I Maya, il mistero di una civiltà perduta


Visitare lo stato messicano dello Yucatán è come tuffarsi in un mare misterioso. Il mistero, naturalmente, è quello della civiltà Maya che si sviluppò lì e nelle regioni contigue dell’America centrale (in Chiapas, Guatemala, Belize, Honduras, El Salvador) raggiungendo la sua età classica tra il 250 e il 900 dell’era cristiana. Ciò che sorprende sono le loro impressionanti realizzazioni, ma anche l’improvvisa scomparsa della loro civiltà.

Edgardo Coello, la guida che mi accompagna con grande preparazione e passione nel mio breve tour nelle terre dei Maya, afferma che le massime realizzazioni di questo popolo furono la scrittura, la matematica, il calendario e l’architettura monumentale, che lo pongono al livello delle massime civiltà della storia, come gli Egizi e i Romani. E ha ragione. Quando ci si trova di fronte alle loro piramidi, ai palazzi amministrativi, agli sferisteri o campi di pelota (il gioco rituale con una palla più importante della religione maya), alle stele e alle sculture, non si può non provare lo stesso senso di meraviglia che si prova di fronte alla grandiosa maestà delle piramidi egizie o dei massimi monumenti delle grandi civiltà di ogni continente.
E ciò che più sorprende è che tali costruzioni furono realizzate in un continente isolato dal resto del mondo dove non si conoscevano ancora la lavorazione dei metalli e l’uso della ruota. Costruzioni così grandiose indicano una forte organizzazione sociale, guidata da una gerarchia militare/sacerdotale, ma sostenuta dalla fatica di migliaia di lavoratori. Segnalano anche la maturazione di competenze architettoniche e tecniche molto evolute, tali da consentire a quegli edifici di essere assolutamente stabili ancora oggi a distanza di più di mille anni.

Le ipotesi fantasiose

L’avvento di una civiltà così straordinaria in condizioni così improbabili suscita la fantasia di molti appassionati. Alcuni arrivano a sostenere che i Maya fossero extraterrestri giunti sulla Terra per lasciare con la loro impronta un messaggio di armonia e rispetto della natura, e poi partiti improvvisamente, forse per la previsione di un periodo nefasto. Altri riprendono il mito platonico di Atlantide, isola o continente dove viveva un popolo estremamente evoluto. Il diluvio universale sommerse Atlantide e il suo civilissimo popolo si disperse in diverse aree, tra le quali non ci furono più rapporti fino all’era moderna. Questo spiegherebbe la somiglianza sorprendente tra le piramidi maya e quelle egizie, somiglianza altrimenti incomprensibile, a parere di questi interpreti, se i due popoli non derivassero da una lontana origine comune.

Piramide a gradoni di Sakkara o Saqqara in Egitto

Le piramidi

In effetti le affinità tra le piramidi maya e quelle egizie sono numerose, dalla forma (la somiglianza in questo caso è maggiore con le primissime piramidi, come quella a gradoni del faraone Zoser a Sakkara, e con gli ziggurat della Mesopotamia), alla loro funzione sepolcrale, alla presenza di simbologie astronomiche, astrologiche ed esoteriche, all’uso della pietra. In entrambi i casi si tratta di opere che stupiscono per la grande competenza costruttiva e la complessità realizzativa messe in atto da popoli che non disponevano dei potenti mezzi tecnici moderni. Nelle città maya erano molto importanti, oltre alle piramidi, altri edifici ornati con sculture e stele che, nati probabilmente come centri cerimoniali, avevano conservato un’importante funzione religiosa anche quando erano ormai abitazioni e sedi del potere politico e militare. L’evoluzione delle città comportò anche cambiamenti culturali e simbolici: le iscrizioni sui monumenti, per esempio, che in origine erano prevalentemente mitologiche o astrologiche, nel tempo si trasformarono in narrazioni di storie riguardanti le dinastie regnanti. Una grande differenza tra Centroamerica ed Egitto sta, comunque, nella cronologia: le piramidi maya furono costruite millenni dopo quelle egizie. Viste le molte somiglianze, ci si è domandato se ci sia una relazione tra le due civiltà, ma questo per ora è un quesito senza risposta.

Ziggurat di Ur

La storia

La ricostruzione degli storici è naturalmente molto diversa dalle interpretazioni fantasiose che abbiamo visto, anche se è in continua evoluzione, data la scarsità di informazioni a loro disposizione. Molti monumenti maya sono tuttora nascosti dalle foreste e il lavoro che gli archeologi devono ancora fare è enorme. La scrittura non è stata integralmente decifrata. Per non parlare degli innumerevoli documenti che sono andati distrutti a causa di secoli di guerre intestine tra le città maya e i popoli del Messico centro-settentrionale e poi per mano della colonizzazione spagnola. Nei primi decenni del XVI secolo, Diego de Landa, vescovo e inquisitore dello Yucatán, ebbe un ruolo ambiguo e contraddittorio. Da un lato distrusse codici importantissimi e proibì usanze tradizionali per sradicare quella che lui definiva l’eresia, dall’altro cercò di comprendere la cultura maya e di decifrarne la scrittura. Nacque così quello studio della civiltà maya che è tuttora in corso.

Quello che si sa è che i Maya si stanziarono in America centrale nel secondo millennio prima di Cristo e maturarono la propria cultura in un lungo periodo, detto formativo o preclassico, in cui, grazie anche al contatto con altre culture come quelle mesoamericane degli olmechi e degli zapotechi, svilupparono i principali elementi della loro civiltà. Questa raggiunse l’apogeo nel cosiddetto periodo classico, tra il 250 e il 900 d.C., quando l’organizzazione sociale si diede la forma politica di città stato rette da monarchie assolute ereditarie, spesso in guerra tra loro, ma a volte alleate. Si affermarono soprattutto le città di Tikal, in Guatemala, e di Calakmul, nel Petén, che si posero a capo di alleanze (tra loro ostili) alle quali aderirono le altre città come Palenque, Copán e Yaxchilán. Furono i secoli delle massime realizzazioni della civiltà maya.

Stele davanti a un tempio di Calakmul

La matematica, il calendario, l’astronomia

Matematica, astronomia e calcolo del tempo erano strettamente intrecciati.

Matematica

I Maya elaborarono un efficace sistema di calcolo su base vigesimale (cioè su base 20), funzionale quanto il nostro sistema decimale e forse più adatto a fare operazioni su numeri elevati. Mentre le cifre dei nostri numeri, infatti, rappresentano, da destra a sinistra, le unità, le decine, le centinaia, le migliaia, ecc., i glifi dei numeri maya erano, dal basso verso l’alto, le unità (rappresentate graficamente con dei punti, mentre le cinquine erano raffigurate con delle barrette), le ventine, i multipli di 360, di 7.200, di 144.000 e così via.

In un sistema vigesimale ci si sarebbe aspettati una serie 20-400-8.000-160.000. Il fatto che la terza cifra indichi invece i multipli di 360 deriva dal legame tra la matematica e il calendario. Venti era il numero dei giorni del mese maya e l’anno era considerato composto di 18 mesi per un totale di 360 giorni: quindi il mese si fondava sulla matematica in sé (20 giorni, secondo il sistema vigesimale) e la matematica sul calendario (la terza cifra si fonda sui 360 giorni dell’anno). I Maya – e forse ancor prima di loro gli Olmechi e gli Zapotechi – furono i primi a utilizzare lo zero, già prima dell’era cristiana, mentre gli Indiani lo scoprirono nel V secolo d.C. e gli Arabi lo ereditarono dagli Indù nell’VIII.

Astronomia

I Maya applicarono il proprio efficiente sistema di calcolo all’astronomia, dove raggiunsero risultati notevoli che stupiscono per la semplicità dei mezzi utilizzati, i quali si riducevano all’osservazione a occhio nudo e al calcolo matematico. Oltre alla precisione quasi assoluta nella determinazione dell’anno solare in 365,242 giorni, essi erano in grado di prevedere con altrettanta precisione le eclissi solari, di calcolare le rivoluzioni di Venere (pianeta al quale prestarono grande attenzione) e i cicli della luna e avevano profonda conoscenza delle stelle. Gli osservatori astronomici erano tra gli edifici più importanti delle principali città, come Palenque e Chichén Itzá.

El Caracol, osservatorio astronomico di Chichén Itzá

Calendario

Il calendario maya era molto complesso e si collegava con la matematica, con la religione e con l’astronomia. È chiaramente di origine matematica la divisione, che abbiamo già visto, del mese in 20 giorni e astronomica quella dell’anno in 18 mesi per raggiungere i 360 giorni. Ma i Maya sapevano benissimo che l’anno solare è composto di 365 giorni e una frazione, per cui ai 18 mesi aggiungevano 5 giorni, che consideravano infausti. Accanto a questo calendario civile, essi ne seguivano uno rituale, che prevedeva un anno di 260 giorni, cioè di 13 mesi di 20 giorni. E dato che il primo giorno dei due calendari coincideva una volta ogni 52 anni (cioè 18.980 giorni, laddove 18.980 è il minimo comune multiplo di 260 e 365), questo periodo era considerato un ciclo storico di estrema importanza.

I Maya avevano una concezione ciclica del tempo, ispirata dalle loro conoscenze astronomiche. Come i giorni sono cicli di dì e notte e gli anni solari cicli di stagioni, così, a livello più grande, la vita universale si divide in cicli cosmici. Essi temevano che alla fine di un ciclo potesse avvenire la fine di un mondo, sempre seguita però dalla nascita di uno nuovo. Secondo i Maya la quinta era cosmica doveva finire per il 21 dicembre 2012, giorno nel quale sarebbe iniziata la sesta era (cfr. MC 1-2/2013 p.51).

Poiché ogni era cosmica era stimata in circa 25.000 anni, è evidente che i Maya avevano un’idea dell’antichità del mondo molto più estesa rispetto al pensiero europeo dello stesso periodo storico.

Era considerato importante anche il periodo di 20 anni, detto katun. Sia la vita del singolo uomo, sia le vicende politiche erano scandite in katun, che si credevano governati dalle divinità che decidevano la fortuna favorevole o sfavorevole di ogni giornata e di ogni periodo. Il computo degli anni della storia si teneva a partire da un anno zero che coincideva con il 3.114 a.C., per motivi che sono ancora ignoti.

Un chacmool di Chichén Itzà

La religione

La religione dei Maya era un politeismo estremamente complesso, con una divinità suprema, Itzamná, circondata da un pantheon di numerosissimi dei associati ai punti cardinali, ai colori, ai numeri, ai periodi del tempo (ogni giorno ha un dio benefico o malvagio che lo governa), ai corpi celesti (Sole, Luna, Venere), agli elementi naturali (pioggia, mais, alberi, animali come il giaguaro e il colibrì). Erano particolarmente importanti il culto del dio del mais, su cui si fondavano l’agricoltura e l’80% dell’alimentazione, e della pioggia (Chac), poiché la siccità era la principale causa di carestia. Compito dell’importantissima casta sacerdotale era interpretare, servendosi anche della matematica e dell’astronomia, la complicatissima ragnatela di influenze positive e negative delle varie divinità per stabilire i giorni fausti o nefasti per ogni azione umana, dalla guerra al matrimonio, alla semina, all’incoronazione di un re.

sacro cenote di Chichén Itzà

I sacerdoti organizzavano e conducevano le cerimonie, precedute da lunghi periodi di purificazione mediante digiuno e astinenza sessuale. L’aspetto più importante dei riti religiosi, che prevedevano anche danze, banchetti e feste pubbliche, erano le offerte e i sacrifici agli dei, per ottenerne la benevolenza. Venivano offerti oggetti di valore e sacrificati animali e, per nutrire e saziare soprattutto gli dei della guerra, esseri umani. In cima alle piramidi destinate ai sacrifici umani era collocata una scultura di pietra, il chacmool, sul quale alle vittime veniva estratto il cuore ancora pulsante e offerto agli dei. I sacrifici umani erano un’antichissima tradizione mesoamericana, ma aumentarono quando i Maya furono conquistati e dominati dalle popolazioni del Nord, i Toltechi, che introdussero il culto del serpente piumato, Quetzalcoatl, che in lingua maya fu chiamato Kukulkan.

Oggetti e vittime sacrificali erano gettati anche nei sacri cenote, pozzi sacri, in genere all’interno di grotte, per ottenere il favore di Chac, il dio delle piogge, fondamentale per evitare le sofferenze della siccità. I Maya operavano anche gli autosacrifici, cioè donavano il proprio sangue agli dei, gli uomini pungendosi i genitali, le donne la lingua.

La scrittura

Non sarebbe stato possibile raggiungere risultati così profondi in matematica e astronomia se i Maya non avessero disposto di un sistema efficiente di segni per registrare, comunicare, trasmettere e sviluppare osservazioni, calcoli, teorie e interpretazioni. Essi furono la civiltà americana che elaborò il linguaggio scritto più complesso. Oltre ai segni per indicare i numeri, produssero un complicato sistema di grafemi per esprimere la loro lingua, tuttora compreso solo in parte dagli studiosi.

Nelle epigrafi sulle stele, gli architravi, le pareti e i gradini dei monumenti raccontarono prevalentemente le gesta, la vita e la storia dei regnanti delle città stato, sempre accuratamente datate, mentre nei codici (scritti in genere su fogli ricavati da pelle di cervo o da cortecce dell’albero del fico) trasmisero soprattutto le proprie dottrine religiose, astronomiche e scientifiche. Per tanto tempo gli studiosi hanno discusso se si trattasse di una scrittura fonetica (i cui caratteri, cioè, rappresentassero i suoni della lingua) o ideografica (se rappresentassero, invece, direttamente gli oggetti e i concetti). Le ricerche della seconda metà del XX secolo hanno dimostrato che si trattava di un sistema misto, in cui alcuni caratteri sono fonetici sillabici, altri ideografici.

La scomparsa

Un altro grande mistero è quello della scomparsa della civiltà Maya. Come sono stupefacenti le loro realizzazioni con i pochi mezzi tecnici di cui potevano disporre, così è sorprendente la rapidità con cui la loro civiltà scomparve. Edgardo, la mia ottima guida, sottolinea che a scomparire non fu la popolazione, che esiste ancora oggi e conta milioni di individui, ma la civiltà che si era manifestata nelle città stato e nei loro maestosi monumenti. Alla fine dell’età classica, dopo il 900, gran parte delle città furono abbandonate, al punto che la foresta le inghiottì. Ancora oggi molti monumenti e, chissà, interi centri sono sepolti o nascosti e ci vorranno tempo e finanziamenti per recuperarli. Nel cosiddetto periodo postclassico la civiltà maya sopravvisse nelle regioni settentrionali, dove, però, subirono l’invasione e il dominio dei popoli del Messico centrosettentrionale, come i Toltechi di Tula. Ci fu una fusione che produsse quella che viene chiamata la civiltà maya-tolteca, in cui ai caratteri tradizionali della cultura maya si aggiunsero una mentalità più fortemente militaristica e l’introduzione di nuovi culti.

Inizialmente ebbe un periodo di splendore ed egemonia locale la città di Chichén Itzá, dove furono costruiti monumenti di tale interesse (come la piramide detta El Castillo) da far entrare il sito nel novero delle sette meraviglie del mondo. Alla sua crisi, intorno al 1220, emerse l’ultima importante città maya, Mayapán, che esercitò il proprio dominio regionale fino al 1440. Quando nella regione arrivarono gli spagnoli (lo Yucatán fu conquistato da Francisco de Montejo nel 1541), la grande civiltà maya era pressoché scomparsa. Gli spagnoli s’impegnarono in un’opera di sradicamento di quel che era rimasto della cultura e della religione locali, distruggendo monumenti, documenti e usanze e imponendo i propri modelli culturali e la religione cattolica. Il re di Spagna affidò ai conquistatori, con l’istituzione dell’encomienda (affidamento), lo sfruttamento del territorio e degli abitanti, con l’impegno a convertire la popolazione indigena al cattolicesimo. Le antiche città maya furono sostituite da città di modello europeo, come Mérida, nuova capitale dello Yucatán.

Quali furono le cause del declino di una civiltà tanto forte? Alcuni studiosi ipotizzano cause come l’eccessivo incremento demografico, lo sfruttamento esasperato del suolo, la deforestazione, la siccità, epidemie, disastri naturali come terremoti e uragani. Altri – ed Edgardo è d’accordo con loro – ritengono più decisive le guerre tra le diverse città stato, forse rivolte interne della popolazione contadina contro la casta dominante guerriera/sacerdotale (è l’ipotesi di Eric Thompson) e, in una società già indebolita, le invasioni dei Toltechi e successivamente degli spagnoli, che diedero il colpo finale a un mondo già in crisi per ragioni interne.

I Maya oggi

Quando chiedo a Edgardo, che è orgoglioso della percentuale di sangue maya ricevuto dalla madre, che cos’è rimasto dell’antica civiltà nei milioni di Maya che ancora oggi vivono nel Messico meridionale e in altri paesi dell’America centrale, mi risponde: la lingua, il cibo (fondato sulla netta prevalenza del mais), molte tradizioni, lo sciamanesimo e abitudini, come dormire sulle amache, assolutamente adatte al clima tropicale. I Maya sono ancora un popolo fondamentalmente contadino, anche se oggi nello Yucatán si sta affermando il turismo.

Mercato “Maya” oggi

Eric Thompson, archeologo che visse diversi decenni a contatto con i Maya odierni, riassunse il loro carattere in tre parole chiave: religiosità, moderazione, obbedienza. L’antica religione maya sacralizzava ogni aspetto della natura e della vita individuale e sociale degli esseri umani. Oggi i Maya hanno assorbito la religione cristiana, ma l’hanno fusa, soprattutto nelle campagne, con le antiche credenze. Spesso i santi cristiani sono associati ad antiche divinità e le cerimonie religiose conservano aspetti dei vecchi culti. I Maya sono un popolo che ama il lavoro ed è portato a dominare le proprie passioni. Il digiuno e l’astinenza sono sempre state per loro le vie della purificazione. Solo l’alcol, da sempre presente nella loro cultura e nei rituali religiosi come mezzo per raggiungere esperienze estatiche e allucinatorie, può talvolta alterare animi altrimenti moderati e misurati. I Maya hanno tuttora un forte senso della tradizione e il culto della propria famiglia.

Anche al turista che li ha frequentati per pochi giorni appaiono come un popolo sereno, pacifico, accogliente, sorridente e molto laborioso. Come scrisse Thompson, il loro motto potrebbe essere: «Vivi e lascia vivere».

