Nawal Soufi: È il cuore che mi paga


Nawal Soufi, giovane donna siciliana, dal 2013 ha contribuito a salvare migliaia di persone dalle acque del mare Mediterraneo. I migranti che hanno il suo numero la chiamano quando sono in pericolo. E lei comunica le coordinate dell’imbarcazione alla Guardia costiera.

Nawal in arabo significa «dono». È il nome di una giovane donna italiana, nata in Marocco nel 1987, arrivata in Sicilia quando aveva un mese. Lei si definisce «attivista per i diritti umani». Molti la chiamano «lady sos». Dall’estate del 2013 ha contribuito a salvare migliaia di persone dalla morte in mare ricevendo le loro richieste di aiuto sul suo telefonino. Non si sa quante ne abbia aiutate. Solo lei, forse, potrebbe farne il conto consultando i quaderni sui quali appunta i dettagli di ogni singola richiesta di aiuto.

Oggi gli sos arrivano anche dalla terra ferma: dai confini dell’Europa orientale, dagli hotspot (i centri di identificazione), come quello greco di Moria, Lesbo, dove sono trattenuti richiedenti asilo che la chiamano per denunciare abusi e violenze. Il 24 luglio scorso1 lei stessa, presente durante alcuni scontri nel campo, sembra sia stata trattenuta alcune ore dalle forze dell’ordine greche.

Lo scorso maggio Nawal Soufi ha ricevuto a Dubai, dalle mani dello sceicco e primo ministro degli Emirati arabi uniti, Mohammad bin Rashid al Maktoum, il premio «Arab hope maker 2017», fautrice della speranza araba, scelta perché, secondo al Maktoum, «con la sua azione ha fatto la differenza per 200mila persone».

Nel libro che ne racconta la biografia, Nawal. L’angelo dei profughi, di Daniele Biella (Paoline 2015), si parla di 20mila persone salvate. Alla domanda «chi te lo fa fare», lei risponde: «È il cuore che mi paga»2.

Con il cellulare (e la tenacia)

L’azione di lady sos, studentessa di scienze politiche a Catania e, grazie alla sua conoscenza della lingua araba, interprete e mediatrice culturale presso il tribunale, è molto semplice: riceve sul suo cellulare richieste di aiuto da parte di persone in difficoltà o in pericolo di vita, e le gira a chi può fare qualcosa per aiutarle.

La prima chiamata l’ha ricevuta nell’estate 2013: un uomo urlava in arabo che si trovava con altre centinaia di persone in mezzo al mare su una barca che affondava. La giovane – racconta Biella nel suo libro -, presa alla sprovvista, ha chiamato la Guardia costiera. Quando dalla sede centrale di Roma le hanno chiesto le coordinate del punto in cui si trovava l’imbarcazione, lei si è fatta spiegare come trovarle: il telefono satellitare da cui l’uomo l’aveva chiamata era in grado di fornire le coordinate esatte. Una volta comunicate alla Guardia costiera, questa ha salvato i migranti.

Da allora, Nawal ha ricevuto centinaia di chiamate. «La cosa continua tutti i giorni – ci dice Biella -, giorno e notte. Negli anni sono cambiati i luoghi da cui le persone la chiamano: all’inizio dalla Libia, poi dalla Turchia-Grecia. E oggi, quando non sono sos dal mare, sono richieste di aiuto di altra natura, legate alla violazione dei diritti umani nei paesi di partenza, o in Europa, negli hotspot».

Mentre scriviamo, Nawal è a Lesbo e non riusciamo a contattarla direttamente, ma Daniele Biella ne ha notizie quasi quotidianamente: «Nawal va avanti, mettendo in difficoltà prima di tutto la sua persona, perché lo fa come volontaria, ma a volte, a livello fisico e mentale, è sfiancata».

Il periodo in cui Nawal ha ricevuto più chiamate è stato l’estate del 2014: almeno una al giorno. «Un po’ per volta le cose sono cambiate. Ora non ci sono più così tanti siriani che scappano. Chi doveva partire è già partito».

Siriani in fuga

La gran parte delle chiamate che riceve sul suo cellulare sono di siriani in fuga dalla guerra. Il legame di Nawal con la Siria risale al 2011: «Lei da tempo era un’attivista per i diritti umani – ci spiega Biella -. Quando è scoppiata la guerra in Siria le ha fatto molta impressione perché, come dice lei, era a due ore di aereo dalla Sicilia. Ha iniziato a contattare, tramite i social media, attivisti siriani che le mandavano video e informazioni dalle manifestazioni che in principio erano pacifiche. E lei ha preso a fare da cassa di risonanza, sia per i media che per la gente di Catania. Di sera andava con un proiettore in piazza Bellini per dire ai passanti: “Guardate che succede”».

Da quell’esperienza è nata l’idea di una carovana di medicinali per la popolazione civile in Siria. Nel marzo del 2013 Nawal stessa ha attraversato il confine turco-siriano con i medicinali e ha vissuto per 17 giorni ad Aleppo, dove ha incontrato gli attivisti con cui era in contatto da tempo. Sul suo canale di Youtube «Nawal Syriahorra» si possono vedere alcuni video girati durante quei giorni. Prima di venire via dalla Siria ha lasciato agli amici il suo numero di telefono.

«Proprio in quel periodo le barche cominciavano a partire. Nawal non immaginava che il suo numero di cellulare sarebbe finito in mano a migliaia di persone tramite il passa parola», un passa parola che si è moltiplicato attraverso Facebook, tramite i profili di siriani che man mano venivano salvati dal mare grazie all’intervento di Nawal e che poi la conoscevano di persona a Catania: «Quando i Siriani sbarcavano – soprattutto in quegli anni 2013-2015, in cui non c’erano gli hotspot e le persone venivano lasciate libere dopo la prima notte in accoglienza di andare verso il Nord Europa -, passavano da Catania e lì conoscevano Nawal».

È in quelle circostanze che nasce il soprannome «angelo dei profughi»: la persona che prima salva i migranti dalla morte in mare, poi li accoglie e aiuta nel loro viaggio sulla terra ferma. Li aiuta, ad esempio, a non finire nelle mani di quelli che approfittano del loro spaesamento e gonfiano i prezzi dei biglietti del treno, o delle schede telefoniche. «Questi migranti che hanno ricevuto da Nawal abbracci, consigli, alimenti, pannolini…, quando sono arrivati in Germania, in Svezia, hanno scritto ai loro parenti e amici: “Guardate che questa ragazza è fantastica, ci ha aiutati”. E, tramite i social, è girata la voce».

Una voce amica

Ma perché i migranti in difficoltà preferiscono chiamare lei invece della Guardia costiera? «L’idea che si è fatta lei a quei tempi è che preferiscono usare un numero di una persona che parla arabo. La Guardia costiera non ha un servizio di operatore arabo 24 ore su 24. È vero che i profughi potrebbero comunicare in inglese, però in quelle situazioni, in stato di panico, al buio, in una barca che rischia di affondare, per chiedere aiuto, se c’è una persona che parla la tua lingua e che poi avvisa la Guardia costiera, è più facile. Credo che il suo numero sia un po’ ovunque. I migranti si mettono i numeri di telefono dappertutto, se lo cuciono sui vestiti, per paura di perderlo. Il passaggio è semplice: sanno che a quel numero risponde una persona che li può aiutare».

Favoreggiamento?

Biella, nel suo libro, a un certo punto racconta di una strana chiamata ricevuta da Nawal: un uomo le dice che riceverà una denuncia – poi mai arrivata – per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ai tempi erano ancora distanti le polemiche che dalla primavera del 2017 e nei mesi successivi avrebbero colpito le Ong, accusate in modo generalizzato di essere complici dei trafficanti di uomini. «La cosa triste, in questo periodo in cui si attacca “l’umanitario” – ci dice l’autore del libro -, è vedere che anche Nawal è finita nel tritacarne3. Con conseguenti insulti sui social network. Sono cose che rischiano di distoglierla da quello che fa. Nawal dice: “Devo perdere tempo ad argomentare queste cose, quando sto solo aiutando nell’emergenza le persone”».

Dalle frontiere

Dall’estate del 2013, il nome e il numero di telefono di Nawal sono diventati sempre più di dominio pubblico. Questo comporta, oltre al disagio di venire coinvolta in polemiche politiche e ideologiche, anche il fatto che sono sempre più varie le chiamate di emergenza che la raggiungono. Nonostante siano ancora soprattutto siriani a contattarla, ora ci sono persone anche di altre nazionalità, e richieste di soccorso di altro tipo. «Se non chiamano dal mare, chiamano da altre situazioni problematiche. Ad esempio dalle frontiere. “Siamo in questo centro e abbiamo subito abusi”, “Sono mesi che siamo fermi qui, cosa facciamo?”. Lei vede qual è la situazione e cerca canali per risolverla: contatta avvocati, volontari, ecc. Ad esempio, poco tempo fa ha ricevuto una chiamata dalla Malesia da un profugo siriano – non fuggono tutti in Europa, alcuni vanno in Brasile, in Cina… Uno scappa dalla guerra e cerca di andare dove sa che può -. Alla frontiera ti fermano perché il tuo passaporto è falso, però tu dovresti riuscire a chiedere asilo, perché questo è l’obiettivo del viaggio. Nawal cosa ha fatto? – ci racconta Biella -. Ha chiesto via Facebook se qualcuno conosceva un avvocato in Malesia che potesse aiutare il profugo. Queste sono le emergenze degli ultimi tempi. Sono legate a una seconda fase, meno drammatica rispetto a quella dei naufragi, ma comunque piuttosto forti. Senza scordare che comunque i naufragi continuano, sia in Libia che vicino alle isole greche».

Cortocircuito europeo

Prima di ricevere il premio Arab hope makers 2017, Nawal ha ricevuto un certo riconoscimento del suo operato da diverse istituzioni. Per prima è arrivata la menzione speciale del Premio volontario internazionale 2015 Focsiv (Federazione ong cristiane). È stata poi ricevuta, nel giugno 2016, a Rabat, dal re del Marocco Muhammad VI. Nel settembre 2016 ha ricevuto il premio dell’Ue come cittadina europea dell’anno: «Bello il riconoscimento da parte dell’Ue – dice Biella -. Nel marzo precedente aveva anche fatto un discorso al Parlamento europeo4, però, nel concreto, le cose continuano a non cambiare».

Uno dei cavalli di battaglia di Nawal, portato anche nel suo breve e intenso discorso al Parlamento europeo è la richiesta di creazione di corridoi umanitari: «Quelli che ci sono già riguardano un migliaio di persone in tutto. In essi sono coinvolti la comunità di sant’Egidio, la Tavola valdese, la Cei. Riguardano persone che vengono selezionate nei campi profughi in Libano. Persone vulnerabili, con famiglia, ecc. Si verifica in loco l’identità, se ne verifica l’effettiva fuga e il rischio di vita nei loro paesi di origine, e si fanno venire in Europa con canali sicuri e legali, con un aereo. Tra le soluzioni possibili, si parla anche di visti umanitari. I corridoi umanitari su grande scala non si riescono a fare, perché l’Ue non li vuole proprio fare. Forse perché arriva troppa gente? Ma i visti umanitari, come è successo per le guerre balcaniche, si potrebbero concedere. La direttiva 55 del 2001 del Consiglio dell’Ue ne parla. Visti umanitari temporanei. Poi, quando la guerra finisce, le persone ritornano in patria: se chiedi a un siriano se vuole tornare a casa sua, il 100% ti dice di sì, ovviamente quando le condizioni lo permettono. Quando l’Unhcr ha fatto i campi in cui le persone venivano selezionate, questi sono diventati dei parcheggi, a causa della lentezza della burocrazia. A un certo punto arrivava il trafficante e sapeva che lì c’erano persone che attendevano di partire da mesi.

A me fa un po’ impressione l’idea che l’Europa stia esternalizzando le frontiere facendo accordi con paesi singoli per tenere le persone lì. Ma se lì non stanno bene, se i loro diritti non vengono riconosciuti, cercheranno sempre di andarsene. Dove c’è un blocco, il trafficante aumenta i suoi guadagni. Questo è il corto circuito cui stiamo assistendo in Europa».

Nawal con Daniele Biella durante la presentazione del libro.

Fede, motore di solidarietà

Nawal Soufi, di origine marocchina, è di fede musulmana. Nel libro di Daniele Biella se ne parla, con molta discrezione: «Lei parla di fede in modo generale, ecumenico. La fede per lei è il motore che la spinge ad aiutare chiunque abbia bisogno. Nella sua visione, le religioni spingono a essere sempre pronti per gli altri. Lei è musulmana, io sono cattolico, mi sono trovato a parlare davvero la stessa lingua in questo senso: l’aiuto disinteressato. Lei dice che chi usa la religione per motivi terroristici la snatura da quello che è, e va fermato. Si parla di criminali e non di fedeli».

Luca Lorusso

Note:

1- O. Spaggiari, Nuove proteste a Moria: il racconto di Nawal Soufi, vita.it, 21/7/2017; Flore Murard-Yovanovitch, Moria, il laboratorio della brutale intolleranza anti-migrante, huffingtonpost.it, 28/7/2017.

2- F. Tonacci, Parla Nawal Soufi, lady Sos “I profughi siriani mi chiamano dai cargo e io lancio l’allarme”, repubblica.it, 6/1/2015.

3-Durante la trasmissione “Piazza pulita” del 1 maggio 2017, su La7, è andato in onda un servizio sul traffico di uomini nel quale veniva fatto il nome di Nawal. Il giornalista, fingendosi un migrante, ha chiamato un uomo, identificato come trafficante, per chiedergli informazioni su un viaggio dalla Libia. Nella videochiamata l’uomo ha citato Nawal dicendo che gli scafisti avevano il suo numero. Nel servizio il giornalista ha poi chiamato Nawal che, semplicemente, ha risposto ai sospetti con il buon senso: esattamente come la Guardia costiera, quando riceve una chiamata, non può verificare chi la stia chiamando, se sia uno scafista o meno. Raccoglie la richiesta, le coordinate e le trasmette.

Nonostante l’evidente infondatezza delle accuse, alcuni giorni dopo, Il Giornale ha pubblicato un pezzo nel quale l’articolista insinua la colpevolezza di Nawal (G. De Lorenzo, Nawal Soufi, “Lady Sos” d’Italia. Il trafficante: “Gli scafisti chiamano lei”, 10/5/2017): «“Lady Sos” ovviamente nega di sapere che dall’altra parte della cornetta ci siano scafisti. “Il mio numero di telefono è pubblico”, dice. […]. “Non ho mai ricevuto una chiamata da una persona che mi dice: pronto, sono uno scafista e ti sto dando le coordinate”, ha provato a difendersi. E ci mancherebbe che il ladro dichiari di essere un bandito».

4- M. Luppi, Il discorso di Nawal Soufi, l’attivista italo-marocchina che scuote il cuore dell’Europa, africarneuropa.it, 4/3/2016.


Richieste di asilo politico: +49%

Grafico dal Quaderno statistico della commissione nazionale per il diritto di asilo

Alla data del 20 giugno 2017, giornata mondiale del rifugiato, l’Unhcr (l’agenzia Onu per i rifugiati) calcola che le persone morte o disperse nel Mediterraneo dall’inizio dell’anno erano 1.990. Quelle che lo avevano attraversato «con successo» 82.897, di cui 71mila in Italia.
In occasione della stessa ricorrenza, la Fondazione Ismu ha pubblicato un rapporto sui richiedenti asilo. Nei primi cinque mesi del 2017, le richieste in Italia da parte di persone provenienti da diversi paesi nel mondo sono aumentate del 49% rispetto allo stesso periodo del 2016.
«Tra il 1° gennaio e il 31 maggio 2017 in Italia sono state presentate quasi 60mila domande di asilo […]. Se si considera che nel 2016 il numero […] ha raggiunto la cifra più alta mai registrata in un ventennio (oltre 123mila), si può, per il 2017, prevedere un nuovo record […]».
Tra i 59.579 richiedenti, l’85% sono uomini (come nel 2016). I minorenni sono 6.700, di cui 3.530 non accompagnati, una quota molto maggiore rispetto allo stesso periodo del 2016 (+89%).
La Nigeria, come nel 2016, è il primo paese di origine tra chi cerca protezione in Italia (12.300 richiedenti, un quinto del totale). Il Bangladesh è il secondo con 5.500 richieste (cioè più del triplo rispetto ai primi cinque mesi del 2016).
Gli esiti delle domande esaminate tra gennaio e maggio 2017 sono negativi per il 58,6%. Aumentano però, rispetto al 2016, coloro che ottengono lo status di rifugiato (8,7%, 2.900 migranti), mentre continua la prevalenza delle concessioni di permessi a titolo di protezione umanitaria (7.900, il 24% del totale).
In Europa, l’Italia è al secondo posto, dopo la Germania, per numero di richiedenti asilo, sia nel 2016, sia nei primi quattro mesi del 2017 (dati Eurostat).

Luca Lorusso




Messico. Migranti: un salto nel buio


Ogni anno migliaia di migranti centroamericani cercano di attraversare il Messico per raggiungere la frontiera Nord e passare illegalmente negli Stati Uniti. È un viaggio estenuante e molto pericoloso a causa dei narcos e delle autorità locali. Pochissimi raggiungono la meta. La maggioranza torna indietro o si ferma lungo il cammino sopportando violenze e angherie e mettendo a rischio la vita stessa. In questo quadro di disperazione, si inserisce l’opera di padre Alejandro Solalinde e dei suoi rifugi per migranti. Questo è il suo racconto.

Sono 4.301 i chilometri della frontiera terrestre del Messico. Per la precisione, 3.152 quelli della frontiera Nord con gli?Stati Uniti e 1.149 quelli della frontiera Sud con Guatemala e Belize. Confini che contribuiscono a fare del Messico un «paese di partenza, transito e arrivo di migranti»1.

Per inquadrarne i problemi sono sufficienti tre dati: la povertà interessa 57 milioni di messicani su 127 totali; le persone assassinate nel 2016 hanno raggiunto il livello record di 22.9672, senza conteggiare le migliaia di persone scomparse; la corruzione costa ogni anno il 9 per cento del Prodotto interno lordo3.

Dal Messico si scappa (è il secondo paese al mondo con più emigranti4) e nel Messico si arriva, ma quasi sempre soltanto per tentare il salto verso gli Stati Uniti, l’American dream. Un progetto questo di difficile realizzazione e soprattutto molto rischioso a causa dei pericoli in cui i migranti possono imbattersi. Se va bene, furti ed estorsioni.?Se va male, sequestri di persona, violenze sessuali, mutilazioni, commercio di esseri umani, sparizioni ed assassinii.

A confermare la gravità della situazione è padre Alejandro Solalinde, sacerdote messicano di 72 anni (molto ben portati), fondatore dell’«Albergue de migrantes “Hermanos en el Camino”», un centro per l’accoglienza dei migranti illegali a Ixtepec, nello stato messicano di Oaxaca.

Padre Solalinde, candidato al premio Nobel per la pace 2017, vive da anni sotto scorta a causa della sua condanna a morte decretata dai narcos, che sulla pelle dei migranti fanno grossi affari.

Chi parte, chi si ferma, chi torna indietro, chi arriva

Padre Alejandro, ci racconti in poche parole chi è lei.

«Prima di tutto, direi che sono un missionario cattolico. Lavoro a Ixtepec, stato di Oaxaca, nell’albergo-rifugio dei migranti. Iniziai nel 2005, quando chiesi al mio vescovo di occuparmi di loro. Non fu facile perché pareva uno spreco che un sacerdote si dedicasse alla gente di strada, ai migranti. Però, alla fine, ottenni il permesso».

Il rifugio quante persone riceve?

«In questo momento, l’Albergue de migrantes accoglie un centinaio di persone al giorno. I migranti si fermano un paio di giorni o al massimo tre, per poi riprendere il cammino».

Da dove provengono?

