Turkmenistan, dove una goccia d’acqua è un chicco d’oro


Alla scoperta di un’ex Repubblica Sovietica del Turkmenistan. Affacciato sul Mar Caspio e occupato in gran parte dal deserto del Karakum, il Turkmenistan è indipendente dal 1991. Finora però ha avuto soltanto due presidenti. Molto ricco di gas naturale e grande produttore di cotone, il paese centroasiatico deve affrontare problemi di scarsità d’acqua. Problemi aggravati dall’insipienza degli uomini.

Un tempo in Asia Centrale i canali per portare l’acqua dalle sorgenti montane alle pianure si costruivano sotto terra per evitare la forte evaporazione in quelle regioni di clima secco e di alte temperature. Questa tecnica di trasporto dell’acqua, molto antica, fu sviluppata dalle genti dell’altipiano iranico nel primo millennio a.C. Con i rudimentali strumenti a disposizione a quel tempo la costruzione di un canale sotterraneo, chiamato qanat o kahriz1, costituiva un’impresa che coinvolgeva tutta la comunità e il lavoro poteva durare parecchi anni. Erano notevoli opere d’ingegneria. I canali correvano sotto terra a volte anche per decine di chilometri, erano dotati di pozzi di aerazione lungo tutto il tragitto; per un corretto funzionamento dovevano essere controllati e ripuliti ogni anno. La popolazione si sobbarcava questa fatica per non disperdere un bene prezioso, l’acqua. Difatti, il sistema permetteva un utilizzo ottimale di questa scarsa risorsa, che arrivava integra in luoghi aridi, consentiva la vita di uomini e animali, la produzione agricola là dove prima c’era il deserto. Questo antico e ingegnoso sistema è stato utilizzato fino al Ventesimo secolo.

Festeggiamenti per l’apertura della nuova sede delle Nazioni Unite a Ashgabat (2016). Foto: Amanda Voisard / Un Photo.

«Padroni del Creato»

Il Ventesimo, come sappiamo, è il secolo in cui al lavoro dell’uomo si affianca in maniera sempre maggiore quello delle macchine. Lo sfruttamento del lavoro meccanico permette imprese che nel passato sarebbero state inattuabili.

Danze in costume davanti a una gigantografia del presidente Berdymukhammedov. Foto: Maria Chiara Parenzo.

Per la vita in condizioni climatiche come quelle centroasiatiche l’acqua è la risorsa più importante, da sempre la sua presenza e le modalità di utilizzo sono state elemento essenziale per la sopravvivenza. Con il potenziamento delle capacità umane d’intervenire sull’ambiente si sarebbe potuto prevedere un miglioramento nelle forme di sfruttamento di questa risorsa. Invece spesso è successo il contrario. Paradossalmente l’abbondanza di mezzi a disposizione ha peggiorato la situazione a lungo termine, soprattutto in società rette da sistemi dittatoriali, come dal Ventesimo secolo in poi sono state quelle centroasiatiche.

Con l’invenzione di macchine potenti l’uomo ha pensato di poter plasmare il mondo a proprio piacimento, si è creduto capace di migliorare l’opera del Creatore. Un tempo la presunzione era tenuta a freno dalla mancanza di mezzi – l’uomo aveva meno possibilità di fare danno – e dalla consapevolezza del proprio essere creatura limitata. Con la modernità la presunzione di sentirsi padroni del creato ha risparmiato pochi. Ciò dipende, forse, anche dal fatto che sempre più persone vivono in ambienti artificiali e che le politiche sono per lo più fatte dai cittadini, persone che non sono più in stretto contatto con le altre creature. Ciò cambia la mentalità senza neppure rendersene conto. Sempre più chiusi nelle nostre città, non abbiamo più idea del mondo naturale. Il cibo non lo produciamo, lo consumiamo. Per un cittadino la frutta viene dal fruttivendolo, gli animali sono a pezzi sui banchi del supermercato, o al guinzaglio, o in gabbia, l’acqua viene dal rubinetto e sparisce nello scarico. Si potrebbe andare avanti a lungo, ma è meglio tornare in Asia Centrale, per la precisione, in una delle sue repubbliche: il Turkmenistan.

Amu Darya, storia di un fiume

Il Turkmenistan è occupato per circa l’80% dal deserto del Karakum. Di gran lunga la sua maggiore risorsa d’acqua è l’Amu Darya, fiume che scende dal Pamir (un altipiano esteso nei territori di Afghanistan, Tagikistan e Cina), scorre per un lungo tratto in territorio turkmeno e un tempo andava ad alimentare il Mar d’Aral, noto lago salato posto tra l’Uzbekistan e il Kazakistan. Fiumi minori, con forti variazioni stagionali nella portata d’acqua, sono a Sud il Murghab e il Tejen, che vanno a perdersi nel deserto del Karakum, a Ovest l’Atrek, che sfocia nel Mar Caspio. Dai Kopet Dag, rilievi posti tra Iran e Turkemenistan, scendono piccoli fiumi, a volte poco più che torrenti primaverili.

In simili condizioni geografiche è facile capire quanto cruciale sia la possibilità di accedere all’acqua. I primi tentativi di utilizzarla per l’irrigazione sono documentati già 7-8 mila anni fa.

Nel V secolo a.C., grazie ai persiani, fu introdotto il sistema dei qanat, che trovò ampia applicazione nella regione dei Kopet Dag. Con i qanat fu possibile estendere la superficie di terra coltivata e praticare l’agricoltura anche in zone aride. Per la conservazione dell’acqua si costruivano cisterne sotterranee, ab anbar, o sardob2, che non solo ne evitavano l’evaporazione, ma la mantenevano fresca.

Un’altra storia di successo è quella dell’oasi di Merv, dove dal VII secolo d.C. sfruttando le acque del fiume Murghab fu sviluppato un intelligente sistema d’irrigazione che permetteva di dare cibo a una popolazione di circa un milione di abitanti e perfino di esportarne nelle regioni circostanti3. E il Murghab rappresenta solo il 5% delle risorse d’acqua dell’odierno Turkmenistan.

Risultati così eccezionali non dipendevano, però, solo dalle tecniche d’irrigazione, ma anche dall’estrema cura posta nell’amministrazione della risorsa, tesa a evitare gli sprechi. Le buone pratiche sviluppate nei secoli permisero agli abitanti di quelle zone di convivere con una natura aspra, sfruttandone al meglio le possibilità per trarne il proprio sostentamento.

Con l’arrivo dei russi, nella seconda metà dell’800, i lavori d’irrigazione furono notevolmente potenziati per incrementare la produzione di cotone e cereali; tuttavia, si continuò a seguire i vecchi sistemi e rimasero in uso le tradizionali forme di amministrazione dell’acqua da parte della comunità. Inoltre, fino all’inizio del Ventesimo secolo le aree irrigue erano principalmente quelle pedemontane e lungo i corsi d’acqua; ciò permetteva di conservare un equilibrio naturale tra agricoltura e disponibilità d’acqua, e di limitarne la dispersione nel suolo.

I sovietici, opere e disastri

I guai cominciarono nel periodo sovietico. La terra ormai apparteneva allo stato, che ne decideva l’uso e le modalità di sfruttamento. La logica che sottostava a quelle modalità è ben sintetizzata dal famoso aforisma del biologo Ivan Michurin: non possiamo aspettare che la natura ci conceda le sue grazie, nostro compito è strappargliele. Intere generazioni crescevano con l’idea che l’uomo potesse e dovesse correggere «i difetti» della natura, un’ubriacatura che contagiava uomini d’ingegno, artisti, scrittori, che mettevano il proprio talento al servizio di progetti tanto più aleatori quanto più lontani dalla realtà. Fa una strana impressione leggere ora le pagine, o guardare i quadri ispirati all’idea di trasformare il deserto del Karakum «nell’oasi fiorita del socialismo», come si esprimeva lo scrittore Andrej Platonov in un suo articolo4.

Un anziano signore con il tradizionale copricapo in pelo. Foto: Maria Chiara Parenzo.

Siccome, però, l’uomo-dio non può creare dal nulla l’acqua, per far nascere l’eden nel deserto doveva andare a prenderla dove Dio l’aveva messa in abbondanza, cioè dall’Amu Darya. Mentre l’uomo-creatura non aveva forzato la natura e, consapevole della propria impossibilità di creare dal nulla, aveva cercato di ottenere il massimo entro i limiti da lei segnati, l’uomo-dio non si è fatto fermare da queste quisquilie e ha progettato e realizzato grandi opere d’irrigazione a cielo aperto. In Turkmenistan la più imponente di tutte è il canale che prende il nome dal deserto che attraversa per 1.375 chilometri: il Karakum. La sua costruzione fu iniziata nel 1954 e completata nel 1988. Ai tempi si esaltò quest’opera come una conquista dell’ingegno umano e dell’ingegneria sovietica.

Quando arrivò l’acqua con il canale Karakum agli abitanti del deserto sembrò un miracolo. Una striscia azzurra in un oceano giallo, riarso e abbagliante: così è rappresentato questo prodigio nella pittura turkmena del tempo. Era una rivoluzione. Per millenni l’acqua era stata un bene difficile da procurarsi e scarso, quindi da utilizzare e custodire con cura; ora se ne aveva in abbondanza, correva copiosa da una fonte che sembrava inestinguibile. Ora che l’irrigazione non era più limitata dalle risorse locali ci si poteva permettere di creare insediamenti in luoghi prima impensabili, perfino nel cuore del deserto.

Naturalmente, visto che in realtà non si trattava di un bene illimitato, se si prendeva l’acqua da una parte, la si toglieva dall’altra. Così, una delle prime e più ovvie conseguenze della costruzione del canale fu che alla fine degli anni Ottanta l’Amu Darya in alcuni periodi dell’anno non raggiungeva più l’Aral. Fenomeni simili interessavano anche l’altro immissario dell’Aral, il Syr Darya. Ciò ha dato inizio a un processo di prosciugamento del lago, con danni immensi all’ecosistema e all’economia di intere regioni. Una catastrofe sociale e ambientale arrivata ormai agli ultimi stadi.

 

Acqua, da risorsa scarsa a risorsa sprecata

L’acqua sottratta ai fiumi veniva utilizzata bene? Se ne ricavava il massimo, come con gli antichi qanat? Naturalmente la risposta è no. Il fatto che fosse trasportata per chilometri attraverso il deserto, o «stoccata» in grandi bacini artificiali, moltiplicava le superfici esposte all’evaporazione. A ciò si aggiunga che, non essendo gli alvei di canali e bacini rivestiti di materiale impermeabile, buona parte dell’acqua si perdeva per strada a causa dell’infiltrazione nel terreno. Il sistema risultava, quindi, molto inefficiente.

Una ragazza con il vestito tradizionale delle spose turkmene: un abito rosso finemente ricamato con una mantellina che nasconde la testa e le spalle da sguardi indiscreti. Foto: Maria Chiara Parenzo.

Inoltre, il senso di onnipotenza e illimitatezza fece sì che nessuno si preoccupasse di creare meccanismi di controllo che obbligassero al risparmio: l’acqua era gratis, non c’erano contatori a misurarne le quantità utilizzate, per cui la si usava senza pensieri e gli sprechi erano enormi. Si calcola che a tutt’oggi vada perduto il 30% dell’acqua impiegata per irrigare5. L’eccesso d’irrigazione combinato con un drenaggio insufficiente porta alla salinizzazione del suolo. È questo un fenomeno tipico dei suoli aridi. L’acqua, se non opportunamente drenata, ristagna e scioglie i sali contenuti nel terreno, che l’elevata evapotraspirazione porta, poi, ad accumularsi in superficie. È una delle principali cause di degrado e infertilità del suolo. Non solo intere aree coltivate devono essere abbandonate, ma l’acqua che drena e si raccoglie spontaneamente negli avvallamenti del terreno causa anche la salinizzazione di aree che erano adibite al pascolo degli animali.

Così, paradossalmente, gli sforzi dell’uomo per creare un paradiso dove c’era il deserto finiscono per creare il deserto dove c’era il paradiso. E di questo facciamo esperienza non solo in Asia Centrale.

Quarta, ma non meno importante conseguenza di tale dissennata politica è la trasformazione prodotta nei comportamenti della gente. Da bene scarso, l’acqua è diventa un bene illimitato. A partire da questo dato, vero nell’hic et nunc, ma illusorio, quindi falso, se si considera la globalità del fenomeno, si è creata una mentalità distorta.

Gli uomini si abituano presto alle comodità e la facilità con cui hanno accesso alle cose cambia la loro mentalità e lo stile di vita. Quando non si procurano personalmente i beni di cui si servono, quando non sanno da dove vengono, che cosa comporta il loro uso nell’economia dell’ecosistema, gli uomini non ne imparano né il valore, né il corretto utilizzo. È stato così che i turkmeni, per millenni accorti risparmiatori d’acqua, hanno imparato a sprecarla.

Una capitale in marmo bianco

Ashgabat è la città dei presidenti, non dei suoi abitanti. Prima il presidente Saparmurat Niyazov (1940-2006), poi quello attuale, Gurbanguly Berdymukhamedov, l’hanno trasformata per renderla conforme alla propria idea di capitale: palazzi presidenziali con cupole d’oro, monumenti, torri, complessi governativi e residenziali, il villaggio olimpico, centri commerciali, tutto in scintillante marmo bianco. Sono stati aperti viali che sembrano autostrade, tracciati parchi con fontane e giochi d’acqua; ovunque ci sono aiuole fiorite. Per lasciare posto a tutte queste meraviglie sono stati abbattuti interi quartieri di case unifamiliari e i loro occupanti nel migliore dei casi sono stati trasferiti in condomini periferici, nel peggiore sono stati semplicemente sloggiati, senza ricevere risarcimenti. A camminare per gli sterminati marciapiedi dei nuovi quartieri si ha l’impressione di vivere in un quadro di De Chirico, fatto di improbabili architetture e spazi vuoti.

In questa città lunare, che non ha nulla a che vedere né con la storia e tradizioni turkmene, né con il luogo dove si trova, ho assistito a continui sprechi d’acqua, e non solo per innaffiare prati e fiori, che altrimenti seccherebbero in poche ore. Ashgabat è anche chiamata «la città bianca» per il colore dei suoi edifici e ha meritato di entrare nel libro Guinness dei primati per l’estensione delle superfici ricoperte in marmo bianco. Forse per rimanere all’altezza del nome, ad Ashgabat tutto deve essere lindo e pinto. L’acqua scorre a fiotti mentre eserciti di donne lustrano i marciapiedi con ramazze e scopettoni. Le macchine, anch’esse bianche per la maggior parte, devono essere sempre pulite, in caso contrario si prende la multa. Ciò obbliga i proprietari a continui lavaggi. Nei luoghi pubblici ho visto rubinetti lasciati aperti, tubature che perdevano in continuazione. Ashgabat è bagnata dal canale Karakum che le assicura un abbondante approvvigionamento d’acqua. Eppure, basta allontanarsi di qualche chilometro dalla capitale in direzione del deserto per capire quanto illusoria sia quell’abbondanza.

Progetti faraonici

La prima domenica di aprile in Turkmenistan si celebra la festa dell’acqua all’insegna dello slogan: una goccia d’acqua è un chicco d’oro. L’immagine è bella, ma per il momento del tutto priva di sostanza. Il Turkmenistan è tra i paesi in cui il consumo idrico pro-capite è più elevato. Ciò dipende soprattutto dall’enorme quantità di acqua che si perde nell’irrigazione e durante il trasporto. Per ottimizzare l’uso di questa risorsa bisognerebbe avviare un paziente e sistematico lavoro di ristrutturazione dei sistemi di irrigazione, di trasporto e conservazione dell’acqua. Invece di impegnarsi in un’azione a lungo termine e di scarsa visibilità, i presidenti hanno preferito scegliere una soluzione di grande effetto ma di dubbio esito: un lago nel cuore del deserto da riempire con acqua proveniente da tutte le zone irrigue del paese. È stato, in sostanza, progettato un gigantesco sistema di drenaggio, con due canali collettori principali, uno di 432 chilometri a Nord, l’altro di 720 chilometri a Sud, che partendo dal bacino dell’Amu Darya lungo il tragitto dovrebbero raccogliere da canali secondari l’acqua d’irrigazione in eccesso e scaricarla nella depressione di Karashor. Si sostiene che in questo modo si otterranno diversi risultati: si impedirà che l’acqua ristagni in loco, o ritorni al fiume con la sua concentrazione di sali, pesticidi e fertilizzanti, e si creerà un bacino artificiale che avrà un effetto positivo sull’ecosistema. E, poi, i turkmeni avranno il loro lago dell’Età dell’Oro. Età dell’Oro è quella in cui il Turkmenistan vive dall’indipendenza (1991) grazie ai suoi due presidenti. La costruzione del lago ha preso il via nel 2000 con il primo presidente ed è proseguita con il suo successore.

Nel 2009, nell’inaugurare uno dei canali, il presidente Berdymukhamedov, come Platonov molti decenni prima, ha prospettato visioni di deserti fioriti. Tuttavia, se mai si riuscirà in un lontano futuro a convogliarvi tanta acqua da riempire la depressione di Karashor, si prevede che il lago sarà una brodaglia di sali e fertilizzanti. Considerate l’evaporazione e le perdite per infiltrazione nel terreno lungo il tragitto, l’ipotesi del lago rimane, comunque, molto remota. Meno remota appare, invece, l’ipotesi di un altro disastro ecologico.

Maria Chiara Parenzo

La moschea Turkmenbashi Ruhy, costruita dal defunto presidente Niyazov, a pochi chilometri dalla capitale; è stata al centro di varie controversie islamiche. Foto: Dan Lundberg.


Breve storia della ex Repubblica sovietica del Turkmenistan

Due presidenti in 28 anni (per il bene del popolo)

Già nell’epoca sovietica, il Turkmenistan era una delle repubbliche più arretrate. Il paese ha avuto finora due soli presidenti, entrambi caratterizzati da culto della personalità e poteri illimitati. Intanto, a dispetto della propaganda governativa, la popolazione vive in povertà.

Come entità statale e nei confini attuali il Turkmenistan è una creazione dell’Unione Sovietica. Il 27 ottobre 1924 dallo smembramento dell’ex governatorato zarista del Turkestan nacque la Repubblica socialista sovietica del Turkmenistan, una delle più economicamente arretrate tra le quindici che componevano l’Urss. A sessantasette anni di distanza quello stesso giorno fu scelto per la proclamazione dell’indipendenza, un atto cui la dirigenza turkmena fu costretta dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Era il 1991. In Turkmenistan la transizione al nuovo quadro istituzionale avvenne senza intaccare i rapporti di potere in essere: Saparmurad Niyazov, dal 1985 alla guida del Partito comunista turkmeno e della repubblica, divenne il presidente del nuovo stato indipendente; con un’operazione di facciata il Pc turkmeno si trasformò nel Partito democratico del Turkmenistan.

Per la forma di governo e la chiusura al mondo esterno il Turkmenistan ha conservato il carattere sovietico più di ogni altra repubblica dell’ex Urss, tanto da essere spesso paragonato alla Corea del Nord, solo che all’ideologia socialista si è sostituita l’esaltazione della «turkmenicità». Niyazov è rimasto presidente fino alla morte, avvenuta nel dicembre 2006, e ha esercitato un potere da monarca assoluto. Fin dall’inizio ha incoraggiato un culto della personalità che è divenuto col tempo sempre più smisurato. Lo stile di governo non è cambiato con il suo successore Gurbanguly Berdymukhammedov, in carica dal 2007. Il presidente detiene un potere di fatto illimitato e controlla tutti i campi della vita nazionale: politico, sociale, economico, culturale. Si occupa personalmente di ogni questione, piccola o grande che sia. Come Niyazov, si atteggia a padre della nazione: un padre saggio e magnanimo, ma anche giusto e severo con chi sbaglia. Quegli si faceva chiamare con l’appellativo di Turkmenbashi, «Capo dei turkmeni», questi è invece Arkadag, «il Protettore». Tutto, naturalmente, è fatto per il bene del popolo, che i mezzi d’informazione ritraggono mentre si gode la vita nell’«Età dell’oro». Così la propaganda di regime chiama «il periodo di pace e benessere» assicurato ai turkmeni dai due presidenti.

A suo tempo Niyazov giustificò la devozione assoluta che pretendeva dai suoi «sudditi» e l’esaltazione iperbolica della sua persona con la necessità di dare al popolo un’autorità in cui credere e un principio di unità nazionale. Il ferreo controllo esercitato dal presidente e dalla sua cerchia su tutti gli aspetti della vita del paese ha, in effetti, impedito il nascere di spaccature lungo linee claniche, regionali, o etniche, come è avvenuto nelle altre repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale. Il prezzo per la popolazione però è molto alto. Abuso di potere e corruzione fanno parte della vita quotidiana dei turkmeni. Non c’è possibilità di opporsi alle decisioni e ai capricci delle autorità, non ci sono istanze indipendenti cui appellarsi: il volere del presidente e delle élite a lui legate è al di sopra di ogni legge.

Grazie anche alla presenza pervasiva dei servizi di sicurezza e alla durezza delle repressioni in Turkmenistan non esiste un’opposizione; essa è rappresentata da piccoli gruppi che operano in esilio.

Nella repubblica, grande come una volta e mezza l’Italia, vivono meno di sei milioni di persone, per lo più turkmeni (85%), ma anche uzbeki (5%), russi (4%) e di altri gruppi etnici. Gli insediamenti si trovano in prevalenza ai bordi meridionale e orientale del grande deserto del Karakum, che occupa il centro e il Nord del paese. La maggiore risorsa nazionale sono gli idrocarburi: il gas naturale (il paese è il quarto al mondo per giacimenti stimati) e, in misura minore, il petrolio. L’industria non è molto sviluppata. I turkmeni erano tradizionalmente pastori nomadi, con comunità sedentarie nei Kopet Dag e nelle oasi. Le prime industrie sono nate con i russi. In seguito sono stati sviluppati soprattutto i settori estrattivo, chimico, tessile e alimentare. Nel periodo sovietico si diede un forte impulso alla coltivazione del cotone. Per le condizioni climatiche e la povertà del suolo, l’agricoltura è quasi ovunque irrigua. Questa condizione e la scelta di una coltura particolarmente bisognosa d’acqua come il cotone ha portato a sempre maggiori prelievi dai fiumi, soprattutto dall’Amu Darya. Ciò ha provocato l’alterazione del sistema idrografico della regione, con il prosciugamento del bacino del Mar d’Aral, e il deterioramento dell’ambiente naturale, con la desertificazione di ampie aree prima adibite a pascolo o a colture.

