che si è espressa spesso in “teologia islamica della liberazione” (Hasan Hanafi) in paesi come l’Egitto o la Siria-Libano. Gli stessi Fratelli musulmani, riemersi dalle persecuzioni durissime dell’epoca del nasserismo, o quantomeno gruppi di azione politica e sociale che provenivano da quell’ambiente, come la cosiddetta Wasatiyya (“Via Mediana”) studiata soprattutto da Raymond Baker, hanno saputo esprimere per qualche tempo una vena di rinnovamento endogeno all’islam che richiamava quella di Muhammad ‘Abduh agli inizi del Novecento. Tutte queste tendenze sono poi state purtroppo neutralizzate sia dall’emergere di correnti jihadiste violente, sia dal loro stesso elitarismo, sia dall’indifferenza o ostilità di cui li ha circondate l’opinione pubblica occidentale che ha continuato a vedervi forze “terroristiche” e dunque non ne ha appoggiato lo sforzo modernizzante pur espresso nel quadro dell’islam. Un grave errore politico da parte dell’Europa».  

Gli errori dell’Occidente

Quali sono, secondo lei, i contesti politici e culturali in cui si è sviluppato il radicalismo islamico?

«Il radicalismo islamico ha rappresentato la reazione esasperata a tre fattori: a) l’inasprirsi della crisi economica a partire dagli anni Settanta che ha pauperizzato le classi medio-basse e proletarie; b) il soffocamento della società civile da parte di regimi autocratici o francamente tirannici, sortiti dai processi di decolonizzazione, i quali, invece di condurre una funzione egemonica in favore delle popolazioni, si sono alleate alle lobby economiche; c) last but not least, l’infinita serie di errori della politica occidentale euro-americana in Medio Oriente, dall’incondizionato e pregiudiziale appoggio a Israele – a prescindere da qualsiasi legittimità delle richieste arabe -, al saccheggio delle risorse energetiche, dalla corrività con regimi reazionari come l’Arabia Saudita (o l’Egitto di Mubarak o la Tunisia di Ben ‘Ali), all’ingerenza neocoloniale, o neocrociata, nelle dinamiche geopolitiche della regione mediorientale. Più difficile dire se il richiamo ad aspetti come il jihad, costitutivi della tradizione politico teologica islamica siano stati il motore o non piuttosto l’effetto della strumentalizzazione della religione di cui si è imbevuto il messaggio terrorista ed estremista. Quest’ultimo ha certo trovato nell’ideologia giuridica classica del jihad un sostegno teorico, ma altrettanto certamente l’ideologia del jihad è stata interpretata in modo conveniente ai fini politici dei gruppi eversivi».

La Fratellanza musulmana

Quale ruolo ha avuto e ha tuttora la Fratellanza musulmana nelle dinamiche geopolitiche attuali e, in specifico, nei movimenti radicali?

«Dipende dai contesti. In Egitto, dopo la feroce repressione di al-Sisi tra il 2013 e il 2014, la Fratellanza musulmana è temporaneamente fuorigioco, ma certo starà lavorando sottacqua e probabilmente cercando di riorganizzarsi anche all’estero. In molti altri paesi arabi operano gruppi che si richiamano a una matrice comune alla Fratellanza musulmana transnazionale, ma che non sono più Fratellanza musulmana in senso stretto. Penso al partito Justice et Développement in Marocco, attualmente al governo, o ad Ennahda in Tunisia, che ha governato e che ora, pur non essendo più il partito di maggioranza, lavora ancora attivamente e proficuamente nel sociale e nel campo politico. Non credo sia possibile oggi divinare quale sarà il futuro di queste organizzazioni: stanno vivendo una fase di transizione e di trasformazione anche ideologica i cui esiti saranno tutti da verificare».

Al-Qa’ida e Daesh

Lei afferma che al-Qa‘ida e Daesh, in quanto deriva terroristica del radicalismo, hanno interrotto il processo di costruzione dell’«alternativa islamica». Quali sono gli scenari del prossimo futuro?

«Ridurre al-Qa‘ida e l’Isis a puri fenomeni terroristici, siano essi causati dall’irrazionalismo nichilista, come vuole Oliver Roy, o dalla radicalizzazione ideologica dell’islam, come vuole Gilles Kepel, è insufficiente: essi sono i prodotti delle circostanze che ho chiarito poco sopra, per cui, sconfitti loro, e lo saranno certamente prima o poi, riemergeranno altre organizzazioni estremiste. Per affrontare l’estremismo armato bisogna sanare le ferite che lo hanno provocato: dalla crisi economica all’autoritarismo violento dei regimi dei paesi islamici agli incredibili errori dell’Occidente. Ma non mi pare di vedere segni positivi in questa direzione. Le strategie sono sempre le stesse, almeno per ora».

Alcuni studiosi ritengono che già alla sua nascita l’islam si fosse manifestato come «anti-sistema» – se pensiamo al potere esercitato dal clan Quraish ai tempi del profeta Muhammad -, che poi la sua carica rivoluzionaria si sia persa dopo il periodo dei «califfi ben guidati» (VII?secolo d.C.), che successivamente sia stata ripresa dai kharijiti e poi dal pensiero radicale di Taymiyya e altri. Cosa ne pensa?

«Ali Shariati (sociologo iraniano, 1933-1977, ndr) affermava che l’islam è una religione per natura rivoluzionaria, e con lui i teologi della liberazione della alternativa islamica, come Hasan Hanafi. È proprio in tal senso che essi consideravano il profeta Muhammad o suo nipote Husayn come leader anti-sistema. Il periodo successivo alla fitna (dissenso, ndr), allorché la guerra civile tra alidi (i seguaci del califfo ‘Ali, ndr) e omayyadi (un potente clan meccano, ndr), ha frantumato la Comunità e “falsificato la coscienza islamica” (espressione di Nasr Abu Zayd) attraverso la strumentalizzazione politica della religione, ha in certo senso deviato, senza più possibilità di ritorno, almeno finora, il percorso storico ideologico dell’islam. Ibn Taymiyya (giurista e teologo, 1263-1328, ndr) ha proposto una sorta di rinnovamento dello stato sulla base della sharia, la legge religiosa, ma non può essere considerato il responsabile dell’esclusivismo che, nel corso dei secoli, ha spesso caratterizzato l’islam conservatore e tradizionalista. Era un pensatore intransigente, ma i qaidisti o gli estremisti dell’Isis che lo evocano utilizzano il pensiero di Ibn Taymiyya, enfatizzandone gli aspetti di rigore estremo, e senza cogliere la novità di una proposta di metodo prima ancora che di merito che era utile nel periodo (XIV secolo) successivo alla scomparsa del califfato».  

Il fallimento delle «primavere arabe»

«Primavere arabe»: nate da uno slancio di cambiamento e ricerca di giustizia sociale e politica, si sono trasformate in conflitti permanenti o in instabilità. Cos’è, secondo lei, che non ha funzionato? Quale è stato il ruolo dell’islam o dei movimenti radicali nelle rivolte arabe?

«A mio parere le “primavere arabe” sono fallite per molti motivi: a) lo spontaneismo acefalo delle prime fasi delle rivolte che non si sono coagulate in proposte politiche effettive; b) l’incapacità dei partiti islamici che hanno gestito la fase centrale della transizione rivoluzionaria di esercitare “egemonia” in senso gramsciano, e dunque di essere veramente le guide intellettuali, morali e politiche delle masse in cerca di una direzione, c) il prevalere di forze centrifughe tribali (Libia, Yemen) o alimentate da attori esterni ambigui (Siria, dove l’Arabia Saudita e il Qatar hanno favorito l’affermarsi di gruppi radicali armati); d) il fatto di essere “scoppiate” in un contesto storico indebolito dalla crisi dei regimi così come dalle precedenti infiltrazioni qaidiste e dalle ingerenze interessate delle grandi potenze che spesso si sono tradotte in stallo invece che in dinamismo (le rivalità aspre tra Arabia Saudita e Iran, ma soprattutto tra Stati Uniti e Russia). D’altra parte, le primavere arabe hanno rappresentato un potenziale laboratorio politico per l’islamismo, ma i Fratelli musulmani sono stati ferocemente repressi; Ennahda in Tunisia ha negoziato una transizione democratica che l’ha assorbita in un quadro politico tradizionale; le tensioni tribali tra sunniti e sciiti in Yemen hanno in breve tempo neutralizzato gli effetti di riforma istituzionale della “rivoluzione”».

Oltre i gruppi radicali

Osservando gli sviluppi in corso in Libia e Siria viene da pensare che ci sia stata un’alleanza «tattica» tra agende occidentali e certi gruppi radicali islamici. Cosa ne pensa?

«La domanda, allo stato delle cose, mancando documentazione certa e certezze interpretative, può avere una risposta solo “dietrologica”. Mi limito perciò a dire che con tutta probabilità Gheddafi in Libia è caduto più per l’intervento diretto dell’Occidente che per la forza dei rivoltosi; mentre l’affermazione dell’Isis in Iraq e Siria deve essere stata “aiutata” se non addirittura “preorganizzata” da qualcuno che ha lavorato in incognito approfittando del marasma seguito alla sciagurata guerra di George Bush nel 2003: e i paesi occidentali, più, ovviamente, Israele su cui sempre si tace, sono i candidati naturali per ricoprire questo ruolo».

Il caso della Libia

Qual è stato il ruolo della Fratellanza musulmana e di altri movimenti dell’islamismo politico in Libia?

«Al momento della rivolta contro Gheddafi, apparentemente minimo. Quando Gheddafi è stato ucciso e la Libia è stata “liberata” è ovvio che le organizzazioni dell’islamismo politico abbiano trovato terreno fertile dove intervenire e consolidarsi, magari dietro il paravento di governi più o meno legittimi».

Angela Lano
(terza puntata – continua)

I libri di Massimo Campanini

  • Storia del pensiero politico islamico, Mondadori / Le Monnier, 2017;
  • Storia dell’Egitto dalla conquista araba ad oggi, Mulino, 2017;
  • Storia del Medio Oriente, Il Mulino, 2014;
  • Le rivolte arabe e l’islam: la transizione incompiuta, Il Mulino, 2013;
  • L’alternativa islamica, Bruno Mondadori, 2012;
  • Ideologia e politica nell’islam: fra utopia e prassi, Il Mulino, 2008;
  • I sunniti, Il Mulino 2008;
  • Arcipelago Islam, Laterza, 2007;
  • Storia del Medio Oriente 1798-2006, Il Mulino, 2006;
  • Il pensiero islamico contemporaneo, Il Mulino, 2005;
  • Storia dell’Egitto contemporaneo, Edizioni Lavoro, 2005;
  • Islam e politica, Il Mulino, 1999.

 




La Croazia: Una spiaggia non basta


Indipendente dal 1991, la Croazia racchiude molteplici identità, una ricchezza che spesso produce tensioni. Le cicatrici della storia ad esempio riemergono periodicamente sia all’interno del paese sia nei rapporti con gli ex fratelli jugoslavi, in primis con la Serbia. Ai problemi politici si sono aggiunti quelli economici e sociali. L’entrata nell’Unione europea e il boom del turismo non sono stati sufficienti a evitare anni di recessione economica e la fuga dei giovani dal paese.

Est o Ovest? Europa centrale, Balcani o Mediterraneo? La geografia e la storia della Croazia non sono d’aiuto quando si tratta di posizionare il paese all’interno di queste categorie concettuali. La giovane repubblica, indipendente dal 1991, ha infatti diverse anime, che si ritrovano nei suoi dialetti, nei suoi stili architettonici e persino nella sua gastronomia. Terra di isole adriatiche, montagne innevate e pianure danubiane, la Croazia trae dalla propria ricchezza culturale le sue multiple identità: romana, slava, veneziana, austro-ungarica, jugoslava, europea… Un patrimonio di influenze e di sfumature, da cui derivano però anche le tensioni del presente. Le interpretazioni del passato, le opinioni sulla religione o ancora i rapporti con i paesi confinanti, scatenano periodicamente dei dibattiti capaci di spaccare in due la società croata, producendo un costante senso di lacerazione, che nemmeno l’ingresso nell’Unione europea, nell’estate del 2013, è riuscito a placare.

Se la presidente guarda a Višegrad

«Vorrei che non si utilizzasse più l’espressione “Balcani occidentali” per indicare questa regione. Parliamo piuttosto di Sud Est europeo». Nel novembre del 2015, in occasione di un vertice multilaterale, la presidente croata Kolinda Grabar-Kitarovi? ha espresso così il suo punto di vista sulla questione geografica della Croazia e dei suoi vicini. Il termine «Balcani» veniva allora bandito dai discorsi ufficiali della capo di Stato, eletta ad inizio 2015 tra le fila del partito conservatore Hdz e decisa ad avvicinare il paese al cosiddetto gruppo di Višegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia). Anche se la diplomazia internazionale ha in realtà mantenuto il vecchio vocabolario, per la Croazia, l’approccio di Grabar-Kitarovi? ha marcato un cambio di passo, confermato in quello stesso mese di novembre anche dal risultato delle elezioni legislative. L’Hdz, vincitore relativo dello scrutinio, è riuscito infatti a tornare al potere dopo una parentesi socialdemocratica (2011-2015) ed il governo che ne è risultato, guidato dal premier tecnico Tihomir Oreškovi?, ha riaperto in meno di un anno tutte le ferite proprie del tessuto sociale croato.

