Una fede pericolosa: Crescono le persecuzioni anticristiane nel mondo

Testo di Cristian Nani – direttore di Porte Aperte Onlus – Foto Open Doors |


Persecuzioni. Nel mondo un cristiano ogni 12 viene perseguitato: oltre 215 milioni di persone vessate e discriminate a causa della loro fede. Sono stati 3.066 i martiri nel 2017, e migliaia le chiese, le abitazioni, i negozi di cristiani distrutti. Il rapporto World Watch List 2018, pubblicato da Porte Aperte/Open Doors, mostra, in una classifica, le 50 nazioni dove le persecuzioni sono maggiori.

Henry fa il falegname, un’attività che ama e svolge nella sua città, Marawi (Sud delle Filippine). Il 23 maggio 2017 è un normale giorno di lavoro per lui, quando qualcuno bussa alla porta. Aprendo si trova di fronte un gruppo di sconosciuti. Lui domanda chi siano, loro rispondono: «I tuoi assassini».

Il commando fa parte di un gruppo affiliato all’Isis, miliziani di varia estrazione in grado di prendere in ostaggio l’intera città di Marawi per cinque mesi1.

Henry (nome di fantasia, ndr) viene malmenato e incappucciato per essere condotto in una sorta di carcere nel quale è tenuto in ostaggio per vari giorni. Quando verrà liberato dalle forze militari filippine, racconterà di aver visto l’inferno. Persone rapite con lui vengono bendate e decapitate, alcune donne sono violentate: lui e altri sono costretti a guardare.

Nell’agenda di questi gruppi è chiaro l’intento di eliminare la presenza cristiana dalla zona.

Henry è tra le molte vittime di quella che Porte Aperte nel suo rapporto annuale World Watch List 2018 definisce «oppressione islamica», cioè la fonte primaria di persecuzione dei cristiani nel mondo.

Reena, vietato convertirsi

Reena invece è una ragazza di 19 anni che viveva in un villaggio in una zona remota dell’India (per ragioni di sicurezza non citiamo il nome del villaggio, né il vero nome della ragazza, ndr).

Lei e la famiglia sono ex induisti convertiti alla fede cristiana.

In cerca di lavoro come insegnante, nel settembre del 2016 era approdata in una scuola per un colloquio: «Il preside mi ha offerto dei dolcetti tipici, che ho mangiato – ha raccontato -. Da lì in poi non ricordo più nulla». Drogata e privata della libertà per svariati giorni, ancora oggi non ricorda niente di quello che ha subito. I partner locali di Porte Aperte che la seguono nella cura del trauma, pensano che Reena abbia rimosso il ricordo di quei giorni perché troppo doloroso. Quando ha ripreso conoscenza, si è ritrovata in un treno fermo in un luogo a 14 ore di distanza da casa sua.

Oggi Reena sta abbastanza bene, non ha ancora trovato un lavoro, ma nel frattempo è tornata a scuola per continuare gli studi.

Gli aggressori rimangono impuniti, mentre il preside della scuola continua a minacciare la famiglia, ed è per questa ragione che la ragazza si è trasferita da suo fratello in un altro villaggio.

Il numero di aggressioni di questo tipo contro i cristiani in India stanno aumentando.

Reena è una delle vittime della seconda più importante fonte di persecuzione anticristiana nel mondo: il «nazionalismo religioso».

L’ostilità anticristiana

Monitorando oltre 90 paesi, con ricerche che partono anche dal basso (quindi dal campo missionario, grazie alla presenza nel territorio), Porte Aperte fotografa ogni anno la persecuzione anticristiana nel mondo attraverso il rapporto World Watch List.

Per persecuzione s’intende «qualsiasi ostilità subita come conseguenza dell’identificazione dell’individuo o di un intero gruppo con Cristo. Questa può includere atteggiamenti, parole e azioni ostili nei confronti dei cristiani».

Il rapporto evidenzia, in una sorta di classifica, i primi 50 paesi dove maggiormente si perseguitano i cristiani. Nelle posizioni più «basse» si trovano i paesi nei quali si è registrato un livello di persecuzione «alto». Salendo verso i primi posti, si passa attraverso un livello «molto alto» per approdare, nelle prime posizioni, al livello della persecuzione «estrema».

La metodologia adottata per stilare la Wwlist considera ogni sfera della vita dei cristiani (privato, famiglia, comunità, chiesa, vita pubblica e violenza) ed è progettata per monitorare le strutture profonde della persecuzione e non solo gli incidenti violenti.

Il team di ricerca distingue due categorie principali con cui la persecuzione può esprimersi: la prima riguarda le pressioni e le vessazioni subite in ogni aspetto della vita che si manifestano in una quotidiana miscela di soprusi, abusi, marginalizzazione e violazione di diritti fondamentali come l’accesso alle cure, al lavoro, all’istruzione, alla giustizia, e così via. La seconda categoria di persecuzioni, invece, è la violenza, quella di fatto più riportata dai mezzi di comunicazione poiché più d’impatto in termini mediatici. Sebbene la seconda sia quella più visibile e quasi l’unica presente nel dibattito pubblico, è la prima quella più diffusa: la prevaricazione nascosta e costante che devasta la vita di milioni di cristiani a causa della loro fede.

Iraq: campo di sfollati cristiani

Dietro ogni persecuzione c’è un persecutore

Ma chi sono gli attori di questo fenomeno? È chiaro che si tratti di singoli individui, ma anche di gruppi, o addirittura istituzioni, ostili ai cristiani. Ecco un elenco di quelli che nei fatti sono veicoli di odio e intolleranza anticristiana: governi locali e nazionali; leader di gruppi etnici; leader religiosi non cristiani; leader di altre chiese cristiane; movimenti radicali; normali cittadini, incluse le folle istigate in vari modi; le famiglie stesse dei cristiani; i partiti politici; gruppi rivoluzionari o paramilitari; il crimine organizzato; organizzazioni multilaterali.

È importante avere in mente questa varietà di attori poiché fa comprendere come, per esempio in alcune aree rurali della Colombia, sia successo che certi leader di gruppi indigeni, con la connivenza delle autorità locali, abbiano inflitto a membri dello stesso gruppo indigeno convertiti al cristianesimo gravi vessazioni fino all’incarcerazione, tortura, esproprio dei beni ed espulsione dal villaggio. Quando l’attore è uno stato, per fare un altro esempio, la dinamica cambia: le Maldive, dove molti italiani trascorrono le proprie vacanze, sono un paese islamico che ritiene ogni maldiviano necessariamente musulmano. Questo comporta che, quando un maldiviano si converte o è semplicemente interessato al cristianesimo, affronta pressioni dallo stato stesso. Il Pakistan, con la famosa legge contro la blasfemia (emblematico il caso di Asia Bibi), è un altro esempio di stato che prevarica, ma supportato da movimenti radicali che puntano all’eliminazione della presenza cristiana. Mentre in Messico i cartelli della droga possono aggredire le chiese che in qualche modo interferiscono con i loro scopi criminali, in Sri Lanka è accaduto che monaci buddisti abbiano incitato le folle a inveire e aggredire i cristiani locali considerati agenti contaminanti della cultura tradizionale del paese.

Trend della persecuzione

Nigeria: Uno dei sopravvissuti agli attacchi dei Boko Haram

In termini assoluti la persecuzione aumenta. È questo che emerge dalla Wwlist 2018 che prende in considerazione il periodo 1 novembre 2016 – 31 ottobre 2017. Nella classifica delle prime 50 nazioni dove più si perseguitano i cristiani, troviamo ben tre paesi con un punteggio al di sopra di 90 su 100: Corea del Nord, Afghanistan e Somalia (rispettivamente 1°, 2° e 3° posto), con un livello di persecuzione estremo a tal punto da rendere la vita impossibile per i cristiani e da costringerli alla clandestinità.

La Corea del Nord e l’Afghanistan quest’anno hanno un punteggio del tutto simile: solo per poco il regime di Kim Jong-un è al primo posto (per il 15° anno di fila). Essere scoperti in Corea del Nord a partecipare a una riunione di preghiera o in possesso di una Bibbia, può significare la morte o la reclusione nei famigerati campi di rieducazione, veri e propri lager denunciati anche dalle Nazioni Unite. Si stima che tra i 40 e i 70mila cristiani languiscano in questi campi a causa della loro fede. Per quanto riguarda l’Afghanistan, sebbene sia un paese più conosciuto in Italia rispetto alla Corea del Nord, rimane altresì poco noto per le condizioni dei cristiani che vi abitano, costretti a vivere nel terrore di essere scoperti. Convertirsi dall’islam al cristianesimo in Afghanistan significa andare incontro al ripudio della famiglia e della società, fino alla tortura, all’incarcerazione e alla morte.

Nel mondo sono ben 11 le nazioni in cui si registra una persecuzione estrema simile a quella dei paesi appena citati. Tra le regioni del mondo in cui i cristiani vengono perseguitati, l’Africa cresce, avendo alcune sue nazioni nelle prime posizioni (Somalia 3°, Sudan 4°, Eritrea 6°, Libia 7°). In Asia centrale, in paesi come Uzbekistan (16° posto), Turkmenistan (19°), Tagikistan (22°) e Kazakistan (28°), dal dissolvimento dell’Urss, l’islam è cresciuto esponenzialmente, anche nella sua corrente più oppressiva, generando intolleranza nei confronti dei cristiani.

Tra le fonti di persecuzione, il nazionalismo religioso, in particolare legato all’induismo e al buddismo, risulta in forte aumento, soprattutto in seguito all’incremento delle violenze anticristiane in India (11° posto) e delle discriminazioni in paesi buddisti come Laos (20°), Myanmar (24°), Nepal (25°, nuovo ingresso nella classifica) e Buthan (33°).

I numeri della persecuzione

Sono stati 3.066 i martiri cristiani accertati nel 2017, di cui 2.000 solo in Nigeria del Nord, regione interessata dall’estremismo islamico. Oltre 215 milioni sono i cristiani perseguitati nel mondo (1 ogni 12) secondo la Wwlist. Almeno 15.540 attacchi sono avvenuti ai danni di chiese, case e negozi di cristiani: bruciati, saccheggiati o totalmente distrutti. Impressionante è il fenomeno dei matrimoni forzati, particolarmente forte in Pakistan: almeno 1.240 giovani donne cristiane sono state rapite e forzate a sposare uno sconosciuto. Oltre 1.000 sono stati i rapimenti a fine di abuso e violenza carnale. Tutto ciò prefigura chiaramente quella che viene definita la doppia vulnerabilità delle donne cristiane in questi contesti: perseguitate in quanto cristiane e in quanto donne.

Questi dati sono solo la punta dell’iceberg, poiché il sommerso, il non denunciato, è potenzialmente enorme (basti pensare anche solo all’impossibilità, in alcuni contesti, di denunciare un crimine o un abuso a causa della connivenza delle autorità locali).

L’India: la grande democrazia

Vale la pena soffermarsi sul caso dell’India, salita addirittura all’11° posto della Wwlist, con un grado di persecuzione definibile estremo. Il partito Bjp (Bharatiya Janata Party) al governo con il primo ministro Modi, ha una chiara agenda volta a induizzare il paese, facendo forte leva su un nazionalismo religioso che inevitabilmente crea intolleranza nei confronti dei non induisti e decreta un’emarginazione dei cristiani. I fatti dicono che il numero di attacchi contro comunità cristiane (che a volte hanno provocato anche morti) è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni.

L’India, quella che gli europei conoscono come una grande e pacifica democrazia, non esiste più da tempo, e i primi a pagarne il prezzo sono proprio i cristiani.

Quando nei consessi internazionali si addebitano alle autorità indiane violazioni dei diritti fondamentali dei cristiani, esse rispediscono aspramente le accuse al mittente senza alcuna spiegazione.

Una fede pericolosa

È dunque la fede cristiana una fede pericolosa?

Ebbene sì, in molti paesi e per oltre 215 milioni di uomini e donne. Esattamente come era pericoloso essere cristiani ai tempi della chiesa primitiva, quella degli Atti degli apostoli, là dove la fede cristiana ebbe inizio.

Cristian Nani
direttore di Porte Aperte Onlus

Note:

1- Il 23 maggio 2017, Marawi (città di circa 200mila abitanti, capoluogo della provincia di Lanao del Sur, isola di Mindanao) è stata occupata dai jihadisti del gruppo Maute (un clan familiare locale che ha giurato fedeltà allo Stato Islamico) con l’appoggio del gruppo radicale filippino Abu Sayyaf. Lo scopo era quello di creare una sorta di califfato fedele ai principi dell’Isis.

L’esercito regolare di Manila ha messo sotto assedio la città con oltre 7mila militari e bombardamenti aerei. Dopo 148 giorni, a ottobre, i jihadisti sono stati sconfitti. Secondo l’agenzia Fides: «Sono oltre 1.000 le vittime del conflitto: 163 soldati, 822 militanti e 47 civili». Secondo l’Ocha, delle 350mila persone fuggite dall’area durante il conflitto, molte devono ancora rientrare.


Le fonti della persecuzione

  1. Oppressione islamica: l’obiettivo è portare il paese o il mondo sotto la «Casa dell’islam» attraverso azioni violente o meno, che colpiscono i cristiani in modo particolare. Esempi: Pakistan, Iran, Arabia Saudita.
  2. Nazionalismo religioso: lo scopo è imporre la propria religione come elemento caratterizzante della propria nazione (principalmente induismo e buddismo, ma anche altre religioni). Esempi: India, Nepal o Sri Lanka.
  3. Antagonismo etnico: cerca di introdurre con forza l’influenza di norme antiche e tradizioni in un contesto tribale. Spesso si presenta sotto forma di religione tradizionale che si oppone alla presenza di cristiani nella società. Esempi: Yemen, Somalia o Afghanistan.
  4. Protezionismo denominazionale: cerca di mantenere la propria denominazione cristiana come unica espressione legittima o dominante del cristianesimo nel paese e quindi vessa qualsiasi altra denominazione. Esempio: Etiopia.
  5. Oppressione comunista e postcomunista: cerca di mantenere il comunismo come ideologia prescrittiva e/o controlla la chiesa attraverso un sistema di registrazione e di sorveglianza. Esempi: Corea del Nord, Laos o Vietnam.
  6. Intolleranza secolare: ha lo scopo di sradicare la religione dal dominio pubblico e, se possibile, anche dal cuore delle persone, e impone una forma di laicità atea come una nuova ideologia di governo. Esempi: si tratta di una tendenza che diffonde un sentimento anticristiano, ad esempio quando i cristiani difendono principi morali collegati alla propria fede (famiglia e matrimonio tradizionale, ecc.).
  7. Paranoia dittatoriale: siamo di fronte a un dittatore che fa di tutto per mantenere il potere e reprime con forza qualsiasi cosa sembri una minaccia. Esempi: Eritrea, Corea del Nord.
  8. Corruzione e crimine organizzati: l’obiettivo è creare un clima di impunità, anarchia e corruzione al fine di arricchirsi. Esempi: Messico, Colombia.

C.N.


Porte Aperte/Open Doors

Porte Aperte/Open Doors è un’agenzia missionaria attiva da oltre 60 anni nel campo del sostegno ai cristiani perseguitati di ogni denominazione. Nasce dalla visione di un missionario, conosciuto come Fratello Andrea, «Il contrabbandiere di Dio» (dal titolo del best seller che racconta la sua storia).

L’opera missionaria, iniziata nel 1955 portando Bibbie oltre la cortina di ferro, oggi è diventata un’organizzazione attiva e strutturata in oltre 80 paesi. Conosciuta negli ultimi anni soprattutto per il report sulla persecuzione anticristiana nel mondo (World Watch List), oggi opera attraverso molti progetti che spaziano dagli aiuti umanitari di prima necessità al sostegno spirituale e psicologico alle vittime, dalla fornitura di materiale formativo cristiano alla costruzione di infrastrutture utili alle comunità locali. Inoltre opera nei paesi liberi affinché si diffonda nell’opinione pubblica internazionale una sempre maggiore consapevolezza sulla condizione dei cristiani in queste nazioni.

Porte Aperte Onlus
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Afghanistan: Sulle tracce degli Hazara, Storia di una persecuzione

Reportage. Testo e foto di Angelo Calianno |


Quella dell’Afghanistan è una delle tante (troppe) guerre dimenticate. Kabul torna, per pochi istanti, nei telegiornali soltanto in occasione di qualche attentato o quando un profugo afghano approda sulle nostre coste. In questo reportage si racconta del genocidio degli Hazara, etnia di fede sciita. Da secoli discriminati, la loro condizione è peggiorata con il dominio dei Pashtun e con l’arrivo dei talebani e dell’Isis, tutti di fede sunnita.

Bamiyan, 2 marzo 2001.I talebani arrivano con i loro pickup sulla strada principale di Bamiyan, di quella che era la via dei bazar, ormai non rimane altro che rovine e polvere. Sono due anni che gli estremisti hanno preso il controllo di questa zona del massiccio centrale afghano. Qui la popolazione, prevalentemente di etnia hazara, convive con assassinii e violenze quotidiane. I talebani entrano nelle case, trascinano fuori i civili giustiziandoli per strada, davanti agli occhi dei loro cari. Oggi è un giorno ancora diverso, oggi un’ulteriore ferita sarà inflitta a questa terra martoriata. Da circa venti giorni i talebani costringono gli Hazara a perforare le due enormi statue di Buddha, simboli di questa terra e patrimonio mondiale dell’Unesco. Due sculture giganti di 38 e 55 metri presenti qui da circa 1.700 anni. Per secoli il sito è stato meta di pellegrinaggi per i buddhisti di tutto il mondo, le descrizioni delle statue compaiono nei diari di viaggio dei mercanti sulla via della seta e in quelle dei pellegrini cinesi in visita nel 1600.

Una volta completati i fori, i talebani vi piazzano la dinamite e fanno saltare i Buddha. Le statue crollano su se stesse. Una nuvola di polvere avvolge quello che rimane del sito archeologico distrutto in piccoli frammenti di roccia, e, una volta diradata, mostra solo due enormi nicchie semivuote.

I talebani esultano ma, non contenti, radunano venti persone, tutte di etnia hazara, le mettono in  fila davanti al luogo prima occupato dalle statue, e sparano alla nuca di ciascuna. Lasciano i cadaveri lì. È vietato seppellire i corpi per almeno tre giorni: «Serve da monito per gli altri», dicono. Lasciano una pattuglia di ronda su un pickup e si ritirano a prendere un tè nelle case che da due anni abusivamente occupano.

Kabul, 6 dicembre 2017.

È difficile per noi oggi immaginare tutto quest’astio verso un popolo, verso un’etnia, eppure qui continua ogni giorno. Dagli attacchi dei talebani a quelli dell’Isis, i bersagli sono molto spesso i musulmani sciiti, in questo caso gli Hazara.

Quando in Occidente si parla di Afghanistan e di afghani, si tende ad avere un’immagine stereotipata in mente: un uomo dai tratti somatici marcati, barba lunga, carnagione scura. Le cose non stanno esattamente così.

L’immagine che tutti hanno presente è quella dei Pasthun, solo una delle etnie afghane che convive insieme a Tagiki, Uzbeki e, ultimi nella scala sociale, gli Hazara.

Hazara letteralmente vuol dire «mille». Fino al 1880 rappresentavano il 67% di tutta la popolazione afghana, oggi, approssimativamente, il 22%. La tragica riduzione del loro numero è il risultato di uccisioni di massa e fughe in nazioni vicine come il Pakistan (altro luogo dove sono comunque perseguitati) o in qualsiasi altro paese nel quale si possa trovare rifugio. Da molti organi di controllo, come Human Rights Watch, lo sterminio degli Hazara è stato riconosciuto come un vero e proprio genocidio.

I pretesti per un genocidio

L’origine di questo popolo è ancora incerta. Fisiognomicamente gli Hazara sono diversi dalle altre etnie afghane: naso schiacciato e occhi a mandorla, sono più simili agli abitanti delle steppe asiatiche.  Questo è stato uno dei primi motivi della loro discriminazione. Chi da sempre li perseguita, tende a considerarli discendenti delle orde mongole di Gengis Khan arrivate su queste montagne nel 1300. Gli storici hazara, al contrario, affermano di essere originari dell’Afghanistan molto prima di tutte le altre popolazioni. Ma la presunta discendenza mongola non è il problema maggiore per gli Hazara, la principale ragione del loro genocidio o forse il pretesto più usato, è quello religioso: gli Hazara sono sciiti in un paese a maggioranza sunnita.

Prima del regno di Amir Abdul Rahman, durato dal 1880 al 1901, gli Hazara occupavano posizioni importanti. Erano proprietari terrieri e ricchi allevatori. Una volta arrivato al potere Rahman (di etnia pashtun) le tribù sunnite, allora in minoranza, perpetrarono una serie di attacchi e assassinii ai danni degli sciiti.

