Migrazioni:

Schengen è morto, viva l’Europa

Testo di Simona Cranino, foto di Simone Perolari |


Ci eravamo abituati ad andare in Francia senza controlli. Oggi, chi ha la faccia da europeo continua a farlo. Gli altri invece rischiano di morire sulla frontiera. E vi muoiono. I gendarmi francesi passano il confine con arroganza, per riportare in Italia i malcapitati sopravvissuti, africani o asiatici. Intanto a Strasburgo si fatica a modificare il trattato di Dublino.

Un’ora e 10 minuti è il tempo di percorrenza del treno regionale che da Torino porta a Oulx, comune dell’alta valle di Susa, situato a 20 chilometri dal confine francese. Dalla stazione ferroviaria, un servizio di autobus di linea conduce a Claviere in meno di mezz’ora. Da lì, a piedi ci vogliono 3 ore per arrivare a Briançon. Se si cammina nella neve, bisogna considerare almeno mezz’ora in più. Tuttavia, al netto di imprevisti, il viaggio da Torino, attraverso il valico del Monginevro, fino al primo centro abitato della Francia ha una durata di circa 4 ore e mezza.

Un tempo troppo breve, per non provare ad attraversare quell’ultimo confine. Soprattutto se si paragonano le 4 ore e mezza ai mesi di viaggio in cui si è sopravvissuti al deserto, al mare e alle violenze dei trafficanti, prima di arrivare in Europa. Questo pensa Abdel, 38 anni, algerino, mentre si sfrega le mani per il freddo e si siede su una panchina di Oulx ad aspettare l’autobus che lo porterà a Claviere, da dove inizierà l’ultimo tratto di strada nei boschi per arrivare in Francia.

Nell’ultimo anno, migliaia di persone, come Abdel, hanno tentato di attraversare il confine italo-francese in alta valle di Susa, in seguito all’intensificazione dei controlli a Ventimiglia, a partire dall’estate 2017. L’obiettivo è uno solo: vivere in Francia o continuare il viaggio verso il Nord Europa.

Rotte che cambiano

Fino a gennaio 2018 i migranti provavano ad arrivare a Briançon attraverso il colle della Scala e Nevache, iniziando il percorso da Bardonecchia. Le grandi nevicate dell’inverno e il rischio slavine hanno convinto i viaggiatori a cambiare rotta e passare dal Monginevro, che permette di raggiungere Briançon su sentieri più sicuri, anche se maggiormente controllati dalla gendarmerie francese.

Abdel ha già provato la traversata ieri sera, ma è stato respinto dalla polizia al Monginevro. Determinato a viaggiare verso la Francia, ha deciso di ritentare l’attraversamento oggi, dopo essersi riposato nella saletta di prima accoglienza a Bardonecchia messa a disposizione dal comune nei locali della stazione, gestita da due referenti migranti della Recosol (Rete dei comuni solidali), il sudanese Moussa Khalil Issa e il camerunense Roland Djomeni, e dai medici dell’Ong Rainbow for Africa, che forniscono assistenza sanitaria. «La gendarmerie continua a respingermi – spiega Abdel in un buon italiano -. Eppure io ho il permesso di soggiorno per motivi umanitari valido in Italia, per cui non capisco perché non possa andare in Francia».

Senza visto

Sulla carta, una persona non europea con regolare permesso di soggiorno può varcare i confini di tutti gli stati dell’Unione senza richiesta di visto turistico. Tuttavia, nei fatti, con l’esacerbazione dei controlli alle frontiere interne all’area Schengen, ripristinati dalla Francia a partire dal 2015, in seguito agli attacchi terroristici e alla crisi migratoria, anche chi possiede i documenti di viaggio corretti può essere respinto, se non è in grado di dimostrare risorse economiche sufficienti a giustificare il periodo di turismo. Con la sospensione della libera circolazione, la Francia è diventata una roccaforte irraggiungibile per i migranti che, come Abdel, non hanno intenzione di rimanere in Italia. «Ho vissuto in Italia per 8 anni, ma oggi il mercato del lavoro non offre opportunità e quindi, visto che parlo francese, e ho tanti amici in Francia ho pensato di provare la fortuna lì». Eppure ad Abdel è preclusa la possibilità di un lavoro regolare in Francia perché, secondo il regolamento di Dublino, i migranti possono richiedere asilo politico solo nel paese di arrivo, che, in caso di approvazione della domanda, diventa l’unico stato dell’Unione in cui possono lavorare regolarmente, mentre negli altri paesi possono viaggiare come turisti.

Abdel lo sa e pensa che sia meglio lavorare in nero piuttosto che non lavorare affatto e quindi accetta il rischio. In fondo, lui possiede un permesso di soggiorno e, nel peggiore dei casi, dovrà accettare l’idea di rimanere in Italia.

Le vittime di Dublino

Diversa è la situazione di Abu, 18 anni, originario del Ghana. In mano non ha documenti. Arrivato a Lampedusa nel 2017 ha fatto richiesta di asilo, poi è scappato dal centro di accoglienza, stufo di aspettare il giorno di esame della sua pratica, che dopo mesi di attesa, ancora non era arrivato. Ora è vicino al confine francese e sta pensando se attraversarlo. A farlo ragionare sui pro e contro della sua scelta ci pensano i referenti della Recosol.

«Noi informiamo le persone dei loro diritti in Italia – spiegano Roland e Moussa -. In particolare, ricordiamo ai richiedenti asilo politico che se migrano in Francia e non si presentano in questura per la valutazione del proprio caso, perdono il diritto di avere un permesso valido in Italia e non potranno fare un’altra richiesta d’asilo in Francia, rischiando di vivere da sans papiers». La norma che impone di fare domanda d’asilo nel primo paese d’accesso, prevista dal regolamento di Dublino, è responsabile dei tentativi di fuga dai centri di accoglienza di chi, sbarcato in Italia, Grecia e Spagna, ambisce a richiedere asilo politico in Francia o in altri paesi del Nord Europa, non sapendo che di fatto non potranno fare nuovamente domanda. In questi mesi, il parlamento europeo sta lavorando a una riforma di Dublino, che prevede la sostituzione del criterio del primo paese d’accesso con un meccanismo di ricollocamento delle persone negli altri stati europei, secondo un sistema di quote e di legami tra migrante e paese di destinazione. Tuttavia, la riforma è in discussione e il risultato si vede alla frontiera italo-francese dove donne, bambini e uomini cercano di superare il confine illegalmente, convinti che un altro modo non ci sia. E in effetti, non c’è. Senza permesso di soggiorno non è possibile muoversi in Europa, neppure facendo riferimento a un eventuale passaporto rilasciato nel paese d’origine. Così ha pensato anche Abu, che alla fine ha deciso di affrontare la frontiera. Abu non ha il passaporto del Ghana, ma anche se lo avesse ottenuto, avrebbe dovuto chiedere un visto turistico alla Francia che glielo avrebbe negato per mancanza dei requisiti economici, la stessa mancanza che lo ha spinto a lasciare il proprio paese.

Il «potere» del passaporto

Il «Passport Index 2018», la classifica annuale dei passaporti secondo il potere di circolazione senza richiesta di visto, stilata dall’impresa Arton Capital, riporta che il passaporto ghanese permette di viaggiare solo in 61 stati senza richiesta di visto, nessuno dei quali è in Europa. Invece, il passaporto italiano apre le frontiere di 161 paesi. Questo determina che nascere in Italia o in Ghana divide automaticamente le persone in serie A e serie B. E chi ha un passaporto di serie B, come Abu, non gode della libertà di movimento, per cui risulta obbligato ad affidarsi a reti di traffico illegale e a un viaggio insicuro.

Invasioni francesi

Per tutto l’inverno, i migranti respinti alla frontiera di Claviere, o al traforo del Frejus, sono stati trasportati dalla Gendarmerie di fronte al ricovero di Bardonecchia, secondo una prassi dei militari francesi non concordata con la polizia italiana. Prassi che ha portato a un attrito scoppiato il 30 marzo scorso, quando la Gendarmerie ha fatto irruzione nel punto di accoglienza a Bardonecchia, per svolgere gli esami delle urine su un ragazzo nigeriano, fermato sul Tgv in direzione Roma, sospettato di essere un consumatore e corriere di droga. L’operazione, che ha portato alla liberazione del ragazzo per mancanza di prove, si è svolta sotto gli occhi dei volontari e dei mediatori del punto di accoglienza. Sebbene sia sempre stato rispettato l’accordo di cooperazione Italia-Francia che permette alle rispettive forze di polizia di svolgere controlli coordinati su migranti nelle zone di frontiera, il 30 marzo si è rischiato di mettere in discussione le relazioni diplomatiche tra i due stati per omissione di comunicazione alla polizia italiana dell’operazione gestita dai militari francesi sul nostro territorio nazionale. Il fatto ha evidenziato la tensione che negli ultimi mesi si è generato alla frontiera franco-italiana in alta valle di Susa. «Le relazioni diplomatiche tra i paesi di frontiera sono rimaste ottime – commenta a due mesi dall’accaduto Francesco Avato sindaco di Bardonecchia -. I fatti del 30 marzo non hanno inciso negativamente sull’operatività del nostro lavoro, anzi siamo riusciti a concordare che la polizia francese non possa più trasportare alla nostra stazione i migranti, di cui ora si occupa la polizia italiana. I fatti hanno permesso comunque di portare in agenda internazionale ed europea la situazione migratoria sulla nostra frontiera».

Uomini e numeri

I flussi di migranti in alta valle di Susa sono altalenanti. A partire da maggio 2018 i numeri si sono ridotti, sia nel ricovero di Bardonecchia, sia alla stazione di Oulx. «Oggi calcoliamo una media di circa 6 o 7 passaggi al giorno – commenta il sindaco di Oulx Paolo De Marchis -. Tuttavia, potrebbero aumentare con la riapertura del Colle della Scala, nel periodo estivo. Su quel versante della montagna è più facile passare inosservati ai controlli».

Fino a marzo 2018, nella sala di accoglienza di Bardonecchia transitavano 15 o 20 persone al giorno. Guinea Conakry, Mali, Costa d’Avorio, Nigeria e Ghana sono gli stati di provenienza della maggior parte dei migranti, anche se, nei mesi primaverili, sono aumentate le persone originarie di Iraq, Bangladesh e Pakistan. Sebbene i numeri della migrazione che si muove su rotte irregolari siano difficili da documentare, i volontari e gli attivisti di «Chez Jesus», che a marzo 2018 hanno occupato il sottoscala della chiesa di Claviere installando un rifugio per migranti in transito, hanno visto il passaggio di centinaia di persone. A fronte di picchi di flusso tra le frontiere interne all’Europa, si è verificata una riduzione degli arrivi via mare. Secondo i dati dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr), dal 1 al 23 maggio 2018 si sono verificati 1.240 sbarchi sulle coste italiane a fronte dei 22.993 di maggio 2017. Stessa tendenza al ribasso anche in aprile con 3.171 arrivi del 2018, rispetto ai 12.943 del 2017. Come Abdel e Abu, la maggior parte delle persone che cercano la Francia, dal confine dell’alta valle di Susa, hanno deciso di rimettersi in viaggio, dopo aver vissuto un periodo in Italia.

Morti di frontiera

L’intensificazione dei controlli alla frontiera da parte della polizia francese, se sulla carta ha l’obiettivo di limitare la tratta e la migrazione illegale, di fatto ha inasprito la situazione e spinto i migranti a cercare pericolosi punti di accesso alla frontiera. E se, nei mesi del grande freddo, i volontari del Soccorso alpino hanno dato fondo alle proprie forze per evitare tragedie umane in montagna, proprio mentre la neve sta lasciando spazio al verde della primavera, a maggio 2018 si sono verificate le prime due vittime del viaggio migratorio. Entrambe le persone hanno perso la vita in Francia, a pochi chilometri dal confine italiano. Mathew Blessing, ventunenne nigeriana, è caduta nel fiume Durance mentre cercava di raggiungere Briançon, mentre Mamadou, un ragazzo senegalese, è morto di sfinimento dopo tre giorni che vagava per i sentieri oltre il valico del Monginevro. A marzo era morta anche Beauty, ragazza nigeriana incinta affetta da linfoma in stato terminale che, a pochi giorni dallo spegnersi, aveva tentato di camminare nella neve per arrivare fino in Francia, prima di essere respinta dalla Gendarmerie, che l’ha trasportata a Bardonecchia dove i medici di Rainbow for Africa hanno attivato i soccorsi. Beauty è morta all’ospedale Sant’Anna di Torino, dopo aver dato alla luce sua figlia. Il suo sogno era partorire in Francia, dove vive sua sorella.

E mentre le notizie delle morti si succedono, le frontiere rese invisibili da Schengen nel 1995 ritornano a innalzarsi su un’Europa inespugnabile, costituita da nazioni che sembrano negare quegli stessi diritti umani che hanno contribuito a teorizzare dopo la rivoluzione francese.

Reato di solidarietà

Intanto di fronte al peregrinaggio silenzioso dei migranti, la frontiera si anima di persone e opinioni contrastanti. E se da un lato si rafforzano spinte nazionaliste, ben riassunte dalla massiccia presenza di esponenti della destra di Génération Identitaire che sul confine italo-francese manifesta la propria opposizione ai movimenti migratori al grido «Defend Europe», dall’altro lato, gli attivisti di Briser les frontières, la rete che promuove la libera circolazione degli esseri umani, oggi divisa nei due collettivi Chez Jesus e Valsusa oltre confine, porta il proprio sostegno ai migranti offrendo cibo, vestiti e suggerimenti di viaggio, promuovendo una «Welcoming Europe» e ribadendo che «la solidarietà non è reato».

Eppure si può venire accusati di «reato di solidarietà». È successo a Benoît Duclos, cittadino francese che rischia una condanna a 5 anni per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, dopo aver trasportato all’ospedale di Briançon una donna incinta bloccata nella neve a Claviere. Stessa cosa è accaduta a Eleonora, Theo e Bastien che, dopo aver partecipato a una manifestazione ad aprile per promuovere l’apertura delle frontiere, sono stati accusati dalla polizia francese di favoreggiamento di immigrazione clandestina in banda organizzata. Il procedimento contro i tre ragazzi e Benoît mette sullo stesso piano chi compie atti umanitari e i passeur delle reti di contrabbando e di tratta, che richiedono pagamenti elevati a chi cerca di andare in Francia. Tuttavia, sono agli antipodi le motivazioni di chi, convinto che le frontiere non debbano esistere, cerca di dare una mano gratuitamente a un migrante che rischia di morire sui sentieri di montagna e di chi, al contrario, sfruttando i muri alzati dalla Francia e la mancanza di un’universale uguaglianza nella libertà di movimento, prova a lucrare sul dolore dei migranti.

Simona Carnino




Il Gomni in Tanzania: Il Vangelo «pratico» del servizio

Testo di Marco Bello e foto Archivio Gomni |


(Il Gomni) Nasce un po’ per caso. Come le grandi storie. Poi diventa l’impresa di una vita. Un gruppo missionario molto «operativo». Lo è ancora oggi, dopo più di 30 anni. Principi saldi e perseveranza. Ispirato a suor Irene Stefani e nessun margine al compromesso. E, sempre: fare il bene senza farsi pubblicità. Ne parliamo con Giuseppe Lupo, uno dei fondatori.

«Quando mia figlia ha compiuto cinque anni, ha iniziato ad andare all’asilo delle suore della Consolata in corso Allamano (a Torino, ndr.). Grazie a questo, io e mia moglie Maria abbiamo fatto amicizia con suor Idelma, la sua insegnante. Ma un giorno, senza preavviso, ci ha detto che sarebbe partita per la Tanzania». Chi racconta è Giuseppe Lupo, universalmente conosciuto come Pino, e parla di un «inizio», di qualcosa che gli sta molto a cuore. Pino e Maria avevano creato un’azienda nel settore delle forniture idrauliche, dove erano impegnati entrambi tutta la giornata.

All’inizio fu un viaggio

Corre l’anno 1986, Pino continua: «Suor Idelma cominciò a scriverci delle lettere con le sue prime esperienze di missione e noi le rispondevamo. Così iniziai a incuriosirmi di questo paese e dell’Africa in generale, continente di cui sapevo poco o nulla. Di fatto io non avevo mai viaggiato». Poi Pino prende il coraggio a due mani e decide di andare a trovare suor Idelma. Soprattutto vuole andare a vedere l’Africa. Un viaggio che dura – ricorda con precisione – «34 giorni», e che cambia qualcosa in lui. Qualcosa che a 32 anni di distanza ancora non sa spiegare. «Ero tornato da poco e durante una festa di battesimo, un tizio mai visto mi avvicinò: “Sei tu quello che è stato in Africa?”, chiese. Così cominciammo a parlare. Voleva sapere tutto. Alla fine della festa mi disse che se fossi partito di nuovo, sarebbe venuto. E così fu». Così si crea un gruppo di persone interessate alla missione.

Il Vangelo come servizio

Pino è disorientato. Insieme agli amici sente che deve fare qualcosa per «condividere» con le sorelle e i fratelli africani incontrati in Tanzania. Anni dopo scriverà: «Ogni attività nasce da un incontro con persone, luoghi, situazioni complesse e gravi che possono essere comprese nell’umiltà del cercare di calarsi dentro», e anche: «Occorrono iniziative idonee a modificare le cause di povertà creando sviluppo», e «Si crea così la possibilità di un cammino comune e di uno scambio profondo di esperienze».

Con Maria si rivolgono ancora una volta alle suore della Consolata e incontrano suor Gianpaola Mina. È lei che parla loro della beata Irene Stefani: «Siamo rimasti immediatamente ispirati dalla vita di suor Irene», commenta Pino. Così, insieme agli amici, Pino e Maria creano il «Gruppo operativo missionario Nyaatha Irene», Gomni in sigla, dove Nyaatha, ovvero madre misericordiosa, è l’appellativo che gli africani davano a suor Irene.