I cittadini del Turkmenistan sono nella stragrande maggioranza musulmani sunniti. Come gli altri popoli centrasiatici di tradizione nomade, anche i turkmeni non sono inclini a forme d’islam intransigente e molti praticano un islam non ortodosso, legato alle confraternite sufi, con interferenze delle antiche pratiche sciamaniche. Gli sciiti sono un’esigua minoranza. I cristiani sono rappresentati soprattutto dalla minoranza russa. Musulmani sunniti e cristiani russo ortodossi sono stati per anni le uniche comunità religiose ufficialmente riconosciute. Per essere riconosciuta una comunità religiosa deve ottenere la registrazione presso il ministero della Giustizia. Sebbene il Turkmenistan sia uno stato secolare, sebbene la costituzione garantisca la libertà di culto e l’eguaglianza di ogni cittadino davanti alla legge, alle altre comunità religiose, compresa la piccola comunità cattolica, è stata per anni negata la possibilità di ottenere la registrazione, senza la quale si è costretti a un’esistenza ai margini della legalità. Nel 2004 sono state alleggerite le condizioni per la registrazione, ma rimangono ancora comunità minori cui essa viene arbitrariamente negata e che continuano a essere soggette a discriminazione e angherie da parte delle autorità. La chiesa cattolica turkmena è stata ufficialmente riconosciuta solo nel 2010, tredici anni dopo la presentazione della richiesta1. Anche a registrazione avvenuta, tuttavia, le difficoltà non finiscono. Le leggi che regolano il culto e le attività religiose pongono limiti alla libertà di educazione e di riunione, alla pubblicazione e distribuzione di materiale e libri, contravvenendo con ciò ai principi sanciti dalla costituzione. Comunità e gruppi religiosi senza distinzione sono tenuti sotto stretta sorveglianza dalla polizia e dai servizi di sicurezza.

Le minoranze cristiane, sciita e di altre religioni non tradizionali sono particolarmente bistrattate dalle autorità perché ritenute estranee ai valori turkmeni. Ma anche l’islam sunnita non se la passa bene. Il regime lo considera parte delle tradizioni nazionali, un po’ come l’allevamento dei cavalli, o l’arte dei tappeti, per cui lo accetta come elemento «folclorico», ma i fedeli non devono mostrare di essere troppo pii. La religione è vista come una pericolosa concorrente dello stato, cui solo spetta il primato nella lealtà dei cittadini. Quindi bisogna andarci piano con i segni dell’appartenenza religiosa. Ad esempio, la barba è tollerata per gli anziani perché legata alle tradizioni turkmene, ma è in genere mal vista ed è vietata a chiunque abbia un incarico pubblico e agli studenti.

Tutto ciò che può distrarre o costituire un’alternativa alla lealtà dovuta al presidente è guardato con sospetto. Il culto della persona del presidente viene prima di tutto, anche della religione. Nella grande moschea fatta costruire da Niyazov nel suo villaggio natale, Gypjak, ci sono iscrizioni tratte dal suo Ruhnama, il «Libro dell’anima», imposto a guida spirituale dei turkmeni. Quando i costruttori turchi si rifiutarono di fare quanto per un musulmano devoto è blasfemia, giacché sui muri di una moschea si possono scrivere solo frasi tratte dal Corano, Niyazov trasferì la commessa ai francesi.

A proposito dell’Età dell’oro. Se si pensa che sotto i piedi dei turkmeni ci sono enormi giacimenti di gas naturale e che la popolazione non arriva ai sei milioni, non parrebbe un grande sforzo garantire a tutti un’esistenza, se non ricca, quanto meno dignitosa. Eppure non è così. La corruzione diffusa e l’ottusità economica tipiche dei regimi autoritari hanno reso infruttuoso quel capitale, dilapidato in scelte irresponsabili, speculazioni, progetti megalomani e inutili che avevano come scopo l’auto esaltazione del regime e l’arricchimento dei suoi dirigenti. Nel paese rimangono ampie sacche di povertà, in molte località mancano i servizi essenziali.

Il regime ha prosperato grazie alle enormi rendite assicurate dalle esportazioni di gas. Da alcuni anni, però, quella che è la base di un’economia scarsamente differenziata ha cominciato a traballare. La Russia ha smesso di acquistare il gas turkmeno nel 2016; la Cina, rimasta quasi l’unico acquirente, lo paga a un prezzo molto ridotto per compensare le risorse spese nella costruzione del tratto turkmeno di un gasdotto che la collega con l’Asia Centrale. Così il regime si è trovato con poca liquidità tra le mani. La crisi di liquidità ha aperto la strada alla svalutazione del manat (la valuta turkmena) e all’inflazione. Sono state ridotte le importazioni anche di generi di prima necessità, che sono quindi spariti dai negozi o diventati molto cari. Se a ciò si aggiunge la disoccupazione, stimata tra il 50 e il 60%, i ritardi nei pagamenti degli stipendi o la loro decurtazione, si potrà capire che vivere nell’Età dell’oro non è sorte invidiabile.

Maria Chiara Parenzo

(1) Turkmenistan. Freedom of religion or belief, May 2016, Christian Solidarity Worldwide, pag. 8.

Note

(1) «Qanat» è parola araba e significa canale. «Kahriz» è parola persiana composta da «kah», paglia, e «riz», gettare. Si usava la paglia per controllare il movimento dell’acqua nel canale sotterraneo.

(2) Parole persiane: ab/ob significa «acqua», anbar «deposito», sard «freddo».

(3) Vedi R. A. Lewis, Early irrigation in West Turkestan, «Annals of the Association of American Geographers», 1965, vol. 56, n. 3, San Diego, California.

(4) A. Platonov, Gorjachaja Arktika, 1934.

(5) Turkmenistan: Issues and Approaches to Combat Desertification, June, 2003, p. vii (pdf reperibile in rete).

Archivio MC

Ultimo reportage di Maria Chiara Parenzo: Iran, Teheran, di lotta e di governo, aprile 2018.




Diario dal V Congresso missionario americano (Cam)


Lo scorso luglio, a Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia, si è tenuto il quinto «Congresso missionario americano» (Cam V) con migliaia di partecipanti provenienti da 24 paesi. Si è parlato delle sfide della Chiesa cattolica nel continente in un ambito sempre più secolarizzato e pluriculturale. Il diario di quelle giornate e qualche riflessione.

Il congresso precedente si era tenuto a Maracaibo, in Venezuela, dal 26 novembre al 1° dicembre 2013. In esso, i missionari che operano nel continente americano erano stati invitati a condividere la loro fede e a riflettere sulla missione dal punto di vista del discepolato in un mondo secolarizzato e pluriculturale. Alla sua conclusione venne annunciato che l’edizione successiva si sarebbe svolta in Bolivia. E così è stato.

Dal 10 al 14 luglio scorso, nella città di Santa Cruz de la Sierra, si è tenuto il quinto Congresso missionario americano (Cam V) sotto il titolo di «America in missione, il Vangelo è gioia».

Ha coinvolto circa 3.150 partecipanti provenienti da 24 paesi tra cui circa 90 vescovi, 2 cardinali, 450 sacerdoti e 2.600 delegati oltre a 1.500 famiglie boliviane offertesi per ricevere i pellegrini.

Come si ricorderà, i Cam nacquero grazie all’ispirazione e alla promozione delle Pontificie opere missionarie in collaborazione con le Conferenze episcopali americane e rappresentano un’evoluzione dei Comla (Congressi missionari latinoamericani), il primo dei quali si tenne in Messico nel 1977.

CAM 5, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, luglio 2018: davanti alla cattedrale di San Lorenzo. Foto: Jaime Patias.

La cattedrale di San Lorenzo

Lo scenario per la messa inaugurale del Congresso non avrebbe potuto essere più suggestivo: il sagrato della cattedrale di San Lorenzo. Dalla sua facciata pendeva un manifesto con l’immagine della Beata Nazaria Ignacia (1889-1943), fondatrice delle missionarie Crociate della Chiesa che sarà canonizzata il 14 ottobre a Roma (insieme a Paolo VI e Oscar Romero, ndr).

Per la celebrazione eucaristica si sono riuniti vescovi, preti e due cardinali: il rappresentante pontificio Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, e il boliviano Toribio Ticona, indigeno quechua, recentemente nominato da Papa Francesco.

Dopo la lettura della lettera inviata dal pontefice e il protocollo di saluto, tipico di queste occasioni, è iniziata la messa, presieduta dal cardinale Filoni.

Durante la sua omelia, l’inviato del papa ha invitato il Congresso a «non perdere di vista il vero scopo della missione della Chiesa, che è quello di mettere Gesù al centro, con il nome e il cuore, altrimenti si corre il rischio di fare qualcosa di diverso, una semplice filantropia, che alla fine si rivelerà vuota e priva di credibilità».

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Testimoni e profeti

Il convegno ha il suo inizio vero e proprio l’11 luglio. Ogni mattina verso le 8 le diverse delegazioni si riunivano nell’auditorium del collegio Don Bosco dei salesiani. Bandiere, mantelli, canzoni e slogan riempivano gli spazi fino al momento della preghiera. Poi l’atmosfera cambiava di tono per lasciare posto alla preghiera del mattino incentrata su alcuni temi: «Il Vangelo è gioia» (mercoledì), «Per la riconciliazione e la comunione tra i popoli» (giovedì) e «Essere missionari testimoni ci rende profeti» (venerdì).

Piatto forte dei tre giorni sono state cinque lezioni magistrali. La prima è stata pronunciata da mons. Guido Charbonnea, vescovo della diocesi di Choluteca, Honduras, sul tema: «La gioia appassionante del Vangelo». L’arcivescovo Charbonnea ha esortato i membri del Congresso a «scoprire le chiavi che il messaggio cristiano ci mostra per arrivare alla felicità».

La seconda, intitolata «Annuncia il Vangelo al mondo di oggi», è stata proposta da mons. Santiago Silva, vescovo castrense e presidente della Conferenza episcopale del Cile. Con uno stile molto particolare e diretto, in piedi sotto il tavolo d’onore, il vescovo ha invitato a imitare Gesù ed evangelizzare attraverso la nuova identità cristiana perché «nel mondo di oggi è essenziale assumere un ruolo di testimonianza che richiede di dare segnali come il perdono, la solidarietà e la misericordia».

Il direttore dell’agenzia giornalistica Fides – Bolivia, padre Sergio Montes, ha sviluppato il tema «Testimoni discepoli di comunione e di riconciliazione». In questa terza conferenza il sacerdote ha detto che un mondo lacerato, frammentato e diviso reclama riconciliazione e una comunione che «esige l’esodo da sé per vivere l’incontro con l’“altro”, o l’“altra”, per riconoscerlo come fratello e sorella con un destino comune».

Con il suo stile personale, da queste parti conosciuto e apprezzato, mons. Luis Augusto Castro, arcivescovo di Tunja, in Colombia, ha presentato la quarta conferenza dal tema: «Profeta e missione». In essa l’arcivescovo di Tunja, ha spiegato cos’è un profeta, ha fatto un viaggio attraverso la vita e il ministero di alcuni dei profeti biblici, la loro sensibilità per le esigenze della giustizia e della misericordia, la loro opposizione all’idolatria e ai rivali di Dio concludendo che «il profeta interpreta i segni dei tempi dal punto di vista di Dio e della sua alleanza. La sua vita e la sua esperienza incarnano un nuovo modo di vedere gli altri, il potere e il sacrificio. Egli disegna un sistema di valori basato sulla consegna e sulla solidarietà. Vede con occhi nuovi».

L’oratore, inoltre, ha offerto ai partecipanti degli spunti che un missionario può seguire per diventare profeta. In questo senso ha sottolineato che il profeta non rimane in silenzio, anticipa, parla chiaramente, è un discepolo ed è giusto.

La quinta conferenza è stata tenuta da Vittorino Girardi, vescovo emerito di Tilarán – Liberia, Costa Rica, sul tema: «La missione ad gentes in e dall’America». Il vescovo ha detto che i missionari non possono separare i contenuti della missione e l’essere di Dio: «Gesù è una sola cosa e tutto vive in funzione di ciò che Egli è. E Gesù si autopercepisce come l’inviato e il missionario».

Nel pomeriggio, il Congresso si divideva in sottogruppi per confrontarsi sugli argomenti delle conferenze. Si sono poi realizzati quattro incontri su tematiche molto interessanti: «Comunicazione e Missione», «Missione e pastorale universitaria», «Nuove prospettive della missiologia» e «L’infanzia e l’adolescenza missionaria». Per continuare con questa dinamica, si sono tenuti 12 laboratori in cui si sono condivise esperienze di vita con giovani, bambini, famiglie, sulla cura per il Creato, sulle migrazioni, sugli altri. Un momento molto importante ha avuto luogo la mattina di sabato 14. La maggior parte dei partecipanti sono stati convocati presso le rispettive parrocchie ospitanti e da lì sono usciti a due a due per visitare le famiglie e annunciare loro la Parola di Dio.

Molti di loro ci hanno poi raccontato, un po’ divertiti, che alcune famiglie avevano esitato ad aprire la porta di casa perché non potevano credere che c’erano cattolici che predicavano nelle strade.

Gli obiettivi per il futuro

La messa conclusiva del Congresso si è svolta nel pomeriggio di sabato 14 luglio, presso l’altare di Cristo Redentore, preparato in occasione della visita del Papa (del luglio 2015, ndr). È stata presieduta da mons. Sergio Gualberti, arcivescovo di Santa Cruz.

Prima dell’inizio della messa, le conclusioni proposte sono state lette come obiettivi su cui lavorare in futuro. Li presentiamo qui di seguito in punti riassuntivi:

  1. educare alla gioia del Risorto e delle Beatitudini;
  2. andare nelle periferie del mondo per incontrare gli «altri»;
  3. incoraggiare la conoscenza della Bibbia e dei Vangeli;
  4. promuovere le comunità di vita missionaria;
  5. promuovere la comunione dei beni nella Chiesa e con i poveri;
  6. promuovere la riconciliazione in tutti gli ambiti della vita;
  7. promuovere la consapevolezza della missione profetica e liberatrice in tutte le sfere sociali;
  8. l’evangelizzazione della famiglia come chiave cristiana della trasformazione sociale e culturale;
  9. promuovere una Chiesa missionaria più ministeriale e laicale;
  10. promuovere e prendersi cura delle vocazioni alla vita sacerdotale e religiosa e, infine,
  11. celebrare la fede e la religiosità popolare in chiave missionaria.

A chiusura, l’arcivescovo Gualberti ha pronunciato un’omelia in cui ha ringraziato tutti coloro che hanno reso possibile l’incontro. Successivamente ha sviluppato il tema «Scalare la montagna del Signore». Il monsignore ha parlato chiaramente e ad alta voce dei problemi che affliggono il nostro mondo (riquadro a pagina 27).

Alla fine dell’Eucaristia, mons. Gualberti ha imposto la croce missionaria a quattro persone, tra cui una coppia che lavorerà a Cuba. È stato anche annunciato che Puerto Rico ospiterà, nel 2023, il prossimo Congresso missionario americano.

Lavori di gruppo al Cam V

Gli aspetti negativi e quelli positivi del Cam V

Fin qui la cronaca. Anche questa volta – però – a parere dello scrivente si è ripetuto il copione dei congressi precedenti: slogan assordanti, simboli logori per la loro ripetitività, celebrazioni eucaristiche da una parte rigide e «romane» e dall’altra cariche di simboli più folkloristici che liturgici, processioni di doni che dovrebbero essere spiegati stante l’impossibilità di parlare da sé, i tentativi (per lo più infruttuosi) di sottolineare il tema della «missio ad gentes» per molti – tra cui molti pastori – passata di moda. E la lista potrebbe continuare.

Inoltre, anche se in questa occasione si è cercato d’introdurre in maniera più consistente il tema del ruolo delle donne nella Chiesa, a nessuna è stata affidata una lezione magistrale. E sì che ci sono donne preparate a livello teologico e pastorale.

Evidenziati questi punti negativi, va però detto che, fortunatamente, sono state di più le cose positive. La scelta della Bolivia come paese ospitante, nonostante tutte le sue difficoltà; la lunga preparazione; l’impegno delle Chiese locali nello scegliere e mandare persone che garantissero la continuità del cammino aperto dal Cam V; l’accoglienza di parrocchie, cappellanie, rettorie e comunità religiose, tutti soggetti che si sono anche incaricati di trovare le famiglie ospitanti.

Proprio queste si sono trasformate in un’estensione dell’abitazione di ogni partecipante dove tutti si sentivano come a casa: tutti benvenuti, anche oltre le possibilità. A causa della ristrettezza degli spazi disponibili molte famiglie hanno ceduto la migliore camera, il letto migliore e anche il migliore cibo. In molti hanno fatto in modo di essere (a volte a tarda notte) in aeroporto in attesa dei propri missionari.

Bello, caldo ed efficiente è stato il servizio fornito da centinaia di volontari (medici, paramedici, infermieri, polizia stradale, funzionari di migrazione…), per lo più giovani.

Contagiosa la testimonianza dei missionari e missionarie laici, tra cui alcune intere famiglie con esperienze di missione fino a 30 anni in situazioni difficili e di povertà.

Sono stati molti i partecipanti che, per raggiungere la destinazione, hanno dovuto fare giorni e giorni di strada e voli estenuanti a causa di itinerari con soste infinite. Per alcuni un volo che, in condizioni normali, poteva durare un massimo di 8 ore è durato fino a 24.

Abbondano dunque le ragioni per affermare che valeva la pena di essere a Santa Cruz, in Bolivia, al Congresso missionario americano dove abbiamo trovato una buona parte di quella chiesa pasquale e missionaria che sta prendendo sul serio l’invito di Papa Francesco a uscire e andare nelle periferie esistenziali per comunicare la gioia del Vangelo.

Jorge García Castillo
(traduzione e adattamento di Paolo Moiola)


L’intervento finale

Scalare la montagna

La sintesi del discorso di chiusura di mons. Sergio Gualberti, arcivescovo di Santa Cruz de la Sierra e presidente del Cam V.

Mons. Sergio Gualberti, CAM 5, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, luglio 2018. Foto: Jaime Patias.

Come cattolici siamo chiamati a scalare la montagna della solidarietà, della giustizia e della vita, una vita degna per tutti i figli di Dio per superare la povertà, che ancora mantiene in condizioni disumane troppi fratelli e sorelle nel nostro continente. La povertà è il risultato di un sistema ingiusto e mercantilista in cui l’economia è al di sopra dell’uomo e arricchisce i ricchi a spese dei poveri, una moltitudine di poveri sempre più poveri. Un sistema che scarta gli anziani, i bambini, gli orfani e gli abbandonati come tanti fratelli indifesi; un sistema che discrimina le donne, in particolare le madri single e sole.

Scalare la montagna della fraternità e dell’uguaglianza camminando insieme a tante e grandi persone che lasciano i nostri paesi e cercano una patria che garantisca condizioni di vita dignitose per loro e le loro famiglie e che invece si scontrano contro i muri della xenofobia e della vergogna. Muri che separano i bambini dai loro genitori e che discriminano a causa delle loro origini e condizioni personali e sociali. Muri da demolire per costruire ponti di umanità, fraternità e solidarietà.

Scalare la montagna della pace per contrastare nei nostri paesi la corsa alle spese militari e coloro che credono nella logica del più forte, che promuovono l’odio e la paura e la diffidenza tra i nostri popoli, tagliando le risorse che servirebbero per creare posti di lavoro, per superare la povertà e attuare politiche sociali al servizio di tutti, specialmente degli ultimi e degli emarginati. «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (Isaia 2,4).

Scalare la montagna dell’amore e del matrimonio accompagnando le famiglie a stabilirsi nella casa del Signore, in cui esse si ritrovano come chiese domestiche, come luoghi fondati sulla fede, l’amore, la comunione, la riconciliazione e il perdono, e come sacrari di vita e scuole di umanizzazione. Le nostre famiglie che spesso camminano senza meta, colpite nella loro integrità a causa della povertà, delle migrazioni, delle separazioni e dei divorzi e costantemente molestate da correnti ideologiche colonizzatrici che mettono in discussione l’identità stessa della famiglia basata sull’amore esclusivo e fedele fino alla morte tra un uomo e una donna aperti alla vita e all’educazione dei bambini secondo i valori del Vangelo e delle nostre culture indigene.

Scalare la montagna della luce e della verità come cristiani consacrati alla verità del Signore smascherando le menzogne e gli errori della cultura individualista e relativista che è alla base della società dei consumi. Società in cui il consumo di beni superflui e lo sfruttamento irrazionale e indiscriminato delle risorse naturali hanno causato ferite mortali alla nostra sorella la madre terra, e le cui prime vittime sono i nostri fratelli indigeni privati del loro habitat vitale.

Scalare la montagna della comunione della nostra Chiesa dove tutti mettiamo i nostri carismi al servizio della comunità e del Regno di Dio. Dove i ministeri laici, in particolare delle donne, siano riconosciuti e trovino lo spazio che compete loro dal battesimo.

Scalare la montagna della riconciliazione e del perdono per percorrere i sentieri della conversione sincera della nostra Chiesa davanti alle infedeltà, le divisioni, le gelosie e contro testimonianze di tanti dei suoi figli che scandalizzano il mondo.

Uniti e riconciliati, dobbiamo camminare insieme come un unico popolo di Dio, testimoniando una comunione sincera e profonda che è il primo servizio alla missione in modo che il mondo sappia chi ci ha mandato.

[…] «Come mi hai mandato nel mondo, anch’io ti mando nel mondo in modo che la tua voce e le tue parole si diffondano in tutta la terra fino ai confini del mondo». Accogliamo con entusiasmo e gioia la sfida che il Signore lancia a tutti e a ognuno di essere profeti della Sua Parola, il Verbo della vita, della giustizia e dell’amore senza essere intimiditi dalle nostre debolezze, difficoltà e incomprensioni, e così sperimentare quanto belli sono i piedi di coloro che annunciano il Vangelo nella nostra America e oltre il nostro continente. […]

mons. Sergio Gualberti
(trascrizione di Lourdes González,
(traduzione e adattamento di Paolo Moiola)

CAM 5, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, luglio 2018. Foto: Jaime Patias.


La testimonianza

È finito il tempo dei navigatori solitari

Le riflessioni del superiore generale dei missionari della Consolata, al suo primo Cam.

Prima di tutto mi piace sottolineare che il quinto Congresso missionario americano (Cam V) – il primo a cui io ho partecipato – è stato un’esperienza ricchissima di Chiesa. Al Congresso hanno partecipato giovani e meno giovani, sacerdoti, vescovi, religiosi, religiose, seminaristi e laici di tutto il Continente e anche da altri paesi. Qui ho sentito davvero che la Chiesa è universale ed è madre perché raccoglie tutti i suoi figli e figlie provenienti da ogni parte e dà ad ognuno la possibilità di sentirsi famiglia e poter sviluppare tutti i propri doni e qualità. In quelle giornate abbiamo respirato la missione e capito – sia dalle parole che dai segni – che senza missione non c’è Chiesa, non c’è Vangelo.

In secondo luogo, mi piace sottolineare la dimensione della gioia, della festa. Lo slogan del Congresso era: «Annuncia la gioia del Vangelo». L’America è viva, piena di giovani e di voglia di ballare, di vivere di stare assieme. La gioia è una caratteristica di questi popoli e culture e al Congresso essa si è manifestata in tutte le sue forme. Davvero la Chiesa deve recuperare questa dimensione gioiosa della fede. Credo che per troppo tempo abbiamo predicato una fede di rinuncia e sacrificio: è giunta l’ora di predicare la gioia di essere cristiani e di annunciarla con tutta la nostra forza cantando e celebrando la vita.

