Benessere fatto in casa

testi di Armando Bottazzo e Samuele Nucci |


Una crisi di sistema come quella del coronavirus richiede soluzioni di sistema. Il modello della cooperativa di comunità può aiutare: un’economia civile radicata nel territorio, nei suoi bisogni e opportunità, un nuovo welfare, nuove forme di impresa al servizio di piccole realtà, ma anche di quartieri di grandi città.

Sulla vetrina dello storico forno di San Leo c’era un cartello che diceva «chiuso per ferie». Nel piccolo paese di cento anime in Valmarecchia, provincia di Rimini, tutti sapevano, però, che Vittorio Giorgini, fornaio da sessant’anni, non aveva chiuso «per ferie», ma «per cessazione».

Nell’ottobre del 2018 è venuto così a mancare un servizio importante per le famiglie del borgo, ma soprattutto un luogo affettivo e simbolico per l’identità dell’intera comunità leontina.

È stato questo nuovo strappo, in un tessuto sociale già in grande difficoltà per lo spopolamento, che ha spinto una trentina di cittadini tra i 24 e gli 80 anni a iniziare un percorso che ha portato alla nascita, il primo agosto del 2019, di Fer-Menti Leontine, una delle ultime nate tra le cooperative di comunità. Oggi in Italia, secondo un rapporto Euricse del maggio scorso, sono 109 le imprese nate dal basso per rispondere ai bisogni dei cittadini.

Wikimedia Commons / Tony Pecoraro

Il toscano di San Leo

© Fer-Menti Leontine

«Nel 1939 a San Leo c’erano due forni a legna del comune», ha raccontato Vittorio Giorgini a Stefano Rossini, giornalista del settimanale cattolico locale «Il ponte», nel settembre scorso. «Uno lo prese mio padre. Nel ’40 fu richiamato in guerra e poi rimase prigioniero fino al 1942. In quegli anni furono le mie due zie a lavorare. Appena tornato riprese il lavoro, e nel ’51 ha fatto il primo forno a carbone e legna. Ricordo la fatica del forno a legna. Era un lavoro tremendo. […]. Il forno attuale lo abbiamo fatto nel ’59. È stato il lavoro della mia vita. […] Fare il pane è un lavoro molto impegnativo. Se lavori con la fretta le cose vengono male!».

La storia del toscano di San Leo sta tutta in queste parole. Una storia che rischiava di terminare, ma che oggi è ancora aperta: il cartello «chiuso per ferie» è stato simbolicamente riscritto dagli abitanti di San Leo con le parole «torno subito».

Dopo un anno di vita, l’impatto della cooperativa sul territorio è positivo, non solo per il buon pane, ma soprattutto per il senso di comunità che ha contribuito a far crescere. Si pensi ad esempio all’aiuto offerto ai leontini durante l’emergenza coronavirus, attivando, tra le altre cose, un servizio di «spesa e farmaci a domicilio», assicurando capillare attenzione a tutti.

Il percorso

© Fer-Menti Leontine

Il percorso per la costituzione della cooperativa di comunità a San Leo inizia quando, nell’autunno del 2018, Confcooperative Ravenna-Rimini, insieme all’associazione Figli del Mondo e all’acceleratore di start up Primo Miglio, organizzano una serie di incontri informativi sulle coop di comunità in diversi comuni della Valmarecchia, tra cui San Leo.

Il forno storico del paese ha appena chiuso. Durante i cinque incontri organizzati in paese, anche grazie all’amministrazione comunale, i leontini, aiutati da Giovanni Teneggi di Confcooperative, comprendono le potenzialità della proposta e iniziano a mettere sul piatto sogni e progetti a favore dell’intera popolazione della zona.

Durante gli incontri emergono le numerose criticità del tessuto sociale ed economico locale.

I fili conduttori sono due: da un lato lo spopolamento che porta alla chiusura delle poche e piccole attività commerciali presenti, dall’altro gli effetti negativi dei flussi turistici che hanno una fisionomia ciclica molto marcata.

Il centro storico di San Leo, infatti, grazie alla millenaria fortezza che lo sovrasta e che costituisce il quinto monumento più visitato di tutta la regione Emilia-Romagna con oltre 71mila visitatori all’anno, subisce un turismo «mordi e fuggi», con flussi elevati alternati a periodi di bassa stagione con presenze minime che scompaiono quasi completamente nel periodo invernale.

Voci di speranze

Alla prima riunione organizzata per parlare del futuro del forno, e quindi del paese, per rispetto al fornaio, tutti ne parlano sottovoce: una domanda di troppo sarebbe imbarazzante. Però gli occhi sono desiderosi e le mani pronte a rimpastare speranze.

«Abito qui, sono curiosa di capire cos’è la cooperazione di comunità», ci dice una cittadina.

Un giovane aggiunge: «Produco grani antichi e farro, vado piano perché sono da solo».

Di fronte al timido approccio dei leontini, noi pensiamo che spesso si ha timore a dire cosa si spera davvero per il futuro, soprattutto se l’attesa nasce dall’intimo e chiede agli altri una condivisione. E che, in fondo, quello che i sogni chiedono, è semplicemente di credere in loro e di farne un cammino comune.

Una giovane mamma racconta che per amore della sua famiglia ha lasciato il lavoro in città, e vorrebbe dare una mano a San Leo, perché lì sono le sue radici, lì batte il suo cuore.

C’è un pensionato che è tornato a San Leo e dedica il suo tempo a curare i luoghi di tutti, per curare se stesso, e sa che se rimane da solo, né lui, né il paese potranno resistere a lungo.

C’è un giovane professionista che vorrebbe tornare da Milano alla sua terra nativa, e la mamma di una famiglia giovane che non se ne vuole andare, e si adatta a fare la pendolare, perché una casa e un sogno rimangano accesi la sera.

Quella luce, quell’odore di camino acceso, nelle sue parole, parlano del desiderio di una casa comune per tutti.

© Briganti di Cerreto / Erika Farinai

Economia affettiva

In occasione della nascita di Fer-menti Leontine, Andrea Zanzini, dell’associazione Figli del Mondo, racconta a «il Ponte»: «Una delle ferite più dolorose della comunità è stata la chiusura del forno […]. Una volta compreso il legame affettivo con questa attività abbiamo proposto ai cittadini di costituire la cooperativa di comunità partendo proprio dal [suo] recupero».

Fin dall’inizio, nel progetto, è coinvolta la proprietà del vecchio forno che decide di mettere a disposizione la propria esperienza, cioè quel valore aggiunto che è il «segreto» del pane di San Leo, oltre agli storici locali della bottega in affitto.

La cooperativa, dalla sua costituzione, inizia un percorso di scoperta, condivisione, formazione e costante lavoro.

Le persone che partecipano agli incontri, sono una trentina in tutto. Alcune di loro saranno coinvolte attivamente nella gestione del forno, altre daranno il loro supporto alla progettazione di nuovi servizi per il paese: attività agricole, la cura degli spazi del borgo, il supporto all’amministrazione per il mantenimento di servizi essenziali. Al centro, la promozione di un turismo sempre più orientato al rispetto del territorio e del suo tessuto sociale, capace di far riconoscere San Leo come un gioiello da vivere nel rispetto delle tradizioni e della cultura.

Soluzioni di sistema

Una crisi come quella del coronavirus o, più in piccolo, come quella di San Leo e di altri borghi simili, sono crisi di sistema che richiedono soluzioni di sistema, non iniziative prese a compartimenti stagni. C’è bisogno di connettere tutti i bisogni e le opportunità del territorio. Occorre rivalutare i luoghi nei quali viviamo, e dare valore alla prossimità.

Le persone che appartengono alle comunità, possono promuovere imprese che mettano al centro i bisogni di ogni cittadino. Imprese che superino la distinzione tra profit, non profit, pubblico. Il modello della cooperativa di comunità può aiutare: un’economia civile radicata nel territorio e quindi conoscitrice profonda di bisogni e opportunità, un nuovo welfare, nuove forme di imprese multifunzionali che possono adattarsi anche a quartieri di grandi città.

© Briganti di Cerreto / Erika Farinai

Fenomeno in crescita

In Italia, dieci milioni di persone vivono in 5.683 comuni con meno di 5mila abitanti. Centri abitati spesso di dimensioni ridotte, in territori difficili da raggiungere, disagiati e con scarsi collegamenti e infrastrutture.

In questo contesto, il fenomeno della cooperazione di comunità è in crescita e si sta diffondendo in tutta Italia con più di cento esperienze, in risposta a sfide e difficoltà dei territori interni e montani, e la crisi da Covid-19 ci ha fatto capire che il modello sarebbe adatto anche ai centri urbani più grossi.

Le coop di comunità nascono per valorizzare aree impoverite o vulnerabili, per ripristinare e salvaguardare beni comuni o funzioni pubbliche, per cogliere opportunità economiche nascoste, o avviare processi di innovazione in senso comunitario.

Sono protagoniste della rinascita dei servizi più disparati: dal turismo al welfare, alla cultura, alla produzione agricola, e così via.

Il venir meno di un servizio o di un’attività economica in un paese, dunque, fa aguzzare l’ingegno e sperimentare nuove forme di collaborazione. «Le cooperative di comunità sono costituite da imprese e abitanti di un territorio, in genere con dei problemi di impoverimento sociale ed economico, che intendono collettivamente intraprendere attività o servizi che né il mercato né lo stato riescono a garantire, al fine di migliorare la vivibilità di quella realtà», spiega Giovanni Teneggi, animatore delle maggiori cooperative di comunità in Italia. «Sono cooperative nelle quali i soci, riunendosi, non attivano solo iniziative finalizzate alla mutualità interna, ma rispondono anche a interessi più generali della collettività».

E l’Italia non è l’unico paese che sperimenta queste forme di collaborazione dal basso. Secondo lo «Studio di fattibilità per lo sviluppo delle cooperative di comunità», pubblicato nel 2016 dal Mise (ministero dello Sviluppo economico), «a livello internazionale, in altri paesi europei esistono da anni alcuni modelli di impresa “comunitaria” che presentano specificità e caratteristiche che possono essere paragonate alle cooperative di comunità italiane […]. Tra queste le esperienze più significative si trovano nel Regno Unito, in Francia e in Germania».

Quindi cosa sono?

Le cooperative di comunità sono vite, sogni, culture, conversazioni, voglia di fare, genuinità, semplicità, volti, competenze, e tutto questo tradotto in economie possibili. Costituire una coop di comunità significa: «Fare qualcosa / per la comunità / con la partecipazione della comunità / attraverso un’impresa».

Fare qualcosa, cioè riaprire un bar o un hotel abbandonato, organizzare percorsi turistici, pulire i boschi, cucinare quel piatto che la tradizione del territorio conosce e riconosce, riprendere in mano alcune vocazioni specifiche che ogni territorio ha e che erano andate perdute, o scoprirne di nuove.

