Venezuela-Brasile. La fatica dell’addio

testi e foto di Marco Bello e Paolo Moiola |



Pacaraima e Santa Elena de Uairén sono due piccole città, distanti venti chilometri una dall’altra. La prima si trova in Brasile, la seconda in Venezuela, nel territorio indigeno dei Pemones. Siamo andati a visitarle perché da esse passano i flussi dei migranti. Warao compresi.

Boa Vista. È mattino presto. Noi siamo pronti, ma Fernando, il taxista, ancora non si vede, nonostante ci fossimo raccomandati sulla puntualità. Finalmente, ecco che si avvicina un’auto con le insegne della Cootap, la cooperativa di trasporti della città.

In pochi minuti siamo fuori da Boa Vista. Imbocchiamo la Br-174, la strada federale che dovremo percorrere per circa 200 chilometri prima di arrivare a Pacaraima, la cittadina brasiliana posta sul confine con il Venezuela.

Usciti dalla città, il traffico si fa subito molto scarso. La strada è un unico, lungo rettilineo. Con molte buche. Attorno alla Br-174 non ci sono foreste, ma vastissimi campi con terreni per lo più incolti o con vegetazione bassa. Notiamo i cartelli che indicano i nomi delle aree indigene.

Fernando guida. E parla. Ha idee molto vicine a quelle del presidente Bolsonaro.

«Una volta, qui c’erano vacche e galline. E ora? Nulla», afferma il nostro motorista. Che poi sentenzia: «Gli indigeni non seminano e non allevano. Bruciano soltanto. Fanno danni a chi vuole lavorare». Avendo udito queste parole, nessuno di noi ha il coraggio di chiedergli un commento sui Warao.

Negli ultimi chilometri del nostro viaggio verso il confine, la Br-174 inizia a cambiare. Ora ci sono boschi, curve e salite: abbiamo iniziato l’ascesa alla Serra Pacaraima, i rilievi montuosi più importanti del Nord del Brasile. I camion che incontriamo faticano a procedere e rallentano la nostra auto.

La tristezza sul volto di una donna warao a Santa Elena. Foto: Marco Bello.

Succede a Pacaraima

Alle 10 del mattino arriviamo a Pacaraima, quasi mille metri sopra il livello del mare. All’improvviso ci ritroviamo immersi in un traffico caotico. Scendiamo immediatamente dall’auto. La cittadina, fino a poco tempo fa, era un piccolo centro di frontiera di circa 12mila abitanti (Ibge, 2017). Poi tutto è cambiato con l’acuirsi della crisi del confinante Venezuela e il conseguente arrivo di migliaia di migranti. Vie strette, case basse, negozietti di ogni tipo e una folla brulicante. Notiamo subito molte macchine con targa venezuelana. Cerchiamo la parrocchia Sagrado Coração de Jesús gestita dal padre Jesús Lopez Fernandéz de Boadilla, sacerdote spagnolo molto conosciuto per il suo lavoro con i migranti (riquadro di pag. 14). La casa parrocchiale è in un cortile interno, nascosta da una casetta color arancione che funge da centro pastorale per i migranti della diocesi di Roraima.

Padre Jesús non è in sede, ma incontriamo Peggy Vivas (vedi a fine articolo), una missionaria laica venezuelana che fa la spola tra Santa Elena de Uairén e Pacaraima. È lei che ci farà da guida e da taxista.

Due bimbi warao di Santa Elena mostrano alcuni biglietti di «bolivares» (la moneta venezuelana), buoni soltanto per giocare. Foto: Paolo Moiola

Centinaia di persone in ordinata attesa

Prima di tutto occorre far visita alla grande tensostruttura eretta ai lati del campo sportivo cittadino, anch’esso occupato da tende. Si tratta del luogo dove vengono espletate le prime, essenziali, formalità burocratiche, ma non solo. Davanti ai moduli prefabbricati che ospitano i vari uffici, siedono su panche centinaia di persone, tutte tranquillamente in attesa del proprio turno. Altre sono in piedi in file ordinate per poter accedere. Sono persone di tutte le età, vestite dignitosamente, molte con grandi valigie e trolley. Vediamo diverse mamme con figli, anche piccolissimi. E notiamo una maggiore presenza di donne rispetto agli uomini.

In apparenza, quasi tutti sembrano contenti e fiduciosi, anche se stanno lasciando il proprio paese. I bagagli vengono fatti depositare in una zona controllata da due giovanissimi militari. Di fianco vediamo alcune facilitazioni per comunicare via telefono o via internet. Sui vari cartelli esposti ci sono istruzioni e scritte come «Mantenga la calma». In tutto questo, ad alto volume risuonano note di musica brasiliana.

Dalle informazioni che abbiamo raccolto dovrebbero essere tra 500 e 800 gli arrivi giornalieri. All’ufficio controllo passaporti, sono tutti venezuelani in attesa di un visto d’entrata. Noi ci mettiamo in fila per avere il timbro d’uscita dal paese.

A lato della struttura per le formalità di frontiera, ce n’è una identica per l’accoglienza dei migranti. Notiamo personale della Fraternidade international (Ong brasiliana, vedere MC marzo), delle Ong statunitensi Adra e World Vision, oltre che Acnur, Oim e altre agenzie delle Nazioni Unite.

Nella struttura non manca un ambulatorio medico, né uno spazio giochi per i più piccoli, gestito da Unicef. La presenza militare è evidente e diffusa, ma non soffocante. Un giovane soldato, con guanti monouso, distribuisce bicchieri di latte a chi è in attesa. Personale dell’Oim spiega a un gruppo di alcune decine di migranti i diversi tipi di permesso che si possono richiedere e le procedure. In un’altra area, funzionari della Fiscalisação fanno la fototessera ai migranti e rilasciano loro il Cpf (il codice fiscale brasiliano), mentre quelli di Acnur inseriscono i dati di ogni migrante in una base dati e verificano i casi di maggiore vulnerabilità. C’è ovviamente un’area adibita alle vaccinazioni obbligatorie per chi non le abbia effettuate.

Il personale di Acnur, una decina di persone, è composto da giovani estremamente disponibili. Riusciamo così a incontrare Rafael Levy, il responsabile – anch’egli molto giovane – della missione Onu di Pacaraima, che ci dà appuntamento per il giorno dopo, quando rientreremo dal Venezuela.

La tettoia sotto la quale vive un gruppo di Warao, a Santa Elena. Foto: Paolo Moiola.

Santa Elena e il territorio dei Pemones

Con passaporti vidimati e zainetti leggeri, c’incamminiamo verso la «linea», come viene chiamato il confine. È qui che, dopo una breve attesa, arriva Peggy guidando il fuoristrada con il quale andremo fino a Santa Elena. Ci avviamo dunque verso la frontiera, mentre nell’altro senso di marcia, in entrata, c’è una lunga fila di auto venezuelane. Gli occupanti del veicolo vengono fatti scendere e il bagaglio minuziosamente controllato dalla polizia brasiliana. In uscita, invece, ci sono poche macchine, tutte stracariche di mercanzia. Sono i venezuelani che fanno acquisti a Pacaraima o Boa Vista per rifornire di prodotti i negozi di Santa Elena, e non solo.

Dopo poche decine di metri superiamo la linea di confine, segnalata dai pennoni che sanciscono il passaggio da un paese all’altro. «Guardate com’è sbiadita la bandiera del Venezuela», osserva padre Kokal, la nostra guida, senza nascondere il proprio sarcasmo. Ancora poche centinaia di metri e arriviamo alla stazione della polizia venezuelana, posta su un mezzo mobile del Saime (Servicio administrativo de identificación, migración y extranjería). Il controllo dei passaporti, effettuato da tre giovani poliziotte, è rapidissimo, e gli zainetti non vengono neppure aperti. Alla dogana, dove le auto cariche sono fermate per controlli, noi passiamo veloci, anche perché Peggy qui è di casa. Stessa cosa al primo posto di blocco stradale dei militari venezuelani, a una decina di chilometri dalla frontiera: basta un saluto della nostra accompagnatrice.

Tra il confine e Santa Elena de Uairén (stato Bolívar, municipio Gran Sabana) ci sono meno di venti chilometri. La strada, quasi senza traffico, attraversa un paesaggio piacevolmente ondulato. A prima vista, la cittadina, che conta circa 30mila abitanti, sembra un luogo tranquillo.

L’auto di Peggy passa accanto a un piccolo edificio colorato con l’insegna «Seguridad indígena» e il disegno di un indiano con arco e frecce. È un posto di controllo dei Pemones, l’etnia indigena attualmente in lotta con il governo di Maduro per questioni relative allo sfruttamento del territorio, ricco di oro e diamanti.

Noi saremo ospiti dei cappuccini, poco fuori del centro e vicinissimi alla cattedrale di Santa Elena, solido edificio costruito in pietra locale. La casa dei missionari gode di una posizione sopraelevata rispetto a Santa Elena che si stende in basso, immersa nel verde. Padre Carlos Caripá, il superiore, ci spiega che la sua piccola comunità si trova già in territorio pemon.

L’interno del capannone nell’abrigo di Janokoida. Foto: Marco Bello.

I Warao di Santa Elena

Qui i Warao sono poche decine e relegati fuori dalla città, vicino alla stazione degli autobus, dove ci facciamo condurre. È il gruppo Warao Terminal

La visione non è piacevole. Il gruppo vive accampato sotto una tettoia, in mezzo a un campo incolto che quando piove diventa un pantano. Hanno steso le loro amache come meglio potevano. Per terra, vestiti, borse, alcune padelle. Sono sei famiglie con molti bambini, una trentina di persone in totale. Sono molto trasandati, hanno un livello di igiene e pulizia molto basso, così come il loro riparo è precario. È la situazione peggiore che abbiamo visto nel corso del nostro viaggio. I bambini, per fortuna, riescono ancora a divertirsi. Alcuni di loro stanno giocando con un camion di plastica, sopra e attorno al quale ci sono svariate banconote in bolivares, la valuta venezuelana, che paiono vere. Le prendiamo in mano: sono proprio vere. Gli indigeni attorno si accorgono del nostro stupore e scoppiano a ridere. Ridono perché quelle banconote non valgono la carta su cui sono stampate. Simbolo della deriva economica del paese.

Chiediamo agli adulti cosa pensano di fare: passare in Brasile, tornare nei territori di provenienza o rimanere a Santa Elena. Preferiscono restare, in attesa di tempi migliori. Difficile comprendere i motivi di questa scelta, ma ancora più difficile risulta giudicarla. Ci dicono che la proprietaria del terreno li lascia stare, mentre chi possiede la terra circostante non permette loro di coltivare. Così vivono, o meglio sopravvivono, di elemosina e piccoli aiuti.

Torniamo verso il centro, passando accanto alla gigantesca (e brutta) statua di Santa Elena. E poi a una pompa di benzina, chiusa e presidiata da militari. «Funziona soltanto alcune ore al giorno – ci spiega padre Carlos – e la benzina è razionata. In compenso, il carburante è praticamente gratuito, incentivando però un’attività di contrabbando con il vicino Brasile». Il centro, intasato di auto, si sviluppa attorno all’immancabile piazza dedicata a Simón Bolívar, piccola e alberata. In giro c’è molta gente. In una città di frontiera come questa la scarsità di beni è molto meno presente che nel resto del Venezuela. I negozi espongono merci di tutti i tipi, anche frutta e generi alimentari. Si può pagare in bolivares o in reais, la valuta brasiliana, come mostrano i cartelli dei prezzi.

Quasi tutto arriva dal Brasile. «I pagamenti con la nostra moneta sono fatti in digitale. Con le carte o usando il cellulare. Pagare in contanti sarebe veramente complicato vista la quantità enorme di denaro che sarebbe necessario portare con sé». Padre Carlos ci porta a vedere l’ospedale: da fuori la struttura pare deserta. «Non ci sono medicine – ci dice – e se abbiamo problemi cerchiamo di farle arrivare dal Brasile. I medici sono pochi e lavorano anche in ambito privato».

Un momento di preparazione alle danze che i Warao ospiti di Janokoida hanno organizzato durante la nostra visita all’abrigo di Pacaraima. Foto: Marco Bello.

Espatriare senza documenti

Al mattino seguente siamo pronti per fare il percorso inverso. Ci accompagnano anche un paio di giovani cappuccini. Sono loro che, alcuni km fuori dalla città, ci indicano un sentiero in mezzo ai campi. «Ecco, di là si passa per aggirare i controlli di frontiera. Viene chiamata “trocha”», spiegano. È usato da chi non ha passaporto (per esempio, molti tra gli indigeni warao) e da chi svolge attività di contrabbando.

Siamo di nuovo alla frontiera. Le formalità burocratiche sono rapide, ma in uscita c’è una lunga colonna di auto. Ci sono parecchi brasiliani venuti a rifornirsi di carburante alla pompa venezuelana che vende a un prezzo conveniente. Superata la «linea», passiamo nella tensostruttura per ottenere il timbro d’entrata della polizia federale brasiliana. E, di seguito, negli spazi di Acnur approntati sotto la struttura, dove abbiamo appuntamento con Rafael. L’ufficio dell’agenzia dell’Onu è un’area ricavata sotto le tende con paratie mobili, senza finestre, ma con l’aria condizionata. Sui pannelli bianchi che fungono da pareti sono stati affissi manifesti esplicativi, adesivi («Acnur ringrazia l’appoggio degli Stati Uniti» dice uno di essi), scritte in varie lingue, anche indigene. «Yakera!», si legge da più parti. Rafael non arriva, ma ci viene comunicato che abbiamo il permesso per entrare nell’abrigo di Janokoida, il rifugio per indigeni di Pacaraima.

Ballando a Janokoida

L’abrigo Janokoida («Casa grande», in lingua indigena) è distante poche centinaia di metri dal centro della cittadina ed è gestito dall’Operazione accoglienza (Operação acolhida). Sul cancello che preclude l’accesso al rifugio è appeso un cartello con le regole, mentre ai lati sventolano due bandiere, quella del Brasile e quella dell’Operação acolhida. Subito padre Kokal, che fin dall’inizio del viaggio ci accompagna nelle vesti di antropologo e traduttore, viene avvicinato da decine di Warao, donne e bambini soprattutto, per un caloroso saluto.

Janokoida è posta sul costone di una collina. In alto ci sono l’entrata, gli uffici e un capannone per gli ospiti, più sotto ci sono una tettoia con svariati fuochi (utilizzabili da chiunque) e un tendone. Accompagnati da Lis, una giovane addetta di Acnur, entriamo nel capannone dove, riconosciuto da molti ospiti, padre Kokal viene presto coinvolto in un canto e una danza collettivi.

Noi ne approfittiamo per dare un’occhiata attorno. Come a Pintolandia, il rifugio di Boa Vista, anche qui ci sono strutture in ferro alle quali gli indigeni (quasi tutti Warao) possono appendere le loro amache.

Per molti di loro il passaggio successivo sarà Boa Vista, e poi, alcuni, sempre in gruppi famigliari, proseguiranno per Manaus.

Mentre parliamo con Lis arriva anche Rafael. Un militare graduato ci gira attorno con aria indagatrice, per capire chi siamo e cosa ci facciamo lì. Ci colpisce lo sguardo perso e velato di tristezza di un’anziana warao, che sembra non capacitarsi di essere così lontana dal delta dell’Orinoco.

Marco Bello e Paolo Moiola
(4ª puntata – fine)

Un cartello dei Pemones dà il benvenuto nel loro territorio, poco fuori di Santa Elena, cittadina venezuelana a circa 18 km dal confine brasiliano. Foto: Paolo Moiola.


I Warao verso la frontiera / 1

«Quando migliorerà, torneremo»

Incontro con Peggy Vivas, missionaria laica venezuelana.

Santa Elena de Uairén. La cittadina venezuelana è l’ultima prima di giungere alla frontiera con il Brasile, che dista circa diciotto chilometri. Questo è il territorio del popolo indigeno pemón, la Gran Sabana, zona di turismo e di miniere d’oro (legali, ma soprattutto illegali).

Nel giardino interno della cattedrale di Santa Elena, sede del Vicariato apostolico del Caroní, incontriamo Peggy Vivas, missionaria laica venezuelana, «con spiritualità marista», ci specifica. Peggy ha una lunga esperienza di lavoro con i Warao, in quanto ha lavorato 12 anni con monsignor Felipe Gonzalo e padre Carlos Caripá nel vicariato apostolico di Tucupita, stato del Delta Amacuro. Nel 2014 il vescovo e padre Carlos vengono trasferiti a Santa Elena e Peggy decide di seguirli.

«In quell’anno i Warao erano già arrivati a Santa Elena. Tanto che un’insegnante di qui scherzava dicendo: i Warao hanno preparato il cammino a mons. Felipe».

Nel 2017, arriva a Pacaraima, la città brasiliana di frontiera, padre Jesús de Bombadilla, spagnolo. «Padre Jesús – racconta Peggy – inizia a motivare la gente della città affinché si mobiliti per aiutare i Warao. Questi, all’inizio, dormivano in strada, non potevano lavarsi né lavare i propri vestiti. Per fortuna, in questo suo percorso il sacerdote trova l’aiuto proprio di mons. Felipe che i Warao li conosce bene». Per diversi mesi, mons. Felipe e la sua équipe fanno la spola attraversando la frontiera per aiutare i colleghi nella nuova emergenza.

«Il Warao è molto religioso – continua la missionaria -, chiede accompagnamento spirituale. Per questo, il monsignore si recava a Pacaraima a dire messa in spagnolo per gli indigeni. Noi cercavamo di aiutare anche bambini e giovani, facendo attività prima della funzione. Finché le circostanze lo hanno consentito, lo abbiamo fatto».

Warao e Pemones

L’arrivo dei Warao in area pemón porta ad attriti, anche se non c’è un vero e proprio conflitto.

La missionaria laica Peggy Vivas davanti alla sede della Pastorale migranti a Pacaraima. Foto: Paolo Moiola.

«I Pemones sono gelosi del proprio territorio. Quando sono arrivati i Warao, ai Pemones non è piaciuto molto. Hanno cercato subito di far sapere loro che questa è la loro terra e che dovevano andarsene. Qualche conflitto c’è stato, con la comunità detta Warao Terminal (vedere reportage), un gruppo installato vicino alla stazione generale dei bus. Anche in Pacaraima sappiamo che alle autorità comunali non piaceva molto la presenza dei Warao e si sono cercati alleati per farli andare via. Alcuni Pemones hanno addirittura firmato una lettera per affermare che non volevano che i Warao si fermassero».

Nel frattempo, la comunità warao del terminal si riduce a un piccolo gruppo che viene tollerato. Alcuni di loro sono malati, i bimbi sottopeso, ma non si sa cosa vogliano fare: non vogliono tornare nel Delta Amacuro, però non hanno la forza di passare in Brasile come hanno fatto molti altri indigeni.

Peggy spiega: «I Warao sono un po’ nomadi. Quando le cose cominciarono a mettersi male nel proprio territorio del Delta, loro iniziarono a migrare nelle città venezuelane. Da lì, le autorità li rimandarono nel Delta Amacuro. La situazione peggiorò ulteriormente, e loro iniziarono a venire da questa parte. I primi arrivati ci spiegavano: “Mio figlio ha pianto tre giorni, perché non avevo nulla da dargli da mangiare. Abbiamo dovuto partire”».

Peggy ci porta la testimonianza del massimo esperto del popolo Warao, il cappuccino padre Julio Lavandero Pérez. Padre Julio – scomparso a Tucupita lo scorso 7 gennaio 2020 – affermava che i Warao vanno dove riescono a procurarsi quello che necessitano per alimentare se stessi e la famiglia. Lui spiegava che essi sono nati come indigeni raccoglitori. «Un tempo – prosegue Peggy – raccoglievano frutta, pesce, poi però tutto è diminuito e così sono migrati in città, sempre a raccogliere, ma l’elemosina per le strade. In Boa Vista e Manaus è la stessa dinamica: chiedono l’elemosina. È un popolo che forse non ha mai avuto una relazione profonda con la propria terra. Forse è perché non produce da essa, non la coltiva, ma si limita appunto a raccogliere».

I Warao finiranno per scomparire?

La missionaria si interroga su cosa ne sarà della cultura warao. «Personalmente, ho incontrato più migranti warao che dicono “quando la situazione migliorerà, torneremo nel Delta”, rispetto a quelli convinti di fermarsi qui o in Brasile. Il fatto è che la situazione non migliora. Molti indigeni raccontano che ci sono comunità che si stanno svuotando. Mi chiedete se scompariranno? Non lo so, a livello di cultura credo che si adatteranno ai luoghi e alle nuove situazioni. Può essere che, se troveranno migliori condizioni in Brasile, sceglieranno di fermarsi. Cercano alimentazione ma anche medicine. Negli ultimi tempi in Venezuela si sono sviluppate molte malattie dovute alle cattive condizioni di vita. Abbiamo notizie di tante persone – mi riferisco sia a indigeni che a non indigeni – che muoiono, perché si ammalano a causa dell’organismo debilitato o perché non sono curati. Anche la situazione emotiva non è buona. Le famiglie sono divise, molti hanno qualcuno all’estero. Questa però è una condizione che incide molto sul venezuelano, che ama stare in famiglia».

Anche Santa Elena de Uairén è cambiata. Molti venezuelani migrano qui per approfittare dei vantaggi offerti da una città di frontiera, come per esempio la reperibilità di merci introvabili nel resto del paese. Questo però ha gonfiato in modo enorme i quartieri periferici, facendo aumentare le problematiche sociali e la delinquenza comune. Alcuni poi tentano la fortuna cercando l’oro nelle miniere artigianali (e illegali) della zona. Un problema ulteriore in una situazione già molto complicata.

M.B. – P.M.

Un giovane warao lavora come barbiere nell’abrigo Janokoida, a Pacaraima. Si notino le scritte sui coloratissimi murales visibili sullo sfondo. Foto: Paolo Moiola.


I Warao verso la frontiera / 2

«Il giorno in cui ci accorgemmo di non avere più nulla»

Il viaggio di Leany, indigena warao di Tucupita.

Leany – foto Marco Bello

Boa Vista. Leany Torres Moraleda, giovane indigena warao di Tucupita, è sempre stata molto attiva e impegnata nel sociale. «A Tucupita – racconta – ero impegnata in molte attività. Collaboravo con la pastorale indigena della chiesa cattolica, ero direttrice del gruppo di ballo Eco Warao, un gruppo che fa danza autoctona ma anche contemporanea. Intanto, lavoravo come insegnante in una scuola della città. Nonostante tutto questo, guadagnavo molto poco. Il mio salario mensile bastava appena a comprare mezzo chilo di formaggio e un po’ di frutta. Il resto dei giorni cercavamo cibo, chiedendo in giro. Arrivai a essere molto denutrita, con mia figlia di otto anni che piangeva per la fame».

Leany non riesce a trattenere le lacrime. Cerca di mantenere un contegno, si sfrega gli occhi, chiede da bere.

«Decidemmo di partire un giorno in cui non avevamo più nulla. Pensammo al Brasile, perché avevamo sentito che c’era cibo e lavoro. Mia mamma non era d’accordo, ma ci disse: “Se volete andare, andate”». Era l’aprile del 2018. Molti erano i Warao che lasciavano la loro terra.

«Mentre pianificavo il viaggio, mi chiamò un’amica e mi chiese se andavamo in Brasile. Decidemmo di partire insieme». Leany viaggiava con la figlia Joisi e la nipote Liz. Si formò un gruppetto. «Iniziammo a vendere tutto quello che si poteva per avere un po’ di soldi e pagare il trasporto».

