Sudafrica: Caccia allo straniero

testo di Enrico Casale |


Nel paese di Mandela cresce la xenofobia contro gli stranieri e gli atti di persecuzione e violenza si moltiplicano. Complici la crisi economica e la corruzione dilagante, ma anche la politica.

È come un fiume carsico. Emerge a tratti e con una violenza inaudita, per poi sparire. La xenofobia in Sudafrica si scatena improvvisamente. Poi si placa. Ondate di scontri, pestaggi, uccisioni, incendi di attività di stranieri. Almeno 60 persone sono state uccise nel 2008, sette nel 2015, dieci a settembre dell’anno scorso. Le città più colpite sono state Johannesburg e Durban, ma anche Città del Capo non è rimasta immune.

Ma che cosa scatena questa violenza? E perché la Nazione Arcobaleno, che era riuscita a uscire da un duro regime di segregazione razziale, è precipitata in un vortice di razzismo di africani contro africani?

Forse le radici dell’odio etnico si trovano proprio nell’eredità lasciata dall’apartheid. «Vent’anni di democrazia – spiega Pablo Velasquez, religioso scalabriniano che lavora nelle periferie di Johannesburg – non hanno risolto i problemi del paese. La differenza tra i ricchi, la maggior parte dei quali bianchi, e i poveri è enorme. La disoccupazione è altissima (ufficialmente è al 30%, ma probabilmente è più elevata, ndr). In molte zone rurali mancano i servizi di base: acqua, elettricità, linee telefoniche, gas, strade, scuole. Il problema della casa è molto sentito. Tutto ciò provoca forti tensioni».

Photo by RODGER BOSCH / AFP

Inurbamento continuo

Molti sudafricani si spostano dalla campagna alle baraccopoli delle grandi città. Qui incontrano gli immigrati, poveri come loro, se non di più. «In molti sudafricani neri – osserva padre Filippo Ferraro, scalabriniano che lavora a Città del Capo – è ancora vivo il senso di inferiorità imposto per decenni dal regime di segregazione dei bianchi boeri. Il fatto di essere stati sempre trattati come “cittadini di serie B” fa sì che la loro frustrazione si riversi sugli immigranti che oggi sono gli ultimi degli ultimi. Molti sudafricani vedono nei nuovi arrivati un nemico da combattere che potrebbe sottrarre loro le poche risorse a disposizione. Così scattano violenti pogrom che distruggono le attività dei migranti e, in alcuni casi, arrivano a uccidere gli stranieri».

«Dopo gli attacchi dei primi giorni di settembre – spiega Pablo Velasquez -, in città è tornata la calma, ma c’è ancora paura. Ho trascorso qualche periodo in un campo profughi irregolare, dove vivono zimbabweani, mozambicani, somali, etiopi, nigeriani, ghanesi, congolesi. Qui ho toccato con mano il terrore. La gente non si fida a lasciare l’area e ad andare in città per vendere le loro povere merci. Teme di essere maltrattata, picchiata, che le proprie cose siano distrutte».

Ma il razzismo non colpisce tutti gli africani in modo uguale. L’odio si concentra soprattutto su quelli che vengono da più lontano: congolesi, eritrei, maliani, nigeriani, somali. Meno colpiti i vicini malawiani, mozambicani, zimbabweani. Probabilmente conoscono meglio l’ambiente del Sudafrica e si integrano meglio nella sua società e nella sua economia. Ma tutta la comunità di migranti è una risorsa per il Sudafrica. Secondo un report della Banca mondiale, i quattro milioni di stranieri che vivono nel paese producono un impatto positivo su occupazione e salari. Il rapporto ha calcolato che ogni migrante genera un effetto moltiplicatore del mercato del lavoro creando circa due impieghi.

 

Lo zampino della politica

Il presidente Cyril Ramaphosa è stato costretto a lanciare un messaggio di pacificazione: «Attaccare gli esercizi commerciali gestiti da stranieri è qualcosa di inaccettabile, qualcosa che non possiamo permettere che accada in Sudafrica».

A queste tensioni non è estranea la politica. Secondo Shenilla Mohamed, direttrice generale di Amnesty international Sudafrica, in questi anni molte personalità politiche, per ottenere una manciata di voti in più, hanno incolpato gli stranieri degli elevati livelli di criminalità e dell’inadeguatezza dei servizi pubblici, accusandoli inoltre di gestire esercizi commerciali illegali. Gli stranieri, secondo Shenilla Mohamed, «diventano i capri espiatori di politici privi di scrupoli che promuovono la narrativa dello straniero venuto a rubare il lavoro e che è responsabile di tutto ciò che di negativo accade qui». In realtà, si tratta di un’opera di distrazione dai veri problemi del paese come le profonde disuguaglianze sociali, la complessa situazione economica che, da anni, vede il sistema dominato dalla stagnazione, e la corruzione, ormai diffusa non solo tra i politici ma anche tra i funzionari dell’amministrazione pubblica, che indebolisce l’economia e accresce ancora di più la disoccupazione e la povertà.

Photo by GUILLEM SARTORIO / AFP

Contro odio e intolleranza

In questo contesto, la Chiesa cattolica, pur minoritaria in Sudafrica (10% della popolazione), negli ultimi anni ha levato la sua voce contro gli atti di violenza xenofoba. Monsignor Buti Tlhagale, arcivescovo di Johannesburg, ha paragonato la xenofobia al nazismo. «Siamo di fronte a una marea crescente di odio e intolleranza – ha detto il prelato -, non diversa dalla marea crescente di odio nella Germania nazista. Se non prendiamo provvedimenti urgenti per fermare questo fenomeno, diventerà troppo tardi». Monsignor Tlhagale, che dirige l’ufficio migranti e rifugiati della Conferenza episcopale dell’Africa australe, ha osservato che le autorità sudafricane hanno fatto «ben poco per proteggere le vittime» degli ultimi attacchi. «Abbiamo ricevuto segnalazioni di agenti di polizia che sono rimasti pigramente in disparte mentre i negozi venivano saccheggiati e le persone attaccate – ha dichiarato -. Cerchiamo di essere assolutamente chiari – questo non è un tentativo dei sudafricani di liberare le città dagli spacciatori» né «il lavoro di alcuni elementi criminali, questa è xenofobia, pura e semplice».

«È probabile che gli attacchi alle comunità di migranti e alle loro attività continuino nel futuro – ha aggiunto il vescovo – perché tali attacchi sono ora indissolubilmente legati alle rivendicazioni di servizi di base. Districare il razzismo dalle sacrosante esigenze dei poveri sudafricani sarà una grande sfida […]. La profonda insoddisfazione dei sudafricani per la corruzione e l’inefficienza dei loro comuni e del loro governo nazionale non dovrebbe ricadere sui migranti. Non è assolutamente etico trascinare i migranti nelle liti dei sudafricani. […] I sudafricani non dovrebbero indurire i loro cuori e dovrebbero eliminare il loro odio per i migranti innocenti. I migranti hanno il loro onere da portare. I sudafricani dovrebbero portare il proprio».

Una nuova legge contro i migranti

In numerosi documenti, i vescovi hanno appoggiato le istanze a favore dei migranti e di una politica più aperta nei confronti dei rifugiati. Tra le prese di posizione più dure dei prelati c’è l’opposizione alla riforma della legge sui rifugiati. Questa normativa, che è stata approvata subito dopo la fine dell’apartheid, è molto liberale e permette ai migranti che attendono il riconoscimento dell’asilo di essere liberi di muoversi nel paese, di lavorare e di studiare.

«La nuova legge – spiega padre Filippo – intende creare centri di detenzione in cui ammassare i richiedenti asilo. Sebbene sia previsto che lo status di rifugiato debba essere riconosciuto entro otto mesi, i migranti aspettano anche nove anni prima di avere una risposta. Ciò significa che si verrebbero a creare veri e propri campi di concentramento. Una cosa assurda. Anche perché la società sudafricana ha bisogno dei migranti: lavorano in settori in cui i sudafricani sono esclusi, creano imprese e offrono lavoro. Il loro dinamismo è essenziale».

Enrico Casale

© Oliver Petrie / Hans Lucas


I flussi migratori interni al continente africano

Ma dove vanno gli africani?

«Perché gli africani vengono tutti da noi?». Sempre più spesso in Italia si sente pronunciare questa frase. Purtroppo non solo nei bar o nei circoli ricreativi, ma anche in luoghi e da persone non sospettabili di simpatie sovraniste o razziste. Ma è poi così vero che gli africani emigrano tutti verso l’Europa e l’Italia? In realtà, i dati dicono il contrario. Secondo il dossier «Non solo verso l’Europa: le migrazioni interne all’Africa», curato da Giovanni Carbone e Camillo Casola e pubblicato il 30 agosto 2019 dall’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), sui 27 milioni di migranti dell’Africa subsahariana, solo otto milioni hanno lasciato il continente. Altri 19 milioni di persone sono rimasti in Africa trasferendosi in una nazione limitrofa o in un paese che garantiva loro migliori condizioni di vita.

I principali poli di attrazione sono i paesi che hanno le economie più forti: Sudafrica (4 milioni di migranti), Costa d’Avorio (1 milione), Nigeria (1,5 milioni). Il Sudafrica attrae la manodopera da Zimbabwe e Mozambico e poi, in larga parte, la impiega nelle miniere (oro, platino, diamanti), ma anche nell’economia informale (soprattutto nel commercio). La Costa d’Avorio, tra i principali produttori mondiali di cacao, importa da Mali e Burkina Faso braccianti per le sue piantagioni. La Nigeria è un polo per molti paesi confinanti per la sua economia diversificata.

Ma non è solo il buon andamento economico ad attrarre migranti. Molti di essi non cercano tanto la sicurezza economica quanto un luogo sicuro che li metta al riparo da conflitti o da regimi illiberali. L’Etiopia, per esempio, ospita circa 900mila rifugiati – la seconda popolazione rifugiata più ampia in Africa. La prima è in Uganda, che a maggio 2019 ospitava 1.276.208 rifugiati.  La maggior parte è stata costretta a lasciare le proprie case in Somalia, Sud Sudan, Eritrea, Sudan e Yemen affrontando pericoli e discriminazioni lungo il percorso. Anche il Kenya ospita migliaia di rifugiati. Il solo campo profughi di Dadaab ne accoglieva, a fine agosto 2019, oltre 200mila (era arrivato a ospitarne fino a 600mila). Sono in gran parte somali che cercano pace dalla guerra civile che da quasi trent’anni sconvolge il loro paese.

In Africa centrale in molti fuggono dalla Repubblica democratica Congo e cercano rifugio nelle nazioni confinanti. Al 31 agosto 2019, secondo le statistiche fornite dall’Acnur (agenzia delle Nazioni unite che si occupa dei rifugiati), erano 890mila i congolesi ospitati in Angola, Zambia, Tanzania, Uganda. «L’Africa subsahariana – ha scritto nel dossier Giovanni Carbone, dell’Ispi Africa Programme – è, e continuerà a essere, attraversata da rapide e profonde trasformazioni su una molteplicità di fronti: le distinte traiettorie di crescita seguite dalle economie della regione; le pressioni demografiche che portano alcune aree ai limiti della sostenibilità, intensificando sfruttamento, competizione e frammentazione delle terre nonché i processi di urbanizzazione; le sfide connesse al cambiamento climatico, inclusa la desertificazione e il moltiplicarsi di fenomeni climatici estremi; il divario tra la relativa stabilità politica di alcune aree e la persistente o rinnovata conflittualità di altre; gli altalenanti ritmi di integrazione delle diverse comunità economiche sub regionali e dei processi di cooperazione continentali. È solo un elenco parziale di veloci mutamenti che i paesi della regione si trovano simultaneamente ad affrontare, ciascuno di essi destinato a ripercuotersi a sua volta sull’evoluzione delle dinamiche migratorie intra-continentali».

En.Cas.

 




Ri-animare l’economia

testo di Maria Gaglione |


Migliaia di giovani economisti, imprenditori e promotori di cambiamento da 120 paesi s’incontreranno a fine marzo ad Assisi per fare un patto per un nuovo modello economico.

«Cari amici, vi scrivo per invitarvi ad un’iniziativa che ho tanto desiderato: un evento che mi permetta di incontrare chi oggi si sta formando e sta iniziando a studiare e praticare una economia diversa, quella che fa vivere e non uccide, include e non esclude, umanizza e non disumanizza, si prende cura del creato e non lo depreda».

Papa Francesco apre con queste parole la sua lettera, firmata il 1° maggio 2019, memoria di san Giuseppe lavoratore, indirizzata ai giovani economisti e imprenditori di tutto il mondo per invitarli ad Assisi dal 26 al 28 marzo 2020.

«Occorre “ri-animare” l’economia! E quale città è più idonea per questo di Assisi, che da secoli è simbolo e messaggio di un umanesimo della fraternità? Se san Giovanni Paolo II la scelse come icona di una cultura di pace, a me appare anche luogo ispirante di una nuova economia. Qui infatti Francesco si spogliò di ogni mondanità per scegliere Dio come stella polare della sua vita, facendosi povero con i poveri, fratello universale. Dalla sua scelta di povertà scaturì anche una visione dell’economia che resta attualissima. Essa può dare speranza al nostro domani, a vantaggio non solo dei più poveri, ma dell’intera umanità».

È un appello a radunarsi per stipulare un patto nel segno del Santo di Assisi e del Vangelo che egli visse in totale coerenza anche sul piano economico e sociale, e nel segno della Laudato si’, la lettera enciclica nella quale lo stesso papa ha denunciato lo stato patologico di tanta parte dell’economia mondiale e ha invitato a mettere in atto un modello economico nuovo.

Comunione, fraternità, equità

Nella Laudato si’, papa Francesco sottolinea come oggi, più che mai, tutto è intimamente connesso, e la salvaguardia dell’ambiente non può essere disgiunta dalla giustizia verso i poveri e dalla soluzione dei problemi strutturali dell’economia mondiale. «Purtroppo – scrive Francesco nella lettera per l’evento di Assisi – resta ancora inascoltato l’appello a prendere coscienza della gravità dei problemi e soprattutto a mettere in atto un modello economico nuovo, frutto di una cultura della comunione, basato sulla fraternità e sull’equità. […] Mi vengono in mente le parole rivolte a Francesco dal Crocifisso nella chiesetta di san Damiano: “Va’, Francesco, ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina”. Quella casa da riparare ci riguarda tutti. […] Ma ho pensato di invitare in modo speciale voi giovani perché, con il vostro desiderio di un avvenire bello e gioioso, voi siete già profezia di un’economia attenta alla persona e all’ambiente.

Carissimi giovani, io so che voi siete capaci di ascoltare col cuore le grida sempre più angoscianti della terra e dei suoi poveri in cerca di aiuto e di responsabilità, cioè di qualcuno che “risponda” e non si volga dall’altra parte».

Portatori di una cultura coraggiosa

All’appello del papa hanno risposto migliaia di giovani da oltre 120 paesi. Sono dottorandi di ricerca, giovani ricercatori e professori (di economia, management, filosofia, sociologia, teologia), imprenditori, dirigenti di azienda, startupper, innovatori sociali, promotori di progetti e attività al servizio del bene comune. Si occupano di ambiente, risorse naturali, consumo responsabile e stili di vita, produzione, innovazione, lavoro, finanza, sviluppo, povertà, uguaglianza, educazione, intelligenza artificiale e nuove tecnologie.

Stanchi di un sistema in cui non si riconoscono, sono portatori di una cultura coraggiosa capace di realizzare altri modi di intendere l’economia e il progresso e vogliono essere parte di un processo di cambiamento globale. Aspettano di vivere l’incontro di Assisi come occasione di confronto e di relazione con altri giovani e sperano di poter condividere l’esperienza con e per le comunità e i paesi a cui appartengono.

Civiltà della gratuità

Francesco d’Assisi era figlio di un ricco mercante borghese, ed era giovane quando decise di lasciare le ricchezze di suo padre e di dedicarsi alla sua vita nuova.

Vandana Shiva / © Maritza Ríos / Secretaría de Cultura CDMX

All’alba di ogni autentica vocazione, c’è sempre la tappa della spoliazione. Arriva quando la persona chiamata capisce che deve operare un «reset» della propria esistenza: ripartire da zero, perché sta rinascendo.

Quando il carisma francescano ha fatto irruzione nella storia, con esso ha fatto la sua comparsa anche una nuova concezione della ricchezza e della povertà. Essa ha operato una vera rivoluzione culturale che avrebbe poi portato alla nascita dell’economia moderna: infatti, non solo furono francescani alcuni tra i più importanti teorici dell’economia medioevale, ma dai francescani dell’Osservanza nel XV secolo nacquero i Monti di Pietà, protobanche civili, i primi istituti di microfinanza nati senza scopo di lucro per curare la povertà e l’usura nelle città del centro Italia.