Sergio Parmentola

Sergio Parmentola insieme alla sua guida, Edgardo Coello

 

 




Ecuador: Meglio i turisti che il petrolio


Sani Isla è il nome di una comunità indigena quichua di un migliaio di persone che vive sulle rive del fiume Napo, davanti al parco nazionale Yasuní. In questi anni la comunità ha dovuto affrontare le mire espansionistiche delle società petrolifere, prima della statunitense Occidental Petroleum (Oxy), poi della ecuadoriana Petroamazonas. La prima se n’è andata, la seconda ha iniziato a operare anche all’interno del vicino Yasuní, scrigno mondiale della biodiversità e casa di alcune etnie isolate. Nel frattempo, dopo varie esitazioni, la comunità di Sani Isla ha scelto la strada del turismo ecosostenibile, dell’artigianato e della silvicoltura. Allontanando le sirene delle imprese petrolifere. Almeno per il momento.

Francisco de Orellana. Il Rio Napo è uno dei maggiori affluenti del Rio delle Amazzoni. È un fiume importante perché attraversa la foresta amazzonica ecuadoriana, costeggiando tra l’altro il Parco Nazionale Yasuní, uno scrigno inestimabile di biodiversità (nonché casa di alcune etnie indigene isolate)1. La nostra lancia a motore, partita dal piccolo molo di Francisco de Orellana (anche conosciuta come Coca), schizza veloce sul pelo dell’acqua. Ogni tanto decelera o vira con agilità per evitare tronchi di alberi che affiorano dall’acqua.

Il fiume, largo e abbastanza profondo, è percorso soprattutto da canoe e da piccole imbarcazioni a motore. Ma ogni tanto s’incrociano anche chiatte che trasportano camion legati all’industria petrolifera. È proprio il petrolio che sta mettendo a repentaglio i fragili equilibri dell’Amazzonia ecuadoriana. Lo si capisce anche da una banale osservazione dell’ambiente circostante. Non molto dopo la partenza dal porticciolo di Coca, sulla riva sinistra del Napo notiamo alcune torri petrolifere sormontate dalla tipica fiamma che brucia il gas in eccesso2. Senza dire degli sbancamenti di cui sono fatti oggetto alcuni tratti della sponda sinistra del fiume.

Avvistamenti di questo tipo per fortuna non si ripetono nelle due ore successive di navigazione: sulle due rive del Napo è pura vegetazione. A un certo punto, mentre sulla riva opposta è già territorio del Parco Yasuní, la lancia inizia a rallentare e si avvicina alla sponda sinistra dove c’è un ormeggio e una passerella. «Bienvenidos a Sani Isla», recita il cartello.

Le donne di Sani Isla

Ci accolgono quattro giovani donne, indigene dell’etnia quichua3 che abita questo spicchio d’Amazzonia ecuadoriana. Indossano semplici ma eleganti camicette colorate e gonne a falde. Una tabella di legno conficcata nel terreno spiega che a Sani Isla, con il supporto di due organizzazioni, la statunitense Rainforest Partnership e la ecuadoriana Conservación y Desarrollo, si porta avanti un progetto lavorativo per le donne della comunità.

Una signora con i capelli neri raccolti in una treccia ci spiega che qui lavorano 34 donne divise in 5 gruppi che si alternano settimanalmente. Dal 2010 le donne producono oggetti d’artigianato – collane, braccialetti, orecchini, borse di stoffa -, fatti con semi e fibre vegetali, raccolte nella foresta o appositamente coltivate. I prodotti vengono poi venduti ai turisti che arrivano dai vicini lodge (Sacha, Sani, Napo Wildlife Center) della foresta e che visitano Sani Isla.

Quello dei lodge è un turismo con un impatto ambientale contenuto sia per i numeri esigui di turisti che muove (è costoso) sia per le sue modalità ecosostenibili. In ogni caso, nessuna attività umana produce un impatto comparabile con la devastazione insita in qualsiasi attività petrolifera (esplorazione, perforazione, estrazione, trasporto, ecc.). La comunità di Sani Isla lo sa benissimo perché in passato, sul rapporto con le imprese petrolifere, si è divisa al proprio interno.

Nel 1998 i leader della comunità firmarono un accordo con l’impresa statunitense Occidental Petroleum (Oxy), per consentire l’esplorazione petrolifera sul loro territorio che si estende per 20.567 ettari legali (e altri 42.000 reclamati)4. Come compensazione ottennero la costruzione di una struttura ecoturistica, il Sani Lodge. Questo opera dall’anno 2000 ed è interamente gestito dalla comunità, che ne ricava un reddito importante. Per fortuna, la Occidental non trovò il petrolio e se ne andò. Venne però sostituita dalla ecuadoriana Petroamazonas (del gruppo Petroecuador), che già operava in zona e con la quale venne sottoscritto un nuovo accordo. Ma tra molti abitanti di Sani Isla, divenuti nel frattempo più consapevoli dei pericoli dell’attività petrolifera, iniziò a crescere il malcontento. Fu così che, nel dicembre del 2012, l’assemblea comunitaria rigettò quell’accordo, aprendo un contenzioso legale e politico tuttora in corso.

Una donna del gruppo, Mariska, ci accompagna per illustrarci il luogo e le piante che crescono qui attorno. È molto giovane e un po’ timida, ma risponde con gentilezza alle domande, anche a quelle che preferirebbe evitare. «Un tempo – spiega – la comunità lavorava con le compagnie petrolifere, adesso soltanto con il turismo, che è meglio perché non inquina».

A Sani Isla non ci sono abitazioni dato che le singole famiglie vivono lungo il Rio Napo. Qui ci sono soltanto le strutture comunitarie, alcune costruite in maniera tradizionale (con legno e tetti di frasche), altre in muratura. In mezzo un campetto da calcio, una serra, un’antenna radio. Ai lati alcuni piccoli appezzamenti coltivati con prodotti della foresta, soprattutto cacao.

Le strutture più grandi sono due semplici costruzioni in muratura dalla forma rettangolare, un solo piano, grandi finestre e tetto piatto. In una ci sono una lavagna e banchi scolastici su cui poggiano alcuni libri. L’altra, distante pochi metri, ospita un’ampia sala con sedie di plastica dove si tengono le assemblee. Sul bancone, un libro: Pachacamacpac Quillcashca Shimi, recita la copertina. Lo apriamo per capire di che tratti. È una Bibbia bilingue (spagnolo e quechua), segno che la sala è utilizzata anche per le funzioni religiose.

Nessuna compensazione vale l’inquinamento

Sulla porta di una casetta notiamo una giovane donna con un neonato in braccio. Ci avviciniamo e vediamo che la porta è quella dell’ambulatorio medico.

All’interno ci sono due persone giovani – una donna e un uomo – seduti attorno a un tavolo sul quale ci sono un misuratore di pressione, alcune boccette di disinfettante, un barattolo con batuffoli di cotone, alcuni quaderni. I due si presentano come Elizabeth Orbe e Charles Belzu, medici.

«Io sono medico comunitario – spiega Elizabeth -. Lavoro per Petroamazonas. Prestiamo servizio a tutte le comunità che stanno nella sua zona d’influenza. È un lavoro svolto in accordo con il ministero della Salute».

«Io lavoro per il ministero di Salute pubblica e sono specialista in medicina familiare – racconta Charles, boliviano e laureato a Cuba -. Veniamo di norma la domenica perché in questo giorno ci sono le riunioni della comunità. Facciamo anche delle visite alle case quando ci sono anziani o donne in gravidanza che non possono muoversi o che non hanno la possibilità economica per muoversi».

«Le patologie più comuni – spiega Elisabeth – sono problemi della pelle, respiratori e gastrointestinali. Di solito la loro causa sono le scarse condizioni igieniche».

Senza voler mettere in imbarazzo i due giovani medici chiediamo delle patologie conseguenti a inquinamento. «Per quanto ci riguarda – risponde Charles – non abbiamo riscontrato problemi dovuti a inquinamento. Il governo permette l’estrazione petrolifera, ma pretende attenzione per l’ambiente».

All’esterno, su un muro dal vivace colore arancione, una piccola targa recita: «Quest’opera fu costruita da Occidental Petroleum (Oxy) in accordo con la comunità nell’anno 2002».

«Quella adesso non c’è più. Ora c’è Petroecuador», ci dice un giovane dagli occhi arrossati seduto su una panca posta davanti all’entrata.

Parla lentamente, quasi scandendo le parole, forse perché lo spagnolo non è la sua lingua madre. «Mi chiamo Cirilo e sono un agente di salute della comunità di Sani Isla», spiega.

L’agente di salute è una sorta d’infermiere generico. «Le persone che vengono da me – racconta – hanno spesso problemi di pelle a causa di mosquitos e zancudos. E poi c’è la questione dell’acqua: qui non c’è acqua potabile. Dobbiamo purificarla o comprarla a Coca. Quanto ai medici vengono soltanto la domenica».

Chiediamo a Cirilo di questo rapporto ambiguo con le compagnie petrolifere. Lui non ha dubbi ribadendo più volte e senza tentennare: «Vengono qui e inquinano. Noi dobbiamo essere molto duri nei loro riguardi».

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Le acque del Rio Napo

In una capanna senza pareti alcune donne stanno preparando il cibo su una grande griglia scaldata da un fuoco di legna. Sopra cuociono platano (banana da cottura, ndr), tuberi di yucca e alcune varietà di semi.

In un angolo, accanto alle amache in cui sono adagiati due neonati, un’altra donna indigena, accovacciata a terra, sta pulendo pesce del Rio Napo. Il fiume però non è più pescoso come un tempo. Difficile dire se a causa del super sfruttamento o per l’inquinamento delle sue acque causato da sversamenti di petrolio (derrame de crudo). L’ultima emergenza resa pubblica risale al giugno del 2013 quando le acque inquinate del Napo arrivarono fino alla provincia di Maynas, foresta amazzonica del Perù.

Paolo Moiola

 Note

(1) Il Rio Napo nasce alle falde del vulcano Cotopaxi. Confluisce nel Rio delle Amazzoni dopo circa 1.130 chilometri, gli ultimi 667 in territorio peruviano.
(2) La pratica è nota come «gas flaring».
(3) La scrittura: Quichua o Kichwa per l’etnia, Quechua per la lingua.
(4) Fonte: Rainforest Partnership, The Sani Warmi Project, 2013.


Amazzonia

Tra sfruttamento e preservazione

Più l’ambiente è delicato, più la presenza umana produce un impatto rilevante. Come fare per impedire lo sfruttamento delle risorse dell’Amazzonia? Come fare se l’interesse particolare di un paese (Ecuador, Brasile, Perù e altri paesi amazzonici) è in conflitto con quello generale della comunità internazionale? E che dire dei diritti dei popoli indigeni che l’Amazzonia la abitano?

Nel 2007 Rafael Correa, all’epoca presidente dell’Ecuador, lanciò una proposta rivoluzionaria nota come «Iniciativa Yasuní-Itt». Le ingenti riserve petrolifere del Parco Yasuní sarebbero rimaste nel sottosuolo se la comunità internazionale avesse contribuito a dare all’Ecuador almeno la metà delle entrate che il paese avrebbe ricavato sfruttando quei giacimenti. In questo modo si sarebbe salvaguardata una delle maggiori riserve mondiali di biodiversità, evitando nel contempo di immettere nell’atmosfera altre quantità di anidride carbonica.

I fondi raccolti furono però molto esigui rispetto a quanto previsto dal governo ecuadoriano. Pertanto, nell’agosto del 2013, Correa, ancora presidente, annunciò la fine del progetto e l’inizio dello sfruttamento del petrolio dello Yasuní, pur limitato – spiegò – all’1 per cento della superficie del parco nazionale.

L’idea – sicuramente rivoluzionaria – non ebbe successo un po’ per demerito del governo ecuadoriano, molto per lo scarsissimo contributo della comunità internazionale. Oggi lo sfruttamento del petrolio del Yasuní è iniziato e le prospettive non sono rosee, perché i danni – pur occultati – già iniziano a vedersi.

Il disastro brasiliano – In Brasile, paese che possiede la maggior parte dell’Amazzonia (circa il 64% dell’estensione totale), la situazione è ancora più drammatica, come certificano gli studi dell’istituto Imazon (Instituto do Homem e Meio Ambiente da Amazônia) e i dati satellitari dell’Inpe (Instituto Nacional de Pesquisas Espaciais). Il disboscamento (desmatamento) annuale è diminuito dal 2004 (quando raggiunse la cifra record di 27.800 Kmq, con un aumento del 100% rispetto al 1997) al 2012 (4.700 Kmq), ma successivamente ha ripreso ad aumentare in maniera preoccupante. Stando ai dati ufficiali, nel 2016 il disboscamento è stato di circa 8.000 chilometri quadrati (un’area vasta come la regione Friuli Venezia Giulia). Le ricerche attestano che la causa principale del disboscamento è l’allevamento bovino, seguito dalle piantagioni di soia.

Particolare versus generale – I paesi amazzonici dichiarano che la loro sovranità è un diritto intangibile anche quando si parla di Amazzonia. In base a questa considerazione affermano di avere il diritto di decidere cosa fare dell’ambiente amazzonico e delle sue ricchezze. Dimenticando però che quello stesso diritto dovrebbe essere riconosciuto ai popoli indigeni, abitanti originari di quei territori.

Conoscere per difendere – La preservazione dell’Amazzonia è un obbligo indiscutibile, a maggior ragione in tempi di drammatico cambiamento climatico. Trovare e mettere in essere una difesa efficace senza privare i paesi amazzonici di opportunità di crescita è un problema aperto e di non facile soluzione. Il mercato internazionale delle emissioni (per esempio, quello del programma Redd, Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation) è ancora embrionale e presenta aspetti ambigui. L’ecoturismo, pur non esente da impatti ambientali, può essere un’attività economica accettabile se adeguatamente regolamentata. Anzi, può diventare uno strumento utile per far conoscere la bellezza del mondo amazzonico. E quindi per aiutare a difenderlo dalle innumerevoli minacce esterne, in primis dallo sfruttamento indiscriminato delle sue ricchezze.

Paolo Moiola

 

Archivio MC

Tra gli articoli più recenti sull’Ecuador segnaliamo:

  • I dieci anni di Rafael Correa, maggio 2016;
  • L’alunno e il professore, giugno 2016;
  • La maledizione del petrolio, luglio 2016;
  • Una storia troppo sporca, agosto-settembre 2016.

Tutti gli articoli sono firmati da Paolo Moiola.

Siti web

  • yasunidos.org -è la Ong ecuadoriana che difende il Parco Yasuní.
  • rainforestpartnership.org – è la Ong statunitense che si occupa di salvaguardia delle foreste pluviali e che sostiene anche il progetto Sani Isla.

Videoreportage

Un videoreportage sul Río Napo e su Sani Isla è visibile su YouTube sul canale di Paolo Moiola: www.youtube.com/user/pamovideo




Tunisia: la scomparsa dei gelsomini


Lo scorso luglio abbiamo visitato Tunisi, dove eravamo stati in diversi momenti storici del passato, compreso il 2012, per seguire l’evolversi delle dinamiche della «rivoluzione dei gelsomini». Il paese ha attraversato cambiamenti che hanno suscitato grandi speranze, soprattutto tra la popolazione giovanile. Speranze che però sono state presto deluse a causa di instabilità politica, attentati terroristici, crisi economica, corruzione e disoccupazione. In questo contesto dalla Tunisia sono partiti migliaia di giovani (foreign fighters) per unirsi al Daesh.

Luglio 2017. Arriviamo a Tunisi con un volo pieno di cittadini tunisini che tornano a casa per le vacanze. Dopo il primo scambio di battute in arabo e in francese, il tassista che ci conduce verso il centro della città inizia a parlarci in buon italiano. È vissuto in Italia per anni, a studiare e lavorare con il padre commerciante. Si tratta di un’esperienza comune a tanti suoi connazionali. 

Mentre attraversiamo una parte della città, ci accorgiamo del cambiamento di questo stato arabo maghrebino che, alla fine del 2010, diede il via alle cosiddette «primavere arabe»1. È tutto in costruzione: strade, palazzi, interi quartieri. Tunisi è una metropoli, con aree satellite, intorno e verso il mare, bianchissime, pulite e moderne. L’impianto urbanistico francese, con i suoi ampi viali alberati, le sue piazze e chiese, l’appariscente e lunghissima avenue Bourguiba, che conduce fino alle porte della Medina, la rende più simile a una qualsiasi città europea che a una araba.

Sono tanti i giovani per strada, indaffarati, o in pausa in qualche bar o ristorante. La maggior parte di loro è vestita in abiti occidentali e ci stupiamo nel vedere tante ragazze ostentare con disinvoltura minigonne, calzoncini e scollature, e tenere per mano i loro fidanzati. Gruppi di amiche, o di coppie, se ne stanno per ore sedute nei dehor dei caffé, a chiacchierare, studiare e a sorseggiare tè o altre bevande. In altri paesi arabi, dove il luogo privilegiato delle donne è ancora la casa, queste sarebbero scene surreali.

La francofilia delle classi benestanti

Gli anni di protettorato francese hanno lasciato tracce, oltre che nelle strade, anche nella cultura e nelle abitudini, per non parlare delle tante «patisserie» di cui i tunisini vanno fieri. Molti si dicono contenti di essere stati «colonizzati» dai francesi (e non dagli Italiani, come successe ai libici), e ne ostentano la lingua con ottimo accento, il ritmo settimanale di lavoro (festività domenicale) e l’organizzazione scolastica. La classe medio-alta è francofona e rigetta l’identità arabo-tunisina, come ci spiegano attivisti locali. La si nota in aeroporto, in certi locali, negozi o luoghi di riferimento «europei». Ciò riconduce alla «colonizzazione del pensiero», per parafrasare Frantz Fanon di «Pelle nera e maschere bianche», e anche a un’identità di classe economica in cui le famiglie tunisine benestanti si riconoscono. Questo vale anche per libici, egiziani, e forse per tutte le classi alto-borghesi africane e mediorientali.

In realtà, negli anni del lungo mandato francese, iniziato nel 1881 (Trattato del Bardo), ci fu sempre una fortissima resistenza organizzata da studenti e intellettuali e guidata, a partire dagli anni ‘20, dal Partito della Libera Costituzione (?izb al-?urr al-Dust?r?) e poi dal Neo-Destour. Quindi l’accettazione del modello europeo, per i benestanti, è un fatto economico, più che politico, e non differenzia i ricchi tunisini da quelli palestinesi che vivono nelle ville di Ramallah, i sudafricani neri post apartheid o gli europei dei quartieri chic. L’identità di classe è transnazionale e interetnica. O meglio, multietnica.