«Partimmo un martedì»

«Partimmo un martedì. Eravamo in undici e avevamo molta speranza. Il saluto alla famiglia e ai genitori fu straziante. Prendemmo il bus per Santa Elena. Pensavamo che il viaggio sarebbe stato più corto, invece c’erano molti posti di blocco. I militari fermavano il mezzo, ci facevano scendere, controllavano i bagagli. Il tragitto durò un giorno e una notte (per poco più di 700 km, ndr). Durante il viaggio, il bus si ruppe alle 3 del mattino. E poi un’altra volta, sempre nel mezzo del nulla. Però, alla fine, arrivammo a Santa Elena».

«Lì avevo un contatto. Riuscimmo a lavarci e mangiare un poco. Ma il tempo era davvero scarso. Stavamo in gruppo e ci aiutavamo a vicenda. Iniziammo a incamminarci a piedi verso la frontiera, pensando che il cammino fosse corto. Però verso l’una del pomeriggio eravamo molto stanchi (in effetti, si tratta di circa 18 km, ndr), quindi cercammo un passaggio. Eravamo rimasti in quattro. Non sapevamo quanto restava da camminare».

Leany e il suo gruppo trovarono un passaggio. «Arrivato un camion, la signora a lato del guidatore ci chiese se fossimo indigeni e dove andavamo. Disse che volevano aiutarci a raggiungere il Brasile. I due che ci portavano dissero: “Ai controlli (venezuelani, ndr) dite che siete indigeni e andate alla comunità indigena di San Antonio, dall’altra parte della linea. E così facemmo, ma la guardia ci disse: “Voi non siete di là”. E noi: “Siamo indigeni”. Ci spedirono in fondo alla fila. C’erano almeno 35 auto. Aspettammo quasi due ore. Passato il controllo venezuelano, i camionisti dissero che avremmo saltato quello brasiliano passando per la trocha (il soprannome di una scorciatoia, ndr). Ci mettemmo su una strada sterrata fatta dagli indigeni pemones.

Incontrammo un primo gruppo di Pemones che chiedevano soldi a tutti i mezzi in transito (sul loro territorio, ndr). Più avanti alcune donne indigene controllavano chi passava e anch’esse chiedevano soldi. Finalmente arrivammo dove c’erano i poliziotti brasiliani che ci fecero scendere e verificarono tutti i nostri bagagli. Alla fine ci dissero che potevamo passare. Eravamo in Brasile».

Un’addetta di Acnur ci mostra un adesivo con la scritta «Yakera!», la parola dei Warao per salutare. Con essa avevamo iniziato il nostro reportage e con essa lo terminiamo. Foto: Paolo Moiola.

Da Janokoida a Ka Ubanoko

Entrati in Brasile i migranti dovevano fare una serie di documenti per essere in regola.

«Eravamo – racconta ancora Leany – a Pacaraima, la città di frontiera. In giro c’era cibo. Noi avevamo fame ma non avevamo soldi. Trascorremmo due giorni a fare i documenti alla polizia federale, nei pressi della linea (nelle tensostrutture; vedere reportage, ndr). Furono giorni difficili, anche perché mangiavamo una volta sola: una ciotola che ci davano a mezzogiorno».

A mezzanotte del secondo giorno il gruppo fu accettato al rifugio Janokoida (reportage, ndr) di Pacaraima, dove, tra gli altri, accolgono coloro che sono bloccati in città per fare i documenti.

«La prima notte ci diedero una cena abbondante a base di pollo, riso e altro. Quando la vedemmo, pensammo: “Finalmente mangiamo!”. Ma avevamo lo stomaco talmente piccolo che non riuscimmo a finire tutto».

«Il giorno successivo raccogliemmo un po’ di soldi tra tutti e riuscimmo a pagare il passaggio per andare a Boa Vista, dove arrivammo verso mezzogiorno».

Gli indigeni cercarono quindi il centro autogestito Ka Ubanoko, dove viveva già qualche parente e amico. È qui che si sono stabiliti. In attesa di tempi migliori.

M.B. – P.M.


Questo servizio rientra nell’ambito del progetto «The Warao Odissey» eseguito da Missioni Consolata Onlus e prodotto con il contributo finanziario dell’Unione europea e della Regione
Piemonte attraverso il bando «Frame Voice Report!» del Consorzio Ong Piemontesi.


 




Come il fisico, così lo spirito

Testo e foto di Luca Salvatore Pistone |


Wat Tham Krabok è un monastero che si è specializzato in recupero di tossicodipendenti. Offre una terapia d’urto, fisica e spirituale. Molto rigorosa ma efficace. E così è frequentato da thailandesi e stranieri. E qualcuno finisce per fermarsi.

A 150 chilometri da Bangkok, nella provincia di Saraburi, poco distante dalla trafficatissima Phahonyothin Road, nascosto tra le montagne, si trova il tempio buddhista di Wat Tham Krabok. Dalla sua fondazione, avvenuta sessant’anni fa, quando la Thailandia era in pieno boom di consumatori di oppiacei, il santuario funge da centro di riabilitazione per tossicodipendenze. La terapia cui i pazienti vengono sottoposti dai monaci include trattamenti poco ortodossi, primo tra tutti la «cerimonia del vomito».

All’ingresso del tempio si trova un piccolo altare votivo pieno di fiori e piccole luci, un omaggio alla fondatrice dell’ordine monastico Tudong, una principessa thai vissuta il secolo scorso che dedicò tutta la sua vita alle opere caritatevoli. A Wat Tham Krabok tutto è perfettamente organizzato. Coloro che vogliono essere ammessi al sacro recinto devono compilare a penna un modulo dettagliato dichiarando il loro stato di dipendenza da sostanze nocive e, quindi, impegnandosi ad accettare ogni regola imposta. Lo stesso atto di abbandono degli abiti civili ha un significato simbolico e religioso: spogliandosi, si rinuncia a quanto arriva dal mondo esterno per entrare in una differente dimensione psichica prima che fisica.

Altrettanto significativo e simbolico è il fatto di mettersi a gattoni sulla grata di una fognatura, con un secchio pieno d’acqua accanto e un misurino contenente un miscuglio dal fetore insopportabile, per rigettare tutto ciò che si ha in corpo. Eee è al suo quarto giorno e ancora non si è abituato a tutto ciò. Nei primi cinque giorni di riabilitazione a Wat Tham Krabok, alle tre in punto del pomeriggio, i pazienti devono prendere parte alla cosiddetta «cerimonia del vomito»: vomitare a oltranza espellendo tutte le tossine dopo aver ingerito un intruglio di erbe amare e semi locali fatto dai monaci la cui ricetta è segretissima. Se il beverone non è sufficiente a indurre il rigetto, il soggetto si infila due dita in gola o beve acqua fino a esplodere. Il tutto, alla presenza di un vasto pubblico di monaci e pazienti che applaude alla fine del rituale.

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

La storia di Eee

Ventiquattrenne, dipendente dalle metanfetamine, Eee è uno degli ultimi arrivati a Wat Tham Krabok. «Lavoravo al mercato dei fiori di Bangkok – racconta mentre pulisce dalle foglie uno dei cortili del tempio – e le cose non mi andavano male. Poi ho cominciato a fare uso di metanfetamine e di conseguenza ad avere allucinazioni durante l’orario lavorativo. Sono stato licenziato ed è stato allora che mi sono deciso a venire qui. Non mi sono ancora abituato a tutte queste strane pratiche».

«Il miscuglio della cerimonia del vomito – spiega Richard, un monaco neozelandese da diversi anni a Wat Tham Krabok – scatena fortissime e incontrollabili contrazioni dei muscoli intercostali e addominali, provocando una sensazione di dolore e di soffocamento. I muscoli della parete dello stomaco si contraggono spasmodicamente e i contenuti vengono espulsi in una irrefrenabile crisi di vomito. Questa crisi dolorosa e provocata non è tesa solo alla liberazione fisica da ogni impurità residua dovuta agli stupefacenti, ma anche a un rifiuto psichico della dipendenza. Attraverso l’espulsione violenta, il paziente raggiunge annullamento fisico e psichico cadendo in uno stato di prostrazione che gli dona una sensazione liberatoria». La permanenza a Wat Tham Krabok è di almeno due settimane, senza la possibilità di ricoveri successivi. «Questa non è una clinica a porte girevoli» sono soliti ripetere i monaci. Alloggi e trattamenti sono gratuiti. Di tasca loro i pazienti devono esclusivamente pagarsi il vitto, che può essere consumato solo una volta al giorno alle sette di mattina. La sveglia è alle quattro e mezza mentre alle otto di sera si spengono le luci. Nel complesso del tempio è vietato fare entrare sostanze stupefacenti e alcol, come sono vietate le visite di parenti e amici. Ogni paziente deve indossare l’uniforme fornita dai monaci, un camicione di colore bordeaux con la scritta «vincitore» sulla schiena. Niente telefoni cellulare né tablet. Gli unici svaghi concessi sono un pallone da calcio sgonfio, un tavolo da ping pong malconcio, qualche chitarra scordata e un televisore sintonizzato su uno dei canali nazionali thailandesi. È proibito mettere piede fuori dal perimetro del tempio: in più occasioni i monaci hanno scovato piccoli spacciatori, nascosti tra i cespugli, intenti a offrire droghe ai pazienti.

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

Spiritualità e terapie

Nella cura delle tossicodipendenze, Wat Tham Krabok racchiude un misto di spiritualità e terapie fisiche di forte impatto. Quello del vomito è il trattamento più invasivo, ma la terapia dei monaci buddhisti non si limita a esso. Il primo giorno il nuovo arrivato viene sottoposto alla cerimonia del sajta, il sacro voto di astinenza. Alla presenza di un monaco anziano, i pazienti giurano solennemente di rinunciare a ogni sostanza stupefacente. Il religioso scrive su dei foglietti il nome e la promessa dei novizi e li inserisce in un braciere che accende con dei lunghi fiammiferi. Al temine di una nenia tra il canto e la preghiera, il monaco porge il braciere a una statua del Buddha. È così che il voto diventa sacro – chi lo infrange non potrà più mettere piede a Wat Tham Krabok – e il sajta si conclude.

Ancora, la «cerimonia della sauna». Seguiti a vista dai monaci, i pazienti escono dall’area dormitorio e si recano all’area sauna che è composta da due stanzini che hanno una tenda nera in cotone pesante come porta. Il calore al loro interno è prodotto da un forno a legna situato sul retro della struttura. Ammassati l’uno contro l’altro, i pazienti devono realizzare tre sessioni di sauna di cinque minuti l’una, intervallati da pause di due minuti durante le quali è possibile trovare sollievo con dell’acqua gelata.

«La temperatura all’interno degli stanzini – dice stremato Peter, svedese al penultimo giorno di ricovero – sfiora i cento gradi e non sono rari i casi di mancamenti. Io stesso la prima volta sono svenuto. I monaci mi hanno rianimato con dei sali. Gran brutta storia… Bisogna fare dei sacrifici per rimettersi in forma e io sento di essere ormai a buon punto. Non avrei mai detto che uno stile di vita così spartano avrebbe risolto i miei problemi».

Non molto distante dalla zona sauna c’è un rudimentale laboratorio di artigianato. «Questa officina – racconta Phra Kru Vichit, uno dei monaci anziani – è un altro dei nostri fiori all’occhiello. Insegniamo ai nostri pazienti a creare opere d’arte servendosi di oggetti riciclati».

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

Storia e numeri

Wat Tham Krabok nacque nel 1959. L’idea di rendere un tempio buddhista un luogo di disintossicazione fu – precisa Phra Kru Vichit – «una scelta dettata dal fatto che a quei tempi il maresciallo Sarit Thanarat (primo ministro della Thailandia dal 1957 al 1963 in seguito ad un colpo di stato da lui attuato, nda) aveva lanciato una feroce campagna contro le coltivazioni di oppio. Migliaia di oppiomani ed eroinomani vennero giustiziati e così i monaci si sentirono in dovere di aiutare queste persone».

Il centro raggiunse una grande popolarità nel 1997, quando la Thailandia assistette a un boom della dipendenza da metanfetamine. La terapia prevede anche mezzora al giorno di meditazione guidata da un monaco. Di norma presso Wat Tham Krabok ci sono in cura una trentina di persone alla volta, ma è capitato spesso di superare quota cinquanta. Il tempio non riceve sovvenzioni statali e va avanti solo grazie agli sforzi dei suoi quasi duecento monaci.

I numeri di Wat Tham Krabok sono davvero impressionanti. Dalla sua fondazione, oltre 110mila tossicodipendenti sono stati presi in cura. Continua Phra Kru Vichit: «Oggi il novanta per cento dei nostri assistiti completa il programma e il sessanta per cento per tutto l’anno successivo alla terapia rimane lontano dalle droghe. Per noi il tossicodipendente non è un semplice malato che necessita di cure fisiche ma è essenzialmente un uomo che deve ritornare alla pace attraverso la rinuncia, la purificazione e il sacrificio. Abbiamo avuto molti pazienti che dopo avere seguito il trattamento hanno deciso di farsi monaci, circa il venti per cento del totale. Il fatto che molti nostri monaci siano ex pazienti crea una certa empatia con i nuovi arrivati».

A tal proposito, Phra Kru Vichit convoca un altro monaco anziano con braccia e petto coperti da tatuaggi. Il religioso chiede di celare il suo nome. «Sono qui da trent’anni – dice – e posso dire che Wat Tham Krabok mi ha salvato la vita. Da ragazzo non ho mai lavorato e mi facevo di ogni cosa. Una notte, durante una violentissima retata della polizia, mi salvai per un pelo. Fu allora che mia madre mi supplicò di venire al tempio. Mai scelta fu più giusta. La nuova dimensione conosciuta grazie ai monaci mi ha fatto capire che un nuovo corso era possibile. Da allora non ho mai lasciato i miei confratelli. Oggi, oltre a occuparmi della mensa, aiuto i nuovi arrivati ad ambientarsi al meglio. Capisco perfettamente cosa hanno passato».

Il monastero tratta un numero sempre maggiore di pazienti dipendenti dallo ya-ba, un mix potentissimo di metanfetamine e caffeina. Lo ya-ba, il cui significato in lingua thai è «droga della follia», ha incontrato larga diffusione non solo in Thailandia ma anche al di fuori del territorio asiatico.

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone

Pazienti dall’estero

I portentosi risultati del tempio attirano ormai da anni anche pazienti dall’estero, soprattutto da Stati Uniti, Australia ed Europa settentrionale. Danielle, inglese, è all’ultimo giorno di ricovero a Wat Tham Krabok per alcolismo, dice: «Ho scoperto questo posto meraviglioso perché avevo letto in rete che Pete Doherty (il noto musicista britannico leader della band punk Libertines, nda) ci era stato tempo fa senza però resistere alla terapia oltre il terzo giorno. Mi sono informata e alla fine ho trovato molte critiche positive. All’inizio è stata davvero dura ma, trascorsi i primissimi giorni, ho cominciato ad abituarmi. È stato solo dopo aver espulso tutto il marcio che avevo dentro attraverso le sessioni di vomito e sauna che ho davvero apprezzato questo luogo di pace. Ho potuto riscoprire me stessa, rinascere, ma senza un reale sforzo personale non si va da nessuna parte. Adesso voglio solo rimanere pulita e proseguire il mio percorso interiore».

«Ci si prospetta una nuova vita – le fa eco Andrew, statunitense, al tempio per la sua dipendenza da metanfetamine e cocaina -. Devo ringraziare mia moglie che ha trovato questo centro navigando su internet e mi ha convinto a venirci. È stata un’esperienza meravigliosa, più intensa di quelle provate nei centri di disintossicazione conosciuti prima nel mio paese. Ho imparato molto, ho visto molto. Sono stato in grado di capire chi sono davvero. Non sono buddhista, ma ritengo che la meditazione, la disciplina e la semplicità del tempio mi abbiano fatto elevare a uno stato superiore».

A contribuire alla straordinarietà di Wat Tham Krabok è il complesso di statue del Buddha all’ingresso del santuario. Sculture fatte di un composto di ossidiana e altri minerali meno nobili, che vanno dai venti ai quaranta metri di altezza e che sono state interamente fabbricate dai monaci. «Lasciano senza fiato, vero? – riprende la parola Danielle – Io rimango estasiata ogni volta che le osservo. Pensare che delle persone così pacate possano arrivare a fare tanto è strabiliante. Sono uomini unici questi monaci. Sono stati in grado di aiutarmi, riuscendo a fare qualcosa in cui molte cliniche pubbliche e private europee avevano fallito».

Luca Salvatore Pistone

Thailandia, monastero disintossicazione. Foto Luca Salvatore Pistone




La Cina è grande, ma non ha spazio per noi

testo di Luca Lorusso |


Un uomo di 37 anni, una donna di 30. Entrambi cinesi e fedeli della Chiesa di Dio Onnipotente, nuovo movimento religioso perseguitato in Cina. Sono richiedenti asilo in Italia con il rischio concreto di essere espulsi.

Un dialogo con due perseguitati

«A giugno del 2003, mentre andavo a un incontro di preghiera, la polizia mi ha fermato per un controllo. Nel mio borsello hanno trovato il libro sacro della Chiesa di Dio Onnipotente, e me l’hanno portato via. Arrivati al posto di polizia mi hanno fatto un interrogatorio per avere informazioni sui miei fratelli [di fede, nda], ma io non ho dato nessuna informazione, così mi hanno tirato uno schiaffo, mi hanno preso a calci e pugni e poi mi hanno portato in un posto segreto».

L’uomo che ci parla via Skype dalla sede dell’associazione della Chiesa di Dio Onnipotente (Cdo) di Milano, dice di chiamarsi Marco (nome di fantasia), richiedente asilo per motivi religiosi di 37 anni, proveniente dalla Cina. Capisce poco l’italiano e lo parla ancora meno. Si fa aiutare da una giovane «interprete», sorella della sua stessa fede, seduta alla sua sinistra, con qualche difficoltà in meno nella lingua.

foto in CC da evanse1_flickr – https://www.flickr.com/photos/145837323@N08/39243506842/

Fedeli a Dio Onnipotente

Marco indossa una t-shirt a righe orizzontali bianche e grigie. È un po’ spettinato. Il suo volto sembra sereno, nonostante quello che ci racconta. Appare come un uomo molto semplice. Accanto a lui, alla sua destra, c’è Vivian (altro nome di fantasia), donna di trent’anni dal viso tondo e un po’ dolente. Indossa una camicetta color panna, con motivi floreali. Anche lei si fa aiutare nelle traduzioni da un’altra giovane cinese dall’italiano incerto, Sabrina.

Marco e Vivian sono fuggiti entrambi nel 2015 dalla Cina a causa della persecuzione.

Tutti e quattro sono membri della Cdo, un movimento religioso nato in Cina nel 1991, e dal 1995 perseguitato con crescente violenza dal regime del Partito comunista cinese (Pcc).

Attualmente i seguaci di questo nuovo movimento sono circa 4 milioni, soprattutto in Cina. Secondo un rapporto pubblicato dalla stessa Cdo, «tra il 2011 e la fine del 2019 sono stati arrestati dalle autorità cinesi più di 400mila cristiani della Chiesa di Dio Onnipotente».

Reclusione arbitraria

Marco prosegue il suo racconto: «Arrivati in quel posto segreto, la polizia voleva informazioni sulla chiesa. Mi ha ordinato di divaricare le braccia e le gambe, anche se mi mancavano le forze per sostenermi. Il poliziotto mi ha schiaffeggiato diverse volte, poi mi ha picchiato sulla testa usando un libro. Mi ha colpito il viso. Mi ha proibito di andare in bagno. Mi ha coperto di insulti. Senza nessun tipo di processo legale, il governo mi ha condannato a un anno di lavori forzati con l’accusa di avere violato l’articolo 300 del codice penale [quello che definisce reato l’appartenenza a una delle xie jiao, le “sette malvagie” considerate associazioni sovversive, tra le quali figura anche la Cdo, nda].

Nella prigione, i poliziotti hanno istigato gli altri detenuti a tormentarmi. Sono stato costretto a spogliarmi completamente e a mettermi a gambe e braccia divaricate, poi mi hanno quasi soffocato puntandomi un getto d’acqua sul viso.

In prigione, i credenti sono considerati criminali politici, e quindi i secondini e i prigionieri m’insultavano e maltrattavano.

Quella in cui ero recluso, era una struttura di rieducazione. Si viveva una vita inumana: in 50 metri quadrati stavamo in più di 70 persone. Le condizioni igieniche erano pessime. Ogni giorno dovevo fare 14 ore di lavori forzati in una fabbrica di pelletteria per scarpe. Solo la Parola di Dio Onnipotente mi ha dato fede e forza per sopportare quella vita in prigione».

Una vita latitante

Marco è stato informato del motivo della sua condanna, ma non ha mai visto un avvocato, né un giudice: «In Cina, i comunisti non rispettano la legge. Se una persona crede in Dio, non ha diritto di difendere i suoi diritti. Non ho potuto difendermi in nessun modo».

La prima volta che Marco ha potuto rivedere i suoi famigliari è stata tre mesi dopo l’arresto. Le visite erano concesse una sola volta al mese. Gli incontri avvenivano attraverso un vetro, e Marco poteva parlare con i suoi famigliari tramite un telefono.

«Dopo aver lasciato la prigione, io, mia sorella e i miei genitori siamo stati costretti ad andare a vivere in un’altra provincia per continuare la nostra vita. Io poi non avevo la carta d’identità, nessun documento. Non potevo lavorare né affittare un appartamento in modo regolare. Però vivevo la mia vita e la mia fede.

In Cina, i documenti dei credenti che sono stati arrestati sono bloccati. Sono registrati dalla polizia su internet, quindi io non potevo usarli per fare altre cose.

Dal 2004 al 2012 sono stato senza documenti, poi, nel 2012, con l’aiuto di un amico che aveva le conoscenze giuste, sono riuscito a fare il passaporto. Nel 2015 un fratello di fede che viveva con me, è stato arrestato. Di conseguenza anche io ero in pericolo. Allora ho deciso di scappare». Il 2015 è stato l’anno dell’Expo di Milano e del giubileo straordinario. In quell’anno era semplice ottenere un visto per l’Italia. «Con l’aiuto dell’amico che mi aveva procurato il passaporto, ho ottenuto un visto e sono partito per fare richiesta di protezione internazionale in Italia».

Paura di tornare

La questione del passaporto è spesso uno dei punti critici per l’ottenimento dello status di rifugiato in Italia. Le commissioni territoriali, e poi i tribunali dei ricorsi, si domandano come sia possibile per una persona «schedata» ottenere un regolare passaporto dalle stesse istituzioni che perseguitano. È opinione comune di chi si occupa di questa tipologia di richiedenti asilo, però, che l’alto livello di corruzione in Cina possa aprire maglie abbastanza grandi nella fitta rete dei controlli.