Dalla povertà scelta liberamente dai francescani nacquero, dunque, istituzioni per liberare dalla povertà chi non l’aveva scelta, ma subita. «Finché c’è un povero – dicevano i francescani – la città non può essere fraterna».

Quel gesto, dunque, fu l’atto di nascita di una oikos-nomos diversa, di un nuovo «governo della casa», fu la genesi di un regno dove la moneta è la charis.

Quella prima gratuità fece nascere un’economia e una civiltà che ha liberato e continua a liberare milioni di poveri. Solo chi conosce la gratuità, infatti, può dar vita a nuove economie, perché essa dà il giusto valore al denaro e ai profitti, e alla vita.

Un carisma che ha posto al proprio centro «sorella povertà», il distacco dai beni, diventa la scuola economica dalla quale emergerà in seguito il moderno spirito dell’economia di mercato.

Protagonismo giovanile

Nel nostro mondo oggi continua a esserci un infinito bisogno di gratuità e fraternità. Papa Francesco lo sa molto bene e affida ai giovani la costruzione di una nuova economia: l’economia di Francesco.

«Le vostre università, le vostre imprese, le vostre organizzazioni sono cantieri di speranza per costruire altri modi di intendere l’economia e il progresso, per combattere la cultura dello scarto, per dare voce a chi non ne ha, per proporre nuovi stili di vita – continua il papa nel suo messaggio -. Finché il nostro sistema economico-sociale produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, non ci potrà essere la festa della fraternità universale».

«The Economy of Francesco» sarà dunque un incontro internazionale con un grande protagonismo del pensiero e delle prassi dei giovani.

E di giovani è composto anche il gruppo di economisti, imprenditori, artisti ed esperti della comunicazione che sta lavorando per la preparazione dell’evento insieme a un comitato scientifico internazionale coordinato dall’economista Luigino Bruni, professore ordinario alla Lumsa.

Insieme ai migliori cultori della nuova economia

Luigino Bruni / © Sybrig Andringa

«Insieme a voi, e per voi, farò appello ad alcuni dei migliori cultori e cultrici della scienza economica – prosegue il papa nella sua lettera di maggio scorso -, come anche a imprenditori e imprenditrici che oggi sono già impegnati a livello mondiale per una economia coerente con questo quadro ideale».

A questo appello hanno risposto  in molti: economisti e imprenditori di fama internazionale che accompagneranno i giovani nei giorni dell’evento, anche attraverso sessioni interattive e colloqui personali, approfondimenti di storie ed esperienze.

Tra essi Amartya Sen, economista e filosofo indiano, premio Nobel per l’economia 1998, Vandana Shiva, attivista e ambientalista indiana, tra i principali leader dell’International forum on globalization, Stefano Zamagni, docente di economia all’Università di Bologna, presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali, Kate Raworth, economista inglese che lavora per l’Università di Oxford e l’Università di Cambridge, senior associate all’Istituto per la leadership della sostenibilità di Cambridge, e altri.

Ridisegnare il sistema

Prof Muhammad Yunus

Fra i primi a rispondere, Muhammad Yunus, economista e banchiere bengalese, ideatore e realizzatore del microcredito moderno e Nobel per la pace: «The Economy of Francesco è un esempio globale che può ispirare persone in tutto il mondo, riguarda il modo in cui la vita, per i poveri, può essere cambiata – ha dichiarato -. Dobbiamo capire che la povertà è creata dal sistema economico che abbiamo costruito. Perciò il sistema va orientato, perché sta producendo povertà a dismisura, ogni giorno. Dobbiamo rivedere tutto e cercare l’origine della povertà. Tutta la ricchezza del mondo è concentrata nelle mani dell’1% della popolazione, mentre il 99% dipende da quell’1%. Questo è totalmente inaccettabile. Abbiamo bisogno di dare vita a un’economia circolare che non distrugga continuamente la ricchezza globale. Dobbiamo farlo, dobbiamo progettarla e proteggere l’ambiente perché siamo nel bel mezzo di un disastro che va fermato.

Di questo discuteremo nel prossimo marzo, di come ridisegnare il sistema e di quale ruolo possono avere i giovani. I ragazzi hanno un enorme potere, grandi capacità e incredibili strumenti tecnologici fra le mani. Se fissano un obiettivo, possono cambiare il mondo molto rapidamente. È ciò che papa Francesco sta provando a fare: riunire i giovani, lanciare loro la sfida del cambiamento perché il nostro mondo sta affondando, sta soffrendo e va ripensato. Così andremo nella direzione di costruire un pianeta bellissimo per tutti, non solo per pochi fortunati. Vogliamo cogliere l’opportunità di ridisegnare l’economia e poter dare un contributo importante al welfare».

Far parte del cambiamento

Jeffrey Sachs / Overseas Development Institute_flickr

Anche per Jeffrey Sachs, economista e saggista statunitense e direttore dell’Earth institute alla Columbia University, The Economy of Francesco è «un evento per dare vita a una nuova economia globale che sia equa, prospera e sostenibile sotto il profilo ambientale. Il lavoro che verrà fatto ad Assisi sarà rivoluzionario, stimolante per tutto il mondo e costruttivo per le future generazioni. I giovani stanno urlando “vogliamo un cambiamento”, scioperano per la salvezza del clima, dicono “il nostro mondo non può continuare a essere maltrattato” come adesso. Vogliamo pace, cooperazione, sostenibilità ambientale, giustizia. I ragazzi di tutto il mondo stanno dicendo che la Economy of Francesco mostrerà, attraverso dibattiti e decisioni, come tutto ciò può essere realizzato. Io ci sarò in quei giorni perché abbiamo bisogno di una nuova economia, una nuova visione, e gli insegnamenti di papa Francesco contenuti nell’enciclica Laudato si’ e in altri scritti ci aiutano a tracciare il sentiero verso un mondo migliore, più felice, sostenibile ed etico. Rappresentano una spinta a far parte del cambiamento che garantirà più felicità per tutti».

Un patto solenne

Non sarà un congresso tradizionale, dunque, ma l’avvio di un processo che consenta di pensare e domandarsi, sulle orme e nei luoghi di Francesco d’Assisi, cosa significa oggi costruire un’economia nuova che non emargini nessuno.

Sarà soprattutto il momento in cui i giovani stringeranno un patto solenne con papa Francesco, assicurando il proprio impegno: «Per questo desidero incontrarvi ad Assisi, per promuovere insieme, attraverso un patto comune, un processo di cambiamento globale che veda in comunione di intenti non solo quanti hanno il dono della fede, ma tutti gli uomini di buona volontà, al di là delle differenze di credo e di nazionalità, uniti da un ideale di fraternità attento soprattutto ai poveri e agli esclusi. Invito ciascuno di voi a essere protagonista di questo patto, facendosi carico di un impegno individuale e collettivo per coltivare insieme il sogno di un nuovo umanesimo rispondente alle attese dell’uomo e al disegno di Dio».

La ventinovesima scena

Solo quando san Francesco si avvicinò ai più poveri, al suo tempo rappresentati soprattutto dai malati di lebbra, egli rafforzò l’amore che avvertiva dentro e che lo sollecitava a operare per la carità.

Visitando il meraviglioso ciclo giottesco sulla vita del santo di Assisi si scopre, però, che il solo episodio che manca in quelle ventotto scene, è proprio il bacio di Francesco al lebbroso a Rivotorto, un episodio centrale e decisivo nella vita del poverello e del francescanesimo.

La scena non è entrata in quel ciclo pittorico, forse perché i borghesi di Assisi, finanziatori della basilica, non volevano che il mondo ricordasse la presenza dei lebbrosi nella loro città.

I ricchi possono anche donare molto denaro per i poveri, ma in genere non li vogliono vedere: i lebbrosi sono scarti della storia e della narrazione stessa di quella storia.

La prima povertà di molti è l’invisibilità, il fatto di non essere visti e raccontati.

«The Economy of Francesco», dunque, ci aiuterà a restituire al mondo la 29esima scena: le fragilità e le povertà di oggi, osservate e chiamate per nome, e incluse nella vita, nell’economia e nella storia, con l’attenzione e le risposte che meritano.

L’ecologia francescana sa intuire una fraternità cosmica, perché il primo fratello che ama è il povero scartato. Quando papa Francesco scelse di intitolare Laudato si’ la sua enciclica sull’ecologia e sull’economia ci ha ricordato che il Cantico delle creature inizia con l’abbraccio al lebbroso e che l’economia circolare, green, sostenibile, assomiglia all’economia di Francesco solo se inizia dagli ultimi di oggi.

Maria Gaglione


Un evento,molti eventi

L’evento «The Economy of Francesco» ha prodotto in tutto il mondo un gran numero di altri eventi che nei mesi scorsi hanno radunato e fatto riflettere migliaia di persone da Lisbona a Vienna, da Palermo a Bergamo, in Brasile, Spagna, Colombia, Corea del Sud, Perù, Camerun, Usa, Polonia.

Organizzati a livello locale o regionale, sotto forma di workshop, laboratori, seminari di studio, conferenze, promossi da organizzazioni, movimenti, associazioni, università, imprese, gruppi informali, sono nati dall’esigenza di ascoltare e valorizzare il pensiero e l’agire economico dei giovani attraverso l’incontro e il dialogo tra economisti e imprenditori a partire dal messaggio di papa Francesco.

Sito

www.francescoeconomy.org




Adozioni: Tutte le tessere del puzzle

testo di Paola Strocchio |


Per un figlio adottivo, arriva il momento nel quale le domande sulle proprie origini si fanno pressanti. È un’esperienza necessaria per la crescita individuale. Ma non è senza rischi.

Per chi, come la maggior parte delle persone, è abituato a conoscere i dettagli del proprio passato, forse sarà sorprendente scoprire che non per tutti è così. Per chi è stato adottato, le incertezze sono tante. Ed ecco che quello che psicologi e assistenti sociali chiamano il «ritorno alle origini» equivale al tentativo di chiudere un cerchio. Quasi si volesse completare un puzzle in cui mancano tasselli importanti, a partire dalla nascita: dove e quando?

Se abitualmente le persone danno per scontati la loro precisa data di nascita e il luogo, ce ne sono tante che invece non li sanno. Sono incertezze importanti, che vanno ben al di là del conoscere il proprio segno zodiacale o l’ascendente. Significa non sapere da dove si arriva, da chi si è nati. Spesso, quindi, in maniera assolutamente sana, nasce nei figli adottivi il bisogno o semplicemente il desiderio di conoscere le proprie origini. Di assaggiare le ricette tipiche del paese in cui si è nati, di annusare gli odori di una terra cui in qualche modo si è appartenuti, o magari di scoprire le proprie origini biologiche. È un’esperienza che non tutti necessariamente scelgono di vivere, ma che quando se ne sente il bisogno è come un fiume in piena, di emozioni e di paure.

Come ogni esperienza importante, va pianificata e preparata, tenendo conto di quello che potrà accadere.

Per il figlio adottivo si tratta indubbiamente di un’opportunità importante per il suo processo di crescita, di un viaggio che serve a riappropriarsi di una parte di sé per integrarla con quella sviluppata invece in Italia, ma è fondamentale individuare il momento giusto. Ci sono indicatori oggettivi cui prestare particolare attenzione per capire se può essere davvero il momento opportuno. L’età anagrafica, per esempio. È imprescindibile che il figlio adottivo possa comprendere davvero cosa sta succedendo, così come è fondamentale individuare quale tipo di attaccamento il ragazzo abbia sviluppato con i suoi genitori adottivi e quali sono le domande che si pone su quello che è stato e rimane un evento traumatico della sua vita: l’abbandono.

Cercare le radici

Ha provato a spiegarlo Cosmin, 24 anni, che da quando di anni ne ha cinque e mezzo è figlio di Francesca e Gianpaolo grazie all’adozione internazionale, quell’istituto che ha permesso a Cosmin di vedere rispettato il diritto più importante di un bambino: avere una famiglia.

Ci racconta Cosmin: «Qualche anno fa ho capito che era arrivato il momento di ritrovare le mie radici, di sentire il profumo della mia terra di origine, di ritrovare piccoli ricordi e provare a ricostruire il puzzle della mia vita. Da qualche tempo mi confrontavo con un punto interrogativo importante: da dove arrivo? In alcune occasioni i punti interrogativi, che allora erano senza risposta, mi portavano negatività e rabbia, perché mi sentivo lontano dall’obiettivo finale. La frustrazione era davvero tanta».

Cosmin ha trovato nei suoi genitori adottivi due alleati preziosi, anche se comprensibilmente disorientati, soprattutto nei primi momenti. «Credo abbiano avuto paura di perdermi, come se questo mio viaggio stesse a significare che volevo tornare dalla mia famiglia di origine – spiega -. Non era così, naturalmente. Siamo una famiglia, e lo siamo da quando mia mamma e mio papà sono venuti in Romania ad adottarmi. Sono riuscito a spiegare loro che ritrovare le mie origini non voleva dire scappare da loro, ma semplicemente dare a me stesso, la possibilità e la libertà di scoprirmi e di scoprire anche la cultura che in qualche modo mi appartiene. Loro mi hanno dato un presente e un futuro: mi hanno dato la possibilità di crescere e di diventare quello che sono». Ma l’adozione non è e non deve essere gratitudine. Adottare un figlio significa accoglierlo e sostenerlo anche nei momenti più delicati, anche quando palesa il desiderio di scoprire da dove arriva.

Mamma Francesca e papà Gianpaolo lo sapevano bene, e proprio per questo non hanno mai fatto mancare il loro sostegno.

Una presenza discreta

Ci racconta la madre adottiva di Cosmin: «Immaginavo che prima o poi sarebbero arrivate le tanto sospirate domande con cui ogni genitore adottivo deve confrontarsi. Non ho avuto paura, perché non ho mai avuto dubbi sull’intensità del legame che c’è sempre stato tra noi genitori e nostro figlio, ma ammetto di essermi sentita un po’ disorientata. Nonostante questo, ho sostenuto Cosmin come era giusto che fosse. Mi sarebbe piaciuto accompagnarlo nel suo viaggio di ritorno alle origini, ma sapevo che la cosa giusta da fare era stargli accanto rispettando le sue scelte e non imponendo la nostra presenza. Ormai è grande…».

E così, con la loro presenza discreta ma continua, Francesca e Gianpaolo hanno accompagnato il loro ragazzo all’aeroporto, destinazione Londra, dove vive la sua famiglia biologica.

Ci racconta Cosmin: «Dopo tanti anni ci siamo incontrati. Ricordo il primo abbraccio con la mia madre biologica, che aveva lasciato la Romania per trasferirsi a Londra assieme ad altri componenti della famiglia. Le ho fatto un sacco di domande, ma tante sono ancora senza una risposta, anche oggi. Adesso però, nonostante tutti quei punti interrogativi, posso dire di avere aggiunto un piccolo pezzo al puzzle della mia vita. È stato un incontro difficile da descrivere, da raccontare e anche da condividere, ma è stato anche un grande momento di crescita. Nei mesi precedenti, durante tutta la fase di ricerca, mi facevo tante domande e sapevo che le risposte avrebbero potuto anche farmi del male, ma ne è valsa la pena e in qualche modo sono cresciuto».

© Af CIFA onlus

Quando partire

Chiudere il cerchio, capire cosa ci fosse dietro l’abbandono, ha aiutato oggettivamente Cosmin a fare pace con il proprio passato, con ricadute positive anche sul presente e sul futuro. Continua a raccontarci: «Da quando ho ritrovato le mie origini mi sento meno teso e decisamente più sollevato. Sono convinto che nella mia vita si sia in qualche modo formata una rete familiare più sicura, in cui i rapporti sono più intensi e più veri. Ho capito finalmente cosa significa davvero essere adottato».

La stessa consapevolezza che oggi accompagna la vita di Francesca, che ha ritrovato un figlio più maturo e più sereno: «Ricordo perfettamente il momento della sua partenza. Mi ha salutato e mi ha detto che sarebbe tornato il giorno prima del mio compleanno, il 9 febbraio. Quelle sue parole hanno avuto un significato particolare per me: era come se mi volesse dire che sarebbe tornato da noi, che non se ne stava andando via per sempre. Voleva rassicurarmi, e lo ha fatto a modo suo. È stato un momento molto commovente e riabbracciarlo quando è tornato è stato un istante unico e impossibile da descrivere. È stato lì che ho capito che aveva davvero bisogno di chiudere quel suo cerchio, di capire qualcosa in più sulla sua vita. Spesso nell’adozione internazionale si hanno poche informazioni sul passato dei propri figli, e anche per noi era così. Credo che Cosmin abbia individuato il momento giusto per partire alla ricerca delle sue origini.