Le cicatrici della storia

L’esempio più significativo è quello di Zlatko Hasanbegovi?, uno storico accusato di revisionismo e negazionismo, ma nominato ministro della Cultura. Tra dichiarazioni sprezzanti e decisioni liberticide (ad esempio, la sospensione dei fondi pubblici ai media no-profit e al quotidiano della minoranza italiana «La Voce del Popolo»), Hasanbegovi? si è fatto notare anche per le sue osservazioni sul campo di concentramento di Jasenovac, il lager croato in cui morirono durante la Seconda guerra mondiale più di 83mila persone. «Tra le 20mila e le 40mila», è stata invece la stima del ministro, fatta proprio alla vigilia della cerimonia commemorativa nell’aprile 2016, boicottata allora dai rappresentanti delle vittime serbe ed ebree. Accadeva appena un anno fa, ma le radici del dibattito vanno cercate nel 1941, «l’anno che continua a tornare» come l’ha definito il celebre storico croato-bosniaco Slavko Goldstein. Nel 1941, lo scoppio della Guerra mondiale ha diviso il paese in due: tra ustascia e partigiani, i primi sostenitori dello Stato indipendente croato (Ndh), alleato della Germania nazista e dell’Italia fascista e guidato da Ante Paveli?; i secondi schierati con Josip Broz, detto Tito, diventato poi il leader della Jugoslavia socialista. E da allora, il 1941 «continua a tornare» come una maledizione.

Lo scontro sui diritti civili

La carriera ministeriale di Hasanbegovi?, convinto che la Croazia abbia «perso la Seconda guerra mondiale», è durata appena un anno. Nel giugno del 2016, il primo ministro Oreškovi? è stato sfiduciato, dopo che uno scandalo di corruzione aveva diviso i due partiti di maggioranza. Tuttavia, anche se si è trattato del «governo più breve della storia croata», come l’ha battezzato la stampa locale, diverse polarizzazioni proprie del paese sono state accentuate proprio in quel periodo. Oltre al caso Hasanbegovi?, che ha portato nel paese anche una missione del Consiglio d’Europa preoccupato per lo stato della libertà di espressione, un secondo terreno di scontro è stato quello della questione dell’aborto e dei diritti civili. Già nel 2013, ai tempi del governo socialdemocratico (Sdp), il fronte conservatore «Nel nome della famiglia» (U ime obitelji) era riuscito a rendere illegale il matrimonio tra persone dello stesso sesso, dopo aver organizzato un referendum costituzionale. L’esecutivo aveva risposto approvando le unioni civili anche per le coppie omosessuali, ma non era riuscito a chiudere il dibattito, in un paese che si professa cattolico quasi al 100%.

Durante il mandato di Oreškovi?, quindi, questo stesso movimento è tornato alla ribalta organizzando una «Marcia per la vita», con l’obiettivo di «proibire l’aborto in Croazia», come assicurava allora uno dei registi dell’evento, Vice John Batarelo, presidente dell’Ong «Vigilare». Al corteo, a cui presero parte migliaia di persone, sfilò in prima fila anche la moglie del premier, mentre a qualche metro di distanza si teneva una seconda manifestazione, voluta dai gruppi femministi e Lgbt della capitale e con obiettivi diametralmente opposti. Anche se è difficile che i militanti di «Nel nome della famiglia» arrivino a vietare l’interruzione di gravidanza, va detto che il tribunale di Zagabria, rispondendo ad una denuncia del 1991, ha dato al parlamento croato due anni di tempo (fino al 2019) per aggiornare la normativa in materia di aborto (che risale al 1978) in modo da renderla pienamente compatibile con l’ordinamento nato dopo la dissoluzione della Jugoslavia. La riforma della normativa non mancherà dunque di riaccendere il dibattito.

Croazia-Serbia: una ruggine che non passa

Un’altra questione religiosa – e legata anch’essa all’anno 1941 – ci porta ad affrontare il capitolo dei rapporti con la Serbia. Il caso del cardinale croato Alojzije Stepinac provoca infatti degli scontri regolari tra le cancellerie di Belgrado e di Zagabria. In breve, Stepinac (1898-1960), che fu arcivescovo nella capitale croata durante la Seconda guerra mondiale, è accusato dalle autorità serbe di crimini di guerra e di collaborazionismo con il regime di Ante Paveli? e, proprio per questo, fu condannato a 16 anni di prigione nel 1946 dalla giustizia jugoslava. Ma per la Croazia, Stepinac fu in realtà una vittima del comunismo, come dimostra il fatto che papa Giovanni Paolo II lo abbia proclamato «beato» nel 1998 e che una commissione in Vaticano stia discutendo ora della sua eventuale santificazione. Lungi dall’essere aneddotica come potrebbe sembrare, questa vicenda funge da leitmotiv nelle relazioni bilaterali serbo-croate, intervallate dagli anniversari del conflitto e dalle frequenti dichiarazioni incendiarie.

Anche in questo caso, l’apice della tensione diplomatica tra Croazia e Serbia è stato raggiunto durante il mandato di Oreškovi?, quando il ministro degli Esteri di Zagabria era Miro Kova? – uno dei falchi dell’Hdz – ed il suo corrispettivo serbo era Ivica Da?i?, alla guida del Partito socialista (Sps) che fu di Slobodan Miloševi?. Nell’estate del 2016, Belgrado si è spinta fino a scrivere all’Unione europea per protestare contro «la riabilitazione dell’ideologia ustascia in Croazia», mentre a livello locale continuavano le provocazioni, almeno fino alla nuova tornata elettorale croata. La nuova vittoria dell’Hdz, epurato questa volta dal suo vecchio leader Tomislav Karamarko e guidato dal più moderato Andrej Plenkovi?, ha portato ad una rosa di ministri quasi completamente rinnovata. Lungi dall’aver estinto le fonti di conflitto all’interno della società, il «riaccentramento» dell’esecutivo croato ha comunque contribuito a limitare la retorica nazionalista nei confronti dei vicini.

La stanchezza dei giovani

In questo contesto pesantemente influenzato dal passato (dal 1941, prima ancora che dal 1991), che ne è delle giovani generazioni? Anche qui, si fa sentire la stessa divisione che attraversa la società nel suo insieme, ma con una novità. Se è vero che una parte della gioventù croata rimane sensibile ai discorsi che ruotano attorno alla retorica conservatrice, un’altra parte, stanca del dibattito politico nazionale e avvilita dalle magre prospettive economiche, sceglie sempre più spesso la via dell’emigrazione (a maggior ragione dopo il 2013, anno dell’ingresso del paese nell’Ue). Spinti da una disoccupazione giovanile che supera il 30% (dati fine 2016), i ventenni croati preferiscono traslocare in Irlanda, Germania o in altri paesi dell’Europa settentrionale. E non sono un’eccezione: secondo un sondaggio realizzato a febbraio 2017 dal portale MojPosao.hr, quattro cittadini su cinque sono pronti a lasciare il proprio paese pur di trovare un posto di lavoro. Una vera e propria emorragia, al punto che secondo alcuni osservatori la Croazia conterebbe oggi meno di 4 milioni di abitanti, contrariamente a quanto affermato dal censimento del 2011, che ne rilevava 4,3 milioni.

Instabilità

Colpita da sei anni di recessione (2009 – 2015) e prigioniera delle ricorrenti discussioni politiche e religiose, la Croazia fatica dunque a trovare quella serenità necessaria a costruire il suo tanto agognato futuro europeo. Il ritorno della crescita, sostenuta soprattutto dal turismo che nel 2016 ha portato nel paese 16 milioni di visitatori (rappresentando quasi un quinto del Pil, vedi pag. 28) e l’elezione di un governo più moderato (ma già in crisi a metà 2017) sembrano rappresentare le giuste condizioni per voltare pagina in Croazia. Ma gli sforzi di una parte della società croata per lasciarsi alle spalle i fantasmi del nazionalismo dovranno fare i conti con il contesto regionale, caratterizzato da una crescente instabilità nei Balcani. In bilico tra passato e futuro, Zagabria ha oggi l’urgenza di completare il processo di riconciliazione con la propria storia recente e con i suoi vicini. Solo su delle basi prive di retorica, il paese potrà finalmente abbracciare tutte le sue identità.

Giovanni Vale*

* Giornalista professionista, Giovanni Vale è collaboratore di diverse testate italiane e francesi. Laureato in Scienze internazionali e diplomatiche all’università di Trieste, scrive perlopiù di Balcani per Il Piccolo, Osservatorio Balcani e Caucaso-Transeuropa e per Pagina99.

 


Migranti e «rotta balcanica»

Più Budapest che Bruxelles

La crisi dei migranti non ha risparmiato Zagabria. Che ha fatto le sue scelte.

La «rotta balcanica». Con quest’espressione, la stampa internazionale ha battezzato, nell’estate del 2015, il flusso di rifugiati che ha attraversato per mesi la Turchia, la Grecia e alcuni paesi dell’ex Jugoslavia, portando decine di migliaia di persone all’interno dello spazio comunitario. Siriani, iracheni o, ancora, afghani in fuga dai conflitti in Medio Oriente, hanno raggiunto in questo modo il territorio dell’Unione europea (e più precisamente lo spazio Schengen) nella speranza di ottenere una protezione umanitaria. Per la Croazia, questo flusso migratorio ha rappresentato una sfida logistica, prima ancora che politica. Il paese è stato coinvolto nella cosiddetta «rotta» a partire dal 15 settembre 2015, ovvero da quando il governo di Budapest ha ultimato il suo «muro», una barriera provvista di filo spinato e lunga più di 170 km con cui ha sigillato il confine serbo-ungherese. Da allora, la colonna di rifugiati che quotidianamente attraversava il Nord della Serbia in direzione settentrionale ha deviato verso ovest, entrando sul territorio croato.

Il governo di Zagabria, allora guidato dal premier socialdemocratico Zoran Milanovi?, ha dapprima deciso di far proseguire il flusso verso l’Ungheria, poi – dinanzi alla costruzione di una seconda barriera da parte di Budapest (questa volta al confine croato) – ha ripiegato sulla Slovenia. Data la geografia della Croazia, che pone la capitale lontana dalle pianure della Slavonia, interessate da questi eventi, si può dire che pochi cittadini croati abbiano realmente percepito la crisi migratoria del 2015, come è invece avvenuto nella vicina Serbia o ancor più in Grecia. Inoltre, similmente agli altri paesi della regione, soltanto un numero insignificante di rifugiati ha fatto domanda di asilo alle autorità croate, preferendo piuttosto proseguire verso la Germania e l’Europa settentrionale. Ciononostante, la questione migratoria ha avuto delle conseguenze politiche, prima nei rapporti con i vicini (tensioni con l’Ungheria, la Serbia e la Slovenia), poi, dal punto di vista interno.

Le elezioni di fine 2015 hanno infatti portato ad un cambio di governo a Zagabria ed il nuovo esecutivo si è schierato su posizioni più filo ungheresi sul tema delle migrazioni. Come la presidente Grabar-Kitarovi? aveva manifestato il suo appoggio ai paesi del gruppo di Višegrad (Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia), così il premier Oreškovi? ha assicurato fin da subito di capire il bisogno di sicurezza di Budapest e Vienna. Nella primavera del 2016, gli stati della «rotta balcanica» (Austria compresa) hanno dunque deciso di contraddire apertamente la posizione di Bruxelles, decidendo autonomamente di sbarrare il passaggio ai profughi, prima permettendo l’accesso a soltanto tre nazionalità (siriani, afghani e iracheni), considerati a priori come legittimi beneficiari della protezione umanitaria, poi chiudendo definitivamente l’ingresso in Macedonia ed isolando così la Grecia. L’accordo turco-europeo ha poi permesso di includere anche Atene in una soluzione comune.

Gio.Va.


La Chiesa cattolica croata

Diffusa, forte e schierata

In Croazia nove cittadini su dieci si dichiarano di religione cattolica. Limitata e ostacolata all’epoca della Jugoslavia socialista, oggi la Chiesa croata è su posizioni conservatrici e nazionaliste.

