Tanzania. Turismo invadente


Fino dall’epoca della colonia britannica, il popolo Masai ha dovuto lasciare le proprie terre. La creazione dei grandi parchi ha aggravato la situazione. Il tutto appoggiato dall’Unesco. Oggi i Masai devono ancora «ricollocarsi» con il rischio di perdere la propria cultura.

I Masai sono un popolo di pastori transumanti che da secoli abitano sugli altipiani tra il Sud del Kenya e il Nord della Tanzania. In quest’ultima, già nel XV secolo si insediarono nel territorio dell’attuale Parco nazionale del Serengeti, un nome che in maa (la lingua dei masai) significa «il posto dove la terra si estende all’infinito». In effetti, il Serengeti è una vasta pianura, dove fiumi e foreste si alternano a praterie e savane. Il tutto abitato da 70 specie di mammiferi e oltre 500 di uccelli. Lì i Masai allevavano il bestiame e nei periodi di necessità coltivavano anche la terra.

Dal Serengeti al Ngorongoro

Ma come in tanti altri contesti africani, anche in Tanzania, l’arrivo dei coloni portò con sé politiche per la «conservazione della natura». Le quali il più delle volte si tradussero nella creazione di Parchi nazionali, aree di competenza statale dove qualsiasi diritto (soprattutto se tradizionale) o titolo di possesso esistente fino a quel momento veniva meno. E dove, per preservare il particolare valore naturalistico dell’area, erano vietati insediamenti umani e attività economiche.

Così i Masai furono costretti ad abbandonare il Serengeti dal 1959, poi diventato un Parco nazionale. Si spostarono nella Ngorongoro conservation area (Nca), dove il loro diritto a insediarsi fu riconosciuto formalmente e ufficialmente dalla Ngorongoro conservation area ordinance.

Anch’essa un’area ricca di biodiversità, la Nca si estende su 809.440 ettari che includono savane, foreste e il cratere del Ngorongoro. Al suo interno vivono circa 25mila animali di grandi dimensioni e diverse specie a rischio estinzione come il rinoceronte nero, il dingo e gli elefanti.

Una volta giunti in questo nuovo territorio, i Masai instaurarono una relazione profonda con l’ambiente circostante, sviluppando uno stile di vita che promuove, in modo naturale, conservazione e tutela delle risorse. Basti pensare che la cultura masai proibisce il consumo di carne di selvaggina e il taglio di alberi interi. Quando invece coltivano la terra, gli agricoltori prevedono periodi di maggese per ripristinare la fertilità del suolo. Mentre gli allevatori, nella scelta dei pascoli, attuano valutazioni attente: mangiando, gli animali contribuiscono a controllare la vegetazione, evitandone una crescita eccessiva.

L’ambiente naturale ha anche un ruolo centrale nella cultura dei Masai: la loro spiritualità si lega profondamente al territorio circostante e ai suoi luoghi simbolo. È proprio in queste aree che si sono tenute a lungo le assemblee comunitarie ed è stato insegnato ai giovani come vivere in armonia con l’ecosistema.

Turismo, avanti tutta

Queste pratiche hanno fatto sì che per secoli l’ambiente naturale non fosse intaccato dalla presenza umana. Nonostante ciò, negli ultimi anni il governo tanzaniano – appoggiato da partner internazionali come l’Unesco (l’agenzia delle Nazioni Unite per la tutela del patrimonio culturale e ambientale) – ha iniziato a sostenere che la crescita della popolazione e del bestiame metteva sotto pressione le risorse naturali e rischiava di causare la distruzione dell’ecosistema circostante.

Addirittura, l’Unesco ha consigliato alle istituzioni tanzaniane di trasformare la Nca in un’area libera da qualsiasi presenza umana, invitandole quindi a valutare il trasferimento delle comunità che abitavano all’interno dell’area protetta, perché tanto «la riallocazione dei Masai non sarà un evento nuovo in Tanzania». E, quindi, nel giro di poco, il governo tanzaniano ha introdotto politiche di espropriazione – accompagnate dall’uso sistematico della violenza – per allontanare i Masai dalla Nca.

In realtà, dietro alla volontà dichiarata di tutelare e conservare l’ecosistema, si nascondeva la decisione delle istituzioni tanzaniane di investire sempre più nello sviluppo del turismo, un settore che negli ultimi anni si è rivelato un volano economico per il Paese. Nel 2023 infatti, le entrate generate dal settore ammontavano a 7,8 miliardi di dollari (il 9,5% del Pil nazionale), in netta crescita rispetto ai 2,5 miliardi del 2019.

Così sono sorte nuove aree protette – prive di insediamenti umani e attività economiche – e game reserve, destinate ad attrarre un numero sempre maggiore di visitatori e compagnie turistiche straniere. Meglio ancora se di lusso, come la già attiva Tanzania conservation ltd di Boston che pianifica esperienze esclusive. Oppure la Ortello business corporation, a lungo responsabile dell’organizzazione delle battute di caccia della famiglia reale degli Emirati arabi uniti.

Riallocazioni «volontarie»

Per rendere la Nca un’area priva di insediamenti umani e attività economiche – di fatto, una zona a esclusivo uso turistico -, l’esecutivo tanzaniano ha dato il via a politiche sempre più brutali, volte ad allontanare i Masai dalle proprie terre. Violando anche alcuni diritti fondamentali del popolo.

Dal 2022, i fondi destinati al Ngorongoro sono stati sistematicamente tagliati, privando la popolazione locale di servizi essenziali come educazione e salute. Human rights defenders, un’organizzazione tanzaniana per la difesa dei diritti, ha denunciato che nel 2022 più di 3 milioni di scellini (circa 1.100 dollari) erano stati sviati verso altre aree del Paese.

I dipendenti statali sono stati ritirati da tutti i centri sanitari, mettendo a repentaglio il diritto alla salute degli abitanti e creando uno stato di incertezza perenne. Come ha raccontato un leader tradizionale a Human rights watch (Hrw, l’organizzazione per la difesa dei diritti umani con sede a New York): «Ogni residente ha paura. Se ti ammali, pensi ai grandi costi che sosterrai per avere dei servizi medici. Le persone più povere sono le più vulnerabili perché non hanno denaro per viaggiare lontano e i dispensari locali non hanno medicine». A molti non resta che «usare le erbe tradizionali o pregare per un miracolo».

Entrare e uscire dalla Nca è diventato sempre più difficile. Gli abitanti possono farlo solo mostrando la carta d’identità o la tessera elettorale o pagando – al pari dei turisti – una tassa di 27.275 scellini (10 dollari). Così come è sempre minore anche la libertà di movimento all’interno dell’area: «Conservazione ed ecoturismo» sono le giustificazioni utilizzate per limitare l’accesso a specifiche zone. Come il cratere del Ngorongoro, storica pozza d’acqua ricca di nutrienti di origine vulcanica, dove dal 2016 non è più possibile abbeverare il bestiame. Oppure le foreste del Nord e i crateri di Marhes, Ndutu, Ormoti ed Emabakaai.

I servizi veterinari sono cessati. La fornitura governativa di sale supplementare (necessario agli animali per compensare la mancata assunzione di micronutrienti di origine vulcanica) si è invece rivelata una trappola. Dopo che tra il 2018 e il 2021 erano morti più di 77mila capi, le analisi della Tanzania veterinary laboratory agency (l’agenzia governativa per la salute del bestiame) hanno confermato che il prodotto era avvelenato.

Gli attacchi dei ranger (guardaparco) nei confronti degli abitanti della Nca sono diventati frequenti: aggressioni, sparizioni e uccisioni colpiscono uomini, donne e bambini in modo indiscriminato. Gli avvisi di espropriazione invece sono sempre più diffusi e si dirigono contro abitazioni o edifici pubblici che, secondo le autorità, sorgono all’interno del perimetro dell’area protetta.

Tutte queste misure contribuiscono a rendere molto difficili – se non impossibili – le condizioni di vita degli abitanti del Ngorongoro. Tanto da spingerli a scegliere «volontariamente» di lasciare le proprie terre e trasferirsi a centinaia di chilometri di distanza nei villaggi di Msomera e Kitwai, i siti identificati dal governo per la riallocazione, con la promessa di migliori condizioni di vita.

Terra è cultura

A Msomera, le case sono tutte identiche: tre stanze con i muri bianchi, ricoperti da un tetto in lamiera. Le abitazioni sono affiancate da cinque ettari di terra, spesso destinati ad agricoltura e allevamento. Caserme militari circondano l’insediamento che brulica di soldati in mimetica. Un modo per instillare paura e controllare la narrativa sulla riallocazione.

Oleshangay vive in una di queste case. È uno dei Masai del Ngorongoro che hanno accettato di trasferirsi. Ma lo racconta a malincuore a Hrw: «Avevamo paura a lasciare la terra dei nostri antenati. Sono nato lì e ho vi vissuto tutta la mia vita. Quindi è stato difficile andarmene». Oltre alla casa, ha ricevuto dieci milioni di scellini (3.700 dollari) e cinque ettari di terra. Ma dice: «Tu mi stai dando un pezzo di terra che per me non ha valore». Le terre del Ngorongoro infatti sono cultura, religione e legami sociali. I riti più importanti possono svolgersi solo in siti ancestrali come il vulcano Ol Doinyo Lengai (dal maa, «la montagna di Dio»). Riallocazione vuol dire anche allentare e perdere il legame con la propria terra, religione e cultura.

Ed è proprio sul piano culturale che impatta maggiormente la riallocazione. Racconta un leader tradizionale: «Andare a Msomera è problematico per la nostra cultura. Hai una piccola casa con tre stanze: vivi con tua moglie, i tuoi figli, le mogli dei tuoi figli e i tuoi nipoti. Nella cultura masai questo è severamente proibito». Un’imposizione di tale genere «uccide la cultura» ed è frutto di piani governativi che non considerano la natura complessa delle famiglie masai. Spesso multigenerazionali e multifamiliari, oltre che poligame. Ma «due mogli non possono vivere nella stessa casa». E quindi alcune famiglie sono state costrette a usare buona parte del denaro ricevuto come compensazione per costruire nuove abitazioni per mogli e figli.

Risorse scarse

Molti di coloro che hanno abbandonato il Ngorongoro hanno perso parte del bestiame durante il viaggio o appena giunti a Msomera a causa della scarsità d’acqua. Altri hanno utilizzato quasi tutto il denaro ricevuto come compensazione per rendere coltivabili i cinque ettari di terra arida intorno alla loro casa. Molti pastori hanno deciso di lasciare i propri animali in altri luoghi, data la mancanza di terre da destinare al pascolo e di acqua per abbeverare il bestiame.

A Msomera proprio la scarsità di risorse – acqua e pascoli – sta creando le condizioni per lo scoppio di conflitti con la comunità autoctona. La quale d’altra parte è, a sua volta, composta da numerosi pastori che già prima dell’arrivo dei masai faticavano a mantenere le proprie greggi a causa dell’asprezza del territorio circostante. Una scarsità di risorse che ora è solo destinata ad acuirsi.

D’altronde, il governo nel disegnare il piano di riallocazione non ha coinvolto gli abitanti di Msomera in un processo di consultazione previo e informato. E così le istituzioni tanzaniane non hanno considerato la complessità del territorio destinato ad accogliere i Masai. Addirittura, diversi abitanti del villaggio sono stati espropriati e le loro case e terre distribuite a chi proveniva dal Ngorongoro. Non stupisce quindi che un leader tradizionale del villaggio abbia sottolineato: «Non siamo d’accordo con il piano del governo di dare la nostra terra alle persone del Ngorongoro, ma l’autorità governativa è troppo grande e non possiamo combatterla».

Dall’altro lato, molti Masai non hanno intenzione di piegarsi alle scelte dell’esecutivo e continuano a opporsi al piano di riallocazione, rivendicando al contempo i diritti sulle proprie terre nel Ngorongoro. Ad aprile 2022, i leader comunitari hanno inviato una lettera – firmata da 11mila membri – al governo e ai suoi maggiori finanziatori, ricordando che «questa non è la prima volta che combattiamo per assicurare i nostri diritti e proteggere le vite del nostro popolo. Abbiamo bisogno di una soluzione permanente e ne abbiamo bisogno ora. Non ce ne andremo. Né ora, né mai».

Aurora Guainazzi


Continua lo sfratto delle popolazioni locali da Nord a Sud

Per alleggerire la pressione turistica sui Parchi del Nord, negli ultimi anni, la Tanzania ha iniziato a investire sempre di più nella creazione di aree protette anche a Sud. Tra esse il Parco nazionale del Ruaha, il cui sviluppo dal 2017 è al centro di un progetto finanziato dalla Banca mondiale. L’iniziativa, dal valore di 150 milioni di dollari e dalla durata di otto anni, mira alla creazione di un’area protetta dove, al pari di quanto sta avvenendo nel Ngorongoro, insediamenti umani e attività economiche sono proibiti e lasciano spazio alle attività turistiche. Anche in questo caso, le politiche che il governo tanzaniano sta perseguendo per raggiungere il suo obiettivo sono subdole e violente. Attraverso espropriazioni, uccisioni extragiudiziali e saccheggio del bestiame, i ranger del Ruaha mettono le popolazioni locali sotto pressione, rendendo le loro condizioni di vita insostenibili e forzandole ad abbandonare le proprie terre. E quel che è peggio, è che tutto ciò è accaduto con il tacito benestare della Banca mondiale, che a lungo ha ignorato le accuse di violenza rivolte ai ranger tanzaniani. Solo ad aprile 2024, dopo l’ennesima denuncia della comunità locale e un’indagine interna, l’organizzazione finanziaria internaziona- le ha deciso di sospendere la concessione dei fondi (anche se nella pratica gran parte di essi – circa 100 milioni di dollari – è già stata erogata).

A.G.




Taiwan. Modernità e missione


Hsinchu è una delle diocesi più giovani del Paese. I cattolici sono una minoranza, ma le opere sociali della Chiesa sono riconosciute. Come le attività di aiuto ai tanti migranti. Il suo pastore è attivo e lungimirante. Lo abbiamo incontrato.

Hsinchu. C’è una certa frenesia questa mattina in Ximen street, via centrale della città di Hsinchu, a un centinaio di chilometri a sud di Taipei, la capitale di Taiwan. Nonostante il caldo umido asfissiante – si toccano i 38 gradi nelle ore centrali del giorno -, fervono i preparativi nella bella chiesa del Sacro Cuore di Gesù per la celebrazione dei dieci anni di presenza dei Missionari della Consolata nel Paese. Costruita dai missionari gesuiti nei primi anni Cinquanta, la sua originale architettura ripropone tre pagode, una attaccata all’altra, rotonde, di diametro decrescente, con il tipico tetto orientale, che nulla ha da invidiare a quello del tempio alla dea Matzu (la signora del mare), che guarda la chiesa dall’altra parte della via.

Fin dalle prime ore di questo 21 settembre, i fedeli hanno iniziato ad arrivare nella pagoda principale della chiesa, mentre delegazioni di religiosi e amicim di svariate nazionalità, sono passate per un saluto ai padroni di casa.

La parrocchia è stata affidata ai Missionari della Consolata nel 2017, e vi lavorano padre Jasper Kirimi e padre Caius Moindi, entrambi keniani. Ma oggi la festa non è solo dei missionari di san Giuseppe Allamano (attualmente in sette a Taiwan, di cinque nazionalità), o della parrocchia ma, si può dire, è dell’intera diocesi di Hsinchu.

Il vescovo, John Baptist Lee Keh-mien, presiede la messa di anniversario, concelebrata da alcune decine di sacerdoti, di svariata provenienza. Molti vengono da Taipei per l’occasione, come padre Edi Foschiatto, saveriano, tra i primi ad aver aiutato i missionari della Consolata nelle loro iniziali perlustrazioni sull’isola.

Una diocesi giovane

Monsignor Lee, classe 1958, è vescovo di Hsinchu dal 2006. Dal 2020 è anche presidente della Conferenza episcopale regionale cinese, ovvero di Taiwan, ma il nome ufficiale è questo per non solleticare l’irritabilità dei dirigenti della Cina continentale. Le diocesi taiwanesi sono in tutto sei, più l’arcidiocesi di Taipei.

Alcuni giorni prima della festa, andiamo a incontrare monsignor Lee nel suo ufficio, nel palazzo a fianco alla bella cattedrale di Hsinchu. Disponibile e simpatico, durante la nostra chiacchierata intervalla il suo discorso con pacate risate.

«Taiwan è una società mediamente anziana. E tra i cattolici questa tendenza si accentua ancora di più. Nelle parrocchie i due terzi delle persone sono pensionati, e i ragazzi sono rari». La diocesi, per contro, è tra le più giovani del Paese, essendo stata eretta nel 1961: «L’evangelizzazione a Taiwan, iniziata da Sud, dalla città di Kaoshung dove arrivarono i primi missionari nel XVI secolo, è giunta fino al centro, a Taochung, da dove ha “saltato” la nostra zona, ed è passata a Nord, a Taipei. Possiamo dire che abbiamo due generazioni di cattolici qui, mentre in altre diocesi, già centenarie, le famiglie “cattoliche” sono più forti perché hanno una storia più lunga».

Bisogno di missionari

La diocesi di Hsinchu comprende la contea omonima, la contea di Miaoli e il comune speciale di Taoyuan (area dell’aeroporto internazionale), per un totale di 4.750 km2. I cattolici censiti sono circa 40mila.

