Israele: Come si vive vicino a Gaza


La mia camera è un bunker

In Israele, chi abita lungo il confine con Gaza ha una vita particolare. Razzi e palloncini incendiari diventano «normalità». Così occorre attrezzarsi per non morire. Ma c’è una donna che vorrebbe tornare a quando gli abitanti dai due lati del muro si frequentavano. Un sogno o un futuro possibile?

Testo e foto di Valentina Tamborra

Il 2 gennaio 2019 l’esercito israeliano ha completato la barriera marina che separa Gaza da Israele, nella località di Zikim, a Nord di Gaza. Alta sei metri sopra il livello del mare e lunga 200 metri, è stata costruita su un terrapieno artificiale poggiato sul fondo marino, ed è dotata di sensori. Lo scopo della barriera è evitare che si possano scavare tunnel sotto il confine marino. Anche nel Nord di Israele, si sta ultimando un muro che separa il paese dal Libano. Lì sono stati cementati tunnel degli hezbollah, già noti all’intelligence israeliana da quattro anni.

A di là delle misure di sicurezza prese dall’esercito, come vivono le persone che ogni giorno hanno a che fare con la tensione di stare proprio sui confini?

Rifugi anti razzo

Abbiamo incontrato Adele Raemer, insegnante di scuola elementare, segnalata dal quotidiano Haaretz come una fra le dieci persone israeliane più significative del 2018.

Adele vive dal 1975 nel kibbutz Nirim, che dista poche centinaia di metri dal confine con la Striscia di Gaza.

È la fondatrice del gruppo «The movement for the future of western Negev» (Il movimento per il futuro del Negev occidentale) che si occupa essenzialmente dell’area del Negev occidentale, ovvero quella direttamente confinante con Gaza. È la zona dove lo stato ha imposto la costruzione di una «safe room» (camera di sicurezza), in ogni casa. Dal 2011 infatti, per legge, è obbligatorio per tutti coloro i quali vivono entro 4 km dalla Striscia di Gaza, avere una stanza bunker.

Adele ha creato su google maps (programma che permette la visualizzazione geografica, ndr) una «mappa dei fuochi», ovvero degli attacchi di vario tipo, che colpiscono Israele: la aggiorna quotidianamente avvalendosi della collaborazione di tutti gli aderenti al gruppo che, come lei, vivono sul confine. La mappa su google è attiva dall’aprile 2018 e a oggi partecipano alla segnalazione anche persone che ufficialmente non dovrebbero esporsi, come pompieri o esercito.

L’azione di Adele non è passata inosservata alle Nazioni Unite, che lo scorso novembre l’ha chiamata a Ginevra a raccontare ciò che fa, dato l’enorme riscontro che il suo lavoro stava ottenendo su strumenti social quali facebook, sul quale gestisce la pagina «Living on the border with Gaza» (vivere alla frontiera con Gaza).

Una vita sotto tensione

Il suo obiettivo non è però promuovere se stessa o ciò che fa: Adele infatti, vuole solo raccontare lo stato di perenne tensione in cui si vive giorno per giorno a pochi chilometri da Gaza. La sua stessa camera da letto, infatti, è stata colpita da un mortaio pochi anni fa, e lei è viva per miracolo.

Nel kibbutz dove vive, tutti i centri diurni per i bambini, le scuole, sono state fortificate così da renderle dei veri e propri bunker in caso di escalation degli attacchi.

I bunker comunque nulla possono in caso di arrivo improvviso di palloncini incendiari, i quali, se per un adulto non sono mortali, possono provocare gravissime lesioni ai bambini. Si tratta di semplici palloncini, come quelli utilizzati alle feste. Ad essi viene collegata una fialetta di liquido esplosivo che, quando il palloncino tocca terra o viene preso in mano, prende fuoco.

«Ho creato la mappa perché volevo che le persone capissero cosa significa vivere in questa situazione: da entrambe le parti soffriamo, abbiamo paura e la gente non immagina neppure lontanamente cosa significhi essere in uno stato di perenne tensione».

Un missile in camera

Adele ci racconta di quanto accadde circa dieci anni fa, in novembre, un mese prima che suo marito si suicidasse.

Non esistevano ancora le safe room e un colpo di mortaio colpì la loro camera da letto. Adele e il marito si salvarono solo perché in quel momento erano in cucina.

Nel ristrutturare la stanza, Adele scelse di lasciare visibile un segno sullo stipite della porta, là dove il mortaio aveva terminato la sua corsa: «Voglio ricordarmi quanto sono stata fortunata, voglio ricordarmi ogni giorno quanto è bello essere vivi».

Oggi quella camera da letto è diventata un bunker: la finestra è stata cementata, le mura sono spesse il doppio di quelle delle altre stanze.

Stanze prive di serratura però, in quanto in caso di bombardamento è necessario poter intervenire velocemente per estrarre le persone.

Adele ci dice che non è una safe room a far sentire al sicuro chi vive al confine: uno dei timori più forti è quello delle infiltrazioni di estranei. Mi racconta che prima del muro era normale frequentarsi, cenare insieme, condividere una quotidianità senza barriere. Oggi invece, con l’odio e il livore che c’è stato e viene alimentato giorno per giorno, i «vicini» sono persone da temere per entrambe le parti. Così l’idea che qualcuno possa superare il muro, il filo spinato, ed entrare nel kibbutz è la cosa che più atterrisce chi vive sul confine.

Intrusioni, palloncini incendiari, missili: convivere ogni giorno con la paura di sentire improvvisamente una voce femminile registrata che dà l’allarme: «Tzeva adom…tzeva adom…tzeva adom» (colore rosso…colore rosso…colore rosso). Una voce che scandisce quel lasso di tempo brevissimo nel quale puoi rifugiarti nella tua safe room prima che si senta l’esplosione. Dai 4 ai 10 secondi nei quali, se stai dormendo, devi svegliarti, realizzare cosa accade e correre il più velocemente possibile verso la stanza fortificata.

Quando si stava insieme

Nonostante tutto questo, Adele continua a portare avanti la sua idea di coesione: vorrebbe tornare indietro, a quando israeliani e palestinesi si mescolavano, lavoravano insieme. Anche casa sua è stata costruita da palestinesi. Dopo l’ultimo conflitto del 2014, è stato difficile mantenere i contatti, ma Adele continua a comunicare con alcuni giornalisti di Gaza e sta tentando di far arrivare degli strumenti musicali alle scuole elementari della Striscia. «La musica può unire. Non mi illudo, non può abbattere confini ma può forse aprire un dialogo». E sono in molti a pensarla come lei: chi vive a ridosso della Striscia infatti, spera solo in una soluzione di pace.

La costituzione di due stati, Israele e Palestina, non spaventa Adele. A spaventarla è il gioco di potere fra partiti politici dall’una e dall’altra parte del muro. Giochi di potere che non tengono conto delle persone coinvolte, di chi ogni giorno vive nella paura.

Prima di salutarci Adele mi porta a vedere un luogo, proprio accanto alla rete che separa il kibbutz dalla linea di terra che porta a Gaza. Qui, a ridosso del confine, c’è un albero con una targa in pietra: è una lapide. È stata posta a ricordo dei due uomini, due padri di famiglia, morti nel 2014 a causa di un razzo qassam sparato da Gaza. Si erano arrampicati su un palo della luce precedentemente colpito da un missile per ripristinarlo e riportare la luce nel kibbutz.

«È perché non accada più una cosa come questa che continuo il mio lavoro, perché si smetta di morire in modo così stupido: segnalo le esplosioni, i palloncini incendiari, tutto ciò che accade qui a ridosso della Striscia, non per indicare “un colpevole” ma perché si capisca che non è più possibile vivere così. È necessaria la pace, aneliamo tutti la pace. E il silenzio che ci circonda va rotto: solo noi, persone comuni, possiamo farlo, continuando a parlare, a lottare, a dire “ci siamo”».

Il muezzin inizia a cantare: il vento di gennaio porta la sua voce fino a noi. Sono due mondi così vicini che un semplice canto raggiunge e scavalca il muro, le reti, il filo spinato e pervade l’aria.Dal fondo della strada vediamo arrivare tre bambine: avranno dieci o undici anni. Salutano Adele, la abbracciano. Sono sue allieve.

I sorrisi sul volto, il kibbutz che si anima, le persone a passeggio e il sole che inizia a fare capolino da dietro le nubi. È un giorno come tanti, una quotidianità che convive con l’inaspettato, con la paura, cercando però di non farsi sopraffare.

Il muezzin ha finito il suo canto, per Adele è ora di rientrare a scuola, i ragazzi la aspettano.

Nell’aria fredda di gennaio ci salutiamo: «Ciò che accade a Gaza è orribile, ma anche qui non è un pic nic».

Valentina Tamborra

 




Consiglio indigeno di Roraima: «Per la terra e per il rispetto»


Il Consiglio indigeno di Roraima (Cir) riunisce nove etnie. In Brasile, è considerato una delle organizzazioni indigene più attive. Come testimonia anche la vittoria ottenuta per il riconoscimento e la difesa della terra indigena Raposa Serra do Sol. Abbiamo incontrato il coordinatore generale del Cir, Enock Batista Tenente, un Taurepang di 29 anni.

Testo e foto di Paolo Moiola

Boa Vista. Sul murale, al centro del disegno con le piume colorate, è posta la sigla Cir. Sta per «Conselho indígena de Roraima» (Consiglio indigeno di Roraima), la principale organizzazione indigena dello stato amazzonico brasiliano. Formalmente essa esiste dal 1990, ma in realtà è operativa dagli anni Settanta.

Il Cir ha come obiettivo la lotta per garantire i diritti e l’autonomia dei popoli indigeni di Roraima, uno stato che conta (almeno) nove etnie: Macuxi, Wapichana, Ingarikó, Patamona, Sapará, Taurepang, Wai-Wai, Yanomami e Yekuana.

Questa varietà di soggetti fa sì che la struttura organizzativa del Cir sia improntata alla massima partecipazione. Ogni anno si tiene una grande assemblea generale che costituisce il maggiore organo deliberativo. L’ultima – la 48ª – si è svolta al lago Caracaranã, nella terra indigena Raposa Serra do Sol, dall’11 al 15 marzo.

Per parlare del consiglio indigeno e dell’attuale situazione politica brasiliana, nella sede del Cir, a Boa Vista, capitale di Roraima, incontriamo Enock Batista Tenente, che da due anni riveste il ruolo di coordinatore generale, in questo aiutato dal vice Edinho Batista de Sousa e da Maria Betania Mota de Jesus, in rappresentanza del movimento delle donne indigene.

Enock, 29 anni e 3 figli piccoli, ci accoglie nel suo ufficio «da bianco» indossando però un copricapo di piume colorate.

«Senza terra non esistiamo»

Enock, a chi è venuta l’idea del Conselho Indígena de Roraima?

«Il Cir è stato creato dai nostri leader con una partecipazione importantissima della Chiesa cattolica. Oggi esso coordina 237 comunità in 11 regioni dello stato di Roraima».

Quali etnie sono rappresentate nell’attuale coordinamento generale del Cir?

«La giunta è composta dal sottoscritto Taurepang e da due Macuxi, Edinho e Maria Betania».

Taurepang e Macuxi, dunque. L’organizzazione però abbraccia altri gruppi indigeni.

«Certo. Il Cir raggruppa nove diverse etnie sotto una sola bandiera e con tre obiettivi: terra, educazione e salute. È una lotta dura visto che l’attuale congiuntura politica non è favorevole per i popoli indigeni. Anche se, per la prima volta, abbiamo eletto una deputata federale, Joênia Wapichana».

La terra rimane sempre la vostra priorità?

«Il nostro territorio è per noi il bene più prezioso. Senza territorio non possiamo avere né salute, né educazione. In una parola non esistiamo. Per questo siamo sempre pronti a dare la vita per la terra».

In che modo? Percorrendo quale strada?

«Non tirando le frecce, perché occorre sempre rispettare la vita del prossimo, sia esso un indigeno o un non indigeno.

Noi chiediamo che ci vengano assicurati i diritti garantiti nella Costituzione federale del 1988. Abbiamo persone preparate in legge per aiutarci in questo.

Noi non abbiamo invaso la terra di nessuno: chiediamo soltanto rispetto. Di essere rispettati nel diritto a vivere nel nostro territorio. Di essere rispettati come società, come esseri umani e come indigeni. E qui intendo dire Macuxi, Wapichana, Ingarikó, Patamona, Sapará, Taurepang, Wai-Wai, Yanomami, Yekuana».

È corretto dire che la diversità indigena è anche una diversità tra indigeni?

«Il Cir non ha una sola identità. Per questo è stato capace di unire le identità di nove popoli differenti. Perché non va dimenticato che noi siamo differenti: un Taurepang è differente da un Macuxi, un Macuxi è differente da Wapichana e così via. Eppure questa organizzazione è capace di unirci tutti in un luogo, in una sala per discutere della nostra vita. Il Cir è un’università e un tribunale: è tutto per noi».

Da fuori, cioè dal mondo non indigeno, vengono i garimpeiros e le grandi opere. Che ne pensa il Cir?

«Che non vogliamo i grandi progetti che distruggono la natura. Non vogliamo estrazioni minerarie nei nostri territori. Se il grande Creatore ha messo il petrolio sotto la terra è per lasciarlo lì».

Vi accusano di non volere il progresso, la civiltà, il futuro.

«I governanti ci dicono che siamo arretrati. Ma costoro non si sono mai seduti con noi per chiederci cosa vogliamo come società, popoli e individui. Noi non chiediamo cose che vengano da fuori: non ci occorrono quelle per essere felici. Vogliamo valorizzare ciò che esiste nelle nostre comunità: la nostra cucina, le nostra medicina, i nostri canti, le nostre danze. Soltanto questo e nulla di più».

Ci dica di Joênia.

«Nella elezione della dottoressa Joênia si è riflessa la nostra forza e unità. È un risultato ottenuto con molta lotta, ma soprattutto senza comprare voti e senza corruzione. Lei è la nostra deputata. La sua elezione è una cosa molto buona per noi».

Come la quasi totalità dei leader indigeni, anche lei pare avere una pessima opinione dei politici brasiliani. Adesso anche Joênia è un rappresentante politico.

«La tratteremo non come una politica, ma come una donna indigena. Lei non ha il profilo, la parola o i sorrisi di un politico. I politici hanno ingannato non soltanto la società indigena ma anche quella bianca. Per questo chiediamo a Joênia di comportarsi come un leader indigeno e non come un leader politico. Lei è nata nel movimento indigeno. È stata la prima donna indigena a difenderci nel Supremo tribunale federale nel giudizio sulla Raposa Serra do Sol. Ha appena vinto lo stesso premio che ricevette Martin Luther King» (Enock si riferisce allo United Nations prize in the field of human rights assegnatole il 25 ottobre 2018, ndr).

Enock, con un presidente come Bolsonaro e un Congresso così anti indigeno Joênia non avrà vita facile.

«Joênia è figlia del movimento indigeno di Roraima. E proprio per questo la gente crede nel suo lavoro. Lei non sarà mai sola. Perché noi siamo Joênia».

Paolo Moiola


Joênia Batista de Carvalho Wapichana

Donna, indigena, deputata

© Carlo Zacquini

Molti anni dopo Mario Juruna Xavante, un altro indigeno entra nel congresso brasilano. E, per la prima volta, è una donna.

Mario Juruna

Nata nel 1973, l’avvocata Joênia Batista de Carvalho detiene una serie di primati. Appartenente al popolo Wapichana, nel 1997 è la prima indigena del paese a ottenere la laurea in diritto (prima all’Università federale di Roraima e, anni dopo, anche all’Università dell’Arizona, negli Stati Uniti). Nel 2008 è la prima a difendere un caso davanti al Supremo tribunale federale, il massimo organo giudiziale del Brasile.

Nel 2018 si presenta alle elezioni per il congresso federale con la «Rede sustentabilidade», il partito fondato dalla candidata presidenziale ed ex ministra dell’ambiente Marina Silva. Nonostante lo scarso successo del suo partito, Joênia Wapichana ottiene 8.267 voti, un numero sufficiente per diventare la prima deputata indigena nella storia del Brasile. In precedenza, a Brasilia era arrivato solamente un indigeno: Mario Juruna del popolo Xavante, in carica dal 1982 al 1986.

Per la neodeputata il 2018 si conclude in bellezza: il 25 di ottobre le viene infatti assegnato dalle Nazioni Unite il prestigioso premio per i diritti umani (United Nations prize in the field of human rights), per la sua attività in difesa delle comunità indigene.

Joênia proviene dalla Terra indigena Raposa Serra do Sol, omologata dal presidente Lula nel 2005. Per oltre dieci anni il suo lavoro di responsabile legale del Conselho indígena de Roraima (Cir) ha riguardato la difesa della demarcazione e l’uscita da quei territori dei fazendeiros (arrozeiros, produttori di riso, per la precisione). Oggi si ritrova a difendere quella conquista dalla volontà del nuovo presidente Bolsonaro e del nuovo Congresso di rimettere tutto in discussione.

Paolo Moiola


Governo Bolsonaro, popoli indigeni e Cimi

«Il maggior latifondista del paese è l’indigeno»

In tutte le sedi le posizioni circa i diritti indigeni appaiono inconciliabili.

All’apertura della 40a sessione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (Ginevra, 25 febbraio 2019) Damares Alves, ministra brasiliana della donna, della famiglia e dei diritti umani, ha affermato che i popoli indigeni avranno «uno sguardo speciale» («um olhar especial») dal governo Bolsonaro. Volendo apparire credibile la ministra ha precisato di essere «madre socioaffettiva di una giovane indigena dell’etnia kamayurá».

Le affermazioni della ministra sono state molto criticate dalla delegazione del Consiglio indigenista missionario (Cimi) durante il suo incontro con Michelle Bachelet, alta commissaria dell’Onu per i diritti umani. «Sottolineiamo che le popolazioni indigene non vogliono una relazione socioaffettiva con lo stato brasiliano. I popoli indigeni non vogliono essere portati a casa alla fine della giornata. Vogliono una relazione (con lo stato) che riguardi i loro diritti», ha detto il responsabile degli affari internazionali del Cimi, Flávio Vicente Machado.

L’onorevole Ms. Damares Regina Alves, Ministero per le Donne, la Famiglia e i Diritti Umani | © UN/Violaine Martin

Il clima che si respira con il governo di Jair Bolsonaro è ben esemplificato da quanto detto da un funzionario della ministra dell’agricoltura Tereza Cristina, proprietaria terriera ed ex presidente del gruppo parlamentare degli agricoltori e allevatori (Frente parlamentar agropecuária). Il suo segretario speciale per le questioni fondiarie, Luiz Antonio Nabhan Garcia, latifondista e presidente dell’Unione democratica ruralista (l’associazione dei grandi proprietari terrieri del Brasile), ha affermato che «il più grande latifondista del paese è l’indigeno» («o maior latifundiário do país é o índio», 22 febbraio 2019).

Potrebbe essere una semplice opinione se non fosse che il ministero dell’agricoltura ha ricevuto dal presidente Bolsonaro (con Medida provisória n. 870 del 1 gennaio 2019) l’incarico per «l’identificazione, la delimitazione, la demarcazione e le registrazioni di terre tradizionalmente occupate da popolazioni indigene». Pertanto, quella di Nabhan Garcia è da considerarsi non tanto un’affermazione personale quanto piuttosto una vera e propria minaccia ai diritti costituzionali dei popoli indigeni del Brasile.

Paolo Moiola

 




Reportage da Kirkuk: I sopravvissuti (alla follia dell’Isis)


L’Isis ha portato distruzione, morte e follia non soltanto a Mosul. Siamo andati nella città petrolifera di Kirkuk, a lungo contesa dalle varie fazioni in lotta, per incontrare i sopravvissuti della guerra. Molti altri vivono nei campi profughi (a volte da anni) in attesa di capire la loro sorte.

testo e foto di Angelo Calianno

Sono passati quasi 5 anni dalle invasioni e dai massacri dell’Isis in Iraq. Dal 2017 la presenza degli uomini del Daesh è stata notevolmente ridimensionata fino a ridursi a poche frange che combattono ancora in Siria. Alcune tra le città precedentemente occupate – come Sinjar, Mosul, Kirkuk – sono state riconquistate, anche se sono andate semidistrutte durante le battaglie per riperderne il controllo.