La storia: indipendenza, dittatura, rivoluzione

Habib Bourguiba, giurista tunisino, educato in Francia, fu la figura principale nella lotta per l’indipendenza, che iniziò nel 1938 e si concluse con successo nel 1956, con la proclamazione della Repubblica l’anno successivo.

Negli anni della sua presidenza, durata dal 25 luglio 1957 al 7 novembre 1987, quando venne destituito da Zine El-Abidine Ben Ali, la Tunisia attraversò profonde e lunghe fasi di cambiamento, di «modernizzazione» e «laicizzazione». Alle donne vennero concessi diritti che neanche in Francia ancora esistevano. Fu diffuso l’insegnamento – pubblico e gratuito -, promulgato il Codice dello Statuto personale, vietata la poligamia, ridotto il potere dei capi religiosi e abolito il doppio regime, coranico e civile, sia in ambito giudiziario sia scolastico.

Lo sviluppo politico, istituzionale, economico e culturale si arrestò, tuttavia, all’inizio degli anni ‘70, dando spazio, come in altri paesi arabi, alla corruzione, al nepotismo e al clientelismo, soprattutto negli apparati pubblici e statali. Nel frattempo, Bourguiba era diventato «presidente a vita», sul modello egiziano, e aveva trasformato la repubbica in una dittatura. Il 26 gennaio 1978, passato alla storia della Tunisia come il «Giovedì nero», il sindacato (Ugtt) organizzò uno sciopero che la polizia caricò con violenza: i morti furono diverse centinaia.

Gli anni ‘80 furono caratterizzati da una profonda crisi politica ed economica e, come successe anche in Egitto e in altri stati arabi maghrebini, il radicalismo islamico crebbe e si diffuse tra quegli strati della popolazione con minori strumenti economici e culturali, ma anche come forma di reazione politica a un regime autoritario e visto come filo occidentale e troppo laico.

Di questa situazione approfittarono il generale Zine El-Abidine Ben Ali e la sua cerchia di familiari e amici, che, nel 1987, deposero il vecchio e malato Bourguiba, con un «golpe medico». La Tunisia era dunque avviata a un lungo periodo di dispotismo e dittatura, con persecuzioni di oppositori e islamisti, che riempirono le prigioni. Il generale diede vita, infatti, a un regime poliziesco e corrotto, assegnando incarichi istituzionali a familiari e collaboratori, con periodiche elezioni-truffa che gli permisero di rimanere al potere fino a quando non fu costretto alla fuga dalla rivoluzione popolare del 2011.

Mohamed Bouazizi e l’inizio della rivolta

Nella «Rivoluzione dei Gelsomini», lo scrittore Tahar Ben Jalloun racconta il sacrificio del giovane venditore e l’inizio della rivolta tunisina che, il 14 gennaio del 2011, dopo 23 anni di dittatura, porterà la fuga in Arabia Saudita del corrotto Ben Ali e a Dubai del resto della sua famiglia. Mohamed Bouazizi diventa «eroe suo malgrado», non immaginando certo l’effetto domino che il suo gesto disperato avrebbe avuto per il suo paese e per diversi altri nel mondo arabo. (Bouazizi si diede fuoco il 17 dicembre 2010 per protestare contro la revoca della sua licenza da ambulante, da parte della autorità, dando inizio alla rivolta, ndr).

La Rivoluzione si scatena, dunque, con proteste e sommosse in numerose città: disoccupazione, carovita, mancanza di prospettive, corruzione endemica, repressione, mancanza di libertà, ecc., ne sono la causa principale.

È una rivolta dei giovani, delle classi popolari, medie e degli intellettuali, e, come nelle altre «primavere» che esploderanno da lì a poco in altri paesi arabi, è organizzata soprattutto via social network. I manifestanti si danno appuntamento attraverso le reti sociali e scendono in strada, incuranti delle cariche delle forze di polizia (l’esercito, invece, si rifiuta di intervenire contro la popolazione, evitando, così, un bagno di sangue e assumendo un ruolo importante nella caduta del regime). Immagini e video delle folle e della repressione vengono diffuse in tempo reale, scatenando altre manifestazioni e la simpatia e il sostegno internazionali. Diversi blogger e internauti vengono arrestati. Un caso noto è quello di Slim Amamou, che diverrà segretario di Stato per lo sport nel governo di transizione post rivoluzione.

Potremmo dire che la «primavera» tunisina è stata autentica, spontanea e popolare, probabilmente come quella egiziana. Su quelle libica e siriana ci sono, invece, dubbi, soprattutto sulla natura interna, autoctona, delle rivolte. Ne parlammo su MC, in un dossier del gennaio 20131, e ne scriveremo di nuovo nei prossimi numeri.

Con la fuga del clan Ben Ali, nel gennaio 2011, inizia dunque una nuova fase, significativa, nella società tunisina, che vede la massiccia partecipazione di studenti, giornalisti, blogger, attivisti vari alla vita politica, sociale e culturale. A ottobre 2011 si svolgono le elezioni, le prime libere, democratiche e multipartitiche, per l’Assemblea del popolo (il Parlamento tunisino): il partito islamista Ennahda si attesta al primo posto, e farà parte di una troika (coalizione parlamentare) insieme a Etakkatol (al-Takattul) e al Partito democratico progressista.

Nel gennaio del 2014 la nuova Costituzione entra in vigore e sancisce libertà ed uguaglianza, e «nuovi diritti» per tutti i cittadini.

Il 2013, tuttavia, è contrassegnato da omicidi politici perpetrati da salafiti e manifestazioni che chiederanno le dimissioni del governo. Il 6 febbraio viene assassinato l’avvocato del Fronte popolare tunisino, Shokri Bel’id: l’omicidio provoca proteste in tutta la Tunisia, e la richiesta delle dimissioni della Troika. Le sedi di Ennahda vengono attaccate in varie città. Il fratello di Bel’id accusa il partito islamista della responsabilità morale dell’omicidio, in quanto l’avvocato denunciava da mesi una forma di «violenza politica» del governo.

Il 25 luglio è assassinato il politico Mohammad Brahmi, leader del Movimento del popolo. Al funerale decine di migliaia di persone chiedono le dimissioni del governo. Entrambi gli uomini erano membri della coalizione di sinistra, all’opposizione presso l’Assemblea Nazionale, che chiede le dimissioni dell’esecutivo e nuove elezioni. Ma bisognerà aspettare fino alla fine del 2014.

Le elezioni presidenziali del 23 novembre e 21 dicembre 2014, segnano la vittoria di Beji Caid Essebsi, del partito Nida’a Tounes, che ottiene il 37,56% dei voti, mentre Ennahda retrocede al 27,79%.

Il 2015 e il 2016 sono contrassegnati da attacchi terroristici2 che lasciano il paese sconvolto e deprivato di un’importante fonte economica: il turismo.

La resistenza della casta

I giovani che abbiamo incontrato a Tunisi, a luglio del 2017, ci hanno parlato del desiderio di cambiamento profondo, di partecipazione attiva alle sorti del paese, ma anche di un sistema di corruzione politica radicata, nonostante la fine del regime: la vecchia casta e le sue tante ramificazioni non è stata spazzata via, ma ha continuato ad occupare i posti che contano e, soprattutto, a bloccare una vera riforma dello stato. Quindi, dal punto di vista politico, anche in Tunisia, la «primavera» è sfiorita subito, ed è tornata inverno, a causa di instabilità, crisi, vecchia classe dirigente ancora al potere, attentati, disoccupazione e frustrazione dei giovani, delusione e mancanza di prospettive, che porta molti, ancora, a emigrare verso l’Europa.

Abbiamo incontrato due attivisti che sono stati tra i testimoni diretti della «Rivoluzione dei Gelsomini»: Kais Zriba, giornalista tunisino, che lavora per Inkyfada3, un noto sito giornalistico di approfondimento, e la sua compagna, Debora Del Pistornia, operatrice di Amnesty International in Tunisia, e laureata in relazioni internazionali.

«La Primavera tunisina – ci hanno spiegato – si è articolata attraverso due processi paralleli: quello rivoluzionario e quello contro rivoluzionario. È in atto un dibattito sociale molto intenso e una negoziazione tra forze contrarie».

«Qual è l’identità tunisina? – hanno raccontato Kais e Debora -Africana? Mediterranea? Francese? La questione identitaria religiosa è stata strumentalizzata a livello politico – c’è una forte islamofobia, soprattutto tra le classi alto-borghesi – che fa perdere di vista le questioni principali».

Angela Lano
(quinta puntata – continua)

Note

(1) Angela Lano, E dopo la primavera arrivò l’inverno, dossier MC, gennaio-febbraio 2013.
(2) I principali attacchi terroristici risalgono al 26 giugno 2015, 4 novembre 2015 e 11 maggio 2016. La principale minaccia terroristica in Tunisia è rappresentata da al-Qa’ida nel Maghreb Islamico (Aqmi) e da estremisti libici con collegamenti al Daesh. La Tunisia ha un confine «aperto» con la Libia, dove permane una situazione instabile, dovuta a una forte presenza di bande armate e gruppi terroristici. Le forze di sicurezza tunisine sono ripetutamente oggetto di attacchi da parte dei terroristi, soprattutto nelle zone di confine.
(3) Sito: http://inkyfada.com.


Arabi e Berberi

La Tunisia è uno degli stati del Maghreb, insieme a Marocco, Algeria e Libia, e ha un’estesa superficie (40%) occupata dal Sahara. La maggioranza dell’odierna popolazione tunisina – circa 12 milioni di persone – parla una variante dialettale dell’arabo, con influenze berbere e francesi. Esistono anche etnie berbere arabizzate, soprattutto nel Sud. Altre lingue parlate sono il francese, dialetti berberi e l’italiano.

I tunisini residenti all’estero sono circa 1 milione, la maggior parte dei quali in Europa, principalmente in Francia e in Italia. Oltre il 90% della popolazione è di religione musulmana, con una minoranza di cristiani ed ebrei.

I primi, storici, abitanti furono qabilas (tribù) berbere. Nell’814 a.C. i Fenici fondarono Cartagine. Nel VII secolo d.C., quando iniziò la penetrazione araba e dell’Islam, l’area era territorio bizantino, e la popolazione locale berbera oppose parecchia resistenza ai nuovi invasori, ponendo molti ostacoli alla conversione: furono necessarie ben sei spedizioni (647, 661, 670, 688, 695 e 698-702). Con il passaggio dei Berberi all’islam, questa provincia divenne l’Ifriqiya. È interessante notare il fatto che i Berberi adottarono l’ideologia religiosa islamica kharijta, quella, cioè, dei primi ribelli anti sistema dell’islam. Le popolazioni berbere e la loro fede kharijita costituirono una costante spina nel fianco di tutti gli invasori, dagli Arabi fino agli Ottomani, organizzando rivolte periodiche contro governi imposti dall’esterno.

Nel 1881 la Tunisia divenne un protettorato francese, ma sotto l’autorità formale di un Bey (signore delle tribù). L’Italia aveva una folta colonia di contadini, soprattutto siciliani, e la Francia, accapparrandosi il dominio su quella regione del Nordafrica, impedì eventuali pretese italiane. Nel 1956 ottenne l’indipendenza.

A.La.

 




Borneo, giungla addio


La terza isola per estensione al mondo ha anche il primato della più alta concentrazione di biodiversità. Vi si trovano otto distinti habitat naturali. Oggi però circa la metà della sua superficie è deforestata, per far spazio alle palme da olio, oltre che per il saccheggio di preziosi legnami. Ma i suoi abitanti forse hanno capito come proteggere quello che resta.

Sandakan. Viaggiando da Kota Kinabalu, capitale del Sabah nel Borneo malese, a Sandakan sulla costa Nord orientale, la strada asfaltata affronta la dorsale montana del Crocker Range. Qui, dopo una serie di curve, compare in tutto il suo splendore il monte Kinabalu, la vetta più alta dell’isola con i suoi 4.095 metri. La cima, nera e frastagliata, si staglia verso il cielo, circondata da nuvole in rapido movimento. La strada prosegue poi scendendo dalla montagna coperta di vegetazione tropicale di una varietà sorprendente. Alberi altissimi ricoperti di innumerevoli piante parassite. Foglie enormi e fusti slanciati.

Ma quando si scende di quota ecco che compaiono le prime palme. E non sono palme originarie di qui e neppure piante qualsiasi. Sono le palme che producono il famoso olio, ingrediente ormai presente nella maggior parte dei nostri cibi. Continuando a scendere verso la costa, il panorama diventa terribilmente uniforme. Filari di palme da olio si susseguono, uno attaccato all’altro. In alcuni appezzamenti le piante sono piuttosto alte e mostrano i preziosi frutti: grappoli di noci rosso scuro e nere. In altri le palme sono ancora basse, mentre altre aree sono state recentemente ripulite e si presentano come distese brulle in attesa di piantumazione.

Questa visione prosegue per ore, ovvero centinaia di chilometri, mentre il nostro mezzo continua la sua corsa verso Sandakan. Palme da olio a perdita d’occhio. Intanto sulla strada incontriamo autobotti, che invece di trasportare carburante, riportano la scritta «Palm oil». Ogni tanto, una raffineria spunta in mezzo al «mare» di palme e inonda l’area circostante di fumi bianchi e neri.

L’isola misteriosa

Il Borneo ha una superficie complessiva di 743.107 km quadrati (due volte e mezza l’Italia) ed è suddivisa in tre stati: il Nord è parte della Malaysia (province Sabah e Sarawak), Sud e centro dell’Indonesia (il Kalimantan) e infine il piccolo ma ricchissimo stato islamico del Brunei (Nord). La terza isola al mondo per estensione (dopo Groenlandia e la vicina Nuova Guinea) era, in un passato non troppo remoto, ricoperta di foreste pluviali. Foreste considerate dagli esperti quelle a maggiore concentrazione di biodiversità del mondo. È stato infatti calcolato che il Borneo, sebbene costituisca l’1% della superficie terrestre, ha originato sul suo territorio una biodiversità pari al 6% di quella globale del pianeta. All’inizio del 1900 si calcola che il 96% della superficie dell’isola fosse occupata da foresta. Si tratta di diversi tipi di vegetazione, che costituiscono ben otto ecosistemi, dalla foresta tropicale montana alle mangrovie sulla costa, passando per la foresta pluviale di collina e pianura. Nel 2005 la copertura era ancora il 71%, mentre nel 2015 è scesa al 55%. Quasi la metà della superficie del Borneo è oggi deforestata1.

Quando negli anni ‘50 sono arrivati i caterpillar e le motoseghe il panorama è rapidamente cambiato. La foresta è stata penetrata e diverse strade l’hanno devastata, modificando irreversibilmente gli ecosistemi. La deforestazione è iniziata per scopi commerciali, inizialmente la vendita di legni pregiati e la produzione della gomma. Ma è a fine anni ’90 inizio 2000 che ha visto l’escalation maggiore2. In quel periodo si è infatti diffuso a livello mondiale il consumo dell’olio di palma e le foreste di Sabah, Sarawak e Kalimantan hanno subito un’aggressione senza precedenti. La crisi dell’estrazione della gomma aveva creato grande disoccupazione e la palma da olio è stata vista come la grande opportunità.

Dati del 2007 mostrano che Indonesia e Malaysia, insieme, producevano quasi il 90% dell’olio di palma consumato nel mondo3.

Uno studio4 pubblicato nel luglio 2014 sul giornale Plos One 4 da David Gaveau ricercatore del Center for International Forestry Research, Indonesia e i suoi colleghi, mostra che agli inizi degli anni ’70, circa il 75% del Borneo era ancora ricoperto di foreste, e dal 1973 al 2010, l’area forestale si è ridotta di circa il 30%, il che corrisponde a quasi il doppio della velocità di deforestazione osservata nelle foreste tropicali in altre aree del mondo.

È stato calcolato (fonte Wwf1) che oggi oltre 7 milioni di ettari in Borneo sono già coltivati a palma da olio e altri 6 milioni nel solo Kalimantan sono coltivati per produrre pasta di legno (materiale di basso livello per produrre mobili). E, ancora più grave, altri 10-13 milioni di ettari sarebbero in fase di deforestazione tra il 2015 e il 2020. Rimangono 40 milioni di ettari di foresta, dei quali una parte intatta e altra parzialmente distrutta. Di questi solo il 31% (ovvero il 17% dell’intera isola) è destinata ad aree protette, mentre il restante a «foresta produttiva». La copertura forestale rischia di scendere a un terzo di quella iniziale già nel 2020.

Lo spirito della foresta

Navigando con una piccola barca a motore sul fiume Kinabatangan, si possono scorgere sugli alti alberi delle rive molti animali. Dalle scimmie nasiche al più famoso orangutan (che in malay, lingua dei malesi, vuole dire l’uomo, oran, del bosco), ai molti macachi. Si può intravedere nelle acque un grosso coccodrillo, o essere sorvolati da famiglie di beceri (uccelli dal grande becco colorato), oppure vedere un coloratissimo martin pescatore (di una delle tante specie) all’opera.

Anche andare a piedi nella giungla è un’esperienza particolare. Ci si immerge subito in un mondo di «suoni» molto speciale: un crepitare di versi di ogni tipo che spesso sembrano attenuarsi e ripartire per andare, a tratti, all’unisono. Si cammina su un terreno umido, spesso fangoso, in mezzo a alberi e piante di una varietà sorprendente. Un vero e proprio «santuario» del mondo vegetale. Ma occorre fare attenzione alle sanguisughe (indossando apposite calze fin sopra al ginocchio) e a estese ragnatele sulle quali si dondolano grossi ragni. Il caldo, ma soprattutto l’umidità, possono a tratti toglierci il respiro.

Impatto devastante

La riduzione della foresta significa la perdita di biodiversità sia animale sia vegetale. Oltre a questo impatto enorme in termine di riduzione delle specie, gli altri effetti devastanti sono l’erosione dei suoli, il diffondersi di inondazioni, le frane e l’alto rischio di incendi. Quest’ultimo dovuto al fatto che le foreste naturali sono meno inclini agli incendi (più protette), mentre quelle parzialmente distrutte o influenzate dalla presenza umana sono molto più soggette, perché più secche.