«Soprattutto dall’Honduras, dal Salvador, dal Guatemala, dal Nicaragua. Però anche dal Brasile, dal Venezuela, dal Costa Rica, dal Perù, dall’Ecuador, da Panamà e anche dal Belize. Secondo le statistiche, il 50% di costoro si ferma in Messico, mentre il 25% rinuncia e torna indietro. Si arrende».

E quanti di loro arriveranno fino alla meta finale, nel «paradiso» statunitense?

«Stando ai numeri, un 25% dei migranti raggiunge la meta e riesce a entrare, anche con Donald Trump. Chi controlla la frontiera non è il Messico o gli Stati Uniti, ma continua ad essere il crimine organizzato. Se tu paghi o se porti la droga, loro riescono a farti passare. Non c’è muro che tenga. Per sofisticato che esso possa essere».

In Europa la maggioranza dei migranti sono giovani e maschi. E da voi?

«Anche qui la maggioranza sono giovani. Io calcolo siano circa l’80 per cento del totale. Però ci sono anche bambini e donne. Persone anziane ne ho viste poche, probabilmente rassegnate a rimanere nel loro luogo d’origine. Ed anche i malati rimangono a casa. Sono le persone più giovani e sane quelle che viaggiano».

L’accoglienza

Come si svolge una sua giornata tipica all’Albergue di Ixtepec?

«Non ce n’è una eguale all’altra, ma una cosa è identica: ogni giorno è sempre molto intenso. Al mattino presto – verso le cinque e mezza – prego e leggo il vangelo del giorno. Faccio esercizi. Lavo e stiro i miei vestiti: se voglio essere pulito, nessuno lo deve fare per me. Poi scendo al piano dove ci sono i migranti. A volte faccio colazione con loro, dopo che questi hanno fatto le pulizie del luogo. Poi visito i diversi reparti dell’Albergue per vedere come procedono: la falegnameria, la panetteria, la fattoria, la cucina (un settore questo che sempre necessita di molto lavoro). Abbiamo anche una biblioteca e una sala computer dove le persone possono comunicare con i loro cari. C’è un’area medica con due medici e due infermiere. Ed anche un’area psicologica con cinque addetti. Insomma, siamo come una piccola città».

Quando al centro arrivano i migranti, lei che fa? Come li accoglie?

«Io non posso parlare con ognuno. Allora li riunisco. Di solito, nella cappella. Quando hanno mangiato, si sono lavati e cambiati i vestiti, allora li chiamo. La prima cosa che dico loro è: “Com’è andato il viaggio fino a qui?”. E poi: “Alzi la mano chi viene dall’Honduras. Chi dal Guatemala. Chi dal Salvador”. E così via. In questo modo mi rendo conto che gruppo è. E ancora: “Alzi la mano chi è cristiano evangelico”. A chi l’ha alzata dico di presentare la sua chiesa con il nome. Ad ogni chiesa diamo un applauso. Sì, è un modo per riconoscere che il loro cammino è corretto. E che siamo fratelli nella fede. Poi faccio lo stesso con i cattolici. Infine, dico: “Alzi la mano chi non ha nessuna chiesa o religione”. E anche qui molti alzano la mano. Poi chiedo cosa è accaduto durante il viaggio. Mi faccio dire se già hanno presentato la propria denuncia o ancora no».

A che denuncia si riferisce?

«La legge dice che se un migrante è stato vittima di un delitto, deve avere un visto umanitario. Identicamente se nel suo paese è perseguitato o se il suo paese è luogo di violenza. Il nostro ufficio di registrazione valuta la condizione giuridica di ogni persona che arriva. E prima ancora la sua condizione psicofisica: se una persona ha bisogno di cure, viene mandata in infermeria. Se presenta problemi emozionali per ciò che ha passato, viene mandata dal gruppo degli psicologi».

A parte lei, quante sono le persone che fanno funzionare l’Albergue?

«Abbiamo uno staff di otto persone stabili. Però siamo aiutati da numerosi volontari che provengono da tutto il mondo. Addirittura dalla Cina e dall’Australia. E?moltissime persone che arrivano dall’Europa».

Narcos e migranti

Quando e perché i cartelli della droga – i cosiddetti narcos – hanno iniziato a interessarsi ai migranti?

«Tutto è cominciato con Felipe Calderón, il precedente presidente, che fece una guerra insensata (e perdente) al narcotraffico (121 mila morti e 26 mila scomparsi tra il 2006 e il 2012, ndr). Questa guerra provocò la decapitazione di alcuni cartelli e una spoliazione di altri, tra cui los Zetas.

Questi ultimi rimasero senza liquidi per pagare la droga. La droga non si può pagare a credito: va pagata immediatamente. Dunque, los Zetas pensarono di ricavare denaro dai migranti. Sapevano che essi non posseggono nulla, ma hanno amici e familiari negli Stati Uniti. Cominciarono dunque a sequestrarli e a chiedere un riscatto. In pochi mesi riuscirono a estorcere milioni di dollari.

Oltre al riscatto, capirono presto che dai migranti si poteva ottenere di più: con la prostituzione, lo sfruttamento del lavoro, il traffico di organi».

Quanti cartelli sono coinvolti?

«Principalmente los Zetas e in misura minore il cartello del Golfo. Gli altri non si sa, ma certamente non trafficano con i migranti in maniera sistematica».

Autorità criminali

E le autorità messicane che fanno?

«Sono parte del business. Chiaro! Gli agenti di migrazione, i poliziotti, i politici di qualsiasi livello sono complici, soprattutto nel caso dei migranti. Sanno che è una fonte di denaro facile e molto grande. Io sono solito definire il mio governo come una “narcocleptocrazia”. I narcos hanno infiltrato tutte le istituzioni messicane. È raro – io non ne ho mai conosciuti – trovare un politico o un funzionario che non rubi».

Anche Enrique Peña Nieto, il presidente del suo paese?

«Quel signore è il più corrotto. In questo momento ha un grado d’accettazione da parte della popolazione messicana del 9 per cento! È un ripudiato».

Che pensa di Donald Trump, presidente del paese che è nei sogni dei migranti?

«Trump è un pover’uomo. L’unica cosa che ha è il denaro. Ha vissuto per accumulare denaro ma non potrà portarlo con sé».

Viaggiare sulla «Bestia»

Da noi ci sono le carrette del mare o i gommoni, da voi c’è La Bestia.

«Hanno cominciato a chiamarla La Bestia perché è un treno merci (de carga), non deputato a trasportare persone. Per questo i migranti viaggiano sul tetto o negli angusti spazi tra i vagoni. Per 12-13-14 ore.

Possono capitare molti incidenti, soprattutto se le persone si addormentano. O quando salgono gli uomini del crimine organizzato che li buttano giù se non pagano.

Il treno parte dal Sud, dal Chiapas, circa un’ora dal Guatemala. Ha differenti ramificazioni (cartina a pagina 54, ndr) e può arrivare fino a Mexicali o Ciudad Juarez, al confine con gli Stati Uniti».

I messicani negli Usa

Anche lei frequenta il (presunto) paradiso statunitense?

«Sì, viaggio negli Stati Uniti 4-5 volte all’anno. Per incontrare gruppi di emigrati, per capire come sta andando o cosa possiamo fare per i loro diritti. Sono oltre 34 milioni i messicani che vivono là legalmente. E 6 milioni che non hanno documenti. Tutti costoro inviano denaro in Messico. L’ultima cifra parla di 27.000 milioni di dollari in un anno. Per questo dico che, dopo il narcotraffico, le rimesse sono l’entrata maggiore per il paese».

Il diritto a emigrare e il modello capitalistico

Padre, in Italia e in Europa si litiga sui migranti che dovrebbero essere accolti e quelli che andrebbero respinti. Secondo lei, esiste un «diritto a emigrare»?

«Io credo che ci sia un diritto a non emigrare quando ci siano tutte le giuste condizioni di vita nei luoghi d’origine. Tuttavia il sistema capitalista ha fatto a pezzi le condizioni di vita nei paesi d’origine dei migranti: per la violenza, per la mancanza di lavoro, per l’assenza di una possibilità di sviluppo per i giovani.

I movimenti migratori sono sempre esistiti. Però è la prima volta nella storia dell’umanità che le migrazioni sono dal Sud al Nord. Storicamente sono sempre state all’opposto: dal Nord al Sud».

In tutto il mondo le migrazioni e i migranti sono il problema del secolo. Cosa si può fare, padre?

«Se siamo d’accordo che il problema è strutturale, cioè che nasce dal sistema liberal-capitalista, allora l’unica soluzione è cambiare il modello. Di sicuro non si può continuare così.

Non è possibile avere il 99 per cento della popolazione mondiale che vive con le briciole lasciate cadere dall’1 per cento della popolazione».

Da chi vengono le minacce

Lei usa sempre parole molto forti, senza edulcorare le situazioni.

«Uso parole molto forti perché la realtà è molto forte. Occorre dire le cose chiaramente».

Ha paura per la sua vita?

«Io ho paura per il Messico. In questo momento abbiamo vari governatori nelle carceri, altri espatriati. Non uno. Tanti. (Erano 16 ad aprile 2017 su un totale di 32, ndr)».

Però ha subito minacce ed aggressioni fisiche.

«Preso a botte, certo. Ma anche incarcerato due volte. Il 24 giugno del 2008 tentarono di bruciare me e il rifugio. In un’altra occasione il sindaco e la giunta municipale mi chiusero dentro per 7 ore dicendo: “Tu da qui non esci fintantoché non firmi che chiuderai il rifugio”. Risposi: “Puoi amazzarmi se vuoi, ma io non firmerò nulla. Questa è una proprietà della chiesa cattolica”.

La sera di quello stesso giorno arrivarono gruppi di migranti. Dissi al sindaco: “Se succede qualcosa ai migranti o a membri della mia équipe, io la denuncerò”. “Lei mi sta minacciando”, disse costui. “La pensi come vuole”, risposi io».

Tuttavia, quella volta non furono i narcos. Furono le autorità!

«Perché c’è forse differenza?».

Non c’è differenza?

«Certo che no! Sono la stessa cosa! Non puoi dire qui sta il crimine organizzato e qui l’autorità. Noooo».

Questo è molto triste.

«Tristissimo. Il Messico sta vivendo una situazione molto difficile. Di decadenza totale».

«Io non sono solo»

Nonostante da anni sia costretto a vivere sotto scorta, lei appare molto sereno.

«Io sono un uomo di fede. Gesù continua ad ispirarmi. Mi sento molto orgoglioso di essere battezzato, di essere una persona consacrata, missionaria, itinerante del regno di Dio. Io non sono solo».


Si definisce «migrante» la persona nata in un paese diverso da quello di residenza e che ha lasciato volontariamente il proprio paese d’origine. Sotto questa definizione, sarebbero 244 milioni i migranti nel mondo5.

A questa cifra ne va affiancata un’altra: quella che riguarda le persone che sono state obbligate a lasciare le proprie case. Questa condizione riguarderebbe 65,6 milioni di persone, così distinte: 22,5 milioni di rifugiati, 2,8 milioni di richiedenti asilo e 40,3 milioni di sfollati interni6.

Migranti, rifugiati, richiedenti asilo, sfollati interni: in qualsiasi parte del mondo il fenomeno si presenti, sorgono problemi.

Personaggi come padre Alejandro Solalinde sono encomiabili per l’opera che svolgono e veramente meriterebbero il Nobel, ma la questione di fondo è epocale e al momento all’orizzonte non s’intravvedono soluzioni indolori.

Il diritto a non emigrare – ovvero il diritto a restare a casa propria – sarebbe l’unica, vera soluzione. Ma rimane un obiettivo difficile e molto lontano. Significherebbe assicurare a ogni persona cibo, lavoro, casa, educazione, sanità, pace. Un sogno che l’attuale sistema economico e politico non pare intenzionato a considerare.

Paolo Moiola

Note

(1) Rapporto paese dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim, agenzia dell’Onu).
(2) Dato riferito agli «omicidi volontari». Nel 2015 in Italia gli omicidi volontari sono stati 469.
(3) Questi dati sono confermati da varie fonti tra cui: istituto Imco, istituto pubblico Coneval, Sistema Nacional de Seguridad Pública (rapporto del 20 giugno 2017).
(4-5) Fonte: «International Migration Report 2015», Nazioni Unite.
(6) Fonte: rapporto «Global Trends. Forces Displacement in 2016», Unhcr.

L’articolo completo con le cartelle statistiche si trova sullo sfogliabile:

Foto

* Mauro Pagnano è nato a Napoli. Laureato in giurisprudenza, vive a Caivano nel cuore di quel territorio tristemente noto come Terra dei Fuochi. È proprio con un progetto sulla Terra dei Fuochi che comincia a fotografare e a pubblicare su testate nazionali e straniere. I suoi lavori sono realizzati in collaborazione con l’agenzia di comunicazione sociale di cui è socio, «La Etiket Comunicazione», che opera in un bene confiscato alla camorra a Casal di Principe. In Messico ha seguito la rotta dei migranti dal confine con il Guatemala fino al Centro Nord. Il progetto è ancora in itinere.

Archivio MC

Tra gli articoli sui migranti centroamericani e messicani verso gli Stati Uniti segnaliamo:

Documentari

Sulla tematica sono visibili su YouTube numerosi documentari tra cui:

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=r_s6HOYo6SI?feature=oembed&w=500&h=281]

Videointervista

Un ampio stralcio della videointervista a padre Alejandro Solalinde – arricchita con inserti filmati sull’Albergue e La Bestia – è visibile su YouTube sul canale di Paolo Moiola: www.youtube.com/user/pamovideo.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=S3rGfU-avxo?feature=oembed&w=500&h=281]




Malaria: Zanzare e plasmodium, una coppia pericolosa


Prevenibile, curabile ma mai debellata. È la malaria, una patologia che riguarda il 40% della popolazione mondiale. Si calcola che i morti da essa provocati, pur in diminuzione, siano ancora quasi 500 mila all’anno, la maggior parte in Africa e per due terzi bambini. In questi ultimi mesi di malaria si è tornato a parlare perché ha ucciso anche in Italia. Considerato il rapido cambio climatico e la crescente mobilità delle persone, il pericolo malaria (e non solo) ci accompagnerà a lungo.

Malaria, il nemico che abbiamo sempre avuto vicino ma non abbiamo mai voluto conoscere veramente, perché non ci riguardava. Interessava solo il 40% della popolazione mondiale, qualche miliardo di persone: «gli altri», tutti abbastanza lontani da noi. Sì, vedevamo tutte queste persone sofferenti ma erano solo foto su riviste missionarie o parole nei racconti dei missionari. Ci davano un po’ fastidio e, quindi, erano da rimuovere dal nostro orizzonte. Ma eccola qui – addirittura nella nordica Trento (settembre 2017) -, la malaria prepotentemente sulle prime pagine dei giornali nostrani, il nemico da distruggere senza sentire il bisogno di capire e scacciando l’idea che ormai c’è e la terremo a bada, ma non la elimineremo più con facilità. Chi scrive è un missionario portatore sano del plasmodium della malaria con cui convive da 42 anni.

La malaria (anche) in Italia

L’origine della parola «mal aria» lascia facilmente capire da dove deriva: la credenza che questa malattia fosse causata dai miasmi delle paludi. Col tempo tutto è stato provato ed il ciclo della malaria col suo agente patogeno – il plasmodium –  è stato ben compreso. Le tonnellate di Ddt sparse dagli americani con il piano della fondazione Rockefeller (1925-1950, in particolare in Sardegna, ndr) hanno effettivamente debellato la malaria ma certo non ha sterminato tutte le zanzare Anopheles che possono portare nuovamente la malattia.

Già nell’anno 1970 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) aveva dichiarato l’Italia «libera da malaria» di origine autoctona. Ecco perché – oggi – ci sono così tanti sforzi nel provare che l’origine di questi casi è esterna all’Italia. Tenendo conto che il periodo di incubazione è da una a due settimane, si può risalire facilmente al luogo di infezione senza doversi arrampicare sui vetri alla ricerca di ragioni fantascientifiche. Se viene appurato che l’origine è autoctona, perderemo lo stato di Malaria free zone. Il metodo del «rasoio di Occam» ci può aiutare anche qui: la spiegazione più semplice è quella vera.

Cosa ci portano le zanzare (le Anopheles e le altre)

Ma che cosa è la malaria? Su qualunque motore di ricerca di internet si trovano valanghe di informazioni, anche contrastanti, ma la realtà è molto semplice. La colpevole è sempre lei, la zanzara femmina del genere Anopheles, di cui esistono almeno 82 specie nel mondo. Se infettata dal plasmodium può procurare la malaria i cui segni clinici sono molto diversi a seconda degli individui, ma a tutti causa febbri alte a intermittenza, sudorazione, vomito, diarrea, tosse etc. Intanto, altre zanzare ci portano altri parassiti: la zanzara tigre ci porta la chikungunya, un virus abbastanza debilitante (che molti missionari già conoscono per esperienza diretta); la culex ci regala la filaria; la aedes porta la febbre gialla.

Cosa succede quando una zanzara infetta ci punge? Intanto la zanzara ci punge per succhiare il nostro sangue così ricco di elementi essenziali utili al suo organismo che deve produrre uova per continuare la propria specie, e non per darci la malaria di cui soffre comunque anch’essa.

La prima fase dell’operazione avviene così e spiega perché non ci accorgiamo della sua puntura fin dopo che abbia fatto il suo lavoro ed è proprio in questa fase che ci passa il plasmodio. Ecco il contatto zanzara-uomo in 4 fasi:

Fase 1: la zanzara non ci vede ma segue la traccia di anidride carbonica che ci lasciamo dietro.

Fase 2: la zanzara si posa sulla pelle e attraverso due palpi laterali allo stiletto sente la presenza dei vasi sanguigni.

Fase 3: la zanzara rigurgita un liquido anestetico che le permette di introdurre il suo stilo senza che sentiamo dolore fino ad operazione fatta.

Fase 4: lo stilo è in posizione e l’operazione pompaggio del sangue comincia fino a sazietà.

Una profilassi alla puntura sta nel- l’ingoiare vitamine del gruppo B6 che impartirebbe al corpo un odore che dispiace alla zanzara. Non si sa se funzioni o meno ma certamente questa idea non spiace all’industria farmaceutica.

Le fasi del plasmodio sono tre: fase schizogonica, gametogonica e sporogonica. A ognuna di queste fasi corrispondono delle caratteristiche che aiutano gli specialisti a diagnosticare quale sia il problema.

Il plasmodium in azione

Il plasmodium iniettato dalla zanzara entra nei globuli rossi e comincia a crescere e dividersi aumentando in numero e volume finché non causa la rottura della membrana del globulo rosso infestando il sangue, lo stesso sangue che sarà risucchiato da altre zanzare e verrà rimesso nel sangue di qualche altra persona (grafico a pag. 64).

Questa perdita di globuli rossi, portatori dell’ossigeno indispensabile a ogni cellula, causa una sua mancanza e quindi limita la produzione di energia, determinando un calo delle prestazioni fisiche. La presenza di globuli rossi deformati per la presenza del plasmodio (foto), causa anche un blocco della circolazione capillare, a volte nel cervello, causando il coma cerebrale. Inoltre la rottura della membrana dei globuli rossi ed il riversamento del plasmodio causa una reazione del corpo che produce febbre alta e altri sintomi. In una persona sana e senza problemi, qualche iniezione di norma non provocherà una malaria conclamata, ma molte infezioni successive su un soggetto debole, bambini o malati, può portare a malarie serie.

Le specie di plasmodium

Anche nel genere plasmodium vi sono diverse specie, se così si può dire, che vengono diagnosticate in laboratorio con metodologie differenti. Il falciparum è la specie più pericolosa e procura la malaria maligna o terzana maligna, seguito dalla specie vivax della terzana benigna, che è più clemente. Altre due specie sono la malariae e l’ovale.

