Esplorare lo spazio è uno spreco?

Testo di Piergiogio Pescali


Sono passati 50 anni (1969-2019) dall’arrivo del primo uomo sulla Luna. In questi decenni la «corsa allo spazio» è cambiata e si è allargata ad altri attori. La domanda però è sempre la stessa: è giusto spendere miliardi di dollari per esplorare lo spazio quando l’uomo non ha ancora risolto i problemi di sopravvivenza e convivenza sulla Terra? Con questa inchiesta cercheremo di fornire ai nostri lettori gli elementi conoscitivi per arrivare a una risposta.

ll cinquantesimo anniversario dello sbarco dell’uomo sulla Luna è stato salutato con numerose commemorazioni e non solo da parte di istituzioni governative e scientifiche. Accanto a queste, però, si è nuovamente levato un interrogativo che, sin dagli anni Sessanta, ha stimolato un dibattito destinato ancora oggi a rimanere senza risposta: è giusto spendere miliardi di dollari per esplorare lo spazio quando l’uomo non ha ancora risolto i problemi di convivenza civile sulla Terra?

La domanda, chiara e diretta, non può avere un riscontro altrettanto univoco per il semplice motivo che si sta parlando di due attività e argomenti ben distinti e separati. È però possibile, proprio partendo dalla polemica innescata dai movimenti di contestazione, intersecare e spiegare che spendere una tal quantità di denaro, alla fine porta beneficio all’intera umanità, compresi quei paesi e quei popoli che, nel contesto della Guerra fredda, venivano chiamati Terzo e Quarto Mondo.

© ESA-NASA-2016

Dallo spazio, tanti vantaggi quotidiani

I viaggi nello spazio non ci hanno portato solo conoscenze più approfondite sull’Universo e nuove risposte sul nostro passato e sul nostro possibile futuro. A parte la famosa foto della Terra che sorge dalla Luna ripresa dall’Apollo 8 il 24 dicembre 1968, considerata dalla rivista Life come una delle fotografie ambientaliste più influenti della storia dell’umanità, sono moltissimi i vantaggi che quotidianamente, senza che neppure ce ne accorgiamo, abbiamo dalla ricerca spaziale: dall’abbigliamento per proteggerci dalle temperature calde e fredde, ai Gps, dagli smartphone alle lenti antigraffio.

Altrettanto importanti a livello globale sono le riprese fotografiche e video che ci pervengono costantemente dalle centinaia di satelliti che orbitano attorno al nostro pianeta. Sono immagini che aiutano a prevedere e a monitorare disastri causati dalla natura e dall’uomo aiutando una più efficiente attività di soccorso e di protezione. È accaduto nei terremoti di Haiti, nel disastro di Fukushima, negli incendi delle foreste in varie parti del mondo, nelle alluvioni.

Sono le informazioni che ci provengono dallo spazio a darci quotidianamente lo stato della condizione ambientale della Terra. Pensiamo ad esempio ai dati che vengono forniti dagli istituti di ricerca sui cambiamenti climatici e le loro conseguenze: in condizioni normali sarebbero solo semplici numeri di difficile comprensione per chi non abbia dimestichezza con essi o con la statistica. Le riprese inviateci dai satelliti trasformano questi numeri in realtà visive rendendo più fruibile e immediata la visione globale del disastro climatico a cui stiamo andando incontro. Non solo, ma grazie alle immagini all’infrarosso dei satelliti è stato possibile trovare falde acquifere sotterranee in regioni aride del Sudan, in Kenya e Afghanistan avviando programmi agricoli che oggi sostengono migliaia di famiglie.

La ricerca spaziale è stata determinante anche nello sviluppo medico: la sterilizzazione delle camere operatorie, la risonanza magnetica, le protesi o la microchirurgia per operare piccole parti di organi umani sono tutte tecniche sviluppate grazie all’esplorazione dello spazio.

Secondo uno studio della Nasa (National aeronautics and space administration), l’implementazione tecnologica dei risultati delle ricerche spaziali limitati al solo ente statunitense, dal 2000 ad oggi avrebbe creato direttamente 19mila nuovi posti di lavoro, profitti per 5,2 miliardi di dollari, una riduzione di costi di gestione per 18,6 miliardi e salvato le vite a 450mila persone.

L’Esa (European space agency, Agenzia spaziale europea) invece, tra il 1995 e il 2016 avrebbe prodotto ricchezza per 14,6 miliardi di euro (contro un finanziamento di 8 miliardi). Oggi si calcola che ogni euro speso nella ricerca spaziale dall’Esa genererebbe 2,3 euro di profitto nell’economia europea.

 

© ESA-NASA-2017

Terzi incomodi spaziali: l’Italia e altre sorprese

Al tempo stesso, però, nel corso dei prossimi decenni, la corsa allo spazio rischia di diventare una nuova guerra commerciale riservata a quelle nazioni che oggi investono più risorse nel campo della ricerca.

Almeno fino alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, la corsa allo spazio è stata appannaggio di due sole nazioni: Stati Uniti e Unione Sovietica. Il crollo del Muro di Berlino, oltre a sovvertire il mondo economico, sociale e politico, ha cambiato anche le regole d’ingaggio della ricerca spaziale. La rivoluzione geografica ha ridisegnato i confini e alcune nazioni, come la Russia, hanno dovuto stipulare trattati con nuove entità politiche per continuare a lanciare i propri vettori nello spazio. Altri, come l’Agenzia spaziale europea, utilizzano da decenni dipartimenti d’oltremare, in questo caso la Guyana francese, in cui sin dagli anni Ottanta la Francia aveva costruito il proprio centro spaziale. L’Italia è sempre stata all’avanguardia nell’esplorazione spaziale: il nostro paese è stato il terzo al mondo, dopo Usa e Urss, a lanciare un satellite in orbita ed ancora oggi l’Università La Sapienza di Roma è proprietaria di una base di lancio (ancora potenzialmente operativa, ma inutilizzata dal 1988) e di un centro spaziale («Luigi Broglio») off shore al largo delle coste kenyote (Malindi).

Oggi sono più di settanta le nazioni i cui governi hanno istituito agenzie spaziali e tra queste troviamo paesi che mai ci aspetteremmo di elencare nella lista dei programmi dedicati allo spazio: Indonesia (dal 1964), Bangladesh (1980), Mongolia (1987), Nigeria (1988), Vietnam (2006), Venezuela (2008), Bolivia (2012) e altri ancora. Gli ultimi arrivati, in ordine di tempo, sono Arabia Saudita e Filippine, che nel 2019 hanno inaugurato istituti di ricerca spaziale nazionali. Alcuni stati comunemente annoverati tra quelli economicamente meno sviluppati hanno anche propri satelliti in orbita (Nord Corea, Filippine, Bolivia, Venezuela, Colombia, Vietnam, Nigeria, Marocco, Indonesia), mentre altri hanno già inviato astronauti su stazioni spaziali internazionali (Vietnam, Indonesia, India, Brasile, Messico).

La rivoluzione spaziale è iniziata sin dagli anni Ottanta quando istituti universitari, sulla spinta del Programma sulle applicazioni spaziali lanciato dalle Nazioni Unite nel 1982, iniziarono dei corsi dedicati a studenti provenienti da paesi in via di sviluppo. Nigeria, Marocco, Turchia, Algeria, India furono i primi a rispondere, ma in breve numerose altre nazioni capirono quanto fosse importante partecipare con le proprie forze alla ricerca spaziale.

Insomma, lo spazio, pur essendo ancora un ambiente dominato dai pochi grandi giganti economici mondiali (Usa, Russia, Europa), è sempre meno monopolizzato da questi.

Galaxy-NGC-300- © NASA

La Cina sulla luna

È pur vero però che un conto è organizzare e allestire un’agenzia che collabora alla ricerca spaziale, un altro è partecipare attivamente ai programmi di colonizzazione e di sfruttamento dello spazio.

Nel dicembre 2013 ha fatto scalpore l’invio del lander cinese Chang’e 3 sulla superficie lunare, in quanto era la prima volta che un oggetto terrestre che non fosse statunitense o russo atterrava sul nostro satellite rimanendo operativo (il 14 novembre 2008 l’India era stata la prima nazione dopo Usa e Russia a inviare un manufatto sulla luna facendolo intenzionalmente impattare al suolo confermando la presenza di acqua rivelata nel 1976 dai sovietici).

In altri contesti l’avvenimento cinese avrebbe avuto ben altra risonanza, ma il fatto che una potenza emergente considerata – a torto o a ragione – fautrice di un’economia anarchica, aggressiva e sprezzante di ogni regola che tuteli i diritti dei lavoratori, avesse raggiunto la capacità di deporre un lander e un rover sulla superficie lunare, destò più preoccupazione che ammirazione.

Nonostante Washington e Mosca avessero da tempo pensato di trarre profitto dallo sfruttamento di oggetti celesti, la presenza di un terzo incomodo come la Cina avviò una serie di speculazioni sulla colonizzazione dello spazio e dell’Universo più in generale che attecchirono profondamente sviluppando una serie di dibattiti.

© NASA-Bill-Ingalls

Corsa alla colonizzazione

Esistono diversi trattati internazionali, stipulati tra il 1967 e il 2000, che regolano lo sfruttamento delle risorse naturali situate nello spazio. In questi si vieta ai singoli stati o enti privati di prendere possesso di qualsiasi corpo celeste, di installare impianti nucleari o di distruzione di massa. Con l’intensificarsi delle esplorazioni spaziali e l’aumento delle agenzie private inserite nel contesto (noi conosciamo principalmente la SpaceX di Elon Musk, ma ve ne sono circa altre trecento che operano nello stesso campo), in un prossimo futuro si renderà necessario approntare una legislazione più stringente. La geopolitica e le relazioni internazionali avranno sempre più a che fare con materie spaziali.

Ecco quindi che, mentre enti governativi come la Nasa e le altre undici agenzie spaziali statunitensi sono incoraggiate a sviluppare tecnologie che permettano loro di divincolarsi dai sovvenzionamenti pubblici, la spesa della ricerca spaziale nei paesi in via di sviluppo è più che raddoppiata tra il 2000 e il 2012, passando da 35 a 73 miliardi di dollari.

La corsa allo sfruttamento dello spazio è iniziata e promette di essere feroce quanto lo è stata quella dell’accaparramento delle risorse sulla Terra. La Nasa stima che solo i 9mila  asteroidi che orbitano attorno alla Terra, potrebbero fruttare ciascuno tra uno e mille miliardi di dollari; la Luna è ricca di elio-3, isotopo che diverrà importantissimo quando, tra qualche decennio, sarà possibile ottenere la fusione nucleare considerata la risorsa energetica del futuro e in cui molti paesi stanno investendo sempre più risorse, mentre la corsa a Marte è sempre più affollata di contendenti che giocano anche sul low-cost con l’India che fa da capofila. La missione «Mars Orbiter Mission» dell’Isro (l’agenzia spaziale indiana) che è entrata nell’orbita di Marte nel settembre 2014 è costata solo 73 milioni di dollari, ma – come ha candidamente confermato lo stesso presidente dell’ente -, il risparmio è stato ottenuto con lunghi ed estenuanti orari di lavoro, una forte diminuzione di test a terra e tagli tecnologici. Se questa è la via che vogliono intraprendere i nuovi arrivati sarà molto difficile che possano competere con la sofisticata tecnologia, i livelli di sicurezza e i diritti dei lavoratori autoimpostisi da agenzie storiche come la Nasa e l’Esa o la stessa Roscosmos (l’agenzia spaziale russa).

Per competere economicamente con la nascente industria spaziale dei paesi emergenti, nel 2015 l’amministrazione Obama ha aggiornato lo Space Act per aumentare la competitività dello sfruttamento delle risorse spaziali (incluse acqua e minerali) anche nel settore privato, concedendo alle aziende il diritto di uso e utilizzo di pianeti e asteroidi.

Naturalmente la decisione del governo statunitense è stata oggetto di discussioni e di scontri a livello internazionale in quanto violerebbe il Trattato sullo spazio extra-atmosferico stipulato nel 1967. Questo accordo, accettato da 129 paesi, stabilisce che nessuno stato può arrogarsi il diritto di rivendicare sovranità e risorse di alcun corpo celeste; al tempo stesso, però, non proibisce ad alcuno di poter sfruttare in modo temporaneo le stesse. Il risultato è un elastico legislativo che può essere manipolato dalle nazioni e dai singoli attori privati a proprio piacimento. Basta che nessuno pianti una bandiera o un logo su un oggetto spaziale affermando di possederlo e il gioco è fatto.

La confusione delle leggi sulla colonizzazione umana dello spazio è ben esemplificata dagli impressionanti numeri di oggetti che circolano sulle nostre teste: attorno al nostro pianeta ruotano circa 128 milioni di detriti spaziali più piccoli di 1 centimetro, 900mila oggetti grandi tra 1 e 10 centimetri e 34mila oggetti maggiori di 10 centimetri.

Dallo Sputnik al Voyager

Dal 4 ottobre 1957 quando l’Urss lanciò il primo satellite artificiale – si chiamava Sputnik 1 – attorno all’orbita terrestre, l’uomo ne ha fatta di strada. Oggi la sonda lanciata dall’uomo più distante dalla Terra (Voyager 1) ha raggiunto lo spazio interstellare a 22 miliardi di chilometri dal Sole. Proprio questa sonda nel 1990 e a sei miliardi di chilometri dalla Terra scattò un’altra memorabile fotografia che è passata alla storia con il titolo datole da Carl Sagan di «Pale blue dot», pallido puntino azzurro. A molti quest’immagine non dirà molto: la Terra è un puntino di 0,12 pixel dispersa in una delle bande colorate dovute alla rifrazione della luce sulla lente della macchina fotografica. Ma proprio questa sua insignificante presenza ci permette di comprendere quanto sia delicato il nostro mondo. Quel Pale blue dot, quel pallido punto blu visto dalla periferia del nostro sistema solare a 22 miliardi di chilometri dal Sole, risulta ancora più irrilevante se rapportato all’intero Universo il cui diametro osservabile è pari a circa 8,8×1023 chilometri (880mila miliardi di miliardi di chilometri).

Su quel minuscolo, microscopico puntino disperso e sospeso nello spazio quasi otto miliardi di persone devono convivere assieme ad altre centinaia di specie vegetali e animali. Come disse Sagan, commentando quel Pale blue dot: «Non c’è nessun altro posto, per lo meno nel futuro prossimo, dove la nostra specie possa migrare (…). Vi piaccia o meno, per il momento la Terra è il luogo dove ci giochiamo le nostre carte».

È tutta nostra convenienza trattarla bene.

Piergiorgio Pescali
(prima parte – continua)




Calcio giovanile: spaccato di vita

Tdsto e foto di Marco Bello


Lo sport è un passaggio importante nella vita di bambini e i giovani. In un’epoca in cui tecnologia digitale e videogiochi tendono a tenerli sempre più fermi e con poche relazioni «vere» tra di loro. Il movimento del calcio giovanile in particolare, maschile e femminile, vive un momento di espansione nel nostro paese. Tuttavia, i comportamenti di alcuni allenatori, dirigenti di società sportive, giovani calciatori, e, soprattutto, di molti genitori, rischiano di sporcare questo fenomeno importante per la crescita individuale.

Davide Nicola, già calciatore professionista e dal 2010 allenatore di serie A, ha al suo attivo molte vittorie. Non ultima il famoso gol con la maglia del Torino che riportò i granata nella serie maggiore alla fine della stagione 2005-2006. E poi la scommessa vinta come allenatore, nella stagione 2016-2017, di mantenere il Crotone in serie A. Per celebrare questa vittoria Nicola ha compiuto un viaggio in bici da Crotone a Vigone (To), la sua città, percorrendo oltre 1.300 km e passando quasi tutte le città in cui ha lavorato come calciatore o allenatore.

Lo sguardo magnetico, che porta quasi a soggezione, in contrasto con un approccio sempre accogliente verso l’altro, fanno di Davide Nicola una persona carismatica. Sempre attento alla formazione dei giovani, nel 2010 ha fondato una società di calcio giovanile, la Vicus 2010. Parla chiaro, con una voce profonda.

Davide, perché l’idea di co-fondare una società sportiva per il calcio giovanile?

«È stato in seguito a una richiesta del comune di Vigone, che aveva il progetto di riportare un settore giovanile del calcio in città, con l’obiettivo di offrire un servizio sociale in primis, e poi, dal momento che per me è un lavoro, dare un’impronta professionistica. L’idea era creare un settore giovanile che potesse contare su valori tecnici e umani. Insieme a mia moglie Laura Profumo e agli amici Carlo Bruno e Mauro Giaveno siamo partiti per scherzo 10 anni fa, e devo dire che ci siamo appassionati tutti a questa impresa. La mia storia personale parte da Vigone, sono arrivato al professionismo da un settore giovanile di questa città, e quindi, per me c’è anche una sorta di romanticismo».

Qual è l’importanza di uno sport di squadra nell’educazione dei bambini e degli adolescenti?

«Una delle chiavi con le quali ho accettato questo incarico, era di costruire qualcosa che potesse dare ai miei figli, perché essi sono in questo settore giovanile, e ad altri ragazzi, la possibilità di costituire una palestra formativa per la crescita individuale. L’idea è far capire che lo sport è una necessità, indipendentemente dal fatto che si faccia calcio o altro, perché al suo interno c’è lo spaccato della vita, tutto quello che è confronto, competizione sana, possibilità di stare in un ambiente sentendosi a proprio agio. Non quegli ambienti che diventano nocivi e poco propedeutici alla crescita, alla formazione tecnica e umana di una persona, ma un ambiente che concorra a dare quegli strumenti che serviranno poi per la vita. Da questa premessa abbiamo costituito i vari settori per la formazione, dividendoci i compiti. Io personalmente mi occupo di lavorare insieme ai tecnici, che abbiamo cercato di far crescere, permettendo loro di arrivare al patentino che riconosce loro la possibilità di lavorare con dei giovani, e li mette nella condizione di sapere con chi stanno lavorando e perché.

Il profilo umano diventa per noi fondamentale, cerchiamo cioè quella capacità che ha una persona di donare se stessa in funzione della crescita di un’altra persona. È chiaro che le ambizioni personali in questo contesto devono essere esclusivamente orientate alla formazione del giovane calciatore. Dal punto di vista tecnico la scelta dei formatori è basata sulla capacità di riconoscere i vari passaggi delle categorie. Perché per ogni età ci sono obiettivi tecnico-tattici di formazione, ma anche obiettivi psicologici. Un giovane calciatore di 6 anni non è un giovane calciatore di 14 e se questo non è riconosciuto dal formatore si rischia di fare qualche pasticcio».

