Ecumenismo per le migrazioni


La Federazione delle chiese evangeliche in Italia e la Tavola valdese, insieme alla Comunità di sant’Egidio, stanno sperimentando un metodo per far giungere in sicurezza richiedenti asilo in Italia. Il programma prevede poi un percorso di integrazione. Sono numeri ancora modesti, ma rilevanti. In questo modo intere famiglie siriane possono essere «salvate» e vedere un futuro per i loro figli. Senza pagare trafficanti e senza rischiare vite umane.

Cattolici e riformati insieme per salvare i rifugiati siriani. Una collaborazione dal forte valore ecumenico, quella tra la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) e la Comunità di sant’Egidio. Un sodalizio nato nel 2014, subito dopo l’affondamento di un barcone al largo di Lampedusa nel quale perirono 366 persone (ma c’è chi dice fossero in numero maggiore). «Di fronte a una tragedia simile – ricorda Paolo Naso, responsabile del programma Mediterranean hope della Federazione delle chiese evangeliche -, le nostre chiese si sono interrogate: è possibile trovare un modo per far arrivare i migranti in Europa in modo sicuro? È possibile garantire corridoi umanitari che evitino lo sfruttamento da parte dei trafficanti? È possibile creare percorsi di integrazione in Italia? Da queste domande è nato un articolato progetto sulle migrazioni».

Un osservatorio

Il primo passo della Fcei, d’intesa con la Tavola valdese, è stata la creazione, nei primi mesi del 2014, di un osservatorio a Lampedusa. L’osservatorio, tuttora attivo, lavora su più fronti: monitora gli sbarchi, le condizioni della prima accoglienza, l’impatto delle migrazioni sulla popolazione locale; cura i rapporti con gli isolani, con l’associazionismo, con le istituzioni locali, regionali e nazionali; collabora con la parrocchia cattolica dell’isola; promuove la costruzione di reti nazionali e internazionali per la sensibilizzazione sul tema delle migrazioni. Successivamente è stata creata la Casa delle culture di Scicli (Rg) che conta una quarantina di posti letto e offre ospitalità ai migranti particolarmente vulnerabili (giovani mamme, donne incinte, minori non accompagnati).

La Fcei ha però deciso di andare oltre. «Lo choc della strage di Lampedusa è stato forte – ricorda Naso -. A pochi giorni da quell’evento, insieme alla Comunità di sant’Egidio, ci siamo impegnati a cercare soluzioni per far giungere i migranti in Italia in sicurezza e indirizzarli verso programmi di integrazione efficaci. Abbiamo subito scartato l’idea di chiedere cambiamenti normativi perché non c’erano le condizioni, né in Italia né a livello continentale. Studiando le norme europee abbiamo scoperto che l’art. 25 del Regolamento CE 810/2009 concede ai paesi dell’area Schengen la possibilità di rilasciare visti umanitari validi per il proprio territorio. Una volta in Italia, i beneficiari del progetto possono poi fare regolare richiesta di asilo». Il 15 dicembre 2015, la Fcei e la Comunità di sant’Egidio hanno firmato con i ministeri dell’Interno e degli Affari esteri italiani il primo protocollo che prevede l’arrivo, con un regolare volo di linea, di mille profughi in due anni.

La scelta dei siriani

In Libano, un team di operatori, in collaborazione con organizzazioni umanitarie che operano nel paese, si è occupato di redigere le liste di chi poteva imbarcarsi per l’Italia. «In questi anni – spiega Simone Scotta che lavora per la Fcei a Beirut – abbiamo scelto di far arrivare rifugiati siriani: famiglie sunnite, le più perseguitate in patria, donne sole, persone malate, ragazzi sunniti renitenti alla leva. Ogni due-tre mesi sono stati organizzati voli con un minimo di 60 e un massimo di 80 persone».

Una volta arrivati in Italia questi rifugiati sono stati presi in carico dalla Diaconia valdese che ha offerto loro vitto e alloggio, corsi di italiano, una piccola somma per le spese quotidiane, aiuto per le pratiche burocratiche, assistenza medica e psicologica. «Accoglienza, accompagnamento e assistenza – continua Scotta – non costano nulla allo stato italiano. Tutte le spese sono a carico della Fcei e della Diaconia valdese che attingono ai fondi dell’8 per mille delle Chiese metodista e valdese. Tra i sostenitori del progetto figurano anche donatori internazionali come la Chiesa evangelica della Vestfalia, la Chiesa riformata degli Stati Uniti, diverse comunità evangeliche in Italia e singoli privati in Italia e all’estero».

Il 27 ottobre 2017, con l’arrivo del millesimo rifugiato, si è conclusa la prima sperimentazione. Ma il progetto è andato avanti. Il 7 novembre dello stesso anno è stato infatti firmato il rinnovo dei corridoi umanitari per altri mille profughi per il biennio 2018-2019. «Il progetto continua ed è un dato positivo – conclude Naso -. Segna una forte collaborazione ecumenica tra strutture delle Chiese riformate e cattolica. I corridoi umanitari sono poi un modello unico che si differenzia dagli inserimenti organizzati dallo stato o dagli enti locali. Noi abbiamo definito uno schema di accoglienza diffusa che evita di dar vita a grandi concentrazioni di migranti a favore di un inserimento molecolare. I migranti vengono inoltre accompagnati passo per passo da operatori professionali e da comunità che si prendono cura di ogni loro esigenza. I risultati sono positivi. Crediamo perciò che il modello possa essere preso ad esempio e replicato in futuro».

Enrico Casale
(seconda puntata – fine)

 




Attorno al fuoco, nella casa comune


Dal Kenya alla foresta amazzonica brasiliana. È questo il percorso di Mary Agnes Nieri Mwangi, missionaria della Consolata che dal 2000 vive nella Missione Catrimani in Terra indigena yanomami (Tiy). Sorretta da un incredibile entusiasmo e ponendosi sempre dalla parte delle donne. Anche quando si tratta di affrontare tematiche complesse come la poligamia o delicate come l’infanticidio.

Boa Vista. Nella capitale di Roraima suor Mary Agnes Nieri Mwangi, missionaria della Consolata, è di passaggio. Ha (temporaneamente) lasciato la Missione Catrimani, in terra yanomami, per partecipare a una serie di riunioni. Il momento storico è delicato perché il nuovo presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, sta mettendo in discussione molte conquiste indigene. Come ha denunciato il Consiglio indigenista missionario (Cimi), poche ore dopo la sua entrata in carica (1 gennaio 2019), Bolsonaro ha varato misure impattanti. La Funai, l’organizzazione federale per la protezione e la promozione dei diritti indigeni, è passata dal ministero della Giustizia a quello della Donna, famiglia e diritti umani, diretto da Damares Alves, pastora evangelica. Allo stesso tempo, la Funai è stata privata delle sue competenze in fatto di terre indigene, che sono state trasferite al ministero dell’Agricoltura, diretto da Tereza Cristina, imprenditrice agricola. Il risultato di queste misure è che le due uniche donne del governo Bolsonaro incarnano palesi e giganteschi conflitti d’interesse sotto i quali rischiano di rimanere schiacciati i diritti dei popoli indigeni. In tutto questo, l’Amazzonia, da tempo in grave sofferenza, rischia ora di subire un attacco letale con l’apertura indiscriminata alle imprese minerarie e ai latifondisti.

CATRIMANI_la maloca

Cacciatori e contemplatori

Suor Mary, com’è stato passare dal suo Kenya alla terra degli Yanomami?

«Arrivare in Amazzonia, nelle terre indigene, per me è stata una novità molto grande. Ma ancora più grande è stata la gioia di conoscere popoli diversi dalla mia realtà. Quando arrivai a Catrimani, mi sembrava di essere in quelle missioni del mio paese nei primi anni del Novecento. Oggi è un gioiello».

Molto spesso il primo salto culturale che ci si trova ad affrontare è quello linguistico. Lei ha avuto problemi?

«No, perché il mio paese è plurilingue. Si parla inglese, kiswahili e poi il kikuyu, la mia lingua. In Kenya e in Italia ho imparato un po’ d’italiano. Quando entrai a Catrimani non parlavo né la lingua portoghese né quella indigena. Nei primi cinque mesi, in attesa di partecipare a un corso di portoghese, cominciai a studiare la lingua locale, lo yanomae. Dato che spesso è l’unica che viene parlata dagli Yanomami, conoscerla è essenziale. Si tratta di una lingua orale. Anche se, nel corso degli anni, noi missionari abbiamo svolto vari progetti di alfabetizzazione».

Suor Mary, volendo dare una sintetica definizione dei popoli indigeni, cosa direbbe?

«Che sono popoli amici. Che sanno accogliere. Che c’è tanto da imparare dal modo in cui loro ti ricevono».

E degli Yanomami?

«Anche se non sembra perché sono cacciatori, cioè uomini d’azione, gli Yanomami sono persone a cui piace raccontare, ascoltare e contemplare. Noi abbiamo l’abitudine di chiedere: “Come stai?”. Loro no, perché come stai lo vedono. Si tratta di una domanda inutile. Invece, è molto importante chiedere: «Cosa pensi?». È quasi un modo di salutare l’altro. E mettersi nella disposizione di ascoltarlo».

Mary Agnes Nieri Mwangi, missionaria della Consolata

Maloca, comunità, famiglia

Maloca è il termine generico per indicare un’abitazione che ospita più famiglie indigene. Lei come descriverebbe la maloca degli Yanomami?

«C’è una ricerca dell’armonia che è difficile da spiegare. Per prima cosa, quando costruiscono la loro casa comune, gli Yanomami hanno sempre un pensiero: dov’è il centro del mondo? L’armonia si cerca anche nelle attività esterne alla maloca che vanno condivise attraverso una proposta. Non si dice: “Oggi andiamo a cacciare lì”. No, questa non è la comunicazione yanomami, che invece dice: “Ho pensato, mi sembra che sia bene andare lì. Cosa ne pensate?”. Questi sono momenti comuni, ma ci sono anche quelli dedicati al nucleo familiare».

E, all’interno della casa comunitaria, cosa distingue una famiglia?

«Ogni nucleo familiare ha il suo fuoco. Non essendoci divisioni, se si vuole sapere quante famiglie ci sono nella maloca basta contare i fuochi. Ogni fuoco, una famiglia».

E all’interno della maloca e della famiglia come crescono i bambini?

«Imparando direttamente. I bambini più grandicelli prendono in braccio quelli più piccoli. Quelli di 2 o 3 anni sanno già fare il fuoco e già prendono in mano il coltello. Un tempo io mi preoccupavo, ma la mamma subito interveniva per dirmi che non capitava nulla. Alla fine anch’io ho trovato un equilibrio tra la cura esagerata dei bambini occidentali e la libertà d’imparare dei piccoli yanomami. Quanti di loro vanno al fiume a pescare e poi preparano quello che hanno trovato. Anche il cibo viene condiviso con gli adulti. Non esiste la distinzione cibo per adulti e cibo per bambini, come invece io ero abituata».

Banane per tutti, dunque?

«Sì, l’alimento preferito dagli Yanomami è la banana. Poi ci sono la manioca con la quale fanno una specie di pane, patate dolci e frutti della foresta, pesce e carne di selvaggina o di maiale. Per gli Yanomami esistono due tipi di fame, tanto che hanno una parola specifica – naiki – per parlare di fame da mancanza di carne e un’altra – ohi – per tutto il resto. La caccia è in pratica un’attività quotidiana: ogni giorno c’è qualcuno che la pratica. Se non va il papà, va il figlio o il cugino. Chi va un giorno, non va il giorno successivo perché deve preparare gli strumenti da caccia, in primo luogo le frecce».

I misteri dello sciamano

Chi è e che ruolo riveste lo sciamano – detto xapuri o xapiri – nella società yanomami?

«Prima di tutto, lo sciamano è una persona molto disponibile. Se arriva qualcuno a chiedere i suoi servizi, lui si alza dall’amaca e va. Non ho mai sentito qualcuno rifiutarsi. In generale, sciamano è una persona che, per tutta la sua vita, coltiva “il sentire con”, il condividere le preoccupazioni altrui».

Per «sentire» come dice lei, occorre però sempre assumere la yakoana, che è una sostanza allucinogena.

«È vero, gli sciamani usano la yakoana, perché aiuta nella intermediazione tra loro e gli spiriti. Anch’io – da infermiera – ho pensato alla condizione sciamanica come a un effetto allucinogeno indotto da questa droga (detto tra virgolette). Tuttavia, io ho visto che ci sono sciamani che riescono a fare i loro riti curativi senza necessariamente assumerla. In uno stato di sobrietà.

Io vedo in questo la forza dell’amore, anche se loro non parlano in questi termini ma soltanto di cura. Lo sciamano – inoltre – porta nel presente la memoria della comunità. Essendo loro dei popoli senza memoria scritta, questa funzione è essenziale».

Suor Mary, ci aiuti un po’ a fare chiarezza sui termini: si dice sciamano, xapuri o xapiri?

«Il termine che gli indigeni usano non è sciamano. Il termine è xapuri o xapiri a seconda del territorio yanomami considerato. Perché? Xapuri (xapiri) è anche il nome degli spiriti che lavorano con queste persone. Nel momento in cui lo sciamano è in contatto con lo spirito non è lui che parla, non è lui che cura: lui incarna lo spirito. In quel momento lui è xapuri. Accade, per esempio, nel momento finale della vita quando lo sciamano sentenzia: “Non c’è più nulla da fare per evitare la morte”. Parole dure da ascoltare, ma tutti i presenti le considerano parole dello spirito e non della persona fisica che hanno davanti agli occhi. Detto questo, per me lo sciamanesimo rimane un mistero».

Antropofagia e infanticidio: Yanomami primitivi?

Le ossa del defunto – trattate in una certa maniera – vengono mangiate dai parenti. Ciò ha fatto parlare di cannibalismo. «Il loro modo di trattare i morti è qualcosa che noi dobbiamo imparare. Oggi i nostri cimiteri sono pieni. Se noi pensiamo che, dopo morta, una persona diventi cenere, gli Yanomami agiscono cremando i cadaveri e mescolando nel cibo le ossa polverizzate. Di qui si è arrivati a sentenziare: gli Yanomami mangiano i morti. Chi parla così non conosce bene la loro cultura, il perché delle cose che si fanno. È un peccato. Non sempre quello che io vedo e penso è giusto. Questa è una cosa che mi dà molto fastidio».

Altra questione molto delicata è quella dell’infanticidio. Un altro elemento spesso usato per attaccare gli Yanomami come primitivi o peggio. Cosa ci può dire sull’argomento?

«Per prima cosa, voglio dire che infanticidio è una parola abusata. In tutti questi anni tra loro, io ho visto quanto le donne yanomami curino i loro bambini. Si provi a immaginare la vita nella foresta: tu devi andare a cacciare, cercare frutta, eccetera. Se hai bambini piccoli, devi pensare a come portarli con te. È molto comune vedere una Yanomami con un bimbo sulla schiena o sul davanti.

Ricordo che un giorno venne una donna a chiedermi di accompagnarla al posto di salute per mostrare che il suo bambino era morto: non voleva essere accusata di averlo ucciso. Io l’accompagnai. Se una donna ha già un bimbo piccolo e rimane incinta, chiede a un’altra di tenerlo. Tra loro le donne si aiutano. Insomma, prima di parlare di infanticidio, occorre pensare, perché il tema è molto delicato».

La poligamia: responsabilità e sorellanza

Rimaniamo in tema di bambini.  Quanti sono in media per famiglia?

«In media sono cinque per famiglia. Ma un uomo può arrivare anche a dieci, perché può avere più mogli. Dipende dalla sua forza e capacità di lavorare. Chi ha più di una moglie, in genere ne ha due. L’uomo yanomami è responsabile, cioè si prende cura delle mogli e dei figli. Le mogli vivono assieme nella stessa maloca. Alla fine sono come sorelle».

Lei parla di capacità di lavorare. Oggi ci sono Yanomami che lavorano per il governo guadagnando uno stipendio.

«Quando io arrivai le comunità yanomami non conoscevano i soldi. Per loro non avevano significato. Poi, quando alcuni indigeni divennero agenti di salute o microscopisti, cominciarono a ricevere una busta con il denaro. Nessuno pensava a depositarlo dato che si era in foresta. Dunque, lo riponevano in un posto qualsiasi e lì rimaneva.

Poco a poco le cose sono cambiate e i giovani yanomami hanno imparato a maneggiare il denaro. Ricordo che, quando andavamo in città, io li accompagnavo nei negozi. Se compravano – ad esempio – una camicia, davano i soldi e non aspettavano neppure il resto. Questa era una conseguenza del sistema della casa comune: quando hai quello di cui necessiti, il resto lo puoi condividere. Oggi i popoli indigeni conoscono i soldi. Sanno che, se ne hanno, possono ottenere qualcosa. E ciò può essere un pericolo».

La terra degli Yanomami e l’invasione dei garimpeiros

A parte la corruzione portata dai soldi dei bianchi, da fuori arriva un altro grande pericolo.

«È così. Gli Yanomami vivono su un territorio molto buono: le piante crescono senza bisogno di troppe cure, c’è acqua, il clima è buono. Purtroppo, ci sono anche i minerali che attraggono molti garimpeiros. Le garimpeiras sono un’eccezione».

Si tratta di persone singole o di vere imprese?

«Ci sono i garimpos che dietro hanno un padrone e ci sono altri che hanno un singolo minatore. Il fenomeno è molto complesso».

Tra i tanti danni prodotti dai garimpeiros, c’è l’inquinamento delle acque con il mercurio. Questo problema si è manifestato anche alla Missione Catrimani?

«Già negli anni Novanta i missionari hanno scavato un pozzo per non bere l’acqua del fiume contaminata da mercurio. In questi anni da noi c’è meno inquinamento, mentre è aumentato in altre zone. Certamente non possiamo dare per scontato che nel Catrimani non ci sia mercurio perché nella sua parte alta ci sono garimpos. Neppure siamo sicuri che l’acqua del nostro pozzo, che sta vicino al fiume, sia pulita».

Senza strade è meglio

Suor Mary, per tenere gli indigeni lontani dai bianchi la soluzione migliore è che non ci siano strade. Si tratta di un’affermazione esagerata?

«Io credo che la strada non sia per gli indigeni. Sono persone che non hanno bisogno di strade perché sono popoli della foresta. Loro hanno… il Gps nella testa (lo ripete due volte ridendo e indicando con le dita la sua testa, ndr).

Quando cammino con loro, io a volte non riesco ad orientarmi, a capire dove sono. A volte non sono capace neppure di trovare il sole perché non riesco a vederlo. Allora mi chiedono: “Ma cosa cerchi?” “Il sole”, rispondo io. “Ma come? È qui! Non lo vedi?”. E si mettono a ridere. La stessa cosa mi accade con i sentieri che io non vedo mentre loro sì. Voglio dire che ciò che io non vedo loro invece lo vedono. Dunque, la strada non è per i popoli indigeni, ma è per quelli come noi che non hanno il Gps nella testa».

Nessuna strada la raggiunge però la Missione Catrimani è un luogo d’incontri.

«È così. Pur nella loro grande semplicità, alla missione ci sono strutture che non si trovano altrove. Per questo è il luogo dove la Sesai, l’Isa, Hutukara e anche alcune facoltà universitarie federali organizzano incontri. Siamo arrivati a ospitare anche 200 persone che dormivano ovunque».

Catrimani, suore davanti alla missione

Donne indigene, donne yanomami

Suor Mary Agnes, lei lavora con le donne indigene. Come sono state accolte le sue iniziative nella comunità yanomami?

«All’inizio ci fu molta sorpresa. Gli uomini yanomami si chiedevano (suor Mary Agnes ride di gusto mentre racconta, ndr): “Cosa vogliono fare con le donne? Che razza di incontro è?, Cosa hanno da imparare le donne?, Tutto quello che c’è da imparare s’impara nella comunità”. Per me invece erano esperienze molto interessanti, un sogno che si avverava: lavorare con le donne. Dal 2002 accompagno le donne agli incontri. Il gruppo era composto da alcune donne, un uomo e una suora».

Dalla partecipazione agli incontri tra donne indigene siete passati all’organizzazione. Com’è avvenuto questo cambiamento?

«Era il 2006. Eravamo in sei: quattro donne, un uomo ed io. Andammo dalla Missione Catrimani alla Terra Raposa Serra do Sol. In quell’occasione le donne yanomami mi dissero: perché non lo facciamo anche da noi? Rimasi molto sorpresa da quella proposta, ma segnò l’inizio del nostro percorso».