«In questa zona – continua il prelato – fino a dopo la Seconda guerra mondiale non c’erano quasi cattolici. Poi, quando nel 1949 Chan Kai-shek, persa la guerra contro i comunisti di Mao, insieme al suo apparato militare e statale, ha invaso l’isola, in quest’area sono stati insediati alcuni accampamenti militari. Diversi soldati erano cattolici, da qui l’esigenza di avere dei sacerdoti. Le prime parrocchie nacquero proprio nei pressi degli accampamenti. Fino agli anni Settanta c’è stato un periodo di forte evangelizzazione, che poi si è stabilizzata». Era iniziata la crescita economica, e molti giovani andavano all’estero a studiare, «così il numero dei cattolici non è più aumentato. Oggi abbiamo dei battesimi, ma si equilibrano con i funerali».

Il vescovo mette poi l’accento sulle risorse umane a sua disposizione. Questa zona è stata, fino dai primi anni Cinquanta appannaggio dei gesuiti, come altre erano dei francescani, o di altre congregazioni. «Anni fa in diocesi c’erano in tutto duecento sacerdoti, dei quali cento erano gesuiti. Oggi posso contare su settanta preti in totale. Di questi poi, solo due sono taiwanesi, e sono professori all’università, per cui non seguono neppure una parrocchia». E continua: «I preti della diocesi sono stranieri, sia quelli missionari che quelli incardinati qui. Prevalgono i coreani, poi vietnamiti, filippini, e, più recentemente, africani di svariati paesi. Ma non abbiamo quasi vocazioni locali».

«Io sto invitando preti dall’estero e quelli che arrivano sono giovani. Questo, secondo me, ha l’effetto di attirare più ragazzi nelle parrocchie. Recentemente abbiamo due seminaristi taiwanesi. Forse riusciamo a innescare un circolo virtuoso».

Un altro tema che ha preoccupato monsignor Lee dall’inizio del suo episcopato è stato quello finanziario. Una legge di Taiwan, promulgata all’inizio del suo episcopato, aveva infatti ridotto alcune entrate economiche per la diocesi: «Ho dovuto lavorare per stabilizzare la parte finanziaria, ma adesso ci sono riuscito», dice con orgoglio.

Migranti asiatici

La Chiesa cattolica, pur essendo una minoranza tra le minoranze (vedi oltre), è riconosciuta nella società taiwanese, soprattutto grazie alle attività sociali: educazione, salute, lavoro con la disabilità e, recentemente, le attività con i migranti.

Negli ultimi anni stanno arrivando a Taiwan molti immigrati, in particolare da Indonesia, Vietnam, Filippine e Thailandia. Sono attratti dal lavoro nell’industria (in particolare quella per la produzione di semiconduttori, di cui il Paese è grande esportatore), nelle costruzioni (si vedono in città molti cantieri per nuovi palazzi), e nell’accudimento degli anziani.

La diocesi di Hsinchu gestisce tre centri per migranti, nei quali fornisce aiuto per abitazione, questioni legali, sanitarie, per imparare la lingua cinese e assistenza spirituale.

Tra chi arriva ci sono pure i migranti senza documenti in regola per stare a Taiwan. Monsignor Lee ci dice che «ce ne sarebbero più di 10mila. Talvolta la polizia viene a cercarli in chiesa durante le messe, ma noi chiediamo di non intervenire».

La maggioranza dei migranti filippini e vietnamiti sono cattolici, mentre gli indonesiani sono in prevalenza musulmani. «Anche dopo le funzioni della domenica cerchiamo di dare loro assistenza, in particolare grazie a molti volontari. Alcuni di questi sono migranti di più lunga data, che si mettono a disposizione per aiutare. Inoltre, con i sacerdoti loro connazionali (in particolare filippini e vietnamiti), riusciamo a seguirli più efficacemente».

Parlarsi tra religioni

Il vescovo ci racconta che esiste un buon rapporto con le altre religioni presenti nel Paese, abitato da 23 milioni di persone. Buddhismo e taoismo contano le percentuali più alte di fedeli, circa 20 e 19% rispettivamente, poi ci sono le religioni popolari, le cosiddette folk religions (28%), anch’esse molto diffuse e, infine, cristiani evangelici (5,5%) e cattolici (1,3%; dati Academia sinica 2021).

«Con i pastori protestanti abbiamo un incontro ogni mese, a cui partecipano alcuni nostri preti e laici. Siamo in comunicazione con loro a livello della contea di Hsinchu. Per quanto riguarda le altre religioni, durante le feste ci invitiamo vicendevolmente. Ad esempio, alla festa della luce, che noi cattolici facciamo a Natale, invitiamo tutti i leader. Inoltre, io vengo invitato da loro, in particolare ho frequentato alcune feste taoiste. Sia loro, sia i buddhisti, va ricordato, sono di tante correnti diverse».

Fede consapevole

Come presidente della conferenza episcopale, chiediamo a monsignor Lee un commento su come i fedeli taiwanesi vivono la loro fede. «Oggi a Taiwan tutti hanno la possibilità di andare all’università, almeno per il primo livello (bachelor, laurea breve, ndr), mentre un tempo era diverso. Quando ero giovane io, solo il 20% dei miei coetanei potevano seguire gli studi.

Allo stesso modo, adesso la formazione dei cattolici è diventata un fattore importante. Prima essi non conoscevano la Chiesa, non avevano i fondamenti della Bibbia, ma non c’era molta attenzione a questo. Dal 2012 abbiamo una scuola di Bibbia, frequentata da laici. La partecipazione è in crescita e da allora sono stati formati circa 4mila fedeli in tutto il Paese.

Adesso, posso dire, i cattolici conoscono la loro religione e le basi della loro fede. La situazione della diocesi di Hsinchu è simile a quella delle altre: anche qui i credenti iniziano ad avere maggiore conoscenza della dottrina cattolica e della Bibbia».

Questo vuole anche dire che adesso, per un parroco, è più facile trovare dei laici formati che possano aiutarlo. È un grosso cambiamento dell’ultimo decennio.

«In secondo luogo – riprende il vescovo – se la fede diventa più consapevole, ho speranze che nei prossimi anni crescano le vocazioni locali. Sia per i sacerdoti che per le suore».

Contatti cinesi

Chiediamo a monsignor Lee che contatti ha la chiesa di Taiwan con quella del continente, ovvero della Repubblica popolare di Cina (Rpc).

«Molti vescovi della precedente generazione erano originari della Cina continentale, per cui avevano lì parenti e molti conoscenti. Si può dire che erano come un ponte verso il continente e le relazioni erano buone. Ma adesso non è più così. Noi siamo nati e cresciuti a Taiwan e abbiamo meno legami. Inoltre ci sono difficoltà anche dovute alla situazione politica».

Il vescovo ci ricorda che preti e suore della Rpc possono venire a studiare teologia a Taiwan: «Noi forniamo una borsa di studio ogni anno a trenta persone della Cina continentale. Da qualche tempo però, è aumentato il controllo sui religiosi da parte del governo cinese, e ne vengono circa la metà».

Ci sono poi restrizioni del governo taiwanese per lavorare nel Paese: «Possono studiare qui ma non fermarsi. Ci sono cittadini della Rpc che hanno assunto altre nazionalità, in questo caso è loro consentito di integrare le nostre diocesi».

Approfittiamo per chiedere al vescovo un commento sulle tensioni tra Taiwan e Rpc, e anche se i taiwanesi temano un’invasione da parte dei comunisti: «Sono i militari a essere coinvolti ogni giorno su questo tema. Per ora la gente non ha ancora paura. Penso anche che alcuni uomini d’affari taiwanesi siano influenzati dalla situazione, diversi di loro stanno trasferendo le imprese e business dalla Cina ad altri paesi. Non tanto perché pensino a un’invasione, ma perché mentre prima era facile fare buoni affari con la Cina continentale, oggi sta diventando sempre più difficile».

«Lavorano bene»

Torniamo ai dieci anni di presenza dei missionari della Consolata a Hsinchu.

La parrocchia di Ximen street era la base dei gesuiti per tutta la diocesi. «Quando, nel 2017, visto il ridotto numero di sacerdoti, non sono più riusciti a gestirla mi hanno chiesto di mandarvi qualcuno con una buona esperienza. Alcuni missionari della Consolata erano già in diocesi dal 2014. Stavano studiando la lingua e la cultura. Io avevo sentito dire che lavorano molto bene, hanno buone vocazioni e gestiscono tante parrocchie, quindi sanno come prendersene cura. Per questo motivo ho proposto loro la gestione del Sacro Cuore di Gesù».

Monsignor Lee si alza in piedi e ci mostra un quadro della Madonna. Maria tiene tra le mani Gesù e sembra che lo porga a un bambino in piedi di fronte a lei: «È nostra Signora di Hsinchu», ci dice con il suo gran sorriso.

Marco Bello


A casa di Peter e Jennifer

Il cattolico buddhista

Peter e Jennifer sono due parrocchiani del Sacro Cuore di Gesù, in centro a Hsinchu. Mi invitano nel pomeriggio a casa loro per bere il tè. È una casa semplice e decorosa, al piano terra di un basso edificio. Nel cortiletto antistante, vi sono molte piante tra le quali diversi bonsai. Peter è un appassionato di tè e utilizza tutto un rituale preciso per consumare la bevanda, da solo o con amici. Ci sediamo uno di fronte all’altro, tra noi un tavolo ricolmo di dolci di ogni tipo. Davanti a lui, ha una tavoletta di legno sulla quale è appoggiata una piccola teiera. A destra, fuori dal tavolo, c’è un bollitore sempre pronto.

Peter, parla un po’ di inglese, e questo facilita la comunicazione. Mi racconta la sua storia.

Peter ha lavorato per trent’anni nell’esercito di Taiwan, poi, congedato, ha cercato un altro lavoro ed è attualmente alla Tsmc (Taiwan semiconductor manufacturing company, la maggiore società di produzione di circuiti integrati del Paese) nell’ambito della sicurezza.

«Ho 67 anni. Circa 15 anni fa, al mio capo, tornato da una permanenza nella Cina continentale, è venuto un tumore ed è morto in pochi mesi. Aveva due anni meno di me. È stato un duro colpo. Ho lasciato la fede cattolica e ho iniziato a seguire le pratiche buddhiste». Sua moglie Jennifer, invece, ha continuato a frequentare la parrocchia.

Alcuni anni dopo al Sacro Cuore arriva un nuovo prete, è un africano. Jennifer lo presenta a Peter. I due diventano amici e prendono spesso il tè insieme, come facciamo noi oggi. Finché qualcosa cambia in Peter: «Decisi di tornare alla Chiesa, e domandai al missionario di confessarmi. Penso che lui sia stato mandato dal Signore per salvarmi».

«La religione che seguiamo è una specie di destino – ci dice solennemente -. In famiglia siamo in sei, tra fratelli e sorelle, e solo una sorella è cattolica».

Gli chiediamo cosa gli è rimasto del buddhismo: «Ho praticato per dieci anni. Alcuni insegnamenti del Buddha mi sono entrati dentro, ma penso che la cosa più importante sia la misericordia del Signore. Ti aiuta a discernere cosa è meglio per te».

Peter fa un confronto: «Gesù ha avuto solo tre anni per insegnare il suo pensiero, il Buddha, invece, ne ha avuti 59. Gesù ci ha insegnato a sacrificarci per gli altri, e questo non è facile. Un insegnamento molto forte». E continua: «Il missionario africano mi ha dato l’esempio con il suo comportamento». Quel sacerdote era il kenyano padre Mathews Odhiambo.

«Quando ero nell’esercito ho subito alcuni incidenti e me la sono cavata: ho sentito la protezione di Dio. Quando cercavo un lavoro, ho pregato il Signore che mi aiutasse. Sovente, mentre prego sento la sua presenza». Dicendo queste parole, Peter, il cui viso ha tratti duri, che fanno intravedere il suo passato di militare, si commuove e i suoi occhi si inumidiscono.

Cerchiamo di toglierlo dall’imbarazzo chiedendo chi è raffigurato nella statua sullo scaffale alla sua destra. Pare un guerriero con una lunga barba, al cui collo è appeso un rosario. «È il generale Guan Ye, una figura della Cina antica. Rappresenta giustizia, coraggio e lealtà. Mi ricorda in particolare di essere leale e di non avere mai paura degli altri». Non lontano dal generale, si trova una statua della Madonna, e subito sopra un bel crocefisso di legno appeso al muro in posizione dominate.

«Lo stesso fatto che noi due ci siamo incontrati, pur abitando così lontani, è un disegno del Signore – sentenzia Peter -. Anche i missionari vengono da lontano e da culture distanti tra loro, ma hanno la stessa fede. Questo è un segno importante».

Ma.Bel.

 




La santità che scuote


Il 20 ottobre scorso Giuseppe Allamano è diventato ufficialmente santo. Pellegrini da 35 paesi hanno raggiunto Roma per l’evento. Missionarie e missionari della Consolata di tante nazionalità erano presenti. È stata una grande festa di famiglia. Reportage.

Roma, 19 ottobre. È già buio quando fuori dalla Chiesa Nuova di Santa Maria in Vallicella, a pochi passi da piazza Navona, incontriamo un brulicare di gente. A guardare bene, e ad ascoltare la cacofonia di voci, ci sono persone da diverse parti del mondo. Si abbracciano, parlano, cercano qualcuno di conosciuto, prima di entrare alla veglia che inizierà tra poco. È il popolo di Giuseppe Allamano, che si è riunito da 35 paesi di quattro continenti, perché il 20 ottobre, il sacerdote torinese fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata, sarà canonizzato da papa Francesco, ovvero, diventerà ufficialmente santo.

Intanto la chiesa si riempie, è stracolma e molti sono in piedi o seduti per terra nell’area davanti all’altare. I cori Tatanzambe di Nervesa (Tv) e Massawe di Bevera (Lc), uniti per l’occasione, suonano e cantano in kiswahili.

Verso le 20 suor Alessandra Pulina, direttrice di Andare alle genti, prende la parola per spiegare il programma della serata. Con lei, condurrà padre Edwin Osaleh, missionario in Marocco.

 

La veglia abbia inizio

Il benvenuto è di suor Lucia Bortolomasi, madre generale delle missionarie della Consolata, anche a nome di padre James Lengarin, superiore generale dei missionari. Di colpo la chiassosa e variopinta assembela si zittisce. «Che gioia indescrivibile, quanti sentimenti abitano il nostro cuore. […]

Alcuni di noi hanno varcato oceani, attraversato continenti, viaggiato giorni per arrivare qui. […] è necessario fermarci tutti insieme a preparare il cuore. per sintonizzarci a quanto sta accadendo sotto i nostri occhi e coglierne il senso più profondo».

Suor Lucia ricorda la beatificazione di Allamano, nel 1990 e riflette sul significato di essere riconosciuto santo: «Questo riconoscimento ufficiale varca i confini della nostra famiglia, diventando un modello rivolto ai fedeli della Chiesa tutta. Da domani Allamano è un po’ meno nostro e sempre più di tutti».

Suor Lucia richiama la santità che il fondatore chiedeva ai suoi: «Non miracoli, ma fare tutto bene. Farci santi nella via ordinaria» e ricorda i tanti missionari e missionarie che sono rimasti ai loro posti, in missione, e quelli che non sono potuti venire perché impediti dall’età o dalla malattia. Suor Lucia fa, infine, un richiamo alla responsabilità: «siamo tutti chiamati a operare con sempre maggiore dedizione».

Dopo di lei, parla monsignor Giacomo Martinacci, rettore del santuario della Consolata doi Torino, che ricorda i 47 anni a guida di Giuseppe Allamano.

Per ogni intervento lei due guide della veglia, fanno sintesi in inglese, spagnolo, portoghese.

Raccontare il miracolo

Viene il momento di parlare del miracolo che ha portato alla canonizzazione di Giuseppe Allamano. La guarigione di Sorino Yanomami, nella missione di Catrimani, a Roraima, in Brasile, nel 1996. Sorino, a caccia nella foresta, era stato aggredito da un giaguaro, che aveva causato gravi ferite alla scatola cranica.

La dottoressa Roberta Barbero ha seguito dal punto di vista medico la vicenda. Racconta come abbia vissuto il contrasto tra il ruolo di medico, che ha bisogno di osservare, misurare, e il suo essere donna di fede, alla quale bastano le testimonianze.

Racconta, ad esempio, come a volte si sia sentita isolata dalla comunità scientifica, quando raccontava il caso, perché lo scienziato fa fatica ad andare oltre a quello che si può misurare: «Le guarigioni inspiegabili avvengono, e l’atteggiamento della medicina è quasi come quello di chi subisce un affronto». Ma «la fede può fare la differenza. Questa guarigione ha cambiato il mio modo di vedere le cose, e anche di testimoniare la mia fede all’interno di un ambiente che non sempre permette questa apertura».

Si alza poi suor Felicita Muthoni Nyaga, la testimone più diretta dell’evento occorso nel febbraio 1996 a Roraima. Prende il microfono e va verso la gente. Tra le centinaia di persone, adesso, cala un silenzio assoluto: sono tutti con il fiato sospeso per ascoltare la sua storia (vedi dossier MC ottobre 2024). Quando conclude dicendo che Sorino «è un uomo che non è registrato all’anagrafe, né nei nostri registri di battesimo, ma c’è, Dio lo ha visto», scoppia un lungo applauso. L’atmosfera è diventata caldissima.

