Quei santi sconosciuti: i martiri di Guiúa


Testo di Osório Citora Afonso


Era il 22 marzo 1992, ventitré catechisti furono assassinati da un gruppo di uomini armati. Si trovavano nel centro catechistico di Guiúa per formarsi al loro ministero. Qualche anno prima, nel 1987, un altro catechista aveva subito la stessa sorte nello stesso luogo. Oggi si è conclusa la prima parte del processo di beatificazione che li riguarda.

Il 22 marzo scorso, in un momento nel quale il centro del Mozambico è stato devastato dal ciclone Idai che ha colpito in modo indiscriminato le persone, le città e i loro beni, si è celebrato il 27° anniversario del martirio dei catechisti laici di Guiúa.

Inoltre, si è chiuso in maniera positiva il processo diocesano per la loro beatificazione e si è quindi aperta la fase romana con il trasferimento alla Congregazione per le cause dei santi di tutto il materiale istruttorio raccolto in diocesi.

Vogliamo dunque ricordare i catechisti martirizzati a Guiúa nel 1992 (cfr MC, dossier, 3/2002) e, inoltre, offrire un omaggio ai laici catechisti e missionari del Mozambico che anche oggi spendono la loro vita, spesso in condizioni difficili e pericolose, perché Cristo sia annunciato e tutti gli uomini ricevano la salvezza.

I catechisti in tempo di prova

Dobbiamo sottolineare due caratteristiche importanti della Chiesa mozambicana durante il periodo che va dal 1975, data dell’indipendenza nazionale, al 1992, data dell’accordo di pace.

Da una parte abbiamo una chiesa sotto un regime marxista, una chiesa spogliata dei suoi averi e del suo essere. Dall’altra una chiesa nella guerra civile, una chiesa martirizzata.

Ambedue vivono sotto il segno dell’emergenza e della riscoperta del ruolo fondamentale dei catechisti laici.

Poco dopo la dichiarazione d’indipendenza del Mozambico nel 1975, con l’ascesa al potere del Fronte per la liberazione del Mozambico (Frelimo) e la sua dichiarata posizione marxista leninista, ostile alla Chiesa, inizia un periodo di vera persecuzione, con espropriazioni, restrizioni di ogni genere all’attività pastorale, negazione dei visti d’entrata nel paese ai missionari stranieri. Molte missioni si vedono svuotate dei loro missionari e sacerdoti. Nascono allora piccole comunità cristiane che si radunano non più attorno ai sacerdoti, ma a quelli che vengono chiamati «missionari laici», cioè i catechisti che svolgono un’attività di custodi, di testimoni e di animatori delle comunità cristiane.

Una lunga guerra civile

Negli anni immediatamente successivi all’indipendenza, il Mozambico è teatro di una lunga e sanguinosa guerra civile, durata ben 17 anni, tra il Frelimo al potere, e il movimento di guerriglia anticomunista Resistenza nazionale del Mozambico (Renamo).

Durante la guerra civile varie missioni si trovano coinvolte nel conflitto: molti sacerdoti, religiosi, religiose e laici vengono sequestrati. Alcuni testimoniano l’adesione a Cristo con il martirio.

La «Chiesa ministeriale»

L’Assemblea pastorale nazionale di Beira del 1977 costituisce un avvenimento centrale per la chiesa mozambicana sotto il marxismo e colpita dalla guerra civile. Con una nutrita rappresentanza di laici delle piccole comunità cristiane, la chiesa legge i segni dei tempi e traccia coraggiosamente il progetto di trasformarsi da «chiesa del popolo» in «Igreja ministerial» (chiesa ministeriale), mediante la valorizzazione dei ministri laici.

Le comunità sono chiamate a strutturarsi secondo ministeri, servizi che il Signore va suscitando. Così viene riformulata la formazione da offrire ai catechisti per rendere più facile ed efficiente la presenza viva della chiesa in tutte le comunità diffuse nei vasti territori delle missioni. In queste missioni i catechisti diventano davvero «custodi, testimoni e animatori delle comunità cristiane».

Questa chiesa mozambicana, nel tempo della prova, è in grado di produrre martiri.

Pensiamo anzitutto a quelli che saranno formati nel Centro catechistico di Anchilo per svolgere la loro attività missionaria nella zona di Nampula e che saranno uccisi sul campo di missione e, in secondo luogo, a quelli di Guiúa di cui parliamo qui, che saranno uccisi durante la loro preparazione proprio nelle vicinanze del centro.

I 24 martiri di Guiúa

È il 21 marzo del 1992, il Centro catechistico di Guiúa accoglie quindici famiglie provenienti delle missioni di Maimelane, Mapinhane, Vilankulo, Muvamba, Funhalouro, Morrumbene, Mocodoene, Jangamo, Guiúa e Inhambane, tutte già provate duramente dalla guerra. Si trovano nel Centro formativo di Guiúa per essere preparate al loro ministero.

Già durante il giorno si sentono colpi di arma da fuoco echeggiare da lontano, ma sembra che non ci siano pericoli immediati. Verso le 23, invece, le famiglie, le religiose francescane e i due missionari della Consolata, Andrea Brevi e John Njoroge, presenti nel centro, si rendono conto di essere stati accerchiati da un nutrito gruppo di giovani uomini (alcuni paiono avere tra 10 e 15 anni), forse allo scopo di saccheggiare la struttura.

Visto il pericolo, ogni famiglia si chiude ciascuna nella casetta che gli è stata assegnata per il soggiorno, ma ben presto i guerriglieri iniziano a sparare e a tirare fuori con violenza le famiglie dalle abitazioni. Due catechisti che provano a fuggire venogno uccisi, gli altri vengono radunati. Ad un certo punto si sentono due colpi di mortaio sparati dall’esercito regolare che presidia il vicino acquedotto. Un gruppo di guerriglieri allora si dirige verso i soldati, ma non li trova e ritorna indietro.

Raggruppate le persone che sono riusciti a tirare fuori dalle abitazioni fino a quel momento, i guerriglieri le fanno camminare con loro per 500 metri e si fermano nei pressi di una capanna per interrogare gli ostaggi. Vogliono sapere da dove provengono e perché si trovano lì, poi chiedono informazioni sulla dislocazione dell’esercito e sulla strada libera dalle mine per poter entrare nell’area protetta, ma non ricevono le risposte che vorrebbero.

Dato che comincia ad albeggiare, gli assalitori decidono di inoltrarsi nel bosco con gli ostaggi per circa tre chilometri, poi si fermano, separano una decina di ragazzi dal resto del gruppo per portarli nelle loro basi, e uccidono a sangue freddo tutti gli altri.

Prima di essere uccisi, i catechisti chiedono di poter pregare e gli assassini glielo concedono.

Il bilancio finale dell’assalto e del massacro è di 23 persone uccise, tra cui sei bambini tra uno e 13 anni.

Il ventiquattresimo martire, il catechista Peres Manuel Chimganjo, venne ucciso invece il 13 settembre del 1987, cinque anni prima, sempre a Guiúa, in circostanze simili.

Custodi, animatori, testimoni

I catechisti sono custodi, animatori e testimoni delle loro comunità cristiane. I ventiquattro martiri di Guiúa lo sono stati in modo speciale.

Sono stati custodi, ossia «missionari laici», come già erano definiti i catechisti mozambicani nel 1977, ossia «padri di famiglia trasformati in apostoli» che hanno saputo conservare con cura, difendere e proteggere non soltanto la fede dei loro fratelli, ma anche il patrimonio della Chiesa nel tempo in cui essa era sotto il marxismo e colpita dalla guerra civile.

Padre Cornelio Prandina, comboniano morto nel 1992, descrivendo le attività dei catechisti diceva: «Sono incaricati di dirigere e coordinare la vita di decine di comunità, specialmente dove non c’è il sacerdote. Alcuni arrivano ad avere la responsabilità di più di 50 comunità».

Sono stati testimoni, cioè non hanno avuto paura di testimoniare la loro fede di fronte al pericolo. Uno degli scampati del 21 marzo 1992 ha raccontato l’interrogatorio subito dai guerriglieri:

«Da dove venite?».
«Veniamo da diverse missioni della provincia».

«Per fare che cosa?».
«Noi siamo catechisti: impariamo la Bibbia e i diversi lavori dei cristiani nelle comunità cristiane».

«Dov’è il vostro cibo?».
«Siamo poveri, non abbiamo magazzino e viviamo alla giornata».

«Dove sono i militari che vi difendono?».
«Non lo sappiamo. Non siamo di qui, veniamo da lontano perché qui c’è una chiesa e un Centro che forma i catechisti».

«Voi siete sacerdoti?».
«No. Siamo catechisti».

«Che abbiate risposto bene o male, giusto o sbagliato, per voi la fine sarà la stessa: cioè la morte».

Sono stati animatori di comunità: durante quegli anni alcuni di loro, reagendo alla paura, riunivano piccoli gruppi di cristiani, anche di due o tre persone soltanto. Poco importava se all’ombra di una capanna o sotto una pianta di caju (anacardio). In tutto il Mozambico, scomparsi i quadri organizzativi della chiesa, le piccole comunità cominciavano discretamente a riaggregarsi per pregare e leggere la Bibbia, grazie al lavoro dei catechisti. Progressivamente, si sono formate e rafforzate tante piccole comunità, organizzate attorno alla Parola e alla preghiera al fine di garantire il servizio della fede e l’aiuto ai fratelli in necessità: il catechista svolgeva un ruolo fondamentale. L’essere e l’agire della comunità radunata attorno al catechista o all’animatore, che si trattasse dell’azione semplice di ogni giorno o dell’estremo dono di sé, esprimevano la concezione di una vita messa a disposizione della Parola e della legge del Signore. Era questa la loro prima e radicale espressione. Si trattava di una vera e propria spiritualità del martirio.

Joaquim, Isabel e Carlos

Sul catechista cinquantatreenne Joaquim Marrumula Nyakutoe si dice che fosse uomo coraggioso e pieno d’amore verso la sua gente, e che seppe, con il suo zelo apostolico, formare e animare la sua comunità cristiana di Guissembe. Aveva dieci figli, dei quali tre furono rapiti e tornarono a casa dopo sei mesi.

Sulla catechista quarantacinquenne Isabel Foloco si dice che fu una donna sempre disponibile ad animare la comunità e a collaborare nei diversi impegni. I più bisognosi della comunità trovavano sempre in lei un aiuto. Aveva cinque figli e fu uccisa davanti a loro.

Su Carlos Mukuanane trentaduenne si dice che aveva una buona capacità di leader. Fu scelto per essere catechista e animatore della comunità di Funhalouro che si trovava senza sacerdote. Seppe animare la sua comunità cristiana nella preghiera e lettura della Bibbia. Aveva quattro figli.

Sono tre esempi di custodi, testimoni e di animatori di comunità che hanno dato la loro vita mentre si preparavano per il loro ministero. Il sacrificio delle famiglie di Guiúa non è stato inutile, perché quel luogo oggi è il fulcro della diocesi di Inhambane, dove si può toccare e vedere l’impronta della presenza di Dio nella terra dei Tonga, dei Twas, degli Xopes e degli Ndaus. Voglia Dio aprire gli occhi e la mente di tutti perché possiamo percepire, ricordare e valorizzare debitamente quest’apertura del cuore di Dio per Inhambane.

Osório Citora Afonso

Sui martiri di Guiúa nell’Archivio MC:


È morto monsignor Francisco Lerma  MartÍnez

Missionario, vescovo, amico dei mozambicani

 

Mons. Francisco Lerma Martínez, missionario della Consolata, vescovo di Gurué, è andato alla casa del Padre il 25 aprile scorso. Era ricoverato all’ospedale Istituto del Cuore a Maputo, Mozambico.

Nato a Murcia, in Spagna, il 4 maggio del 1944, mons. Francisco Lerma ha passato quasi tutta la sua vita missionaria in Mozambico, paese che ha raggiunto nel 1971, dopo l’ordinazione sacerdotale.

Dal 1971 al 1974 è stato prima viceparroco e poi parroco a Maúa, quindi dal 1974, per due anni, direttore della scuola per catechisti di Correia. Passati gli anni dell’indipendenza del Mozambico, dal 1976 al 1979 è stato parroco a Cuamba dove ha chiuso il suo primo decennio di missione nella Provincia del Niassa, Nord Ovest del Mozambico, la più povera del paese.

Nel 1979 è stato inviato più a Sud e gli è stato affidato il ruolo di segretario della pastorale nella diocesi di Inhambane, ruolo che ha dovuto interrompere dopo due anni per recarsi in Spagna a causa di una malattia che lo ha fermato per più di un anno.

Nel 1982 è ritornato in Mozambico e ha ripreso il servizio di coordinamento pastorale. Dopo quattro anni gli è stata assegnata la cura pastorale della parrocchia di Massinga dove è rimasto per altri quattro anni.

All’inizio del 1992 è stato mandato a guidare la formazione dei seminaristi al seminario filosofico di Matola, ruolo che ha ricoperto per quattro anni.

issione. Ha saputo stare dalla parte dei poveri, facendo sentire il loro grido, e ha richiamato con coraggio alla pace e riconciliazione dopo i tanti fatti di violenza e ingiustizia

Passati alcuni mesi dall’inizio del 1996, alla parrocchia di Nova Mambone, a giugno è nominato direttore del Centro catechistico di Guiúa, dove quattro anni prima 24 catechisti avevano testimoniato col loro martirio l’amore a Cristo e al Vangelo. È rimasto a Guiúa fino al 2002, ricoprendo allo stesso tempo il servizio di consigliere della Regione Mozambico dei missionari della Consolata.  Dopo un periodo a Roma, dove si è occupato del Segretariato generale per la missione per l’Istituto, nel 2007 è ritornato in Mozambico dove è stato eletto superiore regionale l’anno seguente. Ruolo che ha svolto per due anni fino al 24 marzo 2010, quando Papa Benedetto XVI lo ha nominato vescovo di Gurué.

Mons. Francisco era una persona semplice e amabile, vicina a coloro che il Signore gli affidava nel corso della sua attività missionaria. Nel periodo prima dell’indipendenza del Mozambico, ha condiviso i dolori e le gioie di un popolo che gridava e lottava per la libertà. Poi, nel periodo post indipendenza, ha condiviso la fatica dello stesso popolo di trovare intesa e riconciliazione. Si è interessato profondamente della cultura e all’espressione religiosa di coloro che serviva, scrivendo anche libri e divulgandone la conoscenza.

Persona comunicativa, ha cercato, soprattutto negli ultimi anni come pastore della chiesa di Gurué, di fare conoscere la situazione dei suoi cristiani e anche di coinvolgere tanti amici e conoscenti nella sua stessa m accaduti nella diocesi a lui affidata.

Pedro Louro




Amazzonia brasiliana. «Gli indigeni, organizzati e perseguitati»


Testo e foto di Paolo Moiola


Dagli Ashaninka alla metropoli di Manaus, finora il percorso di dom Sérgio Eduardo Castriani si è svolto tutto all’interno dell’Amazzonia. Un mondo affascinante al quale oggi l’arcivescovo guarda con crescente preoccupazione. Disboscamenti, incendi, offensiva contro i diritti dei popoli indigeni. Tutte le problematiche da tempo esistenti si sono aggravate dopo l’avvento di Bolsonaro alla presidenza del Brasile.

Manaus. Dom Sérgio Eduardo Castriani, oggi arcivescovo di Manaus, conosce bene l’Amazzonia. «Sono quarant’anni che vi abito», ricorda con orgoglio. Iniziò nel 1979 a Feijó, in Acre, stato brasiliano confinante con Perù e Bolivia, dove lavorò a lungo con gli Ashaninka (Kampas). Un periodo ricordato con nostalgia. Tanto che, durante il nostro incontro, dom Sérgio – classe 1954 – si alza per andare nel suo studio a prendere una vecchia foto in bianco e nero: «Eccomi vestito da indigeno», dice indicandomi un giovane ritratto con una tipica tunica ashaninka.

Dall’Acre egli fu destinato al Nord, municipio di Tefé, stato di Amazonas dove ebbe la possibilità di conoscere molte altre etnie: Mayorunas (Matsés), Miranhas, Cocamas, Kambebas, Kanamaris, Kulina, Katukinas, Tikuna. Nominato vescovo, rimase a Tefé fino al 2012 quando divenne arcivescovo.

La metropoli amazzonica oggi conta oltre due milioni di abitanti ed è in continua e rapida espansione. «Ma – precisa dom Sérgio – risulta sempre più invivibile. Perché la qualità della vita in certi quartieri è di volta in volta peggiore. La questione della sicurezza di fronte al dominio delle bande rende la vita difficile alle persone comuni. Per parte loro, i ricchi sono sempre più chiusi in strutture abitative (condominios fechados) per accedere alle quali si possono incontrare più difficoltà che per entrare in un paese straniero».

Su Bolsonaro e il suo governo

Monsignor Castriani, dopo i primi mesi di governo Bolsonaro, lei è più pessimista o più ottimista?

«Sono più realista, perché si sta confermando lo scenario peggiore. Il Brasile sta cambiando in peggio, ma nulla che non sia stato detto durante la campagna elettorale».

Come mai i brasiliani hanno premiato un personaggio pericoloso come Jair Bolsonaro?

«Con l’elezione di Bolsonaro il popolo brasiliano ha dato una risposta alla crisi economica, etica e morale del paese. Bolsonaro significa quello che è nuovo, anche se è sbagliato. La gente è stanca dei politici. Il Partito dei lavoratori (Partido dos trabalhadores, Pt) ha avuto le sue opportunità per fare qualcosa di diverso. Personalmente ho partecipato alle due elezioni di Lula. Allora c’era molta speranza. Però hanno fatto tutto quello che facevano gli altri, a cominciare dalla corruzione. Con il Pt le banche hanno guadagnato molto denaro. In tanti hanno detto di no. Poi, al secondo turno dello scorso ottobre, molti hanno comunque votato Pt perché non volevano Bolsonaro ma non perché volessero il Pt. Io ho votato Pt perché non potevo votare un tipo come Bolsonaro. Disgustoso. Parla con il linguaggio che si sente dai barbieri. Detto questo, bisogna anche ammettere che molta gente buona lo ha votato. Il mio medico per esempio ha votato per lui. Eppure è un uomo intelligente. Il suo argomento era la ricerca del nuovo, il fatto di non volere più il Pt al potere».

Rimanendo in tema di elezioni, le chiese neopentecostali si sono schierate per il nuovo presidente.

«Già quattro anni fa Bolsonaro ha cominciato la sua campagna con le chiese pentecostali. Si tratta di chiese che hanno molti seguaci fedelissimi che obbediscono al pastore. E che portano avanti questo discorso moralista contro le persone Lgbt (Lesbiche, gay, bisessuali, transgender, ndr) e omofobico. Bolsonaro si diceva cattolico, ma è stato battezzato nel Giordano dai neopentecostali (nel maggio 2016 in Israele dal pastore – oltre che politico e imprenditore – Dias Pereira detto Everaldo della chiesa Assembleia de Deus, ndr). In ogni caso, lui fa il gioco dei pentecostali, come d’altra parte lo fece Dilma. All’inaugurazione del suo secondo mandato invitò Macedo davanti al quale s’inchinò, mentre il nunzio apostolico (della Santa Sede) rimase in secondo piano».

 

C’è una spiegazione a questa scelta di campo delle chiese evangeliche?

«Il potere. E poi esse dispongono di uno strumento in più. Tutto il mondo vuole salute e denaro. Sempre più denaro. Le chiese evangeliche danno un supporto teologico attraverso la “teologia della prosperità”. Con essa si può giustificare tutto, anche ruberie e corruzione, perché la ricchezza è considerata una benedizione di Dio. Se i loro uomini andranno al potere, per il Brasile questo sarà un pericolo molto grave. Non dimentichiamo che il presidente ha la possibilità di nominare moltissime persone in posti di responsabilità».

Il Consiglio indigenista missionario (Cimi) e la Commissione pastorale della terra (Cpt) sono due organismi della Chiesa cattolica brasiliana che fanno un lavoro straordinario. Adesso avranno più problemi?

«Senza alcun dubbio: il primo per il discorso delle terre indigene, il secondo per la questione della proprietà privata. D’altra parte, problemi ne avevano avuti anche con Dilma. Ricordo che un uomo pacifico come dom Roque Paloschi, presidente del Cimi, subì una persecuzione giudiziaria nel Mato Grosso do Sul.

In ogni caso, Bolsonaro si è presentato dicendo che il Cimi e la Cnbb (la Commissione dei vescovi brasiliani, ndr) sono “la parte marcia della Chiesa cattolica”. Il problema è che, in questo momento storico, non abbiamo soltanto un presidente siffatto, ma anche un apparato giudiziale conservatore e un congreo conservatore dominato dallo schieramento Bbb».

Già, Bbb: Biblia, boi, bala («Bibbia, vacche, pallottole»). D’altra parte, anche lo slogan elettorale di Bolsonaro è stato Brasil acima de tudo, Deus acima de todos («il Brasile sopra tutto, Dio sopra tutti»). Non le pare un uso improprio della religione?

«Sì, è stato un utilizzo strumentale della fede per affermare che Dio sta con lui, con il presidente eletto. Dio gli ha dato il mandato. Un discorso neopentecostale. Pericolosissimo perché così si può giustificare tutto».

I governi del Pt

Torniamo a parlare di ambiente. L’Amazzonia come può essere salvata?