Oggi Marco è in attesa della sentenza della cassazione sulla sua richiesta di asilo, dopo il diniego in prima istanza e la perdita del ricorso in appello. Grazie al permesso di soggiorno temporaneo, lavora come rider per un ristorante, consegnando cibo a domicilio, e ciò che guadagna lo usa anche per pagare l’avvocato. Marco ci racconta che finalmente in Italia può vivere liberamente la sua fede, ma che comunque continua ad avere paura: ad esempio per i genitori e la sorella, anch’essi credenti in Dio Onnipotente, rimasti in Cina e mai più sentiti dal momento della sua partenza per evitare di essere intercettato dal governo che controlla telefono e internet, e quindi creare problemi ai suoi. La sua paura più grande, poi, è quella (concreta) di essere espulso e di dover tornare in Cina, dove è certo che verrebbe nuovamente arrestato.

foto in CC da guandoandelei_flickr – Una cristiana indonesiana femminile espresse i suoi sentimenti dopo aver creduto in Dio Onnipotente – https://www.flickr.com/photos/160458804@N06/32309036097/in/photostream/

La storia di Vivian

Mentre Marco parla, alla sua destra intravvediamo Vivian, inquadrata a metà dalla webcam, che annuisce a tutte le parole di Marco. Quando ci rivolgiamo a lei, Vivian sposta la telecamera su di sé e inizia il racconto: «L’11 dicembre 2011 stavo andando a un incontro di predicazione del Vangelo con alcune sorelle che lavoravano nella stessa azienda, ma siamo state arrestate. La polizia non ha mostrato nessun documento, però ci ha costrette a salire su un’auto e ci ha portate in una caserma. Lì, ci minacciavano dicendoci che in Cina non possiamo credere in Dio, ma solo nel Pcc. Poi ci hanno portate in un posto dove non ci hanno dato da mangiare e bere. Quella sera il direttore dell’azienda è venuto in caserma per salvarci. I poliziotti ci hanno minacciate dicendoci che se avessimo continuato a credere in Dio, saremmo state arrestate di nuovo e condannate. Al direttore della compagnia, invece, hanno detto che doveva convincerci a rinunciare alla nostra fede».

Quando Vivian è tornata nell’azienda, i colleghi non le parlavano e lasciavano in vista giornali con informazioni negative sulla Chiesa di Dio Onnipotente: «Il governo cinese ha fabbricato false notizie sulla Cdo, e le divulga».

Dato che la situazione era sempre più pesante, a un certo punto la donna ha deciso di rinunciare al lavoro e di trasferirsi in un’altra città.

Pregare nascosti

«In Cina non possiamo vivere la nostra fede apertamente. Normalmente per pregare ci troviamo in tre o quattro persone a casa di un fratello. Quando si entra, si controlla che non ci sia nessuno che ha visto, poi si chiudono porte e finestre per non far sentire le voci, e lasciamo qualcuno fuori a fare il palo. Tra fratelli non usiamo internet e telefono, scriviamo lettere da portare a mano.

Nel giugno 2013 il governo ha arrestato il capo locale della Cdo e alcuni fedeli della regione nella quale mi ero trasferita, e sono stati condannati. Quel capo aveva informazioni su di me, quindi mi sentivo in pericolo. Allora mi sono di nuovo trasferita in un’altra provincia, e mi sono nascosta in una casa. Sono stata nascosta 14 mesi. Mi mancavano i miei genitori, ma non osavo fare una chiamata. Non osavo fare niente».

Vivian è diventata credente della Cdo nel 2012. I suoi genitori, invece, lo erano già dal 1998. Quando parla di loro, ha la voce rotta dalla commozione, e si asciuga le lacrime: «Non li ho mai più sentiti. Anche mia mamma nel gennaio 2013 è stata arrestata. Da quando è stata rilasciata non ho avuto più contatti. In quel periodo avevo molta paura: il governo continuava ad arrestare membri della chiesa che sapevano dove vivevo, quindi ogni volta dovevo cambiare casa. In questa situazione ho deciso di andare all’estero. Anche se la Cina è grande, per i credenti non c’è un posto per vivere.

Nel 2015 grazie a un amico che lavorava nella polizia e che poi è stato condannato, sono riuscita ad avere il visto per l’Italia e sono partita».

Richiesta di asilo

Vivian, quando viveva in Cina era designer per un’azienda di scarpe. Ora, in Italia, lavora nei fine settimana in un ristorante. Ci tiene a dire che usa molto del suo tempo libero per fare volontariato: «A Roma, a Torino e a Milano, i fedeli della Cdo organizzano attività religiose, oppure iniziative per promuovere i diritti umani o i diritti della donna. Gli Italiani sono sempre molto gentili e ci aiutano. Quando ho tempo, vado volentieri a fare volontariato per aiutarli».

Anche la sua domanda per il riconoscimento dello status di rifugiata è stata respinta. A differenza di Marco, che è già all’ultimo passaggio, lei è in attesa della sentenza di secondo grado. «Sto facendo il ricorso al tribunale dopo il rifiuto della mia richiesta», ci dice, poi il suo volto si scurisce: «Quando ho fatto il colloquio con la commissione, non mi lasciavano raccontare la mia storia. M’interrompevano. Mi facevano domande sui miei genitori. Non ho potuto raccontare la mia storia completa».

Marco interviene per dirci che anche a lui è successa la stessa cosa: «A causa della pressione del Pcc sui paesi stranieri, e delle notizie false prodotte dal governo cinese, è difficile per i rifugiati cristiani ottenere l’asilo. Io ho sperimentato la persecuzione del Pcc, ma la commissione territoriale alla quale mi sono rivolto non l’ha riconosciuta e non ha accettato la mia domanda. In commissione, è successo anche a me che mentre raccontavo sono stato interrotto».

Rischio espulsione

«In Italia la situazione per la fede religiosa è migliore che in Cina», dice Marco. «Qui posso parlare della mia fede. Come ha detto Vivian, in Cina non posso raccontare quello in cui credo, non posso predicare il Vangelo, perché il Pcc incoraggia a denunciare i credenti. La situazione è molto pericolosa.

La mia richiesta di asilo in Italia è stata rifiutata due volte. Se anche la cassazione dovesse rifiutarla, la mia situazione sarebbe grave. So di altri che sono stati rimandati in Cina, anche da altri paesi, e sono stati arrestati di nuovo e condannati a tre anni e anche di più. Ho sognato diverse volte la scena di essere di nuovo arrestato. La mia speranza è che il giudice accetti la mia richiesta per rimanere in Italia e poter continuare a vivere la mia fede».

«In Italia sono più tranquilla», conclude Vivian, «ma sono comunque ancora preoccupata, perché qui la libertà religiosa è garantita, ma la mia richiesta di asilo è stata rifiutata. Se anche il ricorso che ho fatto venisse rifiutato, sarebbe molto brutto. Ho molta paura di essere rimpatriata in Cina».

Luca Lorusso

Archivio MC sui richiedenti asilo cinesi in Italia:
Luca Lorusso, Dalla Cina all’Italia, rifugiati per religione, in MC agosto 2019.


La Chiesa di Dio Onnipotente

La Chiesa di Dio Onnipotente (Cdo) è un nuovo movimento religioso cinese, fondato nel 1991 da Yang Xiangbin, donna nella quale, secondo la fede dei suoi credenti, si è incarnato Dio Onnipotente.

Nata nel 1973 nella Cina Nord Occidentale, dal 2001 Yang Xiangbin è rifugiata politica negli Usa insieme al numero due della Cdo Zhao Weishan.

La Cdo è nota anche come Folgore da Oriente o Lampo da Levante, definizione che viene dal Vangelo di Matteo (24,27) che profetizza la seconda venuta di Cristo: «Come la folgore viene da Oriente e brilla fino a Occidente, così sarà la venuta del figlio dell’Uomo». Il dato dottrinale di fondo, infatti, è la nuova incarnazione di Cristo in Cina per inaugurare la terza Età dell’umanità.

Alcuni studiosi definiscono questo credo come «cristiano», con una teologia che differisce dalle chiese tradizionali per diversi aspetti, ma che per altri sembra radicata nel filone del protestantesimo. Yang Xiangbin, infatti, prima di rivelarsi come Dio Onnipotente, era membro degli Shouters, una delle molte chiese domestiche diffuse (e perseguitate) in Cina e nate da rami fondamentalisti delle chiese riformate.

La donna, nel febbraio 1991, durante alcune riunioni degli Shouters, ha cominciato a parlare della realizzazione del Regno di Dio Onnipotente. Le sue parole, da subito, sono state considerate da molti come ispirate dallo Spirito Santo e paragonate per autorità e potenza a quelle di Gesù Cristo.

La diffusione delle parole di Dio Onnipotente ha subito poi un’accelerata grazie a Zhao Weishan, nato nel 1951, leader di un ramo degli Shouters, «convertito» alla nuova rivelazione e divenuto, di fatto, la guida principale della Cdo, dopo Yang Xiangbin.

La Cdo è stata inserita dal governo cinese nella lista degli xie jiao, i «culti malvagi», già nel 1995. In seguito alla persecuzione, nel 2000, i due leader Yang e Zhao, hanno raggiunto gli Usa, dove nel 2001 hanno ottenuto asilo politico.

Nonostante la rigidità della dottrina, le «purghe» interne che pare abbiano portato nei decenni ad alcune centinaia di migliaia di espulsioni, e nonostante le persecuzioni del Pcc, la Cdo ha continuato a crescere fino a raggiungere la cifra stimata di 4 milioni di fedeli.

Dal 2014, la persecuzione si è inasprita, tanto da spingere molti a fuggire e a fondare comunità in tutto il mondo.

Teologia

Il testo sacro fondamentale della Cdo è La Parola appare nella carne, pubblicato nel 1997. Contiene una raccolta di affermazioni di Yang Xiangbin, cioè Dio Onnipotente, il Signore Gesù ritornato per inaugurare la terza età dell’umanità, l’Età del Regno. Le prime due sono state l’età della Legge, cioè l’epoca dell’Antico Testamento, e l’età della Grazia, iniziata con la vita pubblica di Gesù. La Bibbia cristiana non viene rinnegata, ma riconosciuta come scrittura «imperfetta» delle due età della Legge e della Grazia.

Se con Gesù i peccati degli uomini sono stati perdonati, però la loro natura depravata non è stata cancellata.

Nell’Età del Regno, Dio si fa carne in Cina per compiere in modo definitivo la sua opera e rendere perfetto un gruppo di persone. Non vi sarà un’altra incarnazione di Dio dopo quella attuale in Dio Onnipotente.

Negli ultimi giorni, quando un gruppo di credenti sarà reso perfetto, i giusti saranno riconosciuti e i malfattori additati, Dio Onnipotente distruggerà la natura peccaminosa degli uomini, ed entrerà nel riposo eterno insieme ai perfetti.

L’età del Regno è l’ultimo periodo di purificazione, al termine del quale ci sarà il Regno Millenario: quando Dio Onnipotente tornerà al Cielo, seguiranno le catastrofi annunciate nell’Apocalisse. Ma la Terra non sarà distrutta, bensì trasformata per essere la dimora eterna dei seguaci purificati di Dio che vivranno per sempre nel Regno di pace e bellezza.

Cdo e comunisti

La teologia della Cdo identifica il Partito comunista cinese con il «grande drago rosso» dell’Apocalisse. Il Pcc, infatti, oppone resistenza a Dio perseguitando i fedeli proprio come la figura menzionata nell’ultimo libro della Bibbia. Detto questo, però, la Cdo è anche convinta che il drago cadrà da solo sotto il peso dei propri errori, quindi non è necessario ribellarsi, e anzi vieta ai fedeli di prendere parte a qualsiasi attività politica. Il fatto quindi che il governo cinese tema un’attività eversiva di questo movimento religioso, non ha un fondamento concreto.

Le persecuzioni

A inizio 2020 la Chiesa di Dio Onnipotente ha pubblicato un rapporto sulle persecuzioni subite in Cina dai suoi fedeli. In esso si legge: «Tra il 2011 e la fine del 2019 sono stati arrestati dalle autorità cinesi più di 400mila cristiani della Chiesa di Dio Onnipotente, ed è ampiamente documentato che i credenti morti in seguito alle persecuzioni dalla fondazione della Chiesa sono 146».

Secondo il rapporto, nel solo 2019 almeno 32.815 fedeli della Cdo hanno subito qualche forma di persecuzione, 6.132 sono stati arrestati, 4.161 dei quali detenuti per brevi o lunghi periodi e 3.824 hanno subito torture e indottrinamento forzato. Sono stati condannati 1.355 membri, 481 dei quali a pene di 3 anni o più, 64 a pene di 7 anni o più e 12 a pene di 10 anni o più. Tra gli arrestati, il rapporto c’informa che il più giovane aveva 14 anni, il più vecchio 86. «Nel 2019 almeno 19 cristiani della Chiesa di Dio Onnipotente sono morti a causa della folle caccia all’uomo[…]. Alcuni per le torture subite durante la detenzione; altri hanno contratto malattie gravi ma sono rimasti ugualmente reclusi e alla fine hanno perso la vita per il peggioramento delle loro condizioni dopo essere stati assoggettati a prolungati maltrattamenti e lavori forzati […]».

Il sito d’informazione Bitter Winter riferisce che «a tutto giugno 2019, 2.322 fedeli della Chiesa di Dio Onnipotente hanno chiesto asilo nei paesi dell’Unione europea. Sebbene alcune recenti decisioni giudiziarie siano incoraggianti, finora l’asilo è stato concesso solo a 265 di loro, ovvero l’11,4%. […] Nell’Ue, 307 rifugiati hanno ricevuto ordini di rimpatrio e rischiano ogni giorno di essere rimandati in Cina, 227 di loro si trovano in Francia. Alcuni sono stati effettivamente espulsi. Studiosi e Ong hanno documentato che quando coloro che vengono espulsi giungono in Cina, normalmente vengono arrestati o “scompaiono”».


Due libri per conoscere:




Sudafrica: Città di «serie B»

testo e foto di  Alessio Cassaro |


L’eredità dell’apartheid è la segregazione di classe. Nelle township vive confinato il 70% della popolazione di Cape Town. Uno dei problemi sono i bambini in stato di abbandono. A Marikana, Leonard cerca di recuperarne alcuni.

La bellezza di Cape Town e la sua popolosità sono un biglietto da visita importante per quella che, nel 2018, è stata eletta come la città da visitare più interessante al mondo. Numerose sono le attrazioni che portano milioni di visitatori ogni anno: dalle istituzioni accademiche al fermento artistico, passando per le Winelands («Terre dei vini») famose in tutto il mondo, alle immense bellezze naturalistiche, la città è diventata un punto nevralgico del continente.

La gigantesca metropoli di Western Cape, la più grande della sua provincia, non si sottrae però a contraddizioni vive e spesso esasperanti.

L’altro lato della facciata patinata, fatta di cocktail bar e di uno stile di vita glamour, è infatti rappresentato dalle township (baraccopoli) che circondano la città in cui milioni di persone (in tutto il Sudafrica complessivamente sono più di 47 milioni) vivono ancora in un stato di segregazione socio economica totale, a dispetto della fine dell’apartheid.

Classismo e razzismo

Fu proprio l’apartheid che deportò intere comunità di «non white» (non bianchi) ai margini della città (per favorire l’installazione dei bianchi) e della società stessa. Oggi si è passati dal razzismo al classismo mantenendo le pratiche discriminatorie di prima. Il costo proibitivo delle abitazioni e l’alto tasso di disoccupazione (50% nelle township, 27% nel Sudafrica) non sono però gli unici fattori che determinano questo confinamento. I legami/obblighi con la comunità sono talmente vincolanti che anche i più abbienti si preoccupano di non lasciare nessuno indietro, occupandosi gli uni degli altri per far fronte al totale disinteresse del governo e per evitare il diffondersi di droga e criminalità.

Le township (chiamate anche The zones) distano circa 30 minuti dalla parte moderna di Cape Town. Passando da un’area all’altra si percepisce un netto contrasto con la zona dei grattacieli e dei quartieri post coloniali. Si attraversano strade ad alta percorrenza dove il panorama assume gradualmente i contorni metallici di baracche fatiscenti immerse in una giungla di cavi, travi e materiali di fortuna che si estende a perdita d’occhio.

Le zones sono più di 30 e ospitano circa il 70% dei residenti di Cape Town (4,5 milioni in totale). Sono collegate con la città, non tramite mezzi pubblici, ma con shuttle privati, che si occupano di trasportare masse enormi di persone ogni giorno. Furgoncini da circa 20 posti sfrecciano pericolosamente per le strade. Hanno punti di fermata precisi, ma essendo gestiti molto alla buona, sono soliti fare deviazioni su richiesta o caricare passeggeri, quando non sono già pieni, direttamente in strada. Il prezzo medio va dai 15 ai 25 rand (da 0,80 a 1,50 cent di euro circa) e i soldi vengono solitamente raccolti da un passeggero volontario che si occupa di contarli e consegnarli al conducente mentre questi passa da una corsia all’altra per velocizzare il percorso.

Township di «serie A» e «serie B»

Negli anni, il sistema chiuso e autoreferenziale delle township ha fatto sì che, anche all’interno della rete di baraccopoli, si sviluppasse una sorta di gerarchia e prestigio che ha portato al riconoscimento governativo solo di alcuni insediamenti. Si tratta in particolare di zone che hanno ricevuto l’attenzione del turismo di massa e per le quali oggi lo stato garantisce servizi sociali di base. Se la situazione di tutte le township è drammatica, per le comunità che non hanno richiamato l’interesse dei turisti è ancora più critica. Il mancato riconoscimento da parte delle istituzioni implica infatti un completo stato di abbandono e oblio. Sono luoghi in cui il futuro è difficile da immaginare e la popolazione vive una lotta estenuante per sopravvivere al presente.

Questi cittadini di serie B sono completamente ignorati dallo stato e dai connazionali nonostante i quartieri che loro abitano sorgano in zone cruciali per la vita del paese.

Marikana

La township «Marikana Informal Settlement» è un agglomerato urbano che si espande in prossimità dell’aeroporto di Città del Capo e che rappresenta una delle zone più povere di Philippi East.

Nella zona di Marikana abitano 60mila persone tra cui moltissimi bambini in «stato di abbandono». Non esistono scuole nel raggio di 7 km e l’unico supporto è dato da organizzazioni locali che cercano di fornire una scolarizzazione di base per sottrarre i bambini all’arruolamento da parte della criminalità organizzata.

Leonard, abitante di Marikana, che gestisce una delle poche organizzazioni, spiega: «Quello che provo a fare è gettare le basi dell’educazione e istruzione, in modo che un giorno possano trovare un lavoro dignitoso, comprare una casa alla madre e forse un giorno lasciare questa comunità. L’anno scorso siamo riusciti a preparare 23 bambini per fare iniziare loro la scuola. Queste vogliono certificati dei genitori, certificati di salute dei bambini. È molto importante anche sviluppare abilità manuali, con le quali puoi trovare un lavoro, o comunque arrangiarti. A volte è anche più utile, perché spesso le persone studiano, ma poi non trovano lavoro, allora tornano a studiare, ma poi rischiano di essere troppo qualificate».

La vita della popolazione si svolge all’interno di baracche chiamate shack: qualsiasi tipo di esercizio o abitazione ha questa tipologia di «architettura», costituita per lo più da lamiere, un materiale pregiato rispetto ad altri di fortuna, quali cartoni, plastica, tronchi. Questi edifici arrangiati sono particolarmente vulnerabili alle inondazioni e non rappresentano una soluzione abitativa stabile, mettendo continuamente a rischio la vita e la salute degli abitanti. È singolare, a tal proposito, riscontrare come l’utilizzo di questo materiale venga oggi assimilato alla tradizione e pertanto si possa ritrovare, ad esempio, come elemento decorativo dei bar alla moda cittadini.

Attraversando queste baraccopoli notiamo che le case di lamiera si arrampicano l’una sull’altra, mentre l’acciaio dà un riflesso particolare alle strade polverose. I sentieri di terra battuta e i percorsi non asfaltati si estendono per chilometri in un labirinto di vie sempre a rischio di allagamenti alle prime piogge. Quando ciò accade, qualcuno si preoccupa di scaricare massi enormi in mezzo la strada che a loro volta vengono picconati per riempire le pozze, nel tentativo di rimediare ai danni creati dalla pioggia.

Acqua e fognature

La mancanza di un sistema idrico adeguato obbliga le famiglie a utilizzare i rubinetti in comune, in quanto le zone sono poco servite. Donne e bambine, adempiendo a parte del proprio compito all’interno della comunità, si occupano di reperire l’acqua. Questo significa percorrere un tragitto giornaliero di diversi chilometri ed essere obbligate a lunghe code davanti alle poche fonti nonché al carico di grossi pesi.

Connessa alla problematica dell’approvvigionamento idrico è la questione del sistema fognario: le township, infatti, mancano quasi totalmente di servizi igienici e questa mancanza costringe i residenti a raccogliere le proprie evacuazioni in secchi depositati in strada che verranno raccolti e svuotati in un secondo momento nel sistema fognario più vicino il quale, solitamente, dista chilometri. Questi secchi vengono poi puliti e riconsegnati nel punto dove sono stati prelevati.

Inutile specificare come tale pratica esponga la popolazione al rischio di contaminazione e malattie.

Ma, oltre che dal rischio infettivo, la vita dei cittadini sudafricani è messa in pericolo anche da una moltitudine di incidenti che avvengono continuamente per la mancanza di sicurezza sia in strada che nelle case.

Camminando nella township si notano infatti impianti «fai da te» e sistemi illegali per sottrarre l’elettricità che lo stato non concede a un prezzo sostenibile e che pochi possono permettersi. L’alto rischio elettrico in un sistema abitativo fatto di materiali infiammabili e potenzialmente tossici, ha generato nel tempo diversi incendi – complice anche il vento – in cui in molti hanno perso la vita.

Township, Città del Capo. Foto Alessio Cassaro

L’unica casa

Nonostante le condizioni di vita al limite però, le township rappresentano l’unico luogo da poter chiamare casa, in cui si è riconosciuti dal prossimo.

Leonard: «Ho iniziato questo in un piccolo shack. Poteva starci solo la cucina, ma poi con il supporto della gente siamo cresciuti, non prendiamo nessun aiuto dal governo, nessun sussidio, dobbiamo spendere tutti i soldi dei nostri portafogli, voi siete venuti a darci una mano e avete nutrito 120 bambini, vi siamo grati del vostro aiuto».

L’interesse mediatico per queste zone ha leggermente migliorato le condizioni di alcune aree, ma ancora una volta sono le organizzazioni umanitarie ad aver fatto maggiormente la differenza in un territorio dove i segni dell’apartheid sono ancora visibili, ma che è in cerca di un riscatto per le generazioni future e sogna il superamento delle differenze razziali radicate nell’antropologia urbanistica del paese.

Alessio Cassaro

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Alessio Cassaro, nato a Genova nel 1987, graphic designer con passione per la fotografia e i viaggi

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Pyongyang e la pandemia:

Dai missili al coronavirus

testo di Piergiorgio Pescali |


Stretto tra la Cina e la Corea del Sud, il paese ha affrontato il coronavirus con misure molto drastiche. Pur avendo come fattori negativi anche le sanzioni internazionali, un fragile Sistema sanitario e problemi cronici come la malnutrizione, Pyongyang pare aver retto l’urto.

La Corea del Nord ha considerato il Sars-CoV-2 (il virus che causa la malattia Covid-19) come una minaccia per la propria sicurezza nazionale immediatamente dopo la notizia della virulenza con cui si stava espandendo. Gli organi d’informazione hanno chiesto alla popolazione di mostrare uno «spirito rivoluzionario» nel contrastare quella che è stata definita come un’«emergenza nazionale». Nonostante la sua economia dipenda quasi esclusivamente dal commercio con la Cina, Pyongyang non ha esitato a sigillare le proprie frontiere con Pechino e con la Russia sin dalla fine di gennaio, annullando tutti i pacchetti turistici e gli incontri diplomatici in programma.

