Una controstoria del Novecento in ottica nonviolenta


Si può parlare del secolo racchiuso tra il 1918 e il 2018 come di un secolo di pace? A Torino, un gruppo di studiosi crede di sì: mettendo insieme diverse esperienze di pace e giustizia dei decenni passati in tutto il mondo, ha dato corpo a una vera e propria controstoria. Non sono solo le guerre e il sangue sparso a indirizzare la storia dell’umanità, ma anche, e soprattutto, le azioni di pace, gli atti e le lotte nonviolente, di cui il Novecento è costellato.

«La nostra memoria è selettiva. Si perde nel tempo restituendoci del passato solo ciò che rafforza i nostri schemi mentali e le nostre convinzioni. Il problema della difesa si fonda in gran parte sull’esperienza che ci proviene dal passato. Se la nostra memoria collettiva non conserva che i fatti violenti, è evidente che le soluzioni che troveremo per l’oggi al problema della guerra non potranno che essere soluzioni militari. Al contrario, se recuperiamo dal passato le tracce di un’altra storia, di un’altra difesa, di una resistenza non militare che ha mostrato qua e là la sua efficacia nel corso dei secoli, allora il moderno discorso sulla difesa non potrà che essere radicalmente trasformato», scrive il ricercatore francese Jacques Semelin, e ciò sintetizza bene le motivazioni alla base del progetto di ricerca che da alcuni anni viene portato avanti da un gruppo di lavoro del Centro studi Sereno Regis: far emergere la storia nascosta dei tentativi di costruzione della pace nel secolo appena trascorso, provare a ricostruire qualche tassello significativo dei «Cento anni di pace», come abbiamo intitolato il progetto, dalla prima guerra mondiale a oggi, per aprire speranze di futuro.

Nonviolenza, scultura di Fredrik Reuterswa?rd, Malmö, Sweden. Una versione di questa si trova anche davanti al Palazzo di Vetro di Ny, sede dell’Onu.

Un secolo di pace?

Ma il Novecento non è stato il secolo più violento della storia umana?
Come possiamo dire che è stato un secolo di pace?
Ovviamente, non intendiamo solo le pause tra guerra e guerra, impregnate dei disastrosi effetti della guerra precedente e dei germi infetti della successiva.

Non intendiamo le «paci» che i vincitori impongono ai vinti, perché esse non sono paci, ma il risultato della guerra: l’imposizione con la violenza della propria volontà al più debole. La «pace d’imperio» (Raimond Aron, Norberto Bobbio) non è la pace che soddisfa il diritto umano universale alla vita giusta e libera.

Quando questa sembra ai popoli un buon risultato, è spesso un’illusione, perché la realtà dimostra che «la vittoria non conduce mai alla pace» (Raimon Panikkar). La vittoria italiana nel 1918 fu la «madre del fascismo», come vantava lo stesso regime. La vittoria su Hitler nel 1945 tolse tardivamente un male gravissimo, ma generò altri grandi mali come la Guerra Fredda, enormi diseguaglianze umane, e la minaccia atomica sull’umanità.

Semi di pace

Che cosa intendiamo allora dicendo «cento anni di pace»? Vogliamo mostrare che «in mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna persiste la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce» (M. K. Gandhi). In mezzo all’inferno della guerra persistono sorgenti genuine di pace giusta. È sbagliato disperare e lasciare che la violenza sia vista come regina della storia.

La migliore delle paci è quella che si verifica non prima o dopo la guerra, ma invece della guerra. È la pace che si attua preventivamente con il gestire i conflitti senza violenza.

Un’altra pace è quella desiderata come un sollievo, nonostante i suoi limiti, dopo una guerra.

Altrettanto coraggiosa e ammirevole è l’azione di pace fatta durante la guerra, che pone le basi alternative e sostanziali per il superamento della logica distruttiva della guerra stessa.

Nel travagliato cammino umano ci sono semi di pace che attendono di essere visti, coltivati, curati. Non trionfano, ma promettono, perciò ci impegnano.

Cerchiamo queste azioni promettenti nel mezzo delle diverse violenze del Novecento. E le riconosciamo in ogni atto che limita la violenza e riduce le sofferenze, ma specialmente le vediamo nelle lotte nonviolente. Queste ultime sono «lotte» perché non sopportano le ingiustizie e vogliono attivamente liberarne le comunità umane, e sono «nonviolente» perché scelgono di non usare la violenza omicida e distruttiva, ma le forze umane del coraggio, dell’empatia, dell’unità, della resistenza, della disobbedienza civile, dell’organizzazione politica alternativa.

Coerenza tra mezzi e fini

Caratteristica fondamentale della nonviolenza è l’omogeneità tra mezzi e fini, secondo l’insegnamento e le esperienze di Gandhi: «I mezzi possono essere paragonati al seme, e il fine all’albero; tra i mezzi e il fine vi è lo stesso inviolabile rapporto che esiste tra il seme e l’albero».

La cittadinanza nonviolenta ha come principio fondamentale la «non collaborazione al male», che esige il coraggio della disobbedienza civile all’ordine ingiusto: una disobbedienza leale, dichiarata, solidale che è la prima arma nonviolenta. Infatti nessun potere politico, economico o militare può imporsi se il popolo non collabora.

Questi principi sono fondamentali per un’autentica democrazia, conquista storica del Novecento contro le dittature violente, preziosa e delicata: la democrazia, infatti, si corrompe in «dittatura della maggioranza» (Alexis de Toqueville), quando diritti e dignità delle minoranze non sono rispettati, ma anche quando sono rispettati solo all’interno, mentre verso l’esterno si attuano politiche di dominio e di guerra.

Il superamento delle violenze

Tra gli obiettivi principali della nonviolenza, oltre al superamento delle violenze fisiche, armate, oltre alla lotta contro le violenze strutturali ed economiche, c’è la lotta contro la violenza culturale, la più profonda e nascosta, causa e giustificazione delle altre, la quale si manifesta spesso nella rassegnazione di fronte a ingiustizie e disuguaglianze.

Per superare la violenza occorre smettere di dare per scontato che la società sia per natura fatta di forti e deboli, di primi e ultimi, di affermati e scartati, in competizione individuale e nell’indifferenza verso il bene comune.

Proteggere la casa comune

Pacifisti e nonviolenti da sempre hanno manifestato contro i test nucleari e gli armamenti atomici, a difesa della sopravvivenza umana. Nello stesso tempo, altri movimenti hanno dato vita alle lotte per i diritti animali, per la protezione delle foreste, o contro i crescenti casi di inquinamento causati dalle attività industriali. Tuttavia, la percezione di «essere in guerra contro l’ambiente» è nata, nel pensiero occidentale, molto tardivamente. La parola «ecocidio» è recente: altre comunità da sempre riconoscono in Gaia, Madre Terra, la fonte di vita e la casa comune che ospita tutti i viventi.

Negli ultimi decenni un aumento drammatico di conflitti ha visto contrapporsi i detentori del potere economico/finanziario contro vaste comunità di contadini, pescatori, popoli indigeni, ma anche comunità locali dei paesi «sviluppati». In questi conflitti, gruppi sociali, associazioni, movimenti che condividono strategie e obiettivi nonviolenti organizzano proteste, marce, iniziative che – grazie alle crescenti reti di comunicazione – stanno assumendo dimensioni globali, e propongono nuove modalità di relazione con i sistemi naturali che ci ospitano.

Masanobu Fukuoka è stato un botanico e filosofo giapponese, pioniere di un metodo nonviolento di trattare il terreno agricolo.

Due casi esemplari

A titolo esemplificativo citiamo due esempi concreti di costruzione della pace dal basso.

Il primo è l’opera di mediazione svolta dalla comunità di Sant’Egidio in Mozambico, come testimonia Roberto Zuccolini, suo portavoce: «Il 4 ottobre 1992, festa di S. Francesco, a Roma, il presidente mozambicano e segretario del Frelimo, Joaquim Chissano e Afonso Dhlakama (scomparso di recente), leader della Renamo, la guerriglia che lottava contro il governo di Maputo, firmavano un Accordo generale di pace che metteva fine a 17 anni di guerra civile (centinaia di migliaia di morti; 3-4 milioni di sfollati interni e profughi nei paesi confinanti).

La firma concludeva un lungo processo negoziale, durato un anno e qualche mese, portato avanti nella sede della comunità di Sant’Egidio. Lì, a Trastevere, alcuni membri della comunità (il fondatore, Andrea Riccardi, e un prete, Matteo Zuppi, oggi arcivescovo di Bologna), un vescovo mozambicano (Jaime Gonçalves, ordinario di Beira) e un “facilitatore” espressione del governo italiano (Mario Raffaelli), avevano pazientemente tessuto un dialogo tra chi si combatteva in nome dell’ideologia e del potere. Avevano imbastito un quadro negoziale all’insegna dell’unità del popolo mozambicano, alla ricerca di ciò che unisce e non di ciò che divide.

Con l’Accordo generale di pace si stabiliva la consegna delle armi della guerriglia alle forze dell’Onu, l’integrazione degli ex combattenti nell’esercito regolare, le procedure di sminamento e di pacificazione delle zone rurali, una serie di passi destinati a trasformare il confronto armato tra le parti in una competizione fondata sulle regole costituzionali e democratiche. Le elezioni del 1994, le prime veramente libere nell’ex colonia portoghese, avrebbero sancito il successo dell’intero percorso negoziale e consegnato il Mozambico a una stagione nuova, fatta innanzitutto di pace».

Un altro caso esemplare è l’esperienza di Lucha nella Repubblica democratica del Congo. Dopo la morte di Lumumba, primo presidente dopo l’indipendenza, democraticamente eletto ma subito assassinato, e la lunga dittatura di Mobutu, il paese è nel caos, con milioni di morti, disastro economico e miseria nonostante la ricchezza di risorse.

Alcuni giovani, stanchi della violenza e dell’ingiustizia, attivano un movimento di intervento su problemi concreti e quotidiani, come, ad esempio, l’approvvigionamento dell’acqua. In poco tempo il movimento cresce e nel 2013 prende il nome di Lucha, abbreviazione di Lutte pour le Changement. Il logo del movimento è semplice: una freccia, e le sue iniziative sono comunicate tramite immagini e messaggi chiari e diretti, per coinvolgere tutti, nella convinzione che ognuno può fare qualcosa.

Il punto comune di tutte le azioni di Lucha è la nonviolenza, che richiede più tempo e pazienza della violenza, ma alla fine è più efficace, perché la guerra ha fallito.

«Coloro che accettano di morire nei gruppi armati», sta scritto in uno dei «fumetti» di Lucha, «non sono idioti o manipolati; qualcuno è riuscito a convincerli che stavano facendo qualcosa di bene per il loro paese, ma per noi la nonviolenza è il solo modo di difendere la propria causa rispettando la dignità delle persone». Una figura mostra persone che si tengono per mano, sedute in cerchio per terra, resistendo ai soldati armati.

Un obiettivo formativo per le nuove generazioni

La storia è memoria collettiva formata e narrata in modo da avere un significato. Nel fare storia si mette in atto un vitale rapporto passato-presente. Per questo è importante porsi il problema di come leggere il passato, perché da esso si possano trarre efficaci spunti di riflessione per il vivere civile della realtà odierna.

Due in particolare sembrano le concezioni che la storia contemporanea ha posto radicalmente in crisi: innanzitutto l’idea di progresso-sviluppo così come si è affermata nella storia dell’Occidente dall’età moderna a tutto il Novecento. Questo modello lineare e meccanicistico oggi rivela tutti i suoi limiti nelle conseguenze sociali e ambientali disastrose che ha prodotto. In secondo luogo appare in crisi l’idea di guerra-difesa come si è affermata dalla Rivoluzione francese in poi. L’armamento atomico sintetizza emblematicamente entrambi gli aspetti: è uno dei più importanti frutti del progresso-sviluppo raggiunto – nell’accezione principale che il termine ha nella cultura occidentale, cioè di progresso scientifico tecnologico -, ed è il più potente mezzo di guerra o, meglio, di dissuasione, cioè di quella forma assunta nella guerra fredda dai modelli di difesa. Alla luce di tali considerazioni, rendere visibile una contronarrazione di quanto è stato fatto per costruire percorsi di pace, affinché diventi parte integrante del bagaglio collettivo della società di oggi e del futuro, diventa un obiettivo importante da perseguire: per ridare speranza e fiducia alle nuove generazioni.

Se il XX secolo è stato infatti il secolo dei campi di sterminio, della bomba atomica, dell’allarme ambientale, del malsviluppo, è stato anche l’età di Gandhi, di Martin Luther King e delle rivoluzioni nonviolente in diverse parti del mondo.

La strategia nonviolenta di trasformazione dei conflitti appare oggi l’unica via razionale per risolvere le controversie, l’unica strada compatibile con la sopravvivenza dell’umanità.

Se dunque la storia è interpellata dai problemi del presente e se ogni storiografia è un particolare sguardo sul passato alla luce di essi, l’assunzione di un’ottica nonviolenta nella storia può avere oggi un grande significato e una forte rilevanza teorica e politica.

Angela Dogliotti
con
Dario Cambiano, Elena Camino, Paolo Candelari, Enrico Peyretti

 


La mostra «100 anni di pace»

Nel XX secolo si è manifestata la violenza delle due guerre mondiali, dei genocidi e delle distruzioni di massa, ma anche la novità della nonviolenza come dottrina politica che si è tradotta in nuove modalità di lotta e di liberazione.

La storia umana che dalle elementari all’università viene raccontata come un susseguirsi di guerre, si è costruita anche nei tempi di pace. Il progresso civile, le conquiste sociali e ambientali, i diritti, le Costituzioni, sono opera della lenta e tenace cooperazione tra le persone, non l’esito di conflitti violenti.

La mostra «100 anni di pace»

La mostra presenta in tre sezioni alcune delle tante realtà di nonviolenza attiva che hanno segnato l’ultimo secolo.

1 – No alla guerra: superare l’idea di nemico. La pace dentro la guerra, la resistenza contro la guerra e la resistenza civile. I movimenti e le azioni nonviolente contro il militarismo e per l’obiezione di coscienza, i movimenti antinucleari. L’alternativa nonviolenta alla guerra: un’altra difesa è possibile.

2 – «Satyagraha»: la forza della nonviolenza per costruire giustizia. La resistenza nonviolenta contro il colonialismo. I movimenti per i diritti civili e la giustizia economica e sociale. La resistenza nonviolenta contro occupazioni, dittature e totalitarismi.

3 – Gaia, la nostra casa comune: fare la pace con la natura. La resistenza contro le violenze verso i socio-eco-sistemi. Dall’ecocidio all’inclusione.

Tempi e modi per visitarla

Dal 4 al 30 novembre presso il Centro studi Sereno Regis, Via Garibaldi 13, Torino, con ingresso gratuito.

Visite libere al pubblico al pomeriggio (in orario preserale da confermare).
Per le scuole, al mattino con due turni: 8.30-11.00 e 11.00-13,30.

Per info e iscrizioni alla visita guidata, inviare una mail a
prenotazioniclassi@100annidipace.org

indicando nome e cognome del/la docente, mail e, possibilmente, un recapito telefonico, scuola, classi e materie di insegnamento.

www.100annidipace.org/


Il Centro studi Sereno Regis

Il Cssr è una Onlus che promuove ricerca, educazione e azioni sui temi della partecipazione politica, della difesa popolare nonviolenta, dell’educazione alla pace e all’interculturalità, della trasformazione nonviolenta dei conflitti, dei modelli di sviluppo, delle energie rinnovabili e dell’ecologia.

Costituito nel 1982 su iniziativa del Movimento internazionale della riconciliazione e del Movimento nonviolento, dopo la prematura scomparsa di Domenico Sereno Regis, uno dei fondatori, nel gennaio 1984, il Centro fu intitolato alla sua memoria.

Il Cssr promuove iniziative culturali e ricerche in collaborazione con alcuni dei più significativi centri di ricerca per la pace nel mondo, ad esempio la Rete Trascend, fondata da Johan Galtung per la trasformazione dei conflitti su scala locale e internazionale.

Il Centro studi è una struttura aperta alla collaborazione con altre associazioni e realizza le sue attività grazie al concorso dei soci, dei collaboratori, di giovani in servizio civile, volontari, e grazie al contributo di privati, di enti locali e fondazioni.

Per Info: http://serenoregis.org/

Centro studi Sereno Regis, via Garibaldi, 13 – Torino
Mail: info@serenoregis.org – Tel. +39 011532824




I corridoi umanitari per vincere il traffico (di migranti)


La normativa dell’Unione europea prevede la possibilità di emettere un numero limitato di visti relativi a un singolo paese. Su questo alcune istituzioni cristiane, cattoliche ed evangeliche, hanno trovato un accordo con il governo (della passata legislatura). L’idea è portare in Italia persone particolarmente bisognose. Dopo l’arrivo è pure previsto un percorso d’integrazione. Anche se i numeri non sono enormi, si tratta comunque di oltre un migliaio di rifugiati. E l’accordo potrebbe essere rinnovato con il nuovo governo.

Abeba aveva una malformazione cardiaca. Se non l’avessero operata subito, quasi certamente sarebbe morta. In Etiopia non era possibile. Non ci sono le strutture per i cittadini, ancora meno per i profughi. Lei, piccola eritrea, è però riuscita a venire in Italia ed è stata operata all’ospedale Bambin Gesù di Roma. Così si è salvata. E ciò grazie ai corridoi umanitari organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio insieme alla Conferenza episcopale italiana (Cei), il governo di Roma e quello di Addis Abeba.

I corridoi umanitari nascono da una collaborazione tra il governo italiano (ministeri degli Affari esteri e dell’Interno), la Comuntà di Sant’Egidio, la Cei, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (Fcei) e la Tavola Valdese. Queste ultime due istituzioni si sono occupate in particolare di rifugiati siriani provenienti dai campi profughi del Libano.

Descriviamo qui il corridoio Etiopia-Italia, mentre parleremo del secondo canale, Libano-Italia, nella prossima puntata.

Campione di accoglienza

È un’operazione che, dal novembre 2017, ha permesso di portare in Italia dall’Etiopia 327 eritrei, somali, sudsudanesi. E, tra ottobre e gennaio, ne farà arrivare altri 173. L’Etiopia si trova geograficamente al centro di conflitti e sofferenze. Il paese ospita un milione di profughi in fuga da guerre, carestie e persecuzioni. È una delle nazioni al mondo che accoglie più rifugiati. Una parte consistente arriva dal Sud Sudan, nazione sconvolta da una guerra che, dal 2013, ha causato migliaia di morti e quattro milioni di sfollati, persone che hanno lasciato la casa per cercare rifugio in altre zone del paese o all’estero (vedi MC ottobre 2018).

In Etiopia arrivano anche molti somali in fuga da un conflitto lungo quasi trent’anni che ha causato circa 500mila morti, e da un terrorismo islamico sempre presente e violento (Al Shabaab, vedi dossier MC maggio 2018).

Dal Nord, poi, arrivano gli eritrei, in fuga da un regime paranoico non dissimile da quello nordcoreano, il più dittatoriale di tutta l’Africa, e gli yemeniti, vittime di un conflitto civile senza quartiere che ha trasformato il gioiello della penisola araba in un inferno costellato di crimini di guerra.

«I corridoi umanitari – spiega Giancarlo Penza della Comunità di Sant’Egidio – sono un modo per far arrivare nel nostro paese i rifugiati senza che questi debbano finire nel tritacarne del traffico di uomini, e con la certezza che riusciranno a integrarsi in modo serio nella nostra società».

Una veglia organizzata dalla diocesi di Noto, insieme con la Caritas diocesana, la fondazione Migrantes, l’associazione We Care e il comune di Pozzallo. Con il Vicario generale della diocesi di Noto, Mons. Angelo Giurdanella

Cosa sono i corridoi umanitari

L’idea è nata nel 2011. Di fronte alle continue stragi del mare, i membri della Comunità di Sant’Egidio si sono interrogati sul fenomeno e, stimolati anche da papa Francesco che ha dedicato il suo primo viaggio pastorale proprio ai migranti recandosi a Lampedusa, hanno deciso di scendere in campo.

«Dopo un attento studio delle leggi – continua Penza -, abbiamo scoperto che il codice dei visti offre la possibilità ai singoli paesi europei di concedere un numero annuale di visti “a territorialità limitata” che valgono cioè solo per il paese che li rilascia. Abbiamo così proposto al governo italiano di concedere nullaosta a persone vulnerabili sottraendole ai viaggi della disperazione».

Il governo ha dato il suo assenso e così a novembre 2017 è partito il primo gruppo dall’Etiopia. Le persone sono scelte tra le categorie più deboli: malati (soprattutto i bambini come Abeba), vedove, giovani che hanno subito carcere e torture. «Sono individui – osserva Penza – che ci vengono indicati da organizzazioni religiose che lavorano in loco, ma anche dall’agenzia etiope per i rifugiati e dall’Acnur (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) con le quali collaboriamo strettamente. Una volta individuati, i rifugiati giungono in Italia e qui chiedono il diritto d’asilo. Il vantaggio è doppio: i migranti non devono sobbarcarsi viaggi lunghissimi e pieni di pericoli; l’Italia conosce fin dall’inizio chi giungerà sul proprio territorio, perché già in Etiopia ha fatto una selezione tra chi ha presentato la domanda di visto».

Integrazione?

I corridoi umanitari permettono però di superare anche il problema dell’integrazione, lo scoglio più grande per chi arriva nel nostro paese. «L’Italia non ha un problema d’immigrazione, ma di integrazione – osserva l’ex viceministro agli Esteri, Mario Giro, da sempre legato alla Comunità di Sant’Egidio -. A questo riguardo il progetto dei corridoi umanitari ha molto da dire: il modello di accoglienza diffusa sta mostrando quanto l’integrazione non sia solo possibile ma è il nostro futuro».