Dove sono oggi tutti quegli uomini e donne che hanno combattuto contro l’Isis? Dove sono e cosa fanno oggi le persone sopravvissute a maltrattamenti, abusi e violenze? Ci sono ancora cellule dormienti dell’Isis? Dove sono gli accusati di collusione con i terroristi dello Stato islamico?

Tra Erbil, Mosul e Kirkuk incontro alcune delle persone che hanno vissuto quei giorni, che hanno perso molti dei propri cari durante gli scontri e gli attentati di questi ultimi, tremendi anni.

Il petrolio (come sempre)

Uno dei più grandi obiettivi del Daesh durante la sua prima comparsa è stata proprio Kirkuk.

Questa è oggi una città di circa 600 mila abitanti di diversi credi religiosi, tra cui sunniti, sciiti e cristiani. L’importanza della città risiede nel suo sottosuolo, uno dei più ricchi e antichi giacimenti di petrolio del Medioriente. Una stima dello scorso novembre ha calcolato che, se si estraesse tutto il petrolio greggio da quest’area, la sua quantità ammonterebbe a oltre 9 miliardi di barili: questo dice molto sul motivo per il quale sia stata così contesa.

I terroristi del califfato sono arrivati a Kirkuk e nella sua provincia nel 2014. La regione è stata strenuamente difesa dalle milizie curde dei peshmerga che l’hanno contesa all’Isis fino al 2017. Anche lo stato semiautonomo del Kurdistan avrebbe voluto, in qualche modo, annettersi i giacimenti di petrolio ai suoi territori. Nel 2017, le milizie sciite del governo iracheno però sono entrate in città con i carri armati a riprenderne il controllo.

Si è sfiorato un altro conflitto interno tra curdi iracheni e iracheni, diversi civili sono stati feriti e tantissimi curdi, inclusi i peshmerga, hanno ripiegato verso la capitale Erbil, lasciando definitivamente Kirkuk nelle mani di Baghdad.

A Kirkuk

Arrivo nella zona di Kirkuk in auto con Ahmed Salah, un militante peshmerga che ha combattuto un po’ ovunque sul fronte anti Isis. Alcuni dei suoi zii e cugini sono morti proprio in questa zona, durante i primi scontri contro gli uomini dello Stato islamico.

Per arrivare qui da Erbil abbiamo attraversato tre check-point, uno peshmerga e due delle forze di sicurezza irachene. «Da questi villaggi e queste campagne – mi racconta -, molta gente si è unita al Daesh. Vedi quella casa? Oggi è tenuta sotto controllo 24 ore al giorno: uno dei ragazzi che ci abitava con la sua famiglia era un terrorista, oggi è in carcere. Ha molti fratelli e si teme che alcuni di loro possano far parte delle cellule dormienti».

Pensi ci siano molte persone che segretamente ancora supportano l’Isis?, gli chiedo. «Io penso di sì, lo pensa anche l’intelligence, vedi quel ragazzo ad esempio?».

Mi dice indicando un ragazzo vestito con abiti tradizionali, barba lunga e con visibili problemi di ritardo mentale.

«Il Daesh arruolava molte persone con poca istruzione, gente che aveva problemi mentali o problemi economici. Li indottrinavano con la religione islamica. Io conosco quel ragazzo e la sua famiglia: non si sarebbe mai vestito così prima. È stato arruolato anche lui, poi per il suo chiaro stato psicologico è stato lasciato in pace e riaffidato alla famiglia che comunque è sotto controllo».

Tu hai combattuto un po’ ovunque – dico al mio interlocutore -. C’è stato un episodio che più di altri ti ha segnato? «Ce ne sono stati tanti, uno dei più brutti è stato quando ho trovato mio cugino e mio zio uccisi qui vicino. Tuttora non ne sappiamo il motivo, ma durante l’invasione del Daesh si moriva per niente. Forse però l’immagine che non mi toglierò mai dalla mente è un’altra…».

Ahmed Salah tira fuori il cellulare per farmi vedere alcune fotografie, ritraggono un pickup bianco con quattro cadaveri senza vestiti al suo interno: «Qui eravamo tra Mosul e Sinjar. Avevamo scavato delle trincee per ostacolare qualsiasi attacco potesse arrivare con i mezzi terrestri. Una mattina, all’alba, vediamo questo pickup venire a tutta velocità verso di noi. Non si vedeva nulla per la nebbia e il parabrezza era tutto sporco di terra e polvere».

«Abbiamo aperto il fuoco contro il veicolo che poi si è infossato nella trincea. Quando abbiamo aperto le portiere del mezzo abbiamo trovato loro: erano quattro ragazzini nudi e legati. Sull’acceleratore era stata messa una pietra. Erano sicuramente stati rapiti, avevano subito abusi e poi erano stati lanciati contro di noi. Non siamo mai nemmeno riusciti a fare il riconoscimento dei cadaveri per sapere chi fossero, ma forse per i parenti, in quei giorni, è stato meglio non sapere la fine che avevano fatto i loro figli».

Ahmed Salah mi saluta e si incammina verso casa, ma dopo qualche secondo torna indietro per dirmi qualcos’altro: «Vorrei aggiungere un’altra cosa, un dubbio che per noi è sempre stato importante. All’inizio, durante gli scontri con il Daesh, venivamo continuamente bombardati. I colpi di mortaio si susseguivano notte e giorno, senza tregua. Poi le esplosioni cessavano non appena gli americani mettevano piede nel nostro campo. La stessa cosa accadeva quando dalle nostre postazioni gli americani cercavano di colpire i terroristi, non centravano mai l’obiettivo al primo colpo, ma sempre al terzo o al quarto. Queste coincidenze sono accadute più di una volta e a tutti i peshmerga hanno sempre creato molto sospetto».

Nel nome di Allah

A Kirkuk incontro altri due ragazzi che sono sfuggiti per un soffio alle spedizioni punitive dell’Isis. Essendo cristiani erano uno i primi bersagli da persegure. Il modo in cui sono riusciti a scappare è davvero particolare: «Siamo scappati perché uno dei nostri amici era con il Daesh. Prima di arrivare a Kirkuk ci ha telefonato per avvisarci, così siamo riusciti a fuggire con le nostre famiglie».

Chiedo loro: conoscevate molte persone che si sono unite al Daesh? Se sì, perché lo hanno fatto secondo voi? «Ne conoscevamo diverse, con due in particolare lavoravamo trasportando ortaggi e frutta nei mercati. Sai, all’inizio, quando ne parlavano e facevano le prime riunioni nelle moschee, non sembrava una cosa così grande. Nessuno pensava che saremmo arrivati a questo punto, alla guerra, alle violenze. I miei amici si sono uniti al Daesh perché a loro sembrava una cosa giusta. Erano sunniti. Il governo sciita di Baghdad aveva impoverito le loro famiglie, vedevano la corruzione ovunque. Il Daesh aveva promesso che ci sarebbero stati soldi divisi più equamente nel nome di Allah. Io penso che quando si sono resi conto di quello che sarebbe successo, fosse troppo tardi per tirarsene fuori. Sono riusciti però a salvare noi».

Avete avuto più notizie di loro? «No, penso siano morti. Non sono più tornati a casa e le loro famiglie comunque sono sorvegliate dall’esercito, nel caso dovessero tornare o altri terroristi si facessero vedere».

Gli Yazidi del campo profughi

Gli uomini dell’Isis hanno perpetrato violenze ovunque, ma c’è un gruppo su cui si sono particolarmente accaniti, i credenti di una fede religiosa che i terroristi hanno praticamente decimato. Sono gli Yazidi, ritenuti dal Daesh, per il loro singolare credo religioso, adoratori del diavolo.

Uno degli stermini più atroci che l’Iraq abbia mai vissuto si è consumato a Sinjar. Il 4 agosto 2014 gli uomini del Daesh hanno ucciso 5mila persone, mentre in 7mila sono stati rapiti, la maggior parte donne per diventare «schiave del sesso», e bambini, poi mandati nelle scuole di rieducazione per diventare militanti, erano tutti di fede yazida.

Mirza è una di quelle persone riuscite a fuggire dal massacro. Ha 39 anni, anche se dimostra molto più della sua età. Lo incontro in una tenda nel campo di rifugiati a Shari, nella provincia di Dohuk. L’Iraq ha decine di campi profughi destinati ai cosiddetti «rifugiati interni», quelle persone che hanno perso le proprie case e terre durante il conflitto contro l’Isis. In questo campo sono quasi 5mila. Vivono accatastati in tende consumate dalle intemperie.

Mirza ha combattuto nell’esercito iracheno per 11 anni, per questo, quando l’Isis è arrivato a Sinjar, il suo nome era in cima alla lista delle persone da eliminare. Da 4 anni Mirza vive qui con la sua famiglia. In una delle tende a lui destinate ha aperto un piccolo laboratorio dove ripara apparecchi elettrici. Nel campo tutto funziona solo con i generatori a gasolio. Lo intervisto mentre si riscalda davanti a una stufetta a legna. Fuori ci sono tre gradi e la pioggia battente ha ricoperto le strade del campo di fango.

Mirza, raccontami di come hai fatto a fuggire da Sinjar? In quanti siete scappati? «Prima del 4 agosto 2014, già da giorni sapevamo che il Daesh sarebbe arrivato. Avevo dei conoscenti che si trovavano vicino al loro campo, furono loro ad avvisarci di scappare. Ci dissero che altrimenti sarebbe potuta finire molto male per noi. Con mio fratello prendemmo tutta la nostra famiglia: i nostri figli, mogli, fratelli e sorelle, eravamo in 30, la notte prima che arrivassero gli uomini del Daesh ci nascondemmo in montagna».

Come avete fatto a sopravvivere? Siete più tornati a Sinjar?, gli chiedo. «Ogni notte scendevo nei villaggi a valle per prendere da mangiare, dalle montagne abbiamo poi passato illegalmente il confine con la Siria dove siamo rimasti per tre mesi, poi anche lì la situazione cominciò a peggiorare. Allora sono riuscito a trovare uno smuggler che ci ha portato di nuovo in Iraq e poi in Kurdistan. Abbiamo speso tutto quello che avevamo per il viaggio, 1.000 dollari. Sono in questo campo da allora».

Conoscevi alcune delle persone che si sono arruolate con l’Isis? A molti faccio la stessa domanda, come hanno potuto farlo secondo te? Molte delle persone, prima che arrivasse Daesh, vivevano in pace e non avevano mai fatto del male a nessuno.

«Io penso che dipenda moltissimo dalla loro istruzione ed educazione, da dove vengono, dalle loro famiglie, per molti all’inizio sembrava una cosa buona, nessuno quando si sono arruolati aveva parlato di sterminare gli Yazidi, uccidere i propri amici perché di religione diversa. La propaganda era più religiosa e mirata contro l’invasione occidentale, contro le multinazionali che volevano usare la nostra terra, contro la corruzione. Ogni giorno però la situazione diventava più grave fino ad arrivare a quello che sappiamo oggi. Ci hanno sterminati», mi dice commuovendosi.

«Io conoscevo alcune delle persone che hanno attaccato Sinjar. Molto probabilmente oggi sono morte. Io non ce l’ho con loro. So che sono stati manipolati e che gli hanno riempito la testa di sciocchezze. Però nessuno ci ha difeso, ora con la mia famiglia viviamo qui, senza lavoro, senza futuro. Quest’anno non ci hanno nemmeno consegnato il gasolio per il riscaldamento e da giorni non fa altro che piovere. Io vorrei tornare un giorno a Sinjar, ma oggi Sinjar non esiste più».

Mirza mi racconta che nel campo ci sono anche diverse ragazze che sono state rapite da Daesh e poi segregate a Mosul per essere «schiave sessuali»: «Conosco le famiglie di tutti qui, alcune di queste ragazze, da allora, da quando sono riuscite a scappare, non parlano più, non riesco a immaginare quanto possa essere doloroso solo ricordare quello che è successo».

Bassem, cristiano di Mosul

Spostandomi a Mosul mi ritrovo in una città in rovina. In questi vicoli, oggi devastati dai bombardamenti americani, sono morti insieme agli uomini dello Stato islamico anche migliaia di civili. In alcune di queste case, mi dice la gente per strada, l’Isis teneva segregate sia ragazze che ragazzi per abusare sessualmente di loro. Altri luoghi invece, come chiese e scuole, venivano usati come carceri o stanze per le esecuzioni.

Davanti alla chiesa armena di Etchmiadzin, sventrata dalle bombe americane, incontro Bassem.

Vive in uno stanzino qui accanto, poca roba ammassata sotto un edificio pericolante, lo incontro mentre beve whisky da una bottiglia di plastica con due suoi amici. Molti non musulmani comprano a poco prezzo distillati fatti in casa: per tanti di loro, soprattutto dopo la distruzione di Mosul, è l’unica via di fuga dalla realtà.

Bassem, perché hai deciso di vivere in questo centro storico ormai distrutto?, gli chiedo. «Ho sempre vissuto qui. Non me ne sono andato quando è arrivato Daesh, non me ne sono andato quando gli americani bombardavano e non me ne vado adesso. Poi li vedi quelli?».

Mi dice indicando alcuni ragazzi con un vecchio veicolo a tre ruote: «Girano di edificio in edificio per rubare tutto quello che trovano, soprattutto metalli come il rame. In questa chiesa ci sono ancora candelabri, lapidi, targhe di ottone. Io sono qui per proteggerla».

Bassem toglie il lucchetto della catena che chiude la porta della chiesa. Entrando, tra calcinacci e vetri rotti, solleva il maglione per mostrarmi delle cicatrici sulla schiena: «Un giorno mi hanno portato qui perché hanno trovato a casa mia una parabola per la televisione e dell’alcol. Mi hanno preso a bastonate sulla schiena e lasciato per terra. Non sono riuscito a muovermi per settimane. Ridevano mentre lo facevano e mi sputavano addosso».

Bassem mi mostra altri angoli della chiesa e racconta ancora dei giorni dei bombardamenti. Lo fa con un sorriso abbozzato, con il sollievo di essere sopravvissuto, ma senza molta speranza di vedere una ricostruzione. Dopo aver riconquistato la maggior parte delle città irachene, è cominciata la ricerca dei dispersi, migliaia sono le persone di cui non si ha più traccia.

Tra novembre 2018 e gennaio 2019 sono state trovate oltre 200 fosse comuni contenenti migliaia di cadaveri giustiziati dall’Isis. Al momento sono state scoperte nelle province di Ninive (la maggior parte attorno alla città di Mosul), Kirkuk, Salahuddin e Anba.

Secondo le prime stime dell’Onu, le vittime trovate sarebbero 12mila. Si è cominciato un lento e paziente riconoscimento dei cadaveri che potrebbe portare in futuro a dei processi per crimini contro l’umanità. Tutti gli intervistati mi hanno parlato delle vittime ancora da ritrovare. Nella stessa Mosul, ad esempio, tantissimi corpi si trovano ancora sotto le macerie della città, impossibili da estrarre se non ci sarà una ricostruzione.

Dopo l’Isis: giustizia sommaria, sospetti, paura

Il segno dell’Isis non è stato lasciato solo addosso alle sue vittime. Proprio in questi giorni Human Rights Watch ha pubblicato un dossier che parla di arresti indiscriminati e torture da parte dell’intelligence irachena e di quella curda, ai danni di chi – in qualche modo – ha interagito con gli uomini del Daesh.

Ragazzi che lavoravano nei ristoranti dove gli uomini del califfato andavano a mangiare, musulmani sunniti che praticano un islam più radicale, famiglie di ragazzi arruolati nelle file dell’Isis. Moltissimi vengono arrestati, interrogati, spesso con violenza, e una volta rilasciati, tutta la loro comunità li marchia come terroristi. Tra di loro ci sono molti minorenni, Human Rights Watch, nel suo dossier, riporta che fino a dicembre 2018 il numero di minori detenuti superava i 1.500, di cui 185 condannati con l’accusa di terrorismo. Recentemente, 19 di loro hanno dichiarato di essere stati percossi con tubi di plastica e torturati con scosse elettriche, fino ad essere costretti a confessare di aver fatto parte dell’Isis. Tutto pur di far cessare le torture.

Il terrorismo in queste terre non ha portato solo morte e distruzione ma ha lasciato una scia di paura: la paura di un’altra guerra e che nuovi gruppi di terroristi possano apparire da un giorno all’altro. Questa paura ha fatto chiudere spesso un occhio alle autorità sui metodi usati nelle indagini antiterrorismo, e ha portato ad un sovraffollamento, spesso non giustificato, delle carceri.

Il timore che l’Isis possa tornare ha inoltre insinuato il sospetto della gente nei confronti dei propri vicini di casa, a dubitare dei propri conoscenti, a volte dei propri amici.

Malgrado questo, ogni persona da me incontrata o intervistata mi ha espresso speranza. Non quella di avere una vita migliore o rivivere nelle proprie case ricostruite, ma quella di tornare a vivere in pace, senza paura che il terrore possa tornare a regnare per queste strade.

Angelo Calianno


Yazidi: Il tempio vuoto

Su una montagna, a 60 km da Mosul, sorge il sacro tempio degli Yazidi, dove una volta l’anno i fedeli si recano in pellegrinaggio.
È un freddissimo giorno di febbraio, piove da molti giorni, ci togliamo le scarpe per camminare nella parte sacra del tempio, sentendo la pietra bagnata e gelata del pavimento delle ampie corti. Uno dei sacerdoti mi mostra il pozzo sacro: «Qui – mi racconta -, è dove tutte le ragazze, dopo essere scappate o liberate dalla cattività dell’Isis, vengono per purificarsi, per essere di nuovo pulite».

Come mai è così vuoto il tempio?, chiedo. «Da quando è arrivato l’Isis il numero di chi viene al tempio è sempre minore, persino nelle nostre festività principali ho visto centinaia di persone in meno. Tutto questo è il frutto dei massacri e anche della fuga di tanti nostri fedeli all’estero».

Si è stimato che su quasi 600mila yazidi, 100mila siano fuggiti all’ estero durante i primi attacchi dello Stato islamico. Oggi 6.500 sono le persone, per lo più donne, che portano il peso e i segni della cattività, durata in alcuni casi 3 anni. Sopravvissute ai rapimenti, agli stupri sono passate da questo tempio per lavarsi via la violenza, per ricominciare una nuova vita.

A.Cal.

 

Archivio MC: sulla vicenda degli Yazidi la rivista ha pubblicato un dossier uscito a marzo 2017 e firmato da Simone Zoppellaro.

 




Il superamento del paternalismo

Popoli indigeni e missionari


Un tempo era considerata una cosa normale: la benevolenza dei rappresentanti di una cultura ritenuta superiore (i missionari) verso quelli di una cultura considerata inferiore (i popoli indigeni). Un atteggiamento errato, spiega padre José Auletta, 43 anni di lavoro tra gli indigeni dell’Argentina. Oggi la strada è una soltanto: quella della reciprocità e dell’interculturalità. Un cambio di prospettiva che ha suscitato il fastidio del potere politico ed economico.

Testo di Paolo Moiola

Giuseppe o, come lui preferisce farsi chiamare, José Auletta, missionario della Consolata, lavora in Argentina dal 1976. In questi 43 anni si è occupato principalmente – e con una grande partecipazione emotiva – della causa indigena. È membro dell’Equipo nacional de pastoral aborigen (Endepa) e per l’organizzazione è responsabile della regione del Nord Ovest.

Da circa quattro anni padre Auletta risiede nella capitale, la più bianca ed europea delle città argentine. Un po’ fuori dall’azione, osservo malizioso. «No – risponde lui -, perché, come si dice qui, “Dio è ovunque, ma governa da Buenos Aires”».

Il missionario segue i progressi – minimi, in realtà – della legge 26.160 che riguarda il possesso e la proprietà delle terre da parte delle comunità indigene originarie. Inoltre, lo scorso settembre è stato a Ginevra per presentare il rapporto (alternativo a quello dello stato) di Endepa alla 64ª sessione del «Comitato per i diritti economici, sociali e culturali» delle Nazioni Unite.

