Kirghizistan e Kazakistan: Una Chiesa «in germoglio»

Testo di suor Dalmazia Colombo – foto Missionarie della Consolata |


Il 2020 sarà un anno di grazia per le missionarie della Consolata perché si apriranno per loro gli immensi orizzonti dell’Asia centrale. Ben otto missionarie dall’Africa, dall’America e dall’Europa andranno a testimoniare il Vangelo in due paesi a maggioranza musulmana, il Kazakistan e il Kirghizistan, dove gli Ortodossi sono circa il 20% della popolazione e i Cattolici un’esigua minoranza.

Per quanto sembri scontato, il punto sta qui: noi siamo «per i non cristiani». Questo è il nostro carisma, il nostro dono specifico a tutta la Chiesa.

Quando il nostro Istituto fu fondato dal beato Giuseppe Allamano nel 1910, fu ai non cristiani africani che egli inviò le sue prime missionarie. Il gruppo, formato da tredici sorelle, partì per il Kenya nel 1913.

Al Kenya, nel corso degli anni si aggiunsero Tanzania, Etiopia, Somalia, Mozambico, Togo, Liberia, Guinea Bissau, Libia e Gibuti (dove siamo ancora oggi, eccetto Somalia e Togo).

Dopo la Seconda guerra mondiale l’Istituto si aprì all’America inviando missionarie in Brasile, Colombia, Argentina, Usa, Venezuela, Bolivia, paesi dove si continua a mantenere viva l’attenzione verso i non cristiani, presenti specialmente nelle periferie e fra le minoranze etniche, in zone povere e isolate.

In tutti questi paesi, le missionarie della Consolata, con le loro molteplici attività, hanno contribuito alla fondazione e/o al consolidamento delle Chiese locali, fino a sentire, in alcuni casi, esaurita la loro opera di prima evangelizzazione. Allora, è diventata prassi lasciare le parrocchie e le opere ben avviate ad altre forze apostoliche e spingersi verso nuovi orizzonti, finché, negli anni ‘90 lo sguardo ha cominciato a posarsi sull’Asia, il continente con la minore percentuale cristiana di tutto il mondo. Tale sguardo si è fermato allora sulla Mongolia.

La Mongolia

Il progetto di vita missionaria nella piccola porzione di Chiesa già presente in Mongolia (114 battezzati nel 2002, ndr) è stato elaborato in sintonia con gli elementi che i due istituti, i missionari e le missionarie della Consolata, hanno al centro del loro carisma: essere testimoni della presenza di Dio in mezzo ai poveri, divenire pellegrini che camminano con la gente, apprezzandone i valori, e dialogare con gli appartenenti alle grandi religioni.

I missionari e le missionarie della Consolata hanno raggiunto la Mongolia il 27 luglio 2003, stabilendosi nella capitale Ulaanbaatar, per imparare la lingua e penetrare nel tessuto sociale culturale e religioso del popolo, per conoscere la realtà e i bisogni della gente mediante la vicinanza, il dialogo e l’amicizia.

Il 19 settembre 2006 è stata aperta una nuova missione ad Arvaiheer, distante 420 chilometri dalla capitale. «Qui i missionari – racconta con emozione suor Gertrudes Vitorino, mozambicana, che faceva parte del gruppo – provarono l’emozione e la gioia di pronunciare il nome di Gesù e di annunciarlo in mezzo a un popolo, di religione buddista, che non aveva mai sentito parlare di Lui».

Oggi in Mongolia i cristiani sono quasi un migliaio e ad Arvaiheer si è formata una piccola comunità con 30 battezzati.

Se dai frutti si conosce la bontà dell’albero, viene spontaneo comparare lo stile di missione scelto in Mongolia a un albero buono, che ha dato frutti buoni: semplicità di vita e accoglienza, intensa preghiera, realizzazione di piccoli, ma significativi, progetti, come le docce calde pubbliche, la scuola materna informale, il doposcuola e il cammino di cura per alcolisti.

Nuove presenze in Asia

Nel 2011 la decima assemblea capitolare delle missionarie della Consolata – suprema autorità collegiale dell’Istituto -, che aveva come motto «Sospinte dallo Spirito consolatore», invitò tutte le missionarie a «lasciarsi sfidare da nuovi orizzonti missionari con lo zelo e la disponibilità delle prime sorelle». Dopo riflessioni e approfondimenti si arrivò alla decisione di studiare la possibilità di aprire nuove presenze in Asia tenendo conto di alcuni criteri:

  • L’Asia è il futuro della missione (Redemptoris Missio, N. 91).
  • Noi siamo per i non cristiani (Costituzioni MdC, art. 3).
  • La necessità di sostenere e rafforzare le poche presenze religiose in Asia.

Perché in Kirghizistan e in Kazakistan?

In fedeltà alla metodologia del fondatore, che inviò i suoi in Kenya dopo una lunga e accurata ricerca sulla possibilità di realizzare il fine dell’Istituto di «annunciare il Vangelo ai non cristiani», iniziò il cammino di raccolta di informazioni per capire dove si sarebbe potuta avviare una nostra nuova presenza in Asia.

Nelle ricerche vennero coinvolti mons. Savio Hon Thai Fai, segretario della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, e membri di altri istituti missionari già presenti in Asia.

Su consiglio di questi esperti, furono fatte ricerche in Cina, Indonesia, Bangladesh, Thailandia, Kazakistan, Kirghizistan. Nel corso del cammino, alla luce dei criteri che erano stati posti alla base della ricerca, la rosa dei paesi candidati andò assottigliandosi lasciando sul campo il Kazakistan e il Kirghizistan.

I viaggi di esplorazione

Due consigliere generali, suor Cecilia Pedroza e suor Lucia Bortolomasi, quest’ultima già missionaria in Mongolia, visitarono diverse volte le due ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Lì presero contatti con le autorità religiose e con alcuni gruppi di persone vicine alla piccola realtà di cattolici presenti in quei paesi, e valutarono che sarebbe stato possibile avviare nuove presenze secondo i criteri proposti dal Capitolo generale del 2011 e confermati nel Capitolo generale del 2017.

Filmati, power point, foto, relazioni sulle ricerche fatte furono presentati più volte a tutto l’Istituto rafforzando e confermando, da parte di tutte le missionarie, la bontà della scelta di avviare, entro il 2020, nuove presenze consolatine in Asia centrale.

Dove andremo?

Il 2 febbraio 2019 la direzione generale ha comunicato i nomi delle sorelle che partiranno nel 2020: quattro per il Kazakistan e quattro per il Kirghizistan. Sono le veterane Adriana Medina e Claudia Graciela dalla Colombia, Ivana Cavallo da Boves, Cuneo, Judith Kitoti dal Tanzania, Luisa Felipe Munguambe dal Mozambico, e le «esordienti» Adanech Mitiku Shawo dall’Etiopia, Hellen Njoki Waithera e Zippoorah Wanjiku Mwaniki dal Kenya.

L’11 marzo 2019, pochi giorni dopo l’incontro a Roma con mons. Josè Luis Mumbiela Sierra, vescovo di Almaty (Kazakistan), e padre Anthony Corcoran, gesuita e amministratore apostolico del Kirghizistan, in visita ad limina dal papa insieme ad altri otto vescovi e amministratori apostolici dell’Asia centrale, la direzione generale ha comunicato i luoghi nei quali si avvieranno le due comunità.

  • In Kazakistan, nella diocesi di Almaty, a Janashar, un paese a circa 40 chilometri dalla città più popolosa del paese, dove esiste una piccola comunità cristiana e la diocesi ha costruito la casa dove le missionarie potranno abitare, con l’aggiunta di alcuni locali per attività ancora da definire.
  • In Kirghizistan, nell’unica amministrazione apostolica, la comunità sarà a Dzalal Abad, una cittadina nella zona Sudoccidentale del paese, a 600 chilometri dalla capitale Biškek, ma relativamente vicina a Janashar.

Il 1° ottobre 2019, due delle sorelle partenti, Adriana Medina e Judith Kitoti, hanno ricevuto il mandato missionario da papa Francesco nella semplice cerimonia che ha segnato l’inizio del mese missionario speciale.

Si parte presto

Le nuove aperture sono ormai alle porte. La direzione generale, nella lettera che comunicava le ultime decisioni riguardo le aperture in Asia centrale, così concludeva: «Grazie a tutte voi sorelle, per le molteplici espressioni di appoggio e di condivisione per le nuove aperture.

Sappiamo che la costituzione delle due nuove comunità ha significato dei sacrifici e dei tagli nei paesi da cui le sorelle scelte provengono, ma sappiamo anche quanta vitalità e benedizione questa scelta verso “i non cristiani” dona al corpo dell’istituto nel cammino di rinascita.

Continuiamo ad accompagnare il processo con la preghiera, l’interesse, l’appoggio e l’affetto, perché veramente è un evento di famiglia che ci coinvolge tutte. La Consolata ci precede là e attende il nostro arrivo.

Senza il coinvolgimento di tutte e la solidarietà di tanti amici e sostenitori delle nostre missioni, le nuove aperture in Asia rimarrebbero per le missionarie della Consolata solo un sogno!

Insieme, in cordata, cercheremo di aiutare la crescita di questa chiesa che papa Francesco, nel discorso ai vescovi dell’Asia centrale ha definito “una Chiesa in germoglio”».

Suor Dalmazia Colombo


Repubblica del Kazakistan

Il Kazakistan si trova nell’Asia centrale. Per estensione è il 9° paese del mondo. Gran parte del suo territorio è pianeggiante e collinare desertico o semidesertico. Una vasta area attorno al Mar Caspio è sotto il livello del mare (-132 m). Ai confini con Kirghizistan e Cina, nel punto di incontro delle tre nazioni si innalza la maggior vetta kazaka, il Khan Tengri (6.995 m) nella catena del Tian Shan che significa Montagne Celesti.

Popolazione

Prima dell’indipendenza, nel periodo dell’Unione sovietica, la componente di popolazione kazaka era inferiore al 50% per l’entrata nel paese di molti russi, ucraini, polacchi e di altre nazionalità. In seguito al ritorno ai paesi di origine degli immigrati, la situazione è decisamente cambiata con i Kazaki che costituiscono ora il 63% della popolazione. La città più popolosa è Almaty, con 1.801.713 abitanti, capitale dello stato fino al 1997.

Tradizioni

La cultura affonda le sue radici nella natura nomade della gente e nell’Islam, che è la religione maggioritaria. Le steppe semiaride e gelide d’inverno, in primavera si trasformano in prati sconfinati ideali per la pastorizia, risorsa essenziale per il popolo kazako che ha sviluppato un’antichissima tradizione di tolleranza e di accoglienza.

La vita nomade del popolo ha sempre avuto come alleati e simbolo i cavalli, attorno ai quali si sono sviluppati usi e costumi, compresa l’abilità a cavalcare. Si dice che i kazaki siano stati gli inventori delle staffe. Sono abilissimi a scagliare le frecce mentre il cavallo galoppa. Famose le esibizioni di tali abilità nelle feste e manifestazioni anche oggi.

Chiesa cattolica

La Chiesa cattolica in Kazakistan, si è formata a partire dagli anni ‘30 del secolo scorso ad opera di alcuni sacerdoti deportati dal regime sovietico che si rivolgevano soprattutto ai non kazaki. Per decenni visse nella clandestinità affidata alla trasmissione della fede a livello familiare, specialmente da nonni ai nipoti. Nel settembre del 2001, papa Giovanni Paolo II visitò la piccola comunità cattolica che con l’indipendenza aveva acquisito nuovo vigore. L’attuale organizzazione territoriale comprende tre diocesi, e una amministrazione apostolica: arcidiocesi di Astana, diocesi di Almaty e di Karaganda, amministrazione apostolica di Atyau. A queste si aggiunge l’amministrazione apostolica per i fedeli cattolici di rito bizantino in Kazakistan e nell’Asia centrale.

Grazie alla presenza missionaria nel paese, vi è una crescita di kazaki che si convertono al cattolicesimo, soprattutto nella capitale Nur-Sultan (che fino a marzo 2019 si chiamava Astana).

Da.Co.

  • Lingue ufficiali   Kazako, Russo (entrambe ufficiali)
  • Capitale            Nur-Sultan (già Astana – 1 milione di ab.)
  • Forma di governo          Repubblica semipresidenziale
  • Indipendenza da Urrs    21 dicembre 1991
  • Superficie 2.724.900 km² (9 volte l’Italia)
  • Popolazione      17.572.000 ab. (stime 2019)
  • Nome abitanti Kazaki
  • Religione          Musulmani 70%, Cristiani ortodossi 26%, Cattolici 1,14%, altre religioni o senza 3%
  • Confini Cina, Russia, Kirghizistan, Uzbekistan, Turkmenistan
  • Valuta  Tenge kazako


Repubblica del Kirghizistan

Il Kirghizistan è un aspro paese dell’Asia centrale che sorge lungo la Via della Seta, l’antica carovaniera tra la Cina e il Mediterraneo a metà strada tra Medio ed Estremo Oriente. È un paese che vanta la presenza di una popolazione molto cordiale, ospitale e disponibile.

Il nome Kirghizistan deriva da una parola che significa «siamo 40». Si tratta di un riferimento ai 40 clan che in origine formavano la nazione e che si riflette sulla bandiera composta da un sole giallo con 40 raggi distanziati in modo uniforme dal centro. Oggi la popolazione è formata in gran parte da Kirghisi (65%) e Uzbeki (13%). Il resto sono Russi, Polacchi, Tedeschi e altre nazionalità, nella maggior parte figli e nipoti delle deportazioni sovietiche.

Geografia

Il territorio aspro e difficile del Kirghizistan, nel cuore dell’Asia, è un groviglio di fiumi e montagne che superano i 7.000 metri e offre una delle più belle architetture naturali del mondo con la catena montuosa del Tien Shan e l’altopiano del Pamir: il primo lo separano da Cina e Kazakistan, il secondo lo uniscono al Tagikistan. La maggior parte della popolazione vive nelle zone di pianura che occupano appena un settimo della superficie totale.

Poche sono le città, pochi i comfort, pochi i servizi sociali. I trasporti si contano su una mano. Chi sceglie di vivere in questo paese, vive esperienze fuori del tempo ed è colpito dalle usanze della vita nomade, tipica del popolo kirghiso, gente temprata per sopravvivere alla natura e per questo molto ospitale con il prossimo.

La tradizione

La popolazione dei villaggi, dedita alla pastorizia, vive nelle bellissime iurte, le classiche tende dei pastori che hanno la caratteristica di essere fresche d’estate e calde d’inverno. Sono il simbolo più antico dei villaggi e della popolazione itinerante. Il viaggiatore viene accolto nelle iurte al suono del komuzy, il tradizionale strumento a corde. Sempre nelle tende, le famiglie si riuniscono per prendere le decisioni più importanti e condividere i pasti. Pasti semplici e gustosi nei quali le pietanze principali sono il plot, composto di un misto di riso e carne, e lo shorpo, una zuppa di carne e verdure.

Chiesa cattolica in Kirghizistan

La Chiesa cattolica ha una storia recente in quanto solo nel 1997, dopo l’indipendenza, Giovanni Paolo II vi fondò una missio sui iuris. Nel 2006, Benedetto XVI elevò la circoscrizione al rango di amministrazione apostolica che comprende l’intero territorio. Dalla fondazione a oggi i cattolici sono passati da 200 a circa 500: lo 0,01% della popolazione. In Kirghizistan vi sono tre parrocchie con cinque religiosi e cinque religiose che diverranno nove con l’arrivo a Dzalal Abad delle missionarie della Consolata.

Da.Co.

  • Lingue ufficiali   Kirghisa, Russo (entrambe ufficiali)
  • Capitale            Bishkek
  • Forma di governo Repubblica parlamentare
  • Indipendenza da Urrs    31 agosto 1991
  • Superficie 199.957 km²
  • Popolazione      5.959.121 (stima 2019)
  • Nome abitanti   Kirghisi
  • Religione          Musulmani 75%, Cristiani ortodossi 20%, Cattolici 0,01%, altre religioni o senza 5%
  • Confini Cina, Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan
  • Valuta  Som kirghiso




Trump, il populista che governa con i tweet

Teto di Piergiorgio Pescali |


Sbruffone, superficiale, bugiardo, dai gusti kitsch. Donald Trump è tutto questo, ma tra un anno potrebbe vincere ancora. Siamo andati a vedere chi lo vota e perché. Nel frattempo, le sue guerre commerciali hanno conseguenze mondiali mentre in politica estera, dopo i disastri (taciuti) del premio Nobel Obama…

Il bus ha appena lasciato la stazione della University of California a San Francisco, quando un’anziana signora inizia a battibeccare con il nuovo viaggiatore che si è appena seduto vicino a lei. Ha la musica degli auricolari un po’ troppo alta. A un certo punto il passeggero, un giovane universitario – cappello da baseball sulle ventitré, skateboard e uno zaino a tracolla – risponde alla signora in tono scocciato invitandola a occupare un altro sedile. La donna s’inalbera e inizia a gridare terminando la sua invettiva con un: «Ecco dove ci ha portato la politica di Trump: ha diviso l’America portandoci a litigare tra noi. Siamo un paese diviso, l’esatto opposto dell’America che voleva Obama!».

La scena appena descritta illustra bene il quadro che un turista, anche distratto, può avere visitando gli Stati Uniti. Occorre rifarsi agli anni Settanta, durante la presidenza Nixon, per trovare le opinioni dei cittadini dei cinquanta stati della federazione così nettamente divise sull’amministrazione che governa il loro paese.

O lo ami o lo odi

© Roman Boed_Chicago

Trump lo ami o lo odi e quando pareri così nettamente contrapposti si fronteggiano, la faziosità prevale sull’equità e oggettività di giudizio.

Smargiasso dai gusti kitsch, origini tedesche da parte di padre (il cognome originario era Drumpf) e scozzesi da parte di madre, Donald Trump si è sempre contraddistinto per la sua imprevedibilità e impulsività, due qualità che hanno suscitato critiche sul suo modus operandi sino a creare un neologismo: la «trumpaggine», sinonimo di stupidità e superficialità politica.

Giocando sull’immediatezza e sulla sintesi fin troppo schematizzata di Twitter, il presidente ha rivoluzionato il modo di comunicare con il mondo intero. E sono oramai in tanti a imitarlo, a partire dall’italico (una volta si diceva padano) ed ex ministro Matteo Salvini.