Per la comunità: quali sono le vocazioni del territorio? Quali sono i sogni che abitano dietro le porte e le finestre dei cittadini? Quali sono le competenze degli anziani che potrebbero essere portate alla luce e diffuse? Quali sono i bisogni dei cittadini? Cosa sta venendo a mancare?

Con la partecipazione della comunità, ossia di Carlo, il contadino burbero che al momento del bisogno ti viene a prendere con il suo trattore; di Giovanni che ha un’azienda di pellame ed esporta in giro per il mondo; di Maria, professionista che vive a Milano e che desidera tornare nel suo paese nativo per mettere in pratica lì ciò che ha imparato; ma anche di Chiara, mamma da qualche mese che ha perso il lavoro a causa della crisi; di Paola che con il suo negozio di alimentari vorrebbe fare qualcosa di più ma non sa come.

Attraverso un’impresa: la parola «impresa» per Treccani «indica per lo più azioni, individuali o collettive, di una certa importanza e difficoltà». Si usa in espressioni come «impresa ardua», «impresa eroica», «l’impresa di Cesare». L’impresa è anche un soggetto economico che lavora e dà lavoro, e che, a tutti gli effetti, ha di fronte un cammino arduo con i suoi rischi.

Welfare dal basso

Lo spirito di queste organizzazioni, che agiscono come «risvegliatrici di sentimenti», è quello d’incentivare l’innato istinto di ognuno di offrire il proprio contributo per permettere a tutti di crescere in una società migliore, creando sinergie tra le persone.

In giro per l’Italia, da Nord a Sud, sono nati piccoli presidi sanitari che garantiscono ad anziani e malati prelievi e assistenza medica di base, senza dover percorrere chilometri; servizi scolastici integrativi che potenziano l’offerta formativa a favore di una maggiore libertà oraria per i genitori; attività di compagnia per anziani soli, di pulizia e mantenimento degli spazi pubblici e di quelli del vicinato, di manutenzione della proprietà di chi, ad esempio per cause di salute, non riesce a farla; filiere turistiche in sinergia con l’enogastronomia locale e la riscoperta e tutela territoriale; presidi aggregativi per lo sviluppo delle abilità pratiche e culturali dei cittadini.

Il beneficio di queste iniziative si misura in termini di ripopolamento e di nuovi posti di lavoro.

Tutto questo rientra in una più vasta idea di welfare home made-self made (benessere fatto in casa) che nasce direttamente dai cittadini.

Alcuni esempi

La prima cooperativa di comunità fondata in Italia – e nel mondo – è quella di Succiso (Reggio Emilia), piccolo borgo di 65 abitanti dove, nel 1991, dopo la chiusura dell’ultimo bar e dell’ultima bottega, alcuni giovani della Pro Loco hanno costituito la Cooperativa Valle dei cavalieri. In 28 anni, la cooperativa ha creato nove posti di lavoro, e fattura 700mila euro, creando un ecosistema che favorisce a cascata gli altri indotti locali.

Secondo lo «Studio di fattibilità» del Mise, già citato, «la cooperativa, nel corso degli anni ha promosso l’attività del suo agriturismo e ristorante sperimentando anche nuove offerte turistiche in collaborazione con il Parco Nazionale del quale è centro visita. La cooperativa è cresciuta sviluppando un’azienda agricola che ha consentito la produzione di pecorino Dop. Ha poi ampliato i suoi ambiti acquistando un pulmino per il trasporto alunni, il rifornimento dei medicinali per gli anziani, e realizzando un importante investimento per […] un impianto fotovoltaico».

Altra esperienza è quella della Cooperativa Pracchia che, nel pistoiese, lavora in diversi settori: dalla gestione dei servizi per gli anziani alle attività di cura del patrimonio naturale e urbanistico (gestione di giardini, parcheggi, rive dei corsi d’acqua, bagni pubblici), al ripristino e alla cura dei castagneti abbandonati per il rilancio dell’economia e della filiera delle tipicità locali.

© coopbiccari.it

Biccari e Cerreto

In Puglia, a Biccari, nell’entroterra foggiano, la Cooperativa Biccari ha valorizzato gli immobili comunali poco usati e ha costruito un progetto turistico di alta qualità nel rispetto della natura. Tra le proposte turistiche più originali della cooperativa pugliese, c’è una «mini casa pop up», cioè una stanza temporanea a forma di bolla trasparente, immersa nella natura del Lago Pescara di Biccari, nella quale poter «dormire sotto le stelle». Nello stesso contesto c’è anche una stanza in tessuto sospesa tra gli alberi, chiamata «Atomo».

All’interno del progetto turistico, la cooperativa organizza uno «scambio culturale» offrendo a giovani tra i 18 e i 35 anni di essere ospitati gratuitamente in cambio di tre ore di volontariato giornaliere: una proposta che crea un turismo consapevole a beneficio del territorio.

Infine, possiamo citare, come ultimo esempio, la Cooperativa dei Briganti di Cerreto, a Cerreto Alpi, frazione del comune di Ventasso, in provincia di Reggio Emilia, nell’appennino tosco emiliano. Anch’esso un borgo a rischio estinzione dove ora, con la presenza della cooperativa, tutto viene gestito in comunità: dall’ostello al castagneto, dal pecorino al ristorante, perché un’attività da sola non può reggere, ci vuole un legame tra tutte le iniziative. Questo legame fa da supporto all’esperienza del turista: dormire in un vecchio mulino ristrutturato ascoltando alla sera le storie degli anziani del paese, pescare la trota o avventurarsi nei boschi insieme agli abitanti del borgo, visitare l’essiccatoio delle castagne, assaggiare la cucina locale a base di prodotti del luogo, dalla ricotta al pecorino, dai dolci di castagne al cinghiale.

© coopbiccari it

Ripartenza cooperativa

Tutte queste esperienze hanno in comune la resistenza delle persone e dei territori, e possono essere di esempio per altre realtà. Grazie a esse possiamo capire bene che la risorsa più importante dei centri «emarginati» è proprio la comunità che li abita, e che lo strumento migliore è la cooperazione.

La crisi del coronavirus ci invita a guardare i paesi, ma anche i quartieri delle nostre città, con occhi nuovi, pone l’attenzione sul ruolo fondamentale dei servizi di prossimità.

La ripartenza è un bene comune, e come tale va trattata.

Uno sguardo trasversale, cooperativo, che connetta tutti gli attori, che sia sistemico e inclusivo, aiuta a trovare la strada.

Non si può quindi prescindere, nella ripartenza, dal prezioso sapere sociale che parte dal basso, dai cittadini.

Le esperienze delle cooperative di comunità mostrano un modello di welfare di comunità che è possibile riadattare in luoghi differenti con differenti esigenze e capacità. Come dice Aldo Bonomi: «Se non vogliamo che il virus produca più solitudine, occorre che oltre al vaccino si valorizzino anticorpi sociali capaci di produrre inclusione sociale».

Armando Bottazzo e Samuele Nucci


Link utili:




Per una conversione ecologica globale

testo di Luca Lorusso |


Dai dodici anni vissuti in Amazzonia è nato il suo «amore per la giustizia» e per la «sobrietà felice». Adriano Sella coordina dal 2007 la «Rete interdiocesana nuovi stili di vita». L’abbiamo sentito sull’anno speciale Laudato si’ e sull’ambizioso programma di ecologia integrale che l’accompagna.

© Adriano Sella

L’anno speciale per la Laudato si’ è iniziato il 24 maggio scorso, quinto anniversario dell’enciclica di papa Francesco «sulla cura della casa comune». Avviato un po’ in sordina, promette di far parlare di sé. Nelle intenzioni di chi l’ha pensato, l’anno speciale sarà un tempo nel quale dare forma a un programma ambizioso di cambiamento basato sulle istanze dell’ecologia integrale.

Dalla sua pubblicazione, la Laudato si’ ha già prodotto molto fermento, a livello teologico, ecclesiale, pastorale, ma anche culturale, sociale, politico, e nella vita quotidiana di molti.

«Il fatto che il quinto anniversario dell’enciclica coincida con […] una pandemia mondiale», scrive il Dicastero vaticano per il servizio dello sviluppo umano integrale, «rappresenta uno spartiacque e fa sì che il messaggio della Laudato si’ sia oggi tanto profetico quanto lo era nel 2015. […] Il Covid-19 ha messo in luce […] la profonda interconnessione […] tra tutti noi. Per iniziare a immaginare un mondo post-pandemia, abbiamo bisogno anzitutto di adottare un approccio integrale […]. L’urgenza della situazione è tale da richiedere risposte immediate, olistiche e unificate a tutti i livelli, sia locali che regionali, nazionali e internazionali. In particolare, è necessario creare “un movimento popolare” dal basso, e un’alleanza tra tutti gli uomini di buona volontà».

Dare ascolto «al grido della Terra e al grido dei poveri» è possibile. Mettere in atto cambiamenti profondi che promuovano una vita bella nella casa comune è una strada percorribile.

Ce lo dicono da anni le molte voci che, provenienti spesso dal mondo missionario, propongono il cambiamento all’insegna di «nuovi stili di vita».

Ne abbiamo parlato con Adriano Sella, «laico missionario nella custodia del creato», promotore e coordinatore dal 2007 della Rete interdiocesana nuovi stili di vita.

Adriano, come nasce il tuo impegno per i nuovi stili di vita?

«Dal 1990 al 2002 sono stato in Amazzonia. Lì mi sono innamorato della giustizia, ho capito che bisogna smettere con l’assistenzialismo e costruire rapporti giusti.

Nel 1995 ho portato in Italia un documento elaborato in Amazzonia dalle comunità cristiane e i movimenti popolari. Diceva: “Noi del Sud chiediamo a voi del Nord giustizia, e non elemosina”. Da lì è nato a Vicenza, dove vivo oggi, il movimento “Gocce di giustizia”, persone con la voglia di mettere assieme i gruppi che già lavoravano in quella direzione, e abbiamo iniziato a educarci a cambiare stili di vita».

Cos’è la Rete interdiocesana?

«Quando sono tornato in Italia nel 2002, la diocesi di Padova mi ha coinvolto in un lavoro pastorale sui nuovi stili di vita. Allora sono andato in altre diocesi, dove sapevo di alcuni percorsi già in atto: Verona, Trento, Bolzano-Bressanone, Venezia, Brescia. Da quei contatti è nato il desiderio di metterci insieme, scambiarci esperienze, e, nel 2007, è nata la Rete che oggi conta circa novanta diocesi.

Fare rete è importante, perché ci si rafforza a vicenda. È uno dei nostri 10 obiettivi: “La narrazione dell’alternativa”. Il male fa notizia. La gente è impregnata di pessimismo, e parla sempre di quello che non va. Per questo è necessario narrare la speranza, far vedere che ci sono alternative possibili.