Quando ci fu il primo incontro di donne indigene ospitato presso la Missione Catrimani?

«Organizzammo il primo incontro nel 2008, un’assemblea aperta anche a donne non-yanomami, progetto reso possibile dall’appoggio della Cei. Alla fine riuscimmo ad avere soltanto un aereo per quattro indigene da fuori, ma le donne yanomami arrivarono numerose da vari luoghi con bambini e mariti.

Fu più interessante la preparazione che la stessa assemblea. Gli uomini mi chiedevano: “Chi cucina se le donne sono sedute ad ascoltare?”. Io mi divertivo. Comunque, riuscimmo ad organizzarci. Le donne erano sedute in cerchio al centro della casa comune e attorno, sulle amache, c’erano uomini e bambini. Non c’era un vero tema dell’incontro. Il tema era lo stare insieme e parlare sulla vita della donna, yanomami e non yanomami.

Negli anni successivi abbiamo dovuto limitarci a invitare le Yanomami. Nel 2010 c’è stato un incontro dedicato alla salute. Nel 2018, per la prima volta, l’incontro – il decimo della serie – si è svolto fuori dalla Missione Catrimani, nella regione di Demini, quella di Davi Kopenawa».

La malaria a Catrimani

Suor Mary, per concludere, in foresta la malaria è ancora molto diffusa?

«Il problema è serio, anche se da tempo noi non contiamo morti. Alla missione siamo attrezzati con un microscopista. L’esame per scoprire la malaria è semplice: lo può fare anche un qualsiasi Yanomami che sappia leggere e scrivere. Questa circostanza ha aiutato molto a non avere eventi mortali. Il fatto che ci siano tanti casi, si pensa che dipenda dagli spostamenti dei garimpeiros e degli stessi indigeni».

Dunque, la malaria c’è, ma oggi è affrontabile. Perlomeno alla Missione Catrimani.

«Sì, perché la Missione Catrimani è un’oasi nella foresta. Un piccolo gioiello».

Paolo Moiola

Terminologia:

  • maloca – la casa comune degli indigeni;
  • sciamano / xapiri-xapuri – intermediario con il mondo degli spiriti;
  • yakoana – sostanza allucinogena utilizzata dagli sciamani (xapiri-xapuri);
  • infanticidio – l’uccisione volontaria del neonato;
  • endo-cannibalismo / antropofagia – forma di cannibalismo rivolta alle persone del proprio gruppo;
  • poligamia – matrimonio nel quale un uomo o una donna possono avere più consorti contemporaneamente;
  • ohi / naiki – fame generica e fame di carne nella lingua yanomae;
  • manioca – arbusto tropicale che fornisce tuberi radicali ricchi di amido;
  • garimpos / garimpeiros – miniere e minatori illegali;
  • mercurio – metallo pesante usato nella purificazione dell’oro e dell’argento;
  • Funai, Sesai – organizzazioni del governo brasiliano per i diritti indigeni (Funai) e per la salute indigena (Sesai);
  • Isa – Instituto Socioambiental, organizzazione civile brasiliana a difesa dei diritti socioambientali;
  • Hutukara – la più importante tra le associazioni degli Yanomami; è guidata da Davi Kopenawa.

(pa.mo.)

 




Filippine: La (sporca) guerra alla droga


Il presidente Rodrigo Duterte ha fatto della lotta alla droga la sua bandiera. I metodi che usa, tuttavia, non sono dei più legali. Spacciatori e consumatori possono essere freddati dalla polizia al minimo sospetto. Mentre le carceri del paese sono sovraffollate e i centri di riabilitazione (per tossicodipendenti) pure. Reportage (a caldo) dal paese delle settemila isole.

Testo e foto di Luca Salvatore Pistone

Canottiera bianca, pantaloni neri e mocassini marroni. Orly Fernandez veste sempre alla stessa maniera. Il viso, scarno, è incorniciato da capelli a caschetto neri corvino. Gli rimangono pochi denti, ma, tutto sommato, dimostra meno di sessant’anni, la sua età.

Esce dal suo laboratorio con un foglio tra le mani. «Glielo hanno appiccicato sul petto con del nastro adesivo. C’è scritto: “Sono uno schifoso tossico”. Gli hanno legato mani e polsi e gli hanno sparato alla tempia. Ha il cervello spappolato».

A Malabon, una città di quasi 400mila abitanti a pochi chilometri a Nord della capitale delle Filippine, Manila (nella Regione capitale nazionale), tutti conoscono Orly. Dal 2001 manda avanti la Eusebio Funeral Services, la più famosa agenzia di pompe funebri della zona.

Siede alla scrivania nello studiolo dove tiene la contabilità, accanto alla sala del commiato. Osserva per qualche secondo un cartello sopra la sua testa con la scritta «L’autopsia è gratis».

«I nostri prezzi sono competitivi. Per le persone uccise per fatti di droga – di solito le più povere – chiediamo 35mila pesos (quasi 600 euro). I nostri concorrenti arrivano a chiedere anche più del doppio».

Guerra alla droga

I governi che negli ultimi anni si sono succeduti nelle Filippine hanno dichiarato guerra allo shaboo, una metanfetamina molto potente. Il suo costo è accessibile: un grammo può valere tra gli 80 e i 100 euro, di solito è acquistato con una colletta. Le diffuse problematiche sociali hanno favorito l’ingresso e la diffusione dello shaboo nel paese. Ma è stato con l’arrivo del presidente Rodrigo Duterte, nel 2016, che si è registrato un netto aumento delle operazioni di polizia contro spacciatori e tossicodipendenti. Un personaggio, Duterte, che ha fatto della guerra alla droga la sua personalissima crociata. «Hitler ha massacrato tre milioni di ebrei (giusto puntualizzare che l’Olocausto fece sei milioni di vittime, nda) […] ci sono tre milioni di drogati. Sarei felice di macellarli. […] Se la Germania ha avuto Hitler, le Filippine avranno me». Queste le sue parole al momento dell’insediamento.

Sia in patria che all’estero Duterte è accusato di essere il mandante di esecuzioni extragiudiziali. Secondo diverse organizzazioni per i diritti umani, dall’inizio del suo mandato i morti ammazzati per questioni relative allo shaboo sono più di 20mila. Per la polizia questi sarebbero meno di un quarto – tutti passati a miglior vita perché avrebbero messo a rischio l’incolumità degli agenti -, mentre il numero degli arresti ammonterebbe a 100mila.

I fatti parlano chiaro: oggi nelle Filippine chi viene sorpreso a spacciare o a consumare shaboo muore. Chi ammazzato da sicari in motocicletta – qui meglio conosciuti come vigilantes -, che non si prendono nemmeno la briga di coprirsi il volto; chi in retate della polizia che viene sospettata di introdurre sulla scena del crimine armi posizionate ad hoc, per sostenere che l’agente di turno ha dovuto fare fuoco per legittima difesa; chi giustiziato con un colpo in testa e fatto ritrovare in una pozza di sangue su un marciapiede.

Così l’avvento di Duterte ha fatto la fortuna delle pompe funebri, tra cui la Eusebio. «Ho molti contatti con la polizia. Quando trovano un morto chiamano me. Anche cinque o sei cadaveri in una notte.

Ci tengo però a dire che non paghiamo nessuno per questi favori». Chi muore per fatti di droga non viene neanche più portato all’obitorio. La scientifica fa i suoi rilievi e il medico legale si limita a constatare il decesso. Lo spacciatore, o il tossicodipendente di turno, va liquidato subito, facendo spendere il meno possibile allo stato, così le forze dell’ordine si rivolgono direttamente alle pompe funebri.

«Nel caso in cui nessuno viene a reclamare il corpo – spiega Orly – lo avvolgiamo in un lenzuolo bianco e lo portiamo al cimitero. Lì viene seppellito insieme ad altri corpi non reclamati o identificati».

Pronto intervento

Sono quasi le undici di sera. Squilla il cellulare di Orly. «Ok», si limita a rispondere. Mette giù e corre ad avvisare i suoi due «giovani»: è così che chiama i suoi assistenti, coetanei Carlos e Joseph. «Andiamo, hanno trovato il corpo di un ragazzo non molto lontano da qui».

A quest’ora non c’è traffico e in pochi minuti raggiungiamo il luogo del misfatto: un vicolo cieco poco illuminato nel baranggay (quartiere) Baritan. La pioggia battente non fa desistere i più curiosi intorno al perimetro delimitato dalla scientifica.

Una signora anziana si dispera. Ha continui mancamenti. È la madre della vittima e Orly si catapulta su di lei mettendole in mano il suo biglietto da visita. Le sussurra qualcosa all’orecchio e sale sul furgoncino.

Herman, questo il nome del ragazzo ammazzato. Ventotto anni. Era uno del baranggay. È stato freddato con un colpo di pistola in un occhio mentre rincasava. Ha il volto e il busto interamente coperti dal sangue. La scientifica non si degna neanche di coprirlo.

«Fumava shaboo tutto il giorno. Sapeva quali rischi correva», dice a bassa voce una sua giovane vicina di casa. «Mi hanno detto che aveva cominciato a spacciare», le fa eco un signore di mezza età.

I poliziotti finiscono i rilievi e fanno cenno ai «giovani» di Orly di prendersi il loro morto. Lo spettacolo è finito e la folla si disperde.

Il «metodo» Duterte

Punta di diamante della crociata di Duterte è la strategia tokhang (dalla contrazione delle parole toktok «bussare» e hangyo «richiesta»), già ampiamente rodata ai tempi in cui era sindaco a Davao. I poliziotti, grazie a una rete di informatori, sono dotati di elenchi dettagliati di utilizzatori e venditori di shaboo. Sulla base di questi invitano gli spacciatori a consegnarsi alle autorità e ad avere in tal modo salva la vita. Un solo avvertimento: chi sgarra ha le ore contate. Il tokhang sembra avere dato i suoi frutti. Secondo gli archivi della polizia nazionale, in poco più di due anni di governo Duterte sarebbero state più di un milione e mezzo le autodenunce che hanno comportato un impressionante sovraffollamento delle carceri e dei centri di riabilitazione.

«La polizia ha almeno una spia in ogni baranggay. Quando questa viene a sapere di un tossico o di uno spacciatore in zona, spiffera tutto ai poliziotti che fanno fare il lavoro sporco ai vigilantes».

Fe Siega Peregrino ha 54 anni, è vedova e vive insieme ai quattro figli nell’umilissimo Distretto 2 a Quezon City, una città di oltre due milioni di abitanti confinante con la capitale Manila, sempre nella Regione capitale nazionale.

Da un anno a questa parte alla famiglia Peregrino si è aggiunta Lady Love, 12 anni, figlia di un cugino di Fe Siega. «I suoi genitori sono stati uccisi davanti ai suoi occhi. Adrian e Vivian sono stati giustiziati con una pistola da uomini mascherati. Non è importato loro di farlo davanti alla bambina. È stata Lady Love a raccontarcelo. La polizia non ha mai aperto un’indagine».

Con una scopa Fe Siega caccia un ratto che si è intrufolato in casa. «Mio cugino Adrian tirava un risciò, un lavoro molto faticoso. Non guadagnava abbastanza per mantenere moglie e figlia. Vivian faceva l’estetista a domicilio e anche i suoi guadagni erano scarsi. Poi, un giorno, hanno provato lo shaboo. Annullava la stanchezza, così potevano lavorare più ore al giorno. Hanno cominciato a spacciarla entrambi per fare più soldi. Le spie sono venute a saperlo e li hanno uccisi. Non so se avessero avuto qualche avvertimento».

In un recente dossier di Amnesty International dal titolo Se sei povero, vieni ucciso1, supportato da inchieste, reportage e testimonianze, viene spiegato come nelle Filippine nascono le liste stilate dagli informatori della polizia. Viene dato risalto a dicerie, rivalità, trascorsi reali o completamente inventati. Un agente riceve delle mazzette per delle esecuzioni: tra i 155 e i 285 euro, talvolta con un’aggiunta da parte delle autorità locali. Succede anche che un ufficiale retribuisca i vigilantes per ammazzare al posto suo.

La via della riabilitazione

Per gli spacciatori grandi, medi e piccoli delle Filippine dell’era Duterte, è possibile scegliere tra morte violenta e carcere: sono le uniche due alternative. Per i tossicodipendenti si aggiunge una terza scelta: la riabilitazione. Essere accettati in un centro di riabilitazione è una vera e propria benedizione: non c’è il rischio di essere ammazzati e dopo un periodo, relativamente breve, di trattamento, si può ricominciare una nuova vita.

Il Centro di riabilitazione per tossicodipendenti Bitucan si trova a Taguig City, altra città alle porte di Manila. Ubicato all’interno di un compound della polizia, è uno dei più grandi del paese e rientra nelle quaranta strutture di recupero riconosciute dal governo.

Il dottor Bien Leabres è il direttore sanitario della struttura: «Nell’agosto del 2016 abbiamo toccato un picco di 1.500 persone. Da allora la media mensile è di mille pazienti, anche se il nostro centro non potrebbe ospitarne più di 500 tra uomini e donne».

Tutti s’inchinano al suo passaggio. «Good morning Sir!», sono le uniche parole proferite dalle bocche dei pazienti. Ovunque regnano il silenzio più assoluto e la disciplina. Indipendentemente da età e sesso, sembrano tutti automi svuotati di ogni volontà.

«Nel 90 per cento dei casi, i nostri pazienti fanno uso di shaboo. Il restante 10 per cento si divide tra marijuana, ecstasy e cocaina». Il dottor Leabres viene interrotto in continuazione da infermieri che gli portano incartamenti da firmare. «L’intero ciclo di riabilitazione può andare dai sei mesi a un anno. Successivamente i nostri pazienti devono tornare qui con una certa regolarità, di solito una volta a settimana, per seguire un altro programma sanitario. Pagano solo una parte della quota mensile, 3mila pesos (circa 50 euro), mentre alla parte restante, 12mila pesos (circa 200 euro), ci pensa lo stato. Ma se il paziente è povero è lo stato a sobbarcarsi l’intera retta. Quasi il 70 per cento dei nostri pazienti è qui a titolo gratuito». Nella clinica, che dipende dal ministero della Sanità, ci sono scuole, atelier, mense, dormitori e un campo da pallacanestro, lo sport nazionale. I pazienti indossano dei pantaloncini e una t-shirt il cui colore varia a seconda dello stadio di guarigione. Chi è all’inizio del percorso porta il verde, chi è alla fine il bianco.

Sveglia alle cinque di mattino. Poi attività fisica e pulizie degli spazi comuni. Corsi di teatro, pittura e falegnameria. Il pasto, a pranzo e a cena, è sempre lo stesso: riso, pollo, verdure e un frutto. Nel tardo pomeriggio ogni paziente deve scrivere su un diario personale come ha trascorso la giornata, che sarà letto dalla squadra di psicologi. Alle nove in punto si spengono le luci.

«Tutte le rehab (i centri per la riabilitazione) – dice il direttore – sono sovraffollate. È per questo motivo che in parlamento si è votato lo stanziamento di fondi per la creazione di un nuovo centro di riabilitazione per tossicodipendenti a Manila che potrà arrivare a ospitare fino a 5mila persone».

Nelle carceri di Mindanao

Le rehab hanno molto in comune con le carceri. Il sovraffollamento prima di tutto. L’intero sistema penitenziario filippino sembra dovere implodere da un momento all’altro. Le prigioni, sia maschili che femminili, ospitano da due a quattro volte il numero di persone per cui sono state pensate. Costruzioni che, già sul nascere, non rispettano neanche lontanamente gli standard dettati dalle Nazioni Unite.

Dall’isola di Luzon, dove si trova la Regione capitale nazionale, andiamo in aereo a Davao, una delle città più grandi del paese, sull’isola di Mindanao. Davao è la roccaforte della famiglia Duterte, e oggi è governata dalla figlia di Rodrigo, Sara. Qui tutto inneggia ai meriti del presidente per aver ripulito le strade dell’arcipelago da tossici e spacciatori. La prigione e fattoria penale di Davao si perde a vista d’occhio. Un’area di 30mila ettari, 8mila dei quali destinati a due carceri, una maschile e una femminile. Un’immagine che più di tutte descrive le condizioni in cui versa la struttura e, più in generale, l’universo delle prigioni filippine ai tempi di Duterte è la seguente: letti a castello fino a quattro piani, due persone per materasso e amache – per chi se le può permettere – montate all’interno degli stessi letti a castello.

Nella sezione maschile, che potrebbe ospitare massimo 3mila detenuti, ce ne sono 5.400. I dormitori sono un’accozzaglia di spranghe di ferro – i letti – malamente saldate una all’altra. I prigionieri più anziani si trovano in una camerata dove i letti a castello non superano i due piani. C’è anche una camerata riservata agli stranieri, in buona parte occidentali.

Il carcere maschile di Davao è diviso in tre sezioni separate una dall’altra da una rete di ferro ricoperta di filo spinato. Nella prima, chiamata Inmate Minimum, i detenuti indossano una maglietta marrone e scontano pene sotto i dodici anni; nella seconda, Inmate Medium, magliette blu e pene dai dodici ai ventidue anni; nella terza, Inmate Maximum, indumenti colore arancione e pene dai ventidue anni all’ergastolo. In quest’ultima sono rinchiusi quasi esclusivamente tossicodipendenti e spacciatori.

Le giornate sono scandite da un programma denso. Sveglia alle 4:30; ginnastica con tracce pop e dance, doccia, colazione a base di riso e uova, lavanderia, attività facoltative come artigianato e corsi di teologia. I detenuti con la maglietta marrone possono andare a lavorare, retribuiti, nella fattoria penale. Poi pranzo, pomeriggio libero durante il quale è possibile continuare con le proprie attività, i corsi letterari, guardare la Tv o giocare a biliardo e a pallacanestro, andare a messa in chiese improvvisate o a pregare alla moschea e infine la cena. Le luci si spengono alle 21:30 in punto.

La voce dei reclusi

Incontriamo alcuni detenuti: «Il mio vicino di casa aveva allestito nel suo appartamento un piccolo laboratorio per la produzione di shaboo. Una sera, durante una retata, mi trovavo sul pianerottolo. Gli agenti arrestarono anche me credendomi un suo collaboratore». Quando accadde il fattaccio, Brian aveva 23 anni. Oggi ne ha 38. Il giudice lo ha condannato all’ergastolo.

Persone nel posto sbagliato al momento sbagliato, scambi di persona, errori giudiziari nella classificazione delle prove. Già da prima dell’arrivo di Duterte, la politica della «tolleranza zero» nei confronti delle droghe era in voga. Ufficialmente il suo governo non ha fatto altro che inasprire le leggi e mostrare i muscoli attraverso le retate della polizia.

«Vi rendete conto che sono qui per due maledettissimi grammi di shaboo? Forse ci dovrò passare tutta la vita. Non sono un drogato, volevo solo provare una cosa nuova». Ronald ha appena 22 anni.

Virgilio, 56 anni, dovrà invece scontare una condanna di vent’anni per tentato omicidio. «Un anno fa ho provato ad ammazzare mio nipote perché era diventato il disonore della famiglia. Si drogava e vendeva shaboo». Eric, 47 anni, ha stuprato una minorenne. È accaduto quasi due anni fa. «Sono pentito», è l’unica frase che si sente di dire. Dovrà rimanere dietro le sbarre sedici anni.

Le sentenze per il tentato omicidio e lo stupro sono molto meno severe di quelle per la tossicodipendenza e lo spaccio di sostanze stupefacenti. Poco importa se i quantitativi di droga siano bassissimi. Tocchi lo shaboo e, se non vieni giustiziato, finisci al fresco per oltre vent’anni o fino all’ultimo dei tuoi giorni, a discrezione del giudice.

Ciò che più sorprende, parlando con i detenuti, è che quasi nessuno si lamenta del sovraffollamento del carcere. In molti lamentano l’ingiustizia per la condanna ricevuta – quasi il 70 per cento dei prigionieri si trova qui per reati connessi alla droga – ma tutti sembrano sopportare senza eccessive rimostranze una vita tanto congestionata.

«Certo – spiega Arthuro, 61 anni, un ex professore di liceo, mentre gioca con un cucciolo di cane divenuto la mascotte del suo dormitorio – non è piacevole vivere così. Alla radio ho sentito che il congresso sta votando un disegno di legge per stanziare 3 miliardi di pesos l’anno (quasi 50 milioni di euro), per cinque anni, affinché vengano migliorati e ampliati gli istituti penitenziari esistenti. Ma io penso che siano altri i problemi. Ad esempio le visite. Sono permesse tutti i giorni, ma molti di noi provengono da altre località, da altre isole e i nostri parenti e amici devono sopportare alti costi per raggiungerci. Io vengo da lontano, sono qui da cinque anni e in tutto questo tempo ho ricevuto solo tre visite».