Racconta Pino: «Suor Mina ha aiutato il gruppo a nascere e a formare lo statuto. Ci disse: “Non potete chiamarvi Gruppo Irene, perché voi non sarete mai un gruppo esclusivamente di preghiera, voi porterete il Vangelo dando servizio, lavorando con la carità. Sarete un gruppo operativo missionario”. E in effetti ci aveva azzeccato».

Gruppo «di carità»

Un altro principio fondamentale deciso fin da subito è che «non saremo mai né onlus né Ong – ricorda Pino -, ma un gruppo di carità». Questo per «non scendere a compromessi», perché l’associazione vuole «vivere di carità, dando carità». Rifiuta dunque di entrare nel «business» o, più benevolmente, nel settore, della cooperazione internazionale. E il Gomni riesce a mantenere la promessa per tutta la sua storia, nonostante non sia facile, perché qualcuno che ha tentato la virata c’è stato, ma poi ha prevalso lo spirito iniziale.

Una scelta, quella del nome, che chiarisce le intenzioni della neonata associazione. I suoi fondatori si sentono ispirati anche dal beato Giuseppe Allamano. E in particolare fanno loro il motto «Far bene il bene, senza far rumore», senza spazio al compromesso. Non si fanno pubblicità, non mettono bandierine (come invece fanno molte associazioni). E chi prova a farlo viene riportato sulla retta via. «Anche se noi non ci facciamo conoscere, sono in molti che ci conoscono», ricorda Pino.

Subito operativi

Il Gruppo operativo parte, e fa onore al suo nome. Inizia una collaborazione con alcuni missionari della Consolata in Tanzania. I primi progetti sono del 1988 a Kibao e Iringa. Viene realizzato un intero acquedotto che alimenta un ospedale, un dispensario e diverse case, e un impianto elettrico per le stesse strutture. Poi si continua lavorando con la diocesi di Njombe. «Ci basiamo sempre su strutture locali, su persone che si dimostrino strumenti di promozione umana e comunitaria, in modo da coinvolgere la popolazione sempre da protagonista e non solo come beneficiaria».

Il Gomni ha alcuni principi molto chiari, come il fatto che con le sue attività non vuole «creare un circolo vizioso di dipendenza da assistenza, ma piuttosto intraprendere iniziative e attività concrete per uno sviluppo autogestito in loco». Ovvero, aiuto sì, ma condivisione e protagonismo attivo della gente coinvolta, che sia comunità, affinché «con il tempo assuma pieno coordinamento dei progetti, nella promozione del bene comune». Concetti molto avanzati per la fine degli anni ‘80.

Importanti, nella fase iniziale, sono i consigli di padre Franco Cellana. «Lo conobbi in Tanzania nel 1989, poi lo ritrovai a Torino nel ‘91». Nei primi anni ’90 padre Franco è responsabile dell’animazione missionaria in Casa Madre. La grande esperienza di Africa, come missionario, aiuta il gruppo nei primi fondamentali orientamenti. «Ci confrontammo sul fatto che lavorare con i missionari va bene, ma quando il missionario parte, la missione tende a decadere. Fondamentale è dunque far crescere la gente, che è anche la cosa più difficile che ci sia».

Puntare sempre allo sviluppo della persona, attraverso la formazione, e poi il lavoro, quindi la conoscenza di un mestiere: «Orientare ogni attività verso la crescita in dignità della persona, nella convinzione che ciascuno può realizzarsi pienamente».

È padre Franco a presentare al gruppo l’allora vescovo di Njombe, monsignor Raymond Mwanyka, incontro fondamentale.

I progetti diventano delle vere e proprie collaborazioni sul lungo periodo, relazione, amicizia, scambio. Numerose sono le attività con la diocesi di Njombe, Sud Ovest del paese, a partire dal 1992. Una collaborazione che continua ancora oggi. Diventano decine i viaggi di Pino e degli altri soci per portare avanti lo scambio, creare fratellanza, ma anche realizzare progetti concreti: ospedali, impianti fotovoltaici, acquedotti, dighe e impianti idraulici, centri di formazione, falegnamerie, ma anche formazione di giovani promettenti ai mestieri, ecc.

Un altro degli approcci del Gomni è infatti quello di formare, per creare lavoro, micro impresa si dice oggi nel gergo della cooperazione, in modo da permettere alle persone di avere un reddito e poter vivere con dignità nella propria terra. Una visione all’avanguardia, se si pensa che il sistema della cooperazione internazionale allo sviluppo arriverà a questi concetti solo diversi anni dopo.

Un riferimento solido

Pino è fiero di aver portato sua figlia, la prima volta all’età di 7 anni, in Tanzania, e poi di averla riportata tante volte, così che lei «è cresciuta un po’ in Africa, e riesce a trasmettere certi valori ai suoi figli, ora che è diventata mamma».

Oggi il gruppo Gomni ha circa 80 aderenti di cui 7 o 8 pienamente operativi. Tutti volontari che si pagano ogni viaggio e ogni attività. Oltre alla base di Torino hanno delle «antenne» a Milano, Roma, Treviso.

Il gruppo è cresciuto intorno all’Istituto Missioni Consolata. A Torino le guide spirituali del gruppo sono state missionarie e missionari della Consolata e l’Istituto è sempre stato un riferimento centrale. Da suor Mina a suor Leottavia, da padre Franco a padre Francesco Bernardi e padre Giacomo Mazzotti. In filo rosso che ha guidato il Gomni nelle sue tre decadi di esistenza.

Anche se non vuole diventare Ong, il Gruppo Irene (come viene definito famigliarmente) collabora con enti, onlus e Ong. Talvolta riceve finanziamenti, altre volte, al contrario, si impegna a cercare materiali e fondi necessari per un progetto, finanziando attività di un altro ente. Ma sempre «senza far rumore». In questo modo, con aiuti puntuali, Gomni è intervenuto anche in Kenya, Romania, Brasile ed Haiti.

Un centro per suor Irene

Nel 2016 nasce un progetto integrato con la parrocchia di Mkiu, 80 km a Sud Ovest di Njombe. Il progetto prevede una prima fase, quella attuale, nei settori agricoltura e artigianato. Si tratta di creare le condizioni affinché i giovani possano formarsi in diversi ambiti: agricoltura, allevamento, falegnameria, carpenteria, taglio e cucito, informatica. Ovvero realizzare infrastrutture, iniziare attività che generino reddito e fare formazione.

Pino ci ricorda che: «Noi pensiamo che le persone debbano saper lavorare, ma anche saper gestire il lavoro, in modo che dia loro reddito. E poi saper gestire questo reddito». Concetti molto concreti, ma non facili da realizzare. In ogni caso molto pertinenti per la situazione che vivono i giovani nella diocesi di Njombe.

E così in questo villaggio di 4.000 persone più altrettante nei villaggi del circondario facenti parte della parrocchia, nello splendido scenario dei monti Livingston, immerso in una natura mozzafiato, il Gruppo Irene ha iniziato una serie di attività: un allevamento di vacche, maiali, polli, bacini di piscicoltura, apicoltura, riforestazione, laboratorio di falegnameria e costruzioni metalliche.

Il progetto a Mkiu è centrato attualmente sulla figura di padre Innocente Ngaillo, detto padre Inox, diocesano. Padre Inox ha passato alcuni mesi in Italia nel 2016 per motivi di salute, ed è nata questa idea con il Gomni, subito chiamata: «Centro agricolo – artigianale Irene Stefani».

«Abbiamo parlato con il vescovo, mons. Alfred Leonhard Maluma e ci ha garantito che padre Inox potrà restare a Mkiu per il tempo necessario a formare alcune persone locali alla gestione di quest’opera. Non ha senso realizzare grandi opere se poi non c’è nessuno che possa gestirle. Il nostro obiettivo è proprio far crescere le persone».

Ma come si finanzia un gruppo che fa carità? «Di carità, ovvero di donazioni di amici, persone, aziende, associazioni che vengono a conoscere i nostri progetti con il passaparola. È sempre stato così. Abbiamo dei tempi lunghi ma portiamo a compimento i nostri programmi. E non abbiamo vincoli ne obblighi, se non con il nostro statuto, i nostri principi e la nostra coscienza».

Nell’arco di questi 32 anni molte sono state le persone che hanno condiviso un percorso, anche lungo, con il Gomni. Poi magari hanno lasciato, o sono andati a creare altre realtà.

Dietro al front man Pino Lupo c’è sempre stata sua moglie Maria, «organizzava dietro le quinte, ma è pure stata spirito e motore propulsivo del gruppo». Maria è tornata alla casa del Padre nel 2006, ma Pino ha continuato a sentirla al suo fianco e a lottare insieme a lei per questo sogno: una condivisione e uno scambio, che deve essere alla pari, con l’Africa e gli africani. «Quelle lettere mensili di suor Idelma, che ci portavano i suoi problemi di missione in casa, sono diventate la nostra vita».

Marco Bello

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L’economia soffocata dalla finanza

Testo di Francesco Gesualdi a presentazione del nuovo documento vaticano su Economia e Finanza |


Lo scorso 17 maggio è uscito un documento vaticano – «Oeconomicarne et pecuniariae quaestiones» – che affronta un tema economico difficile quanto fondamentale. Quello della finanza che scalza l’economia reale. Una situazione che ha provocato enormi guasti e che non è più sostenibile. È tempo di etica, regolamenti e limitazioni.

Il papato di Francesco si caratterizza per una forte attenzione all’economia. Nell’introduzione a Potere e denaro di Michele Zanzucchi, il papa spiega: «L’economia è una componente vitale per ogni società, determina in buona parte la qualità del vivere e persino del morire, contribuisce a rendere degna o indegna l’esistenza umana».

Un aspetto che oggi rende l’economia particolarmente ingiusta e instabile è l’espansione della finanza che «soffoca l’economia reale». Il che – è scritto nel documento Oeconomicarne et pecuniariae quaestiones – «reclama da una parte un’adeguata regolazione delle tematiche economiche e finanziarie, e dall’altra una chiara fondazione etica, che assicuri al benessere raggiunto quella qualità umana delle relazioni che i meccanismi economici, da soli, non sono in grado di produrre». Così il testo elaborato dalla «Congregazione per la Dottrina della fede», assieme al «Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale», e apparso il 17 maggio 2018. Un documento breve, ma denso, che oltre a spiegare perché la finanza deve essere riformata, traccia alcune linee di intervento.

Produzione e finanza, due mondi diversi

Parlare di finanza non è facile. È un mondo complesso, per non dire malato, affollato da pescecani ossessionati da un unico obiettivo: guadagnare sempre di più non attraverso la produzione e commercializzazione di nuovi beni e servizi, ma attraverso la rendita, la variazione dei prezzi, l’accaparramento dei soldi altrui, l’espansione di valore del patrimonio accumulato. La finanza, quindi, prima che un insieme di tecniche è un cambio di visione economica: è lo spostamento dell’attenzione «dal pesce alla canna». O per usare un’altra metafora, il cavallo non interessa più per i pesi che può portare, ma per la pelle che se ne può ricavare. Nella logica produttiva l’attenzione è rivolta a ciò che si produce, seppur espresso in termini monetari per pura comodità contabile. Nella logica finanziaria, invece, l’attenzione va ai valori monetari in quanto tali, un cambio di prospettiva che, se prende il sopravvento, può stritolare l’economia reale, come fa il boa con la sua preda. Ad esempio, da quando l’attenzione si è spostata dalla capacità produttiva, al valore patrimoniale delle imprese, si fa di tutto per fare risultare profitti alti pur di fare aumentare il valore delle azioni. Per questo i licenziamenti sono salutati con favore mentre si fa sempre più alta la tentazione di truccare i bilanci. Nella stessa logica si assiste a smembramenti di aziende che in un’ottica produttiva dovrebbero costituire un tutt’uno, ma in quella finanziaria sono frantumate per vendere meglio quei rami più appetibili che permettono l’incasso immediato. È un po’ come demolire il tetto in legno per fare fuoco, rendendoci conto dell’errore commesso solo quando ci pioverà in testa.

La finanza come scommessa: i «futures»

Un’altra espressione dell’economia finanziaria, con ampie ripercussioni negative sull’economia reale, è la scommessa che assume caratteristiche ogni volta diverse a seconda del contesto in cui si concretizza. In ambito commerciale, uno degli strumenti più diffusi è quello dei futures, impegni a vendere o a comprare, non perché si è interessati al bene trattato, ma unicamente al suo prezzo. Il future è un impegno a comprare o a vendere a data futura secondo un prezzo predeterminato. Se scommetto sul rialzo mi impegno a comprare a prezzo basso; se scommetto sul ribasso mi impegno a vendere a prezzo alto. Al momento di chiudere il contratto, se la controparte vuole effettivamente la transazione del fisico, mi organizzerò per disporne. Se avevo promesso di comprare, comprerò dal mio cliente al prezzo basso pattuito e rivenderò sul mercato al prezzo alto del momento. Se mi ero impegnato a vendere, comprerò sul mercato ciò che mi serve al prezzo basso del momento e rivenderò al mio cliente a prezzo alto previsto nel contratto. Solitamente, però, i futures si chiudono senza transazioni del fisico, ma con un semplice esborso da parte di chi ha perso a vantaggio di chi ha vinto. Tuttavia, il dramma dei futures è che il loro volume è diventato talmente ampio da condizionare di fatto i prezzi dei beni su cui sono costruiti. Nel caso del caffè il valore commercializzato dai futures è 28 volte superiore alla produzione mondiale, per cui è ovvio che chi ha interesse a fare alzare o abbassare il suo prezzo ha la possibilità di farlo mettendo i piccoli produttori in una posizione di incertezza permanente.

La finanza pro fallimento: i «Cds»

Rispetto alla miriade di strategie finanziarie esistenti, il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, si concentra in particolare su alcune di esse fra cui i Cds (Credit Default Swaps) e le cartolarizzazioni. Volendo metterla semplice, i Cds sono forme di assicurazione sulla possibilità di fallimento, ma non della propria azienda, bensì di quella altrui. E come il marito che fa l’assicurazione sulla morte della moglie può avere la forte tentazione di ucciderla, allo stesso modo, chi si assicura contro il fallimento di un altro, può avere la forte tentazione di farlo fallire per riscuotere il premio. È successo nel 2009-2010 contro la Grecia da parte dei fondi speculativi. Visto lo stato di dissesto della Grecia, i fondi prima hanno stipulato contratti assicurativi per tutelarsi contro il fallimento greco, poi hanno sferrato un attacco speculativo contro la Grecia per farla fallire davvero. Guadagnando quindi su due fronti: quello assicurativo e quello speculativo. La conclusione della «Congregazione per la Dottrina della fede» è netta: «Quando da simili scommesse possono derivare ingenti danni per interi paesi e milioni di famiglie, si è di fronte ad azioni estremamente immorali ed appare quindi opportuno estendere i divieti già presenti in alcuni paesi per tale tipologia di operatività, sanzionando con la massima severità tali infrazioni».

© Chris Fane

La finanza e i mutui: le «cartolarizzazioni»

Lo stesso atteggiamento di condanna, la Congregazione lo riserva al sistema delle cartolarizzazioni, che è alla base dello tsunami che investì il sistema bancario occidentale nel 2008, trascinando nella crisi l’intero sistema economico mondiale. La storia sarebbe lunga, ma per farla breve diciamo che fra il 2001 e il 2005 la Banca centrale statunitense attuò una politica di bassi tassi di interesse che stimolò il sistema bancario americano a offrire mutui a tasso molto basso per l’acquisto della casa. Le famiglie che aderirono all’offerta furono così tante che le banche dovettero inventarsi un modo per disporre di tutto il capitale necessario per rispondere alle richieste. La soluzione che trovarono si chiama cartolarizzazione, che significa, richiesta di nuovi prestiti al grande pubblico dando in garanzia i mutui già concessi. Come dire: le famiglie che mi devono i soldi garantiscono che io banca restituirò ciò che mi avete dato. La proposta funzionò: di investitori disposti a prestare alle banche prendendo a garanzia i mutui delle famiglie americane ce ne furono tanti. Ma per completare il quadro va detto che l’operazione di cartolarizzazione fu affidata a banche come Goldman Sachs e JP Morgan che, facendo di mestiere gli intermediari, guadagnavano sulle commissioni di vendita. Ed è a questo punto che si verificò il paradosso: pur di incassare commissioni, le banche di intermediazione stimolarono le banche commerciali a moltiplicare i mutui concessi in modo da moltiplicare le cartolarizzazioni. Una volta esaurite le famiglie benestanti, vennero convinte ad indebitarsi quelle più povere, di certo incapaci di restituire il mutuo. Ma questo dettaglio fu taciuto e, all’insaputa di tutti, la macchina delle cartolarizzazioni continuò a piazzare richieste di finanziamento basate su garanzie fasulle. E, al colmo dell’inganno, le agenzie di rating (Mody’s, Standard and Poor’s, Fitch), quelle che danno voti sulla solidità dei certificati finanziari, asserirono che le garanzie c’erano, ed erano altissime. Purtroppo per noi, anche le banche europee avevano investito montagne di soldi in questo genere di prodotti che risultarono carta straccia quando si seppe che le garanzie erano fornite da famiglie americane che vivevano di stenti. Inganno, opacità e complessità degli accordi contrattuali sono alla base della truffa subita addirittura da parte di prestigiosi istituti bancari.

© Gideon Benari

Contro questa finanza: alcune proposte

Per evitare il ripetersi di una simile situazione pagata da tutti, la «Congregazione per la dottrina della fede» fa varie proposte, fra cui più trasparenza, creazione di comitati etici all’interno degli istituti bancari, meccanismi di maggior controllo sulle cartolarizzazioni, la creazione di organi di certificazione pubblica, l’esclusione dal mercato di operazioni gestite da entità finanziarie non controllabili perché domiciliate nei paradisi fiscali.

E per venire a ciò che possiamo compiere come individui, il documento Oeconomicarne et pecuniariae questiones ci ricorda di non sottovalutare lo spazio di scelta che abbiamo non solo nell’ambito del consumo, ma anche del risparmio, in modo da fare crescere le esperienze di finanza al servizio della persona come «il credito cooperativo, il microcredito, così come il credito pubblico a servizio delle famiglie, delle imprese, delle comunità locali e il credito di aiuto ai paesi in via di sviluppo».