I Pashtun occuparono le terre più fertili e si impadronirono del bestiame, così la maggior parte degli Hazara emigrò nelle aree più inospitali e difficili da coltivare, la zona del massiccio centrale con capitale Bamiyan, dove risiedono oggi.

Un dato interessante rilevato da alcuni storici è che, prima del regno di Rhaman, la concentrazione maggiore degli Hazara si riscontrava nella zona di Kandahar, oggi completamente pashtun nonché una delle maggiori roccaforti talebane. Se questo dato fosse corretto, proverebbe che quella terra soprannominata oggi «Hazaristan» (o Hazarajat), è solo un luogo dove gli Hazara furono costretti a muoversi molti secoli dopo l’arrivo di Gengis Khan, questo sfaterebbe la teoria della discendenza mongola.

Sotto il regime di Rhaman si tocca l’apice del genocidio, circa il 60% di tutta la popolazione hazara viene eliminata. In questo periodo, in questi anni nasce anche il detto pasthtun, tristemente famoso, che recita: «I Tagichi in Tagikistan, gli Uzbechi in Uzbekistan e gli Hazara in goristan», goristan vuol dire cimitero. Agli inizi del ‘900 metà degli Hazara è quasi scomparsa, quelli rimasti sono relegati alle mansioni più umili: pastori, domestici, spesso veri e propri schiavi.

Si avvia così in tutto il paese un processo di «pashtunizzazione» e tutta l’area dell’Hazarajat  viene tenuta ai margini dello sviluppo nazionale, senza infrastrutture, priva di strade e grandi vie di comunicazione. Fino agli anni ’70 nelle scuole sunnite si propaganda lo sterminio degli Hazara. Gli insegnanti predicano che l’uccisione di qualsiasi Hazara garantisce l’accesso al paradiso.

Arrivano i sovietici

Nel 1979 la Russia invade l’Afghanistan, la persecuzione si placa, c’è un altro nemico contro cui combattere e così, per circa dieci anni, paradossalmente gli Hazara vivono in pace in uno stato in guerra. Anzi, molti di loro combattono fianco a fianco con i mujaidin contro i russi, mostrando grande coraggio.

Scappati i russi però le persecuzioni riprendono. A parte rari casi in cui la presenza di Human Right Watch e Amnesty International registra le uccisioni, non esistono nemmeno documenti ufficiali che attestino gli omicidi di massa. Addirittura anche Ahmad Shah Massoud, il comandante mujaidin ed eroe afghano nella guerra contro i sovietici, viene accusato di aver ordinato diverse rappresaglie ai danni degli Hazara. Le stragi continuano ancora oggi: sono tantissimi gli attacchi recenti in tutto l’Afghanistan. Solo nell’ultimo anno a Kabul, sono stati colpiti due centri culturali e tre moschee sciite, tutte frequentate da Hazara. Questi attentati hanno causato la morte di novantacinque persone e il ferimento di altre centinaia.

Dominio pashtun

Amir è un antropologo originario delle zone rurali attorno a Bamiyan. I talebani, nei primi anni del loro regime, uccisero gran parte della sua famiglia e così lui, con i parenti superstiti, si rifugiò in Pakistan. È tornato in Afghanistan solo tredici mesi fa per lavorare in una tv locale. Lo incontro a Kabul, in un ristorante frequentato solo da Hazara. Mi racconta: «Siamo un popolo pacifico, lo scoprirai quando andrai a vedere Bamiyan e le sue splendide montagne, non è una coincidenza che di tutto l’Afghanistan, quella sia l’unica parte sicura al momento». Perché più sicura?, gli chiedo. «Perché lì sono tutti hazara. Sono i Pashtun a fare la guerra. I talebani sono tutti pashtun, le gang armate sono tutte pashtun, quelli che ci hanno perseguitato sono sempre stati i Pashtun. Ci sono stati anche i Tagiki e gli Uzbeki, che a volte hanno preso parte ai massacri, ma penso sia avvenuto solo per entrare nelle grazie di chi comandava, che erano sempre pashtun».

Amir è quasi incredulo quando gli dico che in Italia, quasi tutti, quando pensano a un uomo afghano, hanno in mente l’immagine del Pashtun e che quasi nessuno sa chi siano gli Hazara. «A me sembra quasi impossibile essere ignorati così. Siamo uno dei popoli più perseguitati della storia. Siamo rimasti in pochissimi: è stato un vero e proprio genocidio».

Gli chiedo il perché. «La religione è una buona scusa per controllare chi deve compiere l’atto materiale dell’omicidio o dell’attacco suicida, com’è successo di recente a Kabul. I sunniti non ci considerano veri musulmani, nemmeno veri esseri umani a dire il vero, ed è risaputo che alcuni di loro hanno fatto voto di eliminarci tutti. Molti di noi hanno già pagato con la vita. Ma la ragione storica è più tribale che religiosa. Le tribù hazara erano numerose, pacifiche e lavoratrici, avevano molte terre da coltivare e migliaia di capi di bestiame. Le prime persecuzioni avvennero per avidità e conquista, si sono protratte fino ad oggi, ma sono certo che, se chiedi a un Pashtun del perché ce l’ha tanto con gli Hazara, non ti saprà dare un valido motivo. Io sono dovuto scappare in Pakistan ma nemmeno lì siamo trattati bene. Ci insultavano ed eravamo oggetti di violenze quotidiane. Agli inizi degli anni 2000 però, non c’era molta scelta, con la mia famiglia dovevamo decidere se morire in Afghanistan o essere bersagliati dal razzismo in Pakistan. La scelta è stata semplice».

Verso Bamiyan, 15 dicembre 2017.

Quando parto per Bamiyan, decido di farlo via terra, ma a un certo punto devo ritornare indietro: la strada che collega Kabul con Bamiyan è occupata dagli scontri tra talebani e militanti dell’Isis, entrambi sunniti ma entrambi interessati al controllo dei campi d’oppio.

Finalmente, con un piccolo aereo da quaranta posti, arrivo a Bamiyan, capoluogo di circa 100 mila abitanti, quasi tutti hazara. La città vecchia oggi è un luogo spettrale, bellissimo e ferito. Siamo nel cuore delle montagne afghane, un’aria sottile a 2.500 metri d’altezza, cime innevate e «case grotta» scavate nella roccia, dove ostinatamente molti continuano a vivere. La prima cosa visibile sono le enormi nicchie vuote dove prima c’erano i Buddha, e poi una lunghissima strada fatta di macerie, resti di colonne, resti di archi: era la strada dei bazar, il cuore pulsante di Bamiyan, oggi solo una strada polverosa. A parte le famiglie che continuano a vivere nelle grotte, il nucleo abitativo si è spostato tutto a valle dove sono sorte nuove case, lasciando la zona storica ancora più abbandonata.

Haji è un uomo di quarantacinque anni ed è stato testimone delle violenze sotto il regime talebano, mi guida attraverso le rovine dei Buddha: «Non abbiamo perso solo le due grandi statue di Buddha quel giorno, ma tantissimi altri reperti, affreschi e grotte dove anticamente vivevano i monaci buddhisti. Prima dei talebani molte delle case grotta erano ancora occupate, poi hanno distrutto tutto. I talebani entravano nelle case, trascinavano fuori gli uomini e a volte anche i ragazzini più grandi e li uccidevano, senza dire nulla, senza un motivo preciso. Qui ne abbiamo contati almeno 300, ma se consideriamo tutti i villaggi, parliamo di migliaia di persone. Sarei dovuto morire anche io in quei giorni, trascinarono fuori anche me, urlavano che non eravamo musulmani. Mia moglie mostrò il sacro corano ma loro lo gettarono via. Quando sentii la pistola puntata dietro la nuca cominciai a pregare e a parlare in pashtun, che avevo imparato lavorando a Kabul. Mi ha salvato quello. Uccisero tutti gli altri in ginocchio accanto a me, altre diciassette persone davanti ai miei occhi».

Gli Hazara non solo sono diversi nei lineamenti del viso e nella fede, ma anche per il ruolo delle donne all’interno della comunità. Qui, pur vivendo ai limiti della povertà, le donne studiano, lavorano, indossano il velo ma non il burqa. Camminando nei pressi dell’università, le ragazze mi salutano e alcune si fermano addirittura a chiacchierare con me, cosa che sarebbe impossibile in città come Kandahar e la sua provincia.

Grazie all’intervento di alcune organizzazioni non governative, pian piano gli Hazara stanno rialzando la testa. I giapponesi hanno costruito le strade, olandesi e tedeschi hanno donato soldi all’università e ai piccoli allevatori con il sistema del microcredito. Finalmente questa gente comincia ad avere una voce, pur rimanendo di fatto la più povera di tutto l’Afghanistan. I giovani hazara sono coscienti della loro storia e hanno un grande senso di rivalsa che li fa eccellere nello studio e nel lavoro.

Una di queste giovani è Najiba, una ragazza di ventidue anni che oggi fa la documentarista per l’Ong francese Geres. È originaria di Bamiyan ma per lavoro si è dovuta spostare a Kabul. Mi racconta: «Siamo molto poveri qui ma le donne hazara non sono discriminate come in tante famiglie pashtun. Non ho mai avuto impedimenti dalla mia famiglia che mi ha sempre incoraggiato. Tramite la scuola ho cominciato a lavorare in una radio locale qui a Bamiyan quando avevo solo tredici anni. Mi sono innamorata del mondo della comunicazione e appena ho potuto, a diciotto anni, ho comprato una telecamera, ho preso delle lezioni di giornalismo e fotografia. I miei primi lavori sono stati proprio sulle donne che vivono qui nelle case-grotta. Per me, donna e hazara, è stato facile avvicinarmi, ma soprattutto è stato importante raccontare la loro storia».

Subito dopo i talebani, con il governo di Karzai, sono arrivati i primi rappresentanti hazara in parlamento. Oggi sono diversi i candidati che proveranno a far sentire la propria presenza nelle prossime elezioni di luglio.

Malgrado questo però, né questo governo, né quello precedente, né tantomeno gli organi internazionali, hanno mai intrapreso un’azione decisa contro la persecuzione degli Hazara: tutti condannano quello che accade a parole ma nessuno si è mai schierato apertamente a loro difesa.

Angelo Calianno
(dall’Afghanistan tra il novembre 2017 e gennaio 2018)


Nella Repubblica islamica

Dove il papavero regna sovrano

Incertezza politica, presenza di truppe straniere, gruppi terroristici, nella Repubblica islamica dell’Afghanistan la sola risorsa certa rimane il papavero da oppio.

L’Afghanistan è oggi un paese di 34 milioni e 66 mila abitanti. I gruppi di nazionalità afghana, al di fuori dell’Afghanistan, si trovano per ordine di numero in: Pakistan, Iran e India.

Il presidente attuale è Ashraf Ghani, di etnia pashtun, eletto nel 2014. A luglio 2018 si dovrebbero tenere le elezioni del parlamento a lungo rinviate. La sicurezza nazionale oggi è affidata alle forze di sicurezza afghane ma, vista la loro inadeguatezza, le operazioni sono ancora supervisionate dagli Stati Uniti, principalmente di stanza a Kabul e Kandahar. Le forze della coalizione Isaf (International Security Assistance Force), di base a Herat e Mazar I Sharif, il 28 dicembre 2014, dopo 13 anni di attività, sono state sostituite da quelle di Sostegno Risoluto (Resolute Support Mission), missione sostenuta dalla Nato.

La sicurezza è il primo problema dell’Afghanistan, un paese che si trova a fronteggiare trafficanti di oppio, attacchi di gruppi talebani, volti a destabilizzare il governo per un loro possibile ritorno, e gli attentati dell’Isis.

Le risorse principali dell’Afghanistan sono: l’allevamento di bovini e ovini, giacimenti di carbone, rame, petrolio e gas naturale. Molto importanti sono le miniere di smeraldi che si trovano nella valle del Panjshir. Nonostante queste attività, la più redditizia rimane però quella della coltivazione del papavero da oppio, coltivazione che aumenta il problema della corruzione e degli scontri (soprattutto tra talebani e Isis) per prenderne il controllo.

L’Afghanistan è una Repubblica islamica. Il 99% dei suoi cittadini sono di fede islamica, di questi circa il 7-15% sono sciiti.

A.Cal.

Fonti: Norwegian Afghanistan Committee, Human Rigth Watch, Deagostini Geografia.


Un conflitto interminabile

Cronologia essenziale dal 2001 al 2018

Dal bombardamento statunitense del 2001 agli attentati dei talebani e dell’Isis, l’Afghanistan rimane un paese senza pace.

  • 2001, Ottobre – Dopo l’attacco dell’11 settembre, gli Stati Uniti decidono di bombardare l’Afghanistan. Subito dopo i bombardamenti, i soldati entrano nel paese con una coalizione armata anti-talebana.
  • 2001, Dicembre – Hamid Karzai giura come capo di un governo temporaneo.
  • 2002, Gennaio – Per combattere i talebani, alle forze armate statunitensi si unisce il primo contingente di caschi blu dell’Onu e una coalizione internazionale denominata International Security Assistance Force (Isaf).
  • 2002, Giugno – Il Gran Consiglio (Loya Jirga) elegge ufficialmente Hamid Karzai come capo dello stato. Karzai in seguito sceglie i membri della sua amministrazione.
  • 2003, Agosto – Data la precarietà della sicurezza in Afghanistan, l’emergenza umanitaria dovuta agli attacchi dei talebani e ai bombardamenti americani, la Nato prende il controllo delle operazioni di sicurezza a Kabul: è la prima operazione di questo tipo che avviene fuori dall’Europa.
  • 2004, Novembre – Nelle elezioni presidenziali, viene dichiarato vincitore Hamid Karzai.
  • 2005, Settembre – Per la prima volta in 30 anni, gli afghani votano per le elezioni parlamentari.
  • 2006, Ottobre – Dopo Kabul, la Nato assume il controllo della sicurezza in tutto l’Afghanistan.
  • 2007, Agosto – Le Nazioni unite riportano che, da dal 2001, cioè dall’ entrata in guerra degli Stati Uniti e delle forze della colazione, si è registrato il più alto numero di produzione di oppio nel paese.
  • 2008, Luglio – Un attacco suicida all’Ambasciata indiana uccide 50 persone.
  • 2008, Settembre – Il presidente Usa Bush rinforza la presenza dei soldati americani in Afghanistan con altri 4.500 soldati.
  • 2009, Febbraio – La Nato aumenta la sua presenza militare con altri 17.000 soldati.
  • 2009, Agosto – I talebani cercano di sabotare le elezioni presidenziali e provinciali con diversi attacchi.
  • 2009, Ottobre – Karzai viene dichiarato nuovamente presidente dopo che il suo oppositore, Abdullah Abdullah, decide di ritirare la sua candidatura.
  • 2009, Dicembre – Il presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, aumenta il contingente dei soldati americani da 30 mila a 100 mila soldati, dichiara inoltre che a partire dal 2011 ci sarà un parziale ritiro delle truppe. Nello stesso mese, un uomo di Al Qaida uccide 7 agenti della Cia nel campo militare americano di Khost.
  • 2010, Febbraio – La Nato sferra la sua maggiore offensiva da quando è in Afghanistan: l’operazione Moshtarak. L’attacco mira a controllare la parte meridionale del paese.
  • 2010, Settembre – Lo spoglio delle schede delle elezioni parlamentari sono nuovamente sabotate da violenti attacchi talebani che causano ritardi nei risultati.
  • 2011, Settembre – Il governatore di Kandahar, Ahmad Wali Karzai, fratello del presidente, viene assassinato dai talebani.
  • 2011, Dicembre – 58 persone, quasi tutte di etnia hazara, vengono uccise in un attacco simultaneo a due moschee sciite a Kabul e Mazar I Sharif.
  • 2012, Gennaio – I talebani accettano di intavolare una trattativa con gli Usa e il governo afghano a Dubai.
  • 2012, Marzo – Il sergente americano Robert Bales viene accusato di aver ucciso 16 civili durante un’operazione militare a Panjwai, nel distretto di Kandahar.
  • 2012, Aprile – I talebani annunciano «l’offensiva della primavera», una serie di attacchi contro il quartiere delle ambasciate a Kabul.
  • 2012, Maggio – La Nato annuncia che ritirerà le proprie truppe nel 2014. Il presidente francese Hollande decide di anticipare il ritiro dei soldati francesi alla fine del 2012. L’ex talebano Arsala Rahmani, membro del Gran Consiglio di pace, viene assassinato, i talebani declinano qualsiasi responsabilità per l’attentato. Arsala Rahmani era un uomo chiave per il dialogo nelle trattative di pace.
  • 2013, Giugno – L’esercito afghano prende in consegna le operazioni di sicurezza precedentemente sotto il comando della Nato. Il presidente Karzai rinuncia alla mediazione degli Stati Uniti nelle trattative di pace e annuncia un piano per dialogare direttamente con i talebani.
  • 2014, Gennaio – Una squadra di attentatori suicidi talebani attacca un ristorante nel quartiere delle ambasciate a Kabul. L’attentato uccide 13 stranieri.
  • 2014,?Aprile – Le nuove elezioni presidenziali, che vedono in competizione Abdullah Abdullah e Ashraf Ghani, si concludono con un nulla di fatto. Nel secondo turno di votazioni 50 persone rimangono uccise durante le proteste e gli incidenti.
  • 2014, Settembre – Dopo scontri e accuse di brogli, sotto la mediazione degli Stati Uniti i due candidati alla presidenza firmano un accordo di collaborazione. Ashraf Ghani giura come nuovo presidente dell’Afghanistan.
  • 2014, Dicembre – Nonostante nel paese la violenza non si sia mai attenuata, dopo 13 anni di missione, l’Isaf abbandona l’Afghanistan. Tuttavia, le forze internazionali mantengono nel paese 12.000 unità per addestrare le forze armate afghane: è la missione Resolute Support. Nello stesso mese emerge nell’Est del paese un nuovo gruppo terroristico: lo Stato islamico. In pochi mesi prende il controllo dell’area di Nangarhar, precedentemente sotto dominio talebano.
  • 2015, Maggio – I talebani, durante le trattative in Qatar, dichiarano che non smetteranno di combattere finché tutte le forze internazionali straniere non avranno lasciato l’Afghanistan.
  • 2015, Luglio – I talebani ammettono che il loro capo, il mullah Omar, è morto già da alcuni anni, e annunciano il suo sostituto, il mullah Akhter Mansour.
  • 2016, Gennaio – Le Nazioni Unite calcolano che, a causa degli scontri, della mancanza di sicurezza e della povertà, tra il 2015 e il 2016 ci sono stati più di un milione di rifugiati afghani, divisi tra Iran, Pakistan e Unione europea.
  • 2016, Maggio – Il mullah Mansour viene ucciso da un attacco di droni statunitensi nella provincia di Baluchestan, in Pakistan.
  • 2016, Luglio – Vista la delicata situazione, il presidente Usa Obama annuncia che lascerà nel paese 8.400 soldati fino al 2017. La Nato annuncia che manterrà i militari della coalizione per addestrare e coadiuvare le truppe afghane fino al 2020.
  • 2017, Gennaio – Un ordigno esplosivo a Kandahar uccide 6 diplomatici degli Emirati arabi uniti.
  • 2017, Marzo – Un attacco a un ospedale militare, rivendicato dall’Isis, uccide 30 persone e ne ferisce 50.
  • Da marzo 2017 a gennaio 2018 – Kabul viene continuamente attaccata da attentatori suicidi con una media di 3 assalti al mese. I bersagli sono quasi sempre politico-istituzionali, oltre alle ambasciate, agli alberghi e alle moschee e ai centri sciiti. A gennaio 2018 un’ambulanza riempita di esplosivo e diretta verso il ministero dell’interno esplode nei pressi di un check-point, uccidendo più di 100 persone e ferendone circa 300.
  • 2018, 21 Marzo – In un nuovo attentato a Kabul muoiono 29 persone. L’Isis rivendica.

A. Cal.

Fonti: BBC World, CNN, Human Right Watch, Tolo News, Al Jazeera.