Il nostro Fondatore, il Beato Guseppe Allamano, diceva che un missionario deve essere gioioso e che questa gioia nasce dalla fede, dal sentirsi vicini al Signore. È questo che a Santa Cruz de la Sierra è stato ripetuto affinché ognuno di noi lo custodisse nel proprio cuore come tesoro prezioso per portarlo nel proprio ambiente dove annunciare la gioia del Vangelo. Infine, mi piace condividere alcuni punti che possono essere importanti anche per il nostro percorso di missionari della Consolata.

Al Congresso, in diverse forme, è stato ripetuto che oggi la missione non si può più fare da soli, che dobbiamo aprirci e collaborare con tutte le forze che vogliono viverla, primi fra tutti i laici. Come ci ha insegnato la Redemptoris Missio, la missione non è opera di navigatori solitari, ma di discepoli missionari aperti, sensibili e solidali.

In secondo luogo, in diverse maniere è stato ripetuto che la missione è il paradigma della Chiesa, ma che essa è anche più grande della Chiesa perché va oltre, grazie a tutte le sue persone che cercano e lavorano per il bene dell’umanità. Siamo umili servitori, insieme a tanti altri conosciuti e sconosciuti, della presenza del Regno e questa è la nostra gioia e la nostra forza.

Per ultimo, credo che il Congresso missionario di Santa Cruz de la Sierra ci abbia ricordato che il cammino di rivitalizzazione e ristrutturazione in una visione di missione continentale, che come Istituto abbiamo iniziato, sia in sintonia con quanto sta vivendo la Chiesa: che se, da una parte, essa deve lanciarci in una missione contestualizzata, dall’altra non deve farci dimenticare la sua dimensione universale. Perché siamo persone appartenenti a tutta l’umanità, nonché fratelli di tutti i popoli e di tutte le culture.

Stefano Camerlengo

Padre Camerlengo tra i concelebranti


Missionarie, missionari e laici della Consolata presenti al Cam V:

  • Sr. Maria Conceição Nascimento da Silva
  • Sr. Emma Eganda
  • Sr. Hannah Wambui Ndung’u
  • Sr. Marisa Soy
  • P. Stefano Camerlengo
  • P. Jaime C. Patias
  • P. Micarnel Mutinda Munywoki
  • P. Robério Crisóstomo da Silva
  • P. Stephen Gichohi Ngari
  • P. Stanslaus Joseph Mnyawami
  • Mons. Luis Augusto Castro
  • Mons. Francisco Munera
  • Ugo Gomes
  • Mariana Gomes
  • Jose Luis Andrade
  • Danmary Mujica

CAM 5, Santa Cruz de la Sierra, Bolivia, luglio 2018. Foto: Jaime Patias.




Corea del Nord: Forse è iniziata una nuova era


Corea del Nord e Usa. Il tanto declamato incontro tra Donald Trump e Kim Jong Un è stato possibile per il grande lavoro diplomatico del presidente sudcoreano Moon Jae-in. La denuclearizzazione della Corea del Nord non è un programma di poco conto e richiede vari passaggi. Senza trascurare la circostanza che gli Stati Uniti mantengono in Corea del Sud 28.500 militari, che non piacciono né a Pyongyang né a Pechino. L’analisi (alternativa) del nostro Piergiorgio Pescali presente al summit di Singapore.

Una «nuova era, l’era della cooperazione tra Dprk e Usa si è aperta». Queste parole, forse fin troppo ottimiste, non provengono da comunicati diplomatici, quasi sempre inutili nella loro tendenza ad amplificare il successo di qualsiasi evento internazionale, ma da una fonte inaspettata: il Rodong Sinmun, il quotidiano del Comitato Centrale del Partito dei Lavoratori di Corea. Il 13 giugno 2018 il giornale nordcoreano, come tutti i mezzi di comunicazione del paese strettamente controllato dal governo, riassumeva – in ben quattro pagine – i risultati del summit tenutosi a Singapore tra Kim Jong Un e Donald Trump illustrando il tutto con 33 fotografie. Ma le sorprese non finiscono qui: per la prima volta nella loro storia i nordcoreani potevano leggere che lo stesso Grande Leader aveva «elogiato la volontà e l’entusiasmo del presidente (Trump, ndr) nel risolvere le divergenze in modo realistico attraverso il dialogo e i negoziati, lontano dalle ostilità che si erano create nel passato». Una dichiarazione sbalorditiva e sicuramente inattesa in un paese dove gli Stati Uniti sono visti come il perenne e principale pericolo per la sopravvivenza del suo popolo.

il presidente della Corea del Nord (a sinistra) con quello della Corea del Sud durante il loro secondo incontro (26 maggio 2018) nella zona demilitarizzata che divide le due Coree. Foto: The Blue House / AFP.

Il contributo di Moon Jae-in

La dichiarazione di Singapore è composta da quattro punti programmatici che delineano la strada da seguire per completare
il processo di pace e stabilire relazioni diplomatiche. Ad essa si è arrivati dopo lunghe e sofferte trattative, ma il punto di svolta lo si era avuto con l’elezione di Moon Jae-in alla presidenza della Repubblica di Corea (dal 10 maggio 2017, ndr). È stato questo avvocato e attivista dei diritti umani, figlio di profughi nordcoreani trasferitisi al Sud alla fine del 1950, arrestato negli anni Settanta per aver partecipato a manifestazioni studentesche contro la costituzione Yushin che dava pieni poteri all’allora presidente Park Chung-hee, a mediare tra le diplomazie statunitensi e nordcoreane riaprendo la via ad un dialogo che appariva impossibile. Già fautore della Sunshine Policy avviata da Kim Dae-jung (presidente dal 1998 al 2003, ndr) e perseguita da Roh Moo-hyun (presidente dal  2003 al 2008, ndr), con cui ha collaborato organizzando l’incontro del 2007 con Kim Jong Il, Moon Jae-in è sempre stato convinto che l’unica soluzione possibile per pacificare la penisola coreana fosse il dialogo. Così, quando nel maggio 2017 la disastrosa amministrazione di Park Geun-hye, caratterizzata da scandali e dalla politica del confronto muro-contro-muro con il Nord ebbe termine, Moon iniziò, o meglio, riprese, la linea di apertura ufficialmente interrotta nel novembre 2010 dal ministro dell’Unificazione sudcoreano.

Da allora Seoul e Pyongyang si sono confrontate a livelli diplomatici sempre più alti e neppure il test termonucleare del settembre 2017 seguito dal lancio del missile intercontinentale Hwasong 15 a novembre, sono riusciti a impedire che il 27 aprile 2018 (e poi il 26 maggio, ndr) Kim Jong Un entrasse nella Corea del Sud garantendosi un posto nella storia varcando, primo leader della Corea del Nord, il confine segnato dall’armistizio del 1953.

Da quell’incontro Moon ha lavorato indefessamente affinché il dialogo non si arenasse, come invece era accaduto con la Sunshine Policy, riuscendo anche a convincere Trump a ritirare la lettera inviata il 25 maggio in cui diceva di voler annullare il summit di Singapore.

Nel frattempo, Kim Jong Un teneva fede alla parola data chiudendo il sito di test nucleari di Punggye-ri, l’area dove sono state fatte scoppiare tutte le sei bombe nucleari, di cui l’ultima termonucleare, che tanto hanno scosso l’opinione pubblica fino a far ipotizzare a chi è meno attento alle questioni della penisola, lo scoppio di una guerra.

La dismissione di Punggye-ri, pur con tutti i dubbi sollevati dal rifiuto da parte nordcoreana di invitare esperti internazionali che installassero strumenti di monitoraggio in continuo, è stato un primo passo per iniziare un dialogo con gli Stati Uniti.

È stato questo lavoro di concerto tra Kim e Moon a permettere l’incontro di Singapore.

Giovani nordcoreane si esercitano per la parata sulle rive del Taedong, a Pyongyang. Foto: Tobias Nordhausen.

Come fare per accontentare tutti gli attori

Ora, però, la questione principale che ci si pone è quale denuclearizzazione sarà possibile in Corea del Nord? Il termine denuclearizzazione è di per sé molto vago e lascia spazio a innumerevoli interpretazioni. Gli Stati Uniti vorrebbero un disarmo nucleare completo, verificabile e irreversibile, il cosiddetto Cvid (Complete, Verifiable and Irreversible Dismantlement) così come descritto nella risoluzione 2.270 del 2016 delle Nazioni Unite. In questo documento si legge che la «Repubblica democratica popolare di Corea dovrà abbandonare tutti i programmi nucleari e abbandonare la produzione di armi nucleari in maniera completa, verificabile e irreversibile cessando immediatamente ogni attività ad essa correlata». Ma le incomprensioni tra Pyongyang e Washington sono spesso causate alla diversa interpretazione dei termini. Per gli asiatici la denuclearizzazione comprenderebbe anche la completa rimozione dei 28.500 militari statunitensi oggi stanziati in Corea del Sud. Per gli statunitensi, invece, almeno sino al vertice di Singapore, questa opzione non è mai stata contemplata. Anzi, il terrore della Cina è proprio quello di trovarsi i propri confini presidiati da truppe del Pentagono nel caso la Corea del Nord si avvicini troppo agli Usa.

Una soluzione che potrebbe accontentare entrambe le parti sarebbe il congelamento (e non lo smantellamento) del programma nucleare e missilistico di Pyongyang. Dopotutto Kim Jong Un ha già affermato di aver raggiunto il suo scopo con il lancio dell’Hwasong-15 nel novembre 2017 e lui stesso ha indicato come non improbabile una sospensione delle ricerche in campo atomico e missilistico. Il congelamento sarebbe un modo per accontentare tutti gli attori regionali: la Corea del Nord non sarebbe costretta per forza di cose a denuclearizzare per prima esponendo così il proprio lato debole al nemico; gli Stati Uniti, invece, avrebbero la garanzia che la nazione asiatica non perfezioni ancor più la sua tecnologia e non accresca di altre bombe termonucleari il proprio arsenale. Per la Corea del Sud, dal canto suo, si aprirebbe una nuova stagione di dialogo, una sorta di Sunshine Policy II, accrescendo il peso politico ed economico della nazione nella regione e garantendo a Moon Jae-in l’approvazione non solo dell’elettorato, ma anche dei potenti chaebol (i grandi conglomerati industriali controllati da un proprietario o da una famiglia, ndr). Il Giappone, sebbene non veda completamente soddisfatte le sue richieste di estinzione di pericolo nucleare e chimico-batteriologico provenienti dalla Corea del Nord, avrebbe però una nuova chance per riaprire il negoziato sui rapimenti dei propri cittadini avvenuti negli anni Ottanta, avendo al tempo stesso la riassicurazione di Washington di proteggere l’arcipelago con i propri sistemi antimissile. La Cina, che più di tutti teme un cambiamento dell’equilibrio di forze a favore degli Usa, verrebbe compensata dall’apertura di un mercato di 100 milioni di potenziali consumatori, 25 dei quali altamente affamati di nuovi prodotti. Attualmente le esportazioni cinesi sono frenate a Nord dall’embargo delle Nazioni Unite e a Sud dalla barriera del 38° parallelo.

Kim Jong Un e Donald Trump nel porticato del Capella Hotel di?Singapore. Foto: Kevin Lim / The Straits Times /Handout/Getty Images.

Lo scoglio nucleare e missilistico

Anche nel caso la Corea del Nord accettasse di interrompere i propri test nucleari e missilistici, le parti in causa dovranno comunque sedersi a un tavolo delle trattative per individuare modi e tempi per ottemperare alle proposte.

Pyongyang potrebbe sospendere i test dei soli missili intercontinentali, quelli che più impensieriscono gli Stati Uniti, ma non quelli a corto e medio raggio, capaci di raggiungere ogni punto del Giappone. Potrebbe anche non includere il programma spaziale che, seppur formalmente sia solo un programma civile, ha comunque implicazioni militari, come ben sanno gli stessi Stati Uniti. Anche nel caso si raggiungesse un accordo sul bando dei test missilistici Icbm (Intercontinental Ballistic Missiles, missili balistici intercontinentali), Pyongyang potrebbe continuare a sviluppare studi in laboratorio sui motori a combustibile liquido e, a seconda degli accordi che si andranno a sottoscrivere, le ricerche correlate ai missili imbarcati sui sottomarini. Dato che i test sui Icbm devono passare attraverso lo sviluppo dei missili Srbm (Short Range Ballistic Missiles, missili balistici a corto raggio) e sui motori a combustibile liquido, sarà molto probabile che gli Stati Uniti chiederanno la sospensione totale di questi esperimenti.

Alla Corea del Nord potrebbe anche venir chiesto di rientrare nel Ctbt, il «Trattato per il bando totale degli esperimenti nucleari» (Comprehensive Test-Ban Treaty) da cui era uscita il 10 gennaio 2003. Nel caso il paese accetti, sarà obbligato ad aprire i suoi siti di ricerca e di produzione a ispezioni internazionali, le quali potrebbero intervenire senza lungo preavviso nel caso vi siano prove di violazione del trattato. Inoltre, i tecnici del Ctbt sarebbero autorizzati ad installare strumenti di controllo in remoto nelle aree più delicate, incluse quelle ritenute segrete, che possano ravvisare eventuali attività non autorizzate. La rivelazione agli Stati Uniti o a parti terze delle proprie basi segrete, i centri di produzione missilistica e nucleare, le rotte, legali o no, attraverso cui i militari si riforniscono per i propri programmi, sarebbe sicuramente la fase più delicata: Pyongyang potrebbe vederla come il punto di non ritorno perché taglierebbe in modo pressoché definitivo ogni futuro sviluppo del paese in senso militare.

Kim Jong Un al centro tra Vivian Balakrishnan (autore del selfie) e Ong Ye Kung, ministri di Singapore. Foto: Vivian Balakrishnan.

Sanzioni e sviluppo economico

Questo calo delle difese da parte di Pyongyang, considerato critico e pericoloso da parte della leadership nordcoreana, dovrebbe essere a sua volta accompagnato da ampie assicurazioni da parte di Washington e dei suoi alleati che, una volta esposta e indifesa, la Corea del Nord non verrà attaccata in alcun modo, non solo militarmente, ma anche con ritorsioni economiche, politiche e di altro genere. Nei suoi comunicati ufficiali, Pyongyang ha sempre considerato le ritorsioni economiche come delle vere e proprie dichiarazioni di guerra e di questi collegamenti si dovrà tener conto quando le parti si siederanno di nuovo al tavolo delle trattative. La sospensione delle esercitazioni militari, dei voli dei bombardieri e la navigazione di portaerei e sottomarini nel Mar Giallo e nel Mar del Giappone, auspicate per la prima volta quest’anno da parte di Trump subito dopo il vertice di Singapore, dovrebbero risultare permanenti, possibilmente accompagnate da un patto di non aggressione, mentre la Cina (ed eventualmente la Russia) potrebbe proporsi come garante nella protezione militare di Pyongyang.

È anche impensabile cancellare il programma sino a quando non si instaureranno le condizioni per sopperire alle falle energetiche e finanziarie che ora vengono parzialmente colmate dal nucleare. L’economia nordcoreana ha estremo bisogno di elettricità. Le centrali che alimentano le industrie e le abitazioni civili sono vetuste e hanno urgente bisogno di essere rinnovate. L’embargo imposto dalle Nazioni Unite impedisce al paese di importare pezzi di ricambio così come il petrolio, e l’unica fonte di approvvigionamento rimangono le miniere di carbone la cui estrazione è fortemente rallentata da macchinari antiquati e da continui incidenti. In questa situazione i black out energetici sono frequenti, rallentando la produzione economica e costringendo la popolazione a fare i conti con improvvise interruzioni delle attività quotidiane. Se a Pyongyang e nelle altre città la situazione è ancora sostenibile, nelle campagne è, invece, più seria. Per far fronte alla carenza di energia elettrica quasi ogni casa nordcoreana ha pannelli solari che permettono il funzionamento degli elettrodomestici e dei macchinari meno energivori.

La società nordcoreana si sta sempre più dividendo in due, tra chi abita in città ed è testimone di mutamenti sempre più repentini e chi, invece, vive nelle campagne, dove la vita scorre più lineare e le riforme economiche e sociali si materializzano sotto forma di mercatini privati, commercio con il mercato nero, disoccupazione.

Se il trio Kim-Moon-Trump è riuscito a portare una nuova speranza di pace e sviluppo nella storia della penisola coreana, ora i nordcoreani aspettano fiduciosi un nuovo boom economico che permetta loro di migliorare le proprie condizioni di vita.

Piergiorgio Pescali


Il presidente nordcoreano a Singapore

Un selfie con Kim

Il comportamento di Kim Jong Un è molto diverso da quello dei suoi predecessori: il padre Kim Jong Il e il nonno Kim Il Sung. In questo cambiamento è stato aiutato anche dalla sorella Kim Yo Jong. A Singapore, il presidente nordcoreano è stato più «mediatico» del presidente Usa.

Il summit di Singapore si può riassumere in due foto particolarmente emblematiche: la prima è il selfie che il ministro degli Esteri singaporeano Vivian Balakrishnan ha scattato assieme al collega della Pubblica Istruzione Ong Ye Kung con un sorridente Kim Jong Un in mezzo a loro. La foto, fatta con un cellulare, è in assoluto il primo selfie del leader nordcoreano ed è stata scattata nel Gardens by the Bay durante il tour che ha portato Kim e l’ormai inseparabile sorella Kim Yo Jong allo Sky Park del Marina Bay Sands. Il ritratto mostra, forse più di ogni altra immagine, il nuovo corso che il Grande Leader vuole imprimere alla Corea del Nord. Non più immagini costruite e stereotipate come quelle che, per anni, hanno contraddistinto il padre e il nonno; per la prima volta questo selfie ha mostrato il Kim quotidiano, genuino, perfettamente a suo agio in un ambiente a lui estraneo, ma che sente come amico. L’estemporaneità della postura è perfettamente in linea con la nuova politica intrapresa dal leader nordcoreano sin dai primi giorni del suo governo. Una politica che, a differenza del padre, lo ha portato a stretto contatto con il popolo: le apparizioni del Grande Leader, rare durante il periodo di Kim Jong Il, si sono fatte sempre più frequenti e alla severità del padre si è sostituito il sorriso del figlio, sicuramente impresso nel suo carattere, ma dettato anche dal nuovo stile costruito dalla sorella, non per nulla vice direttrice del dipartimento di Propaganda e che esprime un senso di sicurezza ad una nazione stremata da anni di chiusura e di embarghi politici e economici.

Di Singapore Kim Jong Un ha apprezzato la pulizia e l’architettura degli edifici, «che ricordano la storia e il passato» aggiungendo di «aver imparato molto dall’esperienza fatta nella città-stato e che sarà utile per il futuro» del suo paese. Il panorama notturno che Kim ha osservato dallo Sky Park del Marina Bay Sands lo ha impressionato tanto da auspicare una trasformazione simile anche per la sua Pyongyang.

La seconda fotografia che racchiude la sintesi del summit ritrae Kim Jong Un e Donald Trump di spalle a tre quarti che camminano lungo il porticato che si affaccia sul giardino del Capella Hotel. Kim sta parlando a Trump sorridendo mentre, con la mano destra appoggiata all’altezza del gomito del braccio sinistro di Trump, accompagna il presidente Usa. L’immagine è emblematica perché racchiude la sintesi dei colloqui tra i due capi di stato. Kim ha il sopravvento su un Trump che, pur continuando a ricoprire la figura del borioso e dello spaccone, si lascia guidare dal collega nordcoreano sottomettendosi, almeno in parte, alle sue volontà. I due sembrano prendere confidenza l’uno con l’altro prima di avanzare verso un futuro che appare luminoso con le palme sullo sfondo. E tra loro è Kim Jong Un che guida il percorso e incoraggia il collega. Un ribaltamento di ogni prevedibile situazione: a Singapore non sono stati gli Usa a condurre i giochi, bensì la Corea del Nord. Seguendo Kim nel suo tour a Singapore, il bagno di folla e le inaspettate ovazioni a lui riservate hanno mostrato che, almeno in questa città, il leader nordcoreano è visto in modo diametralmente opposto rispetto a come è stato descritto in Occidente. Per contro il presidente statunitense è stato snobbato ed era chiaro che si sentisse un pesce fuor d’acqua al di là del contesto mediatico del Capella Hotel.

Sicuramente questo modo di vedere ha a che fare con gli storici legami politici e economici che Singapore ha avuto con la Corea del Nord a cui si aggiungono le simpatie personali tra Lee Kuan Yew (morto nel 2015, ndr) e con Kim Il Sung (morto nel 1994, ndr), fondatori, padri-padroni autoritari dei rispettivi stati. Lee Kuan Yew e Kim Il Sung condividevano l’assolutismo, il rigore e un’idea differente dei diritti umani, basati su una «visione asiatica» che predilige il diritto sociale a quello individuale.

Piergiorgio Pescali

 

 




Sud Sudan: L’ennesimo processo di pace per il conflitto più cruento


È la guerra civile più efferata degli ultimi tempi. Ma anche la più dimenticata. In 5 anni ha ucciso tra le 50 e le 300mila persone, ha prodotto oltre 3,5 milioni di sfollati e 5 milioni a rischio fame. È stato fatto uso massiccio dello stupro e di violenze anche su minori, disabili, anziani. Da alcuni mesi una mediazione internazionale sta cercando di portare le tante fazioni in conflitto alla firma di una pace duratura. Riuscirà il petrolio dove il buonsenso ha fallito?

È il 5 agosto 2018. A Khartum, capitale del Sudan, Omar al Bashir, controverso presidente (accusato dalla Corte penale internazionale di crimini contro l’umanità) e mediatore, ottiene la firma di un accordo di pace «provvisorio» tra le fazioni in guerra (civile) nel Sud Sudan. Questo è lo stato più giovane del mondo, si è diviso dal Nord il 9 luglio del 2011. «È come se il loro ex presidente fosse riuscito a imporsi per farli firmare», dice qualcuno. Presenti alla firma pure i presidenti di Kenya, Uganda e Gibuti, oltre che diversi corpi diplomatici. Salva Kiir Mayardit (presidente del Sud Sudan) e il suo acerrimo nemico Riek Machar (primo tra i ribelli), insieme a tutte le altre fazioni in conflitto in Sud Sudan, firmano. Ma il processo di pace non inizia e non finisce qui. Il 27 giugno è stata firmata la «Dichiarazione di Khartum», che doveva essere un cessate il fuoco tra tutte le parti, mentre il 25 luglio è stato siglato un accordo preliminare.

I presidenti lasciano la capitale del Sudan mentre i tecnici mettono a punto l’accordo reale e definitivo. Molti sono gli aspetti da definire sulla sua applicazione.