Nel nostro paese, i rifugiati non vengono infatti lasciati a loro stessi. Sono accolti in 13 delle 20 regioni italiane (Abruzzo, Calabria, Campania, Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Marche, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Toscana, Umbria, Veneto) presso parrocchie, appartamenti di privati e istituti religiosi. Qui possono contare sul supporto di famiglie italiane che si occupano di accompagnare il percorso di integrazione sociale e lavorativa sul territorio, garantendo servizi, corsi di lingua italiana, inserimento scolastico per i minori, cure mediche adeguate.

La Caritas di Ragusa, per esempio, ha ospitato Mohamed Abdi, 54 anni, la moglie Kadija Hussen, 31 anni e cinque bambini tra i 2 e 15 anni. La famiglia, pur di fede islamica, è dovuta fuggire a causa delle minacce di un gruppo musulmano fondamentalista. Una delle bimbe è affetta da lupus, una malattia cronica autornimmune. Un fratellino è già morto a causa della stessa patologia. La Caritas di Ventimiglia ha invece ospitato un papà del Sud Sudan con i suoi due bambini, la bimba ha un grave problema a un occhio.

Come si pagano i corridoi

Ma chi paga l’arrivo, l’accoglienza e l’assistenza in Italia? Il progetto è nato dalla collaborazione tra Comunità di Sant’Egidio e la Conferenza episcopale italiana che copre la maggior parte dei costi grazie ai fondi dell’8 per mille (quello della Fcei, con l’8 per mille della Tavola Valdese, ndr). Altri fondi arrivano da donazioni private. «Allo stato – continua Penza – questa operazione non costa nulla. A fine anno, la convenzione scadrà. Stiamo trattando per rinnovare il protocollo. Nonostante sia cambiato il governo e l’attuale compagine abbia posizioni molto dure sull’immigrazione, finora abbiamo trovato ampia disponibilità. Speriamo davvero di poter ripristinare un sistema che ha permesso di salvare vite umane. L’obiettivo è di alzare l’asticella chiedendo i visti per 600 rifugiati provenienti dall’Etiopia e da altri paesi».

In questo senso fanno ben sperare le parole del premier Giuseppe Conte pronunciate a margine della visita nella sede della Comunità di Sant’Egidio a Roma, dove ha incontrato profughi, anziani e disabili: «La Comunità di Sant’Egidio ha varato in passato protocolli per realizzare corridoi umanitari. Sono iniziative importanti perché fanno arrivare in Italia migranti che hanno diritto alla protezione umanitaria. Numeri specifici, persone individuate. Si tratta di immigrazione regolare».

«La speranza è che in Italia si ripeta questa esperienza – ha dichiarato monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Conferenza episcopale italiana accogliendo i primi rifugiati arrivati nel novembre 2017 -. Questi corridoi umanitari devono diventare una prassi consolidata, affinché chi ne ha bisogno possa realizzare il suo sogno di vivere con dignità. Questa esperienza non nasce oggi, ma si pone a fianco di altre iniziative che la Chiesa italiana sviluppa in questi paesi di migrazione e transito da più di 30 anni».

Enrico Casale
(prima puntata – continua)




Cambogia: Una prigione senza mura


La Cambogia, il paese del Sud Est asiatico ha una storia di guerre e sangue. Conflitti che, seppure estinti, non hanno terminato di mietere vittime. Le mine e le bombe inesplose rendono la vita quotidiana pericolosa per milioni di cambogiani. Mentre gli effetti degli agenti chimici usati come armi dagli Stati Uniti hanno rovinato per sempre molti di loro.

«In Cambogia stimiamo che siano tra i quattro e i sei milioni le mine utilizzate durante la guerra, specialmente tra il 1980 e il 1998. Queste, tra morti e feriti, hanno fatto più di 65mila vittime», spiega Heng Ratana, direttore generale del Cmac, Centro cambogiano antimine.

L’obiettivo dichiarato del Cmac è quello di ripulire il paese dalle mine entro il 2025. Ma molto resta ancora da fare.

La Cambogia ha una superficie di oltre 181mila chilometri quadrati (poco più della metà dell’Italia) in gran parte di territorio boscoso, montagnoso e inaccessibile a causa delle scarse infrastrutture ma anche della diffusione di mine e bombe inesplose.

Heng Ratana, direttore generale del Centro cambogiano antimine (Cmac).Foto Luca Salvatore Pistone.

Una storia di guerre

Una lunga serie di guerre ha segnato la storia recente del paese. Dopo la seconda guerra mondiale, ci fu la cosiddetta guerra d’Indocina (1946-1954) contro la potenza coloniale francese, che portò all’indipendenza di Cambogia, Laos e Vietnam. Quindi la guerra civile cambogiana (1967-1975) che da un lato vide i Khmer Rossi (o Partito comunista di Kampuchea) e i loro alleati vietnamiti del Nord, Vietcong, e dall’altro le forze governative della Cambogia sostenute dagli Stati Uniti e dal Vietnam del Sud. Fu l’esercito del Vietnam del Nord a mettere le prime mine antiuomo in Cambogia nel 1967, e continuò a farlo fino alla fine della guerra del Vietnam nel 1975 con l’obiettivo di proteggere le basi e le rotte di rifornimento stabilite lungo la frontiera cambogiana.

Gli Usa non stettero con le mani in mano e risposero con operazioni segrete tra il 1969 e il 1973 consistenti nel lancio di centinaia di migliaia di tonnellate di bombe, molte delle quali inesplose e ancora nascoste sottoterra.

Al potere dal 1975 al 1979, i Khmer Rossi, che ruppero con il Vietnam, non esitarono a servirsi di mine per rinforzare i confini col Vietnam e la Thailandia, trasformando il paese in quella che venne tristemente soprannominata «la prigione senza mura». Proprio il Vietnam rovesciò il sanguinario leader Khmer Pol Pot. L’organizzazione dei Khmer Rossi venne in gran parte sciolta nella seconda metà degli anni Novanta, per, infine, arrendersi nel 1999. Ma per tutti quegli anni sia i Khmer Rossi sia le nuove forze governative continuarono a piazzare mine a protezione dei territori sotto il loro controllo. Le fazioni in gioco non segnavano sulle mappe i campi minati e così spesso capitava che venisse minata più volte la stessa area con il risultato di un esorbitante numero di feriti, sia soldati sia civili. Il clima umido della Cambogia ha fatto sì che il terreno inghiottisse ulteriormente le mine rendendo ancora più complicate le operazioni di localizzazione e smaltimento.

zone delimitate e indicate con cartelli di pericolo. Foto Luca Salvaotore Pistone

Sminamento difficile

«Finora le organizzazioni che si occupano di sminamento hanno trovato e distrutto più di un milione di mine – continua Heng Ratana -. Sottoscrivendo la Convenzione internazionale di Ottawa nel 1997 per la proibizione e la distruzione delle mine antiuomo, il nostro governo si è impegnato a ripulire l’intera Cambogia dalle mine entro il 2025. I nostri sforzi stanno dando buoni risultati anche grazie al contributo di alcuni partner come Vietnam, Laos, Colombia, Iraq e Afghanistan, paesi che vivono problemi simili ai nostri. Fino a pochi anni fa in Cambogia le vittime delle mine e bombe inesplose erano circa 4mila l’anno mentre ora sono meno di mille».

Il Cmac venne istituito nel 1992, quando nel paese era presente l’Autorità transitoria delle Nazioni Unite in Cambogia (Untac), al fine di assistere il ritorno sicuro di migliaia di sfollati nelle loro terre d’origine. Nel 2000 questo centro per lo sminamento divenne un organismo statale autonomo. Ha al suo servizio 1.715 persone, 1.387 delle quali attive sul campo, e numerosi macchinari per il rilevamento e la distruzione delle mine e altri ordigni esplosivi. Il Cmac ha il suo quartier generale nella capitale Phnom Penh e basi operative sparse in tutte le province.

sminatori del Cmac all’opera e zone delimitate e indicate con cartelli di pericolo. Foto Luca Salvaotore Pistone

Le mine dei Khmer

Uno dei distretti dove il Cmac è più impegnato è quello di Banan, nella provincia nordoccidentale di Battambang, ad un’ottantina di chilometri dal confine con la Thailandia. «Questo – racconta Chhou Mab, capo villaggio di Thnor, a Banan – era tutto territorio dei Khmer Rossi. Qui tra il 1985 e il 1986 allestirono dei campi rimanendovi fino al 1990. Riempirono la zona di mine che causano ancora oggi numerose vittime. Siamo felici che il Cmac stia ripulendo la zona, è un bene per tutti noi».

Lay Ponloeuk, funzionario del Cmac, è a capo del progetto Imv3 (Assistenza integrata per le vittime nella pulizia delle mine, Fase 3) in corso in quattro distretti della provincia di Battambang, tra cui quello di Banan. «Sono 485 – dice Lay – le persone attive per la realizzazione di questo programma, divise in trenta squadre che hanno a disposizione una trentina di strumenti, tra cui macchinari pesanti per la distruzione delle mine. L’obiettivo dell’Imv3 è quello di ripulire l’area dalle mine e renderla utilizzabile per l’agricoltura e l’installazione di moderne infrastrutture».

Il perimetro in cui operano Lay e i suoi uomini è interamente recintato con del nastro rosso. Dove sono state trovate delle mine è stato piantato un cartello con il classico disegno del teschio indicante il pericolo di morte. «Dobbiamo essere molto meticolosi – illustra Sous Pov, caposquadra dell’Unità 8 – così da essere sicuri al 100 per cento che l’area sia libera da mine. Il problema principale che riscontriamo a livello nazionale è che le mine sono sparpagliate un po’ ovunque, senza una logica apparente». Le mine ritrovate in questa zona sono di fabbricazione cinese, sovietica, vietnamita e in misura minore cecoslovacca. A beneficiare delle operazioni di ripulitura che rientrano nel progetto Imv3 saranno quattro famiglie di contadini e allevatori, che hanno i propri terreni nelle immediate vicinanze. Una di queste famiglie è quella di Loung Lon, del villaggio di Thnon. «Ero in giro per le campagne in cerca di qualcosa per la cena  – ricorda Loung – quando misi un piede su una mina di produzione cinese. Era il 1997. Ho perso una gamba e la parte inferiore dell’altra è stata squarciata. Sono stato ferito anche alla coscia da alcune schegge. C’è voluto un anno per rimuoverle tutte. Sono povero e pertanto le autorità ogni mese mi danno del riso, niente di più».

un uomo che è incappato su una mina e la gamba ricostruita con una protesi.Foto Luca Salvatore Pistone

Le vittime delle mine

Anche la provincia Nord occidentale di Pailin, al confine con la Thailandia, è tristemente nota per essere stata una delle roccaforti dei Khmer Rossi e, quindi, zona di mine. «Finito il regime – racconta Soun Rithy, 47 anni, del villaggio di Phsar Prom Chheung – i Khmer Rossi sono rimasti a lungo da queste parti. Mi arruolarono nel 1986, avevo appena 16 anni. Fui costretto a farlo, non avevo scelta, ma all’inizio era una cosa che mi riempiva di orgoglio. Avere in mano un’arma, indossare la divisa costituita da una tuta blu e una sciarpa a scacchi rossi e bianchi mi fece sentire subito grande. Ma pochi mesi dopo il mio arruolamento saltai su una mina, persi una gamba e mi ferii gravemente l’altra. Mi lasciarono a casa».

«Tutta la Cambogia è messa male – spiega Khoa Ly, funzionario del Cmac che su un quaderno ha annotato tutte le vittime delle mine della provincia – ma a Pailin abbiamo dei record impressionanti. Ad esempio solo nel villaggio di Phsar Prom Chheung contiamo 19 vittime. Un dato considerevole se si tiene presente che in quel villaggio gli abitanti sono ottanta. Le storie si somigliano un po’ tutte: civili che si addentrano nei campi in cerca di legna o qualcosa da mettere sotto i denti e incappano in una mina. Oggi sono tutti informati sui rischi che si corrono nelle campagne, ma miseria e fame costringono la gente a osare».

Khoa, mettendo a disposizione il suo scooter malconcio, si offre come guida per la ricerca delle vittime delle mine, un compito tutt’altro che difficile. Basterebbe fermarsi e bussare alla porta di una qualsiasi capanna di Pailin e chiedere agli abitanti se conoscono qualcuno che sia saltato su una mina o che sia stato ferito dalle schegge. La risposta è purtroppo scontata: «Sì, certo. Mio zio ha perso una gamba lavorando nei campi», oppure «Mia madre è diventata cieca a un occhio per una scheggia», o «Al mio vicino di casa hanno amputato tre dita della mano». E così via.

Non sono pochi i casi in cui interi nuclei famigliari sono incappati in una mina. La famiglia Chan, anch’essa residente nel villaggio di O’Cher Krom, rientra in questa tragica statistica. Nel 2003, Krel, il 59enne capofamiglia, portò i propri cari con sé nei campi a raccogliere della legna per riparare il tetto di casa. «Non sapevo – giura – che quella zona fosse un campo minato». Krel si giocò un occhio per una scheggia; il figlio maggiore Then, 36 anni, che calpestò la mina, perse entrambe le gambe e alcune dita di una mano; il figlio minore Rin, 29 anni, riportò delle brutte cicatrici sul volto; la moglie Srey, 53 anni, delle gravi ustioni al braccio e infine la cognata Sreypov, 63 anni, si vide squarciata parte della coscia.

«Da quell’orribile incidente – confida la signora Srey – mio marito non è più lo stesso. Fu molto coraggioso perché nonostante la ferita all’occhio trovò la forza di mettere in salvo tutti noi, prendendo in braccio i figli e trascinando me e mia sorella. Si sente in colpa perché fu lui a decidere il luogo dove andare a fare legna. Ma non è colpa sua, è colpa di quegli assassini che misero le mine. Spesso mi sento scoraggiata ma cerco di non darlo a vedere. Noi adulti dobbiamo essere d’esempio per i nostri ragazzi e incoraggiarli come possiamo. Siamo più forti delle mine».

il lavoro al Centro regionale di riabilitazione fisica di Battabang. Qui vengono prodotti vari tipi di protesi e poi seguiti i pazienti per renderli in grado di utilizzarle. Foto Luca Salvatore Pistone.

Il centro di riabilitazione

Tutte le vittime delle mine di queste regioni Nord orientali sono passate dal Centro regionale di riabilitazione fisica di Battambang, operativo dalla fine degli anni Ottanta. «Qui – spiega il dottor Heng Vanny, vice direttore del centro – forniamo servizi di riabilitazione fisica. Dopo accurate visite, fabbrichiamo delle protesi su misura. Se il paziente proprio non può camminare, gli diamo in dotazione una sedia a rotelle o delle stampelle. Insistiamo parecchio sulla fisioterapia, senza la quale è pressoché impossibile rinforzare i muscoli e indossare le protesi».

Continua: «Non ci limitiamo a prestare assistenza qui in sede. Due volte l’anno il nostro team si reca nei villaggi per controllare lo stato delle protesi. Se non ci sono usure eccessive, i tecnici le revisionano sul posto, altrimenti invitiamo i pazienti a tornare al nostro centro. Ogni volta che facciamo una trasferta veniamo accolti con grande entusiasmo, siamo ben voluti. Svolgiamo un lavoro che è molto apprezzato».

Nel laboratorio per le protesi lavorano una dozzina di tecnici. In una sala vengono preparati, dopo accuratissime misurazioni, i calchi in gesso di gambe, piedi, braccia e mani. Sulle sagome vengono successivamente modellate delle lastre di plastica sciolta e solo dopo una luna serie di passaggi attraverso forni, seghetti, lime e pennelli le protesi vengono consegnate ai pazienti. Spetta a loro l’approvazione finale al termine di un periodo di prova.

I trattamenti del Centro regionale di riabilitazione fisica di Battambang sono completamente gratuiti. Questa, come le altre undici strutture gemelle sparse per la Cambogia, sono dipendenti dal ministero degli Affari sociali per la Riabilitazione dei veterani e dei giovani e godono delle sovvenzioni del Comitato Internazionale della Croce Rossa (Icrc).

Annualmente, solo per Battambang, transitano più di duemila pazienti tra vittime di mine e incidenti stradali e disabili dalla nascita.

Luca Salvatore Pistone

 

Una bimba impara a camminare con le protesi, al centro di riabilitazione di Battabang. Foto Luca Salvatore Pistone

Cambogia: I disastri dell’Agente Arancio

La «sporca» guerra chimica degli Usa nel Sud Est asiatico.

Durante la guerra del Vietnam l’esercito statunitense sganciò tonnellate di diserbante per togliere ai vietcong (il nemico) i loro nascondigli naturali. Anche sulla confinante Cambogia. Prodotti chimici altamente tossici, i cui effetti sono oggi ben visibili negli abitanti di queste aree.

Le irrorazioni di Agente Arancio e il lancio di bombe chimiche da parte degli Stati Uniti durante la Guerra del Vietnam (1955-1975) sono state solo l’inizio di una lunga scia di morte e malattie. Questione che ha travalicato i confini vietnamiti per toccare anche la vicina Cambogia. E mentre in Vietnam esistono svariati centri dedicati all’assistenza delle persone colpite da queste sostanze micidiali, in Cambogia solo di recente si è cominciato a parlarne pubblicamente.

L’Agente Arancio è un defoliante, il prodotto di due diversi erbicidi, il 2,4,5-T e il 2,4-T. Con l’aggiunta della tetracloro-dibenzo-diossina, una sostanza estremamente tossica, diventa un’arma letale. Dal 1962 al 1972, nell’ambito dell’Operazione Ranch Hand nel Vietnam del Sud, gli statunitensi ne irrorarono 75 milioni di litri.

Nei vent’anni di conflitto, i vietcong, giocando in casa, furono una spina nel fianco degli Usa. La soluzione più logica fu sradicare la loro casa e lasciare che l’ambiente si deteriorasse con l’aiuto dell’Agente Arancio. Senza vegetazione i vietcong non potevano ripararsi ed erano dunque vulnerabili. Privarli dei nascondigli e portarli alla fame per la distruzione dei raccolti sembrava un ottimo metodo per ammansirli senza finire eccessivamente sotto i riflettori della stampa estera. Stesso discorso per il territorio cambogiano, dove i vietcong facevano rifornimenti di ogni sorta.

Ragazza con due protesi al posto delle gambe e la mano sinistra offesa. Foto Luca Salvaore Pistone.

«Gli americani – racconta Em Chhoun, l’anziano capo villaggio di Prey Ta Thoeung, nella provincia di Svay Rieng (Sud Est della Cambogia), lungo il confine col Vietnam – sganciarono tantissime bombe da queste parti. Poi passarono a sganciare della polvere chimica di colore giallo che in breve tempo bruciava le foglie degli alberi. Tutti i bambù scomparvero. Gli abitanti della zona, tra cui anche la mia famiglia, vennero evacuati ma alcune persone decisero di rimanere esponendosi a quelle sostanze che hanno contaminato il suolo. Da allora i bambini continuano ad avere problemi agli arti, altri sono diventati muti e ciechi».

L’emivita della diossina presente nel tetracloro-dibenzo-diossina dipende da dove si trova. Nel corpo umano dura dai dieci ai vent’anni, nell’ecosistema dipende dal tipo di terreno contaminato e dalla profondità a cui si trova: in superficie il calore del sole riesce a decomporre la diossina in pochi anni; se invece gli aggregati tossici sono sotto la superficie o in falde acquifere l’emivita può prolungarsi addirittura fino ad un secolo.

I. J. Paris, del villaggio di Kampot Tuk, provincia di Svay Rieng, ha cinque figli. Dauk, 14 anni, la secondogenita, è nata con una gravissima malformazione al braccio sinistro. «Parte del braccio – precisa I. J. – non è mai cresciuta e così ha la mano attaccata poco sotto la spalla. Persino il cranio non si è del tutto sviluppato. Non accetta i rimproveri miei e di mio marito, va su tutte le furie. Se cammina più del solito le fanno male le gambe. Soffre di frequenti mal di testa. Si ammala più dei fratelli. Piange in continuazione. Dobbiamo essere molto accorti con lei».

«Mio figlio Hem – dice Lek Sareoun sulla veranda di casa sua a Doun Ang, sempre nella provincia di Svay Rieng – è nato con delle pesanti deformazioni e ritardi. Ha dieci anni e non parla nemmeno. Dipende in tutto e per tutto da me e mia moglie. L’ho portato nei principali ospedali della capitale e l’unica cosa che mi hanno saputo dire è che non è curabile».

due pazienti imparano a camminare con le protesi, al centro di riabilitazione di Battabang. Foto Luca Salvatore Pistone.

Non solo Agente Arancio. Secondo il governo di Phnom Penh, durante la guerra del Vietnam, solo in Cambogia, gli aerei statunitensi sganciarono milioni di tonnellate di bombe, un dato sempre rigettato da Washington. Bambini nati deformi, strane allergie cutanee e febbri da cavallo sono solo alcune delle conseguenze di queste operazioni militari.

Particolarmente grave è la situazione nella municipalità di Koki, nella provincia di Svay Rieng, dove nel gennaio del 2017 sono state rinvenute dal Centro cambogiano antimine (Cmac) tre bombe barile inesplose contenenti gas lacrimogeno di tipo Cs, una nella campagna nei pressi di una pagoda e due nel cortile di una scuola elementare. Le bombe non sono ancora state rimosse per la mancanza di mezzi appropriati e conoscenze tecniche del Cmac.

«Per molti anni – illustra Heng Ratana, il direttore del Cmac – non si è preso nota di tutte quelle sostanze chimiche utilizzate contro il popolo cambogiano. Quando abbiamo scoperto queste armi chimiche nella provincia di Svay Rieng abbiamo notato che un certo numero di abitanti era stato affetto da sostanze chimiche, assunte ingerendo acqua contaminata o respirando dei vapori. Il ministero della Salute ha quindi creato un’unità speciale per studiare l’impatto di queste sostanze sulla nostra gente».