L’obiettivo della società dei consumi è quello che io chiamo “la nuova rassegnazione”, come dice la Laudato si’: “Più il cuore della persona è vuoto, più ha bisogno di oggetti da comprare, possedere e consumare” (LS 204). Noi dobbiamo tirare fuori il bene, raccontarlo, farlo vedere».

© Greenpeace Polska

L’anno speciale sulla Laudato si’ propone una conversione ecologica che chiama in causa i nuovi stili di vita. Tra le iniziative previste, c’è quella della «giornata per la custodia del creato» del 1 settembre. Nel messaggio che l’accompagna, in riferimento alla pandemia, si legge: «Abbiamo toccato con mano tutta la nostra fragilità, ma anche la nostra capacità di reagire solidalmente ad essa. Abbiamo capito che solo operando assieme – anche cambiando in profondità gli stili di vita – possiamo venirne a capo».

«Gli umani cambiano molto per necessità e poco per virtù, ma i cambiamenti procurati dalla paura, ad esempio del Covid-19, durano poco. Quando il pericolo passa, si torna a vivere come prima. Quando, invece, il cambiamento è motivato, è maturato per amore, quando capisci che è più bello vivere sobriamente, con meno oggetti e più relazioni, la vita cambia ed è più libera.

Quando è uscita l’enciclica nel 2015, abbiamo fatto un balzo di gioia. Ci siamo sentiti confermati nel lavoro che stavamo facendo già da tempo. La Laudato si’ è diventata subito un faro per noi. È un pozzo inesauribile. Non è solo teoria, ma una spinta a mettere in atto comportamenti belli.

La Cei ha indetto la prima giornata del creato nel 2006, mossa dal movimento ecumenico: è, infatti, nata nell’89 dalla Chiesa ortodossa di Costantinopoli per la quale il primo settembre è l’inizio dell’anno liturgico. È bella l’idea d’iniziare l’anno all’insegna della custodia del creato».

Altra iniziativa compresa nell’anno speciale, è quella denominata «il tempo del creato»: un mese, dal 1 settembre al 4 ottobre, dedicato alla spiritualità ecologica. Possiamo dire che la spiritualità è il punto di partenza di una conversione ecologica che sia profonda e duratura?

«Anche il mondo laico lavora nella promozione dei nuovi stili di vita. Qual è l’approccio cristiano rispetto a quello laico? Per i cristiani c’è un primato della fede sull’etica, c’è un cambiamento che parte dall’interno, da una conversione del cuore.

L’enciclica lo sottolinea. Riprende la spiritualità dei profeti, quella del cuore nuovo, fino alla Pentecoste quando avviene il passaggio dal cenacolo all’uscita. Il cambiamento parte da dentro, dalle cose che ti toccano profondamente. Pensiamo alla figura evangelica di Zaccheo.

Se il cambiamento parte dall’interno, il cambiamento esterno è più radicato. Le proposte che facciamo, se non partono dal profondo, rischiano di ridursi a elenchi di comportamenti e rischiano di portare al moralismo».

A proposito di cambiamenti profondi, la Laudato si’ ne ha già prodotti secondo te?

«Sì. A livello teologico e pastorale ad esempio. L’enciclica ci ha aiutati a capire che all’origine di tutto c’è il bene, non il male.

Nella nostra visione tradizionale, tutto parte dal peccato originale, seguito dal processo di redenzione. Scoprire, invece, che all’origine di tutto c’è un bene, significa scoprire che c’è un grande bene in ogni creatura. Nella prassi educativa, allora, si lavora per tirare fuori il bene che c’è.

Nella parabola del figliol prodigo, c’è un padre che non punta il dito, ma apre le braccia.

Se noi lavoriamo con un metodo educativo repressivo, pensando che la paura (del castigo, dell’inferno) aiuti a cambiare, produciamo un cambiamento superficiale, che dura poco. Se invece facciamo emergere la bellezza, facendo capire quanto è bella la vita quando è piena di relazioni, quando ti gusti le cose belle, allora aiutiamo il cambiamento.

La vita cristiana è bellezza. La sobrietà non è sacrificio, ma liberazione. Non è austerità, privazione, ma liberazione da tutto quello che è inutile. Se mostriamo una vita cristiana felice, allora la proposta viene accolta.

Il Giubileo sulla misericordia e tutto quello che il papa sta facendo, ci parlano di questo: Dio è amore. Su questo dobbiamo lavorare, e l’enciclica ci aiuta molto, ad esempio rivelandoci che il creato è la prima manifestazione dell’amore del Padre.

Ci eravamo dimenticati anche di questo! Nella Bibbia ci sono i libri sapienziali che lo dicono. I padri della chiesa hanno passaggi bellissimi. La Laudato si’ lo ha riproposto in modo forte.

Se noi trasformiamo il creato in una pattumiera, come fanno i bambini a percepire l’amore del Padre? Dicono subito: “Che schifo questo mondo!”. Se invece si trovano davanti la grande bellezza, possono sentire la carezza di Dio.

La cura del creato quindi non è solo una questione ambientale, socio-economica, politica, è anche una questione teologica: abbiamo a che fare con il dono di Dio. Se usiamo la creazione in una pattumiera, impediamo a Dio di manifestare il suo amore».

L’anno speciale prevede iniziative come «il patto globale sull’educazione» e «l’economia di Francesco», entrambe previste inizialmente nella prima metà del 2020 e poi rinviate a causa della pandemia. Poi la tavola rotonda vaticana al forum economico mondiale di Davos, un raduno di leader religiosi e altro.
Quello che ci ha colpiti però è la piattaforma pluriennale di iniziative «per rendere le comunità di tutto il mondo totalmente sostenibili, nello spirito dell’ecologia integrale della Laudato si’», cioè il progetto di far partire ogni anno per dieci anni un «gruppo» di famiglie, parrocchie, diocesi, scuole, università, ospedali, imprese, ordini religiosi, che s’impegnino pubblicamente per 7 anni in un percorso di conversione ecologica.
Cosa pensi di questo programma ambizioso che copre un arco di tempo di addirittura di 17 anni?

«È una metodologia importante dal punto di vista educativo. L’idea dei sette anni, che porta in sé la dimensione biblica del numero sette, è bella. È un periodo sufficiente per lavorare bene e per mettere in atto dei percorsi concreti di cambiamento. In un settennio c’è il tempo per coinvolgere, si possono fare verifiche, riorganizzare le cose, ecc. La prospettiva di questo tempo lungo ci aiuterà a far diventare l’enciclica una prassi della vita».

È una scommessa anche per il prossimo papa.

«Sì, questo processo diventa irreversibile. Se avviato bene, con la spiritualità al centro, è come costruire la casa sulla roccia.

È un segno bello di speranza. Io credo che la Laudato si’ sia l’unica enciclica che ha cambiato anche lo stile ecclesiale. Tutte le encicliche producono una bella attenzione quando escono, ma questa ha cambiato anche il modo di essere chiesa, di programmare a livello di parrocchie, di gruppi, e a livello culturale».

Anche nella società laica l’enciclica è un riferimento.

«Qualche tempo fa, Paolo Cacciari, fratello del filosofo, giornalista e leader di movimenti ambientalisti, mi ha detto che l’enciclica è stata molto importante per il mondo laico, soprattutto per aver connesso le due facce della stessa medaglia: il grido della Terra e il grido dei poveri. Non esiste una priorità ambientale, o una priorità sociale, ma un’unica grande questione».

Una connessione che tu hai vissuto in Amazzonia.

«Sì, il grido della Terra e dei poveri in America Latina è da anni una questione unica. Proporre al mondo intero di vedere la Terra come madre e sorella è una rivoluzione. La Terra non può essere vista solo come un contenitore di risorse. Deve essere vista come madre. Per i laici è Gaia, un super organismo vivente. Per i cristiani è parte del creato, è dono di Dio. La Terra non è merce, non è da spremere. Se cambia la nostra visione culturale sulla Terra, cambia il nostro modo di relazionarci con lei».

Luca Lorusso




Li chiamavamo «pellerossa»

testo di Paolo Moiola |


A qualcuno potrà sembrare strano, ma gli «indiani d’America» non esistono soltanto nei film. Confinati nelle loro riserve, essi costituiscono una minoranza un tempo oppressa o sterminata, oggi impoverita ed emarginata.

Sono due i motivi per cui, in questi mesi, gli «indiani d’America» (american indians) sono usciti dall’oblio. Il primo è contingente: essi sono stati duramente colpiti dal nuovo coronavirus. Basti ricordare che nella riserva dei Navajo – la più grande e popolata degli Stati Uniti – si sono contati 8.142 casi e 396 morti (al 11 luglio), con un’incidenza dell’infezione maggiore che a New York.

ll secondo motivo riguarda invece una loro condizione esistenziale riemersa a causa della crisi razziale scoppiata a fine maggio con la minoranza nera del paese. Accanto allo slogan Black lives matter, è stato ricordato che Native lives matter. Anzi, i «nativi americani» – come normalmente vengono chiamati i popoli indigeni statunitensi – costituiscono la minoranza più povera ed emarginata dell’intera popolazione Usa.

Per rimanere in tema di rapporti tra popolazione e forze dell’ordine, già nel 2015 un dossier dei Lakota del South Dakota evidenziava l’uso sproporzionato della forza da parte della polizia nei confronti dei nativi. E a supporto citava le considerazioni del Centre of disease control and prevention (Cdc, equivalente al nostro Istituto superiore di sanità): «Il gruppo razziale a maggior rischio di uccisione da parte delle forze dell’ordine è quello dei nativi americani, seguito dagli afro americani, dai latini, dai bianchi e dagli asiatici americani». Inoltre, il numero degli indiani rinchiuso in carceri federali o locali è varie volte più alto di quello di qualsiasi altra etnia. Secondo il rapporto dei Lakota, ciò è dovuto a pratiche discriminatorie indotte dal razzismo delle forze dell’ordine e alla povertà degli accusati che non possono permettersi di pagare un avvocato.

Per rimanere sull’attualità, va ricordata l’arroganza della Casa Bianca rispetto alle questioni che coinvolgono i territori dei nativi. Donald Trump – in lizza per un posto di rilievo nella classifica dei peggiori presidenti della storia Usa – a gennaio 2020 ha sbloccato il progetto del gasdotto Keystone XL, che lui stesso aveva riesumato con un ordine esecutivo nel gennaio 2017, dopo che il suo predecessore Barack Obama lo aveva accantonato.

Il progetto prevede un gasdotto lungo quasi 1.900 chilometri che dovrebbe trasportare il petrolio da Hardisty (Alberta, Canada) a Steel City, nel Nebraska, dopo aver attraversato Montana e South Dakota. Un altro gasdotto, già attivo e molto contestato da ambientalisti e nativi, è il «Dakota access pipeline» che percorre (interrato) il North Dakota, il South Dakota, lo Iowa e l’Illinois. Il petrolio vi scorre da tempo, ma le controversie non si sono mai fermate. Tanto che lo scorso 6 luglio un giudice distrettuale ha sentenziato che è necessaria una valutazione ambientale più accurata e che, nel frattempo, l’oleodotto deve essere chiuso e svuotato del petrolio entro il 5 agosto (New York Times).