Francesco Gesualdi

© Luca Cerabona_2010




Le due Gambo: l’ospedale in Etiopia e la borgata nelle Langhe

Testodi Ugo Pozzoli su l’incontro tra Gambo in Etiopia e Gambo nelle Langhe |


Incontro Enza Fruttero per la prima volta nel suo laboratorio, nel più grande ospedale di Torino. Ha un sorrisone stampato sulla faccia, proprio di chi sta per andare in pensione e di chi ti sta parlando di una delle grandi passioni della sua vita. Interessante – mi viene da pensare. È sempre coinvolgente ascoltare persone che ti raccontano la missione in prima persona e lo fanno con la luce negli occhi, come se non avessero trovato senso a fare null’altro nella vita.

«Ma tu sei mai andato a Gambo?», mi chiede, quasi per capire se vale la pena di parlare con chi si trova davanti. In effetti, sono stato a Gambo non molto tempo fa. Ricordo bene la missione, l’ospedale, fratel Francisco Reyes, medico e missionario della Consolata allora incaricato della struttura, le suore, la fattoria, le scuole… e la grandissima sensazione di vuoto provata in quell’occasione.

Un giorno intero, passato a vagolare nell’ospedale deserto insieme a Francisco, mio cicerone, che mi dicenva: «Immagina questo reparto stracolmo di gente, queste sale operatorie in continua attività… in questo cortile la gente si accampa… tantissime persone». Quel giorno l’ospedale di Gambo era tutto vuoto. Pochi malati facevano la fila al pronto soccorso, alcuni degenti nei reparti, i lebbrosi visitati a casa loro. Era la festa del compleanno del Profeta e questo spiegava la vacanza dalle scuole, il personale quasi tutto a casa, l’ospedale deserto. Del resto Gambo si trova in Oromia, una vasta regione dell’Etiopia a maggioranza musulmana.

Ciò che non ho potuto vedere quel giorno mi è successivamente diventato familiare grazie ai racconti di Enza Fruttero, biologa, le ferie degli ultimi vent’anni «consumate» in Africa a organizzare un laboratorio ben diverso dal suo di Torino, quello di un piccolo dispensario sperduto nella foresta, al servizio dei lebbrosi, diventato poi un ospedale, punto di riferimento e segno di speranza per gran parte della popolazione circostante.

Lì, il giorno del compleanno di Maometto del 2013, è iniziata la mia storia con Gambo, un luogo divenutomi poi familiare pur non avendoci più rimesso piede.

I tanti amici e volontari, medici e tecnici specializzati che dedicano tempo, energia e sapere allo sviluppo dell’ospedale, mi hanno reso un servizio prezioso, raccontandomene ciascuno un pezzetto, narrando motivazioni, esperienze, successi e sovente non poche difficoltà. Gambo è soprattutto la loro storia, così come è la storia di tante persone che da varie parti del mondo hanno contribuito finanziariamente e spiritualmente per costruire, pezzo dopo pezzo, una struttura di eccellenza al servizio dei più poveri.

Dell’Ospedale di Gambo si è molto parlato anche su questa rivista. Dal 1974, infatti, i missionari della Consolata ne hanno la gestione, continuando a offrire ininterrottamente un servizio di promozione umana che completa in modo perfetto l’azione di annuncio e accompagnamento pastorale della missione. Nel corso di questi anni, si sono portate avanti molteplici attività per finanziare e appoggiare gli operatori locali con il servizio di una cinquantina di medici e specialisti provenienti da Spagna, Italia e Olanda che si danno il turno durante l’anno e quello di tecnici e manutentori in grado di consentire l’operatività della struttura in un ambiente complesso come quello in cui sorge.

Da Gambo a Gambo

«Ma tu sei mai andato a Gambo?». Questa volta a chiedermelo è la dottoressa Paola Palesa. È stata Enza a presentarmela. Si sono conosciute a un master di bioetica e l’entusiasmo di Enza ci ha messo poco a far breccia anche nel cuore di Paola. Racconto nuovamente la piccola, quasi insignificante, storia del mio rapporto diretto con Gambo, ma anche le tante occasioni di contatto indiretto che sono maturate in questi anni.

Enza e Paola mi parlano di un’iniziativa che potrebbe prendere piede se decidiamo di unire le forze e provare a coinvolgere qualcun altro. Gambo ne ha bisogno. A Enza preme trovare i soldi per ristrutturare il villaggio dei lebbrosi che vivono intorno all’ospedale. Sono stati loro la prima vera attenzione dei missionari, il primo vero obiettivo dell’allora piccolo dispensario. Costretti a lasciare le loro famiglie e le loro comunità a causa della malattia e dello stigma che essa comporta, centinaia e centinaia di persone si sono radunate a Gambo per avere cura, ma anche protezione e autentica consolazione.

Per anni le missionarie della Consolata si sono prodigate nell’assistenza di queste persone. Adesso le case del villaggio che li ospita hanno bisogno di una seria manutenzione.

Paola vive a Torino, ma è originaria di La Morra d’Alba, terra di vino, comune con una vista mozzafiato sulle Langhe in cui viene prodotto il Barolo D.o.c. Il belvedere de La Morra è patrimonio dell’umanità, decretato dall’Unesco, roba mica da ridere. Più in basso, all’entrata del paese, a circa tre chilometri dalla signorile piazza del Castello c’è una frazione che curiosamente si chiama «Gambo». Il collegamento è presto fatto, veloce scatta l’idea: perché non proviamo a fare una sorta di gemellaggio?

Il progetto «Colline sorelle: da Gambo a Gambo. Volti e storie di Langa e di Etiopia» è nato così, dal tentativo di mettere a dialogare mondi differenti accomunati semplicemente da un nome e dall’ambiente collinare. Del resto, in questo mondo fluido in cui il «qui da noi» e il «là da loro» si perdono grazie a una maggiore facilità negli spostamenti e, soprattutto, al continuo migrare dei popoli, è bello poter pensare a un progetto in cui l’aiuto sia vicendevole, in cui ciascuno offra all’altro parte di quello che ha, ma anche di quello che è, condividendo cultura, storia, tradizioni, pensiero.

La risposta di La Morra nell’organizzazione dell’evento è stata entusiasta, amministrazione comunale e parrocchia in testa. Gli abitanti di frazione Gambo hanno acconsentito a ospitare una mostra fotografica e un concerto per celebrare i due luoghi omonimi. Sono molti coloro che hanno accettato di mettersi in gioco per aprire una finestra sul mondo.

Da domenica 1° luglio a giovedì 12, infatti, il belvedere cittadino offrirà un panorama ancora più esaltante. Lo sguardo non arriverà soltanto ai paesi dell’alta Langa, ma si spingerà fino alle «verdi colline d’Africa» che ci trasmetteranno suoni, voci, persino i sapori. Sarà divertente e, penso, interessante vedere la cucina dell’Etiopia fare capolino in uno dei centri emergenti del turismo etnogastronomico a livello europeo.

Non si ama se non ciò che si conosce: lo scopo di questi giorni e far entrare la Gambo etiope nella casa della Gambo delle Langhe, sperando che un giorno qualcuno dei tanti, che passeranno a La Morra a inizio luglio, trovi la strada per restituire la visita.

«Ma tu ci sei stato a Gambo?». Questa volta, dopo luglio, la mia risposta sarà differente: «In quale delle due?».

Ugo Pozzoli


Gambo Hospital

Comincia con un villaggio di capanne in paglia e fango, rifugio per alcune centinaia di lebbrosi. Nel 1965 diventa un lebbrosario in muratura, completato nel 1969. Dal 1972 sono presenti i missionari della Consolata. Nel 1980, su richiesta del governo, parte del lebbrosario è trasformata in ospedale generale. Il numero dei posti letto passa da poche decine a novanta con tre sezioni: lebbrosario, medicina generale, Tbc (particolare attenzione è data ai malati di tubercolosi, molto numerosi nella regione). Oggigiorno l’ospedale ha centocinquanta letti e i seguenti reparti: Tbc, lebbrosario, pediatria, medicina, maternità, chirurgia, sala operatoria, ambulatorio e servizi di laboratorio analisi, ecografia, radiologia, per la cura di circa duecentocinquanta persone al giorno. Il bacino di utenza ufficiale è di centomila persone, ma la zona di provenienza dei pazienti è molto più ampia. Oltre alle cure mediche, ai malati che accedono all’ospedale vengono offerti servizi di medicina preventiva prenatale e di terapia per i bambini malnutriti e denutriti su un territorio composto da 23 villaggi.

da www.missioniconsolataonlus.it

Fotogalleria del’Ospedale da Gambo dall’Archivio Fotografico MC

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Colline sorelle: da Gambo a Gambo

Volti e storie di Langa e di Etiopia
Iniziativa in favore dell’Ospedale/lebbrosario di Gambo Etiopia

Comune di La Morra d’Alba (CN)

Domenica 1 luglio

Ore 11 – Santa Messa presieduta da S.E. Mons. Marco Brunetti, Vescovo di Alba.
Ore 12 – Inaugurazione dell’esposizione di prodotti artigianali e dipinti tipici dell’Etiopia (Chiesa di San Rocco).
Orario esposizione: 10.30/12 – 14.30/18 tutti i giorni.

Ore 15 – Presentazione dell’evento: obiettivi, finalità, progetti e testimonianze (Chiesa di San Sebastiano).
Partecipa p. Marco Marini, Superiore Regionale dei Missionari della Consolata in Etiopia.

Ore 17 –  Concerto del Coro “Il Bell’Humore”.
Repertorio: spirituals, classico piemontese e corali sacre di Bach (Chiesa di San Martino).

Mercoledì 4 luglio
Pomeriggio: Animazione Estate Ragazzi.

Giovedì 5 luglio
Ore 16 – Animazione con diapositive e presentazione dell’iniziativa alla Casa di riposo.

Domenica 8 luglio
Ore 11 – Santa Messa. Concelebrata da don Massimo Scotto, parroco di La Morra, e p. Ugo Pozzoli, missionario della Consolata.

Ore 12 – Pranzo etiope presso l’enoteca “Vigne Bio”.

Ore 17 – Frazione Gambo: Cerimonia dell’Amicizia, con caffè etiope e baci di La Morra.
Presenti le “Lamorresine” e costumi tipici etiopi. Concerto di fisarmoniche locali.
Esibizione di tamburi e gong con Marina Gallo e Paola Simonelli (operatrici del suono).
Durante tutto il giorno: Mostra fotografica a cielo aperto:
“Le due Gambo”.

Per dettagli sulle eventuali altre iniziative
e sulla manifestazione di chiusura prevista per giovedì 12 luglio:
Ufficio turistico di La Morra 0173 500344
www.lamorraturismo.it.

Fotogalleria della giornata dell’8 luglio a Gambo, La Morra

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Raposa Serra do Sol (Roraima):

Esempio di resistenza indigena

Testo e foto da Raposa di Jaime C. Patias |


Sono oltre 20mila gli indigeni che vivono a Raposa Serra do Sol, terra indigena riconosciuta nel 2005 dopo decenni di lotta. I problemi non mancano: salute, istruzione, viabilità. L’ostilità anti indigena rimane elevata e produce insicurezza e invasioni. Tuttavia, i popoli indigeni hanno imparato a difendersi. Dal 1971 i missionari della Consolata vivono al loro fianco.

A Roraima, nella regione Nord del Brasile, ad aprile le piogge iniziano a irrigare la terra riempiendo fiumi e torrenti. Nella terra indigena Raposa Serra do Sol (Ti Rss), la vegetazione rigogliosa, rallegra gli oltre 20mila indigeni Macuxi, Wapichana, Taurepang, Ingaricó e Patamona. Nel 2005, l’area di 1,7 milioni di ettari (pari alla regione Lazio, ndr) è stata dichiarata «protetta», cioè ad uso esclusivo degli indigeni, dall’allora presidente Lula da Silva, dopo 34 anni di lotte che sono costate la vita ad almeno 21 indigeni. È così che Raposa è divenuta un esempio di resistenza contro l’invasione bianca.

Nella Costituzione federale del 1988, lo stato brasiliano riconosce che «le terre tradizionalmente occupate dagli indigeni sono destinate al loro possesso permanente e avranno l’uso esclusivo delle ricchezze del suolo, fiumi e laghi in esso esistenti» (art.231, 2). La popolazione è cresciuta sempre organizzata intorno ai propri leader, i tuxaua (figura corrispondente ai cacique, ndr), in più di 200 villaggi nelle regioni di Surumú, Sierras, Baixo Cotingo e Raposa. Nelle comunità e nelle scuole di vario grado, dove oramai quasi tutti gli insegnanti sono indigeni, la presenza di bambini e giovani colpisce l’occhio del visitatore. Circa il 60% della popolazione ha meno di 15 anni, una garanzia per il futuro che, nel contempo, comporta delle sfide.

Dalla repressione al riscatto

Il leader macuxì Jacir José de Sousa

Nel 1977, un centinaio di tuxaua e altri rappresentanti indigeni alleati organizzarono una delle prime assemblee nella missione di Surumú, interrotta dall’irruzione dei militari. I leader indigeni non furono intimiditi da tale repressione. Si dispersero per continuare altrove l’assemblea. Questo fatto è ricordato come primo atto pubblico di resistenza e della ricerca di autonomia del nascente movimento indigeno. Molto probabilmente è per questo che nel 2005, nella stessa missione, furono bruciate la chiesa, la scuola e il centro di salute in uno dei numerosi attacchi orchestrati dagli invasori bianchi. La svolta fondamentale nella lotta è stato l’impegno «Ou vai ou racha» (o tutto o niente) quando gli indigeni, il 26 aprile 1977, riuniti a Maturuca, un villaggio a 320 km da Boa Vista, decisero di dire «no alla bevanda alcolica, sì alla comunità» avviando il processo di organizzazione che culminò nella creazione del Consiglio indigenista di Roraima (Cir). Un impegno che comprendeva la lotta all’invasione dei garimpeiros e degli agricoltori non indigeni.

Un grande impulso alla causa indigena è stato dato dal successo del progetto «Una mucca per l’indio», lanciato nel 1980, che prevedeva l’affidamento ad ogni comunità indigena di 52 bovini e che, a sua volta, si impegnava, dopo cinque anni, a consegnare a un’altra comunità altrettanti capi di bestiame. Questa iniziativa sostenuta dalla Chiesa cattolica e da tanti altri benefattori ha contribuito a creare degli allevamenti comunitari di oltre 30.000 bovini.

L’opzione per gli indigeni

Presenti in Roraima dal 1948, solo nel 1971 i missionari della Consolata hanno scelto una chiara opzione per i popoli indigeni. E nel 1972 hanno iniziato a vivere nei villaggi, in mezzo alla gente. Un cambiamento radicale nello stile di evangelizzazione. Da una prospettiva meramente sacramentale, succube dei poteri forti del latifondo, a una pastorale profetica e liberatrice fatta dai villaggi e a fianco delle popolazioni indigene. Questa opzione assunta anche dalla diocesi di Roraima, ha causato persecuzioni, diffamazioni e minacce di morte per i missionari e per l’allora vescovo, mons. Aldo Mongiano (Missionario della Consolata), sulla cui testa era stata posta una taglia molto cospicua.

La riflessione su Il piano di Dio per noi (un progetto di formazione biblico-pastorale) ha guidato l’azione di evangelizzazione integrando la fede e la vita in cui la liberazione della terra era l’obiettivo principale. E il Consiglio indigenista missionario (Cimi), fondato nel 1972, è diventato gradualmente  uno strumento di riflessione e appoggio alla causa.

Oggi, sette giovani sacerdoti missionari della Consolata africani – Philip Njoroge Njuma, James Murimi Njimia, Joseph Musito, Jean Tuluba, Jean-Claude Bafutanga, Joseph Mugerwa, Gabriel Ochieng -, insieme a Francesco Bruno, un fratello missionario italiano, accompagnano le comunità indigene nella Raposa?Serra do Sol. Inoltre nella zona lavorano tre suore missionarie della Consolata.

Padre Philip Njoroge sottolinea che «i protagonisti sono gli indigeni. Seguiamo e camminiamo insieme in modo che le loro vite prosperino nel pieno rispetto dei loro diritti, della loro cultura e saggezza ancestrale». Dopo 70 anni di presenza, per una congregazione che ha nel suo Dna la missione ad gentes, l’esperienza di lavoro missionario in Raposa Serra do Sol ha insegnato ai missionari a camminare con le popolazioni indigene, con le loro speranze e lotte, gioie e conflitti, rompendo confini e modelli tradizionali di evangelizzazione.

Il professor Ednaldo Pereira André, secondo tuxaua di Maturuca, riassume così le grandi sfide: «Rispettare gli impegni, prendersi cura della terra e intensificare la produzione, lavorare nelle comunità per affrontare insieme i problemi e gli ostacoli in sintonia con Il piano di Dio su di noi. È urgente investire nella formazione dei leader: tuxaua, coordinatori di comunità, mandriani, catechisti e agenti di salute… in modo che capiscano bene il loro ruolo».

Politici e pastori

Inácio Brito, uno dei primi insegnanti a implementare l’educazione indigena, chiede una maggiore presenza nelle comunità per aiutare a combattere le minacce. «Oggi la politica dei partiti vuole dividere disseminando i pastori evangelici nelle comunità in cui le leadership indigene sono deboli», afferma il professore. «Vogliono toglierci i diritti garantiti dalla Costituzione: educazione, salute, trasporti, progetti, ecc. Questa è una persecuzione. La lotta per la terra è nata dall’unione tra le varie regioni, ma molto è cambiato nonostante il Cir continui nel suo sforzo di coordinamento».

La strategia dei politici e dello stato è chiara: dividere i gruppi per indebolire il popolo. Ci sono evidenze chiare di questa strategia, come l’emendamento parlamentare del deputato federale Édio Lopes, scritto in collaborazione con il senatore Romero Jucá (due politici notoriamente anti indigeni), che ha portato una mandria di bovini nelle comunità. Questa decisione è criticata per la dipendenza che può creare e per l’uso politico che se ne può fare. «Non è sbagliato ricevere queste “offerte” di bestiame perché recentemente abbiamo avuto molte perdite. Ma dobbiamo fare attenzione alla strumentalizzazione e al pericolo di invasione e divisione che ne può derivare. I politici ci hanno sempre dato contro e adesso improvvisamente ci offrono il miele. Dobbiamo aprire gli occhi», avverte Brito.