Chi è sposato e possiede un documento che lo certifichi, ha diritto ad accedere alla room for conjugal visit use, una stanzetta dove è possibile avere rapporti sessuali con la propria coniuge. L’ambiente consiste in quattro pareti di legno senza tetto all’interno delle camerate. Ogni camerata ha almeno quattro di queste stanze per le visite coniugali, ognuna delle quali contrassegnata da un carattere # seguito da un numero. Pertanto la moglie, non solo deve attraversare ali del carcere colme di detenuti, ma deve anche consumare l’atto con il marito nella totale assenza di privacy. A completare la scena, immagini pornografiche che tappezzano le pareti della room e ciabatte messe a disposizione delle signore. Nelle carceri femminili, invece, le camere per le visite coniugali non sono previste perché a seguito del rapporto la reclusa potrebbe rimanere incinta.

Altro fatto impressionante è il numero delle guardie. La buona condotta dei galeotti influenza il numero dei secondini preposti alla loro sorveglianza. Nella sezione Maximum, che ospita circa 1.500 persone, ci sono appena tre agenti. Una guardia per 500 persone. «Ad aiutarci – confida un secondino che chiede di rimanere anonimo – ci sono alcuni detenuti modello, come i capi dormitorio. Hanno il compito di far rispettare le regole e raccogliere eventuali lamentele. Vanno in giro con i nostri stessi manganelli, ma è raro che se ne servano. Lavoro qui da diversi anni e non abbiamo mai registrato disordini».

Luca Salvatore Pistone

 

(1) Il rapporto di Amnesty International citato è reperibile sul web: www.amnesty.it/filippine-la-guerra-della-polizia-ai-poveri.




Burkina Faso:

La faticosa via del cambiamento

In Burkina Faso si moltiplicano gli attacchi terroristici agli obiettivi
più diversi. L’opposizione politica accusa il governo d’inefficienza sul fronte
della sicurezza nazionale. Intanto l’attuale esecutivo ha messo in pista
diverse riforme in settori importanti della società burkinabè, e ha fatto anche
qualche passo per migliorare sanità ed educazione. Ne abbiamo parlato con un
personaggio di peso nella storia di questo paese, Antornine Raogo Sawadogo.

(ISSOUF SANOGO / AFP)

La società civile burkinabè, nelle sue varie sfaccettature,
ha giocato un ruolo determinante nell’insurrezione popolare dell’ottobre 2014
che ha rovesciato il presidente Blaise Compaoré. Questi era al potere da 27
anni, a seguito del colpo di stato e  con
l’uccisione del presidente Thomas Sankara, e di quattro elezioni dubbie.

Lo
stesso popolo burkinabè si è, poi, mobilitato per sventare un tentativo di
golpe dei fedelissimi di Compaoré un anno più tardi, il 16 settembre 2015.

Dal
gennaio del 2016 il Burkina Faso ha un nuovo presidente, Roch Marc Christian Kaboré
e relativo governo. Un nuovo regime, anche se molti personaggi politici – tra
cui lo stesso presidente – facevano già parte di quello precedente.

A
tre anni di distanza, ci domandiamo che ne è di quella società civile che è
stata così importante per la svolta e che aveva giurato che in Burkina Faso
«Niente sarà più come prima».

Ne
abbiamo parlato con uno che di queste cose se ne intende: Antornine Raogo
Sawadogo.

Sawadogo
è sociologo ed esperto di società civile, ed è stato anche uomo politico. È
stato ministro dell’Amministrazione territoriale e Sicurezza (equivalente al
ministero dell’Interno) e, come tale, padre della legge sul decentramento
amministrativo in Burkina Faso. È stato il primo presidente della Commissione
per il decentramento amministrativo. Ha poi fondato il Laboratornire Citoyenneté,
un centro studi sulla cittadinanza attiva, molto rinomato e attendibile.

Lo
incontriamo una sera a Ouagadougou, di ritorno da un viaggio nel vicino Niger.

Dottor Sawadogo, secondo lei, le organizzazioni della società civile stanno
giocando il ruolo di controllori democratici del potere?

«Rispetto al 2014-15 abbiamo oggi una
società civile più divisa sull’oggetto della lotta. Non è più consensuale,
avanguardista. Non può più monitorare il potere politico per dire se non lavora
secondo la buona governance. Si diceva dopo l’insurrezione e il fallito colpo
di stato: “Tutti ci alziamo come un solo uomo e rimettiamo al loro posto i
nostri dirigenti”. Non è più così.

La società civile burkinabè si è divisa in
diverse sensibilità (o categorie), che io classifico in almeno tre gruppi.

Il primo è di quelli che chiamiamo “i
rassegnati”: essi dicono che dopo aver cacciato Blaise Compaoré, dopo aver
respinto i golpisti, due, tre anni dopo, non ci sono cambiamenti, “troviamo le
stesse persone al potere”, ovvero, “ci siamo stancati per nulla”. Si siedono e
guardano. Non sentiamo più parlare di loro. Appare qualche articolo per dire:
“la nostra lotta è fallita, la nostra dinamica di cambiamento è stata
recuperata e ricondotta alle dinamiche precedenti”.

Io penso che si tratti di un gruppo composto
dalla gente più a sinistra, che sperava che fosse arrivata l’ora per il
cambiamento. I delusi del sistema, ovvero la punta della lotta sankarista,
quelli che erano stati bastonati dall’apparato di Blaise Compaoré. Avevano
fatto un cammino sviluppando una militanza clandestina e, quando gli
avvenimenti dell’insurrezione sono arrivati, il loro impegno si è amplificato.
Come ad esempio il Partito comunista rivoluzionario voltaico (Pcrv)1. Vedo i leader di
questi movimenti rassegnati e rientrati nella loro clandestinità.

La seconda sensibilità è quella che chiamo
“di rigetto”. Appartiene a quelle organizzazioni che sono arrivate a
un’attitudine di rifiuto sistematico della dinamica attuale dopo le elezioni
(del novembre 2015 che hanno portato all’insediamento, nel gennaio 2016, del
governo attuale, ndr). Queste si dicono: “Abbiamo sviluppato una società civile
d’interpellanza2, che aveva
un discorso, ma alla fine non abbiamo visto cambiamenti, dunque rigettiamo
questo sistema di potere”. Aspettano che si lavori sull’impunità, che si
risolvano i conti sospesi del paese: si trovino i colpevoli dei crimini
economici e dei crimini di sangue. Tra queste ci sono ad esempio le Balai
Citoyen. Sono in una dinamica di rigetto dell’ordine ristabilito, non hanno
ottenuto quello che volevano.

Poi c’è la società civile politicizzata, opportunista. È composta
da organizzazioni e associazioni legate ai partiti politici, o fondate da
uomini politici stessi. Si divide in due categorie: quelle che sono per i
partiti di opposizione, Cfop3, e
quelle per i partiti della maggioranza. Rappresentano le voci dei loro capi di
partito».

(ISSOUF SANOGO / AFP)
Chi avrebbe dovuto esercitare un controllo sul nuovo regime, dando
concretezza allo slogan «Niente sarà più come prima»?

«I
rassegnati preferiscono non parlare. Coloro che rigettano invece parlano, ma
senza avere i mezzi per attuare un contropotere, come invece avrebbero voluto.
La verità è che chi ha vinto le elezioni e ha preso il potere, ha nominato
alcuni leader di queste associazioni a posti elevati e rappresentativi. Diversi
di loro sono stati nominati ministri, altri hanno avuto un posto nell’alta
gerarchia della presidenza della Repubblica. Li hanno fatti entrare nel potere
per zittirli.

Quelli
del terzo gruppo, gli opportunisti dei partiti politici, danno voce alle
rivendicazioni dei loro partiti, senza esercitare un vero controllo».

Non c’era solo la società civile organizzata all’origine dell’insurrezione
del 30 ottobre 2014. C’era il popolo stesso che portava avanti una serie di
rivendicazioni. Senza un movimento massiccio di popolazione, l’insurrezione non
si sarebbe fatta o comunque non avrebbe avuto successo.
La popolazione, tra le altre richieste, aveva una forte domanda di stato di
diritto, di democrazia e di ridistribuzione di ricchezza. Quali di queste
attese sono state soddisfatte?

«Lo stato di diritto
è una richiesta permanente. Di tutte le sensibilità della società civile e
della politica, nessuna rigetta lo stato di diritto. È una rivendicazione
massiccia e permanente. È piuttosto il modo di gestire e di governare che pone
problema agli uni oppure agli altri.

Al tempo di Blaise
Compaoré lo stato di diritto non era garantito. S’imbrogliava durante le
elezioni, usando gli artifici formali della democrazia, per poter dire “abbiamo
vinto le elezioni”. Compaoré non si faceca scrupoli, era il suo sistema. Con la
sua guardia pretoriana (il Reggimento di sicurezza presidenziale, Rsp), il suo
gruppo di operatori economici, il suo partito politico, non si poneva problemi.
Gli bastava far credere all’esterno di aver rispettato le regole».

E cosa fa il governo attuale?

«Quelli
che sono al potere oggi sono coscienti che devono funzionare con un minimo di
regole in materia di stato di diritto. Sia formalmente, sia nella realtà. È per
questo che negli ultimi tre anni non ci sono più state persone liquidate,
assassini politici, e ci sono molti dossier che stanno procedendo (seppur
lentamente, ndr) in giustizia. Si è cercato di giudicare il passato regime, ed
è in corso un processo anche sul colpo di stato (del 15 settembre 2015, ndr).
Quando vogliono arrestare qualcuno lo fanno. C’è uno sforzo di fare le cose
nelle norme. Questo è qualcosa che è cambiato.

Per
contro osserviamo ancora velleità di imporsi, di prendere (da parte
dell’opposizione) e tenere il potere».

E quali sono, secondo lei, le altre novità del «nuovo corso»?

«È
stato messo in piedi un sistema di riforme politiche. Penso sia stato imposto
dai diversi scioperi. Sono infatti nati molti sindacati in questo periodo. Lo
stato sta cercando di andare più velocemente nelle riforme politiche in tutti i
settori. Ci sono molte riforme pronte: dell’esercito, della funzione pubblica,
per esempio si vuole rivedere lo statuto delle categorie di funzionari, i
progetti e i programmi statali, si rimettono in causa i vantaggi dei funzionari
del ministero Economia e finanza. Un’altra riforma è nella Magistratura: non è
più il presidente della Repubblica che nomina gli alti magistrati, ma è la
Magistratura stessa.

Sono
riforme a 360 gradi, ma non c’è una visione, con un fil rouge da seguire. Forse
è una risposta alle diverse rivendicazioni delle corporazioni. Sapendo però che
il governo non ha abbastanza mezzi per queste riforme, e non ha la forza per
imporle, perché non ha maggioranza confortevole in parlamento, con 55 deputati
all’Assemblea Nazionale, ha dovuto fare alleanze».

E sul piano sociale, nell’ambito di lavoro, educazione, salute, il governo
è riuscito a migliorare la situazione?

«Il
governo ha reso gratuite le cure per i bambini sotto i cinque anni e per le
donne gravide tramite un decreto che è stato molto apprezzato dalla
popolazione. Ha fatto costruire centri di salute (dispensari, ndr) in tutti i
dipartimenti, anche se poi non ci sono i soldi per equipaggiarli con mezzi e
personale.

Anche
nel settore dell’educazione sono state fatte delle infrastrutture, sia per le
scuole primarie che secondarie: si normalizzano le scuole sotto i tetti di
paglia. Ma l’attrezzatura e il personale non seguono.

Hanno
anche assunto migliaia di funzionari, 1.500 insegnati per anno, tra due e
tremila poliziotti.

Tutto
questo si è realizzato grazie a finanziamenti diretti ai budget dei diversi
ministeri da parte di finanziatori internazionali».

Nord Burkina Faso, villaggio di You, provincia Loroum. © Marco Bello 2018
Un tema fondamentale all’ordine del giorno in Burkina Faso è quello
dell’insicurezza, a causa del moltiplicarsi degli attacchi di sedicenti jihadisti
o integralisti islamisti, a posizioni della polizia e altri obiettivi. I
partiti di opposizione accusano il governo di non fare abbastanza. Ma questa
critica fa parte anche del gioco politico. Secondo lei come si muove il governo
su questo fronte?

«Io
constato che questi attacchi sono cominciati al Nord, sono continuati all’Est,
vanno verso il Sud e arrivano verso l’Ovest. È un’insicurezza che ci sta
circondando, alla quale si sommano, ogni tanto, azioni di grande effetto al
centro, a Ouagadougou4. È un fenomeno che
prende ampiezza e non è neppure ciclico, ma lo stiamo vivendo quasi
quotidianamente.

Se
osserviamo i simboli attaccati, sono di diverse tipologie:

  • lo stato, ovvero le forze di sicurezza e di difesa, come strutture di polizia, gendarmeria, dogane, guardia forestale;
  • e scuole, gli insegnanti;
  • qualche simbolo religioso, alcuni imam sono stati sgozzati, catechisti, parroci, chiese devastate (es. chiesa di Dissin nel Sud Ovest);
  • simboli degli stranieri, come hotel e ristoranti frequentati da loro;
  • le miniere, l’industria, come interessi occidentali.

Se
normalmente, a seconda degli obiettivi attaccati, si può cercare di capire
quali interessi ci sono in gioco, nel nostro caso, vista la varietà di target,
diventa difficile. Voglio dire, è quasi impossibile sapere se siano solo
jihadisti che attuano una guerra di religione, o personaggi del vecchio regime
che vogliono destabilizzare lo stato, o ancora banditi comuni che cercano di
arricchirsi. Fino ad oggi nessuno può dire chi siano veramente.

La
verità è che gli obiettivi che vengono attaccati sono stati creati e gestiti
dalla gente del vecchio regime. Durante 27 anni di Compaoré sono stati nominati
i funzionari, il Burkina è stato trasformato in paese minerario, è stata messa
in piedi l’economia. Le persone di quel regime possono oggi essere contro a
questi interessi?».

Nord Burkina Faso, villaggio di You, provincia Loroum. © Marco Bello 2018
Forse allo scopo di destabilizzare il paese?

«Non
penso. La maggioranza degli ex del regime non è in esilio, sono qui con noi. È
contro il loro interesse distruggere il paese.

Non penso ci sia una
regia all’esterno o all’interno che dice: attacchiamo tutto questo allo stesso
tempo. È un fenomeno che non si può analizzare intra muros burkinabè. Lo stesso
sta succedendo in Mali, Niger, Camerun, Ciad, Nigeria. Bisogna cercare le
ragioni altrove perché i veri giochi sono esterni al Burkina. In passato il
nostro territorio è stato risparmiato perché non c’erano le condizioni per
entrare qui. Non penso che sia la partenza di Blaise Compaoré che ha portato
questa situazione. È un movimento, una dinamica che è cominciata altrove, fa il
suo percorso e coincide con la partenza di Compaoré, che forse è stata il
detonatore, ma non la ragione principale.

Per
fare un esempio, quando ero ministro dell’Interno, all’inizio degli anni ’90,
ricevevo già delle informazioni dai servizi che menzionavano di velleità [di
potenze straniere] di cambiare i confini del nostro paese».

Ma il governo di Roch Marc Christian Kaboré come gestisce la sicurezza del
paese, secondo lei?

«Non lo so. Non ho abbastanza elementi per dirlo. Noi non
siamo più forti dei maliani e dei nigerini. Loro si sono abituati agli
attacchi, mentre noi non lo siamo ancora, ma a poco a poco stiamo imparando a
gestire questa situazione.

Non sono convinto che lo stato burkinabè avrebbe i mezzi per
reagire meglio. In Nigeria, nonostante i mezzi di quel grande stato, i
terroristi arrivano a destabilizzare intere aree del paese. Il piccolo Burkina
come potrebbe fare meglio? Lo stesso vale per il Ciad che ha il migliore
esercito della regione. Anche se Blaise Compaoré fosse stato ancora presidente
io non sono convinto che avrebbe potuto fare meglio dell’attuale governo. Sono
stato recentemente in Niger: a 70 km da Niamey, la capitale, hanno rapito un
missionario italiano5. Non si sa dove siano fuggiti: in Niger, in Mali, in
Burkina verso Sud?

Qui da noi hanno rapito anni fa il dottor Helliot e un
lavoratore rumeno alla miniera di Tambao, e sono ancora prigionieri. Poi hanno
rapito catechisti, consiglieri municipali, funzionari, che in seguito sono
stati liberati. Hanno attaccato addirittura l’ambasciata di Francia, come è
possibile che la Francia non lo abbia previsto? Per questo dico che non posso
affermare se gestiscono bene o male la questione sicurezza».

Marco Bello
(seconda puntata – fine)

Cronologia essenziale

Il Burkina sotto attacco

  • 1960, 5 AGOSTO – L’Alto Volta diventa indipendente, Maurice Yameogoè il primo presidente.
  • 1983, 4 AGOSTO – Inizia la rivoluzione burkinabè, guidata da Thomas Sankara e altri quattro compagni, tra i quali Blaise Compaoré. Un anno dopo l’Alto Volta diventa Burkina Faso, il paese degli uomini integri.
  • 1987, 15 OTTOBRE – Thomas Sankara e i 12 collaboratori più stretti vengono ammazzati. Blaise Compaoré diventa capo di stato.
  • 1998, 13 DICEMBRE – Assassinio del noto giornalista investigativo Norbert Zongo. I sospetti portano al fratello di Blaise, François Compaoré, ma l’inchiesta è bloccata.
  • 2011 – Diverse rivolte di piazza scuotono il potere di Compaoré: studenti, parte dell’esercito, magistrati, commercianti. A giugno repressione della rivolta dell’esercito a Bobo-Dioulasso.
  • 2013, MAGGIO – Legge per l’istituzione del Senato, per modificare la Costituzione affinché Compaoré si possa candidare nel 2015.
  • 2014, DA GENNAIO – Diverse manifestazioni pacifiche contro la modifica costituzionale raccolgono milioni di persone in piazza.
  • 2014, 30 OTTOBRE – Insurrezione popolare contro il voto per modificare la Costituzione. Il 31 ottobre Compaoré fugge in Costa d’Avorio. Messi in piedi organi di transizione (presidente, governo, consiglio nazionale) per una durata di 12 mesi. Le vittime degli scontri sono 24 e i feriti oltre 600.
  • 2015, 16 SETTEMBRE – Il generale Gilbert Diéndéré utilizza la guardia presidenziale per tentare un colpo di stato e bloccare la transizione. La popolazione reagisce, i sindacati dichiarano lo sciopero generale, l’esercito repubblicano si schiera contro il putsch.
  • 2015, 30 SETTEMBRE – La transizione è ripristinata, i golpisti arrestati. I morti sono almeno 17 e i feriti 108.
  • 2015, 29 NOVEMBRE – Elezioni presidenziali e legislative. Roch Marc Christian Kaboré è il nuovo presidente. Da sempre pezzo grosso del regime Compaoré, aveva rotto nel gennaio 2014. Il suo governo si insedia il 12 gennaio 2016.
  • 2016, 15 GENNAIO – Attentato jihadista nel cuore della capitale Ouagadougou. Colpiti gli hotel Splendid e Ybi e il ristorante Cappuccino. Le vittime sono 30 di 18 nazionalità.
  • 2016, 16 DICEMBRE – In un attacco nella regione Sahel (Nord) periscono 12 militari. La rivendicazione sancisce la nascita del primo gruppo jihadista burkinabè, Ansarul Islam, a base etnica Peulh. Diventano frequenti gli attacchi a positazioni militari e di polizia, oltre che a scuole e dispensari nel Nord del paese.
  • 2017, 13 AGOSTO – Attacco jihadista al ristorante Aziz Istambul, in centro a Ouagadougou, 19 morti.
  • 2018, 2 MARZO – Doppio attacco quasi contemporaneo: all’ambasciata di Francia e allo stato maggiore dell’esercito burkinabè, in centro a Ouagadougou. Almeno 8 le vittime.
  • 2018, AGOSTO – Inizia una serie di attacchi a posizioni militari e di polizia nell’Est del paese. Oltre al Nord, dove continuano, l’Est diventa la seconda zona interessata.
  • 2018, 17 SETTEMBRE – In Niger, al confine con il Burkina Faso, viene rapito padre Pierluigi Maccalli, missionario Sma (Società missioni africane), da un gruppo proveniente dal Burkina.