Quali valori dovrebbe trasmettere l’allenatore-formatore?

«Sono innanzitutto valori legati a una crescita individuale, ovvero portare progressivamente il giovane alla consapevolezza per quanto riguarda fare il calcio. Indipendentemente dal fatto che un ragazzino possa avere più abilità o possibilità di arrivare a settori giovanili professionistici, piuttosto che un giovane si riscopra a 20-25 anni a giocare esclusivamente per piacere con gli amici, l’addestramento tecnico deve essere uguale.

Dal punto di vista tecnico-tattico la conoscenza di tutto ciò che serve per giocare a calcio, a partire dal dominio della palla, la consapevolezza degli spazi, dall’aspetto cognitivo di ciò che accade in una partita. Dal punto di vista della formazione umana, la capacità di riconoscere che uno sport di squadra ti permette di capire che cosa significa cooperare davvero con un compagno, al fine di raggiungere un obiettivo o un risultato comune. Ti permette di avere come banco di prova un ipotetico avversario, che cerca di impedirti di raggiungere i tuoi obiettivi. Tutto questo si deve trasformare nella consapevolezza del giocatore che deve sapere cosa fare in campo, e riconoscere le difficoltà che lo sport pone, nella capacità di non demordere mai, di continuare a perseverare anche quando non si riesce a raggiungere immediatamente qualcosa, perché non sempre si ottiene “tutto e subito”. Non ci sono scorciatoie, è un messaggio che deve essere chiaro. Il percorso di un giovane calciatore non bypassa tutto ciò che è l’aspetto formativo, bisogna conquistarsi tutto con grande fatica e dedizione.

Allo stesso tempo però c’è anche la consapevolezza che cooperando in un sistema sociale, io ho delle responsabilità e chi lavora o gioca con me ha delle responsabilità. Abbiamo dei diritti e dei doveri e tutto questo fa parte di quello che è lo spaccato della società».

In questi ultimi dieci anni, hai visto dei cambiamenti nei giovani, che oggi paiono sempre più legati agli strumenti elettronici e ai videogiochi, con il rischio di isolarsi?

«Nella storia dell’uomo c’è stata un’evoluzione della comunicazione, di noi stessi come persone, dovuta a molte conquiste, non solo individuali, ma della società. Inevitabilmente è cambiato anche il modo di comunicare con i nostri ragazzi. Io non so dire se l’utilizzo dei social e della tecnologia possa aver portato a un miglioramento o un peggioramento della persona, perché secondo me è presto per dirlo. Certo ha portato un cambiamento sia nelle relazioni, sia nella capacità che oggi abbiamo di avere a disposizione tutto e subito. Inoltre di sicuro arrivano molti più input rispetto a quelli che avevamo noi alla loro età. Bisognerebbe capire, attraverso la psicologia del comportamento e l’evoluzione dell’apprendimento, se effettivamente la tecnologia inibisca l’espressione e la creatività del percorso formativo dei ragazzi.

È fondamentale porsi delle domande: quanto sono utili questi strumenti, perché sono utili, come vanno usati? Non devono togliere al ragazzo la possibilità di esprimere le proprie emozioni, mettendoci la faccia, attraverso un continuo confronto con la persona che ha davanti. L’assenza di mimica facciale, della comunicazione non verbale, è una semplificazione, perché non gli fa provare delle emozioni, ma allo stesso tempo non impara a riconoscerle e a gestirle.

Un cambiamento che ho notato, è che oggi i nostri ragazzi sono molto indaffarati, hanno molte attività, ricevono e subiscono molti stimoli. Sicuramente l’evoluzione del nostro cervello non è stata così veloce come è stata quella della tecnologia, quindi c’è il rischio che loro si difendano da tutti gli input che ricevono. Mille attività che li fanno arrivare allo sport non sempre pronti a scaricare le loro energie e pulsioni giovanili sane. Questo perché si richiede loro molto impegno in tutte le direzioni».

Le derive del calcio giovanile, spesso create dai genitori, con i loro commenti e i loro litigi, con risvolti che scadono, oltre che nella maleducazione, talvolta nel razzismo. Può gettare del discredito sul calcio giovanile?

«Forse non basterebbe un’intera puntata di talk show su questo tema. Ci sono persone molto più competenti di me. Di sicuro la deriva del calcio giovanile è in evoluzione come tutto il resto. Noi purtroppo, come movimento, abbiamo dimostrato delle pecche, ma il movimento è costituto da persone, quindi i comportamenti dipendono dai singoli. La società sportiva, ha un impatto più importante rispetto a una singola persona, quindi quando passa un messaggio, riconosciuto negativo, che diventa un comportamento accettato, è molto difficile poi non solo discriminarlo, ma anche riuscire a cambiarlo. Perché allo stesso tempo tutti noi, tendiamo a costituire un gruppo, come la società, e quindi riconoscerci in esso, con tutti i messaggi che vengono passati. Ci sono state diverse manifestazioni in cui gli addetti ai lavori si sono fermati e hanno cercato di analizzare determinate tematiche. Ad esempio, è un errore che il calcio giovanile, a mio modo di vedere, sia paragonato al calcio degli adulti. Intanto è diverso lo sport calcio dallo sport come professionismo, perché quest’ultimo è sottoposto alle logiche economiche per cui diventa un lavoro, e in questo ci sono valori che talvolta sono in contrasto. Nel professionismo può capitare che si passi un messaggio legato al rispetto, al fair play riguardo all’avversario, ma poi in gioco ci sono degli interessi economici elevatissimi, e non sempre si è coerenti nel promuovere un valore e poi dimostrarlo nella realtà.

Invece quando si parla di calcio giovanile dovremmo mettere al centro del progetto i giovani, per cui non conta tanto la conquista di un risultato, che ci deve essere, ma di una crescita individuale. Non solo in funzione di un risultato che può essere fine a se stesso: posso vincere una partita ma magari non ho conquistato un miglioramento individuale. Per i ragazzi questo è determinante. Io non potrei allenare dei ragazzi adesso, perché la mia ambizione non è quella di raggiungere una certa crescita per i ragazzi, ma è legata ad altri obiettivi, come arrivare a una determinata vetta nella carriera, o rappresentare una maglia, o conquistare un risultato per dimostrare un percorso. Ma quando si lavora con i giovani, tutto questo è secondario, anzi probabilmente non esiste neanche, diventa prioritario e fondamentale concentrarsi sul ragazzo e porsi due domande: a che punto è come livello di conoscenza e dove lo voglio portare? E poi seguire insieme a lui un percorso. E la vittoria vera è il raggiungimento di questo obiettivo di crescita. Il risultato è poco importante. Anche se una delle difficoltà più grosse con i ragazzi è insegnare loro ad essere competitivi senza perdere di vista la soddisfazione, qualora non raggiungessero il risultato, di aver comunque raggiunto un buon livello di crescita».

La società sportiva deve farsi vedere garante di certi valori, rispetto al pubblico?

«Sì, questa dovrebbe essere l’idea e molti operano in questo senso, però il mondo in cui viviamo è tale per cui spesso abbiamo comportamenti diversi. Siano essi i comportamenti di alcuni genitori, che dovrebbero avere chiaro qual è il percorso per i loro ragazzi, sia esso il comportamento di certi allenatori, dirigenti o società sportive. È utopia pensare che si arriverà a mettere al centro del progetto la crescita individuale di ogni singolo giocatore? A me vengono in mente diversi esempi di comportamenti eccessivi in partite del settore giovanile locale, per le quali non ci sarebbe da scaldarsi tanto, eppure è come noi scimmiottassimo quello che ci sta sopra, a certi livelli e lo volessimo portare nel mondo dei giovani. Quando poi, se guardi una partita di calcio di piccolissimi, se non ci fosse l’arbitro, non ci fossero i genitori, o qualcuno che li addestri a comportarsi con una certa malizia, loro non ci arriverebbero neanche. Penserebbero esclusivamente al piacere del gioco e a manifestare se stessi, in un ambiente che forse, senza presunzione, allora sì che sarebbe sano».

A un giovane o una giovane che avesse l’ambizione di diventare professionista cosa diresti?

«Intanto quando parliamo di movimento calcistico parliamo di persone, senza differenza di sesso. Direi che per prima cosa tutto parte da una passione. Non posso dare un consiglio, posso raccontare la mia storia. Io ho iniziato a giocare a calcio per una passione incredibile. Ma quando mi scopro a parlare di passione con i nostri ragazzi, mi rendo conto che se per noi è un concetto quasi immediato, con loro bisogna avere la capacità di descrivergli, anche con poche parole, cosa voglia dire. Io utilizzo un esempio semplicissimo: avete presente quando una persona fa tutti i giorni la stessa cosa e continua a farla e non si accorge del tempo che passa? Magari un’altra persona la guarda e vede che fa sempre la stessa cosa. Quella è passione, qualcosa di cui non puoi fare a meno, che non ti pesa il tempo che passi a farla. Che ti risveglia dentro sempre nuove curiosità e nuovi modi di approcciarla. E non ti pesa perché ti soddisfa, ti gratifica. La passione deve essere il primo motore che spinge il sogno di un bambino. Dopo di che non dovremmo partire dall’idea voglio diventare calciatore, questo è un prodotto della società, ovvero inculcare al bambino la possibilità di diventare calciatore perché il calciatore è in vista, ha buoni guadagni, fa una bella vita. Non è così. È molto difficile che uno possa arrivare a fare questa professione. Bisogna essere molto chiari, obiettivi. Fare capire che una potenziale professione nasce da una  passione, ma anche da un percorso molto duro e non ci sono scorciatoie. Un percorso, e lo sport lo insegna bene, che ti dimostra che tante volte, nonostante tu ti sia impegnato allo spasimo, non puoi raggiungere quello che vuoi. Così come nella vita, non tutto quello che voglio fare riesco a raggiungerlo, però ho imparato a farlo e, nel percorso che ho fatto, ho appreso determinate cose, ho formato la mia personalità, ho migliorato determinate competenze, e poi il corso della vita e la mia idea mi porteranno a scoprire piano piano quello per cui sono nato».

Marco Bello


Il libro su un campione di football (e di umanità) che non si può dimenticare

Il Mozart del calcio

Un’opera prima di un appassionato di calcio, che ci porta in Austria, tra le ceneri della prima Guerra Mondiale e il Nazismo. E ci fa scoprire un eroe, grande calciatore europeo e antinazista, Matthias Sindelar. Sarebbe utile conoscerlo di più, anche per i nostri ragazzi.

È una storia d’altri tempi, intrisa di romanticismo, ma anche di realtà storiche, quella raccontata da Danilo Careglio nel suo primo romanzo «Cartavelina». Una storia dimenticata, quella di Matthias Sindelar, un grande campione del calcio, cresciuta tra le due guerre e finita con il nazismo. Sindelar, che non si volle piegare ai diktat del regime (non fece il gesto nazista a fine partita e si rifiutò di giocare nella nazionale tedesca che aveva assorbito quella austriaca), divenuto personaggio scomodo, morì in circostanze mai chiarite il 23 gennaio del ’39 poco prima di compiere il suo 36esimo anno di età.

Careglio, classe 1970, appassionato di calcio fino al midollo, è stato calciatore per vent’anni, toccando il culmine nelle giovanili del Torino. Nel 2000 ha dovuto smettere a causa di un infortunio ed è poi diventato allenatore nel settore giovanile e di prime squadre. Secondo lui Matthias Sindelar è stato «uno dei più grandi giocatori di football di tutti i tempi». «Quando ho scoperto la sua storia, ho anche visto che poco era stato scritto e detto su di lui. Così ho pensato che sarebbe stato importante colmare questo vuoto e ho iniziato a cimentarmi nel recupero di documentazione».

Sindelar, di umili origini ceche era emigrato con la famiglia a Vienna, dove viveva in un quartiere degradato. Qui è stato scoperto dalla squadra dell’Hertha Vienna, che costituiva anche buona parte della nazionale austriaca. Il suo aspetto esile ne faceva un attaccante rapido e imprevedibile, e molti dei suoi gol sono stati dei capolavori. Fu soprannominato «Papierene», cartavelina, ma anche «Il Mozart del calcio». Anche il profilo umano che viene fuori dal romanzo è quello di una persona molto equilibrata, umile e altruista, che ha saputo gestire la consapevolezza di essere un grande campione (cosa oggi assai rara). Un uomo con principi e valori non negoziabili che, per questo, si scontrerà con il nazismo e, nonostante la sua notorietà, troverà la sua fine.

Il libro di Careglio è ben scritto, avvincente nella descrizione della vita del tempo e del contesto storico, ma soprattutto racconta la storia di un eroe dimenticato del calcio europeo.

Ma.Bel.


• Cartavelina, La storia di un grande calciatore austriaco finita col Nazismo, Neos Edizioni, 2019, €16,90.




Hawassa: Un lago di plastica

Testo di Paola Strocchio – foto di  Alessandro Lercara |


Un’esperienza positiva di lotta per la tutela dell’ambiente

È un lago tra i più belli dell’Africa, ma si sta riempiendo di bottiglie usate. Gli ippopotami le schivano e i pesci ne mangiano i frammenti. Poi gli uomini si nutrono di quei pesci. Ma una Ong italiana ha pensato a un sistema per salvare questo angolo di mondo, creando pure lavoro.

I numeri parlano chiaro: ogni anno, otto milioni di tonnellate di plastica finiscono negli oceani. Di questi otto, quasi quattro e mezzo vanno a finire nel mare che circonda l’Africa. E la situazione non è certo più rosea sulla terraferma, al punto che il continente africano sta soffocando nella plastica. Una sorta di paradosso, ma solo in apparenza: perché la plastica, simbolo per antonomasia del consumismo dei paesi più ricchi, rischia di affossare paesi che invece si ritrovano tuttora a fare i conti con situazioni economiche instabili e difficili.

Come l’Etiopia, per esempio. Nel paese con la maggior crescita economica del mondo, in passato non è mai stata presa nemmeno in considerazione l’idea di attuare un piano per la gestione dei rifiuti, in particolare della plastica. Una situazione complessa, resa ancora più delicata da una crescita demografica importante e da un tanto recente quanto incontrollato sviluppo economico.

I numeri raccontano di una crescita vertiginosa dell’impiego del Pet, il polietilene tereftalato (utilizzato per le bottiglie di plastica, ndr): dal 2001 al 2010 si è registrato un aumento di bottiglie in plastica da un milione e duecentomila a qualcosa come 21 milioni. E le previsioni sono ancora più catastrofiche: dicono che si potrebbe arrivare, già alla fine del prossimo anno, a centinaia di milioni di bottigliette in distribuzione.

La soluzione? Il riciclo pare essere l’unica strada percorribile, anche se le difficoltà non mancano.

Ci prova una Ong torinese che da quasi quarant’anni è impegnata a trecentosessanta gradi nella difesa dei diritti dei bambini, il Cifa, che proprio in Etiopia sta portando avanti un progetto cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics) e, tra gli altri, dalla fondazione Otb (Only the brave, solo i coraggiosi). Nome omen, insomma, perché il progetto, che si chiama «100percentoplastica», ha obiettivi tanto ambiziosi quanto importanti: ripulire l’ambiente partendo proprio dalla plastica, una delle maggiori fonti di inquinamento a livello mondiale e anche locale.

Bottiglie nel lago

Nel Sud dell’Etiopia, nella zona di Hawassa (anche Auasa, ndr), città turistica famosa anche per il suo lago, fino a qualche tempo fa si assisteva a un fenomeno allarmante. In particolare durante la stagione delle piogge, dalle botole dei canali sotterranei presenti in città (immaginate tombini grandi il doppio di quelli che siamo abituati a vedere in Italia, ma privi di qualunque tipo di copertura), si alzavano vere e proprie montagne di bottiglie di plastica che venivano spinte dall’acqua diretta verso il lago. La penuria di acqua potabile, del resto, unita alla credenza difficile da estirpare secondo cui bere l’acqua potabile del rubinetto, può causare carie ai denti e altre malattie, ha spinto le persone a comprare acqua in bottiglie. Di plastica, appunto. E poco importa, a chi vive ad Hawassa e nei suoi dintorni, che negli ultimi anni sia stata cambiata la fonte dell’acquedotto e che quindi quell’acqua non sia più una minaccia reale, perché quella paura, quella che i denti possano diventare neri, è radicata più che mai.

«Non mi fido – ci racconta un uomo di circa cinquant’anni, Joseph, che su richiesta organizza tour turistici per chi vuole visitare l’Etiopia -. Mi hanno detto che hanno cambiato l’acqua, ma io non voglio perdere i miei denti. Mio padre, quando è morto, ne aveva soltanto quattro in bocca. Io morirò con i denti, perché bevo solo l’acqua delle bottigliette». Già, le bottigliette. Quelle stesse che, mancando un sistema di raccolta e riciclo, peggiorano un quadro già di per sé molto critico.

Intanto la natura chiede disperatamente aiuto: gli ippopotami si ritrovano loro malgrado a nuotare nel lago di Hawassa, uno degli angoli più suggestivi della zona, schivando bottiglie di plastica, giorno e notte. Immagini dolorose cui gli abitanti si sono abituati. I pesci, quegli stessi che vengono poi serviti nei ristoranti lungo il lago, si cibano anche di frammenti di plastica. E quella microplastica, dopo essere finita nell’apparato digerente dei pesci, è destinata al nostro, di stomaco. «Secondo me sono buoni lo stesso – continua Joseph -, nessuno è mai stato male a mangiare i pesci del lago».

Un progetto per salvare l’ambiente

Se è vero che le credenze e le tradizioni sono difficili da estirpare, è altrettanto vero che è urgente intervenire con un piano strutturato, per provare a contenere il problema. La strada intrapresa è quella di creare nuove figure professionali, che vengono chiamate «collector». È a loro che viene affidato il compito di raccogliere le bottiglie di plastica allo scopo di dare origine a un circolo virtuoso di riciclo e recupero.

Quelle bottiglie che sarebbero finite ammucchiate al ciglio della strada o nei fiumi e nel lago, finiscono invece in un impianto fuori città (centro di raccolta, ndr), dove vengono prima schiacciate e poi imballate. Calcolatrice alla mano, ogni bottiglia pesa indicativamente trenta grammi e in un giorno mediamente una tonnellata di bottiglie viene indirizzata in un altro centro che si trova nella capitale Addis Abeba. Si tratta di oltre 33mila pezzi. Arrivate in capitale, vengono poi trasformate in farina di pet, per rientrare nel ciclo industriale della plastica e produrre nuovi oggetti.