Insomma, padre Auletta svolge un indispensabile lavoro di relazioni politiche e di comunicazione in un periodo nel quale l’Argentina attraversa l’ennesima pesante crisi economica e sociale ed è in attesa delle elezioni presidenziali del prossimo ottobre.

 

Il modello estrattivista: dalla soia al litio

I 31 popoli indigeni dell’Argentina hanno caratteristiche diverse, ma sono tutti accomunati da un problema: la restituzione o il riconoscimento giuridico e amministrativo della propria terra. «Una terra benedetta – precisa padre José – per tutto ciò che essa significa nella cosmovisione indigena, a livello vitale, culturale, spirituale, identitario».

La legge 26.160 è importante proprio perché prevede la sospensione degli sfratti e un’indagine catastale sui territori indigeni. I quali – nell’incertezza normativa data dalla mancanza dei diritti di proprietà – rimangono in balia delle mire espansionistiche dell’agrobusiness e delle società estrattive. Gli esempi più macroscopici sono quelli legati alla diffusione della monocoltura della soia (transgenica) e delle miniere di litio.

A partire dagli anni Novanta l’espansione della frontiera della soia nelle province di Salta, Santiago del Estero, Formosa e Chaco ha prodotto l’espulsione, l’allontanamento o la marginalizzazione di migliaia di famiglie di campesinos locali, oltre a una gravissima deforestazione e un pesante inquinamento da agrotossici. Rispetto alla soia, lo sfruttamento del litio è più recente (dal 2010), ma è prevedibile un suo rapido sviluppo. Questo metallo – un tempo conosciuto soprattutto in medicina (neuropsichiatria) – oggi è molto ricercato a motivo del suo utilizzo nell’industria elettronica e automobilistica (soprattutto per le batterie delle nuove auto elettriche). Il litio è stato trovato nella regione de La Puna argentina, nelle province di Salta e Jujuy. Oltre a produrre lo stravolgimento dei delicati ecosistemi delle lagune e delle saline che rendono unica la zona, le miniere di litio sottraggono l’acqua alle necessità di sostentamento e lavoro delle comunità locali. Per questo lo scorso febbraio 25 comunità di etnia Kolla hanno fermato i lavori di due imprese – la Ekekos e la multinazionale canadese Ais Resources -, che si dedicano all’estrazione del metallo.

Chiedo a padre Auletta se non sia una romantica idealizzazione il concetto del «buen vivir», che implica l’idea di un maggiore rispetto della natura e dell’ambiente da parte dei popoli indigeni. «No – risponde il missionario -, è un fatto accertato. Endepa infatti non ha esitato a schierarsi con gli indigeni alla luce della parola d’ordine El territorio es vida. Se cuida y se defiende (Il territorio è vita. Si cura e si difende)».

Di certo, una modalità di difesa potrebbe e dovrebbe venire dal «diritto di consultazione e di consenso preventivo, libero e informato» (Consentimiento previo, libre e informado, Cpli), riconosciuto dal comma 17 dell’articolo 75 della Costituzione nazionale. Tuttavia, questo strumento viene sistematicamente ignorato o violato dallo stato argentino.

La resistenza dei Mapuche: morti e arresti

Da Nord a Sud del paese l’offensiva estrattivista non ha cambiato i suoi obiettivi (accaparramento di terre ed estrazione di risorse minerarie), ma a Sud ha trovato sulla sua strada un popolo molto pugnace e determinato: quello dei Mapuche di Chubut e Río Negro, in Patagonia. Come testimoniano le morti dei giovani Santiago Maldonado (28 anni) e Rafael Nahuel (22 anni) e la vicenda – ancora più complicata perché interessa anche il Cile – di Facundo Jones Huala (32 anni). Tutte persone coinvolte in proteste e azioni legate al recupero delle terre ancestrali dei Mapuche.

«Il 2017 è stato un anno attraversato da gravi fatti di violenza. Tra questi va ricordata la repressione effettuata a gennaio dalla Gendarmeria nazionale nel territorio mapuche “Pu Lof in Resistencia”, nella località di Cushamen, provincia di Chubut. E poi una sua ripetizione nell’agosto dello stesso anno, in un contesto nel quale si è prodotta la sparizione e morte di Santiago Maldonado, giovane non mapuche sostenitore delle istanze di questo popolo. Pochi mesi dopo, il 25 novembre, c’è stato l’assassinio di Rafael Nahuel, giovane mapuche della comunità Lafken Winkul Mapu, ad opera di uomini della prefettura navale della provincia del Río Negro».

Padre Auletta non esita quando si tratta di indicare un colpevole. «La violenza che io considero più grave è quella istituzionale dello stato argentino. Da troppo tempo esso viola una Costituzione che riconosce il diritto alla terra da parte dei popoli indigeni. Un diritto che però non si è mai concretizzato, se non in pochi casi».

Facundo Jones Huala e il landgrabbing dei Benetton

Il leader Mapuche,  Facundo Jones Huala, in corte a Valdivia, Cile, il 12/09/2018 arrestato su richiesta del presidente dell’Argentina Mauricio Macri / © Miguel Angel Bustos / Aton Chile / AFP

Nel 2018 la lotta dei Mapuche è stata monopolizzata dalla vicenda del mapuche Facundo Jones Huala, lonko (cacique, capo) del territorio «Pu Lof en Resistencia». Si tratta di circa 1.200 ettari in una terra di proprietà del gruppo italiano Benetton.

Spiega padre José: «Negli anni Novanta i fratelli Benetton acquistarono a condizioni estremamente favorevoli quasi un milione di ettari di terra, senza minimamente considerare l’appartenenza ancestrale e tradizionale di quei territori». In poche parole, una vera operazione di landgrabbing.

Ricercato in Cile, il 28 giugno 2017 Huala è stato arrestato dalle autorità argentine e lo scorso settembre, dopo 14 mesi, estradato. Tre mesi dopo, a dicembre, il tribunale cileno di Valdivia lo ha condannato a 9 anni di carcere per essere stato ritenuto responsabile di un attacco e un incendio (senza feriti) del gennaio 2013 a un fondo agricolo in località Río Bueno (provincia di Ranco, regione di Los Ríos, Cile) durante una protesta mapuche contro la costruzione di una diga sul rio Pilmaiquén. A conti fatti, contro il leader indigeno un processo senza alcuna prova e una condanna spropositata. «Allo scopo – chiosa il missionario – di stigmatizzare e criminalizzare le legittime proteste indigene per il recupero delle loro terre».

La vicenda dei Benetton non è peraltro un’eccezione. Oltre vent’anni fa, il miliardario britannico Joseph C. Lewis acquistò una grande proprietà terriera nella provincia del Río Negro che addirittura impedisce l’accesso a un lago, il lago Escondido.

«Nel 2011 – spiega padre José – fu promulgata una legge (la 26.737, ndr) che poneva limiti all’acquisto di terre rurali. Ciononostante, si continua a permettere che compagnie nazionali e straniere acquistino considerevoli estensioni di terre – con la giustificazione di progetti cosiddetti di sviluppo – in zone abitate da comunità indigene e contadine, provocando esodi forzati e danni ambientali come le deforestazioni».

Dal paternalismo all’interculturalità

La strada che, fin dall’inizio della sua esperienza con i popoli indigeni, padre José Auletta si è proposto di percorrere è segnata da una domanda che è anche un comandamento anti paternalista: «Quanto ancora debbo imparare?».

Tra missionari e popoli indigeni il paternalismo è sempre stato un rischio presente. O incombente.

«Avevamo la pretesa di civilizzare quelli che un tempo – sbagliando – chiamavamo indios. Volevamo essere i maestri. Pensavamo che la nostra cultura fosse superiore. Alla fine abbiamo capito che nessuna cultura è superiore a un’altra. Allora abbiamo introdotto l’idea di “accompagnamento”: ma chi accompagna chi? Occorre introdurre anche il concetto di reciprocità. Ci si accompagna a vicenda: accompagniamo e siamo accompagnati. Tutti siamo discepoli, tutti siamo maestri».

Accompagnatori o accompagnati, maestri o discepoli che siano, missionari come José Auletta si muovono e agiscono per dare forma e sostanza al concetto di interculturalità.

«L’interculturalità – spiega – è la capacità di ascoltare l’altro, sapendo che questo scambio favorisce una crescita e arricchimento reciproci. L’umanità ha impiegato diversi secoli per capire che non esiste un pensiero unico, una sola cultura, una sola storia o un’unica verità. Nel caso dell’Argentina, questo sforzo di comprensione fu fatto, in termini di soggetto statale, grazie alla riforma della Costituzione nazionale dell’anno 1994, che introdusse il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni e il rispetto della loro identità, sancendo in tal modo la nascita dell’Argentina come paese plurietnico e multiculturale».

Parole belle e condivisibili, ma l’obiezione è tanto immediata quanto banale: permane una grande distanza tra le dichiarazioni teoriche e una realtà quotidiana che è dominata da poteri economici e politici sordi, quando non contrari, a simili istanze.

«Sì – ammette padre José -, è e sarà un percorso complesso, tortuoso e contrastato, in Argentina come altrove. Però l’interculturalità è anche questo: non pretendere di fare di due uno, ma al contrario rispettare ogni parte del tutto».

Paolo Moiola




Attraverso il Niger, Africa «coast to coast»

Testo e foto di Marco Bello |


Il Niger è un paese di origine ma soprattutto di transito di migranti. Molti sono quelli che passano di qui per tentare la traversata del Sahara. Succede che non ci riescano, oppure che vengano respinti e riportati alla frontiera. Il flusso dei «ritornati» è in aumento. La chiesa cattolica del Niger si è organizzata per dare loro un’assistenza più «umana» possibile.

Niamey. La capitale sabbiosa del Niger sta cambiando volto. Nella sua zona centrale sono ben visibili alcuni grandi cantieri. Enormi edifici in costruzione, hotel e palazzi governativi di un’altezza mai vista qui, e poi il terzo ponte sul fiume Niger.

Guardando bene vediamo molti cinesi al lavoro sotto i caschetti gialli, e in alcuni cantieri sventolano bandiere turche. Sono questi i due sponsor ufficiali della speculazione edilizia a Niamey.

Ma in altre zone della capitale ci sono ancora quartieri con le case di mattoni in fango e paglia essiccati (banko), quasi «edifici storici», si direbbe da noi. Case da villaggio si dice in Niger.

Ci spingiamo nella periferia Est. In questa zona relativamente recente ci sono case basse e qualche edificio più alto, di banche o compagnie telefoniche. Noi cerchiamo i locali della parrocchia San Gabriel Garbado, della chiesa cattolica, minoritaria nel paese a grande maggioranza musulmana. A San Gabriel, l’arcidiocesi di Niamey – una delle due del paese, l’altra è la diocesi di Maradi – ha concentrato le attività di accoglienza e ascolto per i migranti.

Entriamo nella bassa costruzione in colore ocra, quasi mimetica, e nel cortile interno incontriamo Laurent Tindano, l’animatore principale della pastorale migranti. Laurent è un migrante lui stesso, perché burkinabè, ma vive qui da decenni e si sente nigerino a tutti gli effetti.

Un centro di ascolto

«Questo è un piccolo centro di accoglienza. Con pochi mezzi facciamo un accompagnamento dei migranti.

Ci occupiamo di coloro che stanno ritornando, dopo aver attraversato il deserto e tentato di passare il mare, senza successo, e ora vorrebbero rientrare nei loro paesi. Arrivano a Niamey sfiniti, privati di qualsiasi mezzo, smarriti e traumatizzati dell’esperienza durissima. Noi li accogliamo, ma non facciamo un lavoro amministrativo.

Parliamo con loro, li riceviamo come fratelli, non come stranieri, dando loro valore umano. Lasciamo tutto il tempo per parlare e cerchiamo di creare un rapporto di fiducia. Così ci raccontano il loro vissuto.

Li compatiamo nella loro sofferenza.

Quando un essere umano sente che lo capite, vi dà fiducia, e accetta di aprirvi il suo cuore e vi dirà molte cose. È diverso dal fargli delle domande per compilare un formulario».

Al centro di Garbado viene dato ai migranti anche un piccolo aiuto materiale «per facilitare il loro passaggio»: qualche soldo, una coperta, un kit igienico. Una volta la settimana un medico volontario visita le persone di passaggio. E, grazie alla convenzione con una farmacia e una clinica, si riescono a dare farmaci e far visitare i casi più gravi.

Un fenomeno nuovo

Laurent ci racconta che tutto è iniziato intorno all’anno 2011: «Con gli avvenimenti della Libia, del Mali e della Costa d’Avorio, alcuni sbandati arrivavano a Niamey e cercavano una parrocchia, perché è noto che dove c’è la chiesa è probabile ricevere un aiuto. Il fenomeno era nuovo e creammo dei comitati in ogni parrocchia. Ma poi ci rendemmo conto che c’erano migranti che facevano il giro. Si decise di concentrare l’attività a Garbado, che è in un luogo logisticamente vicino alle stazioni degli autobus di lunga percorrenza».

Gli chiediamo perché l’accoglienza è in prevalenza a chi torna dal tentativo di traversata. «Quelli che partono verso il deserto di solito sono in forma e hanno ancora il morale alto e mezzi economici. Hanno meno bisogno di noi. Inoltre noi siamo per la libertà di circolazione. Se ci chiedono informazioni sulla strada, diamo loro almeno qualche indicazione sui pericoli della traversata».

Seduto su una panca, poco più in là, sotto la tettoia di lamiera che ora ripara dal sole implacabile e per (soli) tre mesi all’anno dalla pioggia torrenziale, sta Micheal Johnson. Liberiano, di 37 anni, Michael è un vero globe trotter dell’Africa. Ma non per turismo.

Michael il «globe trotter»

Durante gli anni ‘90 in Liberia infuria una cruenta guerra civile (dall’89 al 2003 con una pausa nel ‘97-‘98). Come molti suoi connazionali Michael fugge e si ritrova in Costa d’Avorio, in un campo profughi. Nel paese lavora per dieci anni. Parla molto bene anche il francese. «Finita la guerra sono tornato nel mio paese, ma ho visto che la situazione era pessima. Volevo qualcosa di meglio dalla vita. Allora sono ripartito».

Michael passa da Guinea, Senegal, Mali, Burkina Faso e poi Niger. Da qui arriva in Ciad e si dirige verso il Sudan. «A questo punto è stato molto difficile. Ad Abéché ho trovato molti altri migranti che facevano il mio stesso viaggio. Siamo partiti insieme con un camion, ma passata la frontiera, verso le tre di notte, ci hanno assalito i ribelli Janjawid». Michael si trova nel Darfur. I ribelli sparano ai pneumatici del camion, fanno scendere tutti e puntano un’arma alla testa dell’autista. «Ci hanno fatti sdraiare nel deserto, hanno iniziato a torturarci e ci hanno preso tutto». Poi compare una pattuglia di caschi blu della missione di pace Onu, Unamid, che, sparando in aria, mette in fuga i Janjawid. Michael e gli altri sono salvi.

I caschi blu recuperano i malcapitati e li portano alla città di Al Fasher. «Hanno visto che non avevo nulla e mi hanno pagato il biglietto dell’autobus per Khartum. Il mio obiettivo era andare in Arabia Saudita».

A Khartum Michael non conosce nessuno, però da viaggiatore ormai esperto, si infiltra nel campus universitario, dove si riesce a vivere con poco e si trova sempre qualcuno che ti aiuta. «Sapevo dell’esistenza dell’università Jama Africa. Ci sono rimasto qualche tempo, intanto ho cercato un lavoro perché avevo finito i soldi». Appena ha abbastanza soldi Michael si rimette in viaggio e è arriva a Port Sudan, città sul Mar Rosso.

Ultimo passaggio

«C’erano delle barche che attraversavano il mare per andare in Arabia Saudita. Le barche erano sovraccariche. Ho visto gente di Etiopia, Eritrea, Nigeria, Camerun, Mali, Liberia. Ho pagato 1.500 dollari e mi hanno portato in un luogo nel deserto, dove molti altri erano in attesa. Ho così scoperto che c’erano molti migranti clandestini. Ci hanno detto di non farci vedere in città. Dovevamo aspettare di essere 150 per riempire una barca e i trafficanti sarebbero venuti a cercarci. Nel frattempo ci portavano cibo e acqua acquistata in città. Sono rimasto in quel luogo circa un mese».

Poi finalmente una mattina all’una, all’improvviso i trafficanti vanno a cercarli per partire. Ma Michael non ha fortuna. Una motovedetta della guardia costiera saudita blocca la sua nave. Non li fa attraccare e li rimanda in Sudan. Da allora Michael diventa come un pacchetto, espulso dai diversi paesi che ha attraversato. Lo portano a Nguigmi, in Niger al confine con il Ciad.

Ma lui non si arrende. «Allora mi sono detto, passerò dall’Algeria per andare in Francia». Dopo aver lavorato riesce ad attraversare il Sahara e arrivare a Oran, città algerina sulla costa. Qui trova un lavoro per mettere insieme un po’ di soldi ma «una sera, uscito dal lavoro, mi ferma una pattuglia della polizia. Io non avevo i documenti. Mi hanno portato all’ufficio immigrazione. Chiesi che cosa avevo fatto, ma mi dissero che dovevo partire. Volevo passare da casa a prendere le mie cose, ma non lo consentirono». Rinchiuso in un locale con altri clandestini, dopo alcuni giorni Michael viene messo su un camion «quelli che portano fino a 150 persone», e trasferito verso Sud. I migranti respinti sono quindi scaricati in Niger, nei pressi della frontiera. In qualche modo arriva poi a Niamey. «Qui la situazione è peggiorata, non riesco a trovare lavoro. Ho deciso di tornare in Liberia ma non posso arrivare senza un soldo. Nel mio paese la guerra ha rovinato tutto, ha ucciso i miei genitori. Anche per questo me ne sono andato».

Famiglia migrante

Nella parrocchia di Garbado, questa mattina ci sono una decina di persone. Tutti uomini o ragazzi. Unica eccezione è una famiglia, padre, madre e bimba piccola. Accettano di parlarci.

Biko (nome di fantasia) parla un ottimo francese. Lui e la famiglia vengono dal Ciad, in particolare da Ndjamena, anche se, ci tiene a precisare, sono originari del Sud, Doba, dove ci sono i pozzi di petrolio. Lui ha tentato più volte di studiare giurisprudenza all’università, nel vicino Camerun. Prima nel 2007, poi dieci anni dopo. In entrambi i casi ha dovuto lasciare a causa delle cattive condizioni di sicurezza.

Biko è molto critico con il suo paese: «Sono nato nella guerra, cresciuto nella guerra e le conseguenze sono nefaste, non mi hanno permesso di studiare». La famiglia è composta anche da altri tre figli, ci raccontano entrambi, di 10, 6 e 4 anni. L’ultima, qui con loro, ne ha 2. «Sappiamo che è un rischio lanciarsi in una migrazione con una grande famiglia. Ma ci ha spinto il fatto che il nostro paese non è stabile. La gente vive sempre in mezzo a conflitti armati, intercomunitari, c’è la repressione dei governi, la cattiva gestione. Le ricchezze del paese non sono condivise in modo che tutti ne beneficino per vivere in pace».

La moglie, Evelyn, in un francese più impacciato, aggiunge: «Abbiamo lasciato il Ciad per cercare una vita migliore per noi e i nostri figli. Il nostro obiettivo è cercare fortuna in Marocco». E continua raccontando il loro viaggio, iniziato quasi un anno fa: «Siamo partiti da Ndjamena con un camion e siamo arrivati in Nigeria. Poi da lì è stato complicato, anche a causa della polizia. Abbiamo spesso dovuto negoziare e alla fine abbiamo pure perso i documenti». Entrati in Niger si sono diretti a Nord, fino ad Agadez, la città nigerina alle porte del Sahara, nella quale tutti i flussi dei migranti s’incontrano: da Est, da Sud e da Ovest. E dalla quale si parte per l’Algeria o la Libia. Qui, qualcuno in «uniforme» ha avuto compassione della famiglia e ha sconsigliato loro di proseguire: «Con questi bambini farai la loro tomba nel deserto», hanno detto. E poi li ha aiutati a tornare a Niamey.