Parlano ancora i vescovi di Roraima: quello attuale, monsignor Evaristo Spleger, e alcuni predecessori e vicari, monsignor Roche Paloschi, e monsignor Raimundo Vanthay Neto.

Gli interventi sono intervallati da canti del coro in diverse lingue.

Testimonianze

Dopo un breve saluto di monsignor Alessandro Giraudo, vescovo ausiliario dell’arcidiocesi di Torino, si susseguono alcune testimonianze di laici e laiche.

Toccante è quella di Nadia, ragazza marocchina musulmana di Oujda, dove è operativo il centro per migranti coordinato da padre Edwin.

Una preghiera del cardinale Giorgio Marengo conclude la serata.

Sono le dieci passate, i pellegrini chiassosi defluiscono lentamente dalla Chiesa Nuova. Si vede la stanchezza di chi è arrivato da lontano, ma si sente l’entusiasmo, e molta attesa per quello che avverrà domani.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=k6dxF1L6aAI?feature=oembed&w=500&h=281]


Piazza san Pietro, 20 ottobre

È festa grande

Fino dalle 7 del mattino, a giorno non ancora fatto, lunghe code di pellegrini aspettano ai controlli della polizia necessari per entrare nella piazza.

Nella coda, tra la gente che si stropiccia gli occhi, si sentono decine di lingue: portoghese, spagnolo, francese, inglese, italiano, kiswahili. Ma c’è anche l’Asia, con la Corea, la Mongolia e Taiwan.

Su alcune asticelle viene issata l’immagine di Giuseppe Allamano, nella sua versione colorata o «pop art», che resta un riferimento tra la marea di teste.

Oggi saranno, infatti, «canonizzati» anche Elena Guerra, Marie-Léonie Paradis e gli undici martiri di Damasco (Manuel Ruiz e compagni). Ci si distingue anche per il foulard, bianco ma colorato con le 35 bandiere dei paesi dove lavorano i missionari e le missionarie della Consolata, e con il volto di Allamano e l’immagine della Consolata. L’organizzazione ha anche previsto per tutti un badge verde con il logo studiato specificamente per questo giorno.

Entriamo tra i primi, dopo il controllo con il metal detector. La platea davanti alla scalinata di San Pietro è ancora da riempire.

I pellegrini sono assonnati, ma nei volti si nota la gioia e l’eccitazione. Molti si salutano, si abbracciano. È spesso un rivedersi dopo anni, talvolta un incontrarsi per la prima volta, entrando subito in sintonia.

Intanto si è fatto giorno. È nuvoloso, ma non piove.

È un momento di attesa, e si approfitta per farsi foto, video, scambiarsi un contatto o un sorriso. Vediamo una folta delegazione dall’Uganda, poi la bandiera del Kenya (primo paese di missione dei Missionari della Consolata). Il Congo Rdc è presente, così come la Costa d’Avorio. A un certo punto compare la bandiera del Marocco: è il gruppo di Oujda, del quale fanno parte alcune migranti subsahariane.

Vediamo il gruppo dei laici della Consolata del Portogallo, con le magliette del loro 25° anno di esistenza. E poi tantissime suore, di svariate età e nazionalità. Così metà della piazza, quella con i posti a sedere, si è riempita.

Intanto, alla sinistra dell’altare si siedono cardinali, vescovi e sacerdoti. Alla destra, invece, le autorità e i diplomatici.

Francesco accolto dai suoi

Dopo il rosario in latino, inizia uno scampanio, poi il coro ufficiale intona alcuni canti diffuse con i potenti altoparlanti. L’attesa si fa più intensa tra le migliaia di persone venute da tutto il pianeta, spaccato di umanità.

Alle 10,20, quasi all’improvviso, arriva papa Francesco sulla sua carrozzina e si siede sulla poltrona papale. Tenue, quasi sotto voce, sul lato destro della platea, un gruppo di pellegrini intona: «Papa Francesco, papa Francesco». Altri iniziano, è come se il coro si spostasse nello spazio antistante alla basilica, e intanto diventa «papa Francisco», per culminare con un grande applauso. Nel frattempo è comparso un pallido sole.

Scorgiamo evidente, in prima fila nel gruppo delle autorità, il presidente Sergio Mattarella.

La celebrazione ha inizio. Vengono lette le brevi biografie dei nuovi santi. Quando è nominato Giuseppe Allamano, parte un applauso dalla piazza.

«Vince non chi domina, ma chi serve per amore», dice il Papa nella sua omelia, a commento del Vangelo del giorno (Mc 10,35-45).

«Gesù svela pensieri nel nostro cuore smascherando, talvolta, i nostri desideri di vanità e di potere». E poi ci insegna lo «stile di Dio», ovvero il «servizio». Le parole magiche per il Papa sono: «Vicinanza, compassione e tenerezza, applicate all’azione di servire. […] A questo dobbiamo anelare».

Uno stile che nasce dall’amore e non ha una scadenza o un limite.

«I nuovi santi hanno vissuto questo stile di Gesù: il servizio», continua il Papa.

Allamano e gli Yanomami

All’Angelus il pontefice mette l’accento sui popoli indigeni: «La testimonianza di san Giuseppe Allamano ci ricorda la necessaria attenzione verso le popolazioni più fragili e vulnerabili. Penso in particolare al popolo Yanomami, nella foresta amazzonica brasiliana, tra i cui membri è avvenuto proprio il miracolo legato alla sua canonizzazione. Faccio appello alle autorità politiche e civili affinché assicurino la protezione di questi popoli e dei loro diritti fondamentali e contro ogni forma di sfruttamento della loro dignità e dei loro territori».

Il nome «Yanomami», dunque, echeggia in piazza san Pietro, proprio grazie al nuovo santo.

Papa Francesco conclude con un giro in carrozzina a salutare i cardinali, per poi salire sulla papamobile, e fare un lungo percorso nella piazza. I pellegrini e i fedeli hanno oramai lasciato le loro sedie e si accalcano alle transenne per salutare il Santo Padre.

Dopodiché, inizia il lento deflusso di migliaia di persone, mentre gruppi di svariate nazionalità e lingue si fanno le ultime foto sulla piazza, con lo sfondo della basilica di san Pietro sulla cui facciata spicca lo stendardo di san Giuseppe Allamano.

Chiediamo a padre James Lengarin, superiore dei missionari della Consolata, le sue impressioni: «È stata una bellissima giornata. Quando si nominava san Giuseppe Allamano, dalla piazza si alzava un urlo di gioia. Il Papa ha ancora parlato di lui all’Angelus, sottolineando il suo spirito missionario: oggi è anche la Giornata missionaria mondiale».

«Poi ci siamo trovati tutti al Teresianum (la Pontificia università teologica), per festeggiare. Eravamo più di 1.300 persone da tutto il mondo. Questo ci fa vedere come il cuore della Consolata sia vivo». Gli chiediamo come si sente a essere il successore di un santo: «Mi sento come uno dei suoi figli, ma anche come frutto della missione. Io vengo da una popolazione di pastori nomadi. Vuole dire che Allamano aveva questa attenzione per le persone che di solito sono emarginate, alla periferia del mondo. Io adesso mi sento animatore dei miei fratelli».

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=eMG2kXp9iho?feature=oembed&w=500&h=281]


Roma, 21 ottobre

«Coraggio, avanti»

Lunedì pomeriggio i pellegrini di san Giuseppe Allamano si trovano nuovamente tutti insieme per una celebrazione di ringraziamento nella splendida cornice della basilica di san Paolo fuori le mura.

La messa inizia con una danza africana realizzata da suore e novizie, che scalda subito l’atmosfera. Sfilano vestite con colori africani, a dominante azzurra. Dietro alle danzatrici, fanno il loro ingresso centodieci sacerdoti vestiti di bianco, due fratelli missionari, seguiti da ventidue vescovi e, in ultimo, dal cardinale Giorgio Marengo. È lui che, con la sua solita semplicità, ma al tempo stesso profondità, prende la parola: «Questa mattina, alla sessione del sinodo, sono andato a ringraziare il Santo Padre, che era lì con noi, per il dono della canonizzazione. Mi ha colpito, perché, sedutomi davanti a lui, mi ha preso le mani e mi ha detto “Coraggio, avanti”. Quello che ci diceva sempre san Giuseppe Allamano».

Continua il cardinale: «Oggi è un giorno di ringraziamento per san Giuseppe Allamano. È il primo giorno nel quale possiamo chiamarlo così». Le sue parole, quasi emozionate, scatenano l’euforia dei presenti.

Tra questi spicca una folta delegazione di fedeli di Roraima, lo stato del Brasile dove è avvenuto il miracolo della guarigione dell’indigeno yanomami Sorino. Sono riconoscibili da una maglietta fatta per l’occasione, con la scritta in portoghese: «Annunziate la mia gloria alle nazioni» (Is 66,19), e con i loghi della diocesi di Roraima e quello ufficiale della canonizzazione. Poi tante fedeli africane, con vestiti dai tipici colori sgargianti, e moltissime religiose. Ci sono anche i laici missionari della Consolata, e i tanti amici del nuovo santo venuti da quattro continenti. Quasi tutti hanno al collo il foulard della canonizzazione.

Iniziano le letture. Poi il salmo viene recitato da uno studente e una studentessa missionari, e il coro risponde cantando in maniera soave: «Popoli tutti, lodate il Signore».

Dopo la seconda lettura, parte di nuovo il coro, diretto dall’accalorato padre Douglas Lukunza del Kenya. I musici – tastiera, batteria, due djembé (tamburi africani) e pure un bravo violino – sono altri studenti missionari, tutti africani. Il coro variegato segue i movimenti del direttore, che non si limita a muovere le braccia, ma praticamente balla. Una danza contagiosa, che in pochi secondi prende tutti i presenti e, chi più chi meno, inizia a muoversi a ritmo di musica. E parte l’entusiasmo della grande festa.

Un punto di partenza

Con la preghiera dei fedeli torna la calma. Alcuni lettori e lettrici si alternano nelle diverse lingue: italiano, inglese, portoghese, spagnolo, coreano, kiswahili e francese. A leggere quest’ultima è una ragazza migrante del Burkina Faso, attualmente a Oujda in Marocco. La sua è una supplica toccante, forse perché nasce dall’esperienza personale: chiede di pregare affinché i governi rendano più vivibili i Paesi del mondo, in modo che i giovani non siano più costretti a partire.

Durante la cerimonia di ringraziamento, come nei giorni precedenti, il collegamento con l’Amazzonia è forte: all’offertorio, oltre al pane e al vino, viene portato anche un tipico copricapo indigeno, fatto di piume blu e gialle del grande pappagallo ara, mandato da coloro, spiega la voce di commento, «che sono assetati di fede e di giustizia».

Ma oltre alla festa, il ringraziamento è pure un momento di riflessione, stimolata dalle parole, talvolta provocatorie, del cardinale Marengo che nella sua omelia si è soffermato sull’importanza della contemporaneità: l’impegno deve essere «una successione continua di oggi e qui», e occorre «attingere la forza per la missione dalla contemplazione».

«Dobbiamo dircelo: la sua santità (di Allamano, ndr) ci deve scuotere, altrimenti non ci gioverà. I nostri istituti attraversano un momento delicato della loro storia, con incertezze nei cammini del mondo. Oggi non è solo un punto di arrivo, deve essere anche un punto di ripartenza».

Considerando il percorso e gli sforzi fatti per arrivare a questa canonizzazione, «tutto sarà ripagato se prenderemo sul serio questo oggi, l’avere gli occhi fissi sul Signore, teneramente amato e servito da san Giuseppe Allamano, e realizzeremo davvero il suo desiderio di vederci famiglia della Consolata che si vuole bene e che arde di zelo apostolico».

La cerimonia si avvia alla conclusione con il canto del Magnificat in versione africana, danzato e cantato da tutti i presenti. Il cardinale incensa lo stendardo con il volto di Giuseppe Allamano, che pare sorridente come non mai. Anche lui, oramai coinvolto nella festa per il nuovo santo.

Marco Bello

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=TovV1r44H-c?feature=oembed&w=500&h=281]




Vietnam. Un solo partito, tante speranze


Le prove di avvicinamento tra uno degli ultimi Paesi comunisti e il Vaticano sembrano dare frutti. Ma i punti di vista sono diversi e occorre tempo. Intanto la società vietnamita evolve rapidamente. E la Chiesa locale fatica a stare al passo. Reportage.

Hanoi. È sera. Siamo seduti sulle basse sedie che si usano qui, sul marciapiede di fronte al piccolo bar, bevendo una bibita per contrastare il caldo e l’umidità della giornata. Siamo sul ciglio di una strada che si immette nella rumorosissima e centrale via Hang Bong. I marciapiedi sono usati come parcheggio di motorini, posizionamento di mercanzia di ogni tipo, e, appunto, come spazi per sedie e tavolini. Per camminarci sopra, occorre fare uno slalom continuo.

Ci troviamo nel centro della città, vicino al cosiddetto quartiere vecchio, e non lontano dal lago Hoan Kiem, ombelico di questa metropoli di otto milioni di abitanti. Qui, al contrario di altri quartieri più moderni, ci sono ancora gli altoparlanti agli incroci che trasmettono messaggi di comunicazione del Governo.

Questa sera, il 19 luglio, sentiamo ripetersi due messaggi di pochi minuti, ma non ci facciamo caso più di tanto, anche perché, essendo in vietnamita, non capiamo nulla.

Sono circa le 18. Solo mezz’ora più tardi mi arriva un messaggio da un’amica di Hanoi che rimanda un appuntamento, perché «è morto il Segretario generale del partito». Verifico rapidamente: Nguyen Phu Trong è deceduto poco dopo le 13, dicono vari siti vietnamiti.

Era l’uomo forte del Paese, la carica più importante. Gli altri tre sono il presidente della Repubblica, che ha compiti più rappresentativi, il primo ministro e il presidente dell’Assemblea nazionale. Trong, inoltre, non è stato un segretario generale come gli altri.

Vietnam. Cartelloni politici a Città Ho Chi Minh. (Foto Marco Bello)

Chi era Nguyen Phu Trong

In carica dal 2011, aveva iniziato un terzo mandato nel 2021. Fatto inusuale perché di solito ci si ferma a due. Ma soprattutto è stato un leader che ha saputo posizionare il Paese a livello internazionale e mantenere buoni rapporti con tutte le grandi potenze, applicando la «diplomazia del bambù»: pianta robusta, ma flessibile e con salde radici. Basti pensare che, da settembre 2023 a giugno 2024, Trong ha ricevuto Joe Biden, Xi Jinping e Vladimir Putin. Trong ha condotto una lotta anticorruzione interna al Partito comunista vietnamita (Pcv), chiamata «braci ardenti», e ha spinto lo sviluppo economico che sta avendo il Paese. «È stato un uomo che si è dedicato alla patria», ci dice un osservatore straniero che da anni vive in Vietnam.

Per la sua morte, vengono decretati tre giorni di lutto nazionale e celebrati solenni funerali di Stato in tre località: Hanoi, la capitale, Città Ho Chi Minh, ex Saigon (ma ancora sovente chiamata così) capitale del Sud, e a Lai Dà, il suo villaggio di origine, nei pressi di Hanoi.

Il giorno dopo, l’atmosfera cittadina non pare molto cambiata. Il traffico è caotico come sempre. Migliaia di motorini inondano le strade, mentre a ogni angolo, a ogni via, c’è un localino in cui mangiare e gente seduta davanti a una scodella di zuppa.

I giornali e i siti sono usciti in colore nero anziché rosso, mentre sui social impazzano commenti. Un’amica di Hanoi ci mostra alcune foto del segretario da giovane, prese dal suo profilo Facebook.

Sulla spianata di fronte al mausoleo di Ho Chi Minh, il padre del Vietnam moderno, i turisti stranieri, ma anche molti vietnamiti da varie province del Paese, scattano foto ricordo.

Una presenza sicura

Il Partito comunista del Vietnam (Pcv), partito unico al governo della Repubblica socialista del Vietnam, sembra sullo sfondo. Nella realtà, è bene presente nella società vietnamita.

Arrivati all’aeroporto di Città Ho Chi Minh, la prima cosa che vediamo uscendo all’aperto sono tre gigantesche bandiere rosse con al centro il simbolo della falce e il martello in giallo, la bandiera del partito.

Bandiere grandi e piccole del Paese (stella gialla su sfondo rosso) sono presenti un po’ ovunque, talvolta con discrezione, come sui pali della luce, talvolta in modo più appariscente, come le grandi stelle di neon colorati a Città Ho Chi Minh e Nha Trang, o le centinaia di bandierine appese ai fili che attraversano alcune vie pedonali della movida. Poi, nelle diverse città, ci sono grandi cartelloni propagandistici, come quelli dei 70 anni della vittoria contro i francesi a Diem Bien Phu (maggio 1954) che mise fine all’occupazione coloniale, o quelli su Ho Chi Minh, o ancora sulla scuola o altri servizi dello stato.