Ma.Bel.




Corno d’Africa:

Cosa cambia sotto il sole eritreo

Con la firma del 16 settembre a Gedda, l’Eritrea sembra aver perso il suo
maggior nemico: l’Etiopia. Sono passati due anni di guerra e 18 di guerra
fredda. Il piccolo paese che si affaccia sul Mar Rosso si è sigillato nei suoi
confini diventando la peggiore dittatura d’Africa. Cosa cambierà per i suoi
abitanti? Ci saranno aperture? Intanto sembra si sia innescato un effetto
domino che potrebbe portare a un cammino verso la pace in tutta l’area.

«Se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna
che tutto cambi». Sostituite il principe Tancredi a Isaias Afewerki, Salina ad
Asmara e il gioco è fatto. Nulla meglio del celebre romanzo «Il gattopardo» di
Giuseppe Tomasi di Lampedusa riesce a spiegare l’attuale situazione
dell’Eritrea. La pace con l’Etiopia sembra aver portato un grande cambiamento
nel piccolo paese affacciato sul Mar Rosso ma, al momento, poco è davvero
mutato rispetto al passato. Il regime è ancora lì, intatto. La sua presa sulla
politica e sulla società è ancora fortissima. La Costituzione non è stata
emanata. Non esiste un sistema giudiziario indipendente. I più elementari
diritti umani e civili non sono tutelati. Le forze armate non sono state
smobilitate. Pochi detenuti politici sono stati liberati. Certo, l’intesa con
Addis Abeba ha portato a un miglioramento delle condizioni di vita, perché nel
paese sono arrivate più merci.

Robertharding / Michael Runkel

Economia in ripresa

La proposta
di pace avanzata il 6 giugno dal premier etiope Abiy Ahmed al presidente
eritreo Isaias Afewerki ha spiazzato l’Eritrea. Negli ultimi vent’anni lo stato
di non belligeranza con Addis Abeba, seguito al conflitto del 1998-2000 tra i
due Paesi, era servito al regime di Asmara per giustificare il suo potere.
Invocando la «minaccia etiope», Afewerki ha imposto un regime di rigida
autarchia economica accompagnata da una forte stretta politica.

Con la pace
firmata il 9 luglio e poi ratificata il 16 settembre a Gedda (Arabia Saudita),
l’Eritrea ha perso il suo principale nemico e, con esso, ogni pretesto per non
introdurre garanzie democratiche. In realtà, nel paese poco è cambiato. Le
piccole trasformazioni sono avvenute soprattutto in campo economico. «Con
l’apertura delle frontiere con l’Etiopia, prevista dagli accordi di pace –
osserva Erminia Dell’Oro, scrittrice italo-eritrea -, i prezzi dei generi
alimentari e di prima necessità sono fortemente calati. Il teff, cereale base
della cucina eritrea ed etiope, fino a pochi mesi fa costava moltissimo e la
gente soffriva la fame, perché doveva pagare cifre elevate. Oggi il costo è
calato, nei mercati ce n’è maggiore disponibilità grazie alle importazioni
dall’Etiopia. Da anni, la mia famiglia voleva rifare la facciata della casa, ma
aveva soprasseduto perché il cemento e gli intonaci costavano troppo. Adesso i
prezzi sono calati e stiamo progettando di mettere in campo i lavori».

La povertà
però è diffusa. «Servirebbero politiche che favoriscano la
reindustrializzazione del paese – spiega una giovane asmarina che vuole
mantenere l’anonimato -. Il paese deve recuperare la sua vocazione commerciale.
Pensiamo solo all’importanza dei nostri porti, in particolare Massaua e Assab.
Se ben sfruttati possono diventare lo sbocco al mare per tutto il Corno
d’Africa. L’Eritrea deve però investire per ricostruire quel tessuto
industriale e artigianale un tempo così fiorente (cotonifici, birrifici,
aziende artigiane, ecc.). Solo questo ci può garantire un flusso costante di
entrate e maggiore occupazione».

Attualmente
in Eritrea non c’è lavoro. La povertà è palpabile. «Girando per le strade si
vedono mendicanti che chiedono l’elemosina – continua la scrittrice -. Un
tempo, una cosa simile era impensabile. Molti giovani sono fuggiti e le
famiglie sono composte dai nonni che, tra mille difficoltà, crescono i nipoti».

La povertà
è evidente, anche se si guardano i palazzi e le strade di Asmara. «La nostra
capitale – conclude la ragazza asmarina – è come una donna che da giovane era
bellissima ma è invecchiata male e oggi è piena di rughe. Le strade sono
dissestate e piene di buche. Gli edifici, un tempo splendidi, frutto dei
progetti dei migliori architetti italiani, dimostrano i segni degli anni.
Vent’anni di stato di guerra hanno lasciato segni profondi. Ma sono convinta
che, appena ci saranno le condizioni, Asmara tornerà al suo antico splendore».

John Thys / AFP

Stallo politico

La politica
però rimane un tabù. Nelle strade, nei luoghi pubblici, nelle scuole non si
parla del presidente, del governo, del partito di maggioranza. C’è paura.
L’apparato repressivo, che fa leva su una capillare rete di informatori, non è
stato smantellato. «Nel paese non c’è dibattito – continua Erminia -. Tra la
gente comune c’è una grande ammirazione per il premier etiope Abiy Ahmed. Un
primo ministro giovane, dinamico, che ha saputo superare una crisi politica
lunga vent’anni. Di Isaias Afewerki si parla poco o nulla. C’è la speranza che
sappia guidare una trasformazione del paese. Anche se molti ne dubitano».

I problemi
degli ultimi vent’anni sono ancora tutti sul tavolo. La Costituzione
democratica, redatta alla fine degli anni Novanta, non è mai entrata in vigore.
Quindi non c’è una Carta che garantisca i più elementari diritti civili. Nel
paese non si tengono regolari elezioni, non c’è un parlamento e sistema
giudiziario indipendente. Alcuni oppositori sono stati rilasciati, ma la
maggior parte sono ancora in una delle 350 prigioni del paese. «Quello di
Asmara – sottolinea Mussie Zerai, sacerdote dell’eparchia di Asmara – è uno dei
regimi politici più duri del mondo, una dittatura che ha soppresso ogni forma
di libertà, annullato la Costituzione del 1997, soppresso di fatto la
magistratura, militarizzato l’intera popolazione per quasi tutta la vita. Una
dittatura che ha creato uno stato prigione. Anche di recente sono stati
arrestati oppositori, sono state chiuse scuole cattoliche e islamiche, sono
stati sbarrati otto centri medici e ospedali cattolici, mentre il patriarca
della chiesa ortodossa Abune Antonios, fermato nel 2004, si trova ancora agli
arresti dopo ben 14 anni».

Maheder HaileselassieTadese / AFP

Negli anni,
il regime ha arruolato migliaia di ragazzi e li ha schierati alla frontiera con
l’Etiopia. Questi militari di leva, per i quali non era e non è prevista una
data certa di congedo, non sono ancora stati smobilitati. «La pace – spiega un
altro religioso che vuole mantenere l’anonimato – non ha portato a uno
snellimento delle forze armate. Nonostante la minaccia etiope sia venuta meno,
i reparti sono ancora a pieno organico. Nessun giovane è tornato a casa. La
gente inizia a chiedersi perché. Che senso ha tenere una struttura così grande
e costosa?».

E le
persone continuano a fuggire. Se in passato si scappava di nascosto, attraversando
la frontiera di notte per non farsi bloccare dalle guardie di confine, oggi lo
si fa alla luce del sole. Grazie all’apertura della rotta aerea Asmara-Addis
Abeba, molti eritrei si recano in Etiopia e da lì verso altri paesi africani o
verso l’Europa. «L’Eritrea – ci dice Tekle Haile, eritreo, storico oppositore
del regime, da anni in esilio in Italia – ha siglato un trattato di pace di cui
non si conoscono i contenuti. L’opposizione, oggi frazionata, ma che nei
prossimi mesi darà vita a un unico soggetto, teme che il nostro paese sia stato
svenduto all’Etiopia. Che ne sarà dei nostri porti? Delle nostre strade? Dei
nostri ponti? Della nostra economia? Non vorremmo che, dopo trent’anni di
guerra di indipendenza, un altro conflitto durato tre anni seguito da vent’anni
di dura non belligeranza, ora l’Eritrea torni a essere una sorta di provincia
di Addis Abeba. Questa incertezza economica e questo regime così oppressivo
fanno paura e la gente continua a fuggire».

Enrico Casale

Eduardo Soteras / AFP

Chi è l’artefice del cammino di pace

Abiy Ahmed: come ti rivolto il Corno

La pace tra Eritrea ed Etiopia ha un
protagonista: è il premier etiope Abiy Ahmed. È stato lui l’artefice dell’apertura
nei confronti di Asmara. Ma questo è solo uno dei tasselli della politica di
riforma con la quale sta trasformando nel profondo il suo paese.

Multietnico

Abiy Ahmed, 42 anni, cristiano riformato, ma figlio di un papà
musulmano e una mamma cristiana ortodossa, è un oromo, appartiene cioè
all’etnia maggioritaria, sebbene sempre discriminata. Arrivato al potere,
nell’aprile 2018 ha avviato una serie di grandi cambiamenti. Oltre ad
annunciare, fin dal suo primo discorso tenuto il 2 aprile, la necessità di un
dialogo con l’Eritrea, ha promosso una riconciliazione nazionale, ordinando il
rilascio di migliaia di prigionieri politici e legalizzando i gruppi di
opposizione, a lungo definiti «organizzazioni terroristiche». In campo
economico ha promesso di rilanciare l’economia etiope (che viaggia già a
percentuali di crescita intorno all’8-9%) scommettendo sul sistema produttivo e
privatizzando alcune imprese statali. Anche la pace con l’Eritrea potrà avere
profondi risvolti in campo economico: l’Etiopia potrà infatti sfruttare i porti
di Massaua e di Assab, più vicini e meglio collegati di quelli di Gibuti e Port
Sudan.

Pace nel Corno d’Africa

Proprio la pace con l’Eritrea ha creato una sorta di effetto
domino che, dopo anni di forti tensioni, sta riportando stabilità in tutto il
Corno d’Africa. Dopo l’intesa fra Asmara e Addis Abeba, il premier Abiy Ahmed e
il presidente Isaias Afewerki hanno infatti aperto un tavolo di trattativa con
il presidente somalo Mohamed Abullahi Mohamed «Farmajo». Da questo tavolo, il 6
settembre è nato il Joint
high level committee
, una commissione
formata dai tre governi che mira al rafforzamento dei loro legami politici,
economici, sociali e culturali, oltre che garantire il perseguimento e il
mantenimento della pace e della sicurezza in tutta l’Africa orientale. Un passo
avanti importantissimo se si tiene conto che la Somalia è stata per anni un
teatro in cui Eritrea ed Etiopia si sono scontrati per interposta persona. Non è
un caso che, nel 2009, l’Onu ha imposto ad Asmara l’embargo sull’importazione
delle armi per il sospettato supporto eritreo ai militanti islamisti somali di
Al Shabaab (milizia da sempre feroce avversaria dell’Etiopia).

La creazione di questa commissione ha rappresentato la base per
porre un altro tassello della stabilità regionale: la pace tra Eritrea e
Gibuti. Le tensioni tra i due paesi risalgono al 1996, quando l’ex Somalia
francese ha accusato Asmara di un attacco presso il villaggio di Ras Doumeirah.
L’episodio non si è trasformato in guerra aperta, ma le tensioni si sono
trascinate fino al 2010 quando, grazie alla mediazione del Qatar, le due
nazioni sono arrivate a un accordo sulle dispute territoriali. Nel 2017 le
tensioni sono tornate ad accendersi quando Gibuti si è apertamente schierata a
favore della coalizione saudita contro il Qatar, mentre l’Eritrea ha continuato
a professarsi amica di Doha. Proprio grazie alla mediazione di Etiopia e
Somalia, la frattura è stata ricomposta e a metà settembre i presidenti eritreo
Isaias Afewerki e gibutino Ismail Omar Guelleh hanno siglato un’intesa di
collaborazione.

Diffidenze

È ormai chiaro che le aperture di Abiy Ahmed hanno dato il via a
un processo di distensione che va oltre la stessa Etiopia e investe l’intera
regione. Una regione, il Corno d’Africa, che negli ultimi 25 anni ha conosciuto
guerre civili lunghissime (Somalia) e tensioni tra stati (Gibuti, Eritrea ed
Etiopia) che hanno frenato la crescita economica e sociale.

Non tutti però apprezzano la politica di apertura del premier di Addis Abeba. La diffidenza arriva dall’etnia tigrina (che in Etiopia rappresenta solo il 7% della popolazione) che ha gestito il potere dall’inizio degli anni Novanta, ma anche dagli apparati di sicurezza e da alcune frange delle forze armate. Riuscirà Abiy Ahmed a superare queste resistenze? La popolazione è dalla sua parte. E anche la comunità internazionale, se è vero che il Wall Street Journal lo ha definito «la più grande speranza per il futuro democratico dell’Etiopia».

En.Cas.

Foto di Claudia Caramanti



La morte nel pancione: «Mi dispiace, non c’è battito»

Secondo i dati dell’Istat, in Italia, un bimbo concepito ogni quattro non sopravvive. La perdita di un figlio in gravidanza è un evento traumatico che va elaborato. Nel vissuto dei genitori, al lutto si aggiunge il dolore dell’incomprensione e della solitudine. Amici, famigliari e operatori sanitari faticano a superare il tabù che circonda la morte e la sofferenza. Alcune iniziative stanno tentando di porre il tema all’attenzione pubblica.

«Alla prima ecografia, questa è la prima cosa che ho visto di te: un puntino, il battito del tuo cuore», scrive Silvia in una lettera al suo bimbo, nato morto dieci giorni prima della data attesa del parto, «dopo aver saputo che eri un maschietto abbiamo deciso il tuo nome. Matteo: “Dono di Dio”».

Silvia e Nicola sono genitori speciali che non hanno potuto tenere in braccio il loro bimbo vivo, sentire il suo pianto o incrociare il suo sguardo. Un giorno, alla 38ª settimana, Silvia non ha più sentito i movimenti di Matteo, ed è corsa in pronto soccorso: «Trovo un’ostetrica. Mi scuso, ma a costo di sembrare paranoica ho deciso di fare un controllo. Prendono la sonda, l’appoggiano sulla pancia: silenzio. […] Mi spostano nella sala ecografia e chiamano il ginecologo. […] punta il cuore: silenzio. Tutti sono zitti. Allora parlo io: “Non c’è battito vero?”».

Silvia e Nicola raccontano così il loro passaggio dalla gioia dell’attesa al lutto. Un lutto incompreso perché personale sanitario, amici, famigliari sembrano non capire che quel bimbo nato senza vita era una persona ed era un figlio.

foto Ciao Lapo Onlus

Quattro ogni dieci

Quella di Matteo viene definita dalle organizzazioni internazionali «morte perinatale». Riguarda i bimbi tra la 28ª settimana di gravidanza e il 7° giorno dopo il parto. Per i bimbi sotto le 28 settimane si parla di «aborti spontanei» (miscarriage) che sono molto più frequenti e difficili da registrare.

Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità1, nel mondo si sono contati nel 2015 circa 2,6 milioni di bimbi nati morti (stillbirth): 18,4 ogni mille nati vivi. Di questi, 1,3 milioni sono deceduti durante il travaglio, prima della nascita e, per la gran parte, erano morti evitabili. Il 98% degli stillbirths avvengono nei paesi a basso e medio reddito dove l’assistenza sanitaria è carente o assente. Nello stesso periodo i bimbi morti entro i primi 7 giorni dalla nascita sono stati 2 milioni: 4,6 milioni di morti perinatali.

In Italia, la morte perinatale riguarda 4,1 bimbi ogni mille nati vivi. Nel 2016, quando le nascite sono state 468.345, le morti perinatali sono state 1.920: circa 700 nei primi sette giorni dalla nascita, gli altri in utero, dopo la 28a settimana. Nello stesso anno, secondo l’Istat2, nel nostro paese gli aborti spontanei sono stati 61.580. Di questi, l’89% (55mila) sono avvenuti entro le prime 12 settimane (46.500 entro le 10). Le interruzioni volontarie di gravidanza sono state 84.874.

In Italia, un bimbo concepito su quattro, il 23%, non sopravvive.

Uno studio della Johns Hopkins University3 stima che negli Usa finiscano in un aborto spontaneo il 30-40% dei concepimenti. Si parla di stima e non di dati registrati perché la maggior parte di essi avviene prima che la donna si sia accorta di essere incinta e non danno luogo, quindi, a un ricovero ospedaliero. Lo stesso studio, inoltre, afferma che il 50% delle perdite di gravidanza non hanno spiegazione.

foto Ciao Lapo Onlus

Un tabù che genera solitudine

L’arrivo di una gravidanza nella vita di una coppia è un evento spartiacque che richiede ai genitori una rivoluzione nel loro modo di affrontare la vita. La morte del bimbo atteso è un secondo spartiacque, un terremoto.

Anche per quelli che hanno già altri bambini, il lutto per il piccolo che si spegne nel grembo è grande. L’evento costringe la coppia a rinunciare al suo progetto genitoriale. Quella creatura già tanto amata viene a mancare.

I genitori sono assaliti dall’incredulità e dal dolore, poi da una grande confusione emotiva: si mischiano in loro vissuti di vergogna, paura, rabbia, dubbi e sensi di colpa: «Non siamo riusciti a proteggerlo»; «Se fossimo andati subito al pronto soccorso…».

Assieme al dolore, allo spaesamento e al senso di colpa, sovente i genitori in lutto sentono una grande solitudine. La morte in gravidanza, pur essendo frequente, è percepita come innaturale e vissuta come un tabù. Spesso, di fronte a essa, le persone fuggono (dai, non parliamo di queste cose tristi) o negano (non era neanche un bambino; ma sì, ne farete altri), qualcuno è insofferente (dopo tre mesi soffri ancora?).

Sembra che il lutto di questi genitori non abbia diritto di esistere, che sia un sentimento inopportuno ed esagerato. Sembra che quei bambini siano figli solo per loro: «Allora dentro di me – scrive Silvia – inizia a salire il grido di una mamma orfana. È il grido di una madre che vuole far sapere al mondo che ha avuto un figlio che è morto! Non è stata una fantasia, è stato reale!».

foto Ciao Lapo Onlus

L’associazione CiaoLapo

La storia di Silvia e Nicola è stata raccolta in un libro4 dall’associazione CiaoLapo5, nata nel 2006 a Prato da due «genitori speciali», Claudia Ravaldi e Alfredo Vannacci, in ricordo del loro piccolo Lapo, morto in utero a 38 settimane. CiaoLapo si occupa, da un lato, di accompagnare le famiglie in lutto e, dall’altro, di ricerca scientifica e di formazione rivolta al personale sanitario.

Ai tempi del loro lutto, in Italia non c’era sensibilità sul tema, e per Claudia e Alfredo è stato fondamentale conoscere associazioni che operavano in altri paesi. Avendo formazione medica e psicologica, hanno iniziato a importare la ricerca scientifica estera strutturando un modello per accompagnare i genitori e uno di istruzioni per operatori sanitari.

Oggi l’associazione ha referenti in tutte le regioni italiane e accompagna genitori in lutto con l’aiuto psicologico individuale e i gruppi di auto mutuo aiuto seguiti da professionisti volontari.

Abbiamo sentito Micarnela Darsena, psicoterapeuta volontaria di CiaoLapo dal 2012: «L’associazione accoglie tutti. Che siano genitori passati attraverso l’interruzione terapeutica o volontaria, che abbiano subito un aborto spontaneo, o morti perinatali. Non facciamo distinzioni. Accogliamo il genitore e il dolore che porta per il proprio bambino, e ci occupiamo di sostenerlo e aiutarlo a elaborare il lutto».