(U.S. Army photo by Pfc. Justin A. Young/Released)


L’Italia in Afghanistan

Cronologia 2002-2018

  • 2002, Gennaio – A seguito delle decisioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, anche l’Italia entra a far parte della coalizione Isaf volta a mantenere e assistere le istituzioni politiche provvisorie afghane e garantire la sicurezza. L’impiego vero e proprio dei militari italiani avrà inizio nel 2003. Gli italiani saranno di stanza a Kabul.
  • 2005, 4 Agosto – Nell’ambito della rotazione dei comandi Isaf in Afghanistan, per 9 mesi, all’Italia viene affidata la leadership per l’Isaf VIII. L’Italia assume il comando della regione di Herat e delle province di Badghis, Ghowr e Farah. Una delle missioni, operazioni di sicurezza a parte, è quella dell’assistenza umanitaria a civili e della supervisione alla ricostruzione delle infrastrutture.
  • 2006, Maggio-Giugno – Muoiono per un ordigno in strada, nei pressi di Kabul, il tenente Manuel Fiorito e il maresciallo Luca Polsinelli. In un incidente stradale muore il caporal maggiore Giuseppe Orlando.
    Per l’esplosione di un ordigno a Kabul, muoiono i caporal maggiori Giorgio Langella, e Vincenzo Cardella.
  • 2009, 17 Settembre – Sei militari italiani del 186o reggimento paracadutisti Folgore rimangono vittime di un attentato suicida a Kabul.
  • 2010, 4 Ottobre – Quattro alpini cadono vittime di un’imboscata nella valle del Gulistan. Nella stessa valle, il 31 dicembre, muore anche il caporal maggiore Matteo Miotto di 24 anni.
  • 2011, 23 Settembre – A Herat, a causa di un incidente stradale, muoiono 3 militari italiani. Durante l’estate, tra scontri armati e attentati, hanno perso la vita altri 7 italiani.
  • 2018, 17 Gennaio – La Camera approva la riorganizzazione delle missioni italiane all’estero. Tra le decisioni, un ridimensionamento della presenza militare italiana in Afghanistan.

Il contingente italiano che, all’inizio della missione, contava 3.000 militari è oggi ridotto a 750 unità, dislocati tra Herat, Kabul e Mazar I Sharif. Dal 2003 ad oggi, i caduti italiani sono stati 52.

A.Cal.

Fonti: www.difesa.it, adkronos.com, Internazionale.


I Pashtun e gli altri

Le etnie dell’Afghanistan

La geografia dell’Afghanistan ha contribuito per secoli a mantenere le sue popolazioni divise in diversi gruppi tribali. Negli ultimi due secoli, con il crescere delle vie di comunicazione, il contatto tra le etnie è cresciuto, a volte sfociando in scontri violenti. L’Afghanistan è oggi diviso tra i seguenti 5 gruppi etnici.

  • 40% Pashtun – I Pashtun oggi sono l’etnia dominante. Parlano una loro lingua, il pashtu, quasi tutti ma anche il dari, la lingua ufficiale dell’Afghanistan. I Pashtun sono di fede sunnita e considerati da Human Right Watch la comunità tribale più ampia al mondo. Ancora oggi questa etnia è divisa in piccoli clan che per secoli si sono combattuti per la supremazia sugli altri. Quasi tutti i Pashtun erano pastori e contadini, ancor prima nomadi, negli ultimi secoli hanno occupato posti nel governo e nel mondo degli affari, oltre a riscoprirsi anche combattenti, come i muj?hid?n che combatterono contro i russi. I Pashtun, con regimi e governi diversi, sono al potere in Afghanistan dal 18esimo secolo.
  • 30% Tajiki – I Tajiki sono stati i primi ad essere urbanizzati, anche se in gran numero continuano a vivere sulle montagne. I Tajiki sono di lingua dari. Questo li ha portati a occupare spesso lavori nella burocrazia e nel commercio. Quasi tutti i Tajiki sono di fede sunnita; una piccola percentuale, il 5%, è di fede sciita, spesso vittima di persecuzioni.
  • 15-22% Hazara – Gli Hazara sono la terza etnia per numero in Afghanistan. Oggi quasi tutti confinati nell’Hazarajat, zona del massiccio centrale afghano. Di fede sciita, dai tratti che ricordano i mongoli e le popolazioni delle regioni asiatiche, gli Hazara sono il gruppo etnico più perseguitato della storia afghana, oggetto spessissimo di violenze da parte soprattutto dei talebani. Ufficialmente dal 2004, gli Hazara hanno gli stessi diritti degli altri gruppi etnici, malgrado questo però continuano a essere discriminati, soprattutto nel mondo del lavoro. Impossibile è stabilirne la percentuale precisa per l’enorme numero di Hazara che fugge in Pakistan o che viene assassinato negli attacchi suicidi.
  • 5% Uzbeki e Turkmeni – Queste etnie vivono per lo più ai confini con Uzbekistan e Turkmenistan. Di fede sunnita, lavorano nella pastorizia o nel commercio di lana usata per fabbricare tappeti.
  • 3% Altre etnie – Altre etnie sono gli Aimaqs, sunniti e anche loro perseguitati, per lo più ora sparsi tra le montagne dell’Hazarajat. I Farsiwan, popolazione, una volta nomade, ora insediatasi ai confini con l’Iran. I Nuristani, contadini che vivono nell’Est dell’Afghanistan, parlano una lingua molto antica, una combinazione di persiano e hindi.

A. Cal.

Fonti: Thomas Barfield, Afghanistan. A cultural and political history; Norwegian Afghanistan Committee; Human Rigth Watch.

 

 

 




Tanzania: Cambio di guardia a Manda, una missione di frontiera

Testo e foto di Jaima C. Patias |


Padre Antonio Zanette e padre Vedastus Kwajaba, due generazioni, due culture, due continenti diversi ma un’unica passione: la prima evangelizzazione. Nella savana del Tanzania la missione continua.

Padre Zanette

A gennaio le piogge cadono abbondantemente nella regione di Dodoma, nella Tanzania centrale. Partendo da Iringa, dopo aver percorso 130 chilometri lungo l’asfalto dove il controllo della velocità è rigoroso, la macchina con trazione integrale ne percorre altri 70 in terra battuta. La terra sabbiosa e bagnata aiuta a ridurre il tonfo delle gomme nelle buche. Dopo 7 ore di viaggio siamo nel villaggio di Manda, la più recente missione affidata ai missionari della Consolata nel paese. La regione conta circa 40.000 abitanti, tra cui 4.000 cristiani, cattolici e anglicani. La sede della parrocchia si trova a 30 chilometri da Llangali (o Hangali), al confine con il Parco Nazionale Ruaha.

Tutto inizia nel 2003, quando padre Antonio Iseo Zanette, parroco nella vicina missione di Sanza, comincia a fare visite periodiche ai residenti di Manda dove soggiorna presso una famiglia. Nel 2010, il missionario intensifica la sua presenza. Nel maggio dello stesso anno riceve una lettera di mons. Yuda Thadei Ruwaichi, allora vescovo di Dodoma, nella quale il prelato scrive che il 21 luglio creerà una nuova parrocchia. I missionari della Consolata, in realtà, non hanno ancora assunto ufficialmente la cura pastorale della regione. Comunque, seguendo il suo piano, il vescovo crea la parrocchia di Manda dedicata alla Consolata e padre Zanette, nel vigore dei suoi settant’anni, è nominato amministratore parrocchiale.

La nuova parrocchia

Padre Vedastus Kwajaba

Nel mese di agosto del 2010 il missionario inizia a risiedere a Manda. «Non c’era niente qui. Siamo partiti da capo», ricorda. «I cristiani avevano scelto un posto che secondo me non era l’ideale per costruire la missione. Così ci siamo guardati intorno, ed eccoci qui. Noi siamo per la missione ad gentes e questo è un luogo di prima evangelizzazione». In otto anni, molte persone sono diventate cattoliche. Con l’aiuto di benefattori sono stati costruiti il centro catechistico, la falegnameria con magazzino, la casa dei padri e la casa delle suore, la chiesa parrocchiale consacrata nel 2015, la scuola materna e il centro di salute. Tutto vicino al villaggio. Nelle comunità sono state costruite anche cappelle e asili per i bambini. Qui l’evangelizzazione e la promozione umana vanno insieme come voleva il beato Allamano.

Un altro importante lavoro sociale sono gli otto pozzi artesiani che forniscono acqua alla popolazione.

Dal 2011, sono arrivate anche le missionarie della Consolata. Le suore Luisella Berzoni, Catherine Thaara Njiru, Teodora Mbilinyi e Ernestina Ternavasio si occupano di scuola materna, catechesi nella scuola, visite alle famiglie, formazione dei catechisti, del gruppo dell’Infanzia missionaria, dell’accompagnamento dei giovani e delle donne cattoliche e della supervisione del centro di salute. Suor Luisella conferma che «Manda è una missione di prima evangelizzazione. Il seme della Parola di Dio è già nelle persone e ora è necessario sviluppare e formare una Chiesa adulta con basi cristiane. La gente sta vedendo che la Chiesa cattolica richiede molto e va in profondità per poter evangelizzare. Per noi, la missione richiede grande pazienza».

La comunitàdi Manda ringrazia.

Le sfide della missione

Padre Zanette spiega che nella stagione delle piogge da dicembre ad aprile è impossibile visitare le 21 comunità comprese nel territorio della missione. «Le strade scompaiono. Dobbiamo aspettare la stagione secca. In alcuni luoghi i cristiani riparano la strada e poi facciamo le visite pastorali». Poi, fino al mese di luglio, la popolazione lavora tutto il giorno nei campi che sono lontani dal villaggio. Con questo, il tempo utile per l’evangelizzazione nell’anno è di sei mesi. Solo nella stagione secca è possibile visitare ogni comunità almeno una volta al mese.

A Manda lavora anche padre Piero Cravero e padre Vedasto Kwajaba è appena arrivato come nuovo parroco. Tra sfide e speranze, la missione continua.

Padre Cravero spera di «intensificare l’evangelizzazione con un programma di visite domenicali nei quattro villaggi più importanti». Secondo lui le celebrazioni, la catechesi, l’accompagnamento dei catecumeni e la formazione sistematica per i catechisti, sono le azioni indispensabili.

La messa domenicale del 21 gennaio segna l’addio di padre Zanette, trasferito a Morogoro. La celebrazione fatta con grande gioia e devozione riunisce un gran numero di cristiani del villaggio e delle 21 comunità. Tutti vogliono salutare il missionario pioniere. Sono presenti anche le missionarie della Consolata, il superiore regionale della Tanzania, padre Cyprian Brown, e io stesso in veste consigliere generale.

«Oggi mi è stata data la responsabilità di continuare il servizio di padre Zanette», dice padre Kwajaba. «È una grande responsabilità lavorare in questa missione che ha molti bisogni dal punto di vista dell’evangelizzazione e della promozione umana. Con la grazia di Dio, il mio sogno è coinvolgere tutte le forze pastorali in questo compito».

Il catechista Damian Mwinje è venuto da Chifufuka, un villaggio di 14.000 persone. A Chifufuka i cattolici sono circa 400. L’anno scorso sono stati battezzati 17 tra bambini e adulti. Attualmente ci sono 38 catecumeni. «Padre Zanette è stato un grande leader. Era un vero pastore per noi. Anche con le difficoltà delle strade lui ha sempre visitato le comunità. Ci ha insegnato a organizzarci e preparare la gente per i sacramenti», dice il catechista. A Chifufuka padre Zanette «ha costruito la chiesa, la scuola e creato quattro piccole comunità».

Attraverso il cortile della missione passano molte persone, in particolare le donne cariche di fardelli di legna da ardere e prodotti del campo. In gran numero, bambini e giovani garantiscono la continuità di un popolo pieno di vita. Senza elettricità, la notte arriva portando oscurità e silenzio. Il nuovo giorno inizierà presto con il canto degli uccelli che invitano alla preghiera e al lavoro.

Jaime Carlos Patias
Consigliere generale dei missionari della Consolata

Durante la celebrazione del passaggio di consegne.

Missionarie e missionari della Consolata a Manda.

L’ospedale di Manda in cui servono le missionarie della Consolata.

Il centro catechistico di Manda.




Il volto indio di Iquitos. Nella capitale amazzonica peruviana

Testo e foto di Paolo Moiola |


Si ipotizza che l’80 per cento degli abitanti di Iquitos, la più grande città dell’Amazzonia peruviana, siano indigeni urbani: Huitoto, Kukama, Kichwa. Non esistono numeri certi perché la maggior parte di loro preferisce tacere sulla propria origine. Quando non è l’aspetto fisico a tradirne la provenienza, lo è quello culturale. Vivono nelle periferie di Iquitos, dove manca di tutto e vivere dignitosamente è un’impresa. Accompagnati da due amici missionari abbiamo visitato il barrio di Masusa e quello delle Malvinas.

Iquitos. Accanto alla pulsantiera dell’ascensore c’è, ben visibile, un adesivo: «No allo sfruttamento sessuale di bambini, bambine e adolescenti. Il nostro hotel protegge il futuro di Loreto». A Iquitos, capitale del dipartimento peruviano di Loreto, la gran parte dei visitatori arriva per le meraviglie della natura (la riserva di Pacaya Samiria, quella di Allpahuayo Mishana, la laguna di Quistococha) e – non si può tacerlo – per il turismo de la pobreza, il turismo della povertà, tale è infatti la visita alla comunità di Belén (definita, con rozzo cinismo, la «Venezia amazzonica»). Altri ancora giungono a Iquitos per provare l’esperienza dell’ayahuasca, la bevanda indigena dagli effetti allucinogeni. Ci sono, infine, i visitatori che arrivano fin qui allo scopo di adescare minori.

La pedofilia non è che uno dei tanti problemi che affliggono la capitale dell’Amazzonia peruviana. È proprio per vedere e capire la città reale che prendo contatto con due vecchi amici missionari: padre Miguel Ángel Cadenas e padre Manolo Berjón, da tre anni tornati nel capoluogo loretano dopo aver vissuto per venti tra le comunità dei Kukama lungo il rio Marañón.

Masusa e gli indigeni urbani

Con un mototaxi – il tipico mezzo di trasporto di Iquitos (le auto sono una rarità, i bus sono pochissimi e scalcinati) – mi reco alla parrocchia della Immacolata Concezione dove i due missionari spagnoli prestano servizio. La loro parrocchia serve il vasto territorio di Punchana, uno dei quattro distretti municipali di Iquitos.

La chiesa della Inmaculada si nota subito, non tanto per i suoi due tozzi campanili, quanto per il suo colore blu elettrico. Miguel Angel e Manolo sono già in strada. Un abbraccio e, su due mototaxi, partiamo subito alla volta del barrio di Masusa. Questo è il quartiere cresciuto attorno al principale porto fluviale di Iquitos, quello sul rio Amazonas.

Scesi dai veicoli, a piedi ci addentriamo nel barrio e nei suoi vari asentamientos humanos (insediamenti umani). Man mano che proseguiamo il contesto urbano si degrada e con esso peggiora a vista d’occhio la situazione di chi vi abita. Dopo qualche minuto di cammino arriviamo in una specie di piazzetta il cui pavimento è fango mischiato con detriti legnosi (scopriremo più in là il motivo). Tutt’attorno abitazioni su palafitte costruite con legno di recupero e dalla struttura visibilmente precaria.

In un angolo sorge la cappella Sagrado Corazón de Jesús, dove una ventina di fedeli e una decina di bambini attendono i padri per la messa domenicale. Dopo la celebrazione, padre Miguel Ángel sollecita le persone presenti a prendere il microfono e a raccontarsi davanti alla telecamera. Si alternano in molti, donne e uomini, probabilmente attratti da quella piccola ma inaspettata opportunità di uscire dall’anonimato, di far sentire la propria voce. Con grande dignità raccontano da dove vengono, cosa fanno, dei problemi quotidiani. Che sono tanti, dalla mancanza di un lavoro a una situazione abitativa subumana.

«Nessuno ha confessato di essere indigeno per timore della discriminazione – commenta poco dopo padre Miguel -. Ma è importante sapere che questa gente proviene da comunità native. Si tratta di indigeni urbani. Secondo noi, arrivano all’80 per cento della popolazione, in particolare qui, nelle periferie. Ci sono persone con tratti somatici indigeni, in altre si notano meno. Però i tratti culturali sono evidenti, soprattutto con riferimento alla cosmologia (la visione del mondo) e allo sciamanesimo». Gli chiedo di farmi qualche esempio. «Una città come Iquitos è piena di “piante che proteggono contro gli spiriti maligni”. Non ci sono cifre precise, ma sappiamo che il numero di sciamani è altissimo. Quando muore qualcuno si cerca un colpevole, anche se il referto medico parla di cancro. Ci sono persone che dicono di “fotografare gli spiriti” con il cellulare. Si lascia che i bambini prendano le proprie decisioni fin da piccoli, frutto di una concezione indigena della persona».

Accanto alla cappella c’è una piccola e tristissima struttura che funge da asilo e i missionari scrollano la testa sconsolati. Pochi passi più in là, un signore attorniato da un nugolo di bambini sta caricando su un motocarro delle taniche di acqua. «Siamo a 300 metri dal rio Amazonas, ma qui non c’è acqua da bere, per lavarsi, per cucinare o per lavare. Non c’è acqua per nulla. Come, d’altro canto, in gran parte della città di Iquitos».

Le «madereras»

Dall’asentamiento humano Alejandro Toledo ci incamminiamo verso quello chiamato Santa Rosa del Amazonas.

Le stradine sterrate su cui camminiamo sono piene di trucioli e segatura di legno.

«Il municipio – spiega padre Miguel – invece di riempire con terra ha permesso alle segherie di usare i loro scarti di lavorazione per rialzare il terreno. Quando arriva la creciente (termine che indica i periodi – normalmente da marzo a maggio – di massima portata del rio Amazonas e dei suoi affluenti, quando le acque esondano, ndr), l’acqua continua a inondare le case, anche se si nota meno perché non compaiono ponteggi e passerelle. Sotto le case a palafitta sono però rimasti grandi vuoti dove si accumulano acqua putrida e rifiuti. Senza dimenticare che gli scarti del legno hanno fatto aumentare la popolazione di topi e di zanzare. Ancora una volta ha vinto l’opportunismo di politici e affaristi a scapito dei diritti dei cittadini». Eccole, le madereras, le segherie, le imprese del legname. Sono state costruite in questa zona per la vicinanza con il porto di Masusa. Il problema è che oggi sono circondate da insediamenti umani densamente abitati. Questo significa che la gente vive in mezzo ai residui della lavorazione del legno, tra cui particelle minuscole che vengono respirate. Allo stesso tempo molti abitanti traggono vantaggio dalla vicinanza delle madereras per recuperare materiale per le loro abitazioni o per costruire esteras (stuoie di legno) da vendere al mercato.

Le segherie hanno barriere d’alluminio che impediscono di vedere all’interno e torrette di guardia agli angoli. Ma per una cinquantina di metri lungo il perimetro c’è ancora una semplice staccionata (probabilmente in attesa di essere sostituita), che consente la visione. Al di là, cumuli di pezzi di tronchi dal diametro enorme. Un bulldozer sta spostando materiale di ogni dimensione.

Attività legale o illegale?, chiedo a padre Manolo. «Sicuro che è illegale – risponde il missionario -. O meglio: può essere che formalmente siano imprese legali, ma quasi sempre estraggono il legno illegalmente. Mi spiego: hanno una concessione per una data zona, ma poi lavorano in un’altra». In cerca di legno prezioso?, insisto io. «Dipende. La verità è che adesso di legno prezioso ne è rimasto veramente poco».

Mentre faccio foto e filmati noto che ci stanno osservando da una baracca che funge da ufficio. Probabilmente la loro è soltanto curiosità.

In ogni caso, a pochi metri di distanza, sull’angolo, un container color verde pallido è stato adibito a stazione di polizia. Lo hanno messo su ruote, in modo che sia a mezzo metro dal terreno sconnesso. Ci hanno ricavato alcune finestrelle e una porta. Dipinto due stemmi: quello del governo di Loreto e quello della polizia. E una scritta rassicurante: Juntos por la Seguridad Ciudadana! (Uniti per la sicurezza cittadina!).

La porta è aperta e così ne approfitto per entrare.

C’è una piccola scrivania, due sedie, un vecchio televisore e due brandine a castello. E soprattutto ci sono due giovanissimi poliziotti che stanno ascoltando musica dal cellulare. Appena mi vedono, abbassano il volume e si mettono in testa il cappellino d’ordinanza. I due mi accolgono calorosamente, nonostante abbia una telecamera in mano.

Mi dicono che sono aperti 24 ore e che intervengono principalmente per casi di violenza familiare e furti. Chiedo della droga di cui tutta l’Amazzonia peruviana è grande produttrice. «Sì – confermano i poliziotti -, c’è spaccio di pasta basica di cocaina. Sono coinvolti molti minori. Una dose costa un sol (25 centesimi di euro, ndr)».

Li ringrazio e raggiungo di nuovo le mie guide. Uno dei due poliziotti ci raggiunge però dopo pochi secondi per chiederci se vogliamo essere accompagnati nel nostro percorso. «No, grazie. Non c’è bisogno», rispondono i missionari. Questa non è una zona frequentata da stranieri, ma i due padri sono conosciuti anche perché qui c’è una delle quattro cappelle della loro parrocchia.

L’insediamento di Santa Rosa è triste e squallido come il precedente con la differenza che è tagliato in due da una via sterrata, usata da qualche veicolo delle segherie. La strada prosegue per qualche centinaio di metri fino a raggiungere il punto dove il rio Itaya sbocca nell’Amazonas. Sulla spiaggia che guarda i due fiumi da una parte c’è una catasta di enormi tronchi d’albero, dall’altra una montagna illegale di rifiuti e davanti a questa, tra l’acqua e la terraferma, un cimitero di vecchi battelli arrugginiti. Giriamo a destra seguendo l’Amazonas e, dopo poche decine di metri, giungiamo al porto di Masusa, conosciuto anche con il nome di puerto Silfo Alvan del Castillo.