Insomma, un circolo virtuoso che è davvero in grado di cambiare la vita di tante persone, con ricadute positive anche sull’ambiente. E per chi ne è coinvolto il passo dall’arrancare in mezzo a una discarica comunale alla ricerca di qualcosa di vendibile o in qualche modo riciclabile, all’arrivare alla professione di raccoglitore ufficiale è relativamente breve.

«Ho capito che la plastica è pericolosa – racconta Barakat -. L’ho capito perché mi hanno spiegato che ha un tempo di deterioramento molto lungo, che rischia di creare problemi a tutti noi e anche all’ambiente. Ora, quando devo comprare un oggetto, mi fermo a pensare a quanto tempo lo dovrò usare. Se posso, cerco di fare una scelta consapevole. Soprattutto adesso che anche io faccio la collector e che la plastica la vedo da vicino. Vivo con mia madre e con le mie sorelle in un villaggio vicino ad Hawassa, e anche a loro sto spiegando che se non facciamo qualcosa rischiamo di affogare nella plastica. Grazie a questo lavoro riesco a guadagnare i soldi che mi servono per comprare i libri. Ho diciotto anni, e voglio tornare a studiare a scuola». Come Barakat, altre dieci donne sono state inserite nel progetto di riciclo e sono riuscite a conquistare una fetta di dignità: alcune di loro riescono addirittura a integrare il loro lavoro coltivando un piccolo orto e vendendone i prodotti. Altre allevano animali da cui riescono a ricavare cibo e latte, preziosi anche da rivendere.

I supereroi del riciclo

Oltre a operare sul campo, formando i collector, il progetto del Cifa, tramite i suoi operatori, sensibilizza gli studenti delle scuole, dove il terreno è più fertile. «Entriamo anche nelle scuole portando uno spettacolo teatrale che abbiamo studiato per sensibilizzare al rispetto dell’ambiente e all’importanza del riciclo – spiega Silvia Vanzetto, capoprogetto per il Cifa in Etiopia -. Anche le istituzioni hanno compreso l’importanza e l’utilità del progetto e lo hanno accolto con grande favore. Ci sostengono, e per noi è davvero molto importante».

All’interno del progetto le donne sono fondamentali. Proprio loro, spesso considerate a torto l’anello più debole della società, in particolare in Africa, hanno visto cambiare radicalmente la loro vita. C’è chi è riuscita a conquistarsi una fetta di autonomia, addirittura con la possibilità di pagare le spese scolastiche per i propri figli. E soprattutto c’è chi davvero sta comprendendo che ciascuno di noi, anche in minima parte, può dire la sua nella lotta all’inquinamento ambientale. Come Seren, che di mestiere fa la parrucchiera. «Consegno sempre la plastica ai collectors – ci spiega, orgogliosa -, e ho cambiato anche il mio stile di vita. Oltre a fare le treccioline alle donne del villaggio, da un po’ di tempo preparo anche la birra in casa. Riutilizzo le bottiglie il maggior numero possibile di volte, per non inquinare troppo. Quando non sono più adatte a contenere la birra, le consegno ai raccoglitori in modo che siano smaltite, e così riesco a dare una nuova vita alla plastica ancora prima di riciclarla».

E poi ci sono i «supereroi», quelli che raccolgono la plastica dalle strade e rendono l’Etiopia meno esposta al rischio soffocamento da plastica. Un ruolo fondamentale, il loro, che è diventato famoso anche grazie ai numerosi flash-mob che i ragazzi organizzano anche per strada. Le persone, incuriosite, si fermano, guardano e ascoltano. E spesso comprendono l’importanza del rispetto per l’ambiente, che è un patrimonio davvero universale e che merita tutte le tutele possibili.

Lo spettacolo di cui ci ha parlato Silvia racconta le minacce della plastica, anche impiegando maschere spaventose che volutamente incutono timore, ed è una rappresentazione di tutte le fasi del progetto. L’obiettivo è quello di raccontare la filiera e di invitare i ragazzi alla responsabilità dipingendo il collector come un supereroe che salva il paese dalla plastica. Gli spettatori sono soprattutto studenti e ragazzi, proprio come quelli che si trovano sul palco. Hanno tutti più o meno la stessa età, provengono da situazioni simili e riescono quindi a immedesimarsi e riconoscersi ancora di più nella rappresentazione. Ma il messaggio arriva anche agli adulti, come Seleme, il capitano della piccola flotta di battelli che navigano il lago di Hawassa, tra i più importanti della Rift Valley. «Dopo aver visto il flash-mob anti inquinamento degli studenti, sono rimasto molto colpito. Ora ho qualcosa a cui pensare stanotte». Non solo lui. Perché senza fare qualcosa di concreto la cultura del riciclo e della circolarità resterà un obiettivo mai raggiunto.

Paola Strocchio




Kirghizistan e Kazakistan: Una Chiesa «in germoglio»

Testo di suor Dalmazia Colombo – foto Missionarie della Consolata |


Il 2020 sarà un anno di grazia per le missionarie della Consolata perché si apriranno per loro gli immensi orizzonti dell’Asia centrale. Ben otto missionarie dall’Africa, dall’America e dall’Europa andranno a testimoniare il Vangelo in due paesi a maggioranza musulmana, il Kazakistan e il Kirghizistan, dove gli Ortodossi sono circa il 20% della popolazione e i Cattolici un’esigua minoranza.

Per quanto sembri scontato, il punto sta qui: noi siamo «per i non cristiani». Questo è il nostro carisma, il nostro dono specifico a tutta la Chiesa.

Quando il nostro Istituto fu fondato dal beato Giuseppe Allamano nel 1910, fu ai non cristiani africani che egli inviò le sue prime missionarie. Il gruppo, formato da tredici sorelle, partì per il Kenya nel 1913.

Al Kenya, nel corso degli anni si aggiunsero Tanzania, Etiopia, Somalia, Mozambico, Togo, Liberia, Guinea Bissau, Libia e Gibuti (dove siamo ancora oggi, eccetto Somalia e Togo).

Dopo la Seconda guerra mondiale l’Istituto si aprì all’America inviando missionarie in Brasile, Colombia, Argentina, Usa, Venezuela, Bolivia, paesi dove si continua a mantenere viva l’attenzione verso i non cristiani, presenti specialmente nelle periferie e fra le minoranze etniche, in zone povere e isolate.

In tutti questi paesi, le missionarie della Consolata, con le loro molteplici attività, hanno contribuito alla fondazione e/o al consolidamento delle Chiese locali, fino a sentire, in alcuni casi, esaurita la loro opera di prima evangelizzazione. Allora, è diventata prassi lasciare le parrocchie e le opere ben avviate ad altre forze apostoliche e spingersi verso nuovi orizzonti, finché, negli anni ‘90 lo sguardo ha cominciato a posarsi sull’Asia, il continente con la minore percentuale cristiana di tutto il mondo. Tale sguardo si è fermato allora sulla Mongolia.

La Mongolia

Il progetto di vita missionaria nella piccola porzione di Chiesa già presente in Mongolia (114 battezzati nel 2002, ndr) è stato elaborato in sintonia con gli elementi che i due istituti, i missionari e le missionarie della Consolata, hanno al centro del loro carisma: essere testimoni della presenza di Dio in mezzo ai poveri, divenire pellegrini che camminano con la gente, apprezzandone i valori, e dialogare con gli appartenenti alle grandi religioni.

I missionari e le missionarie della Consolata hanno raggiunto la Mongolia il 27 luglio 2003, stabilendosi nella capitale Ulaanbaatar, per imparare la lingua e penetrare nel tessuto sociale culturale e religioso del popolo, per conoscere la realtà e i bisogni della gente mediante la vicinanza, il dialogo e l’amicizia.

Il 19 settembre 2006 è stata aperta una nuova missione ad Arvaiheer, distante 420 chilometri dalla capitale. «Qui i missionari – racconta con emozione suor Gertrudes Vitorino, mozambicana, che faceva parte del gruppo – provarono l’emozione e la gioia di pronunciare il nome di Gesù e di annunciarlo in mezzo a un popolo, di religione buddista, che non aveva mai sentito parlare di Lui».

Oggi in Mongolia i cristiani sono quasi un migliaio e ad Arvaiheer si è formata una piccola comunità con 30 battezzati.

Se dai frutti si conosce la bontà dell’albero, viene spontaneo comparare lo stile di missione scelto in Mongolia a un albero buono, che ha dato frutti buoni: semplicità di vita e accoglienza, intensa preghiera, realizzazione di piccoli, ma significativi, progetti, come le docce calde pubbliche, la scuola materna informale, il doposcuola e il cammino di cura per alcolisti.

Nuove presenze in Asia

Nel 2011 la decima assemblea capitolare delle missionarie della Consolata – suprema autorità collegiale dell’Istituto -, che aveva come motto «Sospinte dallo Spirito consolatore», invitò tutte le missionarie a «lasciarsi sfidare da nuovi orizzonti missionari con lo zelo e la disponibilità delle prime sorelle». Dopo riflessioni e approfondimenti si arrivò alla decisione di studiare la possibilità di aprire nuove presenze in Asia tenendo conto di alcuni criteri:

  • L’Asia è il futuro della missione (Redemptoris Missio, N. 91).
  • Noi siamo per i non cristiani (Costituzioni MdC, art. 3).
  • La necessità di sostenere e rafforzare le poche presenze religiose in Asia.

Perché in Kirghizistan e in Kazakistan?

In fedeltà alla metodologia del fondatore, che inviò i suoi in Kenya dopo una lunga e accurata ricerca sulla possibilità di realizzare il fine dell’Istituto di «annunciare il Vangelo ai non cristiani», iniziò il cammino di raccolta di informazioni per capire dove si sarebbe potuta avviare una nostra nuova presenza in Asia.

Nelle ricerche vennero coinvolti mons. Savio Hon Thai Fai, segretario della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, e membri di altri istituti missionari già presenti in Asia.

Su consiglio di questi esperti, furono fatte ricerche in Cina, Indonesia, Bangladesh, Thailandia, Kazakistan, Kirghizistan. Nel corso del cammino, alla luce dei criteri che erano stati posti alla base della ricerca, la rosa dei paesi candidati andò assottigliandosi lasciando sul campo il Kazakistan e il Kirghizistan.

I viaggi di esplorazione

Due consigliere generali, suor Cecilia Pedroza e suor Lucia Bortolomasi, quest’ultima già missionaria in Mongolia, visitarono diverse volte le due ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Lì presero contatti con le autorità religiose e con alcuni gruppi di persone vicine alla piccola realtà di cattolici presenti in quei paesi, e valutarono che sarebbe stato possibile avviare nuove presenze secondo i criteri proposti dal Capitolo generale del 2011 e confermati nel Capitolo generale del 2017.

Filmati, power point, foto, relazioni sulle ricerche fatte furono presentati più volte a tutto l’Istituto rafforzando e confermando, da parte di tutte le missionarie, la bontà della scelta di avviare, entro il 2020, nuove presenze consolatine in Asia centrale.

Dove andremo?

Il 2 febbraio 2019 la direzione generale ha comunicato i nomi delle sorelle che partiranno nel 2020: quattro per il Kazakistan e quattro per il Kirghizistan. Sono le veterane Adriana Medina e Claudia Graciela dalla Colombia, Ivana Cavallo da Boves, Cuneo, Judith Kitoti dal Tanzania, Luisa Felipe Munguambe dal Mozambico, e le «esordienti» Adanech Mitiku Shawo dall’Etiopia, Hellen Njoki Waithera e Zippoorah Wanjiku Mwaniki dal Kenya.

L’11 marzo 2019, pochi giorni dopo l’incontro a Roma con mons. Josè Luis Mumbiela Sierra, vescovo di Almaty (Kazakistan), e padre Anthony Corcoran, gesuita e amministratore apostolico del Kirghizistan, in visita ad limina dal papa insieme ad altri otto vescovi e amministratori apostolici dell’Asia centrale, la direzione generale ha comunicato i luoghi nei quali si avvieranno le due comunità.

  • In Kazakistan, nella diocesi di Almaty, a Janashar, un paese a circa 40 chilometri dalla città più popolosa del paese, dove esiste una piccola comunità cristiana e la diocesi ha costruito la casa dove le missionarie potranno abitare, con l’aggiunta di alcuni locali per attività ancora da definire.
  • In Kirghizistan, nell’unica amministrazione apostolica, la comunità sarà a Dzalal Abad, una cittadina nella zona Sudoccidentale del paese, a 600 chilometri dalla capitale Biškek, ma relativamente vicina a Janashar.

Il 1° ottobre 2019, due delle sorelle partenti, Adriana Medina e Judith Kitoti, hanno ricevuto il mandato missionario da papa Francesco nella semplice cerimonia che ha segnato l’inizio del mese missionario speciale.

Si parte presto

Le nuove aperture sono ormai alle porte. La direzione generale, nella lettera che comunicava le ultime decisioni riguardo le aperture in Asia centrale, così concludeva: «Grazie a tutte voi sorelle, per le molteplici espressioni di appoggio e di condivisione per le nuove aperture.

Sappiamo che la costituzione delle due nuove comunità ha significato dei sacrifici e dei tagli nei paesi da cui le sorelle scelte provengono, ma sappiamo anche quanta vitalità e benedizione questa scelta verso “i non cristiani” dona al corpo dell’istituto nel cammino di rinascita.

Continuiamo ad accompagnare il processo con la preghiera, l’interesse, l’appoggio e l’affetto, perché veramente è un evento di famiglia che ci coinvolge tutte. La Consolata ci precede là e attende il nostro arrivo.

Senza il coinvolgimento di tutte e la solidarietà di tanti amici e sostenitori delle nostre missioni, le nuove aperture in Asia rimarrebbero per le missionarie della Consolata solo un sogno!

Insieme, in cordata, cercheremo di aiutare la crescita di questa chiesa che papa Francesco, nel discorso ai vescovi dell’Asia centrale ha definito “una Chiesa in germoglio”».

Suor Dalmazia Colombo


Repubblica del Kazakistan

Il Kazakistan si trova nell’Asia centrale. Per estensione è il 9° paese del mondo. Gran parte del suo territorio è pianeggiante e collinare desertico o semidesertico. Una vasta area attorno al Mar Caspio è sotto il livello del mare (-132 m). Ai confini con Kirghizistan e Cina, nel punto di incontro delle tre nazioni si innalza la maggior vetta kazaka, il Khan Tengri (6.995 m) nella catena del Tian Shan che significa Montagne Celesti.

Popolazione

Prima dell’indipendenza, nel periodo dell’Unione sovietica, la componente di popolazione kazaka era inferiore al 50% per l’entrata nel paese di molti russi, ucraini, polacchi e di altre nazionalità. In seguito al ritorno ai paesi di origine degli immigrati, la situazione è decisamente cambiata con i Kazaki che costituiscono ora il 63% della popolazione. La città più popolosa è Almaty, con 1.801.713 abitanti, capitale dello stato fino al 1997.

Tradizioni

La cultura affonda le sue radici nella natura nomade della gente e nell’Islam, che è la religione maggioritaria. Le steppe semiaride e gelide d’inverno, in primavera si trasformano in prati sconfinati ideali per la pastorizia, risorsa essenziale per il popolo kazako che ha sviluppato un’antichissima tradizione di tolleranza e di accoglienza.

La vita nomade del popolo ha sempre avuto come alleati e simbolo i cavalli, attorno ai quali si sono sviluppati usi e costumi, compresa l’abilità a cavalcare. Si dice che i kazaki siano stati gli inventori delle staffe. Sono abilissimi a scagliare le frecce mentre il cavallo galoppa. Famose le esibizioni di tali abilità nelle feste e manifestazioni anche oggi.

Chiesa cattolica

La Chiesa cattolica in Kazakistan, si è formata a partire dagli anni ‘30 del secolo scorso ad opera di alcuni sacerdoti deportati dal regime sovietico che si rivolgevano soprattutto ai non kazaki. Per decenni visse nella clandestinità affidata alla trasmissione della fede a livello familiare, specialmente da nonni ai nipoti. Nel settembre del 2001, papa Giovanni Paolo II visitò la piccola comunità cattolica che con l’indipendenza aveva acquisito nuovo vigore. L’attuale organizzazione territoriale comprende tre diocesi, e una amministrazione apostolica: arcidiocesi di Astana, diocesi di Almaty e di Karaganda, amministrazione apostolica di Atyau. A queste si aggiunge l’amministrazione apostolica per i fedeli cattolici di rito bizantino in Kazakistan e nell’Asia centrale.

Grazie alla presenza missionaria nel paese, vi è una crescita di kazaki che si convertono al cattolicesimo, soprattutto nella capitale Nur-Sultan (che fino a marzo 2019 si chiamava Astana).

Da.Co.

  • Lingue ufficiali   Kazako, Russo (entrambe ufficiali)
  • Capitale            Nur-Sultan (già Astana – 1 milione di ab.)
  • Forma di governo          Repubblica semipresidenziale
  • Indipendenza da Urrs    21 dicembre 1991
  • Superficie 2.724.900 km² (9 volte l’Italia)
  • Popolazione      17.572.000 ab. (stime 2019)
  • Nome abitanti Kazaki
  • Religione          Musulmani 70%, Cristiani ortodossi 26%, Cattolici 1,14%, altre religioni o senza 3%
  • Confini Cina, Russia, Kirghizistan, Uzbekistan, Turkmenistan
  • Valuta  Tenge kazako


Repubblica del Kirghizistan

Il Kirghizistan è un aspro paese dell’Asia centrale che sorge lungo la Via della Seta, l’antica carovaniera tra la Cina e il Mediterraneo a metà strada tra Medio ed Estremo Oriente. È un paese che vanta la presenza di una popolazione molto cordiale, ospitale e disponibile.

Il nome Kirghizistan deriva da una parola che significa «siamo 40». Si tratta di un riferimento ai 40 clan che in origine formavano la nazione e che si riflette sulla bandiera composta da un sole giallo con 40 raggi distanziati in modo uniforme dal centro. Oggi la popolazione è formata in gran parte da Kirghisi (65%) e Uzbeki (13%). Il resto sono Russi, Polacchi, Tedeschi e altre nazionalità, nella maggior parte figli e nipoti delle deportazioni sovietiche.

Geografia

Il territorio aspro e difficile del Kirghizistan, nel cuore dell’Asia, è un groviglio di fiumi e montagne che superano i 7.000 metri e offre una delle più belle architetture naturali del mondo con la catena montuosa del Tien Shan e l’altopiano del Pamir: il primo lo separano da Cina e Kazakistan, il secondo lo uniscono al Tagikistan. La maggior parte della popolazione vive nelle zone di pianura che occupano appena un settimo della superficie totale.