Il taglio della foresta combinato con la pioggia torrenziale ha effetti disastrosi per l’erosione e la modifica dei fiumi, che causano devastazioni lungo il loro corso trasportando materiale a valle. Specie animali uniche in Borneo, come l’orangutan, la scimmia nasica e l’elefante pigmeo, vedono di anno in anno ridursi il loro habitat di percentuali a due cifre. Molto grave è anche il traffico illegale di animali esotici che diventa un effetto collaterale della deforestazione. Altre cause del taglio incontrollato di alberi sono legate alle concessioni minerarie, che vanno dagli scavi per il carbone a quelli per metalli e pietre preziose.

Il cuore del Borneo

Un passo positivo è stato fatto da Malaysia, Indonesia e Brunei, nella definizione del Heart of Borneo (HoB, Cuore del Borneo). Si tratta di un’area di circa 240.000 km quadrati (due terzi l’Italia), composta da diverse zone di foresta pluviale da proteggere. Nel 2007 i tre paesi hanno firmato una dichiarazione per dare vita al «HoB initiative». Lo scopo è la conservazione delle biodiversità, che tenga conto anche del bene della popolazione, tramite una rete di aree protette e, in parte, l’utilizzo sostenibile di terra forestale. Non si parla però di fare un unico parco naturale, ma piuttosto una situazione a macchia di leopardo, e, inoltre, occorre considerare che molte specie animali hanno il loro habitat fuori da questa zona. È un piccolo passo, che cerca il compromesso tra garantire la conservazione delle specie e della foresta, dell’ambiente di vita di alcuni gruppi etnici legati a questo habitat (come i Penan del Sarawak) e le esigenze di sviluppo economico dei paesi coinvolti.

Troppo tardi?

In Borneo sono ancora presenti «isole» protette di foresta primaria, ovvero quella foresta pluviale mai tagliata e ripiantata. Oggi sembra che la gente di questa splendida isola, unica al mondo, abbia imparato a rispettare queste aree e pure a trarne i mezzi di sussistenza, grazie a un turismo, di solito, non troppo invasivo. In questi luoghi si possono vedere delle perle di natura e immaginare come fosse un tempo l’intera isola. Ma ormai, per chi pensa al mito della giungla incontaminata del Borneo, è troppo tardi.

Marco Bello

Note

  1. S. Wulffraat, C. Greenwood, K. Fahmi Faisal, D. Sucipto, The eviromental status of Borneo. Report 2016, Wwf.
  2. Rhett A. Buttler, The Impact of Oil Palm in Borneo, mongabay.com
  3. Sophie Yeo, 80% of Malaysian Borneo’s rainforests destroyed by logging, Climate change news, 2013.
  4. David L. A. Gaveau et. al., Four Decades of Forest Persistence, Clearance and Logging on Borneo, PLoS ONE, 2014.

Una storia unica
Il Sarawak dei rajah bianchi

Nel 1839 l’avventuriero inglese James Brooke approda per la prima volta nel Borneo Nord occidentale, nei pressi del villaggio di pescatori chiamato Kuching. Nell’area, controllata dal sultano del Brunei, è in corso una rivolta che coinvolge diversi gruppi etnici in lotta tra di loro. Brooke e il suo equipaggio, con le armi e il negoziato, riescono a riportare la pace. È per questo che il sultano Omar Ali Saifuddin II gli affida il governo del Sarawak nominandolo rajah. Inizia così un esperimento di geopolitica unico nella storia mondiale, che durerà 100 anni. James Brooke imposta un governo di tipo liberale, rispettoso dei diritti ma osservante delle regole, al quale fa partecipare i capi delle diverse etnie, nessuno escluso. James si guadagna molti alleati, anche se non tutti sono contenti e alcuni leader locali si oppongono al rajah bianco. In questa compagine si inserisce Sandokan, il longevo personaggio immaginario inventato dallo scrittore veronese Emilio Salgari.
James riesce a portare pace e prosperità in una regione agitata da scontri interetnici (vi operano i famosi Dayaki, i tagliatori di teste) e infestata dai pirati. Alla sua morte nel 1868 gli succede il nipote Charles Brooke (James non si era sposato e non aveva figli legittimi). Questi regnerà come secondo rajah bianco fino al 1917. Charles si inserisce sulla scia dello zio ma sviluppa il paese dal punto di vista infrastrutturale ed economico. Sotto il suo governo il Sarawak si estende con nuovi possedimenti, annettendo parte dell’attuale Sabah (Nord Est del Borneo). Il territorio viene anche protetto dall’invasione delle multinazionali straniere che disboscano la giungla per piantare il caucciù. Gli succede il figlio Charles Vyner Brooke, che regna fino al 1941, anno dell’invasione giapponese durante la seconda guerra mondiale. Charles Vyner riprende il potere per alcuni mesi nel 1946, quando nel luglio è costretto a cedere il Sarawak alla corona britannica.
Anthony Brooke (1912-2011), nipote di Charles Vyner è stato rajah Muda (principe ereditario) e ha combattuto nel movimento anti colonialista, che si è opposto alla cessione del paese ai britannici. Si è poi ritirato in Nuova Zelanda dove ha vissuto, continuando a viaggiare e tenere conferenze a supporto di diversi movimenti per la pace.
L’erede della dinastia è Jason Brooke (1985), figlio di James Bertram “Lionel” Brooke (1940-2017) e nipote di Anthony. Jason è impegnato tra la Gran Bretagna e il Sarawak nella promozione storica dei Brooke, anche attraverso l’associazione Brooke Trust (www.brooketrust.org).

Ma.Bel.




Corea del Sud: L’ospite d’onore


Ogni missionario sa che, dovunque si troverà a operare, sarà chiamato a scoprire e assumere usi e costumi diversi. La ricchezza della diversità è segno della creatività dello Spirito e, a volte, anche fonte di situazioni divertenti. Padre Gian Paolo, con il suo solito stile ironico e paradossale, ci racconta un paio di aneddoti coreani.

Chiunque si trovi a visitare un paese dell’area confuciana (Cina, Corea, Giappone, Taiwan, Vietnam e diaspora cinese) entra automaticamente in una di queste due categorie fondamentali: straniero o ospite. E per quanto riguarda l’ospitalità, non ho mai sperimentato tanta squisita gentilezza in vita mia come in Corea del Sud. Per questa cultura l’ospite va coccolato al massimo. Permettetemi di raccontarvi un paio di aneddoti veramente accaduti per farvi entrare «a pelle» nel mondo dell’onorevole ospite in Corea.

Geoffrey con la signora Angela degli Amici dei Missionari della Consolata, vestita con l’hambok, l’abito tradizionale.

Ospite o straniero?

Potrebbe capitarvi di essere per strada e avere bisogno d’informazioni. Vi avvicinate a un coreano e cominciate gentilmente a tentare una comunicazione col vostro povero inglese. In quel momento il malcapitato coreano vede il suo mondo ordinato e pre programmato sconvolgersi. Ma questo dura solo per una frazione di secondo, perché subito nel coreano scatta una delle due possibili vie di reazione:

  1. a) Pensa: «È uno straniero! Non posso capire cosa mi dice perché non conosco la sua lingua! Non posso aiutarlo». E così vi guarda come se avesse di fronte un fantasma: non vi sente e non vi vede, e anche se gli crollaste davanti per un colpo apoplettico rimarrebbe indifferente.
  2. b) Oppure pensa: «È un ospite straniero». Allora, non solo vi spiega dove dovete andare, ma lui stesso vi accompagna, prende la metro con voi, vi offre un caffè, vi porta davanti a una porta e vi consegna a un’altra persona a cui si raccomanda di portarvi esattamente alla vostra destinazione e magari vi paga anche il taxi.

Ci è capitato una volta, al bancone di una banca, di rivolgerci in perfetto coreano a una signorina per alcune questioni. La signorina, che ci guardava direttamente in faccia, ci ha risposto: «Scusi, ma non ho capito niente di quello che ha detto, perché non so l’inglese». Accanto a lei lavorava, china su un computer, un’altra signorina. Lei non ci aveva guardati, aveva solo sentito la nostra voce, ed è intervenuta: «Ma se ha detto così e così e così!», ripetendo esattamente quello che noi avevamo detto in coreano. La spiegazione di questo aneddoto è che la signorina che ci aveva guardati in faccia, prima ancora che noi aprissimo bocca, era rimasta paralizzata dalla reazione: «È uno straniero. Non posso capirlo. Non so come interagire con lui».

E adesso lasciate che vi raccontiamo l’esperienza di Geoffrey, dalla sua viva voce, di quando è stato invitato a cena dopo poche settimane dal suo arrivo in Corea.

L’ospite, il nuovo arrivato

«Quel giorno, non ero solo un invitato, ma l’ospite d’onore. Ad accogliermi c’era la padrona di casa, con pettinatura e make up impeccabili, vestita con un hanbok (vestito tradizionale, ndr) stupendo, un sorriso smagliante e un inchino profondo. Appena mi ha accolto in casa… ha urlato. Ma perché? Eh dai, avrei dovuto saperlo che mai e poi mai si entra in una casa coreana con le scarpe. Solo un bruto che viene dall’occidente non lo sa. E sarebbe anche meglio avere i calzini nuovi, o perlomeno non rattoppati. Capito? Allora via le scarpe.

Quindi la signora mi ha offerto con un inchino e con le due mani un souvenir della Corea, impacchettato in modo artistico ed elaborato. Qui, anche se il regalo fosse uno stuzzicadenti, è immancabilmente presentato con un pacchettino elegante.

Quando ci siamo messi a tavola, la padrona di casa si è scusata che non era capace a far da mangiare, che c’era poca roba e senza sapore. Invece ai miei occhi è apparsa una tavolata piena di piatti e piattini saporiti e disposti con gusto, che sicuramente avevano richiesto una giornata intera di lavoro. Ma in questo mondo chi vi ospita deve sempre mostrarvi la propria umiltà e perorare la propria incapacità».

I pomodorini sulla torta

«Allora mi sono seduto a tavola. Con il trascurabile dettaglio che il tavolo è alto 40 cm da terra e che mi sono seduto su un cuscino sul pavimento al posto d’onore, al centro, cosa che mi tagliava ogni possibile via di fuga. Ovviamente non c’erano forchette ma i classici bastoncini. È facilissimo usarli, specialmente se la fame è molta. All’inizio molti bocconcini mi sono caduti sul tavolo, anzi sui calzini, visto che sedevo con le gambe incrociate. I coreani, quando mi hanno visto così imbranato, sono diventati ancora più gentili. A un certo punto è arrivata una torta con le candeline. Sì, io ero l’ospite e dovevo soffiare sulle candeline mentre gli altri cantavano tanti auguri a te. Io sono occidentale, gli occidentali mangiano pane, e la torta è pane. Forti di questa logica mi hanno piazzato una fetta da tre porzioni nel piatto, dopodiché la torta è stata portata via, visto che nessun altro commensale aveva intenzione di assaggiarla: l’importante era compiere il rito. Ma ci si aspettava che io la mangiassi. Quindi ho cominciato dalle ciliegine. Ehi, ma quelle non erano ciliegine, bensì pomodorini. “Sai – mi ha spiegato Gian Paolo -, in Corea i pomodorini non sono considerati verdura, ma frutta, per questo si mettono sulla torta”».

Da qui in avanti le foto raccontano della festa della Consolata celebrata il 20 giugno 2017 nella comunità di Yeokgokdong.

Con le lacrime agli occhi

«La cena è poi andata avanti: c’era una specie di minestra che bolliva su un fornellino al centro del tavolo. Il mio vicino ha subito preso un mestolo per riempire una scodella davanti a me. Era pieno di “bestie del mare”. Io sono un uomo di terraferma e tutto mi pareva molto strano. Ma, come dice quel cantico del breviario, “Mostri marini benedite il Signore”, e, pur di salvare qualche anima, ho cominciato a mangiare. Il brodo era color “rosso sangue dei martiri”, era un concentrato di peperoncino rosso piccantissimo. Comunque ce l’ho messa tutta per finire quel che c’era nel piatto. Ahimè, commettendo un bell’errore: in oriente se uno vuota tutto il piatto vuol dire che ne vuole ancora, quindi il mio vicino, come un fulmine, mi ha riempito di nuovo la scodella. Mi veniva da piangere. Oppure no. Ma le lacrime sicuramente mi sono venute. Per i Coreani un cibo è piccante quando cominciano a lacrimare gli occhi, e io avevo anche la bocca in fiamme e il naso che gocciolava. Purtroppo però mi avevano appena insegnato che una delle regole più importanti del galateo coreano è quella di non soffiarsi il naso in pubblico. Mai. Volevo alzarmi e uscire un momento ma le gambe mi si erano già addormentate e non riuscivo a muovermi. Il fazzoletto l’avevo dimenticato e non c’era il tovagliolo».

Il rito del Soju

«Mi sono guardato intorno e ho visto che miei confratelli, furbacchioni, si stavano concentrando su altri piattini che a loro piacevano di più. Ho visto una salsina fatta di gamberetti in miniatura. Era bianca, buon segno, perché ormai associavo il rosso al piccante, e se quella salsina era bianca non poteva farmi del male. Ne ho presa un po’ con il cucchiaio: era salatissima. Padre Tamrat che mi osservava di fianco a me mi ha detto: “Ma va, non si fa così, quella è una salsa: tu devi prendere una foglia di lattuga, metterci dentro una fettina di maiale bollito, poi la salsina, poi un pezzettino di aglio crudo intinto in un’altra salsina e qualche erbetta di quelle che vedi nei vari piattini, poi fai un boccone e lo mangi”. Mentre Tamrat mi parlava, una signora ha seguito tutti i suoi movimenti e ha capito la situazione. In men che non si dicesse aveva preparato il boccone e me lo ficcava in bocca, aglio crudo e tutto. Era un segno di grande onore: così facevano le cortigiane con il re nei tempi che furono. L’aglio crudo in bocca faceva un bruciore diverso da quello del peperoncino rosso. Il mio cervello sopraffatto da tanto onore gridava: “Acqua, pompieri”. Appena il padrone di casa, seduto di fianco a me, ha intuito il mio sguardo e il mio movimento verso il bicchierino che mi stava davanti, è scattato in azione: nessuno può servirsi da bere da solo. Il gentil signore mi ha riempito il bicchiere di Soju, grappa coreana. Bisogna sapere che: 1) il Soju ha lo stesso colore dell’acqua; 2) il Soju fa dai 18 ai 22 gradi, quindi è “leggermente” più alcolico dell’acqua. L’etichetta impone, senza scarti alla regola, che una volta vuotato il bicchierino io lo prenda, lo riempia di Soju e lo dia a colui che me l’ha appena offerto, il quale, per rispetto a me, lo svuota in un sol sorso. A quel punto è stato come se fosse caduta una barriera invisibile: gli altri commensali, uno per uno, si sono alzati per venire a rendere omaggio all’ospite d’onore, cioè a me, con lo stesso identico rito».

Shiksa

«Abbiamo poi continuato a mangiare, ma adesso anch’io sceglievo le cose che mi piacevano di più. Quando oramai ero ben pieno, la padrona di casa ha annunciato, tutta gaia: “Shiksa”. Ma shiksa vuol dire cibo, mangiare. E fino a quel momento cosa avevamo fatto? In Corea, in effetti, non si è mangiato finché non arriva il riso. Mi sono detto: “E come faccio io adesso? Sono già strapieno”.

Poi improvvisamente la conversazione si è animata e ho capito che stava capitando qualcosa: era arrivato il momento delle canzoni, e ognuno doveva cantarne almeno una da solo. Padre Diego si era appena defilato con la scusa di andare a fumare. Ce l’aveva fatta di nuovo: in 28 anni di Corea pare che nessuno sia mai riuscito a farlo cantare da solo. Io invece, ero già riuscito a imparare una canzone. Quando è venuto il mio turno è stato un successo immediato. Tra gli applausi tutti mi dicevano: “Che bravo, sei da poco tempo in Corea e ami già così la nostra cultura, ecc.”. Ma col successo… è arrivato anche il Soju. A quel punto tutti volevano offrirmi da bere. Io pensavo: “Qualcuno mi aiuti, mi difenda”. Guardavo padre Tamrat che aveva il bicchiere pieno dall’inizio ed era riuscito a fingere di portarlo alle labbra varie volte senza toccarlo: lui riusciva a conversare con tanta naturalezza che nessuno se ne accorgeva. Padre Gian Paolo mi aveva spiegato la teoria del Soju: dopo 4 bicchieri la stanza comincia a muoversi da sola; dopo 8 uno dice: “Posso volare”; dopo 12, uno si sente antiproiettile come Superman. Bene, io ancora non potevo volare, ma dalla torre di controllo mi stavano chiamando per andare in pista.

Finalmente oramai la cena era finita, ero salvo. Mi sono alzato ma le gambe erano addormentate e facevo fatica a stare in piedi. La testa girava un po’ e la bocca era piena di sapori strani e bruciava. Il naso gocciolava. La pancia era strapiena e non capivo più una parola. Troppo onore, troppe esperienze nuove, troppa inculturazione. Allora mi sono detto: “Domani riposo, e magari salto anche pranzo!”».

 Gian Paolo Lamberto




Brasile: La lotta per la terra


Pur essendoci una enorme disponibilità di terreni coltivabili, in Brasile la terra è un privilegio riservato a pochi. Mentre quattro milioni di famiglie senza terra («sem terra») debbono lottare per la sopravvivenza quotidiana, i latifondisti – grandi sostenitori del governo golpista di Temer – sono oggi più spregiudicati che mai. Secondo l’annuale rapporto della «Commissione pastorale della terra» (Cpt), nel 2016 i conflitti rurali sono stati 1.079. Ecco perché in Brasile, il paese più violento al mondo, per la terra si uccide e si muore.

Colniza, cittadina del Mato Grosso, 19 aprile 2017. Quattro pistoleri, assoldati da un impresario del legno (madeireiro), uccidono 9 contadini tra i 23 e i 57 anni che si erano insediati su un’area in disputa. Vari corpi vengono trovati legati e due con la gola tagliata: la perizia stabilirà che le vittime sono anche state torturate.

«Questo massacro – scrive il 21 aprile la locale prelatura di São Félix do Araguaia (guidata da dom Adriano Ciocca Vasino e dom Pedro Casaldáliga, vescovo emerito) – accade in un momento storico di usurpazione del potere politico attraverso un golpe istituzionale (la destituzione della presidenta Dilma e la sua sostituzione con Temer, ndr). […] Viviamo in una situazione di “terra senza legge”, una vera guerra civile nel nostro paese».