Se non bastasse, a volte vi sono infezioni miste con i vari tipi. Le diverse specie sono poi individuate con strumenti di vario genere: alcuni noti da molto tempo come la colorazione a base di eosina e metilene, altri con le tecniche più evolute basate sulla immunologia e biologia molecolare.

In pratica, la diagnosi con coloranti viene fatta leggendo uno striscio di sangue del paziente a cui sono aggiunti i reagenti sotto un microscopio con illuminazione naturale o attinica.

Per le diagnosi rapide si usano strisce immunologiche di riconoscimento rapido, utilizzabili sul campo e senza microscopio, usabili da chiunque, anche dal paziente stesso.

Ultimamente si procede alla tipizzazione del ceppo di plasmodio con l’uso del Pcr (Polymerase chain reaction) che però richiede tempo, personale specializzato e ingenti risorse economiche.

Negli screening di massa si vogliono esaminare molti esemplari in poco tempo ed allora l’uso dell’acridina arancio con il microscopio a luce ultravioletta rende l’esame molto semplice anche se non molto accurato. L’acridina arancio è un colorante che si fissa agli acidi nucleici facendoli brillare di arancio sotto il microscopio come se si guardasse a un cielo stellato. La presenza di acidi nucleici nell’emoglobina è la spia che fa capire che qualcosa non funziona dal momento che l’emoglobina matura e funzionante è priva di nucleo e quindi di acidi nucleici. Se c’è del Dna o Rna appartiene a qualcun altro, ad esempio al plasmodio.

Altri strumenti di diagnosi

Nella diagnostica si è aggiunta un’altra tipologia di strumenti, gli immunoreagenti (Malaria Antigen Detection), una paletta intrisa di reagenti i quali, se c’è o c’è stata recentemente malaria, cambiano colore dopo una reazione col plasma del paziente. Il beneficio sta nel vedere subito il risultato senza bisogno di un microscopio ma il lato negativo sta nel fatto che anche una malaria già superata viene interpretata come malaria in atto.

Altro beneficio nei paesi malarici è che le strisce sono liberamente reperibili nelle farmacie o parafarmacie a basso prezzo e si possono usare da chi non ha alcuna preparazione, basta una goccia di sangue periferico posta in un pozzetto e – voilà – una riga rossa appare in caso di risultato positivo di malaria, o non cambia niente se non c’è malaria. Esame indiretto perché non cerca il parassita ma la sua reazione biochimica nel plasma, ma è parzialmente specie-specifico distinguendo tra falciparum e le altre.

Ultimo sistema che discrimina le varie forme specifiche, è il Pcr o «Reazione a catena della polimerase». Dopo avere ben frantumato in laboratorio una porzione di sangue del paziente, si aggiunge un «primer» con la sequenza del codice genetico proprio dell’organismo che si vuole rilevare, se c’è, allora le porzioni vengono moltiplicate all’inverosimile fino a fare diventare rilevabile da macchine la presenza del Dna del plasmodio. Procedura molto sofisticata e sicura ma non veloce ed ancora molto dispendiosa.

Riscaldamento globale e mobilità umana

In ogni caso, meglio evitare la malaria che curarla. Come fare? Mentre ai tropici politiche sanitarie stanno abbassando il numero di infezioni, nel nostro mondo appaiono le prime forme autoctone. Come è capitato? Ancora non si sa bene, ma tante sono le cause di questo fenomeno – ad esempio, il riscaldamento globale e la mobilità delle persone -, che ci metteranno davanti al fatto compiuto e cioè che abbiamo in casa la malaria, la chikungunya (tre casi ad Anzio a settembre, ndr), la filaria e magari la febbre gialla etc. e dovremo prendercene cura.

Nei paesi tropicali si sono avuti risultati immediati e incontestabili attraverso l’uso di zanzariere poste sui letti. Con meno punture ci sono meno infezioni della zanzara e quindi meno zanzare infette. L’eliminazione di pozze di acqua stagnante è di aiuto. La Anopheles, a differenza della Culex, depone solo in pozze di acqua pulita per cui è tassativo eliminare i terreni di deposizione delle loro uova. La lotta biologica è promettente. Questi insetti sono divorati da diversi volatili e chirotteri per cui eliminando uccelli insettivori, come le rondini e i pipistrelli, aumenterà la popolazione delle zanzare.

Dal chinino ad oggi: i farmaci in commercio

La cura della malaria ha avuto vicende alterne con un inizio in cui si usava il chinino, molto efficace ma molto tossico per gli effetti collaterali sulla vista e l’udito etc. I nostri vecchi ancora ricordano le insegne sulle tabaccherie ove si leggeva «Sale e Tabacchi e Chinino di Stato». Quelle pillole rosa che anche i nostri vecchi missionari si portavano dietro in caso di attacchi di malaria e quando questo finiva, c’era sempre un fusto di acqua in cui immergersi per abbassare la temperatura corporea. Favola? No. Questo me lo ha certificato il compianto padre Giovanni Borra, uno dei nostri primi missionari in Tanganyika (l’odierno Tanzania).

Dopo il chinino è arrivata la Clorochina che prendevamo in quantità industriale e che ci faceva diventare temporaneamente strabici o peggio. La clorochina per lo meno era un cloridrato, cioè solubile e fosfato, quindi passava la barriera intestinale per andare là dove ce ne era bisogno.

Ancora non avevamo tenuto conto dell’evoluzione del plasmodio che divenne immune alla clorochina. Vennero quindi usate le pirimetamine, Metakelfin e famiglia, a cui il plasmodio era suscettibile. Ma anche qui la festa non è durata molto perché la pirimetamina è tossica sul fegato dove per forza doveva agire per debellare anche le spore del plasmodio. Che fare?

Ora le Asl propongono il Malarone, un estratto purificato della pianta Artemisia annua coltivata anche nelle nostre missioni. Abbastanza efficace ma costosa e deve essere assunta ogni giorno senza peraltro continuare dopo i trenta giorni, data la lieve tossicità. In sostanza, una medicina per turisti. Altra molecola proposta è la Meflochina o Lariam. Usata in ragione di una pillola settimanale durante la permanenza in zone malariche. La si trova a costi mantenuti ed a quel dosaggio non dà molti effetti collaterali, ma in dosi terapeutiche … meglio la malaria, parola mia.

Nonostante tutto, le Asl si premurano di dire: «Non esiste un farmaco antimalarico che possa dare la certezza assoluta di non venire contagiati, ma un’assunzione regolare permette nella peggiore delle ipotesi di prevenire almeno gravi complicazioni». Alla luce di questa considerazione, oltre a usare i farmaci, occorre quindi prendere misure precauzionali personali (ad esempio: spray repellenti, maniche lunghe, pantaloni lunghi, dormire in un luogo protetto dagli insetti oppure usare una zanzariera trattata con insetticida).

No isterismi, sì prevenzione

Nella nostra esperienza abbiamo visto malarie contratte da ospiti e turisti che hanno seguito alla lettera le norme di prevenzione, ma al loro ritorno in patria hanno manifestato la malaria. La prima prevenzione è essere attenti senza giungere all’isterismo su cui le compagnie farmaceutiche fanno molto affidamento.

Altro consiglio ai nostri governanti: perché non possiamo fornire a tutti i centri di salute in Italia l’umile striscia per la ricerca veloce della malaria? Un piccolo passo non eccessivamente costoso che, oltre a portarci avanti sulla strada della prevenzione, ci darebbe anche un certo senso di sicurezza in più.

Spero che queste note, frutto dell’esperienza di 40 anni di continua permanenza in Africa, di cui 13 come direttore di una scuola di diagnostica e come insegnante di biologia molecolare, possano aiutare a dipanare questa matassa così confusa.

Se può essere di consolazione, è esperienza comune che, dopo 5 anni di permanenza e contatto con la malaria, si diventa quasi immuni e le ricadute malariche si manifestano come una fastidiosa influenza con caduta di tono e stanchezza da curarsi con il riposo. I fatti di queste settimane dimostrano quanto la mala informazione o la disinformazione siano pericolosi.

Angelo Dutto




Islam: Finché il jihadismo rimane «halal»


Eravamo stati a Manchester, prima dell’attentato jihadista dello scorso maggio (che ha fatto 22 morti). Qui avevamo incontrato molti giovani libici dalle esistenze complicate e dalla testa confusa. Oggi tanti quartieri delle città inglesi sono degli stati nello stato, delle realtà parallele, aliene dal mondo circostante. Rappresentano visivamente il fallimento dell’integrazione. E un futuro di incertezze e paure. Come anche Barcellona (con 16 morti) dimostra.

Manchester, settembre 2015. Arrivo in città in autobus, da Londra. Ho appuntamento per interviste con alcuni simpatizzanti e ex combattenti libico-britannici e libico-irlandesi, contigui a movimenti dell’islamismo politico, in un quartiere ad alta densità di immigrati musulmani. Mentre mi dirigo verso il luogo dell’incontro, d’improvviso mi sembra di essere catapultata a Islamabad, a Kabul o chissà dov’altro, ma non certo in Gran Bretagna. È una sensazione strana, di proiezione spazio-temporale in realtà lontane migliaia di chilometri. Donne, uomini, bambini di varie provenienze geografiche, indossano abiti delle loro tradizioni islamiche locali, e veli di ogni tipo, dallo hijab fino al niqab1. Sono rare le apparizioni di giovani non in abiti lunghi o foulard. I ragazzini, anche loro in vestiti tradizionali, si recano nelle scuole coraniche. Noto uomini, tra cui molti africani subsahariani, con lunghe barbe, tipiche di chi si riconosce nelle dottrine neo salafite, cioè di un’interpretazione radicale dell’islam, spesso politicizzata. I negozi, i ristoranti, i supermercati sono tutti «halal», cioè «islamicamente leciti»: sono pachistani, mediorientali, turchi, indiani, ecc. La varietà delle lingue che si sentono va dall’urdu, all’arabo, al turco, in quanto l’inglese è semisconosciuto, come mi dimostra il cameriere del bar dove mi siedo ad aspettare i miei interlocutori.

A Manchester sono numerose le moschee, le scuole coraniche e i centri islamici dove viene diffusa la dottrina neo salafita. Interi quartieri della città, ma anche di Londra e di altre aree della Gran Bretagna, sono state trasformate in ghetti di cittadini musulmani provenienti da paesi, culture e tradizioni totalmente diverse e spesso «nemiche» tra loro, che vanno ad aumentare la tensione sociale.

Manchester, il «melting pot» e il suo fallimento

Se è vero che barba e abito non fanno il monaco, è anche vero che la concentrazione di persone con stili e visioni della vita, dei rapporti umani e sociali totalmente e intenzionalmente alieni rispetto a quelli della società ospite, può essere un vero azzardo. È permettere uno stato nello stato. Una realtà parallela. E in questa città, perlomeno in certe zone, è ciò che si percepisce in modo molto forte: il fallimento del melting pot (da non confondersi con l’assimilazione, retaggio coloniale francese) e della cittadinanza paritetica, dove il cittadino immigrato o di seconda-terza generazione viene integrato nel tessuto sociale, relazionale e lavorativo del luogo di residenza, pur mantenendo radici religiose e culturali proprie.

Girando per queste aree di Manchester ho la sensazione che ci sia una bomba ad orologeria pronta a esplodere alla prima occasione, innescata da un forte detonatore sociale e politico fatto di rabbie represse (per le politiche coloniali passate e neo coloniali presenti della Gran Bretagna in molti dei paesi di provenienza dei cittadini immigrati), di fallimenti esistenziali e sociali, di debolezze umane, a cui si aggiunge il fenomeno socio-politico dei cosiddetti «jihadisti» che ritornano da fronti bellici, ad esempio di Libia e Siria. Si tratta di cittadini britannici, britannico-arabi o arabi che in Libia hanno collaborato anche con le forze Nato e occidental-arabe, o che sono passati dai campi di addestramento di al-Qa’ida e del Daesh, dove hanno appreso tecniche della guerriglia urbana, della dissimulazione tra la folla di inermi cittadini, della costruzione di ordigni e altro ancora, pronti all’azione in Europa, in Nordafrica o Medioriente.

A Manchester, come in altre città britanniche, è facile, infatti, incontrare giovani e adulti di varie origini geografiche uniti da quella dottrina politica radicale che è stata sostenuta, armata, finanziata dall’Occidente e da certi paesi del Golfo, Arabia Saudita in primis. Spesso si tratta di giovani esaltati, depressi, borderline, mal integrati oppure cittadini e studenti di classe media, ma con problemi di inserimento sociale. Ne parla diffusamente una ricerca di un gruppo di psichiatri, sociologi, antropologi e giuristi francesi2. Ciò che accomuna tutti, spesso, è la rabbia per l’ingiustizia, il fallimento sociale, cui si aggiungono il vuoto esistenziale, la fragilità o instabilità psicologica. Su questi individui fanno particolare presa i predicatori radicali, che li indottrinano in centri islamici o, sempre più spesso, via web. Le prediche infuocate (non molto diverse nei modi da quelle di certi evangelici in America Latina) canalizzano la loro collera e delusione, dirigendola verso obiettivi politici e concreti, dando un senso di missione e dunque di scopo nella vita3.

Le testimonianze che raccolgo durante il mio soggiorno a Manchester vanno in questa direzione, anche se i miei intervistati non sono giovani che hanno commesso atti di terrorismo in Europa.

Riscoperta della fede islamica e «rinascita»

Yusuf è un ragazzo simpatico, sembra più giovane dei suoi 23 anni. È figlio di madre irlandese e padre libico, e vive a Manchester da qualche anno. Il marito di sua sorella è un famoso combattente libico che partecipò, nel 2011, alla rivolta contro Muammar Gheddafi, e appartenente al Lifg  – Libyan Islamic Fighting Group – un gruppo di al-Qa’ida. Yusuf e suo fratello maggiore, Sami, hanno avuto un’infanzia difficile, a causa di problemi familiari e sociali, che li hanno resi, in certi momenti, dei borderline. Entrambi hanno preso parte alla guerra contro il regime libico, a fianco della Nato, nel 2011, e insieme a gruppi dell’islamismo politico. Durante l’addestramento nei campi militari in Libia, hanno riscoperto la fede e sono «rinati», come raccontano i due giovani. Yusuf è tornato a vivere in Inghilterra, e ogni tanto va in Libia a trovare la famiglia, mentre Sami vive a Tripoli, dove ha trovato lavoro come reporter.

Casi come quello dei due fratelli di Manchester sono numerosi, ormai, nel panorama europeo. Tuttavia, il loro esito esistenziale e lavorativo è differente da altri che, lasciando i campi di addestramento e la guerriglia, si sono trasformati in «jihadisti di ritorno», come la cronaca degli ultimi sei anni purtroppo ci mostra.

Manchester-Libia: andata e ritorno

Manchester, 23 maggio 2017. Alle 22:30 esplode una bomba all’arena cittadina affollata di adolescenti che assistono al concerto di una famosa star dei teenager. È una strage degli innocenti. I video mostrano in tutto il mondo gente presa dal panico: bambini e genitori che cercano le uscite di sicurezza, urlando terrorizzati. Un kamikaze s’è fatto esplodere in mezzo ai ragazzini. È Salman Abedi, 23 anni, cittadino britannico, figlio di genitori libici oppositori del regime di Gheddafi. Ultimo di quattro fratelli tornati in Libia con padre e madre, Abedi era iscritto all’università Salford di Manchester, ed era noto alle forze dell’ordine e dell’intelligence, secondo quanto ha affermato la polizia.

Nei giorni successivi all’attacco, The Independent e The Guardian spiegano, riferendo testimonianze e dichiarazioni di compagni di università e testimoni, che Abedi era appena ritornato dalla Libia, paese dove qualunque potenziale jihadista terrorista può trovare campi di addestramento. Il giovane faceva la spola con la Libia. Come consueto, il Daesh rivendica anche quest’ultimo orrore.

Il legame tra Manchester e la Libia è molto forte, in quanto la città britannica ospita migliaia di libici e relative famiglie che hanno svolto un ruolo importante nella rivolta contro Gheddafi, nel 2011. Diversi di questi erano collegati al Lifg4.

Le guerre in Libia e in Siria hanno scatenato un Vaso di Pandora: la promiscuità con dottrine radicali violente e un «humus» umano potenzialmente esplosivo fatto di tanti soggetti, gruppi, «società» parallele e poco o per nulla comunicanti e integrate.

Esiste ormai una fitta e dettagliata documentazione, anche di dispacci di intelligence desecretati, che evidenzia la collaborazione tra combattenti radicali, la Nato e alcuni stati europei come Francia e Gran Bretagna, e il ruolo di movimenti dell’islamismo politico nelle cosiddette primavere arabe5. Uno degli effetti di tali partnership, oltre alle evidenti destabilizzazioni regionali e locali, è il fenomeno del «jihadismo di ritorno», cioè di giovani combattenti indottrinati e addestrati nei campi militari in Libia o in altri Stati arabi, finanziati dalla Cia e da altre agenzie e dai paesi del Golfo, e tornati nel proprio paese o in quello di residenza, e poi coinvolti in attacchi terroristici.

Cui prodest?

Come detto, Salman era britannico: nato nel 1994 a Manchester da genitori libici.

«Suo padre, Ramadan Abedi, era un ufficiale dei servizi segreti libici, prima di essere reclutato dagli inglesi – scrive il sito Vietatoparlare.info6 -. La sua copertura fu bruciata accidentalmente da un parente della moglie, Samia Tabal, poco dopo il fallimento di una vasta cospirazione dell’esercito libico per uccidere Muammar Gheddafi. Quest’ennesima congiura contro Gheddafi innescò non solo una delle più grandi purghe nei servizi di sicurezza, ma la dissoluzione delle Forze Armate libiche, sostituite da ciò che Gheddafi chiamò “popolo in armi”, concetto vagamente ispirato ai sistemi svizzeri e svedesi di difesa logistica e che si rivelerà fatale nel 2011, quando la Libia fu attaccata dalla Nato. Fu il servizio segreto inglese che si occupò dell’esfiltrazione o fuga della famiglia Abedi dalla Libia. Ufficialmente, Abedi fuggì dalla dittatura di Gheddafi rifugiandosi nel Regno Unito. Gli Abedi risiedettero prima a Londra, per poi trasferirsi nel sobborgo di Manchester dove risiedettero per oltre un decennio. Come molti giovani delle periferie delle città europee, Salman crebbe senza riferimenti e mostrò particolare entusiasmo verso la cosiddetta “primavera araba” al punto di voler unirsi ai ribelli libici. Ciò naturalmente attirò subito l’attenzione dei servizi segreti inglesi responsabili della perlustrazione della periferia cercando candidati disposti a sacrificarsi in battaglia contro i nemici di Sua Maestà, in nome di Allah. (…) La polizia inglese rivelava rapidamente l’identità del presunto terrorista, suggerendo che non fosse solo conosciuto, ma supervisionato dagli agenti che seguivano l’ambiente da cui proveniva».

La lunga citazione solleva vari interrogativi. Questi giovani esaltati sono «asset», strumenti umani da utilizzare all’occorrenza? Si tratta, come abbiamo visto, di persone note, che hanno partecipato a rivolte arabe, che entrano e escono dai paesi dove risiedono e da quelli dove vanno a fare il «jihad» per anni appoggiato dall’Occidente.

Ora, l’aver pensato che questi giovani – con la loro visione radicale e estrema di una politica religiosizzata o di una fede politicizzata, condita con problemi sociali e personali – non costituissero un «problema» anche in loco, è davvero poco credibile.

L’esito, come sempre, è la morte di innocenti. Nel caso di Manchester, adolescenti e bambini.

Al di là dell’orrore e della rabbia che tali azioni suscitano, dovremmo continuare a porci la sana domanda: cui prodest?

Angela Lano
(quarta puntata – continua)

Note

(1) Lo hijab è il foulard che copre il capo incorniciando il viso; il niqab è il velo nero integrale, che copre anche il volto lasciando scoperti solo gli occhi.