Il “quando” è un elemento fondamentale nel percorso, perché devi essere pronto, devi avere tutti gli strumenti necessari per affrontare un percorso di crescita importante, che in qualche occasione può fare anche male». Ma che indiscutibilmente aiuta a crescere, nella propria individualità ma anche nell’essere famiglia.

«Come dico ai genitori e ai ragazzi che a volte si rivolgono a me in cerca di un consiglio – continua Cosmin – è importante compiere questo percorso di ritorno alle origini insieme con le persone di cui ci si fida. Non mi riferisco a una compagnia fisica, perché, nel mio caso, per esempio, ho affrontato il viaggio da solo, senza la mia famiglia adottiva. Mi riferisco a un certo tipo di sostegno che non deve mai mancare, perché provare scoprire dove si è nati e da dove si arriva, è un viaggio difficile e doloroso. Mi sono arrabbiato tante volte, lo ricordo come se fosse ieri. Ma i figli devono sentirsi liberi di prendere le loro decisioni: per esempio, io ho preferito affrontare il viaggio da solo perché mi sarei sentito un po’ confuso a partire con mia mamma e mio papà.

Parlatene con i vostri amici, e preparatevi psicologicamente a un’esperienza che vi cambierà la vita, indipendentemente dal fatto che possiate tornare a casa con qualche informazione in più sul vostro passato oppure no. Preparatevi, perché vi assicuro che non sarete le stesse persone che sono partite. Ai genitori, invece, dico che noi figli sappiamo bene che a volte avete paura di perderci, ma non ci state perdendo. Ci state soltanto accompagnando, anche se magari a distanza, in quello che è il nostro percorso di crescita».

© Af CIFA onlus

Paura, curiosità e consapevolezza

Essere genitore, del resto, è uno dei mestieri più difficili del mondo. Ma proprio come in ogni «professione» non si finisce mai di crescere e di imparare. Così è successo a Francesca: «A tutti i genitori che si ritrovano a vivere un’esperienza come quella che ho vissuto con mio figlio mi sento di dare un solo consiglio: stategli vicino, sempre e comunque. Accompagnatelo in questa esperienza, e aiutatelo a mettere in valigia tutti gli strumenti di cui ha davvero bisogno: dalla paura, che è un sentimento assolutamente sano, alla curiosità, unite alla consapevolezza di come, una volta tornati da quel viaggio, non si sarà più le stesse persone. Mio figlio è cambiato molto in questi ultimi anni. È cresciuto, è maturato. Sono certa che questo viaggio abbia contribuito a farlo diventare l’uomo che è adesso, con le sue fragilità e con la sua forza. Un ragazzo splendido, che mi rende orgogliosa di essere sua madre».

Se Cosmin ha scelto di affrontare da solo quello che è stato il viaggio più importante della sua vita, c’è anche chi sceglie di condividere l’esperienza con la propria famiglia adottiva. Del resto non esiste un libretto di istruzioni: ogni esperienza è a sé, proprio come ciascuno di noi ha la propria individualità, i propri bisogni e i propri desideri.

Il viaggio di Sara

«Ho fatto il viaggio di ritorno alle origini dopo aver scritto una tesi di laurea sull’adozione (in scienza della formazione primaria) e dopo aver incontrato una quarantina di famiglie adottive. Aver analizzato l’adozione attraverso l’esperienza di altre persone è stato fondamentale per farmi sentire finalmente pronta a partire per il Brasile – ci racconta Sara Anceschi, insegnante di trentacinque anni, adottata quando aveva soltanto pochi mesi -. Appena atterrati a Salvador de Bahia mia mamma mi disse di annusare l’aria del mio paese, per capire se avessi dei rimandi atavici particolari. Ero molto emozionata, ma quando scesi dall’aereo rimasi delusa perché, pur respirando a pieni polmoni, non sentii nulla di famigliare. Avevo atteso ventitré anni per ritornare nel mio paese di origine e ora che finalmente ero arrivata, non provavo assolutamente nulla. I profumi e gli odori erano completamente diversi da quelli cui ero abituata e, soprattutto, a quelli che avevo immaginato. Mi sentivo confusa in quel luogo in cui pensavo che invece mi sarei sentita a casa. Questa sensazione è cresciuta con il passare dei giorni, perché girando per Salvador de Bahia mi sentivo osservata in modo particolare. Percepivo sguardi che non avevo mai colto in Italia: la gente del posto mi guardava insistentemente… in fondo ero somaticamente uguale a loro, ma non capivo né parlavo la loro lingua. Questi sguardi curiosi e insistenti della gente del posto mi infastidivano, tanto più che non avevo mai percepito nulla del genere a Torino: tornavo nel mio paese di nascita e mi sentivo una straniera. Questo viaggio è stata un’esperienza importante perché mi ha permesso di “fare pace” con il mio passato e con la mia madre biologica.

Ho trascorso gli ultimi giorni in Brasile con uno stato d’animo particolare: non vedevo l’ora di tornare a casa, dove sarei ritornata a essere una ragazza come tante. In aeroporto, pronti per tornare in Italia, è capitato poi l’episodio più bizzarro. I funzionari non volevamo lasciarmi partire: il mio passaporto era in regola, ma sostenevano che fossi una clandestina in procinto di lasciare illegalmente il paese. Furono attimi di grande concitazione: mi innervosii e spiegai in inglese la mia situazione. I funzionari si rivolsero a me con un atteggiamento marcatamente razzista e di disprezzo. Dopo mezz’ora la situazione si appianò, ma ero contenta di lasciare quel Brasile che mi aveva profondamente delusa. Nonostante questo, a distanza di dodici anni, oggi spero di poterci tornare, per far conoscere il mio paese di nascita ai miei figli e a mio marito». Un altro preziosissimo pezzo di puzzle da aggiungere, anche in età adulta.

Paola Strocchio

 


Colloquio con la dottoressa Cinzia Riassetto

Perché il ritorno alle origini

«Per un figlio adottivo la possibilità di tornare nel paese di origine rappresenta un’opportunità molto importante nel suo personale processo di crescita. Rivedere il posto dove è nato, i luoghi in cui ha vissuto, le prime tappe della vita, incontrare magari persone che lo hanno conosciuto e gli hanno voluto bene, rappresenta un modo molto efficace per riappropriarsi di una parte importante di sé e integrarla con l’identità del presente».

È la dottoressa Cinzia Riassetto, psicologa e psicoterapeuta con indirizzo sistemico relazionale nel campo delle adozioni internazionali dal 2001, a spiegarci cosa si nasconde dietro al desiderio – sano e legittimo – di un figlio nato in un paese lontano, che sceglie di scoprire le proprie origini. Nel corso degli ultimi anni, la dottoressa Riassetto ha accolto decine di ragazzi, spesso giovani adolescenti, che si sono rivolti al Cifa di Torino, ente italiano autorizzato per le adozioni internazionali, per essere guidati in quello che è indubbiamente uno dei viaggi più importanti che le famiglie nate grazie all’adozione possono affrontare nel corso della loro vita. «Il viaggio rappresenta un’occasione preziosa anche per i genitori adottivi che tornano nel paese del figlio insieme con lui, naturalmente quando si tratta di giovani ragazzi che altrimenti non potrebbero affrontare il viaggio da soli – continua a spiegarci la dottoressa Riassetto -. In questo modo si va a condividere questa appartenenza comune e le radici del loro essere diventati famiglia, pur partendo da storie e condizioni di vita così diverse e lontane».

Il percorso di accompagnamento psicologico è previsto sia prima della partenza sia durante il soggiorno nel paese. Continua la dottoressa Riassetto: «Prima della partenza, i nostri psicologi e gli operatori aiutano le famiglie a preparare il loro personalissimo bagaglio emotivo con cui affrontare il viaggio; una volta arrivati là, i referenti che operano sul posto si occupano di accompagnare le famiglie negli spostamenti e nelle visite anche dei luoghi sensibili». L’intervento di un esperto nell’organizzazione del viaggio permette anche di valutare se è effettivamente arrivato il momento di affrontare questa esperienza o se è forse opportuno rimandare di qualche tempo, in attesa di avere tutti gli strumenti emotivi a disposizione. Proprio perché si tratta di un viaggio importante, è imprescindibile avere con sé il «bagaglio» giusto. «È bene che la preparazione venga affrontata con colloqui sia con la famiglia adottiva sia con il ragazzo – continua la dottoressa Riassetto -. Il bagaglio va riempito di aspetti emotivi, cercando di narrare quelle emozioni che lui deve avere nella valigia con cui parte: gioia, ansia, entusiasmo, paura, desiderio. È necessario lavorare sulle aspettative con cui si parte: chi si vorrebbe incontrare? Quali posti si vorrebbe rivedere? E poi: se incontrassi quella persona cosa gli chiederesti? Cosa pensi che potrebbe chiedere lei a te? Questo lavoro lo si fa su un piano simbolico, attraverso narrazioni emotive che la psicologa fa per lui, in un lavoro di immedesimazione, portando dentro di lui pensieri e risposte». È importante anche preparare il ragazzo alle zone d’ombra che incontrerà atterrando nel suo paese. Un paese forse idealizzato in famiglia, ma che non potrà essere romanzato nel momento in cui si toccheranno con mano quei panorami sociali fatti di indigenza, povertà e difficoltà.

Durante questa fase, l’importanza del «bagaglio» è quindi focale, andando a concentrarsi su cosa può essere il ritorno, con un’idea di come si può tornare. Con dei suggerimenti, delle testimonianze di altri ragazzi che hanno affrontato il medesimo percorso. Questo viaggio interiore deve essere costruito parallelamente anche dai genitori: «Il compito del genitore adottivo è quello di accompagnare silenziosamente il figlio senza troppa intraprendenza, con uno stile silenziosamente contenitivo, senza esaltare né limitare il percorso. E questo è possibile solo e soltanto se non ci si sente sostituti dei genitori biologici ma co-presenti con loro».

Paola Strocchio

 

 




Nigeria: Estremisti fulani, armati e impuniti

testo di Marta Petrosillo di ACS |


Meno noti dei terroristi di Boko Haram, uccidono più di loro. Gli islamisti fulani, nella cintura centrale del paese, fanno migliaia di vittime, anche per motivi religiosi. Nell’impunità e nell’indifferenza del mondo.

Nel 2018 la Nigeria è stato il secondo paese al mondo per numero di vittime da terrorismo: per il Global terrorism index 2019 (Gti), le vittime sono state 2.040, meno dell’Afghanistan (7.379), più dell’Iraq (1.054).

In un rapporto dello scorso settembre, la Croce rossa internazionale ha illustrato cifre da guerra: nell’ultimo decennio gli attacchi del noto gruppo islamista Boko Haram hanno provocato, soprattutto nel Nord, 27mila morti, 22mila dispersi, di cui più della metà minorenni, e più di 2 milioni di sfollati.

Delle 2mila vittime del 2018 contate dal Gti, però, ben 1.158 sono attribuite non a Boko Haram, ma agli estremisti fulani.

Se gli sforzi dell’esercito nigeriano, infatti, ottengono finalmente qualche vittoria contro Boko Haram, cresce però il pericolo dei pastori islamisti che, nella cintura centrale del paese, uccidono impuniti.

Un problema che affligge gli agricoltori cristiani almeno dal 2013, ma di cui il mondo si è accorto solo nell’aprile 2018, dopo l’attacco alla chiesa di Sant’Ignazio nel villaggio di Mbalom, nello stato di Benue. Quel giorno sono stati trucidati 17 parrocchiani e due sacerdoti.

Storia di un popolo

I Fulani sono un popolo semi nomade dedito alla pastorizia, presente in larghe parti dell’Africa occidentale, dalla Mauritania al Camerun. Dei circa 20 milioni totali, 14 milioni vivono nella sola Nigeria.

Si tratta di un’etnia con una lunga storia alle spalle: è possibile trovarne menzione già in antichi scritti arabi.

Molti di loro hanno iniziato a dedicarsi all’allevamento del bestiame tra il XIII e il XIV secolo. La tribù ha vissuto il suo momento di maggiore espansione prima del periodo coloniale, tra il XVIII e il XIX secolo, assumendo il nome di califfato di Sokoto, e si ritiene che si debba a essa la diffusione dell’Islam nell’Africa occidentale. Con l’arrivo dei colonizzatori francesi e britannici, tuttavia, l’impero fulani è collassato.

Sebbene vi siano anche dei Fulani sedentari, la cultura tradizionale è stata preservata principalmente dai nomadi.

Radicalizzati e armati

I mandriani fulani in Nigeria hanno sempre fatto pascolare liberamente il loro bestiame nel Nord del paese e nella cosiddetta Middle Belt, la cintura di stati che si frappone tra il Nord a maggioranza musulmana e il Sud a maggioranza cristiana.

Alcuni attribuiscono l’escalation di violenza degli ultimi anni a fattori di tipo etnico o economico. Certamente le tensioni tra agricoltori e pastori, aggravate dalla diversa appartenenza etnica, sono sempre state presenti. È anche vero che i cambiamenti climatici e la riduzione delle terre da pascolo stanno spingendo i Fulani a spostarsi in zone nuove. Ma negli ultimi anni gli attacchi si sono fatti sistematici, più feroci e, soprattutto, con una connotazione religiosa.

Gli obiettivi, infatti, sono spesso cristiani, così come le aree sono quelle a maggioranza cristiana.

Don Polycarp Lamma, della diocesi di Jalindo, non ha dubbi sul fatto che le violenze siano religiosamente motivate: «Quando attaccano, gridano “Allah u Akbar”. Se volessero semplicemente attaccare un diverso gruppo etnico, perché gridare una simile frase? Vogliono attaccare i cristiani».

Sebbene il Gti spieghi che gli eventi attribuiti agli estremisti fulani riflettono l’uso del terrorismo come una tattica utilizzata nel conflitto tra pastori e agricoltori, e che non ci sia un vero e proprio gruppo unico e organizzato, è innegabile che molti tra di loro si sono radicalizzati e, soprattutto, si sono dotati di armi di ultima generazione che prima non possedevano.

Nigeria, Kaduna / © Aid to the Church in Need

I sospetti sul potere

«Prima i Fulani portavano le mandrie assieme alle loro famiglie e avevano con sé dei semplici bastoni – ci racconta mons. William Amove Avenya, vescovo di Gboko, nello stato a maggioranza cristiana di Benue -, oggi sono armati di fucili Ak 47. Armi costose che non possono permettersi. Chi le fornisce loro? Poi, in quelle aree ci sono check point ogni due chilometri. Perché nessuno li ferma?».

Nonostante i ripetuti massacri, nessun colpevole è stato fino a oggi indagato, arrestato o condannato.

Secondo alcuni, il principale motivo di questa assenza di misure di contrasto alla violenza, sta nell’appartenenza dell’attuale presidente Mohammed Buhari proprio all’etnia fulani.

«Vogliono colpire i cristiani, e il governo non fa nulla per fermarli, perché anche Buhari è di etnia fulani», ha dichiarato lo scorso anno ad Acs, Aiuto alla Chiesa che soffre il vescovo di Lafia, nello stato di Nassarawa, mons. Matthew Ishaya Audu.

A lui si unisce anche monsignor Peter Iornzuul Adoboh: «È triste, ma dobbiamo constatare che è come se vi fosse un ordine da parte del governo federale di non intervenire. E così i Fulani uccidono, distruggono e poi fuggono, mentre nessuno fa niente. Anzi, se la polizia trova la gente locale con le armi che cerca di difendersi, generalmente arresta questi anziché i Fulani. I mandriani si sentono forti, perché c’è un loro uomo al potere che li protegge».

Buhari è perfino il patrono della principale organizzazione di pastori fulani, la Miyatti Allah cattle breeders association of Nigeria, Macban, che, secondo alcune Ong locali, dovrebbe essere perseguita per terrorismo. E, come fa notare la Ong nigeriana International society for civil liberties & the rule of law (nota come Intersociety), l’ondata di violenze dei Fulani si è intensificata già a partire dal giugno 2015, un mese dopo l’elezione di Buhari a presidente.

© ACN / Diocesi di Makurdi

Difficile da definire, chiaro nella sua gravità

Se il Gti parla di 1.158 vittime degli estremisti fulani nel 2018, e Amnesty international cita, per lo stesso anno, 2.000 morti e 182mila sfollati, Intersociety sostiene addirittura che i morti siano 2.400, a testimonianza di quanto sia ancora difficile da descrivere e monitorare il fenomeno.