A parte le pesanti conseguenze ambientali dei due progetti, quello che colpisce è l’assoluta mancanza di rispetto nei confronti delle popolazioni native sui cui territori gli oleodotti si trovano o troveranno a transitare. Assenza di consultazione, rischio di inquinamento delle falde idriche, violazione dei luoghi sacri sono le principali accuse rivolte dai nativi alle autorità. Insomma, si tratti di comportamento della polizia o di sovranità territoriale, oggi come ieri la storia dei popoli nativi degli Stati Uniti continua a ripetersi sempre eguale tra discriminazione ed emarginazione.

Tre Sioux in una foto di Edward Sheriff Curtis (1868-1952), etnologo e fotografo dei popoli nativi nordamericani. Foto di Edward Sheriff Curtis.

Il cammino delle lacrime

Secondo il censimento del 2010 (quello del 2020 è ancora in corso), negli Stati Uniti ci sono 5,2 milioni di nativi, pari all’1,7 per cento della popolazione totale. Soltanto una piccola parte di essi (il 22 per cento) risiede nelle riserve (reservations, la prima risale al 1758) indiane. Probabilmente perché in esse le condizioni di vita sono «comparabili a quelle del Terzo mondo» (Gallup, 2004) con abitazioni inadeguate, mancanza di lavoro e di servizi.

La storia della sottomissione e del declino dei popoli nativi del Nord America iniziò subito dopo l’arrivo (1492) di Cristoforo Colombo. Con i conquistatori spagnoli che arrivarono in Florida, Juan Ponce de Leon (1513) e Hernando de Soto (1539). Con inglesi e francesi che arrivarono nei territori del Nord (dalle propaggini orientali dell’attuale Canada fino alla baia di New York) sotto la guida di navigatori italiani: nel 1497 Giovanni Caboto (per l’Inghilterra) e nel 1524 Giovanni da Verrazzano (per la Francia). L’invasione era ormai iniziata e, nonostante la resistenza (e molte guerre), per i popoli nativi la sorte era segnata.

Un bando pubblico del 1911 per la vendita di terre indiane: si elencano le caratteristiche delle terre, lo stato dove si trovano, la superficie, il costo medio per acro. Foto Library of Congress.

Uno dei leader statunitensi più risoluti nella lotta contro i popoli nativi fu Andrew Jackson (1767 – 1845), prima come generale e poi come presidente. Come comandante combattè per un biennio (1813-1814) contro i Creek, i quali alla fine dovettero cedere un territorio di oltre nove milioni di ettari (oggi facenti parte dell’Alabama centrale e della Georgia meridionale).

Apprezzato dai governanti di Washington, Jackson rivolse l’attenzione verso la Florida (1818), possedimento spagnolo abitato dai Seminole. Le guerre con questo gruppo proseguirono a lungo, soprattutto dopo che gli Stati Uniti acquistarono la stessa Florida dalla Spagna (1821).

Eletto presidente, Andrew Jackson proseguì la sua politica di segregazione dei popoli nativi. Nel 1830 firmò la «legge di rimozione» (Indian Removal Act), che avrebbe segnato l’esistenza dei popoli nativi per molti decenni. Tra il 1830 e il 1838 migliaia di Creek e di Cherokee furono spinti a lasciare («volontariamente») le loro terre e ricollocarsi in altre, soprattutto in Oklahoma. Questa deportazione è storicamente conosciuta come the Trail of Tears, «il sentiero delle lacrime» (cfr. mappa).

Andrew Jackson è considerato da Donald Trump non soltanto un eroe, ma un esempio da imitare. Oltre a citarlo spesso, il presidente si fa riprendere nello Studio Ovale con un suo ritratto alle spalle. Quando – lo scorso 22 giugno – un gruppo di manifestanti ha tentato di rovesciare la statua equestre di Jackson, posta nel parco Lafayette (a pochi passi dalla Casa Bianca), Trump – presidente «della legge e dell’ordine» – ha reagito con veemenza chiedendo dieci anni di prigione per i colpevoli.

A proposito di simboli, c’è un’immagine che meglio di ogni monumento o di ogni discorso fa capire con quale violenza e arroganza si sia arrivati alla sottomissione e all’emarginazione dei popoli nativi degli Stati Uniti. È un bando pubblico del ministero dell’interno risalente al 1911. L’oggetto dell’avviso è ben chiarito dalla sua intestazione: «Indian land for sale», terra indigena in vendita. Al centro dello stesso una foto di un leader indigeno con attorno e sotto una cospicua serie di dettagli. Si tratta di «ottime terre ad Ovest», irrigate o irrigabili, con pascoli e terre agricole. Pagamenti facilitati e possesso legale in soli 30 giorni. Più sotto l’elenco degli stati interessati e del prezzo medio per acro di terra: si va dai 7,27 dollari del Colorado ai 41,37 di Washington.

Insomma, dopo essere stati cacciati o deportati, i popoli nativi videro il loro diritto alla terra messo in vendita sul mercato. E ciò in base a una legge del 1887 – il Dawes Act (o General Allotment Act) – con la quale il governo centrale voleva assimilare i nativi al resto della popolazione facendo loro accettare i principi del capitalismo e della proprietà privata, inesistenti nelle culture indigene. La norma venne annullata nel 1934, ma ormai i danni materiali e culturali erano fatti. Secondo la Indian Land Tenure Fundation, i popoli nativi persero 364mila chilometri quadrati di terra (un’estensione superiore a quella dell’intero territorio italiano).

Supremazia bianca

La prima seduta del Congresso degli Stati Uniti ebbe luogo nel 1789. In 221 anni sono entrati nel Congresso soltanto 22 nativi. Le prime due donne sono state elette in questa legislatura. Si tratta di Sharice Davids (della tribù degli Ho-Chunk) e Deb Haaland (della tribù dei Puebloans), entrambe appartenenti al partito Democratico.

«L’amministrazione Trump – ha commentato la Haaland in un tweet del 25 giugno – non riconosce l’incredibile storia culturale delle popolazioni indigene in questo continente. La difesa  della supremazia bianca da parte del presidente è incredibilmente offensiva e le sue azioni riflettono la sua mancanza di rispetto per le comunità native».

Per gli indiani d’America «il sentiero delle lacrime» pare non aver mai fine.

Paolo Moiola
(prima puntata – continua)

L’ex presidente Barack Obama, attorniato da membri della propria amministrazione e da leader indiani, firma il Tribal Law and Order Act (29 luglio 2010). Foto Saul Loeb – Afp/Getty – Obama White House Archives.


Ritratto di indiano. Foto di Edward Sheriff Curtis.

Tab. 1 / Nativi americani*: i numeri

  • numero nativi* al 2010: 5,2 milioni
  • percentuale su popolazione: 1,7 per cento
  • numero nativi ante-Conquista: 10-12 milioni
  • entità tribali* riconosciute: 574
  • riserve indiane: 326
  • nativi residenti nelle riserve: 22 per cento
  • riserva principale: Navajo Nation
  • i 10 popoli principali: Cherokee, Navajo, Choctaw, Sioux,  Chippewa, Apache, Blackfeet, Iroquois, Pueblo, Creek.

(*) «Natives», «native americans», «native american population», «native peoples», «indian tribes», sono i termini utilizzati negli Stati Uniti per «indigeni» e «popoli indigeni». Nel conteggio dei nativi sono inclusi gli indigeni dell’Alaska (100mila circa) ed esclusi quelli delle Hawaii (500mila).

(Pa.Mo.)

Fonti: Census Bureau (census.gov); National Congress of American Indians (ncai.org); Bureau of Indian Affairs (bia.gov).


Cosa dice la scienza

Vulnerabilità indigena

Capo degli Oglala Lakota nel 1899. Foto: Frank A. Rinehart – Boston Public Library.

La pandemia causata dal nuovo coronavirus ha confermato la maggiore vulnerabilità dei popoli indigeni. Secondo varie ricerche scientifiche, essa ha molte cause:

  • maggiore vulnerabilità alle malattie («virgin soil epidemics»);
  • indicatori sanitari peggiori (mortalità infantile e materna, speranza di vita);
  • più stress epigenetici (oppressione e violenza generazionali);
  • maggiore correlazione con il declino delle risorse ambientali (acqua, terre, foreste, biodiversità);
  • peggiori condizioni esistenziali (abitazioni, vita multigenerazionale, carenza di presidi minimi come l’acqua potabile);
  • carente accesso alle strutture sanitarie.

(a cura di Paolo Moiola)

Fonti: Indigenous populations: left behind in the Covid-19 response, in «Lancet», 6 giugno 2020; Protect Indigenous peoples from Covid-19, in «Science», 17 aprile 2020; Mortality from contact-related epidemics among indigenous populations in Greater Amazonia, in «Nature», settembre 2015.


Tab. 2 / Riserva «Navajo Nation»*

  • superficie: 71.000 km2*
  • stati interessati: Utah, Arizona, New Mexico
  • popolazione: 173.000*
  • presidente: Jonathan Nez
  • tasso di disoccupazione: 40 per cento
  • tasso di povertà: 40 per cento

(*)  La maggiore riserva indiana degli Stati Uniti sia per estensione che per popolazione.

(Pa.Mo.)

Fonti: www.navajo-nsn.gov; www.opvp.navajo-nsn.gov; BBC.


Ritratto di un Cherokee. Foto di Hernan Heyn – Library of Congress.

Tab. 3 / Principali norme di legge (Acts) tra governo Usa e popolazioni native

  • 1830: The Indian Removal Act
  • 1851: The Indian Appropriations Act
  • 1887: The General Allotment (Dawes) Act
  • 1924: The Indian Citizenship (Snyder) Act
  • 1934: The Indian Reorganisation Act (Ira)
  • 1968: The Indian Civil Rights Act (Indian Bill of Rights)
  • 2010: The Tribal Law and Order Act

(Pa.Mo.)

Fonti: www.law.cornell.edu; Andrew Boxer in «History Review», settembre 2009.

Cavalli nella Monument Valley, riserva della Nazione Navajo. Foto di Steen Jepsen – Pixabay.




Brasile. Vita di favela (con o senza virus)

testo e foto di Gianluca Uda |


Nella favela chiamata Che Guevara vivono circa 30mila persone. In condizioni abitative, igieniche e sociali difficili. Oggi peggiorate a causa dell’arrivo del nuovo coronavirus.

Belém. Il cielo nuvoloso oggi è il campo dove aquiloni colorati lottano tra di loro. Trapezi che sfrecciano con i loro stemmi di Batman, Superman o altri personaggi legati alla fantasia dei più piccoli. Questa è la guerra aerea dei bambini della favela che, con i loro fili di nylon tesi, si scontrano nel cielo con gli aquiloni rivali.