(2) Fonte: Dounia Bouzar. Link: http://www.bouzar-expertises.fr/metamorphose

(3) Dossier MC, Sventola bandiera nera 2, marzo 2016.

(4) Fonte: Jon Sharman, Kim Sengupta, Salman Abedi: Police probe Libyan links of Manchester bomber who killed 22, 23 maggio 2017, www.independent.co.uk/

(5) Nelle prossime puntate parleremo dei casi della Tunisia e della Libia.

(6) Fonte: L’attentatore di Manchester era vicino ai servizi segreti inglesi, 24 maggio 2017, www.vietatoparlare.it (traduzione di un testo apparso su strategika51.wordpress.com).

 

 




Colombia: Nel Caquetá la pace passa per la scuola


In un luogo dove meno te lo aspetti, alle porte di una cittadina amazzonica, sorge una scuola molto particolare. I suoi studenti provengono da sperduti villaggi e hanno vissuto la guerra civile. Vi si insegnano materie tecniche, ma soprattutto si vuole ricostruire il tessuto sociale. E far crescere negli studenti quella cosa stupenda chiamata autostima.

Fa caldo umido a San Vicente del Caguán. Siamo nel Caquetá, uno dei dipartimenti amazzonici della Colombia. San Vicente è anche noto per essere «il comune più deforestato dell’America Latina», dicono alcuni. Il vasto dipartimento, con una superficie pari a poco meno di un terzo di quella dell’Italia, si estende dalle pendici della cordigliera orientale all’Amazzonia profonda. Qui vivono meno di mezzo milione di persone, e ben quattro milioni di vacche. Parte della foresta ha infatti lasciato il posto ad ampi pascoli. Esistono tuttavia ancora molte zone e comuni raggiungibili solo via fiume, perché non ci sono strade.

San Vicente è anche uno dei comuni colombiani che più sono stati colpiti dalla guerra civile durata 52 anni. Oggi, all’indomani degli accordi di pace firmati tra il governo del presidente Juan Manuel Santos e le Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia) il 26 settembre 2016 (si veda MC novembre 2016 e maggio 2017), si respira un’aria diversa. Da un lato c’è speranza per questa nuova opportunità di costruire e vivere in pace, ma dall’altro è forte la preoccupazione per una situazione inedita ed equilibri che stanno rapidamente cambiando. La gente, in generale, ha poca fiducia nel governo ed è sospettosa. Per questo motivo non è troppo propensa a parlare della situazione e di quello che potrebbe succedere.

Nel frattempo Álvaro Uribe Vélez, il precedente presidente (di cui Santos fu ministro della Difesa), e il suo gruppo di destra hanno fatto una massiccia propaganda anti accordi di pace, sostenendo che, grazie a Santos, le Farc hanno guadagnato molti privilegi, e saranno presto in parlamento ed eleggibili alle varie cariche amministrative.

I combattenti delle Farc stanno smobilitando (a metà giugno era già stato consegnato il 60% delle armi) e si concentrano in 23 zone e 8 accampamenti in tutto il paese. Occorre prevedere per loro un programma di reinserimento sociale, ovvero formazione, educazione secondaria e talvolta primaria, in quanto molti di loro sono nati e cresciuti nella guerriglia e quindi lontano dalle città e dai centri di educazione formale. Il «post conflitto» è ormai il termine sulla bocca di tutti gli addetti ai lavori (enti statali, Ong, organismi ecclesiali e religiosi), e la sua gestione è la sfida più importante per stabilizzare il paese con una pace vera e duratura.

Il Vicariato

A San Vicente, e nell’ampio territorio di sua competenza, il Vicariato apostolico è la struttura con maggiore autorevolezza e credibilità. Al suo capo c’è da 18 anni monsignor Francisco Javier Múnera Correa, missionario della Consolata colombiano. Durante i lunghi anni di guerra sacerdoti, suore e laici sono stati gli unici a poter intervenire sempre e ovunque nel Vicariato. Una vasta area, che nel febbraio 2013 si è divisa con la creazione del Vicariato apostolico di Puerto Leguizamo-Solano, e oggi si estende per 31.000 km quadrati (come Piemonte e Liguria insieme). Il Vicariato, grazie alla sua pastorale educativa e alla pastorale sociale, è oggi il più importante attore di sviluppo di tutta l’area del Caquetà.

«Oggi una delle grandi preoccupazioni – ci confida un operatore del Vicariato – è la cosiddetta “dissidenza”, ovvero quelle frange delle Farc che non hanno accettato gli accordi di pace, e restano in armi nella selva». In particolare, il comune di Cartagena del Chairà, sembra influenzato da questa dinamica. «Altre forze, inoltre, si affrettano a occupare i territori fino a ieri controllati dalle Farc, che ora se ne stanno andando. Qui ci sono narcotrafficanti, criminali comuni e fuoriusciti dalla guerriglia che si riciclano». Incontriamo il responsabile della pastorale sociale, padre Juan Pablo de los Rios, anche lui missionario della Consolata: «Nei prossimi anni vogliamo concentrarci su tre aree di lavoro principali: la cura della Casa comune, ovvero dell’ambiente, il cammino di perdono e riconciliazione nel post conflitto e la democrazia partecipativa. Questa è una terra di grandi profitti economici: caucciù, legname. Poi la coltivazione estensiva (illegale) della coca. E sopra tutti la deforestazione per l’allevamento estensivo di bestiame. Ma nei pressi di San Vicente c’è anche una zona di estrazione petrolifera (oggi ferma perché il prezzo del greggio a livello internazionale è troppo basso e non conviene pomparlo, ndr). Tutti fattori questi che hanno contribuito alla distruzione ambientale.

Vogliamo lavorare per formare quelli che chiamiamo “artigiani del perdono” e, inoltre, non meno importante, far assumere alla gente il ruolo che le conferisce la Costituzione, in termini di partecipazione attiva e godimento dei propri diritti».

La scuola della cittadella della speranza

A pochi chilometri da San Vicente, sulla strada per Neiva, con il fiume Caguán da un lato e circondata da una macchia di foresta dagli altri, sorge la Ciudadela Juvenil Amazonica Don Bosco. Qui le suore della Consolata stanno realizzando un’opera molto particolare.

Ci accoglie la dinamica suor Blanca Rubiela Orozco Gomez, colombiana. Una vera forza della natura.

«La Ciudadela è nata nel 1994 per volere dell’allora vescovo monsignor Luis Augusto Castro come scuola primaria e secondaria per i contadini, fondata dai salesiani – ci racconta -. Nel 2013 questi consegnarono la struttura al Vicariato, che decise di affidarlo a noi, suore della Consolata».

Da allora la Cittadella è cambiata: «La nostra missione è formare i giovani che provengono dall’ambiente rurale, ovvero quelli più emarginati e con meno possibilità di studiare». La struttura offre due corsi superiori completi, da tecnico agrario e di allevamento e trasformazione di alimenti e tecnico in programmazione di sistemi con approfondimento in umanità. Quest’ultimo corso, di avanguardia, insegna ai giovani l’utilizzo dell’informatica applicata all’agraria e all’allevamento, con lo scopo di renderli più competitivi. Per accedervi, i criteri sono molto particolari: «Essere contadino o di famiglia contadina, vulnerabile (diremmo di basso reddito, ndr) e accettare la condivisione e il desiderio di lavorare nei campi».

Mentre visitiamo la scuola, che pare un vero campus, suor Rubiela snocciola fiera i dati sulle ultime promozioni, facendo notare come si sia passati il primo anno da una trentina di studenti maschi a 50 di cui circa la metà ragazze.

Oltre alle lezioni pratiche, nella fattoria didattica i ragazzi hanno la possibilità di cimentarsi con diversi tipi di colture e allevamenti. Spicca per originalità la coltivazione del camu-camu (myrciaria dubia), frutto amazzonico ad altissimo contenuto vitaminico che viene utilizzato per produrre succhi. Gli allevamenti didattici di polli, maiali e pesci sono anche produttivi e utili per generare entrate economiche per la scuola.

Tutta una sezione è occupata dai laboratori di trasformazione alimentare, utilizzati dagli studenti per imparare a produrre formaggio, dolce di goiaba, dolce di latte, succhi e yogurt.

Cambio di livello per la scuola

Attualmente è in corso il processo di trasformazione della scuola da istituto tecnico a centro di educazione universitaria: «Stiamo facendo accordi con diverse università sia del Caquetá sia nazionali, e con il ministero dell’Educazione per elevare il livello dei nostri corsi e omologarli a programmi universitari di medicina veterinaria, ingegneria agricola e ingegneria degli alimenti».

«Qui gli studenti non pagano i corsi, perché, tranne pochissimi, non ne hanno le possibilità», racconta ancora suor Rubela. «Esistono diverse possibilità, come le borse di studio dei municipi».

Ma, spiega la suora, questa non è solo una scuola tecnica, «qui vogliamo ricostruire il tessuto sociale. Facciamo formazione umana, etica e puntiamo a sviluppare l’autostima dei nostri studenti. Per questo lavoriamo molto sull’ambiente umano e sul post conflitto».

«Ricordo un ragazzo che ha terminato l’anno scorso. Un campesino di 22 anni. Arrivò alla scuola in ritardo di due settimane. Veniva da lontano. Io lo accolsi e non gli chiesi perché. Gli chiesi se era interessato ai corsi e gli dissi di andare a lavarsi che avrebbe cominciato il giorno seguente. Mentre gli parlavo non mi guardava neppure negli occhi. Alla fine dell’anno era stato uno degli allievi migliori. Al momento di salutarci mi abbracciò forte e mi ringraziò. In quell’anno era cresciuto soprattutto il modo di vedere se stesso».

Contadini digitali

Suor Rubela è al colmo della soddisfazione quando ci presenta Alberto, un giovane (18 anni) istruttore di uno dei corsi delle «Scuole digitali contadine (Escuelas digitales campesinas)».

Il progetto è in linea con l’Action cultural popular, nata molti anni fa, che utilizzava le trasmissioni radio per l’alfabetizzazione e la formazione nelle zone più remote. «Questo è un plus fornito dalla scuola: corsi brevi per piccoli gruppi di studenti. E si svolge in parte con insegnamento in sede e in parte a distanza grazie a una piattaforma informatica». Così corsi come: alfabetizzazione digitale, leadership, conoscenza dell’ambiente, associazionismo per creare impresa, pace e convivenza, adattamento al cambiamento climatico e comunicazione e giornalismo rurale sono un fiore all’occhiello della scuola. Presto saranno anche disponibili i corsi di pesca responsabile, diritti umani nelle comunità rurali e progetto di vita in campagna.

Si tratta di corsi di perfezionamento frequentati da giovani dai 16 ai 35 anni. «Esistono accordi con i direttori di diverse scuole nel dipartimento, che ci mandano studenti meritevoli per questi corsi della scuola digitale», annuisce soddisfatta suor Rubela. La ricaduta è anche sulle comunità da cui arrivano i ragazzi, perché la metodologia prevede di coinvolgere le famiglie. Nell’anno 2015-2016 sono stati circa 2.000 gli studenti formati con le scuole digitali.

Anche monsignor Francisco Javier Múnera, amministratore apostolico del Vicariato di San Vicente del Caguán è molto soddisfatto del lavoro tecnico e umano svolto alla Ciudadela. Guarda ancora più avanti e ha in mente nuovi sviluppi. «C’è un evidente interesse del governo – ci dice -, in particolare dei ministeri dell’Educazione e del Postconflitto nella creazione di centri di formazione per gli ex combattenti». Un progetto in linea con il livello universitario, ma con corsi specifici per i guerriglieri smobilitati, in un luogo strategico dove la guerriglia ha avuto un ruolo importante e molto vicino alla realtà rurale dalla quale arrivano le ex Farc».

La pace ha molti nemici

Mentre scriviamo arriva la notizia dell’ignobile attentato realizzato con una bomba in un centro commerciale di Bogotà in un affollato sabato pomeriggio. La prima sensazione è che si tratti di gruppi che vogliono destabilizzare l’attuale governo e quindi l’importante processo di pace che ha intrapreso. L’anno prossimo in Colombia ci saranno le elezioni presidenziali. Né Alvaro Uribe né Manuel Santos si potranno ricandidare. Ma i loro gruppi rispettivi si fronteggeranno e, a seconda di chi vincerà, il processo degli accordi di pace potrebbe avere una battuta d’arresto (nel primo caso) oppure andare avanti, pur nelle molte difficoltà di una realtà così complessa.

Marco Bello


Dalla «Zona di distensione» al viaggio del Papa

Adesso occorre voltare pagina

A San Vicente del Caguán la guerra ha colpito duro. Ma è stato anche un municipio di sperimentazione sociale. Qui i missionari della Consolata sono presenti dal 1951. Incontro con il vescovo mons. Múnera.

Monsignor Francisco Javier Múnera Correa è missionario della Consolata da oltre 40 anni e da 18 è vescovo nel Vicariato apostolico di San Vicente del Caguán. Ricorda sempre con passione e nostalgia gli anni trascorsi in missione, nel Nord del Kenya. Ci accoglie sulla terrazza di casa sua, circondata da alcuni lussureggianti alberi e ci ricorda che i missionari della Consolata compiono oggi 70 anni di presenza in Colombia.

Monsignor Múnera, San Vicente è stato (un posto) molto strategico durante il conflitto armato, perché?

«Voglio precisare che io sono il secondo vescovo di San Vicente, dopo mons. Castro, che è stato padre fondatore di questo vasto Vicariato. Lui si è impegnato molto sul tema della pace, anche in prima persona per la liberazione di militari e poliziotti sequestrati dalla guerriglia. È sempre stato un uomo chiave per avvicinare le parti, anche nella negoziazione che ha portato ai recenti accordi di pace.

All’inizio del 1999, quando presi il suo posto, in quest’area stava iniziando una esperienza particolare: la cosiddetta “Zona di distensione”. Un territorio grande quanto la Svizzera che comprendeva oltre a San Vicente altri quattro comuni nel dipartimento del Meta. Erano in corso delle trattative di pace e questa regione fu lasciata sotto il controllo politico e militare delle Farc-Ep. Esercito, polizia e stato si erano ritirati. Rimase solo il sindaco tra le autorità statali. C’era una polizia civica, formata da elementi della popolazione civile e uomini della guerriglia. Questo ha consentito alle Farc di sentirsi sicure per portare avanti il negoziato con il governo del presidente Pastrana.

Ma dopo tre anni, il 20 febbraio 2002, il presidente dette un ultimatum, dicendo che finivano i dialoghi e i guerriglieri avevano 24 ore per andarsene. Mons. Castro spiega questo fallimento dicendo che erano dialoghi tra orbi: le Farc vedevano solo le loro richieste di giustizia, ma non fecero niente per la pace; il governo voleva la pace ma senza fare concessioni per la giustizia. In quegli anni le Farc erano ancora molto forti. Il governo, che aveva avuto delle batoste sul piano militare, utilizzò quel periodo per rafforzare l’esercito e la sua strategia.

Con la Zona di distensione, per un tempo lungo si è mantenuto un territorio senza conflitto, ma nel resto del paese era terribile. La stessa Zona di distensione si era convertita in una specie di rifugio per i guerriglieri. Quegli anni sono stati più calmi qui perché non c’erano scontri. I guerriglieri gestivano anche la giustizia. Abbiamo subito alcune arbitrarietà, ma la gente ha imparato a convivere con loro e viceversa. La Chiesa ha appoggiato il processo di pace come presenza morale, ma molti settori sociali non erano favorevoli alle Farc perché avevano subìto maltrattamenti da parte loro».

Poi c’è il cambio di presidenza … e di marcia.

«A maggio del 2002 Alvaro Uribe vinse le elezioni e da agosto fino allo stesso mese del 2010 sono stati otto anni molto duri. Il piano del governo era portare le Farc ad arrendersi. Scontri, bombe, sofferenze, uccisioni, sfollati e rifugiati. Io ho aiutato persone a uscire dalla zona per andare ad esempio in Canada. Chiunque la guerriglia riteneva collaboratore dell’esercito diventava obiettivo militare, e con lui la sua famiglia. Intanto parte della popolazione si era messa ad appoggiare la guerriglia. Erano molte le violazioni dei diritti umani da entrambe le parti.

L’esercito riduceva l’accesso dei viveri a San Vicente e qui eravamo isolati. La strategia era duplice: lotta anti guerriglia e lotta anti narcos. Perché in gran parte del territorio c’era la produzione della coca, appoggiata dalla guerriglia. Il conflitto armato è durato molto tempo proprio perché ha trovato nel narcotraffico i soldi per finanziare le armi.

La Chiesa ha cercato di mantenere sempre un posizionamento vicino alle vittime.

Con Uribe il rapporto di forza si è invertito. Gli Usa hanno appoggiato il governo colombiano con gli ingenti finanziamenti del Plan Colombia. Le Farc facevano rapimenti, anche eccellenti, ma Uribe li ha colpiti duramente, con grandi costi».

Come si è arrivati agli accordi di pace?

«Le posizioni delle parti si erano indurite. Quando è arrivato Santos alla presidenza (2010), ha subito cercato una via per la pace. Nonostante fosse stato lui a infliggere duri colpi alle Farc nella veste di ministro della Difesa di Uribe. Nel 2012 sono iniziati i colloqui. Quattro anni di negoziati. Durissimi ma molto più seri, con due principi: negoziare anche durante il conflitto e “nulla è accordato finché tutto non sia accordato”.

Le Farc si sono rese conto che militarmente non avrebbero vinto. Inoltre la pressione della comunità internazionale è stata molto grande sia su di loro sia sul governo. A quest’ultimo faceva ricatti di tipo economico minacciando l’azzeramento degli investimenti. In primo luogo l’Unione europea e poi gli Usa, che con l’arrivo di Barak Obama al potere sono stati decisivi. Lo scenario politico internazionale era cambiato, il governo avrebbe avuto meno appoggi per la guerra.

Gli accordi di pace non risolvono tutto ma aprono la strada per la soluzione a tanti altri problemi che erano stati messi in secondo piano. Ad esempio per la prima volta, dopo 50 anni, il budget per l’educazione ha superato quello della guerra. Avevamo un esercito con più di 500mila uomini, in un paese con grandissime disuguaglianze. Ad esempio il livello di infrastrutture per l’educazione di questa regione è molto basso».

Ma il no al referendum ha segnato una battuta d’arresto?

«La vittoria del no è stata costruita suscitando l’indignazione, mettendo paura. È servito per modificare certe cose degli accordi, perché alla gente sembrava che le concessioni del governo alle Farc fossero troppo generose. Alcuni dicevano: se vince il sì diventeremo un’altra Venezuela o un’altra Cuba. La destra più dura, diceva che eravamo quasi al punto di vincerli militarmente, quindi per loro è stata una sciocchezza arrivare a una trattativa, con la quale le Farc hanno ottenuto di più con una via politica, rispetto a quello che avrebbero ottenuto militarmente. Questo è vero, ma è il prezzo della pace.

Anche per la chiesa è stato molto difficile: vescovi, preti e popolazione si sono divisi sulle due posizioni. Molti vescovi dicevano: “La pace sì ma non così”. Come Conferenza episcopale abbiamo deciso di aiutare la gente a formarsi e informarsi e dare un voto per il futuro del paese. Ma non potevamo schierarci per votare sì o no. Alcuni membri della chiesa e gruppi ecclesiali si sono invece sbilanciati e hanno fatto apertamente campagna, per uno dei due campi.

Per molta gente c’è sfiducia e risentimento nei confronti delle Farc, ma anche sfiducia verso il presidente, che sembrava avesse concesso loro tutto.

In realtà riforme come quella agraria, che le Farc chiedono, sono necessarie al di là della guerriglia».

Quali sono i maggiori problemi del paese oggi?