Ma ora cosa succederà? Riuscirà il più giovane paese dell’Africa, sconvolto da cinque anni di guerra cruenta a pacificarsi? A guardare il video – divenuto virale – che mostra Machar porgere la mano a Kiir e questo che abbassa la testa senza ricambiare il gesto, qualche dubbio ci assale.

A fine agosto arriva la notizia che Machar e i leader del Ssoa (South Sudan Opposition Alliance) non vogliono firmare l’accordo definitivo, che non prenderebbe in considerazione alcune loro richieste su divisione in stati, quote etniche del governo e meccanismi di modifica della Costituzione. Poi, nelmomento in cui scriviamo, Machar dichiara di voler firmare, perché confida che la mediazione sudanese sia garante delle loro rivendicazioni.

AFP PHOTO / SUMY SADURNI

Una storia breve

Dopo l’indipendenza dal Sudan, nel 2011, viene creato un governo in cui Kiir è presidente e Machar il suo vice. Subito però riaffiorano le antiche rivalità tra i Dinka, etnia maggioritaria (circa 4 milioni) tra i 64 gruppi etnici sudsudanesi (12,5-13 milioni in tutto), e Nuer la seconda etnia per dimensione (un milione). Nel 2013 il dinka Kiir accusa il nuer Machar di essere artefice di un complotto per rovesciarlo e scoppia la guerra tra le due principali fazioni, che poi si moltiplicheranno.

Nell’agosto 2015 le parti firmano un accordo simile a quello di oggi, che porta a un governo transitorio, in cui Machar è ancora vice presidente (si veda MC maggio 2017). Accordo poi fallito pochi mesi dopo, con Machar che fa una vera «chiamata alle armi» contro i Dinka al potere, chiedendo a tutti i sudsudanesi di combatterli. Operazione che non piace ai paesi della regione e alla comunità internazionale, che invece hanno interesse a stabilizzare il Sud Sudan.

Una poltrona per cinque

I dubbi sulla firma del 5 agosto restano, perché i nodi cruciali non sono stati risolti. I punti fondamentali dell’accordo sono i seguenti: Salva Kiir rimane presidente, mentre Riek Machar ridiventa vicepresidente. Ma ci sono già due vice, ovvero James Wani Igga (di etnia bari), che aveva sostituito lo stesso Machar nel 2013, e Taban Deng Gai, nuer, messo nel 2015 perché rappresentava l’opposizione, la quale però non l’ha mai riconosciuto. A questo punto Machar potrebbe rientrare come primo vicepresidente, mentre se ne aggiungerebbero altri due, in modo da accontentare tutte le fazioni. In particolare i Dinka legati alla famiglia di John Garang (il leader carismatico morto misteriosamente nel 2005), che si dissociano dalla gestione di Kiir di questi anni e i Silluk (si fa il nome di Lam Akol, già alto ufficiale dell’Spla, poi ministro del Sudan e quindi fondatore della fazione Splm – democratic change).

«Sono tutte persone molto speciali e difficili, con delle storie un po’ strane. Lo stesso Salva Kiir, che pure non è un santo, si chiede come farà mai a governare con questi cinque vice presidenti», confida un osservatore.

Si dovrebbe formare un governo di pre transizione che durerebbe in carica alcuni mesi, con lo scopo di creare un parlamento e un nuovo governo di transizione della durata di tre anni, nei quali i seggi e gli incarichi sarebbero contingentati per etnia. Si tratta di fatto di un accordo di condivisione del potere, che però non prevede meccanismi o programmi, ma solo divisione di posti.

Jason Patinkin/IRIN

I nodi sul tappeto

Uno dei principali punti controversi dell’accodo è quello della sicurezza, da garantire per tutti. Intimamente legato alla creazione di un esercito unico, come vorrebbe il governo. Oggi ci sono una moltitudine di eserciti e di gruppi armati, ognuno legato a una fazione o meglio a un leader. Lo stesso Spla (esercito governativo) è diviso al suo interno. Ma come integrare tutte queste milizie? Sarebbero tanti i militari da mandare a casa, in particolare ufficiali e generali.

Ogni gruppo si garantisce la sicurezza con il suo esercito. Ad esempio, Machar che da anni vive in esilio, per tornare a Juba in sicurezza dovrebbe portarsi il suo esercito, come già successo nel 2016, creando tensioni con l’esercito governativo.

L’altro punto è la suddivisione territoriale, che l’attuale governo vuole portare a 32 stati. Dai 10 stati suddivisi in 86 contee del 2011, si è passati nel 2015 a 28 stati teorici. L’operazione sembra fatta più che per organizzare lo stato, per garantire ulteriori posti di potere da suddividere tra le fazioni. Il problema è che il paese rischia di diventare ancora più ingovernabile.

«Ci sono situazioni molto diverse. È un paese al quale non riesci a dare un’identità». Ci racconta una cooperante che è in Sud Sudan da tre anni e ha avuto modo di viaggiare in diverse zone.

«Nel Nord gli stati Unity, Jonglei, Upper Nile, sono popolati da tribù nomadi, dedite alla pastorizia. Ci sono i problemi di furti di bestiame e delle inondazioni. Sono le zone più arretrate. Rispetto a Greater Equatoria (nel Sud, dove c’è la capitale Juba) c’è un abisso. Quest’ultimo è uno stato a sé. C’è molta instabilità, gruppi armati che non si sa a che fazione appartengono, tante imboscate sulle strade. Nonostante questo, la gente sta tornando dall’Uganda, dove nel 2017 sono fuggiti a milioni. È gente che sta cercando di stabilizzare la propria vita. Negli stati Norhtern e Western Bhar el Ghazal, Warap, Lakes, ci sono altre popolazioni, contadini. A Wau la gente esce dal campo di sfollati e va a coltivare, si fa i mattoni per ricostruire la casa. Poi la notte rientra a dormire nel campo.

Si vedono almeno tre paesi diversi con mentalità e approcci alla vita propri».

AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY

Pressioni internazionali

Gli osservatori sono concordi nel giudicare che le pressioni internazionali, in particolare dei paesi dell’Igad (Autorità intergovernativa per lo sviluppo, organizzazione dei paesi del Corno d’Africa), sono state fondamentali per ottenere la firma di tutti i belligeranti. E il Sudan è stato in prima linea. «Il Sudan, come anche il Sud Sudan, versa in una grave crisi economica. Se i pozzi di petrolio del Sud riprendono a pompare, il greggio ha come unica via l’oleodotto che lo porta a Port Sudan, sul Mar Rosso, nel Nord, e Khartum riceve per ogni barile un grossa quota di profitti», dice l’osservatore.

In effetti, il giorno stesso della firma, al Bashir ha annunciato la ripresa dell’estrazione di greggio e, puntuale, il 26 agosto un test è stato fatto nello stato di Unity, alla presenza di due delegazioni di Sudan e Sud Sudan guidate dai rispettivi ministri del Petrolio. La produzione dovrebbe normalizzarsi entro la fine dell’anno. Gli esperti dicono che nel Sud Sudan è passata dai 350.000 barili/anno di cinque anni fa, a circa 120.000 barili/anno.

Altri paesi interessati sono l’Uganda, che ha sempre appoggiato la fazione di Salva Kiir, (mentre il Sudan è piuttosto legato a Riek Machar), l’Etiopia, che ha dovuto accogliere alcune centinaia di migliaia di sfollati, e il Kenya.

Mentre l’Unione europea è stata assente, gli Stati Uniti, che hanno molto investito in Sud Sudan, hanno criticato l’accordo firmato a Khartoum. Inoltre, hanno fatto pressione all’Onu e fatto passare l’embargo sulle armi (13 luglio), ma si tengono lontani dal processo in atto.

Voci dal terreno

Ma quali cambiamenti ha portato sul terreno questo nuovo processo di pace?

Secondo l’operatrice umanitaria, «non c’è alcun cambiamento interno nel paese. Ad esempio in questi giorni si sta combattendo nel campo di sfollati di Juba. Qui ci sono 30.000 persone, tutti Nuer ma di diversi clan, e basta un nulla per fare scoppiare la violenza. Spesso si combattono per portare più servizi al loro gruppo. A livello locale, dove noi andiamo per assistere gli sfollati, l’accordo di pace non ha portato a cambiamenti». E continua: «In alcune zone del Nord gli sfollati rientrati in patria che assistiamo, mi hanno detto: tra alcune settimane ricomincia la stagione secca, le truppe hanno più facilità di spostamento e verranno a riprendere questa zona. Noi siamo già pronti a scappare di nuovo in Sudan».

Un missionario che lavora a Juba ci racconta: «Per l’accordo la gente ha grande speranza. Sono esausti di questa situazione, quindi qualsiasi cosa va bene, purché ci sia tranquillità e l’economia si riprenda. A giugno un dollaro era arrivato a valere 350 sterline sudanesi. Con i salari minimi intorno alle 3-4.000 sterline. Molti prodotti sono di importazione, arrivano dall’Uganda o da altri paesi, per cui i prezzi aumentano con il cambio. Dopo la firma dell’accordo il dollaro è a 160 sterline, e questo dà un grosso respiro alla gente. In realtà al mercato c’è confusione, perché c’è ancora chi applica cambi diversi».

Displaced children stand at a camp for Internally Displaced Persons (IDP) near Kadugli, the capital of Sudan’s South Kordofan state during a United Nations humanitarian visit on May 13, 2018. / AFP PHOTO / ASHRAF SHAZLY

Conferma il missionario: «Il costo della benzina è sceso e questo è importante, soprattutto per le merci trasportate. Ad esempio, il prezzo della farina è sceso. Ma non si sa quanto durerà. Il dubbio è: come faranno queste persone, che sono sempre le stesse al governo, a superare le loro divisioni e disaccordi? Come credere che non siano lì per la loro ambizione, ma per dare un minimo di pace al paese?».

La guerra che va avanti da cinque anni è particolarmente efferata, come denuncia l’ultimo rapporto dell’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu: «[…] Questa è una delle più orrende situazioni dei diritti umani nel mondo, con l’uso massiccio dello stupro come strumento di terrore e arma di guerra […]», dichiara l’Alto commissario Zeid Ra’ad Al Hussein.

Un sud sudanese, operatore umanitario, con studi all’estero (come tutti a livello universitario), ma che lavora nel suo paese, analizza la situazione. Raggiunto telefonicamente, ci chiede l’anonimato, come già le altre fonti, per ragioni di sicurezza: «Molte persone sono in attesa degli sviluppi di questa firma. Ma se si guarda alla situazione nel paese, è ancora molto confusa. C’è la fazione del governo, poi ci sono tante fazioni di opposizione. La gente vuole la pace, ma molti non sono pronti per questo, come i politici che cercano solo i propri interessi. C’è molta corruzione in ambiente politico. Tutti vogliono mantenere la loro fetta di potere».

E continua: «Fatto l’accordo di pace, ora devono vedere come metterlo in atto, ovvero come governare. Con questo tipo di accordo è difficile soddisfare tutte le persone. Ci sono tante comunità (o etnie), molte differenze, e se i politici lavoreranno solo a livello politico, sul terreno non si vedranno cambiamenti».

Il coordinatore (africano) di una Ong medica internazionale ci confida: «La situazione è molto fluida.

Ci sono diverse violazioni degli accordi, in molte zone, e gli operatori umanitari sono preoccupati».

A fine luglio, alcune centinaia di giovani armati, hanno attaccato e saccheggiato una base di Ong e Nazioni Unite a Maban, nel Nord dello stato di Upper Nile. Non si capisce che origini abbia questo attacco».

Continua la nostra fonte: «La popolazione aspetta che gli accordi di pace siano realmente implementati, ma finora non ci sono stati ancora cambiamenti.

C’è parecchio pessimismo. I sud sudanesi non hanno molta fiducia. Non è il primo accordo e la gente ha paura che i militari ricomincino a combattersi. Chi è più vicino al governo (o alla etnia del presidente) è più ottimista, al contrario le comunità legate all’opposizione sono più pessimiste.

Le Ong non sono molto sicure che gli accordi saranno implementati. Il problema è anche che ci sono molte richieste da parte dell’opposizione, condizioni molto complesse da garantire».

AFP PHOTO / PATRICK MEINHARDT

Società civile cercasi

«Inoltre qui – ci confida il missionario che risiede a Juba, ma ha vissuto anche in altre zone – la popolazione è costretta ad accettare le cose così come sono. Quando il valore della moneta crollava di settimana in settimana mi sono stupito che non ci siano stati scioperi o manifestazioni. La gente sa che non può esprimersi liberamente. Accetta facilmente di farsi proteggere dal forte di turno. Inoltre i gruppi sono spesso allineati etnicamente. La società civile ha ancora una lunga strada da percorrere per dar vita al cambiamento. Probabilmente c’è da aspettare che questa generazione di politici finisca e sia sostituita da un’altra». E continua: «Le Ong nazionali sono finanziate dai grandi enti e offrono servizi di vario tipo. Creano lavoro per la gente locale, ma portano avanti un approccio di emergenza piuttosto che di sviluppo, anche perché questo permette loro di continuare a lavorare».

Importante è stato il ruolo del South Sudan Council of Churches (Consiglio delle chiese sud sudanesi) che riunisce Chiesa cattolica, la Chiesa episcopale (la più diffusa) e la Chiesa presbiteriana.

Ci racconta il missionario: «Il governo rispetta le chiese ma le teme pure. Teme la loro indipendenza. Se una chiesa è allineata la ascolta, altrimenti la lascia un po’ da parte e la Chiesa cattolica è quella che fa più fatica ad allinearsi, quindi si attira più sospetti.

Inoltre è un momento un po’ difficile della nostra Chiesa: quattro diocesi su sette sono senza vescovo. Molte energie devono essere spese per far fronte ai tanti problemi interni e quindi non riesce sempre a farsi ascoltare dal governo. Nonostante tutto le rimane una grande autorità morale: parla una voce unica, non ci sono divisioni etniche in essa. È presente in tutte le comunità (le etnie), per cui non è di parte. Le altre Chiese invece corrono il rischio di essere più allineate e di essere percepite come tali. La Chiesa presbiteriana ha più influenza nelle zone nuer, per cui è stata vista come la chiesa più vicina alle opposizioni. Mentre la Chiesa episcopale aveva gerarchie soprattutto dinka, per cui era vista come filo governativa. Adesso sta superando questo, grazie al nuovo primate più neutrale».

Oltre alle Ong locali e alle Chiese, ci spiega il coordinatore della Ong internazionale, «ci sono altre associazioni per i diritti umani, associazioni delle donne per la pace. Ma le associazioni basate in Sud Sudan devono essere dalla parte del governo. Ce ne sono anche non allineate, ma stanno all’estero, perché non è conveniente per motivi di sicurezza. Essere contro diventa rischioso. Non è un paese nel quale puoi esprimere liberamente quello che vuoi, puoi solo parlare a favore del governo».

La cooperante riassume così le sue sensazioni: «Sono molto delusa. Non è possibile che dal 2013 ci siano sempre le stesse dinamiche. Quello che mi delude di più è che ai politici non importa nulla della gente, fanno solo i loro giochi di potere. Si scontrano e poi vanno a cena assieme. Si stringono le mani, poi litigano di nuovo. Quanto potrà durare un accordo di pace con queste prospettive?»

Marco Bello




Mali, LVIA, una Ong contro la guerra

Testo di Marco Bello, foto di Archivio dell’Ong LVIA |


Nel paese, in conflitto dal 2012, è crisi umanitaria. Centinaia di migliaia di sfollati, mancanza di acqua, cibo e assistenza medica. Gli attacchi sono quotidiani e le violazioni dei diritti una costante. Spuntano anche le fosse comuni di civili. In mezzo a tutto questo una Ong piemontese, la Lvia, propone la sua via per la pace. Abbiamo incontrato il suo rappresentante.

Parigi, 26 maggio 2018. Mamoudou Gassama, è un immigrato clandestino di 22 anni. Nel diciottesimo arrondissement salva un bimbo appeso a un balcone, arrampicandosi a mani nude, con l’agilità di un gatto, fino al quarto piano di un palazzo. Ricevuto all’Eliseo dal presidente francese Emmanuel Macron, gli viene immediatamente concessa la nazionalità francese e gli è proposto un lavoro come vigile del fuoco.

San Calogero (Vibo Valentia, Calabria), 2 giugno. Tre immigrati vengono presi a fucilate da un italiano. Stavano cercando vecchie lamiere in una fabbrica abbandonata per costruire baracche. Sacko Soumayla, 29 anni, regolare e sindacalista, cade a terra morto. Il giorno prima al Quirinale ha giurato il governo Lega – Movimento 5 stelle, detto «del cambiamento».

Mamoudou e Sacko, entrambi migranti, entrambi maliani. Due storie simili, due destini diversi.

Anche Ousmane ag Hamatou, 37 anni, è del Mali. Lui lavora a Bamako, la capitale, per una Ong italiana, l’Lvia di Cuneo, della quale è il responsabile nel paese africano. Ousmane non ha nessuna intenzione di migrare. È in Italia, su invito della sua Ong, per formazione e una serie di incontri, poi tornerà in patria dalla sua famiglia e al suo lavoro.

Lo incontriamo, per farci spiegare cosa sta succedendo in Mali, e per provare a capire perché, ragazzi come Mamadou e Sacko sono scappati dal paese e molti altri continuano a farlo.

Perché si scappa dal Mali

Ma facciamo un passo indietro. Il Mali, paese cerniera tra l’Africa subsahariana e il Sahara, nel 2012 precipita in una crisi profonda, dopo un ventennio di relativa stabilità (cfr. MC giugno 2017). Il Nord del paese, l’Azawad, ha visto, negli anni precedenti, l’infiltrazione di gruppi estremisti islamici (jihadisti) dall’estero, in particolare dall’Algeria, che si sono inizialmente alleati con le milizie locali indipendentiste di etnia tuareg. Insieme conquistano il territorio del Nord, occupando le città e imponendo la loro legge. I soldati regolari fuggono a Sud. Ma l’alleanza si rompe e i jihadisti hanno la meglio sui Tuareg. A gennaio 2013 puntano addirittura sulla capitale Bamako. È per questo che intervengono prontamente i militari francesi, in protezione dell’ex colonia (e dei propri interessi). L’operazione francese Sérval respinge i miliziani e riconquista le città del Nord. Islamisti e indipendentisti si rifugiano nello sconfinato territorio desertico. Quando l’operazione Barkhane sostituisce Sérval, intervengono i caschi blu, con la Minusma: missione composta da soldati africani dei paesi vicini, ma anche da un grosso contingente tedesco. Gli eserciti stranieri affiancano quello maliano, le Forze armate del Mali (Fama), che sono allo sbando.

«La situazione oggi è complessa e molto volatile – commenta Ousmane -, perché dopo la firma degli accordi di pace tra il governo e i gruppi armati nel giugno 2015 (solo alcuni dei gruppi, quelli indipendentisti tuareg non radicalizzati, ndr), c’è stata una mancanza di volontà, in primo luogo dello stato, di mettere in pratica le condizioni sancite dagli accordi stessi (L’accordo prevede, tra l’altro, la smobilitazione dei combattenti; la creazione di pattuglie miste governo – ex ribelli; l’installazione di autorità ad interim nelle città del Nord con la partecipazione degli ex ribelli, e la Conferenza d’intesa nazionale, per una definizione politica dell’Azawad).E c’è anche una certa reticenza da parte dei gruppi armati per quanto riguarda il processo di disarmo, perché le armi sono l’unica garanzia che hanno per poter fare un’eventuale negoziazione». La non applicazione degli accordi crea una situazione di vuoto istituzionale, che ha ripercussioni importanti. «Lo stato non è presente in certe zone e i gruppi armati “firmatari” non si incaricano della sicurezza territoriale. Questo fa sì che sul terreno ci sia un’avanzata delle forze islamiste, che approfittano della situazione di abbandono del territorio. Assistiamo inoltre, per lo stesso motivo, a una disgregazione dei gruppi armati in tanti gruppuscoli più piccoli, con tendenza a diventare formazioni a carattere comunitario, ovvero a base etnica. Ogni comunità si organizza e si dissocia dai gruppi principali che sono i firmatari degli accordi. Esse temono, infatti, che se un giorno ci saranno i dividendi degli accordi, non tutte le comunità rimaste nei grossi gruppi saranno soddisfatte».

Ousmane (© Marco Bello)

Molti attori sul terreno

Oltre alla Minusma e all’esercito maliano – tornato nel Nord, dove controlla oggi le città, grazie all’intervento militare francese nel 2013 – la realtà degli attori sul terreno è complessa e variabile. Racconta Ousmane: «C’è il Coordinamento dei movimenti dell’Azawad (Cma), il quale costituisce l’insieme dei grossi movimenti armati indipendentisti che hanno proclamato l’indipendenza dell’Azawad, poi ci sono diversi gruppi islamisti radicali, alcuni gestiti da maliani, altri da stranieri (in particolare algerini, ndr). Oltre a questi ci sono tante piccole milizie locali, comunitarie, che son state create e contribuiscono a rendere il clima pesante. Sono anche presenti bande di malviventi che operano e ostacolano il lavoro delle Ong, rubando le loro auto e compiendo assalti. Un insieme di attori armati che rende la situazione piuttosto complessa».

La popolazione è la principale vittima di questa situazione di insicurezza e instabilità, nella quale gli assalti si susseguono quotidianamente. Continua Ousmane: «La popolazione del Nord Mali cerca di capire cosa stia succedendo, perché ci sono stati troppi cambiamenti in questi ultimi tempi. Siamo partiti nel 2012 con uno stato maliano centrale relativamente forte, per arrivare a una situazione in cui il Nord è caduto nelle mani di diversi gruppi armati, uno stato autoproclamato dell’Azawad, per poi passare a uno stato islamista, perché gli jihadisti hanno cacciato gli indipendentisti. Siamo quindi ritornati a uno stato maliano diverso da quello del 2012, appoggiato da forze straniere e delle Nazioni Unite».

Oltre alla sicurezza sono i servizi a mancare: «La violenza è a tutti i livelli, anche nei piccoli villaggi, in zone dove lo stato non esiste più e i servizi sociali di base, come l’acqua, l’educazione, la salute, non sono garantiti. Per questo motivo c’è un grande numero di sfollati, sia verso paesi confinanti sia all’interno del Mali in direzione del centro e Sud del paese». I dati delle Nazioni Unite di aprile 2018 parlano di circa 60.000 persone sfollate all’interno e 137.000 rifugiate in Burkina Faso, Niger e Mauritania.

Anche nel centro del Mali la situazione è divenuta complessa. «Le condizioni nella zona centrale non sono diverse, è la stessa crisi del Nord che avanza nel centro, con gli stessi attori. Dato che non si trova soluzione alla base, la crisi si estende anche verso il Sud e ora tocca paesi limitrofi come il Sahel burkinabè (il Nord del Burkina Faso, ndr), che è stato contagiato dalla crisi, e la frontiera con il Niger (Nord Est, ndr). È tutta un’area geografica che vede la crisi estendersi».