Poche sono le città, pochi i comfort, pochi i servizi sociali. I trasporti si contano su una mano. Chi sceglie di vivere in questo paese, vive esperienze fuori del tempo ed è colpito dalle usanze della vita nomade, tipica del popolo kirghiso, gente temprata per sopravvivere alla natura e per questo molto ospitale con il prossimo.

La tradizione

La popolazione dei villaggi, dedita alla pastorizia, vive nelle bellissime iurte, le classiche tende dei pastori che hanno la caratteristica di essere fresche d’estate e calde d’inverno. Sono il simbolo più antico dei villaggi e della popolazione itinerante. Il viaggiatore viene accolto nelle iurte al suono del komuzy, il tradizionale strumento a corde. Sempre nelle tende, le famiglie si riuniscono per prendere le decisioni più importanti e condividere i pasti. Pasti semplici e gustosi nei quali le pietanze principali sono il plot, composto di un misto di riso e carne, e lo shorpo, una zuppa di carne e verdure.

Chiesa cattolica in Kirghizistan

La Chiesa cattolica ha una storia recente in quanto solo nel 1997, dopo l’indipendenza, Giovanni Paolo II vi fondò una missio sui iuris. Nel 2006, Benedetto XVI elevò la circoscrizione al rango di amministrazione apostolica che comprende l’intero territorio. Dalla fondazione a oggi i cattolici sono passati da 200 a circa 500: lo 0,01% della popolazione. In Kirghizistan vi sono tre parrocchie con cinque religiosi e cinque religiose che diverranno nove con l’arrivo a Dzalal Abad delle missionarie della Consolata.

Da.Co.

  • Lingue ufficiali   Kirghisa, Russo (entrambe ufficiali)
  • Capitale            Bishkek
  • Forma di governo Repubblica parlamentare
  • Indipendenza da Urrs    31 agosto 1991
  • Superficie 199.957 km²
  • Popolazione      5.959.121 (stima 2019)
  • Nome abitanti   Kirghisi
  • Religione          Musulmani 75%, Cristiani ortodossi 20%, Cattolici 0,01%, altre religioni o senza 5%
  • Confini Cina, Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan
  • Valuta  Som kirghiso




Trump, il populista che governa con i tweet

Teto di Piergiorgio Pescali |


Sbruffone, superficiale, bugiardo, dai gusti kitsch. Donald Trump è tutto questo, ma tra un anno potrebbe vincere ancora. Siamo andati a vedere chi lo vota e perché. Nel frattempo, le sue guerre commerciali hanno conseguenze mondiali mentre in politica estera, dopo i disastri (taciuti) del premio Nobel Obama…

Il bus ha appena lasciato la stazione della University of California a San Francisco, quando un’anziana signora inizia a battibeccare con il nuovo viaggiatore che si è appena seduto vicino a lei. Ha la musica degli auricolari un po’ troppo alta. A un certo punto il passeggero, un giovane universitario – cappello da baseball sulle ventitré, skateboard e uno zaino a tracolla – risponde alla signora in tono scocciato invitandola a occupare un altro sedile. La donna s’inalbera e inizia a gridare terminando la sua invettiva con un: «Ecco dove ci ha portato la politica di Trump: ha diviso l’America portandoci a litigare tra noi. Siamo un paese diviso, l’esatto opposto dell’America che voleva Obama!».

La scena appena descritta illustra bene il quadro che un turista, anche distratto, può avere visitando gli Stati Uniti. Occorre rifarsi agli anni Settanta, durante la presidenza Nixon, per trovare le opinioni dei cittadini dei cinquanta stati della federazione così nettamente divise sull’amministrazione che governa il loro paese.

O lo ami o lo odi

© Roman Boed_Chicago

Trump lo ami o lo odi e quando pareri così nettamente contrapposti si fronteggiano, la faziosità prevale sull’equità e oggettività di giudizio.

Smargiasso dai gusti kitsch, origini tedesche da parte di padre (il cognome originario era Drumpf) e scozzesi da parte di madre, Donald Trump si è sempre contraddistinto per la sua imprevedibilità e impulsività, due qualità che hanno suscitato critiche sul suo modus operandi sino a creare un neologismo: la «trumpaggine», sinonimo di stupidità e superficialità politica.

Giocando sull’immediatezza e sulla sintesi fin troppo schematizzata di Twitter, il presidente ha rivoluzionato il modo di comunicare con il mondo intero. E sono oramai in tanti a imitarlo, a partire dall’italico (una volta si diceva padano) ed ex ministro Matteo Salvini.

La differenza con la precedente signorilità ed eleganza di un Barack Obama è lampante, ma è proprio l’espressione un po’ campagnola, sbruffona e meno snob a far preferire Trump rispetto ad altri politici più navigati.

«Trump è più sincero di chiunque lo abbia preceduto. Dice sempre quello che pensa infischiandosene del bon ton e della diplomazia. È uno di noi!», afferma Chloe che, assieme a suo marito Leon, possiede una fattoria vicino a Bryce, nello Utah, dove affitta stanze a gente di passaggio come me. Poco importa se la guerra commerciale con la Cina, verso i cui mercati sono diretti molti dei prodotti agricoli statunitensi, ha causato una contrazione delle vendite. La risposta che ottengo è sempre più o meno la stessa: «Trump sta rendendo di nuovo l’America grande; i cinesi ci hanno comandato troppo a lungo, è ora che ci riprendiamo il nostro paese». «Make America great again» (facciamo l’America di nuovo grande): il motto presidenziale ha fatto breccia.

Chloe e Leon se la passano discretamente bene, ma non sono ricchi, così come la maggior parte dei sessantuno milioni di statunitensi che ha votato Trump nelle elezioni presidenziali del 2016: «L’elettore medio che ha preferito Trump alla Clinton abita nelle campagne, dove la vita è più faticosa e si lavora duramente; abita nelle periferie delle città, dove povertà, violenza, disoccupazione sono sempre state i drammi esistenziali con cui convivere. È quello che non ha finito le scuole perché la sua famiglia non poteva permettersi di pagare libri e retta», mi spiega Ysabel Perez, sociologa che tiene un corso di Criminologia presso la Northern Arizona University di Flagstaff. Ysabel è di origine ispanica, ma cittadina statunitense. Spiega che, a differenza di quanto l’americano medio sia portato a pensare, sono i ceti meno abbienti, i lavoratori, gli sfruttati, «quelli che voi europei un tempo chiamavate proletari», a costituire ancora oggi, a tre anni di distanza dalle elezioni, lo zoccolo duro dell’elettorato dell’attuale presidente. «Sono gli emarginati, ma – questo è importante – emarginati bianchi», conclude.

© Piergiorgio Pescali

Il voto dell’America puritana

Nell’America puritana, colore della pelle e religione si mischiano in ogni aspetto della vita quotidiana, molto più che in Europa. Il Pew Research Center ha appurato che il 69% degli evangelici di etnia caucasica approva l’operato del presidente, assieme al 12% dei protestanti neri. Tra i cattolici il 36% appoggia la politica di Trump, ma la percentuale sale al 44% tra i cattolici caucasici (bianchi), e scende al 26% tra quelli non bianchi (ma rispetto al 2017 quest’ultima percentuale è raddoppiata).

Secondo un recente sondaggio della Gallup, al luglio 2019, il 44% degli americani approvava il lavoro fatto sino a oggi dal loro presidente (un altro istituto, lo Zogby Analytics, indica che la percentuale supererebbe il 50%). Il 44% sembra una quota bassa, ma è l’identica percentuale di consenso che aveva Obama nello stesso periodo del suo primo mandato.

Insomma, Trump continua a dividere gli Stati Uniti e una grossa fetta degli abitanti lo considera un buon presidente.

Nel quartiere dei giovani artisti di Flagstaff la contrarietà nei confronti di Trump è evidente: in un negozio di souvenirs si vende carta igienica con il faccione del presidente, mentre in un bar il caffè è servito in tazze in cui è riprodotta l’effigie stilizzata dell’Urlo di Munch circondata dalla dicitura «President Trump».

I giornali e i media internazionali fanno fatica a comprendere il fenomeno di questo bizzarro uomo d’affari votatosi alla politica. Divisi tra i successi mietuti in politica estera e le contraddizioni di una politica interna che raccoglie successi economici e critiche sulla politica immigratoria, i canali televisivi e i giornali divulgano continuamente notizie biforcute.

© Benjamin Kerensa

Politica estera: bugie, verità e conflitti d’interesse

«L’amministrazione Trump si è dimostrata molto più abile del previsto in politica estera. La disastrosa esperienza guerrafondaia della coppia Obama-Clinton è stata sostituita dal dialogo offerto da Trump che ha portato alle aperture con la Corea del Nord, la Russia e, seppur in modo altalenante, con la Cina», confida davanti a una birra gelata e a stento celando un profondo senso di disagio, Dacre, un fisico delle alte energie che fa parte della Federazione degli Scienziati Americani, un’organizzazione che si batte per il bando delle armi nucleari.

La delusione verso la politica estera messa in atto da Obama è evidente: persino il Nobel per la pace dato sulla fiducia nel 2009 «per il suo straordinario impegno per rafforzare la diplomazia internazionale e la collaborazione tra i popoli», oggi è oggetto di contestazione. «Durante l’amministrazione Obama abbiamo scatenato guerre in Libia, Siria, aumentato il numero di militari in Afghanistan, imposto sanzioni alla Russia scatenando il conflitto in Ucraina, deteriorato i rapporti con la Cina e sfiorato una guerra con la Corea del Nord. Eppure è stato premiato con un Nobel per la pace, a differenza di Trump che, nonostante i suoi buoni risultati, è stato snobbato», lamenta Austin Yee, attivista pacifista americana dell’Ong Mercy Corps. Il Nobel ad Obama, lungi dall’essere un premio eticamente neutro, era stato fortemente sponsorizzato e voluto dall’avvocatessa norvegese Berit Reiss-Andersen, allora membro e oggi presidente del Comitato per il Nobel nonché socia della Dla Piper, lo studio legale internazionale (con uffici anche in Italia, ndr) che ha co-finanziato la campagna elettorale di Obama nel 2012. Insomma, un Nobel alla fiducia (mal riposta), ma con enormi interessi finanziari.

Anche Trump, come chi lo ha preceduto alla Casa Bianca, non è certo un pacifista: il suo disimpegno internazionale è dovuto principalmente al fatto che, a differenza delle passate amministrazioni, è direttamente interessato a proteggere il proprio impero economico all’interno e all’esterno degli Stati Uniti. Con la nuova presidenza i cittadini americani hanno scoperto quello che noi chiamiamo conflitto d’interessi. Secondo la Cnn, Trump avrebbe 144 compagnie in 25 paesi del mondo (principalmente India, Indonesia, Canada, Emirati Arabi, Scozia, Cina, Brasile, Arabia Saudita), ma nessuno sa esattamente a quanto ammonti il suo impero: le cifre variano tra i 3,1 (Forbes) e i 12 miliardi di dollari (Trump stesso).

© Robbie Wroblewski_2008

La politica del «meno»: tasse, sanità, ambiente

La politica del lavoro di Trump sta dando i suoi frutti con una disoccupazione scesa ai minimi storici (3,7% rispetto al 5% del 2016), ma è un trend in discesa dal 2014, cioè da prima del suo arrivo alla Casa Bianca, quando era disoccupato il 7% della forza lavoro. E se è vero che i salari sono aumentati in media del 3,2%, è altrettanto vero che la ricchezza si sta concentrando verso un numero sempre più ristretto di persone. La ricchezza accumulata si è creata principalmente con il taglio delle tasse, il che ha portato Trump a eliminare o diminuire sovvenzioni sociali. Il tipico esempio è la proposta di cancellare la «Legge sulla protezione dei pazienti e sull’assistenza economica» (Patient Protection and Affordable Care Act), il cosiddetto Obamacare, forse la più popolare e utile iniziativa promossa dall’ex presidente Barak Obama, che ha permesso a circa 30 milioni di cittadini, prima esclusi dall’assistenza sanitaria, di essere tutelati dal sistema nazionale. La crescita economica Usa è anche dovuta al polemico atteggiamento di Trump verso le politiche ambientaliste, che ha portato a negare il riscaldamento climatico con il plauso, tra gli altri, delle Chiese evangeliche creazioniste. Questo ha incanalato verso il presidente l’approvazione delle compagnie automobilistiche perché non più soggette alla tassa sull’emissione di CO2 e inquinanti. La politica di Trump rischia, dunque, di vanificare il duro lavoro di contenimento degli inquinanti fatto da Obama. Basta vedere il parco macchine circolante oggi negli Stati Uniti per rendersi conto di quanto positiva sia stata la politica di Obama: dal 2012 le compagnie automobilistiche hanno dovuto adeguare i nuovi motori a regole più severe sui consumi. Questo ha portato alla produzione di auto più piccole e performanti (entro il 2025 le auto di nuova immatricolazione avrebbero dovuto avere un consumo di 23 km con un litro di benzina). Nel 2015 Obama, inoltre, aveva annunciato che gli Stati Uniti avrebbero ridotto, entro il 2025, le emissioni di gas serra del 26% rispetto al 2005. Il clamore dell’annuncio era stato salutato con ottimismo da numerose organizzazioni, ma «Obama ha giocato sporco», mi dice Cinthia, scienziata che lavora presso Worldwatch Institute. «Ha fatto promesse che sapeva di non dover mantenere, visto che pochi mesi dopo avrebbe lasciato il mandato. Nessuna economia mondiale può fare promesse del genere senza avere implicazioni insostenibili. In pratica Obama ha fatto la sua bella figura passando la patata bollente al suo successore, Clinton o Trump che fosse, sapendo che la sua sarebbe stata una scommessa persa in partenza».

Del resto, gli ambientalisti denunciano la politica di Barak Obama che ha limitato l’utilizzo di carbone come fonte di energia primaria, sostituendola non con fonti rinnovabili, ma con il petrolio, specialmente quello proveniente dal fracking per la gioia delle compagnie petrolifere, in particolare la Chevron, Exxon, ConocoPhillips. «Nonostante quello che si dice, durante l’intera amministrazione Obama gli Stati Uniti sono stati saldamente al comando per produzione di CO2 pro capite, superando abbondantemente anche la Cina», conclude, dati alla mano, Cinthia.

© Jaime C. Patias

Quel muro con il Messico

© Jaime C. patias

Tuttavia, il punto più controverso del programma presidenziale di Trump, quello su cui molti media internazionali e l’opinione pubblica hanno focalizzato la loro attenzione, è il famoso muro tra Stati Uniti e Messico.

La questione dei migranti ispanici – chiamati di volta in volta da Trump stupratori, corrieri della droga, criminali – è stata il cavallo di battaglia della politica interna ed ha preso il sopravvento nel programma presidenziale immediatamente dopo le restrizioni agli ingressi negli Usa per i cittadini di sette paesi musulmani.

L’architetto di questa politica è un giovanissimo politico di origini bielorusse: Stephen Miller, classe 1985 e ghost writer di numerosi discorsi del presidente, tra cui quello con cui inaugurò la sua presidenza nel gennaio 2017.

Ancora una volta l’opinione pubblica, imboccata dai media, è esplosa nel denunciare la politica razzista e intollerante di Trump, ma in verità il muro non è un’invenzione né un’iniziativa di quest’ultimo presidente e, a sua difesa sono scesi in campo personaggi insospettabili come Isaac Newton Farris Jr., Alveda King, nipoti di Martin Luther King e Malik Obama, fratellastro di Barack.

L’inizio della costruzione del muro Usa-Messico risale al 1990 a San Diego, con la presidenza repubblicana di George Bush Sr. Tre anni dopo, nel 1993 erano stati completati 22,5 km di barriera, ma altri pezzi iniziarono ad essere costruiti separatamente in Arizona e Texas. Nel 1994 il democratico Bill Clinton autorizzò l’operazione Gatekeeper, Hold the Line e Safeguard creando corpi di polizia che pattugliavano il confine al fine di prevenire varchi illegali. Nell’ottobre 2006 fu di nuovo un repubblicano, George Bush Jr. ad approvare, anche con i voti di un giovane Barack Obama e di una navigata Hillary Clinton, il Secure Fence Act che prevedeva la costruzione di barriere lungo 1.126 km di confine. Fu lo stesso Obama, il 10 maggio 2011 ad annunciare orgoglioso a El Paso il completamento della Secure Fence al confine con il Messico dotandolo di droni, telecamere e sensori e facendolo pattugliare da 20mila agenti.

Trump nella sua campagna presidenziale promise di completare l’erezione del muro lungo tutti i 3.169 km di confine. Fino a maggio 2019 erano stati approvati fondi per 6,1 miliardi Usd per il rimpiazzo di 364 km di barriere già esistenti e 177 km di nuove barriere, di cui 64 km completati ad oggi.

© Jaime C. Patias

Chi entra negli Usa

Ogni anno il confine è attraversato legalmente da 350 milioni di persone mentre «gli immigrati illegali sono diminuiti dal 2000, quando se ne contarono un milione e 600mila, fino all’arrivo di Trump nel 2016 quando erano 400mila; poi dal 2016 sono di nuovo aumentati», dichiara Anthony Rivera, ricercatore presso la facoltà di legge della University of Texas di Austin. Tutti segni che un muro non serve per contenere la massa di persone desiderose di migliorare il proprio stile di vita e di dare ai loro figli un futuro migliore. «È pur vero, però, che il 39% dei 7.979 kg di eroina sequestrati nel 2017 in tutti i posti di frontiera è stato preso lungo il confine Usa-Messico e la maggioranza lungo il corridoio San Diego», continua Rivera che sta facendo una ricerca sul campo sull’immigrazione ispanica negli Usa.

Insomma, la presidenza Trump continua ad essere amata o odiata senza mezze misure negli Stati Uniti e all’estero. E mentre Donald Trump vuole far tornare grande l’America con la sua politica di esclusione e tolleranza zero, altri politici come Bernie Sanders affermano che l’America diverrà più forte solo «quando neri e bianchi, ispanici, asiatici, nativi americani saranno tutti uniti», perché – come diceva un conservatore di ferro come Ronald Reagan – «chiunque, da qualsiasi angolo della Terra, può venire a vivere in America e diventare americano: questa è una delle più importanti ragioni della grandezza dell’America. Il motivo per cui guidiamo il mondo – concludeva Reagan – è perché, unici al mondo, prendiamo il nostro popolo, la nostra forza, da ogni paese e da ogni angolo della Terra».