Per una nazione soggetta a embargo internazionale da parte delle Nazioni Unite, la decisione di chiudere le porte al turismo non è cosa da poco: nel 2019 circa 350mila cinesi hanno visitato il paese e l’industria turistica ha portato nelle affamate casse nordcoreane 175 milioni di dollari. Una boccata d’ossigeno non indifferente per un’economia sempre alla ricerca di valuta pregiata, eppure il governo nordcoreano non ha esitato un attimo nel prendere le misure necessarie per contrastare una possibile epidemia.

Dopo la serrata internazionale è stato il turno delle scuole e dei principali centri di aggregazione sociale, ritenuti non indispensabili per la sopravvivenza quotidiana dei 25 milioni di nordcoreani, arrivando ad ordinare la quarantena a trecentottanta stranieri residenti nel paese e circa settemila persone nelle provincie settentrionali e meridionali di Phyongan e di Kangwon. Sono queste le zone considerate più a rischio: Kangwon confina con la Corea del Sud, mentre le provincie di Phyongan sono attraversate dalle arterie principali che collegano la Corea del Nord con la Cina. Sinuiju, il capoluogo con 360mila abitanti, è la città più esposta al contagio: al di là del fiume Yalu, lungo le cui rive si sviluppa il centro urbano, c’è la metropoli cinese di Dandong, due milioni e mezzo di abitanti molti dei quali hanno attività commerciali collegate alla Corea del Nord.

Durante i periodi normali, quando il confine rimane aperto, migliaia di persone passano da una parte all’altra del fiume. Chiaro, quindi, che le autorità nordcoreane siano state particolarmente apprensive verso questa zona a rischio. Proprio da qui, secondo un rapporto non confermato del Daily NK (sito sudcoreano specializzato in notizie sulla Nord Corea, ndr), sarebbe partito il primo focolaio che avrebbe infettato il paese estendendosi nella zona a economia speciale di Rason, nella città di Heju, nella provincia di Hwanghae meridionale e nella stessa capitale del paese. Notizie che non sono state ufficialmente confermate. Tuttavia, è assai improbabile che un virus assai contagioso come il Sars-CoV-2 possa essere stato contenuto al di fuori delle frontiere nazionali, soprattutto in un paese schiacciato tra due degli stati più colpiti dalla malattia.

Se i 238 chilometri di confine condivisi con la Corea del Sud non rappresentano un grosso problema, in quanto divisi da una zona demilitarizzata invalicabile, controllare 1.416 chilometri di confine con la Cina è praticamente impossibile e il fiorente commercio clandestino tra i due paesi non gioca a favore delle restrizioni imposte da Pyongyang.

Le politiche di contenimento messe in atto dal governo hanno, però, funzionato grazie a diversi fattori tra cui la coesione culturale e l’orgoglio nazionale attorno a cui è stata plasmata la società nordcoreana durante l’arco della sua storia attraverso le visioni e le idee imposte dai leader che si sono succeduti dal 1948 ad oggi. Era già accaduto durante l’Ardua Marcia, il periodo di profonda crisi economica accompagnato da una terribile carestia tra il 1994 e il 1999 quando, anziché ribellarsi alle autorità, i nordcoreani si sono riorganizzati all’interno del sistema avviando una serie di riforme sociali ed economiche che hanno costituito le fondamenta dell’attuale struttura nazionale.

Ricercatori ala lavoro su nuovo disinfettante / Photo by KIM Won Jin / AFP

Propaganda e timori (taciuti)

La lotta contro la propagazione del virus è funzionale anche alla propaganda di Pyongyang: ogni giorno gli organi di Stato informano la popolazione sul numero sempre maggiore di contagiati e di morti in Corea del Sud, enfatizzando il sistema nordcoreano che sta «adottando tutte le misure necessarie per proteggere il popolo».

Paradossalmente il sistema dittatoriale e fortemente centralizzato che governa la nazione, si è mostrato più efficace e agile rispetto ai sistemi democratici nel fronteggiare la crisi virale (Vedi più sotto: Collettivismo vs individualismo). Mentre in Europa si discuteva su quali fossero le misure più appropriate a livello etico, politico ed economico da adottare per debellare il contagio perdendo tempo prezioso, in Corea del Nord le poche persone al comando decidevano e imponevano azioni. In pochi giorni l’intero paese ha adottato i provvedimenti emanati dall’unica linea di comando dell’emergenza coadiuvata da équipe di scienziati ed esperti sanitari. Sono stati predisposti presidi medici in tutte le provincie, il Centro epidemiologico di Pyongyang ha allestito succursali nelle zone più a rischio e centinaia di volontari della Croce Rossa sono stati mobilitati per dare manforte alle squadre inviate per informare la popolazione come difendersi dal contagio. Ciò che veniva imposto dall’alto doveva essere adottato senza se e senza ma. In questo modo l’emergenza è stata affrontata, contrastata e, a quanto risulta, vinta.

Il timore della dirigenza nordcoreana è che un’espansione incontrollata del Sars-CoV-2, come è accaduta in Cina e in Corea del Sud, faccia collassare il già precario sistema sanitario nazionale.

L’economia del paese, pur crescendo con una media annua del 5-7%, è ancora estremamente fragile e le sanzioni imposte dalle Nazioni unite rendono questo sviluppo fluttuante e discontinuo. Il riflesso sul sistema sanitario è diretto: negli ospedali mancano strumentazioni e apparecchiature, spesso non c’è riscaldamento (il petrolio e suoi derivati sono prodotti sottoposti ad embargo) e il personale medico è ormai risicato. Per far fronte alla penuria di farmaci Ebm (Evidence-based medicine, i prodotti approvati dall’Oms) l’industria farmaceutica ha potenziato la produzione delle cosiddette medicine Koryo, preparati a base di ingredienti naturali secondo antiche tradizioni popolari che però spesso risultano inefficaci nella cura di malattie.

A Pyongyang, acquisto di fiori per la Giornata internazionale della donna / Photo by KIM Won Jin / AFP

Anziani trascurati

Il ministero della Sanità ha stabilito che, per tenere sotto controllo la salute della popolazione, servirebbe un medico ogni 130 famiglie, un rapporto che dalla fine degli anni Novanta non è mai stato raggiunto. Inoltre, il sistema sanitario nordcoreano si è storicamente concentrato sulla salvaguardia delle fasce più giovani della popolazione, soprattutto nella fase neonatale. I poster dei leader (in particolare Kim Il Sung) circondati da folle di bambini sorridenti ed entusiasti sono divenuti una costante nella propaganda nordcoreana, mentre quasi mai vengono ritratti anziani. La facilità con cui la malattia Covid-19 colpisce persone meno giovani trova del tutto impreparata la sanità nordcoreana: il 14% della popolazione ha più di sessant’anni, ma la percentuale dovrebbe raddoppiare entro il 2030 secondo le previsioni statistiche. Il 37% di loro ha una disabilità ed è costretto a vivere con i figli; la famiglia rimane, quindi, un punto importante nell’assistenza sociale e sanitaria del paese.

Anche le fasce più giovani, però sarebbero colpite in modo aggressivo in caso di diffusione virale. Sebbene negli ultimi anni la mortalità infantile sia diminuita, nelle campagne rimane 1,2 volte maggiore che in città. Sono aumentate anche le vaccinazioni e i servizi di ostetricia, ma le cause principali di mortalità infantile continuano ad essere polmoniti e diarrea. E le polmoniti, si sa, sono proprio le malattie tipiche su cui si sviluppa il Covid-19. La diarrea, invece, è causata dalla mancanza di accesso ad acqua potabile e alle precarie condizioni igieniche, non solo in famiglia, ma all’interno stesso delle strutture sanitarie. La Fao stima che il 23% della popolazione (5,7 milioni di persone) non può contare su servizi igienici adeguati e quasi tre milioni di nordcoreani non hanno accesso diretto all’acqua nelle loro abitazioni.

Una volta passata la fase di contenimento del virus Kim Jong Un dovrà quindi ripensare a un sistema di assistenza sociale che tenga conto anche delle generazioni di età più avanzata, ma anche a una maggiore tutela generale della popolazione. Un aiuto potrebbe arrivare dalla scienza.

Sotto l’attuale leader, le discipline scientifiche e tecnologiche in Corea del Nord hanno avuto uno sviluppo considerevole soprattutto, ma non solo, per la scelta di adottare un programma di politica nucleare. Le decisioni prese dal governo hanno portato la Corea del Nord a incentivare tutte le attività scientifiche collegate al programma atomico, dalle facoltà universitarie ai centri di ricerca. Le ricadute di queste ricerche si sono ripercosse anche su ambiti non prettamente militari, come gli studi sanitari.

Senza, però, un’apertura al commercio e agli scambi internazionali sarà difficile per il paese asiatico risalire la china di un pozzo di cui intravede la luce, ma lungo le cui pareti è difficile arrampicarsi.

Bambino controllato all’aeoporto / Photo by KIM Won Jin / AFP

Le sanzioni e l’ambiguità degli Stati Uniti

Nel dicembre 2019, l’ambasciatore cinese all’Onu, Zhang Jun, ha chiesto all’Assemblea generale di togliere temporaneamente le sanzioni imposte dalla comunità internazionale così da aiutare Pyongyang nella lotta contro il Covid-19. Il Dipartimento di stato Usa ha però negato il consenso affermando che non è ancora giunto il tempo per rimuovere i paletti economici che puniscono l’economia nordcoreana.

Di diverso avviso sembra invece essere lo stesso presidente Trump, che sempre più spesso si trova in contrasto con la sua stessa amministrazione. In nome dell’amicizia che lo lega a Kim Jong Un, il presidente statunitense si è impegnato personalmente a far arrivare aiuti al giovane collega asiatico, così come nel 2019 si era opposto efficacemente all’inasprimento delle sanzioni contro la Corea del Nord come richiesto dal Dipartimento del tesoro.

Pochi giorni dopo il pronunciamento di Trump e la sua dichiarazione di non essere interessato a incontrare di nuovo Kim Jong Un prima delle elezioni di novembre, il leader nordcoreano ha inviato al suo collega sudcoreano Moon Jae-in una lettera.

Nelle righe, oltre ad esprimere le condoglianze alle vittime del coronavirus, Kim si preoccupava della salute del presidente sudcoreano e si diceva ottimista sul futuro delle relazioni con Seul. Un cambio di rotta radicale, a cui peraltro chi si occupa di affari coreani è abituato, rispetto alle dichiarazioni di pochi giorni prima espresse da Kim Yo Jong, la sorella minore di Kim Jong Un, nelle quali esprimeva, in toni non proprio conciliatori, il proprio disappunto verso le proteste avanzate dal governo di Seul riguardo i lanci missilistici nordcoreani.

CC BY-SA / Ryan Hodnett

la difficile lotta  alla malnutrizione

L’attenzione mostrata verso il coronavirus non ha però allontanato altri problemi cronici di cui è malata la nazione, primo fra tutti la malnutrizione. Dopo essere riuscita a debellare malattie come il morbillo e la malaria, a diminuire la Tbc e a sconfiggere la morte per inedia che ha falcidiato nella seconda metà degli anni Novanta tra le 300mila e le due milioni di persone, Pyongyang oggi deve fare i conti con la scarsità alimentare.

Secondo la Fao circa dieci milioni di nordcoreani necessitano di assistenza alimentare e sei milioni di questi rientrano nelle fasce più vulnerabili, tra cui 1,7 milioni di bambini al di sotto dei cinque anni d’età e 342mila donne incinte. La malnutrizione dei bambini al di sotto dei cinque anni non è dovuta tanto alla mancanza di cibo, quanto alla qualità dei servizi sanitari, alla mancanza di medicine, di integratori e alla discontinuità con cui il cibo è disponibile.

Ci sono periodi in cui si ha grande abbondanza di cibo, durante i quali i genitori cercano di sovralimentare i figli, alternati ad altri periodi invece in cui la scarsità di alimenti fa esplodere situazioni di grave sottoalimentazione. Questa discontinuità influisce negativamente sulla crescita della popolazione più giovane.

La lotta al Sars-CoV-2 potrebbe, quindi, rappresentare un modo anche per ricompattare il fronte degli aiuti umanitari per garantire alla Corea del Nord un futuro più sereno e accelerare uno sviluppo sociale, oltre che economico, già in atto, ma non privo di ostacoli. Non tutti causati dal regime di Pyongyang.

Piergiorgio Pescali

© Devrig Velly EU-ECHO


Oriente e Occidente

Collettivismo versus individualismo

Questi mesi di pandemia da coronavirus hanno messo in evidenza grandi differenze tra Oriente e Occidente. Una diversità non solo politica, ma culturale.
Le modalità della lotta al Covid-19 hanno suscitato molte polemiche e critiche, come del resto è logico che sia in una società democratica e fortemente individualista come quella Occidentale. Nonostante si parli sempre più di Europa unita come entità sovranazionale, in questo frangente (come in molti altri) non c’è stata alcuna direttiva imposta da Bruxelles sul comportamento da tenere per contrastare il coronavirus. Ogni stato ha agito secondo le proprie direttive, spesso in contrasto con quelle del vicino. L’Italia ha adottato un sistema di contenimento simile a quello cinese, anche se non altrettanto drastico: chiusura delle attività ritenute non essenziali, delle scuole, restrizione negli spostamenti. Con la furbizia che ci contraddistingue migliaia di persone, appena subodorato il primo decreto restrittivo del governo, hanno preso d’assalto treni per fuggire dalla cosiddetta zona rossa per ritrovarsi, pochi giorni dopo, in un’altra zona rossa. I cinesi, invece, hanno accolto l’imposizione del governo centrale con più senso civico e, oserei dire, coraggio. Forti dell’esperienza della Sars 2003, dopo l’evidenza del nuovo virus (pur con tutti i ritardi addebitati al governo centrale) Pechino ha imposto senza indugi il coprifuoco mobilitando in massa anche l’esercito. La cultura asiatica è basata su un caposaldo: il rispetto del bene comune e della collettività.

La popolazione, da sempre più numerosa rispetto a quella europea, ha una concentrazione demografica che ha costretto a far fronte a piaghe sociali, economiche e sanitarie durante l’arco della sua storia. Inoltre l’economia risicola ha imposto uno stile di vita comunitario coordinando collettivamente le fasi di lavorazione delle risaie: aratura, trapianto, irrigazione, raccolto devono essere programmate collettivamente. Ne consegue che la libertà individuale in Asia viene sottomessa a quella sociale. Inoltre il pensiero cinese, basato sul «Dao» (armonia, equilibrio, per il taoismo ma anche per il confucianesimo), è molto più mobile e agile rispetto a quello occidentale del «Logos». La società cinese si trasforma e si adatta ai cambiamenti molto più di quanto faccia la nostra: mentre noi contiamo singole menti brillanti puntando sulla creatività della singola persona, in Asia (Cina, Corea, Giappone, Vietnam, Laos) il lavoro di squadra è sempre stato la forza trainante dello sviluppo. Mentre da noi si impiegano settimane solo per decidere se e quali locali destinare ad emergenze ospedaliere, in Cina sono bastati pochi giorni per costruire interi reparti sanitari. Ciò che conta per il sistema cinese è mantenere la stabilità sociale e l’armonia anche a costo di limitare le libertà individuali. La democrazia impone lunghi ed estenuanti dibattiti prima di adottare decisioni; il sistema comunitario orientale (che è comune a tutta l’Asia, anche se rafforzato in Cina dall’autoritarismo del partito unico) detta le regole dall’alto secondo un sistema antico e collaudato. E in Asia, nata e costruita su fondamenta culturali assai diverse da quelle occidentali, spesso funziona.

Piergiorgio Pescali

© Roman Harak




Brasile. Manaus. Sperduti nella metropoli

testi e foto di Marco Bello e Paolo Moiola |


I Warao sono arrivati anche a Manaus, la metropoli dell’Amazzonia. Ci sono due abrigos ufficiali: uno in pieno centro (Tarumã) e uno all’estrema periferia (Alfredo Nascimento). Li abbiamo visitati entrambi. Non senza qualche difficoltà.

Boa Vista. Alla rodoviaria ci sono le tende dell’Operação Acolhida. Vi vengono ospitati gruppi di migranti venezuelani: una notte, al mattino seguente occorre andarsene. La presenza dell’esercito brasiliano, che gestisce l’operazione, è visibile ma discreta. Pochi metri più in là delle tende ci sono gli stalli dei bus.

Sono tre le compagnie che prestano servizio tra Boa Vista e Manaus. La capitale di Roraima e la metropoli dell’Amazzonia distano poco meno di 800 chilometri, percorsi in circa 10 ore.

Viaggiamo tutta la notte lungo la sola (per fortuna, viene da pensare) strada esistente chiamata Br-174. Una via di comunicazione che ha portato a un disboscamento straordinario, con l’eccezione della parte che costeggia la riserva dei Waimiri-Atroari (a conferma che dove ci sono popoli indigeni la foresta è sempre più preservata).

Questo è il percorso che molti venezuelani, e Warao in particolare, intraprendono per cercare lavoro e una vita migliore in Brasile. È un viaggio obbligato sia per fermarsi nella metropoli che per raggiungere una qualsiasi altra città del paese.

Arriviamo a Manaus al mattino. Anche qui la rodoviaria ospita tende per i migranti venezuelani, ma la situazione pare più problematica rispetto a Boa Vista, forse anche per gli spazi angusti e per il contorno di un traffico automobilistico straordinariamente intenso.

Le dimensioni cittadine sono decisamente maggiori di quelle di Boa Vista, per andare in centro città ci mettiamo circa un’ora di taxi. Ci sono semafori e auto ovunque. Non sembra davvero di essere nel cuore dell’Amazzonia.

Tarumã

L’abrigo di Tarumã, gestito dalla municipalità, è in pieno centro, a pochi passi dal teatro Amazonas, l’unico edificio di rilievo storico di Manaus.

Nella più grande città amazzonica (conta circa 2,1 milioni di abitanti), gli abrigos sono sotto la responsabilità del comune, nello specifico del Segretariato municipale della donna, dell’assistenza sociale e della cittadinanza (Semasc). I rifugi per i venezuelani sono diversi, ma due in particolare accolgono solo indigeni, la maggioranza dei quali Warao. Non si tratta di spazi aperti, come a Boa Vista, ma di condomini popolari, presi in affitto per lo scopo.

Il rifugio di Tarumã è in un edificio eguale agli altri e senza alcun segno visibile di riconoscimento. Tutto cambia appena superato il cancello. Si entra in un cortiletto dove sui fili tesi sono posti ad asciugare una selva di indumenti, soprattutto pantaloncini e magliette. L’interno della struttura è completamente spoglio, mancano le porte e le scale sono al grezzo. Nelle stanze e lungo i corridoi incrociamo soltanto bambini. Gli adulti, infatti, sono quasi tutti in uno spazio all’aperto posto al terzo e ultimo piano, una specie di cortile interno dove si stanno svolgendo svariate attività. Sembra di arrivare nello spiazzo centrale di un villaggio indigeno. Alcune donne stanno lavando i bambini in una tinozza con acqua corrente. Altre stanno pulendo delle pentole. Altre ancora sono nell’angolo più lontano accanto a fuochi su cui si sta cucinando. Ai lati, vicino al muro, sono seduti uomini e donne con i bambini più piccoli. Uno di essi attira la nostra attenzione perché è visibilmente denutrito. Il papà che lo tiene in braccio ci spiega che è appena arrivato dal Venezuela. Pur sapendo della scarsità di cibo e medicine che affligge il paese, questo è il primo bambino in brutte condizioni che vediamo.

Mariusa Addio

Ci dicono che sono tutti Warao della comunità di Mariusa, nell’alto delta dell’Orinoco. Qui il cacique è Orlando Martinez, che è coadiuvato da tre giovani vice cacique. Di mezza età, tarchiato e con qualche dente di meno, Orlando inizia a parlarci in warao (tradotto in simultanea da padre Kokal, il missionario della Consolata che ci accompagna). Poi, dopo qualche minuto, il suo racconto diventa in castellano, un po’ stentato e trascinato.

«Siamo 130 persone, 35 famiglie, tutte di Mariusa (secondo nostre informazioni la capienza sarebbe di 70 persone, ndr). Si stava bene là. Siamo tutti pescatori: catturavamo i granchi, pescavamo. Quando c’era Chávez i prezzi erano equilibrati, si poteva lavorare. Ma poi, dopo la sua morte, i prezzi hanno iniziato a crescere e non abbiamo più trovato la benzina per le imbarcazioni. Così non riuscivamo più a procurarci da mangiare». Orlando racconta del periodo terribile che precedette la partenza dalla comunità, due mesi durante i quali non si trovava più cibo. «Eravamo circa 60, tra uomini, donne e bambini. Abbiamo cercato dei passaggi per raggiungere la frontiera. Non avevamo scelta: venire via o morire di fame». Arrivati a Pacaraima, prima città brasiliana di frontiera, si fermarono là per un mese, mendicando e rivendendo rifiuti metallici. Poi il gruppo si trasferì a Boa Vista, dove si installò per tre mesi a Pintolandia (cfr. MC marzo), quindi la decisione di continuare per Manaus.

«Qui, la prima settimana dormivamo in strada. Ma una notte mi accorsi che dei malintenzionati volevano portare via una nostra bambina. Ci difendemmo, ma l’insicurezza e la paura erano aumentate. Un prete brasiliano ci aiutò a raggiungere prima un abrigo e poi a insediarci qui, a Tarumã».

Continua Orlando: «Un Warao che è arrivato dal Venezuela due settimane fa mi ha raccontato che non c’è più nessuno a Mariusa, le comunità sono abbandonate. Siamo tutti in Brasile. Noi vorremmo tornare in Venezuela, ci pensiamo ogni giorno. Un paese ricco, che ha il petrolio. C’era tutto, ma perché è finito così?». Orlando non pensa di andare in un’altra città brasiliana: «Io sto qui tranquillo, ho paura di andare più lontano. Qui mangio, di giorno esco a fare qualche lavoro, vendo acqua, raccolgo lattine da riciclare. Guadagno 30 – 50 reais (10-12 euro), così compro pollo, riso e può mangiare la famiglia al completo».

Rischio culturale

Uno dei vice cacique di Orlando è il giovane Nelson Rojas, dinamico e pieno di idee. Canottiera colorata e collana indigena, non si siede e gesticola parlando con enfasi davanti a noi: «Sono della comunità indigena warao Anoko Ido, riconosciuta dal Venezuela come comune di Sotillo, stato Monaga. A causa della crisi che vive il Venezuela, siamo stati obbligati ad abbandonare la nostra casa. Purtroppo, molti Warao stanno perdendo la nostra cultura. Venendo in un altro paese apprendono un’altra cultura, perdono le proprie radici. I bambini crescono e non vogliono più parlare warao, ma portoghese. Questo ci dà fastidio, intimamente, perché ferisce la nostra identità di Warao».

Nelson parla dei pericoli che oggi si corrono nelle comunità del delta. In alcune zone si è installato il narcotraffico e la vita è diventata rischiosa.