«La situazione dell’Amazzonia è urgente. Negli ultimi 40 anni ho visto cambiare tutto: dalla foresta al clima alle città. Tuttavia, il Brasile ha una buona legislazione ambientale. Se fosse applicata, ci sarebbero pochi problemi. Purtroppo, anche sotto il Pt – in particolare durante il secondo mandato di Dilma – è andata male perché ha distrutto l’Ibama (Instituto Brasileiro do Meio Ambiente e dos Recursos Naturais Renováveis) e gli altri organi di controllo».

Monsignore, lei ha votato per Haddad, ma mi pare sia molto critico verso il Pt.

«Sì, è vero ho scelto Haddad, ma sono molto severo verso il Pt. Se lei va a leggere gli editoriali degli ultimi anni della rivista Porantin, edita dal Cimi, sono tutti critici verso quei governi. Ricordo che la Cnbb non è mai stata consultata o ricevuta da Dilma».

Durante i governi del Partito dei lavoratori è stato fatto qualcosa per l’Amazzonia e i suoi abitanti?

«Quando iniziò, io vidi che all’interno dell’Amazzonia per la prima volta ci furono famiglie che ebbero dei soldi. Fu una liberazione. Anche se si dice che il denaro è lo sterco del diavolo, tuttavia senza soldi non può esserci libertà. La bolsa familia è stata uno strumento importantissimo come lo è stata l’arrivo dell’elettricità. Queste sono state conquiste del governo di Lula nei suoi primi anni. Però dopo le cose sono cambiate perché è entrata la corruzione e, con il potere, il partito è diventato elitista. Il mio ideale è stato il Pt dei primi tempi».

Il Pt di Lula, dunque. Però ora lui è in prigione, condannato a una lunga pena detentiva. Se lo aspettava?

«Non me lo aspettavo. Un presidente deve essere giudicato dalla storia. Per il paese Lula ha fatto cose buone. Le accuse nei suoi confronti erano troppo poco per condannarlo. Io credo che lui non abbia fatto nulla di male. Il problema è il sistema che vige nel Brasile. Tutti i partiti fanno lo stesso e il Pt non è stato diverso».

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«Sono diversi. Per fortuna»

Lasciando da parte il governo presente e quelli del passato, come descriverebbe la situazione dei popoli indigeni?

«Nel 1979, quando arrivai in Acre, un ministro dell’Interno disse che gli indigeni sarebbero spariti in 10 anni. Invece sono la popolazione che più è cresciuta nel paese. Io penso che i popoli indigeni siano i poveri più organizzati del Brasile e che, al tempo stesso, siano i più perseguitati proprio perché organizzati».

Monsignore, ha senso parlare d’integrazione?

«La cultura indigena è completamente diversa. Io ho conosciuto molti indigeni sia nell’entroterra che in città. Di solito, a un certo punto delle nostre conversazioni, io debbo ricordare loro: “Io non sono indio. Non lo sono”. Questo per spiegare che non arrivo a capire tutto ciò che mi dicono. Attenzione però, questa è una ricchezza per il Brasile: sarebbe terribile perdere questa diversità. Per fortuna, i popoli indigeni hanno una grande resistenza».

A proposito di cultura, risponde al vero che gli indigeni sono più rispettosi verso l’ambiente?

«Sì, in generale. E questo vale anche per ribeirinhos (comunità che vivono in prossimità dei fiumi, ndr) e caboclos (meticci nati dall’unione di un indio con un bianco, ndr). Ma tutto dipende da quanto sono entrati in contatto con noi bianchi».

Lei è passato da due piccole città – Feijó e Tefé – a una metropoli come Manaus. Qui come vivono i cosiddetti «indigeni urbani»?

«Con tutti i problemi di chi vive nelle periferie. In più essi non sono considerati indiani dal governo, ma c’è una grande resistenza culturale con un buon numero di organizzazioni indigene. Il pregiudizio è ancora grande tra la popolazione bianca. A volte, inoltre, anche coloro che discendono da indigeni tendono a non accettare le loro origini».

(Official White House Photo by Tia Dufour)

Bolsonaro e il Sinodo

È cosa nota che il governo Bolsonaro guardi con sospetto e timore al Sinodo Panamazzonico del prossimo ottobre. Lei come se lo spiega?

«Il Sinodo è esattamente l’opposto di tutto quello che il governo Bolsonaro e i suoi pensano: partecipazione popolare, valorizzazione dei popoli originari, preservazione dell’ambiente. Si tratta di concetti la cui comprensione negli uni e negli altri è diametralmente contraria. Come la lettura che essi fanno dal momento della loro conquista del potere: la Chiesa cattolica sta cercando di riconquistare il potere perduto in favore delle chiese pentecostali e del mondo laico».

Nonostante tutte le difficoltà, lei pensa che il Sinodo sarà un successo?

«È già un successo nella misura in cui è iniziato un processo di riflessione che certamente avrà anche delle conseguenze pratiche».

Paolo Moiola


Riflessioni sull’etnoturismo

Un selfie con gli indigeni?

Due città amazzoniche importanti: Manaus in Brasile e Iquitos in Perù. Due comunità indigene – i Bora (originari della regione del Rio Putumayo) a Iquitos, i Desana (della regione del Rio Uaupés) a Manaus – che, indossando vestiti tradizionali e con i volti dipinti, accolgono nella maloca gruppi di turisti davanti ai quali si esibiscono in danze e canti.

I turisti si mostrano entusiasti dello spettacolo offerto, scatenati con le loro macchine fotografiche, le telecamere e soprattutto con gli immancabili smartphone.
Difficile dire se, per questi indigeni, sia giusto o sbagliato mostrarsi così. Difficile dire se sia una scelta volontaria o soltanto dettata da questioni di sopravvivenza. Difficile capire se, dopo queste visite, i turisti avranno una conoscenza più approfondita del mondo indigeno e una maggiore empatia con esso oppure soltanto una foto o un selfie da mettere su Facebook, Instagram o su altri social network. Alcune ricerche suggeriscono che scattare selfie faccia bene allo spirito di chi li fa. Sarebbe bello che facesse bene anche all’esistenza di chi – volente o nolente – li subisce.

Paolo Moiola

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Essere auguri, non fare gli auguri


Testo e foto di Stefano Camerlengo


Tornato in Kenya in occasione della Settimana Santa per partecipare all’assemblea dei missionari subito dopo Pasqua, ho avuto la gioia di un’esperienza bellissima nel Nord del paese, nella diocesi di Maralal, andando a celebrare il triduo pasquale nella prima missione del territorio, Baragoi, fondata nel 1952.

Giovedì Santo

Il Giovedì Santo insieme a Patrick, l’autista della comunità della casa regionale di Nairobi, iniziamo il viaggio: Nairobi – Baragoi, 640 km. Un viaggio dal sapore antico, di missione vera, con un pezzo della strada asfaltata, opera dei soliti cinesi, un’altra parte in cantiere e l’ultimo tratto ancora da sistemare. Un viaggio impegnativo. Prima tappa alla missione di Rumuruti e incontro con padre Mino Vaccari, un missionario quasi novantenne che rimane sempre presente nonostante le burrasche della vita.

Terminata la colazione e il dialogo con il missionario, via per la strada verso Maralal dove siamo attesi alla casa del vescovo, mons. Virgilio Pante. Con lui consumiamo un fraterno pasto e dopo i saluti via di nuovo verso Baragoi, ballando al suon di musica cadenzata dalla strada piena di pietre e corrugazioni varie. Finalmente alle 16.30 arriviamo alla missione di Baragoi, una delle presenze dell’Imc più antiche.

Siamo accolti dalla musica proveniente dalla chiesa strapiena di gente che innalza canti di gloria al Signore nel ricordo del giorno dell’Eucarestia. Una Messa semplice, senza troppe cose, ma sentita e partecipata e soprattutto cantata da tutti. Certamente devo riconoscere l’emozione provata all’intenso ricordo dei bei momenti vissuti in brousse con la gente nella foresta del Congo (allora Zaire), quando più giovane vivevo in una missione di frontiera.

Venerdì Santo

La giornata nella cittadina inizia con una visita a un panificio, creato dai nostri missionari e affidato a due giovani intraprendenti. Una casa dignitosa costruita per accompagnare il progetto. Un pane viene venduto a 25 scellini (circa 25 centesimi al chilo). Non è molto, anzi è quasi niente, ma è prezioso perché qui da tempo non piove, la fame è già presente e la crisi si avvicina. Terminata la visita andiamo a benedire un grande gruppo di persone, per lo più donne e bambini, che sfidando il calore e il sole proibitivi s’incamminano verso una collina simbolica recitando il Rosario e tornano facendo la Via Crucis, il tutto percorrendo diversi km, precisamente 7 di andata e 7 di ritorno, con un clima che definire solo caldo è un gioco, infatti solo ieri c’erano circa 32 gradi all’interno della casa e 43 fuori.

La camminata ha voluto essere una testimonianza della fede, una manifestazione della preghiera al Dio della vita che per amore muore in croce.

Personalmente non oso prendere parte alla camminata, segno della vecchiaia che arriva, a causa del caldo eccessivo e soprattutto del sole che non ha pietà, ma benedico con tutte le mie forze questa gente che nonostante tutto, sfidando il caldo eccessivo, la mancanza di pioggia che attanaglia la regione da mesi, vuole liberamente e con calma, camminare insieme la Via Crucis di Gesù per rendergli gloria e lasciarsi riempire dalla sua grazia.

Anche se non sono andato con loro mi sento parte di questa gente semplice che, già da ieri sera, al mio arrivo mi ha adottato come uno di loro e con me vogliono vivere il mistero pasquale.

Verso le ore 13.30 tutto il gruppo della camminata ritorna alla chiesa parrocchiale. Una breve pausa per rifocillarsi, bere dell’acqua e riposare un pochino e poi inizia la seconda celebrazione della giornata, quella della liturgia della croce. La gente aumenta a vista d’occhio e alla fine la chiesa si trova totalmente piena. La cerimonia si svolge con attenzione e semplicità, senza troppi fronzoli guardando all’essenziale dello spirito della liturgia del Venerdì Santo che non vuole partole inutili e che concentra tutto il messaggio attorno ai tre segni: la Parola, la Croce, la Comunione.

Sabato Santo

Inizia con le confessioni, dalle 9.00 circa fino alle 12.00. Una fila ininterrotta di persone, grandi e piccole, con ordine e rispetto, molto ben preparati si avvicinano per la confessione individuale e la relativa penitenza proprio per prepararsi bene alla celebrazione pasquale.

Nel pomeriggio si parte per iniziare le celebrazioni pasquali in quasi tutte le cappelle sparse sul territorio. Con padre Matthew Kirema, il parroco, affrontiamo la pista più difficile e problematica, mentre padre Roberto Sibilia va in altri villaggi. Dopo 6 o 7 km siamo costretti a fermarci perché la Land Rover, di soli 22 anni di vita, inizia a fare capricci e ci obbliga ad una sosta forzata. Fortunatamente siamo in zona dove c’è connessione e possiamo chiamare un giovane meccanico che con una rapidità sorprendente ci raggiunge e in pochi minuti ripara il guasto.

Si riparte e vengo lasciato sotto un albero nel villaggio di Soit Ngiro. Un villaggio particolare di Samburu, incollato sulla collina, vicino al letto di un fiume che da tempo non conosce acqua. In questo villaggio vivono più o meno 30/40 famiglie, isolate dal resto del mondo.

Arriviamo e l’accoglienza è subito una festa, soprattutto da parte dei bambini e delle donne; gli uomini rimangono in disparte sotto un albero a dialogare tra loro, come se niente fosse. Anche la mia cappella è un albero molto grande e ombroso che lascia passare una dolce arietta che rinfresca l’ambiente, e ce n’è bisogno. La partecipazione è sentita e attenta, le mamme devono seguire la messa e le parole del padre (in kiswahili, con cui avevo già dimestichezza in Congo), e allo stesso tempo devono accudire il bambino che portano in braccio e quello più grande, che gli scorrazza attorno. È proprio vero qui è tutto in mano alle donne. Povera Africa senza le donne.

In una parte del villaggio scorgo un movimento particolare, curiosamente vado a guardare e trovo una festa per la casa nuova che una famiglia sta preparando. Alcune donne stanno conficcando i pali per la manyatta, altre trasportano materiale, gli uomini all’ombra stanno guardando dopo aver terminato la festa di benedizione per la nuova casa e bevuto alla faccia… del malocchio, ma anche delle donne! Terminata la messa e la visita al villaggio con il catechista, una sua bambina, un giovane e una mamma anziana, iniziamo a piedi la via del rientro per arrivare alla via principale e ritrovarci con padre Matthew che dopo averci lasciato ha proseguito per altri due villaggi più lontani. Percorriamo il tratto di diversi chilometri e alla fine stanchi ma contenti ci ritroviamo con il padre per fare ritorno alla missione già a notte avanzata.

Appena arrivato, via di corsa alla cappella Huruma, situata alla periferia Sud della cittadina di Baragoi, in una zona abitata prevalentemente da Turkana, dove un bel gruppo di cristiani ci sta aspettando per la veglia pasquale. Termino stremato, senza forza né voce, ma contento di aver potuto servire il Signore in questo angolo dimenticato di mondo, dove non solo il calore è un problema, ma soprattutto la mancanza d’acqua. Sono ormai le 23.30 passate, mi siedo in casa, bevo quasi un litro d’acqua contento di aver passato una Pasqua speciale, con della gente semplice e senza troppe pretese, dove tutto è dono da accogliere e da celebrare, anche la fatica di vivere.

 

Domenica di Pasqua

Arriviamo così alla domenica di Pasqua. Di primo mattino arriva il mio accompagnatore per raggiungere due centri, relativamente vicini alla missione, precisamente Logetei e Nachola.

La prima comunità è quella di Nachola, gente buona e accogliente. Un centro situato su una collinetta da dove si può dominare tutta la valle. Una valle dai contorni infiniti, con una bellezza surreale perché ti dà l’impressione di essere fuori dal mondo, proiettato quasi sulla luna. La cappella è bella e bene areata, uno spettacolo poter celebrare animati dai canti e dalla partecipazione attiva della gente. Terminiamo cantando e lodando Iddio per questa nuova Pasqua che ci fa vivere.

A Logetei, la cappella è più antica e caldissima. Qui ci sono una quarantina di adulti e giovani che sono pronti per ricevere il battesimo e la cresima. Siamo già arrivati alle ore 11.30 circa, il sole è forte su nel cielo, e la cerimonia inizia con canti e festa grande. I giovani sfilano vicino all’altare esibendo i loro nomi da cristiani, consapevoli del grande passo che stanno facendo. Terminiamo la celebrazione e stanchi e contenti ci avviamo verso casa, con la gioia dell’operaio che anche oggi qualche cosa ha potuto realizzare per la gloria del Suo nome.

Qualche riflessione

Pensando alla Pasqua e alla tradizione degli auguri, vivendo quest’anno il triduo con queste persone semplici ho pensato che poteva essere l’occasione per tentare di «essere auguri» più che pensare di «fare gli auguri»!

Anziché fare gli auguri, essere auguri, farsi augurio per gli altri, non chiedendo cosa mi possono donare, ma impegnandosi a portare qualcosa per rendere la Pasqua e la vita più bella, più umana. Come insegna il Nuovo Testamento, per il quale la felicità non è un’utopia,  ma una possibilità concreta alla portata di tutti. Infatti, la felicità per Gesù, non consiste in quel che si riceve, ma in quel che si è capaci di donare: «Si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Se la felicità dipende da quel che si riceve, si rischia di consumare l’esistenza sempre amareggiati, perché gli altri non hanno saputo rispondere ai bisogni, ai desideri per i quali si è atteso invano una risposta. Ma se la felicità consiste invece in quel che si dona, questa può essere possibile, immediata e piena; anzi, più si dà e più si è felici, perché il Padre non si lascia vincere in generosità, e regala vita a chi dona amore: «Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi; anzi, vi sarà dato di più» (Mc 4,24; Lc 12,31).

Essere un augurio per gli altri significa fare della generosità il distintivo che rende riconoscibili.  Come il Cristo risuscitato, che ogni volta che si manifesta ai suoi discepoli dice loro: «Pace a voi» (Gv 20, 19.21.26). Il suo non è un augurio, ma un dono. La pace può essere un dono solo quando è espressione di tutta la vita della persona, altrimenti è solo un suono. Chi dona pace non solo comunica gioia, ma arricchisce la propria: «Perché la nostra gioia sia perfetta» (1 Gv 1,4). La pace, l’ebraico shalòm, nel mondo semitico ha un significato molto più ampio di quello conosciuto in Occidente, infatti include tutto quel che di buono e bello rende appagata la persona, dalla pienezza di salute all’amore, dal lavoro al benessere: la felicità. Per questo in quella cultura, come in quella africana in genere, il saluto augurale, non è mai espresso solo verbalmente, ma sempre accompagnato da un dono, che può essere un dolce, una bevanda, un frutto, per contribuire alla felicità e alla gioia di chi riceve il saluto. Per questo quando Gesù dona pace, regala felicità, e quel che aveva promesso non rimane un augurio, ma diventa realtà, affinché «la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11; 16,24). I Vangeli invitano a essere portatori di questa pace: «In qualunque casa entriate, prima di tutto dite: “Pace a questa casa!”», (Lc 10,5) affinché questa raggiunga tutti gli uomini.

Ringrazio di cuore e saluto fraternamente padre Matthew e padre Roberto, i due confratelli che da tempo sono auguri per questa gente, in mezzo a questo popolo.

Coraggio e avanti in Domino!

Stefano Camerlengo
superiore generale IMC


Kenya: qualche informazione per capire

l Kenya è situato nella regione centrorientale dell’Africa, a cavallo dell’equatore. Ricopre una superficie di 582.546 km2 e ha oggi una popolazione di 52.051.295 abitanti (stima al 5/5/2019 del Population Clock). È caratterizzato da 44 gruppi etnico-linguistici tra cui i Kikuyu e i Luo (le due etnie più numerose), gli Akamba, i Meru, i Masai, i Samburu, i Turkana, i Borana, ecc. comprese anche le due «tribù» dei Wazungu (cioè quelli che noi diciamo i «Bianchi») e degli Asiatici. Le lingue ufficiali sono lo swahili e l’inglese.

Per quanto riguarda le religioni: i keniani sono per il 47% cristiani protestanti, per il 25% cattolici, per il 12% di chiese indipendenti africane, per l’11% musulmani e per il 5% sono tradizionali, atei o di altre religioni (dal censimento del 2009).

Il Kenya è un paese indipendente dal 1963 ed è una repubblica presidenziale la cui capitale è Nairobi.

La moneta è lo scellino e i prodotti principali sono il caffè, il tè, il granoturco, fiori e ortaggi per esportazione e il bestiame.

Le malattie più diffuse sono la malaria, l’amebiasi, la bilharziosi, la tubercolosi e, in questi ultimi anni, l’Aids. La mortalità infantile è passata da 119 su 1000 nati vivi nel 1960 a 37 su 1000 nel 2017 (in Italia 3 su 1000); la vita media si aggira intorno ai 64 anni (fine 2017 – Italia 82) e l’analfabetismo (sopra i 15 anni) è circa del 22% nel 2015.

Dalla diocesi di Marsabit alla nascita della diocesi di Maralal

La diocesi di Marsabit, alla sua creazione nel 1964, si estendeva nel Nord del Kenya dal Lago Turkana fin quasi alla Somalia, in quello che durante la colonia era il territorio (inaccessibile ai missionari) a Nord delle diocesi di Nyeri e del Meru e abitata dalle popolazioni Samburu, Turkana, Rendille, El Molo, Gabbra, Borana e Somali. Aveva una superficie di circa 100.000 km2 con una popolazione allora stimata a poco più di 170mila persone.

L’evangelizzazione del territorio ha avuto inizio nel 1952 ad opera dei missionari della Consolata con l’apertura della missione di Baragoi. Nel 1964 è stata creata la diocesi di Marsabit formata dall’omonimo distretto e da quello Samburu (ora i distretti si chiamano county, contea). Esistevano allora 12 parrocchie/missioni in tutto per una popolazione di 180mila persone e 615 cattolici (dati del 1969). Il primo vescovo è stato mons. Carlo Cavallera, trasferito da Nyeri. Nel 1981 gli è succeduto un altro missionario della Consolata, mons. Ambrogio Ravasi, tutt’ora vivente e ritirato nel santuario mariano di Marsabit.

Nel giugno 2001 la grande diocesi è stata divisa in due: il distretto di Marsabit (78mila km2, 175mila abitanti, 20mila cattolici e 10 parrocchie/missioni) è rimasto con il vescovo Ravasi ed è stata creata la diocesi di Maralal (21mila km2, 144mila abitanti, 24mila cattolici e 12 parrocchie/missioni) nel distretto Samburu con il nuovo vescovo mons. Virgilio Pante.

I dati più recenti delle due diocesi

(fonte Annuario pontificio 2017)

Marsabit: il vescovo Ravasi ha dato le dimissioni nel 2006 per raggiunti limiti di età e mons. Peter Kihara, missionario della Consolata keniano, nel novembre dello stesso anno è stato installato come nuovo vescovo, trasferito dalla diocesi di Murang’a. Ci sono 386mila abitanti, 45.579 cattolici, 13 missioni, 20 preti locali e 13 missionari. La diocesi è caratterizzata da una popolazione a maggioranza islamica.