Le donne sono impegnate attraverso l’«Organizzazione delle donne indigene di Roraima» (Omir) con progetti di formazione e sostenibilità economica. Una delle coordinatrici, Marisete de Souza, indica i risultati ottenuti che includono l’aumento dei capi di bestiame, miglioramento della coltivazione e l’incarico di tuxaua assunto da alcune donne. «Il nostro lavoro mira a rafforzare l’identità e le tradizioni. Lo facciamo con la pianificazione di workshop, seminari, assemblee e corsi. Il nostro ruolo di donna, madre, moglie e attivista del movimento indigeno è lottare per la sostenibilità e contro le bevande alcoliche. Lavoriamo insieme ai missionari che ci appoggiano».

L’importanza della terra

Dopo la fine del latifondo nella terra Raposa Serra do Sol, gli indigeni hanno occupato aree strategiche. Nuove comunità sono nate. Per esempio, dov’era l’azienda del fazendeiro Jair, a 250 km da Boa Vista, cinque famiglie hanno creato la comunità San Matteo, che ora comprende ben 19 famiglie. Questa comunità si è incontrata per discutere i problemi e rinnovare gli impegni. Per tre giorni, adulti e giovani discutono. I bambini accompagnano e scrivono sui loro quaderni. Matias de Lima e Jacir José de Souza, due leader storici, fanno memoria della lotta. Per Jacir, le principali sfide sono «raccontare ai giovani e bambini i risultati ottenuti e gli impegni da mantenere. Inoltre essere sempre in allerta con nuovi tentativi di invasione».

Matias de Lima ricorda di essere stato arrestato e picchiato riportando la rottura della clavicola. «Sono preoccupato. Una volta i tuxaua erano determinati, ora vedo insicurezza. I politici stanno comprando alcuni tuxaua, dei coordinatori e la gente. Se non apriamo gli occhi, soffriremo ancora», avverte il vecchio attivista della causa indigena. «Non possiamo rinunciare ai nostri impegni. Se cadiamo, dobbiamo alzarci. Questi bambini hanno bisogno di terra per piantare e mangiare. Io continuerò la lotta finché avrò vita».

L’attuale tuxaua della comunità, Martinho Macuxi Souza, uno dei figli di Matias, ricorda che «prima il bianco ci ha proibito di cacciare, pescare e coltivare. Hanno arrestato, picchiato e bruciato le nostre case e la missione di Surumú. Oggi non vediamo più i nostri parenti soffrire violenza. Non voglio le mucche offerte dal governo e dai politici», ribadisce. «Per quanto riguarda la terra, stiamo cercando di fare del nostro meglio seguendo i principi di una agricoltura sostenibile e la formazione tecnica che riceviamo presso scuola di Surumú, su come allevare il bestiame e coltivare ortaggi senza pesticidi. Facciamo ancora troppo poco per custodire e proteggere la terra», sostiene Martinho.

Tira (ancora) una brutta aria

I coniugi Edinho Batista e Catiane de Souza sono appena rientrati da Brasilia (Df) dove hanno partecipato al «15° Acampamento Terra Livre» (Atl), che dal 23 al 27 aprile ha riunito 3.000 indigeni da tutto il Brasile. Ci sono ancora 836 terre indigene da demarcare. «Ci sforziamo di custodire e proteggere la nostra Madre Terra, ora vogliamo aiutare anche altri fratelli e sorelle indigeni a liberare la loro terra», dice Edinho. Per Catiane «la partecipazione delle donne è stata determinata e forte. Ora informerò le comunità sulle decisioni prese». Con il tema «Unificare la lotta in difesa degli indigeni: la garanzia dei diritti originari dei nostri popoli», a Brasilia l’Atl si è svolto mentre tutt’intorno si percepiva un forte risentimento anti popoli indigeni in un clima di ostilità che perdura da quando è stata promulgata la Costituzione federale del 1988.

Nonostante gli investimenti, nella Ti Rss sono tuttora visibili i problemi relativi a salute, istruzione, sicurezza e infrastrutture. La salute delle popolazioni è di competenza del «Segretariato della salute Indigena» (Sesai), creato nel 2010.

Rispetto all’educazione, quasi tutte le comunità hanno scuole elementari. Alcuni centri principali hanno anche le scuole secondarie e il programma di «Educazione per i giovani e adulti» (Eja). Sfortunatamente molte strutture si trovano in condizioni precarie e necessiterebbero di ristrutturazioni urgenti, cosa che raramente viene fatta dalle autorità pubbliche.

Per costruire nuove scuole e centri sanitari, alcune comunità si affidano ai progetti della Chiesa cattolica e all’aiuto dei missionari. La Fondazione Missioni Consolata Onlus ha appoggiato la realizzazione di alcuni progetti. Le distanze e le condizioni delle strade rendono il lavoro sempre difficile e costoso.

Spesso, l’aiuto alle popolazioni indigene è rallentato dalle dispute di competenza tra i vari organismi amministrativi del governo federale, dello stato e del municipio. Da non sottovalutare, inoltre, il peso negativo della propaganda dei latifondisti e dei politici contro l’omologazione che per costoro continua ad essere un fallimento e che perciò dovrebbe essere rivisto.

Gioventù

La vita nella Raposa Serra do Sol è migliorata dai tempi del latifondo. Gli indigeni hanno ripreso le loro attività tradizionali e recuperato i valori culturali, anche se con difficoltà. C’è molta vita, organizzazione, spiritualità e senso di cittadinanza. C’è molta gioventù. La miseria è l’eredità lasciata dagli invasori che hanno violentato, bruciato case, chiese, scuole, centri sanitari. Queste persone rappresentano tuttora una minaccia all’autonomia e alla dignità delle popolazioni indigene.

Jaime C. Patias
Consigliere Generale dei missionari della Consolata




Perú, mons. Baretto, la storia del vescovo ambientalista

Testo dell’incontro col vescovo cardinal Pedro Baretto e Mauricio López Oropeza di Paolo Moiola |


In Perú sono in corso centinaia di conflitti ambientali. Sia in Amazzonia (la selva) che nelle Ande (la sierra). La salvaguardia dell’ambiente e la salute delle persone costituiscono elemento centrale della missione pastorale di mons. Pedro Barreto?Jimeno, arcivescovo di Huancayo (Junín), vicepresidente della Conferenza episcopale peruviana e neocardinale (dal 29 giugno). Da pochi mesi, in qualità di socio fondatore della «Red Eclesial Panamazónica» (Repam), il prelato è stato anche nominato membro della commissione vaticana che sta preparando il Sinodo amazzonico del 2019. Lo abbiamo incontrato nella sua Lima poco prima della sua nomina a cardinale.

@ Paiolo Moiola

Miraflores (Lima). Nelle giornate di sole da Miraflores, noto distretto di Lima, si può ammirare un magnifico panorama sull’Oceano Pacifico. Arriviamo al centro ignaziano della locale parrocchia di Fátima per approfittare della presenza di mons. Pedro Barreto Jimeno, gesuita e arcivescovo di Huancayo, capoluogo del dipartimento di Junín, regione andina nel centro Ovest del paese. In Perú il prelato è molto conosciuto per le sue battaglie in favore dell’ambiente (el obis­po eco­ló­gi­co).

Dal 2004 presta servizio tra le Ande, ma ci confessa quasi subito che il suo cuore «è amazzonico». Un sentimento nato durante i tre anni da vicario apostolico a Jaén, capoluogo dell’omonima provincia amazzonica (selva alta) del dipartimento di Cajamarca.

In quello stesso periodo entra nel consiglio permanente della «Conferenza episcopale peruviana» e nella «Conferenza episcopale latinoamericana» (Celam).

Jaén è la porta d’ingresso dell’Amazzonia Nord orientale del Perú. «L’Amazzonia – spiega mons. Barreto – comprende quasi otto milioni di chilometri quadrati e nove paesi, con il Brasile in testa (65% della superficie totale) seguito dal Perú. Come uomini di chiesa ci rendevamo conto che il lavoro da fare era tanto e disperso su un territorio immenso. Nell’aprile del 2013, a un mese dall’elezione del papa Francesco, il Celam si riunì in Ecuador per dibattere la questione. Nel settembre 2014 ci ritrovammo – vescovi, religiosi e religiose – a Brasilia e decidemmo di creare la “Rete ecclesiale panamazzonica”, la Repam. Che non è una vera istituzione, né una struttura, ma – come dice il suo nome – una rete che cerca di unire con il dialogo e l’aiuto reciproco popoli indigeni e non indigeni che vivono in Amazzonia. Ciò che ci sorprese fu l’immediato messaggio di felicitazioni del papa. Questo ci spinse a considerarne lui il fondatore».

A partire da quel momento la crescita della Rete panamazzonica è molto rapida.

«Il papa ci chiese di presentare al mondo la Repam. Lo facemmo il 4 marzo del 2015 a Roma, nell’aula Giovanni Paolo II. Poco dopo, il 19 marzo, tenemmo un’udienza tematica sulle attività minerarie in Amazzonia davanti alla Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) a Washington».

Il ruolo e la visibilità della Repam prendono in seguito grande impulso da due eventi importanti: l’uscita, nel maggio 2015, dell’enciclica Laudato si’, interamente dedicata all’ambiente e, nell’ottobre 2017, l’annuncio del papa di un Sinodo panamazzonico per l’ottobre 2019.

© Malcom K.

Dall’Amazzonia alle Ande

Dopo l’esperienza a Jaén, mons. Barreto deve lasciare l’Amazzonia per le Ande: regione di Junín, nella cosiddetta sierra. «Fui nominato – racconta – arcivescovo di Huancayo, una città posta in una valle dentro alle Ande, la valle del rio Mantaro. È la valle interandina più grande del Perú: 77 chilometri di lunghezza e una media di 22 di larghezza».

Luoghi molto diversi dall’Amazzonia, ma afflitti da problematiche identiche: il difficile rapporto tra l’ambiente naturale e le attività umane e tra il diritto al lavoro e quello alla salute.

Nel dipartimento di Junín, le concessioni minerarie riguardano circa il 20% del territorio totale. Si estraggono rame, piombo, zinco, molibdeno, argento. Vi operano diverse imprese tra cui la cinese Chinalco, la canadese Pan American Silver, la peruviana Volcan, la brasiliana Milpo. La più famosa, per i disastri provocati, è la statunitense Doe Run, da anni in liquidazione. Queste attività minerarie danno un po’ di lavoro (sottopagato) alla popolazione locale, ma portano soprattutto tanti danni, all’ambiente e alla salute delle persone.

«Da secoli – racconta il vescovo (cardinale dal 29 giugno, ndr) – è una zona eminentemente mineraria. C’è una città che si chiama La Oroya, a 3.700 metri d’altezza, che è considerata una delle cinque città più inquinate al mondo. Da alcuni anni non vengono più emessi gas tossici perché il complesso metallurgico della Doe Run è fermo, ma se si vedono le foto dall’alto – su internet è possibile – si nota una massa bianca. Non è neve, sono particelle di piombo, rame, zinco, tutti metalli pesanti che in questi 90 anni di produzione (l’attività iniziò nel 1922, ndr) si sono accumulati sulle montagne». E nel sangue degli abitanti, soprattutto bambini e anziani. Acqua, aria e suolo presentano livelli di contaminazione decine di volte superiori ai limiti consentiti.

Venuto a conoscenza dei gravi problemi ambientali, mons. Barreto si dà subito da fare. Nel marzo 2005, a pochi mesi dal suo insediamento come arcivescovo, istituisce un tavolo di dialogo (Mesa de diálogo) con l’ambizioso obiettivo di trovare una «soluzione integrale e sostenibile al problema ambientale e lavorativo a La Oroya e il recupero della conca del fiume Mantaro».

Il dialogo è però lungo e complicato. In gioco ci sono gli interessi della multinazionale statunitense e il lavoro di ben 2.000 persone. A mons. Barreto arrivano minacce di morte e intimidazioni.

Il complesso metallurgico di La Oroya passa attraverso fasi di insolvenza economica (2009), contenziosi con lo stato per i mancati investimenti di adeguamento ambientale (Programa de Adecuación Medio Ambiental, Pama) e, infine, nel 2017-2018 alcuni tentativi di vendita, finora falliti.

Il Cardinal Pedro Baretto © Paolo Moiola

I cinesi di Morococha

Il problema – ancora irrisolto – di La Oroya non è il solo. A circa 40 chilometri di distanza sorge Morococha, cittadina cresciuta sopra un enorme giacimento di rame a cielo aperto. Dal 2008 il giacimento – noto come progetto Toromocho – è di proprietà della Chinalco, impresa appartenente al governo cinese. «Il primo problema da affrontare – racconta mons. Barreto – fu quello di spostare la popolazione. La Chinalco costruì una nuova città: Nueva Morococha. Il trasferimento delle 1.200 famiglie iniziò nel 2012 e ancora non si è concluso».

Nel frattempo, tra gennaio e luglio 2017, l’impresa ha estratto 106mila tonnellate di rame. «Anche nel caso di Toromocho – precisa mons. Barreto -, c’è un danno ambientale perché un’attività mineraria, per quanto si possa essere attenti, contamina sempre. Il problema è che nella regione non ci sono molte alternative lavorative. Anche se, come chiesa, abbiamo iniziato un piccolo progetto di produzione tessile che impiega soprattutto donne ma che comunque non basta».

Secondo l’Istituto peruviano di economia, l’attività mineraria genera circa l’11% del Prodotto interno lordo (Pil) del paese, la metà della valuta straniera che entra in Perú, il 20% delle entrate fiscali, oltre a migliaia di posti di lavoro diretti e indiretti.

«Il Perú – racconta mons. Barreto – è sempre stato un paese minerario. Però è anche un paese agricolo. Nella valle del Mantaro le miniere inquinano e, allo stesso tempo, in agricoltura si stanno utilizzando fertilizzanti che nel resto del mondo sono proibiti. Dovrebbe essere trovato un equilibrio tra un’attività mineraria responsabile e un’agricoltura egualmente responsabile».

Mons. Barreto, il vescovo (cardinale) ambientalista, non è a priori contro le miniere. «Io – precisa – direi che l’attività mineraria è necessaria. Non possiamo cioè dire “no” alle miniere. Quello che dobbiamo dire è: in questa riserva, in questo biotopo, in questo parco non può esserci attività mineraria. Un esempio: in questo momento un’impresa mineraria sta esplorando la laguna di Marcapomacocha. Qui occorre rispondere con un secco “no”».

Di certo, guardando al territorio peruviano, sembrerebbe che tutto il paese sia stato dato in concessione. «È vero – conferma il prelato -. Si parla della stessa piazza d’Armi di Cuzco. Un’assurdità. L’attività mineraria dovrebbe essere responsabile e con chiare restrizioni. Non possiamo opporci, ma dobbiamo dire: prima delle miniere sta la responsabilità per la vita e la salute delle persone».

Amazzonia, bioma universale

Dall’Amazzonia alle Ande l’impegno di mons. Barreto in difesa dell’ambiente non è mai cambiato. «A volte mi chiedono come mai un arcivescovo che vive in mezzo alle Ande sia entusiasta dell’Amazzonia. Il fatto è che qui si parla di un bioma che dà vita non solamente a noi ma a tutta l’umanità. Nella Laudato si’ – al numero 38 – il papa descrive l’Amazzonia come uno dei polmoni del mondo assieme alla conca fluviale del Congo».

In generale, però, la consapevolezza della sua importanza vitale è molto scarsa. Anche per questo gli attacchi alla sua integrità si fanno ogni giorno più numerosi. Come ammette anche mons. Barreto:?«Se si chiede a un peruviano della costa se il suo paese è amazzonico, questi risponderà che abbiamo la selva. In realtà, il 63 per cento del territorio peruviano è amazzonico. Abbiamo ancora zone intatte ma abbiamo anche zone infernali come a Puerto Maldonado (visitata dal papa a gennaio 2018, ndr), dove le attività minerarie illegali e informali hanno prodotto disastri. Quando si arriva in aereo si vedono nella foresta grandi fette di territorio dove ormai non cresce un solo filo di vegetazione, distrutta da mercenari che utilizzano il mercurio per cercare l’oro».

Da pochi mesi mons. Barreto, vicepresidente della Repam, è stato nominato membro della commissione (riquadro) istituita per preparare un’assemblea straordinaria sulla Panamazzonia.

«Quella di convocare un sinodo sulla regione amazzonica – chiosa il prelato – è stata una decisione sorprendente di papa Francesco. La prima volta nella storia della Chiesa. In precedenza e in più occasioni, il papa aveva detto che la Chiesa deve avere un volto amazzonico e indigeno (un rostro amazónico y indígena). Come va interpretata questa affermazione? Significa spingere per una conversione ecologica, un nuovo stile di vita, basato non su un paradigma tecnocratico ma su un nuovo paradigma che porti a soluzione il problema socioambientale e offra a tutti una vita degna e solidale».

Paolo Moiola

© Graham Styles


Il segretario esecutivo della Repam

«Vogliamo “amazzonizzare” il mondo»

In tanti parlano di Amazzonia, ma in pochi agiscono per contrastare la sua distruzione. Nata meno di quattro anni fa, la «Rete ecclesiale panamazzonica» (Repam) sta operando nei nove paesi amazzonici e tentando di coscientizzare il resto del mondo sul problema. Ne abbiamo parlato con Mauricio López Oropeza, segretario della Repam.

@ Paolo Moiola

Puerto Leguízamo (Colombia). «Da quando sono entrato in questo territorio, mi è stato rubato il cuore». Mauricio López Oropeza, 40 anni, è messicano e l’Amazzonia l’ha conosciuta in Ecuador dove arrivò dieci anni fa per completare gli studi. Oggi è sposato con Ana Lucía, cittadina ecuadoriana, lavora con la Caritas nazionale ed è segretario esecutivo della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam) dalla sua fondazione.