In realtà è un gioco considerato illegale: i fili di nylon che tengono legati gli aquiloni colorati vengono infatti cosparsi di minuscoli frammenti di vetro (in genere si usano quelli delle lampadine). Quando due aquiloni arrivano allo scontro, succede che uno venga tagliato dal filo rivale ed eliminato.

È un gioco illegale perché potenzialmente pericoloso. Il filo trasparente, soprattutto per chi passa in moto o in bicicletta, può provocare ferite. Inoltre, molto spesso cavi della luce o linee internet vengono recisi. Tuttavia, quando entra in favela, la polizia ha cose ben più gravi da risolvere.

Nel complesso urbano di Belém, capitale dello stato del Parà nel Nord Est brasiliano, questo gioco costa al municipio ogni anno diverse riparazioni di fili elettrici troncati. Oggi però non è tanto il problema del gioco degli aquiloni a preoccupare il municipio, quanto l’assembramento di bambini lungo le strade periferiche.

La pandemia legata al Covid-19 è entrata nelle vite del popolo brasiliano. E tristemente le zone più colpite sono le aree suburbane delle grandi città come Belém, divenuta questa l’epicentro della diffusione del virus nella zona Nord Est della nazione.

Una mamma con i suoi quattro figli; il marito della donna lavora come taglialegna in Amazonia un lavoro considerato illegale; l’uomo rientra a casa ogni sei mesi circa. Foto di Gianluca Uda.

Favela Che Guevara

Il complesso suburbano di Belém è composto da piccole città, luoghi poveri dove gli abitanti difficilmente riescono ad arrivare a fine mese, soprattutto ora che, a causa della pandemia, molte attività sono state chiuse.

Che Guevara è una favela di circa trentamila abitanti. Oggi è registrata come barrio Almir Gabriel e si trova nella periferia della città di Marituba che dista circa dieci chilometri da Belém, ma per tutti rimane favela Che Guevara.

La favela è nata nel 1997 a seguito della più grande occupazione di massa di tutto il Sud America, quando un centinaio di persone, che non aveva né casa né un’impiego fisso, hanno occupato i terreni dell’attuale favela. Spinti da un ideale socialista di riscatto, hanno preso possesso di quegli spazi e da allora non se ne sono più andati. Oggi la storia dell’invasione è raccontata come una vera e propria leggenda anche perché sono ancora in vita pochi degli autori di quella piccola grande impresa.

La favela ha un’unica strada asfaltata, vero e proprio cuore pulsante della piccola comunità.

È la via commerciale, dove barbieri, piccoli mercati, pescivendoli e farmacie cercano a fatica di sopravvivere. Una linea retta, con l’asfalto che sembra sbriciolarsi nelle giornate di sole. Qui, oltre ai mercati, si trovano le scuole e le varie chiese, pentecostali, evangeliche e, in fondo, quasi nascosta, anche quella cattolica.

Tutte le altre stradine o traverse sono in terra battuta e le fogne corrono a cielo aperto lungo i lati di tutte le strade, anche di quella asfaltata, rendendo l’aria pesante e l’igiene della comunità incerta.

Ruth è una giovane ragazza mamma di due bambini; il marito è in carcere per violenza e aggressioni e la donna cerca di sopravvivere come può. Foto di Gianluca Uda.

In questo luogo le stagioni sono due e gli abitanti del posto scherzano su questo: «Qui nel Parà o tutti i giorni piove o tutto il giorno piove». Queste sono le stagioni.

Già da marzo il nuovo coronavirus è entrato nel complesso suburbano, ma gli ultimi mesi sono stati quelli più complicati. Il sindaco di Belém, Zenaldo Coutinho, ha ordinato un lockdown preventivo, ma quasi nessuno della comunità di Che Guevara vi ha prestato molta attenzione. Il 25 maggio hanno iniziato a riaprire quasi tutte le attività commerciali, anche se, in realtà, la diffusione del virus non era in calo. I timori della classe politica locale si sono però rivolti verso l’economia: sembrerebbe che, per molti, la paura maggiore sia la crisi economica che, in verità, già ha manifestato i suoi effetti.

Molte persone, soprattutto quelle che vivono ai margini, hanno perso il lavoro; i beni di prima necessità, come il riso e i fagioli, stanno drasticamente aumentando di prezzo.

Per tutto questo, le fasce più vulnerabili hanno iniziato ad avere timore per il loro futuro.

Gli ospedali e i posti di salute vicino alla favela Che Guevara sono tutti al collasso. Molti medici non operano più perché sostengono di aver contratto il virus. Secondo gli abitanti della zona, invece, non vogliono rischiare di ammalarsi, soprattutto se devono salvare le vite di qualche favelado.

Durante le prime settimane di quarantena preventiva, era quasi impossibile trovare mascherine o alcol gel, la nostra Amuchina. In favela, molte donne cucivano le mascherine a mano, per poi rivenderle a buon prezzo, ma oggi le esigenze sono cambiate dato che il virus ha stravolto la vita quotidiana.

Con la chiusura delle scuole, molte donne si sono trovate costrette a rinunciare ai loro piccoli lavori per dedicarsi ai figli.

Un’anziana signora piange ripensando alla sua vita sempre molto difficile; la donna vive in una sola stanza. Foto di Gianluca Uda.

Storia di Luiziana

Molte famiglie della comunità sono state contagiate dal virus. Come nel caso della famiglia di Luiziana. Il marito della donna lavora per una ditta che distribuisce carne di bovino nei mercati e negozi del centro di Belém. L’uomo, quarantenne, ha iniziato a sentirsi male durante le prime settimane di maggio e poco dopo ha contagiato tutta la famiglia.

I figli adolescenti non hanno avuto grandi ripercussioni, mentre Luiziana e il marito non riuscivano nemmeno a respirare. La donna aveva tutti i sintomi del Covid-19, ma non le hanno fatto alcun tampone. Dopo aver eseguito una radiografia ai polmoni, e vedendo che le condizioni si stavano aggravando, il medico le ha prescritto una serie di antibiotici che fortunatamente hanno scongiurato il peggio.

Luiziane è stata una delle prime persone ad ammalarsi di Covid-19 nella favela Che Guevara, fortunatamente si è salvata; le sue radiografia ancora mostrano problemi a livello polmonare. Foto di Gianluca Uda.

Lei, come il marito, hanno contratto il coronavirus, ma non sono stati inseriti nei conteggi nazionali. Questo avviene molto spesso anche per le morti legate al Covid-19, perché, non venendo fatti gli esami di accertamento, esse vengono classificate come morti comuni o morti per insufficienza respiratoria. Attualmente (13 luglio) il Brasile ha superato i 72mila decessi, ma la realtà potrebbe essere molto più tragica.

Il marito di Luiziana, una volta attenuatisi i sintomi della malattia, non ha fatto nemmeno i quattordici giorni d’isolamento preventivo ed è rientrato subito a lavorare per non perdere l’unica entrata sicura di cui la famiglia può disporre. Il suo datore di lavoro gli ha detto di non preoccuparsi. Sicuramente anche tutti i suoi colleghi avevano contratto il virus e quindi era meglio per lui rientrare se non voleva perdere il posto. L’uomo, padre di due ragazzi, non ha avuto altra scelta.

Luiziana lavorava part time come donna delle pulizie in una scuola vicino alla favela, ma con la chiusura di quest’ultima è stata licenziata. Lavorando senza contratto purtroppo non ha nessun tipo di garanzia.

Lo stato brasiliano ha stabilito di elargire 600 reais emergenziali per famiglie o persone in difficoltà. Una somma certo insufficiente ma fortunatamente Luiziana è riuscita almeno a farsi assegnare questo sussidio.

Non avendo un’assicurazione sanitaria buona, lei e il marito hanno dovuto pagare quasi tutto di tasca propria: le medicine per lei, il marito e i figli e poi le radiografie. Il tutto è venuto a costare come la somma di due mesi di lavoro suoi e del marito. Ora sono fuori pericolo, ma Luiziana sente ancora nel suo corpo i postumi del virus e ha qualche problema a fare sforzi.

George è un ragazzo con una grave patologia neurologica, i genitori sono stati costretti a creare un sorta di gabbia intorno al letto del ragazzo per evitare che si faccia male durante la notte. Foto di Gianluca Uda.

Chiese e famiglie

Nella comunità di Che Guevara, le chiese evangeliche e pentecostali non hanno mai chiuso. Solo alcune di esse hanno rispettato il distanziamento sociale. La chiesa cattolica invece ha riaperto a inizio giugno, ma può ospitare solo il dieci per cento della capienza totale e ogni fedele deve presentarsi alle funzioni con la mascherina.

La favela non poteva fermarsi, le persone più vulnerabili come gli anziani o quelle con problemi fisici hanno rispettato l’isolamento, mentre tutti gli altri dovevano in qualche modo portare a casa il pane o il riso.

Oltretutto la maggior parte delle abitazioni sono dei veri e propri tuguri, dove le famiglie vivono ammassate in una o due stanze. Case fatiscenti fatte con foratini e cemento, sprovviste di intonaco. Nella comunità ogni abitazione ha le grate in ferro ancorate a porte e finestre. Se non prendono delle precauzioni, quel poco che uno ha, potrebbe sparire.

La vita nella favela è poi resa più complicata, violenta e pericolosa a causa della presenza di un gruppo di narcotrafficanti appartenenti al Commando Vermejo (organizzazione criminale nata nel 1979, ndr). Sono loro che gestiscono ogni cosa.

In queste situazioni estreme molti bambini si ritrovano a passare gran parte del loro tempo in strada, giocando con gli aquiloni o pescando nelle fogne che costeggiano le strade.

Molti bambini della comunità vivono con i nonni che, tuttavia,  spesso non riescono a stare dietro ai loro nipoti.

La maggioranza dei nuclei familiari è disgregata e questo si deve a varie cause, ad esempio l’uso o lo spaccio di droga. Tante volte gli uomini della comunità non si prendono le loro responsabilità e le donne sono costrette a caricare su di sé tutto il peso della propria famiglia.

Accade però che anche loro, le donne, a volte decidano di vivere con altri uomini che ripudiano i figli delle loro vecchie relazioni, e questo costringe i nonni a farsene carico. Vite che camminano al limite, sempre in bilico, ostaggi di una società che non ha uno spazio adeguato per loro. Musica e miseria s’intrecciano nel dedalo delle viuzze in terra battuta, dove ogni bambino cerca un suo modo personale per poter sopravvivere in un luogo così difficile come la favela.

Tre fratelli sono costretti a dormire nello stesso letto; la madre dei ragazzi è da sola ad occuparsi dei figli; le loro condizioni sono peggiorate con l’avvento del Covid-19. Foto di Gianluca Uda.