«Adesso che non c’è più il conflitto (c’è ancora con il gruppo Eln con il quale esiste una trattativa), viene fuori la corruzione terribile di questo paese. A tutti i livelli, della classe politica ed economica. Dagli anni ‘70 – ‘80 in poi il narcotraffico ci ha rovinati. Siamo un paese che era costruito su valori molto forti. Poi è arrivata una classe politica con mentalità del denaro facile, abbondante, a qualsiasi costo. Questo ci ha rovinato la testa, la cultura, i valori, creando quella che mons. Castro chiama la “narco mentalità”. Adesso c’è anche un effetto boomerang, ovvero un gran consumo interno di droga. Ma con speranza diciamo che sperimentiamo già giorni diversi. Anche se questa nazione non si rallegra con gli accordi, perché per le grosse città non cambia molto. È in questa periferia che sentiamo il cambiamento».

Le Farc controllavano territori, adesso ci sono altri soggetti che cercano di entrare?

«Sì, è terribile. I dissidenti e i gruppi criminali si sostituiscono alle Farc. Molti hanno paura che si rafforzi il paramilitarismo, che in alcune zone, come nel Cauca è appoggiato dai grandi latifondisti.

La Colombia è una nazione con più territorio che stato. Le frontiere non son controllabili. Riempire con le istituzioni il vuoto che lascia la guerriglia è una delle grosse sfide. È il passo dall’illegalità alla legalità. In alcune aree il riferimento erano le Farc, tramite l’imposizione con le armi. Passare a un esercizio di democrazia vera, partecipativa, sarà difficile sia per la guerriglia, sia per le comunità che sono state sempre sottomesse. Molta gente preferiva che le Farc non smobilitassero: “Chi ci salverà poi?”. La popolazione non ha mai avuto fiducia nello stato perché ha solo conosciuto la repressione militare a causa di narcotraffico e guerriglia. Occorre un processo educativo».

Nel 2018 ci saranno le elezioni presidenziali. Cosa succederebbe se vincesse qualcuno contrario agli accordi?

«Se vincesse la destra potrebbe ostacolarli. Le Farc hanno avuto fiducia. Loro fanno i conti, sono strategici. Entreranno in politica e la sanno pure fare, sono abili a costruire le alleanze. Questi sono periodi in cui otterranno rappresentanti in camera e senato e punteranno a consolidare il partito».

Cosa vi aspettate dal viaggio del Papa, che verrà tra il 6 e l’11 settembre?

«Papa Francesco ci ha sempre invitati a fare un passo per costruire un paese riconciliato. Credo che se noi fossimo capaci di fare politica senza le armi, da entrambe le parti, sinistra e destra, potremmo farcela.

È un paese che ha bisogno di ricostruirsi, di costruire un concetto di nazionalità, con tutta questa ricchezza che ha, plurietnica e multiculturale. Penso che il papa ci spingerà verso una cultura dell’incontro, della fratellanza. Scoprire la grandezza del riconoscerci cittadini, compatrioti, avere un orizzonte comune, in un paese in cui possiamo stare bene tutti, andando oltre alle diseguaglianze. Il papa ci aiuterà a girare questa pagina dolorosa, tragica, macondiana (irreale, ndr) per essere una nazione sostenibile, progredendo in un livello di democrazia partecipativa, e costruzione del bene pubblico».

Marco Bello




Capitolo Generale IMC: Tornare alle radici della Missione

Il 22 maggio 2017 si sono ritrovati a Roma 45 missionari della Consolata provenienti dai quattro angoli del mondo. Ventidue africani, 15 europei e 8 latino americani, in rappresentanza di 231 comunità missionarie in 27 paesi diversi (foto 1).

Sono stati insieme per quattro settimane, fino al 20 giugno, festa di Maria Ss. Consolata, per il XIII capitolo generale. Il capitolo avviene ogni sei anni ed è l’autorità suprema di un istituto religioso, in esso si tracciano le linee guida e viene eletto il nuovo «governo», il superiore generale e i suoi consiglieri.

Questo capitolo ordinario aveva come tema guida «Il nostro futuro come discepoli missionari della Consolata», come modelli di riferimento gli apostoli Paolo e Barnaba, e come obiettivo quello di rivitalizzare e ristrutturare l’istituto per mantenerlo fedele al suo carisma originale, quello della «Missione ad gentes».

Primo giorno

Nella cerimonia di apertura (foto 2) il padre generale, Stefano Camerlengo, ha ricordato che «con questo capitolo vogliamo entusiasmare tutto l’istituto per la missione che il Signore ci ha affidato e per la quale il Fondatore ha formato i primi missionari. Siamo consacrati per la missione – ha ribadito -. Il cuore di questo capitolo e di tutta la nostra vita è la missione, come diceva il beato Giuseppe Allamano, che ripeteva sempre la parole di s. Paolo, “tutto faccio per il Vangelo”».

Invocato lo Spirito Santo e adempiute le formalità di rito (giuramento di riservatezza, conferma dei moderatori e segretari, approvazione del regolamento, divisione degli incarichi e dei servizi – anche quello di lavare i piatti), il capitolo è iniziato (foto 3).

Cerimonia di apertura del 13mo capitolo generale dei Missionari della Consolata

Momento conviviale a cena con il cardinal Pietro Parolin, segretario di stato del Vaticano

Il primo giorno si è concluso con la celebrazione eucaristica presieduta dal cardinal Pietro Parolin, segretario di stato della Santa Sede (foto 4). Le sue parole sono andate dritte al cuore del capitolo: «Credo che il desiderio di ristrutturare il vostro istituto vada inteso non semplicemente come un lavoro di restyling, ma deve essere un modo autentico per portare la missione veramente ad gentes, alle persone». Nel caso non avessimo capito il concetto, ha ribadito che cambiare le strutture senza che le persone cambino dal di dentro sarebbe del tutto inutile. «Il missionario deve essere soprattutto un testimone e vivere come uno che si è lasciato fecondare e abitare dallo Spirito Santo».

Capitolari avvisati …

Preghiera, digiuno e comunità

Incontro del cardinal Luis antonio Tagle di Manila con il 13° capitolo generale IMC

La mattina del secondo giorno è passata in compagnia del cardinal Luis Antonio Tagle, di Manila, Filippine (foto 5). La sua riflessione, arricchita da molti episodi della sua vita, è stata centrata sugli apostoli Paolo e Barnaba, i nostri modelli di riferimento. Ci ha proposto quattro punti forza su cui lavorare per rivitalizzarci: preghiera, digiuno, comunità e organizzazione. In pratica ha detto ai capitolari che se davvero i missionari vogliono rinnovarsi devono essere come i cristiani della comunità di Antiochia che mandò Paolo e Barnaba: una comunità (non individui, ognuno per sé) che prega e digiuna, che è ancorata in Dio ed è povera, libera e leggera nei mezzi e, quindi, capace di dare un’anima all’organizzazione a servizio della missione.

Questi principi sono stati poi approfonditi in una due giorni con il capitolo generale delle suore missionarie della Consolata, con le quali ci siamo messi alla scuola di quella grande missionaria della misericordia di Dio che è stata la beata suor Irene Stefani (foto 6-8). Ma su questo ritornerò un’altra volta. La conclusione del convegno è stata nella basilica di Santa Maria del popolo (foto 7) dove c’è l’originale dell’icona della Consolata che si trova a Torino.

Giornata di condivisione con le Missionarie della Consolata e I Laici Missionari della Consolata

Gli ospiti

Cena con il cardinal Filoni, prefetto di Propaganda Fide

Durante il capitolo ci hanno poi visitato diversi «amici», anche se, ufficialmente, nostri superiori diretti. Il 1° giugno è venuto il cardinal Fernando Filoni, prefetto di Propaganda Fide (foto 9), dalla quale, come missionari, dipendiamo. Partendo dalle risposte di Pietro a Gesù che gli domandava «mi ami?», ci ha ricordato che la vera rivitalizzazione parte dalla profondità della relazione con Gesù, cioè dall’amarlo veramente, da dire con la vita «sì, ti amo!». Se c’è questo ti amo, allora la risposta di Gesù è «coraggio», forza motivante del proprio essere missionari, sia come persone che come congregazione. «Solo se c’è una profonda relazione d’amore con Gesù si ha poi la forza e il coraggio di testimoniare fino al dono della vita, di fare passi nella direzione della Missione».

Con l’arcivescovo Rugambwa Protase di Propaganda Fide, Pontificia unione del Clero.

È venuto poi un altro nostro superiore diretto, l’arcivescovo Protasio Rugambwa, (foto 10) tanzaniano, presidente delle Pontificie Opere Missionarie. A conoscenza del nostro impegno di rivitalizzazione, ci ha detto che «le sfide non si possono affrontare solo con gli sforzi umani e l’azione di strategie pianificatrici, bisogna pregare e ascoltare lo Spirito Santo, che è il protagonista principale della missione».

Celebrazione eucaristica presieduta dal Cardinale João Braz de Aviz, Prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica

Il cardinal João Braz de Aviz, prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica (foto 11), è arrivato verso sera da noi camminando nel grande caldo di quei giorni. «Voi usate due parole che fanno vedere il vostro desiderio di una nuova tappa: rivitalizzare e ristrutturare! Mamma mia: vita e struttura!». Un progetto che vuole far sì che l’istituto torni a essere quello per cui è stato fondato. Ma se non riscopriamo «l’Amore, ad immagine del quale siamo stati creati», tutto il nostro sforzo serve a niente. Per questo è importante «assumere lo stesso stile di Dio in Gesù: si è svuotato per amore. Per essere Amore, bisogna svuotarsi. Dio per trovarci si è svuotato! Per amore. Questo “per Amore” è tutto».

Celebrazione dell’eucarestia con il Cardinal Giuseppe Bertello

L’ultimo amico a visitarci (foto 12) è stato il cardinal Giuseppe Bertello, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, ma per noi quasi un parente, perché cugino di uno dei nostri missionari, padre Giovanni, attraverso il quale ci ha conosciuti fin da ragazzo. Dimostrando un’ottima conoscenza del nostro Fondatore, che ha citato abbondantemente, ci ha richiamato con forza su due punti nevralgici: «La testimonianza della fraternità» e le nostre «radici mariane». «Voglio – scriveva l’Allamano – che ci sia una carità fiorita. Non potete amare il prossimo lontano, se fin da ora non avete carità verso quelli con i quali trattate tutti i giorni». «E non possiamo dimenticare che voi siete i Missionari della Consolata. Nel suo amore alla Madonna, il beato Allamano aveva capito che l’umanità ha bisogno di una evangelizzazione consolante, che faccia incontrare ovunque il Suo Figlio, che è la manifestazione del Padre di ogni consolazione. […] Questa sera – ha concluso – prego con voi perché siate sempre coscienti delle vostre radici mariane e siate sempre dei missionari entusiasti, grati al Signore per la vostra vocazione!».

Papa Francesco

Il 5 giugno siamo stati noi ospiti di papa Francesco, in un’udienza privata nella sala Clementina. Ci siamo andati con le nostre sorelle, le missionarie della Consolata (foto 13-14). Dopo l’incoraggiamento «a proseguire con generosa fedeltà nell’impegno di missione ad gentes», ci ha ricordato che «voi siete chiamati ad approfondire il vostro carisma, per proiettarvi con rinnovato slancio nell’opera dell’evangelizzazione, nella prospettiva delle urgenze pastorali e delle nuove povertà». «Non stancatevi di portare conforto a popolazioni che sono spesso segnate da grande povertà e da sofferenza acuta … Lasciatevi continuamente provocare dalle realtà concrete … Per portare avanti questa non facile missione, occorre vivere la comunione con Dio. […] È molto più importante renderci conto di quanto siamo amati da Dio, che non di quanto noi stessi lo amiamo! […] Sappiate anche raccogliere con gioia i continui stimoli al rinnovamento e all’impegno che provengono dal contatto reale col Signore Gesù, presente e operante nella missione attraverso lo Spirito Santo. Ciò vi consentirà di essere operosamente presenti nei nuovi areopaghi dell’evangelizzazione, privilegiando, anche se ciò dovesse comportare dei sacrifici, l’apertura verso situazioni che, con la loro realtà di particolare bisogno, si rivelano come emblematiche per il nostro tempo». «Sull’esempio del vostro beato Fondatore, non stancatevi di imprimere nuovo impulso all’animazione missionaria. Sarà soprattutto il vostro fervore apostolico a sostenere le comunità cristiane a voi affidate, in particolare quelle di recente fondazione. Nello sforzo di riqualificazione dello stile del servizio missionario, occorrerà privilegiare alcuni elementi significativi, quali la sensibilità all’inculturazione del Vangelo, lo spazio dato alla corresponsabilità degli operatori pastorali, la scelta di forme semplici e povere di presenza tra la gente.

Attenzione speciale meritano il dialogo con l’Islam, l’impegno per la promozione della dignità della donna e dei valori della famiglia, la sensibilità per i temi della giustizia e della pace».

Non ci potevano essere parole più dirette per incoraggiarci nel nostro cammino di rinnovata fedeltà alla nostra identità missionaria.

Il capitolo continua

Nella prossima puntata vi racconterò del cammino e delle scelte del capitolo. Qui vi anticipo la scelta più evidente: la nuova direzione generale. Le votazioni (foto 15) sono cominciate il 12 giugno.

Votazioni per l’elezione del superiore generale.

Lo stesso giorno è stato riconfermato padre Stefano Camerlengo come superiore generale (foto 16).

Elezione del superiore generale: rieletto padre Stefano Camerlengo.

Il giorno dopo sono stati eletti il vice e i consiglieri (foto 17 – da sinistra): i padri Jaime Patias (brasiliano), Godfrey Msumange (tanzaniano), – al centro, padre Stefano -, James Lengarin (vice superiore, keniano) e Antonio Rovelli (italiano).

la nuova direzione generale IMC eletat il 13 giugno 2017 festa di sant’Antonio da Padova/Lisbona

A elezioni concluse foto di gruppo con vista del cupolone (foto 18).

Gigi Anataloni
(1 – continua)




Marocco. Argento e ambiente


Assetati d’argento

Negli ultimi tre decenni si sono intensificate le «resistenze» delle popolazioni locali che difendono i loro territori. Un caso emblematico è quello della più grande miniera del continente africano gestita, tramite una catena di società finanziarie, dalla famiglia del Re Mohammed VI. L’estrazione dell’argento avviene senza badare all’impatto ambientale e sociale. È necessario cambiare modello di sviluppo realizzando una sostenibilità che sia effettiva.

Nel 2004, la sociologa e femminista marocchina Fatima Mernissi (Fès, 1940 – Rabat, 2015), docente all’Università Mohammed V di Rabat, scriveva che, se si vuole vedere dove davvero le cose cambiano nel suo paese, ci si deve allontanare dai centri urbani di Casablanca o Rabat ed esplorare le montagne dell’Alto Atlante o i deserti di Zagora e Figuig. È lì che si possono trovare storie affascinanti di comunità che generano cambiamento tramite la loro resistenza nel Marocco contemporaneo.

Alcuni collaboratori dell’Ejatlas hanno tenuto bene a mente questo consiglio quando, lo scorso novembre, sono andati in Marocco per assistere alla Cop22, l’ultima grande conferenza internazionale sul cambio climatico, che aveva lo scopo di trovare le modalità per attuare gli accordi siglati durante la Cop21 di Parigi dell’anno prima (si veda MC maggio 2016, ndr).

Accaparramento e resistenza

Lasciando le grandi città sistemate per l’evento, le campagne e le zone semiurbane e costiere rivelano una realtà materiale segnata da grandi accaparramenti di terre, inquinamento da attività minerarie, violazione di diritti sociali ed espropriazioni. Spesso nel nome dello «sviluppo sostenibile», per far spazio a progetti infrastrutturali di produzione di energie rinnovabili.

In questi luoghi, grandi cartelli pubblicitari di colossi della costruzione e di grandi marche fanno pensare a fondi d’investimento che, in sordina ma dettando una legge spietata, stanno penetrando nel mercato marocchino con il beneplacito della monarchia. Allo stesso tempo però questi sono anche i luoghi in cui si incontrano storie di resistenza e ricostruzione di comunità.

L’argento del re

Nella provincia del Tinghir, nella regione amministrativa Drâa-tafilalte, Imider è una municipalità che si trova in un’oasi nel mezzo di terre desertiche. Essa raggruppa sette piccoli villaggi a 300 km da Marrakesh, per un totale di circa 4mila abitanti. Oggi è il sito della più grande miniera del continente africano, e la settima più grande produttrice di argento al mondo, presso il Monte Alebban.

La miniera è gestita dalla Société Metallurgique d’Imider (Smi), parte del gruppo Managem (managemgroup.com) che conta attività in diverse zone del Marocco, in Guinea, Niger, Sudan, Gabon, Congo RD. La Managem è controllata per l’81% dalla società finanziaria Société nationale d’investissement (Sni), la quale a sua volta è controllata dalla Siger, la holding della famiglia del re Mohammed VI.

La Smi estrae il prezioso metallo dal 1978. Fin da allora, le comunità che vivono nei dintorni della miniera si sono organizzate per fare pressioni sulle autorità perché preoccupate per i potenziali impatti ambientali, in particolare sulle falde acquifere.

Con il tempo, le loro perplessità si sono dimostrate fondate.

Danni ambientali e repressione

Lo scontro è stato particolarmente aspro nel 1986, durante la perforazione di un pozzo da parte dell’impresa. I leader della protesta in quell’occasione sono stati incarcerati e le richieste delle comunità ignorate. L’anno 1996 è stato segnato dalla privatizzazione dell’impresa e dalla violenta repressione di un sit-in che era durato 45 giorni lungo la strada nazionale bloccando la via d’accesso alla miniera.

Nel 2004 l’impresa ha scavato un nuovo pozzo, stavolta senza i permessi necessari, portando presto le riserve idriche a seccarsi e provocando così un grave pericolo per la popolazione locale Amazigh (berbera). Piccoli agricoltori e pastori, gli abitanti locali hanno dovuto affrontare una severa marginalizzazione economica e un livello preoccupante di contaminazione delle terre da pascolo e della poca acqua disponibile.

Secondo un report del Congresso di Amazigh (ong che mira a rappresentare le associazioni berbere di tutto il mondo), la miniera consumava 1.555 metri cubi d’acqua al giorno, dodici volte il consumo degli abitanti della zona. Il rapporto denunciava anche lo scarico illegale di liquidi tossici della miniera sulle terre da pascolo (inquinanti come mercurio, zinco, cianuro), nuove malattie tumorali e una diminuzione drastica della produzione agricola.

Un altro rapporto, pubblicato da Inovar, un gruppo di idrogeologi indipendenti di Temara, città costiera del Marocco, vicina a Rabat, parlava dell’impatto gravissimo subito dal sistema khettara di Imider, la rete di canali sotterranei che tradizionalmente distribuiva le risorse idriche ai campi coltivati fin dal 14° secolo.

Movement on the Road ’96

Nell’agosto del 2011, lo stesso anno delle proteste della cosiddetta Primavera araba, le comunità hanno deciso di trasferirsi in cima al monte e prendere il controllo della fonte d’acqua, tagliando il trasferimento alla miniera. È nato così quello che ancora oggi può essere considerato il più lungo accampamento permanente della storia moderna del Marocco. Gli abitanti hanno dato alla loro mobilitazione il nome di «Movimento sulla strada ‘96» (si può visitare la pagina Facebook del movimento cercando Amussu.96Imider), in ricordo dei 45 giorni di sit-in e della violenza subita quindici anni prima. Il movimento ha inaugurato un’assemblea generale secondo un tradizionale modello di governance conosciuto come Agraw, nel quale le decisioni vengono prese per consenso. Esso ha incorporato principi di democrazia radicale in cui le decisioni vengono prese in modo decentralizzato e con equità di genere. Alcuni suoi membri sono riusciti a entrare in contatto con media internazionali e a lanciare messaggi di solidarietà ad altre comunità resistenti nel mondo, tra cui quella dei Sioux della riserva Standing Rock in South Dakota, negli Usa, che protestano per un progetto di oleodotto che vorrebbe passare nel loro territorio.