Mauricio, come si può descrivere l’Amazzonia in poche parole?

«L’Amazzonia non è soltanto un territorio. È un bioma unico. Un sistema vivo in cui i fiumi rappresentano il sangue e le vene. Un sistema diverso e complesso di cui ancora oggi conosciamo pochissimo. I popoli originari che vi vivono rappresentano un modello distinto da quello occidentale».

Negli ultimi cinquant’anni è cambiato il modo di guardare all’Amazzonia.

«È vero. Prima l’Amazzonia era il patio trasero (cortile di casa) del pianeta. Era vista come una terra praticamente disabitata che occorreva dominare, controllare, colonizzare. Le sue popolazioni erano considerate composte da indios selvaggi da civilizzare. Oggi l’Amazzonia si è trasformata in plaza central (piazza centrale) su cui tutti si riversano a causa degli enormi interessi che su di essa si sono scatenati».

Quali sono le minacce principali che gravano sull’Amazzonia?

«La prima minaccia è il modello di sviluppo seguito. È un modello neoliberista che ha nell’estrattivismo la propria manifestazione più devastante. Essendo ricca di petrolio e di risorse minerarie, l’Amazzonia è colpita dalla “maledizione dell’abbondanza”. Ciò produce una pressione enorme a favore dell’estrazione. In questo modo è come bruciare un archivio naturale: non sappiamo quanta ricchezza genetica potrebbe perdersi.

La seconda minaccia è l’espansione della frontiera agricola (con la soia in prima fila) e dell’allevamento bovino in un territorio inadatto a queste attività. La capacità organica dell’Amazzonia è molto più bassa rispetto ad altri territori. Tuttavia, essendo considerata uno spazio disponibile (a dispetto di eventuali territori indigeni), il disboscamento è incessante (siamo ormai al 25% del totale) e questo sta mettendo a rischio tutto il sistema, in primis quello del ciclo dell’acqua».

Distruggere l’ambiente amazzonico significa implicitamente distruggere coloro che lo abitano.

«La terza minaccia riguarda infatti la sopravvivenza stessa dei popoli amazzonici. I più minacciati sono quelli in isolamento volontario (popoli non contattati). Sarebbero 140 nel mondo, 130 di essi nella Panamazzonia e 110-120 nella sola Amazzonia del Brasile. È una sfida enorme. Come salvare queste sorelle e fratelli che vivono in modo completamente distinto da quello occidentale? I popoli indigeni hanno tutto il diritto di entrare, qualora lo vogliano, nelle dinamiche del nostro mondo, ma debbono anche avere la possibilità di preservare il proprio territorio e la propria cultura.

In questo hanno fallito i governi – di destra e di sinistra – che sono andati contro le proprie costituzioni e accordi internazionali sottoscritti».

Qual è la situazione attuale nei paesi amazzonici?

«In tutti i nove paesi abbiamo situazioni problematiche. Il Brasile – sia con Temer che con Dilma – certamente ha fatto passi indietro rispetto al passato. Per esempio, rispetto alla demarcazione delle terre indigene. Il modello neoliberale e accaparratore sta dominando le decisioni politiche brasiliane. Anche in Bolivia, dove si parlava dei diritti della madre terra, si è fatta marcia indietro come nel caso del Tipnis. Qui si è tolta la intangibilità e una strada taglierà in due la riserva. Pare per favorire gli interessi dei produttori di coca con i quali il governo ha una relazione molto diretta. Infatti, il tracciato della strada non favorisce le comunità, ma segue proprio il percorso della coca.

Anche in Ecuador abbiamo fatto tanti bei discorsi, ma oggi – con il paese dipendente dal petrolio – si sta parlando sempre e soltanto di permettere l’esplorazione petrolifera in zone intangibili, naturali, ancestrali. Quando è uscito il primo barile di petrolio dal parco Yasuní hanno festeggiato. Dicono che ci siano standard elevatissimi per la sicurezza, ma sappiamo tutti che non esiste un impatto ambientale nullo.

Nel Perú ci sono continue perdite di petrolio nei territori delle comunità indigene. I popoli Awajún e Wampis sono stati criminalizzati per avere richiesto la consultazione preventiva, anche se essa è un diritto riconosciuto come costituzionale. E poi c’è la terribile situazione di Madre de Dios (vedere MC, giugno 2012).

In Colombia, come in Perú e in Brasile, c’è molta attività mineraria illegale che usa metalli pesanti che contaminano i fiumi. Già ci sono casi di popolazioni indigene malate a causa del pesce contaminato da mercurio. La condizione di postconflitto ha inoltre determinato dinamiche nuove e una situazione paradossale. Riserve naturali che ricadevano nei territori in mano alla guerriglia erano rimaste integre, ora sono esplorate e date in concessione anche per finanziare il processo di pace e dare alternative agli ex guerriglieri.

In Venezuela, c’è la questione legata al cosiddetto arco minero del fiume Orinoco (negli stati Bolivar, Amazonas e Delta Amacuro, ndr). Qui c’è il più grande progetto di estrazione mineraria del paese, proprio in un luogo di alta biodiversità e di presenza indigena. L’impatto sarà molto grave, come dimostrano varie ricerche. Infine, anche nei paesi amazzonici più piccoli – Guyana, Suriname e Guyana francese – ci sono gravi problemi a causa delle miniere. Insomma, il modello estrattivista si sta approfondendo praticamente ovunque».

I governi dei paesi amazzonici sostengono che non ci sia un’alternativa all’estrattivismo.

«Ma neppure si sforzano di trovare strade alternative. Questo modello ha generato un grande debito con le popolazioni originarie e soprattutto il costo della distruzione dell’Amazzonia è assai maggiore dei benefici e mette a rischio il futuro delle prossime generazioni».

Cos’è la «Red eclesial panamazónica»?

«La Repam è uno sforzo di articolazione di distinte istanze della Chiesa cattolica nel gran territorio amazzonico. Anche se è stata fondata soltanto tre anni fa, essa è il risultato di decenni, per non dire secoli, di presenza sul territorio. Una presenza che ha avuto matrici positive ma anche negative. Come dice papa Francesco, dobbiamo iniziare chiedendo perdono per gli errori storici, i peccati e i crimini commessi nel processo di colonizzazione. Oggi però esiste anche una Chiesa profetica con uomini che hanno dato la propria vita per l’Amazzonia. Approfittando della sua presenza capillare su tutto il territorio, la Repam si è posta al servizio della realtà amazzonica e dei suoi problemi».

In quanto «rete», quali modalità di comunicazione privilegiate?

«Come Repam abbiamo relazioni con varie istituzioni del territorio, tra cui anche quelle che si occupano di comunicazione. O meglio di comunicazione per la trasformazione. Come l’Asociación Latinoamericana de Educación Radiofónica (Aler) o Radialistas Apasionadas y Apasionados».

Con Radialistas (vedere MC, aprile 2016) avete collaborato per un lavoro sulla Laudato Si’.

«Vero. Con José Ignacio López Vigil e i suoi collaboratori abbiamo pensato come far arrivare la Laudato Si’, una delle encicliche più potenti in tema ambientale, al cuore della gente e delle comunità. L’enciclica è scritta in un linguaggio diverso, ma rimane anche un’impronta teologica, scientifica e politica. Il nostro obiettivo era di abbassare il tono per renderla comprensibile alle persone semplici. Per questo abbiamo creato una serie radiofonica di 20 puntate in cui San Francesco d’Assisi ritorna sulla terra e scopre i disastri prodotti dall’uomo. Sfruttando la sua abilità nel parlare con tutti, lo facciamo dialogare con il fratello petrolio, con la sorella soia transgenica, con il fratello mais e via dicendo, percorrendo tutta l’America Latina per far intendere l’impatto del cambio climatico e la gravità della situazione».

Mauricio, come avete accolto l’annuncio del Sinodo panamazzonico dell’ottobre 2019?

«Come una grande opportunità. Il nostro slogan è “amazonizar el mundo” (amazzonizzare il mondo). Che significa rendere cosciente il mondo intero dell’importanza vitale di questo territorio unico. Bellissimo, fragile e profondamente minacciato».

Paolo Moiola


Siti

• il sito della diocesi di Huancayo: www.arzobispadodehuancayo.org
• il sito dell’«Observatorio de Conflictos Mineros en el Perú»: http://conflictosmineros.org.pe/
• il sito della «Rede eclesial panamazónica» (Repam): http://redamazonica.org/




Angola: Verso una nuova missione ad gentes

Testo sull’Angola di Marco Bello, foto di Diamantino Antunes |


Angola. Dalle grandi città in cui svettano i grattacieli e brulicano le baraccopoli, alle savane sperdute e spopolate. In Africa le sfide per la missione ci sono tutte. Così i missionari della Consolata iniziano un nuovo servizio. In una zona lontana e (quasi) abbandonata da 50 anni. Portando la loro esperienza e lo stile che li caratterizza.

È l’11 settembre del 2010 la data sulla prima lettera spedita da monsignor Jesus Tirso Blanco al superiore dei missionari della Consolata, all’epoca padre Aquileio Fiorentini. In essa il vescovo di Luena lo invita a mandare un’équipe missionaria nella sua diocesi. Siamo nell’Angola profonda, nella provincia di Moxito, al confine con Repubblica Democratica del Congo e Zambia. Il cuore dell’Africa.

Monsignor Tirso Blanco è argentino e salesiano. Ha passato una vita in Angola e dal 2008 è vescovo di questa diocesi, tra le più vaste dell’Africa subsahariana. Conosce il valore e lo stile dei missionari della Consolata, in particolare per il loro lavoro in Mozambico, paese lusofono, che ha similitudini storiche e culturali con l’Angola.

Ci racconta padre Diamantino Antunes, superiore dei missionari della Consolata in Mozambico e incaricato di seguire l’Angola: «Da quando è stato ordinato vescovo, mons. Tirso Blanco ha cercato per la sua diocesi quello di cui aveva, e tuttora ha, più bisogno: missionari. Non avendo clero locale e pochi religiosi missionari, è alla ricerca di équipe missionarie per far rivivere le antiche missioni che sono abbandonate da 50 anni, da quando è iniziata la guerra coloniale. Si rivolge sia in Angola sia all’estero. Lui conosce la nostra esperienza in Africa e, in particolare, nella missione ad gentes. Conosce il lavoro che facciamo in Mozambico dove siamo in aree difficili, di prima evangelizzazione. E apprezza il nostro approccio nella formazione di catechisti, dei laici come membri attivi della chiesa. Ha cercato quindi missionari qualificati per la sua diocesi, che potessero portare un valore aggiunto. Occorre essere disposti a lavorare in zone distanti e difficili, con metodologia nuova, anche se già sperimentata altrove».

Padre Diamantino è stato nella diocesi di Luena e in particolare nella cittadina di Luacano, lo scorso dicembre. È qui che il vescovo ha chiesto ai missionari della Consolata di riaprire una missione, e lo ha fatto tramite una seconda lettera, nel febbraio 2015, scritta a padre Stefano Camerlengo, eletto nel frattempo superiore dell’Istituto.

Missionari della Consolata in Angola. (© AfMC / Diamantino Antunes)

Una provincia isolata

Area molto vasta e sotto popolata, la provincia di Moxico è stata particolarmente toccata dal conflitto. Prima la guerra di liberazione dai coloni portoghesi (iniziata nel 1961) e poi, dal ‘75, la guerra civile tra Mpla (Movimento popolare di liberazione dell’Angola) e Unita (Unione per l’indipendenza totale dell’Angola). «La guerra ha colpito duro qui. Dall’inizio è stata zona di influenza di Unita, che l’ha controllata fino alla fine, nel 2002. Sono stati usati bombardamenti aerei che hanno distrutto le poche costruzioni permanenti, tra cui le chiese». Proprio qui è stato ucciso Jonas Savimbi, il leader storico dell’Unita, evento che ha portato alla fine delle ostilità.

A causa della guerra la provincia si è quindi ulteriormente spopolata. Molti sfollati sono fuggiti nei paesi confinanti e numerose sono state le vittime.

Oggi assistiamo a un impegno del governo per ricostruire le infrastrutture. Ricorda padre Diamantino: «Le cose stanno migliorando dal punto di vista della comunicazione. È stata ripristinata la ferrovia che collega la costa con Luena e i paesi confinanti. Il treno passa anche da Luacano. Questo è importante per rompere l’isolamento della zona, sia verso la capitale, sia verso gli altri stati. È una regione fertile per cui il governo sta cercando di svilupparla».

Il governo, in origine di ispirazione marxista leninista, è molto collaborativo con la diocesi, e vede bene l’insediamento di nuovi missionari in zone sperdute. Ci spiega padre Diamantino: «Passati gli anni della rivoluzione e dell’antagonismo, oggi il governo è interessato a collaborare con la chiesa cattolica. È infatti la chiesa maggioritaria nel paese e ha avuto molta influenza sull’educazione e la formazione. Le autorità vedono come un grande aiuto la sua presenza, soprattutto in questi posti più isolati».

E continua: «Forse anche perché la crisi economica sta attraversando il paese. In ogni caso la chiesa cattolica è vista come un’istituzione che può fare la differenza. In particolare, il vescovo salesiano ha una preoccupazione sociale molto forte. Lavora per attivare progetti per alfabetizzazione, scuola, sviluppo. E il suo lavoro è molto apprezzato».

Arrivo del gruppo di visitatori Missionari della Consolata a Luacano – Padre Freddy Gómez in compagnia di Dom Jesus Tirso Blanco, vescovo di Luena, all’arrivo alla stazione di Luacano, nell’Est dell’Angola, il 19 dicembre 2017 (© AfMC / Diamantino Antunes)

Un altro paese africano

Ma perché i missionari della Consolata, già presenti in nove paesi del continente, hanno deciso di affrontare una nuova sfida, proprio nel gigante angolano? Lo abbiamo chiesto a padre Fredy Alberto Gómez Pérez, che è stato tra i primi tre ad arrivare nel paese, il primo agosto 2014.

«Già nel capitolo generale di São Paulo del 2005 (riunione di tutti i delegati dell’Istituto nella quale si elegge il consiglio e il superiore generale, ndr) si era parlato di una nuova apertura missionaria e in particolare nell’Africa lusofona. Questo perché tra i paesi di lingua portoghese l’Istituto è presente solo in Mozambico. L’idea è stata ripresa sei anni più tardi con più forza ed è iniziata una ricerca per definire il paese», ci racconta padre Fredy.

«La scelta è caduta sull’Angola e le motivazioni erano due: il bisogno nel paese di missionari ad gentes, in terra di prima evangelizzazione, e una richiesta da parte di diocesi con bisogno di clero, per appoggiare il lavoro nella pastorale urbana». Padre Francisco Lerma Martínez, all’epoca superiore dei missionari della Consolata in Mozambico, oggi vescovo di Gurué, intraprese un viaggio in Angola, dove visitò tutte le diocesi e si confrontò con i diversi vescovi.

Era il 2011 ed esisteva già una richiesta pendente: quella di monsignor Tirso Blanco della diocesi di Luena. «I superiori si confrontarono con diverse congregazioni e vescovi e fu loro sconsigliato di iniziare con una missione in una zona come quella, lontana e complessa, un luogo di frontiera». La scelta quindi è andata alla diocesi di Viana, creata nel 2008 da uno smembramento dell’arcidiocesi di Luanda (la capitale). Qui il contesto è quello della periferia urbana della capitale, con alta densità di popolazione e il continuo arrivo di gente dalle province. I cattolici in quest’area sono il 40% della popolazione e la problematica principale è la mancanza di sacerdoti.

Capella di un villaggio di Luacano (© AfMC / Diamantino Antunes)

I primi tempi

Oltre a padre Fredy, gli altri missionari della Consolata a stabilirsi in Angola sono stati padre Dani Antonio Romero Gonzales, venezuelano, e padre Sylvester Oluoch Ogutu, keniano. Una squadra piuttosto giovane: tutti sotto i 40 anni e freschi di ordinazione. Solo Fredy aveva un’esperienza precedente in Repubblica Democratica del Congo.

«Ci accolsero i missionari Xaveriani di Yarumal, una congregazione colombiana. Ci ospitarono presso di loro alcuni mesi. La collaborazione fu ottima e lo è tuttora. La parrocchia che avremmo dovuto gestire, sant’Agostinho a Kapalanga, era stata ritagliata da un’altra molto più vasta. In un’area di 27 km2 vivono 17.000 persone. Ci sono otto cappelle intorno alle quali si riuniscono altrettante comunità. I molti fedeli avevano grosse difficoltà a recarsi nella sede parrocchiale piuttosto distante e la presenza dei sacerdoti era temporanea».

Ricorda padre Fredy: «Nei primi incontri con la comunità abbiamo sentito una sete profonda di presenza dei padri, e dell’ascolto della parola di Dio. Un sentimento e una necessità di tutti. Siamo stati accolti con molto calore». Le prime difficoltà sono state invece di tipo logistico. La parrocchia possedeva solo due terreni, su cui edificare la chiesa e la casa. «Essendo appena arrivati cominciavamo da zero: non avevamo casa, né mezzi di trasporto. Si è subito creata un’iniziativa di grande cooperazione missionaria, per cui gli altri paesi africani in cui i missionari della Consolata sono presenti, ma anche europei e sudamericani, in particolare il Brasile, hanno raccolto fondi per la nuova presenza in Angola».

I tre missionari sono stati per alcuni mesi dagli Xaveriani, per poi, grazie all’appoggio della comunità di Kapalanga, affittare un alloggio nei pressi della parrocchia, dove abitano tuttora. Racconta ancora padre Fredy: «Grazie alle offerte locali riuscimmo a costruire un salone, che funge oggi da chiesa parrocchiale temporanea, oppure da salone per le riunioni. Un altro problema pratico è stato il trasporto. Chiedevamo auto in prestito o andavamo con i mezzi pubblici e i mototaxi. Finalmente abbiamo acquistato un’auto e una moto».