I battelli amazzonici

I cancelli sono aperti e non c’è alcun controllo. Sulla riva sono ormeggiati una serie di battelli di medie dimensioni (50-100 tonnellate), all’apparenza tutti piuttosto scalcinati, ma che raggiungono quasi ogni angolo dell’Amazzonia peruviana. Il porto di Masusa funziona per merci e passeggeri.

Oggi c’è poca gente perché è domenica. Tuttavia, ci sono alcuni camion che caricano o scaricano mercanzia.

«Arriva soprattutto frutta e viene imbarcato soprattutto riso per le comunità dell’interno. E naturalmente arriva la droga. Da qui partono anche le persone vittime di tratta per andare verso Lima o la costa dove saranno impiegate nella prostituzione o in lavori illegali. Ci sono sia maschi che femmine e moltissimi di loro sono minorenni. È facile cadere nella tratta di persone. Se sei un ragazzo che vive in una famiglia povera e ti offrono un lavoro in un altro posto, alla fine decidi di partire».

Lasciamo il porto per entrare nell’adiacente mercato di Masusa. È una struttura riparata da una tettornia dove si vendono prodotti alimentari. Sui tavolacci in legno è rimasto poco o nulla perché l’ora è tarda. Su uno ci sono mucchi di zampe di gallina, su un altro razzolano alcuni pulcini.

Usciamo da una porta laterale del mercato per trovarci in un vicolo di sassi e rifiuti. I due missionari debbono fare visita a un’anziana malata. Abita sotto una palafitta, una sorta di pianoterra aperto, senza pareti circostanti, senza porte e finestre. Un tugurio con un pavimento di nuda terra e un soffitto di assi la cui altezza non permette a una persona di stare in piedi. Su un lato di questa stanza improbabile c’è un gruppetto di bambini con gli occhi fissi su un piccolo televisore, dall’altra una signora sdraiata su un vecchio letto circondato da indumenti e medicine. Alla vista dei missionari lei si mette seduta e scambia qualche parola. È anziana e malata, ma il suo viso conserva i segni di un’antica bellezza. Marta, questo il nome, non ha famiglia e sopravvive con l’aiuto dei vicini di casa. Prima dei saluti, chiede a padre Miguel Ángel di ricevere la comunione. Una visita, quella alla signora Marta, che ti prende lo stomaco e che ti lascia senza parole.

Abitare alle Malvinas

Con i consueti mototaxi lasciamo il quartiere del porto. La prossima destinazione è il barrio delle Malvinas. Anche qui, come a Masusa, le condizioni abitative peggiorano man mano che ci addentriamo, in particolare verso l’asentamiento Iván Vásquez.

Percorriamo una calle pavimentata con cemento, tanto stretta che a stento ci passa un mototaxi. Poi la viuzza termina e il luogo si allarga in maniera inaspettata, ma anche poco piacevole. La stradina nascondeva la rete fognaria (acantarillado), che ora invece esce allo scoperto in forma di un fiumiciattolo di acque putride e puzzolenti (desagüe).

È riduttivo definirla una fogna a cielo aperto perché è larga alcuni metri. L’acqua ha un colore grigio, impenetrabile dallo sguardo. È stagnante tanto che i sacchetti di rifiuti gettati sul fondo non si muovono e sono oggetto di attenzione da parte di vari gallinazos – grandi uccelli dalla testa nera appartenenti alla famiglia degli avvoltorni – che vi cercano cibo.

Sulle due sponde della fogna è cresciuta una ininterrotta serie di abitazioni con le persone che all’aperto cucinano, lavano i panni o vendono mercanzie (dal pesce alle banane agli spiedini).

Non è strano che la gente accetti tutto questo?, chiedo alle mie guide. «No, non è strano. Sono venuti da fuori per cercare migliori condizioni di vita ma hanno trovato questo».

Camminiamo lungo il canale finché arriviamo a una curva, dove una conduttura in cemento sbuca dal greto della cloaca. «Ecco questo è il punto più incredibile. Qui fuoriescono i rifiuti dell’ospedale Essalud, che sta a cento metri di distanza», mi spiega padre Miguel Ángel. Vista la situazione, non stupisce che, oltre alla malaria e al dengue, diffuse in tutta Iquitos, qui siano endemiche anche le infezioni respiratorie acute e le malattie diarroiche acute.

Dopo la curva, il fiume-fogna torna diritto proseguendo per alcuni chilometri fino a terminare nel rio Nanay, molto vicino alla confluenza di questo con l’Amazonas. Sulle due sponde sono state poste barriere in legno e sacchi di sabbia per frenare l’acqua nei periodi della creciente, la piena dei fiumi. Per passare da una sponda all’altra gli abitanti hanno costruito passerelle di assi. Ne attraversiamo una per andare a camminare sul lato esterno.

L’insediamento è molto esteso. Tutte le abitazioni sono su palafitte e costruite con assi di legno e tetti in lamiera. I bambini sono ovunque e, come in ogni parte del mondo, trovano il modo di giocare e divertirsi. C’è anche un ampio spazio libero dove in molti stanno seguendo una partita di calcio. Più avanti, nello spazio tra alcune abitazioni, un gruppo di giovani sta giocando a pallavolo.

Dato che non esiste alcun sistema di distribuzione idrica, incrociamo varie persone che, a mano, trasportano secchi d’acqua. «A dispetto di tutto questo – chiosa padre Miguel Ángel -, da qui non vogliono andarsene. Il barrio è vicino al porto. E Masusa è il solo luogo dove molti di loro possono trovare un lavoro: o come scaricatori o come rivenditori dei prodotti più vari. Questa città non offre altro».

Tra invisibilità e indifferenza

Ormai è quasi buio. È ora di tornare indietro. Oggi abbiamo conosciuto due barrios di Iquitos, dove la gente – quasi sempre indigena – vive in condizioni di povertà o di estrema povertà. La maggior parte degli abitanti della più importante città dell’Amazzonia peruviana vive così. Ma rimane invisibile agli occhi dei più. O indifferente, che forse è anche peggio.

Paolo Moiola

 




Niger: Jihadisti, eserciti e migranti nel paese più povero del mondo

Testo e foto di Marco Bello |


La rotta del Sahara è stata affrontata da generazioni di nigerini. Cercavano un lavoro in Libia. Ma oggi nel paese arabo la vita per uno straniero è insostenibile. Anzi, un «nero» è diventato merce di scambio, vacca da mungere, moneta sonante. In fuga da detenzioni arbitrarie e torture, migliaia di persone cercano di tornare a Sud. Qui li aspettano le famiglie, ma anche siccità e scarsità di lavoro.

Zinder. «Vogliamo che la nostra gente resti qui, al villaggio. E possa lavorare la terra anche durante la stagione secca, quando non cade una goccia d’acqua». Chi parla è Galadima, capo villaggio di Guirari, nel comune rurale di Gouna. Siamo nella regione di Zinder a oltre 900 km a Est dalla capitale Niamey, nel Niger profondo. Ma ci troviamo a poco più di 110 km dal confine con la Nigeria, il gigante africano, che da sempre estende qui la sua influenza economica, commerciale, religiosa.

Guirari è un grosso villaggio isolato, in quanto non vi arrivano strade asfaltate, rare da queste parti, ma solo piste di sabbia o laterite. Le grandi direttrici del Niger sono due: una attraversa il paese da Ovest a Est, dalla capitale al confine con il Ciad, a Ngugmi, nei pressi di quello che era il lago Ciad oggi quasi prosciugato. Il lago definisce un confine quadruplo: Niger, Ciad, Nigeria e Camerun. L’altra strada asfaltata arriva dalla Nigeria, a Sud, e giunge fino ad Agadez e Arlit a Nord, dove l’asfalto termina bruscamente per diventare una pista di sabbia. Le due s’incrociano a Zinder, seconda città del Niger, già capitale e sede dell’antico sultanato del Damagram (dal nome della zona in lingua locale) creato nel 1720. Uno dei più importanti nella storia del Niger.

Due stagioni

Non siamo nel deserto, ma in una zona semiarida, di sabbia, poca terra, laterite e arbusti. Diffuse sono le acacie e altre piante spinose più basse. Qui la gente si è adattata a coltivare una terra povera, che dà frutto durante i mesi di pioggia, da giugno a inizio settembre. In quel periodo si coltivano alcuni cereali, miglio e sorgo, di varietà adattate a questa scarsità di acqua e nutrienti nel sottosuolo. Con i loro grani, si ricava una farina che, preparata come una specie di polenta, costituisce l’alimento base della popolazione. Se piove con regolarità, il raccolto sarà buono e il granaio di casa, dopo il raccolto, potrà tornare pieno, sperando che la scorta duri fino all’anno prossimo. Ma spesso le piogge sono irregolari e il raccolto dell’anno, l’unico, è povero. Il cibo scarseggerà e sarà crisi alimentare.

Dove non ci sono alternative, nei mesi della stagione secca gli uomini lasciano i villaggi e vanno a cercare lavoro in altre zone, e paesi. In particolare, in Nigeria e in Libia. Una migrazione stagionale, storica, che spesso dura alcuni anni. Quella che i nigerini chiamano «esodo», termine che indica l’ampiezza del fenomeno.

Continua Galadima: «Durante la stagione secca, dopo aver finito il lavoro dei campi, molti dei nostri giovani partono. Ma io preferisco che restino al villaggio, in aiuto ai genitori. Vanno in Nigeria, in Libia. Non vogliamo che lo facciano». Non c’è gente che vuole andare in Europa? Chiediamo. «No, ma abbiamo ancora molti giovani in Libia, dove la loro situazione oggi è critica. Vogliamo fare in modo che possano lavorare qui anche nella stagione secca». E continua: «In questa zona abbiamo un sottosuolo fertile. Qui arrivava molta acqua, che irrigava più di 200 ettari. Il problema è che due dighe, Gapati e Zermo, adesso bloccano le acque della valle di Korama». Si riferisce a un avvallamento non lontano dal villaggio, una depressione orografica che raccoglieva molte acque piovane, conservandole anche durante i mesi secchi e permettendo la coltivazione di ortaggi per molti mesi dell’anno.

Un’alternativa

Dalla metà del 2016 è attivo nella zona un progetto dell’Ong Cisv onlus di Torino, cofinanziato dall’Unione europea che prevede proprio la sistemazione di perimetri irrigui, in modo da permettere la coltivazione di ortaggi durante la stagione secca, grazie all’acqua di pozzi scavati in un’area di 70 ettari.

Maman Daoda è il presidente di un’associazione di contadini, che si organizzano per lavorare nella valle di Korama durante la stagione secca. «Siamo pronti, vogliamo lavorare, in alternativa alla partenza per la Nigeria.

Con la mobilitazione della popolazione fatta dal progetto, poca gente è partita quest’anno. Se parti, quando torni, trovi tuo fratello che, rimanendo, ha potuto lavorare più di te.

Quando la stagione delle piogge comincerà, chi è rimasto (anche nei mesi secchi, ndr) ha potuto lavorare la terra e mettere da parte qualcosa per comprare i materiali e quindi coltivare il campo durante la stagione delle piogge, e potrà comprarsi da mangiare nel periodo nel quale il lavoro è più duro». Nei mesi di giugno e luglio infatti, il lavoro fisico è maggiore, ma le scorte dell’anno precedente sono quasi o totalmente finite.

La voce delle autorità

Lasciamo il villaggio di Giuirari, con le sue speranze su un futuro nel quale i giovani non dovranno più emigrare, e incontriamo il capo del corpo forestale, nella prefettura di Mirriah (capoluogo del dipartimento), che commenta: «Sono stato in visita nella valle di Korama e ho incontrato la popolazione. Stavano facendo la divisione delle parcelle di terreno che saranno assegnate a ciascuno per coltivare ortaggi. Parlando con loro sono stato contento, perché ho capito che molti hanno rinunciato a partire per la Libia o la Nigeria. Grazie a questo intervento avranno del lavoro. Normalmente, finita la campagna agricola dei cereali, la gente incrocia le braccia, ma ora ha delle risorse importanti che possono essere sfruttate anche nel periodo morto». E conclude: «Si tratta di famiglie molto povere che non riescono a soddisfare i propri bisogni alimentari nell’arco dell’anno con la sola coltivazione di cereali».

Anche il prefetto in persona, avvolto nel suo grand boubou da grande capo, ci parla della sua visione in merito: «Questo intervento permetterà ai più poveri di arrivare a essere autosufficienti, grazie a un appoggio iniziale che viene dato loro. Dovranno essere un po’ più attivi, perché diventano degli attori che contribuiscono al miglioramento della propria condizione di vita. Ma anche individui che, da un momento all’altro, iniziano a contribuire allo sviluppo dell’economia locale. Inoltre, altre comunità potranno ispirarsi alle tecniche e metodologie messe in campo dal progetto, in modo che questi insegnamenti diventino duraturi e diffusi sul territorio».

I disperati di Birji

Partiti da Mirriah, ci spostiamo una cinquantina di chilometri a Nord di Zinder. Gli alberi si fanno più radi, sono rimpiazzati da bassi cespugli spinosi, la sabbia invade la strada asfaltata e la laterite affiora dal sottosuolo. Ma non siamo ancora nel vero deserto. Anche qui vi sono villaggi di agricoltori che condividono una terra bellissima, ma povera, con popolazioni di allevatori nomadi, i Peulh, i quali si spostano di continuo con le loro mandrie in cerca di pascoli ed acqua.

Ci accompagna madame Nana Aicha Mamadou, responsabile dell’associazione locale Sa3d (Sahel action pour la democratie et le developpement durable, ovvero «Sahel azione per la democrazia e lo sviluppo sostenibile»). Una realtà nuova della società civile di Zinder, che ha la specificità di essere composta in maggioranza da donne.

Arrivati al villaggio Birji, ci dirigiamo nel cortile della scuola elementare, l’edificio più grande in mattoni e cemento. Qui ci aspetta una folla di uomini, molti dei quali piuttosto giovani. Sono vestiti in modo un po’ diverso dai contadini. Hanno giubbotti, giacche o berretti di fattura occidentale, anche se sgualciti e di certo non all’ultima moda. Sono seduti a semicerchio e scrutano gli ospiti venuti da lontano. Sapremo più tardi che sono oltre un centinaio.

Birji è il villaggio più grande, e quindi di riferimento, di una zona particolarmente svantaggiata, in quanto non ha avvallamenti o aree orografiche come la valle di Korama, che raccolgano l’acqua durante le piogge. Inoltre, qui la falda acquifera è molto profonda, e realizzare dei pozzi che forniscano una buona quantità d’acqua anche in stagione secca è più costoso che altrove.

Quest’area – ci racconta madame Nana – è zona particolarmente depressa, segnata quindi da emigrazione stagionale. Questi uomini sono le braccia valide dei villaggi, che lasciano la famiglia durante la stagione secca per andare a lavorare in Libia o in Nigeria.

Ma qualcosa negli ultimi tempi è cambiato. I fattori sono due. Le maggiori difficoltà per affrontare il viaggio, a causa della nuova legge nigerina per il contrasto alla migrazione clandestina, che ha reso più complesso spostarsi e in molti casi occorre farlo clandestinamente. Ma soprattutto le condizioni di lavoro e di sicurezza in Libia.

Inferno Libia

Nassirou ha 35 anni e faceva l’agricoltore a Birji. Lavorava la terra ma non guadagnava abbastanza. Decise dunque di partire, come alcuni suoi conoscenti prima di lui: «Nel 2006 sono andato in Libia per la prima volta dove ho lavorato per un padrone arabo in un allevamento di polli. Vi sono rimasto due anni, durante i quali mandavo i soldi a casa. Poi sono tornato». Nassirou è ripartito una seconda volta per la Libia e vi è rimasto tre anni, senza particolari problemi. «Vi sono andato per la terza volta, ma qualcosa era cambiato». Mentre Nassirou ci racconta come è andata, il suo volto ricorda il terrore: «Quando avevo finito il mio periodo di lavoro, con un gruppo di connazionali siamo partiti per tornare in Niger. Sulla strada del rientro ci hanno catturati e riportati in città dove ci hanno venduti. Hanno assaltato con le armi il mezzo su cui viaggiavamo, ci hanno obbligati a scendere e ci hanno messi nel cassone di un pick up, con le mani legate con corde e catene dietro la schiena». Nassirou ci mostra i segni delle catene ai polsi. «Siamo stati sette ore legati e senza mangiare, e ci hanno poi chiusi in una camera dove non ci hanno dato né acqua né cibo. Io ho passato due mesi rinchiuso in una stanza dalla quale non si vedeva il sole. Mi hanno fatto spogliare e indossavo solo le mutande».

Nassirou era detenuto in una prigione clandestina nella città libica di Beni Walid: «Durante due mesi siamo stati maltrattati, mentre aspettavamo i soldi per essere liberati. Ci hanno dato un telefono dicendoci: “Se conosci qualcuno in Libia chiamalo e parlagli della tua condizione. Lui dovrà telefonare alla tua famiglia, al paese, per dire di mandare i soldi affinché tu sia liberato”. Così siamo riusciti ad avvisare che eravamo prigionieri».

La famiglia di Nassirou, a Birji, ha venduto due vacche e ha mandato i soldi a un suo compaesano in Libia, affinché li versasse su un conto segnalato. «Il giorno che i soldi sono arrivati, mi hanno preso e mi hanno picchiato. Poi mi hanno portato a Tripoli e liberato. Non riuscivo neanche a stare in piedi, ma grazie ad altri nigerini che mi hanno soccorso, ho ripreso un po’ le forze. Poi mi hanno pagato un biglietto per rientrare.

Altri prigionieri che erano con me invece sono morti. C’è ancora gente rinchiusa in queste prigioni, a soffrire. È sempre così, ti mettono una catena al collo e puoi morire facilmente. Ho visto anche persone di Sudan, Ghana, Mali, Nigeria».

Nassirou non ha più intenzione di andare in Libia. È tornato da sette mesi e ha lavorato nei campi durante luglio e agosto, ma adesso sta cercando di capire che lavoro fare.

A caccia di «neri»

Accanto a lui il più giovane Innousa, 27 anni, ha qualcosa da raccontare: «Non ho mai avuto problemi con il mio padrone in Libia. Ma alla fine del mese venivano da noi i ladri, di notte, per prenderci i soldi. Ed eravamo obbligati a darglieli. Vivevo nella città di Ubari, ma oggi la situazione si è totalmente degradata diventando molto insicura. Io sono stato assaltato due volte da banditi, che mi hanno puntato delle armi al petto chiedendomi tutto quello che avevo. Adesso ti assaltano anche di giorno, non solo di notte. E quando sei in casa devi barricarti dentro, ma rischi che rompano la porta per assaltarti. Se devi uscire a comprare qualcosa è meglio chiedere al tuo padrone per non farti vedere in giro. Quando sei in macchina con lui per fare delle commissioni, rischi che vi fermino e dicano al padrone: “Vogliamo lui”. Alcuni lasciano i loro lavoratori nelle mani degli assaltatori. Se prendi un taxi, rischi che il tassista ti porti dai banditi o dalla polizia dove ti maltrattano. Ormai non vedi subsahariani in giro, stanno tutti nascosti».

Continua Innousa: «Abbiamo capito che c’è complicità tra polizia e bande armate. Gli arabi contro i neri. Anche il tuo padrone può tradirti e consegnarti. È pure successo che facessero irruzione in una casa, e portassero via delle persone (dei migranti, ndr). E non si sa più nulla di loro. Scompaiono. Non so se vengono venduti oppure uccisi». Innousa non vuole più sentire parlare di Libia: «Non ci torno più, assolutamente».

Saidou, 40 anni, ha avuto esperienze simili e ci spiega perché è partito: «Mi sono sposato, ma non avevo di che nutrire la mia famiglia, quindi ho seguito l’esempio di altri amici. Ma ultimamente è diventato difficile mandare i soldi alla famiglia, mentre prima era la normalità». Poi indica la terra del suo villaggio: «Guardate qui intorno, non c’è niente da fare, come è possibile vivere così. Adesso i giovani non sanno che lavoro fare, non avendo più l’opportunità di andare in Libia».

Sono molti i ragazzi, gli uomini che ci fissano, oggi, nel cortile della scuola primaria di Birji. Alcuni portano occhiali da sole e fanno il viso da duri. Altri hanno semplicemente lo sguardo perso nel vuoto. Altri ancora sono incuriositi dagli ospiti stranieri.

Issaka, 47 anni, ha la barba bianca. Lui ne ha fatti tanti di viaggi in Libia. Ma adesso ci dice: «Prima era molto vantaggioso andare in Libia a lavorare. Ma è finito quel tempo. C’è solo sofferenza laggiù.