La differenza con la precedente signorilità ed eleganza di un Barack Obama è lampante, ma è proprio l’espressione un po’ campagnola, sbruffona e meno snob a far preferire Trump rispetto ad altri politici più navigati.

«Trump è più sincero di chiunque lo abbia preceduto. Dice sempre quello che pensa infischiandosene del bon ton e della diplomazia. È uno di noi!», afferma Chloe che, assieme a suo marito Leon, possiede una fattoria vicino a Bryce, nello Utah, dove affitta stanze a gente di passaggio come me. Poco importa se la guerra commerciale con la Cina, verso i cui mercati sono diretti molti dei prodotti agricoli statunitensi, ha causato una contrazione delle vendite. La risposta che ottengo è sempre più o meno la stessa: «Trump sta rendendo di nuovo l’America grande; i cinesi ci hanno comandato troppo a lungo, è ora che ci riprendiamo il nostro paese». «Make America great again» (facciamo l’America di nuovo grande): il motto presidenziale ha fatto breccia.

Chloe e Leon se la passano discretamente bene, ma non sono ricchi, così come la maggior parte dei sessantuno milioni di statunitensi che ha votato Trump nelle elezioni presidenziali del 2016: «L’elettore medio che ha preferito Trump alla Clinton abita nelle campagne, dove la vita è più faticosa e si lavora duramente; abita nelle periferie delle città, dove povertà, violenza, disoccupazione sono sempre state i drammi esistenziali con cui convivere. È quello che non ha finito le scuole perché la sua famiglia non poteva permettersi di pagare libri e retta», mi spiega Ysabel Perez, sociologa che tiene un corso di Criminologia presso la Northern Arizona University di Flagstaff. Ysabel è di origine ispanica, ma cittadina statunitense. Spiega che, a differenza di quanto l’americano medio sia portato a pensare, sono i ceti meno abbienti, i lavoratori, gli sfruttati, «quelli che voi europei un tempo chiamavate proletari», a costituire ancora oggi, a tre anni di distanza dalle elezioni, lo zoccolo duro dell’elettorato dell’attuale presidente. «Sono gli emarginati, ma – questo è importante – emarginati bianchi», conclude.

© Piergiorgio Pescali

Il voto dell’America puritana

Nell’America puritana, colore della pelle e religione si mischiano in ogni aspetto della vita quotidiana, molto più che in Europa. Il Pew Research Center ha appurato che il 69% degli evangelici di etnia caucasica approva l’operato del presidente, assieme al 12% dei protestanti neri. Tra i cattolici il 36% appoggia la politica di Trump, ma la percentuale sale al 44% tra i cattolici caucasici (bianchi), e scende al 26% tra quelli non bianchi (ma rispetto al 2017 quest’ultima percentuale è raddoppiata).

Secondo un recente sondaggio della Gallup, al luglio 2019, il 44% degli americani approvava il lavoro fatto sino a oggi dal loro presidente (un altro istituto, lo Zogby Analytics, indica che la percentuale supererebbe il 50%). Il 44% sembra una quota bassa, ma è l’identica percentuale di consenso che aveva Obama nello stesso periodo del suo primo mandato.

Insomma, Trump continua a dividere gli Stati Uniti e una grossa fetta degli abitanti lo considera un buon presidente.

Nel quartiere dei giovani artisti di Flagstaff la contrarietà nei confronti di Trump è evidente: in un negozio di souvenirs si vende carta igienica con il faccione del presidente, mentre in un bar il caffè è servito in tazze in cui è riprodotta l’effigie stilizzata dell’Urlo di Munch circondata dalla dicitura «President Trump».

I giornali e i media internazionali fanno fatica a comprendere il fenomeno di questo bizzarro uomo d’affari votatosi alla politica. Divisi tra i successi mietuti in politica estera e le contraddizioni di una politica interna che raccoglie successi economici e critiche sulla politica immigratoria, i canali televisivi e i giornali divulgano continuamente notizie biforcute.

© Benjamin Kerensa

Politica estera: bugie, verità e conflitti d’interesse

«L’amministrazione Trump si è dimostrata molto più abile del previsto in politica estera. La disastrosa esperienza guerrafondaia della coppia Obama-Clinton è stata sostituita dal dialogo offerto da Trump che ha portato alle aperture con la Corea del Nord, la Russia e, seppur in modo altalenante, con la Cina», confida davanti a una birra gelata e a stento celando un profondo senso di disagio, Dacre, un fisico delle alte energie che fa parte della Federazione degli Scienziati Americani, un’organizzazione che si batte per il bando delle armi nucleari.

La delusione verso la politica estera messa in atto da Obama è evidente: persino il Nobel per la pace dato sulla fiducia nel 2009 «per il suo straordinario impegno per rafforzare la diplomazia internazionale e la collaborazione tra i popoli», oggi è oggetto di contestazione. «Durante l’amministrazione Obama abbiamo scatenato guerre in Libia, Siria, aumentato il numero di militari in Afghanistan, imposto sanzioni alla Russia scatenando il conflitto in Ucraina, deteriorato i rapporti con la Cina e sfiorato una guerra con la Corea del Nord. Eppure è stato premiato con un Nobel per la pace, a differenza di Trump che, nonostante i suoi buoni risultati, è stato snobbato», lamenta Austin Yee, attivista pacifista americana dell’Ong Mercy Corps. Il Nobel ad Obama, lungi dall’essere un premio eticamente neutro, era stato fortemente sponsorizzato e voluto dall’avvocatessa norvegese Berit Reiss-Andersen, allora membro e oggi presidente del Comitato per il Nobel nonché socia della Dla Piper, lo studio legale internazionale (con uffici anche in Italia, ndr) che ha co-finanziato la campagna elettorale di Obama nel 2012. Insomma, un Nobel alla fiducia (mal riposta), ma con enormi interessi finanziari.

Anche Trump, come chi lo ha preceduto alla Casa Bianca, non è certo un pacifista: il suo disimpegno internazionale è dovuto principalmente al fatto che, a differenza delle passate amministrazioni, è direttamente interessato a proteggere il proprio impero economico all’interno e all’esterno degli Stati Uniti. Con la nuova presidenza i cittadini americani hanno scoperto quello che noi chiamiamo conflitto d’interessi. Secondo la Cnn, Trump avrebbe 144 compagnie in 25 paesi del mondo (principalmente India, Indonesia, Canada, Emirati Arabi, Scozia, Cina, Brasile, Arabia Saudita), ma nessuno sa esattamente a quanto ammonti il suo impero: le cifre variano tra i 3,1 (Forbes) e i 12 miliardi di dollari (Trump stesso).

© Robbie Wroblewski_2008

La politica del «meno»: tasse, sanità, ambiente

La politica del lavoro di Trump sta dando i suoi frutti con una disoccupazione scesa ai minimi storici (3,7% rispetto al 5% del 2016), ma è un trend in discesa dal 2014, cioè da prima del suo arrivo alla Casa Bianca, quando era disoccupato il 7% della forza lavoro. E se è vero che i salari sono aumentati in media del 3,2%, è altrettanto vero che la ricchezza si sta concentrando verso un numero sempre più ristretto di persone. La ricchezza accumulata si è creata principalmente con il taglio delle tasse, il che ha portato Trump a eliminare o diminuire sovvenzioni sociali. Il tipico esempio è la proposta di cancellare la «Legge sulla protezione dei pazienti e sull’assistenza economica» (Patient Protection and Affordable Care Act), il cosiddetto Obamacare, forse la più popolare e utile iniziativa promossa dall’ex presidente Barak Obama, che ha permesso a circa 30 milioni di cittadini, prima esclusi dall’assistenza sanitaria, di essere tutelati dal sistema nazionale. La crescita economica Usa è anche dovuta al polemico atteggiamento di Trump verso le politiche ambientaliste, che ha portato a negare il riscaldamento climatico con il plauso, tra gli altri, delle Chiese evangeliche creazioniste. Questo ha incanalato verso il presidente l’approvazione delle compagnie automobilistiche perché non più soggette alla tassa sull’emissione di CO2 e inquinanti. La politica di Trump rischia, dunque, di vanificare il duro lavoro di contenimento degli inquinanti fatto da Obama. Basta vedere il parco macchine circolante oggi negli Stati Uniti per rendersi conto di quanto positiva sia stata la politica di Obama: dal 2012 le compagnie automobilistiche hanno dovuto adeguare i nuovi motori a regole più severe sui consumi. Questo ha portato alla produzione di auto più piccole e performanti (entro il 2025 le auto di nuova immatricolazione avrebbero dovuto avere un consumo di 23 km con un litro di benzina). Nel 2015 Obama, inoltre, aveva annunciato che gli Stati Uniti avrebbero ridotto, entro il 2025, le emissioni di gas serra del 26% rispetto al 2005. Il clamore dell’annuncio era stato salutato con ottimismo da numerose organizzazioni, ma «Obama ha giocato sporco», mi dice Cinthia, scienziata che lavora presso Worldwatch Institute. «Ha fatto promesse che sapeva di non dover mantenere, visto che pochi mesi dopo avrebbe lasciato il mandato. Nessuna economia mondiale può fare promesse del genere senza avere implicazioni insostenibili. In pratica Obama ha fatto la sua bella figura passando la patata bollente al suo successore, Clinton o Trump che fosse, sapendo che la sua sarebbe stata una scommessa persa in partenza».

Del resto, gli ambientalisti denunciano la politica di Barak Obama che ha limitato l’utilizzo di carbone come fonte di energia primaria, sostituendola non con fonti rinnovabili, ma con il petrolio, specialmente quello proveniente dal fracking per la gioia delle compagnie petrolifere, in particolare la Chevron, Exxon, ConocoPhillips. «Nonostante quello che si dice, durante l’intera amministrazione Obama gli Stati Uniti sono stati saldamente al comando per produzione di CO2 pro capite, superando abbondantemente anche la Cina», conclude, dati alla mano, Cinthia.

© Jaime C. Patias

Quel muro con il Messico

© Jaime C. patias

Tuttavia, il punto più controverso del programma presidenziale di Trump, quello su cui molti media internazionali e l’opinione pubblica hanno focalizzato la loro attenzione, è il famoso muro tra Stati Uniti e Messico.

La questione dei migranti ispanici – chiamati di volta in volta da Trump stupratori, corrieri della droga, criminali – è stata il cavallo di battaglia della politica interna ed ha preso il sopravvento nel programma presidenziale immediatamente dopo le restrizioni agli ingressi negli Usa per i cittadini di sette paesi musulmani.

L’architetto di questa politica è un giovanissimo politico di origini bielorusse: Stephen Miller, classe 1985 e ghost writer di numerosi discorsi del presidente, tra cui quello con cui inaugurò la sua presidenza nel gennaio 2017.

Ancora una volta l’opinione pubblica, imboccata dai media, è esplosa nel denunciare la politica razzista e intollerante di Trump, ma in verità il muro non è un’invenzione né un’iniziativa di quest’ultimo presidente e, a sua difesa sono scesi in campo personaggi insospettabili come Isaac Newton Farris Jr., Alveda King, nipoti di Martin Luther King e Malik Obama, fratellastro di Barack.

L’inizio della costruzione del muro Usa-Messico risale al 1990 a San Diego, con la presidenza repubblicana di George Bush Sr. Tre anni dopo, nel 1993 erano stati completati 22,5 km di barriera, ma altri pezzi iniziarono ad essere costruiti separatamente in Arizona e Texas. Nel 1994 il democratico Bill Clinton autorizzò l’operazione Gatekeeper, Hold the Line e Safeguard creando corpi di polizia che pattugliavano il confine al fine di prevenire varchi illegali. Nell’ottobre 2006 fu di nuovo un repubblicano, George Bush Jr. ad approvare, anche con i voti di un giovane Barack Obama e di una navigata Hillary Clinton, il Secure Fence Act che prevedeva la costruzione di barriere lungo 1.126 km di confine. Fu lo stesso Obama, il 10 maggio 2011 ad annunciare orgoglioso a El Paso il completamento della Secure Fence al confine con il Messico dotandolo di droni, telecamere e sensori e facendolo pattugliare da 20mila agenti.

Trump nella sua campagna presidenziale promise di completare l’erezione del muro lungo tutti i 3.169 km di confine. Fino a maggio 2019 erano stati approvati fondi per 6,1 miliardi Usd per il rimpiazzo di 364 km di barriere già esistenti e 177 km di nuove barriere, di cui 64 km completati ad oggi.

© Jaime C. Patias

Chi entra negli Usa

Ogni anno il confine è attraversato legalmente da 350 milioni di persone mentre «gli immigrati illegali sono diminuiti dal 2000, quando se ne contarono un milione e 600mila, fino all’arrivo di Trump nel 2016 quando erano 400mila; poi dal 2016 sono di nuovo aumentati», dichiara Anthony Rivera, ricercatore presso la facoltà di legge della University of Texas di Austin. Tutti segni che un muro non serve per contenere la massa di persone desiderose di migliorare il proprio stile di vita e di dare ai loro figli un futuro migliore. «È pur vero, però, che il 39% dei 7.979 kg di eroina sequestrati nel 2017 in tutti i posti di frontiera è stato preso lungo il confine Usa-Messico e la maggioranza lungo il corridoio San Diego», continua Rivera che sta facendo una ricerca sul campo sull’immigrazione ispanica negli Usa.

Insomma, la presidenza Trump continua ad essere amata o odiata senza mezze misure negli Stati Uniti e all’estero. E mentre Donald Trump vuole far tornare grande l’America con la sua politica di esclusione e tolleranza zero, altri politici come Bernie Sanders affermano che l’America diverrà più forte solo «quando neri e bianchi, ispanici, asiatici, nativi americani saranno tutti uniti», perché – come diceva un conservatore di ferro come Ronald Reagan – «chiunque, da qualsiasi angolo della Terra, può venire a vivere in America e diventare americano: questa è una delle più importanti ragioni della grandezza dell’America. Il motivo per cui guidiamo il mondo – concludeva Reagan – è perché, unici al mondo, prendiamo il nostro popolo, la nostra forza, da ogni paese e da ogni angolo della Terra».

Piergiorgio Pescali

© Photo by Mackenzie Harris Faith in Public Life 7


Trump e i migranti: Meno ingressi per tutti

Sull’immigrazione illegale il presidente vuole «tolleranza zero». E vorrebbe cancellare anche il «birthright citizenship», quello che in Italia si chiama «ius soli».

Sin dalla campagna elettorale, Donald Trump ha messo la questione migratoria tra i punti più salienti della sua politica. E, pur tra mille difficoltà, sta mantenendo la parola data. Purtroppo, verrebbe da dire. A sua discolpa l’attuale presidente Usa ha più volte ribadito di aver ereditato una situazione già avviata dalle precedenti amministrazioni, e in parte è vero. La barriera che divide Messico e Usa è stata decisa, iniziata e ampliata da Bush, padre e figlio, Clinton e Obama, ancora prima che Trump decidesse di scendere in politica, e anche i centri di detenzione per immigrati illegali, compresi quelli destinati esclusivamente a bambini, sono eredità delle passate amministrazioni.
A differenza dei precedenti inquilini della Casa Bianca però Trump ha eliminato la discrezionalità che l’amministrazione Obama aveva concesso al Dipartimento di giustizia nel trattamento degli immigrati entrati illegalmente nel paese. Questo, e non la detenzione dei minori, è il punto di maggiore diversità specialmente con l’amministrazione Obama. La tolleranza zero più volte invocata da Trump e dal suo consigliere sull’immigrazione, Stephen Miller, ha portato a una situazione al limite del rispetto dei diritti umani, come più volte hanno giustamente fatto presente numerose organizzazioni che operano sul campo: chi viene catturato mentre attraversa illegalmente il confine è spedito immediatamente in prigione mentre i minori che lo accompagnano sono inviati nei centri di detenzione.
Oggi sono 1.700 i minori separati dalle loro famiglie che vivono nei centri appositi, mentre durante la passata amministrazione Obama le separazioni erano occasionali e limitate a un periodo di soli 20 giorni.
Le condizioni all’interno dei campi sono spesso disastrose: secondo il direttore dell’ufficio per l’applicazione delle leggi sulle dogane e immigrazione, Mark Morgan, i centri di detenzione per minori sono «assolutamente inadeguati» e sono in molti a paragonarli ai campi di concentramento per giapponesi durante la Seconda guerra mondiale.
In aggiunta alla politica della tolleranza zero, Trump (sempre imbeccato da Miller) ha chiesto la revisione del Quattordicesimo emendamento della Costituzione, che dal 1868 garantisce la cittadinanza statunitense a chiunque nasca sul territorio. Negli Usa si chiama «birthright citizenship», in Italia è noto come «ius soli». Trump ha chiesto la revoca del Quattordicesimo emendamento per i nati da immigrati illegali. Dato che il cambiamento di un articolo della Costituzione americana richiede il consenso dei due terzi del Congresso, Trump avrebbe insinuato l’ipotesi di emanare un «ordine esecutivo presidenziale» che avrebbe valore di legge. Non sarebbe la prima volta che un presidente Usa si avvarrebbe di questo potere: tutti i presidenti americani se ne sono valsi centinaia di volte durante i loro mandati (ad esempio, la famosa emancipazione degli schiavi voluta nel 1863 Abraham Lincoln fu proclamata con un ordine esecutivo, così come la partecipazione Usa nella guerra del Kosovo voluta da Bill Clinton nel 1999).

P.P.

Photo by Seth HERALD / AFP


Trump e la violenza: Più armi per tutti

Le stragi con armi da fuoco sono una triste consuetudine. Eppure, il presidente – legato alle lobbies dei produttori – continua a non voler limitare la libertà di detenerle, diritto sancito dal Secondo emendamento della Costituzione statunitense.