In particolare il centro del paese è diventato teatro di scontri tra diverse etnie (cfr. MC giugno ‘17). «La Lvia interviene a Mopti, insieme all’Ong Cisv e con finanziamenti di emergenza del ministero per gli Affari esteri italiano, appoggiando i centri di salute. La particolarità di questa zona sono gli scontri intercomunitari tra la popolazione Peulh, allevatori, che si organizza in milizie, e quella Dogon, agricoltori, che inizia a prendere le armi».

Costretti all’emergenza

Lvia lavora in Mali da 30 anni, ed essendo una Ong che si occupa di sviluppo, ha sempre lavorato su programmi di lunga durata. Ousmane ci spiega cosa è cambiato con la crisi: «Non siamo una Ong di emergenza, ovvero non andiamo di proposito in quei paesi dove c’è la guerra per intervenire, ma in Mali siamo in un contesto che conosciamo bene, abbiamo molti contatti, siamo riconosciuti dalle comunità, dagli enti locali e anche dal governo. Abbiamo fatto tesoro di questo riconoscimento e della nostra conoscenza del terreno per realizzare progetti di emergenza umanitaria. Sono programmi su temi che abbiamo sviluppato anche in contesto non di crisi, come le infrastrutture idrauliche (pozzi artesiani, ndr), per dare acqua potabile alla gente. Per noi il fatto importante che cambia, è che oggi, con la crisi, ci sono bisogni primari da soddisfare, in modo anche urgente. Ad esempio, nell’ambito della nutrizione, perché gli indicatori di malnutrizione nel Nord del paese sono piuttosto alti. Sosteniamo alcuni centri di salute, quelli ancora funzionanti, per accogliere i bambini denutriti e seguirli. Facciamo anche molta sensibilizzazione e accompagnamento delle comunità, nell’ambito della valorizzazione dei prodotti agricoli locali e la loro integrazione nell’alimentazione di base».

Non sparate sulle Ong

In un contesto di crisi, oltre alle normali difficoltà c’è anche un altro problema per le Ong, quello della sicurezza dei propri operatori. «È una grande sfida, perché occorre abituarsi a lavorare in un contesto di sicurezza imprevedibile, dove anche se le nostre organizzazioni non sono prese particolarmente di mira, operiamo in un clima nel quale tutto può succedere. Abbiamo avuto incidenti come furti di auto o assalti a mano armata. È un contesto non controllabile, per cui occorre adattare la nostra missione, i nostri interventi, ogni giorno, informandoci in modo continuo e seguendo alla lettera le raccomandazioni di sicurezza».

Politica: evoluzione?

Il Mali sta vivendo anche un periodo di transizione politica, perché il 29 luglio si terranno le elezioni presidenziali (leggerete queste righe ad elezioni avvenute; pubblicheremo un resoconto delle stesse su www.rivistamissioniconsolata.it), che però non dovrebbero portare particolari sorprese. Oltre al presidente uscente Ibrahim Boubacar Keita (detto Ibk), eletto nel 2013, favorito, sono una ventina gli altri candidati. A inizio giugno una manifestazione di una coalizione di opposizione è stata repressa sul nascere mediante l’uso di gas lacrimogeni. I manifestanti chiedevano più trasparenza e più equità sui media nazionali per la copertura della campagna elettorale.

Chiediamo a Ousmane cosa ne pensa. «Visto il clima d’insicurezza che regna nel paese, con continui attacchi, penso che il contesto non sia propizio alla tenuta di elezioni libere, trasparenti e soprattutto credibili. C’è piuttosto un’urgenza nel mettere in sicurezza il paese e migliorare le condizioni di vita della popolazione più che organizzare delle elezioni.

L’impressione è quella che chi è al potere, ma anche chi vive nel Sud del Mali, dove c’è un piccolo spazio in sicurezza e normalità, non sia molto cosciente di cosa succede nel resto del paese. Il Nord non è mai stato una priorità per le autorità centrali e lo è ancora meno adesso. Colpisce anche il fatto che si organizzino elezioni quando molta gente è fuori dal paese o dalla sua zona di residenza abituale. Non è logico organizzare delle elezioni quando la popolazione non può votare». Occorre considerare che il paese, la cui superficie è di oltre 1,2 milioni di km2 (quasi quattro volte l’Italia) ha una vasta fetta di deserto del Sahara, l’Azawad appunto, che occupa una superficie di 822.000 km2. La capitale dello stato, Bamako, si trova invece nell’estremo Sud del paese.

«Bisogna riconoscere che il presidente attuale ha assunto la carica in un momento piuttosto particolare. È arrivato nel 2013 quando il paese attraversava una crisi molto grave, difficile da gestire. Gli si può però contestare che certi impegni presi nell’ambito dell’accordo di pace non sono stati applicati. Questo è un punto importante sul quale il governo ha fallito». Il Mali è una repubblica presidenziale, per cui il presidente della Repubblica è anche il capo dell’esecutivo. Un cambio del presidente prevede anche un nuovo governo.

«L’opinione pubblica a Bamako è molto divisa su Ibk. C’è chi pensa che questo governo, in un secondo mandato non possa fare meglio di quanto ha già fatto, altri che pensano occorra un vero cambiamento. Io personalmente, tra i candidati, non vedo nulla di nuovo, sono le stesse figure che hanno contribuito, negli anni, a portare questo paese a terra. Resta la stessa generazione di politici maliani che, ormai da decenni, non riesce a far uscire il paese da questa situazione».

Il pantano degli scontri etnici

La novità degli ultimi due anni sono gli scontri a base etnica nelle due regioni centrali di Mopti e Ségou, che nulla hanno a che vedere con l’Azawad e i Tuareg, ma dove si sono inaspriti conflitti atavici tra gli allevatori peulh e gli agricoltori dogon, con la compiacenza dei Bambara del Sud. Sovente i cacciatori bozo di etnia bambara fanno il lavoro sporco coperti dai militari.

È del giugno scorso la scoperta di almeno tre fosse comuni di civili uccisi, sembra giustiziati, anche per rappresaglie, dall’esercito maliano. Il 19 giugno, in seguito a un’operazione militare, erano scomparse 18 persone dalla località di Gassel (dipartimento di Douentza, regione di Mopti), tutte di etnia peulh. Il 20 è stata scoperta una fossa con almeno 7 corpi. Pochi giorni prima, il 15 giugno a Nantaka e Kobaka, nel comune di Sokoura, i corpi di 25 persone erano stati scoperti in tre fosse comuni. Anche loro, con tutta probabilità, peulh. Le responsabilità sarebbero dell’esercito regolare, fatto questa volta confermato da un comunicato del ministero della Difesa.

Scontri nei quali si sono insinuati gli islamisti radicalizzati, come Amadou Koufa, fondatore del Fronte di liberazione di Macina, legato al capo tuareg radicale Iyad ag Ghali (lui di Kidal, nel Nord). Fronte che ha avuto come filiazione il primo gruppo di combattenti jihadisti del Burkina Faso, Ansarul Islam (cfr. MC giugno ‘17), nato nella confinante provincia del Sahel burkinabè.

Crisi senza soluzione?

In una situazione così ingarbugliata è difficile vedere una via d’uscita. Chiediamo a Ousmane, uomo del Nord, che vive in capitale e che ha una visione d’insieme, di dirci quale sarebbe, secondo lui, una pista per la soluzione. «Secondo me è difficile prevedere. L’insicurezza ha gravi ripercussioni sulla situazione umanitaria e su quella politica. Tutto è molto complesso.

La prima cosa da fare è applicare l’accordo di pace di Algeri, per cominciare a trovare una soluzione politica alla ribellione tuareg nel Nord del Mali. In questo modo si farebbe un grande passo in avanti e ci si potrebbe occupare degli altri problemi, che sono nell’insieme una conseguenza di questa  guerra.

Il presidente che arriverà dovrà prendere di petto l’applicazione di questi accordi, per farci andare avanti nella via della prosperità e della pace».

Ma i jihadisti, in particolare quelli stranieri, non hanno partecipato agli accordi. Con loro non si può negoziare? «I jihadisti non hanno nulla da negoziare. Lo hanno detto quando hanno conquistato il Nord, che non erano venuti per negoziare uno stato o una soluzione politica, erano venuti per instaurare uno stato islamico in Mali. Per cui occorre che il governo maliano trovi una soluzione politica alla situazione dei Tuareg nel Nord del Mali e a questo punto, tutti noi maliani, ci possiamo mettere insieme per combattere gli islamisti. Io penso che non resisterebbero a un Mali unito, ma nelle condizioni attuali sono loro che approfittano e creano ogni giorno il caos sulla nostra terra».

Ci sono islamisti stranieri ma anche maliani che si sono radicalizzati. In particolare il capo più importante del momento è il tuareg Iyad ag Ghali. Già leader delle grandi ribellioni tuareg dal 1991 in avanti, si è poi islamizzato, ha fondato il gruppo Ansar Dine, tra i fondatori di Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), e nel 2017 ha riunito in un fronte comune diverse formazioni nel Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani (Jnim).

«Io penso che rispetto agli islamisti maliani si possa trovare una soluzione. Secondo me, la maggior parte di loro si sono radicalizzati perché hanno visto questo passaggio come un modo per continuare la lotta politica per l’indipendenza del Nord. Se invece sentissero che c’è una reale volontà per una soluzione politica con i gruppi armati tuareg o di altre comunità del Nord, sarebbe possibile negoziare con loro. Per gli altri islamisti che non sono maliani, l’unica soluzione è combatterli. Con o senza l’appoggio delle forze straniere. Non abbiamo necessariamente bisogno di eserciti stranieri, ma è invece obbligatorio ritrovare quello che ci unisce come maliani, come nazione, e a quel punto possiamo vincere la guerra contro gli islamisti, contro il sottosviluppo, e ben altre sfide».

Marco Bello




Disagio mentale, incontro con Grégoire Ahongbonon


Grégoire non è un prete né un medico, ma in 25 anni ha raccolto e curato 60.000 malati psichici abbandonati per strada o tenuti in catene. Ha creato centri di accoglienza e reinserimento in Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio e Togo. La ricetta: farmaci a basso costo, vita comunitaria, ex pazienti come infermieri. E la forza incrollabile della fede.

A incontrarlo per strada, non gli presteremmo attenzione: quel che colpisce in Grégoire Ahongbonon è proprio l’aria semplice dell’uomo qualunque, gli abiti dimessi, l’espressione mansueta, il tono pacato. Viene alla mente il Libro dei Re (19,9-12), in cui si dice che il Signore non si manifesta in modi altisonanti, tramite vento impetuoso, terremoto o fuoco, ma come brezza leggera. Grégoire è così: di una normalità disarmante. Ma la sua storia è tutt’altro che ordinaria.

Ce l’ha raccontata lui stesso, durante una recente visita in Italia per la presentazione del libro di Rodolfo Casadei su di lui, «Grégoire. Quando la fede spezza le catene», edito dalla Emi.

© Arigossi Fabrizio

Il figliol prodigo

«Sono nato ad Avrankou, nel Sud del Benin, nel 1952. Mio padre ha voluto che fossi battezzato quasi subito, era un cattolico convinto, anche se poligamo», racconta Grégoire. «Non ho avuto l’opportunità di studiare, i miei erano analfabeti e a 14 anni mi hanno ritirato da scuola. A 18 anni sono andato in Costa d’Avorio in cerca di lavoro. Lì ho imparato a riparare gli pneumatici e ho aperto un’officina nella città di Bouaké». Per procurarsi i clienti, Grégoire non esita a spargere per strada chiodi a tre punte, presentandosi poi agli «sfortunati» automobilisti per proporre i suoi servizi a prezzi stracciati. Riesce così a mettere da parte una discreta somma. «A 23 anni possedevo un’auto tutta mia, e ho avviato un servizio taxi acquistando altri quattro veicoli». In Africa le licenze per i taxi sono economiche ma le coperture assicurative costano parecchio e, dopo una serie di incidenti alle sue vetture, Grégoire finisce sul lastrico e viene incarcerato per debiti. È il periodo più buio della sua vita. «Avevo mia moglie e (all’epoca) due figli che non ero in grado di mantenere. Gli amici mi abbandonavano uno dopo l’altro. Sono arrivato a pensare al suicidio». Ma mentre sta per ingoiare le pastiglie, una voce interna lo dissuade. «Ho compreso che la mia vita non mi apparteneva, che era un dono da non sprecare. In quel momento ho sperimentato la Grazia che opera anche quando si è nel peccato, lontani da Dio». La crisi esistenziale spinge Grégoire a riavvicinarsi alla chiesa, trovando una guida in padre Joseph Pasquier, parroco della cattedrale di Bouaké, che lo tratta come «un figliol prodigo» e a un certo punto gli propone – e gli paga – un viaggio in Terra Santa. «In quel momento ho chiesto tre grazie: imparare a mettere in pratica il Vangelo; che anche mia moglie Léontine potesse venire a Gerusalemme; che mia madre, animista, si convertisse al cattolicesimo». Preghiere che, nel corso degli anni, verranno esaudite.

© Arigossi Fabrizio

«Tornato da Gerusalemme, con Léontine e alcuni amici ho fondato un gruppo di preghiera e abbiamo iniziato ad andare in ospedale ad assistere i malati poveri e soli, portando loro da mangiare, lavandoli, sostenendo i costi per il ricovero e le medicine». Grégoire, che è riuscito a trovare lavoro in una tipografia, spende quasi tutto per questi servizi. È la moglie a provvedere ai bisogni della famiglia vendendo frutta e verdura. Intanto, il gruppo di preghiera di Bouaké si trasforma in associazione, dedicata al santo patrono dei malati: nasce così l’Association Saint Camille de Lellis, il cui statuto prevede l’impegno «contro ogni forma di esclusione sociale» e i cui volontari si dedicano ai carcerati, ai poveri, ai bambini di strada. Sembra che più di così non si possa fare. Ma un incontro cambia, ancora una volta, la vita di Grégoire spingendolo a una nuova «conversione».

«Questa è l’opera di Dio»

È l’autunno del 1991. Come ogni mattina, Grégoire inizia la giornata andando a messa. Uscito di chiesa vede un uomo seminudo, sporco, che fruga tra le immondizie in cerca di cibo: è un «matto» come ne ha visti decine di volte, ma questa mattina Ahongbonon ha un’illuminazione: «Tutti i giorni cercavo Dio nell’eucarestia, ed eccolo davanti a me, in quel malato. È avvenuto un miracolo: mi è stata restituita la vista. Prima quegli esseri mi facevano paura. Ma se nel malato psichiatrico vedi il volto di Gesù, non hai più paura». Da questo momento ogni sera Grégoire gira la città per portare a queste persone acqua, cibo cucinato da Léontine, vestiti puliti. I «matti», per lo più maltrattati o ignorati, accettano la sua presenza. In breve diventano quasi una ventina quelli incontrati ogni notte. Ma Grégoire non si dà pace: «Finito il giro, io e gli altri volontari tornavamo tranquilli a casa, mentre loro restavano in strada abbandonati a se stessi, in balia di qualunque pericolo». Perciò chiede e ottiene da uno psichiatra francese di accoglierli nell’ospedale di Bouaké; in cambio l’Association Saint Camille si deve accollare i costi di cibo e farmaci. Il numero di ricoverati aumenta in maniera esponenziale: preti, missionari, cittadini si mobilitano per far arrivare aiuti, ma anche per segnalare altri malati di strada da raccogliere e portare all’ospedale. Lo spazio manca, c’è sovraffollamento.

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Nel ‘93 il ministro della Sanità ivoriano viene a conoscenza del lavoro della Saint Camille e decide di assegnarle 2.400 m² di terreno all’interno del recinto ospedaliero per creare un nuovo centro di accoglienza. L’associazione però non ha i soldi per costruirlo: gli amici e i volontari, sia laici che religiosi, invitano Grégoire a desistere. Non bastano i soldi per le medicine, come pensare a un nuovo edificio? Ma lui non sente ragioni: «Dobbiamo fidarci della Provvidenza, questa è l’opera di Dio, non la nostra. Penserà lui a tutto».

Il 14 luglio del 1994 nasce il primo centro d’accoglienza per malati psichici della Saint Camille (il 14 luglio è San Camillo, ndr).

Crocifissi viventi

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Nello stesso anno, alla vigilia della domenica delle Palme, accade un fatto inaspettato: sul far della sera Grégoire riceve la telefonata di una donna che gli chiede di andare a soccorrere il fratello, malato di mente, da tempo tenuto imprigionato dalla famiglia. «Ero sbigottito, era la prima volta che sentivo parlare di malati incatenati», ricorda Grégoire. «Mi sono subito messo in viaggio, ma arrivato al villaggio mi sono scontrato con i genitori del ragazzo che non volevano farmi entrare in casa. Dicevano: “Ormai è marcio, non si può fare nulla”. Io insistevo per vederlo, i toni sono saliti, ho minacciato di chiamare la polizia e alla fine il capo villaggio mi ha fatto entrare.

Avevo visto decine di malati psichici in condizioni gravi, ma mai mi sarei aspettato una scena simile. Kouakou era incatenato a terra nella postura di Gesù in croce, gambe e braccia legate da un filo di ferro. Il ferro era penetrato nelle carni e formava con esse una massa indistinta, era in stato di putrefazione». Il mattino dopo Grégoire torna al villaggio insieme a un’infermiera, con un paio di cesoie per liberare il ragazzo. «Quando l’abbiamo portato in ospedale, Kouakou non finiva di ringraziare e ripeteva: “Non capisco perché la mia famiglia mi ha fatto questo, io non sono cattivo”». Pochi giorni dopo, a soli 21 anni, Kouakou muore di setticemia. «Non abbiamo potuto salvarlo, ma è morto con dignità, come un essere umano».

Spiriti maligni, catene immonde

© Arigossi Fabrizio

Da quel momento Grégoire inizia a girare nei villaggi armato di cesoie, seghe e martelli. In 25 anni libererà un migliaio di malati psichici incatenati o con gli arti bloccati da ceppi di legno. «Il caso limite è stato quello di Janine, una donna tenuta 36 anni con il braccio incastrato in un tronco, vicino a un immondezzaio. Abbiamo potuto ridarle la libertà e curarla, ma è rimasta storta, non è più riuscita a raddrizzarsi». Come può un familiare ridurre così i propri cari? «Non bisogna giudicare», dice Grégoire, «le famiglie agiscono così per ignoranza e paura: non sanno cosa fare, temono che il malato faccia del male a qualcuno, che sia posseduto dagli spiriti maligni e possa contaminare gli altri. Ma se vi offrite di liberarlo e portarlo in un centro di cura, sono riconoscenti».

Ben più scandalosi per Grégoire sono i trattamenti dei malati nei «campi di preghiera». Gestiti da sedicenti guaritori e profeti – animisti, cristiani o islamici – che vantano doti taumaturgiche e ne fanno strumento di ricchezza e prestigio. Questi campi possono ospitare centinaia di malati tenuti legati all’aperto, esposti alle intemperie, lasciati tra gli escrementi, privati per alcuni periodi di cibo e acqua e picchiati per far uscire dal corpo gli spiriti immondi. Non è raro che qualche malato perda la vita. «Una volta, arrivati in un campo, abbiamo visto una ragazza digiuna da giorni che, spinta dalla fame, ha afferrato un pollo mentre le passava vicino e l’ha divorato vivo. Dopo un paio di giorni è morta». Ahongbonon si scontra spesso con i responsabili dei campi di preghiera, «Cristo è venuto per togliere le catene, non per metterle». La sua battaglia culturale,  negli anni, dà i suoi frutti: «Teniamo incontri periodici con le famiglie, per spiegare che quella psichica è una malattia come le altre, da curare con le medicine e con l’amore, non opera di stregoneria». Oggi sono sempre più numerose le famiglie che affidano i malati all’Association Saint Camille, ma Grégoire lamenta la latitanza delle autorità politiche e religiose nel contrastare le attività dei campi di preghiera.

Da malati a terapeuti

Grégoire e la sua associazione creano decine di centri in Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio e Togo. Oggi sono 26.000 i malati assistiti, attraverso un triplice sistema: fornitura di psicofarmaci a basso costo; accoglienza di tipo comunitario fondata sull’amore e la condivisione; équipe curante costituita in prevalenza da ex pazienti. Sul primo punto, i prezzi applicati nei centri dell’associazione possono arrivare anche a un sesto o un settimo di quelli standard, in virtù della scelta di usare solo farmaci generici di prima generazione (svincolati da brevetto), acquistati inoltre in grandi quantità per spuntare prezzi convenienti.

La vita nei centri si svolge su base comunitaria, malati e operatori condividono la quotidianità. Ogni centro può ospitare fino a 200 persone; in ognuno c’è una cappella che serve anche da alloggio e dormitorio per alcuni malati perché, dice Grégoire, «Dio è felice di stare vicino ai suoi poveri».

© Arigossi Fabrizio

Una volta al giorno, per chi lo desidera, c’è un momento di preghiera collettiva, «ma la partecipazione è libera; nei nostri centri accogliamo persone di qualsiasi fede religiosa, senza distinzioni».

Un ulteriore elemento terapeutico è costituito dagli ex malati – ormai guariti o stabilizzati grazie ai farmaci – che si prendono cura degli altri, dopo essersi formati come operatori o infermieri. Questi ex pazienti sono assunti e retribuiti regolarmente; come avviene in molte parti dell’Africa, data la carenza di medici, il loro compito è visitare, fare diagnosi, prescrivere farmaci.

Alcuni di loro hanno assunto ruoli direttivi, come Pascaline, un’ex paziente oggi direttrice del centro di Calavi (Benin). «Questo è un incoraggiamento per i malati che arrivano e si trovano davanti qualcuno che era nelle loro stesse condizioni e adesso è rifiorito».

Ci sono anche alcuni operatori che non sono mai stati malati, i quali condividono l’obbligo di abitare nel centro, e psichiatri occidentali che effettuano visite periodiche per monitorare le terapie. Oltre ai centri d’accoglienza il sistema prevede anche centri di reinserimento, dove i pazienti imparano un mestiere, e centri relais, cioè ambulatori/farmacie dove i malati dimessi e tornati al villaggio hanno a portata di mano i farmaci necessari, per prevenire eventuali ricadute.

Basaglia africano

L’opera di Ahongbonon si colloca nel filone indicato da San Daniele Comboni, «salvare l’Africa con l’Africa». Per una curiosa coincidenza storica, Grégoire ha iniziato a liberare i malati psichici in Costa d’Avorio negli stessi anni in cui in Italia diventava attuativa la Legge Basaglia, che liberava i «matti» dai manicomi. Ad accomunare le due esperienze la centralità della persona malata, la relazione affettiva, il rifiuto della contenzione, la terapia del lavoro, il reinserimento nella famiglia e nella società. Come scrive lo psichiatra Eugenio Borgna nella prefazione al libro di Casadei, si tratta in entrambi i casi di «una psichiatria aperta alla comprensione della follia e alla solidarietà», capace di riconoscere nei malati mentali «la presenza di un’umanità ferita dal dolore, bisognosa di ascolto e accoglienza».