Tra l’incudine e il martello

«Siamo qui da quasi otto mesi – dice Biko -, i bambini non vanno a scuola, e non abbiamo neppure una casa. Viviamo all’aperto. Quando piove ci lasciano mettere sotto una tettoia adibita a moschea, poi però dobbiamo sloggiare. Non abbiamo provato a fare i visti per il Marocco, perché non so come fare e non ho soldi. Non abbiamo più nulla».

Chiediamo alla coppia se non pensano sia meglio tornare in Ciad. Risponde Biko: «Sì, ma abbiamo paura di quello che succede nel nostro paese, in particolare il terrorismo. Inoltre mi hanno detto che se sei stato all’estero più di tre mesi, quando ritorni ti sospettano di terrorismo. Devi giustificare cosa hai fatto, altrimenti ti sospettano di essere con Boko Haram. Siamo tra l’incudine e il martello».

Il Ciad fa parte della coalizione militare con Niger, Nigeria e Camerun, che combatte i terroristi di Boko Haram (Cfr. MC ottobre 2016). La capitale Ndjamena è molto vicina al Nord Est della Nigeria, zona storica di questo gruppo che ormai interviene nei quattro paesi nei pressi del lago Ciad.

L’amaro in bocca

Dopo aver parlato con diversi ragazzi, ascoltato le loro storie incredibili, di viaggi e di atrocità subite, prendiamo la nostra telecamera e li salutiamo. Sono contenti di aver condiviso la loro storia con noi, nonostante all’inizio ci fosse una certa diffidenza. Ce ne andiamo con l’amaro in bocca, per non potere far nulla di più che scambiare gli indirizzi mail. Biko ci scriverà una mail qualche tempo dopo. Alla fine sono rientrati in Ciad attraverso l’aiuto dell’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni). Ora stanno aspettando degli aiuti per la «reintegrazione».

Epilogo

Torino, due settimane dopo.

È sera. Sto rincasando, quando sul bordo della strada scorgo un ragazzo africano che fa l’autostop. Mi fermo e lo carico.

Mi ringrazia. Subito un odore dolciastro invade l’abitacolo. Deve essere qualche profumo che utilizza. È un ragazzo molto giovane, con lo smartphone e le cuffiette. Come tutti i giovani ascolta musica. Dopo i primi minuti di silenzio gli chiedo come si chiama e da dove viene. «Vengo dalla Sierra Leone e mi chiamo Jo».

«Freetown?», chiedo io. Il nome della capitale del suo paese lo fa sussultare: «Sì – risponde sorridente – la conosci?».

Ammetto: «Non ci sono mai stato, ma conosco dov’è. Io ho vissuto in West Africa, in Burkina Faso». Il giovane si scioglie, nel tempo di un istante si crea una sorta d’intesa. Mi racconta che è in Italia da due anni e due mesi, e lo dice con precisione. Ha fatto il viaggio del deserto e poi del Mediterraneo. Ce l’ha fatta, lui. «Mi trovo bene qui», garantisce in un italiano mediocre.

Le nostre strade si dividono e lo deposito sul marciapiede. È molto contento e non fa che ringraziare. Lo saluto e vado via veloce nella notte. Ma subito penso a Michael, Biko, Evelyn e gli altri. I suoi conterranei che meno di due settimane fa ho incontrato a Niamey. Infognati in una terra di mezzo, senza più soldi e senza speranza. Con il sogno di una vita migliore infranto e nessuna voglia di tornare a casa a mani vuote. Loro non ce l’hanno fatta.

Marco Bello
con la collaborazione di Sante Altizio


Incontro con l’arcivescovo di Niamey

Essere luce nella società

La piccola ma vivace chiesa cattolica del Niger ha due pastori: monsignor Laurent Lompo e mons. Ambroise Ouedraogo. Il rapporto con l’islam è vitale, così come la comunione con le chiese protestanti. L’insegnamento è un canale importante per diffondere i valori della pace e della tolleranza, mentre la Caritas interviene in aiuto di tutti.

Incontriamo monsignor Laurent Lompo nei suoi uffici dell’arcidiocesi di Niamey. Lo avevamo conosciuto nel 2015, fresco di nomina. Lui è il primo vescovo nigerino del Niger (MC dicembre 2015).

Da quando hanno rapito padre Pierluigi Maccalli nella sua parrocchia nei pressi del confine con il Burkina Faso, il 17 settembre scorso, le preoccupazioni sono aumentate. E le riunioni di coordinamento pure. Ha poco tempo, ma accetta di parlare con noi. Notizie del missionario non ce ne sono. O meglio, il silenzio stampa è d’obbligo, per non disturbare eventuali trattative per il rilascio.

Rispetto alla problematica migratoria, cosa fa la chiesa del Niger?

«Sia nella diocesi di Niamey che in quella di Maradi abbiamo creato delle “cellule di ascolto”, per i migranti che passano. Perché il Niger è un paese di passaggio. Molti sono rimandati indietro da Algeria e Libia, tornano qui in capitale ma vogliono ripartire. Noi facciamo la pastorale dell’ascolto. Perché sono persone ferite, e credevano che migrando qualcosa sarebbe cambiato. Ritornano e sono scoraggiati. Il primo aspetto è dunque ascoltarli e ridare loro il gusto della vita e la dignità di persone. Non è perché siamo migranti che non siamo persone. Siamo pellegrini sulla terra e ognuno è chiamato ad andare all’incontro dell’altro. Il fenomeno migratorio che aumenta nei nostri paesi è il segno che le difficoltà portano la gente a cercare qualcosa in più. Ma sarà la migrazione a dare questo di più? Dobbiamo mettere il focus sui nostri paesi e su come fare in modo tale che la vita delle persone sia decente. Affinché il viaggio sia deciso effettivamente perché vogliono partire e non perché non hanno nulla e sono costretti a spostarsi.

Dobbiamo prendere la migrazione in questo doppio senso: chiunque ha diritto di viaggiare, ma se partiamo perché siamo costretti, perché non abbiamo nulla per vivere, forse dovremmo restare, qualunque sia la condizione. La maggior parte della gente che parte non ha mezzi e non sa dove andare. Molti ritornano. È con loro che lavoriamo cercando, con i mezzi che abbiamo, di ascoltarli, aiutarli a ritornare ai loro paesi. Alcuni trovano del lavoro qui, ma in Niger c’è disoccupazione, è difficile. In ogni caso noi cerchiamo di accompagnarli, soprattutto per fare in modo che ritrovino il loro equilibrio come esseri umani».

Come Chiesa, in un paese islamico, cosa fate per il dialogo interreligioso?

«Facciamo molto per il dialogo, soprattutto a partire dalla base, non solo a livello dei grandi leader. Ovvero partiamo dalle persone comuni affinché la coabitazione tra cristiani e musulmani sia buona, si abbia conoscenza di se stessi e dell’altro e ci sia mutuo rispetto. E facciamo molto attraverso una Commissione per il dialogo interreligioso e intra religioso, che ha intensificato i lavori in questi ultimi anni. Nella commissione ci sono cristiani evangelici e cattolici, e lo facciamo in direzione dei fratelli musulmani, che sono più forti. Abbiamo bisogno di stare insieme, perché siamo tutti figli di questo paese e più ci rispettiamo, più la pace avviene nel cuore, più viene nella società nigerina.

Abbiamo fatto diversi seminari su questi temi, uno nel 2016 sul dialogo, e un altro a novembre scorso concentrandoci sulla gioventù, che è uno strato sociale fragile, e manipolabile a tutti i livelli. Diciamo che se i giovani sono integrati, capiscono la propria fede, se hanno un’apertura verso il dialogo, allora noi costruiamo la pace nel nostro paese».

Lavorate molto con i musulmani, e frequentano le vostre scuole?

«Nelle nostre scuole la maggioranza degli insegnanti è musulmana, e non abbiamo avuto mai difficoltà. Tramite l’insegnamento cerchiamo di educare a dei valori che ci permettono di rispettarci gli uni gli altri, e a valori della vita che permettano a questi bambini, finita la scuola, di avere questa apertura.

A livello della Caritas del Niger, lavoriamo molto con i musulmani e i nostri aiuti sono indirizzati a tutta la popolazione senza alcuna distinzione etnica e religiosa. Operiamo per il bene di tutti. E tutti apprezzano questo nostro lavoro ancora di più, perché non facciamo proselitismo».

C’è anche l’islam radicale che si diffonde nella regione. In Niger ci sono stati episodi di violenza anticristiana nel 2015, quando alcune chiese furono date alle fiamme. Cosa fare?

«Sentiamo che un certo islam si sta radicalizzando. La gran parte sono persone che vengono da fuori, legate a certe scuole coraniche. Ma sia da parte del governo che della chiesa, lottiamo affinché l’islam nella sua generalità non prenda la forma dell’islam radicale, per evitare che ci siano dei conflitti. Facciamo questo sforzo. Negli avvenimenti del 16 e 17 gennaio 2015, non abbiamo accusato la comunità musulmana. I responsabili erano persone manipolate. Noi lavoriamo affinché questo non accada, sia da parte dei cristiani, sia dei musulmani, perché il radicalismo si può vivere in tutte le religioni. È la comprensione estremista delle nostre religioni che chiude le porte all’apertura all’altro. La negazione dell’altro rispetto a noi: è questo che porta conflitto. Noi facciamo di tutto affinché questo non capiti, non raggiunga i diversi strati sociali. E vegliamo, nelle nostre due diocesi, che si mantenga tra i cristiani uno spirito aperto e non si generalizzi rispetto all’islam. Il radicalismo, qualsiasi sia il gruppo da cui nasce, diventa un qualcosa che interroga e inquieta».

Mons. Laurent, lei è il primo vescovo del Niger di nazionalità nigerina. Chi sono i cattolici in questo paese?

 

«I cattolici sono presenti in Niger dal 1932 e penso che essi abbiano contribuito molto all’educazione in questo paese. Attraverso l’insegnamento, attraverso il dialogo della vita, la vicinanza alla popolazione. E continuiamo, malgrado il nostro numero limitato, a essere luce in questa società attraverso il lavoro ben fatto, il rispetto e l’accoglienza dell’altro senza pretese di convertire. Proclamiamo la nostra fede in Gesù Cristo che è il centro della nostra vita. Noi cerchiamo di imitarlo vivendo come lui ha vissuto, stando vicini alla gente come faceva lui.

Collaboriamo molto con le altre chiese, le chiese protestanti evangeliche, da qualche anno sentiamo un certo ecumenismo. Questo è importante per noi, perché siamo minoranze in un periodo difficile, allora ci uniamo per proclamare la nostra fede, restando aperti al popolo nigerino. Facciamo questo sforzo e siamo molto contenti della collaborazione con gli evangelici.

Realizziamo diverse attività insieme. Vogliamo che la nostra unità interroghi, in modo da essere portatori della buona notizia in questo popolo».

Che rapporti avete con le chiese vicine?

«Siamo in Conferenza episcopale con il Burkina quindi collaboriamo molto con loro. Abbiamo rapporti con la chiesa della Nigeria. Ci hanno chiesto come fare per vivere ancora più vicini ai nostri fratelli musulmani. Siamo stati io e monsignor Ambroise Ouedraogo (vescovo di Maradi) nella diocesi di Jos e siamo stati meravigliati nel vedere il lavoro che fanno i vescovi. Continuiamo nella stessa linea per essere anche noi portatori di pace nel nostro paese. Collaboreremo, perché condividiamo le stesse esperienze. Abbiamo avuto contatti anche con la chiesa algerina per le questioni della migrazione. Perché loro lavorano sul tema, e il passaggio di migranti in Algeria è importante».

Marco Bello


Archivio MC – Niger

• Marco Bello, «Ci legavano con corde e catene», aprile 2018.
• Marco Bello, Niger, frontiera d’Europa, marzo 2018.
• Marco Bello, Chiesa, dialogo contro terrore, dicembre 2015.




Reportage da Mosul: Le bombe non conoscono religione


Dalla famosa moschea di Al-Nuri, oggi distrutta, Al-Baghdadi ha fatto conoscere al mondo l’Isis (il Daesh). Era il 4 luglio del 2014. Mosul è stata liberata tre anni dopo, il 9 luglio 2017. Di quella città oggi è rimasto un gigantesco cumulo di macerie e migliaia di persone senza casa. E senza attenzione mediatica: Mosul ormai è sparita dalle prime pagine.

Testo e foto di Angelo Calianno

Nell’estate del 2014 gli uomini dell’Isis entrano nella città di Mosul, in Iraq. Dalla grande moschea di Al-Nuri, il terrorista Abu Bakr Al-Baghdadi si autoproclama «Califfo dello Stato islamico» e dichiara il jihad contro l’Occidente.

L’occupazione di Mosul dura tre anni. Anni in cui chiunque non rispetti le rigide regole degli uomini dell’Isis, chiunque non sia musulmano sunnita, chiunque non si vesta in modo appropriato o semplicemente abbia un’antenna satellitare o ascolti musica occidentale, viene severamente punito, torturato, a volte ucciso.

Molti fuggono con la famiglia e chi non ce la fa, cerca di uscire il meno possibile da casa, sopravvivendo come può.

Come la città di Kirkuk per il petrolio, Mosul è una città chiave in Iraq per le sue riserve d’acqua. A circa 50 km da qui infatti sorge la diga di Mosul, la più grande del paese e la quarta in tutto il Medioriente. La diga, che sbarra il corso del Tigri, prima dell’occupazione forniva energia elettrica a due milioni di persone, nonché acqua per l’agricoltura in tutta la provincia. Continuamente a rischio crollo fin dalla sua costruzione, dal 2016 vede delle aziende italiane impegnate nella sua riparazione tra cui la Trevi (di Cesena) e la Bdm (di Roma). Nel 2016, dato l’elevato rischio della zona, gli operai lavoravano protetti da 500 bersaglieri del Sesto reggimento di Trapani (sostituiti da altri reggimenti ogni sei mesi).

Dagli Assiri a Saddam Hussein

La città di Mosul viene finalmente liberata il 9 luglio 2017. La liberazione avviene per mano di una coalizione guidata da raid aerei degli Stati Uniti con il supporto terrestre delle milizie curde dei peshmerga e dell’esercito iracheno.

Quella che verrà denominata «la battaglia di Mosul» dura nove mesi, gli ultimi tre in particolare sono quelli più intensi, con gli scontri più aspri e sanguinosi. Questi mesi verranno poi ricordati come i «100 giorni di Mosul».

Il numero dei «danni collaterali» è drammatico. Non si sa con precisione quanti civili rimangano uccisi durante i bombardamenti, ma le stime parlano di oltre 500 persone decedute e oltre 300 mila senza una casa. Gran parte della città, specialmente il suo centro storico, oggi è un cumulo di macerie.

Fondata dagli Assiri sulle rive del Tigri, poi conquistata dagli Arabi, occupata dai Mongoli, dominata dagli Ottomani, a Mosul hanno convissuto per secoli cristiani, musulmani, yazidi, armeni, curdi ed ebrei. Qui, nel 1743, migliaia di uomini di religioni diverse si coalizzarono e combatterono con successo contro lo Shah di Persia che aveva deciso di invadere la città.

Prima dell’occupazione dell’Isis, Mosul aveva 38 quartieri, ognuno con una propria connotazione e un proprio mercato, un’incredibile alternarsi di moschee e chiese a pochi passi l’una dall’altra, come quelle di Al-Tahira e di San Tommaso. Proprio dell’apostolo Tommaso si dice che sia vissuto qui durante il suo viaggio verso l’India. Qu, inoltre, c’erano gli antichissimi mausolei di Giona e San Giorgio, anche questi distrutti dall’Isis. Conosciuta come «la Città dei profeti», è stata meta di carovanieri e viaggiatori come Ibn Jubayr (1145-1217), che nel suo libro Il Viaggio di Ibn Jubayr, scritto nel 1185, ne descrisse la bellezza e particolarità.

La parola Mosul deriva da Al Mawsil che vuol dire «collegamento» o «unione», perché questo è stata per secoli, un ponte tra Iraq, Turchia, Siria e Kurdistan, almeno fino ai giorni nostri.

Mosul comincia a vivere un grande cambiamento durante il regime di Saddam Hussein. Nel 1980 Saddam dichiara guerra all’Iran e attua quello che diventa un processo di «arabizzazione» dello stato, molte famiglie non sunnite scappano in Turchia e Siria. Inoltre, per non essere inviati in guerra, fuggono oltre confine anche moltissimi curdi e yazidi. In due decenni la popolazione sunnita di Mosul raggiunge l’80%. Questa maggioranza renderà la conquista di Mosul, da parte del califfato, ancora più semplice, come vedremo tra poco.

Raccontare Mosul

Entro a Mosul in automobile. Per arrivarci dal Kurdistan supero cinque check point: due dei quali peshmerga, le milizie curde, uno delle forze di sicurezza irachene e uno dell’esercito iracheno.

Il livello dei controlli di sicurezza è ancora molto alto, in uno dei posti di blocco intervisto Mohammed, un peshmerga che ha combattuto contro l’Isis.

Gli chiedo il perché di così tanta sicurezza, visto che Mosul è stata liberata. «Ci sono – mi spiega – ancora molte cellule dormienti da queste parti, non tutti i terroristi sono stati sconfitti, alcuni semplicemente sono scappati e si nascondono».

«Mohammed, tu sei curdo e peshmerga. Hai combattuto in territorio iracheno per liberare delle città. Tra voi e gli iracheni di origine araba c’è sempre stata un po’ di diffidenza, come ti sei sentito in quei giorni a questo proposito? – gli domando -. E poi quanto è stato difficile combattere contro l’Isis?».

«Hai ragione – replica Mohammed -, tra di noi i rapporti non sono stati sempre buonissimi, ma più per ignoranza. Quando ci siamo trovati a combattere fianco a fianco con i soldati iracheni alla fine abbiamo fatto amicizia, poi noi peshmerga combattiamo sempre contro gli invasori. Quando sono arrivati quelli del califfato per difendere le città sono accorsi vecchi peshmerga da tutti i villaggi curdi del paese, tutti pronti ad andare in prima linea, alcuni avevano 70 anni.

Devo dire che i primi mesi di combattimento sono stati difficili, ma solo per il fatto che loro erano davvero ben armati. Avevano armi automatiche e mezzi pesanti, noi spesso ci guardavamo negli occhi e ci chiedevamo da dove venissero tutte quelle armi, chi le aveva date ai Daesh? Le cose sono cambiate quando siamo stati dotati di Milan tedeschi (razzi anticarro, ndr), allora abbiamo cominciato a respingerli e guadagnare terreno. Gli uomini del Daesh non erano poi questi grandi combattenti, molti di loro erano spesso sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Una volta ben equipaggiati e con l’aiuto del supporto aereo, abbiamo combattuto e vinto».

Quando imbocco la strada principale di Mosul si nota subito la devastazione. L’ingresso è una grande discarica di rifiuti dove pascola qualche capra. Più oltre si vedono gli scheletri dei palazzi sventrati dai bombardamenti.

Il prezzo pagato dai civili

Il mio interprete si chiama Sardar Abudlahh, ha lavorato qui con i giornalisti arrivati durante e dopo la liberazione, mi racconta:

«I giorni dopo la liberazione arrivarono qui in tantissimi, Tv straniere e giornalisti. Entravano in città dentro le jeep dell’esercito e posavano facendosi fotografare con elmetti e giubbetti antiproiettile militari. In realtà poi facevano solo qualche minuto di registrazione e andavano via, pochissimi sono andati tra i vicoli a parlare con la gente di questo luogo, chiedendo quale fosse il loro stato d’animo dopo la liberazione.

Le vittime civili sono state tantissime, Mosul è stata liberata sì, ma a che prezzo? Alla gente che ha perso la famiglia per colpa dei bombardamenti, alla gente che non aveva colpa di questa guerra, quasi nessuno ha chiesto che cosa avesse da dire.