Pau d’Arco, cittadina del Pará, maggio 2017. Fazenda Santa Lúcia, 5.694 ettari di terra di proprietà della famiglia Babinski. Dal 2013, su un’area non utilizzata della fazenda, si susseguono varie occupazioni di piccoli gruppi di contadini senza terra (sem terra) e azioni di recupero del possesso da parte del (supposto)1 proprietario (ações de reintegração de posse). Il 24 del mese la situazione precipita. Le forze di polizia – civile e militare, 29 persone in totale -, in combutta con l’impresa di sicurezza della fazenda (la Elmo Segurança Especializada), uccidono 10 contadini sem terra, compresa una donna.

Nel silenzio delle istituzioni, la presa di posizione congiunta di cinque importanti organismi della Chiesa cattolica brasiliana2 è immediata e durissima: «La versione ufficiale degli organi pubblici dello stato – si legge nella nota pubblicata il 31 maggio – è stata che le morti sono avvenute in un confronto armato, in quanto gli agenti di polizia erano stati accolti a fucilate. Questa versione pretende di far credere che il popolo brasiliano sia imbecille e non abbia capacità di discernimento. Com’è possibile che, in un confronto armato, nessuno dei 29 poliziotti coinvolti nell’azione sia stato ferito? Perché la scena del crimine è stata smantellata, con gli stessi poliziotti che hanno trasportato i corpi in città?».

«È evidente – continua la nota – che questa esacerbazione dei conflitti agrari per numero e violenza è collegata alla crisi politica e al prevalere delle forze dell’agroindustria sui poteri dello stato brasiliano».

A parte i due episodi qui raccontati (i più eclatanti a causa del numero delle vittime), nei primi sette mesi del 2017 sono stati assassinati 48 contadini. Secondo Conflitos no campo Brasil 2016, il rapporto della «Commissione pastorale della terra», lo scorso anno nel paese ci sono stati 1.079 conflitti agrari e 61 persone assassinate, 5 al mese.

I conflitti legati alla terra sono una costante del Brasile, paese che, tra l’altro, detiene – con 60.000 omicidi all’anno – il (poco lusinghiero) primato mondiale nella classifica della violenza3.

Brasnorte, MT, Brasil: Área de plantação de soja próxima ao município de Brasnorte, noroeste do Mato Grosso. (Foto: Marcelo Camargo/Agência Brasil)

La concentrazione fondiaria e le terre improduttive

La causa prima della questione agraria in Brasile nasce dal latifondo e dalla concentrazione della terra in pochissime mani.

Basandosi sui dati (prudenziali)4 raccolti da Incra (Instituto Nacional de Colonização e Reforma Agrária) con riferimento al 2010, il 55,8 per cento delle terre disponibili è in mano al 2,5 per cento dei proprietari (i latifondisti). Il restante delle terre si divide tra: il 19,9 per cento in mano a medi proprietari (7% dei proprietari), il 15,5 per cento a piccoli proprietari (26%, pari a circa 1,3 milioni di famiglie) e 8,2% a proprietari di minifondi (64%, circa 3,3 milioni di famiglie). Anche se la definizione di grande, media, piccola e mini non è stabilita dal numero di ettari, ma dai cosiddetti moduli (unità di misura variabili che tengono conto di vari parametri)5, è evidente che la maggior parte dei proprietari di piccoli fondi o di minifondi hanno vita dura, spesso ai limiti della sopravvivenza. Al fondo di questa scala della diseguaglianza, ci sono circa 4 milioni di famiglie contadine, corrispondenti a 20 milioni di persone, che non hanno accesso alla terra: sono i cosiddetti sem terra. In questo quadro fondiario s’inserisce un altro dato essenziale, quello delle terre improduttive: il 72 per cento dei latifondi – pari a 2,3 milioni di chilometri quadrati – è considerato tale.

Delle terre improduttive si è occupata la Costituzione del 1988 – negli articoli 184 e 185 -, prevedendo la loro espropriazione per interesse sociale e per i fini della riforma agraria.

 

La riforma agraria e l’Incra

L’Incra, nata nel 1970, è l’organismo federale che ha il compito di attuare la riforma agraria. Come?

Stando alla prima delle sue cinque direttive strategiche, essa dovrebbe promuovere la democratizzazione dell’accesso alla terra attraverso la creazione di insediamenti rurali sostenibili e la regolarizzazione delle terre pubbliche; la sua azione dovrebbe inoltre contribuire allo sviluppo sostenibile, alla riduzione della concentrazione della struttura fondiaria e alla riduzione della violenza e della povertà nelle campagne.

Se facciamo riferimento ai numeri da esso divulgati, l’istituto avrebbe beneficiato con un lotto di terra quasi un milione di famiglie brasiliane, per l’esattezza 977.039. Non è dato tuttavia sapere quante di esse siano ancora sulla terra assegnata e quante l’abbiano abbandonata o venduta.

«So – racconta fratel Carlo Zacquini da Boa Vista – di molti terreni abbandonati perché gli agricoltori non potevano viverci; non avevano la possibilità di vendere i loro prodotti, o non avevano accesso ad assistenza medica. Insomma, dovevano scegliere tra la terra e la vita».

Si calcola che un 12% dei lotti assegnati tornino all’Incra. Gli esperti spiegano che il problema dell’abbandono dipende dalla mancanza di una politica agricola (ad esempio, incentivi per produrre) e di infrastrutture negli insediamenti rurali.

In ogni caso, in Brasile la questione agraria rimane più viva che mai. Anzi, in questi ultimi venti anni si è aggravata per l’entrata in scena di una nuova, potente variabile: l’agronegócio.

I costi sociali e ambientali dell’agrobusiness

Dagli anni 2000 il panorama agricolo brasiliano è radicalmente mutato: alle tradizionali monocolture di canna da zucchero, caffè e cotone si sono aggiunte le grandi monocolture industriali – piantagioni di soia, coltivazioni per biocombustibili (sia biodiesel che etanolo), miglio, foreste coltivate a eucalipto e pino – e l’allevamento estensivo, bovino e avicolo. L’agronegócio (agrobusiness, in inglese) vale oggi il 23% del Prodotto interno lordo del Brasile. È l’unico settore produttivo che, in questi anni di grave crisi economica per il paese, ha continuato a crescere.?Anche nel 2017, nonostante lo scandalo della carne adulterata6.

Detto del suo peso e della sua importanza in ambito economico, occorre enumerare le conseguenze negative che l’agrobusiness comporta: accaparramento delle terre e conseguente incremento della loro concentrazione; inquinamento ambientale da utilizzo intensivo di agrotossici; devastazione ambientale causata dalla deforestazione e dalla perdita di biodiversità; riduzione della forza lavoro agricola e sfruttamento di quella impiegata; emarginazione e morte dell’agricoltura familiare. A ben guardare, dunque, i benefici economici dell’agrobusiness sono di gran lunga superati dai costi sociali e ambientali che lo stesso comporta.

Come ha ricordato la Conferenza dei vescovi brasiliani in un documento del 2014 sulla questione agraria, il predominio politico e ideologico dell’agrobusiness ha trasformato la terra in una merce qualunque, in palese contrasto con la funzione sociale e ambientale stabilita dalle norme costituzionali del 1988.

Il Movimento dei sem terra, la Chiesa, le occupazioni

Qualche anno prima dell’88, nel gennaio del 1984, a Cascavel, nello stato del Paraná, era nato il Movimento dei sem terra (Mst), un’organizzazione contadina che in poco tempo sarebbe diventata una protagonista della storia brasiliana. Già nel suo primo congresso, celebrato nel gennaio del 1985, il Movimento adotta il principio dell’«occupazione della terra come forma di lotta» (a ocupação de terra como forma de luta).

«I latifondisti – scrivono le autrici del libro La lunga marcia dei senza terra – definiscono le occupazioni di terre “invasioni”, un attentato al sacro diritto di proprietà garantito dalla Costituzione, e lo dicono senza pudore, come se le loro sterminate proprietà non fossero il frutto dell’invasione di terre indigene, del furto di terre pubbliche e del grilagem ai danni di piccoli proprietari e posseiros. […] L’occupazione, evidenziano [i senza terra], è in perfetto accordo con la Costituzione, la quale stabilisce che tutte le proprietà improduttive devono essere espropriate»7.

Il Movimento dei sem terra ha trovato un modus vivendi anche con la Chiesa cattolica brasiliana, come racconta bene La lunga marcia dei senza terra: «Se, negli anni Sessanta, la Chiesa cattolica aveva sostanzialmente appoggiato la dittatura militare, l’orientamento, grazie allo sviluppo della teologia della liberazione, era in seguito cambiato, traducendosi nella nascita della Cpt e nella formazione di una schiera di vescovi progressisti. Così, [sottolinea João Pedro Stédile, leader dei sem terra] “se in precedenza la linea della Chiesa era stata: “Non preoccuparti, avrai la tua terra in paradiso”, il nuovo indirizzo diventa: “Considerando che hai già la terra in paradiso, lottiamo perché tu l’abbia anche qui”»8.

Assai meno comprensivi della Chiesa cattolica sono i media, in particolare Rede Globo, la prima rete televisiva del paese, e Veja, il principale settimanale brasiliano. Questi non perdono occasione per attaccare frontalmente l’Mst, accusato di ogni cosa, finanche di terrorismo.

Il Movimento però non arretra. Anzi, nell’attuale clima di grave crisi politica, economica e morale, da luglio 2017 esso ha accentuato le occupazioni. Al grido di «Corrotti, ridateci le nostre terre», gruppi di senza terra hanno occupato fazendas di persone importanti. O di politici. Come una fazenda di Rondonópolis, nel Mato Grosso, appartenente al gruppo Amaggi, impresa della famiglia del ministro dell’agricoltura Blairo Maggi, fazendeiro, uno dei più grandi produttori mondiali di soia (e uomo simbolo in tema di conflitto d’interessi).

Se il danno patrimoniale conta di più

Sotto il governo di Temer (persona indagata per corruzione, ma disposta a qualsiasi concessione alle lobbies parlamentari pur di rimanere in sella)9 la situazione sociale nel paese si è aggravata.

«La criminalizzazione e la destrutturazione di Incra e Funai (l’organismo che si occupa delle terre indigene, ndr) – si legge in un recente rapporto del Comitato brasiliano dei difensori dei diritti umani – sono utili per il proposito della bancada ruralista del Congresso nazionale di farla finita con le politiche agrarie che riguardano le lavoratrici e i lavoratori rurali sem terra, gli indigeni, i quilombolas10 e i restanti popoli della campagna, della foresta e delle acque»11.

Che il clima sia pesante per i diritti delle frange più deboli della popolazione lo si capisce anche dalla cronaca quotidiana. Lo scorso 9 agosto, a Belém, capoluogo del Pará, un giudice ha stabilito l’immediata liberazione degli 11 poliziotti militari e dei 2 poliziotti civili che erano stati incarcerati per il massacro del 24 maggio a Pau d’Arco, nel Sud dello stato, in cui erano rimasti uccisi 10 contadini (e di cui abbiamo parlato all’inizio).

Una decisione probabilmente avventata e incomprensibile, ma legittima, presa da un organo autonomo dello stato. Tuttavia, si fa notare, che i 22 contadini accusati di aver assaltato il 28 ottobre 2016 la Fazenda Serra Norte, a Eldorado dos Carajás (sempre nel Pará)12, sono ancora in carcere.

Davanti a questi fatti, si arriva alla conclusione che, nel Brasile del 2017, un danno patrimoniale è più grave di un omicidio. O almeno è così se la morte riguarda dei sem terra.

Paolo Moiola

Colniza, MT, Brasil: Área degradada no município de Colniza, noroeste do Mato Grosso. (Foto: Marcelo Camargo/Agência Brasil)

Note

  • (1) Sulla fazenda in questione circolano voci di grilagem. Con tale termine si definisce l’occupazione di terre a partire da una frode e da una falsificazione di titoli di proprietà.
  • (2) Comissão Pastoral da Terra (Cpt), Conselho Pastoral dos Pescadores (Cpp), Serviço Pastoral do Migrante (Spm), Cáritas Brasileira, Conselho Indigenista Missionário (Cimi).
  • (3) Fonte: Ipea-Fbsp, Atlas da violência 2017, Rio de Janeiro, giugno 2017.
  • (4) La classificazione di Incra è stata fatta con i dati dichiarati dai proprietari.
  • (5) Un modulo è un’unità di misura, espressa in ettari, che tiene conto non soltanto dell’estensione, ma anche delle condizioni geografiche e ambientali che caratterizzano quella proprietà rurale. Un modulo può quindi variare da regione a regione e da municipio a municipio. Per esempio, un modulo dell’Amazzonia ha una dimensione diversa da quella delle regioni del Nordest o del Sud. Per approfondire la (complessa) tematica si consulti il sito di Incra.
  • (6) Si tratta dello scandalo carne fraca («carne debole»). Riguarda l’esportazione di carne – sia di bovino che di pollo – adulterata con prodotti chimici. Ha coinvolto anche i giganti brasiliani del settore: JBS e BRF.
  • (7) In Claudia Fanti – Serena Romagnoli – Marinella Correggia, La lunga marcia dei senza terra, pag. 47.
  • (8) Ibidem, pag. 25.
  • (9) Pur coinvolto in uno scandalo di corruzione, il presidente golpista Michel Temer è stato salvato dal voto della maggioranza del Congresso nazionale (2 agosto). Un salvataggio che lo pone ancora più in balia dei gruppi parlamentari che lo sostengono. Ultimo dazio pagato è il decreto presidenziale che estingue la riserva amazzonica Renca, aprendo quel territorio incontaminato alle mire delle compagnie estrattive (23 agosto).
  • (10) Sono comunità etniche – quasi sempre costituite da popolazione nera – con tradizioni e pratiche culturali proprie. Si stima che nel paese siano oltre 3.000.
  • (11) In Vidas en luta, rapporto del «Comitê Brasileiro de Defensoras e Defensores de Direitos Humanos», 2017, pag. 20.
  • (12) Eldorado dos Carajás è la località tristemente famosa per il massacro di 19 sem terra, avvenuto il 17 aprile del 1996, a opera della polizia militare dello stato del Pará.

 

Bibliografia

  • Claudia Fanti – Serena Romagnoli – Marinella Correggia, La lunga marcia dei senza terra, Emi, Bologna 2014;
  • Conferência Nacional dos Bispos do Brasil (Cnbb), A Igreja e a questão agrária brasileira no início do séc XXI, 2014;
  • Comissão Pastoral da Terra, Conflitos no campo 2016, maggio 2017;
  • Comitê Brasileiro de Defensoras e Defensores de Direitos Humanos, Vidas em luta: criminalização e violência contra defensoras e defensores de direitos humanos no Brasil, 2017;
  • R.S.Caldart – I.B.Pereira – P.Alentejano – G.Frigotto (curatori), Dicionário da Educação do Campo, Rio de Janeiro – São Paulo 2012.

Siti web


Popoli indigeni e sem terra

Evitare una guerra tra poveri e defraudati

Colniza, MT, Brasil: Toras de madeira em pátio de serraria próximas ao município de Colniza, noroeste do Mato Grosso. (Foto: Marcelo Camargo/Agência Brasil)

La questione della terra riguarda sia i contadini che i popoli indigeni. Con differenze sostanziali.

Quali relazioni esistono tra la terra dei popoli indigeni e la terra reclamata dai sem terra? Sono soggetti in contrasto per uno stesso obiettivo? Un articolo pubblicato sul sito del Mst (25 aprile 2017) si concludeva così: «La alleanza tra sem terra e popoli indigeni è cruciale per affrontare il capitalismo e per combattere l’agrobusiness».

Al di là di una teorica alleanza (comunque non così scontata), ci sono situazioni che non possono non produrre contrasti, anche gravi: come comportarsi quando dei sem terra invadono e occupano un territorio indigeno? E se arrivano dei piccoli allevatori di bestiame? O dei contadini senza terra che si sono trasformati in garimpeiros (cercatori d’oro) o madeireiros (tagliaboschi)?

Detto questo, le differenze tra popoli indigeni e sem terra rispetto alla terra sono sostanziali.

Per l’aspetto socioeconomico e antropologico – I sem terra sono dei contadini che vedono la terra come elemento economico per il sostentamento loro e delle proprie famiglie. Essi praticano un’agricoltura di tipo stanziale. Per i popoli indigeni la terra ha in primis una valenza culturale e religiosa, mentre l’aspetto economico è secondario e anzi l’aggettivo «economico» risulta forzato. All’agricoltura stanziale gli indigeni preferiscono la caccia, la pesca e la raccolta dei frutti della foresta. È vero tuttavia che, dopo alcuni secoli di contatto (quasi sempre disastroso) con i non indigeni, alcuni popoli o singoli individui hanno acquisito abitudini occidentali e abbandonato usanze proprie.

Per l’aspetto giuridico – La politica agricola, quella fondiaria e la riforma agraria sono trattate dagli articoli 184-191 della Costituzione federale del 1988. Tuttavia, per i diritti dei sem terra occorre fare riferimento alla legge ordinaria. Per esempio, alla legge n. 4.504 del 30 novembre del 1964 che organizza la riforma agraria e la politica agraria. Per i popoli indigeni invece la fonte primaria dei loro diritti sulla terra è data dalla stessa Costituzione

del 1988, la prima tra le fonti del diritto. Gli articoli costituzionali 231 e 232 stabiliscono il diritto dei popoli indigeni al possesso permanente delle terre tradizionalmente occupate e all’uso esclusivo delle ricchezze del suolo, dei fiumi e dei laghi che su quella terra si trovano. I popoli indigeni non ne sono però i proprietari e dunque, per esempio, non possono vendere la terra. La proprietà della stessa è del governo brasiliano, il quale si riserva anche il diritto di sfruttarne il sottosuolo. A livello giuridico internazionale, per i popoli indigeni è importante ricordare anche la Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), che il Brasile ha sottoscritto.

Per l’aspetto istituzionale – I sem terra debbono fare riferimento all’«Instituto Nacional de Colonização e Reforma Agrária» (Incra). L’organo federale di riferimento per i popoli indigeni è invece la «Fundação Nacional do Índio» (Funai). Sia Incra che Funai sono oggi sotto attacco da parte del governo e del Congresso nazionale. Un ruolo molto importante riveste, infine, il «Ministério Público Federal» (Mpf), il guardiano della Costituzione del 1988.