Maralal: 255mila abitanti, 76.797 cattolici, 14 missioni, 19 preti diocesani e 13 missionari. Nativo della diocesi è il vice superiore generale dei missionari della Consolata, padre James Lengarin.

Situazione attuale

Dalla metà degli anni ‘90 sia il distretto del Marsabit che quello Samburu, soprattutto, sono diventate aree piuttosto pericolose a causa dell’acuirsi delle tradizionali razzie di bestiame tra i vari gruppi etnici. La presenza dei guerriglieri/predoni shifta nel Marsabit, quella dei predoni ngorokos nel Samburu e l’interesse di trafficanti di bestiame sia verso Nairobi che verso i paesi della penisola arabica, ha aggravato la situazione. Per questo il governo ha concesso ai capi dei villaggi di tenere armi leggere e, da quel momento, molta gente tiene un fucile nella capanna.

Nel 1996, durante la campagna elettorale nel Samburu, alcuni candidati al Parlamento hanno alimentato le rivalità tra le varie etnie, sfociate poi in gravi razzie e scontri a stento domati dall’esercito, svantaggiato sui locali che conoscono meglio il territorio. Ci sono stati decine di morti e molte persone sono state costrette a raccogliersi in grandi campi di rifugiati, soprattutto attorno a Baragoi, o a fuggire nella periferia di Maralal. La situazione ora sembra calma, anche se la presenza diffusa di armi leggere continua a favorire il banditismo.

In questi ultimi anni si è avuto anche un crescendo delle tensioni etniche tra Turkana e Samburu e anche con i Pokot, che vivono nella Rift Valley, ai confini Sud del Samburu. Queste tensioni hanno avuto anche gravi ripercussioni nel vicino Laikipia dove c’è la missione di Rumuruti. Tutto questo ha ovviamente aumentato la povertà e l’incertezza per il futuro.

Le due contee (Marsabit e Samburu), inoltre, hanno ampie zone desertiche e sono periodicamente colpite da gravi crisi di siccità. Anche ora sono già passate due stagioni delle piogge (ottobre-novembre e marzo-aprile) senza che sia piovuto a sufficienza e nella sola contea Samburu sono oltre 90mila le persone a grave rischio di fame.

È anche evidente il problema dei giovani, che costituiscono oltre il 50 per cento della popolazione. Finite le scuole elementari e medie (primaries), non sanno cosa fare. Le scuole secondarie sono concentrate nei centri principali (Maralal, Baragoi, Wamba) e quindi distanti dai villaggi dove gran parte della popolazione vive. Sono tutte residenziali e costose (trasporto, uniformi, libri, materiale didattico, effetti personali e tasse scolastiche richiedono dai 600 agli oltre 1.000 euro all’anno) e, quindi, per molti continuare gli studi è un miraggio. E finita la scuola è difficile trovare un lavoro nella regione.

Molti stanno vivendo anche un periodo di confusione a causa del pullulare di sètte religiose. I giovani, quindi, rappresentano la grande sfida della società keniana e di conseguenza delle parrocchie della diocesi, che spesso sono l’unico punto di riferimento della gioventù anche fuori dalla scuola.

(a cura della redazione)




Niger: Siamo in un mondo al contrario


Nei paesi del Sahel l’islamismo sta assumendo varie forme. Gli stati non riescono a controllarlo. La strategia (imposta dall’Occidente) è quella di fargli la guerra, senza tentare il dialogo. Inoltre, si tende ad assimilare jihadismo e migrazione. In questa confusione qualcuno ne approfitta per mantenere lo status quo. L’analisi di un grande intellettuale nigerino.

Testo e foto di Marco Bello

Sguardo vivace, voce calda e accogliente. Moussa Tchangari, ci riceve nel suo piccolo ufficio, alla sede dell’associazione che ha fondato nel lontano 1994, Alternative espaces citoyens (Asc). «Un’associazione apolitica senza fini di lucro, la cui missione è operare per l’avvento di una società fondata sull’uguaglianza dei diritti umani e dei sessi, preoccupata per la preservazione dell’ambiente e della promozione della gioventù, e la valorizzazione della solidarietà tra i popoli», si legge sul sito.

Conosciamo Moussa dal 2009, ma in questi anni il contesto è molto cambiato. Tutta l’area del Sahel è sconvolta come non mai dal fenomeno degli attacchi terroristici. Tanti sono i gruppi jihadisti sul terreno, come abbiamo descritto in precedenti articoli (vedi archivio MC). Inoltre, nell’area, è diventato cruciale il fenomeno dei flussi migratori. Fenomeno che già esisteva, ma che gli occidentali hanno scoperto solo da qualche anno. Così diversi eserciti delle potenze ricche sono ora presenti nei paesi del Sahel: Francia, Usa, Germania, Belgio, contingenti misti dell’Unione europea e perfino poco meno di un centinaio di militari italiani proprio in Niger (Cfr MC marzo 2018). I contingenti hanno la doppia scusa di combattere il terrorismo e bloccare i flussi migratori.

Moussa Tchangari è molto conosciuto nel suo paese, come leader della società civile, come uno che non si piega nel difendere i suoi ideali. E per questo negli ultimi anni è stato anche incarcerato più volte, da un governo, quello di Issoufou Mahamadou, che si dice socialista. Con lui abbiamo parlato delle grandi preoccupazioni dell’area e delle sfide della società civile.

Gli islamisti, perché?

Moussa ci spiega quali possono essere le cause profonde dell’insediamento dei gruppi jihadisti in tutta l’area. «Gli islamisti sono la forza antisistema più visibile, più evidente e più attiva in questo momento storico. Nella maggior parte dei paesi del Sahel, Mali, Burkina e Niger, sono loro che fanno parlare di sé. Sono armati e portano avanti una sorta di guerriglia, compiono attentati contro obiettivi civili e militari». Ma, ci spiega Moussa, con la sua voce calma e calda, non è l’unico fenomeno importante di questi anni. «Vediamo anche una corrente islamista non armata, che sta progredendo nella società. I suoi adepti fanno un lavoro paziente di educazione, formazione, sensibilizzazione, inquadramento».

Si tratta di un movimento più morbido, ma egualmente molto incisivo in un paese al 98% musulmano. Chiediamo a Moussa se si può parlare di radicalizzazione dell’islam.

«Non so se il termine radicalizzazione dell’islam sia appropriato. Il fenomeno che osserviamo è un ritorno in forza di religiosi, nella vita di ogni giorno, anche in ambienti dove non erano presenti. Ad esempio, nelle università i temi dominanti sono cambiati. Qualche anno fa i discorsi erano di sinistra, oggi sono sorte ovunque zone di preghiera, e gli studenti sono più legati a questo aspetto. Nella società ci sono alcune correnti che si stanno imponendo, come i Salafiti, che predicano il ritorno ai valori di base, alla “società islamica primaria”, così la chiamano. Una pratica che segue alla lettera il Corano e non ammette sincretismo. Prima dominava la corrente sufi della Tijanyyah, più incline a coabitare con altre pratiche, con una certa tolleranza. Adesso la corrente Izala1 (un movimento salafita originario della Nigeria del Nord), che era minoritaria, si è propagata e ha molti adepti. Vedete le donne velate in modo diverso, un differente stile di vestirsi, di portare la barba».

Ci chiediamo come sia successo questo. «Oggi c’è un reflusso della sinistra tradizionale. In passato c’erano correnti marxiste leniniste che proponevano qualcosa di diverso. Assistiamo quasi alla scomparsa di queste forze che erano quelle anti sistema. Si è creato un vuoto che gli islamisti stanno riempiendo».

Due movimenti dunque, uno che ha scelto la via della lotta armata e l’altro quella della penetrazione sociale. Che contatti ci sono tra di loro?

«Non osserviamo ancora un’unione tra queste due correnti. Se si unissero, l’islamismo costituirebbe una forza notevole nei nostri paesi. Entrambi si oppongono a chi è al governo e propongono un loro progetto, che è un progetto antisistema. Essi dicono di essere contro la democrazia, anche se non è proprio la democrazia quello che stiamo facendo qui, la chiamiamo così anche se è imperfetta. Loro propongono qualcosa di diverso. Anche dal punto di vista legislativo, vogliono delle società rette dalla legge islamica».

Islam e politica

«Ma è anche un movimento politico, incoraggiato dall’interno come dall’esterno. Osserviamo l’ampliamento di una dinamica riformista della religione che introduce nuovi modi di pensare, di vivere, di intendere i rapporti tra le persone. È una trasformazione nel campo delle pratiche religiose e una proiezione del religioso sul campo politico».

Queste correnti islamiste sono in forte crescita, con un numero di seguaci in aumento continuo e quindi un peso politico sempre più importante.

«Ma le Costituzioni dei paesi del Sahel impediscono che i partiti siano creati su base religiosa, mentre è possibile in altri, come quelli arabi e nordafricani. Questo vuol dire che il sistema degli esclusi si sviluppa al margine di quello ufficiale, il quale non offre loro la possibilità di una partecipazione politica.

E alcuni (degli esclusi) hanno fatto la scelta della lotta armata, perché non ci sono possibilità legali per loro. Presto o tardi, si andrà allo scontro, e secondo me siamo già un po’ a questo».

I governi della regione stanno facendo la guerra ai gruppi che hanno scelto la lotta armata, i cosiddetti jihadisti. Hanno costituito il «G5 in Sahel», un coordinamento degli eserciti di Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad, con l’appoggio della Francia.

Ma Tchangari ci spiega: «Oggi gli stati saheliani sono molto deboli rispetto a tutte queste correnti sia armate che non armate. Questo perché non hanno la capacità di ingerenza negli affari religiosi. Forse non dovrebbero neppure farlo. In ogni caso non riescono a regolamentare questo settore, proprio perché questi movimenti non sono riconosciuti come entità legittime.

I problemi dei paesi saheliani si riassumono oggi in una formula: crisi di legittimità degli stati. Lo stato non è riconosciuto come entità legittima, quindi ci sono cose che non può fare, come intervenire sulle questioni religiose. Sarebbe criticato, perché tocca il sacro, e non ne ha la forza.

Gli stati hanno anche difficoltà ad adottare certi tipi di leggi, come il codice della famiglia in Mali, la legge sulla protezione delle ragazze qui, il dibattito sulla laicità.

Il Niger non è uno stato laico ma si definisce “non confessionale”. Ci sono stati dibattiti nei quali abbiamo visto l’influenza molto grande delle differenti correnti religiose sulla politica.

Se la crisi di legittimità dello stato non sarà risolta, esso non potrà regolamentare il settore religioso, che diventa una bomba a orologeria».

E questo fatto fornisce agli stati stranieri l’occasione d’ingerenza. Continua Moussa: «A livello politico si vuole continuare a tenere chiuso il sistema, senza offrire aperture a queste correnti. In alternativa si potrebbe dar loro un riconoscimento legale, al di là di associazioni apolitiche, caritative o culturali. Ma non so se sia la cosa migliore. Oggi non hanno la possibilità di avere un partito di tipo islamico». Ad esempio, in Algeria il Fronte islamico di salvezza (Fis), partito religioso, vinse le elezioni di fine 1991. Ma le forze laiche non lo lasciarono governare, così iniziò la guerra civile algerina con la nascita dei Gruppi islamici armati (Gia) che poi si propagarono, nel decennio successivo anche nei paesi saheliani. «Questa storia in parte spiega quello che è avvenuto qui. Ma almeno in linea teorica in Algeria le correnti islamiste hanno potuto avere un partito. Qui, invece, si fa la scommessa di vincere tutti questi gruppi unicamente per la via militare. Non si vuole riformare il sistema né politico né economico nel paese. Secondo me voler vincere senza cambiare nulla è una scommessa folle».

Quale può essere la soluzione? «Se possiamo avere cambiamenti politici importanti che vanno incontro alle aspirazioni profonde della gente, allora forse si potrebbe fermare l’avanzata di queste correnti, perché ci sarebbe un cambiamento che va verso quello che la gente chiede».

La doppia trappola

Ma questa non sembra essere la tendenza attuale. «Oggi i paesi del Sahel sono doppiamente in trappola: primo, i paesi occidentali dettano la condotta da seguire, non solo sul piano politico e pratico, anche dal punto di vista della riflessione. Ad esempio, nessun governo saheliano può cercare il negoziato con questi gruppi armati. Il solo momento in cui si attiva un dialogo è quando ci sono ostaggi occidentali. In quei casi si conoscono i nomi, gli indirizzi, si hanno contatti, ecc. Ma si considera che non ci siano discussioni politiche da fare.

Secondo: l’opzione di distruggere questi gruppi è irrealizzabile. Ma nessuno dei nostri governi osa dire che non abbiamo i mezzi per combattere i terroristi sul piano militare. Gli occidentali sono pronti a farlo, a dispiegarsi sul terreno, ma non a dare agli stati saheliani i mezzi per fare la guerra e neppure i mezzi per cercare altre soluzioni possibili, come il dialogo.

La strategia degli occidentali è mantenere lo status quo, che permette loro di essere presenti. Non hanno vinto, non hanno negoziato, ma sono qui. Questo è quello che interessa. Non so cosa vogliano fare nel futuro».

In realtà si dice che siano i jihadisti a non voler negoziare. «Loro dicono: noi abbiamo un progetto, opposto al vostro. Il rapporto di forza deciderà. Non hanno detto che vogliono negoziare. Vuol dire che sarebbero totalmente ostili a qualsiasi trattativa? Io penso di no».

La gente qui in Niger dice: visto che quello che chiedono è inaccettabile (ovvero la costituzione di repubbliche islamiche), cosa fare? «Si dice che è impossibile dialogare, e dunque facciamo la guerra. Però vediamo che altrove negoziano: in questi giorni gli Stati Uniti stanno negoziando con i Talebani (si riferisce ai negoziati in corso a Doha, in Qatar, per mettere fine al conflitto afghano, ndr). È normale: erano amici fino dall’inizio. Si conoscono hanno molti contatti, amicizie tra loro. Ed è la stessa cosa con i jihadisti nel Sahel: non sono certo caduti dal cielo, qualcuno li conosce e probabilmente è possibile discutere. Ma si preferisce fare la guerra. Ma la vinceremo questa guerra?».

Il business del secolo

Un altro tema fondamentale per il Sahel degli ultimi 5-8 anni è quello dei flussi migratori verso il Nord Africa e quindi l’Europa attraverso il Mediterraneo. Un tema che sta facendo muovere molti capi di stato e ministri degli esteri europei verso il Niger e non solo. L’Italia, ad esempio, ha aperto un’ambasciata in Niger (inaugurata nel gennaio 2018) e un’altra in Burkina Faso (entro il 2019), due paesi che erano sempre stati totalmente trascurati dalla nostra geopolitica.

«Per lo stato nigerino è una fortuna insperata, un’opportunità importante. L’interesse degli occidentali sulla migrazione è una risorsa diplomatica importante per il governo. Per essere più riconosciuto sul piano internazionale. Ed è pure una risorsa economica. Può negoziare dei fondi.

Ma il primo punto è quello che importa di più, perché questo governo è andato al potere con le elezioni del 2011 e poi è stato riconfermato con quelle dubbie del 2016, quindi è in cerca di legittimità internazionale. Oggi è riconosciuto come campione della lotta alla migrazione clandestina, minicampione della lotta al terrorismo. Inoltre, fa i discorsi che piacciono agli occidentali, come quello sul controllo demografico».

L’Europa non è la destinazione principale dei migranti (Cfr. Mc aprile 2019). I flussi migratori all’interno del continente africano sono molto più importanti. E anche i nigerini migrano per lavoro verso il Nord (Libia) e soprattutto la vicina Nigeria.

«Gli europei si sono imposti e il Niger ha messo in piedi un dispositivo per impedire ai migranti di circolare. Con Frontex, le cooperazioni, le basi militari. Così i militari lottano contro due pericoli, e si identificano migrazione e terrorismo come se fossero la stessa cosa. E si fa la caccia all’uomo. Ad esempio, anche Eucap Sahel Niger si interessa alla migrazione2.

Il Niger è diventato un paese tagliato in due: nel Sud le persone possono circolare liberamente, mentre il Nord è come facesse parte dell’Europa. Qui si cercano, si arrestano, si deportano migranti, in barba a tutte le leggi di diritto internazionale e nazionale».

L’attivista di lungo corso ha la sua idea precisa sulla migrazione: «Per me bisogna lasciare circolare la gente, le persone hanno il diritto di muoversi, andare dove vogliono. Abbiamo un pianeta per tutti gli esseri umani, non ci sono illegali, nessuno è straniero. Io difendo l’idea che le persone debbano poter circolare dappertutto. Le risorse ci sono per tutti, per fare vivere ognuno in modo felice».

Un mondo al contrario

Siamo in un mondo al contrario, analizza Moussa Tchangari: «È un peccato che oggi nei paesi ricchi siano i poveri a essere considerati una minaccia e non i potenti, ovvero quell’1% della gente che si accaparra l’essenziale delle ricchezze. Vedi il povero e pensi sia lui il pericolo, non quelli che posseggono fabbriche e banche, sfruttano e si arricchiscono sulla pelle degli altri. In passato era il contrario. Oggi si chiudono gli occhi sulle devastazioni del capitalismo e della borghesia mondiale che saccheggia e concentra la ricchezza nelle proprie mani e si guardano i poveri, che non hanno niente, come le minacce dell’umanità. È il mondo al contrario».

Oggi si sono fatti tanti progressi, ma al tempo stesso si è regrediti, sostiene l’intellettuale nigerino: «Esiste tanta informazione, ma la gente non è informata e può essere facilmente manipolata, e questo anche nei paesi dove esiste tutto. Dove si ha a disposizione tutta l’informazione che si vuole, stampa, libri, statistiche. Il sistema capitalista è capace di alienarti: osserviamo questa ondata di razzismo, xenofobia, il ritorno delle forze di estrema destra. Ma come è possibile, mi domando, nonostante tutti gli strumenti che si hanno per capire?

La questione essenziale – continua – è l’educazione: come educhiamo l’uomo, come formiamo l’uomo. Educhiamolo alla differenza, a comprendere, ad avere spirito critico. Senza questo, possiamo ancora rivivere tutte le cose gravi che abbiamo già vissuto in passato, le guerre.

Se accumuliamo tutte le guerre in corso oggi è come una guerra mondiale. Solo che non succede sul teatro europeo o nordamericano. Ma tutto il mondo vi partecipa».

E continua: «Abbiamo risorse, intelligenza, capacità a sufficienza, eppure vediamo lo stato del mondo oggi: abbiamo creato una situazione in cui pensiamo che la minaccia per il mondo sia il fatto che la gente possa circolare. Ma per gli esseri umani è essenziale spostarsi, donne e uomini hanno sempre viaggiato. E non è solo la povertà che fa muovere la gente, ma anche la prosperità.

Nei paesi ricchi, abbiamo delle sacche di povertà, milioni di persone disoccupate, ma non è perché non si ha la possibilità di farli lavorare. Negli Stati Uniti ci sono 40 milioni di poveri che se si ammalano possono morire perché non hanno l’assicurazione sanitaria. Gli Usa non hanno la possibilità di fare qualcosa su questo tema?

Il grande problema è che «non stiamo facendo il vero dibattito, quello sul sistema, ma un dibattito periferico. La migrazione è il “cache sex” del capitalismo (letteralmente: perizoma, qualcosa che nasconde, ndr). È questo che si mostra per non parlare di problemi di fondo».

Moussa Tchangarai

Che fa la società civile?

Moussa è impegnato per i diritti umani e per una società più equa dagli anni ‘90, quando con altri studenti nel 1994 fondò Asc. Gli chiediamo oggi che ruolo può giocare la società civile, ad esempio per far sì che si affrontino i veri problemi. «Informare, sensibilizzare e stimolare i dibattiti. Ma la società civile non è molto forte, ha diversi problemi, cerchiamo di fare delle piccole cose. Non è sufficiente, ma cerchiamo di parlare di questi temi, aiutare le persone a capire, dare dei nuovi orientamenti. È molto difficile. Occorre costituire una massa critica con un gran numero di organizzazioni e avere i mezzi per farsi sentire per portare avanti il messaggio. Esistono radio e televisioni, ma occorre avere accesso, organizzare discorsi strutturati. Tutto questo non è ancora acquisito.

Inoltre, dobbiamo essere capaci di portare il dibattito in posti dove non c’è, come nei nostri villaggi. È un lavoro di educazione, risveglio di coscienze, che presuppone molta mobilità, immaginazione, per riuscire a spiegare, convincere, coinvolgere.

Al tempo stesso il sistema ha la sua rete per fare il contrario. I paesi occidentali che vogliono diffondere un tipo di messaggio hanno i soldi, la tecnologia, le risorse. C’è molto da fare e dobbiamo intensificare questo lavoro. Dobbiamo sforzarci di essere creativi. È la grande sfida che abbiamo oggi».

Marco Bello
con la collaborazione di Sante Altizio

NOTE

(1) Movimento salafita originariodel Nord della Nigeria e poi diffuso nel resto del paese e in Niger, Ciad e Camerun. Si contrappone all’innovazione
e alle correnti sufi.
(2) Eucap, European union capacity building, è un corpo misto europeo composto da forze di polizia con la missione di formare le forze di sicurezza nigerine – si legge sul sito ufficiale – allo scopo di combattere il terrorismo e il crimine organizzato, e di meglio controllare i flussi migratori e contrastare la migrazione illegale.
(3) Il Niger è il quarto produttore mondiale di uranio, lo precedono Kazakistan, Canada e Australia. Nel 2017 in Niger si sono prodotte 3.449 tonnellate di uranio (dati francesi) per il 7,5% della produzione mondiale.