Intersociety aggiunge che tra il giugno 2015 e il dicembre 2018, gli estremisti fulani hanno ucciso non meno di 6mila cristiani e incendiato o distrutto più di mille chiese. Una tendenza che purtroppo non pare invertirsi nel 2019: nei primi quattro mesi dell’anno, infatti, i fondamentalisti hanno massacrato tra i 550 e i 600 cristiani, e distrutto centinaia di abitazioni e dozzine di chiese. Un numero superiore anche alle vittime di Boko Haram che, nello stesso periodo, ha ucciso «solo» 200 cristiani.

© ACN / Diocesi di Makurdi

Il fattore religioso

Difficile sostenere la tesi secondo la quale quello religioso non sia almeno uno dei fattori all’origine delle violenze. Così come riteniamo sia improprio descrivere quanto accade oggi in Nigeria come un «conflitto etnico tra pastori e agricoltori».

Il numero delle vittime – che si contano anche tra i Fulani – è troppo sbilanciato da una parte.

«I mandriani arrivano di notte, mentre la gente dorme – spiega mons. Adoboh -. Le abitazioni dei contadini in genere sono isolate, perché circondate dai terreni e, dunque, gli assassini possono agire indisturbati.

Lo schema è semplice: danno fuoco alla casa costringendo gli abitanti a uscire. Poi li massacrano. Adulti, bambini, donne incinte, anziani. Sono davvero scene orribili. I contadini cristiani non hanno le armi per difendersi, mentre i fulani sono armati fino ai denti».

Sì perché a inizio 2018, mentre le violenze dei Fulani si facevano più numerose e cruente, il governo nigeriano ha disposto il sequestro o la consegna volontaria di tutte le armi da fuoco personali. Un passo mirato a rastrellare le armi in vista delle elezioni generali del febbraio 2019, e a ridurre le violenze. Un provvedimento comprensibile in un paese come la Nigeria, nella quale circola gran parte degli otto milioni di armi dell’intera Africa occidentale, e dove il 59% dei loro detentori sono civili, solo il 38% membri delle forze armate governative, il 2,8% poliziotti.

Il problema, però, è che tale misura non è applicata ai Fulani.

© ACN / Diocesi di Makurdi

Espansione islamista

«Viviamo nel terrore. I Fulani sono ancora qui e rifiutano di andarsene. E noi non abbiamo armi per difenderci», scriveva nel gennaio 2018 su Twitter padre Joseph Gor, ucciso poi mentre celebrava la messa assieme a padre Felix Tyolah e a 17 fedeli il 24 aprile a Mbalom.

La piccola chiesa di Sant’Ignazio a Mbalom è stata colpita mentre i vescovi della Nigeria si trovavano a Roma per la visita ad limina apostolorum. Ma anche a distanza l’episcopato si è fatto sentire attraverso un comunicato ufficiale nel quale ha apertamente messo sotto accusa la mancanza di azione da parte del governo. «Il fatto che sia stato teso un agguato ai due sacerdoti, assieme ai loro parrocchiani, proprio durante la celebrazione della santa messa di mattino presto, suggerisce che il loro omicidio sia stato accuratamente pianificato. Questo atto malvagio non può essere definito un attacco per vendetta (come spesso è stato sostenuto in questi casi). Per quale motivo sono stati attaccati? Perché nessuno è intervenuto?».

All’indomani del tragico attacco a Mbalom, mons. Wilfred Chikpa Anagbe, vescovo di Makurdi, ha dichiarato ad Acs: «C’è una chiara agenda, un piano per islamizzare tutte le aree a maggioranza cristiana della Middle Belt nigeriana».

Lo stato di Benue, tra i pochi nell’area a maggioranza cristiana è, infatti, quello più colpito dalle violenze. Tra i cristiani è forte il sospetto che vi sia un piano per espandere l’influenza islamista nella cintura centrale e nella Nigeria meridionale.

Impunità

Più volte i vescovi hanno richiamato le autorità federali al proprio dovere. Anche il 22 maggio 2018, la giornata in cui si sono celebrati i funerali delle vittime di Mbalom e si sono tenute in tutto il paese marce di protesta pacifiche per chiedere al governo di porre un freno agli attacchi. Quel giorno i vescovi hanno intimato al presidente Buhari di fare il proprio dovere. Primo fra tutti, l’allora arcivescovo di Abuja, il card. John Onaiyekan, che, in un messaggio al presidente, ha affermato: «Proteggi le nostre vite oppure fatti da parte. I nigeriani continuano a venire uccisi e molti di noi si stanno chiedendo se esiste ancora un governo nella nostra nazione».

Eppure la risposta è stata debole. La proposta di Buhari è stata semplicemente quella di creare delle aree per permettere ai Fulani di far pascolare le proprie mandrie; aree, peraltro, che dovrebbero essere sottratte ai contadini. Vi è stata perfino una campagna dal provocativo slogan: «Meglio vivi senza la terra, che morti con la terra».

© ACN / Diocesi di Makurdi

Sotto gli occhi di tutti

Intanto si aggrava di giorno in giorno il bilancio delle vittime. Nella notte del primo agosto scorso un gruppo di uomini armati ha ucciso un sacerdote, don Paul Offu, parroco di Saint James the Greater (Ugbawka) nella diocesi di Enugu. È stato il sito web della diocesi a riferire che, con tutta probabilità, è stato ucciso da mandriani fulani.

Stessa sorte era toccata precedentemente, sempre nell’area di Enugu, a padre Clement Rapuluchukwu Ugwu, parroco di San Marco. Il sacerdote, rapito nella notte del 17 marzo 2019, è stato poi trovato morto nella boscaglia dai suoi parrocchiani.

Il 15 luglio 2019 una donna incinta è stata brutalmente uccisa assieme ad altri due cristiani ad Ancha, nello stato nigeriano di Plateau. Cinque giorni dopo, il 20 luglio, nella diocesi di Jalindo nello stato di Taraba, il giovane agricoltore cristiano Solomon Yuhwam è stato ucciso nella sua abitazione da mandriani fulani. Nel marzo del 2014 era riuscito a salvarsi – fingendosi morto – da un altro attacco fulani che era invece costato la vita a suo fratello e a tanti altri cristiani del suo villaggio.

La lista è lunga, così come è elevato il numero di cristiani che fuggono dalle proprie case, spingendo le diocesi dell’area ad aprire campi di accoglienza.

Eppure sembra che nessuno possa o voglia fermare le violenze, nonostante i ripetuti appelli, anche all’Occidente, da parte dei vescovi nigeriani. «Non commettete lo stesso errore che è stato fatto con il genocidio in Ruanda – ha più volte ribadito monsignor William Amove Avenya, vescovo di Gboko -. Era sotto gli occhi di tutti, ma nessuno lo ha fermato».

Marta Petrosillo




Isole Svalbard, l’ultima frontiera

Testo e foto di Valentina Tamborra


L’arcipelago delle Svalbard sono il lembo di terra abitato più a Nord del pianeta. Qui la vita è dura e domina una natura estrema. Storicamente area di miniere, oggi sta prendendo piede anche il turismo. Ci vivono circa 2.200 persone di 40 nazionalità diverse. L’autrice vi ha condotto un particolare lavoro di approfondimento fotografico.

Le Isole Svalbard sono un territorio amministrato dalla Norvegia ma soggetto a un trattato internazionale che ne riconosce l’autonomia.

Si tratta di un arcipelago del Mar Glaciale Artico, di isole posizionate fra il 74° e l’81° parallelo Nord. Sono la parte più settentrionale della Norvegia e le terre abitate più a Nord del pianeta. Le terre emerse coprono un’area di circa 62.000 km2 e si trovano a circa 1.000 km dal Polo Nord geografico. Per questo l’immaginario comune le vuole interamente coperte dai ghiacci e con poche forme di vita (orsi polari, renne, volpi artiche, foche, balene). Il termine Svalbard infatti, significa «costa fredda».

Un progetto fotografico

«Mi Tular» in antico etrusco significa «Io sono il confine». In questo lembo di terra ghiacciata incastonato nel Mar Glaciale Artico, orsi polari e uomini si contendono un confine invisibile. La parola Tular riporta alla mente il mito dell’Ultima Thule, l’ultima isola del mondo conosciuto.

Questa è l’idea di fondo del mio progetto fotografico, che mi ha portata a viaggiare fino alle Isole Svalbard.

Quando ho deciso di indagare queste isole, ad attirarmi è stata proprio l’idea di assenza di confine: il deserto artico, per sua natura, è un mondo di ghiaccio e luce assoluta. Luce che spesso inganna gli occhi, i sensi, rendendo impossibile indovinare l’orizzonte.

Alle Isole Svalbard l’unico confine è quello fra esseri umani e animali: sono infatti le terre dell’orso polare, 3.500 orsi contro circa 2.200 abitanti.

Sulla mappa, il confine sicuro è indicato da una linea rossa che mostra la zona entro cui si può girare non armati: oltre è necessario possedere un fucile. Camminando per Longyearbyen, la città più popolosa delle Svalbard (sede dell’aeroporto e della residenza del Governatore, qui chiamato Sysselmannen), è possibile imbattersi in cartelli che indicano la fine del confine sicuro proprio con il disegno di un orso.

E in effetti alle Svalbard tutti hanno un fucile e tutti sanno sparare ma è il luogo con il minor tasso di criminalità al mondo. Nessuno infatti, spara a cuor leggero, nemmeno a un orso polare, perché la legge prevede, in caso di uccisione di uno di questi meravigliosi animali, un’inchiesta del tutto simile a quella che si avrebbe in caso di omicidio.

Un luogo multiculturale

Queste isole sono anche il luogo con la più alta concentrazione di nazionalità differenti: ben 40, anche grazie al Trattato delle Svalbard, il cui articolo numero 3 sancisce la piena libertà di diventarne cittadino legittimo senza necessità di visto, e recita così: «I cittadini di tutte le nazioni aderenti dovranno avere uguale libertà di accesso ed entrata per qualsiasi ragione od oggetto, qualsivoglia fiordo e porto dei territori specificato nell’articolo 1 (confini territoriali Svalbard, nda); sono soggetti all’osservanza delle leggi e regolamenti locali, possono mandare avanti senza alcun impedimento qualsiasi attività marittima, industriale, mineraria e commerciale, sulla base dell’assoluta uguaglianza.

Saranno ammessi alle medesime condizioni di uguaglianza, all’attività marittima, industriale, mineraria e commerciale, sia a terra che in mare e nessun monopolio dovrà essere stabilito da parte di alcuno».

È quindi possibile ottenere la residenza permanente senza bisogno di avere visti o permessi di soggiorno, ma non si ottiene così la cittadinanza norvegese. Infatti, ci sono persone che pur vivendo alle Svalbard da più di 10 anni non posso restare in Norvegia continentale per un periodo superiore da quello concesso dagli accordi fra il loro paese d’origine e la Norvegia.

Ma chi sono dunque gli abitanti delle Svalbard?

È un luogo dove non si può nascere: per questioni di sicurezza infatti le donne incinte vengono mandate a partorire sulla terraferma, a Tromsø, città a Nord della Norvegia. Ma non si può neppure essere seppelliti: a causa del permafrost, che «rigetterebbe» il corpo. Il permafrost è un terreno tipico delle regioni dell’estremo Nord Europa, della Siberia e dell’America settentrionale e risulta perennemente ghiacciato. In realtà durante l’estate i primi due metri di profondità, a causa del riscaldamento superficiale che può raggiungere anche i 10 gradi, si sciolgono dilatandosi. Quest’attività di congelamento e scongelamento dello strato superficiale determina un movimento di contrazione del terreno che agisce su quanto è interrato nel suo primo strato, facendo sì che risalga.

In queste isole come è possibile creare una propria identità? Esiste una memoria condivisa?

Questi sono gli interrogativi che mi sono posta e a cui le persone che ho incontrato hanno saputo fornire una risposta.

Le Svalbard prima di tutto hanno una memoria storica legata all’attività mineraria. L’estrazione del carbone infatti, è stata per anni l’unica fonte di lavoro e l’unica ragione per decidere di stabilirsi qui, in uno dei luoghi più inospitali del pianeta.Basti pensare infatti che in inverno la temperatura scende fino a -35° e che la luce è completamente assente da novembre a febbraio. Tempeste di neve sono all’ordine del giorno e negli ultimi tempi, a causa del cambiamento climatico, ci si è trovati a fare i conti anche con il rischio di valanghe.

Passato e presente di miniere

Ad oggi due sono le miniere ancora attive alle Svalbard: la Mine 7, a Longyearbyen, e l’altra a Barentsburg, cittadina abitata da 500 minatori di nazionalità russa e ucraina.

Ho incontrato alcuni minatori e con loro sono scesa nelle viscere della montagna: 200 metri sotto il ghiaccio ho trovato un mondo nero, buio ma ricco di vita. Uno dei minatori, Tommy, lavora qui da oltre 20 anni. La miniera è «casa sua», nonostante sia originario di Oslo.

Tommy nel tempo libero compone canzoni e scrive fiabe per bambini: lontano dallo stereotipo del minatore rude e schivo, ha sempre il sorriso e la battuta pronta.

Mi racconta che oggi le Svalbard vivono prevalentemente di turismo e che per loro, i minatori, è sempre più difficile vivere qui.

Ogni mattina Tommy si sveglia alle 4,30 e alle 5 è già in miniera per preparare il caffè per i suoi ragazzi. Si prende cura degli altri minatori, come un padre, forse proprio perché conosce questo lavoro duro e antico che porta gli uomini a muoversi in cunicoli alti poco meno di un metro.

Ci sono dei passaggi infatti, in cui ci si può muovere solo carponi.

Eppure quello che mi viene raccontato dai minatori, non solo da Tommy, è l’attaccamento a questi luoghi: la miniera è una sorta di rifugio oltre che lavoro. È un mondo altro, nascosto sotto al ghiaccio, è forse la vera natura di questo luogo così remoto che sono le Svalbard.

«Ieri sera hai visto cosa faccio per divertirmi, oggi vedi cosa faccio per vivere». Questa è la frase con cui mi accoglie Daniel, 24 anni, uno dei ragazzi che lavorano con Tommy. Sì, perché la sera prima l’avevo visto cantare nel coro della compagnia mineraria Det store Norske.

Molti dei minatori cantano nel coro ma non solo loro: ne fa parte infatti, anche il direttore dell’unico ospedale dell’isola, il prete e uno dei capi della compagnia mineraria.

Un gruppo variegato che, come è normale su queste isole, non fatica a condividere provenienze e formazioni diverse ma anzi ne fa un punto di forza. Canzoni folk, ma anche repertorio blues e pezzi conosciutissimi come «sixteen tons» fanno parte dei loro concerti.

Turismo alle Svalbard

Ma c’è un altro lavoro che è diventato fondamentale alle Svalbard: la guida turistica. Con l’incremento del turismo infatti, è sempre necessario avere figure preparate che sappiano guidare le persone alla scoperta di un territorio selvaggio e pericoloso.

Incontro una di loro, giovanissima, Astrid: trasferitasi qui tre anni fa con l’idea di rimanere solo per una stagione, ha deciso di stabilirsi alle Svalbard e farne casa propria. Oggi lavora per Svalbard Husky e tutti la conoscono come «la fiamma» per via dei suoi capelli rosso fuoco che spiccano nel paesaggio bianco che ci circonda. Astrid insegna ai turisti come guidare una slitta trainata dai cani, e con loro raggiungere posti meravigliosi come la blue cave (una spettacolare grotta di ghiaccio azzurro che si confonde con il cielo). Mi racconta che qui non è così facile però trovare casa, soprattutto per le guide. I prezzi sono alti, le case poche e spesso le guide si ritrovano a condividere un piccolo appartamento in 3 o 4 persone.

Questa, dice, è la parte più difficile del vivere qui: non avere un posto proprio.

Pyramiden

C’è poi da raccontare di un altro luogo, ancora più isolato, Longyearbyen, ovvero Pyramiden, un insediamento minerario russo semiabbandonato ormai dal 1998.

Città fondata nel 1910 da minatori svedesi, venne venduta alla compagnia mineraria Russkij Grumant e in seguito, nel 1930, alla Arktikugol che tutt’ora ne è proprietaria pur rimanendo Pyramiden terra norvegese. Insediamento costruito per ospitare circa mille persone, non solo minatori ma anche le loro famiglie e un ufficio del Kgb, era fornito di ogni comodità: una biblioteca, un ospedale, una scuola, ma anche un cinema e una piscina pubblica. L’erba che ricopre il suolo era stata importata dall’Ucraina al fine non solo di abbellire il luogo, ma anche e soprattutto di consentire la coltivazione di frutta e verdura. Doveva infatti fungere da città modello del perfetto comunismo: l’insediamento mostrava al mondo la grandezza dell’Unione Sovietica.

Oggi in questo luogo a ridosso del ghiacciaio Nordenskjoldbree, dove comunicare è possibile solo grazie a telefoni satellitari o via radio, vivono undici persone fra cui un governatore: Petr Petrovich.