«Ringraziamo Dio che parte di noi adesso è qui in Brasile, anche se non era proprio un nostro desiderio. Almeno abbiamo da mangiare, l’istruzione per i bambini, non siamo in pericolo di vita come in Venezuela. Io ero un portavoce della mia comunità, ma sono dovuto venire via lo stesso».

Nelson esprime pure un’opinione sulla situazione geopolitica, parlando del presidente del Brasile: «Bolsonaro era inizialmente d’accordo a mandare l’esercito degli Usa per appoggiare Guaidó (capo dell’opposizione venezuelana e presidente autoproclamato, ndr), ma poi ci ha pensato bene e ha deciso di no, perché è un paese vicino, ci sono relazioni, anche commerciali. Ad esempio, il Brasile compra energia dal Venezuela». E con un po’ di nostalgia ci dice: «Il nostro è un paese bello, con tante possibilità. Molti stranieri vorrebbero investire in Venezuela, stabilirsi lì, ma con questo governo non è possibile». Nel frattempo, sotto la veranda che si apre sul cortile, una volontaria della Caritas diocesana ha iniziato a impartire una lezione di portoghese a un gruppo di Warao, quasi tutti giovani.

Salutiamo e torniamo all’entrata, davanti alla quale, per approfittare dell’ombra, si è accomodato un gruppo di indigeni. A un certo momento, sul marciapiede, spingendo il proprio carretto, passa un venditore di gelati. È un haitiano arrivato a Manaus dopo il terremoto che devastò l’isola caraibica. Gioviale ed espansivo, l’uomo, afrodiscendente, si siede a parlare e ridere con gli indigeni, così diversi ma accomunati dalla stessa condizione di migranti per necessità.

Alfredo Nascimento

L’abrigo Alfredo Nascimento si trova all’estrema periferia Nord di Manaus. Prende il nome dal bairro (quartiere), a sua volta parte di Cidade de Deus, uno dei quartieri più violenti della città. Abbiamo deciso di visitarlo pur non avendo (ancora) in mano il nullaosta delle autorità municipali che lo gestiscono. Dopo qualche fermata lungo la strada per chiedere indicazioni, finalmente giungiamo a destinazione: l’abrigo è posto su una via in decisa pendenza. Lo riconosciamo anche vedendo alcune persone che, accanto a un rubinetto estemporaneo, raccolgono l’acqua in secchi di plastica.

Fuori del rifugio, seduti sul marciapiede ci sono una decina di uomini, giovani e anziani, molti a torso nudo.

Alcuni portano in testa un cappellino del Venezuela. È con loro che scambiamo le prime parole. Sono loro che ci informano dove si può incontrare il responsabile. Mentre uno di noi va a cercarlo, gli altri due ne approfittano per muoversi senza restrizioni.

L’abrigo è una sorta di struttura condominiale su due piani con le stanze che danno su corridoi all’aperto dove sono stati tirati decine di fili per stendere gli indumenti lavati. Ogni alloggio è occupato da un nucleo familiare, di solito piuttosto numeroso. All’interno non ci sono mobili, ma le immancabili amache e molte borse contenenti indumenti e oggetti della quotidianità. In alcuni alloggi è presente un lavandino, ma l’acqua non vi arriva. Qualche (rara) stanza ospita anche un televisore davanti al quale – come in tutto il mondo – i bambini rimangono incantati.

Nell’abrigo di Alfredo Nascimento regna la calma. Forse addirittura troppa. Difficile dire se si tratti di rassegnazione o di una manifestazione della pazienza indigena. Su un muro sono stati appesi due manifesti di Acnur, l’agenzia Onu per i rifugiati. Scritti in portoghese e in warao, tramite alcuni disegni mostrano come trattare i rifiuti e come usare le latrine.

Il personale

In un piccolo ufficio con aria condizionata a intensità esagerata incontriamo il responsabile, Alfredo, che ci accoglie trafelato. Ci sono anche alcuni operatori con il gilet dell’Acnur e dell’Unicef, tutti giovanissimi, e due poliziotti armati.

Alfredo, anche lui giovane (sotto i 40), ci racconta che l’abrigo è aperto da circa due anni, ha 70 miniappartamenti da due camere e alcune cucine comunitarie. L’acqua viene presa da pozzi artesiani. Attualmente vi si trovano 667 persone, quando la capacità stimata è di 350.

Qui e nell’altro abrigo di Manaus i controlli sono molto meno stringenti che in quelli gestiti dalla Operação Acolhida a Roraima (cfr. MC marzo). Anche noi ne abbiamo approfittato.

«C’è il registro, ma è difficile controllare – ci confessa il responsabile -. Noi chiediamo che le persone segnalino gli arrivi e le partenze. Se giungono altri familiari, gli ospiti non vogliono lasciarli in strada». Così accade che ci sia un certo va e vieni e che l’abrigo sia piuttosto sovraffollato.

«Qui, un po’ di tempo fa, c’erano molte liti, soprattutto a causa dell’abuso di alcol da parte degli uomini. Oggi la situazione è notevolmente migliorata», riprende Alfredo.

Nella visita ci imbattiamo in un tavolino, dove un operatore della Ong World Vision (statunitense), insieme a uno dell’Unicef (che ci dicono essere uno psicologo), interroga un Warao e compila un modulo: stanno conducendo un’inchiesta.

«A livello della salute c’è un monitoraggio quotidiano fatto da un operatore sanitario e periodicamente vengono fatte vaccinazioni. Ci sono dei casi di tubercolosi, e i migranti arrivano molto debilitati, quindi particolarmente a rischio».

Tra una telefonata e l’altra, Alfredo ci confida che il municipio ha in programma un trasferimento di tutti i Warao di Tarumã e Alfredo Nascimento in una zona ancora più periferica, ma in mezzo alla natura, dove «dovrebbero trovarsi a loro agio». Al tempo stesso, questo vorrebbe dire allontanare ancora di più i migranti dalle loro reti in città e dalla possibilità di trovare lavoro. Un dualismo tra comunità e città che i Warao hanno già sperimentato in Venezuela, dove una parte di loro ha scelto di lasciare canoe e palafitte per la vita urbana.

Finalmente Alfredo ci congeda. Ha molti impegni e si deve rinchiudere a lavorare nel suo ufficio ghiacciato.

Dignità

Quando siamo ormai in procinto di andarcene, un piccolo bus si ferma davanti al rifugio. Non porta persone, ma viveri. Viene subito scaricato e gli alimenti consegnati agli ospiti in attesa. Quasi a conferma della nostra prima impressione, non c’è ressa né confusione. Gli indigeni ospiti del rifugio di Alfredo Nascimento danno dimostrazione di affrontare la loro difficile condizione con compostezza e dignità.

Marco Bello e Paolo Moiola
(3.a puntata – continua)


L’antropologo militante

«Migranti, ma in primis indigeni»

Le riflessioni di Sidney Antônio da Silva, professore all’Università federale di Amazonas (Ufam), a Manaus.

Manaus. Sidney Antônio da Silva, antropologo, è professore all’Università federale di Amazonas (Ufam). Paulista, si è trasferito a Manaus nel 2006 per studiare la migrazione nella regione Nord del Brasile1. Qui coordina anche il Grupo de estudos migratorios na Amazônia.

Il professor Sidney ci riceve in una sala del moderno Dipartimento di antropologia sociale: «Da fine 2016 la presenza di migranti venezuelani accampati nei pressi della stazione degli autobus attirò l’attenzione della gente e delle autorità. Il Ministero pubblico federale (Mpf) intervenne, e fece in modo che il municipio si prendesse la responsabilità sui Warao a Manaus. Dopo circa sei mesi di vita in baracche improvvisate trovarono loro un rifugio, nel bairro Coro Alto».

Il municipio e il governo locale ritennero però che tale sistemazione non fosse adeguata per i Warao e, anche grazie a soldi federali, verso fine 2018 trasferirono i migranti in piccole case adatte ai nuclei familiari, dove potevano organizzarsi e autogestirsi.

«Fu una decisione interessante, molto appoggiata, in particolare dall’Acnur. Noi accademici abbiamo accompagnato questo processo, facendo una ricerca sull’accoglienza dei Warao2 commissionata dall’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim). Dividerli in piccole comunità, a partire dai legami di parentela, è molto importante. Loro non migrano soli, lo fanno con la famiglia allargata. È una specificità Warao e occorre essere attenti a questa rete».

Andare oltre l’abrigo

Qualcosa andò storto e si tornò ai rifugi di massa. «Ci sono stati problemi, forse per ragioni economiche. Il municipio li ha portati nel quartiere periferico Alfredo Nascimento, sistemandoli in piccoli condomini di edilizia popolare. Ma in questo modo sono stati allontanati dalle reti che si stavano costruendo nei quartieri più vicini al centro e ora si ritrovano isolati. Si tratta di reti di lavoro informale, vendita di artigianato, richiesta di soldi nelle strade. Nel centro della città è rimasta un’unica palazzina in rua Tarumã».

Il professor Sidney mette in evidenza la tipologia migratoria tipica dei Warao: «Il modello di abrigo non basta. Sappiamo che non risponde alle aspettative di questo popolo, perché per una sua dinamica storica il Warao ha una mobilità, una circolarità, sperimentate già dentro il Venezuela e ora nel Brasile. Stanno infatti circolando nel paese, in altre città del Pará e nel Nordeste. Inoltre, non è un gruppo omogeneo di Warao, e quindi sono portatori di interessi differenti».

Dialogo tra indigeni

Le due grandi sfide che l’antropologo identifica sono educazione e inserimento produttivo. «L’abrigo Alfredo Nascimento ha suscitato diversi problemi: mancanza di attività, bambini che non vanno a scuola, (appena 25 su 200). L’inserimento dei Warao in Brasile passa per un’educazione non tradizionale, ma pensata per un gruppo itinerante. C’è poi la questione dell’interculturalità, perché parlano un’altra lingua, hanno una propria cultura».

«La seconda sfida è la generazione di reddito: creare spazio in modo che possano produrre artigianato, o partecipare in altro modo all’economia. Occorre pensare a forme di inserimento lavorativo, che non sia però una forma marginale di sotto impiego o lavoro degradante».

Un altro aspetto fondamentale per l’integrazione è «fare in modo che la società e il governo brasiliano li riconosca come indigeni. Loro sono migranti, ma sono pure indigeni. Non possiamo lavorare solo con la categoria dei migranti. Perché sono diversi, c’è una differenza etnica, culturale».

L’approccio del governo attuale, in particolare in relazione agli indigeni, complica la situazione: «Oggi esiste una mobilitazione degli indigeni brasiliani che temono che i propri diritti non siano più rispettati. I Warao sono in una situazione di particolare vulnerabilità, perché sono pure stranieri.

Un percorso possibile è che si uniscano agli indigeni brasiliani, per sommare le forze, e che questi non li vedano come una possibile minaccia o come intrusi. Noi come istituzione universitaria, le Ong e la Chiesa dovremmo appoggiare questo dialogo tra indigeni. È importante che i Warao possano essere organizzati come gruppo. Non credo, da ricercatore ma anche da militante, che si possa conseguire qualcosa senza organizzazione e coinvolgimento dei migranti, senza una dinamica dal basso».

L’era Bolsonaro

Il professore sottolinea la svolta dell’era Bolsonaro: «C’è stato un cambiamento molto grande, perché al nuovo governo non è “simpatico” il governo venezuelano. Pertanto, si è creata una tensione che ha portato fino alla chiusura della frontiera. È cambiato il modo in cui il Brasile vede il Venezuela, non più come amico ma come possibile minaccia, e questo si è riflesso nel rapporto con i migranti. Una forma di xenofobia e discriminazione per i venezuelani, visti spesso come quelli che non vogliono lavorare, perché nel loro paese ricevevano tutto gratuito. Questo ha creato più difficoltà nella vita dei migranti, non solo venezuelani: la migrazione vista come qualcosa di criminoso, orribile, dopo anni in cui si è lottato per cambiare la visione del migrante come pericolo».

M.B. – P.M.


I rapporti tra indigeni

 La nostra mano per i fratelli warao»

A colloquio con Enock Taurepang (Cir) e Mauricio Yekuana (Hutukara), rappresentanti degli indigeni di Roraima.

Boa Vista.Vogliamo tentare di rispondere a un quesito semplice ma importante: nello stato più indigeno del Brasile come sono stati accolti gli indigeni che provengono dal Venezuela? Proviamo a cercare un primo riscontro nella sede del Consiglio indigenista di Roraima (Cir). Fondato nel 1971 con l’appoggio della Chiesa cattolica, il Cir è un’organizzazione che dà supporto giuridico e politico ai popoli indigeni dello stato. Incontriamo il suo coordinatore generale, Enock Barroso Tenente, di etnia Taurepang1.

«Quando i primi Warao – racconta Enock – arrivarono nello stato di Roraima, la gente non sapeva chi fossero. Non si sapeva da dove venissero. Molte persone della città pensarono che fossero indigeni del Brasile. Essi hanno sofferto abbastanza pregiudizi ed anche violenza, come d’altra parte noi indigeni di Roraima. Si diceva che avevano molta terra ma che, al tempo stesso, volevano stare in città per chiedere l’elemosina ai semafori e nelle strade del centro».

«Dopo un po’ di tempo, sia la società bianca che quella non bianca è venuta a sapere chi fossero. Che erano un popolo nomade che stava passando un periodo di difficoltà nella propria terra indigena. Che erano dovuti andarsene a causa dello sconvolgimento portato dal modello di sviluppo. Tutto questo li aveva portati lontani dai loro territori per cercare un nuovo spazio in cui vivere».

Enock Taurepang racconta degli incontri avuti con alcuni rappresentanti dei Warao fin dal 2017, e aggiunge: «L’appoggio che noi possiamo dare ai Warao è politico. C’è la proposta che l’Onu e altre organizzazioni internazionali possano dare un contributo per comprare una proprietà privata. In questo momento, un pezzo di terra su cui sistemare i Warao sarebbe essenziale. Sarebbe una soluzione immediata. Come Cir, noi confermiamo il nostro appoggio politico e una mano fraterna affinché essi possano vivere meglio qui nel nostro stato».

Yanomami e Yekuana

Per capire ancora meglio i rapporti tra gli indigeni di Roraima e quelli provenienti dal Venezuela cerchiamo una seconda testimonianza. Per questo chiediamo un appuntamento a Mauricio Yekuana2, direttore di Hutukara, l’associazione degli Yanomami che ha Davi Kopenawa come presidente. Lo incontriamo nella sede dell’associazione. Il momento è particolare: da pochi giorni c’è stato l’annuncio dell’assegnazione del Right Livelihood Award (conosciuto anche come «premio Nobel alternativo») per il 2019 a Davi e all’associazione3. Oltre a questa splendida notizia ce n’è un’altra, che invece è negativa. La sede di Hutukara e quella adiacente dell’Instituto socioambiental (Isa) sono state fatte oggetto di ruberie. Questi fatti vanno ad aggiungersi a minacce e intimidazioni che sono ormai divenute la normalità in un generale clima anti indigeno alimentato dal presidente Bolsonaro.

«Anche i Warao – spiega Mauricio – sono stati invasi dai garimpeiros. Hanno paura perché il fiume viene inquinato e non c’è sicurezza. Loro se ne vanno perché non c’è più nulla da mangiare e non c’è terra da seminare. Non avendo più niente, lasciano i propri territori in cerca di una vita migliore per i loro figli».

Accanto alla solidarietà e alla comprensione, nello stesso tempo Mauricio non nasconde i problemi: «La nostra terra Yanomami ha molti problemi. Quando hai problemi nella tua propria casa, è difficile affrontare quelli degli altri».

Diversi, eppure solidali

Enock Taurepang e Mauricio Yekuana hanno risposto al nostro quesito di partenza aiutandoci anche a chiarire un punto fondamentale. Come i popoli non sono tutti eguali (dal punto di vista antropologico e culturale), così non sono tutti eguali i popoli indigeni. Questo significa che non è implicito che un popolo indigeno sia in accordo con un altro popolo indigeno. Fatta questa precisazione, constatiamo che il rispetto e la disponibilità mostrate dai popoli indigeni di Roraima verso quelli provenienti dal Venezuela costituiscono un comportamento a cui tanti dovrebbero ispirarsi.

Marco Bello – Paolo Moiola


Questo servizio rientra nell’ambito del progetto «The Warao Odissey» eseguito da Missioni Consolata Onlus e prodotto con il contributo finanziario dell’Unione europea e della Regione
Piemonte attraverso il bando «Frame Voice Report!» del Consorzio Ong Piemontesi.





Guka, il nonno (un piccolo grande missionario)

testo a cura di Gigi Anataloni |


Padre Angelo è deceduto il 28 dicembre 2019 a Nairobi in Kenya. Aveva 95 anni, di cui 73 vissuti da missionario della Consolata e 69 da sacerdote. Ecco la sua testimonianza di missionario in Kenya dal 1962 in un’intervista del maggio 2019.

«La mia vocazione missionaria è nata nella città di Fiuggi dall’incontro con mons. Filippo Perlo, al quale facevo quotidianamente da chierichetto, in una chiesa vicina alla casa di mia zia dove mi trovavo per le vacanze».

I padri Jaime Patias e Antonio Rovelli, consiglieri generali dei missionari della Consolata, in visita in Kenya nel maggio scorso, hanno incontrato e intervistato il guka (nonno, in lingua kikuyu).

«È il Signore che fa i miracoli! Io non ho mai fatto miracoli, ma ho sempre cercato l’appoggio dei benefattori per fare dei piccoli miracoli con le opere di carità».  Ascoltando la videointervista di padre Angelo, spontaneamente si ricorda una frase di san Paolo che riassume molto bene la vita di questo «piccolo grande» missionario: «Tutto io faccio per il Vangelo» (1 Cor 9,23).

Le parole di padre Angelo

P. Fantacci con bambini di Archer’s Post

«Mi chiamo padre Angelo Fantacci. Sono arrivato alla bella età, vicino ormai alla fine, di 95 anni (nato il 14/10/1924 a Collepardo, in quel di Frosinone) e questo lo considero una grande benedizione del Signore perché non tutti arrivano a questa età.

La mia vocazione è nata nel 1937 a Fiuggi dove d’estate andavo da una zia che aveva un albergo vicino alla chiesa parrocchiale. Tutte le mattine andavo a servire la messa lì e vedevo sempre un sacerdote con la barba che diceva la messa. Da quel bambino che ero, mi ero stupito, e parlando con mia zia le dicevo che il prete a cui avevo servito la messa portava le calze rosse. Barba e calze rosse: non era certo il modo di presentarsi del parroco del mio paese. E mia zia mi rassicurava che era normale perché quello era un missionario che era stato in Africa. Tranquillizzato, ho continuato ad andare a servire la messa.

Una mattina, mentre uscivo, lui mi ha chiamato. “Bambino, vieni qui”. Non sono cresciuto molto, ma allora ero davvero piccolo! “Come ti chiami?”, “Angelo”. “Dove stai?”, “Da mia zia che ha l’albergo Paradiso” (niente meno).

“Conosco tua zia, dille che ti mandi a trovarmi dove io abito”. Allora mia zia la mattina successiva mi ha detto: “Vai su a metà strada tra Fiuggi fonte e Fiuggi città e là trovi la casa di questo vescovo e così lui ti può parlare”.

Allora c’era il tram che portava fino lassù, così ho chiesto alla zia di darmi i soldi per il biglietto. Ma lei: “No no, tu vai a piedi”.

Ed è così che ho cominciato la mia missione! Sono andato e ho incontrato monsignor Filippo Perlo, monsignor Gabriele, suo fratello, padre Luigi, il terzo fratello, e la loro sorella Agnese, che d’estate venivano a stare in quella casa a Fiuggi.

Lì mons. Perlo ha cominciato a parlare delle missioni e mi ha fatto vedere tante fotografie. Poi mi ha dato due libri che lui aveva scritto e che ho portato a casa. Li ho mostrati alla zia e ho cominciato a leggerli. Da lì è nata un po’ la mia vocazione missionaria, tanto è vero che poi a ottobre di quell’anno ho deciso di andare nel seminario dei missionari della Consolata a Gambettola, e là ho cominciato i miei primi studi che ho poi completato in Piemonte dove sono stato ordinato nel 1950».

Arrivo in Kenya

«Sono arrivato in Kenya nell’agosto del 1961, adesso non ricordo bene la data. Era il 23 o il 25, ed è stato l’ultimo viaggio fatto in nave da Venezia fino a Mombasa, poi da Mombasa sono arrivato a Nairobi in treno. Da qui mi hanno mandato a Nanyuki, ai piedi del Monte Kenya, dove ho fatto il mio apprendistato, e poi un anno a Kaheti, parroco, tra i Kikuyu. Nel 1963 sono partito per Archer’s Post, sulla strada per andare a Marsabit, nel Nord del Kenya, dove non c’era assolutamente niente».

Antica cappella protestante Archer’s Post

Archer’s Post era in una località strategica dal punto di vista del lavoro dei missionari, perché relativamente vicina a Isiolo (dove finiva la strada asfaltata) e primo avamposto sulla strada verso Wamba (a Est) e Marsabit (Nord). Quest’ultima era la cittadina capitale dell’area omonima abitata da pastori nomadi che nel 1964 sarebbe diventa la sede della nuova diocesi affidata ai missionari della Consolata.

Padre Angelo è rimasto là fino al 1971. Nel 1972 è stato trasferito come parroco nella missione di Maralal, in posizione centrale per l’evangelizzazione della zona verso il lago Turkana, dove ha costruito quella che oggi è la cattedrale dell’omonima diocesi. Lo stesso anno è stato eletto consigliere del superiore dei missionari della Consolata in Kenya. Durante quel periodo, nel 1975, nel consiglio regionale hanno preso una decisione importante: aprire una missione sulla costa, nella città portuale di Mombasa, dove la maggior parte degli abitanti era musulmana.

«Dunque, avevano deciso di aprire anche a Mombasa però nessuno voleva andarci. Io ero del consiglio, uno di quelli che avevano approvato il nuovo progetto, così il superiore e gli altri padri mi hanno detto “accetta almeno tu che puoi andare e cominciare”. Allora sono andato a iniziare la missione sulla costa dell’Oceano Indiano».

1965 lavaggio dei piatti dopo pranzo, padri Rossi Berluti, Fantacci e Valli

Missione e opere

«Se ho realizzato delle opere è perché la missione vale se ci sono delle opere, soprattutto caritative o sociali. Il Signore faceva i miracoli, ma io non sono mai arrivato a fare un miracolo. Però ho sempre cercato di fare delle opere a cominciare dalle scuole per i bambini.

In alcuni posti lungo la costa di Mombasa non c’erano scuole, come anche al Nord tra i nomadi, perché gli inglesi avevano completamente dimenticato quella zona.

Quando ero ad Archer’s Post, la prima cosa da costruire non era la casa e la chiesa – l’unico cristiano ero io – ma il dispensario medico e io stesso davo le medicine più comuni, quelle che potevo dare senza rischi, naturalmente. Poi avevo iniziato con la scuola dei bambini, a partire dall’asilo. Dopo, pian pianino, erano venute tutte le altre opere e anche la chiesa dedicata alla nostra mamma Consolata. Così era cominciata la missione di Archer’s Post nel lontano 1963».

«L’ultima opera che ho fatto (prima di essere costretto dalla salute malferma a ritirarsi a Nairobi nel 2018) è una grande scuola a Ukunda, vicino a Diani, una rinomata località balneare molto frequentata dagli italiani. Prima ho comprato il terreno, che è costato parecchio, e poi ho detto al vescovo: “Qui c’è tutto questo terreno, vi voglio costruire una scuola tecnica per i bambini affinché possano imparare un mestiere”. Ora c’è una bella scuola gestita dai religiosi di una congregazione kenyana».