Paolo Moiola




Cultura-agricoltura: un nuovo stile di vita


Il paradigma dello sfruttamento infinito delle risorse del pianeta rimane dominante, sebbene abbia evidenziato i suoi enormi limiti. Esiste però un movimento che mostra un nuovo equilibrio con la natura. La terra ci fornisce cibo, ma noi dobbiamo prenderci cura di essa. Nasce il concetto di «agricoltura permanente», che getta le basi per un diverso modello di vita.

È possibile progettare un nuovo tipo di sviluppo basato su sistemi di vita sostenibili sia per le persone, sia per il pianeta? Questa domanda è lecito porsela in un’epoca come la nostra contraddistinta da una serie di profondi scossoni a livello economico e sociale. Si continua a parlare di un modello di sviluppo fondato sulla «crescita economica», sulla globalizzazione dei mercati e delle merci e sullo sfruttamento delle risorse della terra. Tuttavia, questo paradigma dominante appare proprio quello che ha prodotto le ultime crisi economiche in varie zone del mondo. Ormai da tre decenni, sappiamo che l’umanità ha iniziato a vivere al di là dei propri limiti ecologicamente sostenibili. In pratica, consumiamo più risorse rinnovabili di quante il pianeta possa metterne a disposizione, come evidenzia l’organizzazione internazionale di ricerca Global Footprint Network, impegnata da decenni ad analizzare il peso dei nostri stili di vita sugli equilibri ambientali.

Il modello attuale ha una visione eccessivamente globale dell’economia, poiché le maggiori industrie e multinazionali hanno bisogno di espandere i loro mercati per sopravvivere e per avere profitti. Questo approccio non tiene però conto delle peculiarità locali e regionali, negando e annullando le specificità di un territorio e della popolazione che lo abita. Negli ultimi decenni il modello della crescita economica costante e infinita è stato più volte messo in discussione, tanto da far emergere alcune alternative che si prefiggono di recuperare i nostri legami con la natura per avere un impatto più leggero sul pianeta. Questa rivalorizzazione di un’ecologia profonda la troviamo per esempio nel movimento della permacultura, approccio che cerca di riprendere antichi saperi, fondati in parte sulla saggezza contadina, rielaborandoli e attualizzandoli con nuove filosofie.

Riprogettare e ridefinire i nostri stili di vita

Il punto centrale della permacultura è lavorare la terra senza sfruttarla in modo invasivo, rimanendo in armonia con essa. L’Accademia di permacultura italiana definisce questo approccio «processo integrato di progettazione che dà come risultato un ambiente sostenibile, equilibrato ed estetico». Si tratta di un modello di progettazione, di conservazione consapevole ed etica di ecosistemi caratterizzati da diversità, stabilità e flessibilità tipiche degli ecosistemi naturali.

La permacultura può essere applicata a un balcone, a un piccolo orto, a un grande appezzamento o a zone naturali, così come ad abitazioni isolate, villaggi rurali e insediamenti urbani. Allo stesso modo si applica a strategie economiche e alle strutture sociali. Si tratta quindi di progettare il proprio sistema di vita e l’ambiente in cui si abita partendo da una visione consapevole. Oggi è fondamentale recuperare un’interazione dinamica, proficua fra uomo e ambiente.

Agricoltura «permanente»

La permacultura mette al centro il concetto e la pratica dell’ecologia consapevole, attuabile a livello territoriale, oltre che a livello di gestione economica e di insediamenti umani.

Non a caso il termine permacultura integra insieme i termini inglesi permanent e agricolture: una sintesi che sottolinea l’importanza di sviluppare un modello socio economico e ambientale fondato su bassi consumi di energia fossile e sulle colture che durano diversi anni.

È a partire dagli anni ’70 del secolo scorso che incomincia a diffondersi la permacultura. È grazie alle ricerche degli australiani Bill Mollison e David Holmgren, i primi a parlare di agricoltura permanente, secondo i quali una cultura umana non può sopravvivere a lungo senza la base di una agricoltura sostenibile e una gestione etica della terra. Solo nel 2000 questo approccio è stato diffuso in Italia.

Applicare nella vita

Allievo di Mollison (1928-2016), Holmgren (classe 1955) è autore di diversi libri, tra cui «Permacultura» (ed. Il Filo Verde di Arianna, 2012). Holmgren ha imparato a creare terreni ecosostenibili attingendo dalla natura e dalle tradizionali conoscenze contadine; a riciclare e a utilizzare con più efficienza e parsimonia le risorse. Tra i tanti concetti, ecco a cosa è giunto a pensare: «Se facciamo entrare i bambini quando sono ancora molto piccoli in contatto con la gioia di raccogliere la verdura direttamente nell’orto, sarà più alta la probabilità che crescano con una comprensione profonda e intuitiva della nostra dipendenza dalla natura e dall’abbondanza dei raccolti».

Da qui l’importanza di accompagnare bambini e adolescenti nelle fattorie didattiche e in tutti quegli spazi che offrano l’opportunità di mostrare loro che non esistono solo centri commerciali, panini e merendine preconfezionate ma che c’è tutto un mondo vivo, vitale al di là del cemento urbano e della scatola televisiva. Holmgren invita la gente a essere partecipe dei cicli della natura e a preservare la biodiversità. Ciò è possibile per esempio diminuendo il consumo di oggetti in plastica, scegliendo detersivi alla spina e altri prodotti per i quali si riducono gli imballaggi.

Altrettanto importante è cercare di produrre una parte del cibo quotidiano: dal pane alla pasta, dallo yogurt alle torte, dalla frutta alla verdura. Chi vive in campagna può scegliere di seminare e piantare le colture più adatte a quel tipo di habitat (in base al terreno e al microclima), realizzando così un progetto di autoproduzione per la famiglia. Chi invece vive in città può tessere relazioni sociali che gli permettano di utilizzare prodotti «a km zero»: come contattare qualche piccola impresa agricola non distante dalla città o rivolgersi al più vicino Gruppo d’acquisto solidale (Gas).

Fondamentale anche l’uso sapiente dell’acqua attraverso, per esempio, sistemi di immagazzinamento della pioggia.

Semplice, ma rivoluzionario

Sepp Holzer è tra i pionieri della permacultura. Austriaco, classe 1942, Holzer è contadino e autore di diverse pubblicazioni sull’agricoltura biologica, che hanno riscosso notorietà a livello internazionale. A Sud di Salisburgo, Holzer ha creato la fattoria detta Der Krameterhof, caratterizzata da una straordinaria biodiversità. Il padre gli aveva lasciato in eredità un appezzamento di terra di 20 ettari e lui, nell’arco di 50 anni, l’ha estesa sino a raggiungere 45 ettari, dove sono coltivati differenti legumi, verdure, funghi, erbe medicinali e diverse varietà di alberi da frutto. Vi sono allevati anche vari animali e pesci d’acqua dolce, come trote, carpe e lucci. Tutto questo in una fattoria situata a un’altitudine che va da 1.100 ai 1.500 metri sopra il livello del mare. Gli inverni sono molto rigidi, ecco perché questo luogo, abbarbicato sul monte Schwarzenberg, viene chiamato «la piccola Siberia austriaca». Ma qui non vi sono né steppe desertiche, né terreni aridi. Anzi, tutt’altro. In base alle caratteristiche del suolo, Sepp sceglie quali piante seminare: per esempio, nei terreni asciutti coltiva aromatiche come timo, salvia e maggiorana, oltre che grano amaranto che non richiede molta acqua. Inoltre, Sepp ha rigorosamente bandito le monocolture e i semi ibridi: le prime impoveriscono il terreno, i secondi minacciano la biodiversità e costringono i contadini ad acquistarne regolarmente. Negli ultimi decenni la questione della perdita di diversità genetica negli orti e nelle fattorie è diventata anche questione politica, tanto che la Commissione agricoltura del parlamento europeo, nel 1991, stabilì un programma di conservazione delle risorse genetiche vegetali, incentivando reti di raccolta e progetti europei di banca del gene. Il lavoro di Sepp risponde perfettamente all’esigenza di salvaguardia della biodiversità, poiché ha seminato differenti varietà di piante, seguendo al contempo le consociazioni vegetali, un metodo che evita l’utilizzo di pesticidi chimici. Ogni verdura e frutta viene infatti associata a piante che hanno distinte funzioni: vi sono quelle che allontanano i parassiti dalle coltivazioni principali, e altre che li attirano su di sé, in modo da richiamare insetti che sarebbero dannosi per i vegetali dell’orto. Piante consociabili per esempio ai pomodori sono le carote, il prezzemolo e il tagete, mentre alla lattuga e all’insalata si possono associare fragole e ravanelli. Il metodo delle consociazioni vegetali aiuta poi ad attirare nell’orto insetti benefici, come le api, importanti per l’impollinazione dei fiori, e le coccinelle, preziose alleate contro la diffusione di afidi e moscerini.

Un terreno più fertile

In permacultura è stata inoltre riscoperta l’antica pratica del sovescio, utilissima per rendere più fertili i terreni, soprattutto se esposti al sole o se soggetti a climi secchi. La tecnica consiste nel coltivare vari tipi di erbe quando il suolo è a riposo o quando si pratica la rotazione delle colture tramite un’alternanza stagionale o annuale delle piante seminate. I vegetali coltivati seguendo la pratica del sovescio vengono tagliati e poi mischiati al suolo in modo da apportare ad esso sostanze nutritive come l’azoto. In alternativa, le erbe e le piante una volta falciate possono essere lasciate sul terreno a decomporsi, in modo da formare un humus ricco di microelementi. Questa tecnica evita l’erosione dei terreni e li protegge dal vento, dalla siccità e da altre intemperie.

Un altro metodo impiegato anche in permacultura per ovviare alla carenza di sostanze nutritive nel suolo è la creazione delle cosiddette aiuole rialzate. Come suggerisce il nome si tratta di uno spazio nell’orto o nel giardino, generalmente di piccole dimensioni, realizzato al di sopra del terreno naturale. Le aiuole vengono rialzate di 20-30 centimetri e sono circondate ai lati da assi in legno o muretti a secco. Questo metodo è valido nel caso si vogliano coltivare fiori o verdure in un ambiente più ricco di elementi nutritivi rispetto al terreno che abbiamo a disposizione, perché troppo calcareo, o perché caratterizzato da un pH nocivo per le piante che vogliamo far crescere.

Ridurre gli scarti

David Holmgren suggerisce questo slogan: «Rifiuta, riduci, riutilizza, ripara e ricicla». Se si seguono questi consigli, la produzione di rifiuti – che rappresentano un vero problema per tutte le società, soprattutto per quella capitalistico-occidentale – diminuisce notevolmente. Ecco il significato dello slogan:

  • – rifiutare di farsi coinvolgere nella mania del consumare a ogni costo, comprando cose che in realtà non ci servono;
  • – ridurre materiali ed energia o la frequenza del loro consumo;
  • – riutilizzare oggetti, come i contenitori con tappo a tenuta ermetica o vecchi tessuti della nonna, o scatole di cartone delle uova;
  • – riparare, in primis indumenti, piuttosto che buttare e poi comprare oggetti nuovi;
  • – riciclare per esempio gli scarti vegetali per produrre compost.

Un approccio culturale

Come suggerisce la parola stessa, permacultura non è soltanto un metodo di agricoltura biologica, ma più complessivamente un modo di progettare e vivere la vita secondo una visione ecologica rispettosa dell’ambiente e delle relazioni umane. Centrale in tutto questo è la cultura intesa in modo «sostenibile», molto differente rispetto all’approccio industriale ancora dominante nel mondo, come mette in evidenza la tabella riportata in queste pagine.

Silvia C. Turrin


Perché fare un orto

Qualche decennio fa, molte famiglie disponevano di un orto, piccolo o grande che fosse. Poi c’è stato il boom del cibo facile e dei supermercati sottocasa dove trovare tutto con comodità. Da qualche tempo a questa parte in molte nazioni, Italia inclusa, si sta tornando indietro. C’è chi coltiva sul proprio balcone o si è creato in giardino uno spazio ad hoc per la semina di qualche ortaggio, oppure c’è chi ha preso in affitto un appezzamento di terra per autoprodursi cibo fresco. Queste scelte potrebbero davvero rivoluzionare i nostri stili di vita e il sistema in generale. Basta guardare cosa hanno realizzato i britannici durante la Seconda guerra mondiale seguendo le direttive del piano «zappare per la vittoria»: sono riusciti a raggiungere l’autosufficienza alimentare grazie alla messa a coltura di un milione e mezzo di lotti di orto, che hanno prodotto circa una tonnellata di cibo per ogni terreno.

I corsi Imparare la permacultura

Chi desidera conoscere più a fondo queste tematiche, e praticare concretamente i principi della permacultura, può seguire un corso introduttivo riconosciuto a livello mondiale da tutte le organizzazioni di Permacultura della durata di 72 ore. Si tratta del modulo standard, denominato «Corso di progettazione in Permacultura», che deve essere tenuto da un insegnante abilitato. Chi vuole compiere un passo in più, e diventare progettista in permacultura, può seguire un corso di apprendimento, sotto la supervisione di tutor, della durata di almeno due anni. Al termine, previa presentazione del progetto, verrà riconosciuto il Diploma di progettazione in permacultura applicata.

Per info:

  • http://www.permacultura.it
  • http://www.permaculturaitalia.com



Malaysia: Allah… ma non per tutti


Un paese ricco di diversità, diviso tra il continente asiatico e l’isola del Borneo. Un tempo ponte tra Occidente e Oriente. Da oltre due secoli vi convivono tre principali gruppi etnici e quattro grandi religioni. Non senza problemi. Abbiamo incontrato il direttore del settimanale cattolico nazionale che ci ha raccontato le nuove sfide della Malaysia.

Kuala Lumpur. Padre Lawrence Andrews, gesuita malese, nel 1994 ha fondato il settimanale cattolico «Herald» (www.heraldmalaysia.com). Con una tiratura di 16.000 copie, il periodico è distribuito in tutta la Malaysia. Il giornale pubblica articoli in diverse lingue, le principali parlate nel paese: malay (lingua malese), cinese mandarino, indiano tamil e inglese. Il paese è infatti un mosaico di popoli e culture. Le etnie principali, oltre ai nativi (malesi o malay, che si dividono a loro volta in diverse etnie locali, molte delle quali vivono nel Borneo), i cinesi (migrati qui a partire da inizio 1800) e gli indiani tamil.

La Malaysia è una federazione di monarchie costituzionali, e riunisce 11 stati della Malesia continentale (o peninsulare) e gli stati Sabah e Sarawak sull’isola del Borneo. Oltre il 61% della popolazione è musulmana (l’islam è pure religione ufficiale), seguono i buddhisti (19,8%), i cristiani (9,2%) e gli induisti (6,3%), oltre altre religioni.

«La maggioranza dei cattolici parla malese e vive in Borneo. Qui invece, nella Malaysia occidentale, c’è una grande mescolanza di lingue e quella più comune è l’inglese», ci racconta padre Lawrence che incontriamo nel suo ufficio, alla parrocchia Saint Francis Xavier, a Petaling Jaya, comune periferico di Kuala Lumpur, la capitale.

«È importante sottolineare che i nativi cattolici che parlino malay vivono in Borneo. Su questioni linguistico-religiose abbiamo avuto un contenzioso con il governo. Il termine “Allah” in malay significa “Dio” ed è un nome generico, ma lo stato ha proibito a noi cattolici di usarlo, in particolare a mezzo stampa, perché lo possono utilizzare solo i musulmani. Per secoli abbiamo detto e scritto “Allah” anche noi per indicare Dio, ecco perché mi sono impuntato. Ma abbiamo perso. Adesso dobbiamo scrivere nomi come la traduzione di “Lord” (Signore) che è “Tuan”, che però non è la stessa cosa. Si dovrebbero usare entrambi».

Le comunità etniche

Il giornale cattolico è dunque indirizzato a tutte le comunità etniche del paese. Padre Andrews ci racconta l’evoluzione del multiculturalismo in Malesia.

«A partire dagli anni ’80 c’è stata una progressiva sistematica polarizzazione su base etnica. La gente è diventata più cosciente del proprio background culturale e quindi è andata nella direzione di una maggiore divisione tra un gruppo e un altro. Se negli anni ’50 e ’60 i gruppi non erano un problema, c’era una grande mescolanza, le persone di comunità etniche diverse erano amiche tra loro, si invitavano a casa una con l’altra, oggi assistiamo a maggiore divisione. In particolare si sta verificando un’avanzata del fondamentalismo islamico a causa di un’influenza che viene dal Medio Oriente. Le donne hanno iniziato a coprirsi con l’hijab (velo semplice che lascia scoperto il volto, ndr), e a ritirarsi nel proprio gruppo. Prima si dava la mano anche alle donne, adesso non più, o almeno è sconsigliato. Oggi se un musulmano va nella casa di un non musulmano non mangia, perché ha paura che ci sia carne di maiale. Questo processo si è molto accentuato negli ultimi anni».

Malesi per Costituzione

In Sarawak, Borneo, un testimone ci aveva raccontato: «Ci sono molte differenze tra Malaysia peninsulare e Borneo per quello che riguarda l’integrazione tra le comunità. Nella penisola i gruppi etnici sono molto più divisi, ovvero si frequentano persone dello stesso gruppo. In Borneo invece è molto comune la frequentazione interetnica, ad esempio tra musulmani e cristiani o tra cinesi e malay».

Continua padre Lawrence: «I gruppi etnici e le religioni stanno diventando una cosa sola, mentre prima non era così. In Malaysia vivono cinesi di differenti dialetti, indiani e diversi gruppi etnici e nativi, di cui i malay sono la maggioranza. Questi ultimi sono in gran parte musulmani (soprattutto nella zona peninsulare, ndr). Questo è l’unico paese al mondo in cui le etnie sono definite nella Costituzione. Essere malay è definito nella carta fondamentale».

La Costituzione federale malese definisce come malay colui che è nato localmente, abitualmente parla malay, segue i costumi malay e professa l’islam (art. 160). Cinesi e indiani sono definiti come discendenti di immigrati di questi due gruppi. L’articolo 153, inoltre, conferisce particolari privilegi ai malay. Un malay che si converte e non è più musulmano, non è più considerato malay per la legge e perde tali privilegi.