Sono cartelloni con disegni in tipico stile comunista, come si vedevano nei paesi socialisti europei e in Unione Sovietica, ma qui stonano accanto ai mega schermi, diffusi nelle grandi città, che promuovono a ritmo continuo le grandi marche occidentali di ogni cosa, lusso compreso.  Eppure, ci conferma un nostro interlocutore straniero, che chiede di mantenere l’anonimato: «C’è un certo controllo da parte del Governo, e anche in modo capillare. Di noi stranieri sanno tutto, in particolare di chi vive nelle città. Dopo la pandemia da Covid-19, inoltre, c’è stata una stretta, dovuta anche alla maggiore instabilità a livello mondiale». Uno degli strumenti usati per monitorare le persone è attraverso i social network e le app di messaggistica, come la vietnamita «Zalo», che il nostro interlocutore dice essere «in mano all’esercito». «Nelle grandi città, a livello di quartieri, la polizia si avvale di informatori locali che riportano di passaggi e movimenti inusuali, come visite dall’estero», conclude.

Vietnam. Città Ho Chi Minh, la via Bui Vien famosa per i locali notturni. (Foto Marco Bello)

Sorrisi e controllo

Un altro straniero, che ha vissuto a lungo nel Paese, ci conferma: «Il governo è presente, deve verificare cosa dice la gente. Se un giornalista o una persona della Chiesa critica, dopo può avere dei problemi. Il Governo dà un po’ di libertà e poi le riprende. Ci sono movimenti di apertura seguiti da altri di chiusura. Ma è difficile sapere qual è il livello di denuncia e controllo, soprattutto quando vivi sul posto».

Continua: «Devo dire però che non è una nazione che vive nell’oppressione ogni giorno. I vietnamiti hanno la propria vita personale, il loro quotidiano, il piacere di mangiare insieme, incontrare gli amici, uscire dalla città a vedere posti nuovi. Ci sono tante cose positive. Non è un paese in cui manchi la gioia».

Questo lo si vede in tutte le città. Dai giovani che affollano i locali di tendenza sul lungofiume del Saigon a Città Ho Chi Minh, dagli innumerevoli ristoranti, dalle manifestazioni musicali e fiere, dai coloratissimi áo dài indossati dalle donne. E dai parchi cittadini o i viali resi pedonali e abbelliti da luci colorate, nei quali le famiglie vanno a passeggiare la sera. Un qualsiasi viaggiatore osserverà molta vitalità, voglia di divertirsi, di stare insieme e mangiare bene.

Sebbene sia un popolo di persone generalmente riservate, notiamo una certa attitudine al sorriso. Basta guardarsi e ci si sorride.

Vietnam. Megaschermo installato sulla riva destra del fiume Saigon, di fronte al centro di città Ho Chi Minh. (Foto Marco Bello)

Le sfide irrisolte

Il vero aspetto negativo di questo sistema sembra essere la presenza di alcune importanti sfide sulle quali non è possibile aprire un dibattito, proprio perché non ci sono gli spazi di confronto, per cui non si discutono e, molto sovente, non vengono affrontate.

Il nostro testimone ce ne elenca alcune. «L’educazione è una grande sfida. È ancora di tipo tradizionale e non prepara i giovani alle difficoltà del lavoro moderno. Occorre allocare dei fondi per andare in questa direzione. Un’altra sfida è l’arricchimento di una piccola parte della popolazione, che poi tende a mandare i figli a studiare all’estero. La speculazione immobiliare, molto diffusa. L’abbandono delle campagne da parte dei giovani, perché la vita è meno confortevole, per andare a ingrossare le città. La mancanza di investimenti sulla cultura e sull’arte. Anche da questo si vede il livello di sviluppo di un Paese. E poi non c’è una rilettura critica della storia».

Per contro, a livello sociale, nelle grandi città del Vietnam non esistono quartieri molto poveri o degradati, come ci sono in Europa, nelle periferie di Parigi o Roma, tanto per fare due esempi.

È pur vero che si tratta di una società che viene dal mondo rurale e si è modernizzata rapidamente, negli ultimi venti o trent’anni.

Vietnam. Il portale di uscita della chiesa Sacro Cuore di Gesù di Cholon, il quartiere cinese di Città Ho Chi MInh. (Foto Marco Bello)

La Chiesa che c’è

A Città Ho Chi Minh visitiamo una comunità dei padri dello Spirito Santo. Attualmente sono tutti vietnamiti. Ci dicono che hanno una buona collaborazione con il Governo. Ad esempio, nelle attività di assistenza alle fasce più disagiate della popolazione. «Un ente dello Stato ci fornisce riso che distribuiamo ai poveri – ci conferma padre Peter -. Inoltre, noi religiosi siamo stati molto apprezzati durante il periodo della pandemia, grazie al volontariato che facevamo per contrastare l’emergenza». I missionari dello Spirito Santo sono presenti nel Paese dal 2007. Stanno lavorando in particolare in una zona rurale di recente urbanizzazione, vicina alla metropoli. Qui c’è una popolazione immigrata, giunta da varie provincie interne del Paese per lavorare nelle grandi fabbriche di manifattura, che in quest’area (come anche alla periferia di Hanoi) si trovano in grande numero.

Ci sono diverse altre congregazioni presenti in Vietnam, come i Salesiani, presenza storica, o i Camilliani, con le loro attività in ambito sanitario. Il rapporto con le autorità è generalmente buono, ma ovviamente, non si deve entrare nella sfera politica.

Più in generale, la Chiesa cattolica in Vietnam è coesa, forse a causa delle persecuzioni che ha subito in passato e anche nella storia recente.

Oggi è diverso, ed è in corso un processo di avvicinamento, anche ufficiale, tra il Vaticano e la Repubblica socialista del Vietnam. Le relazioni diplomatiche ufficiali si erano interrotte nell’aprile 1975, quando la Repubblica democratica del Vietnam (il Nord) insieme alla guerriglia rivoluzionaria del Sud (i cosiddetti vietcong) vinsero la guerra contro la Repubblica del Vietnam (governo del Sud) e i suoi alleati statunitensi.

Un avvicinamento costante

I rapporti sono ripresi timidamente nei primi anni Novanta. Dal 2010 è stato costituito un gruppo di lavoro congiunto Vietnam-Santa Sede che si occupa di questo processo. I lavori hanno inizialmente portato a scambi e visite ufficiali di rappresentanti del Vaticano e poi alla presenza della figura di un Rappresentante pontificio non residente dal 2011. Il 27 luglio 2023 il presidente Vo Van Thuong è stato in visita da papa Francesco. Lo stesso giorno la delegazione vietnamita ha incontrato il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato della Santa Sede, ed è stato firmato un accordo per l’istituzione di un Rappresentante pontificio residente (Rpr). Una figura ad hoc che, di fatto, espleta le funzioni di nunzio, senza però esserlo. Il presidente Vo ha anche invitato papa Francesco a visitare il Paese (Vo si è dimesso nel marzo di quest’anno, nell’ambito della campagna anticorruzione, e a maggio è stato nominato l’attuale presidente To Lam).

Il 23 dicembre scorso, monsignor Marek Zalewski, nunzio apostolico a Singapore e già rappresentante non residente in Vietnam, è stato nominato rappresentante pontificio residente. Ha quindi aperto l’ufficio di rappresentanza nella capitale Hanoi, a gennaio di quest’anno. L’auspicio espresso da papa Francesco durante l’incontro con il presidente Vo, ripreso poi da monsignor Zalewski, è stato: «Che cattolici del Vietnam realizzino la propria identità di buoni cristiani e buoni cittadini». Frase che sottolinea l’importanza dello Stato.

Vietnam. Celebrazione di un matrimonio nella cattedrale di Nha Trang. (Foto Marco Bello)

Le porte sono aperte

I cattolici in Vietnam sono circa 7 milioni su 100 milioni di abitanti. Questo rendendo la religione cattolica seconda per fedeli, mentre la prima è il Buddhismo con oltre 10 milioni di vietnamiti che si dichiarano tali. «Il numero di cattolici è in crescita – ci dice don Joseph Ta Minh Quy, rettore della cattedrale di Hanoi, che in passato si occupava di comunicazione per l’arcidiocesi -. Però è un po’ inferiore della crescita della popolazione».

Continua don Joseph, che ci ha accolti nel suo ufficio dietro la cattedrale: «I cattolici del Nord sono molto attivi, amano gli incontri di famiglia, di comunità. Sono molto socievoli. Il concetto di comunità è molto forte. Nel Sud è un po’ diverso, e c’è un investimento maggiore sul rapporto personale e sulla fede».

Nelle diverse città del Vietnam, i cattolici non si nascondono. Abbiamo visto ovunque chiese sormontate da grosse croci e rese molto evidenti, spesso illuminate di notte. Continua don Joseph dicendo che il rapporto con il Governo è buono: «Nei nostri spazi possiamo fare tutte le attività che vogliamo, senza alcun problema. Diverso è se vogliamo occupare suolo pubblico, allora occorrono degli speciali permessi. C’è poi abbastanza differenza tra la città e la campagna. In ogni caso, là dove siamo, le nostre porte sono aperte e invitiamo chiunque a venire».

«Una sfida della Chiesa in Vietnam oggi – ci dice uno dei rari missionari nel Paese -, è l’influenza della società secolarizzata. Tanti, soprattutto i giovani, si stanno allontanando. Anche a causa della migrazione interna. Molti di loro lasciano le province per le grandi città, per studiare o lavorare. Ma qui perdono i riferimenti. Così diminuiscono fede e vocazioni». Nella cattedrale di Nha Trang, vivace città nel centro del Paese, si sta celebrando un matrimonio. La sposa indossa un áo dài candido e lo sposo camicia bianca e cravatta. Nel coro ordinato, una decina di donne sfoggia degli áo dài coloratissimi. Gli uomini sono vestiti all’occidentale. È l’immagine di una società vivace e variopinta ma allo stesso tempo ligia e rispettosa delle regole.

Marco Bello

Vietnam. Famiglie a passeggio di sera nel centrale corso Le Loi nei pressi del municipio di Città Ho Chi Minh. (Foto Marco Bello)


Il nuovo segretario generale

Il comitato centrale del Partito comunista, il 3 agosto scorso ha nominato To Lam nuovo Segretario generale. Lam è l’attuale presidente della Repubblica, che così concentra su di sé due delle quattro cariche più importanti del Paese. Lam è stato capo della polizia e ministro della Sicurezza pubblica.


Archivio mc




Zambia, Zimbabwe e Malawi in ginocchio. Senza pioggia


La combinazione del cambiamento climatico e di altri eventi ha portato a una scarsa stagione delle piogge. L’agricoltura ne ha risentito e così manca il cibo di base. L’energia elettrica, generata con le dighe, scarseggia. Con gravi ripercussioni per le piccole imprese e gli ospedali.

Da quarant’anni non si registrava una siccità di queste proporzioni. La combinazione di El Niño e dei cambiamenti climatici quest’anno ha colpito duro. La passata stagione delle piogge, da novembre a febbraio, è stata magra. Poche precipitazioni, quindi poca acqua per l’agricoltura e per i bacini idroelettrici. Il risultato è disastroso. L’agricoltura ha perso quasi interamente i raccolti. Le centrali elettriche sono impossibilitate a funzionare. Manca il cibo (soprattutto il mais, base della dieta locale) e non c’è corrente elettrica, né per uso domestico, né per l’industria. Malawi, Zambia e Zimbabwe stanno vivendo una situazione difficile, stretti nella morsa di una crisi climatica senza precedenti. A soffrirne sono la popolazione, che deve fare i conti con risorse sempre più carenti, e l’economia che deve affrontare una sfida complessa in un contesto fragile. Nei tre Paesi, secondo i dati delle Nazioni Unite, la siccità ha portato a perdite agricole catastrofiche, con raccolti di mais in alcune aree ridotti dal 40 all’80%. L’impatto è stato particolarmente duro sulle popolazioni rurali, dove circa il 70% delle persone fa affidamento sull’agricoltura per sopravvivere. Ciò ha innescato l’insicurezza alimentare per milioni di persone, con una fame diffusa.

Niente acqua né corrente

Il mese di febbraio 2024 per lo Zambia è stato uno dei più secchi degli ultimi decenni, le precipitazioni si sono ridotte del 20%, esacerbando una crisi idrica già in corso almeno dall’autunno 2023. Ciò ha bruciato i raccolti, con perdite fino all’80% in alcune regioni. Secondo le stime ufficiali del Governo, il Paese affronta un deficit di 2,1 milioni di tonnellate di cereali (mais, riso e altri raccolti fondamentali). Secondo i dati forniti dall’autorità governativa, a risentirne sono più di sei milioni di persone su una popolazione complessiva di 20, di cui la metà bambini.

La siccità, però, non ha colpito solo la produzione alimentare, ma anche la produzione di energia. Lo Zambia, nei decenni passati, ha scommesso sulle centrali idroelettriche che forniscono un’energia pulita e continua (a differenza del solare che ha un vuoto durante la notte). Così attualmente le dighe forniscono oltre l’80% dell’energia del Paese. Dopo mesi di siccità però i bacini si sono svuotati. Secondo il ministero dell’Energia di Lusaka, la gigantesca diga di Kariba sul fiume Zambesi, la più grande fonte idroelettrica dello Zambia, ha solo il 10% di acqua disponibile. Danny Kalyala, governatore della Banca dello Zambia, ha affermato che questa crisi energetica non ha precedenti. Gli operatori minerari del secondo produttore di rame africano sono finora riusciti a evitare tagli alla produzione importando elettricità dall’estero. Tuttavia, il deficit energetico, peggiore del previsto e in aumento, sta avendo un impatto su altri settori. Il governo ha tagliato le sue previsioni di crescita economica per il 2024 al 2,3%. Secondo Kalyala, la Banca centrale deve ancora valutare appieno l’impatto economico dell’intensificarsi della crisi. «Chiaramente – ha detto -, la situazione è molto difficile. Le esigenze si stanno moltiplicando anziché ridursi».

A brigade of nutrition peer educators dish into plates cupfulls of the prepared porridge formulation dubbed maworesa, which translates to the very best porridge, which is cooked with readily available ingredients that are locally sourced to prevent children from falling into malnutrition as the El-Nino induced drought, in Mudzi on July 2, 2024. Zimbabwe is one of the countries in southern Africa whose food intake is being affected by a severe drought which experts say was worsened by the El Nino phenomenon. (Photo by Jekesai NJIKIZANA / AFP)

La situazione è tragica

«La situazione è tragica». Così Mariangela Tarasco, rappresentante dell’Ong Celim di Milano in Zambia, definisce l’attuale momento vissuto dallo Stato dell’Africa australe. «Manca l’acqua, manca l’elettricità e scarseggia il cibo. Nei giorni scorsi – spiega Mariangela -, il governo aveva garantito almeno tre ore al giorno di corrente. Ma non è riuscito a mantenere la promessa. Qui è da giorni che siamo al buio. In città, l’acqua viene fortemente razionata. Nelle campagne, però, non arriva né l’acqua né la corrente elettrica».

E aggiunge: «Sta diventando sempre più difficile procurarsi il mais non solo per la siccità, ma anche perché molte tonnellate sono state contaminate da un fungo nocivo e sono state ritirate dal mercato. Aggravando ulteriormente una situazione».

La gente è rassegnata, continua Mariangela, ma in questa fase di crisi dimostra una capacità di resilienza fuori dal comune. «Le donne si svegliano la mattina presto – osserva – per andare a prendere l’acqua in quelle zone dove sanno ce n’è ancora. Fanno chilometri con una forza d’animo invidiabile». Il simbolo delle gravi difficoltà è il deficit idrico del bacino di Kariba. «Che un impianto di quelle dimensioni sia a secco è grave – conclude -. Ciò significa che la crisi è profonda. E, soprattutto, non se ne intravvede la fine».

Tra cicloni e siccità

La situazione non è differente nel vicino Malawi. La siccità ha causato una riduzione del 20% delle precipitazioni, portando a un calo significativo delle rese dei raccolti, in particolare per i piccoli agricoltori che producono la maggior parte del cibo del Paese. La coltura di mais ha subito gravi ripercussioni, causando una fame diffusa.

La mancanza di precipitazioni sta inoltre creando difficoltà nell’accesso all’acqua pulita, il che solleva preoccupazioni sui problemi di salute, con il rischio di epidemie di malattie come il colera.

«Questo è il quarto anno consecutivo che il Malawi affronta un disastro legato al clima – spiega Alessandro Marchetti, project manager di Orizzonte Malawi Onlus -. Nei tre anni passati, il Paese aveva dovuto affrontare precipitazioni abbondanti, culminate con il ciclone Freddy. Ora è arrivata la siccità. Il Paese, che ha una popolazione di circa 20 milioni di abitanti, che vive al 90% di agricoltura di sussistenza, è quindi vulnerabile al cambiamento climatico ed è ormai evidente che necessita di misure di resilienza a lungo termine». La situazione è delicata. Nelle città  è un po’ mitigata perché lì arrivano più facilmente gli aiuti del Governo e delle organizzazioni internazionali. «Nei villaggi – continua Alessandro – la vita è dura. I raccolti sono bruciati. È difficile per la povera gente tirare avanti. Tra l’altro l’inflazione ha fatto aumentare i prezzi, anche quelli dei fertilizzanti e del cibo. I più colpiti sono i bambini, gli anziani e i malati».