Storia di George

Forse però il disagio più grande lo vivono le persone con problemi di disabilità. Come nel caso di George, un ragazzo di diciassette anni con una patologia neurologica. Il giovane ha anche una forma di asma molto grave e i genitori hanno dovuto costringerlo a casa durante la quarantena per evitare ogni rischio di contagio.

George è uscito con i genitori una sola volta, per farsi il vaccino dell’influenza comune. Gli assistenti sanitari non lo hanno nemmeno fatto scendere dalla macchina, ma gli hanno somministrato il siero direttamente nella vettura.

Le circa trentamila vite che popolano la comunità Che Guevara, ogni giorno debbono affrontare una loro piccola lotta personale. Oggi, con l’emergenza legata al coronavirus, ogni minima situazione di disagio sembra essersi amplificata a dismisura.

Fortunatamente quella grande anima latina che occupa il cuore delle persone sembra non cedere allo sconforto. La forza della vita è un suono dolce e profumato che ancora resiste.

Gianluca Uda*

(*) Nato a Roma nel 1982, Gianluca Uda ha lavorato come cooperante in paesi in via di sviluppo tra cui la Bolivia, il Bangladesh, il Kenya, l’Ecuador. Attualmente lavora in Brasile. Ha appreso la fotografia grazie al padre Francesco. Usa il mezzo fotografico come strumento di denuncia sociale.

Due bambini davanti all’entrata della loro casa, il frigorifero alle loro spalle e stato trovato per strada e il padre dei ragazzi lo usa come un’armadio per i suoi attrezzi da lavoro. Foto di Gianluca Uda.




Brasile: Chico Mendes sfrattato

testi di Silvia Zaccaria e Paolo Moiola |


Nata nel 1994 per aiutare i figli dei caboclos del Rio Jauaperi, un affluente del Rio Negro, nell’Amazzonia brasiliana, la scuola di «Vivamazzonia» è stata costretta a chiudere a fine dicembre. Un’esperienza pedagogica e didattica di grande respiro ha dovuto cedere il passo al business e al momento storico.

Il dibattito sul futuro dell’Amazzonia e dei suoi popoli è recentemente tornato di drammatica attualità: deforestazione incontrollata, disconoscimento dei diritti costituzionali delle minoranze e un nuovo nemico sconosciuto e invisibile (il coronavirus) che penetra anche nei villaggi più remoti, rappresentano una minaccia non solo per i popoli indigeni ma anche per quelle popolazioni tradizionali – seringueiros, quilombolas e ribeirinhos (si veda glossario, ndr) – che da secoli dipendono dalla foresta per la propria sopravvivenza fisica e culturale.

La relazione privilegiata che intrattengono con essa ha permesso a questi gruppi umani di acquisire conoscenze sconfinate su animali e piante, comprese quelle medicinali, sul ritmo delle acque dei fiumi e sul regime delle piogge.

Senza un’educazione, incentrata sulla valorizzazione di questi saperi e sull’accesso alla cittadinanza, alle nuove generazioni nate e cresciute nella foresta – dove ormai vive appena il 26% della popolazione amazzonica – non resta che emigrare verso le città, nelle quali, persi i propri riferimenti socio spaziali, rischiano di diventare facili prede dei circuiti illegali.

Per provare ad arginare questo fenomeno apparentemente inarrestabile, una coppia di volontari venuti da lontano ha portato avanti per oltre vent’anni (1994-2020) un progetto educativo visionario nel cuore della foresta. Che ora è stato bruscamente interrotto.

Piccoli di tartaruga per una lezione di ecologia quotidiana degli alunni «caboclos» della scuola di Vivamazzonia. Foto di Sitah.

La scuola di Bianca e Paul

Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, l’Amazzonia inizia ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica e della comunità internazionale a causa del profondo disboscamento che già interessa ampie zone della foresta. Il leader indigeno Raoni Kayapò sta facendo conoscere al mondo il dramma del suo popolo e Chico Mendes, seringueiro e sindacalista, viene assassinato (22 dicembre 1988).

Dopo un primo viaggio al confine tra gli stati di Amazonas e Roraima, nel Nord del Brasile, una giovane toscana, Bianca Bencivenni e Paul Clark, scozzese, decidono di trasferirsi in un’area ancora poco esplorata del rio Jauaperi, un affluente del rio Negro, abitata solo dagli indigeni Waimiri-Atroari e dai caboclos, un misto di indigeni e persone immigrate dal Nord Est del paese, che vive in un isolamento geografico e culturale lungo i fiumi e gli igarapés (corsi d’acqua navigabili in canoa), da cui anche l’appellativo ribeirinhos.

Dopo qualche tempo, gli abitanti del posto chiedono a Bianca e Paul di insegnare a leggere e a scrivere ai loro figli, perché l’unica scuola pubblica esistente nella zona è quasi sempre chiusa visto che i professori, non venendo pagati, non si presentano per mesi.

Così, nel 1994 viene aperta una nuova scuola sul fiume: una maloca senza pareti, sul modello di quella dei vicini indigeni, dove realizzare un’educazione compenetrata con il contesto in cui, allo studio delle materie curricolari, si alternano uscite all’esterno, per fare esperienza diretta del mondo circostante, carico di significati.

Il libro e l’Italia

A seguito dei viaggi della coppia in Italia, dove fanno conoscere l’iniziativa soprattutto nelle scuole, alcune di esse avviano degli intensi scambi epistolari con la scuola nella foresta. Dai disegni colorati e dalle parole piene di poesia degli alunni del primo ciclo nasce      O livro da selva, libro bilingue italiano-portoghese.

Nel 1998 Paul e Bianca fondano, poco più a Sud, la scuola Vivamazzonia, dal nome dell’associazione omonima cui hanno dato vita con un gruppo di amici italiani.

La prima generazione di ragazze e ragazzi alfabetizzati spinge gli adulti della comunità ad imparare a leggere e a scrivere, per uscire dalla condizione di svantaggio che li rende facile preda di coloro che da sempre approfittano di una popolazione analfabeta e sottomessa.

La scuola avvia anche progetti di preservazione della natura e di sensibilizzazione contro la pesca predatoria e il bracconaggio di alcune specie di tartarughe a rischio di estinzione. Progetti che coinvolgono gli alunni in un’esperienza unica di educazione e attivismo ambientale.

Queste attività generano l’ostilità di una parte della popolazione. Bianca e Paul subiscono minacce e intimidazioni anche da parte del governo locale che non esita a mandare un contingente militare nella zona.

La «riserva estrattiva»

La copertina del libro bilingue sulla foresta amazzonica disegnato dagli alunni della scuola Vivamazzonia. Foto Paolo Moiola.

Sul fiume manca qualsiasi realtà organizzata che rappresenti le istanze degli abitanti e si opponga alle attività illecite portate avanti da una parte di questi.

A partire dal lavoro con i bambini, Paul e Bianca stimolano i genitori a costituirsi in associazione per generare una fonte di reddito alternativa e sostenibile a partire dal riscatto di antiche tecniche artigianali e, allo stesso tempo, agire assieme ai figli in difesa del proprio ambiente di vita.

Nasce l’Associazione degli artigiani del Rio Jauaperi (Aarj). Questa si impegna da subito per raggiungere un accordo intercomunitario che proibisca la pesca commerciale (la legge relativa è in vigore ancora oggi) e sostiene la creazione di una «riserva estrattiva» sul fiume.

Riconosciuta nel giugno 2018, dopo anni di lotte, la «Reserva extrativista baixo rio Branco-Jauaperi» è una delle 89 aree protette esistenti oggi in tutto il Brasile. Nelle riserve le risorse sono utilizzate solamente dalle popolazioni locali che da esse traggono il proprio sostentamento e di cui Chico Mendes fu strenuo sostenitore.

Nel gennaio 2020, dopo oltre vent’anni di attività, in gran parte prestata a titolo volontario, Bianca e Paul sospendono le lezioni per una scelta politica dell’amministrazione di Novo Airão, il municipio di appartenenza. E questo, malgrado il riconoscimento di tante madri, padri e dei loro figli, oltre che di personalità della cultura e dello spettacolo, tra cui il musicista e attivista per i diritti indigeni Milton Nascimento che aveva recentemente fatto visita alla scuola Vivamazzonia.

Caboclos di ieri e di oggi

Pescatori, piccoli agricoltori, artigiani, raccoglitori dei prodotti della foresta (extrativistas), levatrici tradizionali (parteiras) e guaritori: questi erano i caboclos quando li ho conosciuti al principio degli anni ’90.

Oggi alcuni partecipano a progetti di ecoturismo come guardie ecologiche e, di quella prima generazione di bambini alfabetizzati, alcuni sono diventati professori. Oggi hanno una legge che – teoricamente – tutela la lora terra e, con essa, la loro cultura.

Politiche contrarie alla protezione ambientale e ai popoli indigeni e tradizionali come quella dell’attuale governo brasiliano – che trova seguaci persino negli angoli più sperduti del paese tra coloro che si accaparrano voti approfittando dell’abitudine atavica dei più deboli di rinunciare ai propri diritti in cambio di qualche sacco di riso e pacco di zucchero – ostacolano la maturazione di una vera consapevolezza ecologica e di una coscienza politica anche alle latitudini amazzoniche.

Neanche il duro lavoro di persone come Paul e Bianca può determinare, da solo, quel cambiamento culturale dal basso necessario a contrastare la distruzione e l’abbandono della foresta e la perdurante situazione di esclusione socio-economica dei suoi abitanti.

Tra i caboclos, i rezadores e i pajé (sciamani), capaci di guarire e riparare i mali, sono praticamente scomparsi; il boto cor de rosa (un delfino di fiume, ritenuto in grado di trasformarsi in essere umano) è quasi estinto, mentre il mapinguari, il curupira e altri esseri fantastici non popolano più la foresta, né l’immaginario di piccoli e grandi.

Quando le risorse naturali saranno consumate definitivamente in nome dello «sviluppo», i caboclos di oggi si ritroveranno, come la generazione precedente, a vagare nelle metropoli amazzoniche, dimentichi della propria cultura e delle proprie radici, ma questa volta non sarà più possibile tornare indietro.

Silvia Zaccaria

Alunni caboclos della scuola Vivamazzonia. Foto di Sitah.


Il Brasile e la presidenza Bolsonaro

Senza freni, senza vergogna

All’alleanza tra Bolsonaro, militari, allevatori ed evangelici ora si è aggiunto anche il nuovo coronavirus. Un mix micidiale che sta devastando l’ambiente e mettendo a rischio la vita dei brasiliani e la stessa sopravvivenza dei popoli indigeni.

Uno Yanomami con mascherina protettiva durante una riunione a Boa Vista. Foto: Carlo Zacquini.