Qui il cibo viene portato tramite elicottero e paracadutato sulla comunità. La comunicazione con questa «porzione» delle Svalbard è possibile tramite motoslitta in inverno (con un viaggio di quasi un giorno) e tramite nave in estate. Ad oggi è possibile visitare Pyramiden con dei tour organizzati di qualche ora: si possono vedere gli edifici semi abbandonati e bere un caffè o una tipica grappa russa all’unico bar e hotel del luogo.

In pochi si fermano per più di poche ore nonostante l’hotel sia accogliente: è un luogo remoto, dove la natura domina e dove è facile infatti sentirsi in soggezione.

Eppure chi vive qui oggi, ha fatto questa scelta proprio per fuggire al «rumore» del mondo.

Zheka, la guida che mi ha condotta in giro fra edifici abbandonati e ghiacciai incontaminati, lascia Pyramiden solo una volta l’anno per uno o due mesi. Mesi in cui si dedica alla sua grande passione: la musica. Organizza concerti, suona diversi strumenti e viaggia in giro per il mondo. Poi, torna nel suo angolo di paradiso, o almeno lui così lo definisce.

C’è anche Barentsburg: l’altra «grande» città delle Svalbard. Cinquecento minatori russi e ucraini che difficilmente parlano inglese e che vivono solo e soltanto attorno alla miniera. Anche qui è presente un hotel e due bar (uno di questi però riservato ai soli minatori) ma davvero pochi turisti decidono di fermarsi a Barentsburg

Architettura tipicamente sovietica, Barentsburg fu fondata nel 1932 da una compagnia carbonifera olandese che la cedette in seguito alla sovietica Arktikugol’, che tutt’ora gestisce la miniera.

Dista circa 55 km da Longyearbyen ma non vi sono strade di collegamento fra i due centri abitati. Per raggiungerla infatti, ho compiuto un lungo viaggio in motoslitta: quasi 5 ore la sola andata.

Non ultima in termini di importanza, la cittadina di Ny-Ålesund è un insediamento situato nel Nord Ovest dell’isola, popolato da circa 200 abitanti in estate e soltanto 30 in inverno, per lo più ricercatori scientifici. Anch’essa è raggiungibile in nave durante il periodo estivo e in motoslitta (circa sei ore da Longyearbyen).

Un archivio mondiale

Ma c’è un altro fatto che caratterizza le Svalbard. Abbiamo detto che la memoria storica è legata al carbone e dunque l’identità del luogo è strettamente connessa al lavoro dell’uomo. Ma è proprio qui alle Svalbard che trovano sede due realtà interessantissime: Il Global seed vault e l’Arctic world archive.

Il primo è una sorta di «banca mondiale dei semi»: in caso di guerra, di disastro nucleare o carestia l’umanità trova qui una sua riserva per ripartire. Semi da tutto il mondo giacciono addormentati sotto il permafrost.

Ma se l’uomo per vivere ha bisogno di cibo è pur vero che ha bisogno anche di ricordarsi da dove viene: ed è con questa idea che la Piql, azienda norvegese, ha creato l’Arctic world archive.

Sito nella miniera numero 3, ormai in disuso, il container ospita, scansionati su un’apposita pellicola creata dalla Piql in un polimero segreto, alcuni fra i documenti più importanti della storia dell’umanità.

I primi a portare qui documenti sono stati l’archivio della Biblioteca apostolica vaticana, l’Esa (Ente spaziale europeo), l’archivio Alinari e la cineteca di Bologna.

In un luogo privo di confini e con una memoria recente dunque, nasce il tentativo di creare una memoria del mondo.

Questa è davvero forse l’ultima Thule.

Valentina Tamborra

 

 




Fino al dono della vita

Testo e foto di Anair Voltolini, MdC


La parola missione, pur inflazionata nel linguaggio attuale, continua a indicare un affascinante e intenso dinamismo di vita. Anzi, il suo significato raggiunge una dimensione sempre più ampia e profonda nella vita cristiana di oggi.

Ero una ragazza di 13 anni quando scattò una prima scintilla di vocazione – il desiderio di consacrare la vita al Signore per la missione. Nata in una famiglia di fede semplice ma profonda, ho ricevuto lì e nella comunità cristiana una solida formazione umana ed evangelica che ha aperto la strada per una risposta. Le missionarie della Consolata erano presenti nel mio piccolo paese – Cafelandia nel Sud del Brasile – e con la loro testimonianza di vita consacrata missionaria e con il loro aiuto ho deciso di seguire l’avventura di andare sulle strade del mondo a condividere con altre persone e altri popoli la gioia di credere in un Dio che ci ama e che ha dato la sua vita perché tutti possano avere vita e vita in abbondanza.

Dopo gli anni di formazione e dopo la professione religiosa, l’impegno missionario si è intensificato e ha assunto connotazioni nuove ed esigenti che coinvolgono tutta la vita e per sempre.

Partire per l’Africa in missio ad gentes

Missione ad gentes è dire con la vita e annunciare con la parola il messaggio di Gesù alle genti che ancora non lo conoscono, o non hanno ancora trasformato in vita vissuta la bellezza di credere nel Dio di Gesù. È andare tra la gente dove lui è già presente ma non ancora conosciuto e rendere sempre più visibile ed effettivo il suo mistero salvifico – rivelazione e manifestazione del Dio Amore, appassionato della persona.

Essere missionaria in Mozambico, dove ora mi trovo, o in qualunque parte del mondo, implica coltivare una profonda esperienza di questo amore di Dio, alimentare un forte spirito di fede e ravvivare una sempre viva sensibilità alla brezza dello Spirito, generatore di vita nuova. Implica uno sguardo sconfinato di speranza, anche quando sembra che poco o nulla cambi attorno a te nonostante anni di servizio e dedizione. Implica una carità evangelica che cresce attorno alla Parola e all’Eucaristia, che costruisce la comunione e la fraternità universale, che porta l’evangelizzatore fino al dono della vita.

La vita missionaria, credo di poter dire, si esprime soprattutto in tre dimensioni chiare, concrete e creative: nella testimonianza di una vita profondamente evangelica, nella preghiera costante al Padre con Cristo in favore dell’umanità e nell’annuncio di Gesù Cristo, il figlio redentore, e del suo Vangelo di salvezza.

Missione è gioia

Vivere la missione richiede, a chi è chiamato e inviato, innanzi tutto una testimonianza gioiosa della sequela di Gesù come discepola missionaria del Vangelo. «Gesù vuole evangelizzatori che annunciano la buona Novella non soltanto con parole, ma soprattutto con una vita trasfigurata dalla presenza di Dio» (EG, n. 259).

Papa Francesco nella Evangelii Gaudium, è chiaro e persistente nel presentare l’esigenza di una profonda esperienza di amore per Cristo e di sentirsi da lui intimamente amati, come fondamentale motivazione per una effettiva evangelizzazione.

Anche papa Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi è stato molto efficace nell’affermare che l’uomo contemporaneo crede più ai testimoni che ai maestri e se crede in questi è perché sono testimoni (cf. EN n. 41).

La missione vive di una grande passione per Cristo Gesù e allo stesso tempo di una vera passione per le persone, per la gente. Non è il proselitismo trasforma il cuore della persona ma l’attrazione di una vera testimonianza di chi sa «dare ragione della propria fede e speranza» (cf. 1Ptr 3,15). Essere missionaria è esserci, essere presenza, essere con la gente.

Un dono speciale: la consolazione

Per noi missionarie e missionari della Consolata il carisma (dono di grazia specifico) che ci caratterizza è quello di evangelizzare nel segno della consolazione. Essere presenza di consolazione è prima di tutto essere segno della più grande consolazione che è Cristo Gesù. Il modo di essere tra la gente, la relazione di fraternità, la prossimità rispettosa di ogni persona e della sua cultura, la vicinanza all’altro in ogni situazione di gioia o di dolore, l’accoglienza della diversità come ricchezza, l’attenzione ai più poveri e marginalizzati, apre alle persone e ai popoli la strada che conduce all’incontro con il mistero del Regno di Dio.

Preghiera, anima dell’evangelizzazione

Una seconda dimensione missionaria che illumina e facilita il processo di evangelizzazione è la vita di preghiera dell’inviato. Ricordo sempre un principio, che ho ben impresso nel cuore: la missione non consiste soltanto nell’annunciare la Parola di Dio, cioè parlare di Dio alla gente, ma è fondamentale per l’annunciatore parlare della gente con Dio. I missionari sanno che l’opera di conversione e di salvezza non è opera loro, ma viene dallo Spirito di Dio che si muove come, quando e dove vuole.

La missione è di Dio

L’evangelizzatore è mediatore, è ponte, è al servizio della missio Dei. La missione è di Dio. Il Salvatore è Gesù. I missionari hanno un compito prezioso e fondamentale: presentare a Dio, portare davanti a Lui la realtà e la vita della gente e del mondo.

Per questo la sua è una preghiera ora di ringraziamento e di lode, ora di supplica e d’intercessione, ora di lamento e di offerta, di consegna di sé perché la vita raggiunga la sua pienezza.

La missione allarga il cuore e gli orizzonti di chi la abbraccia come suo ritmo di danza quotidiana; fluisce nel suo spirito come respiro vitale e determina ogni scelta del suo cuore. La missione implica la contemplazione.

Il nostro fondatore, Giuseppe Allamano, diceva ai suoi figli e figlie che era indispensabile per il servizio della missione che si formassero uomini e donne contemplativi, uomini e donne di una intensa preghiera. «Il nostro primo dovere – ricordatelo sempre! – non è lo sbracciarsi, ma il pregare» (Così vi voglio p. 234). Su questo punto l’Allamano era molto fermo.

Alcuni pilastri

La mia esperienza di missione tanto in Mozambico come in Brasile percorre questo nuovo processo costruito su alcuni pilastri chiave.

  • L’inserimento nelle culture con grande rispetto, a «piedi nudi e mani vuote» per riconoscere e accogliere la presenza di Dio in esse e l’attenzione a una inculturazione graduale del messaggio evangelico.
  • La formazione di una Chiesa ministeriale, in un impegno non negoziabile di collaborazione e partecipazione dei laici nella diversità di pastorali che costituiscono la comunità-comunione dei discepoli di Gesù.
  • Il dialogo ecumenico e interreligioso che unisce nella fede e nella carità, nel rispetto e nella tolleranza evangelica la diversità di religioni e di chiese.
  • La promozione e formazione integrale della persona, in particolare della donna, in modo che possa conoscere e assumere la sua dignità e vocazione nella Chiesa e nella società.
  • L’attenzione alla persona da evangelizzare e alla formazione di piccole comunità che crescono attorno alla Parola, all’Eucaristia e al servizio della carità fraterna. Sembra di poter dire che l’annuncio del Vangelo tocca il cuore della persona e diventa efficace quando è direttamente fatto a piccoli gruppi e non alle moltitudini.

Gratitudine e gioia

A conclusione di questo discorso, frutto di esperienza e di riflessione sulla missione oggi nel mondo, voglio dire la mia gratitudine e la mia gioia, prima di tutto di essere membro di un istituto missionario, con un carisma specifico di servizio alla missione ad gentes.  Poi di essere in missione in Mozambico, specificamente, in Maúa nella provincia di Niassa.  Sono qui in questa realtà missionaria per la seconda volta. Dopo aver lasciato il Mozambico per una missione diversa in altri lidi, sono tornata tra il popolo Macua, una grande etnia nel Nord del paese. È qui, tra questo popolo, in questa porzione di Chiesa, che mi è offerta l’opportunità di vivere la missione nelle dimensioni che ho cercato di presentarvi e di percepire la bellezza e la grandezza di una vocazione che investe tutto della persona.

E di viverla in una comunità missionaria internazionale, interculturale e intergenerazionale. Mi piace poter dire con chiarezza e convinzione: «Mai più la missione dei navigatori solitari, pur pieni di amore e di ardore per l’evangelizzazione».

L’Allamano così ha pensato, sognato e voluto la sua famiglia missionaria della Consolata fin dalla sua origine: un gruppo di persone consacrate al Signore per la missione per tutta la vita, con lo spirito di famiglia, che si stimano reciprocamente, dove è ben accesa la fiamma di una carità vera; dove si cammina e si guarda all’orizzonte del progetto missionario in unità d’intenti.

Missionari con Maria

Faccio mia la preghiera di papa Francesco: «Stella della nuova evangelizzazione, aiutaci a rifulgere con la testimonianza della comunione, del servizio, della fede ardente e generosa, della giustizia e dell’amore verso i poveri, perché la gioia del Vangelo arrivi fino ai confini della terra e nessuna periferia rimanga privata della sua luce» (EG n. 288).

Suor Anair Voltolini
missionaria della Consolata  in Mozambico




A cuore e piedi scalzi

Testo e foto di Maristella Tommaso


Ottobre, quest’anno, oltre a essere stato straordinario per desiderio del Santo Padre, lo è stato per me in modo particolare per ciò che la missione ha donato alla mia vita, per i cammini di liberazione che ho incrociato lungo la mia strada e per il calore, l’affetto, la presenza della gente incontrata nelle terre meravigliose dove i miei piedi si sono poggiati.

Ho ventisette anni, insegno e sono innamorata del mondo in tutte le sue sfumature, i suoi colori. Amo i bambini, i giovani che sono il presente, gli anziani che per secoli hanno custodito e protetto questo mondo, le donne e gli uomini della terra. Non riesco a immaginare la mia vita da «disinnamorata». Amo tutto ciò che la vita ci dona, accolgo tutto come un immenso regalo e mi sforzo di poter ricambiare al mondo l’amore che lui ha per me, per noi.

La mia vita è cambiata nel 2012 quando in Puglia ho partecipato a un primo incontro regionale di Missio Giovani, organismo della Cei che si occupa di animazione, formazione e cooperazione missionaria. Da quel momento ho iniziato a sognare di partire, di stare dalla parte degli impoveriti della terra, di mettermi in gioco e di sporcarmi le mani.

Così ho iniziato, piano piano, a benedire i miei piedi con la terra sacra dei paesi visitati: il Brasile, la Palestina, il Benin, per continuare a cercare e ad amare il Signore nei volti, nei sorrisi, negli abbracci, nelle lacrime di chi incontravo.

Nel Nord della Thailandia

Il 23 agosto scorso sono tornata dalla Thailandia, precisamente dal Nord, dalla diocesi di Chiang Rai (costituita nel 2018), ai confini con Myanmar e Laos, e il cuore fa ancora fatica a staccarsi da quella terra magica, meravigliosa, verdeggiante, sorprendente. Sono partita grazie all’esperienza estiva che Missio Giovani Italia organizza ogni anno ed ero insieme ad altri 16 giovani e 2 accompagnatori: Anita Cervi, formatrice presso il Centro unitario per la Formazione missionaria (Cum) e Giovanni Rocca, segretario nazionale di Missio Giovani.

Siamo abituati a vedere la parte turistica della Thailandia, le calette caratteristiche, il mare cristallino, la Bangkok caotica e lussuosa, gli hotel da sogno sulle palafitte, le scimmie addestrate, gli elefanti costretti a trasportare turisti sul loro dorso… ma mai nessuno parla di un’altra Thailandia. Quella poco turistica, ma proprio per questo motivo splendida, quella impoverita e nello stesso tempo ospitale, quella che respira gli influssi del Laos e del Myanmar, che ama gli incontri e ama la gente. La Thailandia del Nord, ricca di storia e di storie, di vite che si intrecciano e di culture.

Ambientazione e mandato

Siamo partiti il 1° agosto da Roma e dopo più o meno 15 ore di aereo ci siamo ritrovati a Chiang Mai (diocesi dal 1965, fondata come missione nel 1931), dove ci ha subito accolto don Attilio, sacerdote fidei donum che è parte del gruppo di dieci sacerdoti del Progetto Triveneto, sostenuto dalle diocesi del Veneto. Ospitati dalla diocesi, i primi tre giorni ci siamo fermati a pensare, a giocare, a riflettere, a riscoprirci anche con l’aiuto di Anita Cervi. Con Giovanni Rocca, invece, abbiamo scoperto la Thailandia, le sue tradizioni e cultura, e abbiamo conosciuto le quattro missioni in cui saremmo stati destinati.

Quei giorni di preparazione e formazione sono stati un mix di ansia, paura, entusiasmo e gioia. Le emozioni, tutte, positive e negative, ci scorrevano nelle vene… e la cosa più bella era capire che eravamo sorelle e fratelli e tutti provavamo le stesse cose.