Proteste socioambientali in aumento

Il caso di Imider dimostra come comunità in resistenza esistano da molti anni, e forse sono state importanti motori di propulsione per le contestazioni del 2011.

E non è un caso isolato. Si registra infatti un aumento delle proteste socioambientali in Marocco in questi ultimi due decenni: dalla recente mobilitazione di Bni Oukil, un comune nella regione di Tadla-Azilal situata nel centro del paese, contro l’estrazione di materiali da costruzione, alla resistenza della tribù Guicheloudaya contro progetti infrastrutturali a Rabat che hanno portato alla confisca delle loro terre, al Movimento delle Donne Soulaliyate che rivendicano pari diritti nella compensazione elargita per l’acquisizione forzata di terre.

Molte altre sono le piccole realtà, lontane dai centri urbani rimessi a lustro per l’arrivo dei delegati internazionali della Cop22, che finiscono purtroppo fuori dal radar dell’attenzione pubblica, rendendo difficile studiare e capire il fenomeno.

Molti di questi conflitti sono durati molto tempo, come gli scioperi contro la compagnia statale (Office chérifien des phosphates) che monopolizza la produzione di fosfati a Khouribga, città a 120 Km a Sud Est di Casablanca che conta quasi 200mila abitanti, il blocco del porto a Sidi Ifni, cittadina di 20mila abitanti sull’Oceano Atlantico e, appunto, l’accampamento sul Monte Alebban contro la miniera d’argento.

Povertà e problemi ambientali non sono inevitabili

L’aumento della protesta non si puó capire se non si mette sotto la lente d’ingrandimento il rapporto iniquo tra centri urbani e campagne nell’economia neoliberista del Marocco.

Il governo ha spinto negli ultimi tre decenni sull’industrializzazione delle aree costiere, su progetti speculativi infrastrutturali nelle grandi città, grandi complessi turistici, estrazione intensiva di risorse naturali, mentre i centri più piccoli soffrono per la mancanza di servizi basilari e opportunità di lavoro dignitoso, e, anzi, subiscono le conseguenze negative dell’inquinamento e della violenza repressiva.

Ciò che sta al centro delle contestazioni in Marocco oggi, dunque, è il fatto che povertà, marginalizzazione, problemi ambientali siano la precisa conseguenza dell’odierno capitalismo globale, delle politiche di classe e delle relazioni di potere nel paese.

Allo stesso tempo, Imider mostra come la società civile marocchina si è articolata fin dagli anni ’90 in tanti collettivi e organizzazioni per i diritti umani e la giustizia sociale che oggi pongono in questione il modello economico e di «sviluppo». Essi uniscono rivendicazioni che riguardano diritti umani, indigeni, ambientali, di genere, e li vincolano alla necessità di cambiamento del sistema produttivo capitalista e autoritario.

Non basta dire «sostenibilità»

In uno dei materiali di divulgazione diffusi durante la Cop22 da una di queste organizzazioni, si trova scritto che «parlare di sviluppo sostenibile non è più sufficiente. È una parola distorta e abusata da parte delle grandi imprese transnazionali e anche dalle fabbriche più piccole. È usata come un alibi. Oggi è necessario chiarire i limiti di ciò che viene chiamata sostenibilità. Non può essere imposta secondo criteri estranei al contesto culturale, sociale e ambientale. Oggi è necessario lavorare in una direzione congiunta e mantenere una comunicazione costante tra le risorse del territorio e i bisogni della sua gente».

Daniela Del Bene
Coeditrice di Ejatlas


Altri tre casi emblematici

1.      L’impatto ambientale dell’energia solare

Ouarzazate è il sito del più nuovo e grande progetto di energia solare del mondo (500 ettari). Tuttavia, il livello di accaparramento di terre, l’elevato costo di produzione, e i grandi interessi economici che lo sostengono non ci possono far rimanere indifferenti e acritici sul processo di transizione verso le rinnovabili. Chi decide, a quale scala e costo, per quali fini produrre energia?

2.      Le donne Soulaliyate

Il Movimento delle Donne Soulaliyate è diventato popolare in Marocco nel 2007, quando in un contesto di massiva privatizzazione della terra, gruppi tribali di donne cominciarono a rivendicare i loro diritti al pari degli uomini. Seppur minore al principio, il movimento ora ha raggiunto scala nazionale e continua a sfidare le leggi di proprietà della terra che favoriscono gli uomini e le regole della societá patriarcale nell’accesso alla terra.

3.      Land grabbing a Rabat

La comunità dei Guicheloudaya vede la propria terra minacciata dall’espansione della frontiera urbana di Rabat. Il processo di privatizzazione ha avuto un’accelerazione dal 2004 e le tribù hanno subito la confisca di terreni e case. Le proteste hanno incontrato una dura repressione da parte della polizia che ha portato all’autornimmolazione di un abitante nel 2015. A oggi non sono stati indicati chiari piani di compensazione e reinsediamento.




America Latina, Chiese evangeliche.

A ogni fede la propria sharia


Cosa spinge molti cattolici latinoamericani a passare alle nuove Chiese evangeliche? E come mai il fondamentalismo sta prendendo piede in molte fedi? Conversazione con Jorge García Castillo, missionario messicano e giornalista.

Nel 1918, in un paesino del dipartimento di Arequipa, nel Sud del Perù, nasce Ezequiel Ataucusi Gamonal. Fin da ragazzo – racconterà in seguito lui stesso – il giovane Ezequiel ha numerosi segnali che lo indirizzano verso la Bibbia. Poi un giorno è lo stesso Signore che lo chiama e gli dice che deve predicare al mondo i suoi comandamenti. Nel 1959 Ezequiel fonda la sua organizzazione religiosa, che nel 1968 assume il nome di Asociación Evangélica de la Misión Israelita del Nuevo Pacto Universal (Aeminpu). Per rendere più efficace la sua missione, nel 1989 fonda il Fronte popolare agricolo (Frepap), partito teocratico con il quale per tre volte si candida alla presidenza del Perù. Quando Ezequiel muore, nel giugno del 2000, la sua chiesa conta 200mila membri. Alla morte del fondatore l’organizzazione evangelica e il partito passano – quasi fossero un cespite patrimoniale – al figlio, Ezequiel Jonás Ataucusi Molina.

Meno romanzesca, ma certamente più influente è la storia della brasiliana Marina Silva, leader ecologista, senatrice, ministra dell’ambiente sotto Lula e candidata presidenziale. Cattolica, nel 1997 si converte al cristianesimo evangelico. Divenuta prima missionaria e poi pastora, forte dell’appoggio della potente Assembleia de Deus, nel 2018 potrebbe ritentare la scalata alla presidenza. «Dio mi ha rivelato che Marina sarà la prossima presidente», ha dichiarato una volta il pastore André Salles. Lei, adusa alla politica, ha sempre detto: «Non ho mai strumentalizzato la mia fede religiosa per un fine politico».

Sulle tematiche delle nuove Chiese evangeliche abbiamo conversato con padre Jorge García Castillo, messicano, missionario comboniano che ha operato in Perù, in Italia e in Messico.

Laureato in giornalismo, padre Jorge è stato per 8 anni direttore della rivista Misión sin Fronteras a Lima. Da gennaio è direttore delle riviste Esquila Misional e Aguiluchos a Città del Messico.

«Smetti di soffrire»

Padre Jorge, nel suo paese lei ha avuto modo di assistere alla crescita delle nuove Chiese evangeliche?

«Mi ricordo che durante la visita pastorale di Giovanni Paolo II in Messico – era il gennaio del 1979 – e all’inaugurazione dell’Assemblea di Puebla si era già insinuato questo problema. La fetta di cristiani non cattolici già superava il 10 per cento e in questa percentuale c’erano sia le Chiese evangeliche storiche che quelle neoevangeliche. La maggior parte di loro si opponevano al culto della Vergine di Guadalupe, punto di riferimento dei cattolici messicani. A questa situazione si reagì non sempre con metodi di successo e, peggio ancora, eludendo un’autocritica, un impegno più serio per l’evangelizzazione e una vicinanza maggiore al mondo dei poveri e dei sofferenti».

E in Perù, dove lei ha lavorato per molti anni?

«In Perù la situazione era molto simile. Là, a causa di una crisi politica e sociale acuta, e del terrorismo di Sendero Luminoso e dello Stato, la gente semplice si avvicinò molto alle chiese di origine brasiliana e in particolare a Pare de sufrir (“Smetti di soffrire”, filiale peruviana della Chiesa Universale, ndr).

Era molto comune vedere gruppi evangelici di recente fondazione riunirsi in strutture semplicissime o in altre più grandi che un tempo erano cinema, teatri o saloni per spettacoli. Questo accadeva soprattutto nei quartieri poveri di Lima o in quelli chiamati pueblos jovenes».

La Bibbia e la sua lettura

Sia le Chiese evangeliche «storiche» (luterana, anglicana, calvinista, eccetera) che quelle «nuove» hanno come riferimento assoluto la Bibbia. Tutto il resto è diverso. Questa è un’affermazione veritiera?

«Tutte hanno la Bibbia come fondamento assoluto. La differenza è nel modo in cui si legge e interpreta il libro sacro. La mia percezione è che nelle chiese storiche ci sia uno sforzo di effettuare una lettura “scientifica”, storica e contestualizzata, in molti casi anche con un’impostazione liberatoria. Il risultato è una lettura militante e popolare della Parola, simile a quella delle Comunità ecclesiali di base e a quella di teologi ed esegeti della cosiddetta teologia della liberazione.

Al contrario, in molte chiese di estrazione neopentecostale, l’approccio alla Bibbia è stato “letterale” (conta solo ciò che sta scritto, a prescindere dal tempo, dal luogo, dalla cultura) e, nel peggiore dei casi, fondamentalista. Penso anche a casi estremi come quelli dei “predicatori elettronici” che si sono lanciati nella radio e nella televisione con molto successo raggiungendo ampi settori del mondo urbano e del mondo andino.

In ogni caso, non si può generalizzare dicendo che c’è un approccio buono e uno cattivo alla Scrittura. Va ricordato che anche nelle chiese storiche, compresa la cattolica, si è spesso fatta una lettura fondamentalista».

Influenza statunitense?

Si dice che, almeno inizialmente, le Chiese evangeliche arrivarono in America Latina sulla base di un programma strategico degli Stati Uniti che mirava espressamente a indebolire la Chiesa cattolica, vista come un nemico della loro dominazione in quei paesi (considerati come il loro «giardino di casa»). Particolarmente paura facevano il movimento della teologia della liberazione, l’opzione preferenziale per i poveri, la richiesta di una maggiore giustizia economica, eccetera. Tutto questo corrisponde al vero o è una mera ipotesi politica? 

«È in gran parte vero. Secondo me, sono due i passaggi storici fondamentali. Il primo è dato dal Rapporto Rockefeller sulle Americhe del 1969, affidato dall’allora presidente statunitense Nixon a Nelson Rockefeller. L’ipotesi del Rapporto era che la Chiesa cattolica non fosse più un fedele alleato degli Stati Uniti e che al suo interno germogliassero idee rivoluzionarie che si sarebbe dovute contrastare attraverso altre chiese o denominazioni evangeliche.

Vennero cercati alleati anche negli alti comandanti militari usciti dalla Escuela de las Americas, pronti a combattere i gruppi di sinistra che spesso erano di appartenenza cattolica. In quegli anni un gran numero di catechisti, delegati della Parola, religiosi, sacerdoti e vescovi furono eliminati in Messico, Guatemala, El Salvador, Brasile, Ecuador, Argentina, Cile.

Qui è stata patetica e scandalosa la complicità di troppi vescovi, cardinali, nunzi. Il caso più noto probabilmente riguarda un cardinale, attuale decano del collegio cardinalizio, amico personale del golpista e pluriassassino generale Augusto Pinochet.

Un altro momento cruciale fu durante l’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan. Nel 1981 egli creò l’“Istituto sulla religione e la democrazia” per appoggiare le chiese evangeliche e finanziare la loro predicazione nel continente americano in contrasto con l’azione liberatrice e di coscientizzazione delle altre chiese».

I motivi dell’abbandono

Nei paesi dell’America Latina, la percentuale di cattolici è passata dall’80 (1995) al 63 (2013) per cento. Molti cattolici hanno abbandonato la Chiesa di Roma per entrare in quelle evangeliche, che infatti sono arrivate ad avere il 20 per cento dei fedeli nel giro di un ventennio. Come si spiega quest’esodo?

«Il fenomeno è molto complesso. Le cause sono molteplici e alcune di loro strutturali. Per quanto mi è dato di capire una delle cause principali è la scarsa evangelizzazione e formazione dei cattolici, anche per colpa di noi sacerdoti. Don Sergio Méndez Arceo, vescovo di Cuernavaca (Morelos), uno dei pastori più coraggiosi e controversi del Messico, dopo il Concilio Vaticano II parlava di cristiani “remojados” o “anagráficos”, eredi di una tradizione piuttosto che di un’esperienza di fede.

Quello che cercano i cristiani che emigrano verso altre confessioni è affetto, accoglienza, vicinanza; una chiesa meno piramidale e ministeriale, dove ognuno abbia voce in capitolo. Essi desiderano un culto meno rigido; più libertà e spontaneità in una chiesa dove siano protagonisti e non semplici consumatori di qualcosa che viene offerto già confezionato. A questo si aggiunge anche un ruolo da protagonista della donna che la Chiesa cattolica relega invece a servizi pratici ed esclude dalle posizioni di responsabilità».

L’accoglienza e la vicinanza di cui lei parla si concretizzano anche con l’uso da parte dei pastori evangelici di canti, applausi, grida di gioia?

«Mi riferisco a questo, ma pure al modo in cui gli evangelici accolgono le persone che arrivano per la prima volta nelle loro strutture. Di solito ci sono persone che, all’ingresso, accolgono molto affettuosamente, chiedono il nome, offrono del materiale stampato (a volte anche la Bibbia), accompagnano ai banchi. I nuovi vengono presentati ai pastori e alla comunità perché preghino per loro, impongano le mani ecc. Poi magari li invitano a tornare, ad approfondire certi argomenti nelle loro scuole domenicali o perfino visitandoli nelle loro case. Domandano se ci sono dei malati in casa, offrono aiuto spirituale e anche materiale. Di solito, fra noi cattolici, questi aspetti sono molto trascurati».

Non è che i fedeli cerchino anche risposte pratiche a problemi pratici?

«È ovvio che cercano soluzioni e risposte alla vita di ogni giorno. Ci sono persone che sopravvivono in condizioni di povertà (o impoverimento) e di insicurezza. Persone che affrontano la violenza, la disoccupazione, la mancanza di salute e di una casa».

Anche in Brasile, il più grande paese cattolico del mondo, le nuove Chiese evangeliche sono in rapidissima e costante crescita. Ci sono ragioni peculiari?

«Purtroppo, durante il pontificato di Giovanni Paolo II, la Chiesa cattolica brasiliana è stata spogliata dei suoi migliori pastori per sostituirli con vescovi conservatori, alcuni dei quali nemici dichiarati della teologia della liberazione e delle comunità di base. Disorientati, i fedeli brasiliani hanno intrapreso un esodo di massa verso i gruppi neopentecostali che promettevano altre cose».

Pedofilia

Lei ha parlato di scarsa autocritica della Chiesa cattolica. In molti paesi latinoamericani – inclusi Messico e Perù – si sono verificati scandali di pedofilia. Quanto hanno contribuito alla perdita di fedeli?

«Statisticamente non credo che siano molti i cristiani che hanno lasciato la Chiesa per queste ragioni. Nonostante contraddizioni e peccati (ma in alcuni casi si dovrebbe parlare di crimini) la Chiesa rimane una delle istituzioni più credibili, non escludendo che la sua integrità morale e spirituale sia stata intaccata dagli scandali cui lei accenna. Per fortuna molte persone ripongono la loro fede e fiducia in Dio (e Gesù), e questo consente loro di continuare a rimanere nella chiesa, nonostante tutto. Per le persone semplici o forse per le meno istruite, non è difficile perdonare il comportamento scandaloso di sacerdoti, religiosi e clero. Tra i maggiori casi uno è nato proprio qui in Messico: è quello di Marcial Maciel la cui congregazione – i “Legionari di Cristo” – e i laici di “Regnum Christi” ad essa legati stanno proseguendo con il sostegno e la simpatia di molte persone, nonostante i ripetuti comportamenti immorali del loro fondatore (morto nel 2008, ndr).

In ogni caso la Chiesa ha il dovere di fare giustizia: accompagnare le vittime, essere vicina a loro e riparare il danno. Perché tutto ha un limite, anche la pazienza della gente. Occorre agire con urgenza prima che sia troppo tardi e si produca un esodo di massa».

 

Un pastore  di una delle tante chiese evangeliche in ginocchio nel Parco Centrale di Città del Guatemala – AFP PHOTO / JORGE UZON

Chiese evangeliche: «Miracoli» in vendita

 

Quali sono gli strumenti d’attrazione delle nuove Chiese evangeliche?

«Dalla teologia della prosperità al marketing sono molti gli strumenti utilizzati. Secondo me il problema più grave è l’intenzione che troppo spesso si nasconde dietro queste chiese: l’interesse di pastori senza scrupoli. Uno dei casi più noti è quello del pastore guatemalteco Cash Luna, diventato incredibilmente ricco sfruttando la religiosità e, non di rado, l’ignoranza e la buona fede dei suoi seguaci».

Lo strumento più meschino e vergognoso è però la promessa di «guarigioni miracolose», non crede?

«Sono uno strumento e sono molto redditizie. Tante persone disperate ripongono la loro ultima speranza in taumaturghi di ogni genere. Questi personaggi accompagnano i rituali con elementi che toccano la sensibilità e la suscettibilità delle persone. Ma questo non accade solo nel campo evangelico. Io stesso ne sono stato testimone in ambito cattolico durante le famose “messe di guarigione” (misas de sanación). In occasione delle quali viene allestito un mercato del sacro con vendita di olio e acqua benedetta, libri e video del taumaturgo di turno».

E l’utilizzo della paura del diavolo («Lo que no es de Dios es del diablo»)?

«Il discorso sul diavolo diventa spesso patetico. Lo vedono dappertutto e in tutti quelli che non la pensano come loro. Diventa un’autentica ossessione. Satanizzano tutto, specie il culto o la pietà popolare verso la Madonna e i santi. A volte lo fanno anche in modo violento e con parole disgustose. Lo stesso vale per governi, sistemi o gruppi che non la pensano come loro o che portano avanti un’etica laica rispetto a certi temi».

Teologia della liberazione versus teologia della prosperità

I poveri sembrano più attratti dalla teologia della prosperità che dalla teologia della liberazione.

«Credo che i poveri, non tutti ovviamente, siano stati attratti più dalla teologia della prosperità che dalla teologia della liberazione a causa della miseria, del dolore e dello sfruttamento secolare. Le promesse di prosperità sono più allettanti per la loro immediatezza rispetto alla speranza proposta dalla teologia della liberazione. Questa è un processo lento, graduale, sofferto e conflittuale che molti hanno finito per pagare con la loro vita.

È più facile aspettare una soluzione dall’alto che collaborare con Dio per abbattere le barriere e creare nuove strutture in cui prevalgano la pace, la giustizia, l’equità.

Entrare nella dinamica della vera fede – come proposto dalla teologia della liberazione – ha un prezzo alto che non tutti sono disposti a pagare. Molte volte, l’esempio di martiri e profeti, invece che incoraggiare e stimolare, spaventa».

Origini del fondamentalismo

Padre Jorge, per le nuove Chiese evangeliche si può parlare di fondamentalismo-integralismo religioso alla stregua dell’islam? In fondo anche la Bibbia – come sta accadendo in maniera drammatica con il Corano – può essere letta in modo fondamentalista.