La siccità distrugge tutto, secondo padre Pierluigi Gamba, missionario monfortano e grande conoscitore del Malawi. «Mentre i cicloni, le piogge eccessive, fanno disastri – osserva -, dopo si può sperare di raccogliere qualche prodotto come le patate dolci, la cassava, il cotone, la soia; con la siccità invece muore tutto. Oggi sei milioni di persone non hanno nulla. Le prospettive non sono rosee perché fino a marzo 2025 le campagne non daranno nessuna possibilità di raccolto. L’agricoltura del Malawi non è meccanizzata e non ha irrigazione che permetta alternative».

Il poco grano che si trova al mercato costa tanto, spiega il missionario. Dieci anni fa un operaio comperava quattro sacchi di mais al mese ora ne compra uno. Le famiglie sono di almeno sei persone e un sacco di grano non basta nemmeno per un pasto al giorno. La gente sopravvive solo con la crusca, un tempo riservata agli animali. «È una tragedia non avere cibo per un Paese come il Malawi che deve confrontarsi con una sovrappopolazione che lo rende lo Stato a più alta densità di questa area dell’Africa».

Da settimane, in tutto il Paese manca anche l’energia. L’Escom, la compagnia elettrica nazionale, non conosce la causa di questa mancanza che distrugge tutte le piccole imprese.

A livello sanitario, gli ospedali, ad esempio, non possono conservare i vaccini. «È un ritorno a un passato che si sperava fosse stato superato – osserva il missionario – garantendo alla popolazione dei servizi che non ci sono più».

Le Chiese cristiane fanno il possibile per assistere bambini e i pochi anziani che rischiano di non sopravvivere a questa emergenza.

«Ormai la gente torna nella foresta per cercare radici o erbe che gli antenati avevano imparato a mangiare – conclude padre Gamba -. Ora il più delle volte finisce per avvelenarsi perché non sa più distinguere cosa è buono e cosa no. Sono necessari aiuti immediati».

Ladias Konje, a communal farmer, walks through her wilting maize field, which suffered from moisture stress at tasseling during a long mid season dry spell, in the Kanyemba village in Rushinga on March 3, 2024. More than 13 million people across southern Africa can’t put enough food on the table and the number is expected to surge in the coming months as the effects of months of poor rains kick in, according to the United Nations.
In Zimbabwe, officials urged people to tighten their belts as authorities scramble to find alternative food supplies. (Photo by Jekesai NJIKIZANA / AFP)

La crisi nella crisi

Anche lo Zimbabwe è stato travolto dalla siccità. Qui si è abbattuta su un’economia già resa fragile da un ventennio di politiche velleitarie che hanno messo sul lastrico un sistema produttivo un tempo florido.

Le statistiche riguardanti la siccità in Zimbabwe nel 2024 mostrano un quadro allarmante sia in termini di impatto sull’agricoltura e sulla sicurezza alimentare, sia sulle risorse idriche. La carenza di precipitazioni ha messo in crisi la produzione di mais che, stimano le autorità di Harare, è diminuita di oltre il 30% rispetto alla media storica. Questo comporta una riduzione del raccolto a meno di un milione di tonnellate, quando il fabbisogno nazionale supera i 2,2 milioni. Il Governo e l’Onu prevedono che più di 5 milioni di persone, su una popolazione di 15 milioni, soffriranno di insicurezza alimentare nel 2024, un incremento significativo rispetto agli anni precedenti.

Le principali riserve d’acqua sono a meno del 50% della loro capacità totale. Circa il 40% delle famiglie rurali e 25% delle famiglie urbane affrontano carenze d’acqua giornaliere, con frequenti interruzioni della fornitura idrica soprattutto nella capitale.

L’impatto sull’economia è duro. La siccità, si prevede, causerà perdite economiche stimate attorno al 4-6% del Pil. I prezzi di base per cereali e altri beni di prima necessità sono già aumentati tra il 30 e il 50% rispetto al 2023, colpendo le famiglie più vulnerabili. Il presidente Emmerson Mnangagwa ha sottolineato la gravità della crisi e la necessità di un sostegno internazionale. «La persistente siccità che stiamo affrontando – ha detto – non è solo una minaccia per il nostro settore agricolo, ma anche per la sopravvivenza stessa di milioni di zimbabweani. Dobbiamo agire con decisione, come nazione e con i nostri partner, per garantire la sicurezza alimentare e l’accesso all’acqua per tutta la nostra gente».

Gli aiuti internazionali

Il Programma alimentare mondiale (Pam) ha lanciato l’allerta: c’è bisogno di 409 milioni di dollari per sostenere le sue operazioni nei prossimi sei mesi e aiutare 4,8 milioni di persone.

Nelle scorse settimane, l’organizzazione ha mobilitato oltre 14 milioni di dollari in finanziamenti anticipati per assistere coloro che si prevede saranno colpiti. Da parte loro, le Nazioni Unite hanno chiesto alla comunità internazionale almeno 228 milioni di dollari ma, finora, solo il 10% di questa cifra è stata finanziata. A mobilitarsi è stata anche l’Unione europea, che ha donato 4,5 milioni di euro per il supporto nutrizionale tramite l’Unicef, e Usaid (la cooperazione governativa statunitense), che ha promesso 67 milioni di dollari per migliorare gli sforzi per la sicurezza alimentare e la resilienza. La Banca mondiale ha inoltre fornito una sovvenzione di 207,6 milioni di dollari per sostenere l’assistenza di emergenza in contanti per oltre 1,6 milioni di famiglie in Zambia.

I Governi della regione hanno dichiarato lo stato di calamità e stanno lavorando con partner internazionali per garantire aiuti aggiuntivi. La Comunità per lo sviluppo dell’Africa australe (Sadc, organizzazione economica regionale) ha lanciato un appello per raccogliere 5,5 miliardi di dollari. Gli aiuti basteranno a ridurre l’impatto di questa calamità?

Enrico Casale

A wooden boat lies on the dry lake bottom at the dried inland Lake Chilwa’s vacated Kachulu Harbour in Zomba District eastern Malawi, on October 18, 2018. Lake Chilwa is the second-largest lake in Malawi after Lake Malawi. It is in eastern Zomba District. Approximately 60 km long and 40 km wide, the lake is surrounded by extensive wetlands. The dying of the lake is having an adverse effect on the livelihoods for communities around the wetlands who use the lake as the source of their livelihoods. (Photo by AMOS GUMULIRA / AFP)




Argentina. L’«asado» indigesto di Milei


Il miglioramento dei dati macroeconomici dell’Argentina non deve trarre in inganno. La cura del nuovo presidente è pagata per intero dai cittadini più deboli. Come dimostrano i numeri sulla povertà, che ormai riguarda oltre la metà degli argentini.

Per alcuni analisti il primo anno di Javier Milei alla guida dell’Argentina (è in carica dal 10 dicembre) è stato un successo: primo avanzo finanziario dal 2012, inflazione in discesa (lo scorso anno aveva raggiunto il 276,4 per cento), buone prospettive di crescita economica per il 2025, rapporto recuperato con il Fondo monetario internazionale (Fmi), principale creditore del Paese.

Insomma, i dati macroeconomici e le previsioni paiono indicare un miglioramento della situazione. La realtà quotidiana della gente comune sembra però dire altro.

Meno Stato, più libertà

Diciamo subito che le idee politiche ed economiche di Milei non sono per nulla rivoluzionarie: si tratta della ripresa di principi ultraliberisti già conosciuti. La sostanza della sua politica è molto semplice: meno Stato, più libertà individuale.

Autocelebratosi come «anarco capitalista», Milei ha espresso più volte il suo disprezzo per lo Stato nel corso di interviste o durante i suoi viaggi all’estero (ben 14 tra dicembre e settembre con una spesa di milioni di dollari pagati da quello Stato che tanto denigra). Per esempio, lo scorso maggio, a Madrid, nel corso di un incontro organizzato dall’estrema destra spagnola, Milei ha invitato a «difendere più che mai la vita, la libertà e la proprietà privata degli individui». Il presidente ha avvertito che «le élite globali sono state affascinate dal canto delle sirene socialiste» e ha sottolineato l’importanza di «combattere la battaglia culturale» e di salvare il mondo «rimpicciolendo lo Stato per allargare la società». E ancora: «Nonostante le grida della sinistra, il libero mercato genera prosperità per tutti, non solo per alcuni», ha affermato il presidente argentino.

I primi passi formali del neopresidente sono stati stabiliti nella Ley de bases y puntos de partida para la libertad de los argentinos (Ley ómnibus), inviata al Congresso a fine 2023. Il progetto iniziale conteneva la bellezza di 664 articoli, poi ridotti a 238. Dopo sei mesi di passaggi nel Congresso, la legge (contrassegnata dal numero 27.742) è stata approvata lo scorso 28 giugno e pubblicata il 7 luglio.

Il cuore della norma è il suo articolo 1 che dichiara l’emergenza pubblica in materia amministrativa, economica, finanziaria ed energetica per un anno. Questa condizione permetterà all’esecutivo nazionale (Milei e i suoi ministri) di prendere alcune decisioni senza rispettare tutte le procedure amministrative abituali o senza avere l’approvazione del Congresso nazionale.

Il Régimen de incentivo para grandes inversiones (Rigi) è una delle proposte più controverse.

Essa prevede benefici fiscali, doganali e valutari per 30 anni, per progetti superiori a 200 milioni di dollari, al fine di incoraggiare grandi investimenti, sia nazionali che esteri, a lungo termine. Si rivolge a settori considerati strategici per lo sviluppo del Paese, come l’energia, l’agricoltura, l’attività mineraria (compresa l’estrazione del prezioso litio) e le infrastrutture.

La legge approvata consentirà al governo di mettere in vendita alcune società pubbliche. Ma, per il momento, l’idea iniziale è stata molto ridimensionata e le aziende più importanti dovrebbero rimanere in mano allo Stato. Sia la compagnia petrolifera statale Ypf (Yacimientos petroliferos fiscales) che la compagnia aerea di bandiera Aerolíneas Argentinas continuerebbero cioè ad appartenere allo Stato, così come i media pubblici (Radio e televisione argentina). Tuttavia, il loro destino non è certo.

Un governo negazionista

Il presidente Milei si distingue anche in altri campi. Come Donald Trump e Jair Bolsonaro, nega il cambiamento climatico, considerandolo una bugia diffusa dal socialismo e dal marxismo culturale.

Inoltre, a livello nazionale sostiene che, durante la dittatura militare (1976-1983), le persone scomparse (i desaparecidos) non furono trentamila, ma meno di novemila.

Nell’attuale amministrazione nazionale i negazionisti nei confronti della dittatura ricoprono cariche apicali. Per esempio, la vicepresidente di Milei e presidente del Senato, Victoria Villarruel, ha più volte minimizzato o negato i crimini commessi in quel periodo. Nel dibattito elettorale del 2023, quando le era stato chiesto quale fosse stata la sua posizione, aveva apertamente dichiarato: «Basta mentire, non furono trentamila», riferendosi al numero dei desaparecidos.

Villarruel, 48 anni e di famiglia militare, ha dedicato la sua carriera a contrastare il consenso diffuso sulla violenza politica degli anni Settanta e sui crimini contro l’umanità. Inoltre, promuove la cosiddetta «teoria dei due demoni». In Argentina si chiama così l’idea che equipara la gravità dei crimini perpetrati da agenti statali, nell’ambito del cosiddetto «terrorismo di Stato», ad atti di violenza commessi da organizzazioni guerrigliere (come i Montoneros). Significativa la chiusura del programma «Madres de Plaza de Mayo» (l’associazione delle madri dei desaparecidos), in onda da 16 anni sulla televisione pubblica.

Una povertà dilagante

La «motosega» di Milei, uno dei simboli (buffoneschi) della campagna elettorale del neopresidente, è entrata in azione, ma meno del previsto e, comunque, soprattutto per togliere ai deboli.

Oltre ad aver tagliato il numero dei ministeri (passati da 18 a 9), una delle prime trovate del nuovo governo è stato il cambio dei loro nomi (cosa capitata anche in altri paesi, pure in Italia). Uno di essi ha una denominazione veramente accattivante: è stato, infatti, chiamato «ministerio de capital humano». Guidato da Sandra Pettovello, il ministero si occupa di «sviluppare politiche di protezione e rafforzamento per la società e, in particolare, per la popolazione vulnerabile». Così si legge sul sito, ma si tratta soprattutto di una descrizione propagandistica. Nei mesi scorsi, proprio davanti alla sede del ministero, alcune persone avevano esposto un cartello con la scritta: «No se puede ajustar con el hambre del pueblo» ovvero non si possono sistemare i conti dello Stato con la fame della gente.

A febbraio, anche monsignor Oscar Ojea, presidente della Conferenza episcopale argentina (Cea), aveva criticato la ministra per aver – tra l’altro – tagliato gli alimenti alle mense dei poveri (comedores populares). «Le famiglie si privano di molte cose. Ad esempio, una madre può rinunciare a prendere l’autobus e andare a piedi per risparmiare, ma non può assolutamente non dare da mangiare ai propri figli. Cioè, il cibo non può essere una variabile di aggiustamento. […] Come vescovi, nella pastorale con la gente semplice, abbiamo imparato che: “a nessuno è negato un piatto di cibo”. Il fatto è che nel nostro Paese nessuno dovrebbe soffrire la fame, poiché è una terra benedetta dal pane. Oggi, però, centinaia di migliaia di famiglie trovano sempre più difficile alimentarsi bene. […] L’inflazione cresce di giorno in giorno da anni e ha un forte impatto sui prezzi dei prodotti alimentari. Lo sentono chiaramente la classe media operaia, i pensionati e coloro che non vedono crescere i propri stipendi. Anche l’intero universo dell’economia popolare, dove le persone lavorano praticamente senza diritti. Pensiamo agli ambulanti, ai riciclatori, ai venditori dei mercati, ai piccoli agricoltori, ai manovali, alle sarte, a chi svolge diverse mansioni di cura e di servizio».

Affermazioni queste che trovano conferma negli ultimi dati sulla povertà, che possono cambiare di qualche punto percentuale a seconda della fonte, ma che rimangono sempre drammaticamente alti. Secondo le stime dell’Osservatorio argentino del debito sociale dell’Università cattolica argentina (Odsa-Uca), nella prima metà del 2024, la povertà ha riguardato il 52% della popolazione e l’indigenza il 17,9%. Questi dati rappresentano un aumento significativo rispetto al 41,7% e all’11,9% registrati dall’Instituto nacional de estadísticas y censos (Indec) nel 2023, e sono i valori più alti dal 2004.

Sulla stessa linea, l’indagine Unicef sulla condizione dei bambini e degli adolescenti: secondo questi dati, il reddito del 48% delle famiglie argentine non è sufficiente a coprire le spese mensili correnti (maggio 2024).

Un piatto di «asado», divenuto un lusso per molti argentini. Foto José Ignacio Pompe-Unsplash.

Bastonate ai pensionati

Ci conferma tutto questo anche padre José Auletta, da quasi mezzo secolo missionario nel paese latinoamericano. «La situazione – ci spiega – è critica, anzi disastrosa. Perón diceva, non sbagliando, che “la única verdad es la realidad”, l’unica verità è la realtà. E la realtà s’impone sulle teorie, sul “libretto di Milei”: i consumi della classe media sono in caduta libera; migliaia di posti di lavoro sono spariti; il salario minimo è caduto del 30%; la disoccupazione è in aumento».

In base all’articolo 83 della Costituzione, Milei ha posto il veto all’aumento dell’8,1% delle pensioni approvate a larga maggioranza dal Congresso. E non si è limitato a questo, ma ha anche offeso (una pratica diffusa tra gli emuli di Trump) chi aveva votato a favore dell’aumento. Milei ha definito «eroi» gli 87 congressisti che hanno appoggiato il suo veto e «degenerati fiscali» quelli che lo hanno contrastato.

Attualmente la pensione minima è di 234mila pesos (circa 220 euro). Per capire, la sola canasta basica alimentaria (paniere alimentare di base) per una famiglia di tre persone è pari a 335mila pesos (310 euro).

«Eh, sì – conferma padre Auletta – i pensionati appartengono ormai alla classe (sempre più numerosa) dei poveri. Molte delle loro medicine non vengono più passate. E Milei ha vietato l’aumento delle pensioni. E alle manifestazioni di protesta il governo ha risposto con bastonate e gas lacrimogeni».

La violenza delle forze dell’ordine è stata criticata (con parole forti) anche da papa Francesco, nel corso del Simposio dei movimenti sociali tenutosi a Roma il 20 settembre. «Invece di pagare per la giustizia sociale, [il governo] ha pagato lo spray al peperoncino», ha detto l’argentino più famoso al mondo.

«Tutto è condizionato dall’obiettivo “il deficit zero non si negozia” – spiega ancora padre Auletta -. Sebbene sia ragionevole che non si possa spendere di più di quanto si ha, il modo di portarlo avanti significa sacrificare ambiti in cui la popolazione in generale fa sempre più fatica a vivere: educazione, salute, lavoro, pensioni. Purtroppo, anche con pesanti contraddizioni: subito dopo la sua vittoria al Congresso, il presidente ha invitato a un asado nella sua residenza di Quinta de Olivos gli 87 deputati che avevano approvato (alcuni con un voltafaccia vergognoso) il suo veto all’aumento delle pensioni, alla faccia dei sacrifici richiesti.