L’accoglienza è stata dunque molto calorosa e, ricorda padre Fredy, difficoltà logistiche a parte: «Era necessario investire tempo nella formazione della comunità, non solo nelle infrastrutture, affinché assumesse una coscienza di vera famiglia. I fedeli ci accolsero molto bene e si diedero subito molto da fare per aiutarci, non solo per l’integrazione. Anche per trovare soluzioni ai problemi pratici».

Cappella di Luacano (© AfMC / Diamantino Antunes)

Secondo (e terzo) atto

Dopo il primo anno si è iniziato a parlare di una seconda missione da aprire. Restava pendente la richiesta di monsignor Tirso Blanco per Luacano. Ricorda padre Fredy: «Le opzioni sul tavolo erano due: Luacano in Luena, oppure Caxito, capitale della provincia di Bengo. Una diocesi nuova come quella di Viana e non lontana. Si optò per quest’ultima. Questo perché, essendo una seconda missione, era preferibile fosse vicina alla prima, per comodità logistica. Per condividere le esperienze e rafforzare la presenza dell’Istituto in Luanda nella pastorale della periferia urbana, molto popolata e carente di sacerdoti».

Non si poteva però restare sordi alla richiesta dell’Angola profonda, così «si decise che la terza apertura sarebbe stata in Luena, in tempi non troppo lunghi».

Sono arrivati in Angola tre nuovi missionari molto giovani, tutti sotto i 35 anni: Luis Antonio de Brito, brasiliano, e due tanzaniani: Heradius Germanus Mbeyela e Marcos Mwasatila Mapinduzi Simbeye. E nel 2016 è iniziato il lavoro nella parrocchia di Funda, diocesi di Caxito.

Questione di stile

Adesso i tempi sono maturi anche per Luacano e, dopo diverse visite, i missionari si apprestano a iniziare questa nuova avventura, entro la fine dell’anno.

Padre Diamantino: «Come missionari è una grande sfida. Anche se abbiamo l’esperienza e siamo ad gentes, siamo da poco in questo paese e le nostre due presenze vicino a Luanda sono molto diverse. Si tratta di zone urbane o periurbane, con buona presenza cattolica. Il lavoro è più facile da organizzare, da portare avanti. Lì stiamo portando un po’ del nostro stile. A Luacano, il contesto è molto diverso. I cattolici sono solo l’8-9% e il territorio è vasto e spopolato. Inoltre, oggi l’Istituto non ha a disposizione gli stessi fondi che aveva in passato e tutto diventa più difficile. Tuttavia, il gruppo di missionari che abbiamo in Angola è giovane e motivato. La scelta non è stata imposta dall’alto, ma sentita. Perciò sono disponibili ad andare, anche se la situazione è molto più difficile di dove siamo adesso. A Kapalanga e Funda c’è molto lavoro, ma anche molte soddisfazioni. Dove andremo a Luena si dovrà cominciare tutto da capo, occorrerà molto spirito missionario, per andare a cercare le persone, ricostruire le comunità. Sapendo che tante cose mancheranno: la tecnologia, le vie di comunicazione. Ma abbiamo uno spirito missionario da pionieri. Anche in Angola il nostro stile di presenza è marcato: con pochi mezzi, una presenza di contatto con la gente, e questo porta a una grande collaborazione da parte della popolazione».

Saluto di Mons. Tirso a Luacano (© AfMC / Diamantino Antunes)

 

Gente molto religiosa

Un’altra sfida nell’area di Luacano è la penetrazione di quelle che padre Diamantino chiama «sette cristiane e chiese indipendenti africane», che hanno preso lo spazio lasciato libero dalla chiesa cattolica.

Le prime sono costituite da gruppi che hanno origini esterne e si stanno diffondendo. Le chiese indipendenti africane, invece, sono un fenomeno in crescita nel continente. «Fondate da africani, in Africa, per gli africani, non sono legate a nessuna chiesa storica. Alcuni fondatori si considerano veri profeti. Queste chiese hanno qualcosa del cristianesimo, come l’uso del Vangelo, ma anche molti aspetti delle religioni tradizionali africane». In particolare, padre Diamantino si riferisce anche a riti più legati alla sfera della stregoneria che della religione.

«In generale questo popolo con cui andremo a lavorare è rimasto un po’ indietro, perché è molto isolato, questo anche nelle aree confinanti degli altri due paesi. Perciò non si sono lasciati molto penetrare dalla colonizzazione, né dall’evangelizzazione, rimanendo molto legati alla tradizione. Nei confronti dei popoli vicini hanno delle caratteristiche proprie. Praticano molto religioni tradizionali ma anche stregoneria».

E continua: «Quello che ho sentito è che si tratta di un popolo un po’ passivo. Nonostante la terra sia fertile, è poco sfruttata. Si dedicano in prevalenza alla pesca (c’è abbondanza di pesce nel lago Diolo, il più grande del paese, ndr) e alla caccia. Si limitano a poche colture, come la manioca. Anche dal punto di vista dello sviluppo umano sono indietro rispetto ad altri popoli. Hanno ricevuto meno educazione, e hanno meno intraprendenza di altri popoli. Penso che dipenda anche dall’isolamento e da un certo atavismo culturale». Fa quindi un parallelismo con una zona di missione simile in Mozambico: «È una zona simile dal punto di vista religioso e culturale a quella di Fingué, nella diocesi di Tete, in Mozambico (Cfr. MC maggio 2015). La differenza è che lì sono confinanti con paesi più sviluppati e questo fornisce influsso positivo.

A Fingué, nonostante le difficoltà c’è da parte della gente curiosità e apertura. Abbiamo lavorato per creare una base affinché la comunità possa svilupparsi, ovvero formato laici, catechisti, in grado di fare essi stessi la chiesa. L’esperienza in Mozambico può insegnarci molto per Luacano».

L’avventura continua

A fine giugno 2018 padre Fredy Gómez e padre Luiz Antonio de Brito si recheranno a Luacano con l’obiettivo di incontrare tutte le comunità. In particolare, quelle intorno al lago Diolo, che è l’area dove si concentra la popolazione. Qui si riesce ad andare solo quando non è stagione delle piogge. Il programma prevede che tre missionari della Consolata vi si stabiliscano a settembre.

Ci spiega padre Fredy: «Dobbiamo incontrare i leader locali e la gente attiva nella pastorale, come i catechisti e i laici impegnati. Sono coloro che sono riusciti a mantenere la presenza cristiana e cattolica in quelle zone durante gli ultimi 50 anni».

Marco Bello

Si preparano i tamburi per la celebrazione della Messa (© AfMC / Diamantino Antunes)




Vita e speranze a Moria,

l’hotspot di Lesbo

Testo e foto su Lesbo di VALENTINA TAMBORRA |


L’isola greca di Lesbo è a pochi chilometri dalle coste turche. È diventata passaggio naturale della rotta balcanica dei migranti. Primo lembo di terra dell’Unione europea verso il Medio Oriente. Qui è stato creato un centro di identificazione, il «campo» di Moria, dentro e fuori il quale i profughi cercano di sopravvivere. Siamo andati a raccogliere alcune delle loro storie.

Lesbo. «This is not Europe» è la frase che si sente ripetere incessantemente a Moria. Solo 8,6 km separano il campo di Moria dal resto dell’Europa. E il resto dell’Europa, sull’isola di Lesbo, inizia a Mytilini. È da qui, infatti, che partono i traghetti che collegano l’isola al continente, ad Atene.

Il porto di Mytilini è il fulcro commerciale del luogo. Negozi di souvenir, ristoranti, bar alla moda, musica ad alto volume sparata tutto il giorno dagli altoparlanti sul lungomare. Uno scenario che difficilmente riesci a spiegarti: due mondi paralleli sono divisi da un muro invisibile, quello fra il campo (ufficialmente hotspot) di Moria e il resto dell’isola. È qualcosa che si fa fatica a comprendere, a tollerare.

Moria, centro di accoglienza e identificazione, luogo adatto a ospitare non più di 2.000 persone, ad oggi, marzo 2018, ne contiene o, sarebbe meglio dire, ne trattiene quasi 6.000. Afghanistan, Siria, Iraq sono i luoghi di origine per la maggior parte degli ospiti.

L’attesa per essere ricollocati o rimpatriati può durare mesi, a volte anni.

Una vita al limite

Qui le condizioni di vita sono disperate: mancano servizi igienici adeguati, acqua calda, abiti, generi di prima necessità. Le donne indossano pannolini per non essere costrette a recarsi alle latrine dove manca la luce e dove spesso, purtroppo, si verificano aggressioni sessuali.

Mancano inoltre alloggi adeguati, migliaia di persone vivono accampate in piccole tende nel campo o subito all’esterno, nell’uliveto denominato Olive Grove che è diventato, a tutti gli effetti, un’estensione del campo profughi. Sulla nuda terra vengono piantate tende instabili e traballanti, inadatte alla pioggia, al vento e al clima rigido dell’inverno. Nel 2016 sono morte cinque persone per via del freddo. L’elettricità viene fornita con cavi da interno, che passano sul terreno mettendo così a rischio l’incolumità delle persone. Camminando nell’accampamento non è raro vedere i bambini (che qui sono quasi il 40% dei migranti) giocare con tutto ciò che trovano a terra, vetro, cocci, spazzatura e, appunto, cavi elettrici.

Per scaldarsi si brucia quello che si trova, plastica compresa.

E ancora, non esiste un servizio medico adeguato, né un supporto psicologico, e neppure mediatori culturali a sufficienza.

La tigre Tamil

Ed è proprio per questo motivo che Parathi, la prima persona di cui ho raccolto la testimonianza, è bloccato sull’isola da 23 mesi. Per mancanza di persone che possano occuparsi di raccogliere la sua storia, di comunicare la sua richiesta d’asilo al governo greco.

Parathi viene dallo Sri Lanka, è una «tigre Tamil», ovvero un uomo che ha combattuto per 13 anni per la liberazione della propria terra. Fuggito perché perseguitato, si trova bloccato a Moria senza un interprete. Parathi, chiamato da tutti «Maradona» (per la sua abilità nel gioco del calcio, una delle poche attività ludiche previste per dare sostegno ai migranti), non parla infatti un buon inglese. Avrebbe bisogno di un traduttore tamil ma a Moria non se ne vedono. L’unico in grado di tradurre la testimonianza è un Tamil residente nel Nord Europa. L’Easo (Ufficio Europeo di Sostegno per la richiesta d’asilo) deve avere evidentemente dei problemi nel reperirlo, in quanto in 23 mesi Parathi è riuscito a parlarci una sola volta e la sua domanda d’asilo è stata poi rigettata: si ritiene infatti, a livello internazionale, che in Sri Lanka non esistano più discriminazioni razziali o conflitti interni.

Ma basta fare una semplice ricerca per capire che ciò non corrisponde a verità: il Nord Est dello Sri Lanka è ancora militarizzato e come da dichiarazione dell’arcivescovo di Mannar, monsignor Emmanuel Fernando, dal 2009 mancano 146.679 persone all’appello. Scomparsi, uccisi forse, in quello che è un vero e proprio genocidio di cui non si parla.

Parathi sorride, nonostante tutto. Con il poco cibo che gli viene dato da chi gestisce il campo, mi offre il pranzo. Siamo seduti su una panca in legno tutta traballante: l’ha costruita lui, con la legna trovata nell’Olive Grove. Mi prepara un piatto di riso, pollo e pomodoro, qualcosa che, dice: «Mi ricorda casa».

Casa, dove ha lasciato due figlie, Supidisha, 7 anni, e Karshika, 5. Mi mostra la foto sul cellulare: è orgoglioso delle sue bambine, come ogni papà. È in quel momento che mi dice «sono 23 mesi che non le vedo». La mano trema un po’. Gli occhi si fanno lucidi.

Insieme a lui, nel grande tendone posto al centro dell’Olive Grove, altri quattro Tamil: Hari, Yoga, Danesh e Kayu. Anche loro aspettano una risposta, sono qui da meno tempo di Parathi, ma comunque da più di un anno. L’unico spazio «privato» per loro, è un letto a castello con delle coperte vecchie e logore appese a fare da separé. Nel tendone infatti, ci sono più di 200 persone.

Quando li saluto, mi sorridono «We miss you, write us mam», e da allora, da quando ci siamo salutati il 1 gennaio del 2018, non passa giorno che Parathi non mi mandi con un WhatsApp la buonanotte e il buongiorno.

Il vecchio e il nipote

Il nonno ha 70 anni. Per dirmelo me lo indica con le mani, come quando, da bambini, iniziamo a contare. «Doctor, doctor», ha imparato questa parola perché è ciò di cui ha più bisogno. Seduto sul ciglio di una piccola tenda canadese, mi chiama così, pensando di aver trovato ciò che più gli serve.

Mohamed è arrivato dall’Afghanistan insieme a suo nipote adolescente. È un «caso vulnerabile»: alla sua età non potrebbe essere altrimenti. La sua condizione è scritta, in greco e in inglese, sul certificato che mi mostra. Lui non capisce né l’una né l’altra lingua ma sa, in qualche modo, cosa significa quel timbro.

Sa che gli darebbe diritto a cure mediche, a un giaciglio asciutto e caldo, a cibo che possa masticare, senza che le mascelle gli dolgano, senza far fatica. Quando mi avvicino si toglie il cappellino di lana vecchia, infeltrita. Mi mostra delle cicatrici, mi prende una mano e me la porta alla sua testa, vuole che le tocchi, cerca di farmi capire dove sente dolore.

Gli mostro la mia macchina fotografica, mimo il gesto di scattare una foto. Non c’è nessun mediatore culturale con me in quel momento, non so spiegarglielo chi sono, non so dirgli che non posso fare niente per lui. Prima di andare, gli mostro ancora la macchina fotografica, lo indico, mi indico. Questa volta sì, gli sto chiedendo il permesso. Lui mi guarda, si raddrizza sostenendosi con un bastone ricavato da un ramo d’albero, si porta la mano al cuore e annuisce: scatto una foto, due, tre mentre mi allontano.

Lo guardo, fermo così, una mano sul bastone, un sorriso appena accennato, mi saluta a suo modo. Spero abbia capito. Spero, soprattutto, sia servito a qualcosa.

Sarà un altro uomo, afghano anche lui, a raccontarmi del vecchio Mohamed e di suo nipote. A dirmi di come quel ragazzo si prende cura ogni giorno del nonno: la coda per il cibo, tre volte al giorno, può durare anche due ore. È solo per quello che suo nipote si allontana, per il resto è sempre con suo nonno. L’unica famiglia che gli è rimasta.

Una nuova lingua

Khder ha 60 anni e sta imparando una nuova lingua. Le prime parole che mi dice sono queste: coperta, freddo. Non «Ciao, come stai? come ti chiami? quanti anni hai?». E a seguire: malato, scarpe.

Perché qui, a Moria, a nessuno importa di come ti chiami, da dove vieni, da cosa scappi. A Moria conta l’essenziale, a quello si deve badare e devi saperlo chiedere o potrebbe non arrivare mai.

Khder è il più anziano di una famiglia «allargata»: in tutto, divisi in tre tende canadesi, ci sono dodici persone. Rahema sua moglie, la loro bambina di nove anni, Bahar, la sorella più grande, Barham. E poi ancora Jasm, Kherea, Sema, Soma, Adonea, Aland, Mhabad e Kazm. Sono curdi, vengono dal Kurdistan iracheno.

Kazm, per la sua patria, ha combattuto: era un peshmerga, e la battaglia gli è costata quasi una gamba. Ha poco più di quaranta anni e per muoversi deve sostenersi con un bastone. Zoppica vistosamente: anche lui, come il «nonno» afghano, è un caso vulnerabile. E poi ci sono i bambini, la più grande ha nove anni, la più piccola poco più di uno. Nessuno di loro parla inglese, ed è per questo che passiamo un pomeriggio e una sera raggomitolati in una delle tende, a cercare di insegnare loro qualche parola. Il vecchio Khder ha trovato un quaderno con la copertina verde, consunta, le pagine ingiallite. Deve essere un rimasuglio, magari una donazione, chissà. Lì sopra scriviamo tutte le parole che possono essergli utili. Coperta, freddo, malato, scarpe. Imparare tutto da capo a sessant’anni, non comprendere nulla di tutto ciò che ti sta intorno. Un alfabeto diverso, incomprensibile, un luogo dove sembra che a nessuno importi della tua sorte. Perché poi per i curdi è anche peggio che per tutti gli altri: iracheni e afghani e siriani con loro non parlano. Un ragazzo, quando gli chiedo di aiutarmi con quella famiglia, dicendogli che ho bisogno di qualcuno che traduca, mi risponde: «Curdi?» e sputa per terra, indicandomi il fango. Fuggire da casa propria, dove sei odiato, e piombare in un altro inferno, dove ugualmente sei messo da parte, ghettizzato o in alternativa, ignorato.

È solo grazie a un mediatore culturale della clinica mobile di Medici senza frontiere che riesco a trovare il modo di aiutare questa famiglia: Mayhar, diciannove anni, rifugiato afghano, arrivato su un gommone due anni fa, oggi è un membro dello staff dell’Ong internazionale. È lui che ci fa da tramite. Riusciamo così a portare i bimbi alla clinica mobile, scopriamo che Soma è affetta da anemia. Se ne prenderanno cura qui.

La clinica ogni sera va smontata e portata via, perché provare a dare una mano assume a volte contorni inquietanti. I proprietari delle terre adiacenti infatti, per lo più contadini che qui hanno i loro uliveti, temevano che la struttura potesse trasformarsi in un altro accampamento. Non è vero, ovviamente, la clinica funziona solo di giorno e il grande tendone centrale, accanto ai camion che contengono gli studi medici, serve solo come sala d’aspetto. Alcune panchine, una saletta appartata per le donne che allattano e dei giochi, per intrattenere i bambini. Medici senza frontiere per poter continuare a operare, ha preso accordi con i proprietari delle terre limitrofe. Così ogni sera e ogni mattina, in poco più di mezz’ora, la clinica viene allestita e poi smontata.

Un hammam miraggio

A Moria la solidarietà pare non esistere. Almeno, non da parte di chi dovrebbe garantirla. Sono piuttosto le persone comuni, o alcune Ong, che lavorano fuori dal campo. Non appoggiando le politiche adottate dal governo greco, che cercano di tamponare come e dove possono.