Missione a Mombasa

Nel 1976 è cominciata l’avventura di padre Angelo sulla costa, con la scelta della zona di Likoni, alla periferia Sud della città-isola di Mombasa. Per arrivarci occorreva (allora e oggi) prendere il traghetto. Gli abitanti erano un grande miscuglio di gruppi etnici provenienti dalle varie zone del paese attratti dalla possibilità di lavoro nel porto e nell’emergente industria turistica.

Nella missione di Likoni-Mtongwe, padre Angelo è rimasto fino al 1996, salvo un breve intervallo di tre anni (1979-1981) nella missione di Sagana nella diocesi di Murang’a.

A Mombasa la situazione non era facile. C’erano sono forti tensioni tra i nativi (islamici) e quelli che venivano da fuori (in maggioranza cristiani). Nel 1992 e nel 1997 gli scontri sono stati così violenti che la missione si è trovata invasa dai rifugiati. Ha scritto suor Corona Nicolussi (MC 12/2010): «La prima volta arrivarono 10mila rifugiati. Erano dovunque: in missione, in chiesa, nella scuola, asilo e cortile. Quando sentii che avevano cominciato a bruciare le case, andai con suor Ester a comperare un po’ di fagioli e granoturco da dare a chi era nel bisogno. Invece, dopo pranzo, la gente cominciò ad invadere la missione. Chiamai padre Angelo (Fantacci), il parroco. “Che facciamo?” Togliemmo i banchi della chiesa e la riempimmo di donne e bambini. Tutti i locali erano pieni, e il cortile era diventato un grande accampamento. Per fortuna non pioveva. Prova ad immaginare com’era! Chiudemmo il dispensario e tutte le cure andarono a chi avevamo in casa. Pensa che quando di notte mi chiamavano per un’emergenza, dovevo scavalcare i corpi dei dormienti».

A causa degli scontri, del 22 agosto 1997, il numero dei rifugiati presso imissionari della Consolata di Likoni ha raggiunto 2.200 unità

Una rete di benefattori

Chissà quanta gente ti ha aiutato a fare tutte quelle opere, gli domandano gli intervistatori.

«Ho sempre cercato di stare in contatto con i benefattori. Scrivevo lettere (proprio lettere) che spedivo e mandavo a tutti personalmente. Devo dire con sincerità che questi benefattori mi hanno sempre aiutato e qualcheduno continua ad aiutarmi anche adesso. Quindi devo ringraziare veramente questi benefattori perché hanno dimostrato il loro affetto non per me, ma per la missione sentendosi anche loro missionari. Scrivendo e ringraziando dicevo loro “ecco, bravi, perché non facciamo questo per noi stessi, ma per il Signore. Queste opere sono realizzate grazie alla vostra generosità”.

La fede ha valore quando ci sono delle opere. Possiamo predicare bene il Vangelo ma deve essere seguito dalle opere. Gesù è la fonte dei miracoli, ma i nostri miracoli dipendono dai benefattori e dalla loro generosità. Quindi le opere caritative e sociali che noi missionari abbiamo cercato sempre di realizzare esistono grazie alla loro generosità. E io vecchio missionario di 95 anni ringrazio anche a nome di tutti i missionari. Sono sicuro che il Signore saprà ricompensare tutti come giustamente meritano».

Gli intervistatori chiedono a padre Angelo due parole di incoraggiamento alle nuove generazioni di missionari della Consolata.

«Cari giovani missionari cercate prima di tutto di non pensare a voi ma alla gente con cui venite a contatto. E che cosa predicare? Non ciò che volete voi, ma seguire il Vangelo perché seguendo il Vangelo vi ascoltano di più e diventeranno senza dubbio dei bravi cristiani, e poi da questi possono nascere anche delle buone vocazioni».

Rifugiati presso la missione della Consolata di Mombasa dopo i disordini del 13 agosto

Il lavoro non è nostro, ma di Dio

«Ho sempre notato che la gente, pur vedendo il nostro colore bianco, ci ha sempre accettato con cordialità. Io contrasti duri non li ho mai avuti. Con qualche autorità sì, ma con la gente mai. Sempre in buoni rapporti. E hanno sempre ascoltato e sempre stimato ciò che si faceva per loro e questo ci incoraggiava a continuare a predicare il Vangelo, perché il Vangelo, come dice il Signore, è la parola della vita, la parola della salvezza e anche la parola di tanta gioia. Perché più si ascolta il Vangelo e più si segue Gesù e più uno si avvicina a lui e si avvicina anche all’eternità».

Sull’avviso per il funerale di padre Angelo, avvenuto il 3 gennaio 2020 al cimitero dei missionari della Consolata al Mathari, Nyeri vicino alla chiesa Memoriale degli Italiani, c’era scritto: «Caro padre Angelo, hai dato tutta la tua vita alla missione del Padre, come una matita nelle mani dell’artista: ti sei lasciato affinare e usare liberamente fino alla fine…».

La messa funebre è stata celebrata da mons. Virgilio Pante, vescovo della Diocesi di Maralal, con la presenza di molti confratelli e gente.

Un giovane missionario kenyano presente al funerale ha scritto: «Sulla sua tomba è stata posta una corona floreale. L’hanno deposta dei bambini che erano presenti alla sepoltura, per due motivi. Uno, padre Angelo è morto il 28 dicembre 2019, nella festa dei Santi Innocenti. Due, era un segno che in effetti era il nostro guka, nonno!

Sarà ricordato con affetto per il suo famoso detto: “Mzee, kazi sio yako, ni ya Mungu” (anziano, il lavoro – quello che hai fatto – non è tuo, ma di Dio)».

Gigi Anataloni

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Ho compilato questo testo, senza pretese di completezza, utilizzando l’intervista del maggio 2019 e le notizie pubblicate su consolata.org in occasione del funerale, aiutato da memorie (e foto) personali. (G.A.)

 


Un pioniere della missione in Kenya

Mons. Filippo Perlo

Mons. Filippo Perlo (1873-1948), nipote di don Giacomo Camisassa, braccio destro del beato Giuseppe Allamano, è uno dei primi missionari della Consolata. Partito con il primo gruppo per il Kenya nel 1902, nel 1903 diventa superiore del piccolo gruppo di missionari che iniziano la loro avventura evangelica nella terra dei Kikuyu (Agekoyo allora). Nel 1905 quella regione diventa «Missione indipendente» separata dal Vicariato di Zanguebar (Zanzibar, vicariato che fino allora ha responsabilità su gran parte dell’Est Africa) e nel 1909 Vicariato apostolico del Kenya. Perlo ne diventa il primo vescovo fino al 1924, quando rientra definitivamente in Italia ed è nominato superiore generale dell’Istituto dopo la morte del fondatore, il beato Allamano. Nel 1930 si ritira a Roma con i fratelli e la sorella. Muore il 4 novembre 1948, pochi mesi dopo suo fratello mons. Gabriele.

Uomo di grande intelligenza, eccellente fotografo, grande stratega della missione, duro con se stesso ed esigente con i suoi confratelli, ha dato un impulso determinante allo sviluppo della missione in Kenya. Amato da tanti, contestato da altri, nel 1930 è stato estromesso dall’istituto, nel quale è rientrato in occasione del suo 50° di messa nel 1945. È stato una figura controversa, ma la sua passione per il Vangelo e la missione, il suo amore per il Kenya (dove ha anche fondato un istituto di suore locali a Nyeri) e per l’istituto sono fuori discussione. (G.A.)

Padre Barlassina (o Gabriele Perlo?) nella missione di Vambogo mentre ascolta il rapporto giornaliero dei catechisti. La foto porta scritta autografa di Filippo Perlo (già vescovo) a matita sul retro con due parole cancellate da uno strappo sulla carta: “P…….. della scena” + Filippo

 




Per attrazione

testo di Luca Lorusso |


Ventisette anni in Kenya, cinque in Italia, due in Liberia, undici in Tanzania. Si possono riassumere i 45 anni di missione di fratel Sandro in cinque pagine? Ci proviamo, attraverso aneddoti, date e nomi di luoghi pieni d’incontri.

Settant’anni compiuti poco meno di un anno fa. Un’energia invidiabile. Una parlantina che parte lentamente, ma che, una volta avviata, va decisa. Una lunga esperienza missionaria: ventisette anni in Kenya, cinque in Italia, due in Liberia, undici in Tanzania.

Fratel Alessandro Bonfanti, nato a Robbiate, Como, il 9 maggio 1949, chiamato da tutti Sandro, si siede di fronte a noi e ci guarda con occhi schietti che sembrano scrutarci.

Quando iniziamo a registrare la sua voce, sembra imbarazzato, ma l’imbarazzo, se c’è, è solo temporaneo, e inizia a raccontare la sua vita partendo da Neema, una ragazza che oggi ha tredici anni e che lui ha conosciuto poco dopo il suo arrivo nel 2009 in Tanzania.

Neema (cioè Grazia)

«Quando sono arrivato in Tanzania, sono stato mandato alla procura di Dar es Salaam dove passano molti missionari e missionarie, sia della Consolata che di altre congregazioni o fidei donum.

Un giorno, una suora italiana di Vingunguti, slum alla periferia della città, mi ha chiesto se conoscessi un posto che potesse accogliere una bimba con un handicap grave. Io ero appena arrivato, e non sapevo.

Poco tempo dopo sono passato dalla suora per avere notizie, e lei mi ha portato in una baracca. Dentro c’era una mamma con un neonato al petto. In un angolo scuro c’era una bimba di due anni che non parlava, non stava in piedi e nemmeno seduta. La mamma era stata abbandonata dal marito perché considerata incapace di fargli una creatura normale. Ora aveva una relazione con un altro uomo da cui era nato il piccolo che stava allattando, ma quell’uomo non voleva tenere la bambina».

Fratel Sandro si è preso a cuore la situazione, e ha iniziato a cercare: «Nessuna istituzione era in grado di occuparsi di una bimba che avrebbe trascorso tutta la vita in modo non autonomo».

Negli anni trascorsi alla procura, fratel Sandro ha incontrato molte persone: «Un giorno è venuto padre Filippo Mammano, un fidei donum siciliano, per delle spese, e mi ha raccontato che nella sua missione di Ilula aveva un orfanotrofio. Allora io gli ho parlato della bambina e, dato che lui sarebbe rimasto da noi fino all’indomani e aveva il pomeriggio libero, mi ha detto: “Andiamo”.

Quando siamo arrivati lì non ci siamo detti niente, ma ho visto che anche lui è rimasto colpito. Siamo tornati in procura, abbiamo cenato assieme, e dopo cena ci siamo seduti fuori. Mi ha detto: “Portamela a Ilula. Ho già del personale che segue gli orfani. Una in più una in meno…”».

Ilula, dove padre Filippo è parroco da 30 anni, si trova a 450 km da Dar es Salaam. Fratel Sandro si è accordato con lui e gliel’ha portata, «naturalmente insieme alla mamma che è rimasta lì due giorni, e poi è tornata».

Fausta la biologa

Fratel Sandro è felice di parlare di Neema e di padre Filippo: muove le sue grandi mani in gesti ampi e accompagna la narrazione con tutto il corpo, sottolineando i passaggi importanti con piccole pause e puntando i suoi occhi nei nostri.

Prosegue: «Una delle prime bambine che padre Filippo ha aiutato è stata una certa Fausta, cresciuta in missione. Dato che era brava a scuola, l’ha mandata a studiare biologia a Catania. Quando si è laureata ed è rientrata in Tanzania, ha detto a padre Filippo: “Tu mi hai aiutata, e io per un anno lavoro gratis per l’orfanotrofio”. Fausta aveva già ricevuto due richieste di lavoro da due università, tra cui quella di Iringa, a 45 km da Ilula.

Nel frattempo, è arrivata Neema, e Fausta le si è affezionata. In più, poco tempo dopo, Fausta ha saputo che lì a Ilula era morta una mamma durante il parto. Aveva partorito una bambina e il papà non si era fatto vivo. Nessun parente. Allora Fausta l’ha presa con sé e l’ha adottata.

Oggi Fausta è l’incaricata dell’orfanotrofio. Intanto, avendo già Neema, hanno iniziato a prendere altri bambini con handicap vari, e ora, su 120 ospiti, la metà ha bisogni speciali, alcuni anche con problemi mentali».

Neema, nel tempo ha iniziato a mangiare da sola e a parlare. Stando con gli altri, impara molte cose. «Poi ha la sua carrozzina – prosegue fratel Sandro -. Adesso sta dritta e non cade più. E comincia anche a scrivere.

Padre Filippo prende gli scarti degli altri. Quando c’è qualcuno che non trova posto da nessuna parte, come Neema, da padre Filippo trova accoglienza».

«Vieni e vedi»

Fratel Sandro è arrivato in Africa nel 1973, a 23 anni. La professione perpetua l’ha fatta a fine ‘74, ma la prima professione temporanea l’aveva fatta nel ‘68, appena diciannovenne.

Gli chiediamo quando ha sentito la chiamata a diventare fratello missionario.

«Io non ho sentito nessuna chiamata – ci dice lui, forse un po’ divertito dall’idea di darci una risposta poco convenzionale -. Quando ero piccolo, il parroco mi ha chiesto più di una volta di fare il chierichetto, e io mi sono sempre rifiutato. I miei erano molto religiosi, mio papà era presidente dell’Azione cattolica del mio paese e durante l’estate mi mandava all’oratorio feriale. Il prete addetto all’oratorio chiamava tutti gli anni un missionario della Consolata dalla casa di Bevera (Lecco). L’estate prima di iniziare le medie è venuto padre Ugo Benozzo, che ci raccontava storie di missione e ci faceva vedere film. Un giorno mi ha chiesto: “Ti piacerebbe essere missionario?”. Io non ci avevo mai pensato, ma in quel momento dovevo dire sì o no. Mi sembrava che se gli avessi detto di no l’avrei offeso, allora ho detto di sì. Ho pensato: “Tanto questo non lo vedo più…”. Solo che dopo un mese è tornato in paese e mi ha cercato. Allora io ho cominciato a oppormi: “Ma no, io missionario!”. Lui mi ha detto: “Guarda, vieni e vedi…”, io alla fine sono andato, e sono ancora qui».

Agosto 1965, Olimpiadi estive. La squadra della IV ginnasio nel seminario di Bevera di Castello Brianza. Fratel Sandro è il portiere.

In Kenya

Entrato in seminario minore a 11 anni, dopo tre anni Sandro aveva già le idee chiare: voleva diventare fratello. «Dalla quarta ginnasio mi sono detto: “Io non voglio annoiare la gente con le prediche”. Sono stato sempre restio a presentarmi in prima persona».

Allora si è dedicato allo studio della meccanica e, finite le superiori, nell’ottobre 1968, ha fatto la prima professione temporanea. Destinato alla procura di Alpignano (To), vi è rimasto per quattro anni facendo anche un corso di edilizia per corrispondenza.

«Nel 1972 ero ad Alpignano quando padre Guido Motter, vice superiore generale, è arrivato e mi ha chiesto di partire per il Kenya. Quindi sono stato nove mesi in Inghilterra per imparare l’inglese, e in Kenya sono arrivato nel ‘73, destinato a Kaheti, a 140 km a Nord di Nairobi, in una scuola di edilizia e falegnameria. Lì c’era fratel Vincenzo Quaglia. Per tre anni ho gestito la scuola».

Nel frattempo, nella scuola tecnica di Sagana, 30 km più a Sud, volevano aprire la sezione di edilizia. «Il preside padre Giuseppe Bertaina, un giorno mi ha parlato del progetto. Io pensavo che volesse solo una consulenza, invece dopo quindici giorni è arrivato il superiore dicendomi: “Ti sei già messo d’accordo per andare a Sagana? Mi hanno detto che saresti disposto ad aprire la sezione di edilizia”, insomma – ride fratel Sandro -: mi sono trovato incastrato».

A Sagana fratel Sandro è rimasto quattro anni, fino a quando, nel 1980, è stato mandato a Nanyuki per dare una mano nella procura della diocesi di Marsabit. «Lì ho fatto due anni: raccoglievamo e spedivamo materiali di tutti i tipi.

Poi mi hanno chiesto di aiutare padre Ottavio Santoro, amministratore regionale del Kenya, e mi sono trasferito nella capitale».

Qualche gara di rally

Quando fratel Sandro è andato a Nairobi, ha incontrato un suo ex studente che nel frattempo si era sposato, trasferito nella capitale e aveva iniziato a fare i rally.

«A Sagana insegnavo disegno per le costruzioni e disegno meccanico. Quando sono finito a Nairobi e ho incontrato questo mio studente, lui mi ha chiesto se volevo andare nel suo team. Io gli ho detto: “Guarda che non sono un meccanico”. E lui: “Ma come? A scuola mi hai insegnato disegno!”. Comunque, per curiosità, sono andato, e, alla fine, una corsa tira l’altra, mi ha coinvolto nell’organizzare il lavoro dei meccanici, e così sono stato nel mondo dei rally per cinque anni. Ero giovane. Avevo molta voglia di girare. In Kenya ci sono deserti, montagne, pianure, e con i rally ho avuto occasione di girarlo in lungo e in largo. In ogni caso – conclude -, andavo solo qualche domenica all’anno».

A Sagana con Fr Marino De Cesari e fratel Achille Gasparini.

A Morijo tra i Samburu

A Nairobi nell’amministrazione, fratel Sandro è rimasto dal 1982 al 1986. «Un giorno il superiore mi ha detto: “Vai in seminario”. Allora ho fatto l’amministratore in seminario per quattro anni. Poi ho detto al superiore che sentivo di non essere mai stato in missione, nonostante fossi in Africa dal ‘73. Un giorno mi ha chiamato e mi ha chiesto se volevo andare nel Samburu, a Morijo, con padre Aldo Vettori. Sono stati quattro anni magnifici. Lì mi sono sentito missionario.

Morijo si trova in cima a un cucuzzolo. Per fare una casa, e la chiesa, prendevamo dei pali di legno, poi mandavo gente a raccogliere sassi piatti e li inchiodavo con chiodi di sei pollici. Da fuori sembrava una casa di sassi. Dentro invece mettevo una rete e intonacavo creando una camera d’aria per tenere il fresco.

Poi c’era il problema dell’acqua. In cima al cucuzzolo ho fatto un muretto. Quando pioveva, l’acqua veniva raccolta in due cisterne, e da lì veniva giù e si usava per lavarsi. Per bere veniva bollita e filtrata. Quando pioveva, si formava una specie di torrente. L’acqua veniva fuori da una pietra. Allora ho iniziato a scavare e quando siamo arrivati alla profondità di un metro abbiamo trovato l’acqua. In seguito, abbiamo fatto fare un pozzo».

La ragazza posseduta

«Nel territorio della missione di Morijo c’erano i Samburu e i Turkana. Un giorno mi hanno chiamato per una donna Turkana che dicevano indemoniata. Lì c’era anche l’infermiere che mi ha detto: “No, è epilettica”. Allora abbiamo preso la ragazza, che avrà avuto 18 anni, e l’abbiamo portata all’ospedale di Wamba dove una suora mi ha detto: “Queste sono le medicine da darle, se le prenderà, starà bene”. Allora l’ho riportata al suo villaggio e ho chiesto al catechista di dare tutti i giorni la pastiglia alla ragazza. Dopo un anno, non aveva più crisi epilettiche. La gente del suo villaggio però mi ha detto: “Questa ragazza che hai portato via e guarito, non troverà un marito. Nessuno ha il coraggio di avere una relazione con lei, chissà che non ci sia un rimasuglio del demonio”. E mi hanno detto: “Fai come se fosse tua”. Per gli anziani era diventata mia responsabilità. Allora io l’ho mandata al catechismo nel villaggio, e dopo un po’ è stata battezzata».

L’italia

Dopo l’esperienza nel Samburu, fratel Sandro, nel 1994 è tornato a Nairobi nell’amministrazione. Dopo sei anni, nel 2000, ha ricevuto la notizia che sua mamma stava male, ed era grave: «Nel 1989 era morto mio papà. Lui era paralizzato, e i miei fratelli avevano fatto a turno per assisterlo. Quando si è ammalata mia mamma, una mia sorella mi ha detto. “Ci sono missionari che vengono a casa per assistere i genitori ammalati. Vieni anche tu. Mamma è grave”. Allora ho chiesto di venire in Italia, ma quando sono arrivato, mia mamma è morta dopo due settimane. Era il 2001. Quindi sono andato a Roma per chiedere di tornare in Kenya, ma il vice superiore mi ha detto: “Ti abbiamo destinato in Italia, e adesso rimani in Italia”. Ha chiamato padre Franco Gioda, superiore in Italia in quel momento, e mi hanno mandato ad Alpignano a servizio dei missionari anziani.

Gioda mi ha detto: “Se accetti, io in un anno ti rimando in Africa”.

Passato l’anno mi sono fatto avanti per chiedere di ripartire, ma Gioda mi ha chiesto: “Perché? Non ti trovi bene?”. Poi ha tirato fuori gli Atti degli apostoli… sai com’è Gioda… Alla fine sono stato cinque anni. Fino al 2006».

Liberia

Quando finalmente fratel Sandro è tornato in Africa, non è tornato in Kenya, ma è andato in Liberia, paese appena uscito da 14 anni di guerra civile. «Padre Stefano Camerlengo mi ha proposto di andare nel lebbrosario di Ganta, sul confine con la Guinea Conakry, per aiutare le suore della Consolata.

Se dovessi dire dove mi sono trovato meglio in missione, risponderei a Morijo tra i Samburu e a Ganta tra i lebbrosi. Tra i due, comunque, sceglierei la Liberia. Mi occupavo della manutenzione del lebbrosario, ma tutti i giorni facevo il giro dei malati. Con loro mi sono trovato bene. Subito dopo la guerra erano una quarantina, dopo un po’ sono arrivati a 250. In Liberia quell’ospedale era un punto di riferimento. Venivano anche dalla capitale.

Tra i lebbrosi mi sentivo voluto bene. Quando ho detto che sarei andato via, volevano costruirmi una casetta per quando sarei tornato a trovarli».

In Tanzania

In Liberia, fratel Sandro si era abituato a stare da solo. «Quando sono venuti a dirmi che dovevo tornare in comunità, ho detto: “Guardate che ho 60 anni, mio fratello, che è più giovane di me, è andato in pensione quest’anno, non pensate che possa fare chissà che cosa”. Mi hanno risposto: “Va bene, per la tua pensione vai in Tanzania”».

Arrivato nel 2009, fratel Sandro ha fatto due anni e mezzo in procura a Dar es Salaam, dove ha conosciuto Neema e padre Filippo, e poi quattro anni nella casa regionale di Iringa, come segretario del consiglio regionale.

«Durante la conferenza regionale del 2015, padre Sandro Nava ha parlato di una farmacia a Iringa iniziata da padre Salvador Del Molino, e ha chiesto a me di occuparmene. L’idea era questa: fare una farmacia per vendere i medicinali alle missioni, ai dispensari e alla gente a prezzi accessibili. Si trattava di fare un magazzino per vendere all’ingrosso. Ho iniziato, e ora vendo medicine per un raggio di 200 km».

Fratel Sandro Bonfanti e papa Francesco

Quando diventi prete?