Micarnela è entrata nell’associazione dopo aver vissuto in prima persona la perdita di due gemelline, Elisa e Silvia, nate alla 23° settimana e vissute solo pochi minuti. Dopo aver fatto il suo percorso come genitore, ora, come psicoterapeuta, offre sostegno agli altri, facilita i gruppi e fa formazione agli operatori sanitari.

foto Ciao Lapo Onlus

Psicologia e fede

Oltre all’associazione CiaoLapo, sono nate negli anni in Italia anche altre iniziative6. Una di esse è quella promossa da Benedetta Foà7, psicologa clinica e counselor, esperta di lutto in gravidanza. Grazie alla sua esperienza professionale ha dato vita, cinque anni fa, al seminario «dalle tenebre alla luce»: cinque giorni residenziali nei quali un gruppo di 10-15 genitori per volta viene accompagnato da Benedetta stessa e da un sacerdote in un percorso di elaborazione del lutto che mette in rilievo anche la dimensione religiosa, portando i genitori a una riconciliazione con sé, con il bambino perduto e con Dio. «Si parla poco del tema aborto – ci dice Benedetta al telefono -, sia di quelli spontanei che di quelli procurati. Soprattutto, si parla poco dello stress post aborto. La nostra società fa difficoltà a stare davanti al dolore. Una volta si partoriva e moriva in casa. Oggi, con l’ospedalizzazione, la sofferenza non si vede più, ed è diventato impossibile parlarne. Amici e parenti tacciono, magari per paura di far soffrire i genitori in lutto, ma, alla fine, li lasciano nella solitudine. Inoltre, spesso, i genitori non riescono neppure ad avere il corpicino del loro bimbo per seppellirlo e lasciarlo andare, e non hanno il conforto religioso».

Sentiamo al telefono anche don Roberto Panizzo, il sacerdote che Benedetta Foà ha coinvolto nell’esperienza dei seminari: «Mi era già capitato d’incontrare persone che non riuscivano a riconciliarsi con se stesse e con Dio per la loro esperienza di aborto spontaneo, oppure voluto. Chi ha avuto un aborto spontaneo, spesso sente forti sensi di colpa perché si vede inadeguato al ruolo, incapace di generare. Chi provoca un aborto ha un peso in più. In fondo però i sentimenti sono gli stessi: senso di colpa, motivato da cause differenti, disistima e difficoltà a lasciarsi perdonare. Mettere tutto questo in un rapporto filiale con Dio e in una condivisione con altri è terapeutico, sia dal punto di vista psicologico che spirituale».

foto Ciao Lapo Onlus

Stare nel dolore

Con le loro attività, CiaoLapo e le altre iniziative contribuiscono a creare uno spazio di dibattito che oggi è ancora inesistente: «Già si fa fatica a parlare di morte e di lutto in generale – afferma Micarnela -, ancora di più se si tratta di un bambino. Le persone si difendono. È un dolore che non viene riconosciuto».

Anche gli operatori sanitari spesso minimizzano quello che sta succedendo alla coppia che si presenta in pronto soccorso: «Questo è fatto nel tentativo di far superare il dolore. Ma il dolore va attraversato. Per i genitori non è possibile fare finta che non sia successo niente. Per loro niente sarà più come prima – sottolinea con forza Micarnela -. Elaborare non vuol dire dimenticare, ma integrare quello che è successo nella mia storia di vita, dargli un personale significato, e cercare di riadattare la mia vita tenendo conto di quella perdita. I genitori soffrono molto la mancata comprensione del loro dolore, il mancato riconoscimento di quel bambino così amato. Soffrono l’invito a reagire, a superare velocemente, a non piangere più… a non stare in quel dolore.

foto Ciao Lapo Onlus

Ogni genitore vive il suo lutto in modo personale e deve potersi sentire accolto».

«Ho terminato da poco un percorso con una coppia che ha perso il figlio otto anni fa – racconta Benedetta -. Lei per otto anni ha negato a se stessa che aveva perso un figlio. Però stava male. Quando la situazione si è incancrenita è arrivata da me.

Sono tante le ragioni per cui le persone reagiscono in modi diversi. C’è qualcuno che ci passa sopra dicendo “va bene, è la natura”, qualcuno se ne occupa, ad esempio facendo dire una messa e pregando per lui, qualcun altro invece va in depressione, si ammala, non riesce più a reagire. Ho in mente una signora che ha perso il bambino il giorno prima di partorire. Io l’ho incontrata dieci anni dopo. Nel frattempo era entrata e uscita da ospedali psichiatrici e aveva, di fatto, abbandonato la prima figlia per gestire il lutto del secondo».

«L’esperienza ci fa dire che il dolore non lo si può ignorare – aggiunge don Roberto -, non si può evitare facendo finta di niente. L’unico modo per superarlo è quello di renderlo presente con una lettura positiva, e qui la fede ci aiuta, perché Cristo ha assunto su di sé la sofferenza. Non ti dà una spiegazione, però condivide con te il cammino. Puoi affrontare il dolore cercando non tanto di evitarlo o di dargli delle ragioni di comodo, quanto di dargli ragione nell’oggi. Dare al dolore un senso oggi, per quello che sei ora, permette di trasformare qualcosa di oggettivamente negativo in qualcosa di salvifico. È fondamentale che il dolore si accolga. Il dolore ha un senso. Nella mia libertà, solo io posso darglielo».

«Dalle tenebre alla luce»

Se il dolore non si può evitare, e zittirlo spesso significa amplificare la sua voce, il primo passo è riconoscerlo e dargli un nome. Per questo è importante il confronto con qualcuno che sappia aiutare, e anche la condivisione con chi ha dei vissuti simili.

foto Ciao Lapo Onlus

L’esperienza del seminario «dalle tenebre alla luce» mette in rilievo proprio queste due dimensioni, aggiungendo, per i credenti, quella spirituale. «È un percorso sul lutto, nel quale ci si prende cura del bambino che non è nato», spiega Benedetta.

Nei seminari, organizzati ogni volta in una città diversa, è condensato tutto ciò che nel suo lavoro quotidiano Benedetta propone con approccio laico ai singoli genitori in lutto, associando a esso l’aspetto religioso.

Nel seminario i genitori vivono quattro passaggi fondamentali: possono parlare dell’accaduto in un clima di ascolto privo di giudizio; lasciano emergere sentimenti che a volte loro stessi negavano; vivono un incontro simbolico con il figlio attraverso un oggetto, una lettera scritta e l’uso guidato dell’immaginazione; dopo aver recuperato l’identità del figlio, gli dicono addio, lo lasciano andare.

Don Panizzo racconta: «Si comincia con l’accoglienza e il racconto vicendevole. L’obiettivo è di aiutare i genitori a ristabilire un rapporto con i loro figli, un rapporto che da un lato è interrotto, ma dall’altro è continuamente presente come un’esperienza traumatica. Benedetta chiede alle persone di portare un oggetto: un ciuccio, un pupazzetto, nel quale identificare la creatura che non c’è più. Questo oggetto viene manipolato, tenuto in mano per tutto il percorso, in modo che il contatto fisico crei un rapporto. A un certo punto si dà un nome al bambino e gli si scrive una lettera. Una lettera di addio, di ricordo, di espressione di affetto. Il momento in cui si ristabilisce un contatto con il bambino è molto delicato e doloroso. Poi Benedetta chiede ai genitori di figurarsi un incontro con lui. Il figlio può essere immaginato nel luogo che preferiscono, può avere qualsiasi età. A volte ha 5 anni, altre volte è un giovane. Spesso l’età corrisponde a quella che avrebbe se fosse vivo. I genitori sono chiamati a immaginare l’incontro con il figlio, e poi anche la sua morte. Questo perché rivivano la perdita nel momento presente, in un contesto comunitario, di accoglienza e di fede. L’ultimo momento è quello nel quale i genitori seppelliscono l’oggetto.

Infine si celebra una messa nella quale si benedicono delle vesti bianche, come nei battesimi. Questa messa aiuta i genitori a sperimentare la comunione con Dio che dipende anche da quanto lasciano entrare nella gloria di Dio il loro bambino.

Se il percorso ha successo, i genitori non sono più legati all’episodio in cui hanno perso il loro bambino. Lo lasciano andare. Iniziano a ricordarlo non più legato in maniera traumatica a loro, ma ormai lasciato a Dio».

foto Ciao Lapo Onlus

Un corpo da toccare

I genitori che perdono il proprio bimbo nelle prime settimane di gravidanza non possono avere con lui nemmeno il più elementare contatto fisico. Ma quando è possibile, l’aspetto del toccare, del vedere, del poter vivere un rito di separazione è importante. Micarnela conferma: «Questo è un tema su cui stiamo formando gli operatori sanitari. La vista, il contatto con il bambino, il poter avere dei ricordi, sono elementi preziosi per l’elaborazione, per il distacco, per poter salutare il bambino. Quando i genitori non riescono a farlo, in seguito si trovano a gestire molte emozioni in più: “Avrei dovuto fare, dire…”.

Per le perdite molto precoci, quando non c’è nessun contatto fisico, a volte i genitori compiono qualche rito personale: piantano un albero, fanno volare un palloncino in memoria del figlio. È importante poter celebrare il passaggio di quel bambino».

Benedetta aggiunge: «Molte persone mi hanno detto di non aver avuto la forza di vederlo, però poi rimane un vuoto. Se l’aborto avviene quando il bimbo è un po’ più grande, spesso i genitori chiedono il corpo e lo seppelliscono. Il seppellimento è molto consolatorio. So che il mio bambino è lì, posso andare a piangerlo lì. Ci sono molti cimiteri che hanno degli spazi dedicati ai bimbi piccoli. Senza questo, invece, i genitori dopo un po’ iniziano a dire: “Ma dov’è il mio bambino? L’ospedale cosa ne ha fatto?”. Diventa tutto una ricerca, un dolore. A volte, quando si scopre cosa ne ha fatto l’ospedale è ancora più doloroso, perché magari è stato buttato via insieme ai rifiuti speciali».

«Per il mondo, per la medicina, quando il feto è molto piccolo, è solo materia, qualcosa di scarto – afferma don Roberto -. Quando l’aborto avviene presto, il genitore non ha la possibilità fisica di avere un contatto con suo figlio. Quando, con il tempo, la problematica viene fuori, è proprio questa mancanza che gioca un ruolo importante: nell’immaginazione l’evento rimane continuamente presente. Non c’è un parto, un dare alla luce. Il percorso del seminario “dalle tenebre alla luce” ha proprio questo fine: ripercorrere quello che non è avvenuto, cioè un contatto fisico, una relazione, ma anche il distacco.

Noi siamo degli esseri simbolici, abbiamo la capacità di trarre dalle cose, dalla natura, un significato più profondo. Anche un ciuccio può essere rivelatore. Siamo esseri simbolici e viviamo nella nostra carne, nella nostra creaturalità fisica, oltre che psicologica e spirituale, e quindi abbiamo bisogno di materia, di cose concrete per entrare in relazione».

Lasciare andare

Nei casi di aborti dalla 20a settimana in su è più facile che i genitori e, in molti casi, anche i fratelli più grandi, possano vedere e toccare il corpo del bimbo. Si può vestirlo, fare delle foto, creare dei ricordi tangibili da portare a casa. «CiaoLapo fornisce agli ospedali la Memory box, una scatola con una copertina, degli abitini in cui avvolgere il bimbo. Tutto quello che i genitori possono fare in quelle poche ore è importantissimo, perché possano tornare a casa non proprio a braccia vuote. Questo, a livello internazionale, è riconosciuto come un buon inizio di elaborazione».

Per quanto riguarda un vero e proprio rito funebre, Micarnela ci spiega: «Non so in altre regioni, ma in Lombardia, che venga richiesto o meno dai genitori, si procede alla sepoltura del corpicino a qualsiasi epoca gestazionale. I genitori possono portare a casa il bimbo e fare personalmente la sepoltura. A volte non se la sentono e lasciano che sia l’ospedale a occuparsene. Se intendono farlo loro devono fare richiesta entro 24 ore. Purtroppo non sempre il personale informa i genitori di questo».

Benedetta ci parla della sua esperienza: «Faccio parte dell’associazione Difendere la vita con Maria che ha aperto delle convenzioni con diversi ospedali per occuparsi del seppellimento. Il problema è che il genitore, quando sta perdendo il bambino, è sconvolto. In quel momento non è in grado di pensare in modo lucido e, qualunque cosa gli venga proposta dall’ospedale, si adegua. Sovente non sa neanche che si può seppellire, e quindi lascia fare all’ospedale. Se quest’ultimo ha la convenzione con la nostra associazione, allora propone il seppellimento».

La giornata del BabyLoss

Micarnela ci parla della giornata internazionale del BabyLoss di sensibilizzazione sul lutto perinatale celebrata ogni anno il 15 ottobre: è un’iniziativa a livello mondiale che propone dei riti per ricordare i bimbi che i loro genitori non sono riusciti a vedere, a salutare, a tenere in braccio.

CiaoLapo, già diversi anni fa, ha fatto una proposta di legge per istituire una giornata nazionale di consapevolezza sul tema delle morti in utero. «La proposta è ferma in parlamento da anni, ogni tanto torniamo a fare questa richiesta proprio per allinearci a ciò che succede a livello internazionale». La richiesta è che anche l’Italia riconosca questa giornata e inizi a far uscire dal silenzio il lutto di questi «genitori speciali».

Luca Lorusso

Stacy Lynn Baum

Note

1- Dati riportati nella pagina dedicata alla mortalità perinatale di www.epicentro.iss.it il portale dell’epidemiologia per la sanità pubblica a cura del Centro nazionale per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute dell’Istituto superiore di sanità. 
2- http://dati.istat.it
3-Johns Hopkins Manual
of Gynecology and Obstetrics edito nel 2012 dal Dipartimento di Ginecologia e Ostetricia della
Johns Hopkins University School of Medicine.
4- Claudia
Ravaldi (a cura di), La tua culla è il mio cuore, Officina grafica,
Verona 2016.
5- www.ciaolapo.it http://www.ciaolapo.it 
6- Ne citiamo solo alcune, ma ciascuno può trovarne nella propria zona di residenza: Il Mandorlo, studio di psicologia-psicoterapia a Torino (www.post-aborto.it/equipe/); La Vigna di Rachele, rete ecclesiale per l’elaborazione del lutto per aborto (www.progettorachele.org); A braccia vuote, (www.luciarecchione.it/sportello-a-braccia-vuote/).
7- www.benedettafoa.it

LIBRI

– Claudia Ravaldi ha scritto diversi volumi sul tema della morte in gravidanza e del lutto. Citiamo qui solo La morte in-attesa e La tua culla è il mio cuore, entrambi pubblicati da Officina Grafica Edizioni, Verona 2016;

– Benedetta Foà, Dare un nome al dolore, Effatà editrice, Cantalupa (To), 2014; Le doglie del ri-nascere, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 2018;

– L. Bulleri, A. De Marco, Le madri interrotte, Franco Angeli, Milano 2013.

Il lutto dei padri

Quelle poche volte che si parla della perdita di un figlio in gravidanza, ci si riferisce soprattutto al lutto delle madri. E il lutto dei padri? «Il lutto dei padri – risponde Micarnela Darsena dell’associazione CiaoLapo – purtroppo è ancora meno riconosciuto di quello delle mamme. Questo accade per un problema culturale generale con le emozioni maschili: gli uomini devono essere forti, devono reagire, non devono piangere, e così via. Molti papà ci dicono: “Per un po’ mi hanno chiesto ‘come sta tua moglie?’, ma a me non hanno mai chiesto come sto”. Caspita! Anche quel papà ha sofferto per la perdita di quel bambino, anche quel papà aveva investito in progettualità su quella nascita. Quanto dolore c’è in un papà che ha perso il suo bimbo.

Quando nei nostri incontri di gruppo sono presenti dei papà, spesso ci dicono che quelli sono gli unici momenti in cui possono parlare del loro dolore.

Hanno sempre detto loro: “Tu devi essere forte per tua moglie, devi sostenerla”. Certo, nelle dinamiche di coppia è facile che inizialmente uno dei due sostenga l’altro e poi, quando questo inizia a stare meglio, il primo si permetta di lasciar andare le emozioni. Questa cosa generalmente succede ai papà: cominciano a stare male quando le mamme stanno meglio, perché finalmente se lo concedono».

L.L.

La sepoltura

Le linee guida internazionali sull’assistenza al lutto, in gravidanza o dopo il parto, prestano molta attenzione alle informazioni da dare ai genitori in merito ai riti funebri e alla sepoltura. È esperienza condivisa a livello transculturale che poter sancire il passaggio, poter chiudere un cerchio, anche solo simbolicamente, è molto importante per i genitori e per il loro lutto. […] È molto importante che i genitori possano conoscere chiaramente le opzioni possibili […]. I genitori che dopo mesi, in molti casi addirittura dopo anni dalla perdita del loro bambino, chiedono informazioni in merito alla sepoltura, riferiscono di aver provato sollievo, e pace, quando si sono potuti recare al cimitero […].

In caso di morte perinatale
(dalla 28ª settimana di gestazione)

In questi casi vige l’obbligo di registrazione presso l’anagrafe come previsto dall’art. 74 del Regio Decreto 09/07/1939 n. 1238 […].

In caso di aborto

I regolamenti cimiteriali italiani, pur con variazioni locali, si basano sul D.p.r. 10/09/1990 n. 285, il quale nell’articolo 7 dichiara: […]

2. Per la sepoltura dei prodotti abortivi di presunta età gestazionale dalle 20 alle 28 settimane complete e dei feti che abbiano presumibilmente compiuto 28 settimane di età intrauterina […] i permessi di trasporto e di seppellimento sono rilasciati dall’unità sanitaria locale.

3. A richiesta dei genitori, nel cimitero possono essere raccolti con la stessa procedura anche prodotti del concepimento di presunta età inferiore alle 20 settimane.

4. Nei casi previsti dai commi 2 e 3, i parenti o chi per essi sono tenuti a presentare, entro 24 ore dall’espulsione o estrazione del feto, domanda di seppellimento alla unità sanitaria locale […].

C. Ravaldi,
da La morte in-attesa, Officina Grafica, Verona 2016, pp. 155-158




Beato Oscar Arnulfo Romero:

Quando le pietre più dure sono le parole

Assassinato il 24 marzo 1980, beatificato il 23 maggio 2015, santificato il
14 ottobre 2018. Sono queste le tre date che ricordano monsignor Oscar Romero,
il vescovo del Salvador ucciso per essersi schierato con gli ultimi. Eppure, il
riconoscimento del suo ruolo e del suo martirio sono stati a lungo contrastati,
anche all’interno della Chiesa. Per uscire dall’impasse è stato necessario
l’intervento di Francesco, il primo papa latinoamericano.

Roma, 31 ottobre 2015: un gruppo di salvadoregni s’incontra con papa Francesco. Lo scopo della riunione è quello di ringraziare il pontefice per la beatificazione di monsignor Oscar Arnulfo Romero martire che ha avuto luogo a San Salvador il 23 maggio dello stesso anno. In quell’evento Francesco dice che Romero è stato martirizzato non soltanto in occasione del suo omicidio avvenuto – era il 24 marzo 1980 – per mano di un cecchino, quasi certamente assoldato dal maggiore Roberto d’Aubuisson. Il papa racconta: «Allora io ero un giovane prete e sono stato testimone di ciò che avvenne. Lui è stato diffamato, calunniato e il suo nome è stato macchiato. Il suo martirio è continuato anche per mano dei suoi fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato». Si è trattato, secondo lo stesso Francesco, di una lapidazione con la pietra più dura che esista: «la parola».

Dopo
la morte di Romero, qualcosa di molto simile è stato scritto da dom Pedro
Casaldáliga, allora vescovo di Sao Félix, Brasile, in una poesia (San Romero de América, Pastor y Mártir
Nuestro
) molto nota a tutti i suoi simpatizzanti: «Povero pastore glorioso,
abbandonato dai tuoi fratelli di bacolo e tavola».

Quel discorso di papa
Francesco, pronunciato con forza ed empatia, ha aperto la speranza di una
canonizzazione precoce del «monsignore», come lo chiamava la gente del suo
villaggio.

La conversione di Romero: da timido a profeta

Romero si era guadagnato l’ostilità e gli
attacchi dell’oligarchia e dei settori più conservatori della Chiesa a causa
della sua crescente scelta per i più poveri e vulnerabili tra la popolazione
salvadoregna. In questo suo cammino di conversione, un momento fondamentale fu
l’assassinio (12 marzo 1977) di padre Rutilio Grande.

Romero, arcivescovo di San Salvador, che fino
ad allora era stato un uomo timido, conservatore e devoto, lasciò da parte le
sue debolezze e prese una decisione coraggiosa e profetica che nessuno avrebbe
potuto immaginare: per il funerale del prete assassinato, suo amico e
confidente, ordinò di sopprimere tutte le celebrazioni eucaristiche per
celebrarne una sola.

Lasciata alle spalle la sua timidezza e la
spiritualità tradizionale e pietistica, si trasformò nel pastore dei poveri, di
tutte le vittime della violenza. Lasciò la sacrestia per camminare con la sua
gente della quale ascoltava e osservava il dolore con attenzione e rispetto.