Parla l’esperto in sfruttamento delle risorse minerarie

Paese ricco per gente povera

Il Niger è un paese dal clima ostile ma dalla grande ricchezza del sottosuolo. È poco abitato e ci sarebbero risorse per tutti. Ma perché si trova sempre tra i tre ultimi posti della classifica dello sviluppo umano, stilata annualmente dall’Onu? Incontriamo l’attivista Maman Sani a Niamey che ci spiega questo.

Maman Sani Adamou, si definisce militante altermondialista, collabora con diverse associazioni della società civile nigerina, ed è specializzato sulla tematica dell’industria estrattiva. Ma Sani è un signore pacato, tranquillo, con le idee chiare e competenza da vendere. Il suo lavoro ordinario è di ispettore al ministero dell’Educazione.

Dottor Sani, il Niger è il quarto produttore di uranio al mondo3, perché è anche uno dei paesi più poveri del pianeta?

Incontro con l’attivista Maman Sani a Niamey

«Occorre partire dagli accordi di difesa dell’aprile 1961, che legano Niger, Benin e Costa d’Avorio alla Francia. In un allegato c’è un contratto di esclusività. I tre paesi si impegnano, nel caso non possano essi stessi utilizzare le risorse strategiche, come petrolio, berillio, uranio, a dare priorità alla Francia per sfruttarle. Sono inoltre autorizzati a cercare un altro partner solo nel caso in cui la Francia si dice non interessata. È un patto di tipo coloniale che ha fatto sì che dal ‘61 tutte le nostre risorse sono destinate in modo prioritario alla Francia.

Nel ‘68 è iniziata la realizzazione della prima miniera di uranio, la Somair ad Arlit. È stata firmata una convenzione di lunga durata, che dava alla Francia la possibilità di sfruttare tutto il minerale. È da notare che il Niger guadagnava molto poco, a livello forfettario solo un miliardo di Fcfa all’anno (circa 1,5 milioni di euro, ndr), quando i prezzi dell’uranio, sul mercato internazionale erano molto elevati. Nel ‘74 è stata aperta una seconda miniera, la Cominak. Il governo dell’epoca si era reso conto che dall’inizio dello sfruttamento dell’uranio nel ‘71 non aveva avuto abbastanza profitto. Tentò quindi di rinegoziare, per avvicinarsi al valore delle risorse come il petrolio. Si era fatto uno studio che equiparava le due materie prime: un kg di uranio produce tanta energia quanto 10mila kg di petrolio. Ma quel governo è stato rovesciato da un colpo di stato nel ’74. Dopo l’apertura della seconda miniera, si era riusciti ad avere 20 miliardi di Fcfa, ma senza negoziare sulla base dell’equivalenza energetica tra il petrolio e l’uranio.

La Francia prendeva tutto l’uranio, e pagava un prezzo fisso, anche se a livello internazionale c’era una fluttuazione, con prezzi nettamente migliori, il Niger non poteva chiedere un adeguamento.

Inoltre lo stato non aveva alcuna possibilità di controllare i prezzi e neppure il tonnellaggio definitivo estratto, che era controllato da Areva (la multinazionale francese che opera nel campo dell’energia in particolare nucleare. Dal 2017, in seguito a ristrutturazioni, prende il nome di Orano, ndr)».

Fino a quando il presidente Mamadou Tanja ha cercato di aprire il mercato…

«Questo fino a quando negli anni 2005-2006 con un aumento generale del costo delle materie prime, i dirigenti dell’epoca hanno voluto rivalorizzare l’uranio ed è stata promulgata una nuova legge mineraria che aumentava un po’ il livello delle royalties.

Ci sono stati tentativi di diversificazione dei partner di sfruttamento a partire dal 2006. Tutto questo spiega la fine del regime della VI repubblica con il colpo di stato di febbraio 2010. Ufficialmente il motivo è che il presidente Mamadou Tanja aveva forzato la Costituzione per ricandidarsi dopo due mandati, ma di fatto le ragioni del rovesciamento sono da cercare nel dossier uranio.

Dopo la caduta del regime e le nuove elezioni la legge mineraria non era ancora applicata. Possiamo parlare di sotterfugio, riferendoci all’accordo di partenariato strategico che rimpiazza la legge. Nell’accordo Areva propone qualche sussidio e realizza qualche opera intorno ad Arlit. Inoltre il mega giacimento di Imourarene, che avrebbe dovuto produrre 5mila tonnellate all’anno, la più grande miniera di uranio del continente, e doveva partire nel 2011-12 non è ancora in sfruttamento. Curiosamente il governo non cerca di riprendere il titolo di sfruttamento ad Areva per affidarlo a un altro potenziale concorrente».

Quindi nessun beneficio per la popolazione?

«Lo sfruttamento dell’uranio in Niger non ha permesso di creare sviluppo nel paese, al contrario, produciamo circa 3.500 tonnellate/anno di uranio, ma sono i dati di Areva, non possiamo fare una contro verifica nazionale. Possiamo dire che questa risorsa non ha permesso di avere un beneficio per la popolazione, ma al contrario ha aggravato alcuni problemi, come quello ambientale. Inoltre, il fatto che il mega giacimento di Imourarene non sia stato sfruttato ha causato delle perdite per i contratti delle società dell’indotto già firmati. Areva ha l’abitudine di dare in subappalto un certo numero di prestazioni perché le conviene economicamente non pagare direttamente i lavoratori.

Ad Arlit c’è del radon, rilevato da una Ong francese che ha fatto queste misure e ha trovato un tasso di radiazione anormalmente elevato. L’acqua è contaminata, la popolazione è malata, ma il Niger non si è creato nessuna competenza sull’energia nucleare. Siamo rimasti in una divisione del lavoro di tipo coloniale. Produciamo ma non trasformiamo, e consumiamo quello che non produciamo.

Lo sfruttamento dell’industria dell’uranio si è rivelato qualcosa di nocivo per il Niger, quando invece per la Francia che alimenta in elettricità nucleare la maggior parte del suo territorio è fondamentale.

(La Francia produce oltre il 70% del suo fabbisogno di energia elettrica con il nucleare, e detiene il primato al mondo con questa percentuale, ndr)».

Cosa ci dice del petrolio, scoperto dai francesi e ora sfruttato dai cinesi?

«Sono i cinesi che lo sfruttano sotto la forma di un “contratto di condivisione di produzione”, ma sfortunatamente anche in questo caso il Niger non è stato in grado di trarne il vantaggio che gli spettava. Il governo non ha saputo leggere tutto l’interesse geopolitico che il continente iniziava ad avere nel settore in quel momento e mettere in competizione i diversi attori. È la Cina che fa l’esplorazione, valuta le riserve e fa lo sfruttamento. Anche in questo caso il Niger non ha sviluppato alcuna competenza in materia e il peggio è che non siamo neppure stati capaci di onorare i nostri impegni. Ad esempio la Soras (società di raffinazione costruita dai cinesi a Nord di Zinder, vedi foto a pag. 17, ndr) è detenuta per il 40% dal Niger e il 60% dalla Cina, ma è stata costituta praticamente con fondi cinesi. La Cina ha pagato anche la parte nigerina. Non c’è alcuno sforzo per fare della nostra industria il punto di partenza di un decollo economico.

Il petrolio raffinato in Niger dà qualche beneficio allo stato, ma la popolazione che ha chiesto un abbassamento dei prezzi del carburante e del gas da cucina non ha avuto benefici.

Quando comprate benzina che arriva di contrabbando dalla Nigeria, spesso è benzina della Soras venduta in quel paese a un costo inferiore, che ritorna da noi e costa molto meno di quella alla pompa. Possiamo vendere all’estero a un prezzo basso, ma non all’interno.

Inoltre il petrolio ha creato degli appetiti e il Niger si è indebitato, perché si è lanciato in lavori di infrastrutture la cui scelta è dubbia e oggi ci troviamo richiamati da Fondo monetario e Banca mondiale che ci dicono che siamo molto indebitati.

I cantieri che vediamo a Niamey non hanno carattere strutturante perché quello che si sta costruendo non risolve i problemi della popolazione. Ad esempio nel campo dell’educazione abbiamo molte classi nella scuola secondaria con più di 100 studenti, seduti in terra, e ci sono ancora aule con il tetto di paglia. Qual è lo sviluppo in questo caso? Fare un’infrastruttura per dire che è molto bella, oppure risolvere dei problemi come l’accesso all’educazione e alla salute?».

Le risorse minerarie del Niger, sfruttate ormai da 50 anni, non hanno quindi prodotto sviluppo?

«L’industria estrattiva non è servita come leva per far partire un processo di sviluppo, ma è piuttosto il contrario, il paese continua a sprofondare nella povertà. Uno studio recente fatto per Afro barometre indica che c’è un peggioramento della situazione economica, un’esplosione della corruzione, e un continuo aumento delle disuguaglianze. Osserviamo inoltre una sorta di disaffezione della popolazione verso la politica, preparando così il terreno per altri tipi di problemi, come quello del jihadismo».

Marco Bello

SAHEL – JIHAD – MIGRAZIONE su MC

Marco Bello, Africa «coast to coast», aprile 2019.
Marco Bello, La faticosa via del cambiamento, gen-feb 2019.
•Marco Bello, Tra jihad e fibra ottica, dicembre 2018.
Marco Bello, «Ci legavano con corde e catene», aprile 2018.
Marco Bello, Niger, frontiera d’Europa,marzo 2018.
Marco Bello, Di male in peggio, giugno 2017.
Marco Bello, Chiesa, dialogo contro terrore, dicembre 2015.
Marco Bello, Transizione: missione compiuta, giugno 2011.




Israele: Come si vive vicino a Gaza


La mia camera è un bunker

In Israele, chi abita lungo il confine con Gaza ha una vita particolare. Razzi e palloncini incendiari diventano «normalità». Così occorre attrezzarsi per non morire. Ma c’è una donna che vorrebbe tornare a quando gli abitanti dai due lati del muro si frequentavano. Un sogno o un futuro possibile?

Testo e foto di Valentina Tamborra

Il 2 gennaio 2019 l’esercito israeliano ha completato la barriera marina che separa Gaza da Israele, nella località di Zikim, a Nord di Gaza. Alta sei metri sopra il livello del mare e lunga 200 metri, è stata costruita su un terrapieno artificiale poggiato sul fondo marino, ed è dotata di sensori. Lo scopo della barriera è evitare che si possano scavare tunnel sotto il confine marino. Anche nel Nord di Israele, si sta ultimando un muro che separa il paese dal Libano. Lì sono stati cementati tunnel degli hezbollah, già noti all’intelligence israeliana da quattro anni.

A di là delle misure di sicurezza prese dall’esercito, come vivono le persone che ogni giorno hanno a che fare con la tensione di stare proprio sui confini?

Rifugi anti razzo

Abbiamo incontrato Adele Raemer, insegnante di scuola elementare, segnalata dal quotidiano Haaretz come una fra le dieci persone israeliane più significative del 2018.

Adele vive dal 1975 nel kibbutz Nirim, che dista poche centinaia di metri dal confine con la Striscia di Gaza.

È la fondatrice del gruppo «The movement for the future of western Negev» (Il movimento per il futuro del Negev occidentale) che si occupa essenzialmente dell’area del Negev occidentale, ovvero quella direttamente confinante con Gaza. È la zona dove lo stato ha imposto la costruzione di una «safe room» (camera di sicurezza), in ogni casa. Dal 2011 infatti, per legge, è obbligatorio per tutti coloro i quali vivono entro 4 km dalla Striscia di Gaza, avere una stanza bunker.

Adele ha creato su google maps (programma che permette la visualizzazione geografica, ndr) una «mappa dei fuochi», ovvero degli attacchi di vario tipo, che colpiscono Israele: la aggiorna quotidianamente avvalendosi della collaborazione di tutti gli aderenti al gruppo che, come lei, vivono sul confine. La mappa su google è attiva dall’aprile 2018 e a oggi partecipano alla segnalazione anche persone che ufficialmente non dovrebbero esporsi, come pompieri o esercito.

L’azione di Adele non è passata inosservata alle Nazioni Unite, che lo scorso novembre l’ha chiamata a Ginevra a raccontare ciò che fa, dato l’enorme riscontro che il suo lavoro stava ottenendo su strumenti social quali facebook, sul quale gestisce la pagina «Living on the border with Gaza» (vivere alla frontiera con Gaza).

Una vita sotto tensione

Il suo obiettivo non è però promuovere se stessa o ciò che fa: Adele infatti, vuole solo raccontare lo stato di perenne tensione in cui si vive giorno per giorno a pochi chilometri da Gaza. La sua stessa camera da letto, infatti, è stata colpita da un mortaio pochi anni fa, e lei è viva per miracolo.

Nel kibbutz dove vive, tutti i centri diurni per i bambini, le scuole, sono state fortificate così da renderle dei veri e propri bunker in caso di escalation degli attacchi.

I bunker comunque nulla possono in caso di arrivo improvviso di palloncini incendiari, i quali, se per un adulto non sono mortali, possono provocare gravissime lesioni ai bambini. Si tratta di semplici palloncini, come quelli utilizzati alle feste. Ad essi viene collegata una fialetta di liquido esplosivo che, quando il palloncino tocca terra o viene preso in mano, prende fuoco.

«Ho creato la mappa perché volevo che le persone capissero cosa significa vivere in questa situazione: da entrambe le parti soffriamo, abbiamo paura e la gente non immagina neppure lontanamente cosa significhi essere in uno stato di perenne tensione».

Un missile in camera

Adele ci racconta di quanto accadde circa dieci anni fa, in novembre, un mese prima che suo marito si suicidasse.

Non esistevano ancora le safe room e un colpo di mortaio colpì la loro camera da letto. Adele e il marito si salvarono solo perché in quel momento erano in cucina.

Nel ristrutturare la stanza, Adele scelse di lasciare visibile un segno sullo stipite della porta, là dove il mortaio aveva terminato la sua corsa: «Voglio ricordarmi quanto sono stata fortunata, voglio ricordarmi ogni giorno quanto è bello essere vivi».

Oggi quella camera da letto è diventata un bunker: la finestra è stata cementata, le mura sono spesse il doppio di quelle delle altre stanze.

Stanze prive di serratura però, in quanto in caso di bombardamento è necessario poter intervenire velocemente per estrarre le persone.

Adele ci dice che non è una safe room a far sentire al sicuro chi vive al confine: uno dei timori più forti è quello delle infiltrazioni di estranei. Mi racconta che prima del muro era normale frequentarsi, cenare insieme, condividere una quotidianità senza barriere. Oggi invece, con l’odio e il livore che c’è stato e viene alimentato giorno per giorno, i «vicini» sono persone da temere per entrambe le parti. Così l’idea che qualcuno possa superare il muro, il filo spinato, ed entrare nel kibbutz è la cosa che più atterrisce chi vive sul confine.

Intrusioni, palloncini incendiari, missili: convivere ogni giorno con la paura di sentire improvvisamente una voce femminile registrata che dà l’allarme: «Tzeva adom…tzeva adom…tzeva adom» (colore rosso…colore rosso…colore rosso). Una voce che scandisce quel lasso di tempo brevissimo nel quale puoi rifugiarti nella tua safe room prima che si senta l’esplosione. Dai 4 ai 10 secondi nei quali, se stai dormendo, devi svegliarti, realizzare cosa accade e correre il più velocemente possibile verso la stanza fortificata.

Quando si stava insieme

Nonostante tutto questo, Adele continua a portare avanti la sua idea di coesione: vorrebbe tornare indietro, a quando israeliani e palestinesi si mescolavano, lavoravano insieme. Anche casa sua è stata costruita da palestinesi. Dopo l’ultimo conflitto del 2014, è stato difficile mantenere i contatti, ma Adele continua a comunicare con alcuni giornalisti di Gaza e sta tentando di far arrivare degli strumenti musicali alle scuole elementari della Striscia. «La musica può unire. Non mi illudo, non può abbattere confini ma può forse aprire un dialogo». E sono in molti a pensarla come lei: chi vive a ridosso della Striscia infatti, spera solo in una soluzione di pace.

La costituzione di due stati, Israele e Palestina, non spaventa Adele. A spaventarla è il gioco di potere fra partiti politici dall’una e dall’altra parte del muro. Giochi di potere che non tengono conto delle persone coinvolte, di chi ogni giorno vive nella paura.

Prima di salutarci Adele mi porta a vedere un luogo, proprio accanto alla rete che separa il kibbutz dalla linea di terra che porta a Gaza. Qui, a ridosso del confine, c’è un albero con una targa in pietra: è una lapide. È stata posta a ricordo dei due uomini, due padri di famiglia, morti nel 2014 a causa di un razzo qassam sparato da Gaza. Si erano arrampicati su un palo della luce precedentemente colpito da un missile per ripristinarlo e riportare la luce nel kibbutz.

«È perché non accada più una cosa come questa che continuo il mio lavoro, perché si smetta di morire in modo così stupido: segnalo le esplosioni, i palloncini incendiari, tutto ciò che accade qui a ridosso della Striscia, non per indicare “un colpevole” ma perché si capisca che non è più possibile vivere così. È necessaria la pace, aneliamo tutti la pace. E il silenzio che ci circonda va rotto: solo noi, persone comuni, possiamo farlo, continuando a parlare, a lottare, a dire “ci siamo”».

Il muezzin inizia a cantare: il vento di gennaio porta la sua voce fino a noi. Sono due mondi così vicini che un semplice canto raggiunge e scavalca il muro, le reti, il filo spinato e pervade l’aria.Dal fondo della strada vediamo arrivare tre bambine: avranno dieci o undici anni. Salutano Adele, la abbracciano. Sono sue allieve.

I sorrisi sul volto, il kibbutz che si anima, le persone a passeggio e il sole che inizia a fare capolino da dietro le nubi. È un giorno come tanti, una quotidianità che convive con l’inaspettato, con la paura, cercando però di non farsi sopraffare.

Il muezzin ha finito il suo canto, per Adele è ora di rientrare a scuola, i ragazzi la aspettano.

Nell’aria fredda di gennaio ci salutiamo: «Ciò che accade a Gaza è orribile, ma anche qui non è un pic nic».

Valentina Tamborra

 




Consiglio indigeno di Roraima: «Per la terra e per il rispetto»


Il Consiglio indigeno di Roraima (Cir) riunisce nove etnie. In Brasile, è considerato una delle organizzazioni indigene più attive. Come testimonia anche la vittoria ottenuta per il riconoscimento e la difesa della terra indigena Raposa Serra do Sol. Abbiamo incontrato il coordinatore generale del Cir, Enock Batista Tenente, un Taurepang di 29 anni.

Testo e foto di Paolo Moiola

Boa Vista. Sul murale, al centro del disegno con le piume colorate, è posta la sigla Cir. Sta per «Conselho indígena de Roraima» (Consiglio indigeno di Roraima), la principale organizzazione indigena dello stato amazzonico brasiliano. Formalmente essa esiste dal 1990, ma in realtà è operativa dagli anni Settanta.

Il Cir ha come obiettivo la lotta per garantire i diritti e l’autonomia dei popoli indigeni di Roraima, uno stato che conta (almeno) nove etnie: Macuxi, Wapichana, Ingarikó, Patamona, Sapará, Taurepang, Wai-Wai, Yanomami e Yekuana.

Questa varietà di soggetti fa sì che la struttura organizzativa del Cir sia improntata alla massima partecipazione. Ogni anno si tiene una grande assemblea generale che costituisce il maggiore organo deliberativo. L’ultima – la 48ª – si è svolta al lago Caracaranã, nella terra indigena Raposa Serra do Sol, dall’11 al 15 marzo.

Per parlare del consiglio indigeno e dell’attuale situazione politica brasiliana, nella sede del Cir, a Boa Vista, capitale di Roraima, incontriamo Enock Batista Tenente, che da due anni riveste il ruolo di coordinatore generale, in questo aiutato dal vice Edinho Batista de Sousa e da Maria Betania Mota de Jesus, in rappresentanza del movimento delle donne indigene.

Enock, 29 anni e 3 figli piccoli, ci accoglie nel suo ufficio «da bianco» indossando però un copricapo di piume colorate.

«Senza terra non esistiamo»

Enock, a chi è venuta l’idea del Conselho Indígena de Roraima?

«Il Cir è stato creato dai nostri leader con una partecipazione importantissima della Chiesa cattolica. Oggi esso coordina 237 comunità in 11 regioni dello stato di Roraima».

Quali etnie sono rappresentate nell’attuale coordinamento generale del Cir?

«La giunta è composta dal sottoscritto Taurepang e da due Macuxi, Edinho e Maria Betania».

Taurepang e Macuxi, dunque. L’organizzazione però abbraccia altri gruppi indigeni.

«Certo. Il Cir raggruppa nove diverse etnie sotto una sola bandiera e con tre obiettivi: terra, educazione e salute. È una lotta dura visto che l’attuale congiuntura politica non è favorevole per i popoli indigeni. Anche se, per la prima volta, abbiamo eletto una deputata federale, Joênia Wapichana».

La terra rimane sempre la vostra priorità?

«Il nostro territorio è per noi il bene più prezioso. Senza territorio non possiamo avere né salute, né educazione. In una parola non esistiamo. Per questo siamo sempre pronti a dare la vita per la terra».

In che modo? Percorrendo quale strada?