A lungo controllata all’epoca della Jugoslavia socialista, la Chiesa cattolica croata si è schierata fin dall’indipendenza nel 1991 su posizioni molto conservatrici. Vicina all’«Unione democratica croata» (Hdz) – il principale partito di destra – la Chiesa svolge tuttora un ruolo di primo piano nel dibattito politico nazionale. Ferocemente anti-comunista e spesso apertamente nazionalista, la gerarchia ecclesiastica croata si esprime sia tramite il suo quotidiano, il «Glas Koncila», sia per mezzo dei suoi alti prelati, periodicamente autori di dichiarazioni forti e schierate.

Alla vigilia delle ultime elezioni parlamentari, ad esempio, il vescovo di Sisak Vlado Koši? ha invitato espressamente i suoi concittadini a votare per l’Hdz e non permettere un ritorno dei socialdemocratici al potere. L’anno prima, nel maggio del 2015, l’arcivescovo di Zagabria Josip Bozani? aveva invece celebrato una messa a Bleiburg in Austria, in occasione del 70° anniversario del massacro di migliaia di cittadini croati compiuto nel 1945 dai partigiani jugoslavi. Ogni anno, la commemorazione di questa vendetta degli uomini di Tito contro gli esponenti dello sconfitto «Stato indipendente di Croazia» (Ndh) raduna nella piccola cittadina dell’Austria meridionale migliaia di militanti croati di estrema destra ed alcuni dei suoi rappresentanti politici. La presenza di alti esponenti ecclesiastici è perciò vista come controversa, così come lo è la figura di Alojzije Stepinac (1898-1960), arcivescovo di Zagabria che la Chiesa croata vorrebbe santo ma che la Serbia considera un criminale di guerra (vedi pezzo principale).

Dalle questioni legate al matrimonio e all’aborto fino alla battaglia contro le unioni omosessuali (contro cui la gerarchia cattolica croata si è battuta con successo nel 2013), gli interventi della Chiesa nel dibattito politico della Croazia sono dunque numerosi e costanti. Nel paese, nove cittadini su dieci si dichiarano di religione cattolica.

Giovanni Vale


Ex Jugoslavia

Ci eravamo tanto amati

Dopo la dissoluzione della Jugoslavia, i rapporti con gli ex «fratelli» sono all’insegna del sospetto reciproco.

Il golfo di Pirano, la frontiera sul Danubio o ancora il ponte di Sabbioncello. Ecco tre dossier bilaterali che la Croazia discute oggi con i suoi vicini. Si tratta di questioni nate con la dissoluzione della Jugoslavia e con la necessità di dividere un patrimonio che prima era comune e che non sono ancora state risolte.

Il primo caso è quello che coinvolge Croazia e Slovenia, tuttora impegnate a tracciare una frontiera marittima nelle acque del golfo di Pirano, poco lontano da Trieste. È una controversia vecchia di 25 anni e che ha visto diverse evoluzioni, ma nessuna soluzione condivisa. Lubiana chiede un accesso indipendente alle acque internazionali e rivendica una sovranità più ampia sulla baia, incontrando però l’opposizione di Zagabria. Negli anni, i negoziati si sono susseguiti così come le proposte di nuove carte nautiche. Dopo l’ingresso della Croazia nell’Ue, il diverbio è finito davanti ad una corte internazionale di arbitrato, ma nell’estate del 2015, quando il tribunale stava per esprimersi, una fuga di notizie tra i giudici e i rappresentanti sloveni ha convinto le autorità croate ad abbandonare il processo. Così, ad oltre un quarto di secolo dalla fine della Jugoslavia, i pescatori di entrambi i paesi non sanno ancora dove finiscono formalmente le acque del proprio stato ed iniziano quelle dei vicini.

Anche con la Serbia, una frontiera precisa rimane da tracciare. I paesi sono separati dal corso del Danubio, ma la Croazia fa appello a dei documenti catastali di epoca austroungarica e reclama alcuni ettari di terra che si trovano oggi oltre il fiume. Belgrado, inutile dirlo, si oppone ed ecco che la disputa – anche qui, vecchia di oltre 25 anni – ha permesso la “nascita” del Liberland, uno “stato” autoproclamatosi indipendente su un isolotto che nessuno dei due stati rivendica come proprio. E se la vicenda del confine tuttora da definire fa capolino solo raramente sulla stampa locale, è soltanto perché i motivi di tensione tra i due paesi non mancano: dalla tutela della rispettive minoranze al trattamento dei crimini di guerra, passando per la più recente (e spesso esplicita) corsa agli armamenti, le relazioni bilaterali serbo-croate sono già ben fornite.

Infine, con la Bosnia-Erzegovina, Zagabria discute due temi principali: le sorti dei croati residenti in Bosnia, che premono per la creazione di una «terza entità» federata nel paese, ed il modo in cui bypassare il corridoio di Neum, unico acceso al mare bosniaco ma causa dell’isolamento della contea di Dubrovnik dal resto della Croazia. Il primo argomento è decisamente molto spinoso, perché prevede una riforma dei trattati di Dayton del 1995 che equivarrebbe ad aprire il vaso di Pandora del delicato sistema istituzionale bosniaco. Più abbordabile, invece, il dossier di Neum. A questo proposito, due paesi hanno trovato un accordo per la costruzione di un ponte che collegherà la penisola di Sabbioncello alla terraferma dalmata e i lavori dovrebbero iniziare entro la fine del 2017.

Gio.Va.


Turismo e ambiente

Turisti: tanti, forse troppi

Fonte primaria dell’economia della Croazia, il turismo incontrollato comincia a produrre danni collaterali.

Sedici milioni di visitatori l’anno, con un contributo pari a quasi il 20% del Prodotto interno lordo (Pil). Il turismo rappresenta per la Croazia una priorità economica ed è un settore a dir poco strategico. Ogni anno, l’inizio dell’estate in Dalmazia, in Istria e sulle isole marca una delle ricorrenze annuali più importanti per il paese, che dipende in larga misura (forse eccessivamente) dai risultati della stagione turistica. E se nei fatti, la Croazia registra ogni anno dei nuovi record nel numero di arrivi o di pernottamenti, questo continuo boom comincia già a provocare i primi danni collaterali.

A Dubrovnik o al parco nazionale dei laghi di Plitvice, il numero dei turisti supera ormai la quota massima indicata dall’Unesco come parametro per la protezione del patrimonio culturale e naturale. Si parla di 10mila persone al giorno in fila sui bastioni della vecchia Ragusa e di oltre 15mila all’interno del celebre parco croato: un flusso eccessivo per l’Unesco che ha già intimato alle autorità di Zagabria di rimediare alla situazione. Inoltre, altre conseguenze negative, anche se più difficilmente quantificabili, colpiscono le città della costa e le comunità che le abitano. Accade così che nel centro di Spalato ci sono sempre meno residenti locali, seguendo l’esempio di quanto già successo per le vie della vicina Traù (Trogir). Il successo della spiaggia di Zr?e sull’isola di Pago rappresenta anch’esso un’opportunità e una sfida per le autorità locali, impegnate ora a trovare un equilibrio tra il turismo di massa legato alle discoteca e la voglia di promuovere i propri siti storici e culturali.

Proprio per rimediare a questa strategia mono-settoriale che colpisce le coste croate, un movimento si è sviluppato negli ultimi anni in Dalmazia. Si tratta del «movimento delle isole» (Pokret Otoka), un’iniziativa lanciata da un gruppo di giovani abitanti (perlopiù donne) con l’obiettivo di immaginare e pianificare un futuro sostenibile per le mille isole croate. Nato a fine 2015, Pokret Otoka ha creato una rete per lo scambio di idee e buone pratiche e ha recentemente portato alla firma di una «Dichiarazione dell’isola intelligente» (Smart Island Declaration), presentata a fine marzo 2017 a Bruxelles.

Gio.Va.

 




Zimbabwe: Mugabe, 93 anni, pronto a ricandidarsi nel 2018


Il più longevo dei governanti africani ha portato il suo paese sull’orlo del baratro. Un tempo granaio d’Africa, lo Zimbabwe soffre oggi continue crisi alimentari. Ma Mugabe, come sostiene sua moglie, «sarebbe rieletto anche da morto». Intanto si prepara, con difficoltà, la sua successione.

Robert Mugabe ha compiuto 93 anni. È il più anziano leader africano ed è in carica dal 1980. Ma, nonostante l’età, non ha alcuna intenzione di cedere il potere. Si ricandiderà alla presidenza nel 2018. E certamente sarà rieletto. Perché, come dice sua moglie Grace: «Robert verrebbe rieletto anche se fosse morto».

In 37 anni di potere pressoché assoluto, Mugabe ha creato un apparato di consenso fortissimo che, come diceva Benito Mussolini, sa usare «il bastone e la carota».

Le mani sulle istituzioni

«È molto abile nel giocare al “divide et impera” – spiega un missionario che da anni opera in Zimbabwe e che, per motivi di sicurezza, vuole rimanere anonimo -. Nella mia ingenuità, nel 1980, quando finì il governo razzista di Ian Smith, pensavo che fosse positivo che Mugabe non avesse una propria corrente nel suo partito, lo Zanu Pf (Zimbabwe african national union). La sorpresa è stata grande quando ci siamo resi conto che lui amava governare mettendo uno contro l’altro sia all’interno del suo partito sia a livello di paese».

Ma il suo non è solo un gioco politico. È qualcosa di più. È in grado di mantenersi al potere attraverso la forza del ricatto. Promuove alle cariche più importanti le persone che sa di poter tenere in pugno. Si racconta che un politico sia stato nominato ministro dopo aver ucciso l’amante di sua moglie. Si narra anche che abbia nominato governatore di una provincia un membro del suo partito che era stato fermato con feticci che utilizzava nelle messe nere. Mugabe conosceva i loro reati e sapeva anche che avrebbe potuto tranquillamente ricattare i due politici se non avessero eseguito pedissequamente i suoi ordini.

D’altra parte, il presidente zimbabweano ha una forte presa su tutto l’apparato statale: polizia, forze armate, servizi segreti, magistrati. La maggior parte dei giudici proviene dalle file del partito di governo. Non tutti, ma se un caso approda di fronte al giudice «sbagliato», il regime è in grado di allungare i tempi delle indagini e dei processi in modo tale che non si giunga mai a un verdetto. È il caso delle cause intentate dall’opposizione per 26 seggi vinti dallo Zanu Pf nelle elezioni del 2002. I giudici avrebbero dovuto esprimersi sulle violenze e sulle intimidazioni delle milizie del partito di governo, ma 15 anni dopo non è stata emessa alcuna sentenza.

Il presidente Robert Mugabe e la sua moglie e first lady Grace Mugabe. / AFP PHOTO / Jekesai NJIKIZANA

La moglie Grace

Da tempo, ormai, a fianco del presidente è comparsa sua moglie Grace. Mugabe l’ha sposata in seconde nozze dopo la morte della prima moglie (Sally Hayfron). Il matrimonio è stato celebrato in pompa magna, ma senza aspettare che Grace avesse divorziato dal primo marito Stanley Goreraza, un pilota militare zimbabweano. Fin da subito, Grace si è rivelata una donna ambiziosa. Come segretaria personale del presidente, lo ha spinto a prendere decisioni al limite del ridicolo. Come quando alla signoraè stato riconosciuto il dottorato in Sociologia due mesi dopo l’iscrizione all’università. L’influenza del marito ha certamente contato più delle ore passate sui libri. Ma, ciò che è più grave, ne ha influenzato e ne influenza le decisioni politiche. Dando al regime quell’impronta radicale che ha assunto a partire dagli anni Novanta. Non è un caso che gli Stati Uniti e l’Unione europea abbiano inserito la signora Mugabe nella lista delle personalità zimbabweane soggette a sanzioni per il loro ruolo assunto nel regime.

Grace Mugabe, che ha 52 anni, però non si ferma. Il suo obiettivo è prendere il posto del marito alla presidenza. Fino ad alcuni anni fa, la candidatura sembrava non avere rivali. Poi, lentamente, i gerarchi dello Zanu-Pf hanno iniziato a mettersi di traverso ostacolando con tutti i mezzi possibili la sua ascesa. Lo stesso Mugabe ha ammesso che all’interno dello Zanu-Pf c’è chi la detesta e fa di tutto per sbarrarle la strada. Tutto ciò fa presagire le tensioni che potranno esserci in Zimbabwe dopo la morte del presidente.

Secondo la studiosa di questioni africane, Teresa Nogueira Pinto, intepellata dal quotidiano francese «Le Monde», si prospettano tre scenari possibili per la successione: l’ascesa del vicepresidente Emmerson Mnangagwa, il quale potrebbe aprire a riforme e, quindi, a una transizione morbida; la vittoria di Grace, che porterebbe a gravi tensioni all’interno del partito e quindi un’instabilità continua; l’implosione dello Zanu-Pf che significherebbe guerra civile, caos e violenze.