Domenica 4 agosto, durante la messa, abbiamo vissuto il bellissimo momento del mandato, quando ci hanno consegnato la croce verde, gialla, rossa, blu e bianca simbolo di Missio. I gruppi erano formati: un gruppo a Mae Sai, un altro a Chiang Cam; il terzo a Chiang Saen, e il quarto a Nan. «Si inizia», ci siamo detti. Davvero tutto stava iniziando e tutto si stava realizzando.

 

Verso Chiang Saen

Il lunedì, zaini in spalla, ci siamo divisi e siamo partiti per raggiungere le nostre destinazioni. Durante il tragitto abbiamo fatto tappa al Tempio Bianco, dove abbiamo potuto ancora una volta, come già fatto a Bangkok, ammirare la meraviglia dei templi buddhisti e apprezzare la cura con cui i fedeli vivono la loro religione. È stato bellissimo essere a stretto contatto con un’altra religione e sapere che tra cristiani, buddhisti e musulmani c’è un bellissimo rapporto di stima reciproca, di collaborazione e di amore profondo per il creato.

Giunti alla missione siamo subito stati accolti dalle missionarie, dai missionari, dalle ragazze e dai ragazzi che vivono con loro. Ci hanno fatto sentire a casa come membri della loro grande famiglia. Le nostre giornate si sono svolte nei villaggi, nelle risaie o nella struttura insieme alle ragazze e ai ragazzi. Abbiamo persino fatto giardinaggio, piantato e raccolto riso, preparato 150 panzerotti durante la festa della mamma (in Thailandia si festeggia nel giorno del compleanno della Regina Madre, il 12 agosto). Ci siamo imbattuti nei mestieri più strani, pensando di non esserne capaci. Abbiamo provato l’ebbrezza di lasciarci coccolare dall’altalena akha (gli Akha sono una tribù thailandese presente soprattutto nel Nord) che viene costruita proprio durante i giorni della festa dell’Assunta per far divertire i bambini del villaggio (…e anche noi grandi!).

Sono stati giorni intensi di accoglienza, di collaborazione, di pazienza, di adattamento, di prova, spesso giorni stancanti… ma sempre stracolmi di bellezza. Abbiamo apprezzato la cura con cui ogni missionaria e ogni missionario porta avanti l’opera di Dio, prendendo sulle proprie spalle i più piccoli della terra, mettendosi costantemente al servizio dei più poveri e degli indifesi, mangiando con loro, sporcandosi ogni giorno le mani nella terra per confermare l’amore per tutto il Creato.

Condivisione

Ci tengo, mentre scrivo di quella che è stata per me la Thailandia, a raccontare un aneddoto che ha stravolto la mia vita, il mio sguardo, il mio tutto. Una sera, di ritorno da un villaggio dove avevamo passato la notte, raccontavamo alla suora che ci seguiva come fossimo rimasti meravigliati del fatto che alle sei del mattino sul nostro tavolo per la colazione avevamo trovato ben 30 ciotoline diverse piene di cibo. Lei ci ha risposto con una semplicità disarmante: «Avete visto? Non bisogna avere tanto per fare grandi cose. In quel villaggio ognuno vi ha portato quel poco che aveva, che era diverso dal poco dell’altro… e dal poco di ognuno è venuta fuori una tavola stracolma di bontà che avrebbe sfamato tantissima gente».

È proprio vero. Dal poco di ognuno vien fuori il moltissimo di Dio.

Partire è…

La missione mi ha cambiato la vita, le partenze me l’hanno stravolta, la gente incontrata mi ha fatto capire quanto bella fosse la mia esistenza così intrecciata all’esistenza delle altre e degli altri. A chi mi chiede se è bene o no partire, senza esitare rispondo che partire è camminare, partire è respirare, partire è crescere, è osare, è scoprire che in qualsiasi parte del mondo tu vada, avrai sempre una famiglia che sarà pronta ad accoglierti, ad amarti.

«Tutto il mondo è la mia famiglia», canta Jovanotti… ed è proprio così. I nostri piedi inevitabilmente si incroceranno con altri piedi, le nostre mani si sporcheranno con altre mani e il cuore batterà per e con altri cuori. La missione è stare con la gente, fermarsi a mangiare con loro, stare sotto un albero a chiacchierare, giocare con i bambini, aiutare le ragazze a studiare. La missione è «stare» nella libertà di essere ciò che si è insieme agli altri!

La missione è tutto ciò che di più semplice possa esserci. Ed è proprio questa semplicità che ha reso la mia vita straordinaria, proprio perché è vita insieme ad altre vite, storia insieme ad altre storie, cammino insieme ad altri cammini di liberazione.

Semplicità straordinaria

I piedi scalzi con cui si sta spesso in questa terra immensa ci siano di esempio per la vita, perché bisogna spogliarsi, vivere dell’essenziale, sporcarsi per poter essere prossimi, per poterci prendere cura, per poter amare.

«A cuore scalzo», canta Max Gazzè. «A cuore e a piedi scalzi» continuo io, perché la Chiesa che sogniamo sia sempre più povera con i poveri, priva di fronzoli, essenziale, compagna delle donne, degli uomini e dei bambini della terra, umile proprio perché la terra la tocca, la sente sotto i piedi e la ama. Continuiamo a ricercare la bellezza, l’essenziale. Continuiamo a mettere in atto una rivoluzione dell’amore, continuiamo a mettere i cuori gli uni vicino agli altri, a sentire qualsiasi ingiustizia della terra nelle nostre vene, continuiamo a lottare per il bene di tutte e di tutti… e partiamo se ne sentiamo il desiderio e lasciamoci travolgere dall’immensa straordinarietà che vi è negli stili di vita, nelle culture diverse, nell’accoglienza, nel sentirci tutti appartenenti alla stessa terra, allo stesso mare, collaboratori di un sogno grandissimo. Quello che si realizza nell’innalzare ponti, nell’abbattere muri, nell’eliminare qualsiasi confine, nel volere una Chiesa che sia grembo accogliente, scalza. Il sogno di una Terra in cui tutti si sentano sorelle e fratelli, senza più discriminazioni, senza lasciare indietro nessuno, senza esclusioni e senza più oppressi ed oppressori, ricchi e poveri.

Un sogno che è anche il sogno di Dio, ne sono certa. Sogniamo con lui… e realizziamolo!

Maristella Tommaso


Chiang Saen

Costruita nel 545 d.C. Chiang Saen, nel Nord della provincia di Chiang Rai, era una città importante del regno di Lanna (o Lannathai) durato fino al 18° secolo. È al Nord della Thailandia, quindi nella parte verdeggiante, in cui scorrono fiumi – in particolare il famoso Mekong -, si innalzano montagne che ospitano ai loro piedi villaggi, nella parte che profuma di fiori, tutti diversi e tutti colorati, che è piena di natura incontaminata. Quasi un paradiso terrestre vero e proprio… ma anche là dove sembra tutto perfetto, in realtà si svolge la vita di chi non ha nulla, di chi vive in case di lamiera, di chi non ha un lavoro, di chi per anni ha fatto uso di droghe e ancora adesso non riesce ad uscirne.

Era a pochi chilometri dal cosiddetto Triangolo d’Oro, ai confini con il Myanmar e il Laos, luogo che per anni è stato il centro dello spaccio mondiale, della cultura dell’oppio e della sua coltivazione. Moltissima gente è stata arrestata e messa in carcere per aver fatto uso di droghe e moltissimi bambini sono cresciuti senza genitori. Il Nord della Thailandia è abitato, più che da thailandesi, da birmani dei gruppi etnici Akha e Lahu, come quasi tutte le ragazze della casa, che dal Myanmar arrivano in Thailandia come rifugiati e profughi senza documenti e senza educazione formale. Questo li taglia fuori dalle opportunità di lavoro, per cui spesso vivono nell’illegalità. Violenza e abuso di sostanze stupefacenti sono rampanti nella regione, molte famiglie vivono in estrema povertà.

L’evangelizzazione nella regione è iniziata nel 1931 con l’arrivo dei primi due sacerdoti delle Missioni Estere di Parigi a Chiang Mai, capitale della regione, diventata diocesi nel 1969. Nel 2018 è stata creata la diocesi di Chiang Rai. La comunità cristiana di Chiang Saen è seguita da missionari gesuiti.

I giovani di Missio sono stati accolti nella «Casa Lilia», dal 2013 gestita dalle Sorelle della Provvidenza (fondate a Udine nel 1837) che ospita una trentina di ragazze orfane o di famiglie molto povere.

M.T.




Esplorare lo spazio è uno spreco?

Testo di Piergiogio Pescali


Sono passati 50 anni (1969-2019) dall’arrivo del primo uomo sulla Luna. In questi decenni la «corsa allo spazio» è cambiata e si è allargata ad altri attori. La domanda però è sempre la stessa: è giusto spendere miliardi di dollari per esplorare lo spazio quando l’uomo non ha ancora risolto i problemi di sopravvivenza e convivenza sulla Terra? Con questa inchiesta cercheremo di fornire ai nostri lettori gli elementi conoscitivi per arrivare a una risposta.

ll cinquantesimo anniversario dello sbarco dell’uomo sulla Luna è stato salutato con numerose commemorazioni e non solo da parte di istituzioni governative e scientifiche. Accanto a queste, però, si è nuovamente levato un interrogativo che, sin dagli anni Sessanta, ha stimolato un dibattito destinato ancora oggi a rimanere senza risposta: è giusto spendere miliardi di dollari per esplorare lo spazio quando l’uomo non ha ancora risolto i problemi di convivenza civile sulla Terra?

La domanda, chiara e diretta, non può avere un riscontro altrettanto univoco per il semplice motivo che si sta parlando di due attività e argomenti ben distinti e separati. È però possibile, proprio partendo dalla polemica innescata dai movimenti di contestazione, intersecare e spiegare che spendere una tal quantità di denaro, alla fine porta beneficio all’intera umanità, compresi quei paesi e quei popoli che, nel contesto della Guerra fredda, venivano chiamati Terzo e Quarto Mondo.

© ESA-NASA-2016

Dallo spazio, tanti vantaggi quotidiani

I viaggi nello spazio non ci hanno portato solo conoscenze più approfondite sull’Universo e nuove risposte sul nostro passato e sul nostro possibile futuro. A parte la famosa foto della Terra che sorge dalla Luna ripresa dall’Apollo 8 il 24 dicembre 1968, considerata dalla rivista Life come una delle fotografie ambientaliste più influenti della storia dell’umanità, sono moltissimi i vantaggi che quotidianamente, senza che neppure ce ne accorgiamo, abbiamo dalla ricerca spaziale: dall’abbigliamento per proteggerci dalle temperature calde e fredde, ai Gps, dagli smartphone alle lenti antigraffio.

Altrettanto importanti a livello globale sono le riprese fotografiche e video che ci pervengono costantemente dalle centinaia di satelliti che orbitano attorno al nostro pianeta. Sono immagini che aiutano a prevedere e a monitorare disastri causati dalla natura e dall’uomo aiutando una più efficiente attività di soccorso e di protezione. È accaduto nei terremoti di Haiti, nel disastro di Fukushima, negli incendi delle foreste in varie parti del mondo, nelle alluvioni.

Sono le informazioni che ci provengono dallo spazio a darci quotidianamente lo stato della condizione ambientale della Terra. Pensiamo ad esempio ai dati che vengono forniti dagli istituti di ricerca sui cambiamenti climatici e le loro conseguenze: in condizioni normali sarebbero solo semplici numeri di difficile comprensione per chi non abbia dimestichezza con essi o con la statistica. Le riprese inviateci dai satelliti trasformano questi numeri in realtà visive rendendo più fruibile e immediata la visione globale del disastro climatico a cui stiamo andando incontro. Non solo, ma grazie alle immagini all’infrarosso dei satelliti è stato possibile trovare falde acquifere sotterranee in regioni aride del Sudan, in Kenya e Afghanistan avviando programmi agricoli che oggi sostengono migliaia di famiglie.

La ricerca spaziale è stata determinante anche nello sviluppo medico: la sterilizzazione delle camere operatorie, la risonanza magnetica, le protesi o la microchirurgia per operare piccole parti di organi umani sono tutte tecniche sviluppate grazie all’esplorazione dello spazio.

Secondo uno studio della Nasa (National aeronautics and space administration), l’implementazione tecnologica dei risultati delle ricerche spaziali limitati al solo ente statunitense, dal 2000 ad oggi avrebbe creato direttamente 19mila nuovi posti di lavoro, profitti per 5,2 miliardi di dollari, una riduzione di costi di gestione per 18,6 miliardi e salvato le vite a 450mila persone.

L’Esa (European space agency, Agenzia spaziale europea) invece, tra il 1995 e il 2016 avrebbe prodotto ricchezza per 14,6 miliardi di euro (contro un finanziamento di 8 miliardi). Oggi si calcola che ogni euro speso nella ricerca spaziale dall’Esa genererebbe 2,3 euro di profitto nell’economia europea.

 

© ESA-NASA-2017

Terzi incomodi spaziali: l’Italia e altre sorprese

Al tempo stesso, però, nel corso dei prossimi decenni, la corsa allo spazio rischia di diventare una nuova guerra commerciale riservata a quelle nazioni che oggi investono più risorse nel campo della ricerca.

Almeno fino alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, la corsa allo spazio è stata appannaggio di due sole nazioni: Stati Uniti e Unione Sovietica. Il crollo del Muro di Berlino, oltre a sovvertire il mondo economico, sociale e politico, ha cambiato anche le regole d’ingaggio della ricerca spaziale. La rivoluzione geografica ha ridisegnato i confini e alcune nazioni, come la Russia, hanno dovuto stipulare trattati con nuove entità politiche per continuare a lanciare i propri vettori nello spazio. Altri, come l’Agenzia spaziale europea, utilizzano da decenni dipartimenti d’oltremare, in questo caso la Guyana francese, in cui sin dagli anni Ottanta la Francia aveva costruito il proprio centro spaziale. L’Italia è sempre stata all’avanguardia nell’esplorazione spaziale: il nostro paese è stato il terzo al mondo, dopo Usa e Urss, a lanciare un satellite in orbita ed ancora oggi l’Università La Sapienza di Roma è proprietaria di una base di lancio (ancora potenzialmente operativa, ma inutilizzata dal 1988) e di un centro spaziale («Luigi Broglio») off shore al largo delle coste kenyote (Malindi).

Oggi sono più di settanta le nazioni i cui governi hanno istituito agenzie spaziali e tra queste troviamo paesi che mai ci aspetteremmo di elencare nella lista dei programmi dedicati allo spazio: Indonesia (dal 1964), Bangladesh (1980), Mongolia (1987), Nigeria (1988), Vietnam (2006), Venezuela (2008), Bolivia (2012) e altri ancora. Gli ultimi arrivati, in ordine di tempo, sono Arabia Saudita e Filippine, che nel 2019 hanno inaugurato istituti di ricerca spaziale nazionali. Alcuni stati comunemente annoverati tra quelli economicamente meno sviluppati hanno anche propri satelliti in orbita (Nord Corea, Filippine, Bolivia, Venezuela, Colombia, Vietnam, Nigeria, Marocco, Indonesia), mentre altri hanno già inviato astronauti su stazioni spaziali internazionali (Vietnam, Indonesia, India, Brasile, Messico).

La rivoluzione spaziale è iniziata sin dagli anni Ottanta quando istituti universitari, sulla spinta del Programma sulle applicazioni spaziali lanciato dalle Nazioni Unite nel 1982, iniziarono dei corsi dedicati a studenti provenienti da paesi in via di sviluppo. Nigeria, Marocco, Turchia, Algeria, India furono i primi a rispondere, ma in breve numerose altre nazioni capirono quanto fosse importante partecipare con le proprie forze alla ricerca spaziale.

Insomma, lo spazio, pur essendo ancora un ambiente dominato dai pochi grandi giganti economici mondiali (Usa, Russia, Europa), è sempre meno monopolizzato da questi.

Galaxy-NGC-300- © NASA

La Cina sulla luna

È pur vero però che un conto è organizzare e allestire un’agenzia che collabora alla ricerca spaziale, un altro è partecipare attivamente ai programmi di colonizzazione e di sfruttamento dello spazio.

Nel dicembre 2013 ha fatto scalpore l’invio del lander cinese Chang’e 3 sulla superficie lunare, in quanto era la prima volta che un oggetto terrestre che non fosse statunitense o russo atterrava sul nostro satellite rimanendo operativo (il 14 novembre 2008 l’India era stata la prima nazione dopo Usa e Russia a inviare un manufatto sulla luna facendolo intenzionalmente impattare al suolo confermando la presenza di acqua rivelata nel 1976 dai sovietici).

In altri contesti l’avvenimento cinese avrebbe avuto ben altra risonanza, ma il fatto che una potenza emergente considerata – a torto o a ragione – fautrice di un’economia anarchica, aggressiva e sprezzante di ogni regola che tuteli i diritti dei lavoratori, avesse raggiunto la capacità di deporre un lander e un rover sulla superficie lunare, destò più preoccupazione che ammirazione.