Piergiorgio Pescali

© Photo by Mackenzie Harris Faith in Public Life 7


Trump e i migranti: Meno ingressi per tutti

Sull’immigrazione illegale il presidente vuole «tolleranza zero». E vorrebbe cancellare anche il «birthright citizenship», quello che in Italia si chiama «ius soli».

Sin dalla campagna elettorale, Donald Trump ha messo la questione migratoria tra i punti più salienti della sua politica. E, pur tra mille difficoltà, sta mantenendo la parola data. Purtroppo, verrebbe da dire. A sua discolpa l’attuale presidente Usa ha più volte ribadito di aver ereditato una situazione già avviata dalle precedenti amministrazioni, e in parte è vero. La barriera che divide Messico e Usa è stata decisa, iniziata e ampliata da Bush, padre e figlio, Clinton e Obama, ancora prima che Trump decidesse di scendere in politica, e anche i centri di detenzione per immigrati illegali, compresi quelli destinati esclusivamente a bambini, sono eredità delle passate amministrazioni.
A differenza dei precedenti inquilini della Casa Bianca però Trump ha eliminato la discrezionalità che l’amministrazione Obama aveva concesso al Dipartimento di giustizia nel trattamento degli immigrati entrati illegalmente nel paese. Questo, e non la detenzione dei minori, è il punto di maggiore diversità specialmente con l’amministrazione Obama. La tolleranza zero più volte invocata da Trump e dal suo consigliere sull’immigrazione, Stephen Miller, ha portato a una situazione al limite del rispetto dei diritti umani, come più volte hanno giustamente fatto presente numerose organizzazioni che operano sul campo: chi viene catturato mentre attraversa illegalmente il confine è spedito immediatamente in prigione mentre i minori che lo accompagnano sono inviati nei centri di detenzione.
Oggi sono 1.700 i minori separati dalle loro famiglie che vivono nei centri appositi, mentre durante la passata amministrazione Obama le separazioni erano occasionali e limitate a un periodo di soli 20 giorni.
Le condizioni all’interno dei campi sono spesso disastrose: secondo il direttore dell’ufficio per l’applicazione delle leggi sulle dogane e immigrazione, Mark Morgan, i centri di detenzione per minori sono «assolutamente inadeguati» e sono in molti a paragonarli ai campi di concentramento per giapponesi durante la Seconda guerra mondiale.
In aggiunta alla politica della tolleranza zero, Trump (sempre imbeccato da Miller) ha chiesto la revisione del Quattordicesimo emendamento della Costituzione, che dal 1868 garantisce la cittadinanza statunitense a chiunque nasca sul territorio. Negli Usa si chiama «birthright citizenship», in Italia è noto come «ius soli». Trump ha chiesto la revoca del Quattordicesimo emendamento per i nati da immigrati illegali. Dato che il cambiamento di un articolo della Costituzione americana richiede il consenso dei due terzi del Congresso, Trump avrebbe insinuato l’ipotesi di emanare un «ordine esecutivo presidenziale» che avrebbe valore di legge. Non sarebbe la prima volta che un presidente Usa si avvarrebbe di questo potere: tutti i presidenti americani se ne sono valsi centinaia di volte durante i loro mandati (ad esempio, la famosa emancipazione degli schiavi voluta nel 1863 Abraham Lincoln fu proclamata con un ordine esecutivo, così come la partecipazione Usa nella guerra del Kosovo voluta da Bill Clinton nel 1999).

P.P.

Photo by Seth HERALD / AFP


Trump e la violenza: Più armi per tutti

Le stragi con armi da fuoco sono una triste consuetudine. Eppure, il presidente – legato alle lobbies dei produttori – continua a non voler limitare la libertà di detenerle, diritto sancito dal Secondo emendamento della Costituzione statunitense.

«Essendo necessaria, alla sicurezza di uno stato libero, una milizia ben regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto». Questo è il Secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. Introdotto nel 1791 per permettere alle milizie cittadine di difendersi contro le razzie e i raid degli eserciti inglesi e spagnoli, si è nel tempo trasformato in una dichiarazione liberista attorno alla quale si evolve il dibattito sulle libertà civili del singolo individuo statunitense. Ed è proprio sul significato e sull’applicazione di questo Secondo emendamento che si sta consumando una delle battaglie politiche ed economiche più virulente della società americana. L’organizzazione più potente che si batte affinché al cittadino statunitense venga permesso di detenere e usare armi a scopo di difesa personale è la National Rifle Association (Nra). Fondata nel 1871, conta oggi 5 milioni e mezzo di aderenti e proventi per 412 milioni di dollari. Tra i suoi sostenitori vi sono stati presidenti americani (tra cui anche John Fitzgerald Kennedy) e attori famosi come Charlton Heston, Chuck Norris, Tom Selleck.
Sul sito ufficiale, organizzazioni, giornalisti, politici, presidenti che hanno manifestato la volontà di eliminare il Secondo emendamento sono duramente criticati, mentre non viene celato l’appoggio verso l’attuale presidente Usa, Donald Trump che, in più occasioni, ha difeso il diritto degli statunitensi di essere armati elogiando la stessa Nra.

Tra i maggiori critici della Nra non vi è solo chi si batte contro la proliferazione di armi negli Stati Uniti, ma anche associazioni come la Gun Owners of America, un’altra potente organizzazione che conta due milioni di affiliati, anch’essa apertamente a favore della politica di Trump. A differenza della Nra, pesantemente compromessa con lobbies finanziarie, economiche e politiche, la Goa afferma orgogliosamente la sua indipendenza da ogni pressione. Il suo modesto budget ufficiale (appena due milioni di dollari) proverrebbe esclusivamente dalle sottoscrizioni dei suoi membri e questo avrebbe permesso all’associazione, fondata nel 1975 dal senatore repubblicano Bill Richardson, di battersi con più impegno e forza per il mantenimento più ampio del Secondo emendamento senza quelle restrizioni appoggiate anche dalla Nra. La Goa, ad esempio, vorrebbe l’eliminazione delle free-gun zones, delle barriere legali per la detenzione delle armi, l’applicazione del Secondo emendamento in tutti i 50 stati della federazione.

Nel frattempo, mentre questo articolo va in stampa, negli Stati Uniti le stragi con armi da fuoco proseguono senza soluzione di continuità.

P. P.

© Eric Purcell




Pakistan: Una chiesa piccola ma tenace

Testo di Marta Petrosillo e foto di ACS, Aiuto alla  Chiesa che soffre |


In Pakistan la chiesa è piccola e perseguitata, ma anche apprezzata da molti per le sue opere. I missionari che lavorano nel paese tra scuole, ospedali, evangelizzazione, sono persone forti, determinate e di grande fede.

«Vivo da molti anni in Pakistan. La difficile missione in questa terra islamica dà tanto valore alla mia vita paolina. Mi sento privilegiata a stare tra questi cari cristiani perseguitati. Con la loro fede e testimonianza, mi evangelizzano. Come Paoline abbiamo un compito, un ruolo, una missione apostolica significativa. Ci sentiamo e siamo riconosciute come “sorelle della Bibbia” che lavorano per raggiungere il popolo con la Parola di Dio. Un dono per la nostra vocazione, un impegno, una passione, una scelta del cuore. Lui mi ha condotta in tutti questi anni; mi ha dato gioia, amore e grazia. La sua tattica spirituale è inconfondibile: chiama alla missione attraverso non pochi sacrifici e chiede sempre distacco…». Così scriveva suor Daniela Baronchelli, figlia di San Paolo, che ha vissuto trentasette dei suoi ottantasette anni di vita – conclusasi il 23 marzo 2019 – in Pakistan.

In una terra difficile

Suor Daniela amava profondamente il Pakistan, terra difficile, a volte ostile, così come amava il popolo pachistano tutto, sia cristiano che musulmano. Al punto che, come lei stessa ci ha confidato, dal 2016 aveva scelto di non tornare più in Italia. «Oramai è questa la mia terra, e voglio essere sicura di morire qui». Oggi la sua tomba, nel cimitero cristiano di Lahore, è meta di pellegrinaggio delle tante persone che ha aiutato.

Come lei, tantissimi altri missionari hanno trascorso la loro vita nel paese asiatico, contribuendo in modo determinante all’evangelizzazione e allo sviluppo della piccola minoranza cristiana, ma anche dell’intera popolazione. Come sempre, infatti, nonostante le modeste dimensioni della comunità cattolica – appena l’1% dei 190 milioni di abitanti -, la Chiesa ha fatto molto, e continua a fare moltissimo in ambito educativo e sanitario.

Il ruolo dei missionari

I primi missionari giunsero in queste terre da Portogallo, Francia e Gran Bretagna, al seguito delle potenze coloniali. La prima chiesa cattolica in Punjab, a Lahore, fu costruita intorno al 1597 dai gesuiti provenienti dallo stato indiano di Goa, allora colonia portoghese. Più tardi, il cristianesimo fu portato principalmente dall’impero britannico, alla fine del Settecento e nell’Ottocento. Questo è evidente se si guardano i centri urbani fondati dagli inglesi, come la città portuale di Karachi dove si erge la maestosa cattedrale di San Patrizio, una delle chiese più grandi del Pakistan, oppure le chiese di Rawalpindi, dove gli inglesi si stabilirono.
Il ruolo dei missionari è stato fondamentale: molte congregazioni sono all’origine della nascita delle diverse diocesi. I cappuccini hanno dato vita a quella di Lahore, gli Oblati di Maria Immacolata al vicariato apostolico di Quetta, la Società missionaria di San Giuseppe di Mill Hill alla diocesi di Islamabad Rawalpindi.

La scuola, tra le altre cose

«Sono davvero molto grato e ho profondo rispetto per l’immensa opera compiuta dai missionari europei in Pakistan. Questi religiosi hanno giocato un ruolo determinante per lo sviluppo della nostra Chiesa», ci dice il cardinale Joseph Coutts, unico porporato del paese.

Il viso del cardinale s’illumina ricordando i tanti missionari che ha incontrato nel suo cammino, prima di sacerdote e poi di vescovo, e che hanno fatto parte della sua vita fin da prima della sua nascita: «I miei genitori sono stati sposati nel 1940 dall’allora parroco della cattedrale di St. Patrick, James Cornelius van Miltenburg, un francescano olandese poi divenuto arcivescovo di Karachi e in seguito di Hyderabad».

Molte delle scuole cattoliche del Pakistan sono nate grazie all’opera dei missionari. «Oggi le nostre scuole continuano il lavoro dei primi missionari», afferma il cardinal Coutts notando come nel paese vi siano oltre 300 istituti cattolici. A Karachi ve ne sono 56, di cui tre situati nel compound della cattedrale. E – come abbiamo potuto osservare di persona – non è raro che all’orario di uscita degli studenti, l’auto del porporato debba faticare un bel po’ per entrare dal cancello principale.

L’educazione è essenziale in un paese nel quale l’analfabetismo sfiora in alcune zone l’85%. «Le nostre scuole sono molto apprezzate, anche dai musulmani, perché insegniamo valori come la fratellanza. Nei nostri istituti hanno studiato anche ex presidenti, così come molti impiegati pubblici, militari, ambasciatori e altri funzionari».

«Libri, non mattoni»

A Youhanabad, quartiere cristiano di Lahore, vive un religioso che incarna la bellezza della chiesa pachistana. È padre Edward Thuraisingham, degli Oblati di Maria Immacolata. È giunto in Pakistan dallo Sri Lanka ormai 40 anni fa. Si è sempre dedicato ai poveri e in particolar modo all’educazione dei bambini. Padre Edward è fortemente impegnato a salvare dalla schiavitù, attraverso l’istruzione, i figli dei lavoratori delle fornaci di mattoni (vedi MC 8-9/2019 p. 20).

In queste fabbriche, intere famiglie sono costrette a lavorare per pochi euro al mese, spesso allo scopo di restituire debiti contratti con i proprietari della fornace. «Libri, non mattoni», è il motto del religioso che ha aperto ben cinque scuole per questi ragazzi e per altri bimbi orfani o appartenenti a famiglie povere. Durante una nostra visita a Lahore, padre Edward ci ha accompagnato in una di esse, poco distante da una fabbrica di mattoni. La struttura è, in realtà, una parte della stessa casa di Solomon Bhatti e di sua moglie Sabbah, che insegnano anche a leggere e a scrivere ai piccoli alunni di età compresa tra i 5 e i 15 anni. «Pensiamo a tutto noi, libri, retta scolastica e divise – ci dice padre Edward -. Se dovessero affrontare delle spese, le famiglie non li manderebbero a scuola. Anzi, in realtà non è sempre facile convincere i genitori, perché in molti preferiscono che i figli li aiutino a fabbricare mattoni». Proprio mentre parla con noi, padre Edward viene informato da uno degli insegnanti che un bambino si è presentato a scuola senza scarpe. Prontamente il sacerdote fruga nelle sue tasche per racimolare qualche rupia e provvedere ad acquistarne un paio. I vestiti del sacerdote sono logori e macchiati del fango della fabbrica, e il suo pakol, berretto tipico dell’Afghanistan e di alcune zone del Pakistan, ha probabilmente qualche anno. Ma padre Edward non se ne cura e riserva ogni singola donazione ai suoi bambini.

«L’istruzione è l’unica via per uscire dalla schiavitù delle fornaci e da un destino segnato come quello di tanti cristiani qui in Pakistan», afferma raccontando come una delle sue ex alunne, Lina, sia oggi microbiologa alla Nasa.

Ospedali missionari

Un altro fiore all’occhiello legato alla presenza dei missionari in Pakistan sono gli ospedali cattolici. A Karachi abbiamo visitato l’Holy Family Hospital, oggi considerato uno dei migliori ospedali della città. La struttura è stata fondata nel 1948 dalle Medical Mission Sisters, un ordine religioso femminile con sede a Philadelphia, Usa, in un momento in cui esistevano pochissime strutture sanitarie in Pakistan. La fondatrice delle Medical Mission Sisters, la dottoressa Anna Dengel, arrivò nel 1920 a Rawalpindi per lavorare come medico. Poi si trasferì a Karachi. Oggi l’ospedale è gestito da suor Mary.

«Suor Mary è stata un dono del cielo per noi – ci ha raccontato il cardinal Coutts -. Si dedica giorno e notte al nostro ospedale che, pur essendo una struttura cattolica, conta soltanto uno o due medici cristiani. Per il resto il personale è composto soprattutto da musulmani e da qualche indù. Noi lavoriamo così: tutti insieme. Ed è anche attraverso strutture come l’Holy Family Hospital che diffondiamo i nostri valori cristiani».

La Madre Teresa del Pakistan

Una vera e propria icona della sanità pachistana è suor Ruth Katherina Martha Pfau, nota come la Madre Teresa del Pakistan. Nata nel 1929 a Lipsia, in Germania, da genitori cristiani luterani, nel 1957 la Pfau, dopo essersi laureata in medicina, si unì all’ordine delle Figlie del Cuore di Maria a Parigi. Nel 1960 fu inviata nell’India meridionale, ma un problema con il visto la costrinse a rimanere a Karachi.

Aveva solo 31 anni suor Ruth quando, un giorno per caso, visitò il lebbrosario vicino alla stazione ferroviaria della città. Fu allora che decise di dedicare il resto della sua vita al popolo pachistano e alla battaglia contro la lebbra fino alla sua morte avvenuta il 10 agosto 2017.

In una piccola capanna del lebbrosario diede vita a un piccolo centro per le cure, poi divenuto il Centro di lebbra Marie Adelaide. Iniziò a viaggiare in tutto il paese per curare i malati di lebbra, principalmente i bambini che spesso venivano abbandonati dalle loro famiglie, oppure chiusi in piccole stanze per tutta la vita.

Grazie ai suoi continui sforzi, nel 1996 l’Organizzazione mondiale della sanità dichiarò il Pakistan uno dei primi paesi in Asia ad aver controllato la lebbra. Le autorità pachistane la nominarono consigliere federale per la lebbra presso il ministero della Sanità nel 1979, e nel 1988 le concessero la cittadinanza, un fatto piuttosto raro, considerando che quasi tutti i missionari stranieri, pur essendo in Pakistan da decenni, sono costretti a rinnovare il visto ogni anno e con non poche difficoltà.

Il popolo la ama, come dimostra la cura con cui tantissimi tengono in ordine la sua tomba nel cimitero di Gora Qabaristan a Karachi, che abbiamo avuto modo di visitare. Proprio lì abbiamo incontrato delle persone che, pur non conoscendola, si recano spesso a pregare di fronte alla sua lapide. «Siamo stati anche al suo funerale – ci racconta Hamid, circa una cinquantina d’anni -, è stato emozionante, tante persone erano lì per ringraziarla». Suor Ruth ha avuto l’onore dei funerali di stato. Dietro al feretro, durante la camera ardente, uno striscione ricordava i 57 anni di servizio per sconfiggere la lebbra e risollevare le sorti degli emarginati del Pakistan, e riportava la frase: «È difficile dimenticare qualcuno che ti ha donato così tanto».

Pakistan, Sr. Daniela Baronchelli (Figlie di San paolo – Paoline), St. Paul Book Center in Karachi

Le postine di Dio

Il lavoro dei missionari non riguarda ovviamente soltanto l’ambito umanitario, ma anche la cura pastorale e l’evangelizzazione. Le Figlie di San Paolo sono le uniche a distribuire la Bibbia cattolica nel paese. Abbiamo visitato una delle loro librerie a Karachi. Nella grande metropoli pachistana il bookshop si trova nel caotico quartiere di Saddar. La cattedrale di San Patrizio non è molto distante, ma la presenza musulmana è ovunque. Uomini con abiti e copricapo islamici affollano il marciapiede di fronte alla libreria.

Le suore, oltre a libri cattolici di dottrina e spiritualità, rosari, cd e dvd su temi cristiani, vendono anche immagini sacre, cosa che dai musulmani viene considerata un peccato grave.

Come ci racconta suor Agnese Grones, missionaria del bellunese in Pakistan dal 1980, nel 2005 la polizia effettuò un raid nella libreria dopo che, dalle colonne del quotidiano nazionale «Nawa-I-Waqt», estremisti locali avevano accusato i cristiani di vendere cd contenenti caricature della morte di Maometto. Alcuni leader musulmani avevano perfino emesso una fatwa, un verdetto di condanna, contro i filmati e chiesto l’apertura di una causa per blasfemia contro le suore. Spesso i talebani fanno circolare dei biglietti con la scritta: «Chiudete o morirete». Ma, pur coscienti del pericolo, le missionarie non si danno per vinte.