Protesta ad Harare. / Tafadzwa Ufumeli / Anadolu Agency

Opposizione in catene

L’opposizione non ha vita facile in Zimbabwe. La principale formazione che lotta contro lo strapotere di Mugabe è il Movement for Democratic Change (Mdc) guidato da Morgan Tsvangirai, ex leader sindacale, per anni Segretario generale dello Zimbabwe Congress of Trades Unions. È un partito di matrice socialdemocratica nato non nelle aree rurali, ma nelle principali città e, in particolare, nella capitale Harare. L’Mdc si è candidato nelle elezioni del 2000, ma solo nel 2008 è riuscito a portare una consistente pattuglia di deputati in parlamento. Lo stesso Mugabe, in una dichiarazione che gli è sfuggita, ha ammesso che Tsvangirai avrebbe il 73% dei consensi in un’elezione presidenziale trasparente e che si svolgesse secondo le regole democratiche.

Ma Tsvangirai non è l’unico oppositore a dar fastidio a Mugabe. Negli ultimi mesi è emersa la figura del pastore battista Evan Mawarire. Il 19 aprile 2016 il religioso ha pubblicato su Facebook un video nel quale, in prima persona e con una bandiera zimbabweana al collo, chiede che il Governo avvii una serie di riforme politiche ed economiche. Quel video è diventato virale e il movimento #ThisFlag, cresciuto a livello nazionale, ha iniziato a promuovere scioperi tra i più partecipati negli ultimi anni in Zimbabwe. Ovviamente, il regime gli si è rivoltato contro. Mawarire, dopo essere stato criticato apertamente dallo stesso Mugabe, è stato arrestato in luglio per incitamento alla violenza pubblica, ma poi è stato rilasciato. Ha deciso così di rifugiarsi negli Stati Uniti, anche per fuggire alle minacce di morte alla moglie e ai figli. Quando il primo febbraio ha deciso di rientrare in patria, ha trovato alla frontiera la polizia che lo ha arrestato di nuovo con l’accusa di voler rovesciare il governo, reato per il quale è prevista una pena di vent’anni di carcere.

La protesta ha fatto altre vittime oltre a Mawarire. La polizia ha incarcerato gli attivisti Linda Masarira, Acie Lumumba, Denford Ngadziore, il giornalista Whatomore Makokoba, l’ex leader studentesco Promise Mkwananzi, il sindacalista Stan Zvorwadza e il pastore Philip Mugadza.

Il pastore Evan Mawarire, leader di un movimento di protesta / AFP PHOTO / Jekesai NJIKIZANA

Cristiani divisi

Le Chiese cristiane non hanno posizioni comuni e sono spaccate al loro interno. Alcune parti della Chiesa cattolica hanno provato a opporsi a Mugabe. Monsignor Pius Aleck Mvundla Ncube, arcivescovo di Bulawayo (la seconda città del paese), per anni è stato uno dei principali oppositori di Mugabe. Le sue invettive colpivano duro il regime. Ha organizzato diverse manifestazioni di protesta e in lui molti vedevano un possibile leader dell’opposizione politica. Uno scandalo sessuale però l’ha travolto e indotto a uscire di scena. Un giornale controllato dal governo ha pubblicato nel 2007 alcune foto che ritraevano un uomo nudo insieme a tre donne. Le immagini erano sfocate, ma il quotidiano affermava che quell’uomo fosse proprio mons. Ncube. Papa Benedetto XVI gli ha così chiesto di rassegnare le dimissioni. Cosa che lui ha fatto l’11 settembre 2007 per poi sparire dalla ribalta mediatica e dalla scena politica zimbabweana.

«Alcune frange della Chiesa cattolica – spiega un altro missionario, anche lui sotto richiesta di anonimato – continuano però a denunciare le ingiustizie del regime. E lo fanno con molta più forza di quanto facessero sotto il regime bianco di Ian Smith. Questo è un segnale positivo. Sarebbe però utile che tutti i cristiani fossero uniti, mentre così non è».

La Chiesa anglicana, molto forte nel paese, ha resistito a un tentativo del presidente Mugabe di prenderne il controllo. Alcuni anni fa, Norbert Kunonga, un religioso fedelissimo di Mugabe, ha provato, istigato dal regime, a creare una Provincia anglicana indipendente in Zimbabwe. Ma è stato sconfessato dalla Comunione anglicana e la maggior parte dei fedeli si sono rifiutati di seguirlo.

«Le Chiese cristiane indipendenti – continua il missionario -, supportano apertamente Mugabe soprattutto quando il presidente si scaglia contro gli omosessuali e invita le donne a “rimanere al proprio posto”, cioè a casa. Queste uscite di Mugabe gli garantiscono un forte supporto. Le Chiese pentecostali invece si proclamano apolitiche e non si interessano in alcun modo della lotta per il potere, promuovendo il successo in campo economico».

Tafadzwa Ufumeli / Anadolu Agency

Quel che resta dell’economia

L’economia è al collasso. Il regime segregazionista di Ian Smith, deprecabile e condannabile sotto il profilo politico e sociale, aveva però lasciato in eredità al paese un’economia funzionante. L’agricoltura era organizzata in modo industriale e riusciva a produrre un surplus che veniva esportato garantendo un’ottima fonte di valuta pregiata. Lo Zimbabwe poi aveva un buon tessuto industriale che creava profitti e occupazione. Le risorse non erano ben distribuite, ma una buona politica economica avrebbe potuto portare una equa redistribuzione dei redditi a vantaggio di tutta la società.

Il primo colpo a questo sistema è stato dato dall’accettazione da parte di Mugabe delle politiche di aggiustamento strutturale del Fondo monetario internazionale. Queste, negli anni, hanno portato a un progressivo impoverimento industriale. «Oggi le statistiche ufficiali – continua il missionario – parlano di un’industria che funziona al 30% delle sue reali potenzialità. In realtà, non esiste più un’industria zimbabweana. Per comprenderlo è sufficiente fare un giro nelle periferie di Harare e di Bulawayo».

Un secondo e mortale colpo all’economia è stato dato dalla riforma agraria del 2000. Fin dai primi giorni dell’indipendenza, Mugabe aveva parlato della necessità di una redistribuzione ai coltivatori neri delle terre in mano ai latifondisti bianchi. Una politica che non era avversata di principio dai grandi farmer, ma che stentava a decollare. La maggior parte delle terre migliori, alla fine degli anni Novanta, era ancora in mano ai bianchi che, però, solo in parte erano gli eredi dei coloni britannici. Mugabe, cogliendo l’occasione del mancato supporto dei bianchi a un suo progetto di riforma costituzionale (che prevedeva la nomina a presidente a vita dello stesso Mugabe), nel 2000 ha varato una riforma agraria che ha espropriato le terre dei bianchi assegnandole però non ai contadini neri, ma ai fedelissimi del regime (in maggioranza incapaci di gestire una grande tenuta). L’economia è così crollata.

Oggi lo Zimbabwe è un paese che deve importare derrate agricole. Per placare l’inflazione, la valuta locale è stata ritirata e sostituita dal dollaro statunitense. Il 70% della forza lavoro è disoccupata. Ma forse Mugabe si occuperà di questa crisi nel prossimo mandato.

Enrico Casale




Montagne e valli alpine: Il futuro delle «Terre alte»


C’è un mondo vicino a noi che spesso non conosciamo. Sono le montagne e le valli alpine. Qui stanno accadendo cambiamenti interessanti. Vecchi e nuovi abitanti sperimentano innovativi modelli di vita. Cittadini venuti da molto lontano portano le loro idee e speranze. Questi luoghi sono patrimonio di tutti, ma occorre viverli e prendersene cura. Altrimenti, un giorno, tutti pagheranno il conto.

«Dislivelli è un’associazione culturale nata a Torino nel 2009. È composta da due anime: ricercatori universitari e comunicatori specializzati nel campo delle Alpi e della montagna». Chi parla è Maurizio Dematteis, giornalista, che ha lavorato per diverse testate dedicate alla montagna e si è occupato anche di migrazioni e cooperazione internazionale. È tra i fondatori di Dislivelli e l’attuale direttore responsabile della testata dislivelli.eu. «Il tentativo che facciamo noi che ci occupiamo di montagna è di studiarla e comunicarla. Perché vediamo che nell’opinione pubblica c’è ancora una visione della montagna stereotipata, e i messaggi che passano sui media mainstream sono legati allo sci, al pesce fresco in alta quota, dando un’immagine sbagliata, che serve solo a chi vuole fare cassa con la montagna».

La montagna è altro. Ha una propria economia, servizi, e soprattutto, diventa appetibile al turismo quando è vissuta. Se è abbandonata è meno interessante. «Dislivelli vuole dare il giusto posto ai territori montani e aiutare uno sviluppo sostenibile di queste terre», continua Dematteis.

L’associazione pubblica articoli e ricerche sul suo sito e una rivista mensile scaricabile gratuitamente in pdf. Due o tre numeri l’anno sono stampati, quando si trova un finanziamento ad hoc. «La distribuzione la facciamo noi, attraverso una nostra rete e i punti legati a Sweet mountains (vedi oltre, ndr). La si trova nei rifugi e nella nostra sede al castello del Valentino, dove nacque il Club Alpino Italiano».

Dislivelli realizza anche ricerche di taglio sociologico. «Sono realizzate da ricercatori del Politecnico di Torino e dell’Università. Adesso stiamo portando avanti la ricerca sui “turismi” in montagna, che nel prossimo autunno vogliamo presentare alla Regione Piemonte. Vogliamo far capire alle istituzioni che il turismo responsabile in montagna inizia ad avere numeri interessanti.

Flussi tra montagna e città

Nella vostra ultima ricerca, Intermont, esaminate i rapporti tra la montagna e la città. «Sì, è una ricerca durata due anni durante i quali abbiamo tentato di misurare i flussi, di tutti i tipi, tra la montagna e la città: rimesse, lavoro, materie prime. Abbiamo cercato di capire se lo scambio è bilanciato o no, e abbiamo fatto delle proposte di miglioramento dove non lo è. Il terreno di ricerca è stata la Città metropolitana di Torino (ex Provincia di Torino). Abbiamo visto un flusso di materie prime verso la città: acqua, legname, prodotti agricoli e caseari. Ma anche di pendolari. Questi ultimi sia per lavoro, sia per usufruire di servizi che in montagna non ci sono più. Abbiamo trovato un grande sbilanciamento dei flussi. Si pensa che i turisti portino rimesse in montagna, in realtà sono molto maggiori quelle dei montanari che lavorano in città e fanno i pendolari. Questa è la prima voce economica del territorio».

I territori alpini affrontano anche delle spese. «Le maggiori sono quelle per usufruire di servizi. Ci sono molti viaggi di persone che vanno in città per questioni sanitarie, studio, o anche solo per acquisti. Sono soldi che dalla montagna si riversano in città. Se i servizi fossero organizzati un po’ meglio sarebbe meno oneroso rimanere a vivere nelle valli alpine».

«Poi c’è la questione dell’acqua, che viene quasi tutta dalla montagna. Su questo ci sono dei riconoscimenti, ovvero le risorse delle Aato (Autorità dell’ambito territoriale ottimale). Quello che invece non è contabilizzato è l’ecosistema ambientale, cioè l’assorbimento di CO2, i benefici ambientali che la montagna dà a chi vive in città. Se poi si parla di dissesto idrogeologico, e si riconosce che il paesaggio montano è un bene comune, allora in qualche modo si deve tutelare. La montagna, se non è vissuta e protetta dai residenti crolla. Occorre dunque fare una riflessione generale per capire dove si trovano le risorse per il mantenimento di questo paesaggio di cui usufruiscono tutti. Se no, si verificano fatti molto gravi, costosi a livello economico e talvolta di vite umane».

Servizi addio

Dalla ricerca Intermont si comprende che la riduzione dei servizi nei territori montani comporta delle conseguenze negative per l’economia generale del paese. Perché gli abitanti delle montagne, dovendo spendere una quota di reddito maggiore rispetto ai cittadini per usufruire degli stessi servizi, hanno meno risorse economiche da impiegare nella crescita del territorio. Se non si può tenere un presidio ospedaliero in tutti i paesi, si deve organizzare la rete dei trasporti in modo che le persone possano raggiungerli rapidamente.

Anche per l’educazione vale lo stesso discorso. Dice Dematteis: «Occorre organizzare dei servizi che rendano appetibili questi territori, altrimenti tutti i discorsi cadono e la gente li abbandona. Scuola, sanità e lavoro sono i primi punti».

Ma la Città metropolitana cosa fa? «Sulla questione trasporti stanno cercando di aprire a formule innovative, far entrare il privato, ma c’è una legislazione che non aiuta, un piano regionale dei trasporti che ha grossi vincoli.

Esiste tuttavia un progetto pilota nelle Valli di Lanzo, al quale partecipa anche Dislivelli. Ci sono due ingegneri dei trasporti che stanno pensando come organizzare meglio questo servizio nelle tre valli. Si sono detti: facciamo un budget considerando un discorso globale sulla valle, tenendo in conto chi ci vive e si sposta, studenti, lavoratori, ma anche coloro che sono accolti temporaneamente, come i numerosi richiedenti asilo».