Oggi Grégoire, che in questi anni ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali (dal Premio per la lotta contro l’esclusione sociale dell’Oms – Organizzazione mondiale della sanità, alla proclamazione di «africano dell’anno» nel 2015) continua a guardare avanti: il suo obiettivo ora è aprire un centro per tossicodipendenze a Dassa, in Benin, «perché molti malati psichici fanno uso di droghe e questo peggiora le loro condizioni». A 66 anni, Grégoire non ha ancora trovato un successore che possa prendere le redini dell’associazione da lui fondata. In verità, nemmeno lo cerca, affidando tutto alla Provvidenza. Ma qualcuno che cammina sui suoi passi c’è: Nicole, la più piccola dei suoi sei figli, di 28 anni, si è laureata in medicina e oggi sta frequentando il secondo anno di psichiatria.

Stefania Garini

© Arigossi Fabrizio

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Don Tonino Bello, il vescovo degli ultimi

Memoria di don Tonino di Rocco Marra |


Il 20 aprile scorso papa Francesco ha reso omaggio a uno dei vescovi italiani più amati. Nel 25esimo anniversario della morte di don Tonino, il pontefice è andato a pregare sulla sua tomba. Un segno che il messaggio del vescovo pugliese è sempre di grande attualità. In queste pagine il ricordo appassionato di un missionario della Consolata, che è stato suo allievo.

Carissimo don Tonino, ho deciso a scriverti una lettera, conscio che tu la conosci già. Scrivo una lettera pur sapendo che, come al solito, non mi risponderai, per di più non me la boccerai come «fuori tema» e forse neanche la leggerai.

So che a te piace leggere, nonostante viviamo in un’epoca in cui si scrive per masse che non leggono e si insegna a persone che non ascoltano. Ultimamente avrai notato che si scrive moltissimo su di te, specialmente ora che è ufficiale: il papa Francesco è venuto a pregare sulla tua tomba monumentale, ad Alessano, e a celebrare l’Eucarestia a Molfetta, proprio nell’anniversario del tuo Dies Natalis (in questo caso, 25° anniversario della morte, avvenuta il 20 aprile 1993, ndr).

Tutto fa capire che sei prossimo a essere riconosciuto «beato» e «santo profeta» del XX secolo. Veramente, per i poveri di Gesù che ti hanno conosciuto, sei santo da quando hanno saputo che non saresti più andato a trovarli perché eri andato in cielo. Di certo intercedi per la conversione di molti, perché accolgano l’amore di Dio nella loro vita e diventino canali di misericordia per i meno amati di questa umanità, come sei stato tu.

Scrivono molto su di te, ma mi chiedo con linguaggio salentino: «Sarà tutto oro quello che cola?». Certamente meriti anche di più, sono sicuro che, se la gente comune potesse scrivere qualcosa, scriverebbe la buona notizia che ancora traspare dalla tua indimenticabile vita.

Tu, echeggiando gli insegnamenti del Concilio Vaticano II, ci insegnavi che per grazia del battesimo non solo individualmente, ma anche comunitariamente, siamo incoraggiati dallo Spirito a crescere e camminare come «chiesa santa e gioiosa» che trasuda l’amore di Dio in azione: comunità profetica, sacerdotale e regale. Non mi sorprenderei se tu volessi continuare a tirare le orecchie a tanti di noi e a sussurrare a papa Francesco il tuo dispiacere di essere proclamato beato da solo. Sicuramente il tuo desiderio sarebbe che il pontefice proclamasse beata o santa la parrocchia «Natività beata Maria Vergine» di Tricase, o la «Chiesa locale di Molfetta», o il movimento «Pax Christi». Sì, avrebbe più senso e più incisività per il mondo in cui viviamo. Se un testimone come te provoca uno scossone di rinnovamento nello Spirito di Dio, certamente una parrocchia o diocesi santa, provocherebbe un terremoto di grazia per scardinare fin dalle fondamenta il regno diabolico che ci strangola.

Don Tonino Bello al convegno giovani 1989 a Torino (© AfMC / Bellesi)

Esci dalla tua terra

Sono contento di ricordarti, perché sei stato un uomo che ha dato senso e gusto alla propria vita e a quella di chi ha incontrato. Come le cacce al tesoro che organizzavi per noi, per farci sognare, per ricercare su riviste e libri gli avvenimenti e le scienze del mondo, per aiutarci a non aver paura a scorgere l’amico Gesù sul cammino di ogni giorno, vissuto con semplicità e responsabilità.

Conoscevi molto bene e a memoria la Parola di Dio, la Divina Commedia e altri scritti della letteratura italiana, ma conoscevi anche ogni tuo «pargolo» spirituale. Mi ricordo la relazione del primo anno di seminario, corrispondente alla mia prima media: «Rocco è un ragazzo buono». Queste sono le prime parole di Dio di fronte al suo creato, così me le hai scritte tu, lette dal parroco, monsignor Giuseppe Zocco e da mio padre Riccardo, seguite da parole d’incoraggiamento da parte loro.

Tu hai parlato con simboli, come i presepi, il primo che mi ricordo, nel 1973, costruito nel parlatorio del seminario di Ugento. Sulla porta avevi collocato dei compensati con alcuni articoli di giornali appiccicati sopra, chiaramente notizie scelte da tutto il mondo, poi davanti c’erano le immagini della natività, con delle catene intorno alla culla di Gesù. Chi ammirava la culla poteva soprattutto leggere: «Signore vieni a sciogliere le nostre catene». Come fanciullo, non mi interessavano più gli effetti delle lampade a mercurio poste sulle montagne e vallate, percorse dai pastori e le loro pecore, ma volevo sapere il significato di quelle parole vicino alla culla.

Che dire dei canti liturgici? Non mi ricordo quale novena fosse quando ci hai portati tutti e trenta in una delle confraternite di Ugento. Ricordo però il contenuto della tua predica, la spiegazione del canto conosciuto da tutti: «Esci dalla tua terra e va’». Ancora adesso mi rammento quello che hai detto e cresce d’intensità con la mia esperienza missionaria e il ricordo della tua testimonianza di vita.

Durante quella messa, quando una disabile cercava di scambiare il segno di pace rivolgendosi verso di te, tu sei sceso dall’altare, non solo per stringerle la mano, ma anche per abbracciarla.

Don Tonino, certamente il tuo gesto più espressivo, per noi del seminario Minore di Ugento, è stato in terza media, quando hai ospitato una famiglia sfrattata. È stato come un seme di mille altri semi che hai sparso nel tuo andare nel campo del Signore.

Don Tonino Bello al convegno giovani 1989 a Torino

Come il Buon Pastore

Hai parlato spesso della Madonna e di tua madre, due donne che portano lo stesso nome. Ci portavi a pregare Gesù all’ombra di Maria, e negli anni in cui ti ho conosciuto, tra il 1973 e il 1976, quando frequentavo le scuole medie da seminarista, quasi tutti i giorni pregavamo il rosario insieme, a volte anche completo e di solito passeggiando.

Ci parlavi poco, invece, di tuo padre Tommaso, maresciallo dei carabinieri, forse per evitare momenti di commozione. Lo avevi perso infatti all’età di circa sei anni. Non vivevi però quest’assenza come un vuoto, essendo tu stesso diventato come un padre per i tuoi due fratelli più giovani e poi per noi seminaristi. Un anno, prima della celebrazione del 4 novembre, considerando le medaglie presso il monumento dei caduti, hai condiviso alcuni tuoi sentimenti con un gruppo di noi seminaristi. Praticamente, quelle medaglie al valore militare non potevi sopportarle, pensando a tante mogli private dei loro mariti e a genitori cui erano stati strappati i figli. Le medaglie al valore militare non avevano per te lo stesso significato delle medaglie e dei trofei vinti dai tuoi seminaristi nelle competizioni sportive o per la costruzione del miglior presepio della provincia.

Non credo che tu, don Tonino, facessi distinzioni e contrapposizioni tra «casa» e «chiesa». La «chiesa del grembiule», divenuta famosa fin dai primi anni del tuo episcopato, ebbe sicuramente la sua origine nella tua casa di Alessano, così come la riflessione sulla «stola» trovò origine nella chiesa della tua parrocchia natale.

Ricordo che una volta, in seminario, ci hai presentato il significato della stola sulle spalle del prete. Mi colpì molto l’invito a prepararci per indossarla come segno della nostra partecipazione alla missione del Buon Pastore, venuto a cercare la pecorella smarrita per riportarla all’ovile, caricandosela con dolcezza sulle spalle. Grembiule e stola, tue immagini preferite, mi hanno sempre aiutato a ripensare il servizio cristiano come servizio fatto con umiltà e dinamismo di carità.

La stola, poi, mi ricorda in particolare che il potere e l’autorità del pastore cristiano stanno nel servizio che scaturisce da quel «Pane spezzato per tutti», fonte di tutto il significato teologico di ministro e ministero.

Contemplazione e azione

Insistevi perché andassimo oltre il perimetro delle nostre amicizie, delle nostre certezze e anche della chiesa per incontrare quelle pecorelle, e accompagnarle con saggezza e tenerezza. Sottolineavi la necessità di avere un «amore vigoroso», capace di farsi carico e di caricarci sulle nostre spalle coloro che non avevano la forza di camminare da soli. E ribadivi che santi come Luigi Gonzaga erano grandi sì a causa della loro preghiera, ma soprattutto per aver avuto il coraggio di caricarsi alcuni ammalati per portarli all’ospedale. Contemplazione e azione sono state caratteristiche inscindibili della tua esperienza di vita, aureole che ti proclamano tra i santi missionari del nostro tempo. Credo che per conoscerti bene, don Tonino, non basti leggere i tuoi innumerevoli scritti. Occorrerebbe penetrare nel cuore del popolo che ti ha conosciuto, che vibrava alle tue parole e che con te ha celebrato l’Eucarestia, per conoscere meglio i valori che proponevi e la potenza di contagio che avevi sulla gente. Eri un pastore capace di trasfondere in chi incontravi l’amore del Signore e dei fratelli.

Avevi una capacità di comunicazione e di relazione straordinaria, vero profeta anche in questo areopago moderno. Sapevi evidenziare gli aspetti positivi presenti in ogni persona, per dare sempre coraggio e speranza.

E chissà come è stato bello l’incontro con il Padre celeste, visto che hai saputo sempre essere propositivo nel travaglio nostalgico della ricerca del suo volto paterno.

Rocco Marra

Don Tonino Bello al convegno giovani 1989 a Torino




Solo Dio può salvare il Centrafrica

Centrafrica, dal Carmel di Bangui ci scrive padre Federico Trinchero |


Il primo maggio 2018, durante la messa a Notre Dame de Fatima, – una parrocchia di Bangui capitale della Repubblica Centrafricana (Centrafrica) – un gruppo di miliziani ha lanciato un attacco con granate sui fedeli. Sedici i morti – tra i quali il sacerdote – e un centinaio i feriti. È l’ennesimo atto di una guerra di potere iniziata nel 2012, e che è stata trasformata in conflitto etnico-religioso. La testimonianza di un missionario a Bangui.

«Nei momenti più difficili emergono degli eroi e non dubito che degli eroi esistano nel Centrafrica per alzarsi, come un solo uomo, per dire no alla violenza, no alla barbarie, no alla distruzione di se stessi». È questo l’appello che l’arcivescovo di Bangui, il cardinale Dieudonné Nzapalainga, ha rivolto alla capitale e all’intera nazione in questi giorni drammatici, carichi di tensione e di tristezza.

Cos’è successo a Bangui?

La mattina del primo maggio, durante una celebrazione nella parrocchia di Notre Dame de Fatima (a poca distanza dal nostro convento), un gruppo armato proveniente dal quartiere Km5 (Pk5 è un’enclave a maggioranza musulmana, da anni il focolaio principale delle tensioni della capitale) ha aperto il fuoco sulla gente in preghiera provocando 16 morti e un centinaio di feriti. L’incursione è avvenuta come rappresaglia in reazione a un tentativo da parte delle forze dell’ordine di catturare alcuni elementi di questo gruppo armato che, di fatto, tiene in ostaggio la capitale e alcuni degli stessi musulmani del quartiere.

I fedeli a Fatima avevano appena proclamato la loro fede e stava per iniziare l’offertorio. Ma la messa è continuata con il sacrificio di sedici cristiani, tra i quali un sacerdote, l’abbé Albert Tungumale Baba. Lo scontro è poi continuato per giorni in altri quartieri della città provocando altri morti, altri feriti e la distruzione di due moschee.

nella Repubblica Centrafricana un massacro tira l’altro

L’episodio del primo maggio, che ha ferito e lasciato quasi incredula l’intera città, è avvenuto inoltre a poche settimane dell’uccisione a Séko (nel centro del paese) di un altro sacerdote, l’abbé Désiré Angbabata, insieme a undici suoi parrocchiani (assassinio avvenuto il 21 marzo 2018).

L’abbé Albert, settantun anni, tra i sacerdoti più anziani del clero di Bangui, era un pastore stimato e conosciuto per la sua semplicità e simpatia, e soprattutto per la sua opera discreta e infaticabile in favore della riconciliazione tra cristiani e musulmani. Durante le fasi più acute della guerra aveva accolto per diversi anni, nella sua parrocchia vicinissima al Km5, migliaia di profughi provenienti dai quartieri vicini. L’abbé Albert, inoltre, era a tutti noto per il suo grande amore per il sango, la lingua nazionale della Repubblica Centrafricana, non particolarmente ricca di vocaboli. L’abbé Albert riusciva a tradurre ogni parola (senza usare il francese), con soluzioni geniali o giri di parole divertenti. Una volta, mentre eravamo in macchina insieme, tradusse pure il mio nome, decretando che mi si doveva chiamare Bwa (che in sango significa sacerdote) Federiki.

Salvare il Centrafrica

In un’intervista l’abbé Albert aveva detto che solo Dio può ormai salvare il Centrafrica. Non aveva tutti i torti. A salvare il Centrafrica ci hanno provato, e ci stanno ancora provando, in tanti: l’esercito nazionale, le truppe dell’Unione africana, la missione francese (che ha comunque il grande merito di aver impedito che il conflitto diventasse un massacro), i soldati dell’Unione europea, poi la Minusca, la grande missione dell’Onu (che, pur con tutti i suoi limiti, resta al momento l’unica soluzione possibile) e ora sono all’orizzonte anche i russi. Ci ha provato pure papa Francesco che, con la sua visita nel novembre del 2015, era riuscito a regalare una tregua sufficiente per eleggere democraticamente un nuovo presidente. Con il tempo, purtroppo, l’effetto di quella visita è come svanito e l’occasione di voltare pagina è stata per l’ennesima volta sprecata. Gli scontri si sono moltiplicati su tutta l’estensione del paese e quella pace, che avevamo appena accarezzato, sembra quasi più lontana di prima.

AFP PHOTO / FLORENT VERGNES

Una guerra, perché?

Perché è iniziata questa guerra? E perché sembra impossibile arrestarla? Le guerre sono sempre complesse, iniziano per tanti motivi ed evolvono nel tempo. Anche per chi abita qui da anni è difficile spiegare le vere ragioni del conflitto e, ancor di più, suggerire la soluzione giusta per spegnere l’incendio evitando che si propaghi ora qui, ora là – quasi come i fuochi della savana – lasciando solo morti, distruzione, paura e scoraggiamento. Attualmente i due campi avversari non sono neppure così nettamente distinguibili, come nei primi anni della guerra, tra Seleka (la coalizione delle milizie a maggioranza musulmana, tra cui anche mercenari di altri paesi) e gli anti-balaka (le milizie di autodifesa, sorte a difesa della popolazione del paese, a maggioranza cristiana, ma dalle quali i vescovi hanno sempre preso le distanze). La Seleka è ufficialmente sciolta. Ogni gruppo di ribelli ha il suo capo, i suoi obiettivi e la sua zona d’influenza (ad esempio l’Unione per la pace in Centrafrica è il gruppo che ha compiuto l’attacco a Séko, ndr). Non c’è più quella guerra casa per casa, quartiere per quartiere che Bangui aveva conosciuto nel 2013 e nel 2014. Ora si tratta di battaglie che hanno per protagonisti gruppi di autodifesa, i soldati dell’Onu o le forze dell’ordine. Tre quarti del paese sono come fuori dal controllo dell’autorità dello stato.

AFP PHOTO / FLORENT VERGNES

Guerra per le risorse

La guerra nel Centrafrica, iniziata di fatto già nel 2012, non è uno scontro confessionale o etnico. Si tratta piuttosto dell’ennesimo conflitto per la conquista del potere e per lo sfruttamento delle ricchezze di cui abbonda il sottosuolo (ad esempio i diamanti, ndr). Purtroppo, l’elemento confessionale si è inserito violentemente, avvelenando quella convivenza tra cristiani e musulmani che faceva del Centrafrica – in un tempo ormai lontano – un esempio di coabitazione pacifica. Seko e Fatima confermano che per ritornare alla situazione precedente la strada è ancora lunga.

Durante l’omelia, in occasione dei funerali del sacerdote ucciso e di alcune delle vittime, il cardinale di Bangui ha messo tutti con le spalle al muro denunciando l’inerzia del governo, la lentezza dell’Onu e il rischio che i cristiani cedano allo sconforto o, peggio ancora, alla logica della violenza e della vendetta. C’è un nemico insidioso che sta distruggendo il Centrafrica. E questo nemico, ha scandito il Cardinale, è il diavolo. Solo le armi della fede possono vincerlo.

Bangui, ferita al cuore della sua fede, non è arrabbiata con Dio. È arrabbiata piuttosto con quegli uomini che non vogliono la pace e, quasi obbedendo a un’agenda nascosta, si ostinano a bloccare il paese, come se fosse ineluttabilmente condannato alla miseria e alla guerra. Bangui e tutto il Centrafica sono in cerca di eroi – tra i governanti, i soldati, i giovani – che si alzino come un solo uomo e dicano no alla guerra e sì alla pace.

Federico Trinchero*

carmelitano scalzo, è missionario in Rca e superiore del convento Notre Dame du Mont Carmel di Bangui. Avevamo scritto di lui nel luglio del 2014.


La voce del cardinale Dieudonné Nzapalainga

AFP PHOTO / SAMIR TOUNSI

Dobbiamo essere le sentinelle

In seguito al massacro di Fatima, e al linciaggio di due musulmani per rappresaglia, il cardinale Dieudonné Nzapalainga invita alla calma: «Cosa abbiamo fatto di questo paese? Colpi di stato, ammutinamenti, ribellioni a ripetizione. I risultati sono davanti a noi: abbiamo morti, saccheggi e distruzione. Gli ultimi drammatici avvenimenti ci ricordano che la violenza non porta soluzioni ai nostri problemi».
Pubblichiamo parte della sua predica al funerale delle vittime del primo maggio.

Cari fratelli e sorelle,
l’arcidiocesi di Bangui è in lutto. Piange i suoi figli. Le nostre lacrime non si fermano da quando abbiamo saputo dell’atto terroristico, barbaro, commesso alla parrocchia Notre Dame de Fatima, durante la grande celebrazione eucaristica del primo maggio scorso. Un sentimento di tristezza, di collera, di desolazione abita il nostro cuore e ci fa sprofondare in una dura prova. Che fare?
Dopo alcuni momenti di preghiera e di riflessione, abbiamo la certezza che il Signore non abbandona mai coloro che credono in lui. Nei momenti di grande tribolazione viene in loro soccorso per liberarli, consolarli, medicare le loro ferite e asciugare le loro lacrime. Ecco perché abbiamo scelto di tenere gli stessi testi liturgici letti a Fatima. Non chiudiamo il nostro cuore, ma ascoltiamo la voce del Signore che ci parla, perché lui solo è nostro rifugio, nostra salvezza.
Nella prima lettura, Paolo ha subito l’aggressione dei giudei venuti da Antiochia. L’hanno lapidato e portato fuori dalla città pensando che fosse morto. Il loro piano era di mettere fine all’annuncio della Buona novella in quella città. Per questo, occorreva uccidere Paolo. Ma hanno fallito. Il testo continua: «Il giorno successivo con Barnaba, Paolo parte per Derbé. Annunciarono la Buona novella … e fecero un buon numero di discepoli». […]
Questo testo è una vera profezia. L’abbé Tungumale Baba è stato aggredito, ucciso. Il suo corpo trascinato nella città di Bangui. I suoi aggressori hanno pensato di aver vinto. No, non potranno mai eliminare la Chiesa cattolica. Non potranno mai mettere fine all’annuncio della Buona novella a Fatima. Paolo dopo l’aggressione diceva: «Dobbiamo passare molte prove, per entrare nel regno di Dio». Sì, nel nome della nostra fede, l’abbé Tungumale Baba e gli altri fedeli che hanno trovato la morte a Fatima, hanno vissuto le loro prove e sono oggi nel regno di Dio.
Nel Vangelo proclamato Gesù diceva ai suoi discepoli: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non è alla maniera del mondo che ve la do. Che il vostro cuore non sia sconvolto né spaventato». Ecco un’altra frase profetica che descrive la situazione che viviamo. Tutti noi siamo sconvolti. Tutti noi siamo spaventati. Il nostro vivere insieme, la nostra coesione sociale, la nostra unità nazionale è stata violata e rimessa in questione dai nemici della pace.
L’ora è grave, perché la crisi è profonda e multidimensionale, con aspetti nascosti, di chi tira i fili, nell’ombra, e chi non ha alcuna considerazione per l’uomo. I nemici della pace hanno il loro piano; è per questo che dobbiamo essere vigilanti per non cedere ad alcuna manipolazione. Dobbiamo prendere le distanze e giocare il nostro ruolo di sentinelle, di vedette, di chi guarda lontano e agisce con prudenza e virtù.
Il discorso di papa Francesco durante la sua visita a Bangui, può aiutarci a capire la nostra crisi. Il papa afferma che la violenza è un’azione del diavolo; le persone cadono sotto il potere del male: «Tutte le nostre comunità soffrono indistintamente dell’ingiustizia e dell’odio cieco che il diavolo libera», diceva il santo Padre. Per conseguenza, noi siamo impegnati in una battaglia spirituale […]. Il diavolo si scatena contro di noi, perché siamo la capitale spirituale del mondo. La prima Porta santa del giubileo della misericordia, la terra benedetta da Dio. Noi andiamo a combattere e vincere con le armi della fede. Per questo facciamo nostre le raccomandazioni di san Paolo […].

Padre Federico, Natale 2014, nel campo profughi del convento dei Carmelitani di Bangui.