Se c’è una cosa su cui fratel Sandro torna volentieri nelle due ore che stiamo insieme, è la specificità della sua vocazione.

«Io non sono un sacerdote. Sono missionario della Consolata, ma sono un fratello.

Da quando sono diventato fratello, tutti mi chiedono: “Quando diventi prete? Perché non diventi prete?”. Io però non mi sono mai visto come un sacerdote. Desideravo andare in missione e aiutare le missioni e la gente.

Anche quando sono diventato fratello mi facevano domande: “Sai quello che fai? Sei sicuro?”.

Ecco, sulla parola sicuro, direi che uno non è mai sicuro, uno ci prova. Avevo 23 anni quando sono partito per il Kenya. Ho detto: “Io ci provo”, e ci sto ancora provando.

Io vedo la vocazione del fratello nella vita di Gesù. Lui infatti ha vissuto come una persona normale, come un laico. Non si è presentato come sacerdote, non era un levita, non era un fariseo. Quando la gente lo vedeva, diceva: “È figlio del falegname”.

Poi guariva, insegnava, s’interessava della gente.

Il fratello trova un esempio per sé nella vita di Gesù. Il fratello è quello che si mette al servizio degli altri. L’evangelizzazione non si realizza con il proselitismo, ma avviene per attrazione: vedono che tu ti comporti in un certo modo e si sentono di fare altrettanto.

Anche noi fratelli, pur non predicando, con il nostro esempio siamo evangelizzatori.

Noi padri e fratelli della Consolata abbiamo gli stessi voti, lo stesso nome, viviamo in comunità, però per gli uni la professione è quella del sacerdote, noi fratelli invece possiamo fare qualsiasi mestiere e ci esprimiamo con quello. Oggi il fratello può essere un avvocato, uno che tiene i conti, un medico, un infermiere, un tecnico.

Questo per dire che la missione non è fatta solo da sacerdoti annunciatori, ma anche da tanti professionisti di qualsiasi campo.

E se ci sono dei laici che desiderano avere il nostro spirito, ben vengano. Perché non è necessario essere dei fratelli, come lo sono io. La missione è aperta a tutti. La missione è aprire il cuore della gente. Tu devi avere un cuore aperto al mondo».

Luca Lorusso




Popolo Indigeno d’Europa

testo e foto di  Valentina Tamborra |


Nell’estremo Nord del continente da sempre vivono i Sami. Nella storia oppressi e assimilati, stanno oggi lottando per mantenere la loro cultura e tradizioni. A dispetto della modernità che avanza.

I Sami sono una popolazione indigena che oggi conta circa 75mila persone. Divisi dalle frontiere di quattro stati – Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia – vivono in un’area da loro chiamata Sapmi.

L’area ha una propria bandiera i cui colori identificano le sue diverse zone: rosso per la Svezia, verde per la Finlandia, giallo per la Russia e blu per la Norvegia, dove vivono la maggior parte dei Sami.

I nativi di queste zone sono comunemente definiti «lapponi». Il termine però, aveva inizialmente una valenza dispregiativa in quanto la parola svedese «lapp» stava a indicare una «toppa, pezza».

Solo nel 1989 è stato istituito un parlamento sami della Norvegia, in riconoscimento dei loro diritti. L’edificio è stato costruito nella città di Karasjok e la sua architettura ricorda la forma di un lovvo, ovvero una tenda (abitazione tradizionale dei Sami dediti all’allevamento delle renne), pur essendo moderno e all’avanguardia.

Inoltre, dal 1956 è attivo il Sami Council, organizzazione volontaria non governativa che ha come scopo la promozione della cultura e la difesa dei diritti e degli interessi di questo popolo.

La costituzione di un parlamento sami è di particolare rilevanza, in quanto i nativi del Sapmi hanno subito una sorte che sfortunatamente, nella storia, ha toccato diversi popoli nativi.

Sami, Valentina Tamborra

Assimilazione forzata

Tra il 1850 e il 1970 infatti, il popolo sami ha subito quella che è stata chiamata «norvegizzazione».

Durante questo periodo ai Sami residenti in Norvegia venne impedito di parlare la propria lingua e imposto di assumere un cognome norvegese per poter acquistare delle terre e integrarsi con il resto della popolazione norvegese. A quei tempi appartenere al popolo Sami era un marchio d’infamia.

Gli adulti vennero assimilati al modo di vivere occidentale e solo con estrema fatica alcuni di loro – soprattutto i Sami della tundra – continuarono a lavorare con le renne e a preservare la tradizione.

I bambini nati durante il periodo della norvegizzazione infatti, spesso non imparavano neppure la propria lingua. I genitori, per preservarli e far sì che si integrassero fra la popolazione norvegese, parlavano con loro solo nella nuova lingua. Ad oggi molti sono gli adulti che sentono di aver perso le proprie radici.

Una delle prime distinzioni da fare quando si parla di questo popolo è quella fra Sami di mare e Sami della tundra. I primi, vivendo lungo le coste dei fiordi che costellano il paese, sono stati fra i primi a subire il processo di norvegizzazione. Fra di loro, la percentuale di persone che non parlano Sami è molto alta. Mediamente le persone fra i 30 e i 60 anni di età, infatti, non conosco la propria lingua madre. Per ovviare a questo, sono in corso diverse iniziative per il recupero dell’identità: il parlamento sami, infatti, ha reintrodotto la lingua sami nelle scuole e con essa anche lo studio della tradizione e della storia. Esistono poi specifici corsi per adulti che desiderino apprendere la lingua.

I Sami della tundra invece, in quanto nomadi dediti all’allevamento delle renne, hanno subito meno la norvegizzazione e in città come Karasjok e Kautokeino, entrambe in Norvegia, l’85% della popolazione parla sami come prima lingua.

Sami, Valentina Tamborra

I nomadi della tundra

I Sami della tundra sono dediti all’allevamento delle renne e questo li rende nomadi in quanto debbono seguirne i movimenti.

Sin da bambini vengono iniziati dai genitori a questo lavoro che prevede un costante e completo contatto con la natura.

Le renne vivono in assoluta libertà e sono gli uomini a doversi adattare ai loro movimenti. Gli animali infatti, si spostano dalla costa alla tundra a seconda delle stagioni, e seguono la stessa tratta da millenni: lo spostamento segue questa rotta da quando i primi Sami iniziarono a vivere di questa attività, e il movimento è strettamente connesso alla ricerca di cibo da parte delle renne.

I Sami sono al seguito delle renne. Se una volta essi si avvalevano di slitte trainate da renne e sci, oggi le renne vengono dotate di collare gps, e un’apposita App permette di localizzare con più precisione possibile dove gli animali si stanno muovendo.

Questo ha ovviamente semplificato di molto il lavoro dei Sami: prima dell’avvento del gps infatti, era necessaria una costante vigilanza sulla mandria. Intere famiglie Sami vivevano per mesi smontando e rimontando il proprio lovvo seguendo il movimento degli animali. Quando la mandria si fermava a riposare, anche la famiglia poteva fermarsi, ma se gli animali si rimettevano in cammino bisognava immediatamente seguirli. L’ultima transumanza con le slitte e le renne è stata fatta, in Norvegia, nel 1976.

Oggi grazie alla moderna tecnologia, i Sami hanno costruito delle cabin (sorta di piccoli rifugi costruiti in legno, molto basici, vedi box) nelle tratte di percorrenza delle renne e, con potenti motoslitte in inverno e quad (specie di moto a quattro ruote) in estate, sono in grado di raggiungere gli animali molto velocemente.

Sami, Valentina Tamborra

La marchiatura

In estate, quando i nuovi nati fanno capolino nella mandria, è il momento della conta: ogni Sami si predispone a seguire la mandria e direzionarla verso grandi recinti dove ogni renna giovane verrà marchiata con il simbolo proprio del Sami che riuscirà a prenderla.

Portare le renne nei recinti della marchiatura è operazione tutt’altro che semplice: per loro natura infatti, in quanto animali liberi e non abituati all’uomo, le renne tendono a fuggire non appena qualcuno si avvicina. Così i Sami si dividono in gruppi: le motoslitte accerchiano le renne e, stando a una distanza importante (circa 200 metri), cercano di spingerle verso i recinti. Le renne si spostano naturalmente in una sorta di fila indiana che può raggiungere centinaia di metri se non a volte anche qualche chilometro. Raccogliere la mandria è un’operazione assai delicata in quanto se uno solo degli animali cambia percorso, tutte le altre renne lo seguono.

Dopo la marchiatura, che avviene con il tradizionale coltello Sami realizzato a mano utilizzando legno, osso e acciaio, le renne vengono immediatamente rimesse in libertà.

In inverno, tra dicembre e febbraio, sarà il momento di tornare nella tundra e scegliere quali animali verranno utilizzati per fornire carni, pelli e quanto serve per il sostentamento.

Oggi questa forma di allevamento è messa a dura prova in quanto, con lo scavo di nuove miniere e l’installazione di pale eoliche o tralicci della corrente, le renne trovano difficile orientarsi. La nuova conformazione del paesaggio nonché i rumori prodotti da queste installazioni disturbano gli animali durante la transumanza costringendoli a cambiare percorso e facendo loro spendere molta energia in più rispetto al passato. Questo mette a dura prova la mandria e molti animali non sopravvivono. La paura dei Sami, oggi, è quella di vedere nuovamente venir meno la propria tradizione e la propria cultura in nome dell’avanzamento tecnologico.

Sami, Valentina Tamborra

Nel profondo dei fiordi

I Sami di mare vivono prevalentemente lungo le coste norvegesi e non sono nomadi.

Il nome «Sami di mare» potrebbe suggerire una tradizione di pesca, ma in realtà essi si occupavano, in passato, prevalentemente di allevamento di ovini e di tessitura di lana. La pesca non rappresentava la principale fonte di sostentamento ma era parte dell’economia che si reggeva prevalentemente sul baratto. I legami fra Sami di mare e Sami della tundra infatti, erano e sono ancora oggi fortissimi. Le prime strade di collegamento con il resto della Norvegia infatti, vennero costruite solo nel 1970, dunque fino a quegli anni l’economia doveva per questioni di forza maggiore, basarsi sullo scambio fra le due popolazioni Sami.

Se i primi potevano fornire lana, materiale tessile e oggettistica realizzata in legno e osso (oggetti tipici chiamati duodji e dunque utensili come coltelli, calze in lana, coperte, il tutto rigorosamente fatto a mano), i secondi potevano rifornire i Sami di mare con pelli di renna (ottimo isolante dal freddo di queste zone oltre il circolo polare artico), e carne.

Oggi i Sami di mare svolgono i più svariati lavori: perfettamente integrati nel tessuto sociale norvegese, non vivono più di forme di baratto ma sono impegnati in lavori quali insegnanti, medici, cuochi.

Sami, Valentina Tamborra

Spiritualità e religione

Sebbene i Sami siano per lo più luterani, il loro legame con la religione d’origine, lo sciamanesimo, resta estremamente forte.

Lo sciamanesimo era un culto politeista che traeva la propria ispirazione dalla natura. Tra le più antiche divinità troviamo quindi la Madre Terra (colei che governa le nascite e dunque la vita) e il Dio del tuono.

Tra il XIII e il XVI secolo ci furono molte spedizioni missionarie atte a convertire i Sami al cattolicesimo e al luteranesimo. Con l’avanzata dei coloni scandinavi e norvegesi, intere comunità sami furono costrette ad abbandonare le pratiche religiose pagane.

Proprio in Norvegia, nel 1716, nacque il Seminarium Lapponicum: organizzazione con il compito di cristianizzare i Sami fornendo loro le Sacre scritture in lingua Sami. Questa iniziativa fallì in quanto la maggioranza ecclesiastica si oppose alla conservazione dei valori tradizionali (fra cui la lingua) e si procedette al sequestro e al rogo degli oggetti simbolici, come i tamburi, legati al culto pagano.

Fu con l’arrivo di Lars Levi Laestadius, nel XIX secolo, che avvenne una vera svolta.

Questo pastore luterano di origine sami fondò un suo proprio movimento, il Laestadianesimo.

Il primo precetto di questo movimento è la remissione dei peccati e l’incontro con lo Spirito Santo.

Dopo l’arrivo dei coloni infatti, complice il forte cambiamento di vita con l’imposizione di nuove abitudini, l’esproprio forzato dai terreni, la perdita della lingua madre, molti Sami erano caduti nella spirale dell’alcool.

L’alcool però era altresì associato alle pratiche sciamaniche, necessario per cadere in trance.

Laestadius, grazie alla fondazione del suo movimento religioso, aiutò i Sami a trovare una nuova salvezza dalla spirale di abbruttimento nel quale erano caduti dopo l’invasione dei coloni, ma allo stesso tempo impose loro concetti molto restrittivi creando fratture fra la comunità stessa. Chi non si convertiva, infatti, veniva guardato con sospetto e messo in qualche modo al bando dalla comunità.

Il racconto del processo di colonizzazione e di quanto avvenne in quel tempo è ben documentato nel film «La rivolta di Kautokeino» del regista Nils Gaup. Il film è incentrato sulla rivolta di un gruppo di Sami, nel 1852, contro un mercante locale e il suo alleato, un pastore luterano.

Ad oggi, come dicevamo, molti Sami seguono il cristianesimo ma continuano a conservare figure come il «guaritore». La differenza con il passato è che, se una volta il guaritore/sciamano, utilizzava il tamburo per mettersi in collegamento con gli Dei e guarire una persona, oggi la guarigione viene operata tramite l’uso della Bibbia e di Gesù. Questa mescolanza fra cristianesimo e paganesimo è ancora più forte quando scopriamo che alla celebrazione del Natale i Sami affiancano il «Nissetoget» per la celebrazione del Capodanno.

La notte del 31 dicembre, infatti, è usanza ritrovarsi verso le ore 20 per dar luogo a una lunga processione in maschera: ogni famiglia, nelle settimane precedenti all’evento, costruisce maschere e costumi.

Le maschere sono spaventose perché debbono rappresentare i demoni o comunque il «male» che verrà bruciato alla fine della processione, a mezzanotte, in un grande rogo simbolico per far iniziare il nuovo anno al meglio.

Con il rogo delle maschere, gli spiriti maligni vengono allontanati e si fa spazio agli dei benevoli a cui rivolgere le proprie preghiere per un anno nuovo sereno.

Sami, Valentina Tamborra

Le pietre del sacrificio

C’è poi un’altra usanza che dimostra come l’antico credo legato alla terra e alla natura sia radicato e forte. Nella tundra infatti, ci si può imbattere in quelle che vengono definite «pietre del sacrificio». Si tratta di grosse rocce su cui i Sami lasciano offerte (possono essere monete, corna di renna, carne) per ingraziarsi gli dei della natura e ottenere così una buona pesca o un buon anno di caccia o di allevamento.

Oltre alle pietre del sacrificio, restano ancora oggetto di attenzione e di culto altre rocce: un tempo infatti, prima dell’avvento del luteranesimo, i Sami identificavano come luogo sacro ove ritrovarsi a pregare, delle pietre di forma particolarmente allungata verso il cielo – luoghi che simboleggiavano l’unione fra terra e mondo invisibile.

Molto importante è poi per questa popolazione, il legame con gli antenati: la morte, che è vista come passaggio e naturale parte della vita, non è la fine di tutto. Per i Sami chi ci ha preceduto è in qualche modo eternamente presente. Una credenza diffusa infatti è che portare via un oggetto da una delle molte pietre del sacrificio, possa far infuriare gli spiriti che non daranno pace ai vivi sino a quando l’oggetto non verrà riposto nel luogo ove è stato trafugato.

Paganesimo, cattolicesimo, luteranesimo e sciamanesimo si fondono creando così una spiritualità molto forte che attinge alla tradizione antica.

Tutto questo è ben espresso nelle parole di un guaritore che per rispondere alla domanda «in quale dio credi?», ha usato la seguente espressione: «Che importanza ha il nome che gli dai? Se è uno, se sono molti? Ciò che conta, è che tutti si preghi per la pace».

Sami, Valentina Tamborra

La natura e la lingua

I Sami, sia di mare che della tundra, vivono strettamente a contatto con la natura. Questo li porta a un rispetto e a un rigore estremo.

Pur dovendo cacciare e allevare, non esiste Sami che non biasimi ad esempio la pesca o la caccia sportiva.

Per questa popolazione infatti, il rispetto della Madre Terra resta la base di ogni azione. Prima della caccia, prima della pesca, all’inizio della stagione della transumanza, si ringrazia e si chiede il permesso a Madre Terra per portare avanti la propria attività.

Un altro aspetto singolare e che racconta molto di quanto possa essere complicato e allo stesso tempo strettamente legata alle questioni ambientali la cultura Sami, è la loro lingua.

Catalogata in undici differenti dialetti, di cui uno estinto nel 1800 e l’altro nel 2003, solo sei di loro hanno una storia letteraria. È molto complicato comprendere e imparare questa lingua in quanto per una singola parola abbiamo talvolta più di 100 diverse espressioni, un esempio concreto è la parola neve. Vivendo nell’artico infatti, ove per circa sei mesi all’anno la neve, il ghiaccio e la poca luce fanno da padroni, è necessario poter definire al meglio uno dei componenti essenziali che determina la loro capacità di movimento e di lavoro in territori tanto duri come la tundra. E così per descrivere una neve secca, o fragile, o farinosa, o ghiacciata si usano parole completamente diverse fra loro.

Modernità e tradizione

Ad oggi risulta sempre più difficile per i Sami portare avanti il loro tradizionale stile di vita per via di diversi fattori che concorrono a rendere difficile la prosecuzione di una vita nomade e «al servizio» dei ritmi naturali: cambiamenti climatici, riduzione delle terre loro concesse per l’allevamento delle renne, nonché un turismo che raggiunge sovente mete che sino a poco tempo fa erano precluse proprio perché dedicate all’allevamento e al pascolo delle renne, sono tutti elementi che rendono difficile il mantenimento della tradizione.

In alcune città fra Norvegia e Svezia si sono già verificate proteste al fine di impedire la costruzione di nuove miniere, e alcuni capi della comunità dei Sami della tundra hanno provato a far sentire la loro voce ai propri governi. Nonostante ciò sembra inevitabile l’avanzamento del progresso e con esso, come spesso avviene, il sacrificio di realtà minori e dedite a una vita lontana dalla frenesia moderna.

Ciò che si spera, nella comunità, è che la tenacia, la forza di volontà e l’attaccamento alle radici consentano ai giovani Sami di portare avanti la propria tradizione anche se con fatica e sacrificio.

Valentina Tamborra

Sami, Valentina Tamborra

Vivere nelle cabin

Il riparo dei «rennari»

Le cabin, rifugi molto spartani, hanno sostituito l’utilizzo dei lovvo, tende tipiche che oggi vengono utilizzate essenzialmente per affumicare la carne di renna. Ciononostante la vita nella cabin è tutt’altro che agevole: l’energia elettrica viene fornita da un generatore posto all’esterno della cabin stessa e non è presente acqua corrente.

Date le temperature rigide dell’inverno, all’interno della cabin raramente si superano i 15 gradi e si è costretti a stare in molti dentro spazi davvero risicati. Spesso infatti gli allevatori condividono un rifugio formato da due o tre piccole stanze, in sei o sette persone.

L’acqua per cucinare o lavare le stoviglie viene ottenuta grazie al ghiaccio che si forma sulla superficie dei laghi. Raccolto in contenitori di metallo, viene poi sciolto sul fuoco.

Il bagno non è ovviamente presente, si costruiscono delle piccole capanne in legno a circa 200 metri dalla cabin.

I Sami che seguono la transumanza spesso restano nella tundra per due o tre settimane, adattandosi così a un modo di vivere estremamente semplice e spartano.

V.T.

Sami, Valentina Tamborra

 




LE REGOLE DI PINTOLANDIA

testo e foto di Paolo Moiola e Marco Bello |


A Roraima sono stati allestiti 13 rifugi (abrigos) per i migranti venezuelani. Rientrano tutti nell’ambito della cosiddetta «Operação Acolhida», varata nel marzo 2018 e coordinata dall’esercito brasiliano. A Boa Vista abbiamo visitato l’abrigo di Pintolandia che ospita soltanto indigeni.

Boa Vista. Sul marciapiede opposto, proprio ai margini di un grande piazzale disadorno, sono accampati gruppi di persone con sacchi riempiti dei loro pochi averi, per lo più vestiti e qualche padella. Ci sono bambini e spesso anche neonati. Sono in attesa di poter entrare nel rifugio dall’altra parte della strada. Sono tutti indigeni perché Pintolandia – il nome viene dal quartiere – è un abrigo aperto soltanto a richiedenti di etnia indigena.

L’accesso è presidiato. Ci sono le transenne e ci sono i controlli. Per entrare o uscire, gli ospiti sono tenuti a mostrare un tesserino con foto e dati anagrafici. A tutti gli altri l’ingresso è interdetto a meno di non passare per una lunga e complicata richiesta formale. E la risposta positiva non è affatto scontata. Noi siamo stati fortunati avendo ottenuto un permesso di visita per vie meno formali e più veloci.

Mostrato un documento ai militari di guardia e firmato un registro, possiamo dunque passare e attendere l’arrivo della nostra guida. Meire lavora per la Fraternidade – Federação humanitária internacional (Ffhi), un’organizzazione umanitaria brasiliana legata alla chiesa indipendente Rede Luz, fondata da José Trigueirinho Netto nello stato di Minas Gerais. La Ffhi, assieme all’esercito e all’Acnur delle Nazioni Unite, è impegnata nell’Operação Acolhida (Operazione accoglienza), varata nel marzo 2018 dal governo brasiliano per assistere i migranti venezuelani. Ma è il ministero della Difesa che ha la responsabilità della logistica e il comando delle operazioni [vedi sotto: L’umanitario militarizzato (e l’ipotesi dell’invasione)]

Un mare di amache

La prima cosa che vediamo – impossibile non notarla – è uno striscione che penzola dalla tettoia che protegge l’entrata: vi sono elencate le regole dell’abrigo. Severe e dettagliate, come per esempio: nessuna entrata tra le 22,00 e le 5,30; nessun visitatore esterno; niente fumo e alcol all’interno del rifugio.

Già dall’entrata è possibile avere un’idea della struttura del campo: al centro c’è un grande capannone (sormontato da uno striscione con la scritta «Operação Acolhida Abrigo Pintolandia»), mentre ai suoi lati sono state montate tende e tendoni. All’interno del capannone – alto, buio e triste – sono state costruite delle banali strutture in ferro – sia verticali che orizzontali – che hanno uno scopo solo ma fondamentale: consentire agli indigeni di appendere le loro amache. Che sono tante. Un mare. Attorno a esse, indumenti, scarpe, borse. E, come sempre, tanti bambini che giocano nonostante tutto.

La parola ai cacique

A Pintolandia, ci sono nove cacique («aidamo», in lingua warao), ognuno dei quali coordina un gruppo di circa 70-80 indigeni. In sostanza, i cacique fanno da tramite tra gli ospiti e le organizzazioni.

Euligio Baez, 34 anni, una moglie e sei figli, è uno di essi. «Stare bene – racconta – vuol dire avere un posto dove vivere con la famiglia. E un abrigo con 700 persone non è un buon posto. Fa molto caldo sia di giorno che di notte e poi devi avere una tessera per entrare e uscire. Quando vengono a visitarci i nostri familiari, devono stare fuori. Avremmo bisogno di uno spazio per noi, per continuare la nostra vita, come indigeni e come warao. Abbiamo bisogno di terra. Perché dalla terra viene tutto. Tra Brasile e Venezuela un tempo non c’erano frontiere.
I nostri nonni raccontavano che gli indigeni potevano andare dove volevano e viverci, come fossero nella loro terra. Adesso arrivi e non ti fanno passare. Chiedi della terra e ti dicono che non puoi averla».