«Non tirando le frecce, perché occorre sempre rispettare la vita del prossimo, sia esso un indigeno o un non indigeno.

Noi chiediamo che ci vengano assicurati i diritti garantiti nella Costituzione federale del 1988. Abbiamo persone preparate in legge per aiutarci in questo.

Noi non abbiamo invaso la terra di nessuno: chiediamo soltanto rispetto. Di essere rispettati nel diritto a vivere nel nostro territorio. Di essere rispettati come società, come esseri umani e come indigeni. E qui intendo dire Macuxi, Wapichana, Ingarikó, Patamona, Sapará, Taurepang, Wai-Wai, Yanomami, Yekuana».

È corretto dire che la diversità indigena è anche una diversità tra indigeni?

«Il Cir non ha una sola identità. Per questo è stato capace di unire le identità di nove popoli differenti. Perché non va dimenticato che noi siamo differenti: un Taurepang è differente da un Macuxi, un Macuxi è differente da Wapichana e così via. Eppure questa organizzazione è capace di unirci tutti in un luogo, in una sala per discutere della nostra vita. Il Cir è un’università e un tribunale: è tutto per noi».

Da fuori, cioè dal mondo non indigeno, vengono i garimpeiros e le grandi opere. Che ne pensa il Cir?

«Che non vogliamo i grandi progetti che distruggono la natura. Non vogliamo estrazioni minerarie nei nostri territori. Se il grande Creatore ha messo il petrolio sotto la terra è per lasciarlo lì».

Vi accusano di non volere il progresso, la civiltà, il futuro.

«I governanti ci dicono che siamo arretrati. Ma costoro non si sono mai seduti con noi per chiederci cosa vogliamo come società, popoli e individui. Noi non chiediamo cose che vengano da fuori: non ci occorrono quelle per essere felici. Vogliamo valorizzare ciò che esiste nelle nostre comunità: la nostra cucina, le nostra medicina, i nostri canti, le nostre danze. Soltanto questo e nulla di più».

Ci dica di Joênia.

«Nella elezione della dottoressa Joênia si è riflessa la nostra forza e unità. È un risultato ottenuto con molta lotta, ma soprattutto senza comprare voti e senza corruzione. Lei è la nostra deputata. La sua elezione è una cosa molto buona per noi».

Come la quasi totalità dei leader indigeni, anche lei pare avere una pessima opinione dei politici brasiliani. Adesso anche Joênia è un rappresentante politico.

«La tratteremo non come una politica, ma come una donna indigena. Lei non ha il profilo, la parola o i sorrisi di un politico. I politici hanno ingannato non soltanto la società indigena ma anche quella bianca. Per questo chiediamo a Joênia di comportarsi come un leader indigeno e non come un leader politico. Lei è nata nel movimento indigeno. È stata la prima donna indigena a difenderci nel Supremo tribunale federale nel giudizio sulla Raposa Serra do Sol. Ha appena vinto lo stesso premio che ricevette Martin Luther King» (Enock si riferisce allo United Nations prize in the field of human rights assegnatole il 25 ottobre 2018, ndr).

Enock, con un presidente come Bolsonaro e un Congresso così anti indigeno Joênia non avrà vita facile.

«Joênia è figlia del movimento indigeno di Roraima. E proprio per questo la gente crede nel suo lavoro. Lei non sarà mai sola. Perché noi siamo Joênia».

Paolo Moiola


Joênia Batista de Carvalho Wapichana

Donna, indigena, deputata

© Carlo Zacquini

Molti anni dopo Mario Juruna Xavante, un altro indigeno entra nel congresso brasilano. E, per la prima volta, è una donna.

Mario Juruna

Nata nel 1973, l’avvocata Joênia Batista de Carvalho detiene una serie di primati. Appartenente al popolo Wapichana, nel 1997 è la prima indigena del paese a ottenere la laurea in diritto (prima all’Università federale di Roraima e, anni dopo, anche all’Università dell’Arizona, negli Stati Uniti). Nel 2008 è la prima a difendere un caso davanti al Supremo tribunale federale, il massimo organo giudiziale del Brasile.

Nel 2018 si presenta alle elezioni per il congresso federale con la «Rede sustentabilidade», il partito fondato dalla candidata presidenziale ed ex ministra dell’ambiente Marina Silva. Nonostante lo scarso successo del suo partito, Joênia Wapichana ottiene 8.267 voti, un numero sufficiente per diventare la prima deputata indigena nella storia del Brasile. In precedenza, a Brasilia era arrivato solamente un indigeno: Mario Juruna del popolo Xavante, in carica dal 1982 al 1986.

Per la neodeputata il 2018 si conclude in bellezza: il 25 di ottobre le viene infatti assegnato dalle Nazioni Unite il prestigioso premio per i diritti umani (United Nations prize in the field of human rights), per la sua attività in difesa delle comunità indigene.

Joênia proviene dalla Terra indigena Raposa Serra do Sol, omologata dal presidente Lula nel 2005. Per oltre dieci anni il suo lavoro di responsabile legale del Conselho indígena de Roraima (Cir) ha riguardato la difesa della demarcazione e l’uscita da quei territori dei fazendeiros (arrozeiros, produttori di riso, per la precisione). Oggi si ritrova a difendere quella conquista dalla volontà del nuovo presidente Bolsonaro e del nuovo Congresso di rimettere tutto in discussione.

Paolo Moiola


Governo Bolsonaro, popoli indigeni e Cimi

«Il maggior latifondista del paese è l’indigeno»

In tutte le sedi le posizioni circa i diritti indigeni appaiono inconciliabili.

All’apertura della 40a sessione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (Ginevra, 25 febbraio 2019) Damares Alves, ministra brasiliana della donna, della famiglia e dei diritti umani, ha affermato che i popoli indigeni avranno «uno sguardo speciale» («um olhar especial») dal governo Bolsonaro. Volendo apparire credibile la ministra ha precisato di essere «madre socioaffettiva di una giovane indigena dell’etnia kamayurá».

Le affermazioni della ministra sono state molto criticate dalla delegazione del Consiglio indigenista missionario (Cimi) durante il suo incontro con Michelle Bachelet, alta commissaria dell’Onu per i diritti umani. «Sottolineiamo che le popolazioni indigene non vogliono una relazione socioaffettiva con lo stato brasiliano. I popoli indigeni non vogliono essere portati a casa alla fine della giornata. Vogliono una relazione (con lo stato) che riguardi i loro diritti», ha detto il responsabile degli affari internazionali del Cimi, Flávio Vicente Machado.

L’onorevole Ms. Damares Regina Alves, Ministero per le Donne, la Famiglia e i Diritti Umani | © UN/Violaine Martin

Il clima che si respira con il governo di Jair Bolsonaro è ben esemplificato da quanto detto da un funzionario della ministra dell’agricoltura Tereza Cristina, proprietaria terriera ed ex presidente del gruppo parlamentare degli agricoltori e allevatori (Frente parlamentar agropecuária). Il suo segretario speciale per le questioni fondiarie, Luiz Antonio Nabhan Garcia, latifondista e presidente dell’Unione democratica ruralista (l’associazione dei grandi proprietari terrieri del Brasile), ha affermato che «il più grande latifondista del paese è l’indigeno» («o maior latifundiário do país é o índio», 22 febbraio 2019).

Potrebbe essere una semplice opinione se non fosse che il ministero dell’agricoltura ha ricevuto dal presidente Bolsonaro (con Medida provisória n. 870 del 1 gennaio 2019) l’incarico per «l’identificazione, la delimitazione, la demarcazione e le registrazioni di terre tradizionalmente occupate da popolazioni indigene». Pertanto, quella di Nabhan Garcia è da considerarsi non tanto un’affermazione personale quanto piuttosto una vera e propria minaccia ai diritti costituzionali dei popoli indigeni del Brasile.

Paolo Moiola

 




Reportage da Kirkuk: I sopravvissuti (alla follia dell’Isis)


L’Isis ha portato distruzione, morte e follia non soltanto a Mosul. Siamo andati nella città petrolifera di Kirkuk, a lungo contesa dalle varie fazioni in lotta, per incontrare i sopravvissuti della guerra. Molti altri vivono nei campi profughi (a volte da anni) in attesa di capire la loro sorte.

testo e foto di Angelo Calianno

Sono passati quasi 5 anni dalle invasioni e dai massacri dell’Isis in Iraq. Dal 2017 la presenza degli uomini del Daesh è stata notevolmente ridimensionata fino a ridursi a poche frange che combattono ancora in Siria. Alcune tra le città precedentemente occupate – come Sinjar, Mosul, Kirkuk – sono state riconquistate, anche se sono andate semidistrutte durante le battaglie per riperderne il controllo.

Dove sono oggi tutti quegli uomini e donne che hanno combattuto contro l’Isis? Dove sono e cosa fanno oggi le persone sopravvissute a maltrattamenti, abusi e violenze? Ci sono ancora cellule dormienti dell’Isis? Dove sono gli accusati di collusione con i terroristi dello Stato islamico?

Tra Erbil, Mosul e Kirkuk incontro alcune delle persone che hanno vissuto quei giorni, che hanno perso molti dei propri cari durante gli scontri e gli attentati di questi ultimi, tremendi anni.

Il petrolio (come sempre)

Uno dei più grandi obiettivi del Daesh durante la sua prima comparsa è stata proprio Kirkuk.

Questa è oggi una città di circa 600 mila abitanti di diversi credi religiosi, tra cui sunniti, sciiti e cristiani. L’importanza della città risiede nel suo sottosuolo, uno dei più ricchi e antichi giacimenti di petrolio del Medioriente. Una stima dello scorso novembre ha calcolato che, se si estraesse tutto il petrolio greggio da quest’area, la sua quantità ammonterebbe a oltre 9 miliardi di barili: questo dice molto sul motivo per il quale sia stata così contesa.

I terroristi del califfato sono arrivati a Kirkuk e nella sua provincia nel 2014. La regione è stata strenuamente difesa dalle milizie curde dei peshmerga che l’hanno contesa all’Isis fino al 2017. Anche lo stato semiautonomo del Kurdistan avrebbe voluto, in qualche modo, annettersi i giacimenti di petrolio ai suoi territori. Nel 2017, le milizie sciite del governo iracheno però sono entrate in città con i carri armati a riprenderne il controllo.

Si è sfiorato un altro conflitto interno tra curdi iracheni e iracheni, diversi civili sono stati feriti e tantissimi curdi, inclusi i peshmerga, hanno ripiegato verso la capitale Erbil, lasciando definitivamente Kirkuk nelle mani di Baghdad.

A Kirkuk

Arrivo nella zona di Kirkuk in auto con Ahmed Salah, un militante peshmerga che ha combattuto un po’ ovunque sul fronte anti Isis. Alcuni dei suoi zii e cugini sono morti proprio in questa zona, durante i primi scontri contro gli uomini dello Stato islamico.

Per arrivare qui da Erbil abbiamo attraversato tre check-point, uno peshmerga e due delle forze di sicurezza irachene. «Da questi villaggi e queste campagne – mi racconta -, molta gente si è unita al Daesh. Vedi quella casa? Oggi è tenuta sotto controllo 24 ore al giorno: uno dei ragazzi che ci abitava con la sua famiglia era un terrorista, oggi è in carcere. Ha molti fratelli e si teme che alcuni di loro possano far parte delle cellule dormienti».

Pensi ci siano molte persone che segretamente ancora supportano l’Isis?, gli chiedo. «Io penso di sì, lo pensa anche l’intelligence, vedi quel ragazzo ad esempio?».

Mi dice indicando un ragazzo vestito con abiti tradizionali, barba lunga e con visibili problemi di ritardo mentale.

«Il Daesh arruolava molte persone con poca istruzione, gente che aveva problemi mentali o problemi economici. Li indottrinavano con la religione islamica. Io conosco quel ragazzo e la sua famiglia: non si sarebbe mai vestito così prima. È stato arruolato anche lui, poi per il suo chiaro stato psicologico è stato lasciato in pace e riaffidato alla famiglia che comunque è sotto controllo».

Tu hai combattuto un po’ ovunque – dico al mio interlocutore -. C’è stato un episodio che più di altri ti ha segnato? «Ce ne sono stati tanti, uno dei più brutti è stato quando ho trovato mio cugino e mio zio uccisi qui vicino. Tuttora non ne sappiamo il motivo, ma durante l’invasione del Daesh si moriva per niente. Forse però l’immagine che non mi toglierò mai dalla mente è un’altra…».

Ahmed Salah tira fuori il cellulare per farmi vedere alcune fotografie, ritraggono un pickup bianco con quattro cadaveri senza vestiti al suo interno: «Qui eravamo tra Mosul e Sinjar. Avevamo scavato delle trincee per ostacolare qualsiasi attacco potesse arrivare con i mezzi terrestri. Una mattina, all’alba, vediamo questo pickup venire a tutta velocità verso di noi. Non si vedeva nulla per la nebbia e il parabrezza era tutto sporco di terra e polvere».

«Abbiamo aperto il fuoco contro il veicolo che poi si è infossato nella trincea. Quando abbiamo aperto le portiere del mezzo abbiamo trovato loro: erano quattro ragazzini nudi e legati. Sull’acceleratore era stata messa una pietra. Erano sicuramente stati rapiti, avevano subito abusi e poi erano stati lanciati contro di noi. Non siamo mai nemmeno riusciti a fare il riconoscimento dei cadaveri per sapere chi fossero, ma forse per i parenti, in quei giorni, è stato meglio non sapere la fine che avevano fatto i loro figli».

Ahmed Salah mi saluta e si incammina verso casa, ma dopo qualche secondo torna indietro per dirmi qualcos’altro: «Vorrei aggiungere un’altra cosa, un dubbio che per noi è sempre stato importante. All’inizio, durante gli scontri con il Daesh, venivamo continuamente bombardati. I colpi di mortaio si susseguivano notte e giorno, senza tregua. Poi le esplosioni cessavano non appena gli americani mettevano piede nel nostro campo. La stessa cosa accadeva quando dalle nostre postazioni gli americani cercavano di colpire i terroristi, non centravano mai l’obiettivo al primo colpo, ma sempre al terzo o al quarto. Queste coincidenze sono accadute più di una volta e a tutti i peshmerga hanno sempre creato molto sospetto».

Nel nome di Allah

A Kirkuk incontro altri due ragazzi che sono sfuggiti per un soffio alle spedizioni punitive dell’Isis. Essendo cristiani erano uno i primi bersagli da persegure. Il modo in cui sono riusciti a scappare è davvero particolare: «Siamo scappati perché uno dei nostri amici era con il Daesh. Prima di arrivare a Kirkuk ci ha telefonato per avvisarci, così siamo riusciti a fuggire con le nostre famiglie».

Chiedo loro: conoscevate molte persone che si sono unite al Daesh? Se sì, perché lo hanno fatto secondo voi? «Ne conoscevamo diverse, con due in particolare lavoravamo trasportando ortaggi e frutta nei mercati. Sai, all’inizio, quando ne parlavano e facevano le prime riunioni nelle moschee, non sembrava una cosa così grande. Nessuno pensava che saremmo arrivati a questo punto, alla guerra, alle violenze. I miei amici si sono uniti al Daesh perché a loro sembrava una cosa giusta. Erano sunniti. Il governo sciita di Baghdad aveva impoverito le loro famiglie, vedevano la corruzione ovunque. Il Daesh aveva promesso che ci sarebbero stati soldi divisi più equamente nel nome di Allah. Io penso che quando si sono resi conto di quello che sarebbe successo, fosse troppo tardi per tirarsene fuori. Sono riusciti però a salvare noi».

Avete avuto più notizie di loro? «No, penso siano morti. Non sono più tornati a casa e le loro famiglie comunque sono sorvegliate dall’esercito, nel caso dovessero tornare o altri terroristi si facessero vedere».

Gli Yazidi del campo profughi

Gli uomini dell’Isis hanno perpetrato violenze ovunque, ma c’è un gruppo su cui si sono particolarmente accaniti, i credenti di una fede religiosa che i terroristi hanno praticamente decimato. Sono gli Yazidi, ritenuti dal Daesh, per il loro singolare credo religioso, adoratori del diavolo.

Uno degli stermini più atroci che l’Iraq abbia mai vissuto si è consumato a Sinjar. Il 4 agosto 2014 gli uomini del Daesh hanno ucciso 5mila persone, mentre in 7mila sono stati rapiti, la maggior parte donne per diventare «schiave del sesso», e bambini, poi mandati nelle scuole di rieducazione per diventare militanti, erano tutti di fede yazida.

Mirza è una di quelle persone riuscite a fuggire dal massacro. Ha 39 anni, anche se dimostra molto più della sua età. Lo incontro in una tenda nel campo di rifugiati a Shari, nella provincia di Dohuk. L’Iraq ha decine di campi profughi destinati ai cosiddetti «rifugiati interni», quelle persone che hanno perso le proprie case e terre durante il conflitto contro l’Isis. In questo campo sono quasi 5mila. Vivono accatastati in tende consumate dalle intemperie.

Mirza ha combattuto nell’esercito iracheno per 11 anni, per questo, quando l’Isis è arrivato a Sinjar, il suo nome era in cima alla lista delle persone da eliminare. Da 4 anni Mirza vive qui con la sua famiglia. In una delle tende a lui destinate ha aperto un piccolo laboratorio dove ripara apparecchi elettrici. Nel campo tutto funziona solo con i generatori a gasolio. Lo intervisto mentre si riscalda davanti a una stufetta a legna. Fuori ci sono tre gradi e la pioggia battente ha ricoperto le strade del campo di fango.

Mirza, raccontami di come hai fatto a fuggire da Sinjar? In quanti siete scappati? «Prima del 4 agosto 2014, già da giorni sapevamo che il Daesh sarebbe arrivato. Avevo dei conoscenti che si trovavano vicino al loro campo, furono loro ad avvisarci di scappare. Ci dissero che altrimenti sarebbe potuta finire molto male per noi. Con mio fratello prendemmo tutta la nostra famiglia: i nostri figli, mogli, fratelli e sorelle, eravamo in 30, la notte prima che arrivassero gli uomini del Daesh ci nascondemmo in montagna».

Come avete fatto a sopravvivere? Siete più tornati a Sinjar?, gli chiedo. «Ogni notte scendevo nei villaggi a valle per prendere da mangiare, dalle montagne abbiamo poi passato illegalmente il confine con la Siria dove siamo rimasti per tre mesi, poi anche lì la situazione cominciò a peggiorare. Allora sono riuscito a trovare uno smuggler che ci ha portato di nuovo in Iraq e poi in Kurdistan. Abbiamo speso tutto quello che avevamo per il viaggio, 1.000 dollari. Sono in questo campo da allora».

Conoscevi alcune delle persone che si sono arruolate con l’Isis? A molti faccio la stessa domanda, come hanno potuto farlo secondo te? Molte delle persone, prima che arrivasse Daesh, vivevano in pace e non avevano mai fatto del male a nessuno.

«Io penso che dipenda moltissimo dalla loro istruzione ed educazione, da dove vengono, dalle loro famiglie, per molti all’inizio sembrava una cosa buona, nessuno quando si sono arruolati aveva parlato di sterminare gli Yazidi, uccidere i propri amici perché di religione diversa. La propaganda era più religiosa e mirata contro l’invasione occidentale, contro le multinazionali che volevano usare la nostra terra, contro la corruzione. Ogni giorno però la situazione diventava più grave fino ad arrivare a quello che sappiamo oggi. Ci hanno sterminati», mi dice commuovendosi.

«Io conoscevo alcune delle persone che hanno attaccato Sinjar. Molto probabilmente oggi sono morte. Io non ce l’ho con loro. So che sono stati manipolati e che gli hanno riempito la testa di sciocchezze. Però nessuno ci ha difeso, ora con la mia famiglia viviamo qui, senza lavoro, senza futuro. Quest’anno non ci hanno nemmeno consegnato il gasolio per il riscaldamento e da giorni non fa altro che piovere. Io vorrei tornare un giorno a Sinjar, ma oggi Sinjar non esiste più».

Mirza mi racconta che nel campo ci sono anche diverse ragazze che sono state rapite da Daesh e poi segregate a Mosul per essere «schiave sessuali»: «Conosco le famiglie di tutti qui, alcune di queste ragazze, da allora, da quando sono riuscite a scappare, non parlano più, non riesco a immaginare quanto possa essere doloroso solo ricordare quello che è successo».

Bassem, cristiano di Mosul

Spostandomi a Mosul mi ritrovo in una città in rovina. In questi vicoli, oggi devastati dai bombardamenti americani, sono morti insieme agli uomini dello Stato islamico anche migliaia di civili. In alcune di queste case, mi dice la gente per strada, l’Isis teneva segregate sia ragazze che ragazzi per abusare sessualmente di loro. Altri luoghi invece, come chiese e scuole, venivano usati come carceri o stanze per le esecuzioni.

Davanti alla chiesa armena di Etchmiadzin, sventrata dalle bombe americane, incontro Bassem.

Vive in uno stanzino qui accanto, poca roba ammassata sotto un edificio pericolante, lo incontro mentre beve whisky da una bottiglia di plastica con due suoi amici. Molti non musulmani comprano a poco prezzo distillati fatti in casa: per tanti di loro, soprattutto dopo la distruzione di Mosul, è l’unica via di fuga dalla realtà.

Bassem, perché hai deciso di vivere in questo centro storico ormai distrutto?, gli chiedo. «Ho sempre vissuto qui. Non me ne sono andato quando è arrivato Daesh, non me ne sono andato quando gli americani bombardavano e non me ne vado adesso. Poi li vedi quelli?».