Migranti in quota

A proposito di questo tema, da mesi sono comparsi in paesi e paesini di montagna gruppi di africani, a piedi o in bici. Oppure li incontriamo sui mezzi pubblici che giungono nei più remoti comuni. Altri chiedono autostop lungo la strada. Sono i «nuovi» abitati della montagna, richiedenti asilo ospiti di strutture nelle valli alpine. Ma ci chiediamo se c’è un reale interesse per un giovane migrante africano, o siriano, di farsi una nuova vita in montagna.

«Abbiamo fatto una ricerca su questo tema dal titolo Montanari per forza, che si contrappone all’altro lavoro che avevamo fatto, Montanari per scelta, sul ritorno di vita in montagna.

In realtà non ci sono ragazzi stranieri che vogliono andare in montagna, vengono assegnati lì con progetti di emergenza, perché il prefetto ha un elenco di realtà che possono accogliere. Queste creature arrivano in posti che mai si sarebbero immaginati. Con la nostra ricerca volevamo capire se può esistere un incontro tra l’esigenza di un territorio e nuovi potenziali abitanti. Un territorio che in alcune zone si spopola, è soggetto ad abbandono, avanzamento del bosco nei vecchi coltivi, dissesto idrogeologico. Un territorio che ha bisogno di persone, di braccia. Dall’altra parte c’è un movimento migratorio globale, con giovani che arrivano nel nostro paese, magari perseguitati, cacciati dalla loro terra, che cercano un progetto di vita nuovo».

«La risposta è sì. Esistono progetti davvero interessanti: a volte arrivano in 20, poi magari in 2 o 3 rimangono stabilmente. E questo fa la differenza per diversi comuni».

Ma i residenti non sempre vedono in tutto questo un vantaggio. Anzi. «Proprio nelle Valli di Lanzo la gente era arrabbiata con le cooperative che hanno portato i migranti. I comuni non erano stati avvertiti, e non hanno potuto preparare il territorio. Allora la gente si chiude, come direbbe il sociologo Aldo Bonomi, nella “comunità del rancore”, effetto comprensibile quando si ignora un fenomeno».

Rancore o accoglienza?

Ma, sempre in Valle di Lanzo, ci racconta Dematteis, si è generato un movimento volontario di società civile, che ha dato origine all’associazione Morus onlus, con una trentina di volontari attivi e il presidente Marino Poma. L’associazione ha creato il Coro Moro (vedi MC luglio 2016) e il Morus team, una squadra di calcio che ha vinto nella sua categoria. Di recente hanno ideato il Morus Style, ovvero realizzano vestiti e li commercializzano in un negozio a Torino.

«Tutto questo è nato grazie a un movimento volontario, che ha creato una “comunità dell’accoglienza” che si contrappone a quella del rancore. Oggi molti di loro si trovano una sera alla settimana e discutono. Questo fa bene a tutta la valle, mi diceva Poma. Ha rivitalizzato un tessuto sociale che era venuto un po’ meno. Inoltre alcuni ragazzi stranieri si sono fermati a vivere sul posto».

Sono casi d’integrazione, che però devono essere accompagnati, altrimenti possono nascere problemi in seguito.

«Ad esempio a Entracque, in valle Gesso, un imprenditore senza scrupoli ha comprato due vecchie strutture, che erano colonie estive, e vi ha messo 60 migranti. Il sindaco lo ha saputo il giorno stesso, e questo ha creato grossi problemi in un paese di 140 anime. E poi li lascia lì senza dare loro servizi necessari e dovuti, incassando 35 euro al giorno per ogni ospite».

Un caso positivo è quello del parco delle Alpi liguri dove si sta realizzando un progetto «Parco solidale». Il presidente del parco, Paolo Sasotto, ha fatto un accordo con la questura, fer fare lavoro volontario ai ragazzi: pulizia dei sentieri e recupero di terreni del parco abbandonati, dove il bosco sta avanzando.

«Molti ragazzi che migrano sognano la città. Ma quando arrivano si rendono conto che l’Europa non è come pensavano. In qualche caso si inseriscono sui territori dove sono arrivati. Sono numeri piccoli ma il territorio ha bisogno di queste persone».

Turismo «dolce»

Come accennato, una importante risorsa per la montagna è il turismo, ma stiamo assistendo a un grande cambiamento di questo settore. «Oggi il turismo in montagna è diviso in due modelli ben precisi. Uno che ha logiche d’investimento industriale: strutture grosse, necessità di molta promozione, di grandi investimenti anche pubblici e capitali non territoriali e l’altro è il turismo artigianale. Rispetto anni ‘80 e ‘90 c’è un grosso cambiamento.

Mentre quello industriale si sviluppa in pochi comuni sull’acro alpino italiano, quello artigianale è molto più capillare.

Quello industriale, basato soprattutto sullo sci, ha tre mesi di lavoro all’anno e in quel periodo deve pompare tantissimo. La stagione inoltre si è accorciata, si gioca in un periodo molto limitato, per questo è molto aggressivo.

Quello artigianale si sviluppa su 10-11 mesi. Si tratta di strutture che stanno aperte tutto l’anno. Da dieci anni a questa parte il turismo industriale è in calo, perché i costi sono aumentati, e se non hai innevamento artificiale sei tagliato fuori. Ad esempio in Trentino sono molto avanti sull’innevamento artificiale, così sono riusciti a far andare bene la stagione passata. In Piemonte invece l’Associazione impianti a fune chiede alla Regione di investire su questo, ma occorrono grossi capitali».

Il turismo artigianale è, sembra, la nuova frontiera. «Anche chiamato esperienziale è un turismo responsabile, sostenibile e rispettoso dell’ambiente, che si prefigge di legare il paesaggio con la fruizione dei prodotti, vini, formaggi, cultura, architettura e valorizzare le differenze e peculiarità di ogni luogo. Ha un investimento limitato perché non ci sono infrastrutture, si collega piuttosto alla sentieristica e cartellonistica.

Dislivelli ha creato Sweet Mountains, una rete che conta 300 realtà che fanno accoglienza, sulle Alpi in Piemonte. Il luogo dove vai a dormire, un rifugio, un bed&brekfast, un piccolo albergo, ti racconta un territorio. Sono collegati ad una serie di attività loclai “satelliti”, come il formaggiaio, l’ecomuseo, la guida naturalistica, i corsi di canoa. Con Sweet Mountains abbiamo creato tante micro reti che fanno lavorare tutti.

È un turismo in crescita in Italia. È già molto diffuso in Germania, Austria, Svizzera e in Francia.

I cittadini vogliono conoscere le terre alte, in modo diverso. È cambiata la fruizione di questi posti ed è un fenomeno che può portare grandi novità positive ai territori montani.

Ci siamo accorti che in Piemonte questo turismo non era rappresentato tra le altre istanze di settore. Per questo all’inizio di quest’anno abbiamo creato T.r.i.P. Montagna, dove la sigla sta per: Turismo responsabile in Piemonte. È un coordinamento che tiene insieme 700 professionisti della montagna: il Collegio regionale guide alpine del Piemonte, l’Associazione italiana guide ambientali naturalistiche, l’Associazione gestione rifugi alpini e posti tappa, la rete Sweet mountains, Dislivelli e Cantieri d’alta quota. E io ne sono il presidente».

Vado a vivere in montagna

Maurizio ha appena pubblicato il suo ultimo libro «Via dalla città, la rivincita della montagna» (Derive approdi, 2017), nel quale esamina il fenomeno del ripopolamento delle valli alpine.

«Si può parlare proprio di fenomeno, non si tratta di casi isolati, come negli anni ‘70 erano quelli noti come neo rurali. Quelle erano persone che rompevano nettamente con la città per andare in montagna a isolarsi, e fare una vita senza luce elettrica, ecc. Oggi invece si tratta di persone globalizzate, con formazione medio alta, con idee e un minimo di disponibilità economica. Vedono in questi territori delle opportunità di sviluppare progetti di vita, economici, sociali, famigliari. È un cambiamento epocale, perché si tratta di luoghi definiti svantaggiati, marginali, ma loro li vedono con occhi nuovi e ne intuiscono le potenzialità che fino a pochi anni fa nessuno vedeva, perché il modello imperante era urbano ed era difficile capire che anche in montagna ci sono dei valori. Poi sono cambiate le sensibilità su ambiente, energie rinnovabili, e questo fa sì che certi territori siano di nuovo appetibili. Ma la differenza è che queste persone pretendono servizi, non vogliono isolarsi.

Così la rinascita di alcuni luoghi montani passa attraverso i nuovi montanari che vengono da fuori, perché quelli nativi faticano a vedere le opportunità della loro terra. Questi invece arrivano con occhi diversi». Così le valli alpine diventano laboratorio di innovazione, di sperimentazione di nuovi modelli di vita.

«La montagna, se ha un minimo di servizi, è un posto dove ci sono opportunità inattese.

Il modello tradizionale in montagna è finito, e questo ci dispiace. Ma si sono aperti spazi nei quali inventare un altro modello, c’è una grossa libertà. E ci sono materie prime che puoi utilizzare. Sono due elementi che rendono questi territori ottimi per le innovazioni.

Abbiamo un esempio in Val Varaita, dove sono arrivati giovani e si è arrestato lo spopolamento. Un gruppo di loro si è detto: facciamo un progetto di valle, endogeno, senza chiedere soldi all’Europa o alle banche, che si sostenga sulle risorse che abbiamo qui. Le risorse sono: acqua, legno, animali di allevamento e selvatici e prati. Hanno realizzato un progetto integrato che ha creato reddito, che in parte è stato reinvestito in servizi per la valle. Hanno inventato Gestalp, società con la quale hanno realizzato e gestito due centraline idroelettriche. In seguito hanno realizzato altre centrali innovative, sempre per produrre energia elettrica.

Hanno anche recuperato la canalizzazione dei prati da sfalcio, e l’associazione allevatori ne ha beneficiato. Il tutto è partito otto anni fa e oggi conta 12 posti di lavoro che diventeranno 20 nel 2025. Per una valle come quella diventa la principale attività.

Una cosa così in città non si può fare, perché non ci sono spazi ne risorse, tutto è blindato. Per questo dico che questi neo montanari sono persone avanti, una vera e propria avanguardia».

Marco Bello

 




Ghana: La democrazia prima di tutto


È il 1957 quando il paese di Kwame Nkrumah diventa indipendente. Tra i primi stati africani. Ma la vera indipendenza è difficile, occorre farcela con le proprie risorse. Il popolo del Ghana è rimasto unito, seppur ricco di diversità, e risolve i problemi con il dialogo. L’alternanza politica è la regola. Un esempio importante per il continente.

Democrazia, stabilità, alternanza e libertà di religione. Su questi elementi si gioca l’immagine positiva di un paese orgoglioso di rappresentare un esempio per tutto il continente. Certo, dietro la facciata si nascondono criticità e disagi sociali ed economici rilevanti, ma il Ghana continua a essere la prova che i paesi africani possono crescere, migliorare e affrontare i problemi senza arrivare a crisi estreme o, peggio, all’uso della forza.

È un paese fiero dei suoi sessant’anni di democrazia appena compiuti. Quell’ex Costa d’Oro che il 6 marzo del 1957 proclamò l’indipendenza dall’impero coloniale britannico, diventando da quel momento ispirazione e fiducia per tutti gli altri che a seguire avrebbero conquistato il diritto di essere indipendenti e sovrani. Da allora è come se il Ghana si fosse assunto una sorta di responsabilità morale nei confronti delle nazioni sorelle che stavano formandosi. Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana indipendente, era anche uno dei padri del panafricanismo, cosa che aiutò a guardare la storia anche nella prospettiva del futuro.

Acrobati durante le celebrazioni del 60° di indipendenza il 6/03/2017 a Accra. / AFP PHOTO / CRISTINA ALDEHUELA

Un po’ di storia

Anche il Ghana ha vissuto la sua dose di governi militari – fase conclusasi definitivamente nel ‘93, dopo Rawlings e l’apertura della cosiddetta quarta Repubblica. Né va dimenticato che lo stesso Nkrumah fu vittima di un colpo di stato in cui oltre ai «soliti» poteri occidentali pare fosse implicato il governo canadese di allora. Era un’indipendenza «troppo indipendente» quella vagheggiata dal primo presidente ghanese e il suo sguardo socialista e panafricano non piaceva agli ex colonialisti e alle altre potenze straniere.

La «vera» indipendenza

Il Presidente del Ghana Nana Akufo-Addo. 07/01/2017. Stringer / Anadolu Agency

Nel giorno del sessantesimo anniversario dell’indipendenza (6 marzo 2017), la figlia di Nkrumah, Samia, ha ricordato quello che si sognava fosse la vera indipendenza: emancipazione economica, uso delle proprie risorse e ricchezze, unione panafricana tra tutte le nazioni del continente.