«Gli Stati Uniti – aggiunge il dirigente – devono essere il nostro partner principale. Hanno degli obblighi morali nei nostri confronti, dal momento che dal 1963 al 1975 hanno lanciato oltre 2,8 milioni di tonnellate di bombe sul paese, che hanno ucciso 500mila cambogiani e distrutto interi villaggi, case, scuole e infrastrutture. Devono aiutarci a ripulire la Cambogia dai resti delle loro armi e a tal fine il nostro governo si è attivato da tempo intavolando trattative con quello statunitense».

Koki, villaggio di 800 anime, è tappezzato di cartelli di pericolo di morte. I siti dove sono state rinvenute le bombe sono semplicemente circondati con del nastro rosso e bianco. Da oltre un anno i bambini ci giocano intorno come se nulla fosse. Gli ispettori del Cmac ritengono che la prolungata vicinanza di questi ordigni alla popolazione locale sarebbe la causa di alcune gravissime malattie. Negli anni Washington ha in parte riconosciuto le conseguenze dell’utilizzo dell’Agente Arancio ma si rifiuta di ammettere che ci sia un nesso tra questo tipo di bombe, contenenti ciascuna 220 litri di gas lacrimogeno di tipo C2, e atroci malattie.

Dalla casa della famiglia Sokhum, a una trentina di metri dalla scuola, si odono degli strilli strozzati. A emetterli è il piccolo Sorm che non ha più voglia di rimanere nel girello. Da lontano Sorm ha le sembianze di un bambino di un anno o poco più ma una volta avvicinatisi si nota subito che ha qualcosa che non va. La sua faccia è consumata e svela tutt’altra età: Sorm ha infatti 14 anni e pesa 9 chilogrammi. Non è cresciuto, non parla e ha gravissimi problemi neurologici.

«Sua madre – racconta la giovane zia Meta – lavora come bracciante in Vietnam e così mi occupo io di lui. È un bambino buono, l’unico fastidio che dà è quando piange. Per qualsiasi cosa ha bisogno di noi, non riesce a tenere in mano neanche il biberon. I dottori non hanno mai saputo dirci qual è la sua malattia, dicono solo che non esiste cura».

Di fronte casa Sokhum, dall’altro lato della strada, c’è la casa della famiglia Eth. All’ombra, su un’amaca, tenta invano di riposare Srey, 31 anni appena compiuti. Invano perché i dolori causati dalla sua sconosciuta malattia non gli danno tregua. Tutto ha avuto inizio sette anni fa, quando si manifestarono le prime allergie cutanee sulla schiena. Ma in breve tempo queste si diffusero in tutto il corpo facendolo diventare, come dicono i suoi parenti, «un pezzo di sughero».

«La mia pelle – mostra il ragazzo – è durissima. Ho provato con diverse pomate e unguenti ma non è servito a nulla. Il prurito è insopportabile e ho spesso febbre altissima che mi porta ad avere freddo. Il dolore è lancinante, il mal di ossa non mi permette di camminare a meno che non prenda delle medicine. La mia vista peggiora sempre più. Anche le orecchie mi fanno male, per non parlare delle fitte al petto che non mi lasciano respirare bene». E conclude: «Alcuni dottori mi hanno detto che soffro di una strana forma di psoriasi, una malattia incurabile. Peggioro di settimana in settimana, sono certo che presto morirò. Sono sconvolto. Sono laureato in economia, lavoravo in banca ma ho perso il mio lavoro perché sono malato. Quando alcuni mesi fa la gente ha iniziato a parlare di bombe chimiche ho realizzato che esse potrebbero essere la causa del mio male. Ma nessuno sa dirmi di più».

Luca Salvatore Pistone

sminatori del Cmac all’opera e zone delimitate e indicate con cartelli di pericolo. Foto Luca Salvaotore Pistone

Verso il «partito unico»

Elezioni legislative

Il 29 luglio scorso si sono svolte in Cambogia le elezioni legislative in un clima teso. Dei 20 partiti candidati, il partito del primo ministro Hun Sen, Partito del popolo cambogiano (Cpp), ha fatto incetta di voti, ottenendo tutti i 125 seggi in parlamento, come già era successo nel 2013. Hun Sen è quindi stato riconfermato primo ministro per i prossimi cinque anni. Ma lo scrutinio è stato viziato dall’assenza del principale partito d’opposizione, il Partito per il salvataggio nazionale, sciolto nel novembre 2017 e il cui leader Kem Sohka è stato incarcerato. Molte Ong denunciano il degrado della situazione politica in Cambogia, con un aumento di autoritarismo del partito al potere e una diminuzione di democrazia. Diversi oppositori politici, della società civile e della stampa indipendente sono incarcerati. Solo dopo le elezioni, arriva qualche segnale di distensione: l’attivista che si batte contro l’accaparramento della terra, Tep Vanny, è stata graziata e due giornalisti liberati su cauzione.

Hun Sen, che è al potere dal 1985, diventa così il più longevo capo di governo in Asia. «Negli anni, secondo alcune Ong, Hun Sen ha messo in piedi un sistema generalizzato di corruzione, del quale approfittano la sua famiglia e i suoi collaboratori più fedeli», scrive Radio France International. Nella rete di fedelissimi Hun Sen ha messo i suoi tre figli, che potrebbero assicurare la sua successione. A causa della situazione di violazione dei diritti, gli organismi internazionali, Onu, Ue e Usa in testa, hanno deciso di non inviare osservatori elettorali.

Marco Bello

 




Turkmenistan, dove una goccia d’acqua è un chicco d’oro


Alla scoperta di un’ex Repubblica Sovietica del Turkmenistan. Affacciato sul Mar Caspio e occupato in gran parte dal deserto del Karakum, il Turkmenistan è indipendente dal 1991. Finora però ha avuto soltanto due presidenti. Molto ricco di gas naturale e grande produttore di cotone, il paese centroasiatico deve affrontare problemi di scarsità d’acqua. Problemi aggravati dall’insipienza degli uomini.

Un tempo in Asia Centrale i canali per portare l’acqua dalle sorgenti montane alle pianure si costruivano sotto terra per evitare la forte evaporazione in quelle regioni di clima secco e di alte temperature. Questa tecnica di trasporto dell’acqua, molto antica, fu sviluppata dalle genti dell’altipiano iranico nel primo millennio a.C. Con i rudimentali strumenti a disposizione a quel tempo la costruzione di un canale sotterraneo, chiamato qanat o kahriz1, costituiva un’impresa che coinvolgeva tutta la comunità e il lavoro poteva durare parecchi anni. Erano notevoli opere d’ingegneria. I canali correvano sotto terra a volte anche per decine di chilometri, erano dotati di pozzi di aerazione lungo tutto il tragitto; per un corretto funzionamento dovevano essere controllati e ripuliti ogni anno. La popolazione si sobbarcava questa fatica per non disperdere un bene prezioso, l’acqua. Difatti, il sistema permetteva un utilizzo ottimale di questa scarsa risorsa, che arrivava integra in luoghi aridi, consentiva la vita di uomini e animali, la produzione agricola là dove prima c’era il deserto. Questo antico e ingegnoso sistema è stato utilizzato fino al Ventesimo secolo.

Festeggiamenti per l’apertura della nuova sede delle Nazioni Unite a Ashgabat (2016). Foto: Amanda Voisard / Un Photo.

«Padroni del Creato»

Il Ventesimo, come sappiamo, è il secolo in cui al lavoro dell’uomo si affianca in maniera sempre maggiore quello delle macchine. Lo sfruttamento del lavoro meccanico permette imprese che nel passato sarebbero state inattuabili.

Danze in costume davanti a una gigantografia del presidente Berdymukhammedov. Foto: Maria Chiara Parenzo.

Per la vita in condizioni climatiche come quelle centroasiatiche l’acqua è la risorsa più importante, da sempre la sua presenza e le modalità di utilizzo sono state elemento essenziale per la sopravvivenza. Con il potenziamento delle capacità umane d’intervenire sull’ambiente si sarebbe potuto prevedere un miglioramento nelle forme di sfruttamento di questa risorsa. Invece spesso è successo il contrario. Paradossalmente l’abbondanza di mezzi a disposizione ha peggiorato la situazione a lungo termine, soprattutto in società rette da sistemi dittatoriali, come dal Ventesimo secolo in poi sono state quelle centroasiatiche.

Con l’invenzione di macchine potenti l’uomo ha pensato di poter plasmare il mondo a proprio piacimento, si è creduto capace di migliorare l’opera del Creatore. Un tempo la presunzione era tenuta a freno dalla mancanza di mezzi – l’uomo aveva meno possibilità di fare danno – e dalla consapevolezza del proprio essere creatura limitata. Con la modernità la presunzione di sentirsi padroni del creato ha risparmiato pochi. Ciò dipende, forse, anche dal fatto che sempre più persone vivono in ambienti artificiali e che le politiche sono per lo più fatte dai cittadini, persone che non sono più in stretto contatto con le altre creature. Ciò cambia la mentalità senza neppure rendersene conto. Sempre più chiusi nelle nostre città, non abbiamo più idea del mondo naturale. Il cibo non lo produciamo, lo consumiamo. Per un cittadino la frutta viene dal fruttivendolo, gli animali sono a pezzi sui banchi del supermercato, o al guinzaglio, o in gabbia, l’acqua viene dal rubinetto e sparisce nello scarico. Si potrebbe andare avanti a lungo, ma è meglio tornare in Asia Centrale, per la precisione, in una delle sue repubbliche: il Turkmenistan.

Amu Darya, storia di un fiume

Il Turkmenistan è occupato per circa l’80% dal deserto del Karakum. Di gran lunga la sua maggiore risorsa d’acqua è l’Amu Darya, fiume che scende dal Pamir (un altipiano esteso nei territori di Afghanistan, Tagikistan e Cina), scorre per un lungo tratto in territorio turkmeno e un tempo andava ad alimentare il Mar d’Aral, noto lago salato posto tra l’Uzbekistan e il Kazakistan. Fiumi minori, con forti variazioni stagionali nella portata d’acqua, sono a Sud il Murghab e il Tejen, che vanno a perdersi nel deserto del Karakum, a Ovest l’Atrek, che sfocia nel Mar Caspio. Dai Kopet Dag, rilievi posti tra Iran e Turkemenistan, scendono piccoli fiumi, a volte poco più che torrenti primaverili.

In simili condizioni geografiche è facile capire quanto cruciale sia la possibilità di accedere all’acqua. I primi tentativi di utilizzarla per l’irrigazione sono documentati già 7-8 mila anni fa.

Nel V secolo a.C., grazie ai persiani, fu introdotto il sistema dei qanat, che trovò ampia applicazione nella regione dei Kopet Dag. Con i qanat fu possibile estendere la superficie di terra coltivata e praticare l’agricoltura anche in zone aride. Per la conservazione dell’acqua si costruivano cisterne sotterranee, ab anbar, o sardob2, che non solo ne evitavano l’evaporazione, ma la mantenevano fresca.

Un’altra storia di successo è quella dell’oasi di Merv, dove dal VII secolo d.C. sfruttando le acque del fiume Murghab fu sviluppato un intelligente sistema d’irrigazione che permetteva di dare cibo a una popolazione di circa un milione di abitanti e perfino di esportarne nelle regioni circostanti3. E il Murghab rappresenta solo il 5% delle risorse d’acqua dell’odierno Turkmenistan.

Risultati così eccezionali non dipendevano, però, solo dalle tecniche d’irrigazione, ma anche dall’estrema cura posta nell’amministrazione della risorsa, tesa a evitare gli sprechi. Le buone pratiche sviluppate nei secoli permisero agli abitanti di quelle zone di convivere con una natura aspra, sfruttandone al meglio le possibilità per trarne il proprio sostentamento.

Con l’arrivo dei russi, nella seconda metà dell’800, i lavori d’irrigazione furono notevolmente potenziati per incrementare la produzione di cotone e cereali; tuttavia, si continuò a seguire i vecchi sistemi e rimasero in uso le tradizionali forme di amministrazione dell’acqua da parte della comunità. Inoltre, fino all’inizio del Ventesimo secolo le aree irrigue erano principalmente quelle pedemontane e lungo i corsi d’acqua; ciò permetteva di conservare un equilibrio naturale tra agricoltura e disponibilità d’acqua, e di limitarne la dispersione nel suolo.

I sovietici, opere e disastri

I guai cominciarono nel periodo sovietico. La terra ormai apparteneva allo stato, che ne decideva l’uso e le modalità di sfruttamento. La logica che sottostava a quelle modalità è ben sintetizzata dal famoso aforisma del biologo Ivan Michurin: non possiamo aspettare che la natura ci conceda le sue grazie, nostro compito è strappargliele. Intere generazioni crescevano con l’idea che l’uomo potesse e dovesse correggere «i difetti» della natura, un’ubriacatura che contagiava uomini d’ingegno, artisti, scrittori, che mettevano il proprio talento al servizio di progetti tanto più aleatori quanto più lontani dalla realtà. Fa una strana impressione leggere ora le pagine, o guardare i quadri ispirati all’idea di trasformare il deserto del Karakum «nell’oasi fiorita del socialismo», come si esprimeva lo scrittore Andrej Platonov in un suo articolo4.

Un anziano signore con il tradizionale copricapo in pelo. Foto: Maria Chiara Parenzo.

Siccome, però, l’uomo-dio non può creare dal nulla l’acqua, per far nascere l’eden nel deserto doveva andare a prenderla dove Dio l’aveva messa in abbondanza, cioè dall’Amu Darya. Mentre l’uomo-creatura non aveva forzato la natura e, consapevole della propria impossibilità di creare dal nulla, aveva cercato di ottenere il massimo entro i limiti da lei segnati, l’uomo-dio non si è fatto fermare da queste quisquilie e ha progettato e realizzato grandi opere d’irrigazione a cielo aperto. In Turkmenistan la più imponente di tutte è il canale che prende il nome dal deserto che attraversa per 1.375 chilometri: il Karakum. La sua costruzione fu iniziata nel 1954 e completata nel 1988. Ai tempi si esaltò quest’opera come una conquista dell’ingegno umano e dell’ingegneria sovietica.

Quando arrivò l’acqua con il canale Karakum agli abitanti del deserto sembrò un miracolo. Una striscia azzurra in un oceano giallo, riarso e abbagliante: così è rappresentato questo prodigio nella pittura turkmena del tempo. Era una rivoluzione. Per millenni l’acqua era stata un bene difficile da procurarsi e scarso, quindi da utilizzare e custodire con cura; ora se ne aveva in abbondanza, correva copiosa da una fonte che sembrava inestinguibile. Ora che l’irrigazione non era più limitata dalle risorse locali ci si poteva permettere di creare insediamenti in luoghi prima impensabili, perfino nel cuore del deserto.

Naturalmente, visto che in realtà non si trattava di un bene illimitato, se si prendeva l’acqua da una parte, la si toglieva dall’altra. Così, una delle prime e più ovvie conseguenze della costruzione del canale fu che alla fine degli anni Ottanta l’Amu Darya in alcuni periodi dell’anno non raggiungeva più l’Aral. Fenomeni simili interessavano anche l’altro immissario dell’Aral, il Syr Darya. Ciò ha dato inizio a un processo di prosciugamento del lago, con danni immensi all’ecosistema e all’economia di intere regioni. Una catastrofe sociale e ambientale arrivata ormai agli ultimi stadi.

 

Acqua, da risorsa scarsa a risorsa sprecata

L’acqua sottratta ai fiumi veniva utilizzata bene? Se ne ricavava il massimo, come con gli antichi qanat? Naturalmente la risposta è no. Il fatto che fosse trasportata per chilometri attraverso il deserto, o «stoccata» in grandi bacini artificiali, moltiplicava le superfici esposte all’evaporazione. A ciò si aggiunga che, non essendo gli alvei di canali e bacini rivestiti di materiale impermeabile, buona parte dell’acqua si perdeva per strada a causa dell’infiltrazione nel terreno. Il sistema risultava, quindi, molto inefficiente.

Una ragazza con il vestito tradizionale delle spose turkmene: un abito rosso finemente ricamato con una mantellina che nasconde la testa e le spalle da sguardi indiscreti. Foto: Maria Chiara Parenzo.

Inoltre, il senso di onnipotenza e illimitatezza fece sì che nessuno si preoccupasse di creare meccanismi di controllo che obbligassero al risparmio: l’acqua era gratis, non c’erano contatori a misurarne le quantità utilizzate, per cui la si usava senza pensieri e gli sprechi erano enormi. Si calcola che a tutt’oggi vada perduto il 30% dell’acqua impiegata per irrigare5. L’eccesso d’irrigazione combinato con un drenaggio insufficiente porta alla salinizzazione del suolo. È questo un fenomeno tipico dei suoli aridi. L’acqua, se non opportunamente drenata, ristagna e scioglie i sali contenuti nel terreno, che l’elevata evapotraspirazione porta, poi, ad accumularsi in superficie. È una delle principali cause di degrado e infertilità del suolo. Non solo intere aree coltivate devono essere abbandonate, ma l’acqua che drena e si raccoglie spontaneamente negli avvallamenti del terreno causa anche la salinizzazione di aree che erano adibite al pascolo degli animali.

Così, paradossalmente, gli sforzi dell’uomo per creare un paradiso dove c’era il deserto finiscono per creare il deserto dove c’era il paradiso. E di questo facciamo esperienza non solo in Asia Centrale.

Quarta, ma non meno importante conseguenza di tale dissennata politica è la trasformazione prodotta nei comportamenti della gente. Da bene scarso, l’acqua è diventa un bene illimitato. A partire da questo dato, vero nell’hic et nunc, ma illusorio, quindi falso, se si considera la globalità del fenomeno, si è creata una mentalità distorta.

Gli uomini si abituano presto alle comodità e la facilità con cui hanno accesso alle cose cambia la loro mentalità e lo stile di vita. Quando non si procurano personalmente i beni di cui si servono, quando non sanno da dove vengono, che cosa comporta il loro uso nell’economia dell’ecosistema, gli uomini non ne imparano né il valore, né il corretto utilizzo. È stato così che i turkmeni, per millenni accorti risparmiatori d’acqua, hanno imparato a sprecarla.

Una capitale in marmo bianco

Ashgabat è la città dei presidenti, non dei suoi abitanti. Prima il presidente Saparmurat Niyazov (1940-2006), poi quello attuale, Gurbanguly Berdymukhamedov, l’hanno trasformata per renderla conforme alla propria idea di capitale: palazzi presidenziali con cupole d’oro, monumenti, torri, complessi governativi e residenziali, il villaggio olimpico, centri commerciali, tutto in scintillante marmo bianco. Sono stati aperti viali che sembrano autostrade, tracciati parchi con fontane e giochi d’acqua; ovunque ci sono aiuole fiorite. Per lasciare posto a tutte queste meraviglie sono stati abbattuti interi quartieri di case unifamiliari e i loro occupanti nel migliore dei casi sono stati trasferiti in condomini periferici, nel peggiore sono stati semplicemente sloggiati, senza ricevere risarcimenti. A camminare per gli sterminati marciapiedi dei nuovi quartieri si ha l’impressione di vivere in un quadro di De Chirico, fatto di improbabili architetture e spazi vuoti.

In questa città lunare, che non ha nulla a che vedere né con la storia e tradizioni turkmene, né con il luogo dove si trova, ho assistito a continui sprechi d’acqua, e non solo per innaffiare prati e fiori, che altrimenti seccherebbero in poche ore. Ashgabat è anche chiamata «la città bianca» per il colore dei suoi edifici e ha meritato di entrare nel libro Guinness dei primati per l’estensione delle superfici ricoperte in marmo bianco. Forse per rimanere all’altezza del nome, ad Ashgabat tutto deve essere lindo e pinto. L’acqua scorre a fiotti mentre eserciti di donne lustrano i marciapiedi con ramazze e scopettoni. Le macchine, anch’esse bianche per la maggior parte, devono essere sempre pulite, in caso contrario si prende la multa. Ciò obbliga i proprietari a continui lavaggi. Nei luoghi pubblici ho visto rubinetti lasciati aperti, tubature che perdevano in continuazione. Ashgabat è bagnata dal canale Karakum che le assicura un abbondante approvvigionamento d’acqua. Eppure, basta allontanarsi di qualche chilometro dalla capitale in direzione del deserto per capire quanto illusoria sia quell’abbondanza.

Progetti faraonici

La prima domenica di aprile in Turkmenistan si celebra la festa dell’acqua all’insegna dello slogan: una goccia d’acqua è un chicco d’oro. L’immagine è bella, ma per il momento del tutto priva di sostanza. Il Turkmenistan è tra i paesi in cui il consumo idrico pro-capite è più elevato. Ciò dipende soprattutto dall’enorme quantità di acqua che si perde nell’irrigazione e durante il trasporto. Per ottimizzare l’uso di questa risorsa bisognerebbe avviare un paziente e sistematico lavoro di ristrutturazione dei sistemi di irrigazione, di trasporto e conservazione dell’acqua. Invece di impegnarsi in un’azione a lungo termine e di scarsa visibilità, i presidenti hanno preferito scegliere una soluzione di grande effetto ma di dubbio esito: un lago nel cuore del deserto da riempire con acqua proveniente da tutte le zone irrigue del paese. È stato, in sostanza, progettato un gigantesco sistema di drenaggio, con due canali collettori principali, uno di 432 chilometri a Nord, l’altro di 720 chilometri a Sud, che partendo dal bacino dell’Amu Darya lungo il tragitto dovrebbero raccogliere da canali secondari l’acqua d’irrigazione in eccesso e scaricarla nella depressione di Karashor. Si sostiene che in questo modo si otterranno diversi risultati: si impedirà che l’acqua ristagni in loco, o ritorni al fiume con la sua concentrazione di sali, pesticidi e fertilizzanti, e si creerà un bacino artificiale che avrà un effetto positivo sull’ecosistema. E, poi, i turkmeni avranno il loro lago dell’Età dell’Oro. Età dell’Oro è quella in cui il Turkmenistan vive dall’indipendenza (1991) grazie ai suoi due presidenti. La costruzione del lago ha preso il via nel 2000 con il primo presidente ed è proseguita con il suo successore.