«Essendo necessaria, alla sicurezza di uno stato libero, una milizia ben regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto». Questo è il Secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. Introdotto nel 1791 per permettere alle milizie cittadine di difendersi contro le razzie e i raid degli eserciti inglesi e spagnoli, si è nel tempo trasformato in una dichiarazione liberista attorno alla quale si evolve il dibattito sulle libertà civili del singolo individuo statunitense. Ed è proprio sul significato e sull’applicazione di questo Secondo emendamento che si sta consumando una delle battaglie politiche ed economiche più virulente della società americana. L’organizzazione più potente che si batte affinché al cittadino statunitense venga permesso di detenere e usare armi a scopo di difesa personale è la National Rifle Association (Nra). Fondata nel 1871, conta oggi 5 milioni e mezzo di aderenti e proventi per 412 milioni di dollari. Tra i suoi sostenitori vi sono stati presidenti americani (tra cui anche John Fitzgerald Kennedy) e attori famosi come Charlton Heston, Chuck Norris, Tom Selleck.
Sul sito ufficiale, organizzazioni, giornalisti, politici, presidenti che hanno manifestato la volontà di eliminare il Secondo emendamento sono duramente criticati, mentre non viene celato l’appoggio verso l’attuale presidente Usa, Donald Trump che, in più occasioni, ha difeso il diritto degli statunitensi di essere armati elogiando la stessa Nra.

Tra i maggiori critici della Nra non vi è solo chi si batte contro la proliferazione di armi negli Stati Uniti, ma anche associazioni come la Gun Owners of America, un’altra potente organizzazione che conta due milioni di affiliati, anch’essa apertamente a favore della politica di Trump. A differenza della Nra, pesantemente compromessa con lobbies finanziarie, economiche e politiche, la Goa afferma orgogliosamente la sua indipendenza da ogni pressione. Il suo modesto budget ufficiale (appena due milioni di dollari) proverrebbe esclusivamente dalle sottoscrizioni dei suoi membri e questo avrebbe permesso all’associazione, fondata nel 1975 dal senatore repubblicano Bill Richardson, di battersi con più impegno e forza per il mantenimento più ampio del Secondo emendamento senza quelle restrizioni appoggiate anche dalla Nra. La Goa, ad esempio, vorrebbe l’eliminazione delle free-gun zones, delle barriere legali per la detenzione delle armi, l’applicazione del Secondo emendamento in tutti i 50 stati della federazione.

Nel frattempo, mentre questo articolo va in stampa, negli Stati Uniti le stragi con armi da fuoco proseguono senza soluzione di continuità.

P. P.

© Eric Purcell




Pakistan: Una chiesa piccola ma tenace

Testo di Marta Petrosillo e foto di ACS, Aiuto alla  Chiesa che soffre |


In Pakistan la chiesa è piccola e perseguitata, ma anche apprezzata da molti per le sue opere. I missionari che lavorano nel paese tra scuole, ospedali, evangelizzazione, sono persone forti, determinate e di grande fede.

«Vivo da molti anni in Pakistan. La difficile missione in questa terra islamica dà tanto valore alla mia vita paolina. Mi sento privilegiata a stare tra questi cari cristiani perseguitati. Con la loro fede e testimonianza, mi evangelizzano. Come Paoline abbiamo un compito, un ruolo, una missione apostolica significativa. Ci sentiamo e siamo riconosciute come “sorelle della Bibbia” che lavorano per raggiungere il popolo con la Parola di Dio. Un dono per la nostra vocazione, un impegno, una passione, una scelta del cuore. Lui mi ha condotta in tutti questi anni; mi ha dato gioia, amore e grazia. La sua tattica spirituale è inconfondibile: chiama alla missione attraverso non pochi sacrifici e chiede sempre distacco…». Così scriveva suor Daniela Baronchelli, figlia di San Paolo, che ha vissuto trentasette dei suoi ottantasette anni di vita – conclusasi il 23 marzo 2019 – in Pakistan.

In una terra difficile

Suor Daniela amava profondamente il Pakistan, terra difficile, a volte ostile, così come amava il popolo pachistano tutto, sia cristiano che musulmano. Al punto che, come lei stessa ci ha confidato, dal 2016 aveva scelto di non tornare più in Italia. «Oramai è questa la mia terra, e voglio essere sicura di morire qui». Oggi la sua tomba, nel cimitero cristiano di Lahore, è meta di pellegrinaggio delle tante persone che ha aiutato.

Come lei, tantissimi altri missionari hanno trascorso la loro vita nel paese asiatico, contribuendo in modo determinante all’evangelizzazione e allo sviluppo della piccola minoranza cristiana, ma anche dell’intera popolazione. Come sempre, infatti, nonostante le modeste dimensioni della comunità cattolica – appena l’1% dei 190 milioni di abitanti -, la Chiesa ha fatto molto, e continua a fare moltissimo in ambito educativo e sanitario.

Il ruolo dei missionari

I primi missionari giunsero in queste terre da Portogallo, Francia e Gran Bretagna, al seguito delle potenze coloniali. La prima chiesa cattolica in Punjab, a Lahore, fu costruita intorno al 1597 dai gesuiti provenienti dallo stato indiano di Goa, allora colonia portoghese. Più tardi, il cristianesimo fu portato principalmente dall’impero britannico, alla fine del Settecento e nell’Ottocento. Questo è evidente se si guardano i centri urbani fondati dagli inglesi, come la città portuale di Karachi dove si erge la maestosa cattedrale di San Patrizio, una delle chiese più grandi del Pakistan, oppure le chiese di Rawalpindi, dove gli inglesi si stabilirono.
Il ruolo dei missionari è stato fondamentale: molte congregazioni sono all’origine della nascita delle diverse diocesi. I cappuccini hanno dato vita a quella di Lahore, gli Oblati di Maria Immacolata al vicariato apostolico di Quetta, la Società missionaria di San Giuseppe di Mill Hill alla diocesi di Islamabad Rawalpindi.

La scuola, tra le altre cose

«Sono davvero molto grato e ho profondo rispetto per l’immensa opera compiuta dai missionari europei in Pakistan. Questi religiosi hanno giocato un ruolo determinante per lo sviluppo della nostra Chiesa», ci dice il cardinale Joseph Coutts, unico porporato del paese.

Il viso del cardinale s’illumina ricordando i tanti missionari che ha incontrato nel suo cammino, prima di sacerdote e poi di vescovo, e che hanno fatto parte della sua vita fin da prima della sua nascita: «I miei genitori sono stati sposati nel 1940 dall’allora parroco della cattedrale di St. Patrick, James Cornelius van Miltenburg, un francescano olandese poi divenuto arcivescovo di Karachi e in seguito di Hyderabad».

Molte delle scuole cattoliche del Pakistan sono nate grazie all’opera dei missionari. «Oggi le nostre scuole continuano il lavoro dei primi missionari», afferma il cardinal Coutts notando come nel paese vi siano oltre 300 istituti cattolici. A Karachi ve ne sono 56, di cui tre situati nel compound della cattedrale. E – come abbiamo potuto osservare di persona – non è raro che all’orario di uscita degli studenti, l’auto del porporato debba faticare un bel po’ per entrare dal cancello principale.

L’educazione è essenziale in un paese nel quale l’analfabetismo sfiora in alcune zone l’85%. «Le nostre scuole sono molto apprezzate, anche dai musulmani, perché insegniamo valori come la fratellanza. Nei nostri istituti hanno studiato anche ex presidenti, così come molti impiegati pubblici, militari, ambasciatori e altri funzionari».

«Libri, non mattoni»

A Youhanabad, quartiere cristiano di Lahore, vive un religioso che incarna la bellezza della chiesa pachistana. È padre Edward Thuraisingham, degli Oblati di Maria Immacolata. È giunto in Pakistan dallo Sri Lanka ormai 40 anni fa. Si è sempre dedicato ai poveri e in particolar modo all’educazione dei bambini. Padre Edward è fortemente impegnato a salvare dalla schiavitù, attraverso l’istruzione, i figli dei lavoratori delle fornaci di mattoni (vedi MC 8-9/2019 p. 20).

In queste fabbriche, intere famiglie sono costrette a lavorare per pochi euro al mese, spesso allo scopo di restituire debiti contratti con i proprietari della fornace. «Libri, non mattoni», è il motto del religioso che ha aperto ben cinque scuole per questi ragazzi e per altri bimbi orfani o appartenenti a famiglie povere. Durante una nostra visita a Lahore, padre Edward ci ha accompagnato in una di esse, poco distante da una fabbrica di mattoni. La struttura è, in realtà, una parte della stessa casa di Solomon Bhatti e di sua moglie Sabbah, che insegnano anche a leggere e a scrivere ai piccoli alunni di età compresa tra i 5 e i 15 anni. «Pensiamo a tutto noi, libri, retta scolastica e divise – ci dice padre Edward -. Se dovessero affrontare delle spese, le famiglie non li manderebbero a scuola. Anzi, in realtà non è sempre facile convincere i genitori, perché in molti preferiscono che i figli li aiutino a fabbricare mattoni». Proprio mentre parla con noi, padre Edward viene informato da uno degli insegnanti che un bambino si è presentato a scuola senza scarpe. Prontamente il sacerdote fruga nelle sue tasche per racimolare qualche rupia e provvedere ad acquistarne un paio. I vestiti del sacerdote sono logori e macchiati del fango della fabbrica, e il suo pakol, berretto tipico dell’Afghanistan e di alcune zone del Pakistan, ha probabilmente qualche anno. Ma padre Edward non se ne cura e riserva ogni singola donazione ai suoi bambini.

«L’istruzione è l’unica via per uscire dalla schiavitù delle fornaci e da un destino segnato come quello di tanti cristiani qui in Pakistan», afferma raccontando come una delle sue ex alunne, Lina, sia oggi microbiologa alla Nasa.

Ospedali missionari

Un altro fiore all’occhiello legato alla presenza dei missionari in Pakistan sono gli ospedali cattolici. A Karachi abbiamo visitato l’Holy Family Hospital, oggi considerato uno dei migliori ospedali della città. La struttura è stata fondata nel 1948 dalle Medical Mission Sisters, un ordine religioso femminile con sede a Philadelphia, Usa, in un momento in cui esistevano pochissime strutture sanitarie in Pakistan. La fondatrice delle Medical Mission Sisters, la dottoressa Anna Dengel, arrivò nel 1920 a Rawalpindi per lavorare come medico. Poi si trasferì a Karachi. Oggi l’ospedale è gestito da suor Mary.

«Suor Mary è stata un dono del cielo per noi – ci ha raccontato il cardinal Coutts -. Si dedica giorno e notte al nostro ospedale che, pur essendo una struttura cattolica, conta soltanto uno o due medici cristiani. Per il resto il personale è composto soprattutto da musulmani e da qualche indù. Noi lavoriamo così: tutti insieme. Ed è anche attraverso strutture come l’Holy Family Hospital che diffondiamo i nostri valori cristiani».

La Madre Teresa del Pakistan

Una vera e propria icona della sanità pachistana è suor Ruth Katherina Martha Pfau, nota come la Madre Teresa del Pakistan. Nata nel 1929 a Lipsia, in Germania, da genitori cristiani luterani, nel 1957 la Pfau, dopo essersi laureata in medicina, si unì all’ordine delle Figlie del Cuore di Maria a Parigi. Nel 1960 fu inviata nell’India meridionale, ma un problema con il visto la costrinse a rimanere a Karachi.

Aveva solo 31 anni suor Ruth quando, un giorno per caso, visitò il lebbrosario vicino alla stazione ferroviaria della città. Fu allora che decise di dedicare il resto della sua vita al popolo pachistano e alla battaglia contro la lebbra fino alla sua morte avvenuta il 10 agosto 2017.

In una piccola capanna del lebbrosario diede vita a un piccolo centro per le cure, poi divenuto il Centro di lebbra Marie Adelaide. Iniziò a viaggiare in tutto il paese per curare i malati di lebbra, principalmente i bambini che spesso venivano abbandonati dalle loro famiglie, oppure chiusi in piccole stanze per tutta la vita.

Grazie ai suoi continui sforzi, nel 1996 l’Organizzazione mondiale della sanità dichiarò il Pakistan uno dei primi paesi in Asia ad aver controllato la lebbra. Le autorità pachistane la nominarono consigliere federale per la lebbra presso il ministero della Sanità nel 1979, e nel 1988 le concessero la cittadinanza, un fatto piuttosto raro, considerando che quasi tutti i missionari stranieri, pur essendo in Pakistan da decenni, sono costretti a rinnovare il visto ogni anno e con non poche difficoltà.

Il popolo la ama, come dimostra la cura con cui tantissimi tengono in ordine la sua tomba nel cimitero di Gora Qabaristan a Karachi, che abbiamo avuto modo di visitare. Proprio lì abbiamo incontrato delle persone che, pur non conoscendola, si recano spesso a pregare di fronte alla sua lapide. «Siamo stati anche al suo funerale – ci racconta Hamid, circa una cinquantina d’anni -, è stato emozionante, tante persone erano lì per ringraziarla». Suor Ruth ha avuto l’onore dei funerali di stato. Dietro al feretro, durante la camera ardente, uno striscione ricordava i 57 anni di servizio per sconfiggere la lebbra e risollevare le sorti degli emarginati del Pakistan, e riportava la frase: «È difficile dimenticare qualcuno che ti ha donato così tanto».

Pakistan, Sr. Daniela Baronchelli (Figlie di San paolo – Paoline), St. Paul Book Center in Karachi

Le postine di Dio

Il lavoro dei missionari non riguarda ovviamente soltanto l’ambito umanitario, ma anche la cura pastorale e l’evangelizzazione. Le Figlie di San Paolo sono le uniche a distribuire la Bibbia cattolica nel paese. Abbiamo visitato una delle loro librerie a Karachi. Nella grande metropoli pachistana il bookshop si trova nel caotico quartiere di Saddar. La cattedrale di San Patrizio non è molto distante, ma la presenza musulmana è ovunque. Uomini con abiti e copricapo islamici affollano il marciapiede di fronte alla libreria.

Le suore, oltre a libri cattolici di dottrina e spiritualità, rosari, cd e dvd su temi cristiani, vendono anche immagini sacre, cosa che dai musulmani viene considerata un peccato grave.

Come ci racconta suor Agnese Grones, missionaria del bellunese in Pakistan dal 1980, nel 2005 la polizia effettuò un raid nella libreria dopo che, dalle colonne del quotidiano nazionale «Nawa-I-Waqt», estremisti locali avevano accusato i cristiani di vendere cd contenenti caricature della morte di Maometto. Alcuni leader musulmani avevano perfino emesso una fatwa, un verdetto di condanna, contro i filmati e chiesto l’apertura di una causa per blasfemia contro le suore. Spesso i talebani fanno circolare dei biglietti con la scritta: «Chiudete o morirete». Ma, pur coscienti del pericolo, le missionarie non si danno per vinte.

«All’inizio è stato difficile – ci dice suor Agnese -, ma ora è questa casa mia. Anzi quando d’estate torno in Italia, mi rendo conto che non sono più abituata neanche al freddo delle mie montagne». Per sicurezza, le religiose vestono «alla pachistana» con il tipico abito shalwar kameez celeste e lo scialle bianco, ma tutti ovviamente sanno chi sono quando le vedono girare per le diverse basti (le grandi periferie di Karachi) per insegnare il catechismo ai bambini e spiegare alle mamme l’importanza di educare i propri figli alla fede.

In tutto il Pakistan le Paoline distribuiscono catechismi e Bibbie e hanno persino un cineforum itinerante grazie al quale proiettano ovunque film sulle vite dei santi e altri video per diffondere i valori cristiani. «Siamo coscienti del pericolo, ma è un rischio che tocca tutti i cristiani in Pakistan – ha più volte testimoniato suor Daniela Baronchelli -. Distribuire la Bibbia è una grande gioia per noi che siamo le suore della Bibbia, le postine di Dio».

Marta Petrosillo
portavoce di Acs Italia




Tutti «a casa loro», ma quale casa?


Circa un miliardo di persone sul pianeta vive in una baraccopoli, 100 milioni sono senzatetto e altrettanti sono i bambini e ragazzi di strada. Dal 2008 a oggi una media di 24 milioni di persone all’anno ha perso la propria casa per inondazioni, tempeste, terremoti o siccità.

«Come ci si sente / ad essere senza una casa / un completo sconosciuto / proprio come un vagabondo (o, alla lettera, una pietra che rotola)». Così Bob Dylan cantava nel 1965, raccontando nei versi della sua celeberrima@ Like a Rolling Stone, la triste storia di una giovane donna nata ricca e finita poi a vivere per strada, dopo essersi lasciata illudere, sfruttare e infine abbandonare da un mondo luccicante ma spietato.

L’ultima volta in cui si tentò di quantificare le persone sul pianeta che non avevano una casa era il 2005@: le Nazioni Unite stimarono che i senzatetto veri e propri fossero circa cento milioni, mentre un miliardo di persone mancavano di un alloggio adeguato. Studi più recenti fotograferebbero una situazione nettamente peggiorata: le persone senza una casa degna di questo nome sono stimate oggi in 1,6 miliardi.

Altre indagini si concentrano sui luoghi simbolo dell’emergenza abitativa, le baraccopoli: secondo il Programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani, Un Habitat, nel 2014 erano oltre 880 milioni di esseri umani a vivere in una baraccopoli.

È difficile contare in maniera oggettiva queste persone: ad esempio, ricorda l’Onu in un documento con principi e raccomandazioni per i censimenti@, «la definizione di senzatetto può variare da paese a paese, si tratta essenzialmente di una definizione culturale basata su concetti come alloggio adeguato, standard abitativo minimo della comunità o certezza del diritto fondiario».

Per farsi un’idea più immediata è forse più utile citare alcuni esempi: secondo il sito Homeless World Cup Foundation, in Nigeria ci sono 24,4 milioni di senzatetto; nella sola città di Manila, capitale delle Filippine, se ne contano circa tre milioni. La Germania ha fra i 335mila e i 420mila senzatetto, che salgono a 860 mila se si includono i rifugiati, la Francia ne conta 141mila e l’Italia 50.724@.

I bambini e ragazzi di strada sono un’ulteriore declinazione del fenomeno. Nel 2003 Unicef riportava stime secondo cui erano 100 milioni le ragazze e i ragazzi che non avevano raggiunto l’età adulta, privi di protezione o guida da parte di responsabili adulti e per i quali «la strada (nel senso più ampio della parola, comprese le abitazioni o i terreni abbandonati, ecc.) è diventata dimora abituale e/o fonte di sostentamento» (definizione ufficiale Unicef)@.

Come si finisce in strada o in una baraccopoli?