Mi dice indicando alcuni ragazzi con un vecchio veicolo a tre ruote: «Girano di edificio in edificio per rubare tutto quello che trovano, soprattutto metalli come il rame. In questa chiesa ci sono ancora candelabri, lapidi, targhe di ottone. Io sono qui per proteggerla».

Bassem toglie il lucchetto della catena che chiude la porta della chiesa. Entrando, tra calcinacci e vetri rotti, solleva il maglione per mostrarmi delle cicatrici sulla schiena: «Un giorno mi hanno portato qui perché hanno trovato a casa mia una parabola per la televisione e dell’alcol. Mi hanno preso a bastonate sulla schiena e lasciato per terra. Non sono riuscito a muovermi per settimane. Ridevano mentre lo facevano e mi sputavano addosso».

Bassem mi mostra altri angoli della chiesa e racconta ancora dei giorni dei bombardamenti. Lo fa con un sorriso abbozzato, con il sollievo di essere sopravvissuto, ma senza molta speranza di vedere una ricostruzione. Dopo aver riconquistato la maggior parte delle città irachene, è cominciata la ricerca dei dispersi, migliaia sono le persone di cui non si ha più traccia.

Tra novembre 2018 e gennaio 2019 sono state trovate oltre 200 fosse comuni contenenti migliaia di cadaveri giustiziati dall’Isis. Al momento sono state scoperte nelle province di Ninive (la maggior parte attorno alla città di Mosul), Kirkuk, Salahuddin e Anba.

Secondo le prime stime dell’Onu, le vittime trovate sarebbero 12mila. Si è cominciato un lento e paziente riconoscimento dei cadaveri che potrebbe portare in futuro a dei processi per crimini contro l’umanità. Tutti gli intervistati mi hanno parlato delle vittime ancora da ritrovare. Nella stessa Mosul, ad esempio, tantissimi corpi si trovano ancora sotto le macerie della città, impossibili da estrarre se non ci sarà una ricostruzione.

Dopo l’Isis: giustizia sommaria, sospetti, paura

Il segno dell’Isis non è stato lasciato solo addosso alle sue vittime. Proprio in questi giorni Human Rights Watch ha pubblicato un dossier che parla di arresti indiscriminati e torture da parte dell’intelligence irachena e di quella curda, ai danni di chi – in qualche modo – ha interagito con gli uomini del Daesh.

Ragazzi che lavoravano nei ristoranti dove gli uomini del califfato andavano a mangiare, musulmani sunniti che praticano un islam più radicale, famiglie di ragazzi arruolati nelle file dell’Isis. Moltissimi vengono arrestati, interrogati, spesso con violenza, e una volta rilasciati, tutta la loro comunità li marchia come terroristi. Tra di loro ci sono molti minorenni, Human Rights Watch, nel suo dossier, riporta che fino a dicembre 2018 il numero di minori detenuti superava i 1.500, di cui 185 condannati con l’accusa di terrorismo. Recentemente, 19 di loro hanno dichiarato di essere stati percossi con tubi di plastica e torturati con scosse elettriche, fino ad essere costretti a confessare di aver fatto parte dell’Isis. Tutto pur di far cessare le torture.

Il terrorismo in queste terre non ha portato solo morte e distruzione ma ha lasciato una scia di paura: la paura di un’altra guerra e che nuovi gruppi di terroristi possano apparire da un giorno all’altro. Questa paura ha fatto chiudere spesso un occhio alle autorità sui metodi usati nelle indagini antiterrorismo, e ha portato ad un sovraffollamento, spesso non giustificato, delle carceri.

Il timore che l’Isis possa tornare ha inoltre insinuato il sospetto della gente nei confronti dei propri vicini di casa, a dubitare dei propri conoscenti, a volte dei propri amici.

Malgrado questo, ogni persona da me incontrata o intervistata mi ha espresso speranza. Non quella di avere una vita migliore o rivivere nelle proprie case ricostruite, ma quella di tornare a vivere in pace, senza paura che il terrore possa tornare a regnare per queste strade.

Angelo Calianno


Yazidi: Il tempio vuoto

Su una montagna, a 60 km da Mosul, sorge il sacro tempio degli Yazidi, dove una volta l’anno i fedeli si recano in pellegrinaggio.
È un freddissimo giorno di febbraio, piove da molti giorni, ci togliamo le scarpe per camminare nella parte sacra del tempio, sentendo la pietra bagnata e gelata del pavimento delle ampie corti. Uno dei sacerdoti mi mostra il pozzo sacro: «Qui – mi racconta -, è dove tutte le ragazze, dopo essere scappate o liberate dalla cattività dell’Isis, vengono per purificarsi, per essere di nuovo pulite».

Come mai è così vuoto il tempio?, chiedo. «Da quando è arrivato l’Isis il numero di chi viene al tempio è sempre minore, persino nelle nostre festività principali ho visto centinaia di persone in meno. Tutto questo è il frutto dei massacri e anche della fuga di tanti nostri fedeli all’estero».

Si è stimato che su quasi 600mila yazidi, 100mila siano fuggiti all’ estero durante i primi attacchi dello Stato islamico. Oggi 6.500 sono le persone, per lo più donne, che portano il peso e i segni della cattività, durata in alcuni casi 3 anni. Sopravvissute ai rapimenti, agli stupri sono passate da questo tempio per lavarsi via la violenza, per ricominciare una nuova vita.

A.Cal.

 

Archivio MC: sulla vicenda degli Yazidi la rivista ha pubblicato un dossier uscito a marzo 2017 e firmato da Simone Zoppellaro.

 




Il superamento del paternalismo

Popoli indigeni e missionari


Un tempo era considerata una cosa normale: la benevolenza dei rappresentanti di una cultura ritenuta superiore (i missionari) verso quelli di una cultura considerata inferiore (i popoli indigeni). Un atteggiamento errato, spiega padre José Auletta, 43 anni di lavoro tra gli indigeni dell’Argentina. Oggi la strada è una soltanto: quella della reciprocità e dell’interculturalità. Un cambio di prospettiva che ha suscitato il fastidio del potere politico ed economico.

Testo di Paolo Moiola

Giuseppe o, come lui preferisce farsi chiamare, José Auletta, missionario della Consolata, lavora in Argentina dal 1976. In questi 43 anni si è occupato principalmente – e con una grande partecipazione emotiva – della causa indigena. È membro dell’Equipo nacional de pastoral aborigen (Endepa) e per l’organizzazione è responsabile della regione del Nord Ovest.

Da circa quattro anni padre Auletta risiede nella capitale, la più bianca ed europea delle città argentine. Un po’ fuori dall’azione, osservo malizioso. «No – risponde lui -, perché, come si dice qui, “Dio è ovunque, ma governa da Buenos Aires”».

Il missionario segue i progressi – minimi, in realtà – della legge 26.160 che riguarda il possesso e la proprietà delle terre da parte delle comunità indigene originarie. Inoltre, lo scorso settembre è stato a Ginevra per presentare il rapporto (alternativo a quello dello stato) di Endepa alla 64ª sessione del «Comitato per i diritti economici, sociali e culturali» delle Nazioni Unite.

Insomma, padre Auletta svolge un indispensabile lavoro di relazioni politiche e di comunicazione in un periodo nel quale l’Argentina attraversa l’ennesima pesante crisi economica e sociale ed è in attesa delle elezioni presidenziali del prossimo ottobre.

 

Il modello estrattivista: dalla soia al litio

I 31 popoli indigeni dell’Argentina hanno caratteristiche diverse, ma sono tutti accomunati da un problema: la restituzione o il riconoscimento giuridico e amministrativo della propria terra. «Una terra benedetta – precisa padre José – per tutto ciò che essa significa nella cosmovisione indigena, a livello vitale, culturale, spirituale, identitario».

La legge 26.160 è importante proprio perché prevede la sospensione degli sfratti e un’indagine catastale sui territori indigeni. I quali – nell’incertezza normativa data dalla mancanza dei diritti di proprietà – rimangono in balia delle mire espansionistiche dell’agrobusiness e delle società estrattive. Gli esempi più macroscopici sono quelli legati alla diffusione della monocoltura della soia (transgenica) e delle miniere di litio.

A partire dagli anni Novanta l’espansione della frontiera della soia nelle province di Salta, Santiago del Estero, Formosa e Chaco ha prodotto l’espulsione, l’allontanamento o la marginalizzazione di migliaia di famiglie di campesinos locali, oltre a una gravissima deforestazione e un pesante inquinamento da agrotossici. Rispetto alla soia, lo sfruttamento del litio è più recente (dal 2010), ma è prevedibile un suo rapido sviluppo. Questo metallo – un tempo conosciuto soprattutto in medicina (neuropsichiatria) – oggi è molto ricercato a motivo del suo utilizzo nell’industria elettronica e automobilistica (soprattutto per le batterie delle nuove auto elettriche). Il litio è stato trovato nella regione de La Puna argentina, nelle province di Salta e Jujuy. Oltre a produrre lo stravolgimento dei delicati ecosistemi delle lagune e delle saline che rendono unica la zona, le miniere di litio sottraggono l’acqua alle necessità di sostentamento e lavoro delle comunità locali. Per questo lo scorso febbraio 25 comunità di etnia Kolla hanno fermato i lavori di due imprese – la Ekekos e la multinazionale canadese Ais Resources -, che si dedicano all’estrazione del metallo.

Chiedo a padre Auletta se non sia una romantica idealizzazione il concetto del «buen vivir», che implica l’idea di un maggiore rispetto della natura e dell’ambiente da parte dei popoli indigeni. «No – risponde il missionario -, è un fatto accertato. Endepa infatti non ha esitato a schierarsi con gli indigeni alla luce della parola d’ordine El territorio es vida. Se cuida y se defiende (Il territorio è vita. Si cura e si difende)».

Di certo, una modalità di difesa potrebbe e dovrebbe venire dal «diritto di consultazione e di consenso preventivo, libero e informato» (Consentimiento previo, libre e informado, Cpli), riconosciuto dal comma 17 dell’articolo 75 della Costituzione nazionale. Tuttavia, questo strumento viene sistematicamente ignorato o violato dallo stato argentino.

La resistenza dei Mapuche: morti e arresti

Da Nord a Sud del paese l’offensiva estrattivista non ha cambiato i suoi obiettivi (accaparramento di terre ed estrazione di risorse minerarie), ma a Sud ha trovato sulla sua strada un popolo molto pugnace e determinato: quello dei Mapuche di Chubut e Río Negro, in Patagonia. Come testimoniano le morti dei giovani Santiago Maldonado (28 anni) e Rafael Nahuel (22 anni) e la vicenda – ancora più complicata perché interessa anche il Cile – di Facundo Jones Huala (32 anni). Tutte persone coinvolte in proteste e azioni legate al recupero delle terre ancestrali dei Mapuche.

«Il 2017 è stato un anno attraversato da gravi fatti di violenza. Tra questi va ricordata la repressione effettuata a gennaio dalla Gendarmeria nazionale nel territorio mapuche “Pu Lof in Resistencia”, nella località di Cushamen, provincia di Chubut. E poi una sua ripetizione nell’agosto dello stesso anno, in un contesto nel quale si è prodotta la sparizione e morte di Santiago Maldonado, giovane non mapuche sostenitore delle istanze di questo popolo. Pochi mesi dopo, il 25 novembre, c’è stato l’assassinio di Rafael Nahuel, giovane mapuche della comunità Lafken Winkul Mapu, ad opera di uomini della prefettura navale della provincia del Río Negro».

Padre Auletta non esita quando si tratta di indicare un colpevole. «La violenza che io considero più grave è quella istituzionale dello stato argentino. Da troppo tempo esso viola una Costituzione che riconosce il diritto alla terra da parte dei popoli indigeni. Un diritto che però non si è mai concretizzato, se non in pochi casi».

Facundo Jones Huala e il landgrabbing dei Benetton

Il leader Mapuche,  Facundo Jones Huala, in corte a Valdivia, Cile, il 12/09/2018 arrestato su richiesta del presidente dell’Argentina Mauricio Macri / © Miguel Angel Bustos / Aton Chile / AFP

Nel 2018 la lotta dei Mapuche è stata monopolizzata dalla vicenda del mapuche Facundo Jones Huala, lonko (cacique, capo) del territorio «Pu Lof en Resistencia». Si tratta di circa 1.200 ettari in una terra di proprietà del gruppo italiano Benetton.

Spiega padre José: «Negli anni Novanta i fratelli Benetton acquistarono a condizioni estremamente favorevoli quasi un milione di ettari di terra, senza minimamente considerare l’appartenenza ancestrale e tradizionale di quei territori». In poche parole, una vera operazione di landgrabbing.

Ricercato in Cile, il 28 giugno 2017 Huala è stato arrestato dalle autorità argentine e lo scorso settembre, dopo 14 mesi, estradato. Tre mesi dopo, a dicembre, il tribunale cileno di Valdivia lo ha condannato a 9 anni di carcere per essere stato ritenuto responsabile di un attacco e un incendio (senza feriti) del gennaio 2013 a un fondo agricolo in località Río Bueno (provincia di Ranco, regione di Los Ríos, Cile) durante una protesta mapuche contro la costruzione di una diga sul rio Pilmaiquén. A conti fatti, contro il leader indigeno un processo senza alcuna prova e una condanna spropositata. «Allo scopo – chiosa il missionario – di stigmatizzare e criminalizzare le legittime proteste indigene per il recupero delle loro terre».

La vicenda dei Benetton non è peraltro un’eccezione. Oltre vent’anni fa, il miliardario britannico Joseph C. Lewis acquistò una grande proprietà terriera nella provincia del Río Negro che addirittura impedisce l’accesso a un lago, il lago Escondido.

«Nel 2011 – spiega padre José – fu promulgata una legge (la 26.737, ndr) che poneva limiti all’acquisto di terre rurali. Ciononostante, si continua a permettere che compagnie nazionali e straniere acquistino considerevoli estensioni di terre – con la giustificazione di progetti cosiddetti di sviluppo – in zone abitate da comunità indigene e contadine, provocando esodi forzati e danni ambientali come le deforestazioni».

Dal paternalismo all’interculturalità

La strada che, fin dall’inizio della sua esperienza con i popoli indigeni, padre José Auletta si è proposto di percorrere è segnata da una domanda che è anche un comandamento anti paternalista: «Quanto ancora debbo imparare?».

Tra missionari e popoli indigeni il paternalismo è sempre stato un rischio presente. O incombente.

«Avevamo la pretesa di civilizzare quelli che un tempo – sbagliando – chiamavamo indios. Volevamo essere i maestri. Pensavamo che la nostra cultura fosse superiore. Alla fine abbiamo capito che nessuna cultura è superiore a un’altra. Allora abbiamo introdotto l’idea di “accompagnamento”: ma chi accompagna chi? Occorre introdurre anche il concetto di reciprocità. Ci si accompagna a vicenda: accompagniamo e siamo accompagnati. Tutti siamo discepoli, tutti siamo maestri».

Accompagnatori o accompagnati, maestri o discepoli che siano, missionari come José Auletta si muovono e agiscono per dare forma e sostanza al concetto di interculturalità.

«L’interculturalità – spiega – è la capacità di ascoltare l’altro, sapendo che questo scambio favorisce una crescita e arricchimento reciproci. L’umanità ha impiegato diversi secoli per capire che non esiste un pensiero unico, una sola cultura, una sola storia o un’unica verità. Nel caso dell’Argentina, questo sforzo di comprensione fu fatto, in termini di soggetto statale, grazie alla riforma della Costituzione nazionale dell’anno 1994, che introdusse il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni e il rispetto della loro identità, sancendo in tal modo la nascita dell’Argentina come paese plurietnico e multiculturale».

Parole belle e condivisibili, ma l’obiezione è tanto immediata quanto banale: permane una grande distanza tra le dichiarazioni teoriche e una realtà quotidiana che è dominata da poteri economici e politici sordi, quando non contrari, a simili istanze.

«Sì – ammette padre José -, è e sarà un percorso complesso, tortuoso e contrastato, in Argentina come altrove. Però l’interculturalità è anche questo: non pretendere di fare di due uno, ma al contrario rispettare ogni parte del tutto».

Paolo Moiola




Attraverso il Niger, Africa «coast to coast»

Testo e foto di Marco Bello |


Il Niger è un paese di origine ma soprattutto di transito di migranti. Molti sono quelli che passano di qui per tentare la traversata del Sahara. Succede che non ci riescano, oppure che vengano respinti e riportati alla frontiera. Il flusso dei «ritornati» è in aumento. La chiesa cattolica del Niger si è organizzata per dare loro un’assistenza più «umana» possibile.

Niamey. La capitale sabbiosa del Niger sta cambiando volto. Nella sua zona centrale sono ben visibili alcuni grandi cantieri. Enormi edifici in costruzione, hotel e palazzi governativi di un’altezza mai vista qui, e poi il terzo ponte sul fiume Niger.

Guardando bene vediamo molti cinesi al lavoro sotto i caschetti gialli, e in alcuni cantieri sventolano bandiere turche. Sono questi i due sponsor ufficiali della speculazione edilizia a Niamey.

Ma in altre zone della capitale ci sono ancora quartieri con le case di mattoni in fango e paglia essiccati (banko), quasi «edifici storici», si direbbe da noi. Case da villaggio si dice in Niger.

Ci spingiamo nella periferia Est. In questa zona relativamente recente ci sono case basse e qualche edificio più alto, di banche o compagnie telefoniche. Noi cerchiamo i locali della parrocchia San Gabriel Garbado, della chiesa cattolica, minoritaria nel paese a grande maggioranza musulmana. A San Gabriel, l’arcidiocesi di Niamey – una delle due del paese, l’altra è la diocesi di Maradi – ha concentrato le attività di accoglienza e ascolto per i migranti.

Entriamo nella bassa costruzione in colore ocra, quasi mimetica, e nel cortile interno incontriamo Laurent Tindano, l’animatore principale della pastorale migranti. Laurent è un migrante lui stesso, perché burkinabè, ma vive qui da decenni e si sente nigerino a tutti gli effetti.

Un centro di ascolto

«Questo è un piccolo centro di accoglienza. Con pochi mezzi facciamo un accompagnamento dei migranti.

Ci occupiamo di coloro che stanno ritornando, dopo aver attraversato il deserto e tentato di passare il mare, senza successo, e ora vorrebbero rientrare nei loro paesi. Arrivano a Niamey sfiniti, privati di qualsiasi mezzo, smarriti e traumatizzati dell’esperienza durissima. Noi li accogliamo, ma non facciamo un lavoro amministrativo.

Parliamo con loro, li riceviamo come fratelli, non come stranieri, dando loro valore umano. Lasciamo tutto il tempo per parlare e cerchiamo di creare un rapporto di fiducia. Così ci raccontano il loro vissuto.

Li compatiamo nella loro sofferenza.

Quando un essere umano sente che lo capite, vi dà fiducia, e accetta di aprirvi il suo cuore e vi dirà molte cose. È diverso dal fargli delle domande per compilare un formulario».

Al centro di Garbado viene dato ai migranti anche un piccolo aiuto materiale «per facilitare il loro passaggio»: qualche soldo, una coperta, un kit igienico. Una volta la settimana un medico volontario visita le persone di passaggio. E, grazie alla convenzione con una farmacia e una clinica, si riescono a dare farmaci e far visitare i casi più gravi.

Un fenomeno nuovo

Laurent ci racconta che tutto è iniziato intorno all’anno 2011: «Con gli avvenimenti della Libia, del Mali e della Costa d’Avorio, alcuni sbandati arrivavano a Niamey e cercavano una parrocchia, perché è noto che dove c’è la chiesa è probabile ricevere un aiuto. Il fenomeno era nuovo e creammo dei comitati in ogni parrocchia. Ma poi ci rendemmo conto che c’erano migranti che facevano il giro. Si decise di concentrare l’attività a Garbado, che è in un luogo logisticamente vicino alle stazioni degli autobus di lunga percorrenza».

Gli chiediamo perché l’accoglienza è in prevalenza a chi torna dal tentativo di traversata. «Quelli che partono verso il deserto di solito sono in forma e hanno ancora il morale alto e mezzi economici. Hanno meno bisogno di noi. Inoltre noi siamo per la libertà di circolazione. Se ci chiedono informazioni sulla strada, diamo loro almeno qualche indicazione sui pericoli della traversata».

Seduto su una panca, poco più in là, sotto la tettoia di lamiera che ora ripara dal sole implacabile e per (soli) tre mesi all’anno dalla pioggia torrenziale, sta Micheal Johnson. Liberiano, di 37 anni, Michael è un vero globe trotter dell’Africa. Ma non per turismo.

Michael il «globe trotter»

Durante gli anni ‘90 in Liberia infuria una cruenta guerra civile (dall’89 al 2003 con una pausa nel ‘97-‘98). Come molti suoi connazionali Michael fugge e si ritrova in Costa d’Avorio, in un campo profughi. Nel paese lavora per dieci anni. Parla molto bene anche il francese. «Finita la guerra sono tornato nel mio paese, ma ho visto che la situazione era pessima. Volevo qualcosa di meglio dalla vita. Allora sono ripartito».