Nel 2009, nell’inaugurare uno dei canali, il presidente Berdymukhamedov, come Platonov molti decenni prima, ha prospettato visioni di deserti fioriti. Tuttavia, se mai si riuscirà in un lontano futuro a convogliarvi tanta acqua da riempire la depressione di Karashor, si prevede che il lago sarà una brodaglia di sali e fertilizzanti. Considerate l’evaporazione e le perdite per infiltrazione nel terreno lungo il tragitto, l’ipotesi del lago rimane, comunque, molto remota. Meno remota appare, invece, l’ipotesi di un altro disastro ecologico.

Maria Chiara Parenzo

La moschea Turkmenbashi Ruhy, costruita dal defunto presidente Niyazov, a pochi chilometri dalla capitale; è stata al centro di varie controversie islamiche. Foto: Dan Lundberg.


Breve storia della ex Repubblica sovietica del Turkmenistan

Due presidenti in 28 anni (per il bene del popolo)

Già nell’epoca sovietica, il Turkmenistan era una delle repubbliche più arretrate. Il paese ha avuto finora due soli presidenti, entrambi caratterizzati da culto della personalità e poteri illimitati. Intanto, a dispetto della propaganda governativa, la popolazione vive in povertà.

Come entità statale e nei confini attuali il Turkmenistan è una creazione dell’Unione Sovietica. Il 27 ottobre 1924 dallo smembramento dell’ex governatorato zarista del Turkestan nacque la Repubblica socialista sovietica del Turkmenistan, una delle più economicamente arretrate tra le quindici che componevano l’Urss. A sessantasette anni di distanza quello stesso giorno fu scelto per la proclamazione dell’indipendenza, un atto cui la dirigenza turkmena fu costretta dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Era il 1991. In Turkmenistan la transizione al nuovo quadro istituzionale avvenne senza intaccare i rapporti di potere in essere: Saparmurad Niyazov, dal 1985 alla guida del Partito comunista turkmeno e della repubblica, divenne il presidente del nuovo stato indipendente; con un’operazione di facciata il Pc turkmeno si trasformò nel Partito democratico del Turkmenistan.

Per la forma di governo e la chiusura al mondo esterno il Turkmenistan ha conservato il carattere sovietico più di ogni altra repubblica dell’ex Urss, tanto da essere spesso paragonato alla Corea del Nord, solo che all’ideologia socialista si è sostituita l’esaltazione della «turkmenicità». Niyazov è rimasto presidente fino alla morte, avvenuta nel dicembre 2006, e ha esercitato un potere da monarca assoluto. Fin dall’inizio ha incoraggiato un culto della personalità che è divenuto col tempo sempre più smisurato. Lo stile di governo non è cambiato con il suo successore Gurbanguly Berdymukhammedov, in carica dal 2007. Il presidente detiene un potere di fatto illimitato e controlla tutti i campi della vita nazionale: politico, sociale, economico, culturale. Si occupa personalmente di ogni questione, piccola o grande che sia. Come Niyazov, si atteggia a padre della nazione: un padre saggio e magnanimo, ma anche giusto e severo con chi sbaglia. Quegli si faceva chiamare con l’appellativo di Turkmenbashi, «Capo dei turkmeni», questi è invece Arkadag, «il Protettore». Tutto, naturalmente, è fatto per il bene del popolo, che i mezzi d’informazione ritraggono mentre si gode la vita nell’«Età dell’oro». Così la propaganda di regime chiama «il periodo di pace e benessere» assicurato ai turkmeni dai due presidenti.

A suo tempo Niyazov giustificò la devozione assoluta che pretendeva dai suoi «sudditi» e l’esaltazione iperbolica della sua persona con la necessità di dare al popolo un’autorità in cui credere e un principio di unità nazionale. Il ferreo controllo esercitato dal presidente e dalla sua cerchia su tutti gli aspetti della vita del paese ha, in effetti, impedito il nascere di spaccature lungo linee claniche, regionali, o etniche, come è avvenuto nelle altre repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale. Il prezzo per la popolazione però è molto alto. Abuso di potere e corruzione fanno parte della vita quotidiana dei turkmeni. Non c’è possibilità di opporsi alle decisioni e ai capricci delle autorità, non ci sono istanze indipendenti cui appellarsi: il volere del presidente e delle élite a lui legate è al di sopra di ogni legge.

Grazie anche alla presenza pervasiva dei servizi di sicurezza e alla durezza delle repressioni in Turkmenistan non esiste un’opposizione; essa è rappresentata da piccoli gruppi che operano in esilio.

Nella repubblica, grande come una volta e mezza l’Italia, vivono meno di sei milioni di persone, per lo più turkmeni (85%), ma anche uzbeki (5%), russi (4%) e di altri gruppi etnici. Gli insediamenti si trovano in prevalenza ai bordi meridionale e orientale del grande deserto del Karakum, che occupa il centro e il Nord del paese. La maggiore risorsa nazionale sono gli idrocarburi: il gas naturale (il paese è il quarto al mondo per giacimenti stimati) e, in misura minore, il petrolio. L’industria non è molto sviluppata. I turkmeni erano tradizionalmente pastori nomadi, con comunità sedentarie nei Kopet Dag e nelle oasi. Le prime industrie sono nate con i russi. In seguito sono stati sviluppati soprattutto i settori estrattivo, chimico, tessile e alimentare. Nel periodo sovietico si diede un forte impulso alla coltivazione del cotone. Per le condizioni climatiche e la povertà del suolo, l’agricoltura è quasi ovunque irrigua. Questa condizione e la scelta di una coltura particolarmente bisognosa d’acqua come il cotone ha portato a sempre maggiori prelievi dai fiumi, soprattutto dall’Amu Darya. Ciò ha provocato l’alterazione del sistema idrografico della regione, con il prosciugamento del bacino del Mar d’Aral, e il deterioramento dell’ambiente naturale, con la desertificazione di ampie aree prima adibite a pascolo o a colture.

I cittadini del Turkmenistan sono nella stragrande maggioranza musulmani sunniti. Come gli altri popoli centrasiatici di tradizione nomade, anche i turkmeni non sono inclini a forme d’islam intransigente e molti praticano un islam non ortodosso, legato alle confraternite sufi, con interferenze delle antiche pratiche sciamaniche. Gli sciiti sono un’esigua minoranza. I cristiani sono rappresentati soprattutto dalla minoranza russa. Musulmani sunniti e cristiani russo ortodossi sono stati per anni le uniche comunità religiose ufficialmente riconosciute. Per essere riconosciuta una comunità religiosa deve ottenere la registrazione presso il ministero della Giustizia. Sebbene il Turkmenistan sia uno stato secolare, sebbene la costituzione garantisca la libertà di culto e l’eguaglianza di ogni cittadino davanti alla legge, alle altre comunità religiose, compresa la piccola comunità cattolica, è stata per anni negata la possibilità di ottenere la registrazione, senza la quale si è costretti a un’esistenza ai margini della legalità. Nel 2004 sono state alleggerite le condizioni per la registrazione, ma rimangono ancora comunità minori cui essa viene arbitrariamente negata e che continuano a essere soggette a discriminazione e angherie da parte delle autorità. La chiesa cattolica turkmena è stata ufficialmente riconosciuta solo nel 2010, tredici anni dopo la presentazione della richiesta1. Anche a registrazione avvenuta, tuttavia, le difficoltà non finiscono. Le leggi che regolano il culto e le attività religiose pongono limiti alla libertà di educazione e di riunione, alla pubblicazione e distribuzione di materiale e libri, contravvenendo con ciò ai principi sanciti dalla costituzione. Comunità e gruppi religiosi senza distinzione sono tenuti sotto stretta sorveglianza dalla polizia e dai servizi di sicurezza.

Le minoranze cristiane, sciita e di altre religioni non tradizionali sono particolarmente bistrattate dalle autorità perché ritenute estranee ai valori turkmeni. Ma anche l’islam sunnita non se la passa bene. Il regime lo considera parte delle tradizioni nazionali, un po’ come l’allevamento dei cavalli, o l’arte dei tappeti, per cui lo accetta come elemento «folclorico», ma i fedeli non devono mostrare di essere troppo pii. La religione è vista come una pericolosa concorrente dello stato, cui solo spetta il primato nella lealtà dei cittadini. Quindi bisogna andarci piano con i segni dell’appartenenza religiosa. Ad esempio, la barba è tollerata per gli anziani perché legata alle tradizioni turkmene, ma è in genere mal vista ed è vietata a chiunque abbia un incarico pubblico e agli studenti.

Tutto ciò che può distrarre o costituire un’alternativa alla lealtà dovuta al presidente è guardato con sospetto. Il culto della persona del presidente viene prima di tutto, anche della religione. Nella grande moschea fatta costruire da Niyazov nel suo villaggio natale, Gypjak, ci sono iscrizioni tratte dal suo Ruhnama, il «Libro dell’anima», imposto a guida spirituale dei turkmeni. Quando i costruttori turchi si rifiutarono di fare quanto per un musulmano devoto è blasfemia, giacché sui muri di una moschea si possono scrivere solo frasi tratte dal Corano, Niyazov trasferì la commessa ai francesi.

A proposito dell’Età dell’oro. Se si pensa che sotto i piedi dei turkmeni ci sono enormi giacimenti di gas naturale e che la popolazione non arriva ai sei milioni, non parrebbe un grande sforzo garantire a tutti un’esistenza, se non ricca, quanto meno dignitosa. Eppure non è così. La corruzione diffusa e l’ottusità economica tipiche dei regimi autoritari hanno reso infruttuoso quel capitale, dilapidato in scelte irresponsabili, speculazioni, progetti megalomani e inutili che avevano come scopo l’auto esaltazione del regime e l’arricchimento dei suoi dirigenti. Nel paese rimangono ampie sacche di povertà, in molte località mancano i servizi essenziali.

Il regime ha prosperato grazie alle enormi rendite assicurate dalle esportazioni di gas. Da alcuni anni, però, quella che è la base di un’economia scarsamente differenziata ha cominciato a traballare. La Russia ha smesso di acquistare il gas turkmeno nel 2016; la Cina, rimasta quasi l’unico acquirente, lo paga a un prezzo molto ridotto per compensare le risorse spese nella costruzione del tratto turkmeno di un gasdotto che la collega con l’Asia Centrale. Così il regime si è trovato con poca liquidità tra le mani. La crisi di liquidità ha aperto la strada alla svalutazione del manat (la valuta turkmena) e all’inflazione. Sono state ridotte le importazioni anche di generi di prima necessità, che sono quindi spariti dai negozi o diventati molto cari. Se a ciò si aggiunge la disoccupazione, stimata tra il 50 e il 60%, i ritardi nei pagamenti degli stipendi o la loro decurtazione, si potrà capire che vivere nell’Età dell’oro non è sorte invidiabile.

Maria Chiara Parenzo

(1) Turkmenistan. Freedom of religion or belief, May 2016, Christian Solidarity Worldwide, pag. 8.

Note

(1) «Qanat» è parola araba e significa canale. «Kahriz» è parola persiana composta da «kah», paglia, e «riz», gettare. Si usava la paglia per controllare il movimento dell’acqua nel canale sotterraneo.

(2) Parole persiane: ab/ob significa «acqua», anbar «deposito», sard «freddo».

(3) Vedi R. A. Lewis, Early irrigation in West Turkestan, «Annals of the Association of American Geographers», 1965, vol. 56, n. 3, San Diego, California.

(4) A. Platonov, Gorjachaja Arktika, 1934.

(5) Turkmenistan: Issues and Approaches to Combat Desertification, June, 2003, p. vii (pdf reperibile in rete).

Archivio MC

Ultimo reportage di Maria Chiara Parenzo: Iran, Teheran, di lotta e di governo, aprile 2018.




Diario dal V Congresso missionario americano (Cam)


Lo scorso luglio, a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia, si è tenuto il quinto «Congresso missionario americano» (Cam V) con migliaia di partecipanti provenienti da 24 paesi. Si è parlato delle sfide della Chiesa cattolica nel continente in un ambito sempre più secolarizzato e pluriculturale. Il diario di quelle giornate e qualche riflessione.

Il congresso precedente si era tenuto a Maracaibo, in Venezuela, dal 26 novembre al 1° dicembre 2013. In esso, i missionari che operano nel continente americano erano stati invitati a condividere la loro fede e a riflettere sulla missione dal punto di vista del discepolato in un mondo secolarizzato e pluriculturale. Alla sua conclusione venne annunciato che l’edizione successiva si sarebbe svolta in Bolivia. E così è stato.

Dal 10 al 14 luglio scorso, nella città di Santa Cruz de la Sierra, si è tenuto il quinto Congresso missionario americano (Cam V) sotto il titolo di «America in missione, il Vangelo è gioia».

Ha coinvolto circa 3.150 partecipanti provenienti da 24 paesi tra cui circa 90 vescovi, 2 cardinali, 450 sacerdoti e 2.600 delegati oltre a 1.500 famiglie boliviane offertesi per ricevere i pellegrini.

Come si ricorderà, i Cam nacquero grazie all’ispirazione e alla promozione delle Pontificie opere missionarie in collaborazione con le Conferenze episcopali americane e rappresentano un’evoluzione dei Comla (Congressi missionari latinoamericani), il primo dei quali si tenne in Messico nel 1977.

CAM 5, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, luglio 2018: davanti alla cattedrale di San Lorenzo. Foto: Jaime Patias.

La cattedrale di San Lorenzo

Lo scenario per la messa inaugurale del Congresso non avrebbe potuto essere più suggestivo: il sagrato della cattedrale di San Lorenzo. Dalla sua facciata pendeva un manifesto con l’immagine della Beata Nazaria Ignacia (1889-1943), fondatrice delle missionarie Crociate della Chiesa che sarà canonizzata il 14 ottobre a Roma (insieme a Paolo VI e Oscar Romero, ndr).

Per la celebrazione eucaristica si sono riuniti vescovi, preti e due cardinali: il rappresentante pontificio Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, e il boliviano Toribio Ticona, indigeno quechua, recentemente nominato da Papa Francesco.

Dopo la lettura della lettera inviata dal pontefice e il protocollo di saluto, tipico di queste occasioni, è iniziata la messa, presieduta dal cardinale Filoni.

Durante la sua omelia, l’inviato del papa ha invitato il Congresso a «non perdere di vista il vero scopo della missione della Chiesa, che è quello di mettere Gesù al centro, con il nome e il cuore, altrimenti si corre il rischio di fare qualcosa di diverso, una semplice filantropia, che alla fine si rivelerà vuota e priva di credibilità».

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Testimoni e profeti

Il convegno ha il suo inizio vero e proprio l’11 luglio. Ogni mattina verso le 8 le diverse delegazioni si riunivano nell’auditorium del collegio Don Bosco dei salesiani. Bandiere, mantelli, canzoni e slogan riempivano gli spazi fino al momento della preghiera. Poi l’atmosfera cambiava di tono per lasciare posto alla preghiera del mattino incentrata su alcuni temi: «Il Vangelo è gioia» (mercoledì), «Per la riconciliazione e la comunione tra i popoli» (giovedì) e «Essere missionari testimoni ci rende profeti» (venerdì).

Piatto forte dei tre giorni sono state cinque lezioni magistrali. La prima è stata pronunciata da mons. Guido Charbonnea, vescovo della diocesi di Choluteca, Honduras, sul tema: «La gioia appassionante del Vangelo». L’arcivescovo Charbonnea ha esortato i membri del Congresso a «scoprire le chiavi che il messaggio cristiano ci mostra per arrivare alla felicità».

La seconda, intitolata «Annuncia il Vangelo al mondo di oggi», è stata proposta da mons. Santiago Silva, vescovo castrense e presidente della Conferenza episcopale del Cile. Con uno stile molto particolare e diretto, in piedi sotto il tavolo d’onore, il vescovo ha invitato a imitare Gesù ed evangelizzare attraverso la nuova identità cristiana perché «nel mondo di oggi è essenziale assumere un ruolo di testimonianza che richiede di dare segnali come il perdono, la solidarietà e la misericordia».

Il direttore dell’agenzia giornalistica Fides – Bolivia, padre Sergio Montes, ha sviluppato il tema «Testimoni discepoli di comunione e di riconciliazione». In questa terza conferenza il sacerdote ha detto che un mondo lacerato, frammentato e diviso reclama riconciliazione e una comunione che «esige l’esodo da sé per vivere l’incontro con l’“altro”, o l’“altra”, per riconoscerlo come fratello e sorella con un destino comune».

Con il suo stile personale, da queste parti conosciuto e apprezzato, mons. Luis Augusto Castro, arcivescovo di Tunja, in Colombia, ha presentato la quarta conferenza dal tema: «Profeta e missione». In essa l’arcivescovo di Tunja, ha spiegato cos’è un profeta, ha fatto un viaggio attraverso la vita e il ministero di alcuni dei profeti biblici, la loro sensibilità per le esigenze della giustizia e della misericordia, la loro opposizione all’idolatria e ai rivali di Dio concludendo che «il profeta interpreta i segni dei tempi dal punto di vista di Dio e della sua alleanza. La sua vita e la sua esperienza incarnano un nuovo modo di vedere gli altri, il potere e il sacrificio. Egli disegna un sistema di valori basato sulla consegna e sulla solidarietà. Vede con occhi nuovi».

L’oratore, inoltre, ha offerto ai partecipanti degli spunti che un missionario può seguire per diventare profeta. In questo senso ha sottolineato che il profeta non rimane in silenzio, anticipa, parla chiaramente, è un discepolo ed è giusto.

La quinta conferenza è stata tenuta da Vittorino Girardi, vescovo emerito di Tilarán – Liberia, Costa Rica, sul tema: «La missione ad gentes in e dall’America». Il vescovo ha detto che i missionari non possono separare i contenuti della missione e l’essere di Dio: «Gesù è una sola cosa e tutto vive in funzione di ciò che Egli è. E Gesù si autopercepisce come l’inviato e il missionario».

Nel pomeriggio, il Congresso si divideva in sottogruppi per confrontarsi sugli argomenti delle conferenze. Si sono poi realizzati quattro incontri su tematiche molto interessanti: «Comunicazione e Missione», «Missione e pastorale universitaria», «Nuove prospettive della missiologia» e «L’infanzia e l’adolescenza missionaria». Per continuare con questa dinamica, si sono tenuti 12 laboratori in cui si sono condivise esperienze di vita con giovani, bambini, famiglie, sulla cura per il Creato, sulle migrazioni, sugli altri. Un momento molto importante ha avuto luogo la mattina di sabato 14. La maggior parte dei partecipanti sono stati convocati presso le rispettive parrocchie ospitanti e da lì sono usciti a due a due per visitare le famiglie e annunciare loro la Parola di Dio.

Molti di loro ci hanno poi raccontato, un po’ divertiti, che alcune famiglie avevano esitato ad aprire la porta di casa perché non potevano credere che c’erano cattolici che predicavano nelle strade.

Gli obiettivi per il futuro

La messa conclusiva del Congresso si è svolta nel pomeriggio di sabato 14 luglio, presso l’altare di Cristo Redentore, preparato in occasione della visita del Papa (del luglio 2015, ndr). È stata presieduta da mons. Sergio Gualberti, arcivescovo di Santa Cruz.

Prima dell’inizio della messa, le conclusioni proposte sono state lette come obiettivi su cui lavorare in futuro. Li presentiamo qui di seguito in punti riassuntivi:

  1. educare alla gioia del Risorto e delle Beatitudini;
  2. andare nelle periferie del mondo per incontrare gli «altri»;
  3. incoraggiare la conoscenza della Bibbia e dei Vangeli;
  4. promuovere le comunità di vita missionaria;
  5. promuovere la comunione dei beni nella Chiesa e con i poveri;
  6. promuovere la riconciliazione in tutti gli ambiti della vita;
  7. promuovere la consapevolezza della missione profetica e liberatrice in tutte le sfere sociali;
  8. l’evangelizzazione della famiglia come chiave cristiana della trasformazione sociale e culturale;
  9. promuovere una Chiesa missionaria più ministeriale e laicale;
  10. promuovere e prendersi cura delle vocazioni alla vita sacerdotale e religiosa e, infine,
  11. celebrare la fede e la religiosità popolare in chiave missionaria.

A chiusura, l’arcivescovo Gualberti ha pronunciato un’omelia in cui ha ringraziato tutti coloro che hanno reso possibile l’incontro. Successivamente ha sviluppato il tema «Scalare la montagna del Signore». Il monsignore ha parlato chiaramente e ad alta voce dei problemi che affliggono il nostro mondo (riquadro a pagina 27).

Alla fine dell’Eucaristia, mons. Gualberti ha imposto la croce missionaria a quattro persone, tra cui una coppia che lavorerà a Cuba. È stato anche annunciato che Puerto Rico ospiterà, nel 2023, il prossimo Congresso missionario americano.

Lavori di gruppo al Cam V

Gli aspetti negativi e quelli positivi del Cam V

Fin qui la cronaca. Anche questa volta – però – a parere dello scrivente si è ripetuto il copione dei congressi precedenti: slogan assordanti, simboli logori per la loro ripetitività, celebrazioni eucaristiche da una parte rigide e «romane» e dall’altra cariche di simboli più folkloristici che liturgici, processioni di doni che dovrebbero essere spiegati stante l’impossibilità di parlare da sé, i tentativi (per lo più infruttuosi) di sottolineare il tema della «missio ad gentes» per molti – tra cui molti pastori – passata di moda. E la lista potrebbe continuare.