La realtà di questi decenni è stata un po’ diversa: l’opportunismo politico, la voglia di potere, la «svendita» delle terre e delle risorse, il desiderio di arricchirsi alle spalle della popolazione hanno creato i punti deboli della struttura della governance del Ghana. Quello che ancora rimane però – dopo sessant’anni – è appunto la capacità di restare uniti, di risolvere le questioni attraverso il dialogo, di superare ogni tipo di contrasto che possa essere legato alle diverse appartenenze. E il Ghana da questo punto di vista è ricco di diversità.

Oltre venticinque milioni di abitanti appartenenti a nove gruppi etnici principali, tredici lingue e fedi religiose che vanno dal Cristianesimo all’Islam alle diffuse pratiche tradizionali. Con gruppi numerosi anche di buddisti. La differenza vera nel paese non è data da questi aspetti. Quello che conta sono la posizione sociale, l’educazione, il conto in banca. In Ghana, il cui 65% del territorio è agricolo, si sta allargando il gap tra zone rurali e le grandi città e conseguentemente l’accesso ai servizi e così pure al miglioramento delle condizioni economiche. Va detto che dei buoni risultati sono difficili da raggiungere con un gettito fiscale pari solo al 19.9% del Pil. Su questo aspetto manca ancora una soddisfacente politica di gestione e controllo.

L’urbanizzazione è un fenomeno esteso non solo ad Accra, la capitale che arriva a «ospitare» fino a due milioni di pendolari che si vanno ad aggiungere ai circa 4 milioni di abitanti, ma anche a Kumasi, capitale della regione Ashanti, una delle più ricche del paese, e Takoradi, centro in crescita costante dalla fine degli anni 2000 quando furono scoperti i giacimenti di petrolio off shore. A «svuotarsi» sono soprattutto la regione del Volta, che comprende la fascia costiera verso il confine con il Togo e la zona interna salendo lungo il fiume, e il Nord del paese al confine con il Burkina Faso. Zone povere, dall’economia limitata, dove la scarsità di pesce e la siccità costante non offrono alternative. Né grandi opportunità sono state proposte dai governi che si sono finora succeduti. Inoltre, urbanizzazione vuol dire anche sovraffollamento, come dimostrano i numerosi slum che si trovano soprattutto nella capitale Accra.

La grande discarica

La vergogna più grande è Agbogbloshie, meglio nota come Sodoma e Gomorra, la più grande discarica di e-tech (e non solo) di tutta l’Africa Occidentale, probabilmente dell’intero continente. È occupata soprattutto da persone provenienti dal Nord in cerca di fortuna che si sono ritrovate in uno sporco e rischioso «lavoro» di riciclo di materiali elettrici e plastica, computer, frigoriferi, stampanti, etc. I fumi dei roghi che bruciano copertoni, plastica e fili elettrici si alzano ogni giorno dall’area che è un tutt’uno con mercati, strade e abitazioni. Un’emergenza ambientale che si va ad aggiungere a quella sanitaria.

Economia in affanno

Tornando alla situazione economica, che qualcosa sia andato non proprio per il verso giusto in questi anni, lo dimostra il dato dell’inflazione, oggi attestata intorno al 13%, in certi momenti è arrivata anche al 18%. Il Pil pro capite è pari a poco meno di 1.800 dollari annui e una serie di prestiti rinnovati negli anni dal Fondo monetario internazionale ammonta a un totale di 918 milioni di dollari. Eppure gli investitori continuano ad arrivare, la speranza dei cittadini sembra sempre più forte delle critiche mentre le previsioni delle agenzie internazionali sono estremamente ottimiste. Il segreto? Sempre uno: democrazia.

L’alternanza reale

Da decenni vince più che un partito, un concetto, un «patto» non scritto, quello dell’alternanza. Alle ultime elezioni – dicembre 2016 – è stata la volta dell’Npp (New Patriotic Party) con il suo leader Nana Akufo Addo.

Il neo presidente ha centrato la sua campagna elettorale sulle performance negative del governo precedente guidato da John Mahama (Ndc, National Democratic Congress) che pure ha avuto un importante ruolo nel riconoscere la sconfitta e impedire l’accendersi di polemiche o scontri. Ma da subito analisti e cittadini hanno cominciato a essere scettici sulle magnifiche promesse di Akufo Addo per migliorare l’economia del paese, prima fra tutte quella del motto: One discrict, one factory – una industria per ogni distretto. La carenza di industrie, sicuramente al di sotto delle potenzialità del paese, rimane una nota dolente. Solo il 14.4% della popolazione attiva è impegnata in questo settore, mentre il settore dei servizi, spesso informali, occupa il 41%. Come a dire che l’arte di arrangiarsi funziona meglio delle opportunità offerte sia dalle compagnie private sia dallo stato. L’agricoltura occupa invece il 45% della popolazione ed è anche in questo settore che il neo presidente ha promesso di intervenire in modo massiccio, auspicando una produzione che duri tutto il corso dell’anno grazie alla fornitura dell’acqua, soprattutto nelle due regioni del Nord.

Altro elemento problematico riguarda il settore pubblico che, secondo recenti stime, influirebbe addirittura per il 74% sulle spese fisse dello stato. Si tratta di 500.000 persone, solo il 2% della popolazione, a cui però spesso viene attribuita mancanza di esperienza e competenze e assunzioni derivate da legami con l’entourage governativo e giri di mazzette. È quella parte del potere che ai ghanesi non piace e che la stampa libera non manca di denunciare. Una situazione che fa rabbia, soprattutto ai giovani che rientrano in quel 48% di senza lavoro stimati dalla Banca mondiale. Eppure sono proprio i giovani a dimostrare l’energia e la vitalità di questo paese. Giovani che navigano in rete con smartphone di ultima generazione e che hanno capito che il futuro è legato allo studio e alla conoscenza. E non parliamo dei figli dell’establishment che vanno a studiare all’estero, ma di quelli che affollano le Università ghanesi, molte frequentate da studenti che arrivano da altri paesi africani e anche europei, per progetti di scambio. Citiamo ad esempio: la Knust, la Kwame Nkrumah University of Science and Technology, che ogni anno mette sul mercato i migliori talenti nel settore scientifico e della tecnologia, l’Università di Legon e Ashesi University, università privata fondata da un ghanese della diaspora che dopo anni negli Usa al servizio della Microsoft ha deciso di tornare nel suo paese e investire in quella che sarà la futura classe dirigente.

I giovani, motore del Ghana

È proprio parlando con i giovani che si percepisce che il Ghana è in fase di cambiamento, ma nello stesso tempo rischia lo stallo se continua a perpetuare difetti e debolezze che sono diventati intrinseci. «Studio Fashion Design all’Università di Kumasi ma preferisco di gran lunga la vita cittadina di Accra», ci racconta Vera, 22 anni. «La mentalità qui è ancora molto ristretta, avrei voluto fare la modella, ma vuol dire scendere a brutti compromessi ancor prima di cominciare». Vera elenca i pregi e difetti del suo paese: «Amo il fatto che non facciamo guerre, che c’è la pace e sei libero di fare quello che vuoi, però va anche detto che le donne non hanno grande possibilità di esprimersi. Sposarsi e far figli è la loro strada, ma io e molte ragazze della mia età la pensiamo diversamente». «Quello che non sopportiamo più – dice invece Kofi, studente alla Central University – è la corruzione, il sistema delle mazzette. Se cerchi un lavoro, soprattutto nel settore pubblico, devi essere pronto a pagare qualcuno. Questo non è il Ghana che ci hanno promesso». «Il meglio del mio paese è la pace e la stabilità che ci accompagna da circa trent’anni, ma la cosa peggiore è la corruzione, specie nel servizio pubblico», dice Alhassan, trentenne laureato in Business e management, che ha fondato una Charity per sostenere i bambini che vivono nello slum di Agbogbloshie. E la diffidenza nei confronti della politica si manifesta nelle parole di Yaw, ventottenne laureato in cerca di occupazione. «Io sono tra quelli che sono andati a votare e il 6 marzo ho partecipato alle celebrazioni del nostro sessantesimo anniversario dell’indipendenza. Sono orgoglioso di essere ghanese e che siamo stati il primo paese sub sahariano a “liberarci”. Ma i nostri politici non sembrano fare i nostri interessi. Vanno al potere, incolpano il governo precedente di aver fatto male, ma poi loro stessi pensano a come arricchirsi prima di passare l’amministrazione dello stato al prossimo presidente».

Ma allora perché il Ghana continua a rappresentare un esempio? La risposta ce la dà Ama, giovane ragazza di 25 anni che sogna di lavorare nel settore del turismo. «Noi siamo liberi, possiamo dire quello che pensiamo, criticare chi ci governa e votare un nuovo presidente se il precedente non ha fatto quanto ci aspettavamo. Questa è la nostra ricchezza, non ci piace il conflitto. Preferiamo il dialogo. E continuare a sperare nel futuro».

Antonella Sinopoli

AFP PHOTO / CRISTINA ALDEHUELA


Le religioni in Ghana

L’importante è credere

In Ghana il fatto di appartenere a una chiesa è quasi un obbligo. Le cerimonie sono lunghe e il clima mistico. E c’è un grande proliferare di chiese evangeliche. La tolleranza religiosa è più che una tradizione. Anche cristiani e musulmani lavorano insieme e si scambiano visite alle feste comandate.

In Ghana la domenica mattina non è possibile prendere appuntamento con gli amici o programmare nessun genere di incontro. Tutti ti diranno che sono in chiesa. Cerimonie lunghissime che durano anche cinque o sei ore e che hanno poco a che vedere con le liturgie occidentali. Più orientate a una sorta di furore mistico che si manifesta nella ripetizione delle parole della Bibbia o dei Vangeli, nell’ispirazione del pastore e nella partecipazione, urlata e danzata, dei fedeli.

Secondo il World Christian Database in Ghana si contano 700 denominazioni cristiane e almeno 71.000 congregazioni individuali (chiese create da una persona). Il paese ha una grande varietà di appartenenze e soprattutto una lunga tradizione di tolleranza religiosa. La non discriminazione a causa della fede e la totale libertà di professare il proprio credo sono stabiliti dalla Costituzione ghanese, e non sono principi teorici ma radicati fortemente nella popolazione.

Secondo gli ultimi dati, in Ghana il 71,2% si dichiara cristiano. La prevalenza va alla chiesa pentecostale-carismatica con il 28,3%, seguono altre chiese protestanti con il 18,4% e la cattolica con un 13,1%. La religione musulmana è professata dal 17,6% della popolazione, la tradizionale dal 5,2%. Poi ci sono anche altre fedi professate nel paese, come quella buddista.

Persone che vivono insieme, lavorano, vanno a scuola e a volte partecipano alle cerimonie religiose degli altri. A scuola, per esempio, oppure nei grandi eventi pubblici, quando un capo di stato può prendere parte a un’importante celebrazione in moschea anche se è cristiano, o viceversa. A volte capitano dei «disagi». Per esempio recentemente si è investito l’apparato giudiziario per decidere se fosse giusto che nelle scuole gli studenti musulmani dovessero partecipare alle preghiere cristiane di inizio giornata, e non viceversa. Letture e interpretazioni che però non tolgono la capacità di stare insieme e di rispettarsi a vicenda in una contaminazione costante di vite. Il muezzin che chiama alla preghiera è il suono di sottofondo quotidiano, lo sono le preghiere nei mercati all’aperto e così pure i canti che arrivano alti dalle numerosissime chiese sparse in città e nei più remoti villaggi. «La tolleranza religiosa e il rispetto per le altre fedi ci è stato passato come un tesoro da chi ha fondato questo paese e noi lo onoriamo – dice il reverendo Alfred Ahiahornu della Calvary Baptist Curch in un quartiere di Accra -. Non ci facciamo la guerra per motivi religiosi e anche nelle questioni politiche musulmani e cristiani siedono allo stesso tavolo e decidono insieme». Forse qualche parte del mondo potrebbe guardare al Ghana come esempio, in questo senso. Il solo elemento a sfavore di questa libertà proclamata e applicata è la poca capacità di inserire in questa tolleranza una figura come l’ateo. Resta per i ghanesi difficile comprendere che qualcuno possa dichiararsi tale. Qualunque chiesa o moschea va bene, l’importante è appartenere a qualcosa che professi l’esistenza di un dio, possibilmente salvifico, e dell’aldilà.

Antonella Sinopoli




Usa-Cina 2017:

Il capitalista e il comunista


A inizio aprile il presidente statunitense Trump e quello cinese Xi Jinping si sono incontrati per la prima volta. Hanno discusso soprattutto dei temi economici su cui Pechino e Washington (e i paesi occidentali) rimangono distanti. La Cina opera con successo sui mercati internazionali, ma è restia ad adeguarsi alle regole del commercio mondiale. Proprio durante i colloqui, Trump ha trovato il tempo per lanciare 59 missili contro una base siriana mostrando i muscoli ad amici e nemici.