«Si, purtroppo. Ma questo non è un problema solo delle nuove Chiese evangeliche. Succede così anche nella Chiesa cattolica e nelle altre chiese storiche. Di sicuro accade di più nelle nuove confessioni perché ci sono tanti interessi. Ai pastori non interessa arrivare alla verità. Ciò che vogliono è riaffermare potere, ricchezza, successo personale o di gruppo sfruttando l’ignoranza della gente semplice che deve lottare ogni giorno per sopravvivere. Basta vedere i già citati “predicatori elettronici” che – Bibbia in mano – promettono salvezza e miracolose guarigioni o minacciano coloro che non si convertono alle loro chiese.

A me ha fatto impressione sentire i predicatori di taglio fondamentalista nel grande piazzale davanti alla cattedrale di São Paulo, in Brasile. Così come oggi mi fa paura ascoltare gli improvvisati predicatori davanti alla cattedrale di Città del Messico che insultano e minacciano quelli che entrano per pregare o visitare la chiesa. Sono autentici terroristi che ammazzano con la lingua».

In qualsiasi fede ci sono elementi di fondamentalismo. Lei come lo spiega?

«Io mi spiego questo fenomeno così: dietro ogni fede ci sono esseri umani fragili e peccatori. Incapaci di andare in profondità. Quanta ragione aveva l’apostolo Paolo nel dire: «La lettera uccide, ma lo Spirito vivifica» (2Cor 3,6).

Questo succede un po’ in tutte le fedi: nel cristianesimo, nell’islam, nel buddhismo (che solitamente s’identifica con la pace e la benevolenza). Ho sentito parlare pure d’induisti zelanti che, mentre vanno in giro, spazzano davanti a loro per non pestare o magari uccidere gli insetti che sono per terra e poi magari vanno a uccidere o appiccare fuoco a chiese cristiane.

Per i fedeli in genere è un modo di tirarsi fuori dalla realtà, tante volte crudele, per entrare in un mondo di sogni e illusioni, che purtroppo molte volte risultano frustranti. Da noi si dice: Resultò peor el remedio que la enfermedad (È stata peggiore la medicina della malattia, ndr).

In realtà il fondamentalismo religioso è un fenomeno molto complesso che spesso finisce con il prevalere sulla ragione, il buon senso e la tolleranza».

Le scelte di Francesco

In questo scenario complesso come si sta comportando la chiesa di papa Francesco?  

«Il papa è stato molto vicino, tollerante e umano verso le altre chiese e denominazioni religiose.  In tale contesto sono significativi i suoi incontri con pastori e comunità di diverse confessioni: anglicana, luterana, valdese, ortodossa. Un atteggiamento il suo che si accompagna a una sana autocritica».

E rispetto all’avanzata del neoevangelismo?

«Ciò che la Chiesa cattolica può fare davanti all’avanzata del neoevangelismo è di seguire il papa. E cioè di rispondere al suo reiterato messaggio di essere una Chiesa missionaria che si muove verso le periferie esistenziali, che promuove la comunione e costruisce ponti invece di muri».

Paolo Moiola
(seconda puntata – fine)

Archivio MC

La prima puntata, Paolo Moiola, Scalare il potere (con religione),
è uscita in aprile 2017.

 


Un fenomeno diffuso

Il virus del fondamentalismo e dell’intolleranza

Non soltanto l’islam e il neoevangelismo, ma anche l’induismo, l’ebraismo e il buddhismo possono ammalarsi con il virus del fondamentalismo e dell’intolleranza. In forme più o meno gravi.

Per definire fondamentalismo e intolleranza facciamo ricorso al dizionario Treccani. Con il termine di fondamentalismo s’intende una «caratteristica dei movimenti religiosi, ma anche ideologici e politici, che propugnano un ritorno radicale ai “fondamenti” di una dottrina, identificati come autentici e infallibili. Adoperato per la prima volta in ambito cristiano negli Stati Uniti alla fine del 19° sec., per indicare le correnti protestanti dichiaratamente ostili al mondo moderno in nome dei cosiddetti fondamenti della fede minacciati dalla secolarizzazione, il termine fondamentalismo viene oggi impiegato per indicare qualsiasi gruppo caratterizzato dall’intransigente difesa del fondamento puro e incontaminato della propria identità, in particolare religiosa». L’intolleranza è invece «l’atteggiamento di chi, nella religione come nella politica o nella scienza, sente così forte l’attaccamento per le proprie idee, opinioni, sentimenti, da non potere ammettere in alcun modo la manifestazione di un pensiero diverso, al quale in base unicamente a tale disformità nega qualsiasi valore; e pertanto intende anche la polemica soltanto come mezzo rivolto a quel fine più generale. Tale atteggiamento nasce dalla convinzione di possedere una verità assoluta e immutabile». Due fenomeni – il fondamentalismo e l’intolleranza – che vanno a braccetto. Non sempre, ma spesso. Con un’immagine metaforica possiamo assimilarli a un virus che colpisce varie fedi religiose, probabilmente tutte, in forme più o meno gravi.

  • Difficile non considerare come fondamentalista e intollerante la sharia, la legge islamica. Abituati ad accostarla a paesi quali l’Arabia Saudita e il Pakistan, oggi vediamo che essa potrebbe essere adottata anche da paesi musulmani fino a ieri considerati laici come la Turchia.
  • Dal 2014 in India è primo ministro Narendra Modi, leader del partito nazionalista indù Bharatiya janata party (Bjp). Con lui al potere i sostenitori del nazionalismo indù sono usciti allo scoperto mostrando una forte intolleranza verso le minoranze religiose musulmane e cristiane, vittime di centinaia di episodi di violenza. Nel paese si stanno diffondendo i Gau Rakshaks, gruppi di vigilantes indù che linciano camionisti, macellai e acquirenti di carne di vacca, animale considerato sacro (Gau Mata) dell’induismo. 
  • In Israele la crescita – in numero e forza – degli ebrei ultraortodossi (Haredim, «timorosi di Dio») è in atto da anni. Gran parte delle colonie nei territori palestinesi occupati sono abitate da loro. Il fondamentalismo degli Haredim è così diffuso e radicato che – all’inizio del 2017 – Ikea, la multinazionale svedese dell’arredamento, ha prodotto un catalogo appositamente per loro: senza immagini di donne.
  • Anche il buddhismo, fede nota per avere la tolleranza tra i propri principi basilari, non è esente dal fondamentalismo. Lo scorso marzo le autorità del Myanmar hanno emesso un ordine per bandire dalla preghiera pubblica il noto monaco buddhista Ashin Wirathu. Il religioso è accusato di diffondere l’odio contro i musulmani Rohingya di Rakhine, stato in cui ci sono state ripetute violenze contro la minoranza islamica. Dire che si tratta di un unicum legato a una situazione particolare non è esatto, dato che anche in Sri Lanka ci sono scontri tra la maggioranza buddhista e le minoranze cristiana e musulmana. Nell’isola è il monaco Gnanasara Thero, leader del gruppo buddhista «Bodu Bala Sena» (Bbs), a predicare il fondamentalismo.

Paolo Moiola




Ai confini dell’Europa / 13:

Il Montenegro


Con una popolazione di soli settecentomila abitanti, indipendente dal 2006, il piccolo paese affacciato sull’Adriatico vive momenti importanti. Dopo le bombe della Nato del 1999, da giugno è divenuto membro di quella stessa organizzazione. La Russia, storico alleato, è sempre presente con i suoi investimenti e i suoi turisti, ma il suo ruolo è stato ridimensionato.

Venticinque maggio 2017, quartier generale della Nato a Bruxelles. Alla fine del summit, i leader dei paesi dell’Alleanza atlantica si preparano alla foto finale di rito. Il neopresidente americano Donald Trump, rimasto indietro, viene sorpreso dalle telecamere mentre sembra spintonare uno dei colleghi, per farsi strada, impettito, verso la prima fila.

Sui social-media si scatena per giorni un dibattito infuocato sul «presidente-cowboy», accusato dagli oppositori di arroganza e scarso spirito diplomatico. L’incidente, reale o gonfiato dai megafoni dell’informazione, ha regalato però un po’ di inaspettata visibilità anche alla presunta «vittima», il premier montenegrino Duško Markovi?, sicuramente poco noto al pubblico internazionale. Markovi?, in realtà, aveva altri motivi, ben più solidi della sua disavventura con Trump, per essere considerato a pieno titolo come uno dei protagonisti dell’incontro. Il suo paese, il Montenegro, era infatti appena stato ammesso nella più potente alleanza militare al mondo come suo ventinovesimo membro, un passo ratificato definitivamente alcuni giorni dopo, il 5 giugno.

Con la membership nella Nato si è chiuso – almeno dal punto di vista formale – un percorso politico e diplomatico durato quasi un decennio, che negli ultimi anni ha dominato il dibattito e le emozioni nella piccola repubblica adriatica, provocando non pochi scossoni anche a livello internazionale.

Dusko Markovic alla NATO, gennaio 26, 2017. Dursun Aydemir / Anadolu Agency

I bombardamenti e Belgrado

Nel 1999, diciotto anni fa, il Montenegro, allora parte della «piccola Jugoslavia» di Slobodan Miloševi?, della quale erano rimasti parte solo la Serbia e lo stesso Montenegro, era stato bombardato dagli aerei dell’Alleanza atlantica durante la guerra in Kosovo.

Il conflitto, durato 78 giorni e terminato con la sconfitta jugoslava, ha portato all’indipendenza di Pristina (dichiarata ufficialmente nel 2008), minando però al tempo stesso in modo irrimediabile le basi della federazione. Sotto la guida di Milo ?ukanovi? , in origine fedelissimo di Miloševi?, il Montenegro si è allontanato in maniera sempre più evidente dalla Serbia: nel 2003 la Jugoslavia si è trasformata in una blanda confederazione sotto il nome di «Unione di Serbia e Montenegro», primo passo verso la definitiva indipendenza di Podgorica arrivata nel 2006.

A decretare la nascita del nuovo stato indipendente montenegrino è stato un combattuto referendum popolare, con i «sì» che hanno superato di poche migliaia di voti il quorum del 55% precedentemente stabilito in accordo con l’Unione europea.

Da allora l’élite politica montenegrina, sempre saldamente controllata da ?ukanovi? e dal suo «Partito democratico dei socialisti», ha spinto sempre più apertamente verso l’integrazione sia nell’Ue (ottenendo lo status di candidato nel 2010) che nella Nato. Se l’adesione all’Unione europea ha goduto e gode di una solida maggioranza nel paese, quella all’Alleanza atlantica è stata invece caratterizzata da una fortissima polarizzazione, ancora viva nonostante l’avvenuta adesione.

Sulla Nato, senza troppi eufemismi, il paese è letteralmente spaccato. A livello interno, a dividere gli animi c’è la ferita ancora non rimarginata dei bombardamenti del 1999, insieme alla strenua resistenza dell’opposizione politica, coagulata in gran parte intorno alla comunità serba del Montenegro (che secondo l’ultimo censimento, tenuto nel 2011, rappresenta il 28,7% della popolazione). Divisioni confermate dagli ultimi sondaggi tenuti prima dell’adesione, che hanno disegnato un paese praticamente spezzato in due sulla questione, con un leggero vantaggio per il fronte del «no».

Anche a livello internazionale non mancano i problemi. Primo fra tutti, le reiterate obiezioni della Russia, paese ritenuto un alleato storico di Podgorica ed impegnato con tutte le sue forze a contenere ogni ulteriore allargamento della Nato in Europa orientale e nei Balcani.

Mosca c’è ancora

Il «rapporto speciale» tra Mosca e il Montenegro va ben oltre i tradizionali legami dovuti all’eredità storica e religiosa (in entrambi i paesi la confessione dominante è quella cristiana ortodossa, vedi box).

Dagli anni ‘90 la Russia si è imposta come uno dei principali investitori in Montenegro, con una forte predilezione per il settore degli immobili (secondo la stampa di Mosca, il 40% delle proprietà nel paese, soprattutto nella fascia costiera, è di cittadini e compagnie russe).

Oligarchi russi hanno partecipato attivamente al processo – spesso poco trasparente – delle privatizzazioni: il caso più noto è l’acquisto del «kombinat» per la lavorazione dell’alluminio di Podgoriza (Kap) da parte di Oleg Deripaska, operazione poi sfociata in un lungo contenzioso legale tra l’oligarca vicino a Vladimir Putin e lo stato montenegrino. Centrale infine anche il settore turistico, che porta ogni anno migliaia di russi nelle località più rinomate della costa, come Budva e Kotor.

Ottobre 2016: fu «golpe», o forse no?

Lo scontro tra la volontà di ingresso nella Nato e l’opposizione russa e lo scontro politico interno è esploso in modo drammatico e inaspettato durante le ultime consultazioni parlamentari, tenute il 16 ottobre 2016. Elezioni che rappresentavano l’ultima spiaggia per le forze contrarie all’Alleanza atlantica.

In circostanze mai del tutto chiarite, un gruppo di venti cittadini serbi e montenegrini è stato arrestato nel giorno del voto, con l’accusa di aver ordito un colpo di stato e di aver tramato per occupare il parlamento di Podgorica e uccidere lo stesso ?ukanovi?. Tra gli arrestati c’è anche Branislav Diki?, ex-comandante delle unità speciali della gendarmeria serba.

Secondo il procuratore speciale montenegrino Milivoje Katni?, lo scopo principale del tentato golpe sarebbe stato proprio bloccare l’ingresso del Montenegro nella Nato, e dietro al complotto ci sarebbero stati agenti russi, in combutta con i leader del «Fronte democratico», principale partito di opposizione in Montenegro.

Per la procura di Podgorica, due cittadini russi sarebbero le menti dietro all’azione, tra questi Eduard Sismakov alias «Shirakov», ufficiale dei servizi segreti militari russi. Al tempo stesso, sul banco degli imputati sono saliti anche i due leader del Fronte democratico, Andrija Mandi? e Milan Kneževi?, privati dell’immunità lo scorso febbraio tra feroci proteste dentro e fuori il parlamento di Podgorica, e oggi in attesa di processo.

Se le teorie sul complotto sono state sostanzialmente accettate dai principali alleati occidentali, Stati Uniti in testa, i dubbi su cosa sia effettivamente successo quel 16 ottobre non sono stati ancora del tutto sciolti. In un clima di tensione palpabile e confusione generalizzata il partito di ?ukanovi?, seppur in calo di consensi, è riuscito a mantenere una stretta maggioranza in coalizione con parte dei socialdemocratici e i partiti delle minoranze bosgnacca, albanese e croata (con 42 seggi su 81). Per l’opposizione, ferma a 39 deputati, il tentato golpe non è stato altro che una machiavellica macchinazione, orchestrata dallo stesso governo per spaventare gli elettori e falsare il risultato finale. I partiti anti ?ukanovi? hanno quindi rifiutato il verdetto delle urne, e da allora boicottano i lavori del parlamento.

Anche i rapporti con la Russia si sono fatti visibilmente tesi: Mosca nega con vigore ogni coinvolgimento, e ultimamente ha vietato l’ingresso in Russia ad alcuni politici di spicco montenegrini. La diatriba non sembra però aver spaventato i turisti russi che, almeno per ora, continuano ad arrivare numerosi sul litorale adriatico.

Montenegro e Ue, un amore non privo di lati oscuri

Lo scontro sulla Nato, monopolizzando il dibattito politico e l’attenzione internazionale, ha lasciato in ombra aspetti importanti della vita politica, economica e sociale di un paese in lenta ma visibile trasformazione, spinta soprattutto dagli sforzi fatti per avvicinarsi all’Unione europea.

Il Montenegro è oggi, forse insieme alla Serbia, l’unico paese dei Balcani che gode di una reale possibilità di entrare a far parte dell’Ue in tempi relativamente brevi. I negoziati, partiti nel 2012, hanno visto l’apertura di 26 capitoli su 33 (altri due dovrebbero essere aperti entro il 2017) e la chiusura di due, quelli «leggeri» su scienza e cultura.

Gli ostacoli principali restano però il consolidamento della democrazia, lo stato di diritto, la libertà di informazione e la lotta alla corruzione. Il Montenegro vede infatti una situazione di democrazia formale che, però, non ha mai dato spazio ad una reale alternanza di potere.

Dal 1991, il governo è saldamente in mano a ?ukanovi?, che alternando la carica di primo ministro con quella di presidente ha sempre tenuto in mano le redini del paese, sopravvivendo ad ogni trasformazione istituzionale e a forti e reiterate accuse di essere personalmente implicato in attività criminali. Per quella più pesante, cioè di essere direttamente implicato nel contrabbando internazionale di sigarette, è stato indagato dalla giustizia italiana, con inchieste arenatesi però definitivamente nel 2009 grazie alla sua immunità diplomatica.

Per l’opposizione ed ampi settori della società civile, la svolta pro-occidentale di ?ukanovi? è soprattutto una mossa tattica, che non significa una reale accettazione dei principi di trasparenza, pluralità e divisione dei poteri. Critiche vengono spesso portate alla stessa Unione europea, che chiuderebbe troppo spesso un occhio, e talvolta anche due, sul reale stato delle cose nel paese pur di mantenere viva l’immagine del Montenegro come una delle rare «success story» a livello balcanico.

Anche il settore dei media vive una situazione di feroce polarizzazione, che si sovrappone a quella politica e di poca trasparenza, dovuta alle normative inadeguate sulla pubblicità della proprietà di quotidiani, tv e portali internet.

Alle visibili interferenze politiche ed economiche sul lavoro dei giornalisti, si aggiunge poi una lunga casistica di minacce ed attacchi personali. Il caso più noto, mai risolto dalla giustizia montenegrina, riguarda l’omicidio del caporedattore di «Dan», Duško Jovanovic?, ucciso nel 2004 davanti alla redazione del giornale, ma anche i casi più recenti come il pestaggio all’editore di «Vijesti» Željko Ivanovi? nel 2007 e i ripetuti attacchi al giornalista dello stesso quotidiano Mihailo Jovovic nel 2009 e nel 2014.

Altro tasto dolente è quello della corruzione, riconosciuto e sottolineato ripetutamente anche dai «progress report» della Commissione di Bruxelles. Estremamente cauto e burocratico, anche il report del 2016 ribadisce che «nonostante qualche passo in avanti, la corruzione rimane prevalente in molte aree dell’amministrazione pubblica, e continua a rappresentare un serio problema [per il Montenegro]». Nonostante le promesse del governo, i casi di malaffare nei piani alti del potere arrivati di fronte ai giudici restano l’eccezione più che la regola.

Con l’adesione alla Nato e la reale, se non immediata prospettiva di adesione nell’Ue, il Montenegro sembra essersi garantito una posizione di relativa stabilità, soprattutto se confrontato con la situazione incerta dei paesi vicini.

Stabilità resa possibile anche dalla mancanza di significative rivendicazioni e diatribe nei confronti degli stati confinanti.

 

Con gli ex fratelli iugoslavi

Podgorica mantiene buone relazioni con l’Albania, anche grazie alla minoranza albanese nel Sud del paese, ma anche col Kosovo – che ha riconosciuto – nonostante la questione irrisolta della definizione dei confini tra i due giovani stati. Con la Croazia resta da definire lo status della contesa penisola di Prevlaka, ma la questione non sembra suscitare al momento particolari preoccupazioni, nonostante il burrascoso passato recente (forze montenegrine parteciparono al bombardamento di Dubrovnik durante le guerre di disfacimento della Jugoslavia).

Il rapporto più delicato riguarda le relazioni con la Serbia, paese «amico-nemico», legato al Montenegro da fortissimi rapporti storici, culturali ed economici. La separazione consensuale ha permesso ai due stati di prendere strade diverse senza sfociare in conflitti aperti, ma ha lasciato in molti – soprattutto in Serbia – un sapore amaro in bocca. Nonostante le recriminazioni sulla questione Nato, e con la Serbia che rimane l’alleato principale di Mosca nell’area, i due vicini potrebbero però ritrovarsi di nuovo insieme in un futuro non troppo lontano, all’interno della cornice dell’Unione europea.