È vero che ognuno ha pagato di tasca propria i 20mila pesos (poco meno di 20 euro, ndr) richiesti, però nella situazione in cui si vive attualmente in Argentina, per moltissimi l’asado è diventato un lusso. Come allora non essere d’accordo con la pensionata che, nei pressi della residenza presidenziale, sosteneva un cartello con la scritta “Asado per i deputati, pane e acqua per i pensionati”?».

Paolo Moiola

Manifestazione in favore della legge 26.160 (sulle terre indigene) davanti al Congresso, a Buenos Aires. Foto Maru Bleger_almargen.org.ar.


Con i popoli indigeni

I 44 anni di Endepa

L’Équipe nazionale di pastorale aborigena (Endepa) ha appena compiuto 44 anni, tutti trascorsi ad accompagnare le comunità indigene dell’Argentina. Il primo incontro degli agenti della pastorale è datato, infatti, 28 agosto 1980. Fu realizzato da persone decise a condividere con gli indigeni di questo Paese lotte, dolori e speranze. Provenienti da varie regioni, si riunirono per condividere e conoscere le diverse situazioni vissute dai popoli e rivedere le proprie pratiche e, soprattutto, per ascoltare, lasciarsi interpellare dagli indigeni. Da questo incontro scaturì un documento che rispecchiava il desiderio di costituire la pastorale indigena e si fece richiesta formale alla Chiesa cattolica argentina.

Fino a quel momento la Chiesa accompagnava le comunità indigene con molto impegno, ma in modo non articolato. Nelle diocesi le realtà indigene erano poco conosciute, non facevano parte della pastorale e non esistevano le équipe diocesane di pastorale aborigena. L’incontro del 1980 fece comprendere la necessità di unione, riconoscendo che, sebbene i popoli indigeni (se ne contano 44) fossero diversi e ognuno avesse la propria cultura, condividevano problematiche comuni. Quattro anni dopo, era l’agosto del 1984, la Chiesa creò formalmente l’Équipe nazionale di pastorale aborigena.

Oggi Endepa accompagna i popoli originari ed è il solo organismo organizzato che promuove il riconoscimento dei diritti indigeni in un Paese multietnico e pluriculturale.

Purtroppo, nel difficile momento storico che vive l’Argentina, la legge 26.160 che prevede il rilevamento tecnico catastale delle terre da restituire alle comunità indigene e impedire sfratti forzati e violenti delle stesse avanza molto molto lentamente. Con tanti intoppi giudiziari che criminalizzano i reclami delle varie comunità. Peggio ancora con questo governo che permette intromissioni di imprese che avanzano con progetti di investimenti legati allo sfruttamento delle risorse minerarie (litio, idrocarburi) e forestali.

José Auletta (Imc)

 




Dieci anni dopo, l’Isis c’è ancora


Era il 2014 quando l’Isis entrò a Mosul instaurando il Califfato. Furono tre anni di dominio drammatico, soprattutto per le minoranze yazida e cristiana. L’organizzazione islamista non è però scomparsa. Anzi, si sta riorganizzando in vari paesi.

Sono trascorsi dieci anni da quando l’Isis issò la bandiera nera sulla città di Mosul, in Iraq. Il sogno era quello di costituire uno Stato islamico (Daesh), tra l’Iraq e la Siria, con leggi e regole che mettevano una dura ipoteca su diritti e libertà da poco conquistati, sia pure in misura limitata, in un’area del pianeta comunque da sempre instabile.

A farne le spese fino alla liberazione (avvenuta nel 2017), furono le minoranze, soprattutto quella cristiana e quella yazida. Ma stragi e lutti colpirono anche la stessa comunità musulmana, soprattutto la minoranza sciita.

Nadia Murad

Nadia Murad a Washington, nel 2018.

Simbolo della resistenza a quella che è stata una delle pagine più cupe della storia recente, è senza dubbio Nadia Murad. Nata a Kocho (distretto di Sinjar), sulle alture irachene di Ninive, di religione yazida, nell’agosto del 2014, come tante ragazze della sua comunità, venne rapita e tenuta in ostaggio dai terroristi del Daesh. Resa schiava, picchiata, violentata, riuscì a scappare, nel novembre dello stesso anno, dalla sua prigione. Da allora non ha mai smesso di testimoniare la sua storia e quella del suo popolo perseguitato tanto da essere insignita, nel 2018, del Premio Nobel per la pace.

Nelle celebrazioni del decennale, che si sono tenute all’inizio del mese di agosto di quest’anno nella sua terra, il Sinjar, regione irachena incastonata tra il Kurdistan, la Turchia e la Siria nordorientale, Nadia Murad ha sottolineato: «Dieci anni fa, la mia vita e quella di centinaia di migliaia di yazidi furono sconvolte e distrutte. Ritrovarci insieme ad altri sopravvissuti dieci anni dopo per commemorare il decimo anniversario a Sinjar lancia un messaggio potente a coloro che hanno cercato di sradicarci dalla nostra patria e di metterci a tacere attraverso una campagna di genocidio e violenza sessuale: avete fallito. I sopravvissuti sono più resistenti che mai e hanno smascherato la malvagia ideologia dell’Isis».

Per non dimenticare quanto accaduto in quei mesi del 2014 nel Sinjar è sorto, anche grazie al coraggio e all’intraprendenza dell’attivista, ormai nota in tutto il mondo, lo Yazidi genocide memorial.

La fuga e un parziale ritorno

Dolori e lutti hanno investito e decimato anche la comunità cristiana. Era il 10 giugno del 2014 quando l’Isis dichiarò l’istituzione di un califfato introducendo la legge islamica. I cristiani furono costretti a scegliere tra lasciare le loro città, pagare l’esosa tassa di protezione o vedere la confisca delle loro proprietà. Qualche giorno dopo, le porte delle loro case vennero segnate con la lettera «n» in arabo, marchiati perché «nazareni», ovvero seguaci di Gesù. Era solo la premessa di quella grande fuga, avvenuta nella notte tra il 6 e il 7 agosto dello stesso anno, di circa 120mila persone che dalla piana di Ninive raggiunsero il più sicuro Kurdistan, e si stabilirono soprattutto nel quartiere di Ankawa a Erbil. Fuggirono con ogni mezzo a disposizione, la maggior parte a piedi, portando con sé soltanto quanto avevano indosso.

A distanza di dieci anni solo una parte di loro è tornata nei villaggi dove abitavano fino al 2014, nonostante il messaggio di incoraggiamento, lanciato proprio a Mosul, da papa Francesco nel suo storico viaggio in Iraq del 2021. Con la papamobile Francesco ha attraversato e toccato le macerie della guerra e della devastazione. Dalla cattedrale di Qaraqosh, dedicata all’Immacolata Concezione, che i jihadisti avevano trasformato in un poligono di tiro, ma che era stata tirata a lucido proprio per la visita, il Pontefice ha esortato: «Non smettete di sognare! Non arrendetevi, non perdete la speranza!».

Per tanti cristiani, però, non è stato possibile ricominciare. Non c’erano solo le case e le chiese da ricostruire, ma anche una vita intera, dalle attività economiche chiuse al rapporto di fiducia con i vicini di casa che, in quei cupi mesi di dieci anni fa, fu compromesso, quando non completamente disintegrato.

Le cicatrici, dunque, sono ancora profondamente impresse in quei territori, nonostante siano stati liberati nel 2017 e le case, scuole e chiese rimesse in piedi dalle Chiese locali sostenute da agenzie umanitarie, come la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre o la Caritas. «Solo il 60 per cento circa dei cristiani ha fatto rientro a Mosul e nei villaggi della piana di Ninive», ha detto in una recente intervista al Sir il cardinale Louis Raphael Sako, patriarca dei caldei. «Tanti – ha spiegato – hanno scelto di restare nel Kurdistan», la regione che li aveva accolti nel momento della disperazione.

L’Isis non dorme

Sembra un secolo fa, con il mondo alle prese con nuove emergenze, tra le quali un conflitto nel cuore dell’Europa e la guerra in Medio Oriente. Eppure l’Isis, che ha dovuto abbandonare il sogno della fondazione di un sedicente Stato islamico, continua ad esistere, a fare stragi, a mietere vittime. Accade soprattutto in alcune zone dell’Africa, con cellule locali che rispondono a quella stessa filosofia del fondamentalismo islamista, ma troppo spesso lontane dai riflettori. Si contano sempre più adepti anche nel Sud Est asiatico, soprattutto nelle Filippine, in Indonesia e Malaysia.

Non solo: l’attacco terroristico al Crocus City Hall di Mosca, nel mese di maggio di quest’anno, costato la vita ad oltre 140 persone, è stato rivendicato proprio dall’Isis. Più precisamente dall’Isis-K, la nuova sigla che abbiamo imparato a conoscere proprio con l’eccidio che ha sorpreso Mosca nel corso di un concerto che aveva richiamato tante famiglie. Di fatto, Isis-K è una delle configurazioni territoriali dello Stato islamico, che ha l’obiettivo di creare un califfato nella regione storica del Khorasan. Secondo lo stesso gruppo, esso comprenderebbe parti di Afghanistan, Pakistan, Turkmenistan, Tagikistan, Uzbekistan e Iran.

Ancora edifici distrutti a Sinjar. Foto Levi Meir Clancy – Unsplash.

Minacce e attentati

I jihadisti hanno anche minacciato gli Europei di calcio in Germania, come pure i Giochi olimpici che si sono svolti ad agosto a Parigi. Tutte occasioni, fortunatamente sventate dalle intelligence occidentali, che avrebbero potuto ridare visibilità ai terroristi.

Secondo quanto riferito dalle forze di sicurezza americane, militanti dell’Isis si erano preparati a colpire anche grandi eventi musicali, con la partecipazione di migliaia e migliaia di persone, soprattutto giovani, come i concerti in Europa della cantautrice statunitense Taylor Swift.

Porterebbe il timbro dell’Isis anche l’attacco al Festival cattolico che si stava tenendo ad agosto a Solingen, in Germania. Tre morti e otto feriti nell’attentato per il quale è stato arrestato un uomo siriano che, secondo la Procura federale tedesca, è «fortemente sospettato» di essere affiliato proprio all’Isis. D’altronde, l’organizzazione terroristica aveva subito rivendicato l’azione: «L’autore dell’attacco a un raduno di cristiani nella città di Solingen in Germania era un soldato del gruppo dello Stato islamico», si sottolineava in una dichiarazione dell’agenzia di stampa jihadista Amaq su Telegram, il giorno dopo. L’attacco è stato effettuato «per vendetta per i musulmani in Palestina e ovunque», si aggiungeva.

Il conflitto in Medio Oriente, dunque, viene messo al centro della nuova azione di coloro che vorrebbero rivedere in auge quella bandiera nera issata dieci anni fa nelle città conquistate dall’Isis. Cellule dormienti, ma non troppo.

Il nuovo salto di qualità è arrivato anche con la recente creazione di un notiziario governato dall’intelligenza artificiale, nell’ambito di un nuovo programma multimediale lanciato dallo stesso Daesh. I video, pubblicati settimanalmente, sono realizzati per assomigliare a un qualsiasi telegiornale e forniscono informazioni sulle «attività» dello Stato islamico nel mondo. «Per l’Isis, l’intelligenza artificiale è un punto di svolta -ha affermato Rita Katz, cofondatrice del Site intelligence group -. Sarà un modo rapido per diffondere e parlare dei loro attacchi sanguinosi in ogni angolo del mondo».

L’Isis dunque «non è morto», come sottolinea la fondazione Aiuto alla Chiesa che soffre. E se i cristiani sono stati in Iraq e Siria il target privilegiato del gruppo terrorista, non si può dimenticare che, sotto attacco, ci sono state, e ci sono tuttora, anche le altre minoranze religiose. «Molti bambini yazidi sono ancora sfollati dalle loro comunità. Molti vivono in ambienti non sicuri», sottolineava un rapporto dell’Ong Save the children due anni fa.

Questi dieci anni sono stati costellati anche dagli eccidi contro i musulmani, soprattutto sciiti. Una carneficina che ha visto saltare in aria moschee a Mosul in Iraq, a Shiraz in Iran, a Kunduz in Afghanistan. E sempre lo stesso scenario con decine di morti e feriti e i luoghi di preghiera ridotti in macerie.

Lo «Yazidi genocide memorial», voluto dall’organizzazione di Nadia Murad, a Sinjar. Foto Nadia’s Initiative.

Migliaia di miliziani

Oggi l’Isis sembra si stia riorganizzando. Secondo i dati diffusi dal responsabile dell’antiterrorismo delle Nazioni Unite, Vladimir Voronkov, ad agosto 2022 si contavano almeno 10mila miliziani ancora operativi tra Siria e Iraq.

A fine agosto, nell’Iraq occidentale, un’operazione militare ha colpito ed eliminato una quindicina di combattenti, come comunicato dal «Comando militare statunitense per il Medio Oriente» (Centcom). Il gruppo era dotato di numerose armi, granate e cinture esplosive. «L’Isis rimane una minaccia per la regione. I nostri alleati e il nostro Paese – ha sottolineato in una nota ufficiale il Centcom – continueranno a perseguire attivamente questi terroristi», ha aggiunto.

Gli Stati Uniti hanno circa 2.500 soldati in Iraq e 900 in Siria come parte della coalizione internazionale anti Isis.

Peraltro, lo scorso settembre Baghdad e Washington hanno annunciato un accordo per il ritiro delle truppe, accordo graduale che culminerà nel settembre del 2026.

Papa Francesco a Mosul, nella piazza di fronte alle rovine della chiesa siro cattolica dell’Immacolata Concezione durante il suo viaggio iracheno del marzo 2021. Foto Vincenzo Pinto – AFP.

Quel viaggio papale

Al momento, la risposta internazionale sembra, dunque, basarsi solo sulla forza militare e non anche su quella opera di riconciliazione, invocata dal Papa nel suo viaggio del marzo del 2021. Un viaggio che Francesco volle affrontare nonostante la pandemia del Covid in corso e la minaccia di attentati che si ripeterono fino a pochi giorni dalla sua partenza.

«Questo è il momento di risanare non solo gli edifici, ma prima ancora i legami che uniscono comunità e famiglie, giovani e anziani», aveva detto Papa Francesco in uno dei suoi discorsi. Dopo avere ascoltato la struggente testimonianza di Doha, una donna che aveva visto ucciso il suo bambino che giocava nel cortile di casa a Qaraqosh e che disse di avere perdonato, il Papa invitò la gente a seguire questa via, anche se dolorosa e difficile.

«Perdono: questa è la parola chiave. Il perdono è necessario per rimanere nell’amore, per rimanere cristiani. La strada per una piena guarigione potrebbe essere ancora lunga, ma vi chiedo, per favore, di non scoraggiarvi. Ci vuole capacità di perdonare e, nello stesso tempo, coraggio di lottare. So che questo è molto difficile. Ma crediamo che Dio può portare la pace in questa terra».

Dal Medio Oriente all’Africa

Dall’Iraq e dalla Siria all’Africa: è in questo continente la nuova centrale delle cellule terroristiche che portano altri nomi ma sono affiliate o – comunque – si ispirano ai terroristi del Daesh.

Nel mese di agosto 2024 la fondazione Aiuto alla Chiesa che soffre, con le sue fonti locali, ha messo in evidenza la carneficina attuata in Burkina Faso, dove gli attentati terroristici sono sempre più frequenti.

Il 25 agosto scorso nel villaggio di Sanaba, diocesi di Nouna, nell’Ovest del Paese, un folto gruppo di miliziani affiliati all’Isis ha circondato la comunità, radunato la popolazione e legato tutti i maschi di età superiore ai 12 anni di religione cristiana o tradizionale e, in generale, quanti erano stati considerati oppositori dell’ideologia jihadista. I terroristi hanno poi condotto gli uomini in una vicina chiesa protestante e lì ne hanno sgozzati ventisei, tra cui cattolici. L’attacco è avvenuto il giorno dopo la strage di Barsalogho, diocesi di Kaya, dove erano state uccise almeno 150 persone, «anche se il numero effettivo potrebbe essere a 250, secondo fonti locali, con 150 feriti gravi», riferisce ancora Acs. Le stesse fonti riferiscono di attacchi verificatisi nei giorni scorsi ai danni di tre parrocchie vicino al confine con il Mali, sempre nella diocesi di Nouna. «Circa cinquemila donne e bambini hanno cercato rifugio nella città di Nouna. Non c’è un solo uomo tra loro. Il luogo in cui si trova la popolazione maschile è ancora incerto, non sappiamo se siano fuggiti, se si nascondano o se siano stati uccisi», riferiva la fonte locale all’organizzazione umanitaria.

La diocesi di Nouna ha visto altri attacchi negli ultimi mesi, con un gran numero di luoghi di culto cattolici, protestanti e tradizionali saccheggiati o bruciati. Si ritiene che, dal maggio 2024, circa cento cristiani siano stati uccisi nella regione pastorale di Zekuy-Doumbala, mentre altri sono stati rapiti, senza che si sappia dove si trovino.

Dalla Repubblica democratica del Congo al Kenya, dal Mozambico all’Uganda, le sigle sono diverse ma i metodi sono sempre gli stessi: eccidi, stupri, rapimenti, case bruciate. Tutto questo nell’apparente affanno di una comunità internazionale alle prese con quella «terza guerra mondiale a pezzi» di cui da anni, profeticamente, parla papa Francesco.