Cambiò anche il tono delle sue omelie che, a
poco a poco, andarono acquisendo toni profetici e drammatici. La gente semplice
che non poteva assistere alle sue messe domenicali nella cattedrale seguiva con
attenzione (attraverso la radio) le sue predicazioni che, senza timore di
esagerare, potevano essere paragonate a ciò che è stato detto e scritto dai
grandi profeti biblici. Le sue prediche erano lunghe; a volte drammatiche, ma
mai noiose o ideologiche. Egli seppe leggere e discernere gli eventi dolorosi
del suo popolo, dando conto tempestivo e certo dei tanti morti e scomparsi. Per
questa ragione esse si trasformarono in un punto di riferimento non solo per i
salvadoregni, ma anche per molti centroamericani.

Il caso più noto è quello della sua ultima
omelia, su cui ha scritto nella citata poesia dom Pedro Casaldáliga: «San
Romero d’America, nostro pastore e martire: nessuno potrà zittire la tua ultima
omelia». Come sappiamo, essa firmò la sua condanna a morte perché ebbe
l’audacia di dire ai militari: «Nel nome di Dio e in nome di questo popolo
sofferente i cui lamenti salgono al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi
supplico, vi prego, vi ordino nel nome di Dio: termini la repressione».

A essi Romero chiese anche di obbedire prima
che ai loro capi alla voce della coscienza e alla legge di Dio che dice «Non
uccidere». Il monsignore a quel punto era andato troppo oltre e per questo
doveva essere messo a tacere.

Per capire questo cammino di Romero, occorre
prendere in considerazione il ruolo che giocarono i gesuiti della Uca,
soprattutto i padri Ignacio Ellacuría e Jon Sobrino, teologi ben preparati e
apprezzati a livello internazionale. Anche in questo caso si tentò di
screditarlo dicendo che era un «utile tonto e burattino dei gesuiti».

Il poco che ho raccontato del nuovo santo
serve soltanto per capire il percorso che lo ha portato a diventare un simbolo
di molte delle lotte che sono state fatte in America Latina e in molte altre
parti del mondo dove la povertà e la violenza continuano a mietere vittime.
Quelle che padre Gustavo

Guitiérrez definisce «i morti prima del
tempo».

© Jorge Garcia Castillo

Tutti a Roma

Roma, 12 ottobre 2018. Allo scopo di
partecipare alla cerimonia di canonizzazione di monsignor Romero, viaggiamo
alla volta di Roma io e il padre Gabriel Estrada, comboniano come me. Arriviamo
nel pomeriggio. Il giorno successivo, nei pressi di piazza San Pietro,
partecipiamo alla Conferenza internazionale di giornalismo per la pace nella
sala San Pio X di Città del Vaticano.

Nella sala c’è un’interessante mostra di
fotografie, immagini e testi riferiti alla figura e al messaggio di mons.
Romero mentre sulla facciata della Basilica di San Pietro già luccicano i
tappeti con le immagini dei nuovi santi. Paolo VI al centro, mons. Romero alla
sua destra e Francesco Spinelli alla sua sinistra. Gli altri sono collocati in
luoghi strategici senza che la loro posizione ne sminuisse l’importanza.

Il giorno dopo, molto presto, al cancello
d’ingresso arrivano pellegrini dall’Italia e da molte altre parti del mondo. La
celebrazione dell’eucaristia è prevista per le 10 del mattino. Dopo aver letto
una breve biografia dei 7 «candidati», il papa viene invitato a scriverli nella
lista dei santi. E così succede.

L’assemblea approva la decisione con applausi
ed esclamazioni entusiastiche. A causa del modo in cui fu assassinato, del suo
insegnamento e del suo radicale impegno per i poveri, i sofferenti e i più
abbandonati, Romero è il santo che riceve più consensi.

Nella sua omelia, il papa sottolinea come
Paolo VI, Romero e gli altri santi abbiano speso la vita per il Vangelo e per i
loro fratelli.

Sono colpito dalla differenza abissale tra la
cerimonia di beatificazione (a San?Salvador) e quella di canonizzazione (a
Roma). Nel primo caso, i primi posti erano occupati da alti rappresentanti
della Chiesa, su entrambi i lati c’erano i politici e le famiglie ricche,
davanti i sacerdoti concelebranti e dietro di loro, separati da una transenna,
i membri delle «famiglie bene» e, infine, i poveri (quelli per cui il martire
aveva dato la propria vita), molti dei quali avevano dovuto accontentarsi di
seguire la messa attraverso i maxischermi.

Nella cerimonia di canonizzazione non è così,
non tanto per un’opzione, ma perché i criteri di accoglienza nella piazza San
Pietro sono altri. Non per questo si può evitare la stratificazione che assegna
sempre i posti privilegiati alla gerarchia della Chiesa e al mondo sociale e
politico.

San Romero d’America

Il giorno successivo, lunedì 15 ottobre,
migliaia di pellegrini si ritrovano nell’aula Paolo VI (aula Nervi) per la
celebrazione della messa di ringraziamento per la canonizzazione del martire
salvadoregno. Il cardinale Gregorio Rosa Chávez presiede l’eucaristia. Ogni
volta che, nella sua omelia, evidenzia alcune delle qualità dell’arcivescovo,
l’assemblea esprime la sua approvazione con lunghi applausi.

Alla fine della messa, mentre i tecnici
preparano la proiezione di un video su Romero, nell’aula inizia a crescere il
vocio. La gente grida, applaude e corre verso il corridoio centrale. Francesco
sta entrando nell’aula e, come se avesse a disposizione tutto il tempo del
mondo, saluta con strette di mano da un lato e l’altro, ricevendo doni e
abbracci. «Francesco, Buon Pastore, El Salvador ti ama», grida la folla.

Una volta raggiunto il palco, monsignor José
Luis Escobar, arcivescovo di San Salvador, legge un messaggio emozionante in
cui ringrazia il Santo Padre per aver canonizzato il «martire del magistero
della Chiesa», e chiede, tra l’altro, di dichiarare monsignor Romero dottore
della Chiesa, di visitare El Salvador e di beatificare padre Rutilio Grande.

Due giorni di festa, due giorni in cui San
Romero d’America è stato protagonista di una celebrazione che ha raggiunto
livelli molto elevati a casa sua e in altre parti del mondo, dove è amato,
rispettato e considerato come un vero profeta che teneramente amava Dio e i
poveri.

Jorge García Castillo*
(traduzione e adattamento di Paolo Moiola)
* Padre Jorge García Castillo, collaboratore di MC, lavora a Città del Messico dove dirige le riviste Esquila Misional e Aguiluchos.




Penisola Arabica:

(Cristiani) Come ospiti tollerati (ma speranzosi)

Nella veste di responsabile del vicariato apostolico dell’Arabia
meridionale, monsignor Paul Hinder conosce le difficoltà di vivere in paesi
dove l’islam è religione di stato e la sharia fonte del diritto. Emirati Arabi,
Oman e Yemen, quest’ultimo devastato dalla guerra civile, sono i paesi dove il
vescovo svizzero si muove. Paesi nei quali l’Arabia Saudita, nazione egemone dell’area,
non fa mancare la propria influenza. Con i soldi o con le armi.

I slam, sharia, petrolio, immigrati. Sono alcuni degli
elementi che hanno in comune i sette paesi che compongono la penisola arabica.
Tutti a parte lo Yemen, che non ha né petrolio né immigrati e che, per di più,
da oltre quattro anni è devastato da una cruenta quanto misconosciuta guerra
civile.

In quest’area domina l’Arabia Saudita, monarchia oscura (e
oscurantista) verso la quale quasi tutti i paesi – in primis, gli Stati Uniti di
Donald Trump – mostrano una deferenza spiegabile soltanto con le enormi
ricchezze di cui essa può disporre. È Riad che guida la coalizione che combatte
in Yemen. È Riad che ha imposto un duro embargo contro il riottoso (ma
altrettanto ricco) Qatar. È Riad che ha fatto assassinare il giornalista
dissidente Jamal Khashoggi. È Riad che, dietro le quinte, trama nella guerra di
Siria e per l’isolamento dell’Iran sciita.
Nella penisola arabica, dal 2011 opera monsignor Paul Hinder, vescovo svizzero
di 76 anni. Il suo ruolo è quello di vicario apostolico dell’Arabia
meridionale, che comprende Emirati Arabi, Oman e Yemen. Lo abbiamo incontrato
prima dell’annuncio della visita di papa Francesco negli Emirati (3-5 febbraio
2019).

© Paolo Moiola

Convivere con la sharia

Monsignor Hinder, in quali paesi della penisola arabica lei sta operando?

«Oggi
sono vicario apostolico degli Emirati Arabi Uniti (nella cui capitale, Abu
Dhabi, risiedo), del sultanato di Oman e della repubblica dello Yemen. Dal 2005
al 2011 ero vicario anche di Arabia Saudita, Bahrein e Qatar. Poi la Santa Sede
ha fatto una riorganizzazione territoriale di tutta la penisola per avere una
suddivisione più ragionevole».

Come si vive in paesi dove la sharia è la principale fonte del diritto?

«Tutto
dipende da come essa è applicata nella pratica. È chiaro che ci sono vari modi
di interpretarla e applicarla. La sharia non è soltanto tagliare le mani o la
testa. Anche se capita ancora. Per esempio, in Arabia Saudita».

Non si tratta quindi di una esagerazione giornalistica?

«Non
lo è, ma questo non significa che sia l’atteggiamento generale. La sharia è
tutto quello che noi consideriamo diritto civile, quello che regola le cose
della famiglia, della proprietà, eccetera. Anche io sono andato alla “Corte
della sharia” per delle firme. Non è una cosa di cui avere paura: è il modo per
regolare i rapporti in una società musulmana. Chiaro che, per noi cristiani, ci
sono dei limiti nella libertà religiosa che, in questi paesi, non è
riconosciuta come una libertà propria della persona. E poi la libertà del
culto, di svolgere cioè le liturgie, è limitata. Come in Arabia Saudita dove
non esistono chiese, che invece esistono in tutti gli altri stati».

Intende dire che, a tutt’oggi, in?Arabia Saudita non esistono strutture
adibite a chiese?

«No,
anche dopo la visita del cardinale maronita (nel novembre 2017 il cardinale
Bechara Rai, patriarca dei maroniti, ha incontrato re Salman a Riad, ndr). Forse un domani, ma personalmente
nutro ancora dubbi. Ci sono – va precisato – delle comunità, formalmente rette
dal vescovo incaricato. Informalmente esistevano anche quando ero ancora
vescovo io. Ci sono messe celebrate in case private in modo discreto. Questo è
tollerato in quanto non disturba altri».

Oman, Emirati Arabi, Yemen sono paesi in cui esistono le chiese intese come
costruzioni?

«Esistono
ma per esempio senza campanili, senza croci esterne visibili dalla strada. Poi
all’interno sono come le chiese di qui, anche se non della stessa qualità
estetica e culturale. La chiesa di St. Mary di Dubai ha posto per 2mila fedeli
ed è ancora troppo piccola. Quella in Qatar, che avevo costruito io quando ero
vescovo, può ospitare 2.700 persone sedute. Nello Yemen, a causa della guerra,
le chiese sono in gran parte o parzialmente distrutte. In questo momento
inoltre non ci sono sacerdoti, e comunque non sono posti sicuri per i fedeli.
Quindi, la vita comunitaria dei pochi cristiani che stanno nello Yemen è
sospesa. C’è una comunità di suore di Madre Teresa che continua a lavorare, a
dare testimonianza a Sanaa in un modo veramente ammirevole».

Monsignore lei ha accennato allo Yemen, un paese dove è in atto una guerra
molto cruenta, anche se ignorata dai media internazionali. Dal suo punto di
vista, come può descrivere la situazione del paese?
Il presidente dello Yemen © UN Photo / Cia Pak

«Anch’io
non so tutto perché è molto difficile avere delle informazioni affidabili di
quella zona. Ovviamente la gente al telefono non parla e anche quelli che
vivono nel paese non conoscono bene la realtà. Da una parte c’è la guerra e
dall’altra una pace relativa o almeno senza guerra. Dobbiamo considerare che lo
Yemen è sempre stato un paese in conflitto in questi ultimi decenni. Ricordo
che se ne parlava già quando io ero ragazzo. Il conflitto attuale si è
complicato dopo l’intervento del 2015 da parte dell’Arabia Saudita e dei suoi
alleati. Un intervento che ha esteso la guerra e che ha fatto cadere sulle
spalle della popolazione yemenita questa contrapposizione con l’Iran, anche se
quest’ultimo non è coinvolto nello stesso modo, cioè in maniera diretta.

Cosa
fare? Io credo che il problema basilare, a parte i conflitti interni, manca la
capacità di arrivare a un compromesso: nella cultura del mondo arabo, o vinci o
hai perso. Questa mentalità impedisce molto spesso di incontrarsi a metà strada
e così si continua pensando di avere la meglio. Nel caso dello Yemen penso che
nessuna delle parti arriverà alla vittoria. Credo che sia necessaria una
soluzione che si elabori a livello di Nazioni Unite, se i grandi poteri vogliono.
Il problema è che finora è mancata la volontà. Lasciano proseguire la guerra.
Mancano le informazioni. I belligeranti non vogliono sia conosciuto troppo bene
ciò che capita nel paese. A questo scopo non è consentita l’entrata dei
giornalisti. Anche se sappiamo che oggi circa 5 milioni di bambini sono a
rischio di morte per fame. Se capitasse che il porto di Al-Hudaydah (il
principale porto sul Mar Rosso, ndr)
dovesse essere chiuso, questa sarebbe la conseguenza. Poi non possiamo
dimenticare le malattie. Le strutture sanitarie sono in parte distrutte. Ci
sono rifugiati all’interno del paese, mentre sono relativamente pochi gli
yemeniti che riescono a espatriare. Una “fortuna” per l’Europa che di certo non
vuole questa gente».

Parliamo di una guerra che riguarda milioni di persone.

«Certo.
Lo Yemen non è un piccolo paese: conta circa gli stessi abitanti dell’Arabia
Saudita (circa 28 milioni, ndr) che però è molto più grande come superficie».

Monsignore, come mai si parla tantissimo della guerra in Siria e, al
contrario, si parla pochissimo di quella in Yemen? C’è una ragione particolare?

«Particolare
non lo so. Di sicuro la Siria è culturalmente più vicina a noi. Molti l’hanno
conosciuta come turisti. Anch’io, quando ero consigliere generale dei
cappuccini, ho frequentato molto la Siria. I poteri inoltre vedono la Siria
come una zona di conflitto più importante. Anche se, a lunga scadenza, lo Yemen
non sarà da meno».

(Photo by Bandar AL-JALOUD / Saudi Royal Palace / AFP)
Monsignore, torniamo sull’Arabia Saudita, il paese più potente della
regione. Ci può dire qualcosa sulla situazione attuale di quel paese? Le
aperture democratiche di cui si è parlato sono reali oppure sono soltanto un
maquillage pensato dai reali?

«Democratiche
non è il termine giusto, perché questa è una monarchia che prende le decisioni
in modo assoluto. Ora stanno avvenendo dei cambiamenti, ma – questo è un mio
giudizio – sono per la facciata, anche per dare l’impressione, a livello
internazionale, di una relativa apertura. Il fatto che le donne possano guidare
l’auto è stato considerato in Occidente come un miracolo. E lo è, ma non cambia
la vita della società. Ci sono delle donne saudite che lottano per una società
più aperta che sono messe in prigione. Una cosa che non possiamo dimenticare è
che c’è un matrimonio tra il wahhabismo (che è l’interpretazione più severa
dell’islam) e la famiglia Saud. È quasi impossibile che arrivino a un divorzio
altrimenti l’Arabia Saudita, nelle forme attuali, avrà grandi problemi. Per
questo non penso che il principe ereditario Mohammad bin Salman, che sembra
essere l’uomo forte, possa andare avanti troppo veloce. Vedremo cosa capiterà.
Piccoli cambiamenti ci sono, che riguardano anche i cristiani. Il potere della
polizia religiosa è stato limitato. Non sono più frequenti le sanzioni che
c’erano prima. Piccoli passi che rendono un po’ meno problematica la vita dei
cristiani. Sarebbe però sbagliato che l’Occidente pensasse che i cambiamenti
avverranno presto. Come accaduto ai tempi della primavera araba quando si pensò
che, nel giro di qualche mese, ci sarebbe stata la democrazia per tutti. Non è
possibile. Diamo il tempo a queste realtà della penisola arabica (come di altre
parti del mondo musulmano) di sviluppare a modo loro il sistema politico».

Monarchie inamovibili

La benevolenza degli Stati Uniti di Trump verso l’Arabia Saudita deriva da
questioni di business, da questioni geopolitiche, o da che altro secondo lei?

«Alla radice secondo me ci sono due cose
principali, una è sicuramente l’economia. Chiaro che essendo il petrolio sotto
il suolo dell’Arabia Saudita (e degli altri stati vicini), c’è un interesse
economico. D’altra parte, gli Stati Uniti hanno sempre visto nell’Arabia
Saudita un fattore di stabilità, non guardando se il regime garantisce o meno i
diritti umani. Quando ci sono di mezzo politica e business, gli stati
occidentali non guardano molto alla morale. Non voglio dare un giudizio ma fare
una constatazione che vale non soltanto per gli?Stati Uniti ma anche per i
paesi europei».

A suo personale giudizio, in questi paesi, il concetto di democrazia
nell’accezione che se ne dà in Occidente potrà mai esistere?

«Non
direi mai, ma sicuramente non in tempo breve. In questi paesi tutta la
struttura, anche tribale, è un impedimento. Senza dimenticare che queste
monarchie non vogliono perdere il potere. Ci saranno dei passi verso elementi
democratici della Shura, il parlamento islamico, che comunque non rappresenta
tutta la popolazione (i migranti ad esempio sono esclusi). Io mi aspetto una
condivisione più grande da parte della popolazione indigena e cittadina, questo
sì. Non a breve comunque, e come lo faranno non lo so. Non sarà una democrazia
come la conosciamo noi. C’è poi un altro elemento da non dimenticare: loro
guardano quello che succede negli Stati Uniti e in Europa o in altri posti e
non sono necessariamente entusiasti di ripetere quello che ci sta capitando.
Forse anche noi in Occidente dobbiamo riscoprire cosa vuol dire essere
democratici con responsabilità».

Questo discorso che ha fatto vale per tutti i paesi dell’area arabica o
soprattutto per l’Arabia Saudita?

«Direi
per tutti gli stati, ricordando che lo Yemen formalmente è una repubblica e non
una monarchia. Però abbiamo visto che non funziona se non rispettano certi
elementi della tradizione. Dovrebbero trovare il modo di combinare tradizioni
antiche con una modernizzazione nella condivisione del potere».

© Werner Bayer

Prove di dialogo con l’islam

Monsignore lei crede che con l’islam sia possibile dialogare?

«Penso di sì e comunque non c’è altra scelta. Quando si
arriva ai contenuti delle nostre fedi diverse sicuramente si hanno dei problemi
enormi da superare, perché un dialogo comporta le competenze che io per esempio
non ho, dato che non sono esperto in islamologia. Sono capace di fare un
dialogo umano perché vivo in questa situazione, ho delle persone che conosco
che possono discutere su questo, ma non è un approfondimento delle posizioni
ideologiche che posso fare. Ci sono dei tentativi. Prima di tutto ci vuole la
conoscenza propria e dell’altro.?E poi trovare dei campi dove andare avanti
insieme, come la pacificazione in questi paesi che è una preoccupazione di
tutti. Ci saranno possibilità sul campo caritativo dove c’è una certa
collaborazione e dialogo. Poi c’è la questione di avere rispetto per l’altro,
rispettare l’altra religione nella sua qualità malgrado le debolezze che noi
notiamo o pensiamo di notare. Sono 15 anni che sono qui e il vedere come
vivono, come si forma la vita, mi ha fatto crescere il rispetto verso gli
altri, e spero sia viceversa, quando loro vedono come noi viviamo. Ciò può
aiutare a superare pregiudizi e anche elementi di conflittualità. Quando io
conosco qualcuno nella sua diversità e lo rispetto, c’è meno rischio che ci
attacchiamo fisicamente come è successo nel passato».

Sono migranti (non immigrati)

© Andreas Gebert / DPA / dpa Picture-Alliance / AFP

Risponde al vero che la maggioranza dei fedeli cattolici
proviene dalle larghissime fila degli immigrati in questi paesi?