Francesco Martino
 Giornalista, per questa nostra serie ha già scritto l’articolo sul Kosovo, uscito a maggio 2016.


Montenegro – scheda

I 700mila abitanti del Montenegro usano l’euro come moneta de facto. L’agricoltura produce olive, limoni, uva e tabacco (il paese è il primo consumatore al mondo di sigarette). Diffuso è l’allevamento di ovini e caprini. Le privatizzazioni degli ultimi anni hanno dato una scossa alla piccola industria locale, ma la vera ricchezza è il turismo, in continua espansione, soprattutto lungo la costa. Nonostante la costante crescita economica (oltre il 3,5 per cento annuo), il livello della disoccupazione rimane attorno al 17 per cento.


Milo Ðukanovi?: Ventisei anni al potere

«Padre della patria» o «piccolo dittatore criminale», il potente e molto discusso
politico non ricopre più cariche ufficiali.

Nella storia contemporanea del Montenegro, una figura spicca solitaria su tutte le altre: quella di Milo ?ukanovi?, «padre della patria» per alcuni e «piccolo dittatore criminale» per altri, uomo politico in grado di restare alla guida del paese dal 1991 e considerato ancora il reale dominatore politico del Montenegro, nonostante il passo indietro seguito alle elezioni del 2016, con la nomina di Duško Markovi? a nuovo premier. Nato a Nikši? nel 1962, ?ukanovi? si è fatto presto strada nella Lega dei comunisti del Montenegro. Nel 1989, insieme a Momir Bulatovi? e Svetozar Marovi? diventa la «longa manus» di Slobodan Miloševi?  in Montenegro, per poi essere eletto giovanissimo (a 29 anni) a primo ministro, mentre la «Lega dei comunisti» si trasforma nel «Partito democratico dei socialisti» del Montenegro (DPS). Con lo scoppio della guerra con la Croazia, ?ukanovi? si schiera decisamente col partito dei «falchi»: truppe montenegrine partecipano all’assedio e al bombardamento di Dubrovnik dall’autunno 1991 alla primavera 1992. Nel referendum sull’indipendenza del 1992 spinge perché il Montenegro resti unito alla Serbia nella nuova (e ridotta) Repubblica federale di Jugoslavia. Dopo la firma del trattato di Dayton (1995), che mette fine alla guerra in Bosnia, ?ukanovi? inizia a prendere le distanze da Miloševi?, una mossa che gli permette di marginalizzare Bulatovi? e prendere il pieno controllo del paese.

Con la fine della guerra in Kosovo (1999), ?ukanovi? cambia drasticamente ed inizia a spingere per la causa indipendentista, che trionfa nel referendum del 2006, trasformandosi in sostenitore convinto dell’ingresso nella Nato e nell’Unione europea. Criticato in patria dalle opposizioni per il controllo su media e servizi segreti, e accusato di essersi appropriato dell’economia montenegrina e aver truccato a proprio favore varie tornate elettorali, a livello internazionale ?ukanovi? è stato sotto i riflettori per i sospetti di aver intrattenuto rapporti amichevoli con esponenti della criminalità organizzata, e di aver partecipato attivamente al business del contrabbando di sigarette. La procura di Bari lo ha indagato ufficialmente, ma grazie all’immunità diplomatica il caso è stato archiviato. Nel 2015 l’«Organized crime and corruption reporting project» lo ha nominato «Persona dell’anno per corruzione e crimine organizzato», citando insieme alla questione del contrabbando i presunti rapporti con esponenti di spicco del crimine organizzato come Darko Šari?, Stanko Suboti? e Naser Kelmendi, ma anche l’appropriazione di ingenti risorse pubbliche attraverso il controllo della «Prva Banka» e numerose privatizzazioni poco trasparenti realizzate dal suo governo. Dopo 26 lunghissimi anni al governo, dall’ottobre 2016 ?ukanovi? non ricopre più cariche ufficiali. Tuttavia, l’attuale premier Markovi?, già direttore dei servizi segreti, è uomo di fiducia dello stesso ?ukanovi? e dunque parte integrante del sistema di potere dominante.

Francesco Martino


 

La situazione religiosa:
Ortodossi, primi ma divisi

In Montenegro la confessione dominante è quella cristiana ortodossa. Seguita dall’islam.

Storicamente, la confessione dominante in Montenegro è quella cristiana ortodossa, che secondo gli ultimi censimenti raccoglie circa il 70% della popolazione. Oggi la maggior parte dei fedeli ortodossi aderisce alla Chiesa ortodossa serba, mentre un terzo degli ortodossi si riconosce nella Chiesa ortodossa montenegrina, nata nel 1993 in seguito all’allontanamento del paese dalla Serbia, e riconosciuta dal governo di Podgorica, ma non dalle restanti chiese ortodosse. Dal XVII secolo al 1852 il potere temporale e quello religioso, nell’allora regno semi-indipendente del Montenegro, hanno coinciso nella figura del re-vescovo della dinastia Petrovi? Njegoš, noto col titolo di «vladika». La seconda religione del Montenegro è l’islam, con quasi il 20% della popolazione: oltre che dalle diverse comunità di slavi musulmani, come i bosgnacchi e i gorani, la religione musulmana viene praticata anche dalla maggior parte della comunità albanese. I cattolici rappresentano invece poco più del 3% dei credenti: concentrati sul litorale, fanno soprattutto parte della piccola minoranza croata. Poco più del 3% della popolazione si è dichiarato ateo o agnostico.

Fra.Ma.




Liberia:

Cronache dal paese «inventato»


La Liberia ha una storia singolare. È stata fondata da ex schiavi afroamericani. Grande un terzo dell’Italia, non ha mai avuto una storia facile. Dopo due sanguinose guerre civili, è il paese che nel 2014 ha subito più vittime a causa dell’ebola. Ma è anche il primo stato africano con una donna presidente. Oggi i giovani chiedono un futuro che valorizzi la bellezza della loro terra.

Dall’ultimo piano del Ducor Palace Hotel, il grande albergo a 5 stelle di Monrovia, abbandonato dal 1989, il panorama è letteralmente mozzafiato: la capitale della Liberia si snoda a perdita d’occhio ai piedi del fatiscente stabile che sorge su una collina nei pressi della città vecchia. Dopo un primo entusiasmante sguardo, a colpire, però, è un’enorme «macchia» malconcia che occupa il lembo di terra che si affaccia da un lato sull’Oceano Atlantico e dall’altro sul fiume Mesurado. «Quella laggiù è la baraccopoli di West Point, conta circa 70.000 abitanti. I politici sono corrotti e se ne fregano della maggior parte della popolazione che vive in condizioni di povertà estrema. Tra l’altro, quando l’ebola nel 2014 è arrivato in quello slum è stata la fine per il nostro paese che era già in ginocchio», racconta il guardiano dell’albergo con sconforto.

Devastata da due guerre civili (1989-1995 e 1999-2003), la Liberia è una nazione che arranca, da sempre spaccata in due. Da un lato la miseria, dall’altro la ricchezza. La morfologia di Monrovia parla chiaro: l’enorme e caotica baraccopoli, i quartieri popolari, le discariche frequentate da uomini e donne in cerca di cibo e il grande cimitero centrale abitato dai senzatetto, contrapposti alle zone residenziali con vie asfaltate sulle quali si affacciano ordinati compound che, con alti muri e filo spinato, proteggono gli uffici delle tante Ong presenti nel paese e le case della borghesia locale. Ricchissimi e poverissimi, niente classe media.

Ad aumentare il divario vi è l’elevato costo della vita dovuto principalmente alla mancanza di energia elettrica. Ricco di ferro, oro e diamanti, il sottosuolo della Liberia è povero di risorse energetiche. «La poca elettricità che abbiamo la otteniamo con il petrolio d’importazione. I prezzi dei prodotti dei supermercati così aumentano perché devono coprire le spese dei generatori», sospira un tassista alle prese con il caotico traffico. E se si pensa che lo stipendio di un insegnante liberiano si aggira intorno ai 200 dollari al mese, si comprende come per la maggior parte della popolazione sia impossibile accedere ai negozi di alimentari. Si ricorre così ai mercati di strada e si mangia carne proveniente dalle foreste: scimmie, iguane… Ed è anche per questo che l’ebola ha trovato terreno fertile.

Il governo ha vietato il consumo di selvaggina. Un decreto difficile da rispettare soprattutto adesso che il costo della vita si è alzato ulteriormente proprio per il fatto che, per più di un anno, durante l’epidemia, tutto si è bloccato: imprese chiuse, attività ferme, scuole sprangate, ospedali governativi in tilt, confini serrati.

Ricostruzione necessaria

«Dobbiamo provvedere a una difficile ricostruzione del paese su tutti i fronti. Abbiamo perso due anni», spiega l’attuale vicepresidente Joseph Boakai, candidato alle elezioni presidenziali del prossimo ottobre, mentre siede composto nel suo ufficio.

Oggi più di prima, quasi tutti i prodotti vengono importati e i prezzi sono alle stelle. Le perdite stimate dalla Banca mondiale in termini di Prodotto interno lordo sono pari a 240 milioni di dollari. Molti ragazzi che dovevano diplomarsi nel 2014 hanno potuto sostenere gli esami solo nel 2016 e il sistema sanitario è da ricostruire.

«Durante l’epidemia sono morte tantissime persone anche di malaria e altre malattie, perché tutte le forze erano concentrate sulla cura dell’ebola. Ora dobbiamo lavorare per garantire agevolazioni sanitarie a chi ce l’ha fatta per effettuare controlli periodici e curare i lasciti fisici della febbre emorragica», racconta Neima Nora Candy, responsabile della sanità pubblica per la Croce rossa liberiana.

Del resto l’epidemia, direttamente o indirettamente, ha colpito tutti e la Liberia deve fare i conti con le conseguenze lasciate dal virus, imparando dai suoi sbagli. Dopo essere stata dichiarata «ebola free» l’11 maggio 2015, la Liberia ha dovuto affrontare altri tre casi immediatamente isolati. Solo in questa nazione sono 4.809 i morti dichiarati (dati Organizzazione mondiale della sanità, Oms). Le persone all’inizio faticavano a credere al virus. Le usanze tradizionali, la diffidenza nei confronti degli operatori sanitari occidentali, il ritardo con cui è stata dichiarata l’emergenza (l’8 agosto 2014), un governo e un sistema sanitario non pronti: tanti sono stati i fattori che hanno permesso all’epidemia di uccidere le persone come mosche nei villaggi e di arrivare in men che non si dica nella capitale.

«Una volta giunta in città e penetrata a West Point è stato un disastro. Così qui in Liberia si è registrato il più alto numero di morti rispetto alle vicine Sierra Leone (3.955) e Guinea (2.536). I risultati? Oltre ai cadaveri, quasi 6.000 sopravvissuti e altrettanti orfani di madre, padre o di entrambi», afferma Tolbert Nyesmah, attuale viceministro della Salute.

L’eredità dell’epidemia

L’emergenza non è quindi terminata anche se, come dice Amr Nugy, a Monrovia per conto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), «essendo stata dichiarata la fine della crisi arrivano meno fondi, nonostante i problemi siano ancora tanti, tra emarginazione e povertà». Le conferme si trovano camminando per la città, parlando con le persone, con i sopravvissuti che lottano ogni giorno contro dolori fisici e disturbi psicologici. «Sono diventata sorda ad un orecchio e cieca ad un occhio. Appena sono uscita dal centro di trattamento di Medici senza frontiere (Msf), le persone della mia comunità mi emarginavano: avevano paura». Lela Glay ha 45 anni e vive ad Harbel, la contea nei pressi dell’aeroporto. È depressa, uno stato emotivo a lei sconosciuto prima di contrarre il virus. Ha sei figli e a stento riesce a tirare avanti. «Chi ce l’ha fatta si porta dietro uno stigma difficile da cancellare», spiega con sconforto suor Anna Rita Brustia, missionaria della Consolata impegnata in Liberia dagli anni Settanta.

Innumerevoli sono anche gli orfani dell’ebola: solo ad Harbel se ne contano 614. Tra Liberia, Sierra Leone e Guinea sono 16.600 secondo i dati Unicef. Non esistendo la cultura dell’orfanotrofio, i bambini sono per lo più stati presi in carico da parenti. Si sono create così famiglie allargate enormi, difficili da gestire. «Mi prendo cura dei miei quattro nipoti. Non riesco però a mandarli a scuola tutti», ammette con sconforto un giovane tassista.

Inoltre, ad aggravare la già difficile situazione, vi sono le più giovani vittime dell’ebola: bambini di pochi mesi che dovrebbero essere il futuro della Liberia e che invece, colpiti indirettamente dal virus, si trovano a lottare per la sopravvivenza. Nel Bardnesville Junction Hospital, l’ospedale pediatrico aperto da Msf nel 2014 per curare anche i pazienti affetti da altre patologie, i letti sono occupati da piccoli appena nati. «Sono malnutriti e molti sono vittime dell’abuso di paracetamolo. Durante l’ebola si è infatti registrato un enorme innalzamento del consumo del farmaco che le mamme spaventate somministravano ai figli senza conoscere i dosaggi. Dal momento che i piccoli non guarivano gliene davano sempre di più. Questa brutta abitudine è rimasta tutt’ora», spiega l’infermiera Kathy Beuve di Msf Francia. È infatti necessario continuare a sensibilizzare la popolazione su diversi fronti perché, purtroppo, non sono da escludersi nuovi casi. «Il governo adesso è preparato se scoppiasse un’emergenza. Però sappiamo che il virus persiste nello sperma maschile per qualche mese. Quindi dobbiamo stare sempre allerta e monitorare soprattutto le comunità più isolate», ammette il viceministro.

Verso le elezioni

Nel frattempo la Liberia si prepara alle elezioni che si terranno il prossimo 10 ottobre, quando la popolazione si recherà alle urne per votare sia per il nuovo presidente che per il rinnovo della camera dei rappresentanti. Al potere dal 2006, 78 anni, prima presidente donna dell’Africa, vincitrice del Premio Nobel per la Pace nel 2011, l’attuale capo di stato liberiano Ellen Johnson Sirleaf non si ricandiderà, nel pieno rispetto della Costituzione che prevede due mandati. A rappresentare il partito al potere (Unity Party) sarà infatti l’attuale vicepresidente Joseph N. Boakai.

«La Liberia ha le risorse per diventare una grande potenza. Dobbiamo certo provvedere a migliorare le infrastrutture per favorire i commerci e il turismo. Fuori Monrovia, per esempio, le strade sono tutte sterrate e per raggiungere alcune bellissime località che potrebbero attirare turisti ci vogliono ore. Fondamentale per la nostra economia è inoltre l’agricoltura, sulla quale intendo puntare», spiega Boakai osservato dal ritratto della Sirleaf appeso al muro alle sue spalle. L’agricoltura in Liberia occupa infatti il 70% della forza lavoro e il 44,7% del Pil totale che si aggira intorno a poco più di 2 miliardi di dollari. Tra le colture per l’esportazione prevalgono quella di caucciù, cacao, caffè e palma da olio. Però, come afferma un contadino che abita nella zona di Harbel (dove si trovano le coltivazioni di caucciù della statunitense Firestone), «i giovani faticano a trovare lavoro. Prima le guerre civili, poi l’ebola. Per noi è un periodo davvero difficile e la popolazione ha perso la fiducia nella classe politica e nella Sirleaf alla quale all’inizio tutti abbiamo creduto con entusiasmo».

«Molti di noi non sanno chi votare», ammette un giovane studente davanti all’Università di Monrovia. Il principale partito dell’opposizione è il Congress for Democratic Change, cappeggiato dall’ex calciatore George Weah: vincitore del Pallone d’oro nel 1995 e già candidato alle presidenziali nel 2005, quando perse proprio contro la Sirleaf. Inoltre nel 2011 partecipò, con scarsi risultati, alla corsa per diventare vicepresidente e attualmente ricopre la carica di senatore. «Alcuni di noi lo ammirano perché rappresenta riscatto e forza di volontà, però a livello politico molti hanno dei dubbi», prosegue il ragazzo.

Il paese «inventato»

Fondata nel 1822 dall’American Colonization Society (una società umanitaria statunitense che propugnava la liberazione degli schiavi afroamericani e il loro reinserimento in Africa), la colonia proclamò l’indipendenza il 26 luglio 1847 e adottò una Costituzione su modello di quella degli Usa.

Oggi il paese si trova ad attraversare un delicato momento di transizione con molti drammi alle spalle.

Nel frattempo la missione Onu, stabilitasi in Liberia il 19 settembre 2003 con il compito di mantenere pace e sicurezza, viene progressivamente ritirata.

A guardare avanti, per fortuna, ci sono i giovani di Monrovia, quelli cresciuti nei quartieri più poveri. Come i cantanti Hip Co (hip hop liberiano) che durante l’epidemia hanno continuato a riunirsi per creare canzoni che, in lingua locale, spiegassero alle persone le misure di sicurezza da adottare. Oppure i giovani surfisti di Robertsport (cittadina a 120 km da Monrovia) che nonostante il già scarso turismo sia calato definitivamente, oggi si battono per rivalutare le meravigliose spiagge che sorgono a Nord della capitale. E, come dicono loro con speranza e convinzione, «arriveranno tempi migliori anche per la nostra nazione». Sono sopravvissuti alla guerra e all’ebola, ora non hanno più paura di niente.

Valentina Giulia Milani


Cronologia essenziale

Dal «back to Africa» all’«ebola free»

  • 1821 l’American Colonization Society acquista una porzione di territorio della Sierra Leone per fornire agli schiavi afroamericani una terra dove poter tornare.
  • 1822 il territorio dell’attuale Liberia inizia a essere popolato da ex schiavi che fondano Monrovia.
  • 1836 abolizione dei lavori forzati.
  • 1839 la colonia si trasforma in Commonwealth autonomo.
  • 1841 il Congresso americano chiama il territorio Liberia, ossia «terra dei liberi».
  • 1847, 26 luglio il Congresso liberiano, che rappresenta solo gli americani espatriati e non i nativi, proclama l’indipendenza.
  • 1958 la discriminazione razziale è messa fuori legge.
  • 1980 il sergente Samuel Doe s’impossessa del potere con un golpe militare.
  • 1985 Doe vince alle elezioni presidenziali.
  • 1989 il Fronte nazionale patriottico della Liberia (Fnpl), guidato da Charles Taylor inizia la guerriglia contro il presidente Doe.
  • 1990 Doe viene ucciso dai ribelli.
  • 1995 accordi di pace di Abuja (Nigeria).
  • 1997 Taylor vince le elezioni presidenziali e impone un regime autoritario e corrotto.
  • 1999 Ghana e Nigeria accusano Taylor di appoggiare il Fronte rivoluzionario unito (Ruf) in Sierra Leone, mentre Gran Bretagna e Usa minacciano di sospendere gli aiuti alla Liberia.
  • 2000le forze liberiane attaccano i ribelli del Lurd (Liberiani uniti per la riconciliazione e la democrazia) nel Nord.
  • 2003l’offensiva del Lurd e l’arrivo delle truppe americane costringono Taylor a cercare rifugio in Nigeria. Vengono firmati gli accordi di pace ad Accra. Inizia la missione di pace dell’Onu.
  • 2005a novembre Ellen Johnson-Sirleaf vince le elezioni. È la prima donna a essere eletta presidente di uno stato africano.
  • 2006Taylor viene arrestato. Verrà condannato a 50 anni di carcere nel 2012 dalla Corte Speciale per la Sierra Leone.
  • 2011 la presidente Johnson-Sirleaf riceve il Premio Nobel per la pace e a novembre vince di nuovo le elezioni contro l’ex calciatore George Weah.
  • 2014il virus ebola dilaga nel paese.
  • 2015, 11 maggiola Liberia viene dichiarata «ebola free».
  • 2017, 10 ottobre sono in programma le prossime elezioni presidenziali.

Va.Mi.