«All’inizio è stato difficile – ci dice suor Agnese -, ma ora è questa casa mia. Anzi quando d’estate torno in Italia, mi rendo conto che non sono più abituata neanche al freddo delle mie montagne». Per sicurezza, le religiose vestono «alla pachistana» con il tipico abito shalwar kameez celeste e lo scialle bianco, ma tutti ovviamente sanno chi sono quando le vedono girare per le diverse basti (le grandi periferie di Karachi) per insegnare il catechismo ai bambini e spiegare alle mamme l’importanza di educare i propri figli alla fede.

In tutto il Pakistan le Paoline distribuiscono catechismi e Bibbie e hanno persino un cineforum itinerante grazie al quale proiettano ovunque film sulle vite dei santi e altri video per diffondere i valori cristiani. «Siamo coscienti del pericolo, ma è un rischio che tocca tutti i cristiani in Pakistan – ha più volte testimoniato suor Daniela Baronchelli -. Distribuire la Bibbia è una grande gioia per noi che siamo le suore della Bibbia, le postine di Dio».

Marta Petrosillo
portavoce di Acs Italia




Tutti «a casa loro», ma quale casa?


Circa un miliardo di persone sul pianeta vive in una baraccopoli, 100 milioni sono senzatetto e altrettanti sono i bambini e ragazzi di strada. Dal 2008 a oggi una media di 24 milioni di persone all’anno ha perso la propria casa per inondazioni, tempeste, terremoti o siccità.

«Come ci si sente / ad essere senza una casa / un completo sconosciuto / proprio come un vagabondo (o, alla lettera, una pietra che rotola)». Così Bob Dylan cantava nel 1965, raccontando nei versi della sua celeberrima@ Like a Rolling Stone, la triste storia di una giovane donna nata ricca e finita poi a vivere per strada, dopo essersi lasciata illudere, sfruttare e infine abbandonare da un mondo luccicante ma spietato.

L’ultima volta in cui si tentò di quantificare le persone sul pianeta che non avevano una casa era il 2005@: le Nazioni Unite stimarono che i senzatetto veri e propri fossero circa cento milioni, mentre un miliardo di persone mancavano di un alloggio adeguato. Studi più recenti fotograferebbero una situazione nettamente peggiorata: le persone senza una casa degna di questo nome sono stimate oggi in 1,6 miliardi.

Altre indagini si concentrano sui luoghi simbolo dell’emergenza abitativa, le baraccopoli: secondo il Programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani, Un Habitat, nel 2014 erano oltre 880 milioni di esseri umani a vivere in una baraccopoli.

È difficile contare in maniera oggettiva queste persone: ad esempio, ricorda l’Onu in un documento con principi e raccomandazioni per i censimenti@, «la definizione di senzatetto può variare da paese a paese, si tratta essenzialmente di una definizione culturale basata su concetti come alloggio adeguato, standard abitativo minimo della comunità o certezza del diritto fondiario».

Per farsi un’idea più immediata è forse più utile citare alcuni esempi: secondo il sito Homeless World Cup Foundation, in Nigeria ci sono 24,4 milioni di senzatetto; nella sola città di Manila, capitale delle Filippine, se ne contano circa tre milioni. La Germania ha fra i 335mila e i 420mila senzatetto, che salgono a 860 mila se si includono i rifugiati, la Francia ne conta 141mila e l’Italia 50.724@.

I bambini e ragazzi di strada sono un’ulteriore declinazione del fenomeno. Nel 2003 Unicef riportava stime secondo cui erano 100 milioni le ragazze e i ragazzi che non avevano raggiunto l’età adulta, privi di protezione o guida da parte di responsabili adulti e per i quali «la strada (nel senso più ampio della parola, comprese le abitazioni o i terreni abbandonati, ecc.) è diventata dimora abituale e/o fonte di sostentamento» (definizione ufficiale Unicef)@.

Come si finisce in strada o in una baraccopoli?

I motivi per cui ci si trova senza casa o in un contesto abitativo degradato sono diversi. Le Nazioni Unite citano fra questi la mancanza di alloggi a prezzi accessibili, speculazioni su case e terreni a fini di investimento, privatizzazione dei servizi pubblici, ad esempio il trasporto, conflitti etnici e armati e una rapida quanto mal programmata urbanizzazione. Questi elementi poi si sovrappongono e incrociano con altri, come la perdita del lavoro, l’abuso di alcol, l’uso di droga, le malattie mentali.

A complicare notevolmente le cose vi sono poi le prospettive per il trentennio che abbiamo davanti: secondo le proiezioni Onu, nel 2050 il 68% della popolazione mondiale vivrà in aree urbane, contro il 55% odierno pari a 4,2 miliardi di persone. Questo significa che «il graduale spostamento della popolazione umana dalle aree rurali a quelle urbane, combinato con la crescita complessiva della popolazione mondiale potrebbe aggiungere altri 2,5 miliardi di persone alle aree urbane entro il 2050, con circa il 90% di questo aumento concentrato in Asia e Africa»@.

Uno dei falsi miti sugli slum (inglese per baraccopoli) è l’idea che non sia possibile prevedere quanto cresceranno, spiegava al The Guardian@ nel 2016 William Cobbett, della rete globale per lo sviluppo sostenibile delle città, Cities Alliance, e la cosa è affrontata in modo inadeguato specialmente in Africa. «Si pensa che le popolazioni degli slum stiano crescendo principalmente a causa della migrazione urbana. Non è così. In tutto il continente, il grosso dell’aumento di abitanti delle baraccopoli deriva dalla crescita naturale della popolazione». Le proiezioni Onu sul secolo 1950-2050, continua Cobbett, dicono che la popolazione dell’Uganda in un secolo aumenterà di venti volte, la Tanzania di 18 e la Nigeria di 10,5.

Un secondo mito è quello che gli abitanti di una baraccopoli, se potessero, sceglierebbero sempre di vivere in un alloggio «vero». In questo caso la risposta è ni: dipende da quanto bene le autorità competenti pianificano la ricollocazione delle persone. Anche nelle situazioni di degrado più grave spesso si formano delle reti sociali che forniscono servizi informali di solidarietà come il guardarsi a vicenda casa e bambini mentre si è al lavoro. Ricollocare le persone significa strappare queste reti e rendere più difficile la vita sia di chi viene spostato sia di chi resta. Un caso citato dal The  Guardian è quello della baraccopoli di Kibera, a Nairobi: molti abitanti dello slum, inizialmente entusiasti dell’opportunità di trasferirsi in un complesso di appartamenti chiamato The Promised Land, hanno finito per lasciare le nuove sistemazioni perché vi erano disservizi idrici, mentre altri hanno fiutato l’affare decidendo di dare le loro nuove case – in cambio di un affitto molto più alto rispetto a quello agevolato richiesto a loro – ai keniani della classe media. Anche chi era rimasto a Promised Land continuava comunque a fare la spesa nella baraccopoli, perché lì il cibo costava meno.

Perdere la casa per gli eventi naturali

C’è un ulteriore modo per rimanere senza casa: che un ciclone se la porti via. È successo quest’anno in Mozambico, quando il ciclone Idai – seguito dal ciclone Kenneth – ha rovesciato in poche ore la pioggia che di solito cade in mesi. Il ciclone e le successive inondazioni hanno ucciso più di 600 persone e ne hanno ferite circa 1.600. Un milione e 800mila sono state variamente toccate dai danni, pari a 773 milioni di dollari, provocati da Idai a edifici, infrastrutture e coltivazioni@.

Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre@, che monitora le popolazioni sfollate, dal 2008 a oggi una media annuale di 24 milioni di persone ha perso la casa a causa di un evento naturale estremo improvviso, a fronte dei sette milioni e mezzo di sfollati all’anno a causa dei conflitti. Anche quest’anno le cose non sembrano andare molto meglio: nella prima metà del 2019 gli sfollati a livello mondiale sono stati 10,8 milioni, di cui 7 milioni dovuti a catastrofi naturali.

Lo scorso giugno Philip Alston, relatore speciale delle Nazioni Unite su povertà estrema e diritti umani, ha avvertito che gli effetti del cambiamento climatico potrebbero creare altri 120 milioni di poveri, vanificando gli ultimi 50 anni di sforzi per ridurre la povertà. «Rischiamo uno scenario da apartheid climatico» ha dichiarato Alston, «in cui i ricchi pagano per sfuggire al surriscaldamento, alla fame e ai conflitti mentre il resto del mondo è abbandonato alla sofferenza»@.

Il problema del cambiamento climatico si interseca con quello dell’urbanizzazione: il disastro di Freetown, in Sierra Leone, del 2017, in cui 1.141 persone morirono a causa degli allagamenti e smottamenti legati alle forti piogge, ha mostrato che cosa succede quando un evento meteorologico estremo colpisce un agglomerato urbano costruito deforestando ed edificando in maniera informale@.

Chiara Giovetti
[continua a dicembre]


Il nostro impegno con i ragazzi di strada

  • Familia ya ufariji (Famiglia della Consolazione) è una casa d’accoglienza per bambini e ragazzi di strada fondata nel 1996 dai missionari della Consolata a Nairobi, Kenya. Ospita fino a ottanta bambini cui fornisce vitto e alloggio, istruzione e cure mediche. Familia ha anche alcune attività agricole che aiutano la struttura a produrre parte del proprio cibo e permettono ai ragazzi ospitati di imparare e praticare l’orticoltura.

  • La Faraja House (Casa della Consolazione) apre nel 1993 a Mgongo (Iringa, Tanzania) per iniziativa dei missionari della Consolata con l’obiettivo di assistere e reinserire i ragazzi di strada. La struttura, in grado di accogliere fino a 100 persone, sorge accanto a una scuola tecnica – nella quale i ragazzi ricevono formazione professionale – e a un dispensario che fornisce loro le cure fondamentali.

Aiutaci a coprire i costi per dare una casa a un bambino di strada perché possa mangiare, studiare e ricevere le cure necessarie alla sua età.


Il nostro lavoro accanto a chi ha perso la casa per un evento naturale estremo

Lo scorso marzo il ciclone Idai si è abbattuto sul Mozambico. Le inondazioni che ne sono seguite hanno colpito anche diverse zone in cui sono presenti i missionari della Consolata, fra cui Cuamba e Tete. In quest’ultima località Missioni Consolata Onlus, grazie alla generosità di diversi donatori, ha contribuito alla ricostruzione di 12 case.

  • Sarà possibile sostenere questo progetto anche visitando la mostra di solidarietà che gli Amici Missioni Consolata organizzano ogni anno in occasione della festa dell’Immacolata.
    La mostra sarà aperta dal 4 all’8 dicembre nei locali della parrocchia Maria Regina delle Missioni, a Torino, in via Cialdini 20, vicino al Provveditorato.

  • Si può anche sostenere il progetto con donazioni attraverso Missioni Consolata Onlus.

Aiutaci a ricostruire le case distrutte da eventi climatici estremi.




Giamaica: «Non abbiamo altra scelta»

testo e foto di Luca Salvatore Pistone


È un piccolo paese caraibico, con un posto particolare nell’immaginario collettivo. Ma cosa succede nella sua capitale e come vive la gente? L’autore esplora i suoi quartieri più complicati e ascolta le storie di chi ci vive. Dandoci qualche elemento di comprensione, oltre gli stereotipi.

«Baby, bum bum?». Questa è l’unica frase che Roger pronuncia in presenza di ragazze. Da queste parti la galanteria non è certo di moda, ma in oltre il 50% dei suoi approcci, Roger ottiene il risultato sperato. Mentre salva sul cellulare il numero della fanciulla di turno, mi fa segno di guardarle il fondoschiena ed esclama a voce alta: «Oh my God!».

Roger, 36 anni, è muscoloso e porta dread curatissimi (tipiche trecce rasta, ndr). Ha un numero imprecisato di figli sparsi tra la Giamaica e gli Stati Uniti. Ci siamo conosciuti una decina di giorni fa in un bar e da allora non ci siamo quasi più separati. Sono ammaliato dai suoi racconti. In alcuni casi occorre fare una cernita di quanto sia vero e quanto gonfiato, ma tutto sommato sento di potermi fidare di lui. La casa che ho preso in affitto si trova a pochi metri da quella di Roger, così ogni mattina sono io a dargli la sveglia. Ci divide Mountain View, un interminabile vialone che unisce Old Hope Road e Windward Road, due delle principali arterie dell’area sudorientale di Kingston. Mountain View, che dà il nome all’intero quartiere, è uno dei ghetti più malfamati del paese.

Dentro il ghetto

Quando il dongiovanni giamaicano finisce le sue pratiche con la prosperosa signorina, raggiungiamo alcuni ragazzi del ghetto. Ci hanno dato appuntamento in una villetta in costruzione poco distante dalla bettola dove vive Roger. Sono una decina in tutto. Saliamo al secondo piano dal quale si domina tutta Mountain View. «Sei mafioso, vero?», mi chiede uno. «Ya man! (intercalare giamaicano che significa: sì amico!). Tutti gli italiani sono mafiosi», gli fa eco un altro.

Per più di un’ora si parla solo di mafia. Sono affascinati dall’argomento. E, soprattutto, sono convinti che il sottoscritto, in quanto italiano, sia un mafioso. Recitano a memoria interi spezzoni dei tre capitoli de «Il Padrino» e di «Quei bravi ragazzi». Uno fa una breve ricerca su Google e mi mostra sul display dello smartphone le facce di Riina e Provenzano. «Sei in Giamaica per fare affari? Noi siamo disponibili ad aiutarti». Più cerco di convincerli della mia estraneità alla malavita siciliana, più quelli immaginano di avere davanti a loro un pezzo da novanta del crimine organizzato.

A soccorrermi è Roger. «Dai ragazzi, diamo all’italiano un assaggio di cosa i soldati di Mountain View 99 sono in grado di fare!». Il più giovane estrae, da dietro un’impalcatura, una sacca nera. È lo stesso Roger ad aprirla e a distribuire agli amici il contenuto: un paio di pistole Beretta, tre kalashnikov e vecchi fucili d’assalto.

Metto mano alla macchina fotografica. Indossano chi un passamontagna, chi il cappuccio della felpa e chi una maglietta messa a mo’ di turbante. Si atteggiano in classiche pose da gangster e poi si siedono in cerchio su dei mattoni all’ombra di un muretto. A turno tutti prendono la parola.

  • «Noi della 99 dobbiamo difendere la nostra gente dai nostri nemici: la polizia e le altre gang».
  • «Siamo sicari. Il General (il capo mafioso) ci dice chi dobbiamo accoppare e noi lo facciamo».
  • «Per 200 o 300 dollari americani facciamo un lavoro rapido e pulito».
  • «Quando c’è da combattere con le bande rivali chiudiamo con delle transenne gli accessi a Mountain View e avvisiamo i civili di starsene tranquilli in casa».
  • «Cocaina e prostituzione sono in mano nostra. Alle elezioni possiamo pure muovere voti».
  • «Siamo costantemente in guerra. Non ci piace questa vita ma non abbiamo altra scelta».

Un mondo di gang

La 99, la 121, la 136… Quasi ogni traversa di Mountain View ha la propria gang. È un continuo gioco di alleanze, tradimenti e regolamenti di conti. A fronte di una popolazione che sfiora i tre milioni di persone, la Giamaica presenta uno dei tassi di omicidio più alti al mondo. Condizioni di forte povertà spingono larghe fette di popolazione a entrare nelle fila dei gruppi criminali. Non molti anni fa, il parlamento votò addirittura per il mantenimento della pena di morte (tramite impiccagione) – non applicata da decenni – come deterrente per arginare le violenze. E intanto, indisturbata, la Jamaican Posse, la mafia locale, detta legge nei ghetti.

Ci congediamo dagli amici sicari tra un «bless» (in Giamaica quando per salutarsi ci si benedice a vicenda) e un «respect», con la promessa, quando farò ritorno in Italia, di mettere una buona parola per loro con Cosa Nostra. Roger mi prega di seguirlo in una baracca a un paio di isolati. Resto sull’uscio. Lo sento salutare gli abitanti della casa in patwah, la lingua creola-inglese che si parla in Giamaica. E, come sempre, parte un fiume di «Ya man!».

Dopo pochi minuti, esce con uno zainetto in spalla stracolmo di marijuana. In Giamaica l’uso della cannabis è legale dal 2015 ed è possibile detenerne fino a un’oncia, cioè 28,35 grammi. Il prezzo al grammo varia in base alla qualità. Si va dai 20 centesimi di euro ai 20 euro. Per coltivarla è necessaria una licenza statale dal costo annuo pari a quasi 900 euro, cifra che in pochissimi si possono permettere. Così, gran parte delle coltivazioni sono illegali. Roger cerca di arrotondare vendendo marijuana ai turisti e non mi resta altro da fare che accompagnarlo nella sua caccia ai clienti. «I migliori sono i tedeschi», sentenzia. Torniamo a casa dopo diverse ore.

Festa di… funerale

Di sottofondo, come a ogni ora del giorno e della notte, si sentono degli spari. Mentre mi chiedo dalla mano di chi provengano, suona il campanello. È Roger. «Rapido! Ti porto a un nine night qui vicino». Senza neanche sapere di cosa stia parlando, salto sull’attenti. Finora le sue proposte non sono mai state deludenti.

In pochi minuti arriviamo nel cortile di una coloratissima villetta. C’è un baccano infernale e a fatica riusciamo a comunicare. Urla, schiamazzi, ubriachi, grigliate con bistecche di maiale e cosce di pollo, tavolini pieghevoli su cui si gioca a domino. È stato allestito anche un sound system, un impianto formato da più casse, che emette a tutto volume. Partono le danze. Siamo a un nine night, una veglia funebre. In Giamaica, come in molti altri paesi dei Caraibi, il morto viene celebrato con una festa sfrenata che parte la sera e termina alle prime luci dell’alba. Può durare anche più giorni, fino a nove, a seconda della disponibilità economica della famiglia del defunto.

«Si chiamava Paul – dice Roger – e non aveva neanche trent’anni. Io non lo conoscevo bene ma era di Mountain View. Era un soldato come me e i miei amici. L’hanno trovato morto stecchito con una pallottola alla tempia in riva al mare. L’hanno giustiziato, capito? Chissà in che giro era finito. So che il suo General ha sguinzagliato i suoi per capire cosa sia accaduto». Roger indica cautamente il General di Paul, un energumeno sulla cinquantina. Circondato da sei uomini con armi a vista, sta abbracciando la madre del morto. «Non fissarlo, qui basta uno sguardo di troppo per finire nei guai».

La nottata prosegue tra fiumi di birra calda, rum di pessima qualità, spinelli e cocaina.