Nessuno vuole più partire. Il problema oggi è far ritornare quelli che sono là, non tanto scoraggiare i giovani dal partire».

Issaka ha lavorato il campo nell’ultima stagione piovosa, ma non ha un lavoro sicuro: «Mi piace l’orticoltura, e sto cercando anche di fare del piccolo commercio o dell’allevamento. Ma per ora non ho nulla».

Rientri di massa

Nel mese di dicembre scorso il governo del Niger ha organizzato un rimpatrio di massa di nigerini dalla Libia. Ha messo a disposizione un aereo per i voli di rientro da Tripoli e ha chiesto assistenza all’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni, organismo delle Nazioni Unite) per organizzarlo. L’Oim, nella sua sede libica. ha aiutato a identificare i nigerini e farli partire, con un procedimento chiamato «rimpatrio umanitario assistito», orientato a persone detenute nei centri illegali o appena uscite da essi.

La sede Oim di Niamey ha organizzato una prima accoglienza e ha messo a disposizione i mezzi per il rientro nelle aree di origine. L’obiettivo era il rimpatrio di 4.000 persone. Nel momento in cui abbiamo contattato gli operatori dell’Oim Niamey, erano già stati effettuati 1.500 rimpatri. Il Niger è l’unico paese africano che si è impegnato in un’azione di questo tipo a protezione dei propri connazionali.

Costruire una possibilità

Chiediamo a madame Nana, attenta osservatrice della situazione nella regione e a livello nazionale, che prospettive ci sono: «Qualche anno fa, a Zinder c’era un grande transito di migranti dalla Nigeria. Gente di varia nazionalità, addirittura dal Ghana, che passavano da Kano e poi qui, per andare verso Agadez. Da circa un anno osserviamo una riduzione drastica di questi convogli.

Questo perché il passaggio in Libia è diventato molto difficile. Anche i nigerini della regione, che vi lavoravano, sono tornati e non riescono più a partire. Chi aveva l’abitudine di andare in Libia, adesso cerca la via della Nigeria per trovare lavoro. Questa è una migrazione storica, almeno per la nostra popolazione».

Madame Nana insiste sul fatto che il governo sensibilizza, scoraggia chi vuole andare in Libia, mentre non fa la stessa cosa per la Nigeria. Il grosso problema, insiste, è che queste popolazioni depresse avevano nelle rimesse dei lavoratori stagionali, un ingresso economico essenziale: «Come aiutare chi ritorna dalla Libia? Come associazione locale abbiamo un programma per loro. Ma occorrono i fondi. Se si chiede alla gente di non andare in Libia occorre proporre loro un’alternativa, trovare loro un lavoro».

Marco Bello




Congo RD: Denis Mukwege, il medico che ripara le donne

Testo di Mario Ghirardi |


È un medico africano, come tanti altri. Ma lui decide di restare nella sua terra, il Kivu, e di curare le donne vittime di violenze inaudite. Diventa il massimo esperto mondiale in materia. Rischia in prima persona, perde amici e stretti collaboratori in attentati. Si guadagna il soprannome di «medico che ripara le donne».

Denis Mukwege parla con ritmo cadenzato e con toni di voce pacati. Racconta della Repubblica Democratica del Congo (Congo Rd), di golpe militari, di mercenari senza scrupoli, di stupri elevati a sistematica arma di guerra, di minerali insanguinati, di coltan, di un’Europa spesso alla finestra, di bambini che muoiono in miniera perché noi possiamo lavorare o trastullarci con il telefonino. Mi viene voglia di scagliare lontano lo smartphone che pure in questo momento è il mio strumento di lavoro per registrare e fotografare. Ma sarebbe inutile e forse anche dannoso, visto che i telefonini andrebbero smaltiti ben diversamente.

Per capire l’accorato appello del dott. Mukwege, dobbiamo partire dal suo passato: laureato in medicina in Francia, è tornato in Africa, nella sua regione natale, il Kivu, attorno ai Grandi Laghi, per combattere una battaglia che è poi diventata bandiera di chi vuole scuotere l’opinione pubblica mondiale di fronte a un massacro che ha già coinvolto milioni di vite umane e che in quei luoghi, a cavallo dell’equatore, dura da decenni.

Il dottor Denis Mukwege (di Mario Ghirardi)

L’ostinazione premiata

La scintilla dell’impegno sociale a 360 gradi di questo cortese professionista, diventato oggi punto di riferimento anche politico, scattò quando si trovò, stesa sul tavolo operatorio del reparto di ginecologia dell’ospedale da campo da lui creato a Panzi, ai confini orientali della Congo Rd, una ragazza che aveva fatto nascere egli stesso una dozzina d’anni prima. Era stata orrendamente stuprata come centinaia di altre sue coetanee. Nel 1989 fece il suo primo tentativo di dare corpo a un reparto ospedaliero di maternità a Lemera. Distrutto dalla guerra. Ne fece un altro a Bukavu, sua città natale. Distrutto anch’esso. Infine ne mise in piedi uno a Panzi, dove dal 1999 ha curato ben 50mila donne. Un numero enorme, vittime di stupri e di violenze sessuali di ogni genere, la gran parte con ferite di arma da fuoco ai genitali.

«Identifico ognuna di loro con mia moglie», commenta. In questo trova la forza morale di proseguire nella sua opera, anche oggi che ha compiuto il giro di boa dei 60 anni.

Ormai il dottor Mukwege, soprannominato «l’uomo che ripara le donne», è riconosciuto come uno dei più grandi esperti a livello internazionale nel trattamento dei danni patologici e psicosociali provocati dalla violenza sessuale praticata in Congo Rd in modo sistematico. Un’arma di guerra per colpire le donne nell’intimo del loro essere, distruggere simbolicamente il futuro mutilando gli organi genitali con ogni tipo di oggetti inseriti nella vagina, anche di bimbe di pochi mesi, e praticando tagli ai seni. Squartare donne incinte e seppellirle ancora vive è un altro atto ricorrente durante le incursioni delle bande armate. Tanta crudeltà ha lo scopo preciso e immediato di annientare sul nascere qualsiasi tentativo di ribellione dei villaggi, facendo sprofondare anche gli uomini in uno stato di sudditanza.

Miniera di cobalto (CC Fairphone)

Impunità totale

Pochissimi denunciano le violenze, non solo per la paura delle ritorsioni e dello stigma sociale, ma anche perché i casi in cui i tribunali hanno fatto giustizia sono sinora rari, visto che queste soldataglie senza volto aggrediscono i villaggi sconfinando dagli stati vicini e si spostano senza sosta. Un dato: a fronte di 15mila accuse formali, le condanne sono state 12. «Il silenzio è alleato degli stupratori – afferma Mukwege -. La vittima tace per vergogna e per paura di essere discriminata. Io devo combattere al loro fianco perché le donne sono forti, sono capaci di vivere per gli altri. Ho curato 50mila donne, ma pensiamo sempre che dietro a un numero c’è un essere umano, è questa consapevolezza che deve farci reagire. Avevo un successore, Gildo Byamungu Magaju, direttore dell’ospedale di Kasenga, l’hanno assassinato a fine aprile dell’anno scorso. Tuttavia non mi fermerò».

Oltre la medicina

Con mariti e figli traumatizzati, le donne, che in Africa continuano a essere il perno su cui ruota la vita sociale, sono costrette ad abbandonare famiglia e lavoro, portando con sé quelle profonde ferite che soltanto un personaggio come Mukwege è in grado di lenire.

Il suo aiuto oggi sta andando persino oltre, affiancandole nella ricerca di nuove competenze lavorative, offrendo l’opportunità alle più giovani di tornare a scuola e dando loro appoggio se intendono rivolgersi alla giustizia. Scelte pagate letteralmente sulla propria pelle. Mukwege è stato vittima di attentati, tra cui quello in cui è stata assassinata la sua guardia del corpo, e amico, Joseph Bizimana, e di irruzioni armate nella sua casa con minacce di morte e il rapimento della figlia. Costretto a fuggire in Scandinavia, è ritornato a Panzi non appena un gruppo di donne, che peraltro vivono con meno di un dollaro al giorno, hanno racimolato con una colletta i soldi per pagargli il viaggio aereo. È questo un comportamento che gli è valso il «Premio Sacharov per la libertà di pensiero», voluto trent’anni fa dall’Unione europea per celebrare il ricordo del fisico nucleare russo e assegnato ogni anno in riconoscimento di chi combatte la sua personale battaglia a favore dei diritti dell’uomo. E non è un caso se il primo a riceverlo fu Nelson Mandela.

Miniera a Kalimbi (CC Fairphone)

Radici storiche

Il motivo fondamentale per cui il Congo Rd è squassato da tanta violenza lo ha denunciato lo stesso Mukwege durante il suo discorso alle Nazioni Unite già nel 2012, poco prima dell’attentato: lo sfruttamento delle sue risorse minerarie. Fenomeno che risale almeno alla metà dell’800, quando il Congo fu acquisito come proprietà personale dal re del Belgio Leopoldo II. Sfruttamento che è costato almeno dieci milioni di morti. «Se il Congo è ormai da 25 anni una polveriera – commenta l’antropologo Luca Jourdan che abbiamo incontrato a fianco di Mukwege durante un suo tour italiano di sensibilizzazione dell’opinione pubblica organizzato dal torinese Centro di Studi Africani (Csa) – le cause risalgono proprio all’epoca coloniale, quando prima i traffici di schiavi e avorio, e poi quelli della gomma favorirono gli interessi sfrenati dei signori della guerra, che già allora terrorizzavano i villaggi mozzando le mani a chi non produceva i quantitativi stabiliti, come punizione e monito». I belgi non portarono civiltà. «I primi ammutinamenti dell’esercito – prosegue Jourdan – produssero il tentativo di secessione della regione del Katanga, poi la presa del potere da parte di Mobutu nel ’65, con l’esercito che fornisce quadri e ministri, ma senza che il dittatore si fidi dei suoi generali perché non li controlla. Oggi è il tempo di Joseph Kabila, delle elezioni promesse ma rinviate (la presidenza di Kabila è scaduta il 19 dicembre 2016, ma lui resta capo di stato)». L’esercito congolese è in realtà un attore della crisi, poiché non esiste una sola catena di comando. È un esercito integrato con le fazioni ribelli, però i gruppi non si mescolano, ognuno risponde ad un proprio capo. Il risultato è che i «warlords» spadroneggiano ognuno nel suo ambito, controllando, in accordo col governo, l’estrazione del coltan e degli altri minerali indispensabili all’industria dell’elettronica, che costano alla popolazione le violenze combattute da Mukwege.

Mario Ghirardi

 

Minatori a Kalimbi, Congo RD (CC Fairphone)


Miniere, eserciti e interessi globali

Stupri, figli del coltan

In Congo Rd permane una situazione di grande instabilità. In uno dei paesi con il sottosuolo più riccho al mondo, il 60% della popolazione vive nell’indigenza. Mentre nell’Est le milizie usano la violenza sulle donne come arma di guerra.

La regione congolese dei Grandi Laghi vive un conflitto internazionale tra i più complessi dell’Africa, aggravato dal precipitare della situazione nel confinante Burundi nel 2015, dai massacri nelle regioni del Kasai nel 2017 e dalla permanenza al potere in Congo Rd del presidente Joseph Kabila, ancora oggi, nonostante il suo mandato presidenziale sia scaduto nel 2016. La presa di posizione del dittatore nel far slittare le elezioni è tesa a voler accedere al suo terzo mandato presidenziale contro i dettami della Costituzione vigente che ha fatto saltare nell’anno anche la preannunciata visita di papa Francesco. Le ondate di profughi hanno alimentato ulteriori tensioni e conflitti tra gruppi armati ribelli per il controllo delle miniere superficiali. In esse uomini e bambini sono ridotti in schiavitù per l’estrazione del coltan, preziosissimo materiale, straordinariamente resistente al calore, senza il quale gli smartphone non potrebbero esistere e che qui si trova nelle maggiori concentrazioni al mondo (cfr. MC luglio 2015 e giugno 2016).

(CC Fairphone)

Il coltan, fondamentale anche per l’industria aerospaziale, fa gola a tutti, con i cinesi in prima linea alla ricerca di accordi commerciali, insieme a Stati Uniti ed Europa, per accaparrarsi quelli che sono ormai conosciuti come i «minerali insanguinati». La posta in gioco è altissima e nessuno vuole farsela scappare, ma il prezzo da pagare in termini di diritti umani è pure enorme, con vittime principali le donne e i bimbi anche di pochi mesi. Il Congo Rd ha arrestato la sua crescita economica, ma non demografica. È uno dei paesi più povero del pianeta con oltre 6 persone su 10 che vivono sotto la soglia di indigenza assoluta. I delitti sono in costante aumento, il numero di donne violentate supera il mezzo milione, con gli stupri usati come strumento per far nascere i figli dei vincitori oppure al contrario per rendere impossibile la nascita di una successiva generazione delle etnie sottomesse. Una situazione terribile attorno alla quale resta moltissimo da fare anche in termini di consapevolezza dell’opinione pubblica occidentale. Lo stupro di guerra come quello praticato in Kivu è stato riconosciuto infatti ufficialmente come crimine contro l’umanità e concausa di genocidio soltanto nel 2008, elaborando a livello legislativo con un ritardo smisurato quanto successe nel 1992, a danno dei bosniaci musulmani nell’allora Jugoslavia.

Chi estrae il coltan non gode di alcun diritto in cambio di un lavoro massacrante retribuito con spiccioli di dollaro. Bambini e uomini trasportano i secchi sulla testa sotto il sole a picco o sotto le piogge torrenziali, come schiavi di una società che non offre alcuna alternativa di sopravvivenza e nemmeno possibilità di scolarizzazione. I livelli di sicurezza sul lavoro sono infimi e si muore con facilità in quelle voragini della montagna, che diventano tombe, da cui i signori della guerra non si degnano nemmeno di portare alla luce i cadaveri per restituirli alle famiglie. La beffa sono i cartelli pubblicitari nei villaggi confinanti che promettono l’accesso gratuito a Facebook per tutti.

La tracciabilità dei materiali potrebbe essere un primo modo per limitare gli abusi. L’Unione europea nell’aprile scorso ha finalmente approvato un regolamento comunitario in questo senso, che però non sarà applicato prima del 2021. La normativa obbligherà tutti gli importatori europei di stagno, tungsteno, tantalio e oro a dichiarare le loro fonti di approvvigionamento con l’istituzione di un apposito registro e sistematici controlli sul rispetto degli obblighi di responsabilità, la cosiddetta «due diligence», in modo da mantenere elevati standard e garantire che non ci siano punti di contatto tra l’origine dei minerali e le bande armate. Dal patto però Bruxelles sembra aver escluso i minerali di cobalto, nonché il divieto di importazione di prodotti finiti che contengano il minerale, lasciando aperta la strada ai telefonini cinesi. Intanto contemporaneamente il presidente Usa Trump smantella il Dodd-Frank Act, un provvedimento per una volta in sintonia con quello adottato dalla Ue e promulgato dal predecessore Barack Obama nel 2010.

Mario Ghirardi

(CC Fairphone)

 Archivio MC:
Enrico Casale, Dossier: Minerali insanguinati, luglio 2015

Marco Bello, La lunga marcia per la pace, giugno 2016




Iran: la situazione nella repubblica islamica sciita

Testi di Maria Chiara Parenzo |


Impegnato nella tragica guerra della?Siria e in quella dimenticata dello Yemen, il governo sciita di Teheran ha problemi anche al proprio interno. Con una lotta senza esclusione di colpi tra conservatori radicali (legati alla Guida suprema Khamenei) e conservatori riformisti (vicini al presidente Rouhani). Nel frattempo, la schiera dei nemici esterni si compatta: Israele, Arabia Saudita e il presidente statunitense Donald Trump non fanno nulla per favorire il dialogo. A pagare il conto di questa situazione è il popolo iraniano.

Teheran. Per giorni – è dicembre 2016 – il reporter della televisione iraniana al seguito dell’esercito siriano tiene i telespettatori con il fiato sospeso: si sta riconquistando la città di Aleppo con un combattimento casa per casa. Man mano che la città viene liberata si rivelano i crimini perpetrati dai terroristi: case saccheggiate, cadaveri abbandonati qua e là, o deposti in fosse comuni. I telespettatori inorridiscono. Quando l’ultimo bastione di resistenza cade, in città è festa grande. Nelle immagini vediamo la gioia delle persone rimaste intrappolate nei quartieri occupati che possono riabbracciare i propri famigliari, ma anche la disperazione di quelli che ritornano alle proprie case devastate, le testimonianze delle atrocità commesse dalle milizie a danno dei civili. Poi vediamo immagini di come, lentamente, la vita in città tenta di riprendere il suo corso normale.

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 Quale guerra?

Qualche giorno dopo mi trasferisco in Italia per il periodo natalizio e lì la musica cambia completamente. È quasi unanime il coro di denunce per gli orrori commessi dall’esercito di Bashar Assad durante la riconquista di Aleppo. Ci si rammarica che la comunità internazionale non abbia saputo fermare la strage. Non ho mai sentito i media iraniani parlare del governo siriano in termini negativi, ma mi è noto che il regime guidato da Assad si è macchiato di pesanti crimini di guerra. Poi si accusa l’aviazione russa di aver dato una mano ad Assad e di aver colpito indiscriminatamente obiettivi militari e civili. Anche questi fatti cui la Tv iraniana non ha mai fatto cenno, mi sembra del tutto plausibile. Basta ripensare a come l’esercito russo ha condotto la guerra nel Caucaso.

Scopro, in compenso, che il pubblico italiano non ha molta consapevolezza di un’altra guerra sanguinosa, quella in corso in Yemen dal 2015. Quando ne parlo con alcuni amici vedo il vuoto nei loro occhi: sì, forse qualcosa abbiamo sentito, non so. Invece, la Tv iraniana trasmette quasi quotidianamente immagini di persone che vagano tra le macerie delle loro case, di morti, di bambini feriti, o di madri disperate perché non hanno cibo per i loro figli. Causa di tante sofferenze sono i bombardamenti effettuati da una coalizione di stati guidata dall’Arabia Saudita, con l’appoggio logistico e tecnico di Usa e Regno Unito, e le bombe italiane. Anche in questo caso, non ho motivo di dubitare che le immagini descrivano una situazione reale.

È Iran contro Isis

Questa sensazione di vivere in una realtà doppia si ripete l’anno dopo. Questa volta si tratta della guerra all’Isis. Scopro che gli italiani ne hanno un’idea vaga. Sebbene tutti temano attacchi in casa propria, non s’interessano molto a ciò che succede su un terreno lontano. Chi ha combattuto l’Isis? I più nominano la Russia, l’America, i paesi arabi, qualcuno dei più informati parla di curdi, milizie sciite, Iran.

Se, invece, si fa la stessa domanda a un iraniano la risposta arriva rapida e sicura: l’Iran, innanzitutto. Da subito l’Iran ha sentito di vitale importanza difendersi da questa minaccia, sia per la vicinanza dello Stato islamico ai confini nazionali, sia per la particolare ferocia con cui il gruppo attaccava le comunità e i luoghi di pellegrinaggio sciiti. Dove arrivava l’Isis l’uccisione degli sciiti era sistematica, tanto da far parlare di genocidio, come per altre comunità non islamiche. Non penso che tutti gli italiani lo sappiano. Invece, tutti in Iran sanno che contro questa minaccia il loro paese si è impegnato in un confronto serrato sul terreno. Ci sono state campagne di reclutamento di uomini da inviare a difendere i luoghi santi in Iraq e in Siria (questa era la motivazione ufficiale). I volontari ricevevano lauti stipendi, agli afghani irregolari veniva, inoltre, assicurato il permesso di soggiorno al loro rientro. Hanno cominciato a riportare i «martiri» dalla Siria, dall’Iraq. Poster con le facce dei combattenti caduti sono comparsi nei quartieri dove abitavano i loro famigliari, come è usanza qui in Iran in segno di lutto. Quando dici a un iraniano che anche gli Stati Uniti hanno combattuto l’Isis ti guarda incredulo. La narrativa ufficiale in Iran è che l’Isis è stato creato dagli Usa e sui media nazionali non si fa certo menzione del contributo americano alla lotta.

Pubblici diversi hanno, dunque, percezioni diverse del reale. Non sappiamo quello che non vediamo e udiamo, e viceversa. Il reale che conosciamo attraverso i mass media è più o meno parziale e ci condiziona tutti.  Lo stesso vale per la questione del nucleare iraniano, che da noi ha tenuto banco a più riprese. Proviamo a vedere come l’hanno vissuta gli iraniani1 e come essi vivono la nuova crisi nei rapporti tra Iran e Usa.