A coloro che ci governano noi esprimiamo la nostra riconoscenza per gli sforzi fatti nella formazione dei nostri militari. D’altronde noi vi lanciamo questo appello: prendete in maniera risoluta e determinata la vostra responsabilità. Il popolo soffre e chiede protezione. Domani rischia di essere tardi. Il nemico che abbiamo di fronte non ha pietà per nessuno. È pronto a colpire ad ogni occasione. Il ritardo nell’intervento ha lasciato il campo libero al nemico. Noi contiamo i nostri morti e i nostri feriti. Vi chiedo di rivedere il vostro sistema di difesa e la vostra strategia per un’azione coordinata ed efficace delle nostre forze di difesa nazionale.
Alla comunità internazionale, e in particolare alla Minusca (Missione delle Nazioni Unite per la stabilizzazione del Centrafrica, ndr): noi vi ringraziamo per la vostra presenza al capezzale della nazione centrafricana, e l’appoggio al processo di pace in corso. Ciò nonostante vogliamo attirare la vostra attenzione sulla lentezza degli interventi e la mancanza di professionalità di certi contingenti. Noi sappiamo che voi avete efficaci mezzi di comunicazione. Quando sentite il nostro Sos, per favore, venite presto per proteggerci e salvarci. E siamo convinti che Dio ci darà la forza di fare sempre meglio. Noi vi reiteriamo il desiderio della popolazione di vedere una buona coordinazione tra la Minusca e le forze di difesa nazionale. Assumetevi la vostra responsabilità, in nome di Dio.

Cari fratelli e sorelle, certo abbiamo perso dei cari membri della nostra famiglia, ma teniamo le testimonianze viventi del loro passaggio in mezzo a noi. […]
Figlio mio Baba, ci mancherai. Ho di te il ricordo di un pastore instancabile che amava il suo ministero. Un prete umile. Non una sola volta ti ho visto in collera. Tu accettavi volentieri gli scherzi dei tuoi confratelli. Il tuo amore per il sango (la lingua africana più diffusa, ndr) ci appassionava. Tu eri un prete coraggioso. Amavi l’Eucarestia e la celebravi ogni giorno. In carica nella Commissione diocesana giustizia e pace, operavi per il dialogo interreligioso e per la pace. Hai fatto la scelta di abitare in una casa molto vicina alla tua parrocchia, anche se questa abitazione era vicina a Km5. Sì, figlio, tu hai vissuto quello che predicavi.
Il Signore ti ha dato la grazia. Hai trovato la morte durante la celebrazione dell’Eucarestia che amavi. Il Vangelo proclamato quel giorno parlava della pace per la quale tu operavi. Fedele servitore, entra nella gioia del tuo maestro. […] Non dimenticarti della tua famiglia. Due giorni prima di morire, a un funerale, all’omelia dicevi di non aver paura della morte, ma di considerarla come un’amica, perché ci permette di vedere Dio. […]

Liberamente tradotto da Marco Bello

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Colombia: Contro l’odio la scommessa del perdono

Tra vendetta e perdono, intervista di Paolo Moiola con padre Leonel Narváez Gómez |


Il prossimo 24 novembre saranno trascorsi due anni dalla firma degli accordi di pace. La Colombia è ancora un paese polarizzato, con politici e popolazione divisi tra vendetta e perdono. A dispetto dei problemi, padre Leonel Narváez Gómez, fondatore e presidente della pluripremiata Fundación para la reconciliación, è ottimista. Secondo il missionario, gli accordi di pace sono tra i migliori mai sottoscritti nel mondo. È però indispensabile passare da una «economia politica dell’odio» a una «cultura del perdono e della riconciliazione». Partendo da questo cambio individuale e collettivo sarà possibile raggiungere una «pace sostenibile».

Bogotá. Quando parla, usa molto le mani come per dare più forza alle sue parole. Parole comunque scelte con cura, mai banali. La storia personale di padre Leonel Narváez Gómez, colombiano e missionario della Consolata, è ricca di tappe ma sempre in un’unica direzione. Sembra infatti che, fin dall’inizio, la sua strada fosse segnata da uno scopo preciso: affrontare e superare le problematiche psicologiche e sociali che la guerra induce nelle persone e nella collettività.

Padre Leonel è originario dello stesso luogo (Genova, Quindio) nel quale nacque Pedro Antonio Marín Marín (alias Manuel Marulanda Vélez detto Tirofijo, 1930-2008), il fondatore delle Farc, le Forze armate rivoluzionarie di Colombia. «La cosa curiosa è che non solo eravamo della stessa cittadina ma compivamo gli anni nello stesso giorno, il 13 maggio. Molti anni dopo queste coincidenze mi daranno l’opportunità di stringere un’amicizia – se così possiamo chiamarla – con il gran capo delle Farc». A parte il luogo e il giorno di nascita, le strade intraprese dai due compaesani sono molto diverse: Leonel – di 19 anni più giovane – studia per diventare sacerdote, Manuel imbocca la strada della lotta armata. I due si troveranno per la prima volta faccia a faccia in circostanze particolari.

Diventato missionario, nel 1977 padre Leonel parte per il Kenya, dove rimarrà per 11 anni. Qui ha modo di toccare con mano le conseguenze dei conflitti in Sudan, Etiopia, Mozambico, Rwanda, Eritrea, Somalia, Sudafrica. Tornato in patria, nel 1989 va in Caquetá e Putumayo (Amazzonia colombiana), dove la guerra civile tra l’esercito (e milizie paramilitari) e le Farc è quotidianità.

Forte della sua conoscenza del compaesano Marulanda e degli altri leader del movimento guerrigliero, il missionario affianca mons. Luis Augusto Castro, mediatore ufficiale per il governo dell’allora presidente Andrés Pastrana, nei negoziati con le Farc. Nel frattempo, è anche assessore del Comitato generale e della sicurezza del municipio di San Vicente del Caguán, centro della cosiddetta zona di distensione durante i tre anni di negoziati (dal 1998 al 2001). All’epoca l’accordo non verrà raggiunto.

Dopo un decennio in Amazzonia, padre Leonel decide di prendersi tre anni sabbatici per approfondire il tema del conflitto nelle Università di Cambridge e Harvard. È nel famoso ateneo statunitense che elabora una proposta metodologica per insegnare il perdono e la riconciliazione in ambiti di guerra. Rientrato in Colombia, per concretizzare la propria idea, nel 2003 crea la Fundación para la reconciliación, istituzione di cui è tuttora presidente. Avendo come obiettivo ultimo la soluzione dei conflitti e la conquista di una pace duratura, in 15 anni di vita la Fondazione elabora modelli pedagogici e di alfabetizzazione emozionale e crea centri e scuole di perdono e riconciliazione (queste ultime note con l’acronimo di EsPeRe). Per il suo operato l’istituzione guidata da padre Leonel ottiene vari riconoscimenti, nazionali e internazionali, tra cui il Premio Unesco di educazione alla pace (2006).

«Oggi siamo presenti in 21 paesi del mondo», precisa con comprensibile orgoglio.

Gli accordi migliori del mondo

Padre Leonel, partiamo dagli accordi di pace tra governo e Farc sottoscritti nel novembre del 2016. Lei come li giudica?

«Voglio essere il più neutrale possibile, ma i negoziati colombiani hanno prodotto i migliori accordi di pace mai sottoscritti nel mondo, almeno fino a questo momento. Non lo sostengo io ma esperti ed accademici. Adesso è il tempo della loro applicazione».

Su quali elementi si basa questo giudizio largamente positivo?

«Sul fatto che i negoziati hanno affrontato sei questioni chiave divenute altrettanti pilastri degli accordi finali.

I sei pilastri sono i seguenti: riforma rurale e terra, inserimento e partecipazione politica degli ex combattenti, fine del conflitto, droga e coltivazioni di coca, questione delle vittime e verifica degli accordi».

Rispetto al primo, quello della terra, si ritiene che esso sia stato elemento scatenante del conflitto.

«In Colombia la distribuzione delle terre è sempre stata molto diseguale. Si calcola che sia uno dei paesi più diseguali in tema di proprietà terriera. La pace passa senz’altro per una riforma agraria che ha avuto molti tentativi di soluzione politica ma che mai sono stati portati a termine. Non so se raggiungeremo l’obiettivo in quest’occasione. Personalmente lo ritengo molto difficile a causa della difficoltà a recuperare le terre perdute e della quantità delle persone allontanate dalle campagne. Il problema è molto grave».

Sull’inserimento e sulla partecipazione politica degli ex guerriglieri il dibattito e le polemiche sono state (e tuttora sono) fortissime.

«Per fortuna, è già stata approvata la partecipazione politica di 10 candidati ex Farc (le persone – 2 donne e 8 uomini – sono già state designate: 5 al Senato e 5 alla Camera, ndr). Ciò ha generato molte discussioni nella popolazione, perché non si riesce a immaginare che alcuni supposti criminali ora possano diventare legislatori del paese.

Il problema è: se debbono essere giudicati prima o possono già entrare in politica. Sono già entrati e ora si dibatte su cosa succederà se fossero giudicati colpevoli».

Cosa s’intende concretamente per fine del conflitto?

«La consegna delle armi, la concentrazione degli ex combattenti in 28 zone rurali del paese, il processo di smobilitazione e di reinserimento nella società. Questo è un processo in stato molto avanzato. La consegna di armi, la smobilitazione sono state un successo.

Debbo segnalare che al loro passaggio i guerriglieri sono stati celebrati e applauditi dalla popolazione. C’era felicità nel vedere queste donne e uomini andare a consegnare le armi».

Il quarto pilastro degli accordi di pace riguarda le coltivazioni illecite.

«Il problema delle droghe è enorme. Si calcola che in Colombia ci siano 400mila famiglie che dipendono dalla coltivazione della coca (e, meno, di oppio e marijuana), che qui trova un terreno molto adatto. La Colombia ha, inoltre, migliaia di chimici esperti nella produzione della pasta basica di cocaina.

Il fatto è che dall’estero c’è una domanda tremenda. E anche la Colombia ha incrementato il proprio consumo. Insomma, c’è più domanda che offerta. Per il campesino l’attrazione non è tanto il denaro, quanto il cash immediato, la commercializzazione assicurata, la facilità di trasporto, i prezzi allettanti, l’assistenza di esperti in loco, la facile reperibilità dei prodotti chimici. Se parliamo di coltivazioni sostitutive, soltanto un prodotto che offra tutto questo potrà avere successo.

Il problema della coca è internazionale perché è una catena produttiva che comporta l’utilizzo di prodotti chimici e varie intermediazioni. Sfortunatamente, quasi sempre si finisce con il colpire l’anello più debole di questa catena: il contadino, colui che ha la colpa minore. Nell’accordo tra governo e guerriglia c’è anche il divieto alla fumigazione (distruzione delle piantagioni attraverso la dispersione di glifosato con aerei o – è cosa recentissima – con droni, ndr). Su questo c’è però un’enorme pressione contraria degli Stati Uniti perché si riveda la decisione e si torni al grande business dei prodotti chimici e della fumigazione».

Il quinto pilastro riguarda le vittime, che si contano in quasi otto milioni.

«Il cuore di tutto, secondo me. I mediatori hanno messo le vittime al centro delle negoziazioni di pace e questa è una novità positiva rispetto alle altre trattative che sono state fatte nel mondo. Ricordo che i rappresentanti delle vittime sono stati portati a L’Avana tra i negoziatori. Qui esse hanno potuto raccontare le loro esperienze e da allora i negoziati sono cambiati».

L’apparato – Sistema integral de Verdad, Justicia, Reparación y no Repetición – concepito per affrontare il tema delle vittime pare piuttosto complesso.

«L’apparato include tre commissioni con compiti specifici. La prima è la “Commissione della verità”, che non è un ente giuridico ma storico. Si tratta di dire al popolo colombiano qual è la verità del conflitto, soprattutto nella prospettiva della riconciliazione. Durerà per tre anni.

La seconda è la “Commissione per la ricerca degli scomparsi”. In questo momento in Colombia si stimano 80mila persone scomparse. Per quanto mi riguarda ci sono tre persone vicine alla mia famiglia che da 18 anni non sappiamo dove siano. Uno dei dolori più profondi è quello provato da una persona che non sa dove sia un suo caro. È un dolore che si tiene dentro per uno, due, dieci, venti anni. È un martirio, una tortura continua. Sono persone che soffrono troppo, affette da quello che gli psicologi chiamano il “trauma complesso” (sintomi prodotti da traumi cumulativi prolungati nel tempo: violenze, guerre, prigionie, migrazioni forzate, ndr).

La terza è la “Commissione per la riparazione”. Come si debbono ripagare le vittime e come fare perché le riparazioni siano integrali: dalle persone scomparse al ritorno nei propri luoghi fino al recupero delle terre, del lavoro, delle case».

La «giustizia riparativa»

Quelli che ha spiegato sono tutti organi extragiudiziali. C’è però anche un organo giudiziale, anche se con caratteristiche particolari.

«Sì, si tratta dell’organo – anch’esso molto dibattuto (infatti il nuovo governo di Iván Duque ha fatto rimandare l’emanazione del regolamento, ndr) – denominato Jurisdicción Especial para la Paz. Essa è una giustizia parallela alla giustizia ordinaria. Questa istituzione ha già 51 magistrati che dovranno affrontare il tema della giustizia cosiddetta “transizionale” (justicia transicional).

Perché è importante? Se gli ex guerriglieri confessano la verità prima di essere giudicati, essi avranno non più di otto e non meno di due anni di condanna in carceri aperte, senza sbarre.

Se invece non confessano la verità o se la dicono dopo o se questa viene scoperta successivamente, gli ex guerriglieri rischiano fino a 20 anni da trascorrere in prigioni tradizionali, con le sbarre.

Si tratta di misure di giustizia transizionale che verranno applicate solamente per i prossimi 10 anni. Questa giustizia è una giustizia restaurativa (riparativa, riconciliativa, di transizione sono tutti sinonimi, ndr) che cerca di “riparare” le vittime e la società.

E soprattutto ha un concetto innovativo di castigo perché non si pensa di mettere le persone in carcere ma in luoghi diversi dove possano rimanere assieme, fare attività in un luogo aperto anche se vigilato. Il contrario del concetto perverso di carcere chiuso».

Padre Leonel, il tema della «giustizia restaurativa» invece della «giustizia punitiva» le è molto caro. Tuttavia, è risaputo che una parte consistente della stessa gerarchia cattolica colombiana non è dello stesso avviso, adottando in toto le posizioni dell’ex presidente Álvaro Uribe.

«Debbo dirlo chiaramente: la Chiesa in Colombia e tanti vescovi sono divisi tra le due istanze: giustizia punitiva o giustizia restaurativa? Ci sono vescovi – io ne sono testimone – che dicono: “No, questi criminali vanno messi in carcere”. Se potessero dirlo chiederebbero la pena di morte che però in Colombia non esiste.

Le carceri sono la soluzione più perversa, sono la negazione dell’immaginazione umana, sono i luoghi peggiori della società, sono le università del crimine. Questi luoghi sono i luoghi dell’inferno che troppi vescovi ancora predicano».

L’«economia politica dell’odio»

Lei utilizza un termine particolare: «economia politica dell’odio». Cosa intende con esso?

«I partiti sono stati venditori perversi di odio. E loro rappresentanti hanno guadagnato sulla base di questo. La stessa guerriglia sa di aver venduto odio. Io non voglio dire chi è di più e chi di meno. Tuttavia, la cultura politica della Colombia si è trasformata in una distillazione di odio che genera una cultura della vendetta.

Concretamente questa si è trasformata in più carceri, più stazioni di vigilanza nelle strade, più uomini nell’esercito, più armi. Tutto questo è cultura della violenza e dell’odio. E la gente, la base umana è ansiosa di ricevere questo tipo di proposte.

Ciò spiega perché quando si è trattato di fare il referendum sull’approvazione o meno delle negoziazioni, più del 50 per cento dei votanti hanno detto “no”. Facendo chiaramente intendere che questi criminali delle Farc avrebbero dovuto essere ammazzati. E che, se si fosse potuto, si sarebbe dovuto non solo mandarli a morte, ma mandarli a morte per tre volte. Ci siamo resi conto che il paese è ancora dominato dall’odio. La parte più animale, più arcaica, più primitiva di noi sta ancora presente nei nostri cuori. In questo momento la grande sfida della Colombia, oltre ai problemi che conosciamo (terra, droga, vittime, reinserimento dei guerriglieri, eccetera), è quella di capire come trasformare la cultura della vendetta insita nella popolazione. E soprattutto come trasformare questa “economia politica dell’odio” che ci hanno venduto e che continuano a venderci».

La scelta del perdono

Padre, dopo 52 anni di guerra civile, 220mila morti, milioni di sfollati, non è difficile parlare di perdono?

«Per prima cosa, intendiamoci bene su cos’è il perdono. Il perdono non è dimenticare, non è negare la giustizia, non è negare il dolore che ho dentro. Il perdono è un esercizio meraviglioso che passa dalla vendetta alla compassione, alla misericordia, che alla fine – e qui parlo da missionario – è il cuore della predicazione di Gesù. Tutto questo necessita di una “tecnologia”, di un filo metodologico che ci conduca dalla memoria ingrata (rabbia e rancore) a quella grata (compassione).

Misericordia, compassione, perdono sono l’espressione massima del regno di Dio. Il perdono elevato alla massima conseguenza. Sempre, fino a perdonare l’imperdonabile».

Il perdono e la riconciliazione si possono insegnare?

«In questi ultimi 15 anni io e i miei collaboratori abbiamo lavorato per generare metodi e pratiche concrete, quotidiane, replicabili, moltiplicabili, di perdono e riconciliazione. Considero la Fondazione per la riconciliazione unica in America Latina e forse nel mondo. Di certo è l’istituzione che più lavora sul tema specifico della “tecnologia del perdono”. O, se vogliamo usare un altro termine, dell’“ecologia dell’anima”, che poi è il tema del perdono, della compassione, della misericordia. Secondo me, questo dovrebbe essere il cuore del lavoro di un missionario».

Dunque, secondo lei la cultura della pace e della riconciliazione si sta diffondendo?

«Voglio essere ottimista. Stando accanto alle vittime io vedo che, a poco a poco, si sta instaurando una cultura di riconciliazione. A poco a poco il paese si sta incamminando su questa strada. Sfortunatamente questo non sta succedendo nelle élites, sia politiche che economiche. Non so – qui debbo usare un punto di domanda – se sta accadendo nelle gerarchie ecclesiali.

L’importante è che la giustizia restaurativa e questo nuovo concetto di pace stiano progredendo. Tutto questo è possibile se noi inculchiamo la cultura e la spiritualità del perdono, l’ecologia dell’anima. Di certo non ci può essere una “pace sostenibile” se non c’è un processo di perdono. E i processi di perdono – ecco il paradosso – sono quelli che proprio i cattolici e i cristiani conoscono meno. Si prova vergogna a ricordarlo, ma il continente latinoamericano è quello più povero, più diseguale, più violento e più cattolico. Che significa questo? Che abbiamo appreso un cattolicesimo e un cristianesimo di molta liturgia ed esteriorità. Ma non abbiamo assunto il mandato di avvicinarci al prossimo. Mi pare che questo ci costi molto. Insomma, la sfida è grande».

Iván Duque e il nuovo governo

Tornando alle questioni meramente pratiche, che problemi sta comportando o comporterà la transizione dalla guerra alla pace?

«Nel processo di transizione verso la pace ci sono due caratteristiche negative che riguardano tutti i paesi impegnati in questo passaggio. La prima è che essi sperimentano 3-5 anni di violenza a volte addirittura maggiore rispetto a quella del conflitto perché è violenza disorganizzata. Girano molte più armi libere perché il business è terribile. Molte persone che erano implicate nella guerra continuano a pensare in quest’ottica. Ci sono un gran numero di vittime – in Colombia sono 8 milioni di persone – che continuano a vivere con molta rabbia e voglia di vendetta. La seconda conseguenza è che, a causa dei costi impliciti in un processo di pace, i paesi possono cadere in depressione economica. Attualmente lo sforzo compiuto della Colombia è molto elevato, soprattutto in un paese dove l’intervento dello stato è stato sempre assai limitato.

C’è infine una variabile politica: il nuovo governo. Nell’ottobre 2017 la Corte costituzionale colombiana ha blindato le negoziazioni per 12 anni. Ovvero nessuno dei tre prossimi presidenti potrà cambiare gli accordi siglati nel 2016. Quello che invece senz’altro farà la destra uribista (legata cioè all’ex presidente Álvaro Uribe e vincitrice delle elezioni di giugno, ndr) sarà di rallentare la loro applicazione e insistere sulla giustizia punitiva».

Paolo Moiola


Le parole in gioco

Ricomporre un tessuto sociale distrutto da decenni di guerra è un’impresa molto complicata. Per questo occorre conoscere le parole che entrano in gioco.

La guerra

  • economia politica dell’odio: strategia promossa dalle élites (politiche, sociali, economiche, religiose) del paese per catturare l’attenzione (e il voto) della massa;
  • cultura della vendetta: è la conseguenza dell’odio non superato;
  • rabbia, rancore, rivalsa: sentimenti generati dal torto subito, dalla violenza e dall’ingiustizia;
  • filosofia del nemico interno: non è un semplice oppositore, ma un soggetto che deve essere eliminato;
  • narcotraffico: elemento moltiplicatore di violenza, barbarie, vendetta;
  • giustizia punitiva: è il sistema che si limita all’applicazione per i responsabili degli abusi dello strumento punitivo-vendicativo (in primis, del carcere).

La pace

  • pace sostenibile: si raggiunge quando si dà risposta a una serie di necessità; trova raffigurazione in un albero (radici, tronco, rami);
  • necessità oggettive di base: sanità, lavoro, istruzione, terra, alimentazione;
  • necessità ecologiche della pace: verità, giustizia, indennizzo, inclusione, rispetto dei diritti umani;
  • necessità soggettive delle vittime e dei sopravvissuti: affrontare e superare rabbia, rancore, rivalsa (vendetta);
  • cultura civile del perdono e della riconciliazione: è la risposta alle necessità soggettive;
  • perdono: è ricordare con altri occhi, è un esercizio attraverso il quale la vittima smette di essere tale; non significa dimenticare o negare il diritto alla giustizia;
  • riconciliazione: passaggio dalla sfiducia alla fiducia;
  • giustizia riparativa: è il sistema che si concentra sulla riparazione del danno subito dalla vittima più che sulla punizione del reo.

Fonte: Leonel Narváez Gómez, Entre economía política del odio y cultura ciudadana de perdón, in «Venganza o perdón? Un camino hacia la reconciliación», Editorial Planeta Colombiana, aprile 2017.


Il successore di Manuel Santos: «Títere» o presidente?

Il nuovo presidente della Colombia è Iván Duque Márquez, delfino dell’ex presidente Álvaro Uribe, fermo oppositore degli accordi di pace del novembre 2016.