Michael passa da Guinea, Senegal, Mali, Burkina Faso e poi Niger. Da qui arriva in Ciad e si dirige verso il Sudan. «A questo punto è stato molto difficile. Ad Abéché ho trovato molti altri migranti che facevano il mio stesso viaggio. Siamo partiti insieme con un camion, ma passata la frontiera, verso le tre di notte, ci hanno assalito i ribelli Janjawid». Michael si trova nel Darfur. I ribelli sparano ai pneumatici del camion, fanno scendere tutti e puntano un’arma alla testa dell’autista. «Ci hanno fatti sdraiare nel deserto, hanno iniziato a torturarci e ci hanno preso tutto». Poi compare una pattuglia di caschi blu della missione di pace Onu, Unamid, che, sparando in aria, mette in fuga i Janjawid. Michael e gli altri sono salvi.

I caschi blu recuperano i malcapitati e li portano alla città di Al Fasher. «Hanno visto che non avevo nulla e mi hanno pagato il biglietto dell’autobus per Khartum. Il mio obiettivo era andare in Arabia Saudita».

A Khartum Michael non conosce nessuno, però da viaggiatore ormai esperto, si infiltra nel campus universitario, dove si riesce a vivere con poco e si trova sempre qualcuno che ti aiuta. «Sapevo dell’esistenza dell’università Jama Africa. Ci sono rimasto qualche tempo, intanto ho cercato un lavoro perché avevo finito i soldi». Appena ha abbastanza soldi Michael si rimette in viaggio e è arriva a Port Sudan, città sul Mar Rosso.

Ultimo passaggio

«C’erano delle barche che attraversavano il mare per andare in Arabia Saudita. Le barche erano sovraccariche. Ho visto gente di Etiopia, Eritrea, Nigeria, Camerun, Mali, Liberia. Ho pagato 1.500 dollari e mi hanno portato in un luogo nel deserto, dove molti altri erano in attesa. Ho così scoperto che c’erano molti migranti clandestini. Ci hanno detto di non farci vedere in città. Dovevamo aspettare di essere 150 per riempire una barca e i trafficanti sarebbero venuti a cercarci. Nel frattempo ci portavano cibo e acqua acquistata in città. Sono rimasto in quel luogo circa un mese».

Poi finalmente una mattina all’una, all’improvviso i trafficanti vanno a cercarli per partire. Ma Michael non ha fortuna. Una motovedetta della guardia costiera saudita blocca la sua nave. Non li fa attraccare e li rimanda in Sudan. Da allora Michael diventa come un pacchetto, espulso dai diversi paesi che ha attraversato. Lo portano a Nguigmi, in Niger al confine con il Ciad.

Ma lui non si arrende. «Allora mi sono detto, passerò dall’Algeria per andare in Francia». Dopo aver lavorato riesce ad attraversare il Sahara e arrivare a Oran, città algerina sulla costa. Qui trova un lavoro per mettere insieme un po’ di soldi ma «una sera, uscito dal lavoro, mi ferma una pattuglia della polizia. Io non avevo i documenti. Mi hanno portato all’ufficio immigrazione. Chiesi che cosa avevo fatto, ma mi dissero che dovevo partire. Volevo passare da casa a prendere le mie cose, ma non lo consentirono». Rinchiuso in un locale con altri clandestini, dopo alcuni giorni Michael viene messo su un camion «quelli che portano fino a 150 persone», e trasferito verso Sud. I migranti respinti sono quindi scaricati in Niger, nei pressi della frontiera. In qualche modo arriva poi a Niamey. «Qui la situazione è peggiorata, non riesco a trovare lavoro. Ho deciso di tornare in Liberia ma non posso arrivare senza un soldo. Nel mio paese la guerra ha rovinato tutto, ha ucciso i miei genitori. Anche per questo me ne sono andato».

Famiglia migrante

Nella parrocchia di Garbado, questa mattina ci sono una decina di persone. Tutti uomini o ragazzi. Unica eccezione è una famiglia, padre, madre e bimba piccola. Accettano di parlarci.

Biko (nome di fantasia) parla un ottimo francese. Lui e la famiglia vengono dal Ciad, in particolare da Ndjamena, anche se, ci tiene a precisare, sono originari del Sud, Doba, dove ci sono i pozzi di petrolio. Lui ha tentato più volte di studiare giurisprudenza all’università, nel vicino Camerun. Prima nel 2007, poi dieci anni dopo. In entrambi i casi ha dovuto lasciare a causa delle cattive condizioni di sicurezza.

Biko è molto critico con il suo paese: «Sono nato nella guerra, cresciuto nella guerra e le conseguenze sono nefaste, non mi hanno permesso di studiare». La famiglia è composta anche da altri tre figli, ci raccontano entrambi, di 10, 6 e 4 anni. L’ultima, qui con loro, ne ha 2. «Sappiamo che è un rischio lanciarsi in una migrazione con una grande famiglia. Ma ci ha spinto il fatto che il nostro paese non è stabile. La gente vive sempre in mezzo a conflitti armati, intercomunitari, c’è la repressione dei governi, la cattiva gestione. Le ricchezze del paese non sono condivise in modo che tutti ne beneficino per vivere in pace».

La moglie, Evelyn, in un francese più impacciato, aggiunge: «Abbiamo lasciato il Ciad per cercare una vita migliore per noi e i nostri figli. Il nostro obiettivo è cercare fortuna in Marocco». E continua raccontando il loro viaggio, iniziato quasi un anno fa: «Siamo partiti da Ndjamena con un camion e siamo arrivati in Nigeria. Poi da lì è stato complicato, anche a causa della polizia. Abbiamo spesso dovuto negoziare e alla fine abbiamo pure perso i documenti». Entrati in Niger si sono diretti a Nord, fino ad Agadez, la città nigerina alle porte del Sahara, nella quale tutti i flussi dei migranti s’incontrano: da Est, da Sud e da Ovest. E dalla quale si parte per l’Algeria o la Libia. Qui, qualcuno in «uniforme» ha avuto compassione della famiglia e ha sconsigliato loro di proseguire: «Con questi bambini farai la loro tomba nel deserto», hanno detto. E poi li ha aiutati a tornare a Niamey.

Tra l’incudine e il martello

«Siamo qui da quasi otto mesi – dice Biko -, i bambini non vanno a scuola, e non abbiamo neppure una casa. Viviamo all’aperto. Quando piove ci lasciano mettere sotto una tettoia adibita a moschea, poi però dobbiamo sloggiare. Non abbiamo provato a fare i visti per il Marocco, perché non so come fare e non ho soldi. Non abbiamo più nulla».

Chiediamo alla coppia se non pensano sia meglio tornare in Ciad. Risponde Biko: «Sì, ma abbiamo paura di quello che succede nel nostro paese, in particolare il terrorismo. Inoltre mi hanno detto che se sei stato all’estero più di tre mesi, quando ritorni ti sospettano di terrorismo. Devi giustificare cosa hai fatto, altrimenti ti sospettano di essere con Boko Haram. Siamo tra l’incudine e il martello».

Il Ciad fa parte della coalizione militare con Niger, Nigeria e Camerun, che combatte i terroristi di Boko Haram (Cfr. MC ottobre 2016). La capitale Ndjamena è molto vicina al Nord Est della Nigeria, zona storica di questo gruppo che ormai interviene nei quattro paesi nei pressi del lago Ciad.

L’amaro in bocca

Dopo aver parlato con diversi ragazzi, ascoltato le loro storie incredibili, di viaggi e di atrocità subite, prendiamo la nostra telecamera e li salutiamo. Sono contenti di aver condiviso la loro storia con noi, nonostante all’inizio ci fosse una certa diffidenza. Ce ne andiamo con l’amaro in bocca, per non potere far nulla di più che scambiare gli indirizzi mail. Biko ci scriverà una mail qualche tempo dopo. Alla fine sono rientrati in Ciad attraverso l’aiuto dell’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni). Ora stanno aspettando degli aiuti per la «reintegrazione».

Epilogo

Torino, due settimane dopo.

È sera. Sto rincasando, quando sul bordo della strada scorgo un ragazzo africano che fa l’autostop. Mi fermo e lo carico.

Mi ringrazia. Subito un odore dolciastro invade l’abitacolo. Deve essere qualche profumo che utilizza. È un ragazzo molto giovane, con lo smartphone e le cuffiette. Come tutti i giovani ascolta musica. Dopo i primi minuti di silenzio gli chiedo come si chiama e da dove viene. «Vengo dalla Sierra Leone e mi chiamo Jo».

«Freetown?», chiedo io. Il nome della capitale del suo paese lo fa sussultare: «Sì – risponde sorridente – la conosci?».

Ammetto: «Non ci sono mai stato, ma conosco dov’è. Io ho vissuto in West Africa, in Burkina Faso». Il giovane si scioglie, nel tempo di un istante si crea una sorta d’intesa. Mi racconta che è in Italia da due anni e due mesi, e lo dice con precisione. Ha fatto il viaggio del deserto e poi del Mediterraneo. Ce l’ha fatta, lui. «Mi trovo bene qui», garantisce in un italiano mediocre.

Le nostre strade si dividono e lo deposito sul marciapiede. È molto contento e non fa che ringraziare. Lo saluto e vado via veloce nella notte. Ma subito penso a Michael, Biko, Evelyn e gli altri. I suoi conterranei che meno di due settimane fa ho incontrato a Niamey. Infognati in una terra di mezzo, senza più soldi e senza speranza. Con il sogno di una vita migliore infranto e nessuna voglia di tornare a casa a mani vuote. Loro non ce l’hanno fatta.

Marco Bello
con la collaborazione di Sante Altizio


Incontro con l’arcivescovo di Niamey

Essere luce nella società

La piccola ma vivace chiesa cattolica del Niger ha due pastori: monsignor Laurent Lompo e mons. Ambroise Ouedraogo. Il rapporto con l’islam è vitale, così come la comunione con le chiese protestanti. L’insegnamento è un canale importante per diffondere i valori della pace e della tolleranza, mentre la Caritas interviene in aiuto di tutti.

Incontriamo monsignor Laurent Lompo nei suoi uffici dell’arcidiocesi di Niamey. Lo avevamo conosciuto nel 2015, fresco di nomina. Lui è il primo vescovo nigerino del Niger (MC dicembre 2015).

Da quando hanno rapito padre Pierluigi Maccalli nella sua parrocchia nei pressi del confine con il Burkina Faso, il 17 settembre scorso, le preoccupazioni sono aumentate. E le riunioni di coordinamento pure. Ha poco tempo, ma accetta di parlare con noi. Notizie del missionario non ce ne sono. O meglio, il silenzio stampa è d’obbligo, per non disturbare eventuali trattative per il rilascio.

Rispetto alla problematica migratoria, cosa fa la chiesa del Niger?

«Sia nella diocesi di Niamey che in quella di Maradi abbiamo creato delle “cellule di ascolto”, per i migranti che passano. Perché il Niger è un paese di passaggio. Molti sono rimandati indietro da Algeria e Libia, tornano qui in capitale ma vogliono ripartire. Noi facciamo la pastorale dell’ascolto. Perché sono persone ferite, e credevano che migrando qualcosa sarebbe cambiato. Ritornano e sono scoraggiati. Il primo aspetto è dunque ascoltarli e ridare loro il gusto della vita e la dignità di persone. Non è perché siamo migranti che non siamo persone. Siamo pellegrini sulla terra e ognuno è chiamato ad andare all’incontro dell’altro. Il fenomeno migratorio che aumenta nei nostri paesi è il segno che le difficoltà portano la gente a cercare qualcosa in più. Ma sarà la migrazione a dare questo di più? Dobbiamo mettere il focus sui nostri paesi e su come fare in modo tale che la vita delle persone sia decente. Affinché il viaggio sia deciso effettivamente perché vogliono partire e non perché non hanno nulla e sono costretti a spostarsi.

Dobbiamo prendere la migrazione in questo doppio senso: chiunque ha diritto di viaggiare, ma se partiamo perché siamo costretti, perché non abbiamo nulla per vivere, forse dovremmo restare, qualunque sia la condizione. La maggior parte della gente che parte non ha mezzi e non sa dove andare. Molti ritornano. È con loro che lavoriamo cercando, con i mezzi che abbiamo, di ascoltarli, aiutarli a ritornare ai loro paesi. Alcuni trovano del lavoro qui, ma in Niger c’è disoccupazione, è difficile. In ogni caso noi cerchiamo di accompagnarli, soprattutto per fare in modo che ritrovino il loro equilibrio come esseri umani».

Come Chiesa, in un paese islamico, cosa fate per il dialogo interreligioso?

«Facciamo molto per il dialogo, soprattutto a partire dalla base, non solo a livello dei grandi leader. Ovvero partiamo dalle persone comuni affinché la coabitazione tra cristiani e musulmani sia buona, si abbia conoscenza di se stessi e dell’altro e ci sia mutuo rispetto. E facciamo molto attraverso una Commissione per il dialogo interreligioso e intra religioso, che ha intensificato i lavori in questi ultimi anni. Nella commissione ci sono cristiani evangelici e cattolici, e lo facciamo in direzione dei fratelli musulmani, che sono più forti. Abbiamo bisogno di stare insieme, perché siamo tutti figli di questo paese e più ci rispettiamo, più la pace avviene nel cuore, più viene nella società nigerina.

Abbiamo fatto diversi seminari su questi temi, uno nel 2016 sul dialogo, e un altro a novembre scorso concentrandoci sulla gioventù, che è uno strato sociale fragile, e manipolabile a tutti i livelli. Diciamo che se i giovani sono integrati, capiscono la propria fede, se hanno un’apertura verso il dialogo, allora noi costruiamo la pace nel nostro paese».

Lavorate molto con i musulmani, e frequentano le vostre scuole?

«Nelle nostre scuole la maggioranza degli insegnanti è musulmana, e non abbiamo avuto mai difficoltà. Tramite l’insegnamento cerchiamo di educare a dei valori che ci permettono di rispettarci gli uni gli altri, e a valori della vita che permettano a questi bambini, finita la scuola, di avere questa apertura.

A livello della Caritas del Niger, lavoriamo molto con i musulmani e i nostri aiuti sono indirizzati a tutta la popolazione senza alcuna distinzione etnica e religiosa. Operiamo per il bene di tutti. E tutti apprezzano questo nostro lavoro ancora di più, perché non facciamo proselitismo».

C’è anche l’islam radicale che si diffonde nella regione. In Niger ci sono stati episodi di violenza anticristiana nel 2015, quando alcune chiese furono date alle fiamme. Cosa fare?

«Sentiamo che un certo islam si sta radicalizzando. La gran parte sono persone che vengono da fuori, legate a certe scuole coraniche. Ma sia da parte del governo che della chiesa, lottiamo affinché l’islam nella sua generalità non prenda la forma dell’islam radicale, per evitare che ci siano dei conflitti. Facciamo questo sforzo. Negli avvenimenti del 16 e 17 gennaio 2015, non abbiamo accusato la comunità musulmana. I responsabili erano persone manipolate. Noi lavoriamo affinché questo non accada, sia da parte dei cristiani, sia dei musulmani, perché il radicalismo si può vivere in tutte le religioni. È la comprensione estremista delle nostre religioni che chiude le porte all’apertura all’altro. La negazione dell’altro rispetto a noi: è questo che porta conflitto. Noi facciamo di tutto affinché questo non capiti, non raggiunga i diversi strati sociali. E vegliamo, nelle nostre due diocesi, che si mantenga tra i cristiani uno spirito aperto e non si generalizzi rispetto all’islam. Il radicalismo, qualsiasi sia il gruppo da cui nasce, diventa un qualcosa che interroga e inquieta».

Mons. Laurent, lei è il primo vescovo del Niger di nazionalità nigerina. Chi sono i cattolici in questo paese?

 

«I cattolici sono presenti in Niger dal 1932 e penso che essi abbiano contribuito molto all’educazione in questo paese. Attraverso l’insegnamento, attraverso il dialogo della vita, la vicinanza alla popolazione. E continuiamo, malgrado il nostro numero limitato, a essere luce in questa società attraverso il lavoro ben fatto, il rispetto e l’accoglienza dell’altro senza pretese di convertire. Proclamiamo la nostra fede in Gesù Cristo che è il centro della nostra vita. Noi cerchiamo di imitarlo vivendo come lui ha vissuto, stando vicini alla gente come faceva lui.

Collaboriamo molto con le altre chiese, le chiese protestanti evangeliche, da qualche anno sentiamo un certo ecumenismo. Questo è importante per noi, perché siamo minoranze in un periodo difficile, allora ci uniamo per proclamare la nostra fede, restando aperti al popolo nigerino. Facciamo questo sforzo e siamo molto contenti della collaborazione con gli evangelici.

Realizziamo diverse attività insieme. Vogliamo che la nostra unità interroghi, in modo da essere portatori della buona notizia in questo popolo».

Che rapporti avete con le chiese vicine?

«Siamo in Conferenza episcopale con il Burkina quindi collaboriamo molto con loro. Abbiamo rapporti con la chiesa della Nigeria. Ci hanno chiesto come fare per vivere ancora più vicini ai nostri fratelli musulmani. Siamo stati io e monsignor Ambroise Ouedraogo (vescovo di Maradi) nella diocesi di Jos e siamo stati meravigliati nel vedere il lavoro che fanno i vescovi. Continuiamo nella stessa linea per essere anche noi portatori di pace nel nostro paese. Collaboreremo, perché condividiamo le stesse esperienze. Abbiamo avuto contatti anche con la chiesa algerina per le questioni della migrazione. Perché loro lavorano sul tema, e il passaggio di migranti in Algeria è importante».

Marco Bello


Archivio MC – Niger

• Marco Bello, «Ci legavano con corde e catene», aprile 2018.
• Marco Bello, Niger, frontiera d’Europa, marzo 2018.
• Marco Bello, Chiesa, dialogo contro terrore, dicembre 2015.




Reportage da Mosul: Le bombe non conoscono religione


Dalla famosa moschea di Al-Nuri, oggi distrutta, Al-Baghdadi ha fatto conoscere al mondo l’Isis (il Daesh). Era il 4 luglio del 2014. Mosul è stata liberata tre anni dopo, il 9 luglio 2017. Di quella città oggi è rimasto un gigantesco cumulo di macerie e migliaia di persone senza casa. E senza attenzione mediatica: Mosul ormai è sparita dalle prime pagine.

Testo e foto di Angelo Calianno

Nell’estate del 2014 gli uomini dell’Isis entrano nella città di Mosul, in Iraq. Dalla grande moschea di Al-Nuri, il terrorista Abu Bakr Al-Baghdadi si autoproclama «Califfo dello Stato islamico» e dichiara il jihad contro l’Occidente.

L’occupazione di Mosul dura tre anni. Anni in cui chiunque non rispetti le rigide regole degli uomini dell’Isis, chiunque non sia musulmano sunnita, chiunque non si vesta in modo appropriato o semplicemente abbia un’antenna satellitare o ascolti musica occidentale, viene severamente punito, torturato, a volte ucciso.

Molti fuggono con la famiglia e chi non ce la fa, cerca di uscire il meno possibile da casa, sopravvivendo come può.

Come la città di Kirkuk per il petrolio, Mosul è una città chiave in Iraq per le sue riserve d’acqua. A circa 50 km da qui infatti sorge la diga di Mosul, la più grande del paese e la quarta in tutto il Medioriente. La diga, che sbarra il corso del Tigri, prima dell’occupazione forniva energia elettrica a due milioni di persone, nonché acqua per l’agricoltura in tutta la provincia. Continuamente a rischio crollo fin dalla sua costruzione, dal 2016 vede delle aziende italiane impegnate nella sua riparazione tra cui la Trevi (di Cesena) e la Bdm (di Roma). Nel 2016, dato l’elevato rischio della zona, gli operai lavoravano protetti da 500 bersaglieri del Sesto reggimento di Trapani (sostituiti da altri reggimenti ogni sei mesi).

Dagli Assiri a Saddam Hussein

La città di Mosul viene finalmente liberata il 9 luglio 2017. La liberazione avviene per mano di una coalizione guidata da raid aerei degli Stati Uniti con il supporto terrestre delle milizie curde dei peshmerga e dell’esercito iracheno.

Quella che verrà denominata «la battaglia di Mosul» dura nove mesi, gli ultimi tre in particolare sono quelli più intensi, con gli scontri più aspri e sanguinosi. Questi mesi verranno poi ricordati come i «100 giorni di Mosul».

Il numero dei «danni collaterali» è drammatico. Non si sa con precisione quanti civili rimangano uccisi durante i bombardamenti, ma le stime parlano di oltre 500 persone decedute e oltre 300 mila senza una casa. Gran parte della città, specialmente il suo centro storico, oggi è un cumulo di macerie.

Fondata dagli Assiri sulle rive del Tigri, poi conquistata dagli Arabi, occupata dai Mongoli, dominata dagli Ottomani, a Mosul hanno convissuto per secoli cristiani, musulmani, yazidi, armeni, curdi ed ebrei. Qui, nel 1743, migliaia di uomini di religioni diverse si coalizzarono e combatterono con successo contro lo Shah di Persia che aveva deciso di invadere la città.

Prima dell’occupazione dell’Isis, Mosul aveva 38 quartieri, ognuno con una propria connotazione e un proprio mercato, un’incredibile alternarsi di moschee e chiese a pochi passi l’una dall’altra, come quelle di Al-Tahira e di San Tommaso. Proprio dell’apostolo Tommaso si dice che sia vissuto qui durante il suo viaggio verso l’India. Qu, inoltre, c’erano gli antichissimi mausolei di Giona e San Giorgio, anche questi distrutti dall’Isis. Conosciuta come «la Città dei profeti», è stata meta di carovanieri e viaggiatori come Ibn Jubayr (1145-1217), che nel suo libro Il Viaggio di Ibn Jubayr, scritto nel 1185, ne descrisse la bellezza e particolarità.