«Gli indiani qui sono maggioritariamente indu, ma ci sono anche musulmani. Il 60% dei cattolici vivono nel Borneo (Sabah e Sarawak) e sono anche malay. In Malaysia occidentale, invece, i cattolici non sono mai malay, ma solo cinesi e indiani. I malay sono musulmani. Qui in territorio peninsulare se un malay vuole diventare cattolico, può essere arrestato. Ecco perché non possiamo usare il nome Allah, perché i musulmani temono che si possa creare confusione (e quindi conversioni)». Di fatto legalmente un malese deve essere musulmano. Le corti islamiche, hanno deciso che i malesi etnici devono rimanere musulmani e non è loro consentito cambiare religione. Questo è valido anche per una persona di altra etnia convertita all’islam. «In tutto siamo circa 3 milioni di cattolici su una popolazione totale della Malaysia di 30 milioni. In penisola siamo circa 300.000 cattolici».

In Malaysia l’islam è religione ufficiale di stato e, questioni linguistiche a parte, le relazioni tra chiesa cattolica e governo sono passabili. «Sono ok – ci dice padre Lawrence, ripetendo più volte l’ok -, non possiamo dire buone, ma va bene. Occorre avere permessi per qualsiasi cosa. Per costruire una chiesa devi avere il permesso e a volte non te lo danno. Tutto ciò crea ritardi. Se non chiedi troppo puoi vivere in pace, nessun problema. Non siamo al livello dell’Indonesia, a grande maggioranza musulmana, dove gli islamici possono andare in una chiesa e chiedere che si fermino le funzioni. Qui non lo hanno ancora fatto, almeno fino ad ora.

Con la polizia, inoltre, abbiamo buoni rapporti, possiamo parlare con loro. Ci danno protezione durante le grandi feste. In questo periodo storico è importante, con l’avanzata del terrorismo e dell’Isis».

Non è terra di missione

La chiesa cattolica in Malaysia storicamente ha avuto l’appannaggio dell’educazione. Tramite istituti religiosi, come i fratelli delle Scuole cristiane (di La Salle) e le suore canossiane, ma anche le francescane, da Italia, Francia e Irlanda, furono fondate scuole di ogni grado. «Oggi la maggior parte delle scuole sono però gestite dal governo. Il numero di religiosi è sceso, per cui le risorse umane sono diminuite. Molte delle nostre scuole sono ora gestite da islamici e hanno professori musulmani. Le migliori scuole sono quelle in lingua cinese, ma non ci sono religiosi. Cerchiamo di assumere professori cinesi, ma difficilmente sono cattolici. E non saremo sorpresi se una volta ritirati, saranno sostituiti da musulmani».

In Malaysia sono presenti diverse congregazioni religiose anche di origine europea, ma non ci sono quasi più missionari. «La chiesa locale è forte e inoltre non possono più venire gli stranieri a causa di una legge del 1970 che ostacola l’arrivo di nuovi missionari. Quelli che vivevano già nel paese, potevano stare ma al massimo otto anni. Alcuni sono diventati residenti per cui sono riusciti a prolungare la loro permanenza, ma in generale non abbiamo possibilità di avere altri missionari. Le congregazioni sono tutte costituite da persone locali, il che è un bene. Non siamo più un paese di missione», dichiara con un certo orgoglio. In Malaysia, non si vedono appariscenti casi di povertà, neppure nelle grandi città, come invece capita in tante capitali nel mondo. La povertà è presente ma circoscritta, ci ricorda padre Andrews. Secondo la Banca mondiale la Malaysia è quasi riuscita a eradicare la povertà, portando il numero di famiglie che vivono sotto la soglia di 8,50 dollari al giorno dal 50% degli anni ‘60 al 1% di oggi. Secono padre Andrews «si tratta di statistiche un po’ esagerate. Il Borneo è più povero, soprattutto nelle zone rurali. Anche qui a Kuala Lumpur ci sono quartieri poveri. Se in una famiglia entrano 1.500 ringgit al mese (320 euro) e ne servono 500 per l’affitto, quello che resta non basta».

Occhio alle conversioni!

I cattolici non sono gli unici cristiani. Sono presenti anglicani e gli altri protestanti. «Con gli altri cristiani, anglicani, luterani, metodisti, evangelici, partecipiamo alla Christian federation of Malaysia, Cfm. È una piattaforma che ci permette di parlarci e confrontarci quando ci sono difficoltà. Ad esempio adesso non possiamo più stampare bibbie in malese. Una legge ce lo proibisce. Stiamo negoziando con il governo per cambiare le cose. Ci sono le vecchie bibbie ma non possiamo averne di nuove. Gli evangelici sono piuttosto duri, per cui a volte hanno avuto problemi. Ad esempio quando cercano di battezzare dei musulmani. Due pastori sono scomparsi per questo motivo. Noi cerchiamo di metterli in guardia».

Chiediamo a padre Andrews qual è, secondo lui, la sfida per il futuro. «Ne abbiamo due: una all’esterno della comunità cristiana e l’altra all’interno. Quella all’esterno è la sfida dell’islam, sempre più presente. I musulmani cercano di convertire i fedeli di altre religioni. Noi, invece, dobbiamo lavorare per costruire ponti ovunque con altre comunità e religioni, come dice papa Francesco. Dobbiamo cambiare la nostra mentalità e non guardare solo noi stessi. Se non riusciamo a lavorare con le altre religioni non ci sarà pace in questo paese, perché una religione dominerà sulle altre. Lo chiamiamo dialogo interreligioso. Il papa sta spingendo su questo e ha creato un nuovo dicastero su questo tema. In particolare lui parla ai musulmani, affinché non ci sia scontro, ma amicizia. L’altra sfida che abbiamo è non perdere i nostri fedeli, in quanto siamo una minoranza».

Marco Bello
(fine prima parte – continua)


Cronologia essenziale

Dalla via delle spezie alla Petronas

  • 1402 – Il principe pirata hindu Parameswara, giunto da Sumatra, fonda quello che sarà il grande porto commerciale di Melaka (a Sud dell’attuale Kuala Lumpur), cerniera tra India e Cina. Negli anni successivi viene adottata la religione musulmana (la penisola era buddhista e hindu) e Melaka diventa centro nevralgico per la diffusione della fede e della lingua malese.
  • 1509-11 – Arrivano i primi commercianti portoghesi in cerca di spezie. Melaka viene poi conquistata dai portoghesi che la controllano per 130 anni.
  • 1641 – Gli olandesi, in concorrenza con i portoghesi per il commercio delle spezie dall’Asia all’Europa, si fanno aiutare dal sultano di Johor e conquistano Melaka, che gestiranno per 150 anni. Inizia il declino della città. Gli olandesi potenziano Batavia, l’attuale Jakarta (Indonesia).
  • 1786 – Anche gli inglesi, con la loro Compagnia delle Indie Orientali, si rendono conto dell’importanza di una base commerciale sulla penisola malese, tra India e Cina. Il britannico Francis Light ottiene l’isola di Penang (a Nord di Kuala Lumpur) per un primo insediamento.
  • 1819 – Stamford Raffles, governatore inglese di Java, sbarca sull’isola di Singapore e negozia un accordo con il sultano: la Compagnia delle Indie ottiene l’isola in cambio di denaro e ne fa un importante porto.
  • 1824 – Gran Bretagna e Paesi bassi firmano un trattato per dividere la regione in due distinte zone d’influenza: agli olandesi l’Indonesia e ai britannici i territori sulla penisola.
  • 1839 – L’avventuriero inglese James Brook sbarca nel Borneo Nord orientale, dove aiuta il sultano del Brunei a sedare una rivolta. Nel 1841 riceve l’incarico di governare sulla regione (Sarawak), che si allargherà e sarà prospera sotto di lui e suoi discendenti (i rajah bianchi) per 100 anni, fino all’invasione giapponese durante la seconda guerra mondiale e poi al protettorato britannico.
  • 1865 – Il console statunitense del Brunei (impero potente in passato) approfitta della malattia del sultano per farsi affidare il Nord (l’attuale Sabah) che poi passerà agli inglesi diventando British North Borneo company (1881). Nel 1888 il Brunei diventa protettorato britannico.
  • 1941 – I giapponesi conquistano la Malaysia peninsulare e il Borneo. Reprimono il movimento comunista cinese. Si crea una guerriglia nella giungla che si oppone all’invasore. Nel 1945 i giapponesi si arrendono e i britannici riprendono il controllo della penisola.
  • 1946 – I britannici convincono i sultani a creare Malay Union controllato dall’Inghilterra. I malesi protestano e viene creato il primo partito malese: United Malays National Organization (Umno). Questo porta alla creazione della Federazione della Malesia e apre la via per l’indipendenza.
  • 1953 – L’Umno stringe un’alleanza con la Malayan chinese association (i cinesi) e il Malayan indian congress (gli indiani). Nasce il Parti Perikatan guidato da Tunku Abdul Rahman, che vince le prime elezioni nazionali nel 1955 e guida il paese verso la Merdeka (indipendenza).
  • 1957 – Dichiarata l’indipendenza della Malesia peninsulare. Rahman diventa primo ministro.
  • 1963 – Sabah e Sarawak (Borneo sotto controllo britannico) si uniscono a Malesia e Singapore formando la moderna Malaysia. Singapore ne esce due anni dopo per problemi interetnici cinesi – malesi.
  • 1969 – La Federazione vive frizioni tra le comunità etniche. I malesi nativi (detti bumiputra) sono più poveri di cinesi e indiani, ma hanno privilegi politici. Le tensioni sfociano in disordini in capitale che fanno 198 vittime. Il governo a prevalenza malese, vara un programma economico a favore dei nativi (1971), che continua ancora oggi. In venti anni di programma sono aumentate le aziende gestite dai nativi ed è cresciuta una classe media dei malesi.
  • 1970 – oggi – Grazie ai numerosi giacimenti di petrolio e gas naturale (getiti dalla Petronas, compagnia di stato), ma anche alla diversificazione industriale, la Malysia è riuscita a mantenere tassi di crescita vicini al 7% per 25 anni (Banca mondiale). Anche durante la crisi finanziaria asitica (‘97-’98) e quella mondiale (dal 2008), i livelli di crescita si sono mantenuti intorno al 5,5%. La crescita ha agito nel senso della riduzione delle disuguaglianze, con l’effetto di eradicare la povertà estrema, passata da oltre il 50% della popolazione negli anni ‘60, all’1% di oggi, secondo dati ufficiali.

Ma.Bel.




Capitolo generale IMC:

Ogni continente la «sua» Missione


Ho terminato la prima puntata raccontando dell’elezione del nuovo gruppo di «servitori» dell’Istituto. Li definisco così, anche se portano il nome ufficiale di «Direzione generale»: un gruppo di cinque missionari che per la loro «promozione» non ricevono nessun aumento di stipendio (non ne hanno proprio, solo vitto, alloggio e spese vive) e neppure avranno diritto al vitalizio.

Al centro della foto 1: il riconfermato superiore generale, padre Stefano Camerlengo, 61 anni, marchigiano verace, con lunga esperienza in RD Congo, dove è arrivato diacono quando ancora si chiamava Zaire.
Accanto a lui, con maglietta a righe, il vice superiore generale, padre James Lengarin della famiglia samburu dei Leaburia di Maralal, Kenya, 46 anni. Padre James ha fatto diversi anni di servizio missionario in Italia, prima al Sud e poi nel seminario teologico di Bravetta (Roma). Ultimamente era in Kenya come amministratore.
Il primo a sinistra è il consigliere con responsabilità di coordinamento per le Americhe, padre Jaime Patias, 53 anni, del Rio Grande do Sul in Brasile, giornalista nella nostra rivista Missões e poi responsabile delle comunicazioni per le Pontificie opere brasiliane.
Il secondo da destra è il consigliere per l’Africa, padre Godfrey Msumange, 44 anni, nativo di Iringa in Tanzania, missionario in Italia per anni, ben conosciuto a Vittorio Veneto e poi parroco della parrocchia della Speranza a Torino, nominato superiore regionale in Tanzania a metà del 2016.
Padre Antonio Rovelli (il primo a destra), 59 anni, brianzolo di Barzago (Lecco), missionario in Uganda a Bweyongerere, poi attivissimo in Italia nell’animazione e nella cooperazione, e negli ultimi anni responsabile della pastorale dei migranti della diocesi di Torino, è il consigliere incaricato per l’Europa.

L’elezione si è conclusa il 13 giugno e ha segnato il passaggio tra la prima parte (di analisi e condivisione) e la seconda (di programmazione) del capitolo. Fondamentale è stato l’approfondimento di quello che siamo e facciamo nel mondo, analizzando in dettaglio i progetti che i missionari della Consolata hanno elaborato in ogni continente.


Padre Tamrat presenta il progetto Asia

Asia: piccolo gruppo, grandi speranze

Padre Mathews Owuor e padre Tamrat Defar.

Dove

Un continente che pur occupando solo il 30% delle terre emerse, ha oltre il 60% di tutta l’umanità. È il luogo di nascita di tutte quelle che sono chiamate le «religioni del libro»: Giudaismo, Cristianesimo e Islam, tutte sono nate nel Medioriente. Induismo, Buddismo, Giainismo, Sikhismo provengono dall’Asia del Sud; Confucianesimo, Taoismo e Shintornismo nell’Asia dell’Est. In questa realtà i Cristiani sono solo l’8,4% della popolazione totale (foto 2).

Le sfide

In questa situazione la Chiesa cattolica deve affrontare delle serie sfide:

  • ha ancora bisogno di inculturarsi;
  • è una comunità in minoranza;
  • non è autosufficiente e dipende dal sostegno delle altre chiese;
  • è una chiesa dove prevale l’impegno sociale;
  • opera in paesi dove la libertà religiosa è negata o strettamente controllata;
  • è in dialogo con le altre religioni.

I missionari della Consolata

Icona della Consolata in stile Coreano

Sono arrivati nel continente solo nel 1988 con la prima apertura in Corea del Sud; nel 2003 insieme alle missionarie della Consolata sono andati in Mongolia e nel 2014 a Taiwan. Organizzati in realtà giuridica unitaria dal 21 marzo 2016, con l’etiope padre Defar Tamrat come superiore (foto 3), i 19 missionari (11 in Corea in 3 comunità, 4 in Mongolia a Ulanbaatar e Arvaiheer e 4 in Taiwan nella nuova parrocchia del Sacro Cuore a Hsinchu – vedi pag 21) vivono la loro presenza in Asia con coraggio e tanta speranza.

Priorità ben chiare

Sono il gruppo di missionari tra i più giovani dell’Istituto, con 42 anni di età media (38 in Sud Africa e 68 in Italia); sono una comunità multiculturale con asiatici, africani, latino americani ed europei uniti nell’unico scopo di testimoniare e annunciare Gesù a chi non lo conosce. Per fare questo sono impegnati nel dialogo interreligioso e con le culture; sono una presenza di consolazione (foto 4, la Consolata dipinta con il linguaggio simbolico e i colori della Corea) in mezzo ai giovani, agli immigrati e agli emarginati.

La loro forza è essere comunità vive, fraterne e multiculturali, che sono in comunione e collaborano con la Chiesa locale, con altre forze missionarie, con le missionarie della Consolata e i laici cristiani del posto.

Una speranza e un desiderio

La speranza: raddoppiare quanto prima il numero dei missionari presenti a Taiwan e poi anche in Mongolia. Un desiderio: stabilire presto anche un piccolo centro di formazione teologica per i nuovi missionari per dare loro la possibilità di iniziare da giovani a imparare le lingue (che richiedono diversi anni di studio) e le culture locali.


Celebrazione eucaristica prima giornata progetto continentale africano – membri del capitolo che lavorano nel continente Africa

Africa: le sorprese di una chiesa viva

Radici profonde

Il cristianesimo appartiene all’Africa fin dalle sue origini, a partire dall’eunuco etiope a Simone nativo di Cirene (in Libia). San Marco, ad Alessandria d’Egitto, fondò una comunità fiorente (che, come quella nella vicina Etiopia, dura a tutt’oggi) e il Nord Africa, prima dell’invasione islamica, ha offerto una messe rigogliosa di martiri, santi e padri della Chiesa.

Un’Africa che sorprende

Padre Marco Marini e padre Matttieu Kasinzi presentano il progetto continentale dell’Africa

«Ex Africa semper aliquid novi – dall’Africa (viene) sempre qualcosa di nuovo», dicevano già i Romani. La vitalità della Chiesa africana è la sorpresa e il dono che Dio sta dando a tutto il mondo.

I missionari della Consolata, arrivati in Kenya nel 1902, sono presenti in 10 nazioni con 88 comunità e circa 400 missionari (compresi i 92 studenti professi) e sono pronti ad aprire a breve una nuova missione nel Nord del Madagascar.

I missionari di origine africana (439) costituiscono quasi il 45% di tutto l’Istituto e ne sono la parte più giovane. In 268 lavorano nelle varie nazioni dell’Africa e 166 sono negli altri continenti. Una vitalità missionaria bellissima per un continente che pur avendo ancora bisogno di missionari è capace di condividere dalla sua povertà.

Le scelte

Con la sobrietà e la concretezza che caratterizza il mondo africano, i missionari vogliono concentrare i loro sforzi su tre ambiti principali.

  • Rimettere la missione ad gentes al centro: l’annuncio del Vangelo ai non cristiani viene prima della cura delle comunità già formate. Con alcune priorità: i cristiani superficiali o abbandonati (come nelle grandi periferie urbane multietniche, deculturate e povere) e la scelta delle minoranze etniche (come i Pigmei).
  • Una formazione di qualità per la Missione: ai 92 giovani in formazione dal noviziato alla teologia occorre aggiungere gli oltre 200 giovani che sono nel periodo di studi che precede il noviziato. È una realtà molto bella, di cui ringraziare il Signore, che ha però i suoi problemi: garantire formatori qualificati ed esperti; sostenere la gestione dei seminari che assorbe molte risorse; assicurare la continuità e la qualità formativa nei quasi dieci anni di studio; tenere acceso il fuoco della Missione e preparare i giovani ad andare in luoghi anche più poveri di quelli da cui provengono.
  • Autosufficienza economica e trasparenza: c’è l’urgenza di trovare forme di autofinanziamento in Africa, di ridurre le spese, di responsabilizzare ogni missionario nell’uso dei beni, e di garantire equità e trasparenza curando i rapporti di fiducia e correttezza con benefattori e donatori esteri.