Tra qualche ora si terrà il funerale di Paul. Il General fa cenno al dj di fermare la musica per pronunciare un brevissimo discorso: «Noi tutti abbiamo perso un fratello. Era poco più di un ragazzo, una persona per bene che amava la sua famiglia. Mountain View non lo dimenticherà. Paul avrà la sua vendetta». Il nine night finisce con una promessa di sangue e spari di accompagnamento.

Gli squatter di Harbour View

Il pomeriggio successivo vengo svegliato da un ragazzino. È stato Roger a mandarlo con un messaggio: «Fatti trovare pronto. Tra poco andiamo dai miei amici di Harbour View». Giungiamo a destinazione solo al tramonto. Fino a non molti anni fa Harbour View era un bel quartiere residenziale all’estremità sudorientale di Kingston. Ville a schiera sul mare abitate dalla borghesia della capitale. Poi, nel 2012, l’uragano Sandy ne rase al suolo un gran numero e danneggiò gravemente le poche rimaste in piedi. Poco dopo il passaggio di Sandy, gli abitanti delle colline circostanti, le cui baracche erano andate distrutte, scesero verso il mare e occuparono le rovine dei ricchi. Da allora non ci fu modo di mandarli via.

«Ya man! Guardate un po’ chi c’è?». Roger viene accolto quasi fosse una celebrità. Intorno a noi si crea un capannello di curiosi. Impennando, ci viene incontro una motocicletta di bassa cilindrata. I lunghi dread del provetto pilota svolazzano indisturbati. Inchioda. «Bless! Respect! Quello che vedo è mio fratello Roger?».

È Ziggy (in lingua patwah significa spinello, come Bob Marley soprannominò il suo primogenito David), uno dei capi del ghetto di Harbour View. È sulla trentina, supera non di molto il metro e mezzo, è magro come un chiodo e ha tatuaggi ovunque, anche in viso. Comincia a esibirsi in una serie di impennate su entrambe le ruote e derapate di tutto rispetto considerando il catorcio cinese che guida.

Parcheggiata la moto, Ziggy ci fa da cicerone per il quartiere. Per prima cosa vuole farci conoscere la sua compagna e la figlioletta di tre anni. Ci fa visitare la sua casa, una grande e malconcia villa a un piano. I muri sono pieni di crepe. Le stanze sono tutte spoglie e senza infissi. In una di esse ci sono una sedia, una brandina con un materasso lurido e una valigetta aperta con dentro una macchinetta da tatuatore, aghi, colori e altri attrezzi del mestiere. «Questo – illustra Ziggy – è il mio studio. Nel ghetto chi si vuole tatuare viene da me. È così che mantengo la mia famiglia. E con altri piccoli business… Vuoi della cocaina?».

Harbour View viene chiamato scherzosamente «Gaza» dai suoi abitanti. L’uragano qui e Israele nel territorio palestinese, producono il medesimo risultato: macerie. Di sera, per godere della brezza marina, Ziggy e gli altri ragazzi vanno in spiaggia e prendono posto sulle rovine di una palazzina a due piani. Tra uno spinello e un altro, si godono il panorama delle luci di Kingston. È lì che ci portano.

«Polizia, funzionari del comune, altre bande: tutti hanno provato a cacciarci via da qui», racconta un tizio con in faccia una bella collezione di cicatrici. Accarezza la canna di una pistola a tamburo. «E noi con questa li abbiamo sempre respinti. Harbour View è casa nostra. Ci abbiamo portato le nostre famiglie, abbiamo fatto dei lavori. Vogliono che ce ne andiamo? Ci devono pagare profumatamente!». Raccoglie l’approvazione dei suoi compagni.

Sono tutti armati di pistole che nascondono sotto la maglietta. Gli adolescenti li vedono come esempi da seguire e pendono dalle loro labbra. «Vedi quello in pantaloncini? – indica con la canna Ziggy -. È mio cugino. Ha tredici anni ma ha le palle per essere uno dei nostri. E vedete quel muro crivellato di colpi? È contro quel muro che lo faccio esercitare a sparare».

A Ziggy e compagnia è venuta sete. Propongono di spostarci al bar del ghetto, una casupola di legno con un piccolo cortile antistante dove delle ragazzine stanno giocando a dadi su delle casse capovolte. Ordinano tutti delle bottigliette di Magnum, la bevanda che va per la maggiore. Sull’etichetta c’è scritto Tonic Wine, un modo elegante per dire Red Bull con alcol al 16.5%. «Due di queste e fai bum bum tutta la notte», grida Roger guadagnandosi una serie di pacche sulla spalla.

Ziggy prende sottobraccio due delle ragazzine impegnate nella partita a dadi. Avranno meno di sedici anni. I tre si voltano verso di noi per qualche istante e tornano a confabulare. Poco dopo il gracile boss di Harbour View ci viene incontro. «Sono le mie cuginette. Belle, vero?». Annuiamo. Sono davvero belle. «Loro sono un altro dei miei business. Vuoi farti un giro con loro? Potresti andare a casa mia. Sono pulite, non hanno l’Aids. Che faccio, organizzo? Sono venti dollari americani, è un regalo».

Per il quarto d’ora successivo prova a convincermi in tutti i modi. Guarda le sue protette scuotendo la testa. Le due non sembrano troppo dispiaciute. Fa un ultimo tentativo disperato. «Troppo giovani? Volendo c’è mia sorella, ha quasi ventotto anni».

Luca Salvatore Pistone




India: Intoccabili, ma carne da lavoro

Testo e foto di Mario Ghirardi


Quasi un quarto della popolazione indiana, composta da «dalit» e «adivasi», viene considerata inferiore. Con questa scusa i lavoratori di questi gruppi sono sfruttati in tutti i settori dell’economia e utilizzati per gli incarichi più umili. E la globalizzazione economica ha aumentato le disuguaglianze. Alcuni elementi dallo studio dell’antropologa indiana Alpa Shah.

In India ci sono 2,6 milioni di gabinetti «a secco», ovvero latrine di fortuna, le quali, non avendo acqua corrente disponibile, vengono tenute in efficienza e pulite da oltre 53mila persone, i cosiddetti «scavengers», tramite lavoro manuale. Si tratterebbe di un’attività lavorativa vietata da 25 anni. Quelli citati sono dati ufficiali del ministero competente, sottostimati, perché non tengono conto di chi lavora nel settore ferroviario, dove il numero delle latrine è enorme, né delle 182mila donne che svolgono questa attività nei villaggi rurali (cifre di un censimento relativamente recente), ricompensate con due pezzi di pane al giorno e un pugno di cereali ogni sei mesi. Il pagamento in denaro, pochissimi spiccioli, è previsto in rari casi. I rischi connessi a questa attività sono molto alti: il ministero parla di 300 morti nel solo 2017, ma gli attivisti umanitari citano cifre ben più elevate.

Gli intoccabili

La vicenda potrebbe sembrare la terribile stortura di un sistema specifico di lavoro, invece non è che una piccola fetta di quello sfruttamento indistinto che colpisce due gruppi specifici di persone: i «dalit», gli intoccabili, la classe più bassa nel sistema indiano delle caste, e gli «adivasi», ovvero le popolazioni indigene e quelle tribali, che abitano boschi e zone rurali. Nel complesso si tratta di ben 300 milioni di individui, quasi un quarto della popolazione indiana. Questi uomini e donne sono considerati secondo la religione stessa così sporchi e «inquinanti» da meritare il nome di «intoccabili». Sono quasi ridotti alla schiavitù, perché le poche monete con le quali sono pagati, senza contratti, sia quando lavorano nei campi, sia in miniera, non bastano a restituire i prestiti che spesso si trovano a dover chiedere ai loro datori di lavoro per sostenere le spese necessarie in famiglia per matrimoni, parti, funerali e cure sanitarie. L’incredibile boom economico che l’India ha vissuto dagli anni ’90, quando l’economia è stata liberalizzata, non ha fatto altro che peggiorare questa situazione che dura da secoli. La diseguaglianza è ancora aumentata. Il più recente rapporto dell’Ong Oxfam racconta che l’1 per cento della popolazione ha in mano il 77,4 per cento della ricchezza nazionale e che il 60 per cento più povero ne usa il 4,8. Ottocento milioni di indiani sopravvivono con meno di due dollari al giorno.

Per mitigare le diseguaglianze più atroci, la Costituzione indiana, al momento dell’indipendenza dall’impero inglese nel 1947, pensò di citare direttamente gli adivasi per tutelarli, riservando loro quote nelle assunzioni nella pubblica amministrazione. La situazione oggi è peggiorata, nonostante le statistiche indichino una diminuzione della povertà in termini generali.

Una ricerca per i diritti

La crescita economica quindi, non ha affatto portato vantaggi a tutti, come affermano i globalisti. Per combattere il modello di sviluppo neoliberista, l’erosione dei diritti legati al lavoro, la discriminazione, la repressione del dissenso, l’indebitamento che rende schiavi, l’antropologa Alpa Shah ha condotto un approfondito progetto di ricerca intitolato: «Dietro il boom indiano, diseguaglianza e povertà nel cuore della crescita economica». Partita da Londra, ha iniziato a fare il giro del mondo con conferenze, dibattiti e mostre fotografiche coordinate dal filmmaker Simon Chambers. Vi lavora con un gruppo di ricercatori della London School of Economics e con il geografo sociale Jens Lerche della School of oriental and african studies. Il finanziamento è del Consiglio europeo della ricerca.

«L’obiettivo – racconta Shah nella sua ricerca – è appunto quello di suscitare la massima attenzione sulle condizioni di vita e sfruttamento anche in altre parti della terra, sulla necessità di lottare per i diritti di chi lavora, i diritti sulla terra degli adivasi, popolazioni originarie del subcontinente, colpevoli solo di abitare da secoli nei territori e tra le foreste su cui hanno messo gli occhi le multinazionali, interessate ai ricchissimi giacimenti di carbone, ferro e alluminio e che intendono sfruttare, anche distruggendo l’ambiente, trasferendo gli indigeni, oppure usandoli. Bisogna combattere ogni forma di oppressione e violenza perpetrata nel nome di uno sviluppo falsato: ognuno ha diritto alla sussistenza. Non importa quanto piccoli possano sembrare su scala globale, gli sforzi che si stanno compiendo in questo senso sono significative testimonianze di impegno per un mondo più giusto ed equo».

Nelle piantagioni

I dalit sono reclutati come neppure il peggior caporalato italiano fa e sono licenziabili in qualsiasi momento. Il 92 per cento della forza lavoro indiana non ha alcuna tutela. Sono assegnati loro i lavori più degradanti, logoranti e pericolosi.

I migranti stagionali nel biennio 2016-17 sono stati almeno 140 milioni, e le cifre sono sempre calcolate in difetto.

Nonostante in India sia stata abrogata formalmente la schiavitù nel 1833, continuano le lunghe migrazioni per lavorare nelle piantagioni di tè nel Nord Est del Bengala, nell’Assam e nel Kerala. Se fino al 1833, questi contadini erano addirittura incarcerati per qualsiasi inadempienza contrattuale, oppure puniti corporalmente o abbandonati alla morte per inedia, oggi devono resistere anni per ripagare il costo del loro trasporto e del loro vitto e alloggio nelle baracche fatte di teloni e lastre di eternit, collocate sui dolci declivi delle piantagioni del Sud, ormai diventate anche mete turistiche.

I miglioramenti di condizioni economiche faticosamente raggiunti sono stati recentemente vanificati dalla crisi del settore, tanto che, pochi anni fa, 12mila donne impegnate nella raccolta del tè hanno trovato il coraggio di scioperare, mobilitandosi persino contro il parere dei sindacati, per far rispettare la legge che prevede per loro un lavoro massimo di 9 ore giornaliere.

Lavori al limite

I migranti stagionali sono anche alla base dell’industria delle costruzioni, sia nelle piccole fornaci di mattoni sparse qui e là, sia nei grandi cantieri allestiti per edificare importanti infrastrutture. Il lavoro è molto pericoloso. Arrampicate su precarie impalcature di bambù, senza funi né caschi, oppure trasportando ghiaia e cemento in cestini sulla testa, sono 50 milioni le persone impiegate nel boom edilizio che contribuisce all’8 per cento del Pil nazionale. Le giornate lavorative sono di 12 ore anche 7 giorni su 7, con compensi che non raggiungono spesso neppure il basso salario minimo previsto per legge.

Nei campi di raccolta del cotone la situazione è pressoché identica. Il lavoro di semina, eliminazione delle erbacce e mietitura si svolge sotto un’estrema calura per gran parte dell’anno. Chi ha provato a sottrarsi alla condizione di bracciante acquistando un fazzoletto di terra, non ha ottenuto altro che l’indebitamento per acquistare sementi e fertilizzanti, e per mettere il terreno in condizione di essere irrigato. Data l’impossibilità di risalire la china, visti i recenti crolli del prezzo della materia prima, nel solo 2013 si sono contati 34 suicidi al giorno tra i piccoli imprenditori. La produzione del cotone è infatti oggi crollata in quantità, insieme al prezzo di vendita, a causa del cambiamento climatico in atto che porta piogge torrenziali, e per l’introduzione di sementi geneticamente modificate che non resistono agli attacchi del verme del cotone e obbligano all’acquisto di quantità sempre crescenti di costosi e inquinanti pesticidi.

Nemmeno i dalit che hanno il coraggio di vivere nelle inospitali paludi di mangrovie del Bengala per rifornire di granchi le mense asiatiche, se la passano meglio. Il loro primo nemico è la tigre, animale protetto, che li attacca con frequenza, riproponendo lo stesso conflitto che altri contadini vivono con gli elefanti che si spingono in prossimità dei raccolti. Le foreste di mangrovie hanno poca terra ferma, sono circondate da acque salate che portano periodiche inondazioni in un ambiente peraltro devastato dai cicloni. I granchi sono pagati a prezzi altissimi da chi li consuma, mentre a chi li raccoglie sono riservate poche rupie.

I ricercatori dell’équipe coordinata da Shah e Lerche puntano il dito anche contro l’attività mineraria in mano alle grandi multinazionali che operano senza scrupoli nei confronti dell’ambiente e dei diritti degli indigeni, grazie anche al sostegno rinnovato cinque anni fa dal governo centrale che vuole posizionare l’India come «global hub» di estrazione e lavorazione di metalli. Sotto il manto di foreste dell’India centrale e orientale, abitate dagli adivasi, si nascondono tesori immensi di ferro, bauxite, carbone, rame, grafite, mica, caolino, persino oro e uranio. La gente è evacuata dalla terra degli avi in massa, chi resta lavora in miniera, a piedi nudi impugnando un piccone, con evidenti scarsissime garanzie di sicurezza e salario. Le terre sono espropriate, chi cerca di resistere subisce brutali repressioni. Per le imprese è più conveniente far lavorare gli operai con la sola forza muscolare, anziché investire in costosi macchinari di sgombero terra. Le miniere censite sono oltre 300mila, ma solo lo 0,1 per cento offre minimi standard di agibilità. La produzione di elettricità nel paese per il 70 per cento è affidata proprio al carbone fossile e non ci si stupisce se 14 delle 20 città più inquinate del mondo si trovano in India. Inoltre, le emissioni di gas serra, che costituiscono la causa principale del cambiamento climatico globale, continuano ad aumentare, grazie anche alle acciaierie e alle fornaci produttrici di cemento.

Altri adivasi, in questo quadro di boom economico oppressivo, sono persino costretti a sopravvivere con i miserevoli ricavi prodotti dalle scorie di carbone che recuperano dai cumuli residuali a cielo aperto. Si caricano le schegge sulle biciclette o le trasportano a piedi in sacchi di iuta per venderli a chilometri di distanza. Oppure setacciano con calamite i residui ferrosi scartati durante l’estrazione e cercano di venderli con il medesimo sistema. O ancora, anche in stati sviluppati come Kerala e Tamil Nadu, raccolgono rifiuti nelle discariche e lungo i bordi delle strade selezionando carta, plastica, vetro o metallo già scartato da altri, ricevendo un compenso molto basso.

Del resto, lo sfollamento dalle loro terre espropriate li riduce spesso a dormire per strada, nonostante alcuni abbiano ricevuto in cambio della loro partenza piccolissimi lotti di terra.

«La crescita non va a vantaggio di tutti. Le enormi diseguaglianze sono l’altra faccia della prosperità economica globale», commenta Alpa Shah. Un caso emblematico di come stia progressivamente degenerando la situazione delle comunità più svantaggiate – dicono i ricercatori – è stata la costruzione della mega diga Sardar Sarovar iniziata negli anni ’90 che interessa tre stati centrali, il Maharashtra, il Madya Pradesh e il Guyarat. L’impianto, che comprende decine di altre dighe più piccole, è stato inaugurato solo due anni fa dal premier Narendra Modi dopo sollevazioni popolari di ogni tipo. Manifestazioni che hanno portato addirittura la Banca mondiale a ritirare la sua partecipazione di 450 milioni di dollari al progetto. La diga ha causato il trasloco forzato di decine di migliaia di persone in nome di irrigazione e progetti idroelettrici, senza ricadute benefiche di nessun tipo sulla popolazione locale, che invece ha perso non solo casa e campi da coltivare, ma anche la sua identità culturale e i rapporti sociali. Una spirale che crea ulteriore emarginazione e che non sembra conoscere inversione di marcia.

Mario Ghirardi

Archivio MC


I moti insurrezionali dei Dalit

L’insurrezione armata più lunga

Negli anni ‘70, nel Bengala, gli adivasi iniziarono una ribellione armata che continua ancora oggi. Le tecniche sono quelle della guerriglia, ma la popolazione viene presa in mezzo. Una guerra dimenticata che è costata 7mila morti negli ultimi dieci anni.

I primi moti insurrezionali violenti organizzati per combattere lo sfruttamento e la confisca delle terre agli adivasi scoppiarono negli anni ’70 del secolo scorso in una remota città del Bengala settentrionale e proseguono ancora oggi, tanto che questa pare essere la lotta rivoluzionaria armata più lunga al mondo.

L’antropologa sociale Alpa Shah ha studiato a lungo questi moti, descrivendoli in numerosi saggi e in un volume pubblicato in Italia da Edizioni Meltemi con il titolo «Marcia notturna». La ricercatrice ha studiato il fenomeno a partire da un villaggio dello stato del Jharkhand divenuto roccaforte della guerriglia. Qui si concentrano infatti le mire di sfruttamento delle risorse minerarie da parte delle multinazionali. Mire che portano con sé anche la distruzione delle foreste e degli habitat tipici degli adivasi, sino ad allora completamente ignorati dai governi centrali. Vivono in villaggi che non hanno mai conosciuto elettricità, scuole e assistenza sanitaria.