AFP PHOTO / RAUL ARBOLEDA

Iván Duque Márquez è stato eletto successore di Manuel Santos alla presidenza della Colombia. Avvocato di 41 anni, Duque è stato allevato nella scuderia dell’ex presidente Álvaro Uribe, padre e padrone della destra colombiana, nonché duro oppositore degli accordi di pace del novembre 2016.
Detto questo, senza esagerare in ottimismo, va segnalato che le presidenziali 2018 sono state caratterizzate da segnali positivi e importanti discontinuità. In primis, sono state elezioni pacifiche. E partecipate (per gli standard colombiani e latinoamericani): l’astensione si è infatti fermata al 47% degli aventi diritto. Al ballottaggio del 17 giugno con la destra uribista non è arrivato alcun esponente dei due partiti storici della Colombia, quello conservatore (fondato nel 1849) e quello liberale (del 1848). Vi è invece giunto – vivo e vegeto – un candidato di sinistra, Gustavo Petro, già membro del movimento guerrigliero M-19 e sindaco di Bogotà, che ha anche ottenuto un risultato importante: 8 milioni di voti pari al 42% (contro il 54% di Duque).
Tra le note positive, è da segnalare che anche Rodrigo Londoño, ex leader del gruppo guerrigliero e attuale presidente del partito Farc (Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común), si sia felicitato con il nuovo presidente elogiando nel contempo il cammino intrapreso dal paese con gli accordi di pace.
Per parte sua, nel suo primo discorso da vincitore, Duque ha usato toni molto concilianti, precisando che occorre superare la polarizzazione e le lamentele. «Non conosco nemici in Colombia – ha dichiarato -, non governerò con l’odio, non esistono nella mia mente e nel mio cuore né vendette né rivalse. Si tratta di guardare al futuro per il bene di tutti i colombiani».
Sul tema più controverso, quello degli accordi di pace, ha assicurato che non verranno fatti a brandelli, ma che saranno introdotte delle correzioni.
Già le prime mosse del suo governo ci diranno se Iván Duque è un títere (cioè un burattino di Uribe) o un presidente.

Paolo Moiola

  • Fondazione: Bogotá, 2003.
  • Fondatore e presidente: Leonel Narváez Gómez.
  • Organici: 40 dipendenti e 2.200 animatori volontari.
  • Programmi:
    – alfabetizzazione: si insegna a leggere e scrivere con il metodo della pedagogia di Paulo Freire e, nel contempo, si offrono soluzioni emozionali per i conflitti legati a rabbia, rancore e rivalsa;
    – pedagogia della cura e della riconciliazione: si insegna nelle scuole pubbliche e private;
    – Centri di riconciliazione: si tratta di appartamenti presi in affitto in zone a rischio per svolgere i programmi della Fondazione;
    – Scuole di perdono e riconciliazione (EsPeRe): corsi interattivi e ludici costituiti da 12 moduli, ognuno di 4 ore.
  • Presenza:
    – in 21 paesi del mondo.
  • Riconoscimenti:
    – Orden Civil al Mérito José Acevedo y Gómez del Concejo de Bogotá (2004);
    – Premio Unesco Educación para la Paz (2006);
    – Orden de la Democracia del Congresso de la República de Colombia (2007);
    – Emprender Paz (2011, con Nestlé Colombia);
    – Premio Nacional de Paz (2014, secondo posto).
  • Sito:
    www.fundacionparalareconciliacion.org.

Archivio MC

I più recenti articoli sul processo di pace in Colombia:
• Paolo Moiola (a cura di), Colombia. Un paese alla ricerca della pace, dossier, novembre 2016;
• Paolo Moiola, La pace bussa due volte. Incontro con mons. Luis Augusto Castro, maggio 2017.
Sul tema della giustizia riparativa:
• Luca Lorusso (a cura di), Giustizia riparativa, dossier, dicembre 2013.




Ricordi personalissimi di 25 anni in Corea del Sud

La testimonianza di padre Paolo Lamberto dalla Corea


Padre Paolo Lamberto è partito per l’Estremo Oriente che era ancora sacerdote di primo pelo. Si è trovato in un mondo affascinante ed enigmatico che gli ha conquistato il cuore ma ha anche preso il meglio delle sue energie. Là ha imparato ad affidarsi all’unica forza che non si esaurisce mai.

Avete presente le case con i tetti ondulati e i paesaggi di quei quadri orientali in bianco e nero dove le nuvole danno il senso della profondità e tutto emana un senso di equilibrio e di pace? Ecco, questo era più o meno quello che mi aspettavo di vedere quando sono atterrato a Seul il 23 settembre del 1992. E invece, a perdita d’occhio, palazzi, palazzi e palazzi. Una foresta di cemento e traffico da far paura.

Apprendista missionario in Corea

Ad aspettarmi all’aeroporto insieme ai miei due confratelli c’era Monica. È stata la prima persona coreana che ho incontrato. Poi ho conosciuto altre due Monica e, siccome facevo fatica a ricordarne i nomi coreani, le chiamavo con nome del luogo in cui abitavano: Monica di Yokkok, di Pupyong, di Mansok. Tutte ci hanno aiutato moltissimo. E poi ricordo Jacinta, la prima presidente del gruppo dei nostri amici, piena di vita. E come dimenticare Rufina, sempre fedele ai nostri incontri ma anche per i servizi più umili? Ha avuto una vita difficile, ma anche adesso nei suoi ottant’anni, è sempre allegra e pronta ad aiutare.

Monica di Mansok è già in paradiso. Viveva a Mansok Dong, un quartiere povero della città di Inchon. I padri Diego (Cazzolato, italiano) e Luiz (Emer, brasiliano) vivevano là e lei, pur essendo un po’ disabile, li aiutava a trovare i più poveri del quartiere o i cristiani non praticanti.

Anche io ho vissuto là in tempi diversi. Qualche volta, in inverno, quando stavamo via per qualche giorno, Monica accendeva per noi il rudimentale riscaldamento a carbone della nostra casetta. Mi ricordo di quando venivano i topi in cucina e al mattino trovavamo i segni dei loro incisivi nel sapone. La cappella era un sottotetto dove si poteva stare solo seduti.
I bambini del quartiere ci visitavano spesso e c’era una bella cooperazione con i volontari di un doposcuola per i bambini svantaggiati del quartiere.

Tra le vecchiette che visitavamo ce n’era una che ci raccontava sempre di quando era scappata dalla Corea del Nord poco prima che scoppiasse la guerra.

Ricordo anche con molto affetto e gratitudine gli insegnanti di coreano che hanno faticato a insegnarmi la loro lingua per quasi due anni. Dopo un anno, appena sono stato in grado di leggere il testo della messa da solo, ho cominciato ad andare in parrocchia tutti i fine settimana. Il mio primo parroco, un sacerdote coreano, si chiamava Kim Venanzio. Mi ha insegnato molte cose sulla cultura coreana, ma mi ha anche fatto mangiare i cibi più strani che abbia incontrato nella vita: dal cane alle ginocchia di bue, da una razza, che eufemisticamente potremmo dire che sa di acido urico, a tutto ciò che si trova nel mare, a parte gli scogli.

Nella sua parrocchia ho cominciato a confessare in coreano. Un’anziana signora veniva e mi diceva: «Padre, ho saltato una messa». Ma io che non sapevo distinguere bene le sfumature della pronuncia capivo: «Padre, durante la messa mi sono mangiata una grossa pera». E un’altra: «Padre, mi sono mangiata l’orecchio» (cioè, ci sento poco). Tra me e me rimuginavo sulle strane abitudini alimentari delle nonnette coreane.

Il bello della vita comune

Padre Rafael Del Blanco, argentino, è stato uno tra i primi otto missionari arrivati qui. Intelligente e di gran cuore, era molto impulsivo, e spesso, testa e cuore non viaggiavano sullo stesso binario. Una volta ha comperato 200.000 won (circa 200 €) di pesce da un venditore ambulante. Gli abbiamo detto: «Ma Rafael, tu non mangi pesce, e qui ce n’è per 6 mesi». E lui: «Ma era un’occasione».

Con padre Benjamin (Martinez Solano, colombiano) ho vissuto per qualche anno. Una volta sono andato a trovarlo quando il nostro centro di dialogo interreligioso era ancora a Okkiltong, e con lui c’era un monaco buddista nostro amico. E lui mi ha detto: «Dai, andiamo al karaoke». E così ci siamo andati, io in clergyman e il monaco col suo abito grigio. E la gente guardava stupita lo spettacolo di un prete cattolico e di un monaco buddista che cantavano insieme in coreano. Quante discussioni teologiche ho avuto con padre Luiz Emer, ma stranamente sulle cose pratiche eravamo sempre d’accordo.

Padre Paco (Francisco López, spagnolo) veniva invece da un altro pianeta. Ci siamo aiutati molto e anche voluti molto bene. Ma una volta mi sono arrabbiato davvero con lui. Era di nuovo in ritardo per un incontro che dovevamo fare insieme. Non erano due volte, non dieci, ma sempre, e ogni volta erano almeno 30 minuti. Quanti rosari mi ha fatto dire quell’uomo. Così quel giorno non sono andato all’incontro e ho tagliato ogni comunicazione con lui. «Non ne posso più», mi sono detto, ma pregando in cappella dopo cena, ho letto queste parole: «Non lasciate che nessuna radice cattiva cresca in mezzo a voi» (Eb 12,15). Mi sono reso conto che quelle parole erano proprio per me, così quella notte l’ho chiamato al telefono, vivevamo in due comunità diverse, l’ho svegliato e ci siamo riconciliati.

Un aspetto simpatico della nostra comunità sono le vacanze estive che quasi tutti gli anni facciamo insieme. Per me le più memorabili sono state le prime, pochi giorni dopo essere arrivato in Corea. Andammo al Soraksan National Park. Io mi aspettavo qualcosa come le Alpi, dove tu cammini fino ai 3.000 metri e poi  sei solo a contemplare la natura. Ma no. Prima di salire in montagna abbiamo fatto la coda per comprare il biglietto, poi la salita e poi gente dappertutto, un bar, venditori di magliette e cibi vari. Addirittura, sulla cima dell’Ulsanbawi (una punta rocciosa alta circa 800 metri) un signore vendeva medaglie ricordo per chi era riuscito a fare tutti gli 888 scalini fino in cima. Ma la cosa più simpatica è stata che, il giorno prima di partire, siccome andavamo in montagna, padre Paco aveva raccomandato a padre Antonio (Domenech del Rio, spagnolo) e a me, appena arrivati, di portarci vestiti pesanti. Così noi due abbiamo riempito gli zaini con maglioni e giacconi come se dovessimo scalare l’Himalaya. Ma quello era il Soraksan a fine settembre e faceva un caldo boia. Un altro anno siamo andati sulle montagne del Jirisan (nel Sud della Corea tra i 1.600 e 1.900 metri di altezza). Avevamo comprato una succosa anguria da 9 kg e qualcuno aveva suggerito di andare a mangiarla in cima a qualche montagnola. Indovinate chi è stato il fortunato prescelto dalla sorte per portare l’anguria fino su? Arrivati in cima, però, nessuno aveva voglia di anguria, ed è toccato ancora a me riportarla giù.

Anche le ultime vacanze insieme sono state speciali. Avevamo preparato giochi, birra e stuzzichini per animare la prima sera, ma senza neanche accorgercene abbiamo cominciato a parlare tra noi spontaneamente e liberamente come vecchi amici che si ritrovano dopo anni, ed è stato solo verso le 2 del mattino che ci siamo allegramente resi conto che era ora di andare a nanna.

Corea, tra gioie e fatiche

Alla fine della scuola di lingua, il Signore aveva preparato per me una sorpresa e un’altra chiamata. Avevo messo tutte le mie energie nello studio del coreano ma dopo un anno e mezzo mi ritrovavo senza forze e non riuscivo più a concentrarmi. Mi ci è voluto un bel po’ a riprendermi, ma ogni due mesi rimanevo vuoto di energie per una settimana.

Dal 2000 sono stato incaricato della formazione dei nostri seminaristi coreani. Anche quello è stato un tempo bello, aiutando ognuno a crescere nella fede e nel nostro carisma missionario secondo la sua personalità. E ora i miei cinque seminaristi sono diventati sacerdoti e annunciano il Vangelo in tre continenti: Pietro Han Kyoung Ho in Corea, Martino Han Gyeong Ho in Mozambico, Giuseppe Kim Moonjung in Rd Congo, Benigno Lee Dong Uk in Kenya e Giuseppe Kim Myeong Ho in Colombia.

Alla fine del 2004 ero mentalmente esaurito. Sono dovuto tornare in Italia per un po’ per rimettermi in forma. Sono tornato nel 2005 e da allora non sono più riuscito a fare molte attività. A volte mi sentivo inutile. A volte mi pareva che non ci fosse futuro per me. Ho detto allora a Gesù: «Ero pronto a darti tutto, anche le cose più dure e difficili, ma questo è umiliante. Così non servo a niente! Ma se lo vuoi Tu allora lo voglio anch’io». Così, ciò che da un punto di vista materiale sembrava un tempo di non produttività, dal punto di vista spirituale mi ha aiutato a fare grandi progressi. Ora vedo che se offro immediatamente a Dio non solo le cose buone, ma anche quello che mi fa male, per amore suo ovviamente, tutto diventa sopportabile e ne seguono pace, serenità e gioia.

Ho imparato a cucinare per servire i confratelli della mia piccola comunità, di solito siamo in 2 o 3, e cerco di tenere allegro tutto il nostro gruppo della Corea.

Poi, l’anno scorso, sono andato a Taiwan a predicare gli esercizi spirituali ai nostri quattro confratelli che lavorano lì. Pensavo che mi sarei esaurito nel giro di tre giorni. E invece è andato tutto bene e per sette mesi il Signore mi ha concesso energia come da più di vent’anni non ne avevo avuta. Il Signore mi ha aperto una finestra di speranza per un lavoro missionario più fruttuoso, e gliene sono veramente grato. Ma adesso so che la cosa più importante è quello che Lui vuole, e voglio continuare a seguirlo con allegria, capiti quel che capiti.

Mentre ero in Corea ho perso entrambi i miei genitori. Prima mio papà nel ’93 e poi mia mamma nel 2005. Perlomeno sono riuscito a vedere mia mamma prima che morisse, anche se già non poteva né parlare né capire. Nella camera mortuaria, mentre aspettavamo che fosse messa nella cassa, eravamo alcuni familiari, e con lei lì presente tutti abbiamo sperimentato una grande pace e unità. E non solo, sentivamo come una pioggia di grazie su tutta la famiglia, e in me una grande gioia del tutto innaturale e inspiegabile. La cosa è durata tre mesi e mi sono ritrovato a dirle: «Grazie mamma ma adesso basta grazie».

Pastorale della pastasciutta

Nel 2012, per un progetto di urbanizzazione del governo siamo stati costretti a muovere la nostra comunità di dialogo interreligioso da Okkiltong a Tejon, una città 160 km a Sud. Padre Diego Cazzolato (il veterano del nostro gruppo) e io abbiamo vissuto per vari mesi in un appartamentino di 45 m2 mentre seguivamo la costruzione della nuova casa. Ma a fine anno, dopo neanche tre mesi di vita nella nuova casa, sono stato trasferito a Tongduchon con padre Tamrat (Defar, etiope). La cosa in realtà si è poi rivelata molto provvidenziale. Ci siamo molto aiutati e sostenuti a vicenda nella pastorale dei lavoratori stranieri. Ci sono stati momenti in cui dicevamo: «Beh, noi non siamo poi così speciali, ma il Signore sta radunando intorno a noi tanta brava gente che fa tanto buon lavoro. Il Signore ci sta usando come catalizzatori per la missione». Durante quei 3 anni insieme abbiamo sviluppato la «pastorale della pastasciutta». Con la scusa della cucina italiana abbiamo invitato a casa ogni tipo di persone, e in un ambiente caldo e familiare abbiamo parlato di problemi pastorali, di religione e di ogni altra cosa con preti, suore, cattolici, protestanti, non cristiani, nigeriani, filippini, latinos e coreani. E poi qualche sabato pomeriggio, Tamrat e io camminavamo insieme per un’ora fino a una montagna vicina, prendevamo una frittata e una brocca di vino di riso, e poi tornavamo a piedi, parlando di tutto.

E adesso bisogna proprio che vi parli della messa. Ci sono stati dei momenti in cui mi sono detto: «Ma cosa faccio qui? Vale la pena stare qui o fare questa vita? Sono utile a qualcosa?», oppure: «Dai, impacchetta tutto e torna a casa». Solo la messa mi ha aiutato, giorno per giorno, a trovare forza e soprattutto significato per andare avanti in questa missione.

Ecco, questi sono alcuni ricordi «a caso» dei miei primi 25 anni in Corea, ma il ricordo più importante è: «Se il Signore non fosse stato con noi, tutto quello che siamo e facciamo ora, sarebbe stato impossibile».

Giovanni Paolo Lamberto


I giovani coreani

Di quali giovani parlare? Qui le cose cambiano rapidamente: chissà che tipo di giovani avremo fra 10 anni? Chi ha più di 50 anni quando era giovane ha dato tutto per il «miracolo economico» della Corea. I 40enni sono gli eroi della lotta contro la dittatura militare. I 30enni hanno avuto la vita più facile: la nazione era diventata ricca e le famiglie molto piccole. I 20enni hanno avuto la vita ancora più comoda ma adesso fanno fatica a trovare un lavoro e spesso rimandano matrimonio e figli perché l’economia non tira più come prima. Chi ha meno di 20 anni è sicuramente cresciuto con un telefonino in tasca e il computer davanti al naso.

Però c’è un’esperienza che li accomuna tutti, e per quanto ne so, lo stesso capita per i paesi di cultura confuciana (Cina, Giappone, Taiwan, Singapore, Hong Kong): la scuola.

In Corea, fino all’asilo i bambini possono fare quello che vogliono, nessuno li rimprovera. Ma dalla 1ª elementare vengono «intruppati» nel sistema e da quel momento è solo studiare, studiare e studiare. E fare tutto il possibile per essere ai primi posti. Qui l’educazione è intesa come: «L’allievo è un contenitore vuoto che deve essere riempito dal maestro». E la scuola normale non basta. Appena finito si va alle cosidette Accademie per approfondire inglese, matematica, piano, tae kwon do (taekwondo, un’arte marziale) ecc. È normale per uno studente coreano uscire di casa al mattino alle 7 e ritornare alla sera alle 10 o alle 11.

Molti anni fa, durante le mie prime esperienze di confessione in coreano, ho capito che quando mi parlavano in modo comprensibile erano peccati normali, quando invece parlavano difficile, con molti vocaboli di origine cinese, erano cose grosse. Un giorno è venuta una ragazza e mi ha detto: «Io sono ko sam». Per stare sul sicuro le ho raccomandato: «Quella roba non farla mai più». Che cantonata. Anche il più sprovveduto dei coreani sa benissimo che ko sam vuol semplicemente dire: «Sto frequentando il terzo anno delle superiori e mi preparo all’esame di entrata all’università per cui non esco di casa, non vado con gli amici, non vado a messa, e dal mattino alla sera è solo studio». Dal mattino alla sera è un eufemismo: sulle pareti di molte scuole c’è questa scritta: «Più di 4 e non ce la fai». Cioè: «Se dormi più di 4 ore per notte quando prepari questo esame non ce la farai a passarlo».

Questo esame determina tutta la tua vita futura, chi sarai, quanto guadagnerai, che amici avrai. Accedere a una università di prestigio è come entrare in un club esclusivo, e, indipendentemente dai risultati e dalle materie scelte, i membri della stessa università si aiutano tra loro, ti assumono nella loro ditta, ti aiutano a far carriera.

Pressione e competitività, a cui si è aggiunto di recente il fenomeno del bullismo, sono spesso causa di un grande numero di suicidi tra i giovani. Senza dimenticare che i giovani che escono da queste scuole saranno poi i dirigenti della Samsung, Lg, Kia, Hyundai, ecc. E che questi giovani, così legati alla loro terra e cultura, diventeranno quegli imprenditori che non esiteranno un attimo a trapiantare la loro piccola azienda, se qui non sarà più competitiva, in Cina, Indonesia o America Latina.

Vincenzo, missionario oblato di Maria Immacolata, italiano che lavora molto nel sociale, mi ha parlato dell’emergenza nascosta di almeno 200.000 ragazzi scappati di casa e mi ha descritto i cambiamenti avvenuti col tempo. All’inizio c’è stata la generazione del «doposcuola»: ragazzi poveri che avevano bisogno di essere aiutati con lo studio per uscire dalla povertà. Quando la società si è arricchita è arrivata la generazione del «rifugio»: ragazzini che magari scappavano di casa per conflitti familiari, ma ancora capaci di ascoltare l’autorità e di farsi aiutare. Solo cercavano un rifugio (shelter in inglese) dove poter stare.

Adesso c’è la generazione del «telefonino»: per loro è importante solo il momento presente. Perché studiare o sforzarsi di migliorare? Vivo adesso e il mio orizzonte è quello che posso godere in questo momento. Sì, questa è l’emergenza, ma non è lontanissima dal sentire del giovane medio.

Sone periferiche e povere di Seul

I giovani coreani amano lo sport: il baseball, lo sport più popolare, riempie gli stadi. Vanno alla grande le bands di teenagers che cantano e ballano, per non parlare delle telenovelas e dei film locali. Questi cantanti e attori sono popolarissimi anche nel resto dell’Asia, tanto che è stata coniata una nuova parola: Hallyu, cioè l’onda culturale coreana che si spande per l’Asia. E non dimentichiamo il karaoke (qui si chiama norepang), uno dei divertimenti più popolari in Corea. In questo momento quello che corrisponde alle nostre pizzerie sono i ristorantini di pollo fritto e birra, sempre pieni di giovani universitari.

In Italia tutti sono orgogliosi di sfoggiare la tintarella. Le ragazze coreane invece no. La sfida è essere più bianche delle altre. E allora quando splende il sole tutte in giro con l’ombrellino o un cappello a larghissime tese. E poi creme sbiancanti e creme antisolari. La bellezza qua è un valore importante, quindi le vedrete sempre truccate in modo impeccabile. Dal resto dell’Asia vengono in Corea per comperare i cosmetici locali che sono molto rinomati. E non parliamo della chirurgia plastica: molte volte il regalo dei 18 anni o per aver passato l’esame di ammissione all’università è proprio un ritocchino al naso, al mento o agli occhi.

E in Chiesa? Purtroppo, adesso sembra di essere in Europa: i giovani sono molto rari. Fino al 2000 non era così. Ma poi la denatalità (che è più alta di quella italiana: 9 nati ogni mille abitanti in Italia; solo 8 in Corea), il benessere, o forse «la notte della cultura occidentale» sono arrivate anche qui. Sta di fatto che dal 2000 le vocazioni religiose, una volta abbondanti, sono crollate drammaticamente, e anche quelle per il sacerdozio diocesano stanno mostrando segni di crisi. Ma mai disperare, i coreani possono essere tutto e il contrario di tutto, questo popolo ha fatto stupire il mondo in più di una circostanza, e sono sicuro che i nostri giovani ci stupiranno nuovamente.

G.P.L.


Corea del Sud su MC:

Crogiuolo di religioni, 11/2010
A Seul si dorme poco, 10/2010
Consolazione di frontiera, 11/2012
Una storia affascinante! 25 anni di presenza per gli IMC, 1-2/2013
Venerando Dio in te… buongiorno!, 4/2013
Speriamo non arrestino il batterista, 3/2014
Isaac e Cristina oggi sposi, 3/2014
La Consolata si è fatta coreana, 10/2015
Good morning Korea, 1-2/2017
L’ospite d’onore, 11/2017.