Inoltre, anche se in questa occasione si è cercato d’introdurre in maniera più consistente il tema del ruolo delle donne nella Chiesa, a nessuna è stata affidata una lezione magistrale. E sì che ci sono donne preparate a livello teologico e pastorale.

Evidenziati questi punti negativi, va però detto che, fortunatamente, sono state di più le cose positive. La scelta della Bolivia come paese ospitante, nonostante tutte le sue difficoltà; la lunga preparazione; l’impegno delle Chiese locali nello scegliere e mandare persone che garantissero la continuità del cammino aperto dal Cam V; l’accoglienza di parrocchie, cappellanie, rettorie e comunità religiose, tutti soggetti che si sono anche incaricati di trovare le famiglie ospitanti.

Proprio queste si sono trasformate in un’estensione dell’abitazione di ogni partecipante dove tutti si sentivano come a casa: tutti benvenuti, anche oltre le possibilità. A causa della ristrettezza degli spazi disponibili molte famiglie hanno ceduto la migliore camera, il letto migliore e anche il migliore cibo. In molti hanno fatto in modo di essere (a volte a tarda notte) in aeroporto in attesa dei propri missionari.

Bello, caldo ed efficiente è stato il servizio fornito da centinaia di volontari (medici, paramedici, infermieri, polizia stradale, funzionari di migrazione…), per lo più giovani.

Contagiosa la testimonianza dei missionari e missionarie laici, tra cui alcune intere famiglie con esperienze di missione fino a 30 anni in situazioni difficili e di povertà.

Sono stati molti i partecipanti che, per raggiungere la destinazione, hanno dovuto fare giorni e giorni di strada e voli estenuanti a causa di itinerari con soste infinite. Per alcuni un volo che, in condizioni normali, poteva durare un massimo di 8 ore è durato fino a 24.

Abbondano dunque le ragioni per affermare che valeva la pena di essere a Santa Cruz, in Bolivia, al Congresso missionario americano dove abbiamo trovato una buona parte di quella chiesa pasquale e missionaria che sta prendendo sul serio l’invito di Papa Francesco a uscire e andare nelle periferie esistenziali per comunicare la gioia del Vangelo.

Jorge García Castillo
(traduzione e adattamento di Paolo Moiola)


L’intervento finale

Scalare la montagna

La sintesi del discorso di chiusura di mons. Sergio Gualberti, arcivescovo di Santa Cruz de la Sierra e presidente del Cam V.

Mons. Sergio Gualberti, CAM 5, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, luglio 2018. Foto: Jaime Patias.

Come cattolici siamo chiamati a scalare la montagna della solidarietà, della giustizia e della vita, una vita degna per tutti i figli di Dio per superare la povertà, che ancora mantiene in condizioni disumane troppi fratelli e sorelle nel nostro continente. La povertà è il risultato di un sistema ingiusto e mercantilista in cui l’economia è al di sopra dell’uomo e arricchisce i ricchi a spese dei poveri, una moltitudine di poveri sempre più poveri. Un sistema che scarta gli anziani, i bambini, gli orfani e gli abbandonati come tanti fratelli indifesi; un sistema che discrimina le donne, in particolare le madri single e sole.

Scalare la montagna della fraternità e dell’uguaglianza camminando insieme a tante e grandi persone che lasciano i nostri paesi e cercano una patria che garantisca condizioni di vita dignitose per loro e le loro famiglie e che invece si scontrano contro i muri della xenofobia e della vergogna. Muri che separano i bambini dai loro genitori e che discriminano a causa delle loro origini e condizioni personali e sociali. Muri da demolire per costruire ponti di umanità, fraternità e solidarietà.

Scalare la montagna della pace per contrastare nei nostri paesi la corsa alle spese militari e coloro che credono nella logica del più forte, che promuovono l’odio e la paura e la diffidenza tra i nostri popoli, tagliando le risorse che servirebbero per creare posti di lavoro, per superare la povertà e attuare politiche sociali al servizio di tutti, specialmente degli ultimi e degli emarginati. «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (Isaia 2,4).

Scalare la montagna dell’amore e del matrimonio accompagnando le famiglie a stabilirsi nella casa del Signore, in cui esse si ritrovano come chiese domestiche, come luoghi fondati sulla fede, l’amore, la comunione, la riconciliazione e il perdono, e come sacrari di vita e scuole di umanizzazione. Le nostre famiglie che spesso camminano senza meta, colpite nella loro integrità a causa della povertà, delle migrazioni, delle separazioni e dei divorzi e costantemente molestate da correnti ideologiche colonizzatrici che mettono in discussione l’identità stessa della famiglia basata sull’amore esclusivo e fedele fino alla morte tra un uomo e una donna aperti alla vita e all’educazione dei bambini secondo i valori del Vangelo e delle nostre culture indigene.

Scalare la montagna della luce e della verità come cristiani consacrati alla verità del Signore smascherando le menzogne e gli errori della cultura individualista e relativista che è alla base della società dei consumi. Società in cui il consumo di beni superflui e lo sfruttamento irrazionale e indiscriminato delle risorse naturali hanno causato ferite mortali alla nostra sorella la madre terra, e le cui prime vittime sono i nostri fratelli indigeni privati del loro habitat vitale.

Scalare la montagna della comunione della nostra Chiesa dove tutti mettiamo i nostri carismi al servizio della comunità e del Regno di Dio. Dove i ministeri laici, in particolare delle donne, siano riconosciuti e trovino lo spazio che compete loro dal battesimo.

Scalare la montagna della riconciliazione e del perdono per percorrere i sentieri della conversione sincera della nostra Chiesa davanti alle infedeltà, le divisioni, le gelosie e contro testimonianze di tanti dei suoi figli che scandalizzano il mondo.

Uniti e riconciliati, dobbiamo camminare insieme come un unico popolo di Dio, testimoniando una comunione sincera e profonda che è il primo servizio alla missione in modo che il mondo sappia chi ci ha mandato.

[…] «Come mi hai mandato nel mondo, anch’io ti mando nel mondo in modo che la tua voce e le tue parole si diffondano in tutta la terra fino ai confini del mondo». Accogliamo con entusiasmo e gioia la sfida che il Signore lancia a tutti e a ognuno di essere profeti della Sua Parola, il Verbo della vita, della giustizia e dell’amore senza essere intimiditi dalle nostre debolezze, difficoltà e incomprensioni, e così sperimentare quanto belli sono i piedi di coloro che annunciano il Vangelo nella nostra America e oltre il nostro continente. […]

mons. Sergio Gualberti
(trascrizione di Lourdes González,
(traduzione e adattamento di Paolo Moiola)

CAM 5, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, luglio 2018. Foto: Jaime Patias.


La testimonianza

È finito il tempo dei navigatori solitari

Le riflessioni del superiore generale dei missionari della Consolata, al suo primo Cam.

Prima di tutto mi piace sottolineare che il quinto Congresso missionario americano (Cam V) – il primo a cui io ho partecipato – è stato un’esperienza ricchissima di Chiesa. Al Congresso hanno partecipato giovani e meno giovani, sacerdoti, vescovi, religiosi, religiose, seminaristi e laici di tutto il Continente e anche da altri paesi. Qui ho sentito davvero che la Chiesa è universale ed è madre perché raccoglie tutti i suoi figli e figlie provenienti da ogni parte e dà ad ognuno la possibilità di sentirsi famiglia e poter sviluppare tutti i propri doni e qualità. In quelle giornate abbiamo respirato la missione e capito – sia dalle parole che dai segni – che senza missione non c’è Chiesa, non c’è Vangelo.

In secondo luogo, mi piace sottolineare la dimensione della gioia, della festa. Lo slogan del Congresso era: «Annuncia la gioia del Vangelo». L’America è viva, piena di giovani e di voglia di ballare, di vivere di stare assieme. La gioia è una caratteristica di questi popoli e culture e al Congresso essa si è manifestata in tutte le sue forme. Davvero la Chiesa deve recuperare questa dimensione gioiosa della fede. Credo che per troppo tempo abbiamo predicato una fede di rinuncia e sacrificio: è giunta l’ora di predicare la gioia di essere cristiani e di annunciarla con tutta la nostra forza cantando e celebrando la vita.

Il nostro Fondatore, il Beato Guseppe Allamano, diceva che un missionario deve essere gioioso e che questa gioia nasce dalla fede, dal sentirsi vicini al Signore. È questo che a Santa Cruz de la Sierra è stato ripetuto affinché ognuno di noi lo custodisse nel proprio cuore come tesoro prezioso per portarlo nel proprio ambiente dove annunciare la gioia del Vangelo. Infine, mi piace condividere alcuni punti che possono essere importanti anche per il nostro percorso di missionari della Consolata.

Al Congresso, in diverse forme, è stato ripetuto che oggi la missione non si può più fare da soli, che dobbiamo aprirci e collaborare con tutte le forze che vogliono viverla, primi fra tutti i laici. Come ci ha insegnato la Redemptoris Missio, la missione non è opera di navigatori solitari, ma di discepoli missionari aperti, sensibili e solidali.

In secondo luogo, in diverse maniere è stato ripetuto che la missione è il paradigma della Chiesa, ma che essa è anche più grande della Chiesa perché va oltre, grazie a tutte le sue persone che cercano e lavorano per il bene dell’umanità. Siamo umili servitori, insieme a tanti altri conosciuti e sconosciuti, della presenza del Regno e questa è la nostra gioia e la nostra forza.

Per ultimo, credo che il Congresso missionario di Santa Cruz de la Sierra ci abbia ricordato che il cammino di rivitalizzazione e ristrutturazione in una visione di missione continentale, che come Istituto abbiamo iniziato, sia in sintonia con quanto sta vivendo la Chiesa: che se, da una parte, essa deve lanciarci in una missione contestualizzata, dall’altra non deve farci dimenticare la sua dimensione universale. Perché siamo persone appartenenti a tutta l’umanità, nonché fratelli di tutti i popoli e di tutte le culture.

Stefano Camerlengo

Padre Camerlengo tra i concelebranti


Missionarie, missionari e laici della Consolata presenti al Cam V:

  • Sr. Maria Conceição Nascimento da Silva
  • Sr. Emma Eganda
  • Sr. Hannah Wambui Ndung’u
  • Sr. Marisa Soy
  • P. Stefano Camerlengo
  • P. Jaime C. Patias
  • P. Micarnel Mutinda Munywoki
  • P. Robério Crisóstomo da Silva
  • P. Stephen Gichohi Ngari
  • P. Stanslaus Joseph Mnyawami
  • Mons. Luis Augusto Castro
  • Mons. Francisco Munera
  • Ugo Gomes
  • Mariana Gomes
  • Jose Luis Andrade
  • Danmary Mujica

CAM 5, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, luglio 2018. Foto: Jaime Patias.




Corea del Nord: Forse è iniziata una nuova era


Corea del Nord e Usa. Il tanto declamato incontro tra Donald Trump e Kim Jong Un è stato possibile per il grande lavoro diplomatico del presidente sudcoreano Moon Jae-in. La denuclearizzazione della Corea del Nord non è un programma di poco conto e richiede vari passaggi. Senza trascurare la circostanza che gli Stati Uniti mantengono in Corea del Sud 28.500 militari, che non piacciono né a Pyongyang né a Pechino. L’analisi (alternativa) del nostro Piergiorgio Pescali presente al summit di Singapore.

Una «nuova era, l’era della cooperazione tra Dprk e Usa si è aperta». Queste parole, forse fin troppo ottimiste, non provengono da comunicati diplomatici, quasi sempre inutili nella loro tendenza ad amplificare il successo di qualsiasi evento internazionale, ma da una fonte inaspettata: il Rodong Sinmun, il quotidiano del Comitato Centrale del Partito dei Lavoratori di Corea. Il 13 giugno 2018 il giornale nordcoreano, come tutti i mezzi di comunicazione del paese strettamente controllato dal governo, riassumeva – in ben quattro pagine – i risultati del summit tenutosi a Singapore tra Kim Jong Un e Donald Trump illustrando il tutto con 33 fotografie. Ma le sorprese non finiscono qui: per la prima volta nella loro storia i nordcoreani potevano leggere che lo stesso Grande Leader aveva «elogiato la volontà e l’entusiasmo del presidente (Trump, ndr) nel risolvere le divergenze in modo realistico attraverso il dialogo e i negoziati, lontano dalle ostilità che si erano create nel passato». Una dichiarazione sbalorditiva e sicuramente inattesa in un paese dove gli Stati Uniti sono visti come il perenne e principale pericolo per la sopravvivenza del suo popolo.

il presidente della Corea del Nord (a sinistra) con quello della Corea del Sud durante il loro secondo incontro (26 maggio 2018) nella zona demilitarizzata che divide le due Coree. Foto: The Blue House / AFP.

Il contributo di Moon Jae-in

La dichiarazione di Singapore è composta da quattro punti programmatici che delineano la strada da seguire per completare
il processo di pace e stabilire relazioni diplomatiche. Ad essa si è arrivati dopo lunghe e sofferte trattative, ma il punto di svolta lo si era avuto con l’elezione di Moon Jae-in alla presidenza della Repubblica di Corea (dal 10 maggio 2017, ndr). È stato questo avvocato e attivista dei diritti umani, figlio di profughi nordcoreani trasferitisi al Sud alla fine del 1950, arrestato negli anni Settanta per aver partecipato a manifestazioni studentesche contro la costituzione Yushin che dava pieni poteri all’allora presidente Park Chung-hee, a mediare tra le diplomazie statunitensi e nordcoreane riaprendo la via ad un dialogo che appariva impossibile. Già fautore della Sunshine Policy avviata da Kim Dae-jung (presidente dal 1998 al 2003, ndr) e perseguita da Roh Moo-hyun (presidente dal  2003 al 2008, ndr), con cui ha collaborato organizzando l’incontro del 2007 con Kim Jong Il, Moon Jae-in è sempre stato convinto che l’unica soluzione possibile per pacificare la penisola coreana fosse il dialogo. Così, quando nel maggio 2017 la disastrosa amministrazione di Park Geun-hye, caratterizzata da scandali e dalla politica del confronto muro-contro-muro con il Nord ebbe termine, Moon iniziò, o meglio, riprese, la linea di apertura ufficialmente interrotta nel novembre 2010 dal ministro dell’Unificazione sudcoreano.

Da allora Seoul e Pyongyang si sono confrontate a livelli diplomatici sempre più alti e neppure il test termonucleare del settembre 2017 seguito dal lancio del missile intercontinentale Hwasong 15 a novembre, sono riusciti a impedire che il 27 aprile 2018 (e poi il 26 maggio, ndr) Kim Jong Un entrasse nella Corea del Sud garantendosi un posto nella storia varcando, primo leader della Corea del Nord, il confine segnato dall’armistizio del 1953.

Da quell’incontro Moon ha lavorato indefessamente affinché il dialogo non si arenasse, come invece era accaduto con la Sunshine Policy, riuscendo anche a convincere Trump a ritirare la lettera inviata il 25 maggio in cui diceva di voler annullare il summit di Singapore.

Nel frattempo, Kim Jong Un teneva fede alla parola data chiudendo il sito di test nucleari di Punggye-ri, l’area dove sono state fatte scoppiare tutte le sei bombe nucleari, di cui l’ultima termonucleare, che tanto hanno scosso l’opinione pubblica fino a far ipotizzare a chi è meno attento alle questioni della penisola, lo scoppio di una guerra.

La dismissione di Punggye-ri, pur con tutti i dubbi sollevati dal rifiuto da parte nordcoreana di invitare esperti internazionali che installassero strumenti di monitoraggio in continuo, è stato un primo passo per iniziare un dialogo con gli Stati Uniti.

È stato questo lavoro di concerto tra Kim e Moon a permettere l’incontro di Singapore.

Giovani nordcoreane si esercitano per la parata sulle rive del Taedong, a Pyongyang. Foto: Tobias Nordhausen.

Come fare per accontentare tutti gli attori

Ora, però, la questione principale che ci si pone è quale denuclearizzazione sarà possibile in Corea del Nord? Il termine denuclearizzazione è di per sé molto vago e lascia spazio a innumerevoli interpretazioni. Gli Stati Uniti vorrebbero un disarmo nucleare completo, verificabile e irreversibile, il cosiddetto Cvid (Complete, Verifiable and Irreversible Dismantlement) così come descritto nella risoluzione 2.270 del 2016 delle Nazioni Unite. In questo documento si legge che la «Repubblica democratica popolare di Corea dovrà abbandonare tutti i programmi nucleari e abbandonare la produzione di armi nucleari in maniera completa, verificabile e irreversibile cessando immediatamente ogni attività ad essa correlata». Ma le incomprensioni tra Pyongyang e Washington sono spesso causate alla diversa interpretazione dei termini. Per gli asiatici la denuclearizzazione comprenderebbe anche la completa rimozione dei 28.500 militari statunitensi oggi stanziati in Corea del Sud. Per gli statunitensi, invece, almeno sino al vertice di Singapore, questa opzione non è mai stata contemplata. Anzi, il terrore della Cina è proprio quello di trovarsi i propri confini presidiati da truppe del Pentagono nel caso la Corea del Nord si avvicini troppo agli Usa.

Una soluzione che potrebbe accontentare entrambe le parti sarebbe il congelamento (e non lo smantellamento) del programma nucleare e missilistico di Pyongyang. Dopotutto Kim Jong Un ha già affermato di aver raggiunto il suo scopo con il lancio dell’Hwasong-15 nel novembre 2017 e lui stesso ha indicato come non improbabile una sospensione delle ricerche in campo atomico e missilistico. Il congelamento sarebbe un modo per accontentare tutti gli attori regionali: la Corea del Nord non sarebbe costretta per forza di cose a denuclearizzare per prima esponendo così il proprio lato debole al nemico; gli Stati Uniti, invece, avrebbero la garanzia che la nazione asiatica non perfezioni ancor più la sua tecnologia e non accresca di altre bombe termonucleari il proprio arsenale. Per la Corea del Sud, dal canto suo, si aprirebbe una nuova stagione di dialogo, una sorta di Sunshine Policy II, accrescendo il peso politico ed economico della nazione nella regione e garantendo a Moon Jae-in l’approvazione non solo dell’elettorato, ma anche dei potenti chaebol (i grandi conglomerati industriali controllati da un proprietario o da una famiglia, ndr). Il Giappone, sebbene non veda completamente soddisfatte le sue richieste di estinzione di pericolo nucleare e chimico-batteriologico provenienti dalla Corea del Nord, avrebbe però una nuova chance per riaprire il negoziato sui rapimenti dei propri cittadini avvenuti negli anni Ottanta, avendo al tempo stesso la riassicurazione di Washington di proteggere l’arcipelago con i propri sistemi antimissile. La Cina, che più di tutti teme un cambiamento dell’equilibrio di forze a favore degli Usa, verrebbe compensata dall’apertura di un mercato di 100 milioni di potenziali consumatori, 25 dei quali altamente affamati di nuovi prodotti. Attualmente le esportazioni cinesi sono frenate a Nord dall’embargo delle Nazioni Unite e a Sud dalla barriera del 38° parallelo.

Kim Jong Un e Donald Trump nel porticato del Capella Hotel di?Singapore. Foto: Kevin Lim / The Straits Times /Handout/Getty Images.

Lo scoglio nucleare e missilistico

Anche nel caso la Corea del Nord accettasse di interrompere i propri test nucleari e missilistici, le parti in causa dovranno comunque sedersi a un tavolo delle trattative per individuare modi e tempi per ottemperare alle proposte.

Pyongyang potrebbe sospendere i test dei soli missili intercontinentali, quelli che più impensieriscono gli Stati Uniti, ma non quelli a corto e medio raggio, capaci di raggiungere ogni punto del Giappone. Potrebbe anche non includere il programma spaziale che, seppur formalmente sia solo un programma civile, ha comunque implicazioni militari, come ben sanno gli stessi Stati Uniti. Anche nel caso si raggiungesse un accordo sul bando dei test missilistici Icbm (Intercontinental Ballistic Missiles, missili balistici intercontinentali), Pyongyang potrebbe continuare a sviluppare studi in laboratorio sui motori a combustibile liquido e, a seconda degli accordi che si andranno a sottoscrivere, le ricerche correlate ai missili imbarcati sui sottomarini. Dato che i test sui Icbm devono passare attraverso lo sviluppo dei missili Srbm (Short Range Ballistic Missiles, missili balistici a corto raggio) e sui motori a combustibile liquido, sarà molto probabile che gli Stati Uniti chiederanno la sospensione totale di questi esperimenti.

Alla Corea del Nord potrebbe anche venir chiesto di rientrare nel Ctbt, il «Trattato per il bando totale degli esperimenti nucleari» (Comprehensive Test-Ban Treaty) da cui era uscita il 10 gennaio 2003. Nel caso il paese accetti, sarà obbligato ad aprire i suoi siti di ricerca e di produzione a ispezioni internazionali, le quali potrebbero intervenire senza lungo preavviso nel caso vi siano prove di violazione del trattato. Inoltre, i tecnici del Ctbt sarebbero autorizzati ad installare strumenti di controllo in remoto nelle aree più delicate, incluse quelle ritenute segrete, che possano ravvisare eventuali attività non autorizzate. La rivelazione agli Stati Uniti o a parti terze delle proprie basi segrete, i centri di produzione missilistica e nucleare, le rotte, legali o no, attraverso cui i militari si riforniscono per i propri programmi, sarebbe sicuramente la fase più delicata: Pyongyang potrebbe vederla come il punto di non ritorno perché taglierebbe in modo pressoché definitivo ogni futuro sviluppo del paese in senso militare.

Kim Jong Un al centro tra Vivian Balakrishnan (autore del selfie) e Ong Ye Kung, ministri di Singapore. Foto: Vivian Balakrishnan.