Barham, la sorella della piccola Bahar, mi mostra le sue foto di quando viveva in Kurdistan. Ventitré anni, gli occhi grandi e i capelli neri, folti: è bella questa ragazza, bellissima. «Moria no good», questo sa dirmi in inglese, e gli occhi le si velano. A gesti mi fa capire che non riesce a lavarsi da settimane. Procuro loro delle salviette umidificate e dello shampoo secco.

Facendo domande, scopro però che a Mytilini una donna, una spagnola che lavora per Sao Association, una Ong tedesca, ha tentato una grossa impresa: ha messo in piedi un hammam gratuito per le donne che vivono a Moria. Si chiama «Bashira» e offre la possibilità alle donne di avere un bagno tutto per sé per trenta minuti.

Ogni giorno la coda fuori da Bashira è lunghissima: si snoda lungo la stretta via che dal mare porta a questo vicolo incuneato fra le vecchie case del porto di Mytilini. Un vociare allegro, mariti che tengono per mano i bimbi in attesa che la loro moglie possa concedersi un attimo di pace. Per poterselo permettere però, devono prenotarsi perché nel campo di Moria la voce si è sparsa e le donne continuano ad affluire numerose. Così capita, magari, che a Bashira ci si riesca a andare una volta al mese, o due se sei fortunata. Non è cattiva volontà, anzi: questa Ong è nata proprio per garantire una piccola oasi di normalità alle donne. Non è facile resistere, ma per ora l’hammam resta in piedi. Difficile garantire un posto a tutte, servirebbero più spazio e più bagni, ma il progetto Bashira a oggi è l’unica realtà che consente un po’ di intimità, uno spazio sicuro alle donne che vivono fra tende e container.

Progetto di speranza

Incontro i coniugi Kempson con il loro progetto «The Hope Project». Sono marito, moglie e una figlia ventenne ritirati a Lesbo per vivere lontano da Londra, da una metropoli dura e difficile. Il primo sbarco se lo ricordano bene: hanno sentito urlare dalla spiaggia davanti casa. Sono usciti e hanno fatto quello che chiunque dovrebbe fare. Hanno aiutato. Hanno preso per mano donne, vecchi, uomini, bambini e li hanno asciugati, rincuorati.

«The Hope Project» nasce per far fronte alle esigenze più basilari dei profughi: abiti, scarpe, pannolini per bimbi, assorbenti per le donne, sapone, shampoo. I coniugi Kempson, grazie alle donazioni ricevute da privati, sono riusciti a creare dei magazzini non lontano da Moria. Ogni giorno distribuiscono gratuitamente beni di prima necessità. Il flusso di uomini, donne e bambini dai magazzini è incessante.

Dalla Siria, bloccati a Lesbo

La solidarietà, a Moria, arriva dalle piccole realtà. Il governo greco infatti, che ha preso ufficialmente in mano la gestione dell’hotspot, pare non sia in grado di garantire una situazione almeno dignitosa a queste seimila persone che vivono in attesa di una risposta alla richiesta d’asilo. Certo non deve essere una questione di danaro: l’Unione europea non ha mai smesso di sovvenzionare il governo greco. Il problema, come sempre, è capire dove finiscono queste sovvenzioni. Perché se fossero correttamente utilizzate, non si avrebbe bisogno di Ong che garantiscano assistenza medica e psicologica a persone che, in alternativa, sarebbero abbandonate.

«Assad ci ammazzava con il gas, voi con il freddo». Mohamed, 36 anni. Siriano. A casa ha lasciato moglie e figlia. È fuggito da solo, pensando di trovare una casa e un luogo sicuro dove farsi raggiungere. Ma l’intervista per la richiesta d’asilo gli è stata fissata per l’ottobre del 2019.

Mohamed mi mostra le foto di quella che era la casa del fratello, completamente distrutta dai bombardamenti. Distrutte anche le vite della sua famiglia: il nipote, il fratello, la cognata sono morti così, fra le macerie di casa.

«So che non si dice davanti a una donna, ma se sento un rumore forte di notte, mi faccio la pipì addosso». Mi racconta anche che ogni notte piange nel sonno, ha incubi, e mentre me lo dice, non riesce a trattenere le lacrime. Moglie e figlia cerca di sentirle ogni giorno, sperando che la data del colloquio venga rivista, non ce la fa, mi dice, non può aspettare un anno: «E se la mia bimba non dovesse più riconoscermi?».

Mohamed condivide la tenda con Abd: anche lui siriano. Entrambi musulmani, ma la moglie di Abd, che è ancora in Siria, è cattolica. Abd mi mostra la piccola Bibbia che tiene accanto al Corano: «È sempre Dio no? Ha solo un nome diverso».

Mi mostra il braccialetto che porta al polso: una fila di grani neri e una croce. È di sua moglie, vuole che lo prenda io: «Così ti ricordi di me».

Scritte

Mentre mi allontano da Moria noto una scritta su un muro. È quasi sbiadita ma riconosco i versi iniziali di una famosa poesia: «No one leaves home, unless home is the mouth of a shark», nessuno lascia la propria casa a meno che casa sua non siano la bocca di uno squalo. Sono i versi di Warsan Shire (scrittrice britannica di origini keniane-somale, ndr). Parole bellissime, piene di significato ma che qui, scritte sul muro, sembrano quasi una presa in giro.

Moria è un limbo, non un rifugio. Sono molto più reali le parole scritte sopra un altro muro, quello sormontato dal filo spinato, proprio all’ingresso del campo «Welcome to prison», benvenuti in prigione.

Chi lascia le fauci di uno squalo non dovrebbe finire nel ventre di una balena.

Una realtà da nascondere

C’è una frase che mi torna prepotentemente alla memoria ogni volta che penso a Moria, sono parole di Martin Luther King: «Non ho paura della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti». Di questo luogo infatti, è difficile parlare. Eppure, siamo in Europa, a pochi chilometri dall’Italia, un’isola conosciuta in tutto il mondo non solo per la sua bellezza ma anche per aver dato i natali a Saffo, poetessa del sesto secolo a.C. Siamo in Grecia, culla della cultura, luogo che è sinonimo di democrazia, perché è qui che nasce questa forma di governo, creata per far sì che ogni singolo individuo abbia la possibilità di esprimersi, di far valere i propri diritti.

Nei giorni trascorsi a Lesbo però, questi diritti non mi sono parsi così scontati: fotografi e giornalisti se ne vedono, ma all’interno del campo è proibito loro di entrare, e fuori dal campo non è comunque così agevole muoversi. La polizia vigila, non solo sui migranti. Moria è una realtà scomoda, meglio dunque che non venga raccontata.

Valentina Tamborra

Classe 1983, milanese. Si occupa di reportage e ritratto e nel suo lavoro mescola narrazione e immagine. Ha collaborato con alcune Ong come Amref, Medici senza frontiere e Albero della vita. I suoi progetti sono stati oggetto di mostre a Milano, Roma e Napoli, in luoghi come il Teatro Franco Parenti (Milano) e il Maxxi (Roma). Ha fatto numerose pubblicazioni sui media nazionali. Il suo lavoro «Doppia Luce» è stato oggetto di un ciclo di conferenze in Nuova accademia di belle arti.

www.valentinatamborra.com




Venezuela. I Warao in fuga dal delta dell’Orinoco

Testo e foto su i Warao di Zachariah Kariuki |


Coinvolto in una profonda crisi politica, economica e sociale, il Venezuela vive una situazione drammatica. La popolazione soffre per la carenza di cibo, medicine, trasporti, alloggio, lavoro, servizi di base come ospedali, scuole, acqua, elettricità. Le condizioni peggiorano ogni giorno mettendo a rischio molte vite. Si stima che oltre il 50% della popolazione viva in condizioni di estrema povertà. Questa situazione di crisi ha causato enormi migrazioni verso i paesi vicini, in particolare la Colombia e il Brasile (Roraima).

Anche molti indigeni warao dello stato venezuelano di Delta Amacuro sono stati costretti a lasciare le loro terre per stabilirsi inizialmente a Pacaraima, località brasiliana al confine, per dirigersi poi verso le periferie di città come Boa Vista e Manaus, dove attualmente sono accampati.

 

La crisi venezuelana

Il paese, pur con una quantità enorme di risorse naturali, sta attraversando una delle crisi più profonde della sua storia. Nel 1999 l’arrivo al potere dell’oggi scomparso Hugo Chávez Fria, con i suoi discorsi a favore dei poveri e la promessa di una nuova nazione ispirata da ideali socialisti – sostenuto dal patrocinio politico di Fidel Castro -, aveva aperto una nuova pagina, quella della Quarta Repubblica, nella storia del paese.

Approfittando dell’alto prezzo del petrolio sul mercato internazionale, Chávez aveva dato il via a una serie di programmi sociali che tendevano a favorire i poveri a discapito dei ricchi, della proprietà privata e di tutto ciò che sapesse di capitalismo. Si erano create missioni socialiste di ogni tipo, distribuendo denaro con facilità. Le conseguenze di tale politica non tardarono ad arrivare. Con l’esproprio delle proprietà private e la loro nazionalizzazione, la produzione agricola era diminuita rapidamente e il paese si era trovato a dover importare prodotti di prima necessità come riso e farina e altri alimenti.

La morte di Chávez e l’ascesa al potere dell’attuale presidente Nicholas Maduro erano coincise con la crisi economica globale e la caduta del prezzo del petrolio, ma il governo non aveva fatto nessun passo indietro. La crisi era diventata totale, non solamente economica, ma anche istituzionale, politica e sociale.

Ufficialmente il paese vive oggi in uno stato di iperinflazione. I prezzi continuano a crescere e sembra che non ci sia modo di frenarli (vedi box). La risposta del governo di Maduro e dei suoi è sempre quella di incolpare «la guerra economica» che sarebbe fatta dalla destra venezuelana e dagli Stati Uniti.

Si sono tentate molte strade per fermare l’inflazione, ma nessuna funziona: i buoni, il controllo del cambio, l’aumento frequente dei salari, e, ultimamente, il lancio della criptomoneta chiamata Petrodolar.

Il salario minimo (che è quello che la maggioranza dei venezuelani guadagna) è aumentato fino a due milioni e 500mila bolivares (inclusivi del bonus alimentare), però – come dicono gli stessi venezuelani – questo non ha risolto niente. A parte le produzioni sussidiate dal governo e vendute attraverso i Clap (Comité Locales de Abastecimiento y Producción) e che, di quando in quando, arrivano alle famiglie, i prezzi di tutte le cose necessarie sono astronomici. Così un salario minimo non basta a vivere per una settimana. Il futuro continua ad essere molto incerto.

Le conseguenze

La situazione di crisi generale porta con sé alcune consequenze macroscopiche. La prima e la delinquenza. Benché il governo insista nel dire che l’indice di delinquenza è diminuito, la realtà è un’altra. Tutti i giorni ci sono notizie di attacchi, furti e gente ammazzata durante rapine. Si dice che almeno otto persone su dieci abbiano subito atti delittuosi.

Altra conseguenza è l’aumento del contrabbando. La mancanza di prodotti essenziali, i prezzi elevati e la disoccupazione hanno fatto fiorire il contrabbando in quasi tutto il paese, soprattutto nelle città di frontiera o nelle zone ricche di risorse naturali (oro, diamanti o altri prodotti minerari). Cibo e medicine sono i prodotti più ricercati.

Terza conseguenza più evidente della crisi è la massiccia migrazione dei venezuelani verso i paesi limitrofi. I principali punti di partenza verso l’esterno sono San Antonio de Táchira, Santa Elena de Uairén con destinazione Colombia, Brasile, Perù, Cile, Ecuador e Argentina. Via mare molti vanno a Trinidad e Tobago, Curaçao e Aruba. Ovviamente chi ha soldi emigra in aereo verso l’Europa e gli Stati Uniti.

È una triste realtà. Si stima che ci siano più di 4 milioni di venezuelani che hanno lasciato il paese negli ultimi due anni.

La migrazione degli indigeni warao

La popolazione indigena warao vive tradizionalmente nello stato del Delta Amacuro, nel Sud-Est del Venezuela, attraversato dal fiume Orinoco che sfocia nell’Oceano Atlantico. La capitale è Tucupita. Essa, fino al 1964, era su un’isola. Con la chiusura di un braccio del fiume, il Caño Manamo, è ora su una penisola. (Questo è avvenuto nel 1966, quando fu attuato un grande progetto di bonifica che attraverso la costruzione di dighe doveva mettere sotto controllo le periodiche inondazioni del delta e favorire le grandi coltivazioni di grano e altri prodotti per un’agricoltura di tipo industriale. Il risultato è invece stato l’opposto, un vero disastro ecologico che ha destabilizzato l’habitat naturale dell’estuario. Vedi il video in spagnolo qui segnalato.)

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=glTvIOnSa8Y?feature=oembed&w=500&h=375]

Numericamente, i Warao sono il secondo più grande gruppo indigeno dopo i Wayúu di Zulia, e sono gli abitanti originari di questa regione del paese. Nel 2011 – secondo il censimento – erano 45.000, concentrati nel loro territorio ancestrale nei comuni di Antonio Días e Pedernales.

Tradizionalmente, i Warao sono soprattutto pescatori e, in misura minore, cacciatori e raccoglitori di miele e frutti selvatici. Per il loro consumo di energia dipendevano nel passato dai derivati della palma di moriche (mauritia flexuosa) che ha un ciclo annuale. Per questo, dai tempi antichi, i Warao si spostavano tra le coste e l’interno delle isole per soddisfare le loro esigenze alimentari.

Con l’introduzione della coltura della colocasia (colocasia antiquorum, chiamata anche taro, «pianta erbacea con foglie di grandi dimensioni – anche 80 cm di lunghezza -, di forma ovale o tondeggiante e margini ondulati, sostenute da grossi gambi carnosi e rigidi che si sviluppano da rizomi sotterranei») a opera di missionari dalla Guyana britannica 80 anni fa, i Warao sono diventati anche un po’ agricoltori.

È poi arrivata la scuola e diverse comunità sono diventate stabili abbandonando il seminomadismo. La vita tradizionale è stata così trasformata e sono nate nuove esigenze che hanno dato origine a un continuo movimento verso i centri urbani in cerca di migliori condizioni di vita e di quei servizi che non si trovano nelle comunità tradizionali.

La situazione attuale

Si stima che già dal 2001 circa 10.000 Warao siano emigrati fuori dal territorio ancestrale, la maggior parte in Tucupita, gli altri nelle altre città vicine: Barrancas de Orinoco, Uracoa, Barrancos de Fassi, Maturin nello stato Monagas e Ciudad Guayana nello stato di Ciudad Bolívar. Altri si sono trasferiti a Caracas o in altre grandi città. Molti di essi mendicavano lungo le strade e quando avevano raccolto abbastanza tornavano alle loro comunità.

Oggi però il numero di coloro che lasciano il proprio territorio è molto più alto ed è reso evidente dal moltiplicarsi delle colonie indigene attorno a Tucupita.

I Warao sono situati negli strati più bassi della società venezuelana con alti livelli di povertà e già prima della crisi attuale erano considerati tra le persone più povere e più svantaggiate del paese. È naturale, quindi, che siano tra i più colpiti dalle conseguenze dell’attuale crisi economica e siano costretti a lasciare la loro terra in cerca di migliori condizioni di vita.

All’inizio del 2017 sono stati segnalati i primi casi di Warao trasferiti in Brasile, prima a Pacaraima, la città di frontiera, e poi a Boa Vista e Manaus e fino Belém nel Pará.

Nel rifugio di Pacaraima

In Pacaraima la Chiesa cattolica, rappresentata da padre Jesús, parroco del Sacro cuore di Gesù, l’Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati), l’Oim (l’Organizzazione internazionale per le migrazioni), e altre Chiese e persone di buona volontà, hanno creato un centro di accoglienza (detto refugio) per i Warao.

Nel mese di febbraio di quest’anno, quando l’autore di questo articolo in compagnia di monsignor Felipe González – vicario apostolico di Caroní, che confina con Roraima -, padre Aquileo Fiorentini – superiore dei missionari del Consolata in Brasile – e padre Peter Makau, superiore dei missionari in Venezuela, abbiamo visitato questo refugio, c’erano circa 700 persone tra adulti e bambini. Vivono grazie alle razioni che ricevono due volte alla settimana e che cucinano nel cortile, mentre ogni giorno fanno colazione nel salone parrocchiale.

All’interno del refugio, per una migliore coesistenza, sono stati creati dei gruppi di servizio incaricati a turno della pulizia generale. Mentre gli uomini escono per cercare lavoro, le donne si dedicano a preparare il cibo, altre si dedicano a prodotti artigianali che cercano di vendere per le strade di Pacaraima o andando anche a Boa Vista, che dista meno di tre ore di viaggio. Si è anche formato un gruppo di volontari che gestisce le diverse attività per bambini e giovani. La grande domanda è: «Fino a quando si riuscirà a mantenerli?». Perché una cosa è certa, se c’è il cibo, un Warao non va da nessun’altra parte.

In realtà, la migrazione continuerà fino a quando la crisi attuale del Venezuela non sarà risolta. Molti hanno già detto chiaramente che non torneranno alle loro case perché là «si muore di fame». Gli unici a rientrare sono quelli che tornano a portare cibo ai famigliari che non sono stati in grado di viaggiare.

Che fanno i missionari della Consolata?

Per i missionari, soprattutto per coloro che lavorano nel Delta con le comunità indigene, tutto questo è motivo di grande preoccupazione. Tutti i Warao che sono emigrati sono membri conosciuti delle nostre comunità che ora si sono svuotate. Per esempio, nella comunità di Yakariyene in Tucupita, sono rimaste meno della metà delle 78 famiglie che la componevano. Dal Vicariato di Caroní, monsignor Felipe, che ha trascorso più di 40 anni nel Delta, di cui 28 come vicario apostolico di Tucupita, segue da vicino questa situazione. In collaborazione con il parroco di Pacaraima e le suore scalabriniane, sta fornendo loro accompagnamento religioso e ascolto per aiutarli nel loro adattamento a una nuova realtà senza perdere la loro identità umana e spirituale.