Difficile dire cosa stia procurando più danno ai popoli indigeni e all’Amazzonia: se le politiche poste in essere dal governo di Jair Messias Bolsonaro o il nuovo coronavirus. Di certo, la pandemia ha trovato maggiori possibilità di diffondersi e di uccidere a causa delle politiche governative. Nel corso di questo 2020, Bolsonaro, il Trump brasiliano – come viene giustamente soprannominato -, non ha modificato di un millimetro le proprie posizioni anti-indigene e anti-ambientaliste, forte dell’appoggio dei militari, degli allevatori e degli evangelici, tutti ben rappresentati nella compagine governativa.

Fin dall’inizio Bolsonaro ha ripetuto che con lui non ci sarebbero state altre demarcazioni di terre indigene. Il presidente non si è però limitato a bloccare questo processo, peraltro previsto dall’articolo 231 della Costituzione brasiliana del 1988. Ha addirittura iniziato un’operazione contraria sottraendo terre ai popoli indigeni. In qualsiasi modo. Sia non frenando le invasioni (come quelle dei garimpeiros nella terra degli Yanomami) che cercando di legalizzarle attraverso il riconoscimento formale delle terre invase e, di conseguenza, della pratica fraudolenta nota come «grilagem de terras» (falsificazione della proprietà fondiaria). Invasioni che, in questo periodo, hanno tra l’altro favorito la diffusione del nuovo coronavirus tra popolazioni più vulnerabili – lo certificano sia la scienza che la storia – ad alcune patologie rispetto ai Bianchi (si parla di «virgin soil epidemics»).

Cancellare la foresta e i popoli indigeni

La deriva di Bolsonaro coinvolge anche i suoi ministri. Abraham Weintraub, ministro dell’istruzione, ha dichiarato: «Odio il termine “popoli indigeni”» (22 aprile). Per parte sua, Ricardo Sales, ministro dell’ambiente, ha spiegato che è necessario approfittare della pandemia e della conseguente disattenzione dei mezzi d’informazione per cambiare le regole ambientali in senso meno restrittivo. Non si è fatto attendere il plauso delle potenti organizzazioni dell’agrobusiness.

La deriva è così sfacciata che un quotidiano conservatore e moderato come la Folha de S.Paulo è arrivato a scrivere, in un proprio editoriale (del 24 maggio), che «Per il governo di Bolsonaro, una buona foresta è una foresta morta» (Para o governo Bolsonaro, floresta boa é floresta morta). I dati confermano drammaticamente questa affermazione. Per esempio, lo scorso mese di aprile l’Amazzonia brasiliana ha perso 405,61 chilometri quadrati di foresta, segnando un incremento del 64% rispetto allo stesso mese dell’anno passato (dati ufficiali Inpe-sistema Deter). Stessa devastazione stanno subendo la Mata Atlantica e il Cerrado, gli altri due biomi brasiliani.

Chi si discosta dalla linea del presidente viene prontamente sostituito: è successo con il ministro della giustizia, Sérgio Moro (il controverso giudice che ha fatto condannare l’ex presidente Lula), e con ben due ministri della salute, entrambi medici, Luiz Mandetta e Nelson Teich. In piena pandemia il dicastero della salute è stato affidato a Eduardo Pazuello, un generale dell’esercito.

La religione come strumento

È più difficile che ci siano problemi con la ministra per la famiglia, la donna e i diritti umani, Damares Alves, pastora evangelica. Uno degli slogan preferiti di Bolsonaro è infatti «Brasil acima de tudo, Deus acima de todos» (il Brasile sopra tutto, Dio sopra tutti). In un tweet il presidente – come Trump, anche lui ha un utilizzo compulsivo di questo strumento di comunicazione – scrive: «Sono presidente perché la maggior parte delle persone si è fidata di me, così come sono vivo perché Dio lo ha permesso» (26 maggio).

Marcelo Augusto Xavier da Silva, nuovo Presidente della Funai / Foto Mario Vilela – FUNAI.

Da sempre Bolsonaro usa la religione in modo strumentale per legare (come peraltro suggerisce l’etimologia del termine: «religare», legare, appunto) a sé una parte della popolazione brasiliana, in particolare quella che segue le cosiddette Chiese neo-evangeliche, avamposto ideologico dell’individualismo e del capitalismo neoliberista.

In quest’ottica, una delle decisioni più spudorate riguarda la nomina di Ricardo Lopes Dias, già missionario nella regione Vale do Javari per conto della organizzazione evangelica Missão Novas Tribos do Brasil (Mntb, all’estero ribattezzata Ethnos 360), a coordinatore per i popoli isolati della Funai, l’organo federale deputato alla difesa dei diritti dei popoli indigeni. Mntb è conosciuta per il suo fondamentalismo e la mancanza di rispetto per le culture indigene. Per fortuna, al momento, la nomina di Dias è stata bloccata da un Tribunale federale perché metterebbe a rischio la politica di non contatto con i popoli in isolamento.

Un piccolo contrattempo in un processo di subordinazione in fase molto avanzata. La Funai, infatti, è già nelle mani di evangelici e latifondisti. Il ministro della giustizia da cui essa dipende è un pastore evangelico (André Mendonça, che dunque porta a due i pastori nel governo Bolsonaro), mentre il suo presidente è un membro della polizia contiguo ai latifondisti e in passato accusatore della stessa Funai (Marcelo Augusto Xavier da Silva).

Il coraggio del Cimi

In tutto questo, va dato merito a quasi tutta la Chiesa cattolica di aver seguito una linea opposta, contrastando in maniera chiara e coraggiosa tutte le politiche anti-indigene e anti-ambientaliste del presidente. In particolare, attraverso il Cimi (Consiglio indigenista missionario) e la Repam (Rete ecclesiale panamazzonica), convinti seguaci della linea segnata da papa Francesco con la Laudato si’ e il Sinodo panamazzonico.

Bolsonaro non considera l’Amazzonia un patrimonio comune dell’umanità. Lo ha detto chiaramente davanti all’assemblea delle Nazioni Unite (a settembre 2019, dopo mesi di incendi forestali estesissimi e devastanti) e lo ha ribadito lo scorso febbraio a papa Francesco il quale, in occasione della presentazione dell’esortazione apostolica «Querida Amazonia», si era azzardato a dire che essa «è anche “nostra”».

La morte è il destino di tutti

Fin dall’inizio il presidente brasiliano è stato un leader negazionista (dell’emergenza climatica e del problema amazzonico). Non poteva che mantenere questo suo atteggiamento anche davanti alla pandemia, prima definita una gripezinha (lieve influenza) poi contrastata con la clorochina (come Trump). In un crescendo di dichiarazioni stupefacenti: il 2 giugno Bolsonaro risponde a una sostenitrice che morire «è il destino di tutti»; il 5 attacca (identicamente a Trump) l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e ordina di divulgare il bollettino sulla pandemia soltanto nella notte perché così la Globo (la principale emittente del paese) smetterà di essere soltanto una «Tv funerária».

Peccato che il Brasile evidenzi numeri drammatici con oltre 800mila contagiati e più di 40mila morti (dati aggiornati al 11 giugno, anche se il sito ufficiale del Sus è semi oscurato per ordine del presidente). Tra i suoi popoli indigeni si contano 236 morti, 2.390 contagiati e 93 popoli coinvolti (Apib-Sesai, 6 giugno). Numeri che non debbono trarre in inganno facendo sottovalutare la pericolosità della situazione. Oltre alla maggiore vulnerabilità (tra gli indigeni il tasso di letalità arriva al 10%), non dimentichiamo che le aree indigene non sono attrezzate per affrontare emergenze sanitarie di alcun tipo, figuriamoci se lo sono per il nuovo coronavirus.

Via Bolsonaro (e Trump)

La speranza di molti (e nostra) è che, assieme al virus, se ne vada quanto prima anche il presidente Bolsonaro (ci sono molte richieste d’incriminazione nei suoi confronti) e, a novembre (in occasione delle elezioni), anche Donald Trump, il suo collega e sodale nordamericano.

Paolo Moiola

Tra terra e cielo, uno scorcio del fiume Jauaperi e della foresta amazzonica. Foto di Joao Couto.


Glossario

  • Caboclo: discendente da popolazioni indigene e popolazioni immigrate dal Nord Est del paese. Il rapporto dei caboclos con i popoli indigeni è stato sempre conflittuale. Fino a poco tempo fa, i caboclos non si consideravano di sangue indigeno e spesso negavano di avere una pur lontana ascendenza indigena. Vista l’accezione dispregiativa del termine «caboclo», usato dalla società dominante per descrivere una persona socialmente inferiore, che abita nelle zone più interne o nelle periferie urbane dell’Amazzonia, i caboclos hanno iniziato recentemente a rivendicare la propria «indianità».
  • Extrativistas: coloro la cui sussistenza dipende dalle risorse dell’ambiente in cui vivono. Gli extrativistas che abitano l’ambiente amazzonico possono essere: seringueiros se estraggono il caucciù dall’albero della seringa; castanheiros se raccolgono la noce del Brasile; quebradeiras se donne «che spaccano» il cocco della palma babaçu.
  • Igarapé: piccolo corso d’acqua percorribile con la igara (canoa).
  • Pajé: sciamano, il leader spirituale riconosciuto dalla comunità. Mantiene il contatto con gli spiriti. Svolge anche rituali di cura individuali.
  • Quilombolas: discendenti di schiavi fuggiti che, nella foresta, diedero vita a comunità autonome chiamate quilombos.
  • Rezador: persona che cura attraverso le preghiere e che conosce le piante medicinali. Si trova anche in contesti rurali e sincretici.
  • Ribeirinho: è il caboclo abitante lungo le sponde di fiumi, laghi e igarapés amazzonici, che vive di pesca, agricoltura e attività estrattive.
  • Si.Za.

Bianca e Paul, anima del progetto pedagogico Vivamazzonia, con materiale didattico di propria produzione. Foto di Sitah.

Meriti

Lo scorso febbraio la presidenza della Repubblica italiana ha conferito un’onorificenza a una nostra connazionale operante in Amazzonia a cui è stato attribuito il merito per «la prima generazione di bambini non analfabeti, il contrasto all’esodo urbano e alla povertà» sul fiume Jauaperi.

Un obiettivo che Paul e Bianca hanno perseguito proprio in quello stesso angolo di mondo, per oltre venticinque anni con un lavoro instancabile, portato avanti in solitudine e lontano dai riflettori. Un impegno che, purtroppo, non ha ottenuto il riconoscimento che meritava.

Si.Za.

 

 

 




Argentina: Amplificare la voce indigena

testo di José (Giuseppe) Auletta |


Anche in Argentina i missionari della Consolata hanno scelto di operare tra i popoli indigeni. Padre José (Giuseppe) Auletta, oggi tra i Huarpe della provincia di Mendoza, racconta i motivi di questa scelta partendo dalla propria esperienza personale.