Manuela Tulli

 




«Non intendiamo fermarci»


Tra le centinaia di migliaia di migranti che attraversano il Centroamerica, molti hanno patologie. Altri si sono ammalati durante il viaggio. Tutti vogliono proseguire e arrivare a destinazione. Lungo la strada, alcune Ong cercano di dare loro un po’ di sollievo.

«Appena siamo usciti dalla selva del Darién, tra Panama e Colombia, la polizia panamense mi ha perquisita e ha gettato le mie medicine nella spazzatura. Io li ho pregati di non farlo, ma mi hanno impedito di attraversare il confine con dei farmaci nella borsa». Rosa, 39 anni, è venezuelana e da qualche tempo assume regolarmente l’Olanzapina per curare il disturbo bipolare che le è stato diagnosticato anni fa. A giugno di quest’anno ha deciso di vendere la casa, l’auto e tutti i suoi averi, per un totale di 4.500 dollari e, insieme a suo marito e ai figli, è partita a piedi verso gli Stati Uniti, nella speranza di trovare un lavoro retribuito dignitosamente e potersi finalmente permettere le cure che non può più ricevere nel suo Paese di origine. «Una scatola di Olanzapina di tipo generico costa circa 12 dollari, mentre l’originale si aggira intorno ai 38 dollari. Il problema però è che in Venezuela guadagniamo pochi dollari al mese, che non bastano a coprire i costi dell’assistenza sanitaria, perché è già tanto se riusciamo a mangiare e in molti casi, onestamente, facciamo pure la fame». Rosa è seduta in un piccolo studio medico sul retro del «Centro de descanso temporaneo Alivio del Sufrimiento» (centro di riposo temporaneo, ndr), un ricovero per migranti gestito da una piccola fondazione di El Paraíso, città honduregna a 11 chilometri dal confine di Las Manos tra Honduras e Nicaragua. È appena stata visitata dalle dottoresse presenti nel centro e ha ricevuto un buono per recarsi alla prima farmacia e comprarsi due scatole di medicine. Sorride, perché finalmente si sente sollevata, dopo oltre 15 giorni in cui l’ansia la stava attanagliando. «Senza i miei farmaci mi sento persa, soprattutto in questi mesi di viaggio che è davvero difficile da gestire psicologicamente, perché siamo sempre a rischio di violenza da parte di bande criminali e polizia, che in tutti gli stati provano a rubarci i soldi o le quattro cose che abbiamo con noi, per non parlare delle violenze fisiche che rischiamo soprattutto noi donne. In queste condizioni sfido chiunque a rimanere sano di mente».

Honduras, migranti attraversano il Centroamerica dal Darién al Messico, per arrivare negli Usa.

Disidratazione

Seduta su una panca poco distante c’è Kimberly. Ha 28 anni e anche lei è venezuelana. Tra le sue braccia dorme la figlia Karlys, che ha già due anni ma pesa come una bambina di poco più di un anno. Hanno appena lasciato l’ospedale della città di Danlí, a qualche chilometro di strada dal centro per migranti dove si trovano. La piccola Karlys è stata ricoverata nella struttura sanitaria per due giorni interi a causa di una forte disidratazione dovuta all’influenza intestinale che la tormentava da qualche settimana, dopo aver bevuto l’acqua malsana dei fiumi della selva del Darién, forse uno dei punti più impervi da attraversare per tutte le persone che migrano dall’America del Sud verso il centro e il Nord. La selva del Darién è letteralmente una giungla, piena di paludi e montagne scoscese dove, se non è la stessa natura a decimare la gente che osa entrarvi, sono le bande criminali della zona a fare vittime anche solo per rubare qualche dollaro in una zona geograficamente fuori da qualsiasi controllo.

Honduras, migranti attraversano il Centroamerica dal Darién al Messico, per arrivare negli Usa.

Camminare è obbligatorio

Kimberly sta parlando con sua madre Criselda, seduta su una sedia a rotelle. Le sue gambe rivelano una storia di interventi chirurgici passati e di un’artrite degenerativa che le ha reso la vita difficile lungo tutto il viaggio che ha dovuto fare a piedi con il solo aiuto di un bastone. Criselda ha in mano un borsello dentro il quale ci sono i suoi ultimi risparmi che sta contando con l’attenzione di chi ha troppe necessità e un budget troppo ristretto. «Qua bisogna scegliere: o mangiamo, o viaggiamo, o mi compro una scatola di paracetamolo per sopportare il dolore alle gambe che mi distrugge da giorni», dice Criselda con la tristezza di chi sa di dover rinunciare a cibo e medicine se vuole continuare il suo viaggio.

Secondo Life Honduras, un consorzio di organizzazioni umanitarie coordinato dalla Ong internazionale Azione contro la fame, che fornisce assistenza medica e psicologica lungo la rotta migratoria che attraversa l’Honduras, ogni giorno decine di migranti in transito verso gli Stati Uniti si rivolgono al loro ambulatorio per una visita o richiedere medicine. La maggior parte si sono feriti durante il viaggio e riportano contusioni, fratture e distorsioni. Di fatto, un numero incalcolabile di persone cade nei fiumi o scivola sulle cime scoscese del Darién, oppure soffre di problemi gastrointestinali per aver bevuto l’acqua di fiume. Tuttavia, c’è anche chi decide di partire dalle proprie case già in gravi condizioni di salute. Si tratta di un dato spesso sottovalutato, ma, secondo i medici del consorzio, almeno il 5% delle persone visitate nell’anno erano affette da malattie preesistenti come cancro, diabete, problemi cardiovascolari, ernie, disabilità motorie, asma, leucemia, autismo nei bambini e problemi psichiatrici come depressione e disturbo bipolare. Si tratta di un numero considerevole, tenuto conto che solamente in Honduras transitano una media di 500mila persone all’anno, secondo i dati dell’Istituto nazionale di migrazione. Queste persone partono nonostante il dolore, per mancanza di assistenza medica gratuita nei propri Paesi di origine o perché gli stipendi sono troppo bassi per potersi permettere cure private. E chi, per esempio, ha un cancro, ma ancora la forza nelle gambe, decide di migrare nella speranza di essere accolto da parenti negli Stati Uniti che possano aiutarlo a pagare una terapia adeguata.

Honduras, migranti attraversano il Centroamerica dal Darién al Messico, per arrivare negli Usa.

Bambini migranti

Tra i bambini la situazione è ancora più grave, perché durante il viaggio difficilmente riescono a fare un buon pasto e, secondo gli ultimi dati del consorzio, l’8,5% dei minori sotto i 10 anni visitati nell’ambulatorio sono a rischio di malnutrizione severa.

«Datemi un cucchiaio per favore, mia figlia non ce la fa a mangiare con la forchetta», dice una donna seduta nella grande sala del centro per migranti di El Paraíso, dove viene servita la cena. È la voce di Norel, venezuelana di 36 anni, che sta imboccando sua figlia Narcibeth, 19 anni per 32 kg di peso, nata con una paralisi cerebrale. Insieme ad altri tre figli e al suo compagno, Norel si è fatta forza e ha portato a spalle Narcibeth tra frontiere, strade, cammini terrosi e, ovviamente, attraverso la selva del Darién, dove nessuna sedia a rotelle può farsi spazio tra il fango, lagune e sentieri montagnosi. «Io sono sicura che negli Stati Uniti ci aiuteranno con la bambina. In Venezuela ci sono centri specializzati per persone disabili, ma mancano i letti, i pannolini, il cibo e spesso anche il personale e noi genitori non possiamo pagare di nostra tasca tutto questo».

Nel centro per migranti di El Paraíso, invece, Narcibeth e la sua famiglia trovano gratuitamente un po’ di tutto, dai prodotti per l’igiene, il cibo, i letti e persino una sedia a rotelle dove può essere agevolmente trasportata per qualche ora, almeno fino a quando non si rimetteranno in viaggio.

Per non perdere tempo

«Abbiamo visto migranti con il cancro che camminano trascinandosi dietro la bombola di ossigeno, ma anche in questi casi cercano di fermarsi qui il meno possibile – spiega Indira Auxiliadora Mejía Sarantes, medico di Azione contro la fame -. Se hanno le forze non passano neppure una notte nel centro per migranti. Quando li vediamo arrivare, è perché stanno davvero male e hanno bisogno urgente di medicine che spesso perdono nella selva del Darièn. In casi gravi, indirizziamo le persone all’ospedale di Danlí, ma molti migranti decidono di non farsi curare per non perdere tempo e proseguire il viaggio».

Dal 2022, l’Istituto di migrazione dell’Honduras permette ai migranti considerati irregolari di richiedere un salvacondotto gratuito di cinque giorni, tempo considerato sufficiente per attraversare il Paese e procedere verso il Guatemala. Non si tratta di una vera e propria regolarizzazione. Di fatto il salvacondotto è un pezzo di carta con il nome della persona e la data di ingresso che viene riconsegnato alla polizia quando si esce dal Paese.

Il procedimento serve ai migranti per essere visibili ed evitare di essere vittime di deportazione ed estorsione da parte della polizia, ma in fondo il vero interesse del governo della presidentessa Xiomara Castro è che le persone transitino il prima possibile e se ne vadano dal Paese senza generare disturbo alla popolazione locale. Tuttavia questa forma di «legalizzazione» parziale e temporanea non preserva le persone da violenze ed estorsioni che puntualmente avvengono su tutto il territorio honduregno.

Lo sa bene Jonathan, 45 anni, che, insieme a suo nipote e sua sorella, ha lasciato la Colombia dove viveva da circa sei anni, da quando, cioè, la crisi economica in Venezuela e un salario troppo basso lo avevano spinto a migrare in prima battuta nel Paese più vicino culturalmente e geograficamente al suo.

Soprusi ed estorsioni

«Qua tutti approfittano di noi – racconta Jonathan -. Abbiamo ottenuto il salvacondotto all’Istituto di migrazione appena entrati in Honduras dalla frontiera con il Nicaragua, ma da quel momento hanno cominciato tutti a estorcerci soldi, anche la polizia. Onestamente, non so a cosa serva questo pezzo di carta».

Jonathan e la sua famiglia sono rimasti una notte nel centro per migranti de El Paraíso per cenare e dormire in un buon letto e il giorno dopo si sono rimessi in viaggio. Hanno pagato circa 50 euro a testa per un biglietto del bus per arrivare a Ocotepeque, l’ultima città honduregna prima della frontiera con il Guatemala. Un prezzo esorbitante che un locale non accetterebbe mai di pagare. «Lo sappiamo che ci stanno facendo pagare il doppio – continua Jonathan -, ma lo fanno perché sanno che non abbiamo scelta. Ovviamente nessuno di noi vuole rimanere in Honduras, quindi o così o niente».

Il viaggio in bus di lunga percorrenza verso la frontiera del Guatemala dura circa 18 ore. Ogni giorno partono decine di bus pieni di migranti che tirano dritto senza mai fermarsi, a meno di una grave emergenza. Oppure di un probabile, quanto indesiderato, controllo da parte della polizia che, a intervalli regolari, ferma quasi tutti i bus che percorrono l’unica strada ben asfaltata che collega la frontiera del Nicaragua con il Guatemala.

Sorte che è capitata anche a Jonathan e alle altre 80 persone che viaggiavano con lui.

Di notte il bus è stato fermato da una pattuglia della polizia che ha comunicato ai passeggeri la necessità di pagare un prezzo accessorio per poter transitare lungo la strada. «Ognuno ha dato qualcosa e per fortuna si sono accontentati e ci hanno lasciati andare», spiega Jonathan.

Arrivati a Ocotepeque le cose non sono migliorate perché per fare gli ultimi circa otto chilometri necessari ad attraversare la frontiera, Jonathan e la sua famiglia hanno pagato circa 30 dollari di taxi, un prezzo che include anche la tangente che il taxista paga alla polizia di frontiera guatemalteca, per il trasporto di migranti fino terminal di Esquipulas, la prima città guatemalteca oltre il confine con l’Honduras.

«Sono senza forze – dice sconsolato Jonathan, seduto in attesa che un bus di linea guatemalteco li porti fino alla frontiera con il Messico -. Forse ho la febbre e mia sorella sta addirittura peggio di me. Però ormai siamo qui e non intendiamo fermarci. Non importa se arriverò con l’influenza o senza una gamba. Io voglio solamente arrivare il prima possibile e con l’aiuto di Dio ce la faremo, così come abbiamo fatto fino a oggi».

Simona Carnino

Questo slideshow richiede JavaScript.




Mal d’Africa


Ormai vescovo emerito, monsignor Virgilio Pante non molla il suo primo amore. Rimane a servizio di una terra e di una Chiesa con le quali ha condiviso negli anni tante lacrime e gioie.

Leggi qui la prima puntata: Virgilio Pante, vescovo emerito. Guardiano della pace  su Mc 07/2024

Il tempo passa anche per i vescovi e nel 2023, seguendo le regole canoniche, monsignor Virgilio deve presentare le dimissioni per raggiunti limiti di età. A succedergli è monsignor  Hieronymus Joya (cfr. MC novembre 2022), nato nel 1965 e ordinato sacerdote nel 1998, missionario della Consolata che ha svolto diversi incarichi in Kenya, dalla formazione alla pastorale. È stato anche vicesuperiore e poi superiore regionale della regione Kenya e Uganda.

Fin dalla scelta del motto, il nuovo vescovo si pone nella linea della continuità con il primo vescovo di Maralal: «Omnia vicit amor» (l’amore vince tutto). È la perfetta continuazione del «with the ministry of reconciliation» (con il ministero della riconciliazione) di monsignor Pante, in una regione dove la convivenza tra le varie etnie non è facile e spesso sfocia in scontri, aggravati non solo da ragioni di sopravvivenza in un ambiente difficile, ma soprattutto da influenze di forze esterne che hanno tutto da guadagnare dalla divisione.

Mons Pante con il vescovo novello mons Joya Hieronymus

Il nuovo vescovo

Il 22 ottobre 2023, nella Allamano Hall, vicino allo stesso prato dell’oratorio della missione di Maralal dove monsignor Pante era diventato vescovo, è avvenuta l’ordinazione episcopale e l’installazione del monsignor Joya. Il celebrante principale è stato il nunzio apostolico del Kenya e Sud Sudan, monsignor Hubertus Matheus Maria Van Megan, che è stato accompagnato nella celebrazione da monsignor Peter Kihara Kariuki, vescovo di Marsabit, e dallo stesso monsignor Virgilio Pante, entrambi missionari della Consolata. La celebrazione ha visto un grande partecipazione di gente venuta per vivere nella preghiera questo grande momento di grazia. Era presente una buona parte della conferenza episcopale del Kenya, tanti missionari e missionarie della Consolata, sacerdoti provenienti da altre diocesi, religiose, i leaders di diverse confessioni religiose, alcuni rappresentanti del governo, e una marea di fedeli, provenienti da località vicine ma anche lontane.

Disoccupato?

Monsignor Pante si è trovato, quindi disoccupato? Tutt’altro. L’ultimo pensiero è proprio quello di rientrare in Italia e fare il pensionato.

«Egoisticamente parlando, voglio avere una vecchiaia contenta, e siccome ho lavorato tanti anni in Kenya e ho vissuto anche delle cose molto belle…», dice il vescovo emerito, per sottolineare che non ha intenzione di rientrare in Italia. E continua: «E poi il nuovo vescovo mi ha detto: “Non andare in Italia, stai qua, io ti trovo un posto, ti do da mangiare e da lavorare”. Ovviamente senza interferire (da parte mia). Adesso non sono più il vescovo titolare, ma visto che il nuovo vescovo mi accetta, mi dà il permesso, io rimango più che volentieri.

Vorrei finire i miei giorni là, perché ho davvero il mal d’Africa dopo oltre cinquant’anni che sono in quel Paese. Era il 1972 quando sono arrivato, avevo 26 anni. Ora ne ho 78, dove vuoi che vada?».

«Volevo sistemarmi in una stanzetta del Centro catechistico, tra la missione e il seminario, per non disturbare, ma monsignor Joya si è rifiutato. Mi ha detto che se andavo a vivere da solo gli avrei complicato la vita, avrebbe dovuto darmi qualcuno che cucinasse per me, mi tenesse in ordine la casa e badasse alla mia salute. “No, stai qui con me, che ci facciamo compagnia, mangiamo insieme, preghiamo insieme e facciamo vita comunitaria”. Quindi ora vivo con il vescovo e lo aiuto per quello che posso, anche perché la diocesi è vasta e insieme possiamo essere più vicini alla gente».

Ritiro per sacerdoti diocesani. Tra loro anche padre Egidio Pedenzini andato alla Casa del Padre nell’ottobre 2022

Fucile appeso al muro e moto sempre «in moto»

Un pensionato per modo di dire, allora. Ma che ne è delle sue antiche passioni, la caccia e la moto? Il fucile è ben tenuto nella sua custodia, e il vescovo emerito non ricorda più quando è stata l’ultima volta che l’ha usato. L’intenzione sarebbe di non rinnovare il porto d’armi, anche perché la vita e l’ambiente sono cambiati rispetto ai suoi primi anni in Kenya, quando l’uso del fucile per andare a caccia era necessario per sopravvivere. Dopo aver fondato il seminario diocesano nel 1979 per tre anni il fucile lo aveva aiutato a nutrire i giovani seminaristi. Inoltre, si era rivelato necessario quando qualche animale della foresta si avvicinava troppo alle capanne, diventando un pericolo per la gente oppure ne distruggeva i piccoli orti. Ora non è più così e le leggi venatorie sono cambiate, per cui il fucile arrugginisce nella sua custodia.