I motivi per cui ci si trova senza casa o in un contesto abitativo degradato sono diversi. Le Nazioni Unite citano fra questi la mancanza di alloggi a prezzi accessibili, speculazioni su case e terreni a fini di investimento, privatizzazione dei servizi pubblici, ad esempio il trasporto, conflitti etnici e armati e una rapida quanto mal programmata urbanizzazione. Questi elementi poi si sovrappongono e incrociano con altri, come la perdita del lavoro, l’abuso di alcol, l’uso di droga, le malattie mentali.

A complicare notevolmente le cose vi sono poi le prospettive per il trentennio che abbiamo davanti: secondo le proiezioni Onu, nel 2050 il 68% della popolazione mondiale vivrà in aree urbane, contro il 55% odierno pari a 4,2 miliardi di persone. Questo significa che «il graduale spostamento della popolazione umana dalle aree rurali a quelle urbane, combinato con la crescita complessiva della popolazione mondiale potrebbe aggiungere altri 2,5 miliardi di persone alle aree urbane entro il 2050, con circa il 90% di questo aumento concentrato in Asia e Africa»@.

Uno dei falsi miti sugli slum (inglese per baraccopoli) è l’idea che non sia possibile prevedere quanto cresceranno, spiegava al The Guardian@ nel 2016 William Cobbett, della rete globale per lo sviluppo sostenibile delle città, Cities Alliance, e la cosa è affrontata in modo inadeguato specialmente in Africa. «Si pensa che le popolazioni degli slum stiano crescendo principalmente a causa della migrazione urbana. Non è così. In tutto il continente, il grosso dell’aumento di abitanti delle baraccopoli deriva dalla crescita naturale della popolazione». Le proiezioni Onu sul secolo 1950-2050, continua Cobbett, dicono che la popolazione dell’Uganda in un secolo aumenterà di venti volte, la Tanzania di 18 e la Nigeria di 10,5.

Un secondo mito è quello che gli abitanti di una baraccopoli, se potessero, sceglierebbero sempre di vivere in un alloggio «vero». In questo caso la risposta è ni: dipende da quanto bene le autorità competenti pianificano la ricollocazione delle persone. Anche nelle situazioni di degrado più grave spesso si formano delle reti sociali che forniscono servizi informali di solidarietà come il guardarsi a vicenda casa e bambini mentre si è al lavoro. Ricollocare le persone significa strappare queste reti e rendere più difficile la vita sia di chi viene spostato sia di chi resta. Un caso citato dal The  Guardian è quello della baraccopoli di Kibera, a Nairobi: molti abitanti dello slum, inizialmente entusiasti dell’opportunità di trasferirsi in un complesso di appartamenti chiamato The Promised Land, hanno finito per lasciare le nuove sistemazioni perché vi erano disservizi idrici, mentre altri hanno fiutato l’affare decidendo di dare le loro nuove case – in cambio di un affitto molto più alto rispetto a quello agevolato richiesto a loro – ai keniani della classe media. Anche chi era rimasto a Promised Land continuava comunque a fare la spesa nella baraccopoli, perché lì il cibo costava meno.

Perdere la casa per gli eventi naturali

C’è un ulteriore modo per rimanere senza casa: che un ciclone se la porti via. È successo quest’anno in Mozambico, quando il ciclone Idai – seguito dal ciclone Kenneth – ha rovesciato in poche ore la pioggia che di solito cade in mesi. Il ciclone e le successive inondazioni hanno ucciso più di 600 persone e ne hanno ferite circa 1.600. Un milione e 800mila sono state variamente toccate dai danni, pari a 773 milioni di dollari, provocati da Idai a edifici, infrastrutture e coltivazioni@.

Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre@, che monitora le popolazioni sfollate, dal 2008 a oggi una media annuale di 24 milioni di persone ha perso la casa a causa di un evento naturale estremo improvviso, a fronte dei sette milioni e mezzo di sfollati all’anno a causa dei conflitti. Anche quest’anno le cose non sembrano andare molto meglio: nella prima metà del 2019 gli sfollati a livello mondiale sono stati 10,8 milioni, di cui 7 milioni dovuti a catastrofi naturali.

Lo scorso giugno Philip Alston, relatore speciale delle Nazioni Unite su povertà estrema e diritti umani, ha avvertito che gli effetti del cambiamento climatico potrebbero creare altri 120 milioni di poveri, vanificando gli ultimi 50 anni di sforzi per ridurre la povertà. «Rischiamo uno scenario da apartheid climatico» ha dichiarato Alston, «in cui i ricchi pagano per sfuggire al surriscaldamento, alla fame e ai conflitti mentre il resto del mondo è abbandonato alla sofferenza»@.

Il problema del cambiamento climatico si interseca con quello dell’urbanizzazione: il disastro di Freetown, in Sierra Leone, del 2017, in cui 1.141 persone morirono a causa degli allagamenti e smottamenti legati alle forti piogge, ha mostrato che cosa succede quando un evento meteorologico estremo colpisce un agglomerato urbano costruito deforestando ed edificando in maniera informale@.

Chiara Giovetti
[continua a dicembre]


Il nostro impegno con i ragazzi di strada

  • Familia ya ufariji (Famiglia della Consolazione) è una casa d’accoglienza per bambini e ragazzi di strada fondata nel 1996 dai missionari della Consolata a Nairobi, Kenya. Ospita fino a ottanta bambini cui fornisce vitto e alloggio, istruzione e cure mediche. Familia ha anche alcune attività agricole che aiutano la struttura a produrre parte del proprio cibo e permettono ai ragazzi ospitati di imparare e praticare l’orticoltura.

  • La Faraja House (Casa della Consolazione) apre nel 1993 a Mgongo (Iringa, Tanzania) per iniziativa dei missionari della Consolata con l’obiettivo di assistere e reinserire i ragazzi di strada. La struttura, in grado di accogliere fino a 100 persone, sorge accanto a una scuola tecnica – nella quale i ragazzi ricevono formazione professionale – e a un dispensario che fornisce loro le cure fondamentali.

Aiutaci a coprire i costi per dare una casa a un bambino di strada perché possa mangiare, studiare e ricevere le cure necessarie alla sua età.


Il nostro lavoro accanto a chi ha perso la casa per un evento naturale estremo

Lo scorso marzo il ciclone Idai si è abbattuto sul Mozambico. Le inondazioni che ne sono seguite hanno colpito anche diverse zone in cui sono presenti i missionari della Consolata, fra cui Cuamba e Tete. In quest’ultima località Missioni Consolata Onlus, grazie alla generosità di diversi donatori, ha contribuito alla ricostruzione di 12 case.

  • Sarà possibile sostenere questo progetto anche visitando la mostra di solidarietà che gli Amici Missioni Consolata organizzano ogni anno in occasione della festa dell’Immacolata.
    La mostra sarà aperta dal 4 all’8 dicembre nei locali della parrocchia Maria Regina delle Missioni, a Torino, in via Cialdini 20, vicino al Provveditorato.

  • Si può anche sostenere il progetto con donazioni attraverso Missioni Consolata Onlus.

Aiutaci a ricostruire le case distrutte da eventi climatici estremi.




Giamaica: «Non abbiamo altra scelta»

testo e foto di Luca Salvatore Pistone


È un piccolo paese caraibico, con un posto particolare nell’immaginario collettivo. Ma cosa succede nella sua capitale e come vive la gente? L’autore esplora i suoi quartieri più complicati e ascolta le storie di chi ci vive. Dandoci qualche elemento di comprensione, oltre gli stereotipi.

«Baby, bum bum?». Questa è l’unica frase che Roger pronuncia in presenza di ragazze. Da queste parti la galanteria non è certo di moda, ma in oltre il 50% dei suoi approcci, Roger ottiene il risultato sperato. Mentre salva sul cellulare il numero della fanciulla di turno, mi fa segno di guardarle il fondoschiena ed esclama a voce alta: «Oh my God!».

Roger, 36 anni, è muscoloso e porta dread curatissimi (tipiche trecce rasta, ndr). Ha un numero imprecisato di figli sparsi tra la Giamaica e gli Stati Uniti. Ci siamo conosciuti una decina di giorni fa in un bar e da allora non ci siamo quasi più separati. Sono ammaliato dai suoi racconti. In alcuni casi occorre fare una cernita di quanto sia vero e quanto gonfiato, ma tutto sommato sento di potermi fidare di lui. La casa che ho preso in affitto si trova a pochi metri da quella di Roger, così ogni mattina sono io a dargli la sveglia. Ci divide Mountain View, un interminabile vialone che unisce Old Hope Road e Windward Road, due delle principali arterie dell’area sudorientale di Kingston. Mountain View, che dà il nome all’intero quartiere, è uno dei ghetti più malfamati del paese.

Dentro il ghetto

Quando il dongiovanni giamaicano finisce le sue pratiche con la prosperosa signorina, raggiungiamo alcuni ragazzi del ghetto. Ci hanno dato appuntamento in una villetta in costruzione poco distante dalla bettola dove vive Roger. Sono una decina in tutto. Saliamo al secondo piano dal quale si domina tutta Mountain View. «Sei mafioso, vero?», mi chiede uno. «Ya man! (intercalare giamaicano che significa: sì amico!). Tutti gli italiani sono mafiosi», gli fa eco un altro.

Per più di un’ora si parla solo di mafia. Sono affascinati dall’argomento. E, soprattutto, sono convinti che il sottoscritto, in quanto italiano, sia un mafioso. Recitano a memoria interi spezzoni dei tre capitoli de «Il Padrino» e di «Quei bravi ragazzi». Uno fa una breve ricerca su Google e mi mostra sul display dello smartphone le facce di Riina e Provenzano. «Sei in Giamaica per fare affari? Noi siamo disponibili ad aiutarti». Più cerco di convincerli della mia estraneità alla malavita siciliana, più quelli immaginano di avere davanti a loro un pezzo da novanta del crimine organizzato.

A soccorrermi è Roger. «Dai ragazzi, diamo all’italiano un assaggio di cosa i soldati di Mountain View 99 sono in grado di fare!». Il più giovane estrae, da dietro un’impalcatura, una sacca nera. È lo stesso Roger ad aprirla e a distribuire agli amici il contenuto: un paio di pistole Beretta, tre kalashnikov e vecchi fucili d’assalto.

Metto mano alla macchina fotografica. Indossano chi un passamontagna, chi il cappuccio della felpa e chi una maglietta messa a mo’ di turbante. Si atteggiano in classiche pose da gangster e poi si siedono in cerchio su dei mattoni all’ombra di un muretto. A turno tutti prendono la parola.

  • «Noi della 99 dobbiamo difendere la nostra gente dai nostri nemici: la polizia e le altre gang».
  • «Siamo sicari. Il General (il capo mafioso) ci dice chi dobbiamo accoppare e noi lo facciamo».
  • «Per 200 o 300 dollari americani facciamo un lavoro rapido e pulito».
  • «Quando c’è da combattere con le bande rivali chiudiamo con delle transenne gli accessi a Mountain View e avvisiamo i civili di starsene tranquilli in casa».
  • «Cocaina e prostituzione sono in mano nostra. Alle elezioni possiamo pure muovere voti».
  • «Siamo costantemente in guerra. Non ci piace questa vita ma non abbiamo altra scelta».

Un mondo di gang

La 99, la 121, la 136… Quasi ogni traversa di Mountain View ha la propria gang. È un continuo gioco di alleanze, tradimenti e regolamenti di conti. A fronte di una popolazione che sfiora i tre milioni di persone, la Giamaica presenta uno dei tassi di omicidio più alti al mondo. Condizioni di forte povertà spingono larghe fette di popolazione a entrare nelle fila dei gruppi criminali. Non molti anni fa, il parlamento votò addirittura per il mantenimento della pena di morte (tramite impiccagione) – non applicata da decenni – come deterrente per arginare le violenze. E intanto, indisturbata, la Jamaican Posse, la mafia locale, detta legge nei ghetti.

Ci congediamo dagli amici sicari tra un «bless» (in Giamaica quando per salutarsi ci si benedice a vicenda) e un «respect», con la promessa, quando farò ritorno in Italia, di mettere una buona parola per loro con Cosa Nostra. Roger mi prega di seguirlo in una baracca a un paio di isolati. Resto sull’uscio. Lo sento salutare gli abitanti della casa in patwah, la lingua creola-inglese che si parla in Giamaica. E, come sempre, parte un fiume di «Ya man!».

Dopo pochi minuti, esce con uno zainetto in spalla stracolmo di marijuana. In Giamaica l’uso della cannabis è legale dal 2015 ed è possibile detenerne fino a un’oncia, cioè 28,35 grammi. Il prezzo al grammo varia in base alla qualità. Si va dai 20 centesimi di euro ai 20 euro. Per coltivarla è necessaria una licenza statale dal costo annuo pari a quasi 900 euro, cifra che in pochissimi si possono permettere. Così, gran parte delle coltivazioni sono illegali. Roger cerca di arrotondare vendendo marijuana ai turisti e non mi resta altro da fare che accompagnarlo nella sua caccia ai clienti. «I migliori sono i tedeschi», sentenzia. Torniamo a casa dopo diverse ore.

Festa di… funerale

Di sottofondo, come a ogni ora del giorno e della notte, si sentono degli spari. Mentre mi chiedo dalla mano di chi provengano, suona il campanello. È Roger. «Rapido! Ti porto a un nine night qui vicino». Senza neanche sapere di cosa stia parlando, salto sull’attenti. Finora le sue proposte non sono mai state deludenti.

In pochi minuti arriviamo nel cortile di una coloratissima villetta. C’è un baccano infernale e a fatica riusciamo a comunicare. Urla, schiamazzi, ubriachi, grigliate con bistecche di maiale e cosce di pollo, tavolini pieghevoli su cui si gioca a domino. È stato allestito anche un sound system, un impianto formato da più casse, che emette a tutto volume. Partono le danze. Siamo a un nine night, una veglia funebre. In Giamaica, come in molti altri paesi dei Caraibi, il morto viene celebrato con una festa sfrenata che parte la sera e termina alle prime luci dell’alba. Può durare anche più giorni, fino a nove, a seconda della disponibilità economica della famiglia del defunto.

«Si chiamava Paul – dice Roger – e non aveva neanche trent’anni. Io non lo conoscevo bene ma era di Mountain View. Era un soldato come me e i miei amici. L’hanno trovato morto stecchito con una pallottola alla tempia in riva al mare. L’hanno giustiziato, capito? Chissà in che giro era finito. So che il suo General ha sguinzagliato i suoi per capire cosa sia accaduto». Roger indica cautamente il General di Paul, un energumeno sulla cinquantina. Circondato da sei uomini con armi a vista, sta abbracciando la madre del morto. «Non fissarlo, qui basta uno sguardo di troppo per finire nei guai».

La nottata prosegue tra fiumi di birra calda, rum di pessima qualità, spinelli e cocaina.

Tra qualche ora si terrà il funerale di Paul. Il General fa cenno al dj di fermare la musica per pronunciare un brevissimo discorso: «Noi tutti abbiamo perso un fratello. Era poco più di un ragazzo, una persona per bene che amava la sua famiglia. Mountain View non lo dimenticherà. Paul avrà la sua vendetta». Il nine night finisce con una promessa di sangue e spari di accompagnamento.

Gli squatter di Harbour View

Il pomeriggio successivo vengo svegliato da un ragazzino. È stato Roger a mandarlo con un messaggio: «Fatti trovare pronto. Tra poco andiamo dai miei amici di Harbour View». Giungiamo a destinazione solo al tramonto. Fino a non molti anni fa Harbour View era un bel quartiere residenziale all’estremità sudorientale di Kingston. Ville a schiera sul mare abitate dalla borghesia della capitale. Poi, nel 2012, l’uragano Sandy ne rase al suolo un gran numero e danneggiò gravemente le poche rimaste in piedi. Poco dopo il passaggio di Sandy, gli abitanti delle colline circostanti, le cui baracche erano andate distrutte, scesero verso il mare e occuparono le rovine dei ricchi. Da allora non ci fu modo di mandarli via.

«Ya man! Guardate un po’ chi c’è?». Roger viene accolto quasi fosse una celebrità. Intorno a noi si crea un capannello di curiosi. Impennando, ci viene incontro una motocicletta di bassa cilindrata. I lunghi dread del provetto pilota svolazzano indisturbati. Inchioda. «Bless! Respect! Quello che vedo è mio fratello Roger?».

È Ziggy (in lingua patwah significa spinello, come Bob Marley soprannominò il suo primogenito David), uno dei capi del ghetto di Harbour View. È sulla trentina, supera non di molto il metro e mezzo, è magro come un chiodo e ha tatuaggi ovunque, anche in viso. Comincia a esibirsi in una serie di impennate su entrambe le ruote e derapate di tutto rispetto considerando il catorcio cinese che guida.

Parcheggiata la moto, Ziggy ci fa da cicerone per il quartiere. Per prima cosa vuole farci conoscere la sua compagna e la figlioletta di tre anni. Ci fa visitare la sua casa, una grande e malconcia villa a un piano. I muri sono pieni di crepe. Le stanze sono tutte spoglie e senza infissi. In una di esse ci sono una sedia, una brandina con un materasso lurido e una valigetta aperta con dentro una macchinetta da tatuatore, aghi, colori e altri attrezzi del mestiere. «Questo – illustra Ziggy – è il mio studio. Nel ghetto chi si vuole tatuare viene da me. È così che mantengo la mia famiglia. E con altri piccoli business… Vuoi della cocaina?».

Harbour View viene chiamato scherzosamente «Gaza» dai suoi abitanti. L’uragano qui e Israele nel territorio palestinese, producono il medesimo risultato: macerie. Di sera, per godere della brezza marina, Ziggy e gli altri ragazzi vanno in spiaggia e prendono posto sulle rovine di una palazzina a due piani. Tra uno spinello e un altro, si godono il panorama delle luci di Kingston. È lì che ci portano.

«Polizia, funzionari del comune, altre bande: tutti hanno provato a cacciarci via da qui», racconta un tizio con in faccia una bella collezione di cicatrici. Accarezza la canna di una pistola a tamburo. «E noi con questa li abbiamo sempre respinti. Harbour View è casa nostra. Ci abbiamo portato le nostre famiglie, abbiamo fatto dei lavori. Vogliono che ce ne andiamo? Ci devono pagare profumatamente!». Raccoglie l’approvazione dei suoi compagni.