La parola Mosul deriva da Al Mawsil che vuol dire «collegamento» o «unione», perché questo è stata per secoli, un ponte tra Iraq, Turchia, Siria e Kurdistan, almeno fino ai giorni nostri.

Mosul comincia a vivere un grande cambiamento durante il regime di Saddam Hussein. Nel 1980 Saddam dichiara guerra all’Iran e attua quello che diventa un processo di «arabizzazione» dello stato, molte famiglie non sunnite scappano in Turchia e Siria. Inoltre, per non essere inviati in guerra, fuggono oltre confine anche moltissimi curdi e yazidi. In due decenni la popolazione sunnita di Mosul raggiunge l’80%. Questa maggioranza renderà la conquista di Mosul, da parte del califfato, ancora più semplice, come vedremo tra poco.

Raccontare Mosul

Entro a Mosul in automobile. Per arrivarci dal Kurdistan supero cinque check point: due dei quali peshmerga, le milizie curde, uno delle forze di sicurezza irachene e uno dell’esercito iracheno.

Il livello dei controlli di sicurezza è ancora molto alto, in uno dei posti di blocco intervisto Mohammed, un peshmerga che ha combattuto contro l’Isis.

Gli chiedo il perché di così tanta sicurezza, visto che Mosul è stata liberata. «Ci sono – mi spiega – ancora molte cellule dormienti da queste parti, non tutti i terroristi sono stati sconfitti, alcuni semplicemente sono scappati e si nascondono».

«Mohammed, tu sei curdo e peshmerga. Hai combattuto in territorio iracheno per liberare delle città. Tra voi e gli iracheni di origine araba c’è sempre stata un po’ di diffidenza, come ti sei sentito in quei giorni a questo proposito? – gli domando -. E poi quanto è stato difficile combattere contro l’Isis?».

«Hai ragione – replica Mohammed -, tra di noi i rapporti non sono stati sempre buonissimi, ma più per ignoranza. Quando ci siamo trovati a combattere fianco a fianco con i soldati iracheni alla fine abbiamo fatto amicizia, poi noi peshmerga combattiamo sempre contro gli invasori. Quando sono arrivati quelli del califfato per difendere le città sono accorsi vecchi peshmerga da tutti i villaggi curdi del paese, tutti pronti ad andare in prima linea, alcuni avevano 70 anni.

Devo dire che i primi mesi di combattimento sono stati difficili, ma solo per il fatto che loro erano davvero ben armati. Avevano armi automatiche e mezzi pesanti, noi spesso ci guardavamo negli occhi e ci chiedevamo da dove venissero tutte quelle armi, chi le aveva date ai Daesh? Le cose sono cambiate quando siamo stati dotati di Milan tedeschi (razzi anticarro, ndr), allora abbiamo cominciato a respingerli e guadagnare terreno. Gli uomini del Daesh non erano poi questi grandi combattenti, molti di loro erano spesso sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Una volta ben equipaggiati e con l’aiuto del supporto aereo, abbiamo combattuto e vinto».

Quando imbocco la strada principale di Mosul si nota subito la devastazione. L’ingresso è una grande discarica di rifiuti dove pascola qualche capra. Più oltre si vedono gli scheletri dei palazzi sventrati dai bombardamenti.

Il prezzo pagato dai civili

Il mio interprete si chiama Sardar Abudlahh, ha lavorato qui con i giornalisti arrivati durante e dopo la liberazione, mi racconta:

«I giorni dopo la liberazione arrivarono qui in tantissimi, Tv straniere e giornalisti. Entravano in città dentro le jeep dell’esercito e posavano facendosi fotografare con elmetti e giubbetti antiproiettile militari. In realtà poi facevano solo qualche minuto di registrazione e andavano via, pochissimi sono andati tra i vicoli a parlare con la gente di questo luogo, chiedendo quale fosse il loro stato d’animo dopo la liberazione.

Le vittime civili sono state tantissime, Mosul è stata liberata sì, ma a che prezzo? Alla gente che ha perso la famiglia per colpa dei bombardamenti, alla gente che non aveva colpa di questa guerra, quasi nessuno ha chiesto che cosa avesse da dire.

C’è stata anche una grande campagna mediatica attorno a tutto questo. In quei giorni sembrava che l’unica cosa importante da dire fosse: siamo degli eroi, abbiamo sconfitto i terroristi del Daesh e riconquistato Mosul! I giornalisti hanno continuato a venire per i successivi due mesi, poi pian piano hanno cominciato a dimenticarsene, come vedrai tu stesso per le strade».

Nessuno qui chiama gli uomini del califfato «Isis» ma «Daesh» (acronimo di Al Dawla Al Islamiya fi al Iraq wa al Sham, Stato islamico dell’Iraq e della Siria). Per la gente del luogo la parola «Isis» risulta offensiva perché la connotazione «Stato islamico» potrebbe far pensare che tutto l’islam sia coinvolto con il terrorismo. Chiunque incontri ci tiene molto a ribadirmi questo concetto.

Camminando per i vicoli distrutti della città vecchia di Mosul vedo tanti ragazzini che scavano tra le macerie: cercano rame, ferro, acciaio, qualsiasi cosa possano poi rivendere per qualche dollaro.

La settimana prima del mio arrivo, mi raccontano, un bambino di 6 anni è saltato in aria per aver calpestato una bomba, fino a quel momento inesplosa. Questi incidenti sono molto comuni, più volte gli agenti di polizia mi ribadiscono di non entrare troppo all’interno degli edifici crollati, per l’elevato pericolo di esplosioni o cedimenti.

Le storie di Mahmoud e Amir

In uno dei tanti vicoli incontro Mahmoud. Nato e cresciuto qui, non ha mai voluto abbandonare Mosul, mi mostra le cicatrici inferte da un coltello e racconta:

«Queste me le hanno fatte i Daesh, dicevano che i miei pantaloni erano troppo corti, così mi hanno portato nella chiesa armena che usavano per le esecuzioni. Pensavo che mi avrebbero ucciso, poi mi hanno picchiato e con un coltello, mi hanno fatto questi tagli sulle caviglie. Così dovrò ricordare per sempre di indossare pantaloni più lunghi».

Mahmoud conosceva tutti in questo lato della città, camminando per le rovine mi racconta porta per porta la storia delle famiglie che ci abitavano, fino ad arrivare a quella che era casa sua. Anche lui ha perso una figlia, l’ultima nata della famiglia, aveva 5 anni. Mi mostra commosso una piscina gonfiabile, unico oggetto rimasto dei giocatoli della piccola. Subito dopo si fa molto serio e comincia a imprecare contro i terroristi e contro l’America. Urlando mi dice:

«I miliziani del Daesh avevano occupato questa che era casa nostra e poi gli americani con le loro bombe hanno distrutto tutto. Le bombe americane hanno ucciso mia figlia e tanti ancora sono sotto le macerie ed è impossibile tirarli fuori. Perché? Cosa abbiamo fatto noi? Io avevo amici cristiani, eravamo tutti amici, vivevamo in pace, noi non siamo terroristi, perché?».

Ci vuole un po’ di tempo per far calmare Mahmoud e continuare a camminare insieme. Dopo ogni vicolo, a noi si aggiunge qualcun altro: sono le persone che vogliono raccontare la propria storia. Vogliono ribadirmi che loro non hanno niente a che fare con i terroristi estremisti, che l’islam è una religione di pace.

Tra le persone che si sono aggiunte al nostro cammino c’è Amir. Ha lavorato per anni come falegname, anche lui ha perso casa e la bottega durante i raid americani. Amir mi mostra le rovine di una scuola e, con le lacrime agli occhi, mi dice che lì ci andava suo figlio, anche lui morto durante i bombardamenti, aveva 8 anni.

Racconta: «In questa scuola ci andavano sia cristiani che musulmani, siamo sempre stati rispettosi delle idee e religioni altrui, poi sono arrivati i miliziani del Daesh e poi le bombe».

Fa un gran sorriso e conclude: «Le bombe non conoscono religione».

Mentre saluto Amir si avvicina un uomo, si chiama Fares Abdurazal. Mi dice che si è sparsa la voce che sto intervistando persone per la città e vuole raccontarmi anche lui qualcosa.

Storia di Fares

Fares lavora per il municipio di Mosul, si occupa di registrare e controllare gli indirizzi di residenza. Gli chiedo perché Al-Baghdadi e i suoi uomini hanno scelto di conquistare proprio Mosul e come hanno fatto a rimanerci così tanto.

Mi risponde: «Non è che gli uomini del Daesh volessero conquistare solo Mosul, loro volevano conquistare quanto più potevano. Ci sono riusciti meglio qui perché la maggior parte delle persone è di fede sunnita, e purtroppo all’inizio hanno trovato molto supporto in questa maggioranza. Vedi, molti sono in disaccordo con il governo iracheno dominato dagli sciiti. All’inizio tanti hanno visto negli uomini del Daesh la speranza di ristabilire un governo sunnita e un islam più tradizionale. Anche durante il periodo di Saddam si verificò la stessa cosa, essendo sunnita, prese tantissimi voti da Mosul».

«E tu durante giorni delle battaglie dov’eri? Cosa facevi?», gli domando. «Io mi sono dovuto nascondere. Ero ricercato dai miliziani del Daesh come tutti quelli che lavoravano per il governo. Insieme a yazidi e cristiani eravamo il primo bersaglio. Sono scappato con la mia famiglia prima sulle montagne e poi in Kurdistan. Sono tornato perché questa è casa mia e spero che un giorno questa città possa essere ricostruita». Gli chiedo ancora: «Mi hai detto che qui i terroristi hanno avuto molto supporto, so che alcune persone di Mosul si sono arruolate nelle loro file, è vero? Tu ne conosci qualcuno?». «Purtroppo è vero, la maggior parte però veniva dai piccoli villaggi di campagna piuttosto che dalla città, era più facile fare il lavaggio del cervello a loro. Molti poi hanno scoperto quali erano le vere intenzioni dei miliziani del Daesh, hanno visto come agivano, ma a quel punto era troppo tardi per tirarsene fuori, ora sono morti o in galera. Io ne conoscevo alcuni, si sono uniti ai terroristi perché erano ignoranti, noi sapevamo che sarebbero stati una disgrazia. Hanno portato anche vergogna alle loro famiglie perché adesso anche loro sono sotto controllo, 24 ore al giorno. Magari sono innocenti, ma il governo teme che si risveglino cellule dormienti e io so che ce ne sono ancora tante».

«Tu lavori per il governo locale, c’è un piano di ricostruzione?». «Una proposta per un piano di ricostruzione venne fatta subito dopo la liberazione ma, come vedi, non è stato fatto nulla. Non penso che il governo iracheno riuscirà mai a ricostruire qualcosa senza un aiuto dall’estero, ma penso che nemmeno quello arriverà. Sembra che si siano tutti dimenticati di Mosul». Poi aggiunge: «Io credo che sia l’America quella che dovrebbe ricostruire Mosul. Io non ce l’ho con gli americani, ma sono loro che hanno distrutto la città con i bombardamenti. È vero: ci hanno aiutato a sconfiggere il Daesh, ma non dimenticarti che hanno anche ucciso più di 500 innocenti e tanti sono ancora sotto le macerie. Le chiamano vittime collaterali, ma erano le nostre famiglie e amici. Non ce l’ho con loro, ma chi distrugge poi dovrebbe ricostruire. Sarebbe un bel gesto e per noi vorrebbe dire tantissimo».

Succo di melograno (ma nessuna ricostruzione)

Mosul oggi versa in uno stato di povertà estrema: non essendoci ricostruzione, non c’è lavoro. Sono circa 300mila le persone che sono scappate da qui. Tanti vanno a Erbil, capitale del Kurdistan, sperando di trovare un lavoro, altri tentano di passare illegalmente il confine con la Turchia.

Le Nazioni Unite hanno stimato che per ricostruire la città sarebbe necessario un miliardo di dollari. Purtroppo, Mosul non è l’unica emergenza che necessita di aiuti umanitari in Iraq. C’è un altissimo numero di rifugiati che arriva dalla Siria, senza contare i cosiddetti «rifugiati interni», cioè tutte quelle persone a cui è stata distrutta la casa o il villaggio durante l’occupazione dell’Isis e che – da quattro anni – vivono nelle tende, nei campi profughi.

Una cosa che non ho incontrato a Mosul, a differenza di molti altri luoghi in guerra, è stato qualcuno che mi chiedesse denaro per strada, cosa molto comune in situazioni del genere. Ho trovato invece nei racconti della gente, insieme alla tristezza, molta fierezza. Ho trovato molta ospitalità, gentilezza e anche i primi segni di speranza.

A gennaio 2019 l’Università di Bologna ha annunciato una campagna di scavo archeologico sulle rovine di Ninive, l’antica capitale Assira che sorgeva proprio nell’odierna Mosul.

La Trevi ha vinto un ulteriore appalto per il prolungamento dei lavori sulla diga di Mosul, fondamentale per l’approvvigionamento idrico ed elettrico della città, che – al momento – continua a essere dipendente dai generatori diesel.

Fuori dal centro storico distrutto un piccolo nuovo centro sta rinascendo, i commercianti hanno trovato uno spazio dove sistemare il bazar, i giovani sono tornati a iscriversi all’Università e i ragazzini salgono in cima alle colline per farsi dei selfie con la valle del Tigri alle spalle. Le giovani coppie sulle panchine bevono succo di melograno fresco comprato dai venditori ambulanti, che piano piano stanno riprendendo a vendere i propri prodotti in giro.

Scene di vita normali in un luogo che, negli ultimi anni, di normale ha avuto pochissimo.

Lasciando Mosul, tra i saluti e le raccomandazioni di chi ho intervistato, mi si chiede di raccontare di come sono stato accolto. Mi si chiede di dire, a chi incontrerò, che qui sognano un giorno di ospitare nuovamente viaggiatori e scambiare con loro due chiacchiere davanti a un bicchiere di tè. Sperando che Mosul possa tornare quello che è stata, un collegamento tra genti e culture diverse.

Angelo Calianno

L’autore

Nato a Cisternino (Brindisi), Angelo Calianno da anni scrive da luoghi in conflitto in Medioriente, Asia e Africa. Per MC ha scritto un reportage dall’Afghanistan pubblicato a maggio 2018 e reperibile sul sito della rivista.


Cronologia essenziale

Mosul, non rimasero che macerie

 

  • 1916, Maggio – Alla dissoluzione dell’Impero ottomano, Francia e Inghilterra si dividono i territori del Medio Oriente (accordi di Sykes-Picot). All’inizio Mosul, praticamente più vicina alla Siria che a Baghdad, è sotto il controllo francese. Il crescente interesse per il petrolio iracheno da parte degli inglesi, porta, dopo una serie di trattative, al passaggio della città sotto il controllo del Regno Unito.
  • 1932 – Il Regno Unito instaura una monarchia sotto il proprio controllo. Nasce lo stato dell’Iraq.
  • 1950 – Dopo la creazione di Israele, le famiglie ebree di Mosul lasciano la città per emigrare nel nuovo stato.
  • 1967 – Mosul fonda la sua Università, la seconda più grande in Iraq dopo quella di Baghdad.
  • 1979, Luglio – Dopo diversi tentativi di colpi di stato sin dalla fine degli anni ‘60, il governo iracheno viene rovesciato da Saddam Hussein, che rimarrà al potere per oltre 20 anni. Di fede sunnita, Saddam riceve molti consensi dalla città di Mosul.
  • 1980, Settembre – L’Iraq dichiara guerra all’Iran (sciita). Molti dei curdi (soprattutto di fede cristiana), sciiti e yazidi, fuggono da Mosul per non essere mandati al fronte. La maggior parte si rifugia in Siria e Turchia.
  • 2003, Marzo – Gli Stati Uniti e gli alleati invadono l’Iraq (seconda Guerra del Golfo). Oltre Baghdad, gli altri punti cardine dello stato sono Kirkuk, per le risorse petrolifere e Mosul per quelle idroelettriche, petrolifere e logistiche. I dintorni di Mosul sono teatro di scontri tra le forze leali a Saddam Hussein e i soldati statunitensi, coadiuvati dalle milizie peshmerga. Nell’aprile 2003 le forze governative irachene sconfitte abbandonano Mosul. Le forze speciali americane tengono sotto controllo la città per poi lasciarla sotto il presidio peshmerga.
  • 2014, Giugno – Gli uomini dell’Isis occupano Mosul e ne fanno la loro capitale simbolica. Rimangono nella città fino alla sua liberazione del luglio 2017. Durante questa occupazione stilano una propria «Costituzione» da far rispettare agli abitanti della città. Per chi si oppone sono previste punizioni fisiche e detenzione; per le violazioni giudicate più gravi, si viene giustiziati.
  • 2017, Luglio – Dopo mesi di assedio, Mosul è liberata. Difficile dare una stima della sua popolazione attuale: un grande numero di persone, registrate come residenti, in realtà si è spostato a Erbil, per cercare lavoro, o illegalmente in Turchia. Le ultime stime del 2017 contavano 1 milione e 377 mila abitanti; altri 700 mila sono scappati o sono stati uccisi durante la guerra contro l’Isis. Oggi la maggior parte della città e della sua economia sono da ricostruire.

Angelo Calianno

Fonti: BBC World, Washington Post.


I protagonisti della battaglia di Mosul

Al-Baghdadi, i Peshmerga e gli altri

Al-Baghdadi – Il suo vero nome è Ibrahim Awwad Ibrahim Al-Badri, nato a Samarra in Iraq nel 1971. Al-Baghdadi nasce da una famiglia della classe media irachena di fede sunnita. Cresce in un sistema sociale tribale diviso in clan, il suo in particolare si dichiara direttamente discendente del profeta Maometto. Per la sua stretta osservanza delle regole islamiche viene soprannominato dai suoi familiari «il credente». Prosegue poi gli studi della fede islamica fino a prendere una laurea con specializzazione sugli studi coranici all’Università di Baghdad. Dopo la laurea insegna in alcune moschee attorno Baghdad, ma nel 2003 Al-Baghdadi diventa a tutti gli effetti un militante combattente. Viene successivamente arrestato a Falluja e imprigionato per 10 mesi a Camp Bucca, prigione irachena gestita dagli Usa.

Durante la prigionia predica il Corano con lunghi sermoni sull’islam e la guerra contro l’Occidente, proprio in carcere comincia ad avere i primi seguaci. Durante la detenzione conosce anche alcuni di quelli che successivamente saranno i suoi uomini in Siria. Una volta libero, combatte in Siria a fianco del gruppo terrorista Al-Nusra. Fonda l’Isis, che, dopo varie divergenze, viene espulso da al-Qaeda.

Il nuovo gruppo comincia a conquistare territori nell’Est della Siria e nell’Ovest dell’Iraq, fino a Mosul, dove – nel luglio del 2014 – Al-Baghdadi, davanti alle telecamere, si auto proclama Califfo dello Stato islamico.

Nell’estate del 2017 la Russia dichiara la morte di Al-Baghdadi, ucciso in un raid aereo a Raqqa, in Siria. Tuttavia, non ci sono prove evidenti. Il 23 agosto 2018 viene divulgato un audio con la voce del leader dell’Isis che incita alla lotta contro gli infedeli. Anche se l’audio non è mai stato autenticato, molti pensano che Al-Baghdadi sia ancora vivo e si nasconda tra Siria e Iraq.

Peshmerga – I peshmerga sono dei combattenti e guerriglieri curdi. Il loro gruppo pare si sia formato dopo il crollo dell’Impero ottomano agli inizi del 1900. Per anni gruppo di guerriglieri indipendenti sono diventati, di fatto, l’esercito della regione indipendente del Kuridstan in Iraq. I peshmarga annoverano tra le proprie file anche diverse donne che hanno combattuto, oltre che contro l’Isis, anche a fianco degli Stati Uniti contro Saddam Hussein nel 2003. La parola peshmerga vuol dire letteralmente «prima morte» e sta a significare la volontà di essere sempre i primi a combattere, a sacrificarsi e pronti a morire.

Italia in Iraq – Il totale delle forze di coalizione anti-Daesh, tra Iraq e Siria, è di 74 nazioni. La presenza italiana è la seconda come numero, subito dietro a quella degli Stati Uniti. Oggi l’Italia ha 700 soldati e 100 carabinieri dislocati su 11 basi. Il contingente italiano si occupa dell’addestramento e formazione delle truppe locali, nonché dello sviluppo e installazione di sistemi di sicurezza. Molti dei peshmarga curdi sono stati addestrati dagli italiani nella base di Erbil.

Coalizione anti Isis – La coalizione per la liberazione di Mosul fu guidata dagli aerei statunitensi con la partecipazione dell’aviazione australiana, il supporto delle forze armate irachene e quelle curde dei peshmerga. Il primo febbraio 2019 l’Australia ha ammesso alla BBC, pubblicamente per la prima volta, che durante l’attacco di Mosul le bombe della coalizione hanno ucciso diversi civili. Amnesty International ha accusato l’esercito iracheno e gli Stati Uniti, per l’enorme numero di civili uccisi durante i bombardamenti e di gravi violazioni dei diritti umani. A oggi non è stato designato alcun responsabile.

Angelo Calianno

Fonti: BBC, The Guardian, difesa.it, Tolo News, The Atlantic.