C’è stata anche una grande campagna mediatica attorno a tutto questo. In quei giorni sembrava che l’unica cosa importante da dire fosse: siamo degli eroi, abbiamo sconfitto i terroristi del Daesh e riconquistato Mosul! I giornalisti hanno continuato a venire per i successivi due mesi, poi pian piano hanno cominciato a dimenticarsene, come vedrai tu stesso per le strade».

Nessuno qui chiama gli uomini del califfato «Isis» ma «Daesh» (acronimo di Al Dawla Al Islamiya fi al Iraq wa al Sham, Stato islamico dell’Iraq e della Siria). Per la gente del luogo la parola «Isis» risulta offensiva perché la connotazione «Stato islamico» potrebbe far pensare che tutto l’islam sia coinvolto con il terrorismo. Chiunque incontri ci tiene molto a ribadirmi questo concetto.

Camminando per i vicoli distrutti della città vecchia di Mosul vedo tanti ragazzini che scavano tra le macerie: cercano rame, ferro, acciaio, qualsiasi cosa possano poi rivendere per qualche dollaro.

La settimana prima del mio arrivo, mi raccontano, un bambino di 6 anni è saltato in aria per aver calpestato una bomba, fino a quel momento inesplosa. Questi incidenti sono molto comuni, più volte gli agenti di polizia mi ribadiscono di non entrare troppo all’interno degli edifici crollati, per l’elevato pericolo di esplosioni o cedimenti.

Le storie di Mahmoud e Amir

In uno dei tanti vicoli incontro Mahmoud. Nato e cresciuto qui, non ha mai voluto abbandonare Mosul, mi mostra le cicatrici inferte da un coltello e racconta:

«Queste me le hanno fatte i Daesh, dicevano che i miei pantaloni erano troppo corti, così mi hanno portato nella chiesa armena che usavano per le esecuzioni. Pensavo che mi avrebbero ucciso, poi mi hanno picchiato e con un coltello, mi hanno fatto questi tagli sulle caviglie. Così dovrò ricordare per sempre di indossare pantaloni più lunghi».

Mahmoud conosceva tutti in questo lato della città, camminando per le rovine mi racconta porta per porta la storia delle famiglie che ci abitavano, fino ad arrivare a quella che era casa sua. Anche lui ha perso una figlia, l’ultima nata della famiglia, aveva 5 anni. Mi mostra commosso una piscina gonfiabile, unico oggetto rimasto dei giocatoli della piccola. Subito dopo si fa molto serio e comincia a imprecare contro i terroristi e contro l’America. Urlando mi dice:

«I miliziani del Daesh avevano occupato questa che era casa nostra e poi gli americani con le loro bombe hanno distrutto tutto. Le bombe americane hanno ucciso mia figlia e tanti ancora sono sotto le macerie ed è impossibile tirarli fuori. Perché? Cosa abbiamo fatto noi? Io avevo amici cristiani, eravamo tutti amici, vivevamo in pace, noi non siamo terroristi, perché?».

Ci vuole un po’ di tempo per far calmare Mahmoud e continuare a camminare insieme. Dopo ogni vicolo, a noi si aggiunge qualcun altro: sono le persone che vogliono raccontare la propria storia. Vogliono ribadirmi che loro non hanno niente a che fare con i terroristi estremisti, che l’islam è una religione di pace.

Tra le persone che si sono aggiunte al nostro cammino c’è Amir. Ha lavorato per anni come falegname, anche lui ha perso casa e la bottega durante i raid americani. Amir mi mostra le rovine di una scuola e, con le lacrime agli occhi, mi dice che lì ci andava suo figlio, anche lui morto durante i bombardamenti, aveva 8 anni.

Racconta: «In questa scuola ci andavano sia cristiani che musulmani, siamo sempre stati rispettosi delle idee e religioni altrui, poi sono arrivati i miliziani del Daesh e poi le bombe».

Fa un gran sorriso e conclude: «Le bombe non conoscono religione».

Mentre saluto Amir si avvicina un uomo, si chiama Fares Abdurazal. Mi dice che si è sparsa la voce che sto intervistando persone per la città e vuole raccontarmi anche lui qualcosa.

Storia di Fares

Fares lavora per il municipio di Mosul, si occupa di registrare e controllare gli indirizzi di residenza. Gli chiedo perché Al-Baghdadi e i suoi uomini hanno scelto di conquistare proprio Mosul e come hanno fatto a rimanerci così tanto.

Mi risponde: «Non è che gli uomini del Daesh volessero conquistare solo Mosul, loro volevano conquistare quanto più potevano. Ci sono riusciti meglio qui perché la maggior parte delle persone è di fede sunnita, e purtroppo all’inizio hanno trovato molto supporto in questa maggioranza. Vedi, molti sono in disaccordo con il governo iracheno dominato dagli sciiti. All’inizio tanti hanno visto negli uomini del Daesh la speranza di ristabilire un governo sunnita e un islam più tradizionale. Anche durante il periodo di Saddam si verificò la stessa cosa, essendo sunnita, prese tantissimi voti da Mosul».

«E tu durante giorni delle battaglie dov’eri? Cosa facevi?», gli domando. «Io mi sono dovuto nascondere. Ero ricercato dai miliziani del Daesh come tutti quelli che lavoravano per il governo. Insieme a yazidi e cristiani eravamo il primo bersaglio. Sono scappato con la mia famiglia prima sulle montagne e poi in Kurdistan. Sono tornato perché questa è casa mia e spero che un giorno questa città possa essere ricostruita». Gli chiedo ancora: «Mi hai detto che qui i terroristi hanno avuto molto supporto, so che alcune persone di Mosul si sono arruolate nelle loro file, è vero? Tu ne conosci qualcuno?». «Purtroppo è vero, la maggior parte però veniva dai piccoli villaggi di campagna piuttosto che dalla città, era più facile fare il lavaggio del cervello a loro. Molti poi hanno scoperto quali erano le vere intenzioni dei miliziani del Daesh, hanno visto come agivano, ma a quel punto era troppo tardi per tirarsene fuori, ora sono morti o in galera. Io ne conoscevo alcuni, si sono uniti ai terroristi perché erano ignoranti, noi sapevamo che sarebbero stati una disgrazia. Hanno portato anche vergogna alle loro famiglie perché adesso anche loro sono sotto controllo, 24 ore al giorno. Magari sono innocenti, ma il governo teme che si risveglino cellule dormienti e io so che ce ne sono ancora tante».

«Tu lavori per il governo locale, c’è un piano di ricostruzione?». «Una proposta per un piano di ricostruzione venne fatta subito dopo la liberazione ma, come vedi, non è stato fatto nulla. Non penso che il governo iracheno riuscirà mai a ricostruire qualcosa senza un aiuto dall’estero, ma penso che nemmeno quello arriverà. Sembra che si siano tutti dimenticati di Mosul». Poi aggiunge: «Io credo che sia l’America quella che dovrebbe ricostruire Mosul. Io non ce l’ho con gli americani, ma sono loro che hanno distrutto la città con i bombardamenti. È vero: ci hanno aiutato a sconfiggere il Daesh, ma non dimenticarti che hanno anche ucciso più di 500 innocenti e tanti sono ancora sotto le macerie. Le chiamano vittime collaterali, ma erano le nostre famiglie e amici. Non ce l’ho con loro, ma chi distrugge poi dovrebbe ricostruire. Sarebbe un bel gesto e per noi vorrebbe dire tantissimo».

Succo di melograno (ma nessuna ricostruzione)

Mosul oggi versa in uno stato di povertà estrema: non essendoci ricostruzione, non c’è lavoro. Sono circa 300mila le persone che sono scappate da qui. Tanti vanno a Erbil, capitale del Kurdistan, sperando di trovare un lavoro, altri tentano di passare illegalmente il confine con la Turchia.

Le Nazioni Unite hanno stimato che per ricostruire la città sarebbe necessario un miliardo di dollari. Purtroppo, Mosul non è l’unica emergenza che necessita di aiuti umanitari in Iraq. C’è un altissimo numero di rifugiati che arriva dalla Siria, senza contare i cosiddetti «rifugiati interni», cioè tutte quelle persone a cui è stata distrutta la casa o il villaggio durante l’occupazione dell’Isis e che – da quattro anni – vivono nelle tende, nei campi profughi.

Una cosa che non ho incontrato a Mosul, a differenza di molti altri luoghi in guerra, è stato qualcuno che mi chiedesse denaro per strada, cosa molto comune in situazioni del genere. Ho trovato invece nei racconti della gente, insieme alla tristezza, molta fierezza. Ho trovato molta ospitalità, gentilezza e anche i primi segni di speranza.

A gennaio 2019 l’Università di Bologna ha annunciato una campagna di scavo archeologico sulle rovine di Ninive, l’antica capitale Assira che sorgeva proprio nell’odierna Mosul.

La Trevi ha vinto un ulteriore appalto per il prolungamento dei lavori sulla diga di Mosul, fondamentale per l’approvvigionamento idrico ed elettrico della città, che – al momento – continua a essere dipendente dai generatori diesel.

Fuori dal centro storico distrutto un piccolo nuovo centro sta rinascendo, i commercianti hanno trovato uno spazio dove sistemare il bazar, i giovani sono tornati a iscriversi all’Università e i ragazzini salgono in cima alle colline per farsi dei selfie con la valle del Tigri alle spalle. Le giovani coppie sulle panchine bevono succo di melograno fresco comprato dai venditori ambulanti, che piano piano stanno riprendendo a vendere i propri prodotti in giro.

Scene di vita normali in un luogo che, negli ultimi anni, di normale ha avuto pochissimo.

Lasciando Mosul, tra i saluti e le raccomandazioni di chi ho intervistato, mi si chiede di raccontare di come sono stato accolto. Mi si chiede di dire, a chi incontrerò, che qui sognano un giorno di ospitare nuovamente viaggiatori e scambiare con loro due chiacchiere davanti a un bicchiere di tè. Sperando che Mosul possa tornare quello che è stata, un collegamento tra genti e culture diverse.

Angelo Calianno

L’autore

Nato a Cisternino (Brindisi), Angelo Calianno da anni scrive da luoghi in conflitto in Medioriente, Asia e Africa. Per MC ha scritto un reportage dall’Afghanistan pubblicato a maggio 2018 e reperibile sul sito della rivista.


Cronologia essenziale

Mosul, non rimasero che macerie

 

  • 1916, Maggio – Alla dissoluzione dell’Impero ottomano, Francia e Inghilterra si dividono i territori del Medio Oriente (accordi di Sykes-Picot). All’inizio Mosul, praticamente più vicina alla Siria che a Baghdad, è sotto il controllo francese. Il crescente interesse per il petrolio iracheno da parte degli inglesi, porta, dopo una serie di trattative, al passaggio della città sotto il controllo del Regno Unito.
  • 1932 – Il Regno Unito instaura una monarchia sotto il proprio controllo. Nasce lo stato dell’Iraq.
  • 1950 – Dopo la creazione di Israele, le famiglie ebree di Mosul lasciano la città per emigrare nel nuovo stato.
  • 1967 – Mosul fonda la sua Università, la seconda più grande in Iraq dopo quella di Baghdad.
  • 1979, Luglio – Dopo diversi tentativi di colpi di stato sin dalla fine degli anni ‘60, il governo iracheno viene rovesciato da Saddam Hussein, che rimarrà al potere per oltre 20 anni. Di fede sunnita, Saddam riceve molti consensi dalla città di Mosul.
  • 1980, Settembre – L’Iraq dichiara guerra all’Iran (sciita). Molti dei curdi (soprattutto di fede cristiana), sciiti e yazidi, fuggono da Mosul per non essere mandati al fronte. La maggior parte si rifugia in Siria e Turchia.
  • 2003, Marzo – Gli Stati Uniti e gli alleati invadono l’Iraq (seconda Guerra del Golfo). Oltre Baghdad, gli altri punti cardine dello stato sono Kirkuk, per le risorse petrolifere e Mosul per quelle idroelettriche, petrolifere e logistiche. I dintorni di Mosul sono teatro di scontri tra le forze leali a Saddam Hussein e i soldati statunitensi, coadiuvati dalle milizie peshmerga. Nell’aprile 2003 le forze governative irachene sconfitte abbandonano Mosul. Le forze speciali americane tengono sotto controllo la città per poi lasciarla sotto il presidio peshmerga.
  • 2014, Giugno – Gli uomini dell’Isis occupano Mosul e ne fanno la loro capitale simbolica. Rimangono nella città fino alla sua liberazione del luglio 2017. Durante questa occupazione stilano una propria «Costituzione» da far rispettare agli abitanti della città. Per chi si oppone sono previste punizioni fisiche e detenzione; per le violazioni giudicate più gravi, si viene giustiziati.
  • 2017, Luglio – Dopo mesi di assedio, Mosul è liberata. Difficile dare una stima della sua popolazione attuale: un grande numero di persone, registrate come residenti, in realtà si è spostato a Erbil, per cercare lavoro, o illegalmente in Turchia. Le ultime stime del 2017 contavano 1 milione e 377 mila abitanti; altri 700 mila sono scappati o sono stati uccisi durante la guerra contro l’Isis. Oggi la maggior parte della città e della sua economia sono da ricostruire.

Angelo Calianno

Fonti: BBC World, Washington Post.


I protagonisti della battaglia di Mosul

Al-Baghdadi, i Peshmerga e gli altri

Al-Baghdadi – Il suo vero nome è Ibrahim Awwad Ibrahim Al-Badri, nato a Samarra in Iraq nel 1971. Al-Baghdadi nasce da una famiglia della classe media irachena di fede sunnita. Cresce in un sistema sociale tribale diviso in clan, il suo in particolare si dichiara direttamente discendente del profeta Maometto. Per la sua stretta osservanza delle regole islamiche viene soprannominato dai suoi familiari «il credente». Prosegue poi gli studi della fede islamica fino a prendere una laurea con specializzazione sugli studi coranici all’Università di Baghdad. Dopo la laurea insegna in alcune moschee attorno Baghdad, ma nel 2003 Al-Baghdadi diventa a tutti gli effetti un militante combattente. Viene successivamente arrestato a Falluja e imprigionato per 10 mesi a Camp Bucca, prigione irachena gestita dagli Usa.

Durante la prigionia predica il Corano con lunghi sermoni sull’islam e la guerra contro l’Occidente, proprio in carcere comincia ad avere i primi seguaci. Durante la detenzione conosce anche alcuni di quelli che successivamente saranno i suoi uomini in Siria. Una volta libero, combatte in Siria a fianco del gruppo terrorista Al-Nusra. Fonda l’Isis, che, dopo varie divergenze, viene espulso da al-Qaeda.

Il nuovo gruppo comincia a conquistare territori nell’Est della Siria e nell’Ovest dell’Iraq, fino a Mosul, dove – nel luglio del 2014 – Al-Baghdadi, davanti alle telecamere, si auto proclama Califfo dello Stato islamico.

Nell’estate del 2017 la Russia dichiara la morte di Al-Baghdadi, ucciso in un raid aereo a Raqqa, in Siria. Tuttavia, non ci sono prove evidenti. Il 23 agosto 2018 viene divulgato un audio con la voce del leader dell’Isis che incita alla lotta contro gli infedeli. Anche se l’audio non è mai stato autenticato, molti pensano che Al-Baghdadi sia ancora vivo e si nasconda tra Siria e Iraq.

Peshmerga – I peshmerga sono dei combattenti e guerriglieri curdi. Il loro gruppo pare si sia formato dopo il crollo dell’Impero ottomano agli inizi del 1900. Per anni gruppo di guerriglieri indipendenti sono diventati, di fatto, l’esercito della regione indipendente del Kuridstan in Iraq. I peshmarga annoverano tra le proprie file anche diverse donne che hanno combattuto, oltre che contro l’Isis, anche a fianco degli Stati Uniti contro Saddam Hussein nel 2003. La parola peshmerga vuol dire letteralmente «prima morte» e sta a significare la volontà di essere sempre i primi a combattere, a sacrificarsi e pronti a morire.

Italia in Iraq – Il totale delle forze di coalizione anti-Daesh, tra Iraq e Siria, è di 74 nazioni. La presenza italiana è la seconda come numero, subito dietro a quella degli Stati Uniti. Oggi l’Italia ha 700 soldati e 100 carabinieri dislocati su 11 basi. Il contingente italiano si occupa dell’addestramento e formazione delle truppe locali, nonché dello sviluppo e installazione di sistemi di sicurezza. Molti dei peshmarga curdi sono stati addestrati dagli italiani nella base di Erbil.

Coalizione anti Isis – La coalizione per la liberazione di Mosul fu guidata dagli aerei statunitensi con la partecipazione dell’aviazione australiana, il supporto delle forze armate irachene e quelle curde dei peshmerga. Il primo febbraio 2019 l’Australia ha ammesso alla BBC, pubblicamente per la prima volta, che durante l’attacco di Mosul le bombe della coalizione hanno ucciso diversi civili. Amnesty International ha accusato l’esercito iracheno e gli Stati Uniti, per l’enorme numero di civili uccisi durante i bombardamenti e di gravi violazioni dei diritti umani. A oggi non è stato designato alcun responsabile.

Angelo Calianno

Fonti: BBC, The Guardian, difesa.it, Tolo News, The Atlantic.




Iraq: Il ritorno dei cristiani nella piana di Ninive, ricostruire dopo l’Isis

Testi di Marta Petrosillo, foto ACS |


Estate 2014: centinaia di migliaia di cristiani fuggono da Mosul e dalla piana di Ninive. L’Isis ha iniziato la sua avanzata con distruzioni e massacri. Quando la zona viene liberata più di due anni dopo, molti decidono, con coraggio, di tornare. Vogliono ricostruire una presenza cristiana vecchia di duemila anni. In prima fila a sostegno delle popolazioni le Chiese cristiane.

Ritornare a vivere a casa propria dopo l’Isis, dopo l’orrore, dopo aver visto tanti, familiari e amici, abbandonare per sempre il paese, è possibile. Ce lo dimostrano i cristiani iracheni che, nonostante il dolore e l’incertezza, non si sono arresi a chi voleva cancellare la loro presenza da queste terre e oggi sono tornati in gran numero nella piana di Ninive dalla quale erano dovuti fuggire in massa.

Quando è stata liberata tra fine 2016 e inizio 2017, e quando si sono potute constatare le distruzioni compiute, nessuno sperava in un simile miracolo.

Iraq Ninive area Qaraqosh/Bakhdida – ritorno a casa

Tornare in città distrutte

A Qaraqosh, piccolo centro urbano a circa 30 km a Sud Est di Mosul, nel Nord dell’Iraq, noto per essere la roccaforte della cristianità nel paese, si stima che siano ritornati 25.650 cristiani: il 46 per cento di quanti abitavano la cittadina prima dell’invasione dell’Isis nell’agosto 2014.

Notevoli risultati si sono registrati anche in altri villaggi della piana: a Karemlesh, distante 5 km da Qaraqosh, sono rientrati il 26 per cento dei cristiani fuggiti nel 2014, mentre a Telskuf, 60 km più a Nord, i rientri sono stati ben 5.313, ossia il 73 per cento, la quota più alta della zona. Proprio nel villaggio di Telskuf è stata riconsacrata la prima chiesa della piana di Ninive, quella di San Giorgio, danneggiata e profanata dall’Isis. «Un messaggio di speranza e di vittoria. Lo Stato islamico voleva cancellare la presenza cristiana e invece i jihadisti se ne sono andati, mentre noi siamo tornati», ha detto monsignor Bashar Matti Warda festeggiando la riconsacrazione della chiesa l’8 dicembre 2017.

Le Chiese unite per ricostruire

Il processo di ricostruzione ha visto le Chiese irachene in prima linea. L’opera di ripristino e di riedificazione delle oltre 13mila abitazioni bruciate, distrutte e danneggiate dallo Stato islamico, è stata ed è coordinata, infatti, dal Comitato per la ricostruzione di Ninive (Nrc, Nineveh Reconstruction Committee), istituito il 27 marzo 2017 dalle tre Chiese dell’Iraq: caldea cattolica, siro cattolica e siro ortodossa, con la collaborazione della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre.