Sanzioni e sviluppo economico

Questo calo delle difese da parte di Pyongyang, considerato critico e pericoloso da parte della leadership nordcoreana, dovrebbe essere a sua volta accompagnato da ampie assicurazioni da parte di Washington e dei suoi alleati che, una volta esposta e indifesa, la Corea del Nord non verrà attaccata in alcun modo, non solo militarmente, ma anche con ritorsioni economiche, politiche e di altro genere. Nei suoi comunicati ufficiali, Pyongyang ha sempre considerato le ritorsioni economiche come delle vere e proprie dichiarazioni di guerra e di questi collegamenti si dovrà tener conto quando le parti si siederanno di nuovo al tavolo delle trattative. La sospensione delle esercitazioni militari, dei voli dei bombardieri e la navigazione di portaerei e sottomarini nel Mar Giallo e nel Mar del Giappone, auspicate per la prima volta quest’anno da parte di Trump subito dopo il vertice di Singapore, dovrebbero risultare permanenti, possibilmente accompagnate da un patto di non aggressione, mentre la Cina (ed eventualmente la Russia) potrebbe proporsi come garante nella protezione militare di Pyongyang.

È anche impensabile cancellare il programma sino a quando non si instaureranno le condizioni per sopperire alle falle energetiche e finanziarie che ora vengono parzialmente colmate dal nucleare. L’economia nordcoreana ha estremo bisogno di elettricità. Le centrali che alimentano le industrie e le abitazioni civili sono vetuste e hanno urgente bisogno di essere rinnovate. L’embargo imposto dalle Nazioni Unite impedisce al paese di importare pezzi di ricambio così come il petrolio, e l’unica fonte di approvvigionamento rimangono le miniere di carbone la cui estrazione è fortemente rallentata da macchinari antiquati e da continui incidenti. In questa situazione i black out energetici sono frequenti, rallentando la produzione economica e costringendo la popolazione a fare i conti con improvvise interruzioni delle attività quotidiane. Se a Pyongyang e nelle altre città la situazione è ancora sostenibile, nelle campagne è, invece, più seria. Per far fronte alla carenza di energia elettrica quasi ogni casa nordcoreana ha pannelli solari che permettono il funzionamento degli elettrodomestici e dei macchinari meno energivori.

La società nordcoreana si sta sempre più dividendo in due, tra chi abita in città ed è testimone di mutamenti sempre più repentini e chi, invece, vive nelle campagne, dove la vita scorre più lineare e le riforme economiche e sociali si materializzano sotto forma di mercatini privati, commercio con il mercato nero, disoccupazione.

Se il trio Kim-Moon-Trump è riuscito a portare una nuova speranza di pace e sviluppo nella storia della penisola coreana, ora i nordcoreani aspettano fiduciosi un nuovo boom economico che permetta loro di migliorare le proprie condizioni di vita.

Piergiorgio Pescali


Il presidente nordcoreano a Singapore

Un selfie con Kim

Il comportamento di Kim Jong Un è molto diverso da quello dei suoi predecessori: il padre Kim Jong Il e il nonno Kim Il Sung. In questo cambiamento è stato aiutato anche dalla sorella Kim Yo Jong. A Singapore, il presidente nordcoreano è stato più «mediatico» del presidente Usa.

Il summit di Singapore si può riassumere in due foto particolarmente emblematiche: la prima è il selfie che il ministro degli Esteri singaporeano Vivian Balakrishnan ha scattato assieme al collega della Pubblica Istruzione Ong Ye Kung con un sorridente Kim Jong Un in mezzo a loro. La foto, fatta con un cellulare, è in assoluto il primo selfie del leader nordcoreano ed è stata scattata nel Gardens by the Bay durante il tour che ha portato Kim e l’ormai inseparabile sorella Kim Yo Jong allo Sky Park del Marina Bay Sands. Il ritratto mostra, forse più di ogni altra immagine, il nuovo corso che il Grande Leader vuole imprimere alla Corea del Nord. Non più immagini costruite e stereotipate come quelle che, per anni, hanno contraddistinto il padre e il nonno; per la prima volta questo selfie ha mostrato il Kim quotidiano, genuino, perfettamente a suo agio in un ambiente a lui estraneo, ma che sente come amico. L’estemporaneità della postura è perfettamente in linea con la nuova politica intrapresa dal leader nordcoreano sin dai primi giorni del suo governo. Una politica che, a differenza del padre, lo ha portato a stretto contatto con il popolo: le apparizioni del Grande Leader, rare durante il periodo di Kim Jong Il, si sono fatte sempre più frequenti e alla severità del padre si è sostituito il sorriso del figlio, sicuramente impresso nel suo carattere, ma dettato anche dal nuovo stile costruito dalla sorella, non per nulla vice direttrice del dipartimento di Propaganda e che esprime un senso di sicurezza ad una nazione stremata da anni di chiusura e di embarghi politici e economici.

Di Singapore Kim Jong Un ha apprezzato la pulizia e l’architettura degli edifici, «che ricordano la storia e il passato» aggiungendo di «aver imparato molto dall’esperienza fatta nella città-stato e che sarà utile per il futuro» del suo paese. Il panorama notturno che Kim ha osservato dallo Sky Park del Marina Bay Sands lo ha impressionato tanto da auspicare una trasformazione simile anche per la sua Pyongyang.

La seconda fotografia che racchiude la sintesi del summit ritrae Kim Jong Un e Donald Trump di spalle a tre quarti che camminano lungo il porticato che si affaccia sul giardino del Capella Hotel. Kim sta parlando a Trump sorridendo mentre, con la mano destra appoggiata all’altezza del gomito del braccio sinistro di Trump, accompagna il presidente Usa. L’immagine è emblematica perché racchiude la sintesi dei colloqui tra i due capi di stato. Kim ha il sopravvento su un Trump che, pur continuando a ricoprire la figura del borioso e dello spaccone, si lascia guidare dal collega nordcoreano sottomettendosi, almeno in parte, alle sue volontà. I due sembrano prendere confidenza l’uno con l’altro prima di avanzare verso un futuro che appare luminoso con le palme sullo sfondo. E tra loro è Kim Jong Un che guida il percorso e incoraggia il collega. Un ribaltamento di ogni prevedibile situazione: a Singapore non sono stati gli Usa a condurre i giochi, bensì la Corea del Nord. Seguendo Kim nel suo tour a Singapore, il bagno di folla e le inaspettate ovazioni a lui riservate hanno mostrato che, almeno in questa città, il leader nordcoreano è visto in modo diametralmente opposto rispetto a come è stato descritto in Occidente. Per contro il presidente statunitense è stato snobbato ed era chiaro che si sentisse un pesce fuor d’acqua al di là del contesto mediatico del Capella Hotel.

Sicuramente questo modo di vedere ha a che fare con gli storici legami politici e economici che Singapore ha avuto con la Corea del Nord a cui si aggiungono le simpatie personali tra Lee Kuan Yew (morto nel 2015, ndr) e con Kim Il Sung (morto nel 1994, ndr), fondatori, padri-padroni autoritari dei rispettivi stati. Lee Kuan Yew e Kim Il Sung condividevano l’assolutismo, il rigore e un’idea differente dei diritti umani, basati su una «visione asiatica» che predilige il diritto sociale a quello individuale.

Piergiorgio Pescali

 

 




Sud Sudan: L’ennesimo processo di pace per il conflitto più cruento


È la guerra civile più efferata degli ultimi tempi. Ma anche la più dimenticata. In 5 anni ha ucciso tra le 50 e le 300mila persone, ha prodotto oltre 3,5 milioni di sfollati e 5 milioni a rischio fame. È stato fatto uso massiccio dello stupro e di violenze anche su minori, disabili, anziani. Da alcuni mesi una mediazione internazionale sta cercando di portare le tante fazioni in conflitto alla firma di una pace duratura. Riuscirà il petrolio dove il buonsenso ha fallito?

È il 5 agosto 2018. A Khartum, capitale del Sudan, Omar al Bashir, controverso presidente (accusato dalla Corte penale internazionale di crimini contro l’umanità) e mediatore, ottiene la firma di un accordo di pace «provvisorio» tra le fazioni in guerra (civile) nel Sud Sudan. Questo è lo stato più giovane del mondo, si è diviso dal Nord il 9 luglio del 2011. «È come se il loro ex presidente fosse riuscito a imporsi per farli firmare», dice qualcuno. Presenti alla firma pure i presidenti di Kenya, Uganda e Gibuti, oltre che diversi corpi diplomatici. Salva Kiir Mayardit (presidente del Sud Sudan) e il suo acerrimo nemico Riek Machar (primo tra i ribelli), insieme a tutte le altre fazioni in conflitto in Sud Sudan, firmano. Ma il processo di pace non inizia e non finisce qui. Il 27 giugno è stata firmata la «Dichiarazione di Khartum», che doveva essere un cessate il fuoco tra tutte le parti, mentre il 25 luglio è stato siglato un accordo preliminare.

I presidenti lasciano la capitale del Sudan mentre i tecnici mettono a punto l’accordo reale e definitivo. Molti sono gli aspetti da definire sulla sua applicazione.

Ma ora cosa succederà? Riuscirà il più giovane paese dell’Africa, sconvolto da cinque anni di guerra cruenta a pacificarsi? A guardare il video – divenuto virale – che mostra Machar porgere la mano a Kiir e questo che abbassa la testa senza ricambiare il gesto, qualche dubbio ci assale.

A fine agosto arriva la notizia che Machar e i leader del Ssoa (South Sudan Opposition Alliance) non vogliono firmare l’accordo definitivo, che non prenderebbe in considerazione alcune loro richieste su divisione in stati, quote etniche del governo e meccanismi di modifica della Costituzione. Poi, nelmomento in cui scriviamo, Machar dichiara di voler firmare, perché confida che la mediazione sudanese sia garante delle loro rivendicazioni.

AFP PHOTO / SUMY SADURNI

Una storia breve

Dopo l’indipendenza dal Sudan, nel 2011, viene creato un governo in cui Kiir è presidente e Machar il suo vice. Subito però riaffiorano le antiche rivalità tra i Dinka, etnia maggioritaria (circa 4 milioni) tra i 64 gruppi etnici sudsudanesi (12,5-13 milioni in tutto), e Nuer la seconda etnia per dimensione (un milione). Nel 2013 il dinka Kiir accusa il nuer Machar di essere artefice di un complotto per rovesciarlo e scoppia la guerra tra le due principali fazioni, che poi si moltiplicheranno.

Nell’agosto 2015 le parti firmano un accordo simile a quello di oggi, che porta a un governo transitorio, in cui Machar è ancora vice presidente (si veda MC maggio 2017). Accordo poi fallito pochi mesi dopo, con Machar che fa una vera «chiamata alle armi» contro i Dinka al potere, chiedendo a tutti i sudsudanesi di combatterli. Operazione che non piace ai paesi della regione e alla comunità internazionale, che invece hanno interesse a stabilizzare il Sud Sudan.

Una poltrona per cinque

I dubbi sulla firma del 5 agosto restano, perché i nodi cruciali non sono stati risolti. I punti fondamentali dell’accordo sono i seguenti: Salva Kiir rimane presidente, mentre Riek Machar ridiventa vicepresidente. Ma ci sono già due vice, ovvero James Wani Igga (di etnia bari), che aveva sostituito lo stesso Machar nel 2013, e Taban Deng Gai, nuer, messo nel 2015 perché rappresentava l’opposizione, la quale però non l’ha mai riconosciuto. A questo punto Machar potrebbe rientrare come primo vicepresidente, mentre se ne aggiungerebbero altri due, in modo da accontentare tutte le fazioni. In particolare i Dinka legati alla famiglia di John Garang (il leader carismatico morto misteriosamente nel 2005), che si dissociano dalla gestione di Kiir di questi anni e i Silluk (si fa il nome di Lam Akol, già alto ufficiale dell’Spla, poi ministro del Sudan e quindi fondatore della fazione Splm – democratic change).

«Sono tutte persone molto speciali e difficili, con delle storie un po’ strane. Lo stesso Salva Kiir, che pure non è un santo, si chiede come farà mai a governare con questi cinque vice presidenti», confida un osservatore.

Si dovrebbe formare un governo di pre transizione che durerebbe in carica alcuni mesi, con lo scopo di creare un parlamento e un nuovo governo di transizione della durata di tre anni, nei quali i seggi e gli incarichi sarebbero contingentati per etnia. Si tratta di fatto di un accordo di condivisione del potere, che però non prevede meccanismi o programmi, ma solo divisione di posti.

Jason Patinkin/IRIN

I nodi sul tappeto

Uno dei principali punti controversi dell’accodo è quello della sicurezza, da garantire per tutti. Intimamente legato alla creazione di un esercito unico, come vorrebbe il governo. Oggi ci sono una moltitudine di eserciti e di gruppi armati, ognuno legato a una fazione o meglio a un leader. Lo stesso Spla (esercito governativo) è diviso al suo interno. Ma come integrare tutte queste milizie? Sarebbero tanti i militari da mandare a casa, in particolare ufficiali e generali.

Ogni gruppo si garantisce la sicurezza con il suo esercito. Ad esempio, Machar che da anni vive in esilio, per tornare a Juba in sicurezza dovrebbe portarsi il suo esercito, come già successo nel 2016, creando tensioni con l’esercito governativo.

L’altro punto è la suddivisione territoriale, che l’attuale governo vuole portare a 32 stati. Dai 10 stati suddivisi in 86 contee del 2011, si è passati nel 2015 a 28 stati teorici. L’operazione sembra fatta più che per organizzare lo stato, per garantire ulteriori posti di potere da suddividere tra le fazioni. Il problema è che il paese rischia di diventare ancora più ingovernabile.

«Ci sono situazioni molto diverse. È un paese al quale non riesci a dare un’identità». Ci racconta una cooperante che è in Sud Sudan da tre anni e ha avuto modo di viaggiare in diverse zone.

«Nel Nord gli stati Unity, Jonglei, Upper Nile, sono popolati da tribù nomadi, dedite alla pastorizia. Ci sono i problemi di furti di bestiame e delle inondazioni. Sono le zone più arretrate. Rispetto a Greater Equatoria (nel Sud, dove c’è la capitale Juba) c’è un abisso. Quest’ultimo è uno stato a sé. C’è molta instabilità, gruppi armati che non si sa a che fazione appartengono, tante imboscate sulle strade. Nonostante questo, la gente sta tornando dall’Uganda, dove nel 2017 sono fuggiti a milioni. È gente che sta cercando di stabilizzare la propria vita. Negli stati Norhtern e Western Bhar el Ghazal, Warap, Lakes, ci sono altre popolazioni, contadini. A Wau la gente esce dal campo di sfollati e va a coltivare, si fa i mattoni per ricostruire la casa. Poi la notte rientra a dormire nel campo.

Si vedono almeno tre paesi diversi con mentalità e approcci alla vita propri».

AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY

Pressioni internazionali

Gli osservatori sono concordi nel giudicare che le pressioni internazionali, in particolare dei paesi dell’Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, organizzazione dei paesi del Corno d’Africa), sono state fondamentali per ottenere la firma di tutti i belligeranti. E il Sudan è stato in prima linea. «Il Sudan, come anche il Sud Sudan, versa in una grave crisi economica. Se i pozzi di petrolio del Sud riprendono a pompare, il greggio ha come unica via l’oleodotto che lo porta a Port Sudan, sul Mar Rosso, nel Nord, e Khartum riceve per ogni barile un grossa quota di profitti», dice l’osservatore.

In effetti, il giorno stesso della firma, al Bashir ha annunciato la ripresa dell’estrazione di greggio e, puntuale, il 26 agosto un test è stato fatto nello stato di Unity, alla presenza di due delegazioni di Sudan e Sud Sudan guidate dai rispettivi ministri del Petrolio. La produzione dovrebbe normalizzarsi entro la fine dell’anno. Gli esperti dicono che nel Sud Sudan è passata dai 350.000 barili/anno di cinque anni fa, a circa 120.000 barili/anno.

Altri paesi interessati sono l’Uganda, che ha sempre appoggiato la fazione di Salva Kiir, (mentre il Sudan è piuttosto legato a Riek Machar), l’Etiopia, che ha dovuto accogliere alcune centinaia di migliaia di sfollati, e il Kenya.

Mentre l’Unione europea è stata assente, gli Stati Uniti, che hanno molto investito in Sud Sudan, hanno criticato l’accordo firmato a Khartoum. Inoltre, hanno fatto pressione all’Onu e fatto passare l’embargo sulle armi (13 luglio), ma si tengono lontani dal processo in atto.

Voci dal terreno

Ma quali cambiamenti ha portato sul terreno questo nuovo processo di pace?

Secondo l’operatrice umanitaria, «non c’è alcun cambiamento interno nel paese. Ad esempio in questi giorni si sta combattendo nel campo di sfollati di Juba. Qui ci sono 30.000 persone, tutti Nuer ma di diversi clan, e basta un nulla per fare scoppiare la violenza. Spesso si combattono per portare più servizi al loro gruppo. A livello locale, dove noi andiamo per assistere gli sfollati, l’accordo di pace non ha portato a cambiamenti». E continua: «In alcune zone del Nord gli sfollati rientrati in patria che assistiamo, mi hanno detto: tra alcune settimane ricomincia la stagione secca, le truppe hanno più facilità di spostamento e verranno a riprendere questa zona. Noi siamo già pronti a scappare di nuovo in Sudan».

Un missionario che lavora a Juba ci racconta: «Per l’accordo la gente ha grande speranza. Sono esausti di questa situazione, quindi qualsiasi cosa va bene, purché ci sia tranquillità e l’economia si riprenda. A giugno un dollaro era arrivato a valere 350 sterline sudanesi. Con i salari minimi intorno alle 3-4.000 sterline. Molti prodotti sono di importazione, arrivano dall’Uganda o da altri paesi, per cui i prezzi aumentano con il cambio. Dopo la firma dell’accordo il dollaro è a 160 sterline, e questo dà un grosso respiro alla gente. In realtà al mercato c’è confusione, perché c’è ancora chi applica cambi diversi».

Displaced children stand at a camp for Internally Displaced Persons (IDP) near Kadugli, the capital of Sudan’s South Kordofan state during a United Nations humanitarian visit on May 13, 2018. / AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY

Conferma il missionario: «Il costo della benzina è sceso e questo è importante, soprattutto per le merci trasportate. Ad esempio, il prezzo della farina è sceso. Ma non si sa quanto durerà. Il dubbio è: come faranno queste persone, che sono sempre le stesse al governo, a superare le loro divisioni e disaccordi? Come credere che non siano lì per la loro ambizione, ma per dare un minimo di pace al paese?».

La guerra che va avanti da cinque anni è particolarmente efferata, come denuncia l’ultimo rapporto dell’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu: «[…] Questa è una delle più orrende situazioni dei diritti umani nel mondo, con l’uso massiccio dello stupro come strumento di terrore e arma di guerra […]», dichiara l’Alto commissario Zeid Ra’ad Al Hussein.

Un sud sudanese, operatore umanitario, con studi all’estero (come tutti a livello universitario), ma che lavora nel suo paese, analizza la situazione. Raggiunto telefonicamente, ci chiede l’anonimato, come già le altre fonti, per ragioni di sicurezza: «Molte persone sono in attesa degli sviluppi di questa firma. Ma se si guarda alla situazione nel paese, è ancora molto confusa. C’è la fazione del governo, poi ci sono tante fazioni di opposizione. La gente vuole la pace, ma molti non sono pronti per questo, come i politici che cercano solo i propri interessi. C’è molta corruzione in ambiente politico. Tutti vogliono mantenere la loro fetta di potere».

E continua: «Fatto l’accordo di pace, ora devono vedere come metterlo in atto, ovvero come governare. Con questo tipo di accordo è difficile soddisfare tutte le persone. Ci sono tante comunità (o etnie), molte differenze, e se i politici lavoreranno solo a livello politico, sul terreno non si vedranno cambiamenti».

Il coordinatore (africano) di una Ong medica internazionale ci confida: «La situazione è molto fluida.

Ci sono diverse violazioni degli accordi, in molte zone, e gli operatori umanitari sono preoccupati».

A fine luglio, alcune centinaia di giovani armati, hanno attaccato e saccheggiato una base di Ong e Nazioni Unite a Maban, nel Nord dello stato di Upper Nile. Non si capisce che origini abbia questo attacco».

Continua la nostra fonte: «La popolazione aspetta che gli accordi di pace siano realmente implementati, ma finora non ci sono stati ancora cambiamenti.

C’è parecchio pessimismo. I sud sudanesi non hanno molta fiducia. Non è il primo accordo e la gente ha paura che i militari ricomincino a combattersi. Chi è più vicino al governo (o alla etnia del presidente) è più ottimista, al contrario le comunità legate all’opposizione sono più pessimiste.

Le Ong non sono molto sicure che gli accordi saranno implementati. Il problema è anche che ci sono molte richieste da parte dell’opposizione, condizioni molto complesse da garantire».

AFP PHOTO / PATRICK MEINHARDT

Società civile cercasi

«Inoltre qui – ci confida il missionario che risiede a Juba, ma ha vissuto anche in altre zone – la popolazione è costretta ad accettare le cose così come sono. Quando il valore della moneta crollava di settimana in settimana mi sono stupito che non ci siano stati scioperi o manifestazioni. La gente sa che non può esprimersi liberamente. Accetta facilmente di farsi proteggere dal forte di turno. Inoltre i gruppi sono spesso allineati etnicamente. La società civile ha ancora una lunga strada da percorrere per dar vita al cambiamento. Probabilmente c’è da aspettare che questa generazione di politici finisca e sia sostituita da un’altra». E continua: «Le Ong nazionali sono finanziate dai grandi enti e offrono servizi di vario tipo. Creano lavoro per la gente locale, ma portano avanti un approccio di emergenza piuttosto che di sviluppo, anche perché questo permette loro di continuare a lavorare».