Quanto alla moto, quella proprio non la vuole mollare. Il vecchio amore è molto utile e pratico per andare nelle cappelle più vicine e a dire messa alle suore, fare un salto in banca o altre commissioni. Certo non si parla più dei lunghi viaggi della gioventù o dei primi anni da vescovo, quando partiva in moto con lo zaino in spalla da Maralal per andare a Nairobi (circa 350 km) per la riunione della Conferenza episcopale, oppure quella volta che ha cercato invano di salvarla dalle acque del fiume in piena vicino a South Horr per ritrovarla poi otto km più in basso, o quando ha dovuto spingerla a mano per una ventina di chilometri nei dintorni di Baragoi perché si era rotto il motore.

Una moto regalata dall’Italia (Centro missionario di Belluno) per il vescovo Pante.

Sfide aperte

Monsignor Virgilio Pante vede davanti a sé ancora molte sfide aperte.

La prima è quella della pace che sembra un sogno irraggiungibile, ma per la quale ogni sforzo va fatto. Si va dall’essere spina nel fianco dei politici perché davvero investano nel benessere della gente con strade, scuole, servizi efficienti, alla lotta alla corruzione, al creare comunità cristiane dove davvero ci sia incontro, rispetto, dialogo e accoglienza indipendentemente dal gruppo etnico di appartenenza.

La memoria dei martiri, padre Michele Stallone ucciso a Loyangallani nel 1965, padre Luigi Graiff a Parkati nel 1981 e padre Luigi Andeni nel 1998 ad Archer’s Post, dona una forza speciale in questo impegno.

C’è poi la sfida di far crescere una chiesa locale che sia capace di camminare con le sue gambe ed essere autenticamente evangelizzatrice. Quando i missionari sono arrivati hanno fatto conoscere l’amore di Dio con i fatti: imparando la lingua, costruendo  scuole, curando i malati, dando da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, il tutto con aiuti che venivano da fuori. Ora è tempo che i cristiani locali stessi diventino responsabili della loro Chiesa, anche economicamente, donando dalla loro povertà, per sostenere i loro preti, avere cura delle loro chiese, aiutare i più poveri.

Un’altra sfida è quella di spingere i giovani che hanno studiato, spesso proprio grazie alla missione, a investire le loro capacità nella propria terra, senza restare a Nairobi o emigrare negli Stati Uniti. Certo, il Paese sta ancora vivendo momenti duri e fatica a riprendersi dopo due anni di siccità seguiti da devastanti alluvioni, il tutto aggravato da una crisi di leadership politica. La povertà e il disagio aumentano, soprattutto per chi cerca di vivere con il proprio lavoro (spesso malpagato). Nello stesso tempo l’abitudine delle famiglie di esigere aiuto dai propri parenti salariati minacciando antiche maledizioni, scoraggia i giovani dal ritornare nella propria terra. Anche per affrontare queste difficoltà e cambiare la situazione, sarebbe bello che i giovani preparati tornassero a investire le capacità acquisite nelle proprie terre.

Festa della Pace. Messa sul antico altare di pietraincastrato tra due rami di un albero.La pietra è stata posta da padre Pietro Davoli negli anni ’70 e usata come altare. La pianta crescendo ha inglobato la pietra dell’altare.

Un messaggio ai lettori

«Ai lettori di MC – riprende monsignor Pante – direi: I  missionari che un tempo avete mandato in Africa stanno per morire, sono vecchi. Avete seminato con la vostra bontà, con la vostra preghiera, con il vostro aiuto in Africa, in Asia in tanti paesi. Quello che avete seminato rende frutto e ne riceverete anche voi i benefici perché queste Chiese sono un po’ il vostro vanto.

Il problema è che adesso, lo vedete voi stessi, dovete aiutare la missione qui in Italia, perché stiamo perdendo i valori di una volta. Ora è il tempo della missione dei laici che adesso devono svegliarsi. I preti non ci sono più e dovete voi essere missionari, riscoprire la vostra fede, andare a messa la domenica, educare i vostri figli, insegnare a pregare, non solo a divertirsi, altrimenti la nostra Chiesa antica muore, questa fede la perdiamo.

Grazie a Dio avete aiutato le Chiese dell’Africa, dell’America Latina e ora sono quelle che vi aiutano.

Come istituto, per esempio, noi vediamo già il vantaggio di avere avuto le missioni: oggi siamo per più di metà non italiani. Gli istituti che non hanno avuto missioni muoiono.

Fa tristezza vedere come nella mia Italia dove sono nato, dove ho vissuto la mia fanciullezza, adesso si bestemmia e si pensa soltanto a divertirsi.

Va bene, la vita è difficile, certo ci sono problemi, i salari sono bassi, però ci manca la fede che una volta era l’elemento di forza. Sono i laici che devono testimoniare questo, cominciando dalla famiglia. Se la famiglia è debole il problema si ingigantisce. I giovani hanno paura di sposarsi, di prendersi responsabilità, di soffrire. Bisogna buttarsi nella vita, non aver paura di soffrire.

Per cui, se da una parte io vado in Africa perché voglio morire laggiù, dall’altra mi sento un vigliacco. In Europa non mi sento capace, è troppo difficile».

Gigi Anataloni
(2 – fine)


La prima parte: Virgilio Pante, vescovo emerito. Guardiano della pace  su Mc 07/2024

Huruma Home

ORDINAZIONI: 6/7/2013

 




Immagini che parlano – Le foto di San Giuseppe Allamano

 


Negli archivi dell’Imc ci sono oltre cento lastre di vetro e alcune stampe d’epoca che ritraggono il fondatore. La canonizzazione è l’occasione per rivisitare questo materiale e capire quali sono gli originali, quali le copie e controllarne la qualità o provvedere ai necessari restauri. Un lavoro sfidante, ma anche ricco di stimoli e sorprese.

Difficile dire se Giuseppe Allamano fosse allergico alle foto o no, visto che a quei tempi non si scattavano con la facilità a cui siamo abituati oggi e, soprattutto, richiedevano molto più tempo per ognuna. È certo, però, che fosse molto interessato all’uso della fotografia, tanto che, quando con il canonico Giacomo Camisassa nel 1899 fondò la rivista «La Consolata» (da cui nel marzo 1928 nacque la nostra Missioni Consolata), si rivolse ai migliori specialisti, allora a Vienna, per far fare i cliché di piombo e ottenere una qualità di stampa tanto alta da rendere la bellezza delle immagini in maniera superba.

Le fotografie erano poi una parte essenziale dei resoconti che lui chiedeva ai missionari dal Kenya.

Una breve storia

8 maggio 1902, San Allamano alla partenza dei primi 4 missionari

La prima foto che ritrae Giuseppe Allamano risale a prima del 1873, anno della sua ordinazione sacerdotale. Lo si intravede nella foto di gruppo con i suoi compagni di corso. C’è poi una fototessera di lui giovane sacerdote. Il suo formato ovale è un indizio interessante, visto che anche il suo amico e collaboratore don Giacomo Camisassa è ritratto in una di formato simile che porta il timbro dell’Esposizione generale italiana tenutasi di Torino del 1884. Che siano andati insieme all’esposizione dove, tra le molte meraviglie, venivano presentate anche le ultime novità fotografiche? È poi per amore dello zio, don Giuseppe Cafasso (1811-1860), che nel 1895 Allamano si sottopone a una serie di foto per presentarne il nuovo ritratto dipinto da Enrico Reffo (1831-1917). In quel momento aveva una terribile cefalea che gli faceva chiudere l’occhio sinistro (fatto che si vede poi in molte foto). Dei primi anni della sua vita sacerdotale abbiamo solo alcune fotografie generiche in cui lui è presente in mezzo ad altri. Ad esempio una foto lo ritrae con alcuni uomini che avevano partecipato agli esercizi spirituali al santuario di sant’Ignazio e lo avevano convito a fare una passeggiata con loro sui monti vicini.

Ci volle la partenza dei primi missionari nel 1902 per farlo posare insieme ai partenti di maggio in due foto, una da solo con il volto pieno di gioia (particolare foto qui sopra), e una con Camisassa ormai suo stretto collaboratore nel santuario della Consolata e confondatore del nuovo istituto. Un’altra foto è con il gruppo partente a dicembre.

Poi posò diverse altre volte. Uso il verbo «posare» pensando ai lunghi tempi di esposizione e all’immobilità allora necessaria per ottenere buone foto. Due di esse sono particolarmente significative. La prima risale al 1906-1907, quando nel suo studio a Rivoli si fece fotografare mentre compilava il «Direttorio» di vita dell’Istituto. La seconda è del 1923 quando gli fecero fare una serie di foto per la celebrazione del suo 50° di sacerdozio.

Allamano si era anche fatto fotografare nel 1911 al santuario di sant’Ignazio vicino al pilone dedicato alla Consolata che lui aveva appena fatto costruire. E nel 1914, quando un gruppo di seminaristi andarono a visitarlo nella sua casa di Rivoli, durante una delle loro passeggiate del giovedì (che allora era vacanza da scuola), e lo convinsero a posare per loro. Nel 1916 l’occasione per una bella foto di gruppo fu la visita del cardinale Cagliero alla Casa Madre. Ci sono poi alcune altre pose di cui non conosciamo la ragione e il tempo preciso.

Un incontro speciale

Non è, però, questa cronologia delle foto che ritraggono Giuseppe Allamano il cuore di quanto desidero condividere con voi. In questi tempi prima della canonizzazione ho speso molte ore a rivedere, studiare e restaurare tutte le foto del nostro santo che abbiamo in archivio. È stata un’esperienza sfidante dal punto di vista professionale, ma forse, e molto di più, è stata anche un’occasione unica per un incontro ravvicinato molto profondo con lui.

Guardarsi negli occhi

Parto dalla foto che è stata scelta come immagine ufficiale per la canonizzazione. È quella che fu usata nel 1923 per il 50° anniversario di sacerdozio di Giuseppe Allamano.

Ho tra le mani una bella lastra di vetro da 13×18 cm. Con lo scanner posso fare la scansione anche solo del dettaglio del volto, dimenticando il resto della figura. Guardo il risultato, e con mia grande sorpresa scopro che l’occhio sinistro è pesantemente ritoccato e la pelle del viso piena di rigacce. Una maschera, non un bel volto. I ritocchi sulla lastra furono fatti per risolvere due problemi: nascondere lo strabismo causato da una delle sue solite emicranie e rendere il volto più luminoso nella stampa. Il ritocco sul volto fu fatto con tratti di matita, mentre un graffio puntiforme nell’occhio raddrizzava la pupilla.

Non vi dico quante ore ho lavorato per liberare quel volto dai segni di matita e ripristinare l’occhio, ma il momento più bello ed emozionante è stato quello in cui ho ingrandito il lavoro finito e ho guardato dritto nei suoi occhi, anzi lui ha guardato dritto nei miei. È stato come averlo lì davanti a me, faccia a faccia, occhi negli occhi. Non servivano parole. Mi sono sentito amato da lui.

E poi vedere quel volto così pulito, è stato come potergli dare una carezza e un abbraccio, sentendo il calore della sua guancia sulla mia (foto qui sotto).

Guardare a destra

La statuetta della Consolata cara ad Allamano

C’è un particolare che ricorre in quasi tutte le foto che ritraggono Allamano: il suo sguardo è rivolto sistematicamente a destra. Mi sono detto che quella probabilmente era un’abitudine del tempo, forse per non distrarsi e non sbattere le palpebre durante i lunghi tempi di esposizione. Ricordo che anche mio padre, nato nel 1910, aveva l’abitudine di mettersi in posa così. Ma forse, per Allamano c’era qualche ragione in più.

Nelle otto foto del suo 50° si nota una costante: lui è sempre rivolto verso la statuetta della Consolata (foto qui accanto) che sta alla sua destra. Come non pensare alla richiesta dei due fratelli, Giacomo e Giovanni, di sedersi uno alla destra e l’altro alla sinistra di Gesù? Normalmente la destra era il posto del primo ministro, della persona più importante dopo il re.

E forse qui, in questo insistente guardare di Giuseppe Allamano a Maria, stando seduto o in piedi alla sua sinistra, è rappresentata la sua relazione con lei. Da una parte il suo sguardo dice quanto Maria sia centrale nella sua vita, dall’altra dice a Lei che lui è il suo servo fedele, un umile servo, come lei è stata umile serva del Signore.

Ma forse c’è anche un altro significato nel suo porsi alla destra di Maria, dalla parte del suo cuore. È l’atteggiamento del bambino in braccio alla Madre, il bambino che sa di essere amato. Servo sì, ma anche figlio di una Madre amorosa, in cui riporre totale fiducia. Una Madre che ha a cuore ogni persona del mondo, in particolare i più piccoli e i più poveri.

Abito semplice

1923, una delel foto per il 50° di messa. Notare l’abito, la statuetta delle Consolata e il Regolamento ai piedi della Madonna.

Un altro messaggio ce lo danno gli abiti. Ci sono alcune foto dove Allamano indossa di dovere gli abiti da cerimonia, come durante le processioni. Altre volte veste l’abito formale del canonico della cattedrale di Torino, con tricorno e tutto il resto, come nelle foto della partenza dei primi missionari. Con quell’abito che lo identifica con la sua Chiesa di Torino, forse vuole dirci che non è tanto lui che manda i missionari, ma la tutta Chiesa. Ancora una volta, è nelle foto «ufficiali» del suo 50° di sacerdozio che ho colto un messaggio potente sulla sua umiltà e semplicità.

In quell’occasione, non si presentò dopo essersi rivestito con i suoi abiti migliori, quelli che avrebbero meglio espresso il suo rango nella Chiesa di Torino: rettore del principale santuario della città, canonico della cattedrale, responsabile del convitto ecclesiastico, e anche fondatore dei Missionari e Missionarie della Consolata. No, si presentò con una talare di tutti i giorni, come uno che è stato chiamato per le foto senza preavviso, mentre era indaffarato nel lavoro (foto qui accanto). La talare è lisa, evidentemente stropicciata, e forse anche un po’ stretta, tanto che si intravedono i segni delle bretelle che indossa sotto. E lui non pare a disagio, imbarazzato, sminuito nella sua dignità. Anzi. Sembra sentirsi proprio bene come il servo di Maria, l’ultimo servo, onorato solo proprio dal poterla servire in umiltà. Un uomo che davvero non si cura dell’apparenza, ma punta alla sostanza.

Paternità e tenerezza

Allamano accanto al pilone della Consolata al Santuario di Sant’Ignazio il 17 agosto 1911. Doveva essere con lui solo, ma il piccolo Vittorio si intrufolò.

San Giuseppe Allamano non era certo smanioso di farsi fotografare, ma conosceva bene il valore della fotografia. Per questo nel seminario volle anche il laboratorio fotografico (sopravvissuto fino agli anni Settanta) dove i futuri missionari avrebbero studiato e praticato la fotografia aiutati da professionisti della città. In questo contesto accettò diverse volte di posare proprio per far piacere ai suoi amati chierici. Basta guardare alla foto del 17 agosto 1911 al pilone della Consolata presso il santuario di sant’Ignazio. Dal suo occhio chiuso si capisce che stava avendo uno dei suoi attacchi di emicrania, ma non si tirò indietro e accettò anche la birbonata del giovane Vittorio Merlo Pich che volle farsi fotografare con lui intrufolandosi nella foto (ragazzo in primo piano foto accanto).

La sua disponibilità a lasciarsi fotografare si vede poi nel suo volto rilassato della foto del 1914 con gli studenti sotto il grande cedro della villa di Rivoli, oppure in quella del 1915, quando cede alle insistenze del chierico Mario Borello, oppure, infine, nella simpatica foto di lui, ormai anziano, che sorride divertito al fotografo, ancora una volta nel giardino di Rivoli.

Lo spirito ve lo do io

C’è poi un ultimo elemento che le foto mi suggeriscono. Diverse volte Allamano diceva ai suoi missionari: «Lo spirito ve lo do io», per sottolineare come dovessero avere uno stile missionario specifico e non agire di istinto secondo i gusti di ciascuno o seguire modelli presi a prestito da altri. Ci sono diverse foto che sottolineano questo e che dicono ai suoi missionari: «Non siete gente qualsiasi, ma Missionari della Consolata».

Nella foto della partenza del primo gruppo, ad esempio, lui ha saldamente in mano il Regolamento dell’Istituto. Significative poi sono le due foto che lo riprendono allo scrittoio a Rivoli, dove non sta scrivendo un testo qualsiasi, ma il Direttorio dell’Istituto, un documento che vuole precisare l’identità e lo stile dei suoi missionari. In più, nelle foto del 50° di messa il Regolamento è sempre in evidenza.

Statuetta della Consolata e testo del Regolamento: i suoi due amori, la Madre di Gesù e la Missione, gli stessi che devono plasmare la vita dei suoi missionari e di ogni sacerdote.

Gigi Anataloni


Per vedere tutte le foto di San Allamano

Potete osservare tutte le foto del nostro santo sul sito a lui dedicato attraverso una presentazione pdf completamente revisionata e aggiornata.
https://giuseppeallamano.consolata.org/index.php/guardare-san-giuseppe-allamano-negli-occhi