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La questione del nucleare

Se la necessità di combattere l’Isis, in quanto massima espressione dell’odio dell’estremismo sunnita verso gli sciiti, era condivisa e sentita vitale, la questione del nucleare ha avuto e ha per gli iraniani un’importanza di gran lunga minore. Fin dal suo nascere è rimasta marginale, lontana dalle preoccupazioni quotidiane della gente. D’altra parte l’Iran non ha mai avuto i problemi energetici dell’Italia. Fino a circa dieci anni fa gas, elettricità, benzina godevano di sovvenzioni statali, poi eliminate e sostituite da un sussidio fisso versato mensilmente a ogni persona. Da allora il loro prezzo è rincarato, ma rimane ancora molto inferiore ai livelli europei, soprattutto quello di gas e benzina (venduta oggi a circa venticinque centesimi di euro). Né la gente sente la necessità di avere una bomba atomica. Le armi di distruzione di massa sono ritenute un abominio.

Partita in sordina negli anni Novanta, la questione del nucleare iraniano cominciò a salire di tono durante la presidenza di Mahmud Ahmadinajad (2005-2013), soprattutto per voce dello stesso presidente, che ne fece uno dei cavalli di battaglia nelle sue polemiche contro l’Occidente: il popolo iraniano, affermava, ha il diritto di produrre energia nucleare a scopi pacifici, come avviene in altri paesi del mondo. Il presidente batteva su questo tasto e la gente condivideva le sue argomentazioni. Con un senso di orgoglio nazionale si pensava: se gli altri sì, perché non noi. Inoltre, erano allettanti le promesse di avere un’energia elettrica quasi a costo zero grazie al nucleare. Tuttavia, quando cominciarono ad arrivare le sanzioni e a peggiorare i rapporti commerciali con l’estero, quando il prezzo del dollaro cominciò a salire e l’inflazione a galoppare, deprimendo pesantemente la loro già precaria economia domestica, gli iraniani capirono che il costo da pagare era troppo alto, tanto più per qualcosa di cui non si sentiva così bisogno.

Per questo motivo, quando la presidenza Rouhani nel 2013 inaugurò un nuovo corso, quello del dialogo, il sostegno popolare fu ampissimo. Un esito positivo dei negoziati avrebbe fatto ripartire l’economia e restituito un futuro a tante famiglie in difficoltà. Così, almeno, si credeva.

Questa grande speranza conviveva, però, con il grande timore che i negoziati finissero in nulla. Si sapeva, infatti, che incontravano una forte opposizione all’interno dell’apparato del regime, tanto che molti ne davano per scontato il fallimento. La Guida suprema Ali Khamenei aveva a più riprese messo in guardia contro l’inaffidabilità dei negoziatori occidentali, soprattutto degli Stati Uniti, da cui niente di buono poteva arrivare. Del tutto contrarie ai negoziati erano le «Guardie (guardiani, pasdaran) della rivoluzione», qui comunemente dette Sepah2, alle cui tasche aveva fatto bene il regime sanzionatorio. Le sanzioni, infatti, non interrompono il commercio di una nazione con gli altri paesi, ma impediscono che si sviluppi in maniera naturale, coinvolgendo, cioè, tutto il corpo sociale, il settore privato, come quello pubblico, il piccolo imprenditore, come la grande impresa; quindi, ne alterano la natura, privandolo della sua parte «sana» e lasciandolo nelle mani di chi è così potente da aggirarle e operare nell’ombra. Le sanzioni nei confronti dell’Iran hanno impoverito le persone normali e arricchito le organizzazioni che appartengono allo «Stato profondo», innanzitutto i Sepah e i Basij (un corpo paramilitare formato da volontari), che da loro dipendono. I Sepah sono uno stato nello stato, rispondono solo alla Guida suprema e operano, quindi, al di fuori dei normali meccanismi di controllo dello stato, in una zona grigia, inarrivabile, intoccabile. In un mercato bloccato dalle sanzioni, essi hanno continuato a vendere e importare attraverso canali terzi, ottenendo una sorta di monopolio per i propri affari. Le sanzioni, dunque, non fanno che aumentare la poca trasparenza di un sistema economico già di per sé opaco per vizio d’origine3.

(© Frode Bjorshol)

L’accordo sul nucleare e la fine delle sanzioni

Considerata l’opposizione di forze così potenti, grandi furono la sorpresa e la soddisfazione della gente alla notizia che si era finalmente approdati a un accordo sul nucleare (14 luglio 2015): sembrava di avere vinto una battaglia, non tanto contro un nemico esterno, ma contro il regime interno. Ci furono manifestazioni pubbliche di tripudio. Negli anni l’accordo aveva finito per assumere un significato eccezionale, era considerato la panacea per le moribonde finanze del paese. Ci si aspettava una rapida ripresa dalla stagnazione.

In realtà non è stato così. La ripresa dei rapporti commerciali con i paesi occidentali è stata lenta e, se i dati dicono che l’interscambio è andato aumentando (quello tra Iran e Ue è cresciuto del 79% nel primo anno dall’entrata in vigore dell’accordo4), l’effetto ancora non si è visto granché sulla tavola degli iraniani, anche perché una vera normalizzazione non si è verificata. Altre sanzioni rimangono in essere e il sistema bancario per le transazioni con l’Iran non ha ripreso a funzionare correttamente. Dopo un breve momento di euforia iniziale, che lo aveva fatto risalire rispetto al dollaro, il rial, la valuta iraniana, ha ripreso a svalutarsi, toccando nuovi record alla fine dello scorso anno.

Quindi, per il momento, le tasche degli iraniani rimangono vuote. Tanto vuote che all’inaugurazione del nuovo anno iraniano, il 21 marzo 2017, quando si trattava di lanciare, com’è suo costume, lo slogan che intendeva ispirare l’operato del popolo nell’anno entrante, Khamenei ha pronunciato: «economia di resistenza». A sentire il nuovo motto, la gente si è preoccupata: ahi, la Guida invitava a stringere i denti e tirare la cinghia, ergo nell’anno ci sarebbero stati nuovi aumenti, nuove tasse. E, puntualmente, a dicembre, il governo ha annunciato aumenti di tasse e del prezzo di alcuni beni di prima necessità. La resistenza, però, non riguarda tutti, perché lo «Stato profondo», come si è detto, prospera e quando ha poca liquidità, come in questo periodo di prezzi petroliferi bassi e alti costi di una politica estera espansionistica, mette sotto torchio il comune cittadino, che è chiamato, appunto, a resistere.

Contro Donald Trump e l’Arabia Saudita

Forse anche perché non se ne sono sentiti i benefici, la reazione della gente alla bocciatura dell’accordo su nucleare da parte della presidenza Trump è stata blanda. In compenso la bocciatura ha fatto segnare un punto a favore di Khamenei, che aveva messo in guardia contro l’impossibilità di veri negoziati con gli Usa. Sì, perché l’Iran non è venuto meno agli impegni presi, come hanno confermato tutte le altre parti in causa.

Come spiegano gli iraniani l’ostilità del governo americano nei confronti del loro paese? Sull’argomento condividono quanto affermato dal loro ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, in occasione della visita di Trump in Arabia Saudita: «L’Iran, che ha appena tenuto delle vere elezioni, è attaccato dal presidente degli Stati Uniti in questo (riferendosi a Riyadh, nda) bastione della democrazia e della moderazione. Si tratta di politica estera o di succhiare 480 miliardi di dollari ai sauditi?»5.

Lasciando stare le «vere elezioni» (non tutti vi si possono candidare e il parlamento non è libero di decidere: comanda la Guida), ho spesso sentito esprimere la convinzione che lo spauracchio dell’Iran sia agitato ad arte per vendere più armi agli arabi.

Su un altro punto gli iraniani si trovano d’accordo col loro ministro degli Esteri: l’Arabia Saudita non può insegnare niente all’Iran in quanto a democrazia, tolleranza, rispetto dei diritti, e il fatto che quest’ultimo continui a essere designato dagli Usa «stato sponsor del terrorismo», insieme a Siria e Sudan, è dettato da ragioni politiche, non certo ideali.

(© Frode Bjorshol)

Terrorista a chi?

Allora, chiedo io, l’Iran non pratica il terrorismo? Non esattamente, i Sepah appoggiano Hezbollah e Assad, mi rispondono (indicando così che percepiscono quell’organizzazione come un corpo estraneo, indipendente dallo Stato), ma che differenza c’è rispetto a quanto fanno altri paesi, tra cui l’Arabia Saudita? È difficile non concordare con loro, se si tiene presente che la maggior parte degli attacchi terroristici vengono dall’estremismo sunnita; che spesso colpiscono comunità sciite; che, sebbene la monarchia saudita non incoraggi esplicitamente il terrorismo, fa propria la dottrina wahhabita, nota per la sua interpretazione estremistica dell’Islam, che, tra l’altro, considera gli sciiti eretici e, quindi, anche passibili di morte. Gli stessi rapporti annuali sul terrorismo stilati dal governo americano denunciano l’utilizzo nelle scuole saudite di «libri di testo con insegnamenti che istigano all’intolleranza e alla violenza, in particolare verso chi è ritenuto politeista, apostata o ateo»6. Insomma, si fa fatica a capire perché quello iraniano debba essere ritenuto peggiore di altri regimi.

Tornando a quanto si diceva all’inizio, si può scegliere di illuminare solo una faccia della realtà e usare alcuni termini pro domo nostra. «Terrorismo» è uno di questi.

«È tutta politica», così reagiscono gli iraniani quando si parla di tali argomenti, intendendo con ciò i propri, come gli altrui politici. Sono stufi di sentire i loro rappresentanti e il clero fare predicozzi agli altri e propaganda a se stessi. La Repubblica islamica non farebbe che pensare al bene dei propri cittadini, migliorare i servizi, soccorrere nelle difficoltà, trasmettere buoni insegnamenti. Ma, se da quarant’anni si va di bene in meglio, perché la gente comune boccheggia nei lacci di una burocrazia pervasiva e arbitraria, vede prosperare una classe politica corrotta e crescere il divario tra poveri e ricchi, osserva lo «Stato profondo» utilizzare le risorse del paese per finanziare se stesso e i propri amici all’estero? Allo stesso tempo gli iraniani sono però anche stufi di vedere l’ipocrita interessamento di altri paesi ai fatti di casa loro. Non gradiscono che li si istruisca su che cosa devono fare.

Durante gli eventi del dicembre 2017 (approfondimento alla pagine 24-25, ndr), quando le proteste contro il carovita hanno portato nelle strade migliaia di persone, diverse voci si sono levate da fuori per incoraggiare gli iraniani alla ribellione. A sentire gli incitamenti di persone al sicuro nelle proprie case, chi ha vissuto la guerra contro l’Iraq si è ricordato di quando Khomeini gridava: «A Karbala! A Gerusalemme! Combattere fino alla vittoria!» e mandava migliaia di giovani a morire in Iraq, mentre lui, i suoi famigliari e gli altri membri del clero se ne stavano a casa tranquilli. Di nuovo bisogna constatare: che differenza c’è?

Subito dopo l’elezione di Trump in Iran è comparsa una serie di aneddoti che lo paragonavano ad Ahmadinejad. Gli iraniani hanno individuato negli atteggiamenti del nuovo capo della Casa bianca una grande somiglianza con quelli del loro ex presidente, uno dei politici che maggiormente solletica il loro senso dell’umorismo. Perché, fortunatamente, gli iraniani amano scherzare su se stessi. Attraverso la rete e gli sms girano decine di aneddoti, sfornati a velocità strabiliante a ogni nuova occasione, anche tragica. È un modo di esprimere critica e disappunto, tollerato (qualcuno dice addirittura utilizzato, facendo circolare aneddoti ad hoc) dal regime, forse perché vi vede una valvola per far sfogare una rabbia altrimenti troppo compressa. Ce n’è per tutto e per tutti. Solo della Guida suprema e delle organizzazioni a lui legate (Sepah, Basij) non si parla mai direttamente. La Guida è il vicario in terra dell’«Imam nascosto», offendere lui è blasfemia e merita la morte.

Maria Chiara Parenzo

Note

  • (1) Anche qui quando si parla di iraniani si dice, in realtà, una verità parziale. Le opinioni che trasmettiamo sono state raccolte nella fascia urbanizzata del nord dell’Iran. Sono trasversali per classe sociale (dal povero al ricco), ma non riflettono il pensiero di chi ha incarichi pubblici o appartiene al clero.
  • (2)  Il nome completo è «Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica». «Sepah» significa corpo.
  • (3)  Vedi anche Annalisa Perteghella, «Due anni dalla firma del Jcpoa: l’accordo funziona ma non è ancora al sicuro», 14 luglio 2017, in www.ispionline.it.
  • (4) Annalisa Perteghella, Tiziana Corda, «Usa e Iran: l’azzardo di Trump sul nucleare», 11 ottobre 2017, in http://www.ispionline.it.
  • (5) Zarif: Trump ‘succhia’ i soldi dell’Arabia saudita, 22/05/2017, in www.asianews.it.
  • (6) «…some textbooks continue to contain teachings that promote intolerance and violence, in particular towards those considered to be polytheists, apostates, or atheists». U.S. Department of State, «Arabia Saudita», in «Country Reports on Terrorism 2016», p. 222.

(RAN_Shazdeh-Hosein-Shrine-Qazvin_AndreaMoroni_2017)


I fatti del dicembre 2017

Dietro «la rivolta delle uova»

Quelli di dicembre sono stati eventi legati alla perenne lotta tra i conservatori moderati del presidente Hassan Rouhani e gli ultraconservatori vicini alla Guida suprema. Da qualsiasi parte si analizzi la situazione, un dato è certo: in Iran la gran parte dei religiosi e delle persone legate al regime vivono nella ricchezza più sfacciata. Alla faccia della Rivoluzione e del popolo.

L’hanno chiamata «la rivolta delle uova» perché proprio in quei giorni il loro prezzo era triplicato, non per motivi politici, ma per una malattia dei polli che le aveva fatte scomparire dal mercato. Un nome scherzoso per qualcosa di molto serio. La scintilla è scoccata il 28 dicembre 2017 a Mashhad, feudo di Ebrahim Raisii, religioso a capo della miliardaria fondazione benefica che custodisce il mausoleo dell’Imam Reza, nonché rivale politico del presidente Hassan Rouhani. Occasione: l’aumento del costo di alcuni generi di prima necessità, tagli di sussidi e altre misure di austerità annunciate dal governo Rouhani. Sembra ormai assodato che sia stata una mossa mal calcolata nella lotta tra Rouhani, espressione dei conservatori moderati che vorrebbero modificare il sistema per permettergli di sopravvivere, e gli ultraconservatori, concentrati tra il clero e le organizzazioni non elettive dello «Stato profondo», cui le riforme sottrarrebbero parte di privilegi e potere. La presidenza Rouhani sta cercando di rendere più efficiente e trasparente il sistema economico. Ciò vuol dire anche ridurre i privilegi di fondazioni e organizzazioni paramilitari religiose, cui la Repubblica islamica concede di vivere in un limbo dove non si pagano tasse e non si è obbligati a spiegare come si utilizzano le ingenti risorse a disposizione. Queste istituzioni, di cui non è possibile stimare con esattezza il giro d’affari, hanno una presenza pervasiva in tutti i settori economici. È, in sostanza, un sommerso autorizzato che, secondo calcoli approssimativi, controllerebbe due terzi della ricchezza del paese. Dai tempi di una Rivoluzione fatta anche nel nome degli ultimi, religiosi e personalità legate al regime hanno accumulato fortune personali notevoli, e ciò è davanti agli occhi di tutti.

Trasparenza e rabbia popolare

Lo scorso 10 dicembre i telespettatori hanno sentito per la prima volta il presidente elencare le voci di spesa contenute nella legge di bilancio. La novità, insieme all’inedita richiesta di rendicontare per il futuro l’utilizzo dei contributi governativi, è stata interpretata come un tentativo di ottenere una maggior trasparenza. Si è venuto, così, a sapere che, se da un lato si programmavano aumenti di tasse e prezzi, dall’altro si destinavano ingenti somme a fondazioni religiose e le spese militari crescevano del 20% (l’inflazione è ufficialmente intorno al 10%). I telespettatori hanno capito che, mentre avrebbero dovuto aspettarsi un peggioramento delle proprie condizioni di vita, il regime concedeva ulteriori risorse a già facoltose istituzioni parassitarie e faceva pagare loro i costi di una politica estera ambiziosa. Nei giorni di dicembre queste novità correvano su tutte le bocche, alimentando una rabbia che già covava. Così è bastato poco per portare la gente in strada. La protesta si è fatta sentire, più che a Teheran, nelle provincie, dove più basso è il livello di vita e maggiori sono le difficoltà economiche. I manifestanti, soprattutto giovani, hanno gridato la propria frustrazione contro il sistema, ma non in nome di qualcosa o qualcuno. Per quanto si è capito, si è trattato di manifestazioni spontanee, organizzate grazie al passaparola e ai social network, non un movimento con chiari obiettivi e riferimenti politici. Ad esempio, a Izeh, nel Khuzestan, i manifestanti hanno occupato stazioni di polizia e uffici governativi, ma poi li hanno evacuati, non sapendo che farne.

Il discredito dei religiosi

C’è da chiedersi: chi ha dato inizio alle proteste per fare un dispetto al presidente non ha capito che avrebbe così anche dato la stura a sentimenti che già ribollivano nella gente, rischiando di trasformare una lotta di potere interna al sistema in una rivolta contro il sistema stesso? Chi è al potere, soprattutto se da lungo tempo, acquisisce una straordinaria incapacità di capire la realtà, perfino nelle sue forme più ovvie. Ed è ovvio che la gente comune è sempre più lontana dai discorsi ufficiali, sempre meno disposta a credere agli esponenti di una classe politica e religiosa, le cui parole anno dopo anno sono state sbugiardate dai fatti. Glielo si legge negli occhi, sempre più foschi di frustrazione e ansia per il futuro. A quegli occhi la classe al potere è caduta in totale discredito, riformisti o radicali che siano. E i più discreditati di tutti sono i religiosi, ai quali piace caricare sulle spalle della gente pesi che essi, invece, non sono disposti a portare. Per fare solo un esempio, consigliano ai malati di andare a impetrare guarigione al santuario dell’Imam Reza. Se loro hanno problemi di salute, invece, intraprendono costosi soggiorni all’estero per cure mediche.

Il predicatore del venerdì a Teheran, l’ayatollah Kazem Seddiqi, ha definito i protestatari «spazzatura». Altre personalità, tra cui la Guida suprema Ali Khamenei, hanno gettato la responsabilità della rivolta sui nemici esterni: Israele, gli Usa, i paesi del Golfo. È vero che da parte di Rouhani e dei moderati si è provato a dare una valutazione più realistica di ciò che è accaduto, ma quanto ciò corrisponda a sentimenti sinceri si capirà solo alla prova dei fatti.

I pericoli

C’è da augurarsi che i pallidi tentativi di cambiamento cui si è accennato si rafforzino e portino a una seppur graduale ristrutturazione del sistema, altrimenti c’è il rischio che tra qualche tempo ci si trovi ad affrontare altre rivolte. Non c’è da augurarsi che ciò si risolva in reazioni violente. Gli iraniani temono che il loro paese, in cui convivono etnie e confessioni diverse, possa diventare teatro di sanguinose lotte intestine, dove non sarebbe certo la gente comune a vincere.

Un cattivo governo è sempre preferibile alla guerra civile e chi ha incitato gli iraniani alla rivolta, o è un irresponsabile, o, molto più probabilmente, persegue un proprio interesse.

Maria Chiara Parenzo

 




Ucraina: La Missione chiama a Est

Testo e foto di Luca Bovio |


Dal 25 al 27 gennaio ho fatto una breve visita nella città di Leopoli in Ucraina, paese confinante a Est con la Polonia. Ho viaggiato con un sacerdote polacco della diocesi di Cracovia, don Dario, che una volta al mese si reca nel seminario di quella città per insegnare teologia. Il servizio che presto da qualche anno per le Pontificie opere missionarie in Polonia, mi porta a incontrare i seminaristi nelle diverse diocesi per parlare loro della missione come dimensione naturale della vita sacerdotale.

Luca Bovio

Partiamo da Cracovia al mattino presto di una giornata che, per essere nel cuore dell’inverno, si presenta assai mite. Dopo tre ore di viaggio a Est, ci troviamo sul confine con l’Ucraina, presso Medyca. Lasciamo la macchina in un parcheggio in territorio polacco e attraversiamo a piedi il confine. Questo è infatti il metodo più veloce per evitare i lunghi controlli alle autovetture, perché lasciando la Polonia si lascia anche l’Unione europea e l’area Shengen e quindi i controlli sono minuziosi e lunghi.

Prima di presentare i passaporti entriamo in un bar e la signora ci chiede dove siamo diretti e cosa andiamo a fare. Le spieghiamo che andiamo a Leopoli per motivi di lavoro. Lei ride dicendoci che «tutti escono dall’Ucraina per venire in Polonia e cercare lavoro e voi fate esattamente il contrario». Il controllo è veloce e dopo pochi minuti siamo in territorio ucraino. Ad attenderci c’è un autista mandato dal seminario. Dopo un’ora di viaggio arriviamo nel seminario dell’arcidiocesi di Leopoli. Il tempo di lasciare le borse e fare colazione e andiamo a visitare la città.