Celebrazione presieduta da padre Venanzio per il continente America – rappresentanti del continente

Americhe: contro la tentazione di restare a casa

Due continenti, una sola Missione

In questi anni tra i missionari della Consolata è venuto a crescere il senso di continentalità e al capitolo è stata la prima volta che quelli del Sud e del Nord hanno parlato a una sola voce. Apparentemente tra il Nord e il Sud le differenze sono molto accentuate sia dal punto di vista sociopolitico (pace contro instabilità politica, guerre e tensioni sociali) che economico (ricchezza e povertà, dominio e sfruttamento), religioso (mondo protestante e mondo cattolico) e linguistico. Ma un’analisi più attenta rivela che ci sono molti aspetti comuni: crisi economica, crisi etica valoriale e morale, corruzione, disastri ecologici, produzione/consumo di droga, genocidi di popoli indigeni, migrazioni, ecc. Tutte realtà che richiedono un nuovo impegno da parte di tutta la Chiesa.

Quanti e dove

Il continente America presenta il suo progetto all’assemblea capitolare

In America (Nord e Sud) ci sono 261 (di cui 51 ancora in formazione) missionari della Consolata, con una media di età di 54 anni. Sono in Argentina, Brasile, Colombia, Ecuador, Perù, Venezuela, Messico, Stati Uniti e Canada, per un totale di 69 centri.

Esame di coscienza

Facendo un bell’esame di coscienza, i missionari che operano nelle Americhe si sono resi conto che:
• solo il 30% di tutti loro è dedito alla prima evangelizzazione o impegnato con i popoli indigeni e gli afroamericani; • pochi missionari sono davvero disponibili al servizio a vita fuori dal proprio continente o anche solo in missioni disagiate, povere, senza comunicazioni (sia strade che web) e difficili per lingua e cultura.

Conversione

Per questo il progetto rimette la missione ad gentes, a vita e ai poveri al centro con alcune opzioni preferenziali: • l’Amazzonia e i popoli indigeni, • le periferie urbane, • gli afroamericani, • i migranti e rifugiati, e tutte le periferie esistenziali. Questo insieme all’impegno di accrescere la collaborazione e corresponsabilità tra il Nord e il Sud nel campo della giustizia e della pace, nell’aiuto ai poveri e nella salvaguardia del creato.


Foto di gruppo dei rappresentanti dell’Europa dopo la Messa presieduta da mons. Giovanni Crippa

Europa: «Missione» antidoto alla rassegnazione

Quanti e dove

In Europa, attualmente, ci sono 257 missionari, di cui 35 studenti (non europei), distribuiti in 35 comunità: 22 in Italia, 1 in Polonia, 4 in Spagna e 8 in Portogallo. L’età media è alta: 53 anni in Spagna, 60 in Portogallo e 68 in Italia (Polonia inclusa). Solo 4 giovani europei sono in formazione; la maggioranza dei missionari sotto i 50 anni proviene da nazioni extra europee.

Tentati dalla rassegnazione

Padre Luis Pereyra e padre Luca Bovio.

Da questi dati e, soprattutto da quello dell’età molto avanzata, nascono alcune domande: cosa ci stiamo a fare in Europa oggi? Con che tipo di presenze? Un tempo i missionari partivano dall’Europa per andare in missione in Africa e America Latina, oggi succede il contrario, i nostri missionari vengono in Europa per «fare la missione». Dobbiamo subire passivamente questa situazione accontentandoci di fare qualche servizio pastorale e di prenderci cura dei nostri anziani e malati?

Missione Europa

La risposta dei missionari al Capitolo generale è stata unanime: non vogliamo subire il cambiamento ma viverlo perché crediamo che è urgente vivere la Missione anche qui a casa nostra. I tempi non sono facili, ed è sotto gli occhi di tutti che l’Europa sta vivendo grandi e rapidi cambiamenti e crisi profonde che coinvolgono Chiesa e società, famiglia e giovani, lavoro ed economia, sicurezza e migranti, ambiente e scuola, demografia e salute …

Padre Michelangelo Piovano e padre Eugenio Butti.

Stile nuovo

Questa situazione complessa e contraddittoria ci stimola a ripensare il nostro modo di essere nel continente: non più prevalentemente «cacciatori e raccoglitori» (di vocazioni e di aiuti) come eravamo un tempo, ma anche «agricoltori» che seminano il seme bello della Parola di Dio.

Scelte nuove o riconfermate

  1. Servizio nella chiesa locale con un’attenzione speciale ai migranti, al dialogo interreligioso, ai giovani, alla formazione dei laici e alle aree più abbandonate o emarginate.
  2. Cooperazione missionaria (progetti di sviluppo, educazione, salute ed evangelizzazione) sostenuta da un impegno fattivo «per giustizia, pace e salvaguardia del creato» e da un’informazione a servizio dei poveri, di chi non ha voce e del Vangelo, facendo rete con organismi e associazioni della società civile che condividono la nostra stessa sensibilità e lo stesso sogno di un mondo più giusto e fraterno.
  3. Formare i giovani missionari (non europei) specificamente per la missione in Europa.

 


La gioia di un cammino insieme

La presentazione dei progetti in queste righe è davvero ridotta all’osso. L’originale occupa molte pagine ed è frutto di mesi di consultazioni e molti incontri prima del capitolo. Ogni progetto è stato poi esaminato sotto il «fuoco incrociato» degli altri continenti per cogliere i punti di forza e di debolezza e arrivare a proposte realistiche e, allo stesso tempo, piene di speranza e futuro.

In questo siamo stati guidati da una riflessione del padre generale, che ha citato da Sant’Ignazio di Antiochia: «Vidi con gli occhi di Dio, pensai con la mente di Dio. Sentii con gli orecchi di Dio, amai con il cuore di Dio. Desiderai con i desideri di Dio, decisi con le decisioni di Dio». Un invito chiaro a fare un cammino di discernimento nella fede e nello Spirito per attualizzare quelli che sono i due obiettivi fondamentali della nostra vita missionaria: diventare santi e servire la Missione (che è Gesù). Un modo per ricordarci che non ci può essere vera ristrutturazione senza una profonda rivitalizzazione.

La sorpresa dell’ovvio

Foto 12: Firma degli atti del capitolo

Dal risultato dei lavori dei gruppi continentali, senza bisogno di particolari discussioni, sono emerse – in parte sorprendendo i capitolari stessi – alcune convergenze importanti.

  • Il primo punto di convergenza è stato il ridirsi con forza l’urgenza che ogni missionario ha di ricentrare la sua vita in Gesù Cristo come fonte e ragione dell’essere discepoli-missionari. L’unanimità riscontrata su questo punto è stata motivo di gioia per tutti. Si è vista in essa la mano dello Spirito e la benedizione del nostro beato Fondatore, che ci ha ripetuto «Prima santi poi missionari».

Apparentemente si è detta una cosa ovvia. Eppure la convergenza spontanea su questo punto così semplice ed essenziale ha sorpreso tutti, perché tutti – convinti come siamo di risolvere i problemi con nuove leggi – ci aspettavamo di sentire tante ricette e strategie diverse: più anni di formazione, più studio, più specializzazioni, più mezzi, più internet, più regole, più questo e più quello. Invece ci siamo trovati concordi nel ripartire da quello che è fondamentale: Gesù Cristo.

  • • Il secondo elemento di gioia è stato la convergenza immediata sul tema della comunità. Bello l’invito a ritrovare la gioia e il gusto della vita comunitaria, dello spirito di famiglia e del senso di appartenenza all’Istituto, mettendo in evidenza la bellezza della testimonianza di comunità interculturali con missionari provenienti da nazioni e culture molto diverse.
  • •• Una terza convergenza che ha sorpreso e ha dato gioia è avvenuta al momento di scegliere il tipo di organizzazione continentale desiderato. Sul tavolo c’erano diverse proposte, più o meno innovative, più o meno complicate. Senza particolari discussioni tutti i gruppi hanno confermato la validità dell’attuale modello di governo: superiore generale, vice e tre consiglieri, uno per continente. Questo si è poi riflesso nell’elezione della nuova direzione generale avvenuta con poche votazioni in meno della metà del tempo previsto.

Foto 13: con il personale della casa generalizia di Roma.

Il capitolo è finito …

Il racconto della seconda parte del capitolo è più un verbale che un «reportage». In realtà non c’è stato niente di speciale nelle lunghe sedute, nei lavori di gruppo, nei momenti di preghiera comune, nel paziente lavoro della segreteria che ha fatto miracoli armonizzando testi in italiano, inglese, portoghese e spagnolo. Già, perché nonostante la lingua ufficiale fosse l’italiano, quando qualcuno voleva esprimere un concetto senza essere frainteso, lo faceva nella sua lingua (fortunatamente non in quella materna, perché allora ci sarebbe proprio stato da divertirsi).

Concludo questa storia con tre foto.

La foto 12, nella quale padre Stefano Camerlengo, superiore generale riconfermato, pone la parola «fine» al capitolo firmandone gli atti.

La foto 13, che vuole essere un grazie al personale della casa generalizia di Roma (insieme ai padri D. Pendawazima, ex vice generale, e R. Marcolongo, superiore della casa) per il loro eccellente e umile servizio ai capitolari.

L’ultima, la 14a, ricorda un momento della messa conclusiva, celebrata il 20 giugno nel seminario di Bravetta, a Roma, in onore della nostra «fondatrice», la Vergine e Madre Consolata. È il momento della gioia e del ringraziamento con le parole del Magnificat, il cantico di Maria. Ed è stata danza, in puro stile africano.

Foto 14: Celebrazione eucaristica finale a Bravetta con studenti e amici.

Gigi Anataloni




Taiwan: nell’isola «bella» un parroco africano


Dopo quasi tre anni di paziente studio della lingua e della cultura cinese, padre Mathews Owuor, keniano, e padre Eugenio Boatella, spagnolo, iniziano il loro servizio missionario «in Cina» prendendo la responsabilità della parrocchia del Sacro Cuore nella città di Hsinchu.

Il momento è finalmente arrivato. La nostra comunità sta per compiere tre anni di presenza nella diocesi di Hsinchu, a Taiwan, un tempo conosciuta come isola di Formosa: l’isola «bella». Siamo arrivati in tre, dopo un periodo di discernimento e studio, per capire se questo piccolo paese del Pacifico potesse diventare la terza presenza dei Missionari della Consolata nel continente asiatico.

Il Capitolo generale del 2011 aveva chiesto che l’Istituto, prevalentemente orientato al lavoro di evangelizzazione in Africa e America Meridionale, si aprisse all’Asia con decisione. Gli obiettivi erano due: creare tra i missionari una maggiore consapevolezza e una conoscenza più profonda della missione in Asia e operare una nuova apertura che, dopo la Corea (1988) e la Mongolia (2003), fosse il segno tangibile dell’assunzione di questo impegno da parte dell’Istituto.

Il lavoro di discernimento, portato avanti dalla Direzione generale insieme ai missionari già presenti nel continente, aveva sin da subito suggerito Taiwan come una delle possibili mete; questo per tre ragioni principali:

1) l’importanza, per un Istituto come il nostro, di avere una qualche apertura verso il mondo cinese, in modo da esporsi alla cultura, impararne la lingua, conoscerne le caratteristiche principali;
2) rimanere compatti e non distanziarsi troppo dalle altre presenze, per avere la possibilità di incontrarsi periodicamente;
3) la relativa facilità di accesso e la positiva accoglienza da parte del governo e della Chiesa locale.

La scelta di Hsinchu

Le due visite fatte dal sottoscritto insieme all’allora consigliere generale per l’Asia, padre Ugo Pozzoli, nel luglio 2013 e maggio 2014 avevano offerto nuovi elementi capaci di far pendere definitivamente il piatto della bilancia a favore della scelta di Taiwan. Determinante era stato l’incontro con mons. John Baptist Lee, vescovo della diocesi di Hsinchu dove poi ci siamo diretti e attualmente lavoriamo.

Hsinchu si trova molto vicina alla capitale Taipei. È una cittadina industriale che vive sui proventi dell’industria tessile e di quella della tecnologia. Ospita una grande quantità di migranti provenienti da moltissimi altri paesi del Sud Est asiatico, in particolare Filippine, Vietnam e Thailandia, ma anche da alcuni paesi dell’America Latina. Durante il periodo di studi della lingua cinese ci siamo avvicinati a questo mondo complesso e bisognoso di «consolazione» rappresentato dai lavoratori stranieri.

La chiesa locale ha anche un grande bisogno di clero, fattore che ha contribuito in maniera risolutiva alla scelta di Hsinchu come nostra meta. Il vescovo ci ha ospitati presso l’episcopato per tutto il tempo del nostro inserimento nella realtà di Taiwan, garantendoci accompagnamento e incoraggiamento nella prima, arida fase di apprendistato nella nuova realtà. I primi due anni e mezzo di permanenza sono stati infatti dedicati allo studio intensivo del cinese mandarino, senza la conoscenza del quale si è praticamente bloccati in ogni attività pastorale. Eravamo in due: padre Mathews Odhiambo, keniano, e il sottoscritto, spagnolo. Personalmente avevo già fatto la fatica di imparare un idioma complesso come il coreano e adesso mi trovavo davanti a questa nuova domanda: sarei stato capace di iniziare un lavoro pastorale efficace con la conoscenza del cinese che avevo maturato fino a quel momento? Dove, soprattutto, il vescovo ci avrebbe chiesto di iniziare la nostra missione «sul campo»? Con padre Mathews, sovente ci chiedevamo quale sarebbe potuta essere, al termine dei nostri primi due anni in Taiwan la nostra responsabilità pastorale. Forse una parrocchia in qualche città della diocesi? O in una zona rurale dove vivono i nativi? Saremmo stati capaci, col nostro cinese così limitato, ad affrontare una tale responsabilità?

Esterno della chiesa costruita secondo lo stile di un palazzo tradizionale nella città di Hsinchu.

La parrocchia del Sacro Cuore di Gesù

Alcuni di questi dubbi si sono sciolti quando il vescovo Lee mi ha chiamato per dirmi: «Ho già pensato quale sarà la parrocchia per voi missionari della Consolata. È la parrocchia dei Gesuiti, quella del Sacro Cuore. Loro stanno per consegnare la parrocchia alla diocesi e così ho pensato a voi!». Che sorpresa! Non lo avremmo mai immaginato. La conoscevamo già, perché è una di quelle che avevamo visitato con padre Ugo durante il nostro secondo viaggio di esplorazione prima di fare la scelta di aprire una missione in Taiwan. È una chiesa molto significativa nella diocesi di Hsinchu, e il vescovo l’ha anche designata come santuario per i pellegrinaggi. Eravamo rimasti allora colpiti dalla forma particolare di questa chiesa, unica per la sua bellezza, costruita 45 anni fa ispirandosi all’architettura dei palazzi cinesi.

A gennaio di quest’anno, terminati i nostri primi due anni di studio del mandarino, il vescovo ci ha inviato in questa parrocchia come assistenti fino a oggi, 30 di luglio, giorno in cui ne abbiamo assunto la completa responsabilità. Fino a oggi padre Mathews e io abbiamo vissuto e lavorato insieme con la comunità dei Gesuiti (quattro padri anziani e un fratello), e questo ci ha permesso di conoscere a poco a poco le persone e la vita della comunità.

Il lavoro pastorale e missionario della diocesi di Hsinchu fu assegnato fin dal 1952 alla Compagnia di Gesù. Molti dei padri espulsi dalla Cina comunista vennero qui e cominciarono un gran lavoro missionario che diede come frutto la costruzione delle attuali parrocchie di questa città. E tra queste la nostra, la parrocchia del Sacro Cuore. Ovviamente i Gesuiti godono del rispetto e dell’ammirazione di tutti i fedeli della diocesi per il loro impegno di evangelizzazione. E questo vale anche per l’ultimo parroco, il padre Sun di 93 anni nato nella Cina continentale, e per il suo vice parroco, il padre Arturo, ottantenne colombiano, che hanno guidato questa comunità con grande visione, facendola crescere in 10 anni sia come numero che come qualità di fede. I fedeli sono una novantina e sono attivi in vari gruppi parrocchiali, come la Legio Mariae, la catechesi domenicale dei bambini, il coro, il gruppo di preghiera «Taizé», lo studio della Bibbia e dei documenti del Vaticano II, il gruppo anziani, il gruppo di formazione di evangelizzatori e la catechesi battesimale.

Certo, questo numero di fedeli è veramente piccolo a confronto delle chiese di altri paesi. Ma noi guardiamo a questo piccolo gregge con tanta speranza. Saranno loro che ci aiuteranno a entrare in questa cultura e con loro potremo arrivare a quelli «di fuori», che ancora non conoscono il Vangelo, e così realizzare il primo obiettivo della nostra missione.

Passaggio del testimone

Oggi, 30 luglio, finalmente è stato passato il testimone. Il nostro vescovo Lee ha presieduto la cerimonia di consegna della parrocchia, dai Gesuiti ai missionari della Consolata. Per questa occasione sono venuti dalla Corea il nostro superiore regionale, padre Tamrat Defar, e padre Gian Paolo Lamberto, il quale ci ha anche predicato il ritiro annuale la settimana precedente a questa cerimonia.

È stato un momento emozionante per tutti, specialmente per i padri gesuiti che dopo tanti anni lasciano questa comunità parrocchiale tanto amata. Il provinciale dei Gesuiti ha ricordato ai fedeli che la parrocchia non è qualcosa dei Gesuiti, o del vescovo o della Consolata, ma di Gesù, che dona questa comunità alla Chiesa.

Da oggi padre Mathews è parroco, e si assume la responsabilità di questa comunità. Potete immaginarvi le sfide che ha davanti, tra cui forse la più grande è quella di una lingua che non si finisce mai di imparare, anche se lui già se la cava molto bene. Questa parrocchia per noi non è solamente la prima opportunità di realizzare il nostro servizio pastorale a Taiwan, ma è anche la sede della nostra comunità, formata per ora da quattro padri (Mathews Odhiambo, Gilberto Da Silva, il sottoscritto Eugenio Boatella, e Jasper Kirimi – foto a sinistra). La diocesi ha ristrutturato per noi un secondo piano dell’edificio, trasformando cinque uffici e un salone nella nostra attuale residenza, che diventa così sede e punto di riferimento della nostra presenza nella bella isola di Taiwan.

Oserei quindi dire che questo è un momento storico della nostra presenza in Asia. È un passo importantissimo per la nostra famiglia missionaria, per il suo desiderio di aprirsi con decisione all’Asia. Oggi siamo già con un piede in mezzo al popolo cinese. Che il Padrone della Missione ci assista in questo lungo cammino in cui oggi ci ha fatto fare un gran passo in avanti.

Eugenio Boatella