Lo scorso 6 aprile per la prima volta il capitalista americano Trump e il comunista cinese Xi, a capo delle due nazioni più potenti al mondo, si sono stretti la mano, con al fianco le loro eleganti signore. Lo hanno fatto in una lussuosa villa-castello, la Mar-a-Lago Club, proprietà della famiglia Trump, sulla spiaggia delle palme in Florida, a un tiro di schioppo dal Mar dei Caraibi.

Figlia delle riforme di apertura economica che Deng Xiaoping avviò all’inizio degli anni Ottanta, con l’abbandono della dura autarchia maoista, la Cina contemporanea, entrata a far parte nel 2001 dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), si può sedere oggi allo stesso tavolo del presidente degli Stati Uniti, per trattare da pari a pari di commerci internazionali, di multinazionali, di tassi di cambio, pur continuando ad essere guidata dal più grande partito comunista della storia con i suoi 90 milioni di iscritti.

Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. UN-Photo_Evan-Schneide

Le tensioni esistenti

Oggi comunisti e capitalisti sembrano andare a braccetto. Sono remoti i tempi della crisi dei missili che nel 1962 contrappose, di fronte alle coste caraibiche di Cuba, l’arsenale nucleare statunitense a quello sovietico. Il mondo attuale per fortuna non è più lo stesso, la guerra fredda è finita, ma i comunisti cinesi, a differenza di quelli sovietici, sono ancora al loro posto.

Possiamo quindi parlare di vicinanza, ma non di alleanza. Infatti molti sono ancora i punti di attrito tra la potenza nucleare cinese e quella statunitense. Solo per citare quelli che rischiano di portare allo scontro i due paesi, possiamo elencare: crisi Nord coreana, tensioni tra Giappone e Cina sulle isole Senkaku/Diaoyu, ritorno di Taiwan alla Cina, contenzioso territoriale nel Mar cinese meridionale tra Cina e paesi rivieraschi.

Serve ancora tempo. Cina e America sono ormai una coppia di fatto, ma per nulla affiatata. Le moderne relazioni tra Stati Uniti e Repubblica popolare si sono riallacciate pienamente solo all’inizio degli anni Settanta, preparando le condizioni internazionali che avrebbero portato trent’anni dopo i comunisti cinesi nel Wto.

Dal ping pong al Wto (1971-2001)

Nella primavera del 1971, con la guerra del Vietnam in corso, il governo cinese fece invitare alcuni giocatori statunitensi di tennis da tavolo a Pechino, per giocare qualche partita con i colleghi cinesi. Da questa piccola iniziativa nacque quella che venne definita «la diplomazia del ping pong», che aprì le porte alle relazioni sino-americane interrotte dalla conclusione della seconda guerra mondiale.

Alla fine dello stesso anno gli Stati Uniti tolsero il veto e a Pechino venne assegnato il seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu al posto di Taipei.

Nel 1972 il presidente americano Richard Nixon fece visita al paese guidato da Mao Zedong. Nell’estate del 1981 Deng Xiaoping, erede di Mao al comando dei comunisti cinesi, tracciò una riga di condanna sugli errori del maoismo, avviando il paese verso un difficile e lungo percorso di riforme, non solo economiche, ma anche istituzionali, con alterne vicende e tensioni con Europa e Usa.

Infine nell’autunno del 1992 Jiang Zemin, al potere in Cina dopo Deng, lanciò la politica di internazionalizzazione dell’economia cinese, coronata dall’ingresso della Cina nel Wto nell’inverno 2001. Da quel momento in avanti e per tutto il decennio che ne seguì, la Cina, guidata da Hu Jintao, colse i frutti di questa nuova appartenenza al circuito dei commerci mondiali, si arricchì molto, anche se non sempre contribuì pienamente al rispetto delle nuove regole imposte dal Wto.

La classe dirigente americana ha sempre confidato nel fatto che la Cina, una volta aiutata a uscire dal regime di autarchia in cui l’aveva condotta il maoismo, con l’arrivo degli ingenti investimenti esteri, affluiti nel paese, dopo l’inizio della politica di apertura e delle riforme economiche, avrebbe con il tempo introdotto anche le riforme politiche, avviandosi ad essere un paese liberaldemocratico.

Mercato sì, comunismo anche

La Cina resta, e lo resterà a lungo, un paese socialista, che utilizza i meccanismi dell’economia capitalista per rafforzarsi, sotto l’aspetto economico e sociale, ma restando inamovibile sul controllo e la direzione che il Partito comunista deve esercitare sull’ideologia di governo, sulle istituzioni statali e sui settori strategici dell’economia.

Questa è anche l’accusa che hanno sempre mosso gli Stati Uniti alla Cina. Cioè quella di approfittare dei vantaggi offerti dal mercato internazionale, senza però consentire nel suo territorio una libera circolazione delle merci e dei capitali, attraverso pratiche protezionistiche e a volte truffaldine, come il furto di tecnologia e di proprietà intellettuale, lesive della libera concorrenza.

I cinesi sanno bene che il mercato perfetto è solo un’astrazione, buona per i manuali di economia, difficilmente però applicabile alle concrete relazioni internazionali. Le condizioni di sviluppo economico e la maturità tecnologica dei vari paesi non sono sullo stesso piano. La semplice applicazione meccanica di regolamenti astratti rischierebbe seriamente di compromettere le economie più deboli, invece di condurle verso il pieno sviluppo economico e sociale. Probabilmente anche in futuro i cinesi resteranno impegnati nella realizzazione delle riforme socioeconomiche necessarie, ma senza farsi dettare da nessuno l’agenda dei tempi e delle scadenze.

Ad esempio, è prevedibile che nei prossimi anni le industrie strategiche resteranno in mano pubblica, che i settori ad alta tecnologia nell’industria e nei servizi, prima di essere aperti alla concorrenza internazionale, verranno rafforzati, puntando ad essere credibili multinazionali leader nei vari settori commerciali. 

La Cina per molti anni ha potuto definirsi un paese in via di sviluppo, così da richiedere maggiore indulgenza su tutte le sue documentate mancanze, nel campo della libera concorrenza, della politica monetaria, delle tariffe doganali, delle quote di importazione, della proprietà intellettuale, delle liberalizzazioni ecc… Ma la misura sembra essere colma, se la stessa Europa un anno fa, in linea con le valutazioni del Congresso degli Stati Uniti, ha rifiutato alla Cina lo status di economia di mercato. Fino a quando però le aziende americane ed europee fiuteranno la speranza delle immense possibilità di fare business in una società cinese più libera e orientata ai consumi, le relazioni tra Cina e Occidente resteranno tese, ma non si spezzeranno.

Stile Trump: la pistola sul tavolo

Tornando ad aprile. L’incontro al Mar-a-Lago Club è stato impeccabilmente organizzato dalle due delegazioni, almeno fino al dessert. Poiché a quel punto Trump ha deciso, prima di congedare ufficialmente i suoi ospiti, di fare un colpo di teatro, mettendo la pistola sul tavolo, come si usava fare nei vecchi film western tra giocatori di poker in un saloon, dando cioè l’ordine alle navi da guerra della sesta flotta, che incrociavano nel Mediterraneo, di lanciare una sessantina di missili sull’aeroporto militare siriano da cui erano partiti gli aerei del presidente Assad, sospettati di un precedente attacco chimico sulla città di Idlib, in mano alle milizie islamiste anti Assad.

Un paio di giorni dopo ha ordinato alla terza flotta, guidata dalla portaerei a propulsione nucleare Carl Vinson, di lasciare Singapore per dirigersi in assetto da guerra di fronte alle coste della Nord Corea, che nel frattempo aveva annunciato di voler condurre l’ennesimo test nucleare o l’ennesimo lancio di missili balistici. Infine, ancora pochi giorni dopo, ha ordinato il lancio, su una base del terrorismo islamico in Afghanistan, della nuova, e mai usata prima, potentissima bomba «Moab», in grado di distruggere i bunker più corazzati, un chiaro avvertimento al regime della Corea del Nord e indirettamente alla Cina. Gli antichi cinesi direbbero «far rumore a Est per colpire a Ovest». E i cinesi sono abituati a gestire i colpi di teatro statunitensi, siano essi ordinati da un presidente repubblicano o da un presidente democratico poco importa. Ricordiamo tutti nel 1999, sotto la presidenza del democratico Clinton, i missili che distrussero l’ambasciata cinese di Belgrado in Serbia durante la guerra del Kosovo. Errore o ennesimo avvertimento da cowboy?

Non c’è che dire, Trump ha il suo stile nel condurre gli affari di stato e lo fa in linea con gli obiettivi definiti da anni dal Pentagono come territori ostili agli interessi americani: Siria, Afghanistan, Corea del Nord. Ma è prevedibile che in futuro altri paesi entrino a far parte dell’elenco, a cominciare dall’Iran, a suo tempo anch’esso considerato da Bush figlio uno «stato canaglia».

La Cina e gli interventi militari degli Stati Uniti

Ai cinesi però non piacciono i colpi di teatro e le azioni unilaterali, soprattutto quando portano il caos e danneggiano i loro interessi. Nello specifico, la Siria, l’Afghanistan, l’Iran sono paesi a cui la Cina guarda con grande interesse, per aprire nuovi mercati di sbocco per le sue merci. Il grande progetto infrastrutturale, costituito dalla nuova «Via della Seta», prevede una serie di collegamenti commerciali, basati su strada, ferrovia, linea aerea, che mettano in contatto diretto, come avveniva nell’antichità, l’oceano Pacifico occidentale al mar Mediterraneo orientale, contribuendo allo sviluppo economico di tutti i paesi attraversati.

La pacificazione del continente euroasiatico è anche un interesse degli Stati Uniti? Agli occhi dei cinesi sembrerebbe proprio di no. Infatti il caos, cioè le tragedie sociali, economiche, umanitarie, create di fatto in Medioriente dalle politiche interventiste statunitensi degli ultimi venticinque anni e la maggiore diffusione del terrorismo, che ne è seguita, sono considerati dai cinesi una diretta conseguenza dell’avventurismo militare degli americani.

Così se guardiamo alla storia che segue la caduta del Muro di Berlino, si evidenzia da parte degli Stati Uniti un continuo susseguirsi di interventi militari (da Panama all’Iraq, dalla Somalia alla ex Jugoslavia, dall’Afghanistan alla Libia, dalla Siria forse alla Nord Corea), a conferma del fatto che gli obiettivi di politica estera e gli obiettivi economici dell’apparato militar-industriale degli Stati Uniti trovano sempre una sinergia funzionale.

Di fronte a questa consapevolezza la Cina non può far altro che ribadire in tutti gli incontri bilaterali e in tutte le sedi diplomatiche, come ripetuto anche recentemente riguardo alla crisi nord coreana, che l’interventismo militare è foriero di disastri e non di soluzioni, che è una sconfitta per tutti senza un reale vincitore. Così la Cina ritiene che, nonostante le difficoltà evidenti con gli Stati Uniti nel campo della sicurezza e della bilancia commerciale, continuino ad esserci molti più vantaggi da cogliere dalla reciproca collaborazione, a fronte degli infiniti disastri umani ed economici, anche a livello internazionale, che certamente scaturirebbero da un loro scontro aperto.

La variabile Trump

Nei rapporti con i comunisti cinesi il presidente Trump, da uomo d’affari tra i più ricchi del pianeta, non può essere considerato uno stupido. Se appare istintivo, ondivago nelle intenzioni, passando da dichiarazioni roboanti a marce indietro più diplomatiche, si ha l’obbligo, fino a prova contraria, di giudicare questo suo comportamento come la classica strategia che si adotta in una trattativa difficile, quando non conviene mostrare subito le proprie carte, così come non conviene mostrarsi alla controparte troppo prevedibili. Senza dimenticare che i cinesi la sanno lunga e da un cowboy si aspettano che, prima o poi, metta mano alla pistola.

Gianni Scravaglieri
(cinaforum.net)




A Brescia, conto alla rovescia per il Festival della Missione


È il titolo della prima edizione del Festival della Missione, in programma a Brescia dal 13 al 15 ottobre 2017. Promosso dalla Conferenza degli istituti missionari italiani (Cimi), da Fondazione Missio (organismo della Conferenza episcopale italiana) e dall’Ufficio missionario della diocesi, il Festival della missione avrà come scenario le piazze e gli spazi del centro città.

L’idea del Festival nasce come risposta a una sensazione diffusa, quella di una insufficiente incisività del mondo missionario nel panorama sociale, culturale e mediatico odierno.