Nonostante Washington e Mosca avessero da tempo pensato di trarre profitto dallo sfruttamento di oggetti celesti, la presenza di un terzo incomodo come la Cina avviò una serie di speculazioni sulla colonizzazione dello spazio e dell’Universo più in generale che attecchirono profondamente sviluppando una serie di dibattiti.

© NASA-Bill-Ingalls

Corsa alla colonizzazione

Esistono diversi trattati internazionali, stipulati tra il 1967 e il 2000, che regolano lo sfruttamento delle risorse naturali situate nello spazio. In questi si vieta ai singoli stati o enti privati di prendere possesso di qualsiasi corpo celeste, di installare impianti nucleari o di distruzione di massa. Con l’intensificarsi delle esplorazioni spaziali e l’aumento delle agenzie private inserite nel contesto (noi conosciamo principalmente la SpaceX di Elon Musk, ma ve ne sono circa altre trecento che operano nello stesso campo), in un prossimo futuro si renderà necessario approntare una legislazione più stringente. La geopolitica e le relazioni internazionali avranno sempre più a che fare con materie spaziali.

Ecco quindi che, mentre enti governativi come la Nasa e le altre undici agenzie spaziali statunitensi sono incoraggiate a sviluppare tecnologie che permettano loro di divincolarsi dai sovvenzionamenti pubblici, la spesa della ricerca spaziale nei paesi in via di sviluppo è più che raddoppiata tra il 2000 e il 2012, passando da 35 a 73 miliardi di dollari.

La corsa allo sfruttamento dello spazio è iniziata e promette di essere feroce quanto lo è stata quella dell’accaparramento delle risorse sulla Terra. La Nasa stima che solo i 9mila  asteroidi che orbitano attorno alla Terra, potrebbero fruttare ciascuno tra uno e mille miliardi di dollari; la Luna è ricca di elio-3, isotopo che diverrà importantissimo quando, tra qualche decennio, sarà possibile ottenere la fusione nucleare considerata la risorsa energetica del futuro e in cui molti paesi stanno investendo sempre più risorse, mentre la corsa a Marte è sempre più affollata di contendenti che giocano anche sul low-cost con l’India che fa da capofila. La missione «Mars Orbiter Mission» dell’Isro (l’agenzia spaziale indiana) che è entrata nell’orbita di Marte nel settembre 2014 è costata solo 73 milioni di dollari, ma – come ha candidamente confermato lo stesso presidente dell’ente -, il risparmio è stato ottenuto con lunghi ed estenuanti orari di lavoro, una forte diminuzione di test a terra e tagli tecnologici. Se questa è la via che vogliono intraprendere i nuovi arrivati sarà molto difficile che possano competere con la sofisticata tecnologia, i livelli di sicurezza e i diritti dei lavoratori autoimpostisi da agenzie storiche come la Nasa e l’Esa o la stessa Roscosmos (l’agenzia spaziale russa).

Per competere economicamente con la nascente industria spaziale dei paesi emergenti, nel 2015 l’amministrazione Obama ha aggiornato lo Space Act per aumentare la competitività dello sfruttamento delle risorse spaziali (incluse acqua e minerali) anche nel settore privato, concedendo alle aziende il diritto di uso e utilizzo di pianeti e asteroidi.

Naturalmente la decisione del governo statunitense è stata oggetto di discussioni e di scontri a livello internazionale in quanto violerebbe il Trattato sullo spazio extra-atmosferico stipulato nel 1967. Questo accordo, accettato da 129 paesi, stabilisce che nessuno stato può arrogarsi il diritto di rivendicare sovranità e risorse di alcun corpo celeste; al tempo stesso, però, non proibisce ad alcuno di poter sfruttare in modo temporaneo le stesse. Il risultato è un elastico legislativo che può essere manipolato dalle nazioni e dai singoli attori privati a proprio piacimento. Basta che nessuno pianti una bandiera o un logo su un oggetto spaziale affermando di possederlo e il gioco è fatto.

La confusione delle leggi sulla colonizzazione umana dello spazio è ben esemplificata dagli impressionanti numeri di oggetti che circolano sulle nostre teste: attorno al nostro pianeta ruotano circa 128 milioni di detriti spaziali più piccoli di 1 centimetro, 900mila oggetti grandi tra 1 e 10 centimetri e 34mila oggetti maggiori di 10 centimetri.

Dallo Sputnik al Voyager

Dal 4 ottobre 1957 quando l’Urss lanciò il primo satellite artificiale – si chiamava Sputnik 1 – attorno all’orbita terrestre, l’uomo ne ha fatta di strada. Oggi la sonda lanciata dall’uomo più distante dalla Terra (Voyager 1) ha raggiunto lo spazio interstellare a 22 miliardi di chilometri dal Sole. Proprio questa sonda nel 1990 e a sei miliardi di chilometri dalla Terra scattò un’altra memorabile fotografia che è passata alla storia con il titolo datole da Carl Sagan di «Pale blue dot», pallido puntino azzurro. A molti quest’immagine non dirà molto: la Terra è un puntino di 0,12 pixel dispersa in una delle bande colorate dovute alla rifrazione della luce sulla lente della macchina fotografica. Ma proprio questa sua insignificante presenza ci permette di comprendere quanto sia delicato il nostro mondo. Quel Pale blue dot, quel pallido punto blu visto dalla periferia del nostro sistema solare a 22 miliardi di chilometri dal Sole, risulta ancora più irrilevante se rapportato all’intero Universo il cui diametro osservabile è pari a circa 8,8×1023 chilometri (880mila miliardi di miliardi di chilometri).

Su quel minuscolo, microscopico puntino disperso e sospeso nello spazio quasi otto miliardi di persone devono convivere assieme ad altre centinaia di specie vegetali e animali. Come disse Sagan, commentando quel Pale blue dot: «Non c’è nessun altro posto, per lo meno nel futuro prossimo, dove la nostra specie possa migrare (…). Vi piaccia o meno, per il momento la Terra è il luogo dove ci giochiamo le nostre carte».

È tutta nostra convenienza trattarla bene.

Piergiorgio Pescali
(prima parte – continua)




Calcio giovanile: spaccato di vita

Tdsto e foto di Marco Bello


Lo sport è un passaggio importante nella vita di bambini e i giovani. In un’epoca in cui tecnologia digitale e videogiochi tendono a tenerli sempre più fermi e con poche relazioni «vere» tra di loro. Il movimento del calcio giovanile in particolare, maschile e femminile, vive un momento di espansione nel nostro paese. Tuttavia, i comportamenti di alcuni allenatori, dirigenti di società sportive, giovani calciatori, e, soprattutto, di molti genitori, rischiano di sporcare questo fenomeno importante per la crescita individuale.

Davide Nicola, già calciatore professionista e dal 2010 allenatore di serie A, ha al suo attivo molte vittorie. Non ultima il famoso gol con la maglia del Torino che riportò i granata nella serie maggiore alla fine della stagione 2005-2006. E poi la scommessa vinta come allenatore, nella stagione 2016-2017, di mantenere il Crotone in serie A. Per celebrare questa vittoria Nicola ha compiuto un viaggio in bici da Crotone a Vigone (To), la sua città, percorrendo oltre 1.300 km e passando quasi tutte le città in cui ha lavorato come calciatore o allenatore.

Lo sguardo magnetico, che porta quasi a soggezione, in contrasto con un approccio sempre accogliente verso l’altro, fanno di Davide Nicola una persona carismatica. Sempre attento alla formazione dei giovani, nel 2010 ha fondato una società di calcio giovanile, la Vicus 2010. Parla chiaro, con una voce profonda.

Davide, perché l’idea di co-fondare una società sportiva per il calcio giovanile?

«È stato in seguito a una richiesta del comune di Vigone, che aveva il progetto di riportare un settore giovanile del calcio in città, con l’obiettivo di offrire un servizio sociale in primis, e poi, dal momento che per me è un lavoro, dare un’impronta professionistica. L’idea era creare un settore giovanile che potesse contare su valori tecnici e umani. Insieme a mia moglie Laura Profumo e agli amici Carlo Bruno e Mauro Giaveno siamo partiti per scherzo 10 anni fa, e devo dire che ci siamo appassionati tutti a questa impresa. La mia storia personale parte da Vigone, sono arrivato al professionismo da un settore giovanile di questa città, e quindi, per me c’è anche una sorta di romanticismo».

Qual è l’importanza di uno sport di squadra nell’educazione dei bambini e degli adolescenti?

«Una delle chiavi con le quali ho accettato questo incarico, era di costruire qualcosa che potesse dare ai miei figli, perché essi sono in questo settore giovanile, e ad altri ragazzi, la possibilità di costituire una palestra formativa per la crescita individuale. L’idea è far capire che lo sport è una necessità, indipendentemente dal fatto che si faccia calcio o altro, perché al suo interno c’è lo spaccato della vita, tutto quello che è confronto, competizione sana, possibilità di stare in un ambiente sentendosi a proprio agio. Non quegli ambienti che diventano nocivi e poco propedeutici alla crescita, alla formazione tecnica e umana di una persona, ma un ambiente che concorra a dare quegli strumenti che serviranno poi per la vita. Da questa premessa abbiamo costituito i vari settori per la formazione, dividendoci i compiti. Io personalmente mi occupo di lavorare insieme ai tecnici, che abbiamo cercato di far crescere, permettendo loro di arrivare al patentino che riconosce loro la possibilità di lavorare con dei giovani, e li mette nella condizione di sapere con chi stanno lavorando e perché.

Il profilo umano diventa per noi fondamentale, cerchiamo cioè quella capacità che ha una persona di donare se stessa in funzione della crescita di un’altra persona. È chiaro che le ambizioni personali in questo contesto devono essere esclusivamente orientate alla formazione del giovane calciatore. Dal punto di vista tecnico la scelta dei formatori è basata sulla capacità di riconoscere i vari passaggi delle categorie. Perché per ogni età ci sono obiettivi tecnico-tattici di formazione, ma anche obiettivi psicologici. Un giovane calciatore di 6 anni non è un giovane calciatore di 14 e se questo non è riconosciuto dal formatore si rischia di fare qualche pasticcio».

Quali valori dovrebbe trasmettere l’allenatore-formatore?

«Sono innanzitutto valori legati a una crescita individuale, ovvero portare progressivamente il giovane alla consapevolezza per quanto riguarda fare il calcio. Indipendentemente dal fatto che un ragazzino possa avere più abilità o possibilità di arrivare a settori giovanili professionistici, piuttosto che un giovane si riscopra a 20-25 anni a giocare esclusivamente per piacere con gli amici, l’addestramento tecnico deve essere uguale.

Dal punto di vista tecnico-tattico la conoscenza di tutto ciò che serve per giocare a calcio, a partire dal dominio della palla, la consapevolezza degli spazi, dall’aspetto cognitivo di ciò che accade in una partita. Dal punto di vista della formazione umana, la capacità di riconoscere che uno sport di squadra ti permette di capire che cosa significa cooperare davvero con un compagno, al fine di raggiungere un obiettivo o un risultato comune. Ti permette di avere come banco di prova un ipotetico avversario, che cerca di impedirti di raggiungere i tuoi obiettivi. Tutto questo si deve trasformare nella consapevolezza del giocatore che deve sapere cosa fare in campo, e riconoscere le difficoltà che lo sport pone, nella capacità di non demordere mai, di continuare a perseverare anche quando non si riesce a raggiungere immediatamente qualcosa, perché non sempre si ottiene “tutto e subito”. Non ci sono scorciatoie, è un messaggio che deve essere chiaro. Il percorso di un giovane calciatore non bypassa tutto ciò che è l’aspetto formativo, bisogna conquistarsi tutto con grande fatica e dedizione.

Allo stesso tempo però c’è anche la consapevolezza che cooperando in un sistema sociale, io ho delle responsabilità e chi lavora o gioca con me ha delle responsabilità. Abbiamo dei diritti e dei doveri e tutto questo fa parte di quello che è lo spaccato della società».

In questi ultimi dieci anni, hai visto dei cambiamenti nei giovani, che oggi paiono sempre più legati agli strumenti elettronici e ai videogiochi, con il rischio di isolarsi?

«Nella storia dell’uomo c’è stata un’evoluzione della comunicazione, di noi stessi come persone, dovuta a molte conquiste, non solo individuali, ma della società. Inevitabilmente è cambiato anche il modo di comunicare con i nostri ragazzi. Io non so dire se l’utilizzo dei social e della tecnologia possa aver portato a un miglioramento o un peggioramento della persona, perché secondo me è presto per dirlo. Certo ha portato un cambiamento sia nelle relazioni, sia nella capacità che oggi abbiamo di avere a disposizione tutto e subito. Inoltre di sicuro arrivano molti più input rispetto a quelli che avevamo noi alla loro età. Bisognerebbe capire, attraverso la psicologia del comportamento e l’evoluzione dell’apprendimento, se effettivamente la tecnologia inibisca l’espressione e la creatività del percorso formativo dei ragazzi.

È fondamentale porsi delle domande: quanto sono utili questi strumenti, perché sono utili, come vanno usati? Non devono togliere al ragazzo la possibilità di esprimere le proprie emozioni, mettendoci la faccia, attraverso un continuo confronto con la persona che ha davanti. L’assenza di mimica facciale, della comunicazione non verbale, è una semplificazione, perché non gli fa provare delle emozioni, ma allo stesso tempo non impara a riconoscerle e a gestirle.

Un cambiamento che ho notato, è che oggi i nostri ragazzi sono molto indaffarati, hanno molte attività, ricevono e subiscono molti stimoli. Sicuramente l’evoluzione del nostro cervello non è stata così veloce come è stata quella della tecnologia, quindi c’è il rischio che loro si difendano da tutti gli input che ricevono. Mille attività che li fanno arrivare allo sport non sempre pronti a scaricare le loro energie e pulsioni giovanili sane. Questo perché si richiede loro molto impegno in tutte le direzioni».

Le derive del calcio giovanile, spesso create dai genitori, con i loro commenti e i loro litigi, con risvolti che scadono, oltre che nella maleducazione, talvolta nel razzismo. Può gettare del discredito sul calcio giovanile?

«Forse non basterebbe un’intera puntata di talk show su questo tema. Ci sono persone molto più competenti di me. Di sicuro la deriva del calcio giovanile è in evoluzione come tutto il resto. Noi purtroppo, come movimento, abbiamo dimostrato delle pecche, ma il movimento è costituto da persone, quindi i comportamenti dipendono dai singoli. La società sportiva, ha un impatto più importante rispetto a una singola persona, quindi quando passa un messaggio, riconosciuto negativo, che diventa un comportamento accettato, è molto difficile poi non solo discriminarlo, ma anche riuscire a cambiarlo. Perché allo stesso tempo tutti noi, tendiamo a costituire un gruppo, come la società, e quindi riconoscerci in esso, con tutti i messaggi che vengono passati. Ci sono state diverse manifestazioni in cui gli addetti ai lavori si sono fermati e hanno cercato di analizzare determinate tematiche. Ad esempio, è un errore che il calcio giovanile, a mio modo di vedere, sia paragonato al calcio degli adulti. Intanto è diverso lo sport calcio dallo sport come professionismo, perché quest’ultimo è sottoposto alle logiche economiche per cui diventa un lavoro, e in questo ci sono valori che talvolta sono in contrasto. Nel professionismo può capitare che si passi un messaggio legato al rispetto, al fair play riguardo all’avversario, ma poi in gioco ci sono degli interessi economici elevatissimi, e non sempre si è coerenti nel promuovere un valore e poi dimostrarlo nella realtà.

Invece quando si parla di calcio giovanile dovremmo mettere al centro del progetto i giovani, per cui non conta tanto la conquista di un risultato, che ci deve essere, ma di una crescita individuale. Non solo in funzione di un risultato che può essere fine a se stesso: posso vincere una partita ma magari non ho conquistato un miglioramento individuale. Per i ragazzi questo è determinante. Io non potrei allenare dei ragazzi adesso, perché la mia ambizione non è quella di raggiungere una certa crescita per i ragazzi, ma è legata ad altri obiettivi, come arrivare a una determinata vetta nella carriera, o rappresentare una maglia, o conquistare un risultato per dimostrare un percorso. Ma quando si lavora con i giovani, tutto questo è secondario, anzi probabilmente non esiste neanche, diventa prioritario e fondamentale concentrarsi sul ragazzo e porsi due domande: a che punto è come livello di conoscenza e dove lo voglio portare? E poi seguire insieme a lui un percorso. E la vittoria vera è il raggiungimento di questo obiettivo di crescita. Il risultato è poco importante. Anche se una delle difficoltà più grosse con i ragazzi è insegnare loro ad essere competitivi senza perdere di vista la soddisfazione, qualora non raggiungessero il risultato, di aver comunque raggiunto un buon livello di crescita».