Importante è stato il ruolo del South Sudan Council of Churches (Consiglio delle chiese sud sudanesi) che riunisce Chiesa cattolica, la Chiesa episcopale (la più diffusa) e la Chiesa presbiteriana.

Ci racconta il missionario: «Il governo rispetta le chiese ma le teme pure. Teme la loro indipendenza. Se una chiesa è allineata la ascolta, altrimenti la lascia un po’ da parte e la Chiesa cattolica è quella che fa più fatica ad allinearsi, quindi si attira più sospetti.

Inoltre è un momento un po’ difficile della nostra Chiesa: quattro diocesi su sette sono senza vescovo. Molte energie devono essere spese per far fronte ai tanti problemi interni e quindi non riesce sempre a farsi ascoltare dal governo. Nonostante tutto le rimane una grande autorità morale: parla una voce unica, non ci sono divisioni etniche in essa. È presente in tutte le comunità (le etnie), per cui non è di parte. Le altre Chiese invece corrono il rischio di essere più allineate e di essere percepite come tali. La Chiesa presbiteriana ha più influenza nelle zone nuer, per cui è stata vista come la chiesa più vicina alle opposizioni. Mentre la Chiesa episcopale aveva gerarchie soprattutto dinka, per cui era vista come filo governativa. Adesso sta superando questo, grazie al nuovo primate più neutrale».

Oltre alle Ong locali e alle Chiese, ci spiega il coordinatore della Ong internazionale, «ci sono altre associazioni per i diritti umani, associazioni delle donne per la pace. Ma le associazioni basate in Sud Sudan devono essere dalla parte del governo. Ce ne sono anche non allineate, ma stanno all’estero, perché non è conveniente per motivi di sicurezza. Essere contro diventa rischioso. Non è un paese nel quale puoi esprimere liberamente quello che vuoi, puoi solo parlare a favore del governo».

La cooperante riassume così le sue sensazioni: «Sono molto delusa. Non è possibile che dal 2013 ci siano sempre le stesse dinamiche. Quello che mi delude di più è che ai politici non importa nulla della gente, fanno solo i loro giochi di potere. Si scontrano e poi vanno a cena assieme. Si stringono le mani, poi litigano di nuovo. Quanto potrà durare un accordo di pace con queste prospettive?»

Marco Bello




Mali, LVIA, una Ong contro la guerra

Testo di Marco Bello, foto di Archivio dell’Ong LVIA |


Nel paese, in conflitto dal 2012, è crisi umanitaria. Centinaia di migliaia di sfollati, mancanza di acqua, cibo e assistenza medica. Gli attacchi sono quotidiani e le violazioni dei diritti una costante. Spuntano anche le fosse comuni di civili. In mezzo a tutto questo una Ong piemontese, la Lvia, propone la sua via per la pace. Abbiamo incontrato il suo rappresentante.

Parigi, 26 maggio 2018. Mamoudou Gassama, è un immigrato clandestino di 22 anni. Nel diciottesimo arrondissement salva un bimbo appeso a un balcone, arrampicandosi a mani nude, con l’agilità di un gatto, fino al quarto piano di un palazzo. Ricevuto all’Eliseo dal presidente francese Emmanuel Macron, gli viene immediatamente concessa la nazionalità francese e gli è proposto un lavoro come vigile del fuoco.

San Calogero (Vibo Valentia, Calabria), 2 giugno. Tre immigrati vengono presi a fucilate da un italiano. Stavano cercando vecchie lamiere in una fabbrica abbandonata per costruire baracche. Sacko Soumayla, 29 anni, regolare e sindacalista, cade a terra morto. Il giorno prima al Quirinale ha giurato il governo Lega – Movimento 5 stelle, detto «del cambiamento».

Mamoudou e Sacko, entrambi migranti, entrambi maliani. Due storie simili, due destini diversi.

Anche Ousmane ag Hamatou, 37 anni, è del Mali. Lui lavora a Bamako, la capitale, per una Ong italiana, l’Lvia di Cuneo, della quale è il responsabile nel paese africano. Ousmane non ha nessuna intenzione di migrare. È in Italia, su invito della sua Ong, per formazione e una serie di incontri, poi tornerà in patria dalla sua famiglia e al suo lavoro.

Lo incontriamo, per farci spiegare cosa sta succedendo in Mali, e per provare a capire perché, ragazzi come Mamadou e Sacko sono scappati dal paese e molti altri continuano a farlo.

Perché si scappa dal Mali

Ma facciamo un passo indietro. Il Mali, paese cerniera tra l’Africa subsahariana e il Sahara, nel 2012 precipita in una crisi profonda, dopo un ventennio di relativa stabilità (cfr. MC giugno 2017). Il Nord del paese, l’Azawad, ha visto, negli anni precedenti, l’infiltrazione di gruppi estremisti islamici (jihadisti) dall’estero, in particolare dall’Algeria, che si sono inizialmente alleati con le milizie locali indipendentiste di etnia tuareg. Insieme conquistano il territorio del Nord, occupando le città e imponendo la loro legge. I soldati regolari fuggono a Sud. Ma l’alleanza si rompe e i jihadisti hanno la meglio sui Tuareg. A gennaio 2013 puntano addirittura sulla capitale Bamako. È per questo che intervengono prontamente i militari francesi, in protezione dell’ex colonia (e dei propri interessi). L’operazione francese Sérval respinge i miliziani e riconquista le città del Nord. Islamisti e indipendentisti si rifugiano nello sconfinato territorio desertico. Quando l’operazione Barkhane sostituisce Sérval, intervengono i caschi blu, con la Minusma: missione composta da soldati africani dei paesi vicini, ma anche da un grosso contingente tedesco. Gli eserciti stranieri affiancano quello maliano, le Forze armate del Mali (Fama), che sono allo sbando.

«La situazione oggi è complessa e molto volatile – commenta Ousmane -, perché dopo la firma degli accordi di pace tra il governo e i gruppi armati nel giugno 2015 (solo alcuni dei gruppi, quelli indipendentisti tuareg non radicalizzati, ndr), c’è stata una mancanza di volontà, in primo luogo dello stato, di mettere in pratica le condizioni sancite dagli accordi stessi (L’accordo prevede, tra l’altro, la smobilitazione dei combattenti; la creazione di pattuglie miste governo – ex ribelli; l’installazione di autorità ad interim nelle città del Nord con la partecipazione degli ex ribelli, e la Conferenza d’intesa nazionale, per una definizione politica dell’Azawad).E c’è anche una certa reticenza da parte dei gruppi armati per quanto riguarda il processo di disarmo, perché le armi sono l’unica garanzia che hanno per poter fare un’eventuale negoziazione». La non applicazione degli accordi crea una situazione di vuoto istituzionale, che ha ripercussioni importanti. «Lo stato non è presente in certe zone e i gruppi armati “firmatari” non si incaricano della sicurezza territoriale. Questo fa sì che sul terreno ci sia un’avanzata delle forze islamiste, che approfittano della situazione di abbandono del territorio. Assistiamo inoltre, per lo stesso motivo, a una disgregazione dei gruppi armati in tanti gruppuscoli più piccoli, con tendenza a diventare formazioni a carattere comunitario, ovvero a base etnica. Ogni comunità si organizza e si dissocia dai gruppi principali che sono i firmatari degli accordi. Esse temono, infatti, che se un giorno ci saranno i dividendi degli accordi, non tutte le comunità rimaste nei grossi gruppi saranno soddisfatte».

Ousmane (© Marco Bello)

Molti attori sul terreno

Oltre alla Minusma e all’esercito maliano – tornato nel Nord, dove controlla oggi le città, grazie all’intervento militare francese nel 2013 – la realtà degli attori sul terreno è complessa e variabile. Racconta Ousmane: «C’è il Coordinamento dei movimenti dell’Azawad (Cma), il quale costituisce l’insieme dei grossi movimenti armati indipendentisti che hanno proclamato l’indipendenza dell’Azawad, poi ci sono diversi gruppi islamisti radicali, alcuni gestiti da maliani, altri da stranieri (in particolare algerini, ndr). Oltre a questi ci sono tante piccole milizie locali, comunitarie, che son state create e contribuiscono a rendere il clima pesante. Sono anche presenti bande di malviventi che operano e ostacolano il lavoro delle Ong, rubando le loro auto e compiendo assalti. Un insieme di attori armati che rende la situazione piuttosto complessa».

La popolazione è la principale vittima di questa situazione di insicurezza e instabilità, nella quale gli assalti si susseguono quotidianamente. Continua Ousmane: «La popolazione del Nord Mali cerca di capire cosa stia succedendo, perché ci sono stati troppi cambiamenti in questi ultimi tempi. Siamo partiti nel 2012 con uno stato maliano centrale relativamente forte, per arrivare a una situazione in cui il Nord è caduto nelle mani di diversi gruppi armati, uno stato autoproclamato dell’Azawad, per poi passare a uno stato islamista, perché gli jihadisti hanno cacciato gli indipendentisti. Siamo quindi ritornati a uno stato maliano diverso da quello del 2012, appoggiato da forze straniere e delle Nazioni Unite».

Oltre alla sicurezza sono i servizi a mancare: «La violenza è a tutti i livelli, anche nei piccoli villaggi, in zone dove lo stato non esiste più e i servizi sociali di base, come l’acqua, l’educazione, la salute, non sono garantiti. Per questo motivo c’è un grande numero di sfollati, sia verso paesi confinanti sia all’interno del Mali in direzione del centro e Sud del paese». I dati delle Nazioni Unite di aprile 2018 parlano di circa 60.000 persone sfollate all’interno e 137.000 rifugiate in Burkina Faso, Niger e Mauritania.

Anche nel centro del Mali la situazione è divenuta complessa. «Le condizioni nella zona centrale non sono diverse, è la stessa crisi del Nord che avanza nel centro, con gli stessi attori. Dato che non si trova soluzione alla base, la crisi si estende anche verso il Sud e ora tocca paesi limitrofi come il Sahel burkinabè (il Nord del Burkina Faso, ndr), che è stato contagiato dalla crisi, e la frontiera con il Niger (Nord Est, ndr). È tutta un’area geografica che vede la crisi estendersi».

In particolare il centro del paese è diventato teatro di scontri tra diverse etnie (cfr. MC giugno ‘17). «La Lvia interviene a Mopti, insieme all’Ong Cisv e con finanziamenti di emergenza del ministero per gli Affari esteri italiano, appoggiando i centri di salute. La particolarità di questa zona sono gli scontri intercomunitari tra la popolazione Peulh, allevatori, che si organizza in milizie, e quella Dogon, agricoltori, che inizia a prendere le armi».

Costretti all’emergenza

Lvia lavora in Mali da 30 anni, ed essendo una Ong che si occupa di sviluppo, ha sempre lavorato su programmi di lunga durata. Ousmane ci spiega cosa è cambiato con la crisi: «Non siamo una Ong di emergenza, ovvero non andiamo di proposito in quei paesi dove c’è la guerra per intervenire, ma in Mali siamo in un contesto che conosciamo bene, abbiamo molti contatti, siamo riconosciuti dalle comunità, dagli enti locali e anche dal governo. Abbiamo fatto tesoro di questo riconoscimento e della nostra conoscenza del terreno per realizzare progetti di emergenza umanitaria. Sono programmi su temi che abbiamo sviluppato anche in contesto non di crisi, come le infrastrutture idrauliche (pozzi artesiani, ndr), per dare acqua potabile alla gente. Per noi il fatto importante che cambia, è che oggi, con la crisi, ci sono bisogni primari da soddisfare, in modo anche urgente. Ad esempio, nell’ambito della nutrizione, perché gli indicatori di malnutrizione nel Nord del paese sono piuttosto alti. Sosteniamo alcuni centri di salute, quelli ancora funzionanti, per accogliere i bambini denutriti e seguirli. Facciamo anche molta sensibilizzazione e accompagnamento delle comunità, nell’ambito della valorizzazione dei prodotti agricoli locali e la loro integrazione nell’alimentazione di base».

Non sparate sulle Ong

In un contesto di crisi, oltre alle normali difficoltà c’è anche un altro problema per le Ong, quello della sicurezza dei propri operatori. «È una grande sfida, perché occorre abituarsi a lavorare in un contesto di sicurezza imprevedibile, dove anche se le nostre organizzazioni non sono prese particolarmente di mira, operiamo in un clima nel quale tutto può succedere. Abbiamo avuto incidenti come furti di auto o assalti a mano armata. È un contesto non controllabile, per cui occorre adattare la nostra missione, i nostri interventi, ogni giorno, informandoci in modo continuo e seguendo alla lettera le raccomandazioni di sicurezza».

Politica: evoluzione?

Il Mali sta vivendo anche un periodo di transizione politica, perché il 29 luglio si terranno le elezioni presidenziali (leggerete queste righe ad elezioni avvenute; pubblicheremo un resoconto delle stesse su www.rivistamissioniconsolata.it), che però non dovrebbero portare particolari sorprese. Oltre al presidente uscente Ibrahim Boubacar Keita (detto Ibk), eletto nel 2013, favorito, sono una ventina gli altri candidati. A inizio giugno una manifestazione di una coalizione di opposizione è stata repressa sul nascere mediante l’uso di gas lacrimogeni. I manifestanti chiedevano più trasparenza e più equità sui media nazionali per la copertura della campagna elettorale.

Chiediamo a Ousmane cosa ne pensa. «Visto il clima d’insicurezza che regna nel paese, con continui attacchi, penso che il contesto non sia propizio alla tenuta di elezioni libere, trasparenti e soprattutto credibili. C’è piuttosto un’urgenza nel mettere in sicurezza il paese e migliorare le condizioni di vita della popolazione più che organizzare delle elezioni.

L’impressione è quella che chi è al potere, ma anche chi vive nel Sud del Mali, dove c’è un piccolo spazio in sicurezza e normalità, non sia molto cosciente di cosa succede nel resto del paese. Il Nord non è mai stato una priorità per le autorità centrali e lo è ancora meno adesso. Colpisce anche il fatto che si organizzino elezioni quando molta gente è fuori dal paese o dalla sua zona di residenza abituale. Non è logico organizzare delle elezioni quando la popolazione non può votare». Occorre considerare che il paese, la cui superficie è di oltre 1,2 milioni di km2 (quasi quattro volte l’Italia) ha una vasta fetta di deserto del Sahara, l’Azawad appunto, che occupa una superficie di 822.000 km2. La capitale dello stato, Bamako, si trova invece nell’estremo Sud del paese.

«Bisogna riconoscere che il presidente attuale ha assunto la carica in un momento piuttosto particolare. È arrivato nel 2013 quando il paese attraversava una crisi molto grave, difficile da gestire. Gli si può però contestare che certi impegni presi nell’ambito dell’accordo di pace non sono stati applicati. Questo è un punto importante sul quale il governo ha fallito». Il Mali è una repubblica presidenziale, per cui il presidente della Repubblica è anche il capo dell’esecutivo. Un cambio del presidente prevede anche un nuovo governo.

«L’opinione pubblica a Bamako è molto divisa su Ibk. C’è chi pensa che questo governo, in un secondo mandato non possa fare meglio di quanto ha già fatto, altri che pensano occorra un vero cambiamento. Io personalmente, tra i candidati, non vedo nulla di nuovo, sono le stesse figure che hanno contribuito, negli anni, a portare questo paese a terra. Resta la stessa generazione di politici maliani che, ormai da decenni, non riesce a far uscire il paese da questa situazione».

Il pantano degli scontri etnici

La novità degli ultimi due anni sono gli scontri a base etnica nelle due regioni centrali di Mopti e Ségou, che nulla hanno a che vedere con l’Azawad e i Tuareg, ma dove si sono inaspriti conflitti atavici tra gli allevatori peulh e gli agricoltori dogon, con la compiacenza dei Bambara del Sud. Sovente i cacciatori bozo di etnia bambara fanno il lavoro sporco coperti dai militari.

È del giugno scorso la scoperta di almeno tre fosse comuni di civili uccisi, sembra giustiziati, anche per rappresaglie, dall’esercito maliano. Il 19 giugno, in seguito a un’operazione militare, erano scomparse 18 persone dalla località di Gassel (dipartimento di Douentza, regione di Mopti), tutte di etnia peulh. Il 20 è stata scoperta una fossa con almeno 7 corpi. Pochi giorni prima, il 15 giugno a Nantaka e Kobaka, nel comune di Sokoura, i corpi di 25 persone erano stati scoperti in tre fosse comuni. Anche loro, con tutta probabilità, peulh. Le responsabilità sarebbero dell’esercito regolare, fatto questa volta confermato da un comunicato del ministero della Difesa.

Scontri nei quali si sono insinuati gli islamisti radicalizzati, come Amadou Koufa, fondatore del Fronte di liberazione di Macina, legato al capo tuareg radicale Iyad ag Ghali (lui di Kidal, nel Nord). Fronte che ha avuto come filiazione il primo gruppo di combattenti jihadisti del Burkina Faso, Ansarul Islam (cfr. MC giugno ‘17), nato nella confinante provincia del Sahel burkinabè.

Crisi senza soluzione?

In una situazione così ingarbugliata è difficile vedere una via d’uscita. Chiediamo a Ousmane, uomo del Nord, che vive in capitale e che ha una visione d’insieme, di dirci quale sarebbe, secondo lui, una pista per la soluzione. «Secondo me è difficile prevedere. L’insicurezza ha gravi ripercussioni sulla situazione umanitaria e su quella politica. Tutto è molto complesso.

La prima cosa da fare è applicare l’accordo di pace di Algeri, per cominciare a trovare una soluzione politica alla ribellione tuareg nel Nord del Mali. In questo modo si farebbe un grande passo in avanti e ci si potrebbe occupare degli altri problemi, che sono nell’insieme una conseguenza di questa  guerra.

Il presidente che arriverà dovrà prendere di petto l’applicazione di questi accordi, per farci andare avanti nella via della prosperità e della pace».

Ma i jihadisti, in particolare quelli stranieri, non hanno partecipato agli accordi. Con loro non si può negoziare? «I jihadisti non hanno nulla da negoziare. Lo hanno detto quando hanno conquistato il Nord, che non erano venuti per negoziare uno stato o una soluzione politica, erano venuti per instaurare uno stato islamico in Mali. Per cui occorre che il governo maliano trovi una soluzione politica alla situazione dei Tuareg nel Nord del Mali e a questo punto, tutti noi maliani, ci possiamo mettere insieme per combattere gli islamisti. Io penso che non resisterebbero a un Mali unito, ma nelle condizioni attuali sono loro che approfittano e creano ogni giorno il caos sulla nostra terra».

Ci sono islamisti stranieri ma anche maliani che si sono radicalizzati. In particolare il capo più importante del momento è il tuareg Iyad ag Ghali. Già leader delle grandi ribellioni tuareg dal 1991 in avanti, si è poi islamizzato, ha fondato il gruppo Ansar Dine, tra i fondatori di Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), e nel 2017 ha riunito in un fronte comune diverse formazioni nel Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Jnim).

«Io penso che rispetto agli islamisti maliani si possa trovare una soluzione. Secondo me, la maggior parte di loro si sono radicalizzati perché hanno visto questo passaggio come un modo per continuare la lotta politica per l’indipendenza del Nord. Se invece sentissero che c’è una reale volontà per una soluzione politica con i gruppi armati tuareg o di altre comunità del Nord, sarebbe possibile negoziare con loro. Per gli altri islamisti che non sono maliani, l’unica soluzione è combatterli. Con o senza l’appoggio delle forze straniere. Non abbiamo necessariamente bisogno di eserciti stranieri, ma è invece obbligatorio ritrovare quello che ci unisce come maliani, come nazione, e a quel punto possiamo vincere la guerra contro gli islamisti, contro il sottosviluppo, e ben altre sfide».

Marco Bello




Disagio mentale, incontro con Grégoire Ahongbonon


Grégoire non è un prete né un medico, ma in 25 anni ha raccolto e curato 60.000 malati psichici abbandonati per strada o tenuti in catene. Ha creato centri di accoglienza e reinserimento in Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio e Togo. La ricetta: farmaci a basso costo, vita comunitaria, ex pazienti come infermieri. E la forza incrollabile della fede.

A incontrarlo per strada, non gli presteremmo attenzione: quel che colpisce in Grégoire Ahongbonon è proprio l’aria semplice dell’uomo qualunque, gli abiti dimessi, l’espressione mansueta, il tono pacato. Viene alla mente il Libro dei Re (19,9-12), in cui si dice che il Signore non si manifesta in modi altisonanti, tramite vento impetuoso, terremoto o fuoco, ma come brezza leggera. Grégoire è così: di una normalità disarmante. Ma la sua storia è tutt’altro che ordinaria.

Ce l’ha raccontata lui stesso, durante una recente visita in Italia per la presentazione del libro di Rodolfo Casadei su di lui, «Grégoire. Quando la fede spezza le catene», edito dalla Emi.