«Turisti» a Leopoli

Il monumento dedicato al poeta e pittore Taras Hryhorovy? Šev?enko a Leopoli

Non abbiamo alcun piano prestabilito, lasciamo che gli incontri stessi con le persone e la Provvidenza ci guidino. Iniziamo a visitare il palazzo vescovile in centro città. Appena apriamo la porta troviamo davanti a noi inaspettatamente l’arcivescovo che sta salutando alcuni ospiti. Appena ci vede ci dà il benvenuto e ci invita nel suo ufficio. Si chiama Mieczyslaw Mokrzycki, ed è di origine polacca. Prima di essere pastore di questa diocesi fu segretario di Giovanni Paolo II e per due anni di Papa Benedetto XVI, poi ricevette la nomina di arcivescovo di Leopoli. Con lui abbiamo un breve dialogo interessante. Dopo esserci presentati ci racconta della sua diocesi e dell’Ucraina in generale. Ci spiega che la situazione non è facile. Il paese cerca ancora degli equilibri che portino sviluppo. La mancanza in questo momento di personalità politiche autorevoli e la persistente guerra sul confine con la Russia, sono alcuni tra i motivi che rallentano la crescita del paese. La geografia delle chiese cristiane si presenta molto ricca e variegata. Qui infatti ortodossi, greco cattolici, armeni e protestanti vivono gli uni a fianco degli altri. A Leopoli ci sono ben tre cattedrali di tre chiese cristiane diverse.

Una Chiesa «polacca»

Nella cattedrale di Leopoli, ai piedi dell’ icone ci sono proiettili e pezzi di razzi dalla guerra combattuta ad est sul confine con le Russia.

È il 25 gennaio, festa della Conversione di san Paolo, ultimo giorno della settimana di preghiera per l’unità dei Cristiani, e nel pomeriggio si tiene una preghiera ecumenica nella cattedrale cattolica. Vi partecipiamo. Per moltissimo tempo la presenza cattolica in questa parte dell’Ucraina è stata assicurata solo dai polacchi, perché queste terre di Leopoli facevano parte della Polonia (dal 1340 al 1772, quando la città fu conquistata dagli Asburgo, ndr). Per questo la lingua polacca è qui capita e parlata da molti. Un esempio: pur trovandoci in Ucraina, in cattedrale, delle 8 messe domenicali celebrate, ben 5 sono in polacco, 1 in latino, 1 in inglese e 1 in ucraino. La lingua ucraina come il polacco è una lingua slava che si scrive però con l’alfabeto cirillico. Un sacerdote ci spiega che la gente locale per indicare la cattedrale cattolica la chiama la «chiesa polacca», a motivo della forte identificazione costruitasi nel tempo tra il cattolicesimo e i polacchi. Ascoltando queste parole mi convinco sempre di più di quanto sto maturando in questi anni di lavoro missionario in Polonia: l’importanza di dare una testimonianza a questi popoli che la chiesa cattolica, per sua stessa definizione universale, è più grande della identità polacca. Riconosco con gratitudine i meriti, e sono anche debitore, della ricchezza che questa espressione «polacca» del cristianesimo riesce a dare. Tuttavia, il cattolicesimo è molto di più. Ed è un dovere per me essere testimone della sua universalità ogni volta che è possibile.

La città, anche se trasandata, conserva ancora il fascino di un tempo. Molto rinomate sono le università dalle quali nei secoli sono usciti intellettuali prestigiosi.

In una chiesa greco cattolica troviamo testimonianze della guerra che ancora oggi, in modo meno mediatico, si combatte a Est del paese vicino alla Crimea sul confine con la Russia. Vi sono residui di bombe e di cartucce vicino a fotografie di molti soldati uccisi. Su tutti una grande icona di Gesù benedicente.

Con i seminaristi

La seconda giornata la trascorro interamente nel seminario che si trova a circa 10 km dalla città. È una struttura accogliente e moderna di recente costruzione. Qui vivono poco più di 20 seminaristi che, secondo il programma, incontrerò domani. Con loro partecipo solo alla messa al mattino. All’interno del seminario si trova anche l’Istituto di teologia per laici. Conosco il direttore don Jacek, polacco che parla bene anche italiano poiché ha studiato a Roma. Mi propone nel pomeriggio di tenere una lezione di missiologia («la disciplina teologica cristiana che studia l’Evangelizzazione e riflette sul compito missionario della Chiesa universale», da Wikipedia) a tutte le classi riunite. Accetto volentieri, poiché qui questa materia non è insegnata e il termine «missione» rimane alquanto astratto. Lo scopo che mi propongo, senza sapere se riuscirò a raggiungerlo, è quello di destare interesse e curiosità intorno all’argomento con l’aiuto dei documenti della Chiesa. Spiego brevemente anche cosa sono le Pontificie opere missionarie che io rappresento e spendo anche qualche parola sul nostro Istituto e sulla nostra comunità in Polonia. Lascio a tutti un abbondante materiale informativo.

Terzo giorno

Nella cattedrale di Leopoli, foto dei soldati uccisi nel conflitto del Donbass.

L’ultima giornata inizia con l’Eucarestia celebrata per gli studenti dell’Istituto di teologia. Dopo una veloce colazione incontro tutti i seminaristi, con il loro padre spirituale. Ho così l’occasione di presentare alcuni temi missionari ed esperienze personali. Ho l’impressione che mi ascoltino con interesse e curiosità, perché il tema è per loro nuovo. Ripresento la struttura delle Pontificie opere missionarie che non sono presenti in Ucraina, così come le origini del nostro Istituto missionario e la realtà in cui oggi opera. Il tempo passa veloce.

Ricevo anche domande sulla storia della mia vocazione e della mia esperienza in questi anni in Polonia. Uno dei punti che più colpisce è la natura internazionale della nostra comunità in Polonia: siamo infatti 4 missionari provenienti da 3 continenti e 4 paesi diversi, e questo è un vero inedito per queste chiese.

Terminato l’incontro mi raggiunge un sacerdote giornalista della società di San Paolo, padre Mario, polacco, che da alcuni anni vive a Leopoli e lavora per la Radio vaticana. Desidera farmi un’intervista sul tema delle missioni nel contesto del mio viaggio. Dopo l’intervista mi accompagna in città per mostrarmi la sua comunità. Ne approfitto per fare qualche foto al centro e comprare alcuni ricordi. Ho poco tempo perché già nel primo pomeriggio ritorniamo in Polonia per lo stesso tragitto per il quale siamo entrati.

Viaggio con don Jacek, direttore dell’Istituto di teologia della diocesi di Sandomierz. Ci scambiamo i contatti per organizzare in futuro altre visite e collaborazioni con l’Istituto di teologia che guida. Al termine di questo breve e intenso viaggio, dopo aver visitato negli anni precedenti altri paesi confinanti come Bielorussia, Lituania, Lettonia e Estonia, nasce in me la convinzione che l’Ucraina è il paese che offre più opportunità per approfondire meglio la conoscenza dell’Est del nostro continente e allacciare nuovi contatti.

Luca Bovio
missionario della Consolata a Cracovia, Polonia.




Cooperazione: Da volontari a manager del bene

Testi di Antonio Benci |


Tutto nasce nei primi anni ’60. Un movimento, nei paesi del Nord, che vuole porre fine a fame e sottosviluppo. Il momento storico è propizio. Sembra possibile rendere il mondo migliore. La motivazione di chi parte è alta e, di seguito, arriva la formazione. Poi le prime leggi e le Ong. Ma i cooperanti «professionisti» di oggi sono i discendenti dei primi volontari?

In ogni dizionario che si rispetti la figura del cooperante è definita come quella di «chi nei paesi in via di sviluppo si occupa di un programma di cooperazione». A inquadrare meglio questa figura singolare ci aiuta Diego Battistessa, cooperante e coordinatore accademico presso l’Istituto di studi internazionali ed europei «Francisco de Vitoria» dell’università Carlos III di Madrid, che in un’intervista del 2014 risponde alla domanda su cosa ci si aspetti da un cooperante, quale sia il suo profilo ideale. Al riguardo Diego non ha dubbi: «Alta professionalizzazione». Poi ci spiega meglio: «Il nuovo mondo della cooperazione è un contesto che si sta specializzando e sta diventando sempre più competitivo. Una volta era difficile trovare qualcuno che volesse partire e quindi spesso chi decideva di fare il cooperante acquisiva la maggior parte delle competenze più tecniche in loco, ora non è più possibile. Anzitutto, ci troviamo in un contesto in cui non ci si può più semplicemente arrangiare. A partire dalle lingue, la cui conoscenza professionale è oggi data per scontata, per finire con specifiche competenze tecniche, come ad esempio il Pcm (Project cycle management, gestione del «ciclo del progetto»). Un buon esempio sono anche le Ict (Information and communication technologies), le tecnologie della comunicazione e dell’informazione applicate allo sviluppo, ormai fondamentali, di cui si richiede una conoscenza professionale e trasversale».

Haiti (© Marco Bello)

Manager del bene?

È la chiara definizione di un manager in cui la competenza fa premio sullo spirito volontaristico.

In questo articolo vorrei approfondire il legame, se esiste, tra il primo volontario internazionale provvisto spesso di fede, ottimismo e buona volontà e l’ultimo cooperante, professionista formato e, non di rado, con precise e legittime ambizioni di carriera.

L’impressione è che questa figura, chiamata a cimentarsi con la dimensione progettuale di un programma di cooperazione (un tempo si sarebbe definito di aiuto allo sviluppo), è molto debitrice alla svolta attuata in Italia alla fine degli anni ’60 che ha trasformato i gruppi di appoggio alle missioni in organismi di volontariato.

In questo senso, si può tracciare una linea che unisce la figura di cooperante con quella dei primi volontari internazionali? C’è qualcosa in comune tra chi si occupa di Project cycle management e chi negli anni ’60 andava a «costruire la scuoletta» in qualche sperduta missione africana? O invece è qualcosa di completamente diverso tale da segnare una discontinuità o cesura determinata da altri fattori, non ultimo la globalizzazione che ha forzatamente delimitato la cooperazione a livello intellettuale?

Per provare a fronteggiare queste domande e temi, credo sia utile partire proprio da loro, i volontari.

(© Marco Bello)

Contro l’ingiustizia

Siamo nel momento, negli anni ‘60, in cui nasce in molti la richiesta ed esigenza di «fare qualcosa» per contrastare la fame nel mondo, permettere standard di vita decenti, assicurare i bisogni di base a una umanità sofferente e lontana eppure così vicina. Parlo della nascita di quel movimento all’interno dei paesi del Nord del mondo che si sente partecipe e responsabile dello sviluppo del Sud. Un’introduzione a questo immaginario la offre uno dei più noti volontari (non cooperante) del panorama italiano di quegli anni, Gino Filippini, in un’intervista a Famiglia Cristiana del 1969: «L’esperienza di Kiremba ha cambiato la mia vita. Per un europeo andare laggiù significa trovarsi faccia a faccia con problemi insospettati: miseria, fame, dolore. Ci si accorge, allora, di quanto ognuno di noi si sia chiuso nel suo guscio, nel proprio angusto cerchio di egoismo, tutti presi come siamo dal desiderio di guadagnare, di primeggiare, di avere sempre più soldi, più cose materiali. A Kiremba ho imparato ad amare davvero il mio prossimo, a dimenticarmi di me stesso. Ho avuto la soddisfazione di vedere gli indigeni migliorare le loro condizioni di vita grazie anche ai miei modesti insegnamenti. E anche loro mi hanno insegnato tante cose: il senso della dignità umana, per esempio, e la vera, disinteressata amicizia. Se tu scendi dal tuo piedistallo di bianco, se ti mescoli a loro, elimini tutte le barriere, tutti i pregiudizi che per tanto tempo ci hanno diviso, trovi in loro dei veri, fedelissimi e leali amici, capaci di fare chilometri a piedi, capaci di sacrificarsi per darti una mano».

Filippini è in un certo senso una figura estrema. Un suo vecchio amico, Aldo Ungari, lo definisce come un uomo delle due culture. Una caratterizzazione che si percepisce dalla sua testimonianzanella quale narra la sua «iniziazione» all’esperienza di volontario nell’ospedale burundese di Kiremba costruito dalla diocesi di Brescia in omaggio al Papa bresciano Montini e che vide l’attiva partecipazione dei fedeli in termini di sensibilizzazione e mobilitazione. La gente partecipò non solo alla raccolta fondi ma anche alla progettazione e realizzazione in loco, tramite tecnici e volontari chiamati a supplire alle deficienze organizzative e di conoscenza dei «locali». Al teorema accettato quasi aprioristicamente della cosiddetta «assistenza tecnica», ben presto si ribelleranno i volontari di lungo corso alla Filippini, per l’appunto in nome di una visione meno paternalistica e assistenziale. Da loro, dal dibattito internazionale, dai limiti dell’aiuto allo sviluppo kennediano dei primi anni ’60 nasce l’impostazione più attenta alle dimensioni antropologiche, all’incontro con l’altro e a una cooperazione alla pari.

(© Tommaso Degli angeli)

Un momento propizio

Non si sarebbe potuta manifestare in nessun altro periodo storico se non in quello. La decolonizzazione, l’apparire del «Terzo Mondo», l’immaginario della nuova frontiera, il Concilio e tutte quelle suggestioni di allora che con il carburante dato da figure di grande carisma e livello culturale (Helder Camara, Raoul Follereau, l’Abbé Pierre, Josué De Castro, Léopold Senghor, Julius Nyerere) hanno fatto percepire come possibile e vicino l’approdo a un mondo migliore senza l’incubo della fame e del sottosviluppo.

In quel contesto socioculturale irripetibile nasce il movimento – perché di movimento si tratta – del volontariato internazionale, vero e proprio incunabolo di formazione per il mondo della solidarietà internazionale. Un humus che, con il supporto dei volontari e le sollecitazioni esterne date dal dibattito in materia, permette di avviare quel percorso che agevola una impostazione progettuale per mezzo dell’intermediazione occidentale impersonata dal volontario, sia essa in ambito educativa, agricola o sanitaria.

(Isiro – © Tommaso Degli Angeli)

Sviluppo come Pace

Inizia, con il passare del tempo, a farsi largo un’accezione diversa: non più organizzazione e pianificazione in toto qui in Italia, ma, con l’indispensabile intermediazione dei laici, studio e realizzazione del progetto lì, cercando di renderlo indipendente dalla presenza europea. Con ciò si rafforza un’impostazione più rispettosa – sulla carta – che cerca un minore impatto sulla cultura del luogo.

Una data cardine di questa evoluzione è il 1967. In un’Italia che, l’anno prima, ha visto una sorta di corsa alla solidarietà verso un paese in preda a una carestia, l’India, con una gigantesca e partecipata colletta diffusa, ha grandissima risonanza e impatto l’enciclica Populorum Progressio. In essa Paolo VI porta all’attenzione dei gruppi allora più attivi – quelli cattolici – lo «sviluppo» nella sua declinazione di «altro nome della pace» e come forma più lontana dall’idea di crescita e più vicina a quella di emancipazione sociale e di cambiamento. Il tutto con la richiesta dell’impegno di tutti, laici compresi.

Una chiamata alle armi dell’intervento individuale in favore dello sviluppo «integrale» dell’uomo e per l’uomo.

Non è un caso che la stragrande maggioranza di questi gruppi, quelli perlomeno più strutturati, passano, in quetli anni, oltre la fase spontanea della sensibilizzazione e mobilitazione per approdare a quella più professionale di formazione dei volontari e costituzione di reti, coordinamenti e federazioni allo scopo di irrobustire la loro capacità di produzione di una cultura della solidarietà internazionale. In quegli anni, proprio per tutelare quella massa di «gente che andava e veniva dal Terzo Mondo», nascono le prime forme di interscambio con la politica la quale capisce, perlomeno nei gruppi più accorti, che quello che sta germogliando non è qualcosa che riguarda un «fuori», ma interessa e coinvolge un mondo ampio, strutturato, esigente e molto attivo di cittadini.

( © Marco Bello)

La prima legge

Chi agevola questo cammino di interscambio reciproco è una «avanguardia» o, comunque, un gruppo della sinistra democristiana, che vede in Franco Salvi, Giovanni Bersani e Mario Pedini i propri cardini. Sono loro, insieme ad altri (Rampa, Pieraccini, Storchi), a ideare la legge 1222/71 (conosciuta come legge Pedini), entrata in vigore 10 giorni prima di Natale, che porta al riconoscimento del volontariato per il tramite della cooperazione tecnica.

Il nome della legge «Cooperazione tecnica con i paesi in via di sviluppo» fa intravedere un’impostazione piuttosto ambigua già dal termine impiegato. Infatti da un lato l’idea di cooperazione è un deciso superamento dell’impostazione di aiuto. Mentre dall’altro il tornare (sottolineandolo) all’aspetto tecnico riduce l’ambito di intervento e marca ancora una volta la distanza tra «noi progrediti» e «loro arretrati». È comunque già molto, ove si consideri che si passa dal concetto di assistenza, utilizzato correntemente fin quasi alla fine del decennio, a quello di cooperazione tecnica. Un deciso arretramento rispetto al dibattito internazionale – oltre che delle organizzazioni e realtà italiane più impegnate ed evolute – che ruota, come si è visto, attorno all’idea di una partnership collaborativa finalizzata allo sviluppo come suggerito dalla commissione Pearson incaricata dalla Banca mondiale di redigere un testo «Partners in Development» che rimane una guida indispensabile per comprendere l’evoluzione del concetto di aiuto verso quello di supporto allo sviluppo endogeno per mezzo di un’azione di effettiva cooperazione.

Niger (© Marco Bello)

Origine delle Ong

La lettura comune della legge del 1971 la considera un provvedimento confuso di raccordo tra «impulsi solidaristici e pressioni commerciali», per di più limitato alla tutela dei volontari cattolici che non rappresentano l’Italia ma solo se stessi e la propria carica ideale. Ma questa considerazione va temperata con alcune considerazioni: innanzitutto, si ha finalmente una legge organica, pur con tutti i suoi limiti, dopo anni di leggi semiclandestine di qualche riga. Legge che porta alcune novità a livello di organizzazione dello stato sia dal punto di vista del riassetto burocratico sia nella disponibilità di fondi per la cooperazione. Non va poi sottaciuto il fatto che la 1222/71 è il precedente e lo spiraglio per l’approvazione della legge sull’obiezione di coscienza approvata esattamente un anno dopo. La grande discontinuità sta nel riconoscimento degli organismi di volontariato, le proto organizzazioni non governative (Ong). Da questa legge essi infatti, vedono riconosciuto quel decennale lavoro di informazione, sensibilizzazione fatto da parrocchie, oratori e scantinati. Ed è proprio nel pieno riconoscimento di questi organismi che l’Italia si presenta come un paese al passo degli altri, strutturando il volontariato civile in appoggio prevalentemente alle missioni cattoliche.

Giovanni Bersani annotava come nel 1969 fossero oltre 600 le persone in servizio nei paesi del Terzo Mondo e molti di loro senza paracadute legislativi. E come nella loro formazione, avessero concorso realtà che creavano la prima ossatura delle future Ong e che s’incaricavano di essere le capofila nella formazione di volontari, non più «ragazzi che vanno a dare una mano», in partenza.

Chi forma i volontari?

In questo senso non è possibile fare una cronaca dettagliata di tutti gli organismi di volontariato, poiché ognuno esprime delle dinamiche e delle filosofie d’intervento imperniate su due «territori»: quello d’appartenenza e quello di missione. In quegl’anni le realtà che formano i volontari sono poche e alcune finiscono per fare da capofila. Troviamo il Cuamm di Padova, il Mlal di Verona, la Lvia di Cuneo e le milanesi Cooperazione Internazionale e Tvc (Tecnici volontari cristiani). Sono questi i principali – dati alla mano – fornitori e formatori di volontari nel «Terzo Mondo» fino a tutti gli anni ’70. Persone che iniziano da qui il lungo e contraddittorio processo di professionalizzazione che trasformerà non pochi di loro in «cooperanti».

Possiamo dire che dalla legge Pedini nasce la lunga marcia che porta alla professionalizzazione della figura del volontario? La mia impressione è che lo possiamo sostenere. Del resto lo stesso Salvi già durante la conferenza stampa di presentazione della Pedini, parlò di una possibile professionalizzazione della figura del volontario chiamato non più e non solo a «dare una mano» ma essere lo strumento operativo di un «piano» di sviluppo o cooperazione.