«Dobbiamo essere chiari nella terminologia:
non sono immigrati nel senso stretto, ma migranti. Ci hanno detto questo gli
stessi governi. Non siamo immigrati perché non possiamo rimanere e non possiamo
diventare cittadini. Non esiste possibilità di naturalizzazione, neppure per
quelli che parlano arabo. Pertanto, si parla di migranti che stanno in questi
paesi per un tempo limitato. Tra essi ci sono alcuni di classe media che
potranno rimanere praticamente per la vita, ma che non saranno naturalizzati.
Possono restare se sono in grado di pagarsi il soggiorno che è concesso per 2 o
3 anni. Se poi qualcuno perde il lavoro, deve andarsene. Anche la Chiesa deve
essere molto cauta perché non può promettere ai propri preti di farli restare
per tutta la vita. Essere migranti rimane la nostra sorte. Come ho detto tante
volte, siamo “una Chiesa di migranti per migranti”. Dal vescovo, fino
all’ultimo arrivato a Dubai o ad Abu Dhabi».

Migranti, dunque. Ma da dove provengono?

«Per
quanto riguarda gli Emirati, vengono soprattutto dalle Filippine e dall’India,
ma anche da altri paesi arabi (Siria, Libano, Palestina) e dall’Africa, sempre
di più. E poi dalla Corea e dall’America Latina. Insomma, dal mondo intero.
Nella nostra chiesa abbiamo più di 100 nazionalità diverse».

Queste persone che tipo di professionalità hanno?

«C’è
un po’ di tutto, ma in particolare si tratta di lavoratori del settore delle
costruzioni. Nel 2020 a Dubai ci sarà l’esposizione mondiale, nel 2022 nel
Qatar il campionato mondiale di calcio: c’è e ci sarà bisogno di tanti operai
per due progetti mastodontici. Vivono in zone residenziali a parte. La mattina
sono trasportati con il bus al lavoro per tornare alla sera. Questi non possono
partecipare pienamente alla vita parrocchiale anche se facciamo degli sforzi
per aiutarli un po’. Per esempio, organizzando il venerdì il trasporto alla
chiesa. Poi ci sono le impiegate domestiche che sono legalmente più deboli e
meno protette, anche se dipende molto dal datore di lavoro. Ci sono alcuni che
portano i loro impiegati alla messa, e poi aspettano per riportarli indietro.
Altri invece le trattano come vere e proprie schiave».

Per esempio, un lavoratore dell’edilizia ha uno stipendio adeguato?

«Cosa vuol dire
adeguato? Anche qui ci sono leggi sul salario minimo. Sicuramente rispetto a
quello che guadagnano o potrebbero guadagnare a casa loro è molto di più. Il
grande problema è cosa fare quando non sono pagati o lo sono ma in ritardo di
mesi. Qui iniziano i problemi e un giro legale. Un governo dovrebbe controllare
di più affinché queste cose non capitino. In questi ultimi 15 anni hanno fatto
dei grandi progressi, ma questo rimane un problema serio. Può così accadere che
alcuni partano poveri e ritornino ancora più poveri. Altri che hanno visto la
loro situazione sbloccarsi quando erano già tornati al loro paese lasciando
indietro gli stipendi che per legge gli spettavano. Alle nazioni che esportano
manodopera nei paesi del golfo dovremmo dire: non aspettatevi di arrivare in un
paradiso. Molto spesso è una vita dura o durissima, anche quando le cose vanno
normalmente. Qui si guadagna di più ma questo ha un prezzo umano. Molte
famiglie si sfasciano. Per questo cerchiamo di aiutare i nostri fedeli con la
pastorale».

Se io sono un migrante, in questi paesi ho diritto all’istruzione, alla
sanità, insomma a usufruire dei servizi pubblici?

«Dipende dove sono.
Ad esempio, ad Abu Dhabi l’assicurazione sanitaria è obbligatoria. Quindi, un
datore di lavoro non può fare un contratto di lavoro senza. Anche noi come
Chiesa siamo obbligati. L’accesso alle strutture sanitarie c’è, anche se alcune
strutture sono soltanto per i locali. Spesso gli indiani preferiscono andare a
casa propria dove la sanità è meno cara ed è buona. Quanto alla scuola, è
essenzialmente privata ed è un problema per le famiglie meno abbienti a causa
delle rette. Come Vicariato abbiamo scuole aperte a tutti (anche ai musulmani)
e a prezzi accessibili. Questa è la nostra missione, perché per i ricchi ci
sono scuole sufficienti».

Monsignore, dopo quasi 15 anni nella Penisola Arabica, come giudica questa
sua esperienza?

«Io
sono andato in?Arabia con una certa reticenza. Avevo paura ad accettare la
nomina. Una volta arrivato mi sono dato completamente a questo compito,
nonostante tutti i problemi. I fedeli mi hanno dato gioia, vedendo una Chiesa
non perfetta ma molto attiva, impegnata, motivata, che mi ha aiutato ad
approfondire me stesso e la mia fede. Mi sento felice qui anche se è un mondo
diverso che mi rimarrà sempre un po’ straniero, ma ho imparato molto da questa
cultura e non vorrei mi mancasse. Forse vent’anni fa avrei risposto
diversamente a una simile domanda».

Paolo Moiola

La guerra nello Yemen

(Photo by – / AFP)

Un’arma chiamata indifferenza

Ci sono paesi dove si combattono guerre evidenti e cruente eppure
dimenticate da tutti (comunità internazionale, media, opinione pubblica). Lo
Yemen è uno di essi.

Sono sempre esistite le cosiddette «guerre
dimenticate», conflitti evidenti e cruenti ma che, per una serie di ragioni,
non arrivano o arrivano sporadicamente e parzialmente all’attenzione
dell’opinione pubblica mondiale. In questa situazione l’indifferenza diventa
un’arma micidiale. La guerra civile nello Yemen, paese tra i più poveri del
Medio Oriente, rientra a pieno titolo nella categoria. Una guerra civile
iniziata sulla fine del 2014 quando gli Huthi – un gruppo islamico sciita (di
una variante nota come zaydismo) – prendono gran parte della
capitale Sanaa. Nel marzo del 2015 l’Arabia Saudita, a capo di una coalizione
di 10 paesi (9 dopo il ritiro del Qatar), interviene nel conflitto a fianco del
deposto presidente Hadi, nel frattempo fuggito. Il paese è smembrato: una parte
(quella ad Ovest) in mano agli Huthi, una parte nelle mani della coalizione
saudita e una parte divisa tra al-Qaeda e Stato islamico. A dicembre 2018 le
Nazioni Unite sono finalmente riuscite ad aprire colloqui di pace a Stoccolma.

A oggi la guerra avrebbe già fatto oltre 12mila morti e
milioni di profughi, come milioni sarebbero le persone a rischio carestia. In
tutto questo s’inserisce anche una storia nella storia che riguarda l’Italia e
in generale l’Unione europea. Secondo il New
York Times
, la Rheinmetall Defence,
una industria d’armi di passaporto tedesco ma con stabilimento in Italia (a
Domusnovas, in Sardegna), è tra i fornitori di bombe dell’Arabia Saudita. La
cosa sarebbe però vietata dalla legge italiana n. 185 del 1990 che vieta
l’esportazione di armi verso paesi in conflitto. Senza dire che, nel settembre
2013, l’Italia ha sottoscritto il Trattato internazionale sul commercio delle armi
(Arms Trade Treaty, Att) che limita
fortemente la compravendita di armi. Nel frattempo, lo scorso 25 ottobre 2018
l’Europarlamento ha approvato una risoluzione che chiede agli stati membri di
imporre un embargo sulla fornitura di armi a Riad, dopo l’omicidio del
giornalista Jamal Khashoggi (un critico dell’intervento saudita in Yemen). La
risoluzione comunitaria non è però vincolante, probabilmente perché Francia e
soprattutto la Gran Bretagna sono importanti fornitori d’armi di Riad. Proprio
come gli Stati Uniti, di gran lunga in testa nelle vendite all’Arabia Saudita (fonte: Sipri).

Nessun conflitto meriterebbe
indifferenza. Visto il coinvolgimento di molti paesi occidentali, la guerra
civile in Yemen la merita ancora meno. 

Paolo Moiola

L’assassinio del giornalista saudita

© al-Jazeera

L’affaire Jamal Khashoggi

Forse il coinvolgimento del principe ereditario non sarà mai provato.
Tuttavia, l’assassinio del dissidente ha messo in grande imbarazzo Riad. E il
presidente Trump.

Il 2 ottobre 2018 il giornalista
saudita Jamal Khashoggi entra nel consolato del suo paese a Istanbul per
sbrigare una questione burocratica relativa al matrimonio con la sua fidanzata
turca. Da quel momento si perdono le sue tracce. Qualche giorno dopo la sua
scomparsa si scopre che è stato ucciso da funzionari sauditi e – pare –
smembrato. Tutto sembra indicare Mohammed bin Salman (Mbs) come mandante
dell’omicidio.

Nato a Medina nel 1958, Khashoggi
era un giornalista moderato ma critico verso il proprio paese e in particolare
verso il principe ereditario Mbs, da molti (frettolosamente) eletto al ruolo di
riformatore della monarchia saudita. Costretto al silenzio, nel 2017 Khashoggi
aveva deciso di trasferirsi negli Stati Uniti, dove collaborava come
opinionista al Washington Post.

Qualsiasi sarà l’evoluzione della
vicenda (le accuse della Turchia, della Cia, del senato Usa, ecc.) per il
principe ereditario saudita non ci dovrebbero essere conseguenze. Lo si è visto
anche al summit del G20 di Buenos Aires, all’inizio di dicembre, quando Mbs?ha
stretto mani e dispensato sorrisi. L’assassinio di Khashoggi non potrà certo
fermare l’ascesa del giovane e ambizioso rampollo di re Salman.

Paolo Moiola

© al-Jazeera

I sette paesi islamici

La penisola dell’Arabia Saudita

Nella penisola arabica la Chiesa cattolica è presente con due Vicariati,
uno retto da mons. Camillo Ballin e uno da mons. Paul Hinder.

Vicariato Apostolico dell’Arabia Settentrionale:

Vicario:
 mons. Camillo Ballin

? Arabia Saudita:

monarchia assoluta, dal 1926 governata dalla famiglia al-Saud,
il paese più importante della penisola arabica è al centro dell’interesse
mondiale per le ricchezze petrolifere, le ambiguità sul terrorismo islamista e
l’alleanza con gli Stati Uniti. Da giugno 2017 è attraversata da faide
familiari a causa della nomina del giovane Muhammad bin Salman (Mbs) come
successore di re Salman. Attualmente capeggia la rivolta contro il Qatar e la
guerra in Yemen.

? Kuwait:

è una monarchia della famiglia al-Sabah; la maggioranza
della sua popolazione è immigrata. 

? Bahrein:

il piccolo arcipelago è una monarchia retta dalla famiglia
sunnita al-Khalifa. Da 2011 è teatro di proteste della maggioranza sciita, il
cui leader, lo sceicco Ali Salman, è in prigione, condannato a vita nel
novembre 2018.

? Qatar:

monarchia ereditaria della famiglia al-Thani, è una penisola
vasta quanto metà della Lombardia, paese ricchissimo e molto attivo sulla scena
internazionale (anche con il network mediatico al-Jazeera), dal giugno 2017
subisce l’embargo diplomatico ed economico da parte di Arabia Saudita, Emirati
Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto. Il 3 dicembre 2018 ha annunciato l’uscita
dall’Opec, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio di cui era membro
dal 1961.

Vicariato Apostolico dell’Arabia Meridionale:

Vicario:
mons. Paul Hinder

? Emirati Arabi:

è uno stato federale composto da 7
emirati; i 2 più importanti sono Abu Dhabi e Dubai.

? Oman:

con meno risorse petrolifere degli
altri (Yemen escluso) il sultanato dell’Oman è il più tranquillo tra i paesi
della penisola arabica; il sultano Qabus è al potere dal 1970.

? Yemen:

il paese più povero della regione
è in guerra dal settembre del 2014; si fronteggiano i ribelli conosciuti come
Huthi (musulmani sciiti legati all’Iran) e una coalizione islamista guidata
dall’Arabia Saudita.




Un’India per soli indù.

Il nazionalismo induista contro le minoranze

Dopo dieci anni dagli assalti anticristiani avvenuti nello stato di Orissa,
la situazione non è migliorata. Anzi. L’ideologia nazionalista indù, al potere
dal 2014, sembra voler soffiare sul fuoco. E le minoranze, non solo quella cristiana,
hanno sempre più paura.

Il 23
agosto del 2008, nello stato dell’Orissa, nell’India orientale, scoppiò la
peggiore persecuzione contro i cristiani della storia del paese. Sono passati
più di dieci anni da allora, eppure continua a essere forte la difficoltà
indiana di mantenere l’equilibrio tra il progresso, il particolarismo e i suoi
ideali di convivenza e nonviolenza.

In quei giorni di violenza che costrinsero alla fuga 50mila
individui e provocarono un centinaio di morti, la devastazione delle abitazioni
dei cristiani e dei loro luoghi di preghiera, l’esproprio delle loro terre e la
confisca dei loro beni dimostrarono che le forze di ispirazione religiosa induista,
connesse anche a interessi economici e di potere, erano in grado di operare
nell’impunità. Infatti, non solo mancò un’opera di prevenzione da parte delle
istituzioni, ma ci fu anche un intervento tardivo e parziale delle forze
dell’ordine per fermare le folle di indù che, in diversi casi, provenivano da
altri distretti e persino da altri stati dell’India.

(Photo by DESHAKALYAN CHOWDHURY / AFP)

Impunità e paura

Sul piano della giustizia, l’impunità su ampia scala ha segnato
finora le decine di processi avviati contro presunti esecutori e organizzatori
delle violenze del 2008. La propaganda induista descrive quegli eventi come
reazione spontanea all’uccisione del leader estremista indù Swami Laxmanananda
Saraswati, della quale peraltro si erano da subito dichiarati autori i
guerriglieri maoisti attivi nella regione.

Per gli avvocati e gli attivisti che ancora oggi si occupano di
sostenere le vittime, la maggioranza dei crimini non sarebbe registrata
correttamente dalla polizia e quelli già passati in giudicato si sono risolti
perlopiù in mancate condanne.

Il sistema di tribunali speciali che giudicano con rito abbreviato
ha registrato qualche successo, ma l’isolamento geografico della zona, il clima
di paura diffusa, le intimidazioni e minacce, le manifestazioni organizzate
addirittura all’esterno del tribunale, hanno spinto molti testimoni al silenzio
o a una verità parziale e a un basso profilo giudici e legali.

La situazione di rancori e di sospetto e il rischio sempre
presente di nuove violenze rendono l’impegno per la giustizia assai difficile.
D’altra parte, quando su dodici giudizi per omicidio, solo uno si è chiuso con
una condanna, pace e riconciliazione restano obiettivi lontani.

Vecchie e nuove logiche di sottomissione

Come sottolinea John Dayal, attivista cattolico tra i più accesi
nel contrastare l’offensiva dei radicali indù, «l’impegno settario degli
estremisti in Orissa è vecchio di quarant’anni, e il distretto di Kandhamal è
stato da loro scelto per il suo isolamento e per il significato che ha per la
popolazione cristiana.

Obiettivo immediato di quelle violenze era di estendere
l’esperienza di sottomissione del Kandhamal ad altri distretti, quello finale
di rimuovere ogni traccia del cristianesimo tra le comunità indigene per
poterle così del tutto asservire alle vecchie logiche castali e alle nuove
logiche del potere economico e politico».

Nonostante l’attenzione della comunità internazionale e della
Chiesa non siano mai mancate, nulla mostra, a distanza di dieci anni, che la
situazione si sia modificata, se non di facciata.

Ancor più dopo la vittoria dei nazionalisti induisti nel maggio
2014 sotto la guida di Narendra Modi, leader del Bharatitya Janata Party
(Bjp). I nuovi attori istituzionali hanno portato maggiore impunità per gli
estremisti e legittimazione ufficiale a iniziative come la riconversione
all’induismo, la proibizione della commercializzazione e del consumo di carne
bovina, il rafforzamento dei tradizionali consigli di villaggio e altro,
rafforzando il grande progetto di un’India per soli indù.

www.flickr.com/photos/adamcohn/45461015822/

Induità e discriminazioni

La dottrina dell’hinduttva (induità) è al centro degli
interessi e delle azioni della maggioranza politica che guida, da oltre quattro
anni, il governo centrale e sempre più stati e territori dell’immenso paese
asiatico, vasto dieci volte l’Italia e con una popolazione di 1,35 miliardi di
individui all’80 per cento di fede indù.

Dopo decenni di governo pressoché ininterrotto del Partito del
Congresso, ispirato dagli ideali indipendentisti e gandhiani, ora, il partito
confessionale filoinduista Bjp propone una cittadinanza piena ai soli indù,
lasciando alle altre comunità religiose la scelta tra conversione,
discriminazione ed esilio.

Difficile valutare i risultati delle campagne
di conversione che hanno interessato e ancora interessano milioni di indiani.
Per molti di essi si tratta di una «riconversione»: storicamente il
cristianesimo e, in misura minore, l’islam e il buddhismo, sono rifugio di indù
che sfuggono ai limiti e agli abusi del sistema castale, centrale
nell’induismo.

L’induizzazione procede erodendo la
consistenza delle fedi che nei secoli sono nate per scissione dall’induismo,
usando incentivi e pressioni per promuovere l’identità indù, mentre le leggi
anticonversione e la tolleranza verso i gruppi radicali e xenofobi che si
appoggiano all’induismo per ottenere benefici e potere, rendono difficoltose la
pratica e l’esistenza stessa sul territorio indiano delle religioni considerate
«straniere» come l’islam e il cristianesimo.

I discorsi d’odio dei leader

A confermare il ruolo della politica filoinduista in una
situazione di crescente tensione, ci sono i dati diffusi qualche mese fa da New
Delhi Television (Ndtv), dai quali emerge che i responsabili di «discorsi
d’odio» registrati dall’inizio della legislatura che si avvia al termine il
prossimo anno, sono stati per il 77 per cento esponenti del Bjp.

Nessun provvedimento è stato preso nei loro confronti. Ad esempio,
contro la ministra per le Industrie agroalimentari Niranjan Jyoti, già abituata
a proclami sopra le righe, che in una dichiarazione pubblica ha affermato che
gli indù sono da considerarsi discendenti del dio Rama, mentre gli altri –
musulmani, cristiani, sikh, jain, buddhisti, parsi, atei – sarebbero dei «bastardi».

Che dire poi di Yogi Adityanath, ora capo del governo nel più
popoloso stato indiano, l’Uttar Pradesh, secondo il quale per ciascuna donna
indiana sposata a un musulmano e convertita all’islam, gli indù dovrebbero
sposare con la forza cento donne musulmane e convertirle come ritorsione?

© Un photo / Mark Garten

Dal divieto di conversione alle «guerre delle mucche»

Preoccupa che questioni un tempo considerate anacronistiche e
innocue dalle stesse minoranze, siano oggi diventate strumenti di dominio
dell’induismo estremista.

L’accusa di proselitismo nei confronti dei cristiani ha alimentato
l’ondata di provvedimenti legislativi per proibire ogni iniziativa che
incentivi o forzi gli indù a un cambio di fede. Anche l’attività di sacerdoti,
religiosi, pastori nelle chiese è stata limitata fortemente, e addirittura nelle
scuole e nelle istituzioni socioassistenziali avviate o gestite da cristiani.

Pesa invece sui musulmani l’accusa induista di «jihad matrimoniale»,
ovvero di perseguire una strategia di matrimoni con donne indù al fine della
conversione e di avere una prole ampia allo scopo di arrivare al sorpasso
demografico dei musulmani sugli indù.

Soprattutto tra i musulmani si contano le vittime della «guerra
delle mucche» dichiarata dai leader indù contro chi macelli i bovini, animali
legati alla tradizione religiosa indù, ne utilizzi pelli e altre parti e ne
consumi le carni, attività appannaggio nei secoli di islamici, dalit e
cristiani.

Significative le esternazioni di Subramanian Swami, parlamentare
del Bjp, che lo scorso anno ha chiesto una legge per condannare a morte chi
uccida le mucche. Il tentativo non è andato in porto, ma questo non ha fermato
in diversi stati l’approvazione di provvedimenti che vietano la macellazione e
il trasporto di carni bovine. Non senza ricadute cruente, come dimostrano le
aggressioni di gruppo registrate, a volte i linciaggi di musulmani e dalit («esclusi»,
un tempo noti come «intoccabili») motivati dalla loro dipendenza dall’uso
commerciale e alimentare di questi animali.