© Arigossi Fabrizio

Il figliol prodigo

«Sono nato ad Avrankou, nel Sud del Benin, nel 1952. Mio padre ha voluto che fossi battezzato quasi subito, era un cattolico convinto, anche se poligamo», racconta Grégoire. «Non ho avuto l’opportunità di studiare, i miei erano analfabeti e a 14 anni mi hanno ritirato da scuola. A 18 anni sono andato in Costa d’Avorio in cerca di lavoro. Lì ho imparato a riparare gli pneumatici e ho aperto un’officina nella città di Bouaké». Per procurarsi i clienti, Grégoire non esita a spargere per strada chiodi a tre punte, presentandosi poi agli «sfortunati» automobilisti per proporre i suoi servizi a prezzi stracciati. Riesce così a mettere da parte una discreta somma. «A 23 anni possedevo un’auto tutta mia, e ho avviato un servizio taxi acquistando altri quattro veicoli». In Africa le licenze per i taxi sono economiche ma le coperture assicurative costano parecchio e, dopo una serie di incidenti alle sue vetture, Grégoire finisce sul lastrico e viene incarcerato per debiti. È il periodo più buio della sua vita. «Avevo mia moglie e (all’epoca) due figli che non ero in grado di mantenere. Gli amici mi abbandonavano uno dopo l’altro. Sono arrivato a pensare al suicidio». Ma mentre sta per ingoiare le pastiglie, una voce interna lo dissuade. «Ho compreso che la mia vita non mi apparteneva, che era un dono da non sprecare. In quel momento ho sperimentato la Grazia che opera anche quando si è nel peccato, lontani da Dio». La crisi esistenziale spinge Grégoire a riavvicinarsi alla chiesa, trovando una guida in padre Joseph Pasquier, parroco della cattedrale di Bouaké, che lo tratta come «un figliol prodigo» e a un certo punto gli propone – e gli paga – un viaggio in Terra Santa. «In quel momento ho chiesto tre grazie: imparare a mettere in pratica il Vangelo; che anche mia moglie Léontine potesse venire a Gerusalemme; che mia madre, animista, si convertisse al cattolicesimo». Preghiere che, nel corso degli anni, verranno esaudite.

© Arigossi Fabrizio

«Tornato da Gerusalemme, con Léontine e alcuni amici ho fondato un gruppo di preghiera e abbiamo iniziato ad andare in ospedale ad assistere i malati poveri e soli, portando loro da mangiare, lavandoli, sostenendo i costi per il ricovero e le medicine». Grégoire, che è riuscito a trovare lavoro in una tipografia, spende quasi tutto per questi servizi. È la moglie a provvedere ai bisogni della famiglia vendendo frutta e verdura. Intanto, il gruppo di preghiera di Bouaké si trasforma in associazione, dedicata al santo patrono dei malati: nasce così l’Association Saint Camille de Lellis, il cui statuto prevede l’impegno «contro ogni forma di esclusione sociale» e i cui volontari si dedicano ai carcerati, ai poveri, ai bambini di strada. Sembra che più di così non si possa fare. Ma un incontro cambia, ancora una volta, la vita di Grégoire spingendolo a una nuova «conversione».

«Questa è l’opera di Dio»

È l’autunno del 1991. Come ogni mattina, Grégoire inizia la giornata andando a messa. Uscito di chiesa vede un uomo seminudo, sporco, che fruga tra le immondizie in cerca di cibo: è un «matto» come ne ha visti decine di volte, ma questa mattina Ahongbonon ha un’illuminazione: «Tutti i giorni cercavo Dio nell’eucarestia, ed eccolo davanti a me, in quel malato. È avvenuto un miracolo: mi è stata restituita la vista. Prima quegli esseri mi facevano paura. Ma se nel malato psichiatrico vedi il volto di Gesù, non hai più paura». Da questo momento ogni sera Grégoire gira la città per portare a queste persone acqua, cibo cucinato da Léontine, vestiti puliti. I «matti», per lo più maltrattati o ignorati, accettano la sua presenza. In breve diventano quasi una ventina quelli incontrati ogni notte. Ma Grégoire non si dà pace: «Finito il giro, io e gli altri volontari tornavamo tranquilli a casa, mentre loro restavano in strada abbandonati a se stessi, in balia di qualunque pericolo». Perciò chiede e ottiene da uno psichiatra francese di accoglierli nell’ospedale di Bouaké; in cambio l’Association Saint Camille si deve accollare i costi di cibo e farmaci. Il numero di ricoverati aumenta in maniera esponenziale: preti, missionari, cittadini si mobilitano per far arrivare aiuti, ma anche per segnalare altri malati di strada da raccogliere e portare all’ospedale. Lo spazio manca, c’è sovraffollamento.

© Arigossi Fabrizio

Nel ‘93 il ministro della Sanità ivoriano viene a conoscenza del lavoro della Saint Camille e decide di assegnarle 2.400 m² di terreno all’interno del recinto ospedaliero per creare un nuovo centro di accoglienza. L’associazione però non ha i soldi per costruirlo: gli amici e i volontari, sia laici che religiosi, invitano Grégoire a desistere. Non bastano i soldi per le medicine, come pensare a un nuovo edificio? Ma lui non sente ragioni: «Dobbiamo fidarci della Provvidenza, questa è l’opera di Dio, non la nostra. Penserà lui a tutto».

Il 14 luglio del 1994 nasce il primo centro d’accoglienza per malati psichici della Saint Camille (il 14 luglio è San Camillo, ndr).

Crocifissi viventi

© Arigossi Fabrizio

Nello stesso anno, alla vigilia della domenica delle Palme, accade un fatto inaspettato: sul far della sera Grégoire riceve la telefonata di una donna che gli chiede di andare a soccorrere il fratello, malato di mente, da tempo tenuto imprigionato dalla famiglia. «Ero sbigottito, era la prima volta che sentivo parlare di malati incatenati», ricorda Grégoire. «Mi sono subito messo in viaggio, ma arrivato al villaggio mi sono scontrato con i genitori del ragazzo che non volevano farmi entrare in casa. Dicevano: “Ormai è marcio, non si può fare nulla”. Io insistevo per vederlo, i toni sono saliti, ho minacciato di chiamare la polizia e alla fine il capo villaggio mi ha fatto entrare.

Avevo visto decine di malati psichici in condizioni gravi, ma mai mi sarei aspettato una scena simile. Kouakou era incatenato a terra nella postura di Gesù in croce, gambe e braccia legate da un filo di ferro. Il ferro era penetrato nelle carni e formava con esse una massa indistinta, era in stato di putrefazione». Il mattino dopo Grégoire torna al villaggio insieme a un’infermiera, con un paio di cesoie per liberare il ragazzo. «Quando l’abbiamo portato in ospedale, Kouakou non finiva di ringraziare e ripeteva: “Non capisco perché la mia famiglia mi ha fatto questo, io non sono cattivo”». Pochi giorni dopo, a soli 21 anni, Kouakou muore di setticemia. «Non abbiamo potuto salvarlo, ma è morto con dignità, come un essere umano».

Spiriti maligni, catene immonde

© Arigossi Fabrizio

Da quel momento Grégoire inizia a girare nei villaggi armato di cesoie, seghe e martelli. In 25 anni libererà un migliaio di malati psichici incatenati o con gli arti bloccati da ceppi di legno. «Il caso limite è stato quello di Janine, una donna tenuta 36 anni con il braccio incastrato in un tronco, vicino a un immondezzaio. Abbiamo potuto ridarle la libertà e curarla, ma è rimasta storta, non è più riuscita a raddrizzarsi». Come può un familiare ridurre così i propri cari? «Non bisogna giudicare», dice Grégoire, «le famiglie agiscono così per ignoranza e paura: non sanno cosa fare, temono che il malato faccia del male a qualcuno, che sia posseduto dagli spiriti maligni e possa contaminare gli altri. Ma se vi offrite di liberarlo e portarlo in un centro di cura, sono riconoscenti».

Ben più scandalosi per Grégoire sono i trattamenti dei malati nei «campi di preghiera». Gestiti da sedicenti guaritori e profeti – animisti, cristiani o islamici – che vantano doti taumaturgiche e ne fanno strumento di ricchezza e prestigio. Questi campi possono ospitare centinaia di malati tenuti legati all’aperto, esposti alle intemperie, lasciati tra gli escrementi, privati per alcuni periodi di cibo e acqua e picchiati per far uscire dal corpo gli spiriti immondi. Non è raro che qualche malato perda la vita. «Una volta, arrivati in un campo, abbiamo visto una ragazza digiuna da giorni che, spinta dalla fame, ha afferrato un pollo mentre le passava vicino e l’ha divorato vivo. Dopo un paio di giorni è morta». Ahongbonon si scontra spesso con i responsabili dei campi di preghiera, «Cristo è venuto per togliere le catene, non per metterle». La sua battaglia culturale,  negli anni, dà i suoi frutti: «Teniamo incontri periodici con le famiglie, per spiegare che quella psichica è una malattia come le altre, da curare con le medicine e con l’amore, non opera di stregoneria». Oggi sono sempre più numerose le famiglie che affidano i malati all’Association Saint Camille, ma Grégoire lamenta la latitanza delle autorità politiche e religiose nel contrastare le attività dei campi di preghiera.

Da malati a terapeuti

Grégoire e la sua associazione creano decine di centri in Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio e Togo. Oggi sono 26.000 i malati assistiti, attraverso un triplice sistema: fornitura di psicofarmaci a basso costo; accoglienza di tipo comunitario fondata sull’amore e la condivisione; équipe curante costituita in prevalenza da ex pazienti. Sul primo punto, i prezzi applicati nei centri dell’associazione possono arrivare anche a un sesto o un settimo di quelli standard, in virtù della scelta di usare solo farmaci generici di prima generazione (svincolati da brevetto), acquistati inoltre in grandi quantità per spuntare prezzi convenienti.

La vita nei centri si svolge su base comunitaria, malati e operatori condividono la quotidianità. Ogni centro può ospitare fino a 200 persone; in ognuno c’è una cappella che serve anche da alloggio e dormitorio per alcuni malati perché, dice Grégoire, «Dio è felice di stare vicino ai suoi poveri».

© Arigossi Fabrizio

Una volta al giorno, per chi lo desidera, c’è un momento di preghiera collettiva, «ma la partecipazione è libera; nei nostri centri accogliamo persone di qualsiasi fede religiosa, senza distinzioni».

Un ulteriore elemento terapeutico è costituito dagli ex malati – ormai guariti o stabilizzati grazie ai farmaci – che si prendono cura degli altri, dopo essersi formati come operatori o infermieri. Questi ex pazienti sono assunti e retribuiti regolarmente; come avviene in molte parti dell’Africa, data la carenza di medici, il loro compito è visitare, fare diagnosi, prescrivere farmaci.

Alcuni di loro hanno assunto ruoli direttivi, come Pascaline, un’ex paziente oggi direttrice del centro di Calavi (Benin). «Questo è un incoraggiamento per i malati che arrivano e si trovano davanti qualcuno che era nelle loro stesse condizioni e adesso è rifiorito».

Ci sono anche alcuni operatori che non sono mai stati malati, i quali condividono l’obbligo di abitare nel centro, e psichiatri occidentali che effettuano visite periodiche per monitorare le terapie. Oltre ai centri d’accoglienza il sistema prevede anche centri di reinserimento, dove i pazienti imparano un mestiere, e centri relais, cioè ambulatori/farmacie dove i malati dimessi e tornati al villaggio hanno a portata di mano i farmaci necessari, per prevenire eventuali ricadute.

Basaglia africano

L’opera di Ahongbonon si colloca nel filone indicato da San Daniele Comboni, «salvare l’Africa con l’Africa». Per una curiosa coincidenza storica, Grégoire ha iniziato a liberare i malati psichici in Costa d’Avorio negli stessi anni in cui in Italia diventava attuativa la Legge Basaglia, che liberava i «matti» dai manicomi. Ad accomunare le due esperienze la centralità della persona malata, la relazione affettiva, il rifiuto della contenzione, la terapia del lavoro, il reinserimento nella famiglia e nella società. Come scrive lo psichiatra Eugenio Borgna nella prefazione al libro di Casadei, si tratta in entrambi i casi di «una psichiatria aperta alla comprensione della follia e alla solidarietà», capace di riconoscere nei malati mentali «la presenza di un’umanità ferita dal dolore, bisognosa di ascolto e accoglienza».

Oggi Grégoire, che in questi anni ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali (dal Premio per la lotta contro l’esclusione sociale dell’Oms – Organizzazione mondiale della sanità, alla proclamazione di «africano dell’anno» nel 2015) continua a guardare avanti: il suo obiettivo ora è aprire un centro per tossicodipendenze a Dassa, in Benin, «perché molti malati psichici fanno uso di droghe e questo peggiora le loro condizioni». A 66 anni, Grégoire non ha ancora trovato un successore che possa prendere le redini dell’associazione da lui fondata. In verità, nemmeno lo cerca, affidando tutto alla Provvidenza. Ma qualcuno che cammina sui suoi passi c’è: Nicole, la più piccola dei suoi sei figli, di 28 anni, si è laureata in medicina e oggi sta frequentando il secondo anno di psichiatria.

Stefania Garini

© Arigossi Fabrizio

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Don Tonino Bello, il vescovo degli ultimi

Memoria di don Tonino di Rocco Marra |


Il 20 aprile scorso papa Francesco ha reso omaggio a uno dei vescovi italiani più amati. Nel 25esimo anniversario della morte di don Tonino, il pontefice è andato a pregare sulla sua tomba. Un segno che il messaggio del vescovo pugliese è sempre di grande attualità. In queste pagine il ricordo appassionato di un missionario della Consolata, che è stato suo allievo.

Carissimo don Tonino, ho deciso a scriverti una lettera, conscio che tu la conosci già. Scrivo una lettera pur sapendo che, come al solito, non mi risponderai, per di più non me la boccerai come «fuori tema» e forse neanche la leggerai.

So che a te piace leggere, nonostante viviamo in un’epoca in cui si scrive per masse che non leggono e si insegna a persone che non ascoltano. Ultimamente avrai notato che si scrive moltissimo su di te, specialmente ora che è ufficiale: il papa Francesco è venuto a pregare sulla tua tomba monumentale, ad Alessano, e a celebrare l’Eucarestia a Molfetta, proprio nell’anniversario del tuo Dies Natalis (in questo caso, 25° anniversario della morte, avvenuta il 20 aprile 1993, ndr).

Tutto fa capire che sei prossimo a essere riconosciuto «beato» e «santo profeta» del XX secolo. Veramente, per i poveri di Gesù che ti hanno conosciuto, sei santo da quando hanno saputo che non saresti più andato a trovarli perché eri andato in cielo. Di certo intercedi per la conversione di molti, perché accolgano l’amore di Dio nella loro vita e diventino canali di misericordia per i meno amati di questa umanità, come sei stato tu.

Scrivono molto su di te, ma mi chiedo con linguaggio salentino: «Sarà tutto oro quello che cola?». Certamente meriti anche di più, sono sicuro che, se la gente comune potesse scrivere qualcosa, scriverebbe la buona notizia che ancora traspare dalla tua indimenticabile vita.

Tu, echeggiando gli insegnamenti del Concilio Vaticano II, ci insegnavi che per grazia del battesimo non solo individualmente, ma anche comunitariamente, siamo incoraggiati dallo Spirito a crescere e camminare come «chiesa santa e gioiosa» che trasuda l’amore di Dio in azione: comunità profetica, sacerdotale e regale. Non mi sorprenderei se tu volessi continuare a tirare le orecchie a tanti di noi e a sussurrare a papa Francesco il tuo dispiacere di essere proclamato beato da solo. Sicuramente il tuo desiderio sarebbe che il pontefice proclamasse beata o santa la parrocchia «Natività beata Maria Vergine» di Tricase, o la «Chiesa locale di Molfetta», o il movimento «Pax Christi». Sì, avrebbe più senso e più incisività per il mondo in cui viviamo. Se un testimone come te provoca uno scossone di rinnovamento nello Spirito di Dio, certamente una parrocchia o diocesi santa, provocherebbe un terremoto di grazia per scardinare fin dalle fondamenta il regno diabolico che ci strangola.

Don Tonino Bello al convegno giovani 1989 a Torino (© AfMC / Bellesi)

Esci dalla tua terra

Sono contento di ricordarti, perché sei stato un uomo che ha dato senso e gusto alla propria vita e a quella di chi ha incontrato. Come le cacce al tesoro che organizzavi per noi, per farci sognare, per ricercare su riviste e libri gli avvenimenti e le scienze del mondo, per aiutarci a non aver paura a scorgere l’amico Gesù sul cammino di ogni giorno, vissuto con semplicità e responsabilità.

Conoscevi molto bene e a memoria la Parola di Dio, la Divina Commedia e altri scritti della letteratura italiana, ma conoscevi anche ogni tuo «pargolo» spirituale. Mi ricordo la relazione del primo anno di seminario, corrispondente alla mia prima media: «Rocco è un ragazzo buono». Queste sono le prime parole di Dio di fronte al suo creato, così me le hai scritte tu, lette dal parroco, monsignor Giuseppe Zocco e da mio padre Riccardo, seguite da parole d’incoraggiamento da parte loro.

Tu hai parlato con simboli, come i presepi, il primo che mi ricordo, nel 1973, costruito nel parlatorio del seminario di Ugento. Sulla porta avevi collocato dei compensati con alcuni articoli di giornali appiccicati sopra, chiaramente notizie scelte da tutto il mondo, poi davanti c’erano le immagini della natività, con delle catene intorno alla culla di Gesù. Chi ammirava la culla poteva soprattutto leggere: «Signore vieni a sciogliere le nostre catene». Come fanciullo, non mi interessavano più gli effetti delle lampade a mercurio poste sulle montagne e vallate, percorse dai pastori e le loro pecore, ma volevo sapere il significato di quelle parole vicino alla culla.

Che dire dei canti liturgici? Non mi ricordo quale novena fosse quando ci hai portati tutti e trenta in una delle confraternite di Ugento. Ricordo però il contenuto della tua predica, la spiegazione del canto conosciuto da tutti: «Esci dalla tua terra e va’». Ancora adesso mi rammento quello che hai detto e cresce d’intensità con la mia esperienza missionaria e il ricordo della tua testimonianza di vita.

Durante quella messa, quando una disabile cercava di scambiare il segno di pace rivolgendosi verso di te, tu sei sceso dall’altare, non solo per stringerle la mano, ma anche per abbracciarla.

Don Tonino, certamente il tuo gesto più espressivo, per noi del seminario Minore di Ugento, è stato in terza media, quando hai ospitato una famiglia sfrattata. È stato come un seme di mille altri semi che hai sparso nel tuo andare nel campo del Signore.

Don Tonino Bello al convegno giovani 1989 a Torino

Come il Buon Pastore

Hai parlato spesso della Madonna e di tua madre, due donne che portano lo stesso nome. Ci portavi a pregare Gesù all’ombra di Maria, e negli anni in cui ti ho conosciuto, tra il 1973 e il 1976, quando frequentavo le scuole medie da seminarista, quasi tutti i giorni pregavamo il rosario insieme, a volte anche completo e di solito passeggiando.

Ci parlavi poco, invece, di tuo padre Tommaso, maresciallo dei carabinieri, forse per evitare momenti di commozione. Lo avevi perso infatti all’età di circa sei anni. Non vivevi però quest’assenza come un vuoto, essendo tu stesso diventato come un padre per i tuoi due fratelli più giovani e poi per noi seminaristi. Un anno, prima della celebrazione del 4 novembre, considerando le medaglie presso il monumento dei caduti, hai condiviso alcuni tuoi sentimenti con un gruppo di noi seminaristi. Praticamente, quelle medaglie al valore militare non potevi sopportarle, pensando a tante mogli private dei loro mariti e a genitori cui erano stati strappati i figli. Le medaglie al valore militare non avevano per te lo stesso significato delle medaglie e dei trofei vinti dai tuoi seminaristi nelle competizioni sportive o per la costruzione del miglior presepio della provincia.

Non credo che tu, don Tonino, facessi distinzioni e contrapposizioni tra «casa» e «chiesa». La «chiesa del grembiule», divenuta famosa fin dai primi anni del tuo episcopato, ebbe sicuramente la sua origine nella tua casa di Alessano, così come la riflessione sulla «stola» trovò origine nella chiesa della tua parrocchia natale.

Ricordo che una volta, in seminario, ci hai presentato il significato della stola sulle spalle del prete. Mi colpì molto l’invito a prepararci per indossarla come segno della nostra partecipazione alla missione del Buon Pastore, venuto a cercare la pecorella smarrita per riportarla all’ovile, caricandosela con dolcezza sulle spalle. Grembiule e stola, tue immagini preferite, mi hanno sempre aiutato a ripensare il servizio cristiano come servizio fatto con umiltà e dinamismo di carità.

La stola, poi, mi ricorda in particolare che il potere e l’autorità del pastore cristiano stanno nel servizio che scaturisce da quel «Pane spezzato per tutti», fonte di tutto il significato teologico di ministro e ministero.

Contemplazione e azione

Insistevi perché andassimo oltre il perimetro delle nostre amicizie, delle nostre certezze e anche della chiesa per incontrare quelle pecorelle, e accompagnarle con saggezza e tenerezza. Sottolineavi la necessità di avere un «amore vigoroso», capace di farsi carico e di caricarci sulle nostre spalle coloro che non avevano la forza di camminare da soli. E ribadivi che santi come Luigi Gonzaga erano grandi sì a causa della loro preghiera, ma soprattutto per aver avuto il coraggio di caricarsi alcuni ammalati per portarli all’ospedale. Contemplazione e azione sono state caratteristiche inscindibili della tua esperienza di vita, aureole che ti proclamano tra i santi missionari del nostro tempo. Credo che per conoscerti bene, don Tonino, non basti leggere i tuoi innumerevoli scritti. Occorrerebbe penetrare nel cuore del popolo che ti ha conosciuto, che vibrava alle tue parole e che con te ha celebrato l’Eucarestia, per conoscere meglio i valori che proponevi e la potenza di contagio che avevi sulla gente. Eri un pastore capace di trasfondere in chi incontravi l’amore del Signore e dei fratelli.

Avevi una capacità di comunicazione e di relazione straordinaria, vero profeta anche in questo areopago moderno. Sapevi evidenziare gli aspetti positivi presenti in ogni persona, per dare sempre coraggio e speranza.

E chissà come è stato bello l’incontro con il Padre celeste, visto che hai saputo sempre essere propositivo nel travaglio nostalgico della ricerca del suo volto paterno.

Rocco Marra

Don Tonino Bello al convegno giovani 1989 a Torino