Ognuna delle tre Chiese ha due suoi rappresentanti nel comitato. Monsignor Timothaeus Mosa Alshamany, arcivescovo della Chiesa siro ortodossa di Antiochia e priore del monastero di San Matteo, dopo la firma dell’accordo ne ha sottolineato la duplice, storica portata: da un lato lo spirito ecumenico, dall’altro la reale possibilità per migliaia di cristiani di tornare alle loro radici e a una vita dignitosa. «Oggi – ha affermato – siamo una Chiesa davvero unita; unita per la ricostruzione delle case nella piana di Ninive, per infondere fiducia nei cuori delle persone che vivono in quei villaggi e per invitare quelli che li hanno lasciati a tornare».

Iraq, Bartela, 10/09/017, distribuzione di piantine di palma alla chiesa della Vergine Maria della Chiesa ortodossa siriaca. © ACS

Ripristinare la dignità

Molti sacerdoti si sono trasformati in ingegneri, architetti e geometri. Don Georges Jahola è uno di loro: è il sacerdote siro cattolico che ha coordinato la ricostruzione di Qaraqosh. Non appena celebrata la messa, don Jahola smette i paramenti e prende il cellulare per seguire i lavori. Gli abbiamo parlato a fine gennaio scorso: «Dopo 2 anni di occupazione dello Stato islamico, al nostro rientro abbiamo trovato quattro chiese bruciate, due siro cattoliche e due siro ortodosse. Abbiamo trovato una chiesa totalmente distrutta, mentre altre erano gravemente danneggiate. Abbiamo celebrato la messa in chiese bruciate. Ora stiamo costruendo e ristrutturando edifici dove poter svolgere catechesi e altre attività pastorali».

La priorità è quella di ristabilire una presenza cristiana, per fare in modo che anche altre famiglie decidano di tornare. «Vogliamo creare spazi per i bambini e per il tempo libero degli adulti e dei giovani», continua don Jahola che ricorda anche le drammatiche condizioni in cui ha trovato Qaraqosh: «Abbiamo visto una città distrutta. Da un lato a causa di oltre due anni di abbandono, dall’altro per via della furia dell’Isis. Il 35% delle case era stato distrutto. Ci siamo spaventati, ma non ci siamo persi d’animo. Abbiamo mappato tutte le case, le abbiamo fotografate, assegnato loro un codice ed elencato i danni di ciascuna. Qui in Iraq se non ci pensa la Chiesa a far fronte alle necessità di questa povera gente non lo farà nessuno».

Oggi, laddove un tempo sventolavano le bandiere nere dell’Isis, sono tornate le famiglie cristiane. «Quasi tutte le parrocchie hanno riaperto – continua don Jahola -. Soltanto due anni fa era impensabile poter ritornare a Ninive. Ma questo significa per noi riacquistare le nostre radici e poter vivere la nostra fede in unione con quella dei nostri antenati».

«Qui c’è il nostro futuro»

Ritornare a casa non è stato semplice per i cristiani. «È stata una ferita al cuore quando ho visto cosa rimaneva della mia abitazione e della mia città», ci confida Wisam, rientrato a Qaraqosh assieme alla sua famiglia dopo aver vissuto da rifugiato a Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno, per oltre due anni.

Ad aiutare Wisam e gli altri cristiani desiderosi di tornare a casa vi è anche Amjeed Tareq Hano, un giovane di 28 anni che aiuta il team di 70 ingegneri al lavoro nella sola Qaraqosh. Sulla sua scrivania un’alta pila di richieste. «Per poter ricevere un sostegno i proprietari devono contribuire personalmente alla ricostruzione o al ripristino – spiega il giovane ad Acs -. Soltanto così possiamo contenere i costi e aiutare altre famiglie».

Amjeed sottolinea come il governo iracheno non abbia affatto sostenuto l’opera di ricostruzione. «Sconfiggiamo l’Isis armati di intonaco e mattoni».

Dopo la presa della piana di Ninive da parte dell’Isis, anche Amjeed ha vissuto con la sua famiglia a Erbil. Non ha mai rimpianto la decisione di rimanere nel proprio paese, in Iraq. «Dobbiamo bollire l’acqua, l’elettricità è prodotta dai generatori e le strade sono piene di buche. L’Iraq è tutto fuorché sicuro, ma questa è la nostra casa e qui è il nostro futuro. E la nostra patria ha estremamente bisogno della presenza di noi cristiani».

Iraq, Qaraqosh, giugno 2018, padre Georges Jahola mostra figure e dati del piano di ricostruzione. © ACS

Un nuovo vescovo per i Caldei

Ma se nella piana di Ninive il ritorno dei cristiani dopo la liberazione dallo Stato islamico è stato a dir poco sorprendente, a Mosul, seconda città dell’Iraq, la situazione è ben diversa.

«La nostra più grande sfida è quella di restituire la fiducia ai fedeli, così che possiamo lavorare insieme per costruire il futuro dei cristiani in Iraq», ci dice monsignor Michaeel Najeeb Moussa, domenicano, poco dopo la sua ordinazione episcopale come vescovo dei caldei di Mosul avvenuta il 25 gennaio. Dopo quasi cinque anni da quando lo Stato islamico aveva costretto il suo predecessore monsignor Emil Shimoun Nona a lasciare la città, la comunità caldea di Mosul e della piana di Ninive ha nuovamente un pastore.

Vi sono molti funzionari governativi e anche studenti universitari cristiani che si recano a Mosul ogni giorno, ma nessuno ha il coraggio di rimanere stabilmente a vivervi. Il timore è che permangano in città cellule nascoste di jihadisti e, in ogni caso, che l’Isis possa tornare. In più i cristiani ora faticano a fidarsi anche dei loro ex vicini di casa musulmani che in molti casi hanno aiutato i combattenti islamisti. «Preferiscono percorrere anche 85 chilometri per tornare a dormire nei villaggi della piana di Ninive, perché qui non si sentono al sicuro», ci spiega il presule.

Al momento neanche lui può tornare a risiedere in città: «L’85 per cento delle chiese di Mosul è stato distrutto così come l’arcivescovado». Ma monsignor Najeeb spera di tornarvi presto ed è sicuro che la presenza di un vescovo in città donerà di nuovo speranza anche agli altri. «Credo che il ritorno dei cristiani a Mosul sia possibile, e credo che tutto cambierà quando si tornerà a celebrare stabilmente la messa, come si è fatto per duemila anni, prima dell’arrivo dell’Isis».

Convertirsi, fuggire o morire

Monsignor Najeeb ha avuto un ruolo essenziale nella salvaguardia delle radici cristiane. Quando è fuggito a Erbil, dopo l’arrivo dell’Isis nel 2014, ha salvato decine e decine di manoscritti antichi che catalogava e digitalizzava da decenni per preservare il patrimonio storico del popolo cristiano e di tutti gli iracheni.

Esattamente come il suo predecessore, l’arcivescovo emerito dei caldei di Mosul, Emil Shimoun Nona, anche monsignor Najeeb ha affrontato lo stesso destino dei cristiani di Mosul e della piana di Ninive.

Nella notte tra il 9 e il 10 giugno del 2014, l’Isis ha preso possesso della città, costringendo alla fuga oltre metà della popolazione. Ai pochi cristiani che, nelle prime settimane dopo l’arrivo dell’Isis, sono rimasti a Mosul, è stata imposta inizialmente la jizya, la tassa, cosiddetta «di protezione», riscossa ai non musulmani ai tempi dell’impero ottomano. Ma il piano per trasformare l’Iraq e la Siria in un unico Califfato islamico non poteva prescindere dall’eliminazione delle minoranze religiose. Così a metà luglio i jihadisti hanno marchiato le case cristiane della città con la lettera araba «ن», iniziale della parola nasara: nazareni. Quindi i fondamentalisti hanno obbligato i cristiani rimasti a scegliere se convertirsi, fuggire oppure essere uccisi. Nelle ore seguenti code interminabili di auto e di persone si sono dirette verso il Kurdistan iracheno e la piana di Ninive. Ma chi ha optato per la seconda scelta si è visto costretto a fuggire di nuovo nella notte tra il 6 e il 7 agosto 2014, quando lo Stato islamico ha preso possesso di 13 villaggi cristiani della piana.

In una sola notte, oltre 125mila fedeli hanno dovuto abbandonare le proprie case senza poter prendere nulla. Molti di loro hanno camminato per ore in pigiama prima di giungere a Erbil o alla vicina città di Duhok. Sfuggiti alla crudeltà dei miliziani, gli ultimi cristiani in Iraq hanno dormito per giorni nelle chiese, nelle scuole, all’ombra di palazzi fatiscenti per poi trovare «finalmente» una casa in tende asfissianti in cui le temperature, nella calda estate del 2014, sfioravano i 44 gradi.

Poi, fortunatamente, grazie alle Chiese locali e alla generosità di molti benefattori, le famiglie hanno trovato alloggio in case prefabbricate o in appartamenti in affitto dove hanno vissuto almeno fino alla metà del 2017.

Iraq, Qaraqosh, giugno 2018, madre e figli davanti alla loro casa ricostruita a Qaraqosh. © ACS

Una storia di persecuzioni

Quella perpetrata dallo Stato islamico non era tuttavia la prima persecuzione subita dai cristiani iracheni. Il loro numero complessivo nel paese era già diminuito da un milione e 200mila fedeli nel 2003 ai poco più di 300mila del 2014.

L’instabilità del paese, in seguito all’inizio della guerra nel 2003 e alla caduta del regime di Saddam Hussein, ha significato l’inferno per la minoranza cristiana, schiacciata nel fuoco incrociato tra sunniti e sciiti e direttamente perseguitata.

In città come Baghdad, Bassora, Kirkuk, Mosul, tante famiglie cristiane si sono viste recapitare messaggi minatori sull’uscio delle proprie case e, col passare del tempo, hanno dovuto rinunciare alla Messa di Natale nella sera del 24 e a fare l’albero e il presepe se non all’interno delle proprie case. Alcuni cristiani hanno dovuto pagare la jizya, sono stati espropriati delle loro terre e le donne si sono abituate a coprire il capo con un foulard, per confondersi tra le musulmane.

Numerosi rapimenti e uccisioni di fedeli, sacerdoti e perfino vescovi hanno segnato gli ultimi anni della vita dei cristiani in Iraq.

Uccisi in odio alla fede

A Mosul, uno dei simboli del martirio cristiano in Medio Oriente, dopo la caduta di Saddam sono stati uccisi in odio alla fede oltre mille cristiani. La persecuzione non ha risparmiato né l’arcivescovo caldeo monsignor Faraj Rahho, rapito e poi ucciso nel 2008, né il suo segretario, padre Ragheed Ganni.

Padre Ragheed non aveva voluto arrendersi alle minacce di chi gli intimava di chiudere la sua chiesa dello Spirito Santo a Mosul. È stato ucciso il 3 giugno, al termine della Messa. «Ti avevo detto di chiudere la chiesa. Perché non l’hai fatto?», gli ha domandato uno dei suoi assassini. «Come posso chiudere la casa di Dio?», ha risposto lui prima di soccombere al fuoco dei proiettili.

Non vi è dunque da stupirsi se nei lunghi mesi tra il 2014 e il 2017, molti cristiani hanno lasciato il paese in preda allo sconforto e a causa della mancanza di prospettive future.

Poi però con la liberazione della piana di Ninive e la ricostruzione delle case cristiane è avvenuto un vero e proprio miracolo. Lo stesso che oggi si attende a Mosul.

Marta Petrosillo

Iraq, dicembre 2014, bambini al centro “Werenfried” creato per accogliere persone forzate a lasciare le loro case dall’Isis. © ACS


La solidarietà del papa viaggia in Lamborghini

«Ci lasciano increduli e sgomenti le notizie giunte dall’Iraq: migliaia di persone, tra cui tanti cristiani, cacciati dalle loro case in maniera brutale». Così papa Francesco all’Angelus del 10 agosto 2014. Sono passati soltanto tre giorni dalla presa dei villaggi della piana di Ninive, ma il santo padre nomina già come suo inviato speciale nel paese il cardinal Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, e già nunzio in Iraq dal 2001 al 2006. È il primo di molti gesti di vicinanza del pontefice ai cristiani iracheni e alle altre minoranze schiacciate dall’Isis.

«Cari fratelli e sorelle, siete nel mio cuore», dirà poi il santo padre in un videomessaggio registrato il 6 dicembre 2014 per i cristiani di Mosul ricordando l’importanza della loro testimonianza di fede, «la vostra resistenza è martirio, rugiada che feconda».

Segni concreti di vicinanza

Sin dall’inizio della tragica avanzata dell’Isis il papa esprime il desiderio di visitare i suoi fedeli iracheni. Le precarie condizioni di sicurezza non rendono possibile la visita, anche se il viaggio del cardinal Parolin in terra irachena, dal 24 al 28 dicembre 2018, fa ben sperare per il futuro.

Tuttavia i cristiani d’Iraq percepiscono forte la vicinanza del pontefice, attraverso le sue parole, la sua preghiera e i suoi gesti concreti.

Già nel 2016 papa Francesco, attraverso la fondazione Aiuto alla Chiesa che soffre, ha finanziato con 100mila euro la Saint Joseph Charity Clinic che a Erbil offre assistenza medica gratuita.

Poi il 15 novembre 2017, Francesco ha deciso di devolvere al progetto Acs per la ricostruzione dei villaggi cristiani della piana di Ninive, parte del ricavato della vendita all’asta della Lamborghini Huracan da lui ricevuta in dono dalla casa automobilistica.

I fondi ricevuti sono stati impiegati nella ricostruzione di due strutture della Chiesa siro cattolica distrutte dalla guerra nel villaggio di Bashiqa: l’asilo intitolato alla Vergine Maria e il centro polivalente dell’omonima parrocchia, che sarà a disposizione di oltre 30mila abitanti di diverse etnie e fedi.

M.P.

Iraq, Qaraqosh, giugno 2018. Cristiani che ricostruiscono le loro case con l’aiuto di ACS. © ACS




Davi Kopenawa:

«Voi bianchi non capite»

Testo di Paolo Moiola |


L’intervista a Davi
• Amici, tanti ma non tutti
• Le invasioni dei garimpeiros.
• L’invasione dei missionari Francesco.

Governo Bolsonaro.
• Damares e Tereza.
• L’invasione dei cercatori d’oro, Garimpeiros.
• Contro la Chiesa, contro il Sinodo.

La sua autobiografia ha avuto successo. Lui giustamente rivendica il proprio ruolo nella lotta degli Yanomami per la terra, i diritti e la dignità. Ma Davi Kopenawa non si è montato la testa. Continua a girare il mondo per il suo popolo. E lo fa in modo credibile, in primo luogo evidenziando le differenze tra gli indigeni e quelli che lui indica come «i bianchi». Lo abbiamo incontrato a Boa Vista, appena rientrato da un viaggio.Boa Vista. Davi Kopenawa è appena tornato dal Canada. In precedenza era stato in Europa, Italia compresa1. Appare un po’ affaticato, ma anche tranquillo e pacato come sua consuetudine. Si siede su una vecchia sedia a dondolo arrugginita trovata nello spoglio cortiletto che sta sul retro della sede di Hutukara. All’appuntamento presso l’associazione yanomami2 non può mancare fratel Carlo Zacquini: non soltanto per tradurre ma anche per interpretare – dall’alto della sua lunga amicizia con Davi e della sua conoscenza della lingua yanomae – le risposte del leader indigeno. Perché noi napëpë, non Yanomami, noi bianchi insomma, abbiamo un modo di pensare completamente diverso. Perché le parole vanno capite senza dimenticare il contesto culturale della persona che le pronuncia. Perché è una mania tutta occidentale quella di inserire le risposte in categorie – filosofiche, sociologiche, antropologiche – già precostituite.

Capelli neri e lisci, maglietta rossa, senza ornamenti indigeni, Davi risponde alle domande con pazienza, senza mai alzare il tono della sua voce, in un portoghese semplice e ripetendo spesso i concetti.

Amici, tanti ma non tutti

Davi, pensa che tutti gli Yanomami la seguano?

«Tutto il popolo yanomami è il mio popolo. (Fa una pausa e ripete) Tutto il popolo yanomami è il mio popolo. Un popolo che vive nella terra di Amazonas e Roraima».

D’accordo. Ritiene però di avere qualche avversario anche tra gli Yanomami?

«Tra gli Yanomami alcuni mi sono amici, altri meno. Questi ultimi sono quelli che sono coinvolti con i non indigeni, soprattutto con i politici. Quelli a cui piace il denaro».

E tra i non indigeni, tra i bianchi, chi considera suoi amici?

«Sono amici coloro che lavorano con i popoli indigeni. Ad esempio, l’Istituto socioambientale (Isa) e la diocesi di Roraima, ma anche tutti coloro che difendono la natura. Purtroppo però la maggioranza dei bianchi non è amica. Non gli interessa sapere di noi».

Qualcuno le contesta che sia sempre in giro.

«Io viaggio nel mondo per il mio popolo, per la nostra gente. Non viaggio per divertirmi o per visitare le città, viaggio per portare nel mondo il nome del mio popolo e la sua condizione. Perché la situazione continua a essere problematica. Anche nel campo della salute».

Mi scusi: nel campo della salute c’è però la Sesai.

«La Sesai3 è un organo del governo federale e non degli indigeni. È vero che i responsabili ricevono molto denaro da Brasilia ma lo rubano, non lo utilizzano per la salute di noi indigeni. Così funziona il mondo dei bianchi4. E i politici sono sempre coinvolti».

La sua famiglia cosa pensa delle sue ripetute assenze?

«La mia sposa approva e capisce. I figli conoscono la mia lotta. Così come coloro che vivono nella mia comunità di Watoriki5. Nessuno di loro è triste perché apprezzano il lavoro che viene fatto. Già abbiamo ottenuto la terra yanomami che il governo brasiliano ci aveva rubato. Sono io che, al contrario, sto soffrendo. I miei nipoti hanno bisogno di me»6.

Il suo libro autobiografico, La caduta del cielo, è stato tradotto in varie lingue. Quando lo ha scritto, aveva un obiettivo specifico?

«Un non indigeno non sa, non capisce e non intende la nostra lingua. Il libro La caduta del cielo è stato scritto da me, ma in nome del popolo yanomami. Per studenti, antropologi, professori: per mostrare un modo di pensare diverso, quello del popolo Yanomami. Una parte dei bianchi ci considera come animali, come selvaggi. Io ho voluto dimostrare la mia sabiduria (conoscenza, ma anche saggezza, ndr), per mostrare il nostro cammino dall’inizio del mondo (secondo la cosmogonia Yanomami, ndr). Attraverso quelle pagine ho voluto andare incontro a chi non ci conosce. Dimostrare che lo Yanomami è sabio: sa pensare, sa parlare, sa raccontare la storia del mondo e della foresta. È un libro scritto per voi che vivete nelle città e che non conoscete la foresta e gli Yanomami».

Le invasioni dei garimpeiros

Siamo nella sede dell’associazione che lei guida. Che obiettivi persegue? E come si mantiene?

«Hutukara difende i diritti del popolo yanomami. L’associazione sta andando bene. Sta funzionando. Ha poco denaro ma lavora con i contributi di Rainforest, Cafod7, dell’ambasciata norvegese. Gli appoggi vengono da fuori. È il Brasile che non dà nulla».

Uno dei compiti di Hutukara è la difesa della terra indigena degli Yanomami. Le invasioni continuano?

«È una lotta che non finirà: oggi escono dalla nostra terra, ma domani rientrano. I garimpeiros portano malattie: malaria, tubercolosi. E poi malattie sessuali dato che arrivano senza donne e vanno con le nostre. Avvelenano l’acqua. Portano bevande alcoliche».

Lei considera l’assunzione di alcol un problema?

«Le bevande alcoliche dei bianchi sono veleno. Fanno male alla salute e al cervello. Non portano benefici per le persone. Fanno straparlare, fanno diventare matti».

Ha mai provato a dialogare con i garimpeiros?

«Non ci parliamo. Io non voglio discutere con loro. Io non parlo con degli invasori».

L’invasione dei missionari

Ne La caduta del cielo gli invasori di cui lei dice di ricordarsi fin da bambino sono missionari. Missionari dell’organizzazione statunitense New Tribes Mission8. Questi come si comportarono con voi?