Sono tutti armati di pistole che nascondono sotto la maglietta. Gli adolescenti li vedono come esempi da seguire e pendono dalle loro labbra. «Vedi quello in pantaloncini? – indica con la canna Ziggy -. È mio cugino. Ha tredici anni ma ha le palle per essere uno dei nostri. E vedete quel muro crivellato di colpi? È contro quel muro che lo faccio esercitare a sparare».

A Ziggy e compagnia è venuta sete. Propongono di spostarci al bar del ghetto, una casupola di legno con un piccolo cortile antistante dove delle ragazzine stanno giocando a dadi su delle casse capovolte. Ordinano tutti delle bottigliette di Magnum, la bevanda che va per la maggiore. Sull’etichetta c’è scritto Tonic Wine, un modo elegante per dire Red Bull con alcol al 16.5%. «Due di queste e fai bum bum tutta la notte», grida Roger guadagnandosi una serie di pacche sulla spalla.

Ziggy prende sottobraccio due delle ragazzine impegnate nella partita a dadi. Avranno meno di sedici anni. I tre si voltano verso di noi per qualche istante e tornano a confabulare. Poco dopo il gracile boss di Harbour View ci viene incontro. «Sono le mie cuginette. Belle, vero?». Annuiamo. Sono davvero belle. «Loro sono un altro dei miei business. Vuoi farti un giro con loro? Potresti andare a casa mia. Sono pulite, non hanno l’Aids. Che faccio, organizzo? Sono venti dollari americani, è un regalo».

Per il quarto d’ora successivo prova a convincermi in tutti i modi. Guarda le sue protette scuotendo la testa. Le due non sembrano troppo dispiaciute. Fa un ultimo tentativo disperato. «Troppo giovani? Volendo c’è mia sorella, ha quasi ventotto anni».

Luca Salvatore Pistone




India: Intoccabili, ma carne da lavoro

Testo e foto di Mario Ghirardi


Quasi un quarto della popolazione indiana, composta da «dalit» e «adivasi», viene considerata inferiore. Con questa scusa i lavoratori di questi gruppi sono sfruttati in tutti i settori dell’economia e utilizzati per gli incarichi più umili. E la globalizzazione economica ha aumentato le disuguaglianze. Alcuni elementi dallo studio dell’antropologa indiana Alpa Shah.

In India ci sono 2,6 milioni di gabinetti «a secco», ovvero latrine di fortuna, le quali, non avendo acqua corrente disponibile, vengono tenute in efficienza e pulite da oltre 53mila persone, i cosiddetti «scavengers», tramite lavoro manuale. Si tratterebbe di un’attività lavorativa vietata da 25 anni. Quelli citati sono dati ufficiali del ministero competente, sottostimati, perché non tengono conto di chi lavora nel settore ferroviario, dove il numero delle latrine è enorme, né delle 182mila donne che svolgono questa attività nei villaggi rurali (cifre di un censimento relativamente recente), ricompensate con due pezzi di pane al giorno e un pugno di cereali ogni sei mesi. Il pagamento in denaro, pochissimi spiccioli, è previsto in rari casi. I rischi connessi a questa attività sono molto alti: il ministero parla di 300 morti nel solo 2017, ma gli attivisti umanitari citano cifre ben più elevate.

Gli intoccabili

La vicenda potrebbe sembrare la terribile stortura di un sistema specifico di lavoro, invece non è che una piccola fetta di quello sfruttamento indistinto che colpisce due gruppi specifici di persone: i «dalit», gli intoccabili, la classe più bassa nel sistema indiano delle caste, e gli «adivasi», ovvero le popolazioni indigene e quelle tribali, che abitano boschi e zone rurali. Nel complesso si tratta di ben 300 milioni di individui, quasi un quarto della popolazione indiana. Questi uomini e donne sono considerati secondo la religione stessa così sporchi e «inquinanti» da meritare il nome di «intoccabili». Sono quasi ridotti alla schiavitù, perché le poche monete con le quali sono pagati, senza contratti, sia quando lavorano nei campi, sia in miniera, non bastano a restituire i prestiti che spesso si trovano a dover chiedere ai loro datori di lavoro per sostenere le spese necessarie in famiglia per matrimoni, parti, funerali e cure sanitarie. L’incredibile boom economico che l’India ha vissuto dagli anni ’90, quando l’economia è stata liberalizzata, non ha fatto altro che peggiorare questa situazione che dura da secoli. La diseguaglianza è ancora aumentata. Il più recente rapporto dell’Ong Oxfam racconta che l’1 per cento della popolazione ha in mano il 77,4 per cento della ricchezza nazionale e che il 60 per cento più povero ne usa il 4,8. Ottocento milioni di indiani sopravvivono con meno di due dollari al giorno.

Per mitigare le diseguaglianze più atroci, la Costituzione indiana, al momento dell’indipendenza dall’impero inglese nel 1947, pensò di citare direttamente gli adivasi per tutelarli, riservando loro quote nelle assunzioni nella pubblica amministrazione. La situazione oggi è peggiorata, nonostante le statistiche indichino una diminuzione della povertà in termini generali.

Una ricerca per i diritti

La crescita economica quindi, non ha affatto portato vantaggi a tutti, come affermano i globalisti. Per combattere il modello di sviluppo neoliberista, l’erosione dei diritti legati al lavoro, la discriminazione, la repressione del dissenso, l’indebitamento che rende schiavi, l’antropologa Alpa Shah ha condotto un approfondito progetto di ricerca intitolato: «Dietro il boom indiano, diseguaglianza e povertà nel cuore della crescita economica». Partita da Londra, ha iniziato a fare il giro del mondo con conferenze, dibattiti e mostre fotografiche coordinate dal filmmaker Simon Chambers. Vi lavora con un gruppo di ricercatori della London School of Economics e con il geografo sociale Jens Lerche della School of oriental and african studies. Il finanziamento è del Consiglio europeo della ricerca.

«L’obiettivo – racconta Shah nella sua ricerca – è appunto quello di suscitare la massima attenzione sulle condizioni di vita e sfruttamento anche in altre parti della terra, sulla necessità di lottare per i diritti di chi lavora, i diritti sulla terra degli adivasi, popolazioni originarie del subcontinente, colpevoli solo di abitare da secoli nei territori e tra le foreste su cui hanno messo gli occhi le multinazionali, interessate ai ricchissimi giacimenti di carbone, ferro e alluminio e che intendono sfruttare, anche distruggendo l’ambiente, trasferendo gli indigeni, oppure usandoli. Bisogna combattere ogni forma di oppressione e violenza perpetrata nel nome di uno sviluppo falsato: ognuno ha diritto alla sussistenza. Non importa quanto piccoli possano sembrare su scala globale, gli sforzi che si stanno compiendo in questo senso sono significative testimonianze di impegno per un mondo più giusto ed equo».

Nelle piantagioni

I dalit sono reclutati come neppure il peggior caporalato italiano fa e sono licenziabili in qualsiasi momento. Il 92 per cento della forza lavoro indiana non ha alcuna tutela. Sono assegnati loro i lavori più degradanti, logoranti e pericolosi.

I migranti stagionali nel biennio 2016-17 sono stati almeno 140 milioni, e le cifre sono sempre calcolate in difetto.

Nonostante in India sia stata abrogata formalmente la schiavitù nel 1833, continuano le lunghe migrazioni per lavorare nelle piantagioni di tè nel Nord Est del Bengala, nell’Assam e nel Kerala. Se fino al 1833, questi contadini erano addirittura incarcerati per qualsiasi inadempienza contrattuale, oppure puniti corporalmente o abbandonati alla morte per inedia, oggi devono resistere anni per ripagare il costo del loro trasporto e del loro vitto e alloggio nelle baracche fatte di teloni e lastre di eternit, collocate sui dolci declivi delle piantagioni del Sud, ormai diventate anche mete turistiche.

I miglioramenti di condizioni economiche faticosamente raggiunti sono stati recentemente vanificati dalla crisi del settore, tanto che, pochi anni fa, 12mila donne impegnate nella raccolta del tè hanno trovato il coraggio di scioperare, mobilitandosi persino contro il parere dei sindacati, per far rispettare la legge che prevede per loro un lavoro massimo di 9 ore giornaliere.

Lavori al limite

I migranti stagionali sono anche alla base dell’industria delle costruzioni, sia nelle piccole fornaci di mattoni sparse qui e là, sia nei grandi cantieri allestiti per edificare importanti infrastrutture. Il lavoro è molto pericoloso. Arrampicate su precarie impalcature di bambù, senza funi né caschi, oppure trasportando ghiaia e cemento in cestini sulla testa, sono 50 milioni le persone impiegate nel boom edilizio che contribuisce all’8 per cento del Pil nazionale. Le giornate lavorative sono di 12 ore anche 7 giorni su 7, con compensi che non raggiungono spesso neppure il basso salario minimo previsto per legge.

Nei campi di raccolta del cotone la situazione è pressoché identica. Il lavoro di semina, eliminazione delle erbacce e mietitura si svolge sotto un’estrema calura per gran parte dell’anno. Chi ha provato a sottrarsi alla condizione di bracciante acquistando un fazzoletto di terra, non ha ottenuto altro che l’indebitamento per acquistare sementi e fertilizzanti, e per mettere il terreno in condizione di essere irrigato. Data l’impossibilità di risalire la china, visti i recenti crolli del prezzo della materia prima, nel solo 2013 si sono contati 34 suicidi al giorno tra i piccoli imprenditori. La produzione del cotone è infatti oggi crollata in quantità, insieme al prezzo di vendita, a causa del cambiamento climatico in atto che porta piogge torrenziali, e per l’introduzione di sementi geneticamente modificate che non resistono agli attacchi del verme del cotone e obbligano all’acquisto di quantità sempre crescenti di costosi e inquinanti pesticidi.

Nemmeno i dalit che hanno il coraggio di vivere nelle inospitali paludi di mangrovie del Bengala per rifornire di granchi le mense asiatiche, se la passano meglio. Il loro primo nemico è la tigre, animale protetto, che li attacca con frequenza, riproponendo lo stesso conflitto che altri contadini vivono con gli elefanti che si spingono in prossimità dei raccolti. Le foreste di mangrovie hanno poca terra ferma, sono circondate da acque salate che portano periodiche inondazioni in un ambiente peraltro devastato dai cicloni. I granchi sono pagati a prezzi altissimi da chi li consuma, mentre a chi li raccoglie sono riservate poche rupie.

I ricercatori dell’équipe coordinata da Shah e Lerche puntano il dito anche contro l’attività mineraria in mano alle grandi multinazionali che operano senza scrupoli nei confronti dell’ambiente e dei diritti degli indigeni, grazie anche al sostegno rinnovato cinque anni fa dal governo centrale che vuole posizionare l’India come «global hub» di estrazione e lavorazione di metalli. Sotto il manto di foreste dell’India centrale e orientale, abitate dagli adivasi, si nascondono tesori immensi di ferro, bauxite, carbone, rame, grafite, mica, caolino, persino oro e uranio. La gente è evacuata dalla terra degli avi in massa, chi resta lavora in miniera, a piedi nudi impugnando un piccone, con evidenti scarsissime garanzie di sicurezza e salario. Le terre sono espropriate, chi cerca di resistere subisce brutali repressioni. Per le imprese è più conveniente far lavorare gli operai con la sola forza muscolare, anziché investire in costosi macchinari di sgombero terra. Le miniere censite sono oltre 300mila, ma solo lo 0,1 per cento offre minimi standard di agibilità. La produzione di elettricità nel paese per il 70 per cento è affidata proprio al carbone fossile e non ci si stupisce se 14 delle 20 città più inquinate del mondo si trovano in India. Inoltre, le emissioni di gas serra, che costituiscono la causa principale del cambiamento climatico globale, continuano ad aumentare, grazie anche alle acciaierie e alle fornaci produttrici di cemento.

Altri adivasi, in questo quadro di boom economico oppressivo, sono persino costretti a sopravvivere con i miserevoli ricavi prodotti dalle scorie di carbone che recuperano dai cumuli residuali a cielo aperto. Si caricano le schegge sulle biciclette o le trasportano a piedi in sacchi di iuta per venderli a chilometri di distanza. Oppure setacciano con calamite i residui ferrosi scartati durante l’estrazione e cercano di venderli con il medesimo sistema. O ancora, anche in stati sviluppati come Kerala e Tamil Nadu, raccolgono rifiuti nelle discariche e lungo i bordi delle strade selezionando carta, plastica, vetro o metallo già scartato da altri, ricevendo un compenso molto basso.

Del resto, lo sfollamento dalle loro terre espropriate li riduce spesso a dormire per strada, nonostante alcuni abbiano ricevuto in cambio della loro partenza piccolissimi lotti di terra.

«La crescita non va a vantaggio di tutti. Le enormi diseguaglianze sono l’altra faccia della prosperità economica globale», commenta Alpa Shah. Un caso emblematico di come stia progressivamente degenerando la situazione delle comunità più svantaggiate – dicono i ricercatori – è stata la costruzione della mega diga Sardar Sarovar iniziata negli anni ’90 che interessa tre stati centrali, il Maharashtra, il Madya Pradesh e il Guyarat. L’impianto, che comprende decine di altre dighe più piccole, è stato inaugurato solo due anni fa dal premier Narendra Modi dopo sollevazioni popolari di ogni tipo. Manifestazioni che hanno portato addirittura la Banca mondiale a ritirare la sua partecipazione di 450 milioni di dollari al progetto. La diga ha causato il trasloco forzato di decine di migliaia di persone in nome di irrigazione e progetti idroelettrici, senza ricadute benefiche di nessun tipo sulla popolazione locale, che invece ha perso non solo casa e campi da coltivare, ma anche la sua identità culturale e i rapporti sociali. Una spirale che crea ulteriore emarginazione e che non sembra conoscere inversione di marcia.

Mario Ghirardi

Archivio MC


I moti insurrezionali dei Dalit

L’insurrezione armata più lunga

Negli anni ‘70, nel Bengala, gli adivasi iniziarono una ribellione armata che continua ancora oggi. Le tecniche sono quelle della guerriglia, ma la popolazione viene presa in mezzo. Una guerra dimenticata che è costata 7mila morti negli ultimi dieci anni.

I primi moti insurrezionali violenti organizzati per combattere lo sfruttamento e la confisca delle terre agli adivasi scoppiarono negli anni ’70 del secolo scorso in una remota città del Bengala settentrionale e proseguono ancora oggi, tanto che questa pare essere la lotta rivoluzionaria armata più lunga al mondo.

L’antropologa sociale Alpa Shah ha studiato a lungo questi moti, descrivendoli in numerosi saggi e in un volume pubblicato in Italia da Edizioni Meltemi con il titolo «Marcia notturna». La ricercatrice ha studiato il fenomeno a partire da un villaggio dello stato del Jharkhand divenuto roccaforte della guerriglia. Qui si concentrano infatti le mire di sfruttamento delle risorse minerarie da parte delle multinazionali. Mire che portano con sé anche la distruzione delle foreste e degli habitat tipici degli adivasi, sino ad allora completamente ignorati dai governi centrali. Vivono in villaggi che non hanno mai conosciuto elettricità, scuole e assistenza sanitaria.

Il risultato è che, dopo la prima insurrezione di ispirazione maoista e marxista leninista, il governo ha etichettato i rivoltosi come maoisti e dà loro una caccia spietata da almeno una dozzina di anni, ovvero da quando le foreste dell’India centrale e orientale sono pattugliate con continuità dall’esercito e da corpi specializzati che li combattono usando le loro medesime tecniche. Da un lato i guerriglieri cercano di farsi amiche le popolazioni abolendo le oppressive gerarchie di tribù e casta, dall’altra squadre di vigilantes puntano a mettere gli adivasi gli uni contro gli altri, con conflitti locali che degenerano in spedizioni punitive contro i villaggi che spesso finiscono dati alle fiamme.

Sull’altro fronte i guerriglieri vogliono stanare i militari e li attaccano facendo saltare con bombe i loro mezzi e uccidendo coloro che ritengono informatori della polizia. Questi rispondono con azioni altrettanto violente contro chi dà ospitalità ai rivoltosi. Ai morti negli scontri a fuoco, secondo alcune fonti, stando sempre a quanto riferiscono i pochi giornalisti e avvocati per i diritti umani che riescono ad entrare in quelle zone, si devono aggiungere anche quelli uccisi durante la prigionia e che vengono fatti passare come vittime in battaglia. Alla fine, delle circa 7mila persone che si stima abbiano perso la vita in questi conflitti nell’ultimo decennio, il 40 per cento sono civili, con il resto suddiviso tra guerriglieri e militari. Altre 7mila persone, secondo i dati del South Asia Terrorist Portal, si sarebbero arrese e 8mila sarebbero state arrestate.

M.G.




RD Congo: Pigmei. Sempre nomadi, ma fino a quando?

Testo di Marco Bello | foto Archivio fotografico MC


I pigmei bambuti sono il popolo originario delle foreste nell’Est del Congo. All’arrivo di altre popolazioni si sono inoltrati sempre più nella selva. Ma da alcuni anni i cercatori d’oro invadono il loro territorio, portando molte problematiche. Intanto anche lo sfruttamento del legname e la deforestazione stanno distruggendo il loro habitat. Ai missionari la grande sfida di come salvare la loro cultura.

«I pigmei non sono guerrieri, ecco perché all’arrivo di altre popolazioni nella loro terra, hanno adottato la politica di ritirarsi nella foresta più folta. Purtroppo oggi assistiamo a un’invasione della selva, operata dai cercatori d’oro alla ricerca di nuovi siti». Chi parla è padre Flavio Pante, missionario della Consolata con una ventennale esperienza di lavoro tra le popolazioni pigmee del Congo, oltre che con esperienze in Costa d’Avorio e Italia.

Parla del Nord Est della Repubblica democratica del Congo (Rdc), del distretto dell’Alto Uele, diocesi di Wamba: «I pigmei sono stati i primi abitanti di questa zona, tutti gli altri, quelli che chiamiamo genericamente bantu, sono arrivati in un secondo tempo». I missionari della Consolata lavorano da venti anni nell’area di Bayenga, dove c’è un’alta concentrazione di pigmei, in particolare la popolazione dei Bambuti. «La parrocchia lavora sulla realtà pigmea, e sulla realtà dei bantu e delle altre popolazioni».