Ma ci sono molti altri aspetti su cui i missionari, in collaborazione con gli agenti pastorali indigeni del vicariato apostolico di Tucupita, si interrogano e che richiedono un impegno preciso.

Primo tra tutti è l’educazione: una dimensione che non è stata affrontata dalle istituzioni brasiliane e che può essere attuata solo attraverso un approccio multiculturale e multilingue.

Un secondo aspetto è quello di una vita sana. Occorre un intervento integrale che tenga conto di tutti gli aspetti della vita: dal mantenere il legame con il loro luogo di origine e la loro cultura, alla prevenzione e cura delle malattie, all’alimentazione di bambine e ragazzi al fine di evitare episodi di malnutrizione infantile.

Per questo nella loro assemblea continentale di Bogotà i missionari della Consolata hanno deciso l’invio di una équipe che lavori insieme con gli agenti pastorali di Pacaraima e si sono fatti carico di un programma di assistenza medica e alimentare nel refugio (sostenuto anche dagli aiuti finanziari forniti da Missioni Consolata Onlus).

Cominciare da Tucupita

Non basta però l’intervento di emergenza fuori del paese. Occorre affrontare la situazione partendo da Tucupita per offrire alle famiglie mezzi alternativi di sopravvivenza, senza che abbiano la necessità di migrare.

Per questo si stanno mobilitando forze per fornire alle famiglie che non vogliono migrare dalle terre tradizionali, ma non hanno abbastanza risorse, gli strumenti necessari per lavorare e diventare autosufficienti.

In Venezuela si dice che la speranza è l’ultima a morire, ma vista la situazione, per molti non c’è speranza e non ci sono segnali di miglioramento.

Come missionari non ci vogliano arrendere e continuiamo nel nostro impegno a stare vicini sia a coloro che sono stati costretti a migrare come a quelli che ostinatamente vogliono rimanere nella loro terra.

Zachariah Kariuki
missionario a Tucupita


Qualche cifra al 1° maggio 2018

  • 1 dollaro = 69.564 bolivares al cambio ufficiale / +o- 700mila bs al mercato parallelo (o nella calle), con grandi variazioni tra contanti, carta di credito e trasferimento bancario.
  • Salario minimo: 1 milione
  • Bonus alimentare mensile: 1.555.000
  • 1 l benzina regolare = 1 bs.
  • 1 l benzina premium = 6 bs.
  • 1 kg farina di mais = 180 (uff.) / ca. 1.000 (par.)
  • 1 kg di farina di grano = 30mila (uff.) / in contanti: 360mila; carta di credito: 690mila; via banca: 900mila
  • 1 uovo= 53.000
  • 1 kg carne = 1.700.000 a Caracas / 1.200.000 in campagna
  • 1 kg pollo = 1.400.000 a Caracas / 1.300.000 in campagna
  • 1 kg riso = 900.000
  • 1 kg formaggio = 1.500.000


L’esodo dei Warao. Breve storia

  • 1880-1915: periodo di lavoro forzato o volontario nelle piantagioni di gomma (caucciù).
  • 1964: chiusura del Caño Manamo per dare accesso, via terra, alla città di Tucupita. Conseguenze: l’allagamento di vaste aree in riva al fiume e la salinizzazione dell’acqua (non più alimentata dal fiume ma dall’oceano). Effetti negativi su pesca e coltivazioni.
  • 1965-1979: intere famiglie si trasferiscono alla periferia di Tucupita; il governo costruisce la «casa degli indigeni» e pian piano l’insediamento provvisorio diventa una colonia semipermanente.
  • 1973: una leader warao, Maria Antonia, organizza gruppi di donne per andare a Caracas a chiedere aiuto al governo di Rafael Caldera. Non avendo risorse per il viaggio, cominciano a chiedere l’elemosina per la strada. Arrivate a Caracas, siccome il presidente non le riceve immediatamente, continuano a vivere mendicando. Il successo di questo modo di far soldi diventa un modello da seguire, e così, per i Warao, l’accattonaggio diventa un «lavoro».
  • 1992: epidemia di colera nel Delta inferiore, in territorio indigeno, con conseguente nuovo esodo verso la città.
  • 2000: aumento del fenomeno migratorio, soprattutto per gli studi. Famiglie intere si spostano stabilendosi temporaneamente alla periferia della città, mantenendo lingua, usi e costumi. Invece altri, soprattutto professionisti (insegnanti, infermieri, impiegati governativi, commercianti), prendono fissa dimora nei quartieri bene e si mescolano con la popolazione creola (creoli = non indigeni) assumendone lingua e modi di vivere.
  • 2017: diventa consistente l’esodo dei Warao verso il Brasile.

da sinistra: Makau Munguti p Peter, monseñor Felipe Gonzalez, vicario apostólico de Caroní, padre Aquileo Fiorentini a padre Zackari Kariuki


Dall’appello dei Missionari della Consolata a favore dei migranti venezuelani a Roraima

«In questi tempi di angustia le persone possono chiedersi: “Dov’è Dio?”. Che la presenza dei missionari della Consolata sia balsamo e riflesso dell’amore misericordioso. Dio accompagna sempre coloro che incontra nel cammino, come chiesa desideriamo assicurare loro che non sono soli, ma stanno con Dio e sotto il dolce sguardo della nostra Signora di Coromoto.

Gesù si identifica sempre con la persona sfollata perché visse questa situazione nella sua propria carne. Egli ci incoraggia a mantenere vive la fede e la speranza in un futuro migliore, sapendo che più oscura è la notte, più vicina la luce di un nuovo giorno che già albeggia.

Impegniamo il nostro cuore, la nostra mente e le nostre mani nella missione a favore dei più vulnerabili e chiediamo alla nostra Vergine Santissima, la Vergine Consolata, che dia consolazione in questo doloroso momento presente, e ai nostri protettori, il beato Giuseppe Allamano e san Oscar Romero, che infondano coraggio per sognare un avvenire dove la fraternità e l’attenzione verso l’altro siano segni di convivenza civile e solidale».

La Direzione generale (Bogotà, 27/03/2018)




Brasile: L’ex presidente Lula è in carcere

Testo su Lula e Brasile di GianfrancoGraziola |


Un paese che esautora una presidente – Dilma Rousseff – per sostituirla con Michel Temer, inviso ai più e coinvolto in gravi scandali. Un paese dove una giovane politica – Marielle Franco – è assassinata dalla polizia. Un paese dove un prete – padre José Amaro – è arrestato per ordine dei latifondisti. Un paese dove un ex presidente, in testa a tutti i sondaggi per le elezioni di ottobre 2018, è condannato a 12 anni senza prove. Un paese siffatto è una democrazia alla deriva.

In questi ultimi mesi il sistema dei media – le televisioni Globo, Sbt, Record, Band e le riviste come Veja, Epoca o Isto é – ha costruito e dato in pasto al popolo brasiliano il caso Lula. Attorno a lui ha tessuto una trama gigantesca che in realtà ha prodotto l’effetto contrario a quello sperato: l’ex presidente ha visto aumentare la propria popolarità e le intenzioni di voto in suo favore per le elezioni previste a ottobre 2018. Per capire bene la situazione, occorre partire dal 2016 con il colpo di stato orchestrato dal parlamento brasiliano (con la connivenza del potere giudiziario), che ha destituito la presidente Dilma (del PT, lo stesso partito di Lula, ndr) democraticamente eletta per sostituirla con Michel Temer, un fantoccio gradito e approvato dal mercato economico e capace di restituire il gigante brasiliano al controllo del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale.

La conferma del complotto sta nel fatto che alla presidente destituita lo stesso potere giudiziario, attraverso l’azione del presidente della suprema corte Ricardo Lewandowski, non ha cancellato né i diritti civili né quelli politici, tanto che Dilma Rousseff è candidata al senato per lo stato di Mina Gerais, un tempo roccaforte del senatore Aécio Neves, candidato sconfitto alle elezioni presidenziali del 2014 dalla stessa Rousseff.

Sostenitori di Lula davant ialal cattedrale di Sao Paulo, l’11 aprile 2018. (Photo by Cris Faga/NurPhoto)

Governo e parlamento BBB

Il governo Temer è sostenuto da un parlamento, la cui composizione riflette e esprime alcune tendenze fondamentaliste: sia in campo religioso, col gruppo chiamato della Bibbia (bancada da bíblia o evangelica), composto da evangelici e neopentecostali, sia in campo economico, col gruppo dei latifondisti e della monocoltura (bancada do boi o ruralista), che a sua volta si appoggia al gruppo militarista, chiamato bancada da bala, che vorrebbe risolvere tutte le questioni con la forza e gli interventi militari.

Le azioni concrete del governo Temer passano attraverso il suo piano di pseudo riforme, prima fra tutte quella del lavoro, seguita da quella – fortunatamente fallita – della previdenza e accompagnate dal discorso populista della modernizzazione del paese e della lotta all’inflazione.

Contemporaneamente all’azione governativa si sviluppa e prende sempre più corpo quella mediatica che fa dell’operazione lava jato (autolavaggio) del potere giudiziario la vetrina che esalta e incorona una immagine di giustizia al di sopra delle parti, etica e medicina contro la corruzione. In realtà ancora una volta, la poderosa macchina dei media, ormai consacrata nel ruolo di quarto potere, illude il popolo brasiliano esaltando una falsa immagine della giustizia che apparentemente è uguale per tutti, mentre in realtà non lo è affatto.

La giustizia brasiliana è responsabile di un sistema penitenziario sempre più sovraffollato e caotico e del dilagare della violenza, assieme all’impunità, agli abusi di potere delle forze dell’ordine, alla tortura, ai massacri e «genocidi» della gioventù che si susseguono giornalmente e di cui nessuno ha memoria. Non possiamo e dobbiamo avere dubbi: siamo davanti a un sistema giudiziario che ha fatto a pezzi la Costituzione e si è sostituito ad essa nel governo del paese.

(Brasília – DF, 19/04/2017) Il giudice Federale Sérgio Moro stringe la mano al presidente Michel Temer
(Foto: Marcos Corrêa/PR)

L’esempio eclatante che conferma questa realtà è proprio quello dell’ex presidente Lula, in cui la giustizia, trasformata in show mediatico, ha avuto il compito di demolire, con la complicità del giudice Sérgio Moro, la sua immagine e soprattutto di toglierlo dalla corsa alla presidenza. Naturalmente questo sarebbe il secondo atto del colpo di stato, dato che tutti i sondaggi già davano Lula nuovamente presidente senza rivale alcuno. Sta di fatto che, accecato da una sete legalista e irrazionale, lo stesso potere giudiziario ha finito per dimostrare ancora una volta la sua reale impotenza e fragilità trasformando quello che doveva essere la sua consacrazione in una sconfitta: l’esecuzione della carcerazione ha, infatti, trasformato un ex presidente e apparentemente comune carcerato in un eroe nazionale consacrandolo per sempre nella memoria e nell’immaginario simbolico del popolo.

Ma vi è un ulteriore elemento inquietante: la mancanza di prove concrete che possano mantenere in carcere sia Luis Inacio da Silva Lula come tanti altri personaggi (Antonio Palocci, Eduardo Cunha, Nestor Cerverô, etc.) dello spettacolo messo in scena a Curitiba (dove lavora il giudice Moro, ndr). Qualsiasi giurista serio sa bene che la cosiddetta delação premiada (confessione incentivata), copiosamente usata nella strategia anticorruzione, pur risplendendo di notorietà, ha però fondamenta fragili e inconsistenti.

Lula è stato condannato in due gradi di giudizio su quattro. Gli ultimi gradi spettano al Tribunale superiore di giustizia (Superior Tribunal de Justiça) e al Supremo tribunale federale (Supremo Tribunal Federal). Due anni fa la stessa corte stabilì che, dopo il secondo giudizio, il giudice può far eseguire l’eventuale ordine di carcerazione. Una decisione molto controversa e da vari giuristi considerata incostituzionale. Il problema si è riproposto oggi con Lula, arrestato subito dopo il secondo giudizio.

Per questo vi è chi oggi afferma, e lo stesso Lula lo ha denunciato pubblicamente, che il mandato di carcerazione per l’ex presidente sarebbe in realtà originato dalla Tv Globo, capitanata dalla famiglia Marinho, indispettita dalla sua forte popolarità che neppure i mezzi più moderni sono riusciti a scalfire. Prova di tale popolarità sono le manifestazioni che ancora oggi continuano in tutto il paese e si susseguono notte e giorno davanti alla sede della polizia federale a Curitiba dove Lula è carcerato. Vedremo cosa succederà quando – tra luglio e agosto – si deciderà sulla sua partecipazione o esclusione alle elezioni di ottobre.

Da Marielle Franco a padre José Amaro

Marielle Franco (© Mídia NINJA)

Oltre alla questione di Lula vi è una serie di altre questioni che hanno reso esplosiva la situazione e che fanno temere un possibile ritorno dei militari al potere. Come dimostra la situazione nello stato di Rio de Janeiro. Il governo federale ha mandato l’esercito e messo un generale come responsabile della sicurezza, esautorando di fatto il governo locale. Lo stato è diventato una trincea, un campo di battaglia, con una moltiplicazione folle della violenza. Una violenza che nasce dal braccio di ferro tra le mafie della droga e le stesse forze di sicurezza, anch’esse coinvolte nel gigantesco sistema corruttivo. A questo si aggiunge, come si dice da più parti, l’esecuzione (14 marzo 2018) ad opera della polizia della consigliera comunale e attivista Marielle Franco e del suo autista.

E ancora gli interventi, in più parti del paese, da Nord a Sud, da Est a Ovest, della Guardia Nacional – braccio forte dell’esercito noto per la sua violenza – a reprimere i popoli indigeni e tradizionali, a massacrare i piccoli proprietari di terra e i sem terra e a imprigionare i loro difensori. Come è accaduto a Altamira, prelazia di Xingu, stato del Pará, a padre José Amaro, compagno e continuatore dell’azione di Dorothy Stang (missionaria brasiliana di origine statunitense assassinata nel Pará da sicari dei latifondisti nel febbraio 2005, ndr).

E allora ritorna nuovamente la domanda: quale futuro aspetta il popolo brasiliano? Nessuno si azzarda a fare previsioni, ma il timore è grande anche perché vari generali dell’esercito (da Eduardo Villas Bôas a Luiz Gonzaga Schroeder), tra cui alcuni in pensione, hanno alzato la testa e fatto sentire la loro voce minacciando, senza mezze misure, una possibile sostituzione di Temer, presidente fantoccio, con uno di loro.

È un peccato che il presunto grande obiettivo dell’attuale governo e dello stesso potere giudiziario di sconfiggere e debellare la corruzione si realizzerà – forse – in un’altra era. Per ora ci si accontenta di essere al servizio del mercato e di controllare una società che continua a registrare forti e insostenibili diseguaglianze, vera causa della crescente violenza e insicurezza.

Gianfranco Graziola

L’autore: Padre Gianfranco Graziola, missionario della Consolata, vive a San Paolo e è vice coordinatore nazionale della Pastorale carceraria che conta circa 6 mila agenti volontari (sacerdoti, religiosi, religiose, laici di tutte le età) che settimanalmente visitano le carceri in tutti gli stati del paese.

 


La strategia: un golpe tira l’altro

Dietro gli attuali avvenimenti politici ci sono le trame del complesso imprenditoriale-finanziario-mediatico. L’esplicita lettura di due prestigiose istituzioni della Chiesa cattolica brasiliana: il Consiglio indigenista (Cimi) e la Pastorale della terra (Cpt).

Brasília – il deputato Jair Bolsonaro, famoso per le sue posizioni da ultradestra (Fabio Rodrigues Pozzebom/Agência Brasil)

È la strategia «dei grandi conglomerati impresariali, del capitale nazionale e internazionale, che cercano di dare continuità al processo neocolonialista di rapina dei diritti del popolo brasiliano e dei beni naturali del nostro paese». Non ha usato termini edulcorati il comunicato del Consiglio indigenista missionario (Cimi) per commentare l’arresto di Lula.

Il Cimi accusa parte del sistema giudiziario di essersi piegato agli interessi privati delle élite nascondendosi dietro uno «pseudo discorso anticorruzione». L’organismo della Chiesa cattolica brasiliana parla di violenza politica, nonché di persecuzione, criminalizzazione e repressione verso i leader e i movimenti di resistenza.

Egualmente netta, anche se con qualche puntualizzazione, è stata la difesa della Commissione pastorale della terra (Cpt). Questa ha ricordato di avere criticato i governi Lula soprattutto per le sue politiche agrarie, agricole e ambientali. Tuttavia, è innegabile che quei governi avessero ridotto le diseguaglianze sociali attraverso politiche di redistribuzione del reddito e di inclusione sociale.

Identicamente al Cimi anche la Cpt individua chiaramente i colpevoli, interessati a impedire il ritorno di Lula con ogni mezzo possibile, compresa «una falsa e ipocrita lotta alla corruzione sistemica» che – guarda caso – dimentica i leader di altri partiti, colpevoli di note attività criminali.

«Mettendo da parte gli interessi popolari, ciò che questo complesso imprenditoriale-finanziario-mediatico fa, con l’appoggio militare velato o esplicito, è nutrire – strategicamente – l’odio, l’intolleranza e il pregiudizio, espressioni del fascismo sociale, in cui solo l’individuo vale con i suoi interessi privati, non più la società e la condivisione collettiva di beni comuni e pubblici. L’avanzata della violenza impunita nelle campagne e nelle città è la sua faccia più crudele».

Anche dopo la sua carcerazione Lula, pur penalizzato nei numeri, ha continuato a guidare i sondaggi elettorali per le presidenziali di ottobre 2018: tutti i suoi possibili avversari – tra cui l’indomita Marina Silva e gli ultraconservatori Aécio Neves e Jair Bolsonaro – sono nettamente distanziati. Ma si tratta di esercizi teorici dato che, stando così le cose, molto difficilmente Lula potrà candidarsi.

Paolo Moiola