«I missionari che sono entrati nella nostra terra non hanno mai lavorato bene. Sono venuti soltanto per apprendere la nostra lingua e le nostre conoscenze originarie».

Sul territorio degli Yanomami, in alcune aldeias (comunità indigene) ci sono missioni della Meva9, un’altra organizzazione evangelica di origine nordamericana. Di loro che ci può dire?

«Che i pastori della Meva mai ci hanno aiutato. Stavano con le braccia incrociate mentre noi lottavamo e soffrivamo».

In questo giudizio negativo rientrano anche i missionari cattolici di Catrimani?

«La Missione Catrimani è da noi da molti anni. È l’unica che rispetta la nostra cultura. Rispetta la religione degli xapiri e del nostro creatore che si chiama Omama. Io ricordo in particolare dom Aldo Mongiano10 che ci aiutò e fece un buon lavoro con noi. Assieme abbiamo sofferto e assieme abbiamo ricevuto minacce».

Francesco

Recentemente, lei ha presentato il suo libro in Italia. Come si è trovato con il cibo?

«L’Italia ha un mangiare differente da quello a cui io sono abituato. Non c’è farina (di manioca, ndr), non ci sono banane, non c’è carne di animali della foresta. Agli italiani piace molto la pasta che invece a me non piace. Comunque, io mangiavo pesce, pollo, patate e pane».

A parte la pasta, pensa che vi tornerà?

«Mi piacerebbe tornare per incontrare Francesco, il papa».

Paolo Moiola

NOTE

(1) Davi Kopenawa è stato in Italia nel settembre 2018 per presentare «La caduta del cielo», il suo libro autobiografico finalmente tradotto in italiano dalla casa editrice Nottetempo (Milano). Il video dell’incontro avvenuto all’Università di Torino è visibile a questo indirizzo di YouTube: www.youtube.com/user/pamovideo.

(2) Nella Terra indigena Yanomami operano sette associazioni: Ayrca (1998), Hutukara (2004), Apyb (2006), Kurikama (2013), Kumirayoma (2015), Taner (2015) e Hwvenama (2016). L’Hutukara, guidata da Davi Kopenawa, è la più conosciuta e rispettata.

(3) La Sesai – «Secretaria Especial de Saúde Indígena» – è un dipartimento del ministero della Salute brasiliano.

(4) Per semplicità, abbiamo usato il termine generico di bianchi (brancos, in portoghese). Il termine corretto in yanomae, la lingua di Davi Kopenawa, è napëpë, che significa non Yanomami.

(5) Watoriki – «montagna del vento» – è il nome della comunità della famiglia di Davi Kopenawa. Si trova all’estremo Nord Est dello stato di Amazonas.

(6) La sua famiglia è composta dalla moglie Fatima Larima e dai figli: Dario (M), Guiomar (F), Denise (F), Tuira (F), Vitório (M), Silvia (adottiva). Dario ha una figlia; Guiomar ha tre figli e due figlie; Denise ha un figlio e tre figlie. Questi sono i nomi usati in ambito «bianco».

(7) «Catholic Agency For Overseas Development», associazione cattolica inglese.

(8) Fondata nel 1942 dallo statunitense Paul W. Fleming, dal 2017 la «New Tribes Mission» (Ntm) ha cambiato il nome in «Ethnos 360». In Brasile è rimasta un’entità autonoma chiamata «Missão Novas Tribos do Brasil». Il sito web dell’organizzazione: www.novastribosdobrasil.org.br.

(9) Fondata nel 1930 da missionari nordamericani, oggi la Meva – «Missão evangélica da Amazônia» – è un’entità principalmente brasilana. Il sito web dell’organizzazione: www.meva.org.br.

(10) Dom Aldo Mongiano, missionario della Consolata, è stato vescovo di Roraima dal 1975 al 1996. Ebbe molti problemi con i politici e i fazendeiros locali a causa della sua vicinanza con i popoli indigeni.


Governo Bolsonaro

Damares e Tereza

La ministra Tereza Cristina © Marcos Corrêa/PR

Le due sole donne del governo Bolsonaro sono rappresentanti dei settori più anti indigeni della società brasiliana.

Damares Alves e Tereza Cristina sono le ministre del governo di Jair Bolsonaro: la prima è a capo del ministero della donna, della famiglia e dei diritti umani, la seconda di quello dell’agricoltura.

Donne forti con un percorso controverso. La Alves è una pastora evangelica, fondatrice di Atini, un’organizzazione che dichiara di lottare per la difesa dei diritti dei bambini indigeni. In particolare, essa si batte contro la pratica dell’infanticidio e dell’abbandono infantile, attuate presso alcune popolazioni indigene. I critici osservano però che il fenomeno è decontestualizzato e viene usato per criminalizzare i popoli indigeni.

La Cristina è un’imprenditrice agricola, nota per essere a favore della liberalizzazione dell’uso degli agrotossici tanto da meritare il soprannome di «musa del veleno» (musa do veneno). È molto legata al fronte parlamentare che riunisce i rappresentanti dell’agrobusiness (Frente Parlamentar da Agropecuária), di cui è stata anche presidente.

Damares e Tereza sono figure importanti sia per i dicasteri che guidano sia perché espressione diretta di settori che hanno appoggiato il presidente: quello delle chiese evangeliche e quello degli imprenditori agricoli.

Dal 1° gennaio 2019 al ministero della Alves è stata affidata la Fundação Nacional do Índio (Funai), prima alle dipendenze del ministero della giustizia. Allo stesso tempo, all’organismo governativo è stata tolta la sua attribuzione più delicata – quella che riguarda gli studi per l’identificazione, delimitazione e demarcazione delle terre indigene -, passata al ministero della Cristina, dominato dai fazendeiros, cioè dai principali oppositori dei diritti dei popoli indigeni.

La ministra Damares Alves. © Marcos Corrêa/PR

In questo modo le promesse di Bolsonaro di limitare le terre indigene e di aprirle allo sfruttamento minerario e agricolo potranno avere la strada spianata.

Damares Alves e Tereza Cristina, due donne in un governo con venti uomini, tra cui cinque militari (e altri due sono lo stesso presidente e il suo vice). A conti fatti, le uniche ministre del nuovo governo brasiliano potrebbero diventare la punta di lancia dell’offensiva di Bolsonaro contro i diritti dei popoli indigeni. Forse un’ulteriore astuzia del nuovo presidente, conosciuto (anche) per le sue posizioni maschiliste: alle ministre l’onere di decisioni controverse, agli uomini la riscossione dei dividendi, politici e non.

Paolo Moiola

L’invasione dei cercatori d’oro, Garimpeiros

Migliaia di uomini hanno invaso la terra yanomami per cercare oro. Facendo danni incalcolabili alla foresta, ai fiumi e ai popoli indigeni. Una breve cronologia.

  • 1970 – Sul finire degli anni Settanta inizia una corsa all’oro nei territori abitati dai popoli Yanomami e Ye’kwana, in Brasile e Venezuela.
  • 1980-’90 – Alla fine degli anni Ottanta e inizio dei Novanta si stima che nei territori indigeni siano presenti 40.000 minatori illegali (garimpeiros), cinque volte di più della popolazione residente. Nella foresta vengono identificate 82 piste d’atterraggio clandestine.
  • 1992 – A Rio de Janeiro, durante il Summit sulla terra delle Nazioni Unite (Eco 92, in portoghese), viene annunciata la nascita della Terra indigena Yanomami. La polizia federale inizia un’opera di repressione dell’attività mineraria illegale.
  • 1993, giugno-luglio – Si calcola che nei territori indigeni, soprattutto lungo la frontiera tra Brasile e Venezuela, siano ancora presenti tra i 10.000 e i 15.000 garimpeiros.
  • 1993, giugno-luglio – Lungo la frontiera con il Venezuela vengono trucidati da garimpeiros brasiliani 16 Yanomami venezuelani, comprese donne e bambini. Il fatto è conosciuto come il «massacro di Haximú», che verrà successivamente riconosciuto dalla giustizia brasiliana come un «crimine di genocidio».
  • 2002-2005 – Nuove invasioni di garimpeiros sia dal lato brasiliano che da quello venezuelano.
  • 2012-2015 – La polizia federale brasiliana lancia due grandi operazioni – Xawara (2012) e Warari Koxi (2015) – contro le invasioni di minatori illegali nelle terre indigene. Viene smantellata una rete criminale di impresari, funzionari pubblici, gioiellieri e padroni di garimpos. Gli investigatori stimano che ogni mese il gruppo estraeva 160 chili di oro.
  • 2013-2015 – In Venezuela, negli stati Amazonas e Bolivar, si assiste a nuove invasioni delle terre indigene da parte di minatori illegali.
  • 2016, aprile – Secondo il rapporto della «Global Initiative against Transnational Organized Crime» (Organized Crime and Illegally Mined Gold in Latin America) in Brasile il 10-15% dell’oro prodotto (circa 90 tonnellate all’anno) viene estratto illegalmente. Le esportazioni brasiliane sono rivolte soprattutto verso Svizzera, Stati Uniti e Canada.
  • 2018, 10 dicembre – Per la prima volta viene effettuato uno studio su 2.300 garimpos in sei paesi amazzonici (Brasile, Perù, Colombia, Venezuela, Ecuador, Bolivia). Il reportage multimediale dal titolo di Amazônia saqueada è firmato da Raisg, «Red Amazónica de Información Socioambiental Georreferenciada».
  • 2019, 2 marzo – In un convegno a Toronto (Canada), il ministro delle miniere e dell’energia, l’ammiraglio Bento Albuquerque, afferma che è intenzione del governo Bolsonaro espandere sulle terre indigene le attività minerarie.

Pa.Mo.

Fontiprincipali

Barche sul riuo Uraricuera

Contro la Chiesa, contro il Sinodo

Il governo del presidente Bolsonaro considera la Chiesa cattolica un potenziale nemico. E teme il Sinodo panamazzonico del prossimo ottobre.

In campagna elettorale – era il 17 ottobre 2018 – Bolsonaro aveva detto che i vescovi della Conferenza episcopale brasiliana (in sigla, Cnbb) sono «la parte marcia della Chiesa cattolica». Una volta raggiunta la presidenza, la sua offensiva si è fatta più diplomatica, ma non per questo meno dura. Anche perché il debito contratto nei confronti delle chiese evangeliche, che sono dirette «concorrenti» della Chiesa cattolica e che in campagna elettorale lo hanno apertamente appoggiato, è consistente. Secondo l’istituto Datafolha, dei 58 milioni di voti ricevuti da Bolsonaro lo scorso 28 ottobre 22 milioni erano di provenienza evangelica. E, nel nuovo Congresso, lo schieramento evangelico è fondamentale quanto quelli dei latifondisti e della sicurezza (formando la cosiddetta «bancada BBB, Bíblia, boi e bala»).

© Rafael Carvalho/PR

Per tutto questo l’articolo pubblicato (il 10 febbraio) dal quotidiano O Estado de S.Paulo, un giornale tradizionalmente conservatore e liberista, in cui si parlava di un governo Bolsonaro che vede la Chiesa cattolica come un potenziale oppositore ha suscitato discussioni ma non sorpresa.

Negare che governo Bolsonaro e Chiesa cattolica abbiano visioni opposte su tematiche quali i diritti dei popoli indigeni e la questione agraria significa negare l’evidenza. Il lavoro svolto dal Consiglio indigenista missionario (Cimi) e dalla Commissione pastorale per la terra (Cpt), organismi della Chiesa cattolica brasiliana, è sotto gli occhi di tutti. Per parte sua, il presidente Bolsonaro non ha rinunciato a lanciare avvertimenti circa le sue intenzioni. In un tweet del 2 gennaio ha scritto: «Oltre il 15% del territorio nazionale è delimitato come terra indigena e quilombolas. Meno di un milione di persone vive in questi luoghi isolati del Brasile, sfruttati e manipolati dalle Ong».

Ancora più di queste in Amazzonia lavora la Chiesa cattolica, tanto da spingere il generale Augusto Heleno, ministro della sicurezza istituzionale, a ordinare ai servizi segreti (Abin) di monitorare le sue iniziative in preparazione al Sinodo amazzonico in programma a Roma il prossimo ottobre. Un Sinodo che il governo Bolsonaro vede come portatore di un «programma di sinistra».

Lasciando da parte gli schemi ideologici, va detto che il documento preparatorio al Sinodo parla di una crisi scatenata «da una prolungata ingerenza umana» e una «mentalità estrattivista» e che i primi interlocutori debbono essere i popoli indigeni e tutte le comunità che vivono in Amazzonia. «Oggi – si legge nel documento – la ricchezza della foresta e dei fiumi amazzonici si trova minacciata dai grandi interessi economici che si concentrano in diversi punti del territorio».

Parole queste in evidente contrasto con la visione e i programmi del governo Bolsonaro. A oggi, prevedere un Sinodo innocuo pare dunque piuttosto azzardato.

Paolo Moiola

Yanomami di Haximu, sopravvissuti al massacro, fotografati nel Toototobi, con ceste nelle quali portano i corpi dei loro famigliari – foto di Carlo Zaquini /AfMC

 




Diario semplice da Dianra:

Accogliere e donare Amore

Testo di Carla Paccoia, con foto sue e di padre Matteo Pettinari |


«Sono Carla, nata a Perugia e cresciuta a Chiaravalle, Ancona. Vengo dalla diocesi di Senigallia, stesso paese e diocesi di padre Matteo Pettinari, missionario della Consolata a Dianra, nel Nord della Costa d’Avorio. Ho avuto la grazia di vivere là circa sei mesi in un momento molto intenso della mia vita. Li condivido con voi tramite le pagine di diario che ho inviato periodicamente ai miei amici in Italia».

Qui a Diarna mi accoglie una comunità composta da due giovani missionari, padre Matteo Pettinari e padre Raphael Ndirangu Njoroge. Sono già stata qui due anni fa con altre quattro persone con le quali avevo frequentato per due anni gli atelier missionari, incontri organizzati dalla nostra diocesi e tenuti all’inizio da padre Matteo e poi da padre Ariel Tosoni. Quando a Natale del secondo anno ci avevano chiesto se qualcuno avesse voluto fare esperienza diretta di missione, avevo perso da pochi mesi mio marito Giuliano (15 agosto 2015), che aveva frequentato con me il corso, e avevo già presentato la domanda per la mia pensione.
A me era sembrata subito una strada tracciata dall’Alto e perciò avevo detto: io vado!

È stata un’esperienza intensa ed emozionante che mi ha fatto sentire di nuovo viva. Colori, suoni, profumi, volti e sorrisi che mi hanno letteralmente conquistata. Purtroppo, però, il tempo è volato ed il mese è sembrato troppo breve.

Al rientro a casa, ho continuato a mantenere contatti telefonici e scritti con la missione, mentre in parrocchia mi sono dedicata all’animazione missionaria con il fermo desiderio di tornare a Dianra per conoscere meglio persone e luoghi.

Il 15 giugno sono di nuovo arrivata ad Abidjan. Il giorno dopo sono partita la mattina presto mentre era ancora notte perché c’erano da percorrere tanti chilometri. Yamoussoukro, Bouaké, poi la missione di Marandallah e, finalmente, la gioia di essere di nuovo a Dianra.

La stessa sensazione di due anni fa: sono a casa mia! Il tempo non ha scalfito la memoria, le cose sono al loro posto come le ricordavo, i luoghi belli e rigogliosi di verde, le persone gioiose, calde affettuose ed accoglienti.

I missionari a Dianra, a parte padre Matteo con cui avevo viaggiato, sono diversi: c’è padre Ramon (il superiore della delegazione dei missionari della Consolata in Costa d’Avorio, che ho già conosciuto nel 2016 e normalmente risiede a San Pedro, ma presente per un paio di settimane come aiuto extra) e padre William Wema, il primo tanzaniano che conosco ai suoi primi mesi di servizio missionario essendo sacerdote solo dal 2017. Lui è qui in attesa di stabilirsi a Marandallah, quando tornerà padre Raphael che è in famiglia per le sue vacanze.

La grande assenza è quella di padre Manolo Grau che purtroppo è malato e si trova in Spagna. La sua presenza, però, si avverte in ogni angolo della missione e in ogni parrocchiano che, con affetto, chiede sue notizie. Comunque siamo vicini con la preghiera che ci sostiene e ci unisce come un filo invisibile ma molto forte.

30 giugno 2018

Carissimi e carissime tutti, dopo ore di volo, km di jeep su strada e su pista di terra rossa, sotto un diluvio d’acqua, tuoni e fulmini (ma qui erano felici perché l’acqua mancava da novembre ed io che l’ho portata sono una benedizione!), sono finalmente arrivata e ritornata a Dianra, nel Nord della Costa d’Avorio, nella missione affidata alla Consolata, dove vive il nostro padre Matteo Pettinari.

Con gioia ho rivisto persone e luoghi a me molto cari che mi sono entrati nel cuore fin dal primo giorno dell’agosto del 2016. L’affetto ricevuto ed il sorriso dei bimbi hanno subito cancellato la fatica del viaggio. Adesso mi sto inserendo nelle varie, quotidiane attività della missione con il mio francese scolastico che migliora lentamente e con la certezza di vedere ogni giorno, nella vita e nell’opera dei missionari, la costante tenerezza di Dio verso i nostri fratelli africani. Sento il vostro sostegno e so di essere qui anche a nome vostro. Continuate ad accompagnare i miei passi con la vostra preghiera.

14 luglio

L’ultimo periodo di questo mio primo mese a Dianra l’ho trascorso al centro sanitario che è una piccola splendida realtà nel buio della sanità locale, espressione pratica della tenerezza di Dio. Dal niente, con l’aiuto di tante persone, anche di Chiaravalle e della nostra diocesi, è stata costruita una struttura sanitaria che comprende l’ambulatorio di primo soccorso, la farmacia, la maternità, l’ambulatorio odontoiatrico ed il laboratorio analisi. Purtroppo, quest’ultimo ha dovuto smettere di funzionare poco dopo la sua inaugurazione a causa della scarsa corrente elettrica erogata.

In queste ultime ore, con l’acquisto di uno stabilizzatore (acquisto reso possibile grazie a una donazione dall’Italia) potrà funzionare senza interruzioni a partire dalla settimana prossima. Sempre grazie a quella donazione, il centro ha potuto dotarsi da ieri di un ecografo che, possibilmente, inizierà ad essere a disposizione della popolazione entro breve.

Quanto a me, sono arrivata qui forte della mia quarantennale attività lavorativa come infermiera e pronta a spenderla, ma la realtà che mi circonda e con cui mi incontro ogni giorno è così lontana per mezzi, usi e costumi, necessità e lingue che, per ora, posso fare ben poco.

E quando arrivano soprattutto i bimbi con 40 di febbre per la malaria (qui endemica), con le convulsioni, malnutriti, anemici ed intorno non hai abbondanza di medicinali, di apparecchiature sanitarie, di medici (la nostra è l’unica per una popolazione di 45mila abitanti e non sempre è sul posto perché deve andare nella capitale), di strutture idonee perché l’ospedale più vicino è a non meno di 140 km di pista (circa tre ore di strada), mi sento impotente. Ammiro gli infermieri che lavorano in prima linea e con quasi niente, ma la mia impotenza di fronte ai problemi di questi pazienti mi pesa.

Ciononostante, condividendo, donando affetto, tempo e un po’ della mia professionalità riacquisto serenità e la voglia di vivere questa splendida esperienza di vita.

28 luglio

Cari amici, le giornate qui a Dianra scorrono veloci, piene di incontri, di visi sorridenti di bimbi, di preghiera, di chilometri e di lavori. Si inizia la mattina alle 6,15 con le lodi, la messa, la colazione e poi tutto il resto: le visite in moto a malati o famiglie in difficoltà, le riunioni per preparare il programma della attività, il riordino della sacrestia, l’acquisto ed il trasporto dei medicinali per l’ospedale, gli incontri serali con le comunità di base, etc.