Il «nuovo» flagello

La foresta è ricca di oro e altri minerali preziosi, che si trovano, in particolare, lungo i fiumi, un po’ ovunque. Così il popolo dei cercatori d’oro si inoltra sempre più nella foresta e costruisce vere e proprie città provvisorie di baracche nei pressi dei siti auriferi più promettenti. Dato che questi siti cambiano in continuazione, i villaggi di oggi potrebbero scomparire una volta esaurita la vena mineraria. Il risultato è una penetrazione della foresta sempre maggiore.

«Qualcuno paga la licenza di estrazione – racconta padre Flavio – e manda i più disperati a cercare l’oro. Questi sono i cercatori artigianali, lavorano manualmente e nessuno assicura loro il minimo di sicurezza. Si può dire che stanno peggio dei pigmei. Quello che trovano lo vendono per pochi soldi all’intermediario, che poi lo porterà al comptoir (ufficio di esportatori, ndr) in città dove sarà acquistato a un prezzo nettamente superiore.

Tutto quello che i cercatori d’oro consumano, come il cibo, gli attrezzi, viene da lontano, dalle città, e arriva con grossi camion. Per questo è molto costoso. In questi agglomerati di baracche circolano soldi, prostituzione, malattie, violenza. Tutti gli affari, in quest’area, seguono i siti di estrazione dell’oro».

Un fenomeno, che, pure se esisteva già 30 anni fa, come conferma padre Flavio che era in missione in Congo (all’epoca Zaire) nel 1978, negli ultimi dieci anni ha assunto una dimensione enorme, e tutto questo a scapito del territorio dei pigmei.

Legname pregiato

«Un altro fatto che sta contribuendo alla distruzione dell’habitat del pigmeo è il taglio degli alberi per il legname. I camion che portano mercanzie di ogni genere per i cercatori d’oro, ripartono carichi di tronchi. Spesso i pigmei stessi sono assoldati per trasportare gli alberi sezionati fuori dalla foresta, nei luoghi raggiungibili dai camion. I mezzi poi partono per l’Uganda, dove il legname sarà venduto e lavorato». Una foresta invasa dalle motoseghe, vuol dire non solo eliminare gli alberi, ma anche far fuggire la selvaggina, il principale sostentamento del pigmeo.

Si tratta anche di una invasione culturale, oltre che fisica: «Il pigmeo è entrato in contatto con un’altra realtà. Ha visto il mercato del villaggio bantu, ascoltato la radio, sperimentato gli alcolici. Ormai non riesce più a staccarsi da queste cose penetrando di più nel folto della foresta. Si avvicina alla popolazione di origine bantu e si accampa. Però è rimasto per indole raccoglitore e cacciatore, per cui può capitare che vada in un campo e raccolga del cibo: ma in questo modo, per la società bantu, diventa un ladro. Un comportamento dell’altro, non puoi criticarlo se non lo conosci. Devi cercare di metterti nei suoi panni. Il pigmeo ha rubato, o piuttosto, ha preso per fame?».

Il pigmeo che con la sua famiglia è uscito dalla foresta profonda e si è accampato nei pressi delle città, ha perso il suo habitat ed è a un passo dal perdere la sua identità.

«Una questione fondamentale – continua padre Flavio – è che le persone di altre etnie considerano i pigmei esseri inferiori. A causa di questo preconcetto si è creata una dipendenza perversa. Il bantu dice al pigmeo: “Io ti prendo come protetto. Tu coltiva il tuo campo e poi vieni a lavorare nel mio come mio servo”. Si crea una dipendenza servile che spesso è suggellata dal patto della circoncisione: “Io circoincido mio figlio con il tuo, per questo siamo quasi parenti”».

Ma nella mentalità del pigmeo coltivare è assurdo. Da cacciatore, lui si procura da mangiare nella giornata, abbastanza per quel giorno. Seminare, innaffiare e pensare di avere cibo dopo settimane o mesi è impensabile per la sua concezione. Occorre un cambiamento di mentalità, ma ci vuole tempo.

La scuola «inculturata»

Un aspetto che ha interrogato molto i missionari è stato quello dell’educazione. «Il contatto con le altre popolazioni impone che i pigmei imparino a leggere e scrivere – sostiene padre Flavio -. Dobbiamo però tenere sempre presente che vogliamo valorizzare quello che loro danno per scontato, ma che stanno per perdere, ovvero la loro cultura. Per questo occorre prepararli in modo che siano in grado di conservare le loro tradizioni».

I bantu si sono adeguati allo stile e ai costumi europei. Questo anche a livello di scuola, che è strutturata come quella dei paesi colonialisti. Ma se, ad esempio, per i belgi ci sono quattro stagioni, per i pigmei ce ne sono solo due, ovvero la stagione secca e quella delle piogge. Inoltre per loro non ci sono i mesi, ma le lune. Per la scuola del bambino pigmeo bisogna tenere in conto di tutto questo. Se da settembre a novembre può venire a lezione, da gennaio in poi è stagione secca, deve andare in foresta a cacciare e raccogliere il miele. Quindi partirà con i suoi genitori, tornando magari dopo tre mesi. Inoltre, quando frequenta, il bambino pigmeo non riesce a stare fermo tutta la mattina. La scuola deve essere diversa anche come tempistiche. Ecco perché i missionari della Consolata si sono inventati la «scuola itinerante».

Così la descrive padre Flavio: «È una scuola che si adatta ai periodi dell’anno e alla periodicità dei giorni. L’insegnante passa nell’accampamento dei pigmei e inizia a dare nozioni di base. Poi si integra con un cosiddetto “esperto” dell’accampamento, ovvero un adulto che tiene lezioni su elementi specifici, come la caccia, la tessitura, e tutti gli altri aspetti della vita pigmea».

Un’altra difficoltà nell’insegnare ai pigmei è il fatto che sono molto concreti e hanno difficoltà con l’astrazione. «È piuttosto complesso ad esempio insegnare i numeri. Per spiegare il numero 8, ad esempio, prendo otto pietre, otto unità. Ma non c’è il concetto di una entità che si chiama “8”. Quindi il calcolo resta molto difficile per loro. Così come per insegnare l’alfabeto occorre associare un suono a ogni lettera. Sono categorie che devono acquisire, non sono spontanee.

Noi ci prepariamo le lezioni in lingua kibutu, che è una lingua bantu parlata anche dai pigmei, simile al kiswahili. A volte proiettiamo qualcosa su un panno bianco. Abbiamo visto anche molto interesse da parte degli adulti, che lasciano le loro occupazioni per venire a vedere cosa stiamo facendo».

Il villaggio mobile

Il pigmeo non ha un villaggio stabile. La sua capanna si può costruire in un giorno e, normalmente, è un incarico delle donne. I gruppi sono composti da una trentina di persone, senza contare i bambini, e sono entità che si spostano.

Inoltre, tradizionalmente, fino a pochi anni fa, non c’era un capo. C’erano dei referenti, responsabili di alcuni ambiti della vita della comunità: chi per la caccia, chi per far nascere i bambini, chi per la tessitura, ecc. Adesso, che hanno contatti con i bantu, è nata l’esigenza di avere un capo, perché occorre un referente unico per il gruppo.

Un altro effetto della contaminazione è quello legato alla monogamia. «I pigmei sono tradizionalmente monogami, perché in foresta non puoi permetterti due mogli e tanti figli. Oggi, con il contatto con i bantu, stanno assumendo altre usanze. Anche per la dote. Il matrimonio veniva fatto tra due gruppi con scambio di ragazze. Se si porta carne è per la festa comune, ma una ragazza vale una ragazza. Per i bantu, invece, se tua figlia si sposa devi chiedere dei beni all’altra famiglia. Diventa quasi una vendita.

Tra i pigmei al servizio dei bantu iniziano a entrare le abitudini dei bantu».

Anche dare uno stipendio a un pigmeo è difficile: «Si pagano tutte le settimane, perché una volta al mese non riescono a tenere i soldi. Un funzionario si trova ad avere un salario, ma non sa gestirlo. Spesso beve. Oppure paga anche per gli altri, condivide, come se nel  giorno di paga avesse cacciato un grosso animale. Ci sono stati maestri elementari pigmei, ma sono stati un fallimento. È una perdita di identità al 100%: dicono di non essere più pigmei, però si accorgono di non essere nemmeno bantu, perché vengono discriminati. Rifiutano i loro fratelli e sono rifiutati da quelli con cui si identificano».

Il lavoro dei missionari

«Ci sono villaggi bantu nei pressi dei quali sorgono due, tre accampamenti pigmei. Noi andiamo al villaggio, lasciamo la moto e poi entriamo in foresta a piedi, fino all’accampamento.

Tre anni fa, si era creato un accampamento grosso, fusione di due gruppi. Lì mi avevano fatto una capanna e io vivevo con loro tre giorni alla settimana.

Per preservare la loro cultura cerchiamo di raccogliere e conservare tutto quello che è il loro mondo, sia a livello di medicina tradizionale, sia di narrazioni. Ma è un lavoro agli inizi. Quello che manca, guardando altri casi simili, come il popolo Yanomami in Amazzonia, è la mancanza di una sensibilità al riguardo. Penso sia frutto di un lavoro, ma forse anche di una sensibilità latinoamericana diversa. I pigmei non dicono “la nostra tradizione, i nostri costumi”. Devi essere tu che indichi loro: “I vostri costumi”. A volte il pigmeo ha vergogna dei suoi costumi. Questo perché quando sei considerato inferiore, dopo un po’ ti convinci di esserlo».

Padre Flavio Pante sostiene che occorre anche lavorare sulla popolazione bantu per un cambiamento di mentalità nei confronti dei pigmei. Ma si tratta di un lavoro molto difficile, «perché i bantu si sentono i padroni della gente». Inoltre il missionario è sempre uno straniero, e i bantu hanno troppi interessi da difendere. Noi cerchiamo di fare un discorso con i cristiani: non possiamo accettare questa logica.

«Per i sacramenti e la preghiera, cerchiamo di celebrare con la comunità unita, ovvero insieme bantu e pigmei. I pigmei vengono a messa. La partecipazione nel canto e nella danza è più difficile: i bantu ridono dei pigmei che danzano. Inoltre la musica pigmea non ha parole, ha suoni anche con la bocca».

E conclude: «C’è in noi la volontà di continuare ad occuparci delle popolazioni pigmee. Ma gli africani, in genere, non sono molto attirati a lavorare con loro».

Marco Bello


Archivio MC


Dalle elezioni alla formazione di un nuovo governo

Alternanza? Sì, no, forse

Le elezioni del dicembre 2018 hanno dato al Congo un nuovo presidente, dal cognome famoso, ma senza maggioranza parlamentare. Da allora sono passati otto mesi alla ricerca di un difficile consenso tra gruppi politici, per governare uno dei paesi più ricchi di materie prime del continente.

Forse ci siamo. La Repubblica democratica del Congo avrà, infine, il suo nuovo governo. La lista dei suoi 65 membri è stata resa pubblica il 26 agosto. Da ormai sette mesi, dal suo insediamento, il 25 gennaio scorso (in seguito a elezioni presidenziali, legislative e amministrative), il nuovo presidente della repubblica Félix Tshisekedi, tenta di costituire il governo (l’Rdc è una repubblica presidenziale). Tshisekedi è il figlio di Etienne, l’eterno oppositore che non è mai riuscito a conquistare il potere, se non per alcune brevi esperienze di governo come primo ministro. Etienne dopo aver perso l’ultima sfida nel 2011 contro Kabila, è morto il primo febbraio del 2017.

Félix ha vinto a sorpresa le elezioni presidenziali, molto contestate in realtà, alla testa del partito fondato da suo padre, l’Unione per la Democrazia e il Progresso Sociale (Udps), facente parte del più vasto gruppo politico Cap pour le changement (Cach). Nel frattempo il Fronte comune per il Congo (Fcc), la coalizione dell’ormai ex presidente Joseph Kabila, ha vinto massicciamente le legislative e le amministrative, assicurandosi una maggioranza confortevole all’Assemblea nazionale e al Senato (le due camere del parlamento congolese).

Tshisekedi ha dunque dovuto intavolare un negoziato con gli ex padroni del paese per tentare di creare un governo.

«Il contesto politico è cambiato in Rdc – scrive il Gruppo di studio sul Congo dell’Università di New York -. Joseph Kabila anche se è ancora potente, con una maggioranza parlamentare schiacciante, non è più l’uomo forte di Kinshasa. L’ex presidente non ha più l’ultima parola su tutto».

Joseph Kabila era salito al potere il 26 gennaio del 2001, alla morte di suo padre Laurent-Désiré Kabila, ucciso da una sua guardia del corpo in circostanze ancora da chiarire. Era in corso la cosiddetta Seconda guerra del Congo (1998-2003). Laurent-Désiré aveva guidato una ribellione appoggiata da Burundi, Rwanda e Uganda, che aveva portato a rovesciare il presidente-padrone del paese Mobutu Sese Seko nel maggio del 1997, durante la Prima guerra del Congo (1996-1997). In questa occasione Kabila padre aveva cambiato il nome dello Zaire nell’attuale Repubblica democratica del Congo.

Joseph ha quindi mantenuto il potere, conquistato con la forza, confermandolo con due elezioni successive (2006 e 2011). Il suo ultimo mandato, non rinnovabile, sarebbe scaduto nel dicembre del 2016, ma lui ha rinviato progressivamente le elezioni, eliminando anche i potenziali oppositori, come Moise Katumbi, costretto all’esilio in Belgio, e limitando la libertà di stampa.

Una deriva anticostituzionale che ha causato reazioni della società civile che, a più riprese, ha chiesto al leader di lasciare il potere. In particolare la chiesa cattolica si è posta inizialmente come mediatrice, tra il presidente e l’opposizione, ottenendo la promessa di Kabila di organizzare elezioni a fine 2017. In seguito, visto che l’impegno non veniva mantenuto, la chiesa ha organizzato manifestazioni pacifiche a cui hanno aderito molti cristiani e i leader dell’opposizione, per chiedere il rispetto degli accordi.

Il 31 dicembre 2017 una di queste manifestazioni è stata prima ostacolata e poi repressa dalle forze dell’ordine. Si sono registrati 6 morti, 57 feriti e 111 arrestati, secondo la Monusco (Missione della Nazioni Unite in Congo). Il confronto tra il potere di Kinshasa e la chiesa cattolica congolese si era fatto duro.

Finalmente, con molte difficoltà, anche logistiche, in un paese di 2,5 milioni di km2 scarsamente collegato e con 45 milioni di elettori, le consultazioni si sono svolte nel dicembre del 2018. Le urne, come detto, hanno restituito una situazione complessa e le due coalizioni hanno faticato a trovare un accordo. Nel maggio scorso il presidente ha nominato Sylvestre Ilunga Ilunkamba primo ministro, e questi ha lavorato per produrre una lista di ministri gradita a entrambi i gruppi politici. Su 65 posti ministeriali (ministri e sottosegretari), 23 vanno alla coalizione di Tshisekedi, Cach, e 42 a quella di Kabila, Fcc. Alla prima vanno i dicasteri dell’Interno e Affari esteri, alla seconda Giustizia, Difesa e Finanze. Intanto la società civile denunica un incremento di casi di appropriazione indebita di fondi a livello dei ministeri, negli ultimi otto mesi.

Ma.Bel.

Felix Tshisekedi, nuovo presidente del RD Congo / Photo by ANDREW CABALLERO-REYNOLDS / AFP




Con Puat Subyz nella Raposa Serra do Sol

testo e foto di Dan Romeowww.iviaggididan.it


Incontro fratel Francesco Bruno, detto Cico, classe 1946 di Pinerolo (Torino), a Boa Vista, in Roraima, Brasile. Arrivato là nel ‘76, è un uomo d’altri tempi, con un umorismo contagioso e una manualità in grado di passare dalla riparazione di un carburatore alla realizzazione di chilometri di acquedotti. Lo definisco un eroe, capace di amore, dedizione, passione, tenacia e coraggio. Trascorro con lui pochi giorni alla scoperta delle missioni tra i popoli indigeni e dei progetti realizzati.

A bordo del suo camioncino Chevrolet raggiungiamo le missioni di Maturuca e Camarà. Le lunghe ore trascorse insieme mi aiutano a comprendere, attraverso i suoi racconti, le questioni che lo preoccupano maggiormente e che affliggono i territori indigeni minacciati da fazendeiros e garimpeiros (allevatori di bestiame e cercatori d’oro).

Questi ultimi stanno sfruttato da tempo le terre ancestrali occupandole abusivamente e attentando con ogni mezzo alla stessa esistenza delle popolazioni indigene della Raposa Serra do Sol: Macuxi, Wapichana, Taurepang, Ingarikó e Patamona.

Per i popoli indigeni la terra è tutto, è la vita stessa. Soddisfa tutti i loro bisogni materiali e spirituali. Fornisce cibo e riparo ed è il fondamento della loro identità e del loro senso di appartenenza.

Le invasioni e la situazione dei territori indigeni

L’invasione dei territori indigeni si protrae da oltre 500 anni ed è stata da sempre attuata attraverso la violenza sulle popolazioni, la distruzione degli ecosistemi, il furto delle conoscenze e la schiavitù fisica e spirituale. Una guerra che sembra non avere fine.

Il decennio che volge al termine rivela quanto il colonialismo rimanga vivo e operativo. Un’offensiva orchestrata da potenti interessi finanziari, corporazioni neo-estrattive e megaprogetti di sviluppo, continua a minacciare vite, culture e territori.

L’avanzare dei governi di destra e autoritari in Brasile rafforza la strategia di colonizzazione che va contro i diritti delle popolazioni indigene della Raposa Serra do Sol, attraverso meccanismi istituzionali che favoriscono quelli che alcuni definiscono etnocidio ed ecocidio.

Nonostante le violenze subite, le popolazioni indigene resistono e vogliono essere soggetti del proprio destino. La causa indigena appartiene a tutti, indigeni e non. I processi come la perdita di biodiversità e il cambiamento climatico rappresentano, infatti, una minaccia crescente per il mondo intero.