Il risultato è che, dopo la prima insurrezione di ispirazione maoista e marxista leninista, il governo ha etichettato i rivoltosi come maoisti e dà loro una caccia spietata da almeno una dozzina di anni, ovvero da quando le foreste dell’India centrale e orientale sono pattugliate con continuità dall’esercito e da corpi specializzati che li combattono usando le loro medesime tecniche. Da un lato i guerriglieri cercano di farsi amiche le popolazioni abolendo le oppressive gerarchie di tribù e casta, dall’altra squadre di vigilantes puntano a mettere gli adivasi gli uni contro gli altri, con conflitti locali che degenerano in spedizioni punitive contro i villaggi che spesso finiscono dati alle fiamme.

Sull’altro fronte i guerriglieri vogliono stanare i militari e li attaccano facendo saltare con bombe i loro mezzi e uccidendo coloro che ritengono informatori della polizia. Questi rispondono con azioni altrettanto violente contro chi dà ospitalità ai rivoltosi. Ai morti negli scontri a fuoco, secondo alcune fonti, stando sempre a quanto riferiscono i pochi giornalisti e avvocati per i diritti umani che riescono ad entrare in quelle zone, si devono aggiungere anche quelli uccisi durante la prigionia e che vengono fatti passare come vittime in battaglia. Alla fine, delle circa 7mila persone che si stima abbiano perso la vita in questi conflitti nell’ultimo decennio, il 40 per cento sono civili, con il resto suddiviso tra guerriglieri e militari. Altre 7mila persone, secondo i dati del South Asia Terrorist Portal, si sarebbero arrese e 8mila sarebbero state arrestate.

M.G.




RD Congo: Pigmei. Sempre nomadi, ma fino a quando?

Testo di Marco Bello | foto Archivio fotografico MC


I pigmei bambuti sono il popolo originario delle foreste nell’Est del Congo. All’arrivo di altre popolazioni si sono inoltrati sempre più nella selva. Ma da alcuni anni i cercatori d’oro invadono il loro territorio, portando molte problematiche. Intanto anche lo sfruttamento del legname e la deforestazione stanno distruggendo il loro habitat. Ai missionari la grande sfida di come salvare la loro cultura.

«I pigmei non sono guerrieri, ecco perché all’arrivo di altre popolazioni nella loro terra, hanno adottato la politica di ritirarsi nella foresta più folta. Purtroppo oggi assistiamo a un’invasione della selva, operata dai cercatori d’oro alla ricerca di nuovi siti». Chi parla è padre Flavio Pante, missionario della Consolata con una ventennale esperienza di lavoro tra le popolazioni pigmee del Congo, oltre che con esperienze in Costa d’Avorio e Italia.

Parla del Nord Est della Repubblica democratica del Congo (Rdc), del distretto dell’Alto Uele, diocesi di Wamba: «I pigmei sono stati i primi abitanti di questa zona, tutti gli altri, quelli che chiamiamo genericamente bantu, sono arrivati in un secondo tempo». I missionari della Consolata lavorano da venti anni nell’area di Bayenga, dove c’è un’alta concentrazione di pigmei, in particolare la popolazione dei Bambuti. «La parrocchia lavora sulla realtà pigmea, e sulla realtà dei bantu e delle altre popolazioni».

Il «nuovo» flagello

La foresta è ricca di oro e altri minerali preziosi, che si trovano, in particolare, lungo i fiumi, un po’ ovunque. Così il popolo dei cercatori d’oro si inoltra sempre più nella foresta e costruisce vere e proprie città provvisorie di baracche nei pressi dei siti auriferi più promettenti. Dato che questi siti cambiano in continuazione, i villaggi di oggi potrebbero scomparire una volta esaurita la vena mineraria. Il risultato è una penetrazione della foresta sempre maggiore.

«Qualcuno paga la licenza di estrazione – racconta padre Flavio – e manda i più disperati a cercare l’oro. Questi sono i cercatori artigianali, lavorano manualmente e nessuno assicura loro il minimo di sicurezza. Si può dire che stanno peggio dei pigmei. Quello che trovano lo vendono per pochi soldi all’intermediario, che poi lo porterà al comptoir (ufficio di esportatori, ndr) in città dove sarà acquistato a un prezzo nettamente superiore.

Tutto quello che i cercatori d’oro consumano, come il cibo, gli attrezzi, viene da lontano, dalle città, e arriva con grossi camion. Per questo è molto costoso. In questi agglomerati di baracche circolano soldi, prostituzione, malattie, violenza. Tutti gli affari, in quest’area, seguono i siti di estrazione dell’oro».

Un fenomeno, che, pure se esisteva già 30 anni fa, come conferma padre Flavio che era in missione in Congo (all’epoca Zaire) nel 1978, negli ultimi dieci anni ha assunto una dimensione enorme, e tutto questo a scapito del territorio dei pigmei.

Legname pregiato

«Un altro fatto che sta contribuendo alla distruzione dell’habitat del pigmeo è il taglio degli alberi per il legname. I camion che portano mercanzie di ogni genere per i cercatori d’oro, ripartono carichi di tronchi. Spesso i pigmei stessi sono assoldati per trasportare gli alberi sezionati fuori dalla foresta, nei luoghi raggiungibili dai camion. I mezzi poi partono per l’Uganda, dove il legname sarà venduto e lavorato». Una foresta invasa dalle motoseghe, vuol dire non solo eliminare gli alberi, ma anche far fuggire la selvaggina, il principale sostentamento del pigmeo.

Si tratta anche di una invasione culturale, oltre che fisica: «Il pigmeo è entrato in contatto con un’altra realtà. Ha visto il mercato del villaggio bantu, ascoltato la radio, sperimentato gli alcolici. Ormai non riesce più a staccarsi da queste cose penetrando di più nel folto della foresta. Si avvicina alla popolazione di origine bantu e si accampa. Però è rimasto per indole raccoglitore e cacciatore, per cui può capitare che vada in un campo e raccolga del cibo: ma in questo modo, per la società bantu, diventa un ladro. Un comportamento dell’altro, non puoi criticarlo se non lo conosci. Devi cercare di metterti nei suoi panni. Il pigmeo ha rubato, o piuttosto, ha preso per fame?».

Il pigmeo che con la sua famiglia è uscito dalla foresta profonda e si è accampato nei pressi delle città, ha perso il suo habitat ed è a un passo dal perdere la sua identità.

«Una questione fondamentale – continua padre Flavio – è che le persone di altre etnie considerano i pigmei esseri inferiori. A causa di questo preconcetto si è creata una dipendenza perversa. Il bantu dice al pigmeo: “Io ti prendo come protetto. Tu coltiva il tuo campo e poi vieni a lavorare nel mio come mio servo”. Si crea una dipendenza servile che spesso è suggellata dal patto della circoncisione: “Io circoincido mio figlio con il tuo, per questo siamo quasi parenti”».

Ma nella mentalità del pigmeo coltivare è assurdo. Da cacciatore, lui si procura da mangiare nella giornata, abbastanza per quel giorno. Seminare, innaffiare e pensare di avere cibo dopo settimane o mesi è impensabile per la sua concezione. Occorre un cambiamento di mentalità, ma ci vuole tempo.

La scuola «inculturata»

Un aspetto che ha interrogato molto i missionari è stato quello dell’educazione. «Il contatto con le altre popolazioni impone che i pigmei imparino a leggere e scrivere – sostiene padre Flavio -. Dobbiamo però tenere sempre presente che vogliamo valorizzare quello che loro danno per scontato, ma che stanno per perdere, ovvero la loro cultura. Per questo occorre prepararli in modo che siano in grado di conservare le loro tradizioni».

I bantu si sono adeguati allo stile e ai costumi europei. Questo anche a livello di scuola, che è strutturata come quella dei paesi colonialisti. Ma se, ad esempio, per i belgi ci sono quattro stagioni, per i pigmei ce ne sono solo due, ovvero la stagione secca e quella delle piogge. Inoltre per loro non ci sono i mesi, ma le lune. Per la scuola del bambino pigmeo bisogna tenere in conto di tutto questo. Se da settembre a novembre può venire a lezione, da gennaio in poi è stagione secca, deve andare in foresta a cacciare e raccogliere il miele. Quindi partirà con i suoi genitori, tornando magari dopo tre mesi. Inoltre, quando frequenta, il bambino pigmeo non riesce a stare fermo tutta la mattina. La scuola deve essere diversa anche come tempistiche. Ecco perché i missionari della Consolata si sono inventati la «scuola itinerante».

Così la descrive padre Flavio: «È una scuola che si adatta ai periodi dell’anno e alla periodicità dei giorni. L’insegnante passa nell’accampamento dei pigmei e inizia a dare nozioni di base. Poi si integra con un cosiddetto “esperto” dell’accampamento, ovvero un adulto che tiene lezioni su elementi specifici, come la caccia, la tessitura, e tutti gli altri aspetti della vita pigmea».

Un’altra difficoltà nell’insegnare ai pigmei è il fatto che sono molto concreti e hanno difficoltà con l’astrazione. «È piuttosto complesso ad esempio insegnare i numeri. Per spiegare il numero 8, ad esempio, prendo otto pietre, otto unità. Ma non c’è il concetto di una entità che si chiama “8”. Quindi il calcolo resta molto difficile per loro. Così come per insegnare l’alfabeto occorre associare un suono a ogni lettera. Sono categorie che devono acquisire, non sono spontanee.

Noi ci prepariamo le lezioni in lingua kibutu, che è una lingua bantu parlata anche dai pigmei, simile al kiswahili. A volte proiettiamo qualcosa su un panno bianco. Abbiamo visto anche molto interesse da parte degli adulti, che lasciano le loro occupazioni per venire a vedere cosa stiamo facendo».

Il villaggio mobile

Il pigmeo non ha un villaggio stabile. La sua capanna si può costruire in un giorno e, normalmente, è un incarico delle donne. I gruppi sono composti da una trentina di persone, senza contare i bambini, e sono entità che si spostano.

Inoltre, tradizionalmente, fino a pochi anni fa, non c’era un capo. C’erano dei referenti, responsabili di alcuni ambiti della vita della comunità: chi per la caccia, chi per far nascere i bambini, chi per la tessitura, ecc. Adesso, che hanno contatti con i bantu, è nata l’esigenza di avere un capo, perché occorre un referente unico per il gruppo.

Un altro effetto della contaminazione è quello legato alla monogamia. «I pigmei sono tradizionalmente monogami, perché in foresta non puoi permetterti due mogli e tanti figli. Oggi, con il contatto con i bantu, stanno assumendo altre usanze. Anche per la dote. Il matrimonio veniva fatto tra due gruppi con scambio di ragazze. Se si porta carne è per la festa comune, ma una ragazza vale una ragazza. Per i bantu, invece, se tua figlia si sposa devi chiedere dei beni all’altra famiglia. Diventa quasi una vendita.

Tra i pigmei al servizio dei bantu iniziano a entrare le abitudini dei bantu».

Anche dare uno stipendio a un pigmeo è difficile: «Si pagano tutte le settimane, perché una volta al mese non riescono a tenere i soldi. Un funzionario si trova ad avere un salario, ma non sa gestirlo. Spesso beve. Oppure paga anche per gli altri, condivide, come se nel  giorno di paga avesse cacciato un grosso animale. Ci sono stati maestri elementari pigmei, ma sono stati un fallimento. È una perdita di identità al 100%: dicono di non essere più pigmei, però si accorgono di non essere nemmeno bantu, perché vengono discriminati. Rifiutano i loro fratelli e sono rifiutati da quelli con cui si identificano».

Il lavoro dei missionari

«Ci sono villaggi bantu nei pressi dei quali sorgono due, tre accampamenti pigmei. Noi andiamo al villaggio, lasciamo la moto e poi entriamo in foresta a piedi, fino all’accampamento.

Tre anni fa, si era creato un accampamento grosso, fusione di due gruppi. Lì mi avevano fatto una capanna e io vivevo con loro tre giorni alla settimana.

Per preservare la loro cultura cerchiamo di raccogliere e conservare tutto quello che è il loro mondo, sia a livello di medicina tradizionale, sia di narrazioni. Ma è un lavoro agli inizi. Quello che manca, guardando altri casi simili, come il popolo Yanomami in Amazzonia, è la mancanza di una sensibilità al riguardo. Penso sia frutto di un lavoro, ma forse anche di una sensibilità latinoamericana diversa. I pigmei non dicono “la nostra tradizione, i nostri costumi”. Devi essere tu che indichi loro: “I vostri costumi”. A volte il pigmeo ha vergogna dei suoi costumi. Questo perché quando sei considerato inferiore, dopo un po’ ti convinci di esserlo».

Padre Flavio Pante sostiene che occorre anche lavorare sulla popolazione bantu per un cambiamento di mentalità nei confronti dei pigmei. Ma si tratta di un lavoro molto difficile, «perché i bantu si sentono i padroni della gente». Inoltre il missionario è sempre uno straniero, e i bantu hanno troppi interessi da difendere. Noi cerchiamo di fare un discorso con i cristiani: non possiamo accettare questa logica.

«Per i sacramenti e la preghiera, cerchiamo di celebrare con la comunità unita, ovvero insieme bantu e pigmei. I pigmei vengono a messa. La partecipazione nel canto e nella danza è più difficile: i bantu ridono dei pigmei che danzano. Inoltre la musica pigmea non ha parole, ha suoni anche con la bocca».

E conclude: «C’è in noi la volontà di continuare ad occuparci delle popolazioni pigmee. Ma gli africani, in genere, non sono molto attirati a lavorare con loro».

Marco Bello


Archivio MC


Dalle elezioni alla formazione di un nuovo governo

Alternanza? Sì, no, forse

Le elezioni del dicembre 2018 hanno dato al Congo un nuovo presidente, dal cognome famoso, ma senza maggioranza parlamentare. Da allora sono passati otto mesi alla ricerca di un difficile consenso tra gruppi politici, per governare uno dei paesi più ricchi di materie prime del continente.

Forse ci siamo. La Repubblica democratica del Congo avrà, infine, il suo nuovo governo. La lista dei suoi 65 membri è stata resa pubblica il 26 agosto. Da ormai sette mesi, dal suo insediamento, il 25 gennaio scorso (in seguito a elezioni presidenziali, legislative e amministrative), il nuovo presidente della repubblica Félix Tshisekedi, tenta di costituire il governo (l’Rdc è una repubblica presidenziale). Tshisekedi è il figlio di Etienne, l’eterno oppositore che non è mai riuscito a conquistare il potere, se non per alcune brevi esperienze di governo come primo ministro. Etienne dopo aver perso l’ultima sfida nel 2011 contro Kabila, è morto il primo febbraio del 2017.

Félix ha vinto a sorpresa le elezioni presidenziali, molto contestate in realtà, alla testa del partito fondato da suo padre, l’Unione per la Democrazia e il Progresso Sociale (Udps), facente parte del più vasto gruppo politico Cap pour le changement (Cach). Nel frattempo il Fronte comune per il Congo (Fcc), la coalizione dell’ormai ex presidente Joseph Kabila, ha vinto massicciamente le legislative e le amministrative, assicurandosi una maggioranza confortevole all’Assemblea nazionale e al Senato (le due camere del parlamento congolese).

Tshisekedi ha dunque dovuto intavolare un negoziato con gli ex padroni del paese per tentare di creare un governo.

«Il contesto politico è cambiato in Rdc – scrive il Gruppo di studio sul Congo dell’Università di New York -. Joseph Kabila anche se è ancora potente, con una maggioranza parlamentare schiacciante, non è più l’uomo forte di Kinshasa. L’ex presidente non ha più l’ultima parola su tutto».

Joseph Kabila era salito al potere il 26 gennaio del 2001, alla morte di suo padre Laurent-Désiré Kabila, ucciso da una sua guardia del corpo in circostanze ancora da chiarire. Era in corso la cosiddetta Seconda guerra del Congo (1998-2003). Laurent-Désiré aveva guidato una ribellione appoggiata da Burundi, Rwanda e Uganda, che aveva portato a rovesciare il presidente-padrone del paese Mobutu Sese Seko nel maggio del 1997, durante la Prima guerra del Congo (1996-1997). In questa occasione Kabila padre aveva cambiato il nome dello Zaire nell’attuale Repubblica democratica del Congo.

Joseph ha quindi mantenuto il potere, conquistato con la forza, confermandolo con due elezioni successive (2006 e 2011). Il suo ultimo mandato, non rinnovabile, sarebbe scaduto nel dicembre del 2016, ma lui ha rinviato progressivamente le elezioni, eliminando anche i potenziali oppositori, come Moise Katumbi, costretto all’esilio in Belgio, e limitando la libertà di stampa.

Una deriva anticostituzionale che ha causato reazioni della società civile che, a più riprese, ha chiesto al leader di lasciare il potere. In particolare la chiesa cattolica si è posta inizialmente come mediatrice, tra il presidente e l’opposizione, ottenendo la promessa di Kabila di organizzare elezioni a fine 2017. In seguito, visto che l’impegno non veniva mantenuto, la chiesa ha organizzato manifestazioni pacifiche a cui hanno aderito molti cristiani e i leader dell’opposizione, per chiedere il rispetto degli accordi.

Il 31 dicembre 2017 una di queste manifestazioni è stata prima ostacolata e poi repressa dalle forze dell’ordine. Si sono registrati 6 morti, 57 feriti e 111 arrestati, secondo la Monusco (Missione della Nazioni Unite in Congo). Il confronto tra il potere di Kinshasa e la chiesa cattolica congolese si era fatto duro.

Finalmente, con molte difficoltà, anche logistiche, in un paese di 2,5 milioni di km2 scarsamente collegato e con 45 milioni di elettori, le consultazioni si sono svolte nel dicembre del 2018. Le urne, come detto, hanno restituito una situazione complessa e le due coalizioni hanno faticato a trovare un accordo. Nel maggio scorso il presidente ha nominato Sylvestre Ilunga Ilunkamba primo ministro, e questi ha lavorato per produrre una lista di ministri gradita a entrambi i gruppi politici. Su 65 posti ministeriali (ministri e sottosegretari), 23 vanno alla coalizione di Tshisekedi, Cach, e 42 a quella di Kabila, Fcc. Alla prima vanno i dicasteri dell’Interno e Affari esteri, alla seconda Giustizia, Difesa e Finanze. Intanto la società civile denunica un incremento di casi di appropriazione indebita di fondi a livello dei ministeri, negli ultimi otto mesi.

Ma.Bel.

Felix Tshisekedi, nuovo presidente del RD Congo / Photo by ANDREW CABALLERO-REYNOLDS / AFP