Sabato sono andata con padre Matteo nel villaggio di Nahangamakaha (a circa 40 km da Dianra) per partecipare all’incontro dei giovani di varie zone. Dopo la cena tutti i giovani e i cristiani ci siamo riuniti attorno al fuoco, unica luce che illuminava la notte, per la recita del rosario. Poi i giovani hanno vegliato, danzando e cantando tutta la notte. La mattina seguente, prima della messa, abbiamo fatto una visita di cortesia al capo villaggio, all’imam e al responsabile della chiesa battista. Quest’ultimo ha poi partecipato per intero alla nostra celebrazione eucaristica. Nel pomeriggio iniziamo il viaggio verso Abidjan (1.200 km circa tra andata e ritorno, di cui 250 di pista di terra rossa resa impossibile dalle piogge) per andare ad accogliere padre Raphael, che torna dal suo paese, il Kenya, e Riccardo Lenci, seminarista di Corinaldo. Adesso Matteo, Riccardo e io siamo una piccola comunità della Chiesa di Senigallia in trasferta nel cuore dell’Africa.

5 agosto

Carissimi, sicuramente questi giorni dei miei primi due mesi a Dianra sono i più belli perché strapieni di avvenimenti, feste, conoscenze, viaggi, imprevisti, lavori anche artistici da me mai svolti prima d’ora.

L’imprevisto accolto è il filo conduttore della vita qui in missione. Qui niente è semplice. Tutto si complica: compri un apparecchio medicale per l’ospedale, fai tanta strada per andare a prenderlo, lo metti in uso, non funziona, chiami il tecnico che è a un giorno di distanza, quando tutto è pronto non c’è più corrente e così via. Dopo un po’ non ti stupisci più e accogli l’imprevisto, capisci che qui la vita scorre con un altro ritmo e l’accetti, e sorridi, come fanno i missionari della Consolata, che sono molto pazienti.

Il 4 agosto abbiamo partecipato all’inaugurazione dell’ultima di cinque casette della salute (progetto finanziato, tra altri benefattori, dai lettori della rivista Missioni Consolata) nel villaggio di Bebedougou.

La casetta è un ambulatorio nel quale, periodicamente, una equipe sanitaria dell’ospedale della Consolata (un infermiere, un’ostetrica, un’ausiliaria) si reca in moto o con motocarro per fare vaccinazioni, visite, promozione sanitaria alle mamme e ai loro figli, perché – come sempre – motore del cambiamento sono le donne.

Poi, il 7 agosto, siamo andati a Farabà per la festa dell’Indipendenza e Riccardo e io, seduti tra le autorità, eravamo un’importante delegazione. Il massimo, però, è stato il viaggio che abbiamo fatto con padre Alexander Likono (da Marandallah) e padre Matteo, per andare nella missione di San Pedro, nel Sud Ovest della Costa d’Avorio. Quindici ore consecutive di jeep con una foratura e problemi meccanici che ci hanno bloccato di notte lungo la strada. La nostra benedizione è stato un camionista si è fermato per soccorrerci, nonostante la notte. Da un vicino villaggio è arrivato un gruppo di giovani. Io subito sono rimasta perplessa, ma poi quasi mi sono commossa. Non solo, senza conoscerci, sono venuti per aiutarci (hanno spostato a mano la jeep), ma sono andati al villaggio per prendermi una sedia e una pila per far luce.

Viaggiavamo per partecipare alla festa per il 25° anno di sacerdozio di padre André Nekpala, un congolese parroco nella missione di Grand-Zattry: altri 400 km. Una fatica ben ripagata perché la celebrazione è stata molto intensa, emozionante, con tante persone e anche perché abbiamo conosciuto il mitico padre Silvio Gullino, decano dei padri qui in Costa d’Avorio. È un piemontese, da 50 anni in missione, adesso è anziano ma i suoi occhi brillano e il suo volto si riempie di gioia quando racconta le sue avventure in Congo o in Costa d’Avorio. Conoscerlo, ascoltarlo, avvertire ancora in lui tanto amore e tanta energia da spendere per il prossimo è sicuramente tra le emozioni più importanti e belle che sto vivendo.

22 settembre

Dopo il tempo bello dei viaggi è arrivato quello del duro lavoro. Infatti, l’ultima parte del soggiorno di Riccardo – il seminarista di Corinaldo che ha condiviso con me queste settimane – lo abbiamo dedicato ai lavori nella nuova chiesa in costruzione a Dianra Village. Questi lavori, che procedono a seconda delle disponibilità economiche e della manodopera, avevano come obiettivi la decorazione dell’altare principale e della cappellina feriale, la creazione ex novo dell’angolo mariano e la conclusione di alcuni mosaici del pavimento, particolarmente quello che percorre tutto l’asse centrale della chiesa, dal battistero all’altare.

Padre Matteo e Riccardo hanno dato fondo a tutta la loro creatività, trovando ottime soluzioni anche con i pochi mezzi e il poco tempo a disposizione. Non dimentichiamo che la missione sollecita a ogni momento, e con numerosi imprevisti, la quotidianità e bisogna ritagliarsi il tempo per questi lavori spesso rubandolo a tante altre necessità.

Con i padri Kizito e Makori – due missionari della Consolata qui di passaggio per un breve periodo a rifrescare il loro francese in vista di aprire una nuova missione in Madagascar – abbiamo messo a disposizione per i vari lavori le nostre mani e tutto il nostro tempo. Tra le attività, abbiamo pitturato una ad una le tante tessere del mosaico che, in alcuni casi, abbiamo anche assemblato: un lavoro certosino, di grande pazienza e di grande soddisfazione. È davvero un peccato che non possiate vedere di persona i risultati, ma vi assicuro che il tutto è molto bello. I mosaici e i lavori all’interno della nuova chiesa sono stati accompagnati dall’architetto Daniela Giuliani, della nostra stessa diocesi di Senigallia, e si ispirano liberamente all’arte spirituale dell’atelier del padre gesuita Rupnik.

L’angolo mariano è come una vela disegnata sulla parete. O meglio, vuol significare una tenda, rimandando simbolicamente al mistero dell’incarnazione per il quale Maria è colei che ha permesso a Dio di piantare la sua tenda nell’accampamento dell’umanità in cammino. La scritta Magnificat e tre colonnine di diversa altezza – il tutto fatto a mosaico con pezzi di mattonelle rotte e di vari colori – fanno parte di quest’angolino semplice e raccolto. Anche se principianti, devo riconoscere che abbiamo fatto un ottimo lavoro di squadra che potrà essere sorgente di preghiera e contemplazione per questo popolo e ciò mi rende felice.

Soprattutto vorrei condividere con voi il piacere e la gioia di aver coinvolto nelle attività tanti bambini che, prima guardavano da lontano curiosi e incerti, poi si avvicinavano e, infine, a forza di sorrisi e di gesti (non dimenticate che loro parlano senufo e io italiano), finivano per iniziare anche loro a pitturare e incollare, con le loro manine e pieni di entusiasmo, le varie tessere e mattonelle. Oserei dire che abbiamo dato vita a veri e propri laboratori per artisti alle prime armi, stupende occasioni di avvicinamento tra mondi lontani. Come tutte le cose belle, però, anche questi lavori sono terminati.

Riccardo è dovuto rientrare a Senigallia portandosi sicuramente via, nel cuore, le tante emozioni vissute. Quanto a me posso continuare a godere un po’dell’accoglienza serena e affettuosa di questa terra che è entrata nel mio cuore e vi resterà per sempre.

1° ottobre

Oggi sono passati 3 mesi dal mio arrivo. Non mi sembra vero che siano passati già tanti giorni. Sicuramente un tempo di grazia ricco di persone nuove, di sorrisi e abbracci di bimbi, di vita in fraternità con i padri, di preghiera e di conoscenza e approfondimento del mio io. Un tempo ricco anche di qualche giornata di buio e di sofferenza. Riconosco ora che, forse, proprio questi giorni sono quelli in cui sono cresciuta di più. Mi rendo conto che insieme a tutto questo nuovo che vivo e vedo, ho fatto un viaggio in me stessa. Mi sono posta tante domande: «Riuscirò, Signore, a capire qual è la mia strada? Cosa posso fare? Dove e come?». Fino alla domanda vera che fa male: «Sopravvivo o riesco a vivere senza mio marito?».

Ho riempito le mie giornate di cose da fare fino a sfinirmi proprio per rinchiudere questi interrogativi, questo dolore immenso che mi toglie il respiro.

Non lo pensavo possibile, ma è proprio qui, in questa missione sperduta, nella brousse (savana, ndr) che pensi dimenticata da Dio e dagli uomini, che ti rendi conto di quanto superfluo ti circonda, di quanto poco ti serve effettivamente per vivere felice. E allora grazie a un abbraccio stretto stretto di un bimbo che sente il tuo affetto, al calore e all’accoglienza di una comunità che apprezza il solo tuo esserci, alla gioia di una preghiera intensa e costante, giorno dopo giorno il vuoto del cuore torna, in parte, a riemergere e a riempirsi.
E comprendi quello che era sotto i tuoi occhi ma non vedevi: la vita continua, la vita deve continuare. Le lacrime possono allora trasformarsi in un altro amore, quello semplice del donarsi agli altri vedendo in tanti sconosciuti dei fratelli da accogliere e che ti restituiscono molto più di quel poco che offri.

Il mio soggiorno continua ancora per qualche settimana… ma sicuramente, già fin d’ora, ho tanti motivi per cui ringraziare il Signore, la Consolata e tutti i missionari che mi sono vicini.

21 ottobre

Buona domenica e buona giornata missionaria mondiale. Ringrazio Dio che mi fa vivere questo giorno a Dianra con la presentazione dei nuovi catecumeni e dei catechisti. Certo la parola missione qui acquista un significato più intenso ma missione è ogni gesto della nostra vita ovunque la viviamo. La mia gioia è ancora più grande pensando che tanti anni fa in questa giornata Giuliano ed io abbiamo celebrato il nostro matrimonio.

19 novembre 2018

Il mio permesso di soggiorno sta per scadere. Ancora pochi giorni e dovrò rientrare in Italia.

È difficile spiegare come questa terra, queste persone e questa missione mi siano entrati nel cuore, ma qui da subito mi sono sentita a casa e i giorni trascorsi non hanno un inizio e una fine ma solo il presente.

Il presente di una vita missionaria fatta di semplicità, di nessun grande progetto e di condivisione della vita quotidiana con la fatica del lavoro, degli spostamenti difficili per le piste impraticabili, con la gioia delle nascite e la sofferenza delle perdite.

In realtà domenica con padre Matteo siamo andati in moto, un’ora di pista tremenda perché la jeep ci aveva lasciati a piedi, a Sononzo per celebrare la messa, e ho salutato la comunità che per prima a giugno mi aveva dato il benvenuto, quella di Fotamana.

Oggi padre Raphael è partito per un corso di formazione a Sago nel Sud della Costa d’Avorio e così la fraternità che mi ha accolta, accettata e accompagnata con affetto in questi mesi, si è sciolta.

Quanti bei momenti: la recita delle lodi sul fare del giorno ancora assonnati, e la messa. Il profumo del caffè le chiacchiere della colazione. Poi gli impegni della giornata scanditi dal ritmo della preghiera. I fine settimana, dal sabato fino alla domenica pomeriggio, nei villaggi per celebrare i sacramenti, conoscere i bimbi nuovi, visitare i malati e condividere, alla luce delle pile, cibo e alloggio.

Infine, il piacere di ritrovarsi la domenica sera stanchissimi attorno alla tavola, ma con la voglia del racconto della condivisione. Padre Raphael e padre Matteo, i due giovani missionari (hanno l’età dei miei figli) di Dianra, sono veramente splendidi nonostante tutto il loro lavoro hanno detto sì al mio desiderio di fare un’esperienza lunga di missione. Fatto nuovo per loro e per me, ma passati i primi momenti di adattamento e conoscenza, giorno dopo giorno, si è creato un piacevole clima familiare, direi di madre e figli, fatto di tante piccole attenzioni gli uni per gli altri.

E ora siamo arrivati al momento difficile della partenza, ogni partenza è uno strappo, una ferita, un taglio netto. Io spero di lasciare qui il frutto del mio cammino personale, le tante piccole e grandi cose che pesavano sulle mie spalle e di partire con le valigie e il cuore pieni di quel l’amore di Cristo che ho ricevuto indietro centuplicato, in confronto a quello che io ho donato, da tutti: dai padri missionari, dalle mamme, dai papà e soprattutto dai tanti bimbi che felici ti sorridono e ti abbracciano forte.

In questo abbraccio c’è tutto il valore del mio tempo in missione: accogliere e donare amore riflesso dell’amore di Dio. La missione va vissuta ovunque viviamo, nella famiglia, nel lavoro, ma forse a volte per rendersene conto dobbiamo lasciare per un po’ le nostre comodità e le nostre certezze e tornare a guardare il tutto con occhi più semplici.

Carla Paccoia

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Foto: La nuova chiesa di Dianra

Foto della nuova chiesa pronta per l’inaugurazione.  A presto una descrizione più dettagliata della stessa e dei suoi simboli.

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Solalinde: Questo è il Regno di Dio

Testo di Luca Lorusso |


Le relazioni (divine) che promuovono la vita invece della morte

Solalinde: Questo è il Regno di Dio

L’«antiregno» è semplice da descrivere: il sospetto su Dio, il male procurato agli
altri, la violazione del creato, l’autocondanna alla disperazione. Più complicato è dire cosa il Regno è e cosa suggerisce al mondo odierno complesso e segnato da violenza. Padre Alejandro Solalinde ci offre la sua sintesi usando la parola chiave relazione e partendo dalla sua fede ed esperienza di lotta accanto ai poveri.

«La condizione perché Dio regni su di noi è che nessuno regni sull’altro», scrive padre Alejandro Solalinde. E il motivo per scegliere di far regnare Dio su di noi è che il suo è un Regno di gratuità, pace, giustizia, perdono, accoglienza. È un Regno d’amore al centro del quale c’è la promozione delle relazioni che danno vita: la relazione fondativa tra Dio e l’uomo, quella tra l’uomo e gli altri uomini e quella tra l’uomo e il resto del creato.

Padre Alejando è un prete sorridente ed energico di 74 anni. È noto per essere un sacerdote messicano in prima linea nell’emergenza umanitaria che riguarda i migranti sudamericani diretti negli Usa e transitanti sul suolo del suo paese. Avere a che fare con i migranti non significa solo contrastare i discorsi d’odio di Trump ma, molto più concretamente, fronteggiare le organizzazioni criminali che con i migranti fanno affari d’oro.

Per il suo impegno, padre Alejandro è, allo stesso tempo, candidato al Nobel per la pace e «ricercato» dai narcos con una cospicua taglia sulla sua testa. Nonostante questo, appare un uomo sereno, umile e mite. A chi glielo fa notare risponde: «Io sono un uomo di fede. Gesù continua ad ispirarmi. Mi sento molto orgoglioso di essere battezzato, di essere una persona consacrata, missionaria, itinerante del Regno di Dio. Io non sono solo»1, e ribadisce la stessa idea nel suo libro, come un caposaldo della sua speranza: «Nessuno può sentirsi solo con un’amicizia come quella di Gesù».

Libro sorprendente e coraggioso

Padre Alejandro Solalinde ci offre un libro sorprendente. Sorprendente perché insiste su Dio e sul suo sogno d’amore per l’umanità e il creato, mentre da un uomo «di lotta» come lui ci si potrebbe aspettare un testo tutto concentrato sulla denuncia dura e pura (come ce ne sono molti) nei confronti delle potenti strutture di peccato che generano le sofferenze delle quali si occupa. Non manca la denuncia, e padre Solalinde le dedica un intero capitolo, il terzo, intitolato «L’antiregno». Ma non è il centro del suo pensiero. È forse il movente, ma non l’orizzonte del suo scritto.

Padre Solalinde ci offre un libro sorprendente e anche coraggioso. Coraggioso perché indica il Regno di Dio come suo centro d’interesse principale, e la prassi «fallimentare» del Gesù crocifisso come strada da seguire per realizzarlo. Superare l’antiregno in direzione del Regno di Dio si può solo attraverso relazioni improntate al dono totale di sé, alla misericordia, all’accoglienza di tutti. Anche all’accoglienza dei violenti e dei potenti, di quell’1% che domina il mondo, perché mai nessuno è escluso dal desiderio di Dio di averlo dalla sua parte: «Ai giorni nostri sono invitati alla tavola di Gesù anche quell’1% di magnati che si accaparrano le ricchezze del mondo […]. Da soli non potranno arrivare allo spazio della fede in Dio, Padre di tutti e tutte. Bisogna avvicinarli, amarli, metterli in discussione, invitarli! […] Anche un “tossico” del denaro e del potere è salvabile!».

L’idea giusta di Dio

«Siamo nati nel sistema capitalista, una condizione che impone il denaro come valore supremo; solo dopo viene Dio e infine la gente. Il Dio della vita è stato espulso dall’economia e rinchiuso nei templi. Ogni giorno aumentano i poveri e cresce la diseguaglianza. Quel che è peggio è che stiamo accogliendo tutto questo come normale. E non manca chi attribuisce a Dio queste ingiustizie, assicurando che questa è la sua volontà. […] In tale voragine di idee, le cupole del potere economico impongono come verità indiscutibili la loro versione di ciò che noi “dobbiamo” vedere e credere».

Nel solco della letteratura profetica, padre Solalinde si preoccupa di ristabilire la giusta immagine di Dio, quella di cui l’uomo può nutrirsi per trovare la salvezza. Il suo Dio non è quello usato da alcuni per giustificare le ingiustizie, ma quello che offre tutto se stesso per il bene dell’umanità. Se al centro ci fosse Dio con il suo Regno, l’uomo vivrebbe nella pienezza. «La crisi del mondo attuale, e in particolar modo del mio Messico, è in fondo una crisi di relazioni interpersonali: tra persone fisiche e persone giuridiche, tra persone umane e persone divine. […] Qual è il riferimento affidabile che ci permetterà di uscire da questa crisi generalizzata? A partire dalla fede cristiana che professo, io propongo il Regno di Dio […]. Non per niente questo è il tema centrale dell’insegnamento del giovane Maestro di Nazareth. Nei Vangeli troviamo più di novanta occorrenze di “Regno di Dio” o “Regno dei cieli”. […] Gesù non predica se stesso, parla della sovranità di Dio». Gesù realizzò nella sua persona la sovranità di Dio inaugurando l’esperienza più inclusiva e aperta che sia esistita nella storia dell’umanità. «Bisogna credere nel Regno e allo stesso tempo esserne operatori efficaci, affinché sia davvero l’amore divino a governare […], a partire dalla lettura dei segni dei tempi e dall’accompagnamento pastorale degli ultimi, degli esclusi».

Una vita radicalmente cambiata

Il Regno di Dio non è un’utopia. È una realtà già vivente e operante che cresce con la crescita della sua conoscenza da parte dell’uomo. Una realtà bella anche perché si prende carico della condizione contraddittoria e fragile dell’uomo. Sono belle le parole del sacerdote messicano sul «rilievo umano», cioè sulla storia particolare, personale di ciascun operatore del Regno: «Chiamo “rilievo umano” la storia di ogni persona […]. Nessuno può cancellare il passato! E neppure può ignorarlo […]. Quello che invece possiamo fare è assumerlo, impararne la lezione, leggerlo entro una nuova narrazione positiva, accettarlo. […] Il Dio rivelato da Gesù Cristo si carica del nostro passato e lo redime, invitandoci a un presente equilibrato e a scrivere una nuova storia personale d’amore. […] Gesù ci accetta come siamo, incondizionatamente, [anche] se siamo stati assassini o carnefici […]. Dio chiama tutti alla santità, ma lo farà sempre a partire dal “rilievo” di ciascuno». La via della realizzazione del Regno è la storia individuale di ognuno, nel momento in cui si mette in relazione vitale con Dio Trinità, con gli altri e con il creato. Come la storia di ogni singolo è segnata dalle storie degli altri e del mondo, anche la storia degli altri e del mondo è segnata dalla storia di quel singolo.

Questo, per Solalinde, è il Regno di Dio: una vita donata, una vita radicalmente cambiata in Gesù.

Luca Lorusso

Note:

1- Paolo Moiola, Un salto nel buio, MC, ottobre 2017, p. 51.

Messico. Migranti: un salto nel buio