L’intervista

Dopo il nostro primo incontro a Raposa Serra do Sol, ho occasione di incontrare Puat Subyz, questo il nome indigeno di fratel Cico (sarebbe Chico, pronunciato scico in brasiliano, ndr), varie volte. Puat Subyz significa scimmia urlatrice, ma, come precisa lui stesso, l’origine del soprannome deriva dalla barba che all’inizio portava bella folta e fluente.

Mi racconti l’origine della tua vita da missionario in Roraima?

«Tutto è nato quando ho saputo che i missionari in Brasile avevano bisogno di un meccanico riparatore.

Quando sono arrivato a Boa Vista, nel 1976 e, più precisamente, a Calungà, dopo soli tre giorni, un missionario mi ha invitato ad andare con lui in moto in un villaggio indigeno. Un viaggio sotto la pioggia e segnato da numerose cadute nei profondi banchi di sabbia fine. Arrivati nella chiesetta del villaggio, il missionario, in abito talare bianco, durante la sua predica ha puntato il dito verso l’esterno della chiesa dicendo ai fedeli, cinque donne e sei bambini: “Voi non dovete fare questo”. Indicava gli uomini del villaggio che dormivano tra le alte erbacce dove erano caduti durante la sbornia della sera precedente.

Da quel giorno, iniziai a chiedermi come fare per evangelizzare e riparare le persone in panne (e non più solo gli automezzi)».

Quali sono state le tappe della tua lunga esperienza?

«Da quel lontano 1976, ho vissuto 14 anni a Calungà nel Centro Educativo della Consolata, insegnando e lavorando a riparare macchinari e automezzi della diocesi e della popolazione locale. Il fine settimana, partivo alla volta dei villaggi di lingua indigena Wapixana nella regione di Serra da Lua, per il lavoro di evangelizzazione e assistenza religiosa.

Dal 1991 al 1996, sono stato animatore missionario nelle scuole e nelle parrocchie di Erexim, nel Rio Grande do Sul. Ho poi trascorso 18 mesi nella missione di Catrimani nella terra yanomami, un anno alla missione parrocchiale di Alto Alegre, tre anni alla missione della Barata nella regione Taiano, sei anni all’area missionaria di Caranà a Boa Vista, un anno a Maturuca, sei anni nella missione di Camará nella regione Baixo Cotingo. Dal 2016 sono tornato a Maturuca».

Quali le maggiori difficoltà che hai incontrato in questi anni?

«In primo luogo, la malaria. I numerosi incidenti e le cadute con la mia motocicletta, i viaggi lunghi su strade e sentieri sconnessi e disseminati di pietre, crateri, pantani, torrenti da guadare; imboscate da parte di garimpeiros e fazendeiros evitate solo grazie alla protezione degli stessi indigeni; le incomprensioni e, in ultima istanza, i miei limiti personali e la poca preparazione per lavorare con popoli e culture molto differenti da me».

Quali e quante sono le etnie che hai incontrato in questi anni nella Serra do Sol?

«Nella Regione Baixo Cotingo, ho lavorato con i Macuxi e con gli Irian, due etnie con lingua simile che oggi convivono ma che in passato erano sempre in lotta tra loro. In misura minore ho anche interagito con individui di lingua Wapixana. Nella regione Serras invece, ho lavorato solo con Macuxi e poche persone di altre etnie presenti nelle nostre assemblee periodiche. In generale, i Macuxi, costituiscono la maggioranza insieme a minoranze di Ingarikó, Taurepang, Patamona, Maiongong e qualche Wapixana. Gli Irian, nella Regione Baixo Cotingo, sono al secondo posto come numerosità. Da notare che i Wapixana sono del gruppo linguistico Aruak. Tutti gli altri del gruppo linguistico Carib».

Quali sono le tue maggiori preoccupazioni legate ai problemi che da sempre affliggono le terre indigene?

«Al momento nella Regione Serras, ci sono invasioni di turisti con vari tipi di distrazioni. C’è una forte presenza di venditori ambulanti, che offrono mercanzie di ogni sorta, tra cui bevande alcoliche e droga, senza nessun controllo da parte del governo. Al contrario, il paradosso è che gli indigeni non possono portare i loro prodotti in città a causa della “mosca della Carambola” e il controllo del governo da questo punto di vista è molto severo.

Fortissime le incursioni dei politicanti che offrono di tutto, soprattutto la realizzazione di fantomatici progetti che non sono in sintonia con l’ecosistema della regione e la stessa cultura indigena. Molte le promesse mai mantenute, per fortuna degli indigeni, i quali spesso si lasciano ingannare da questi uomini in malafede e senza scrupoli.

Nella Regione Serras c’è poca vegetazione, tipica dei climi semi aridi. Gli indigeni hanno iniziato da qualche tempo a organizzare fiere di sementi e piante con relativo scambio di prodotti del territorio; stanno così crescendo gli scambi e il commercio di beni che generano lentamente un aumento della produzione alimentare locale.

La televisione è purtroppo il mezzo più distruttivo nelle comunità indigene: è comune vedere nelle capanne di legno e foglie, televisori con grandi schermi alimentati da piccoli generatori o dallo stesso generatore del villaggio, quando questo funziona.

Nella terra yanomani, sono presenti oltre ventimila invasori garimpeiros e questo comporta malattie, morte e annientamento sociale e culturale per gli indigeni.

Il furto delle conoscenze e la distruzione dell’ecosistema sono piaghe secolari.

Purtroppo sono pochi gli indigeni che si preoccupano di queste tematiche che affliggono la loro società e il loro ambiente naturale».

Esistono ancora le condizioni per il pieno esercizio del diritto all’autodeterminazione delle popolazioni indigene?

«Ci sono molti indigeni e giovani impegnati che partecipano a incontri su questi temi, ma la lotta è durissima. Sono drammatici gli eventi recenti che vedono precipitare la situazione delle terre indigene e peggiorare le condizioni di vita dei popoli nativi a seguito dell’insediamento del nuovo governo di Jair Bolsonaro. Il nuovo presidente ha promesso, durante la campagna elettorale, di permettere l’estrazione dei minerali nelle riserve degli indigeni. Questo ha incoraggiato i cercatori d’oro a continuare le devastazioni per l’estrazione del prezioso metallo violando deliberatamente la legge e inquinando i fiumi.

Dal punto di vista dei diritti umani la situazione peggiora di giorno in giorno. Gli indigeni denunciano gli invasori finanziati dall’agrobusiness di violenza, terrorismo e guerriglia allo scopo di raggirare la legge, calpestando quanto affermato nella stessa Costituzione».

Credi sia possibile arrivare a una fine della violenza, della criminalizzazione e della discriminazione nei confronti delle popolazioni indigene e dei loro territori, garantendo la punizione dei responsabili?

«È il grande sogno indigeno ma anche di moltissimi brasiliani. Purtroppo, la realtà delle cose in Brasile peggiora di giorno in giorno. Impunità totale dei colpevoli ricchi e potenti, punizioni severe per gli indigeni e la povera gente».

Dan Romeo




Amazzonia (Catrimani). «Niente foto, per favore»

testo e foto di Paolo Moiola


Trascorso oltre mezzo secolo dalla sua fondazione, la Missione Catrimani prosegue la sua esperienza nella terra degli Yanomami. Una terra assediata dai garimpeiros che avanzano e fanno disastri nella più totale impunità. La malaria è sempre presente e le «attrazioni» dei Bianchi catturano una parte degli indigeni. Eppure, nonostante tutti questi problemi, la Missione Catrimani rimane un posto unico. Che merita una lunga vita.

Sono ancora a Manaus quando mi raggiunge una email di padre Corrado Dalmonego, responsabile della Missione Catrimani nella Tiy, la Terra indigena yanomami. Dice di essere di passaggio a Boa Vista e che tra pochi giorni tornerà in foresta. «Ti interesserebbe venire con me?», domanda. Se mi interessa? È da anni che ho a che fare con gli Yanomami, ma li ho sempre incontrati a Boa Vista. In vari luoghi: alla sede della loro associazione Hutukara, come nella filiale del Banco do Brasil, però sempre fuori dal loro contesto territoriale.

«Certo che accetto», rispondo. «Per farti spazio sull’aereo io rinuncerò a caricare un sacco di pane secco», spiega il missionario. Mi ha paragonato a un sacco di pane e neppure fresco, penso tra me e me. Vabbè se questo è il prezzo da pagare, lo pago. Purtroppo però non è il solo. «Niente foto agli Yanomami, per favore», aggiunge padre Corrado. Anche se la mania dei selfie ha svilito il ruolo delle foto, per un giornalista non poter fotografare è un divieto pesante. Tuttavia, non discuto. «Va bene – rispondo -. Accetto le tue condizioni».

Dopo una notte in bus, al mattino raggiungo Boa Vista, capitale dello stato di Roraima.

Per raggiungere Catrimani

A Boa Vista operano alcune compagnie di piccoli aerei (quasi sempre Cessna) che monopolizzano il mercato: il business è grosso. Non certo per merito dei pochi missionari, però. A parte qualche eccezione, non sono loro a volare nella Terra indigena Yanomami. Sono (purtroppo) i garimpeiros e coloro che stanno dietro il malaffare minerario. Va ricordato che, in linea teorica, chiunque voglia entrare in terra indigena dovrebbe chiedere il permesso alla Funai1.

Negli anni Ottanta-Novanta, durante le invasioni del territorio yanomami e ye’kwana, vennero identificate 82 piste d’atterraggio clandestine2. Quante siano oggi è difficile dirlo anche perché le operazioni di contrasto sono molto più blande che nel recente passato.

Perché – viene da chiedersi – andare alla Missione Catrimani con un aereo? Perché raggiungerla via fiume è pericoloso a causa della presenza delle rapide. Raggiungerla via terra è invece lungo e difficile: sono 5 giorni di cammino con esperte guide indigene. Tuttavia – occorre sottolinearlo con forza -, è un bene che vie semplici da percorrere non ce ne siano: una strada sarebbe la fine di tutto, come ha dimostrato la devastante esperienza della Perimetral norte, la via oggi abbandonata che portò morti e distruzione a metà degli anni Settanta.

Dalla savana alla foresta

Il decollo è tranquillo, favorito da una giornata relativamente limpida. Schiacciato sullo stretto sedile posteriore, alla mia sinistra una pila di scatole di cartone contenenti non so cosa e un paio di sacchi di yuta con alimenti, i piedi posti sopra le nuove batterie solari per la missione, accompagnato dal pigolio continuo delle decine di pulcini che, chiusi all’interno di uno scatolone bucherellato, viaggiano nel vano bagagli sulla coda del Cessna, in tutto questo ammiro (e filmo) il panorama sotto di noi.

I primi 15 minuti di volo mostrano un paesaggio dominato dal lavrado, la savana amazzonica. Poi, l’ecosistema cambia: inizia la foresta e qualche rilievo, che può superare i 1.000 metri d’altezza.  Sono le propaggini della Serra da Mocidade, dai missionari chiamata Serra dos Opikɨtheri per ricordare i loro veri abitanti. Da qui in avanti inizia la Terra indigena yanomami (Tiy).

Ecco il fiume Catrimani, che – lo raccontò negli anni Sessanta padre Silvano Sabatini nei suoi appassionati reportage3 – sarebbe un punto di riferimento se non fosse che il giovane pilota del Cessna ha un Gps portatile (posato sulle sue ginocchia).

Ecco alcune maloche (yano) ed ecco la Missione Catrimani. Il Cessna fa alcune virate per mettersi in condizione di atterrare sulla pista in terra battuta.

La pista della Missione Catrimani, costruita dai padri Bindo Meldolesi e Giovanni Calleri, venne ufficialmente inaugurata il 7 marzo 1966, quando vi atterrò il primo aereo4. All’epoca era una striscia di terra ed erba lunga circa 400 metri e larga 30, con tutt’attorno una fitta foresta. Oggi, essa è lontana dalla pista varie decine di metri, lasciando spazio a una radura (e ciò – a dire il vero – non è un buon segno dal punto di vista ambientale).

Il piccolo aereo tocca terra con qualche scossone dovuto al terreno sconnesso ma senza difficoltà.

La pista è a circa duecento metri dalle costruzioni della missione, dalla quale qualcuno ci fa cenni di saluto. Uno Yanomami dall’età imprecisabile (ma non giovane) ci viene incontro e saluta padre Corrado. Strano – penso tra me e me – che non ci siano più persone. Saprò più tardi che, proprio in questi giorni, quasi tutti gli Yanomami di Catrimani sono ospiti in altre maloche per una festa.

Iniziamo subito a scaricare i numerosi bagagli stipati sul velivolo, che si fermerà soltanto poche ore. Nel frattempo, l’anfitrione indigeno è tornato con una carriola, che però non è utile per trasportare le pesanti batterie solari. Così, lui ed io assieme, parlando a gesti e sorrisi, uno da una parte e uno dall’altra, le solleviamo e le portiamo verso la missione.

Per la salute, per l’istruzione

Ci sono alcune donne con neonati in braccio e vari bambini, subito attratti dallo scatolone con i pulcini, anch’essi atterrati sani e salvi come gli umani. E ci sono due suore della Consolata, che mi accolgono con calore.

Sono l’italiana Giovanna Geronimo e Noemi del Valle Mamani, argentina di etnia kolla. È invece in trasferta la suora che da più tempo vive a Catrimani, la keniana di etnia kikuyu Mary Agnes Njeri Mwangi5.

La missione è un piccolo complesso composto da casette di legno a un piano, la maggior parte di un color verde foresta che s’intona perfettamente con l’ambiente amazzonico. Le suore m’invitano a dissetarmi in quella che ospita la cucina e il refettorio, luogo giusto per scambiare qualche parola. Suor Giovanna, nativa di Martina Franca, è l’ultima arrivata essendo qui dal settembre 2018, ma opera in Brasile da oltre 30 anni. Suor Noemi è a Catrimani dall’agosto del 2009, pur con una pausa di alcuni anni. «Mi occupo degli insegnanti – spiega -. Una sorta di accompagnamento pedagogico». L’insegnamento – e questa è una conquista fondamentale – avviene sia nella lingua indigena che in portoghese. «Il primo anno è in yanomae, gli altri due in portoghese», precisa la suora.

Usciamo per una visita alla missione, che si conferma molto curata: erba tagliata, piante da frutto, fiori, nulla fuori posto.

Ci dirigiamo verso la casetta che ospita l’ambulatorio gestito dalla Sesai (Secretaria especial de atenção à saúde Indígena), organizzazione pubblica per la salute indigena che il presidente Bolsonaro vuole eliminare o almeno ridimensionare.

L’ambulatorio è una stanza essenziale alle cui pareti interne sono appesi manifesti informativi. Ci sono i farmaci e poi, poggiato su un bancone, lo strumento forse più importante: il microscopio per l’individuazione del parassita della malaria. «In questo momento – racconta suor Noemi -, c’è un aumento dei casi di malaria per varie cause, non ultima la rottura della macchina che serve per spargere lo spray anti zanzare».

Nel frattempo, arriva anche l’infermiere di turno in questo periodo. Si chiama João Lima Dias, 47 anni. «La difficoltà principale – mi spiega – nasce dal fatto che dobbiamo seguire 22 comunità. Dato che siamo pochi, è difficile curare tutte le persone nelle varie maloche disperse sul territorio».

Saluto João, perché padre Corrado vuole mostrarmi la maloca (yano) di una delle comunità più vicine.

La maloca e il suo mondo

Camminiamo veloci all’ombra di un bosco non fitto. All’improvviso questo lascia il posto a una piccola radura occupata da una maloca a cielo aperto, casa della comunità Maamatheri (dove il suffisso – theri indica gruppo, comunità, e maama significa pietra). Passiamo da un’entrata che è poco più di un pertugio, ma che dà accesso a un mondo.

La yano ha una intelaiatura di base fatta di sottili pali di legno ai quali vengono applicate foglie di una palma (nota come ubim, nome scientifico geonoma) e liane per formare le pareti e il tetto. La grande tettoia forma una sorta di anello al cui centro rimane una piazza utilizzata per feste e danze, distribuzione di alimenti, cerimonie con gli sciamani, accoglienza degli ospiti.

La maloca è una casa comunitaria, cioè polifamiliare o, per meglio dire, a famiglia estesa (- theri). «Qui vivono 30 persone – spiega padre Corrado dal centro della piazzetta -. Nella maloca ciascuna famiglia occupa uno spicchio delimitato dalle amache stese attorno a un fuoco». Non ci sono dei contenitori tipo armadi: tutto è in vista. Gli unici oggetti che riesco a vedere sono alcune pentole di varie dimensioni. Ci sono anche un tavolone, delle panche e una lavagna: è il piccolo spazio destinato alla scuola.

Oggi, sotto la grande tettoia circolare, razzolano le galline e giocano alcuni bambini. L’unico adulto è una donna che, seduta sul pavimento in terra battuta, è intenta a grattugiare i tuberi della manioca con la cui farina gli Yanomami preparano delle focacce chiamate naxihi (beijù, in portoghese). Dal tetto scende una grata in legno su cui ci sono un paio di pesci arrostiti. Mi spiegano che sono noti come aracu.

Nella maloca le amache sono poche, segno che la maggior parte degli abitanti è in trasferta. «Sì – mi spiega padre Corrado -, come ti ho detto gli abitanti sono andati a una festa». Visto che la yano è quasi disabitata, il missionario mi concede di scattare qualche foto. Quello di padre Corrado è un atteggiamento di difesa verso gli Yanomami sotto due punti di vista: uno culturale per rispettare o preservare la concezione dell’ũtupë, l’immagine spirituale della persona6; uno antropologico volto a frenare la reazione di una parte degli indigeni che ai fotografi hanno iniziato a chiedere un compenso per lasciarsi fotografare. Chissà cosa avrebbe fatto padre Corrado se fosse stato presente quando, nel marzo 2014, accompagnata da una troupe della Bbc, passò dalla missione una celebrità internazionale come l’ex calciatore David Beckhamp7.

Il Rio Catrimani

Lasciata Maamatheri, c’è il tempo per una visita alla sponda del Catrimani, il fiume che bagna la missione e che le dà il nome. L’acqua pare normale, ma non c’è certezza che i detriti – in primis, il pericolosissimo mercurio – prodotti dai garimpeiros installatisi a monte non siano giunti fin qui. La sponda opposta dista vari metri e dal letto del fiume spuntano rocce e sassi.