Anche Adrian Valbuena, 29 anni, è cacique. È arrivato qui da Tucupita (Venezuela) quasi due anni fa. «Non mi piace molto, ma va bene. Avremmo bisogno di una casa e di un lavoro, di andare in canoa, di pescare e seminare, di fare quello che facciamo nelle nostre comunità. I nostri figli stanno imparando un’altra cultura, non stanno seguendo la nostra. Io ho una figlia, che è nata qui, è brasiliana. A lei vorrei insegnare come noi viviamo nella nostra terra».

Tutti i cacique incontrati parlano del cibo, quasi sempre per esprimere lamentele. Come Nazario Olarda, 49 anni: «Una marmita di solito contiene riso e carne o salsiccia. Ma questo non è il nostro cibo. Il nostro è il pesce, la yuca, l’ocumo, il platano. Qui riso riso e ancora riso. Non arriva pollo, ma soltanto maiale».

Il cacique Andres Nuñes, 21 anni, è a Pintolandia con la moglie da un anno. Sua figlia è nata qui. In Venezuela sono rimaste la mamma, una sorella, una cugina. «Ma altre tre sorelle – spiega – sono già a Manaus. Vogliamo andare avanti per migliorare, perché qui non stiamo facendo niente. Vorremmo poter mandare qualcosa alla famiglia in Venezuela. Per tutto questo penso di andare a Manaus per cercare lavoro».

Sotto le tende

Fuori del grande capannone sono state montate delle tende e alcuni tendoni. Qui gli ospiti sono più esposti alle bizze del tempo, ma hanno più luce e più ricambio d’aria. Incontriamo alcune donne warao che, ai lati di una tenda, stanno producendo oggetti artigianali (contenitori, vassoi, braccialetti, eccetera) usando le fibre della palma. L’artigianato è una delle poche attività lavorative che i migranti warao riescono a svolgere in Brasile. Per questo e per molti ltri fattori (tra cui anche la probabile futura conclusione dell’Operação Acolhida) il loro futuro appare molto incerto.

Improvvisamente, tra le amache poste sotto un tendone, notiamo una ragazza – giovanissima e molto bella -, che abbiamo già incontrato nel campo di Ka Ubanoko (MC gen.-feb. 20), dove si era recata per far visita a un’amica. Maglennis – questo il suo nome – è ancora minorenne (è nata a fine 2002), ma è già mamma di una bambina di due, Angelina.

In quell’occasione, oltre a mostrarci il tesserino indispensabile per entrare a Pintolandia, ci aveva raccontato che la sua piccola aveva necessità di una delicata operazione chirurgica, motivo principale che l’aveva spinta a scappare da un Venezuela da tempo senza medicine.

Questa volta ci racconta che l’operazione è stata eseguita con successo all’ospedale di Boa Vista. Inoltre, dal campo d’accoglienza di Pacaraima sono arrivati anche i nonni Ramon e Yolanda e, dunque, lei e la bambina non sono più sole. Oggi Maglennis è felice, ma rimane (comprensibilmente) incerta quando si tratta di disegnare il proprio futuro.

Più decisa appare Katerine Marin, 24 anni. Forse per questo suo atteggiamento è stata eletta cacique, unica donna tra otto uomini. «Prima di me i cacique erano solo uomini. Mi sono detta: perché non può farlo una donna? Siamo capaci, forti. Pur non avendo un’esperienza specifica, le persone mi hanno eletto. Organizzare la comunità, all’inizio è stato difficile. La gente però mi ha appoggiato e continua ad aiutarmi. Tutti insieme possiamo cambiare per il benessere collettivo. Il mio lavoro è dare voce alle molte preoccupazioni delle persone; io raccolgo le informazioni e le porto al coordinamento, che è in mano alla Fraternità, per cercare una soluzione ai problemi».

Katerine è qui con due fratellini di undici e dodici anni. Racconta: «Nostra mamma è morta l’anno scorso. Il papà è in Venezuela, ma si è trovato un’altra donna. Sono rimasta responsabile dei due fratellini. Sto cercando loro un posto per andare alla scuola statale: io voglio che studino. È qualcosa di importante per dar loro la possibilità di una vita degna. L’istruzione è una cosa fondamentale. Abbiamo cercato qui, ma dicono che non c’è posto. Così sono pochi i warao che riescono ad andare a scuola».

Donna, cacique, sorella, mamma. Chiediamo a Katerine cosa sogna per sé: «Vorrei lavorare, perché voglio andare avanti. Non voglio sempre dipendere da qualcuno. Essere indipendente, avere qualcosa di stabile, qualcosa di degno, una casa, ad esempio. Poi, se la situazione migliorerà, vorrei tornare in Venezuela».

Tra cibo e libertà

Luis Ventura, responsabile del Consiglio indigenista missionario (Cimi), del coordinamento regione Nord I, ci spiega le difficoltà: «A partire dal 2017 la misura principale dello stato per i migranti è stata quella dell’abrigo. Sistema caratterizzato da una grande rigidità, a livello amministrativo. Ciò impedisce il movimento dei Warao e il libero accesso degli stessi a relazioni con entità come il Cimi e altre della società civile. Il fatto che l’accesso agli abrigo sia molto controllato, è una difficoltà che ci ha impedito di avere una relazione fluida con loro. Per noi sarebbe importante capire se le loro modalità di organizzazione sono rispettate, i loro desideri e necessità ascoltate.

Nel 2018, i Warao vennero al Cimi per denunciare una serie di situazioni che si verificavano nell’abrigo, e tentammo di avere una relazione con le entità che in quel momento stavano dirigendo Pintolandia, ma non fu possibile. Iniziammo a intervenire come facciamo quando i diritti fondamentali non sono rispettati, pure da parte dello stato, ovvero appellandoci ai meccanismi democratici di garanzia che il sistema brasiliano mette a disposizione».

Gli operatori del Cimi hanno difficoltà a incontrare gli ospiti di Pintolandia e devono farlo all’esterno dell’abrigo, quasi di nascosto. «Molti di essi – ricorda Luis Ventura – sentono che questa rigidità sta bloccando la loro possibilità e capacità di sognare e di prendere decisioni. Mi hanno detto che non possono continuare a vivere semplicemente per avere garantito un piatto di cibo».

E continua: «Purtroppo la gente deve scegliere tra la garanzia di avere da mangiare, che esiste solo negli abrigo, e la garanzia di avere autonomia e libertà per prendere le proprie decisioni. Questa è la grande contraddizione: l’alimentazione è dentro a Pintolandia, mentre in Ka Ubanoko c’è l’autonomia ma non c’è alcuna garanzia di riuscire a sfamarsi».

«Noi diciamo – conclude Ventura – che, se la politica migratoria porta a questo, ha fallito completamente, perché impone una scelta capestro, soprattutto alle famiglie con bambini».

Yakera?

Camminando tra i profughi ospitati a Pintolandia, arriviamo a un gruppo di tende dove si stanno facendo le pulizie. Sono stati portati all’aperto i materassi e stesi i panni. «È piovuto dentro», ci spiega un indigeno.

Nei pressi di una di esse salutiamo con un «Yakera!», pensando di essere gentili e fare cosa gradita. Macché. «Siamo E’ñepá», ci fa presente una ragazzina. L’errore comune di noi bianchi è di non fare distinzioni: per noi gli indigeni sono tutti eguali. Nulla di più sbagliato, invece. Gli E’ñepá (conosciuti anche con il nome di Panare) non sono Warao: altra lingua, altra zona di provenienza, altri costumi. Anche i prodotti del loro artigianato sono diversi. In Venezuela, sono circa 5mila, localizzati soprattutto nella parte occidentale dello stato di Bolívar. In effetti, a ben guardare, i loro tratti somatici sono diversi da quelli dei Warao.

Avviandoci verso l’uscita passiamo accanto a tavoli sui quali alcuni indigeni – vecchi e giovani – stanno giocando a dama o a domino e poi a un banco dove alcune signore e’ñepá gestiscono un piccolo banco di artigianato, anche se dentro l’abrigo gli acquirenti sono quasi assenti. Nello spiazzo antistante, dei bambini – a Pintolandia ce ne sono tanti – si divertono giocando a pallone.

Usciamo dall’abrigo quando è ormai sera e il buio è rischiarato dai lampioni della piazza. Proprio di fronte all’ingresso, dall’altra parte della strada, notiamo uno strano gruppetto. Ci sono due donne, di cui una giovane, e ben sette bambini. Il più piccolo ha pochi mesi. Sono seduti o stesi su alcune panche di cemento, insieme a diversi sacchetti e sacche con il simbolo dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim). «Siamo arrivati qualche giorno fa dal Venezuela e siamo stati a centro di transito della rodoviaria (stazione dei bus, ndr)- ci racconta la signora più anziana -. Poi ci hanno detto che a Pintolandia c’erano dei posti e siamo venute. Ma siamo in attesa da alcune ore e non credo che ci prenderanno. Dobbiamo cercare di tornare alla rodoviaria per passare la notte (almeno là sono previste tende, c’è la possibilità di farsi la doccia e di avere del cibo, ndr), però ci servono dei soldi per pagare due taxi perché è piuttosto lontano. Riproveremo nei prossimi giorni».

Una piccola storia di rifiuto che ci fa riflettere su questo «umanitario» senza umanità.

Marco Bello e Paolo Moiola
(2a puntata – continua)


Operazione «marmitas»

Per un pugno di riso

Nei rifugi ufficiali (abrigos) gli ospiti hanno i pasti assicurati. Spesso ne avanzano. Recuperarli e distribuirli è compito dell’«operação marmitas».

Boa Vista. La telefonata arriva durante la cena. Padre Oscar Liofo risponde al suo cellulare sottovoce e in pochi secondi. Alla fine annuncia: «Questa notte, operação marmitas». Detta così, l’affermazione suona come uno scherzo. Invece, si tratta di una cosa seria e soprattutto utile. In portoghese, il termine «marmita» indica un contenitore per cibo d’asporto. Succede che nei rifugi (abrigos) ufficiali, quelli gestiti dall’esercito brasiliano nell’ambito dell’Operazione accoglienza (Operação acolhida), quasi ogni sera venga avanzato un certo numero di pasti. Due (su 11 totali a Boa Vista) di questi rifugi – Nova Canaã e Jardim Floresta – sono in contatto con padre Oscar. Quando c’è cibo in sovrappiù, l’ufficiale di turno chiama il missionario perché passi a ritirare i pasti avanzati per distribuirli a chi ne abbia bisogno, in particolare agli ospiti di Ka Ubanoko, il rifugio autogestito.

Saliamo in auto. «Mi raccomando – avverte il missionario – voi siete dei volontari che mi state aiutando. Quindi, niente foto, niente domande da giornalisti nell’abrigo. Soltanto il vostro aiuto manuale».

Tra le stellette dell’esercito

Il campo di Nova Canaã è ben recintato. C’è soltanto un ingresso. Oltrepassato il quale ci si trova al cospetto di giovani soldati seduti davanti agli schermi di un paio di computer. Non si passa senza identificazione. Per noi è un’utile occasione per guardarsi attorno. Non ci sono tende ma, su un lato, oltre trenta casette prefabbricate e, in fondo, un tendone che protegge i tavoli e le sedie della mensa, oltre a un grande televisore acceso. In mezzo, uno spiazzo non pavimentato dove stanno giocando una decina di bambini.

Nel frattempo, all’ingresso è arrivato l’ufficiale responsabile. Saluta con cordialità il missionario della Consolata e gli chiede chi siano i suoi aiutanti di oggi. Tutto a posto: possiamo passare. Seguiamo l’ufficiale in un container adibito a dispensa al cui interno si gela. Ad attenderci una settantina di contenitori in polistirolo: le fatidiche marmitas. Mettiamo tutto negli scatoloni che abbiamo portato con noi. Ringraziamo e ci avviamo verso l’uscita con la cena per 70 persone. Fuori dell’abrigo ci sono alcuni migranti che vorrebbero avere una marmita. Non sono insistenti, ma la situazione è spiacevole, soprattutto perché non possiamo accontentarli. Ci è infatti fatto divieto assoluto di consegnare cibo nei pressi del centro.

In fila e in silenzio

Terminate le operazioni di carico sul pick up di padre Oscar, ci dirigiamo verso Ka Ubanoko, dove l’organizzazione interna è già stata allertata. Quando arriviamo, troviamo un’illuminazione molto scarsa. La sola cosa che si distingue è lo sgangherato cancello d’entrata. Ad attenderci ci sono due cacique ai cui gruppi oggi sono destinate le marmitas. Scarichiamo tutto in pochi secondi. Un cacique effettua la distribuzione sul posto: i beneficiari si mettono in fila per ricevere il loro pasto. L’altro cacique porta via le sue marmitas. Lo seguiamo verso l’interno del campo, dove – nonostante non siano ancora le 22,30 – regna una grande tranquillità. Dobbiamo stare attenti a dove mettiamo i piedi perché ci sono pochissime luci. Il cacique si ferma nei pressi dello spazio dove alloggia con la propria famiglia – una stanza in nudo cemento e senza gli infissi -, e inizia la distribuzione.

L’operazione si svolge con ordine e praticamente in silenzio. Chi parla, lo fa sottovoce. Qualche bambino apre subito la marmita ricevuta dalle mani del cacique. Oggi contiene riso, un pezzo di carne e alcune verdure cotte.

A Ka Ubanoko non si soffre la fame. Le persone ospitate – oltre 600 – in un modo o nell’altro riescono ad avere cibo sufficiente. Quello che manca, e probabilmente mancherà a lungo, è il lavoro o almeno una prospettiva di futuro che non sia la permanenza in un campo profughi, non importa se spontaneo o ufficiale.

M.B. – P.M.


Operação Acolhida: qualche riflessione

L’umanitario militarizzato (e l’ipotesi dell’invasione)

La migrazione massiccia dal Venezuela al Brasile inizia nel 2016. La popolazione è confusa, e inizialmente vede i migranti come un nemico. Nel secondo semestre del 2017 arrivano a Boa Vista anche molti Warao. Si accampano negli spazi pubblici, nelle piazze, nei pressi della rodoviaria (la stazione dei bus) divenendo perciò molto visibili. Le abitudini dei Warao sono diverse da quelle degli indigeni di Roraima.

Sempre nel 2017 la Fraternidade – Federação humanitária internacional (Ffhi), giunta da poco nello stato, negozia con il governo locale per diventare attore privilegiato nell’assistenza ai migranti. All’inizio non ci sono finanziamenti federali e, sull’emergenza, intervengono sia Fraternidade che i Vigili del Fuoco.

La Fraternidade è una Ong legata alla Comunidade Luz Figueira, una organizzazione religiosa fondata da José Trigueirinho Netto, a Carmo da Cachoeira nel Sud di Minas Gerais. Trigueirinho, definito dai suoi scrittore, filosofo e spiritualista, con all’attivo la pubblicazione di 82 libri e oltre 3.000 prediche, è morto nel settembre 2018 all’età di 87 anni. Ha fondato anche l’Ordem Graça Misericordia, un vero ordine religioso «privato».

La Ffhi firma un primo accordo con l’Acnur nell’agosto del 2017 per la collaborazione nell’assistenza umanitaria ai migranti venezuelani. Nel marzo 2018 è varata l’Operação Acolhida, il cui controllo è in mano al ministero della Difesa.

Quasi contemporaneamente viene creato l’abrigo «ufficiale» di Pintolandia. Qui, nell’omonimo quartiere, fin da fine 2016 si erano radunati dei profughi assistiti da Ffhi e poi Acnur.

Con l’Operação Acolhida scatta la militarizzazione della crisi umanitaria, con la quale il governo del presidente Michel Temer (2016-2018) passa direttamente il potere della gestione all’esercito in luogo della governatrice Suely Campus.

Con le elezioni dell’ottobre 2017 diventa governatore Antonio Denarium, candidato di Jair Bolsonaro, e i militari entrano anche nel governo statale.

È ormai palese il «modello Haiti», ovvero i militari gestiscono le operazioni umanitarie. L’esercito brasiliano lo ha imparato proprio nel paese caraibico, dove era al comando della Minsutah, la missione dei caschi blu dell’Onu, conclusasi nell’ottobre 2018.

Aumentare il numero di effettivi militari a Roraima, stato di confine con il Venezuela, ha fatto pensare a una possibile invasione di quel paese, che sarebbe partita da Colombia (frontiera Est) e Brasile, paesi con governi antagonisti a quello di Nicolas Maduro. Quest’ultimo, nel timore di questa evenienza, avrebbe rinforzato la frontiera con il Brasile.

Ma il nuovo presidente Jair Bolsonaro, già capitano dell’esercito, succeduto a Temer il primo gennaio 2019, avrebbe preferito attendere un momento più propizio. D’accordo con il presidente colombiano Iván Duque e soprattutto con Donald Trump, il quale nel suo discorso sullo «stato dell’Unione», lo scorso 4 febbraio, ha ribadito che «la tirannia di Maduro sarà spezzata».

Marco Bello – Paolo Moiola


L’antropologa

Migranti, ma sempre indigeni

A colloquio con Elaine Moreira, professoressa all’Università di Brasilia e studiosa di popoli indigeni e di Warao.

Boa Vista. Elaine Moreira, antropologa e docente ordinaria all’Università di Brasilia (*), ha lavorato a lungo a Roraima, in particolare sui popoli indigeni presenti nelle zone transfrontaliere. La incontriamo a Ka Ubanoko, mentre sta conducendo un’indagine in collaborazione con la Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) sulle condizioni di vita dei Warao.

«I primi di loro sono arrivati a Roraima nel 2014. Si incontravano per strada e ne parlavano i giornali, ma non si sapeva chi fossero. Talvolta, erano confusi con popoli autoctoni. C’erano in particolare mamme con bimbi che mendicavano agli incroci. Questo primo gruppo fu espulso dalla polizia federale, perché non in possesso di documenti».

Negli anni successivi gli arrivi si ripetono. «Le autorità – racconta Moreira – provarono a espellerli tutti, ma società civile, università, defensoria pubblica (organo statale che fornisce assistenza giuridica gratuita, ndr), intervenendo con una ingiunzione in tribunale riuscirono a impedirlo».

Finalmente, nel gennaio 2017, il Ministerio publico federal fa realizzare uno studio da due antropologhe per capire qualcosa di più di questo popolo. «Da quel momento in poi lo stato non ha più potuto dire di non sapere chi sono i Warao. Purtroppo però non si è riusciti a coinvolgere la Funai (Fundaçao nacional do indio), l’ente federale, che si occupa di popoli indigeni. Neppure oggi la Funai si interessa dei Warao, presenti ormai da cinque anni in diversi stati del Brasile».

Dalle città venezuelane a quelle brasiliane

«In Venezuela i Warao vivono in un’area molto delicata dal punto di vista ecologico. Il delta dell’Orinoco, con i suoi 3mila canali. In certe zone c’è stato un impatto molto grande a causa di una diga che ha isolato una parte e reso salino il suolo (diga sul canale Manamo, 1965), facendo perdere loro molte risorse. È poi entrata l’industria del legno e quella del petrolio. Si sono sviluppate alcune città, come Tucupita e Antonio Diaz. Tutti fattori esogeni che li hanno indeboliti». Da non trascurare l’epidemia di colera che si è diffusa in Sudamerica a inizio anni ‘90: nel delta ha colpito duro, uccidendo oltre 500 indigeni. Nei loro racconti ancora oggi riaffiora la paura della malattia.

«In seguito – spiega ancora l’antropologa – ci fu un periodo in cui parte della famiglia andava nelle città del Venezuela a mendicare e vendere artigianato per strada, mentre l’altra parte stava nelle comunità di origine a occuparsi delle terre. Si trattava di un flusso di andata e ritorno. Le forze dell’ordine spesso li riportavano nelle loro zone di origine. Questo ha funzionato per anni, fino all’arrivo della crisi economica». La crisi generalizzata ha acuito la questione della mancanza di cibo e la scarsità di medicine. Così il Warao ha cercato altri sbocchi, in particolare in Brasile.

«Hanno già un’esperienza su come “occupare” la strada. Di solito, sono gruppi con diverse donne, ma anche alcuni uomini per proteggere e negoziare i luoghi. La vera novità è che diventano migranti: passano la frontiera e hanno bisogno di documenti. Quelli che partono mantengono una relazione molto stretta con chi resta. Inoltre, molti viaggiano e poi tornano e c’è un cambio con chi riparte. Portano in Venezuela vestiti, medicine, cibo, e ripartono con artigianato da vendere. Così continua il flusso bidirezionale. Lo stesso sistema usato nel loro paese».

I Warao e gli altri popoli indigeni

Una questione importante è la relazione dei Warao con gli indigeni brasiliani, in particolare a Roraima, dove costituiscono la maggior parte della popolazione. «Sono passati cinque anni e non è cambiato molto nella relazione con gli altri popoli indigeni. Inizialmente Macuxi, Wapixana e gli altri non conoscevano i Warao. Diversamente da quanto accade per i Pemon, che hanno “parenti” a Roraima, perché sono della zona frontaliera. Quella con i Warao è una relazione in costruzione».

La professoressa parla della situazione dei Warao a Roraima. «Il problema sono gli abrigos. Sono affollati, c’è molta precarietà, si tenta di non fare uscire le donne con bambini, perché non si vuole che vadano in strada». In Brasile è vietato mendicare con un minore, e si rischia che venga tolta la tutela. Per i Warao, però, si tratta di una pratica normale, anche perché le mamme non lasciano mai i propri figli. Inoltre per una Warao, chiedere soldi a un incrocio è un po’ come raccogliere la frutta da un albero (cfr. Cecilia Lafée-Werner Wilbert, La mujer Warao, 2008). «Tenendo le donne all’interno dell’abrigo, si limita molto il loro modo di vivere. Se si decide di accogliere gli indigeni si assume una responsabilità rispetto ai loro diritti, che sono quelli dei migranti, ma anche degli indigeni, portatori di proprie specificità».

Dal 2018, con la Operação Acolhida, la responsabilità degli abrigos in Roraima è passata all’esercito brasiliano. «L’esercito ha creato diversi abrigos e rafforzato la gestione della frontiera. È aumentata l’efficienza. Anche l’Acnur ha migliorato il sistema di accoglienza. Ma i Warao hanno esperienza non sempre pacifica con l’esercito in Venezuela, per cui la presenza dei militari li intimorisce. L’abrigo offre la garanzia dell’alimentazione, però si limita a questo».

E questa crisi umanitaria quanto durerà? «La mia impressione è che continuerà per molti anni. Dobbiamo essere preparati».

Marco Bello – Paolo Moiola

(*) Elaine Moreira, Os Warao no Brasil em cenas: “o estrangeiro…”, in «Périplos: Revista de Estudos sobre Migrações», vol 2 – n. 2.


Questo servizio rientra nell’ambito del progetto «The Warao Odissey» eseguito da Missioni Consolata Onlus e prodotto con il contributo finanziario dell’Unione europea e della Regione
Piemonte attraverso il bando «Frame Voice Report!» del Consorzio Ong Piemontesi.