La società sportiva deve farsi vedere garante di certi valori, rispetto al pubblico?

«Sì, questa dovrebbe essere l’idea e molti operano in questo senso, però il mondo in cui viviamo è tale per cui spesso abbiamo comportamenti diversi. Siano essi i comportamenti di alcuni genitori, che dovrebbero avere chiaro qual è il percorso per i loro ragazzi, sia esso il comportamento di certi allenatori, dirigenti o società sportive. È utopia pensare che si arriverà a mettere al centro del progetto la crescita individuale di ogni singolo giocatore? A me vengono in mente diversi esempi di comportamenti eccessivi in partite del settore giovanile locale, per le quali non ci sarebbe da scaldarsi tanto, eppure è come noi scimmiottassimo quello che ci sta sopra, a certi livelli e lo volessimo portare nel mondo dei giovani. Quando poi, se guardi una partita di calcio di piccolissimi, se non ci fosse l’arbitro, non ci fossero i genitori, o qualcuno che li addestri a comportarsi con una certa malizia, loro non ci arriverebbero neanche. Penserebbero esclusivamente al piacere del gioco e a manifestare se stessi, in un ambiente che forse, senza presunzione, allora sì che sarebbe sano».

A un giovane o una giovane che avesse l’ambizione di diventare professionista cosa diresti?

«Intanto quando parliamo di movimento calcistico parliamo di persone, senza differenza di sesso. Direi che per prima cosa tutto parte da una passione. Non posso dare un consiglio, posso raccontare la mia storia. Io ho iniziato a giocare a calcio per una passione incredibile. Ma quando mi scopro a parlare di passione con i nostri ragazzi, mi rendo conto che se per noi è un concetto quasi immediato, con loro bisogna avere la capacità di descrivergli, anche con poche parole, cosa voglia dire. Io utilizzo un esempio semplicissimo: avete presente quando una persona fa tutti i giorni la stessa cosa e continua a farla e non si accorge del tempo che passa? Magari un’altra persona la guarda e vede che fa sempre la stessa cosa. Quella è passione, qualcosa di cui non puoi fare a meno, che non ti pesa il tempo che passi a farla. Che ti risveglia dentro sempre nuove curiosità e nuovi modi di approcciarla. E non ti pesa perché ti soddisfa, ti gratifica. La passione deve essere il primo motore che spinge il sogno di un bambino. Dopo di che non dovremmo partire dall’idea voglio diventare calciatore, questo è un prodotto della società, ovvero inculcare al bambino la possibilità di diventare calciatore perché il calciatore è in vista, ha buoni guadagni, fa una bella vita. Non è così. È molto difficile che uno possa arrivare a fare questa professione. Bisogna essere molto chiari, obiettivi. Fare capire che una potenziale professione nasce da una  passione, ma anche da un percorso molto duro e non ci sono scorciatoie. Un percorso, e lo sport lo insegna bene, che ti dimostra che tante volte, nonostante tu ti sia impegnato allo spasimo, non puoi raggiungere quello che vuoi. Così come nella vita, non tutto quello che voglio fare riesco a raggiungerlo, però ho imparato a farlo e, nel percorso che ho fatto, ho appreso determinate cose, ho formato la mia personalità, ho migliorato determinate competenze, e poi il corso della vita e la mia idea mi porteranno a scoprire piano piano quello per cui sono nato».

Marco Bello


Il libro su un campione di football (e di umanità) che non si può dimenticare

Il Mozart del calcio

Un’opera prima di un appassionato di calcio, che ci porta in Austria, tra le ceneri della prima Guerra Mondiale e il Nazismo. E ci fa scoprire un eroe, grande calciatore europeo e antinazista, Matthias Sindelar. Sarebbe utile conoscerlo di più, anche per i nostri ragazzi.

È una storia d’altri tempi, intrisa di romanticismo, ma anche di realtà storiche, quella raccontata da Danilo Careglio nel suo primo romanzo «Cartavelina». Una storia dimenticata, quella di Matthias Sindelar, un grande campione del calcio, cresciuta tra le due guerre e finita con il nazismo. Sindelar, che non si volle piegare ai diktat del regime (non fece il gesto nazista a fine partita e si rifiutò di giocare nella nazionale tedesca che aveva assorbito quella austriaca), divenuto personaggio scomodo, morì in circostanze mai chiarite il 23 gennaio del ’39 poco prima di compiere il suo 36esimo anno di età.

Careglio, classe 1970, appassionato di calcio fino al midollo, è stato calciatore per vent’anni, toccando il culmine nelle giovanili del Torino. Nel 2000 ha dovuto smettere a causa di un infortunio ed è poi diventato allenatore nel settore giovanile e di prime squadre. Secondo lui Matthias Sindelar è stato «uno dei più grandi giocatori di football di tutti i tempi». «Quando ho scoperto la sua storia, ho anche visto che poco era stato scritto e detto su di lui. Così ho pensato che sarebbe stato importante colmare questo vuoto e ho iniziato a cimentarmi nel recupero di documentazione».

Sindelar, di umili origini ceche era emigrato con la famiglia a Vienna, dove viveva in un quartiere degradato. Qui è stato scoperto dalla squadra dell’Hertha Vienna, che costituiva anche buona parte della nazionale austriaca. Il suo aspetto esile ne faceva un attaccante rapido e imprevedibile, e molti dei suoi gol sono stati dei capolavori. Fu soprannominato «Papierene», cartavelina, ma anche «Il Mozart del calcio». Anche il profilo umano che viene fuori dal romanzo è quello di una persona molto equilibrata, umile e altruista, che ha saputo gestire la consapevolezza di essere un grande campione (cosa oggi assai rara). Un uomo con principi e valori non negoziabili che, per questo, si scontrerà con il nazismo e, nonostante la sua notorietà, troverà la sua fine.

Il libro di Careglio è ben scritto, avvincente nella descrizione della vita del tempo e del contesto storico, ma soprattutto racconta la storia di un eroe dimenticato del calcio europeo.

Ma.Bel.


• Cartavelina, La storia di un grande calciatore austriaco finita col Nazismo, Neos Edizioni, 2019, €16,90.




Hawassa: Un lago di plastica

Testo di Paola Strocchio – foto di  Alessandro Lercara |


Un’esperienza positiva di lotta per la tutela dell’ambiente

È un lago tra i più belli dell’Africa, ma si sta riempiendo di bottiglie usate. Gli ippopotami le schivano e i pesci ne mangiano i frammenti. Poi gli uomini si nutrono di quei pesci. Ma una Ong italiana ha pensato a un sistema per salvare questo angolo di mondo, creando pure lavoro.

I numeri parlano chiaro: ogni anno, otto milioni di tonnellate di plastica finiscono negli oceani. Di questi otto, quasi quattro e mezzo vanno a finire nel mare che circonda l’Africa. E la situazione non è certo più rosea sulla terraferma, al punto che il continente africano sta soffocando nella plastica. Una sorta di paradosso, ma solo in apparenza: perché la plastica, simbolo per antonomasia del consumismo dei paesi più ricchi, rischia di affossare paesi che invece si ritrovano tuttora a fare i conti con situazioni economiche instabili e difficili.

Come l’Etiopia, per esempio. Nel paese con la maggior crescita economica del mondo, in passato non è mai stata presa nemmeno in considerazione l’idea di attuare un piano per la gestione dei rifiuti, in particolare della plastica. Una situazione complessa, resa ancora più delicata da una crescita demografica importante e da un tanto recente quanto incontrollato sviluppo economico.

I numeri raccontano di una crescita vertiginosa dell’impiego del Pet, il polietilene tereftalato (utilizzato per le bottiglie di plastica, ndr): dal 2001 al 2010 si è registrato un aumento di bottiglie in plastica da un milione e duecentomila a qualcosa come 21 milioni. E le previsioni sono ancora più catastrofiche: dicono che si potrebbe arrivare, già alla fine del prossimo anno, a centinaia di milioni di bottigliette in distribuzione.

La soluzione? Il riciclo pare essere l’unica strada percorribile, anche se le difficoltà non mancano.

Ci prova una Ong torinese che da quasi quarant’anni è impegnata a trecentosessanta gradi nella difesa dei diritti dei bambini, il Cifa, che proprio in Etiopia sta portando avanti un progetto cofinanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics) e, tra gli altri, dalla fondazione Otb (Only the brave, solo i coraggiosi). Nome omen, insomma, perché il progetto, che si chiama «100percentoplastica», ha obiettivi tanto ambiziosi quanto importanti: ripulire l’ambiente partendo proprio dalla plastica, una delle maggiori fonti di inquinamento a livello mondiale e anche locale.

Bottiglie nel lago

Nel Sud dell’Etiopia, nella zona di Hawassa (anche Auasa, ndr), città turistica famosa anche per il suo lago, fino a qualche tempo fa si assisteva a un fenomeno allarmante. In particolare durante la stagione delle piogge, dalle botole dei canali sotterranei presenti in città (immaginate tombini grandi il doppio di quelli che siamo abituati a vedere in Italia, ma privi di qualunque tipo di copertura), si alzavano vere e proprie montagne di bottiglie di plastica che venivano spinte dall’acqua diretta verso il lago. La penuria di acqua potabile, del resto, unita alla credenza difficile da estirpare secondo cui bere l’acqua potabile del rubinetto, può causare carie ai denti e altre malattie, ha spinto le persone a comprare acqua in bottiglie. Di plastica, appunto. E poco importa, a chi vive ad Hawassa e nei suoi dintorni, che negli ultimi anni sia stata cambiata la fonte dell’acquedotto e che quindi quell’acqua non sia più una minaccia reale, perché quella paura, quella che i denti possano diventare neri, è radicata più che mai.

«Non mi fido – ci racconta un uomo di circa cinquant’anni, Joseph, che su richiesta organizza tour turistici per chi vuole visitare l’Etiopia -. Mi hanno detto che hanno cambiato l’acqua, ma io non voglio perdere i miei denti. Mio padre, quando è morto, ne aveva soltanto quattro in bocca. Io morirò con i denti, perché bevo solo l’acqua delle bottigliette». Già, le bottigliette. Quelle stesse che, mancando un sistema di raccolta e riciclo, peggiorano un quadro già di per sé molto critico.

Intanto la natura chiede disperatamente aiuto: gli ippopotami si ritrovano loro malgrado a nuotare nel lago di Hawassa, uno degli angoli più suggestivi della zona, schivando bottiglie di plastica, giorno e notte. Immagini dolorose cui gli abitanti si sono abituati. I pesci, quegli stessi che vengono poi serviti nei ristoranti lungo il lago, si cibano anche di frammenti di plastica. E quella microplastica, dopo essere finita nell’apparato digerente dei pesci, è destinata al nostro, di stomaco. «Secondo me sono buoni lo stesso – continua Joseph -, nessuno è mai stato male a mangiare i pesci del lago».

Un progetto per salvare l’ambiente

Se è vero che le credenze e le tradizioni sono difficili da estirpare, è altrettanto vero che è urgente intervenire con un piano strutturato, per provare a contenere il problema. La strada intrapresa è quella di creare nuove figure professionali, che vengono chiamate «collector». È a loro che viene affidato il compito di raccogliere le bottiglie di plastica allo scopo di dare origine a un circolo virtuoso di riciclo e recupero.

Quelle bottiglie che sarebbero finite ammucchiate al ciglio della strada o nei fiumi e nel lago, finiscono invece in un impianto fuori città (centro di raccolta, ndr), dove vengono prima schiacciate e poi imballate. Calcolatrice alla mano, ogni bottiglia pesa indicativamente trenta grammi e in un giorno mediamente una tonnellata di bottiglie viene indirizzata in un altro centro che si trova nella capitale Addis Abeba. Si tratta di oltre 33mila pezzi. Arrivate in capitale, vengono poi trasformate in farina di pet, per rientrare nel ciclo industriale della plastica e produrre nuovi oggetti.

Insomma, un circolo virtuoso che è davvero in grado di cambiare la vita di tante persone, con ricadute positive anche sull’ambiente. E per chi ne è coinvolto il passo dall’arrancare in mezzo a una discarica comunale alla ricerca di qualcosa di vendibile o in qualche modo riciclabile, all’arrivare alla professione di raccoglitore ufficiale è relativamente breve.

«Ho capito che la plastica è pericolosa – racconta Barakat -. L’ho capito perché mi hanno spiegato che ha un tempo di deterioramento molto lungo, che rischia di creare problemi a tutti noi e anche all’ambiente. Ora, quando devo comprare un oggetto, mi fermo a pensare a quanto tempo lo dovrò usare. Se posso, cerco di fare una scelta consapevole. Soprattutto adesso che anche io faccio la collector e che la plastica la vedo da vicino. Vivo con mia madre e con le mie sorelle in un villaggio vicino ad Hawassa, e anche a loro sto spiegando che se non facciamo qualcosa rischiamo di affogare nella plastica. Grazie a questo lavoro riesco a guadagnare i soldi che mi servono per comprare i libri. Ho diciotto anni, e voglio tornare a studiare a scuola». Come Barakat, altre dieci donne sono state inserite nel progetto di riciclo e sono riuscite a conquistare una fetta di dignità: alcune di loro riescono addirittura a integrare il loro lavoro coltivando un piccolo orto e vendendone i prodotti. Altre allevano animali da cui riescono a ricavare cibo e latte, preziosi anche da rivendere.

I supereroi del riciclo

Oltre a operare sul campo, formando i collector, il progetto del Cifa, tramite i suoi operatori, sensibilizza gli studenti delle scuole, dove il terreno è più fertile. «Entriamo anche nelle scuole portando uno spettacolo teatrale che abbiamo studiato per sensibilizzare al rispetto dell’ambiente e all’importanza del riciclo – spiega Silvia Vanzetto, capoprogetto per il Cifa in Etiopia -. Anche le istituzioni hanno compreso l’importanza e l’utilità del progetto e lo hanno accolto con grande favore. Ci sostengono, e per noi è davvero molto importante».

All’interno del progetto le donne sono fondamentali. Proprio loro, spesso considerate a torto l’anello più debole della società, in particolare in Africa, hanno visto cambiare radicalmente la loro vita. C’è chi è riuscita a conquistarsi una fetta di autonomia, addirittura con la possibilità di pagare le spese scolastiche per i propri figli. E soprattutto c’è chi davvero sta comprendendo che ciascuno di noi, anche in minima parte, può dire la sua nella lotta all’inquinamento ambientale. Come Seren, che di mestiere fa la parrucchiera. «Consegno sempre la plastica ai collectors – ci spiega, orgogliosa -, e ho cambiato anche il mio stile di vita. Oltre a fare le treccioline alle donne del villaggio, da un po’ di tempo preparo anche la birra in casa. Riutilizzo le bottiglie il maggior numero possibile di volte, per non inquinare troppo. Quando non sono più adatte a contenere la birra, le consegno ai raccoglitori in modo che siano smaltite, e così riesco a dare una nuova vita alla plastica ancora prima di riciclarla».

E poi ci sono i «supereroi», quelli che raccolgono la plastica dalle strade e rendono l’Etiopia meno esposta al rischio soffocamento da plastica. Un ruolo fondamentale, il loro, che è diventato famoso anche grazie ai numerosi flash-mob che i ragazzi organizzano anche per strada. Le persone, incuriosite, si fermano, guardano e ascoltano. E spesso comprendono l’importanza del rispetto per l’ambiente, che è un patrimonio davvero universale e che merita tutte le tutele possibili.

Lo spettacolo di cui ci ha parlato Silvia racconta le minacce della plastica, anche impiegando maschere spaventose che volutamente incutono timore, ed è una rappresentazione di tutte le fasi del progetto. L’obiettivo è quello di raccontare la filiera e di invitare i ragazzi alla responsabilità dipingendo il collector come un supereroe che salva il paese dalla plastica. Gli spettatori sono soprattutto studenti e ragazzi, proprio come quelli che si trovano sul palco. Hanno tutti più o meno la stessa età, provengono da situazioni simili e riescono quindi a immedesimarsi e riconoscersi ancora di più nella rappresentazione. Ma il messaggio arriva anche agli adulti, come Seleme, il capitano della piccola flotta di battelli che navigano il lago di Hawassa, tra i più importanti della Rift Valley. «Dopo aver visto il flash-mob anti inquinamento degli studenti, sono rimasto molto colpito. Ora ho qualcosa a cui pensare stanotte». Non solo lui. Perché senza fare qualcosa di concreto la cultura del riciclo e della circolarità resterà un obiettivo mai raggiunto.

Paola Strocchio