Il mondo missionario, non c’è dubbio, nonostante le fatiche di un mondo editoriale complesso, produce riviste di qualità, che svolgono un ruolo informativo prezioso. Va ricordato pure che gli istituti, la Cei, tramite Fondazione Missio, e tante altre realtà della «galassia missionaria», promuovono una marea di interessanti iniziative culturali, vocazionali e di sensibilizzazione alla missione, dai viaggi per giovani, ai campi di lavoro.

Tuttavia, non v’è chi non pensi che – sebbene i missionari continuino a godere di «buona stampa» – il messaggio di cui sono portatori e che testimoniano con la vita, ossia l’annuncio del Vangelo «agli estremi confini», sembra non scalfire le coscienze, non tradursi in scelte coraggiose, non mettere in discussione un sistema e stili di vita che risentono del consumismo e della secolarizzazione.

Purtroppo, quello missionario non pare più un ideale capace di contagiare i giovani. In sintesi: oggi la missione ad gentes forse è sentita come qualcosa di anacronistico.

Se fosse così, sarebbe grave! Certo, la missione è cambiata e continua a cambiare. Ma l’imperativo della missione ad gentes, seppure da rivisitare costantemente, non può essere archiviato: è un comando di Cristo ai suoi apostoli, non la fissa di alcuni. Si tratta, semmai, di riformulare l’idea (e la prassi) di missione. In altri termini: il mondo missionario italiano è chiamato a trovare nuove vie per comunicare il Vangelo, evitando di cedere all’autoreferenzialità, ma anche alla tentazione di diluire la propria identità per rendersi più accettabili per la mentalità comune.

Il Festival della Missione vuol essere innanzitutto un’occasione con la quale il mondo missionario si propone positivamente, per quello che già è. E lo fa in piazza, nei luoghi della vita quotidiana di una città. Non si tratta di esibizionismo né di trionfalismo, ma di servizio.

Anche oggi in giro per il mondo ci sono bellissime e provocatorie esperienze di vita missionaria: sarebbe un peccato di omissione non provare a renderle eloquenti per l’uomo di oggi. Inoltre, vorremmo condividere le buone pratiche, ovvero tutte quelle proposte culturali e di animazione, iniziative, campagne di sensibilizzazione, libri (e non solo) che le varie componenti del mondo missionario hanno realizzato. E che spesso non si conoscono adeguatamente dentro il mondo missionario stesso, figuriamoci fuori!

Il titolo/slogan della prima edizione «Mission is possible» potrebbe sembrare un po’ ad effetto quasi goliardico. In realtà, è stato scelto perché così il mondo missionario è costretto a mettersi allo specchio, ma non – come spesso capita – per farsi un selfie impietoso e sconfortante («Siamo sempre meno, con i capelli più grigi e la gente ci dà meno ascolto di un tempo…»), bensì per riacquistare la consapevolezza che (per fortuna!) la missione non è cosa nostra, ma opera Sua.

Per quanto in difficoltà, quindi, i missionari rappresentano una realtà paradigmatica: senza di loro il volto della Chiesa perderebbe un tratto essenziale. «Mission is possible», quindi, perché «senza di me non potete far nulla», ma con Lui… possiamo tutto, anche oggi che i numeri sembrerebbero condannare i missionari e le missionarie all’estinzione. Per tali motivi il Festival sarà ancorato a quanto Papa Francesco scrive in Evangelii Gaudium, il documento che egli stesso ha additato come bussola alla Chiesa italiana per i prossimi anni perché essa diventi davvero una Chiesa in uscita.

Stefano Femminis


Gerolamo Fazzini, giornalista e scrittore, è il direttore artistico del Festival.
A lui alcune domande per capire l’evento.

Perché un Festival e non un convegno?

«Perché il contesto in cui ci racconteremo – come mondo missionario – dev’essere laico, per evitare di parlarci addosso. Non si farà quindi l’ennesimo convegno dove, a porte chiuse, si parla in ecclesialese, ma si andrà in piazza. Abbiamo pensato alla formula del festival perché permette di sperimentare linguaggi diversi (e in parte anche nuovi) grazie ai quali provare a intercettare il maggior numero di persone, in special modo i giovani. Per questo motivo nei giorni del Festival sarà proposto un ampio ventaglio di eventi: testimonianze missionarie, mostre fotografiche, concerti, incontri con l’autore, tavole rotonde, spettacoli, momenti di preghiera, iniziative ad hoc per bambini, famiglie e scuole…».

Non c’è il rischio di scimmiottare quanto avviene altrove? L’Italia è già piena di festival.

«Il rischio c’è ma ne siamo consapevoli: stiamo cercando in vari modi di “fare la differenza”. Mi spiego. In primo luogo vigileremo sia sull’entità dei costi finali che sul tipo di contributi (e di donatori) a sostegno dell’iniziativa. Sappiamo bene che con la stessa quantità di denaro che occorre per un festival (diverse decine di migliaia di euro) nei paesi del Sud del mondo si possono realizzare iniziative solidali persino più importanti, a livello sanitario, educativo o altro; proprio per questo ci è chiesto un supplemento di lungimiranza. Stiamo attivando una serie di sinergie con diversi partner che, in misura diversa, hanno contribuito anche economicamente, o si apprestano a farlo, per la buona riuscita dell’impresa.

In secondo luogo, daremo al festival il colore di una «festa»: una parte degli ospiti che verranno da fuori Brescia (missionari, delegati dei centri missionari diocesani, ecc.) saranno ospiti di famiglie e oratori, perché il Festival non sia una semplice kermesse, ma il più possibile un’esperienza che lascia il segno.

In terzo luogo, vorremmo che – alla fine dei tre giorni – rimanesse un segno concreto, al di là della girandola di parole, musica, incontri… Da ultimo, ma non è la cosa meno importante, durante tutti i giorni del Festival (e questo non accade altrove!) in una chiesa del centro cittadino ci sarà l’adorazione eucaristica permanente: un segno forte, per richiamarci al Protagonista della missione».

Uno degli obiettivi dichiarati del Festival è proporre il mondo missionario come realtà corale, sinfonica e unita. Una sfida non facile, ma entusiasmante…

«Sì: vogliamo provare a fare un Festival insieme, vivendo questa opportunità come una palestra di comunione, dove le differenze vengono esaltate in quanto ricchezza da condividere a beneficio di tutti. Da molti istituti missionari sono arrivati segnali di apertura, collaborazione e disponibilità. Se l’evento-festival e la sua comunicazione saranno frutto di un lavoro di squadra dove ogni carisma è valorizzato – e stiamo lavorando perché sia così – potrà diventare una testimonianza significativa e già missionaria in sé».

Che risultati vi attendete dal Festival?

«Nessuno, promotori compresi, è così ingenuo da immaginare che un Festival di tre giorni possa essere una bacchetta magica in grado di risolvere questioni annose e crisi di lunga data. Diciamo che, per usare parole di Papa Francesco, più che occupare spazi, con questa iniziativa vorremmo innescare processi. Detto ciò, l’auspicio dei promotori è che ogni realtà coinvolta si impegni per mettere in gioco le sue forze migliori a servizio del Festival».

Ormai la macchina organizzativa è in moto da tempo. Che sensazioni avete raccolto?

«Quando – nell’estate 2014, a Pesaro – per la prima volta ho presentato alla Cimi (Conferenza istituti missionari italiani) l’idea del Festival della Missione, maturata insieme ad alcuni amici, non potevo immaginare che quella palla di neve sarebbe diventata una valanga. A distanza di oltre due anni, devo dire che la sensazione è di un notevole dinamismo: all’interno del mondo missionario, il progetto Festival pare abbia risvegliato un po’ di entusiasmo sopito e messo in circolo energie nuove».

E Brescia? Come stanno rispondendo la città e la diocesi?

«La risposta di Brescia, intesa sia come comunità ecclesiale che come istituzioni civili, è stata a dir poco positiva. C’era da aspettarselo, da una città vivace e multiculturale com’è la Leonessa. C’era da immaginare, inoltre, che una Chiesa dinamica come quella bresciana, segnata da figure importanti (il gesuita Giulio Aleni, primo biografo di Ricci, san Daniele Comboni, la beata Irene Stefani, per finire col Papa missionario Paolo VI), reagisse con entusiasmo all’appello. Ma, ripeto, sin qui le risposte sono state persino superiori alle attese. 

Aggiungo che, a dar man forte ai missionari e a Brescia, è scesa in campo la Cei, grazie alla Fondazione Missio. Il vescovo di Bergamo, Francesco Beschi, bresciano di origine e presidente della Commissione episcopale per la cooperazione missionaria tra le Chiese, ha dato il suo convinto appoggio e lo ha ribadito negli incontri del Comitato scientifico, svoltisi negli ultimi mesi, nei quali si è discusso il programma del Festival. Tutte ottime premesse, insomma, per la riuscita dell’iniziativa».

Trattandosi di una «prima volta», il Festival avrà bisogno di farsi conoscere nel panorama mediatico. Come state lavorando su questo fronte?

«Cercando, in primis, di costruire una serie di alleanze con vari interlocutori, che vanno dalle riviste della Federazione della stampa missionaria alle testate della Cei: su entrambi i fronti abbiamo avuto riscontri positivi. Ma – ovviamente – chi segue la comunicazione punterà a coprire l’evento a 360 gradi, coinvolgendo (o almeno provando a farlo) anche il mondo laico. In caso contrario, ancora una volta cadremmo nell’autoreferenzialità». 

Quanto al programma che notizie ci sono?

«Il programma del Festival è a buon punto: siamo in attesa di risposte da parte di alcuni relatori (ma diversi altri ci hanno già assicurato la loro presenza) e di una serie di conferme sul versante artistico. Ci vorrà ancora un po’ di pazienza prima di vedere il cartellone definito nei dettagli. Dopo di che sarà nostra cura segnalare gli aggiornamenti tramite il sito e i social network».

www.festivaldellamissione.it

Aperti al Dono di Dio

Come Istituti missionari promuoviamo e appoggiamo in pieno l’iniziativa del Festival della Missione! Siamo più che mai convinti che il Vangelo di Gesù Cristo abbia bisogno di essere detto, cantato, condiviso, proclamato, testimoniato non solo all’interno delle nostre chiese e delle nostre comunità, ma «uscendo per le piazze e per le vie della città» (Lc 14,21): perché non possiamo tacere questa Vita che è in noi! Riteniamo che il Festival possa essere, oggi, uno strumento privilegiato per condividere questo Dono, in comunione tra di noi e in piena sintonia con quella «Chiesa in uscita» alla quale Papa Francesco fa sovente riferimento. Crediamo fermamente che «La fede si rafforza donandola»!

Oggi più che mai Mission is possible, nella misura in cui sapremo aprirci al Dono che saremo disposti a offrire, ma anche a ricevere, nella diversità e varietà delle nostre provenienze e culture di appartenenza!

Suor Marta Pettenazzo
Superiora provinciale per l’Italia delle missionarie di Nostra Signora degli apostoli e presidente della Cimi (Conferenza Istituti Missionari Italiani).

Nelle piazze per dialogare, contemplare e fare festa

Il primo Festival della Missione – che la Fondazione Missio promuove insieme alla Conferenza degli Istituti Missionari Italiani e alla diocesi di Brescia vuole rilanciare il mandato del Vangelo: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19). Come scrive Papa Francesco nel messaggio per la Giornata mondiale missionaria 2016 esso «non si è esaurito, anzi ci impegna tutti, nei presenti scenari e nelle attuali sfide, a sentirci chiamati a una rinnovata uscita missionaria».

Nell’Evangelii Gaudium (73) si legge: «Una cultura inedita palpita e si progetta nella città. Ciò richiede di immaginare spazi di preghiera e di comunione con caratteristiche innovative, più attraenti e significative per le popolazioni urbane». Andiamo, allora, in città e nelle piazze per dialogare, contemplare e fare festa per la perenne buona notizia per ogni uomo e per ogni donna del Vangelo di Gesù. Nelle piazze, come in quel giorno di Pentecoste, inizio della missione dei discepoli. Perché la Chiesa non dimentichi  che è nata in uscita e solo in uscita sarà fedele al suo Maestro.

Don Michele Autuoro
Direttore Ufficio nazionale per la Cooperazione Missionaria tra le Chiese e della Fondazione Missio.

Un’occasione per rinnovare lo slancio per l’annuncio

La Diocesi di Brescia accoglie con gioia l’invito ad ospitare il Festival della Missione. La Chiesa bresciana è grata al Signore per i missionari e le missionarie che con la loro vita ogni giorno rendono testimonianza al mandato di Gesù ai discepoli «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura».

Il Festival sarà un’occasione significativa per rinnovare la passione e lo slancio per l’annuncio del Regno di Dio: quella passione che ha animato la vita del Beato Paolo VI, di San Daniele Comboni, della Beata Irene Stefani e di tanti figli e figlie di questa terra.

Monsignor Luciano Monari
Vescovo di Brescia