© Deshakalyan Chowdhury / Afp

I dalit e le prossime elezioni

In questo quadriennio di controllo nazionalista sul paese e di
quasi annichilimento del Partito del Congresso, le violenze ispirate,
ammesse o non sanzionate degli estremisti sono state una realtà preoccupante
per le minoranze. «Siamo ormai al crollo dello stato di diritto. Ogni giorno i
mass media riportano notizie di atrocità compiute contro le minoranze
religiose, i dalit e i tribali», ha sottolineato Jignesh Mewani, leader dalit e
parlamentare nello stato del Gujarat, roccaforte di Narendra Modi.

Lo scorso aprile è stato segnato da scontri tra polizia e
manifestanti dalit: roghi, posti di blocco, coprifuoco, morti e feriti si sono
registrati in varie zone dell’India mettendo in rilievo il disagio profondo di
questi gruppi meno favoriti della comunità indù.

La loro rabbia si è espressa con la dichiarazione di un «Bharat
bandh» (blocco dell’India) dopo che la Corte suprema si era opposta all’arresto
di chi violi la legge vigente sulla tutela della loro dignità. Le tensioni
hanno coinvolto la maggior parte dei grandi stati settentrionali, incluso il
territorio della capitale, che ospitano la maggioranza dei 250 milioni di
dalit. La Legge sulla prevenzione delle atrocità verso le caste e tribù
registrate
è del 1989, e rappresenta uno dei paradossi dell’India odierna,
la cui Costituzione proibisce le caste, già vietate in precedenza dai
colonizzatori britannici.

Per certi aspetti, le tensioni della scorsa primavera hanno
anticipato alcuni temi della campagna elettorale verso il voto per il rinnovo
del parlamento nazionale del maggio 2019. L’opposizione guidata dal Partito
del Congresso
, infatti, ha sostenuto le proteste «di migliaia di fratelli e
sorelle dalit che chiedono la tutela dei loro diritti», mentre il governo
nazionalista, dal canto suo, ha chiesto, da un lato ai partiti di non accentuare
le tensioni sociali, e dall’altro alla Corte suprema di ripensare la sua
posizione. Riguardo a queste ultime, è difficile non rilevare il paradosso del
sostegno ai fuoricasta da parte di un governo che esprime l’ideologia che ha
nei secoli contribuito alla loro subordinazione.

Cristiani perseguitati

La comunità cristiana, che conta circa 30 milioni di fedeli (il
2,3 per cento degli indiani), è pure sotto attacco. Negli ultimi anni si sono
moltiplicati drammaticamente gli assalti a chiese, incontri di preghiera e
istituzioni culturali e caritative. Secondo segnalazioni di attivisti
cristiani, le autorità tendono a ignorare le denunce e a minimizzare i fatti e,
quando arrestano presunti colpevoli, li indicano nei rapporti come «individui
affetti da disturbi mentali».

A documentare questa situazione sono vari studi e rapporti. Tra i
più recenti quello della Commissione statunitense per la Libertà religiosa
internazionale
(Uscirf), che ha messo apertamente sotto accusa il governo
indiano per lo scarso impegno nel prevenire «una pressione diffusa contro le
minoranze religiose e contro i dalit che raggruppano fuoricasta, tribali e
aborigeni e che totalizzano il 20 per cento degli 1,35 miliardi di indiani».

Il rapporto ha registrato che «nel 2017 le condizioni della libertà
religiosa hanno visto proseguire la tendenza al peggioramento» e che «la realtà
di una società multiculturale e multireligiosa come quella indiana è minacciata
da una crescente concezione esclusivista di identità nazionale basata sulla religione».

A confermare un incremento della persecuzione ci sono anche dati
governativi diffusi a febbraio: 111 uccisi e almeno 2.398 feriti in 822 episodi
di violenza settaria nel 2017, contro 86 morti e 2.321 di 703 eventi nel 2016.

Stefano Vecchia




Il silenzio nella città:

un eremo nell’ex-carcere


Nel cuore di Torino c’è un eremo nato dentro l’ex carcere della città. Incontriamo l’uomo che l’ha fatto nascere, Juri Nervo, laico, operatore sociale nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri. Piccolo fratello secolare che abita la quotidianità e le povertà urbane partendo dalla sua relazione liberante con Dio.


Testo e foto di Luca Lorusso


«Non ho tempo. Le giornate volano e non riesco mai a fermarmi. Cerco di mettere ordine in casa, ma abbiamo troppi oggetti, sembra che si moltiplichino». A chi non succede di sentire dire o di pronunciare queste parole?

La vita quotidiana incalza, e il desiderio di fermarsi è messo da parte. Viviamo in una continua tensione tra opposti: da un lato andiamo di fretta, con superficialità, facciamo gesti automatici svuotati di senso, siamo immersi nel rumore, ci sentiamo soli; dall’altro sentiamo il richiamo della lentezza, della profondità, il desiderio di compiere gesti che nascano da un senso e si orientino a un senso, il bisogno di silenzio e di relazioni autentiche.

A dicembre, nel periodo natalizio, questa tensione cresce. Gli stimoli aumentano di numero, mentre il Natale richiama a un evento singolo, a una persona; cresce il pericolo del consumismo, degli acquisti compulsivi, mentre il richiamo dell’incarnazione è al gustare le cose e alla consapevolezza del dono; ci troviamo a planare su giornate costellate di cose da fare, mentre l’invito è a scendere in profondità; siamo spinti all’azione, mentre il richiamo è alla contemplazione; veniamo colpiti da bagliori intermittenti e violenti, mentre sentiamo di aver bisogno di luci tenui che non feriscano gli occhi.

Un eremo in città

Veniamo a scoprire che c’è un luogo a Torino che richiama al silenzio e alla profondità fin dal suo nome: l’Eremo del silenzio.

Un eremo in città. Subito pensiamo che l’idea ci piace: la città è un luogo dove si cercano relazioni ma si sperimenta la solitudine; in un eremo, all’opposto, si va in cerca di solitudine, e si fa esperienza di non essere soli.

Incuriositi, andiamo a bussare alla sua porta nella speranza di trovare qualche risposta alle tensioni di cui parlavamo sopra.

Arrivati in via Paolo Borsellino 3, siamo sorpresi dal luogo: ci troviamo nella zona centrale, a due passi dalla stazione di Porta Susa e dal palazzo di giustizia, di fronte al nuovissimo grattacielo di una nota banca. Ma, soprattutto, ci troviamo davanti al muro alto e scuro dell’ex carcere «Le nuove», fondato a metà Ottocento e attivo fino al 2001.

Accanto a un pesante portone carrabile c’è un portoncino verde, piccolo ma dall’aspetto altrettanto pesante. Un’insegna ci dice che siamo di fronte al museo del carcere di Torino.

L’unico indizio sull’Eremo sta nella scritta incollata sopra una delle due buche per le lettere a sinistra del portoncino.

Ad accoglierci viene Juri Nervo, l’uomo che ha dato vita nel 2011 all’Eremo del silenzio dentro la piccola palazzina interna al carcere dedicata alle donne terroriste: occhi vivaci dietro un paio di occhiali tondi dai colori brillanti, barba brizzolata più folta dei capelli, indossa un giubbotto sportivo sopra un maglioncino grigio. All’anulare sinistro porta la fede nuziale. Si definisce un «ricercatore», un cercatore di silenzio, ma anche un cercatore di pratiche sociali, d’iniziative di aiuto nei confronti di persone in difficoltà: a scuola, in carcere, in ospedale.

Il luogo

Oltrepassato il portoncino del muro perimetrale, ci troviamo di fronte a un altro portone nel secondo muro che circonda tutte le strutture dell’ex carcere. La vista è piuttosto desolante: muri spessi e alti, macchiati dall’umidità e dallo smog, con pezzi d’intonaco staccati, tubi che scorrono lungo le pareti. In più oggi è una giornata senza sole.

Più avanti, attraversando un cortile, un’altra porta conduce dentro la struttura. Alla sua destra, alcuni finestroni lasciano intravedere l’ambiente nel quale le persone recluse ricevevano le visite dei famigliari. Ora è la biglietteria del museo: un muretto di circa un metro di altezza con lastre di vetro di 30-40 cm sulla sua sommità separa la stanza in due. Di qua sedevano i famigliari su delle specie di panche in muratura, di là i detenuti. Oggi, negli orari di apertura del museo, di là c’è il bigliettaio, di qua le persone, spesso studenti accompagnati dai loro insegnanti, che vogliono visitare il carcere.

Juri è attivo sia nel mondo carcerario che in quello della scuola. Ed è stato proprio grazie alle visite al museo delle classi accompagnate da lui che un giorno, otto anni fa, ha scoperto, nella sezione femminile, un piccolo ambiente abbandonato. Lì avrebbe fatto sorgere l’Eremo.

«Ero arrivato in anticipo. Conoscevo da tempo il direttore del museo del carcere, quindi mi sentivo libero di girare nella struttura. Mentre aspettavo che arrivasse la classe che dovevo accompagnare, ho scoperto questa palazzina abbandonata». Attraverso qualche corridoio e diverse porte, Juri ci ha condotti in un piccolo cortile con un po’ di orto, di prato e qualche pianta. Indica di lato, a sinistra, una piccola struttura di due piani. «Negli anni Settanta c’era bisogno di posto per le detenute terroriste, e allora hanno costruito questo fabbricato. Era il loro 41bis. Quando l’ho scoperto, era in condizioni di completo abbandono. Era da un po’ che riflettevo su un luogo nel quale potermi “ritirare”, allora ho parlato con il direttore del museo che mi ha concesso l’utilizzo di quegli spazi, e di lì a poco ho iniziato a venire per risistemarli. Non c’era riscaldamento, luce e nemmeno acqua. Il tetto era bucato e pioveva dentro. Un po’ per volta, con tanto lavoro manuale, sono riuscito a risistemare tutto. Sono stato spesso aiutato da amici e volontari. Molte volte venivo da solo».

Sarà per il tau presente nel logo dell’Eremo, sarà per i quadri e le icone francescane appesi ai muri, ma questo racconto di Juri ci fa pensare a san Francesco che ristruttura la piccola chiesa di san Damiano.

Le celle

Quando entriamo nell’Eremo ci sembra di entrare in un piccolo palazzo di edilizia popolare: oltre il portoncino ci si trova di fronte a una scala che porta al primo piano. Del piano terreno vediamo solo un breve corridoio accanto alla scala che porta a una stanza dove Juri ci dice che stavano gli agenti. Ora fa da magazzino.

L’Eremo vero e proprio si trova al piano superiore: cinque celle che si affacciano su uno stretto corridoio. Tutto qui. Due celle usate come uffici: uno da Juri, uno da Matteo, l’amico e collaboratore con il quale ha fondato «Essere Umani Onlus», l’ente attraverso il quale lavorano nelle scuole, nelle carceri e ospedali. Una cella è stata trasformata in cappella, una in sala incontri e l’ultima in uno spazio da usare per scopi vari.

Sembrerebbe un posto come un altro se non fosse per le sbarre che chiudono (o aprono) ciascuno dei cinque ambienti.

Perché un eremo in città

L’Eremo del silenzio è un luogo appartato ma aperto, difficile da trovare, ma accogliente: «Alla gente piace perché non è bello, perché qui senti più il calore umano che non il calore della struttura», dice Juri Nervo.

Tutti i giovedì dalle 19 alle 20,30 un gruppo di circa 20 persone si trova per pregare, riflettere, condividere. Una volta al mese la preghiera prende la forma di un’adorazione silenziosa. Anima degli incontri è lo stesso Juri accompagnato dal francescano padre Zeno.

Altra figura importante fino a qualche tempo fa è stata suor Silvia, domenicana di Betania la cui congregazione fu fondata da un sacerdote francese di metà Ottocento dopo aver predicato gli esercizi spirituali in un carcere ad alcune detenute. È stata lei a introdurre all’Eremo il giovedì di adorazione silenziosa.

Oltre alle persone che partecipano agli incontri comuni, diverse altre arrivano all’Eremo in orari e giorni diversi per fermarsi, entrare nella cella della preghiera e lì confrontarsi, ciascuna, con la propria cella, il proprio carcere personale di fronte a Dio.

«Le celle, che prima erano di segregazione obbligatoria, diventano celle di segregazione volontaria. Qui sta la follia», dice con risolutezza Juri. «Esci da casa, vieni qui, ti chiudi in un ex carcere perché vuoi trovare la libertà. Chi ti vede pensa che sei matto. Oppure si domanda se c’è una ragione che ancora non vede. Le suore di clausura fanno la stessa cosa. Nel carcere posso trovare la libertà? Secondo me sì, in tutte le carceri. Ad esempio, i genitori con un figlio disabile che vivono in modo sereno quello che ai nostri occhi è un carcere; oppure chi è malato: ad esempio Chiara Corbella (giovane donna malata di tumore che ha rifiutato le cure per portare a termine la gravidanza e morta un anno dopo il parto, ndr), in quello che noi vediamo come il suo carcere, ha trovato la libertà. Ci sono tante carceri che possono essere luoghi di libertà. Certo è che uno deve fare i conti con se stesso: le proprie ferite, lo sbagliare in continuazione e rialzarsi. Senza, ovviamente, arrivare a dire che il carcere, o la malattia, abbiano un senso». E chiosa: «Sapere che io ho un carcere, abitarlo, è già una cosa diversa dal dire “io non ho un carcere e non so dov’è”. No. L’invito è a iniziare a entrarci, a farci i conti. Sei già molto più libero».

Vivere l’eremo per vivere la città

La sfida rappresentata dall’Eremo del silenzio, per Juri, è quella di vivere la preghiera continua e il silenzio anche fuori dall’Eremo. «Anche quando sei nel mondo puoi vivere una dimensione di silenzio e di preghiera. Anche se non sei dentro un eremo», ci dice mentre ci sediamo uno di fronte all’altro attorno a un tavolino nel suo «ufficio». «Ecco che qui entra il discorso della preghiera del cuore del pellegrino russo, della preghiera silenziosa, del konboskini, il rosario ortodosso. Se sei sul pullman, preghi. Se sei all’ufficio postale e stai facendo la fila, hai due opzioni: o ti arrabbi perché l’impiegata è lenta, oppure vedi la fila come una benedizione perché ti stanno dando del tempo per pregare». Per Juri è così: l’Eremo è il luogo dove si ricarica al mattino e dove ritorna nel pomeriggio a ruminare tutto ciò che vive durante la giornata. Nel suo libro scritto a quattro mani con Chiara M., intitolato La cella e il silenzio, afferma: «Sono come un’ape che va in giro nel mondo, a prendere il polline per poi riportarlo nell’alveare e così trasformarlo». A voce aggiunge: «Al mattino esco da casa presto, vado a messa, vengo qui, prendo un caffè nel silenzio, mi organizzo la giornata, poi esco e vado a lavorare in giro, a seconda delle cose che ho da fare nella scuola, negli ospedali… e poi ritorno per ricaricarmi. È bello avere qui il mio ufficio e sapere che oltre il muro c’è la cappella. Ma questo significa che tutti devono avere un eremo? No, io sono convinto che l’eremo non deve essere per forza uno spazio fisico. Per me è un percorso di santità».

Carceri vere

Quando Juri esce dall’Eremo per il suo lavoro, va negli angoli più disparati di Torino: «La mia attività di lavoro coincide con l’attività di Essere Umani, la onlus che ha preso forma con Matteo che collaborava con me già quando io lavoravo in un altro ente». Juri, da sempre impegnato in ambito sociale, quando sentiva che l’organizzazione per la quale lavorava iniziava a stargli stretta si licenziava. L’ha fatto due volte, fino a creare la sua. «Il nome della onlus, Essere umani, ha a che fare con i ragionamenti che ci sono dietro: mi devo ricordare che ho a che fare con gli esseri umani e devo essere umano io stesso. Nelle scuole vado a parlare attraverso le campagne: ad esempio parlo di mediazione dei conflitti in risposta al problema del bullismo. Andiamo a parlare di carcere perché abbiamo l’esperienza del lavoro nelle carceri. Facciamo “didattica sociale”, cioè andiamo a parlare di quello che abbiamo vissuto in prima persona. Ad esempio, parliamo di carcere nelle scuole perché tutti e cinque gli operatori di Essere Umani hanno vissuto e vivono il carcere. Da poco parliamo anche di ospedale: da quando è nato con il Cottolengo un tavolo di lavoro per costruire un percorso di accompagnamento delle persone malate e delle loro famiglie. Siamo partiti con la nostra presenza nel reparto di oncologia dove seguiamo le donne che vengono raggiunte dalla diagnosi di cancro e le loro famiglie, fino a dopo l’operazione. Nel frattempo siamo presenti anche in altri due reparti di lunga degenza fornendo relazioni d’aiuto».

Le carceri sono l’ambito storico di impegno di Juri: «La onlus è giovane, ma l’équipe è vecchia. Matteo lavora con me da 10 anni. Io lavoro al Ferrante Aporti (carcere minorile di Torino, nda) da 18 anni. Inizialmente andavo per proporre attività sportive, poi con il tempo abbiamo iniziato a fare altro, ad esempio lavoriamo con i ragazzi reclusi per i servizi alla struttura, le pulizie interne, la lavanderia, abbiamo fatto un laboratorio sul miele, facciamo accompagnamento allo studio. Nel frattempo, ragioniamo molto se cambiare delle cose, se sviluppare nuovi progetti, nuovi approcci. L’esperienza educativa nella lavanderia funziona così: un operatore sta con un ragazzo per tre ore, tre volte alla settimana. Nove ore alla settimana in un rapporto individuale. Anche il progetto del miele era pensato uno a uno: apicoltore-ragazzo, così anche il sostegno allo studio. Questi però sono progetti complicati da portare avanti, perché nel carcere non ci sono soldi».

Dio abita la quotidianità

Nella ricerca di una dimensione più umana, più profonda, più essenziale del Natale, ci pare che l’Eremo del silenzio, con il suo essere dentro la città, possa forse dirci qualcosa: è un luogo di silenzio immerso nel cuore del baccano quotidiano. La quotidianità qui non è rifiutata o fuggita, ma accolta e abitata attraverso il silenzio che apre la strada a un livello più profondo. Sembra evocare in qualche modo l’incarnazione: l’umanità contraddittoria e dispersa, la città confusa, diviene dimora di Dio.

Così come l’eremitaggio urbano – ci pare di capire – non è il rifiuto dell’urbanità, ma il tentativo di viverla riempiendola di senso, così l’essenzialità del Natale, forse, non sta nel rifiuto superficiale di fare o ricevere regali, di partecipare a banchetti e feste, ma nel vivere tutto questo partendo dal suo senso profondo, compreso nel silenzio, nell’ascolto, nell’accoglienza. Lì si può capire anche quali sono le cose davvero superflue da abbandonare.

Questo eremo sembra evocare l’incarnazione anche per il luogo in cui è sorto. Dio s’incarna, nasce dentro la condizione di uomo, per liberare ogni persona che si trova ristretta in prigioni di ogni tipo.

Chiediamo a Juri un commento sul Natale: «Quando arriva il Natale, con il presepe, il silenzio, la culla, l’asinello, il bue, siamo tutti lì che ci gongoliamo, ma poi facciamo “punto e a capo”, e partiamo con “che cosa regaliamo a tua madre? Che cosa facciamo per i miei genitori? E per i bambini? E per l’amico?”. Io penso che dobbiamo cercare il modo di fare del Natale un momento di vero silenzio. Silenzio personale. Se ci si riesce, è un silenzio che inquieta. Quando tu entri in questo eremo, ed entri in un’ex cella – che rappresenta la tua cella personale, ed è come una “pseudo mangiatornia” -, quando vieni, ti prendi il tempo, stai lì chiuso e stai in silenzio, lì iniziano i problemi, l’incontro con te stesso, cominci a sentirti, con tutti i tuoi pasticci, i pensieri, i problemi… dopo un po’ di decantazione, inizi a capire dove ti trovi, e poi avviene il tuo incontro con Lui.

Il presepe lo vedi quando riesci finalmente a far tacere tutto. La libertà dell’eremita passa dal fare i conti con se stesso. Il Natale dovrebbe essere anche questo: fermarsi realmente, fermarsi per ripartire. Il Natale è l’evento scatenante che rigenera, e non è un caso se nella liturgia c’è tutti gli anni. Perché noi abbiamo bisogno tutti gli anni di ricordarci chi siamo e da dove veniamo e soprattutto cosa abbiamo scelto: Gesù».

Luca Lorusso