La pesca è praticata dagli Yanomami ma non ha mai avuto il rilievo della caccia ed è sempre stata un’attività (praticata con la tecnica del veleno sparso in acqua) prevalentemente femminile.

Sulla riva, all’ombra degli alberi, è legata una piccola barca. Risalendo il Catrimani con piccole imbarcazioni a motore in 4-5 ore si raggiungono le ultime comunità; scendendo si può arrivare, dopo 3-4 giorni, fino al Rio Branco, il fiume che attraversa Roraima da Nord a Sud. Padre Corrado chiosa: «Queste sono le nostre strade. Perché qui i fiumi non ci dividono, ma al contrario ci uniscono.

Unica

Non c’è più tempo: il pilota vuole ripartire. Debbo risalire sul Cessna. Sul sedile posteriore si accomoda un anziano Yanomami che ha chiesto di essere portato a Boa Vista. Io mi sistemo accanto al pilota.

Alla Missione Catrimani ho trascorso soltanto mezza giornata, la grande maggioranza degli Yanomami era in trasferta e praticamente non ho potuto scattare foto. Eppure, a dispetto di tutto questo, è stata un’esperienza unica perché unica è la Missione Catrimani.

Paolo Moiola

Note:

(1) Sulle modalità di entrata in terra indigena si veda quanto scritto nel sito: http://www.funai.gov.br.

(2) Isa, Mineria Ilegal en los Territorios Yanomami y Ye’kuana (Brasil-Venezuela), 2017.

(3) Silvano Sabatini, Le prodezze del vostro aereo, in «Missioni Consolata», n. 9, maggio 1968.

(4) Bindo Meldolesi, Il campo è pronto!, in «Missioni Consolata», n. 7-8, luglio-agosto 1966.

(5) Una sua intervista è stata pubblicata sul numero di marzo.

(6) Su questo concetto proprio degli Yanomami si rimanda a Corrado Dalmonego, «Il corpo e l’immagine», in Nohimayu – L’incontro, Editrice Emi, Verona, settembre 2019. (Qui sopra la copertina del libro.)

(7) Da quella visita è stato ricavato un documentario: David Beckhamp – Into The Unknown.

In precedenza:

(1) Suor Mary Agnes (marzo);

(2) Davi Kopenawa (aprile);

(3) Enock Taurepang (maggio);

(4) dom Sergio Castriani (giugno);

(5) dom Mário Antônio da Silva (luglio);

(6) Convegno Yanomami; lettura dell’Instrumentum laboris del Sinodo panamazzonico (agosto-settembre).




L’abilità di essere «normali» (in Africa)

Testo di Enrico Casale


Nel continente la disabilità è ancora percepita come qualcosa di anomalo, causato dalla colpa di qualcuno. Qualche decade fa, alcuni missionari iniziarono a occuparsi del tema. Anche la sensibilizzazione, per un cambio di mentalità, sta avendo i suoi effetti. E qualcosa sta cambiando.

Qualcosa sta cambiando, lentamente, nel mondo della disabilità in Africa. Si sta diffondendo un diverso atteggiamento verso chi è portatore di un handicap e stanno migliorando le cure e l’assistenza. La situazione è ancora difficile, ma i passi avanti ci sono.

Paura e discriminazione

In Africa, la condizione dei disabili non è semplice perché eredita un passato fatto di superstizioni e pregiudizi. «Non è possibile parlare di un atteggiamento “africano” nei riguardi della disabilità – spiega Franco Lain, religioso dell’Opera don Guanella, piccola congregazione che da sempre si occupa di orfani, anziani e disabili -. Ogni paese, ogni regione ha un suo modo di affrontare il tema. In generale, possiamo dire che nel portatore di handicap gli africani vedevano, e tuttora, in larga parte, vedono, qualcosa di strano. Un’anomalia che, per forza, deve venire da un intervento esterno, più o meno spirituale. Un fenomeno che va interpretato. Il problema è che, molto spesso, la disabilità è stata compresa in senso negativo: “Se è nato un disabile è perché qualcuno ha fatto il malocchio, oppure i genitori si sono comportati male, oppure conoscenti o parenti hanno fatto riti speciali, ecc.”. Quindi si guardava e si guarda ai portatori di handicap con paura, a volte con terrore».

Nel passato, in alcuni paesi, si arrivava fino alla loro soppressione. L’uccisione dei piccoli disabili era prassi comune. «Anni fa – continua fratel Lain -, spesso mi sentivo dire: “Ho affidato il bambino alla zia…”. Questo significava che i piccoli erano stati dati a chi sapeva come eliminarli. In alcuni casi erano pure le madri a essere abbandonate e isolate dalle famiglie insieme ai bambini».

«Il disabile – conferma Pierre Kouasi, religioso africano dell’Opera don Orione – era una sorta di maledizione. Non si capiva perché una famiglia potesse avere un figlio “non normale”. L’uccisione di un bambino disabile era una pratica comune. Venivano eliminati e poi, d’accordo con la famiglia, si diceva che il piccolo era morto durante il parto. Se sopravvivevano, venivano nascosti».

Fino a qualche anno fa, per le strade, nei mercati, nelle scuole, non si vedevano portatori di handicap. Venivano relegati in casa e non era permesso loro di uscire. I missionari che arrivavano in Africa non li trovavano e, quando chiedevano dove fossero, veniva loro risposto che nel continente non esistevano. «Quando 25 anni fa sono arrivato in Nigeria – ricorda fratel Lain -, l’idea della mia congregazione, in accordo con il vescovo locale, era quella di creare un centro per disabili. I capi villaggio, invece, ci chiedevano una scuola e un ospedale e ci dicevano che i disabili non c’erano. Noi eravamo stupiti. Un giorno, però, ci fermammo in un villaggio e ci venne incontro di corsa un ragazzo con la sindrome di Down e ci abbracciò. Ci rivolgemmo quindi al capo villaggio e gli dicemmo: “Noi siamo qui per loro. Non vogliamo e non possiamo guarirli perché è cosa impossibile, ma vogliamo assisterli e aiutarli a inserirsi appieno nella loro società”. I leader locali capirono e ci sostennero come potevano».

Possibile integrazione?

Se le eliminazioni selettive, negli anni, sono gradualmente diminuite (fino quasi a sparire), non è successo altrettanto per il senso di colpa e di vergogna da parte delle famiglie. Questo atteggiamento è legato anche alle condizioni di vita della maggioranza degli africani. In molte nazioni non esistono forme di assistenza sociale, così i genitori fanno affidamento sui figli per poter godere in vecchiaia di un minimo di benessere. «Per i genitori africani – spiega fratel Lain -, il figlio è un investimento per il futuro. È chiaro che, in questa visione, un figlio disabile è una sorta di ingombro. È un costo che “non dà un ritorno”. Di conseguenza se i disabili non vengono più soppressi, su di loro comunque non si investe.

La difficoltà che noi abbiamo nel gestire i centri per disabili mentali sta proprio nel fatto che i genitori è come se si stancassero di assistere i figli. Quindi o li confinano in casa, senza assisterli, oppure cercano di abbandonarli nei nostri centri. Noi, come guanelliani, ci siamo sempre rifiutati di tenere i ragazzi lontano dalle loro famiglie. Anche perché, nella realtà africana, una persona che non ha un legame famigliare non esiste (l’individuo è tale solo in quanto membro di una comunità, nda)».

Non tutti i disabili, però, sono uguali. «I feriti di guerra sono visti come eroi e, come tali, trattati – nota Gigi Conforti, medico ortopedico, da anni impegnato con Medici con l’Africa Cuamm in progetti a favore dei disabili -. Per loro c’è un’attenzione particolare anche da parte dello stato. In Etiopia, per esempio, i feriti nella guerra contro l’Eritrea combattuta alla fine degli anni Novanta non solo godono di assistenza, ma hanno anche uno status sociale elevato. Differente è la situazione di donne e bambini. Soprattutto in campagna, dove vengono emarginati e isolati».

In questo contesto, i guanelliani cercano di coinvolgere le famiglie creando reti, in modo che i singoli nuclei famigliari si sostengano vicendevolmente. Si ricrea così quella famiglia allargata che è uno dei pilastri della società africana. La famiglia allargata è anche una sorta di «ammortizzatore sociale» grazie al quale il disabile non è mai solo e, anche nel caso i genitori o i fratelli non potessero più prendersi cura di lui, trova comunque un aiuto.

Non solo i guanelliani, ma anche altre congregazioni religiose (come i sacerdoti e le suore del Cottolengo) e Ong lavorano all’integrazione attraverso attività di sensibilizzazione. «Lo sforzo per migliorare le condizioni di vita dei disabili è indispensabile – osserva Tommaso Sartori, coordinatore per conto dell’Ong milanese Celim del progetto Disability in Zambia -, ma sarebbe vano se a esso non si aggiungesse un attento lavoro di sensibilizzazione per ridurre i pregiudizi e le discriminazioni».

Celim ha attivato, insieme al ministero della Sanità dello Zambia, un programma di conferenze aperte ai famigliari e agli operatori sanitari. «Stiamo anche realizzando una serie di incontri nei vari quartieri di Lusaka – spiega Sartori -. L’obiettivo è far passare un’immagine diversa della disabilità. Far capire che chi vive con un handicap è una risorsa e non una vergogna da nascondere».

«Don Orione – aggiunge padre Pierre Kouasi – diceva che in ogni persona c’è l’immagine di Dio. Come orionini seguiamo proprio questa linea. Nelle nostre chiese e nei nostri centri in Costa d’Avorio, Togo, Burkina Faso cerchiamo di far passare l’idea che il disabile non debba essere emarginato, ma accolto e valorizzato per le sue grandi potenzialità. Da noi i disabili seguono cure e riabilitazione, ma poi rientrano in famiglia. Solo i disabili mentali rimasti soli rimangono nelle nostre case. C’è ancora molto lavoro da fare, ma noto che le famiglie stanno cambiando sguardo nei confronti dell’handicap».

Ma lo stato dov’è?

Se la società civile e le congregazioni religiose sono attive sul fronte della disabilità, non altrettanto si può dire delle istituzioni pubbliche. I governi nazionali e locali fanno poco per i portatori di handicap, soprattutto per motivi economici. Mancano i fondi per un sostegno strutturale che dia vita a reti di centri pubblici e privati in grado di lavorare in sinergia sul fronte della cura e dell’integrazione.

«Dalle amministrazioni pubbliche riceviamo molte lodi – osserva fratel Lain -. Le autorità ci dicono che siamo santi e buoni, che facciamo un lavoro indispensabile, poi però difficilmente ci sostengono.

Anche se qualche distinguo va fatto. Nel nostro centro in Ghana (una scuola professionale, aperta a disabili e non, dove si insegnano tessitura, elettronica, falegnameria, e altro), più della metà degli insegnanti sono pagati dal governo di Accra. Sia in Nigeria sia in Rd Congo ci sono rapporti continuativi con le autorità, anche se i sostegni sono sporadici e concentrati su singoli progetti».

Parole simili anche da padre Pierre Kouasi: «Dagli stati abbiamo poco sostegno. Non ci sono programmi di intervento a lungo termine. Gli aiuti diretti sono davvero pochi. Recentemente in Costa d’Avorio, il ministero della Salute ha accordato un’esenzione fiscale su alcune tipologie di farmaci. Non è molto, ma è un piccolo passo avanti. Va anche detto che generalmente le autorità ci lasciano lavorare senza metterci i bastoni tra le ruote. E ciò va visto in modo positivo».

Questo non significa che l’impianto normativo nei singoli paesi sia deficitario. Anzi. Negli ultimi decenni le Nazioni Unite hanno varato numerose direttive in materia di disabilità. Queste sono state in gran parte recepite dei paesi africani. Quindi quasi tutte le nazioni del continente hanno leggi adeguate. Mancando, però, i fondi (e, spesso, la volontà politica), queste leggi rimangono inapplicate o applicate solo in parte.

In Nigeria, per esempio, esiste un corpo di leggi sull’inserimento dei disabili nel mondo del lavoro. Ma le norme sono applicate solo nel pubblico impiego, comparto importante, ma che non copre tutto il mercato del lavoro. In Zambia esiste una legge (Disability Act 2012) che prevede sostegni alle famiglie con un componente disabile. «Sul terreno però è stato fatto pochissimo – osserva Tommaso Sartori di Celim -. Mancano i fondi e ciò ha fatto sì che la legge zambiana sia completamente disattesa e non siano disponibili quindi i mezzi, le infrastrutture e la formazione specifica per gli operatori».

Ma non tutti sono pessimisti. «Lavoro da trent’anni in Africa e, nel tempo, ho notato qualche passo avanti – osserva Gigi Conforti -. La vera differenza è tra gli stati in pace e quelli instabili a causa di controversie politiche o guerre. Negli anni Ottanta e Novanta, per esempio, l’Uganda aveva pochissime strutture sanitarie e quasi tutte in condizioni precarie. Oggi, dopo anni di pace, sono stati creati centri moderni, con attrezzature all’avanguardia e programmi di assistenza seri e continuativi. Diversa è la situazione della Repubblica Centrafricana. Personalmente ho lavorato nell’ospedale di Bangui, dove ho operato in condizioni difficilissime. Quello della capitale, tra l’altro, è l’unico centro attrezzato. Fuori dalla città, dove dominano le bande armate, non c’è nulla e non è neppure ipotizzabile creare qualcosa».

Una sensibilità che aumenta

In Africa inizia a esserci una nuova sensibilità tra la gente comune. Il lavoro culturale portato avanti da chiese cristiane e associazioni di volontariato sta aprendo spazi per i disabili. Pure le normative, anche se non applicate, creano una mentalità, un clima favorevole alla disabilità. «Lo zambiano medio – osserva Tommaso Sartori – non discrimina il portatore di handicap. Mi è capitato spesso di vedere uomini e donne avvicinare i disabili, parlare con loro, avere con essi un rapporto sereno. Rimane il senso di disagio delle famiglie, ma intorno ad esse si sta creando un ambiente non più ostile. La strada è ancora lunga, ma qualcosa si sta muovendo».

C’è anche una forte solidarietà popolare. «Molti disabili girano di villaggio in villaggio e sono nutriti e accuditi – racconta fratel Lain -. In alcuni casi c’è una solidarietà commovente. Ricordo un ragazzo con la sindrome di Down che era così onesto e così ben voluto dalla comunità, che tutti gli affidavano le incombenze che richiedevano il maneggio di soldi: piccoli pagamenti, piccole transazioni, ecc. Erano sicuri che lui avrebbe portato a termine il lavoro. Così si era costruito un ruolo nel paese». Molti abitanti dei villaggi aiutano le comunità religiose che accudiscono i disabili. Donano aiuti materiali: un sacco di riso, un piccolo animale, un po’ di farina, ecc. Una solidarietà che si va estendendo. Fondi e piccole donazioni arrivano da imprenditori stranieri che lavorano in loco. «Gli indiani, per esempio, pur non cattolici, ci offrono grandi aiuti – spiega fratel Lain -. Anche gli imprenditori italiani sono sensibili».

Sta accadendo qualcosa di più. Sebbene a macchia di leopardo e con molti limiti, si sta diffondendo la consapevolezza che il disabile sia una risorsa di cui però deve farsi carico la stessa comunità. Così, per esempio, in Nigeria, la mamma di una ragazza con la sindrome di Down ha dato vita a un’associazione che ha creato centri per i ragazzi disabili e fa un attento lavoro di sensibilizzazione. Nell’associazione è riuscita a coinvolgere i genitori stessi dei giovani disabili. «Questa sensibilità esiste, inutile negarlo – sottolinea padre Pierre Kouasi – però è un fenomeno soprattutto cittadino e limitato alle classi sociali medio-alte. La povera gente, sia in città sia in campagna, ha ancora altre priorità».

Anche nella scuola si inizia a vedere un primo, limitato, processo di inclusione. I guanelliani, per esempio, hanno creato, sempre in Nigeria, un centro per disabili e lo hanno aperto ai non disabili. «Quello realizzato a Ibadan – osserva fratel Lain – è un caso interessante però è un tentativo sporadico, non è il tassello di un mosaico più ampio che parte e include le istituzioni». Anche in Tanzania esistono scuole (private) che accettano disabili, ma solo in classi differenziate dove i portatori di handicap sono separati dagli altri ragazzi. «Le organizzazioni internazionali danno sovvenzioni allo stato perché metta in atto l’inclusione – conclude il guanelliano – così lo stato dà vita a piccole iniziative come quelle della Tanzania. La vera integrazione, però, è un’altra cosa».

Enrico Casale

Kano Pillars para-soccer team players / PIUS UTOMI EKPEI / AFP

Archivio MC

MC ha pubblicato un servizio approfondito sul disagio mentale in Africa ad agosto 2018: Se non son «matti» non li vogliamo, Disagio mentale, incontro con Grégoire Ahongbonon di Stefania Garini.

The Chairman of the Polio Victims Trust Association Aminu Ahmed / PIUS UTOMI EKPEI / AFP


Alcuni dati

L’impatto sociale della disabilità

In Africa, secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità, i disabili sarebbero tra i 60 e gli 80 milioni, circa il 10% della popolazione africana, anche se in alcune delle zone più povere la percentuale sale fino al 20%.

Quando si parla di disabilità, solitamente, ci si riferisce a una serie molto ampia di menomazioni, limitazioni e restrizioni alla normale attività fisica e mentale. I fattori sono molteplici: malnutrizione, menomazioni alla nascita, incidenti in casa, al lavoro o sulle strade, malattie invalidanti, guerre, ecc.

La questione della disabilità non ha un carattere esclusivamente sanitario, ma anche sociale. Molti paesi hanno finanze troppo disastrate per poter creare un sistema di sostegno. Sebbene spesso leggi a favore dei disabili siano state approvate, mancano edifici pubblici attrezzati, non ci sono farmaci adeguati, carrozzine e stampelle sono in numero non sufficiente. I portatori di handicap non riescono quindi a frequentare le scuole: solo tra il 5 e il 10% si iscrive a corsi regolari. Il risultato è che non più del 5% dei portatori di handicap adulti è in grado di leggere e scrivere correttamente.

Ciò, a catena, li esclude dal mondo del lavoro. L’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) stima che la disoccupazione delle persone disabili a livello mondiale sia da due a tre volte superiore rispetto a quella delle altre persone.