Da quel 1971 il tema della solidarietà internazionale per mezzo della figura del volontario/cooperante è stato attraversato da un dibattito continuo e da un dilemma che ha oggettivamente portato a moltissime riflessioni, non ultima la terzietà del volontario/cooperante rispetto all’essere parte di programmi e progetti governativi. In questo senso anche in Focsiv (Federazione degli organismi cristiani servizio internazionale volontario) ci fu un dibattito molto forte: accettare i «soldi dello stato» per progetti di cooperazione? Per alcuni (non pochi) equivaleva a vendere le proprie motivazioni ideali. Cosa che fa sorridere del resto i moderni «manager della solidarietà». Questi ultimi ripropongono il nostro essere lì in chiave certamente più efficiente rispetto a prima ma senza probabilmente il corredo ideale dei pionieri. Il che, a guardare bene, è piuttosto ricorrente nella storia dell’uomo.

Antonio Benci

(© Marco Bello)


I media e lo scandalo Oxfam

Tutti giù per terra

Stiamo per pubblicare l’articolo di Antonio Benci quando scoppia il caso dei cooperanti di Oxfam ad Haiti. Operatori dell’Ong, anche di alto livello, che frequentavano alcune case di prostituzione a Port-au-Prince, all’indomani del terribile terremoto del 12 gennaio 2010. La notizia «buca» tutti gli schermi.

Un fatto sicuramente ignobile, ancorché aggravato dal particolare contesto nel quale si è verificato. Detto questo l’effetto dello scandalo porterà probabilmente a un discredito globale del mondo del volontariato internazionale e delle Ong. Il grande circo mediatico funziona così: non si ferma a capire o a discernere. Fatta l’etichetta, tutti quelli a cui si può appiccicare subiscono le conseguenze del comportamento di pochi.

In tutta franchezza posso testimoniare come sul campo operino decine di cooperanti onesti e integri, che compiono un lavoro eccellente. Compresi quelli di Oxfam, la più grande Ong del mondo. Sarebbe un peccato se tutta la categoria fosse messa all’indice a causa di un comportamento che, sì, esiste (non solo ad Haiti), ma che è una devianza, non la normalità. Talvolta è più facile nascondere comportamenti moralmente inaccettabili, proteggendosi dietro al logo di un organismo umanitario. Almeno fino a ieri.

Marco Bello 




Colombia-Perù. La forma della felicità

Testo e foto di Paolo Moiola |


Non ci sono né acquedotto né acqua potabile. Non ci sono fognature e strade. L’elettricità arriva per quattro ore al giorno. La malaria è la norma. Eppure, a Soplín Vargas, piccolo villaggio di 700 persone (tra indigeni e meticci) sulla riva peruviana del rio Putumayo, si può essere felici. È il sumak kawsay, la forma indigena della felicità. Confermata dai missionari.

Verso Soplín Vargas. Ci imbarchiamo al porticciolo di Puerto Leguízamo. Qui non esiste un servizio di trasporto pubblico. I passaggi sul rio Putumayo dipendono dall’intraprendenza dei singoli. Come fa la signora Teresa, una donna imprenditrice che ha coinvolto nell’attività anche i propri figli. Due volte a settimana la sua vecchia lancia in legno percorre il tragitto tra Puerto Leguízamo e Soplín Vargas, in terra peruviana. Ci accomodiamo tra sacchi di cemento marca San Marcos, scatole e borse della spesa. È stato imbarcato pure un mobile di medie dimensioni. I passeggeri – uomini e donne con bambini – sono tutti peruviani che vengono a fare acquisti sul lato colombiano del fiume, dove i prodotti si trovano più facilmente e più a buon mercato. «Teresa, come va il business?», chiedo mentre lei è ancora sul molo in attesa di altre persone. «Più o meno», risponde lei con una risata. Non esistono orari. L’unica regola è evitare di muoversi con il buio. Raggiunti i 14 passeggeri, Teresa molla la cima e Angelo, uno dei suoi figli, accende il motore. «Ci vorranno poco più di due ore», spiega padre Fernando Flórez, che a Soplín Vargas ha la sua missione.

A pochi minuti dalla partenza passiamo davanti alla base della «Forza navale del Sud» dell’Armada colombiana, che qui ha una presenza di rilievo vista la zona di confine (con Perú ed Ecuador) e la situazione di conflitto armato con le Farc che vigeva fino agli accordi di pace del novembre 2016.

La navigazione procede tranquilla. L’acqua del fiume ha un colore opaco, tra il verde e il marrone, come si notava dall’aereo. Sulle rive la vegetazione è continua ma quasi non ci sono alberi ad alto fusto. Ogni tanto, seminascosta dalla boscaglia, s’intravvede qualche abitazione su palafitte. Le rare imbarcazioni che s’incontrano sono soprattutto peke-peke (il nome deriva dal tipico rumore del motore) appartenenti a pescatori o a famiglie che si spostano lungo il fiume.

Dopo un paio di ore di viaggio, sulla riva peruviana compare un grande cartellone della Marina da guerra del Perú – sul Putumayo ha alcune guarnigioni stabili (come la controparte colombiana) – che annuncia l’arrivo a Soplín Vargas. «Sia Puerto Leguizamo che Soplín Vargas debbono i loro nomi a soldati caduti durante la guerra tra Colombia e Perú che ebbe luogo tra il 1932 e il 1933», mi spiega padre Fernando.

La lancia di Teresa riduce la velocità e si dirige verso un piccolo molo sul quale sono indaffarate parecchie persone. Man mano che ci avviciniamo capisco il motivo di tanto trambusto. Qualcuno sta squartando una vacca e vari dei presenti se ne portano via un pezzo, chi più grande, chi più piccolo. La maggior parte di loro se lo carica sulle spalle per fare più comodamente la ripida scalinata in legno che dal fiume conduce al promontorio dove sta Soplín Vargas. Per questa sua posizione il villaggio è considerato in «altura», che significa non inondabile dal Putumayo.

Noi scendiamo poco più avanti in un posto più scomodo e sconnesso. Gli stivali sono indispensabili per muoversi su un terreno reso fangoso e viscido dalle piogge.

Dopo una camminata in leggera salita su sentieri in terra battuta, arriviamo alla missione. Ad accoglierci è il volto sornione di padre Moonjoung Kim, missionario della Consolata coreano che con padre Fernando opera a Soplín Vargas.

La missione è una piccola casa in muratura posta su un unico piano.

L’entrata dà su un salone dove si svolgono tutte le attività (incontri, messe, feste, celebrazioni). Al fondo dello stesso ci sono quattro porte corrispondenti alle stanze da letto dei due padri, al cucinino e al piccolo bagno.

«Sumak kawsay»

Padre Fernando e padre Kim operano su tutto il distretto denominato Teniente Manuel Clavero, che si estende su un territorio amazzonico molto vasto (circa 9.107 km2). C’è Soplín Vargas, il capoluogo con circa 700 abitanti e una comunità mista di meticci e indigeni. Ci sono due altre comunità meticce e poi 28 comunità indigene: Kichwa soprattutto (21), ma anche Secoya (6) e Huitoto (1). La più piccola, Peneyta, conta soltanto 36 abitanti.

Vista l’ampiezza del territorio, i due missionari sono sempre in viaggio, muovendosi in barca e a piedi. Però, a dispetto di fatica e difficoltà, sembrano in totale armonia con l’ambiente naturale, umano e culturale in cui sono immersi. «La chiesa cattolica – spiega padre Fernando – dovrebbe evangelizzare e il vangelo – anche dal punto di vista etimologico – significa “buona notizia”. In questo pezzetto di Amazzonia noi dovremmo portare buone notizie. Ciò si traduce nel sumak kawsay, tradotto come buen vivir. Tutto ciò che sta a favore della vita è Vangelo, tutto ciò che sta contro la vita va denunciato. Anche per questo io e padre Kim stiamo percorrendo il Putumayo in lungo e in largo: per formare líderes e líderesas che possano essere gestori del buen vivir».

Il sumak kawsay-buen vivir è un concetto affascinante: vivere privilegiando la comunità in un contesto di rispetto dell’ambiente naturale. Affascinante ma difficile, soprattutto per un bianco che, per capirlo ed eventualmente attuarlo, deve spogliarsi di molti preconcetti, di strutture mentali sedimentate, di comodità date per acquisite. Ad esempio, vivere nella foresta amazzonica è un’esistenza unica in ogni aspetto della quotidianità.

«Di acqua ne abbiamo molta – racconta padre Fernando -. Il problema è che spesso non è potabile. È un paradosso, lo so. Siamo sulle sponde del fiume Putumayo, ma il fiume è inquinato. In primis, dall’immondizia: tutto ciò che le comunità producono come immondizia, viene buttato nel fiume. Va detto che l’indigeno è passato in poco tempo da uno scarto naturale (gusci, cortecce, legno) alla plastica. Con la differenza che il primo non inquina, il secondo sì. A Soplín Vargas parte dell’immondizia si raccoglie, ma si butta in un terreno senza alcun trattamento. Non esiste il concetto di riciclaggio. E poi ci sono i reflui umani che anch’essi vanno a finire nel fiume. Qui in pochissimi hanno un gabinetto con una fossa biologica».

Dunque, come ci si procura l’acqua?, chiedo da straniero abituato alle comodità dei bianchi. «Normalmente la gente raccoglie l’acqua piovana in un contenitore, ma altrettanta prende l’acqua da bere direttamente dal fiume. Noi portiamo l’acqua (trattata) in bottiglioni dalla Colombia e, quando la gente sulla barca ci vede, ride di noi. “Fernando, l’acqua del Putumayo non si prosciuga, perché vai a comprarla?”».

Domando della vita quotidiana. «Se non lavorano nella municipalità – spiega padre Fernando -, le persone al mattino vanno a collocare le loro reti nel rio Putumayo per pescare. Durante la notte possono andare a caccia per procurarsi la carne, che poi salano dato che qui non c’è possibilità di congelare i prodotti». Dunque, pesca, caccia, ma anche un’agricoltura di tipo familiare.

«Nelle chagras (o chacras, piccoli appezzamenti di terra) si coltivano – spiega padre Kim – riso, frutta amazzonica e yuca. Quest’ultima è molto usata dagli indigeni, anche per produrre bevande tipiche come la chicha e il masato». Chiedo della coca. «E tristemente si coltiva anche coca – conferma il missionario -. Però, la si coltiverebbe meno, se in altre parti del mondo non si consumasse. Senza dimenticare che gli indigeni la utilizzano anche in alcuni loro rituali tradizionali».

Dopo la cena, nel salone multiuso rimontiamo la tenda sotto la quale dormirò. Occorre approfittare della luce: a Soplín Vargas la corrente elettrica viene erogata per 4 ore giornaliere, dalle 18,00 alle 22,00. La missione non ha un generatore autonomo. Non c’è televisione né collegamento internet. «Però – dicono quasi all’unisono i due missionari – abbiamo vegetazione, tranquillità, persone con le quali si può parlare faccia a faccia senza un telefono che suoni».

Amazzonia, cuore del mondo

Ogni mattino mi alzo anchilosato, ma senza punture. Anche la scorsa notte le zanzare (zancudos o mosquitos) non sono passate dalla mia tenda. Esco subito per approfittare della temperatura sopportabile. Percorro il sentiero – sono poche centinaia di metri – che porta verso il centro del villaggio. Passo davanti alla scuola primaria e secondaria e a un piccolo campo da gioco in cemento. Ancora pochi passi e sono sulla Plaza de Armas di Soplín Vargas. È uno spazio erboso circondato da una stradina pavimentata con lastroni di cemento. Tutt’attorno ci sono il posto di polizia (una baracca in legno di colore verde pallido), il municipio e anche un ufficio del Banco de la Nación.

Incrocio il direttore del collegio. La scuola di Soplín Vargas – chiamata Teniente Luis García Ruiz – conta 108 alunni in primaria e 78 in secondaria. Secondo il direttore, i problemi principali sono quelli della mobilità (degli insegnanti e degli studenti) e i bassi salari. «Non stiamo tanto bene, però stiamo migliorando», conclude. In piazza incontro anche il medico, il dottor Francisco José Rosas Pro, che mi invita a casa sua. Sposato con Rina, infermiera, hanno una bambina. Sono qui dal 2012, ma in attesa di trasferimento.

«Manca molto – racconta il medico – l’appoggio dello stato, soprattutto per quanto concerne i medicinali. Non danno neppure quelli di base come amoxicillina e paracetamolo. Non rispondono alle nostre richieste. Oppure inviano medicinali non richiesti in quantità quando vedono che stanno per scadere».

Gli chiedo delle patologie più diffuse. «A parte la diarrea e problemi respiratori tipici, c’è la malaria, sempre presente. Ogni giorno ci sono pazienti. Spesso scelgo di dare loro i medicamenti anche se l’analisi del sangue è negativa, perché vengono da molto lontano. Qui a Soplín Vargas si tratta principalmente di malaria vivax, ma nei caserios (i villaggi più piccoli) c’è una prevalenza del falciparum» (sulla malaria vedi MC ottobre 2018 pag. 62).

Siamo interrotti per un’emergenza. Lo seguo al puesto de salud (consultorio medico) che dista un centinaio di metri. È una struttura in muratura relativamente grande ma triste e spoglia. Pare abbandonata. Le stanze non mancano, ma sono quasi tutte chiuse e vuote. L’unica aperta e attrezzata è quella sulla cui porta c’è il cartello «Tópico de emergencia». All’interno un paziente, sdraiato sul lettino, lamenta forti dolori al basso ventre. Francisco lo visita. Esce poco dopo. «Probabili calcoli renali. Ho dato dei medicinali e ordinato (all’unica addetta, ndr) una fleboclisi».

Al puesto de salud di Soplín Vargas l’umidità percorre muri e scalini, ma non c’è l’acqua per gli usi normali. «Una delle tante ragioni per cui ho chiesto di essere trasferito», chiosa il medico.

Alla sera racconto della mia visita all’ambulatorio. «Sì, è vero. Qui ci sono molte necessità – ammette padre Fernando -. I governi non si preoccupano della gente di questi territori. Sono interessati soltanto ad accaparrarsi le ricchezze della regione: per queste persone l’Amazzonia è sinonimo di denaro. Per me invece è il cuore del mondo».

Paolo Moiola


Nella comunità kichwa di Nueva Angusilla

«Sì, io sono il cacique»

Sul fiume Putumayo, come su tanti altri fiumi amazzonici, vivono varie comunità indigene. Spesso dimenticate dallo stato centrale.

Verso Nueva Angusilla. Da Soplín Vargas navighiamo lungo il rio Putumayo verso Sud per 140 chilometri. Quando il fiume incontra il rio Angusilla, suo affluente, siamo arrivati alla comunità kichwa di Nueva Angusilla.

L’avamposto militare – qualche casupola dipinta di verde e un’insegna posta sul terreno antistante – sta su un promontorio senza alberi. Ma la posizione è perfetta: all’intersezione tra i due fiumi. Poco più avanti, sul pontile un gruppo di adulti e bambini sono in attesa della nostra lancia. I cartelli di benvenuto tenuti dai piccoli sono per mons. José Javier Travieso Martín: è un’occasione unica perché il vescovo risiede a San Antonio del Estrecho, molto lontano da Nueva Angusilla.

Il villaggio è stato costruito con una struttura rettangolare: il lato libero guarda verso il fiume, sugli altri tre sono sorte le abitazioni. Le case – fatte di assi di legno e tetto di lamiera o di frasche – sono rialzate dal terreno di circa mezzo metro. Al centro, sproporzionata rispetto al resto, c’è la costruzione più moderna, chiamata Centro de Servicio de Apoyo al Hábitat Rural, ma da tutti conosciuta come «tambo». È un progetto del governo peruviano per ospitare – nei luoghi più disagiati – i principali servizi pubblici: registro civile, credito e appoggio tecnico ai contadini, consultorio medico, asilo nido per bambini, consulenza giuridica e altro ancora. Però, a Nueva Angusilla come altrove, c’è solo il contenitore fisico, mentre i servizi mancano o sono molto carenti.

«Qui ci sono circa 120 abitanti. Si vive di agricoltura e pesca. E poi lavoriamo con il legno con cui facciamo assi vendute in Colombia», mi dice gentile ma forse un po’ a disagio Eliseo, un abitante che si sta dirigendo verso il locale comunale – una struttura in legno aperta e con un tetto di frasche – dove il vescovo impartirà battesimi e comunioni.

Cerco il capo, il responsabile della comunità: il cacique, ma meglio sarebbe dire apu o curaca. Eccolo. Statura piccola e volto da giovanissimo, risponde volentieri alle domande anche se con visibile timidezza. «Sì, sono il cacique. Mi chiamo Jackson Kenide Mashacuri Andi e ho 24 anni. La popolazione mi ha eletto come autorità di qui. Mi piace molto stare con la gente per aiutarla a organizzarsi». E con orgoglio aggiunge: «Ho fatto il quinto grado della scuola secondaria e dunque sono capace di difendermi». Precisa che gli abitanti sono 117 che vivono coltivando yuca e platano (banane da cuocere, ndr) e pescando per il proprio consumo. Spiega che, come cacique, fa parte di una organizzazione chiamata Fikapir – Federación Indígena Kichwa Alto Putumayo Inti Runa -, la quale funge da intermediario con le autorità statali.

Chiedo dei problemi che ci sono. «Per la salute non c’è quasi appoggio. Per l’educazione stiamo cercando di avere professori bilingue. Adesso abbiamo soltanto insegnanti meticci che non parlano la nostra lingua. Qui la popolazione parla kichwa». Anche i giovani?, chiedo. «Sì, anche loro. Lo parlano in casa ma non a scuola».

Ci sono problemi di malaria? Fa una smorfia prima di rispondere: «Eh, sì. Soltanto un mese fa c’erano 20-25 persone contemporaneamente con la malaria. Malaria vivax». E c’è la posta medica?, intervengo. «Sì, ma non abbiamo il tecnico».

Oggi è una giornata di festa. Bisogna andare a mangiare. Pollo, riso, platano fritto. Prima di risalire sulla lancia, Jackson mi presenta la sua famiglia per un’ultima foto.

Paolo Moiola


Indigeni e bianchi

Una ciotola di «masato» (per un ipocondriaco)

Tra un indigeno e un bianco le diversità sono evidenti. Soprattutto quelle culturali. L’importante è accettarle, magari con un arricchimento reciproco. Racconto di un piccolo episodio di vita quotidiana.

Nueva Angusilla. Una semplicissima casa in legno rialzata da terra di circa un metro. Nessun mobile, un paio di secchielli (di plastica) con dell’acqua, qualche indumento appeso a fili volanti. Una famiglia numerosa e allargata (genitori, figli, nipoti) accoglie padre Fernando. In quanto amico del missionario, io sono un ospite da onorare come meglio si possa. E il meglio per una famiglia kichwa è offrire una ciotola colma di masato. È – lo confesso – un momento che temevo e che inevitabilmente si presenta. Tremo all’idea di dover ingerire quella bevanda tanto gradita dagli indigeni quanto indigesta per i non-indigeni, soprattutto se occidentali. Bere è un atto dovuto, segno di rispetto, riconoscenza, amicizia. Bere è però anche un rischio certo di avere conseguenze fisiche immediate e sicuramente poco piacevoli. Anni di esperienze negative mi vengono immediatamente alla memoria. Non c’è speranza di farla franca. È quasi matematico.

Il masato (aswa, in kichwa) è il nome di una bevanda molto comune in tutto il bacino amazzonico. È ottenuta a partire dalla yuca dolce (o manioca), una pianta con una radice a forma di tubero, commestibile e ricca di amidi. La sua preparazione è compito delle donne indigene. I tuberi vengono prima pestati e poi bolliti. La pasta ottenuta è quindi masticata dalle donne per provocarne la fermentazione. Da ultimo si diluisce la massa in acqua (quasi sempre di dubbia potabilità) e il masato è pronto per essere bevuto.

Prendo la ciotola di… plastica tra le mani. Appoggio le mie labbra incerte sul bordo. È come se quella bevanda biancastra e veramente poco attraente quasi mi guardasse e mi dicesse: «Bevimi!».

La decisione è repentina ed improvvisa. In un decimo di secondo passo la ciotola nelle mani compassionevoli di padre Fernando. Labbra appena inumidite, ma no, non ce l’ho fatta a bere. Però almeno sono arrivato lì, lì a pochissimo dalla temuta meta.

Cerco nella mia testa due paroline in lingua kichwa: «Yapa alli» (muy bueno, molto buono), dico con un sorriso tanto largo quanto bugiardo a tutti i presenti che sono lì davanti, con gli sguardi fissi su di me. E subito cerco di sviare l’attenzione. Una foto, una foto di tutti con padre Fernando. Sì, mi vergogno, ma il mio stomaco e probabilmente la mia salute sono salvi. Spero sia salva anche la mia reputazione presso quella famiglia kichwa di Nueva Angusilla. Sentendomi come colpevole di un reato, prometto loro che farò arrivare le foto cartacee di quella visita. Temo però che il masato tornerà ancora a materializzarsi davanti a me. Negli incubi notturni o nella realtà.

Paolo Moiola