La presenza dei missionari della Consolata in Argentina risale al 1946. Gli inizi ci situarono fra Buenos Aires e Rosario. Dopo pochi anni, ci fu la richiesta del vescovo di Resistencia (Chaco), mons. Nicola De Carlo (1940-1951), di dedicarci all’evangelizzazione degli indigeni Tobas, presenti sia nella provincia del Chaco che in quella di Formosa, al Nord Est dell’Argentina. Il servizio in quell’ampia zona andò avanti per un po’ di anni e poi si orientò più che altro a sopperire alla mancanza di clero nella Chiesa locale.

Ad ogni modo, il fatto che si richiedesse a noi missionari, proprio agli inizi della nostra presenza nel paese, e appellandosi allo specifico carisma «ad gentes», di dedicarci ai popoli indigeni, non è un segno da trascurare.

La scelta indigena appare anche negli atti delle Conferenze del nostro istituto. Nell’ultima, si è anche deciso la creazione della vicaria dei popoli indigeni a Yuto (provincia di Juijuy), dove c’è una popolazione guaranì numericamente e culturalmente significativa e dove già presta servizio un nostro confratello, padre Thomas Ishengoma.

La scoperta della realtÀ «Multi»

Donna Rosita Jofré della Comunità huarpe di Asunción. Foto José Auletta.

Per quanto riguarda la mia esperienza personale, capii la chiamata all’accompagnamento dei popoli indigeni quando fui destinato, alla fine del 1983, a Machagai (Chaco). Fu lì che ebbe inizio uno dei momenti forti della mia vita missionaria. Appena presi in carico la parrocchia, mi resi conto che la realtà era «multi»: multietnica e multiculturale, con i criollos/contadini, gli indigeni e gli immigrati europei.

Insieme alle suore della Consolata decidemmo di andare a fare le prime visite alla Colonia aborigen Chaco, che dista dalla parrocchia 20 chilometri. Così, almeno una volta al mese, stabilimmo un primo approccio alla realtà indigena dei Tobas, o Qom, come si chiamano nella loro lingua.

Finito il mio periodo di parroco, la grazia di Dio, con il permesso del superiore, consentì che andassi a vivere dieci anni con loro, inserito nella loro stessa realtà, condividendo la lotta per la terra, da loro iniziata novant’anni prima e coronata, in seguito, con l’aggiudicazione del titolo di terra comunitaria nell’anno 1996. Condivisi, inoltre, diversi progetti che migliorarono le condizioni di vita (strade, centri comunitari, acqua, case, ecc.): tutto portato avanti grazie al tradizionale spirito comunitario indigeno, in un graduale apprendistato da parte mia. Ricordo che quando iniziammo il primo progetto – una strada interna che avrebbe facilitato l’accesso alla scuola, ai posti di assistenza sanitaria e la comunicazione con il centro urbano – nella riunione comunitaria in cui si organizzava il lavoro, misi a disposizione l’aiuto di benefattori per una paga giornaliera di 10 pesos. Alzò la mano un membro della comunità e disse: «Padresito: la ringraziamo, però accettiamo la metà. Il resto è il nostro contributo per qualcosa che si trasformerà in un bene per noi».

Fu lì che appresi come accompagnarli, lasciando da parte assistenzialismo e paternalismo e dando spazio a un reciproco coinvolgimento.

Con lo spirito di Endepa

Sin dai primi anni nel Chaco cominciai a essere in contatto con Endepa (Équipe nazionale di pastorale aborigena).

Endepa mi ha aiutato a essere sempre più concreto e chiaro in questo impegno: prima insegnandomi – con incontri e formazioni – i criteri di accompagnamento, poi assegnandomi alcune responsabilità nella sua struttura organizzativa.

Vissi così una prima tappa, nel Chaco, di 17 anni, a cui fece seguito una seconda di 13, passando dal Nord Est al Nord Ovest, nella diocesi di Orán (provincia di Salta), dove ebbi a che fare con una pluralità etnica molto più varia: Tupí Guaraní, Kolla, Wichi, Tapiete, Chorote e altri.

Come avevo fatto nel Chaco, dovetti seguire problemi di conflitti per la terra, nei quali m’impegnai con tutte le mie forze. L’essere in contatto con quella realtà fu per me sorgente di una grande forza. Vedevo negli indigeni non solo la sofferenza e la fatica di andare avanti per colpa della violenza dei latifondisti e delle multinazionali, ma anche la fiducia che, alla fine, la giustizia avrebbe avuto l’ultima parola.

Questa testimonianza di resistenza indigena fu per me un gran regalo, rafforzando sempre più la convinzione che i popoli indigeni in Argentina sono l’espressione concreta del nostro «ad gentes». Dedicarci a loro ha a che vedere con il nostro carisma. Scoprire e inserirmi in questa realtà mi ha fatto sentire in sintonia con quel carisma.

Donna Rosalba Luxero della Comunità El Puerto, mentre lavora al telaio, importante attività artigianale degli Huarpe. Foto José Auletta.

«Qui non ci sono indigeni»

È stata, ed è, una gioia e una soddisfazione lavorare con lo spirito di Endepa, partecipando al suo impegno con i popoli indigeni e con la Chiesa locale, anche se – proprio a livello di Chiesa e di società – si fa fatica a superare l’idea che, in Argentina, «non ci siano indigeni».

Invece, i popoli indigeni sono una realtà evidente, soprattutto se consideriamo il momento forte dell’auto-riconoscimento della propria identità, in occasione della riforma della Carta costituzionale.

La prima Costituzione risaliva al 1853. Nel 1994, quando fu fatta la riforma, a cui anch’io partecipai, vedevamo i rappresentanti dei popoli indigeni che si aggiravano negli spazi dell’Assemblea costituente rendendo evidente la loro presenza, dal primo all’ultimo giorno. Li chiamavano i «Costituenti di corridoio». Sempre in contatto con un costituente o un altro, per dire loro con tutta chiarezza: «Noi siamo qui, esistiamo e abbiamo diritti!».

Che cosa successe con questa riforma? Dopo tante discussioni, venne approvato l’articolo 75 comma 17, che finalmente riconobbe la preesistenza etnica e culturale dei popoli indigeni, il diritto alla terra, il diritto all’educazione bilingue e interculturale, il diritto a essere consultati su questioni che li riguardano, soprattutto circa l’uso delle risorse (beni) e del territorio. Entrare nella Costituzione rappresentava il riconoscimento dell’Argentina come paese plurietnico e plurinazionale.

In tutto questo cammino Endepa è stata presente. Attualmente faccio parte del Coordinamento nazionale che è composto da una coordinatrice presidente e due coordinatori per le tre regioni (Sud, Nord Ovest e Nord Est). Io rappresento la regione Nord Ovest, insieme con un’altra persona.

Questa appartenenza permette di sentirmi ed essere considerato semplicemente un fratello, nella condivisione del cammino delle comunità originarie, celebrando la fratellanza, che per me è la migliore definizione di missione.

Condividere il cammino con i popoli originari

Asunción, padre Auletta si toglie le scarpe in segno di rispetto per la terra indigena degli Huarpe. Foto: archivio Auletta.

Il cammino condiviso con i popoli indigeni è un vero apprendistato in cui l’agente pastorale – laico, religioso, missionario – accede a una profonda e collettiva esperienza dello Spirito che in tutto esercita il primato, che vive ed è presente in ogni forma del Creato. Questo atteggiamento contemplativo e vitale offre alla Chiesa e all’umanità una profetica purificazione di fronte al secolarismo imperante e alla perdita dei valori spirituali e del senso della vita.

Inoltre, la sfida dell’inculturazione obbliga oggi più che mai a valorizzare l’esperienza religiosa dei popoli originari che credono che il Dio di Gesù Cristo sia stato presente e abbia operato da sempre nelle loro culture e successivamente fu loro annunciato nel Vangelo. Di questo Gesù di Nazareth fa gioiosa esperienza il missionario nel suo quotidiano camminare con i popoli. Si arriva così alla convinzione, secondo la quale, l’esperienza religiosa dei popoli indigeni è valida ed è stata suscitata dallo Spirito. Perciò deve muovere al dialogo interreligioso con coloro che si mantengono fedeli alla cosmovisione e alle esperienze religiose dei predecessori, superando i diversi etnocentrismi.

 

Compagni di cammino

Asunción, padre Auletta si toglie le scarpe in segno di rispetto per la terra indigena degli Huarpe. Foto: archivio Auletta.

È importante superare la paura della scomodità che possono dare gli indigeni all’interno della Chiesa, dovendo cambiare certi schemi. Trent’anni fa la Chiesa era chiamata a essere la «voce dei senza voce». Oggi i popoli indigeni hanno voce propria e la Chiesa deve soltanto amplificarla.

«Non è più ammissibile continuare a vedere gli indigeni come oggetti di studio o solamente come vittime e oggetto di benevolenza, ma come compagni di cammino, come soggetti protagonisti della nostra storia, del nostro sviluppo ed evangelizzazione» (Petul Cut Chab Huistán, teologo indigeno del Chiapas).

Come ebbe a dire papa Francesco a Puerto Maldonado (Perú): «Più che parlare di “minoranze etniche”, bisogna parlare di “rappresentanti autorevoli” della loro realtà e identità di popoli». «Gentes», appunto, e non minoranze.

Riprendendo il «vissuto» della missione come fratellanza, mi preme mettere in risalto che questa ha come basi fondamentali due elementi: la presenza dei «semi del Verbo» in ogni popolo e cultura e il paradigma dell’interculturalità.

 

Un rapporto tra eguali

I «semi del Verbo» sostengono la saggezza, le varie espressioni di spiritualità e perfino una vera e propria teologia indigena.

Il paradigma dell’interculturalità ci permette di stabilire un rapporto da uguali fra culture, lasciando da parte ogni pretesa di superiorità che, per troppo tempo, abbiamo manifestato nel nostro modo di fare missione.

Diventa, per noi missionari ad gentes, essenziale scuoterci dal torpore e prendere coscienza della necessità di formarci al riguardo sin dai primi anni, in vista del presente e del futuro di quanti scelgono la missione.

L’Argentina fa parte di un continente con una ricchissima varietà di popoli indigeni. Finalmente riconosciuti, essi non sono solo il passato, ma il presente per qualsiasi società. Come anche per il carisma dei missionari della Consolata, arricchito dal «cosmo vissuto» di questi popoli.

José (Giuseppe) Auletta*

(*) Oggi padre Auletta lavora nella provincia di Mendoza, occupandosi, su delega del vescovo mons. Marcello Colombo, del territorio denominato «Secano Lavallino» abitato da 11 comunità indigene appartenenti al popolo huarpe. Le comunità sono sparse su una superficie di 700mila ettari (7mila chilometri quadrati). Ne parleremo in maniera approfondita in un prossimo articolo.


Il coronavirus in Argentina

Tanta uva, poca solidarietà

Anche in Argentina è arrivato il virus della Covid-19. Nell’attualità sembra che i casi siano relativamente pochi, sia di malati che di morti (27.373 positivi, 765 deceduti, all’11 giugno). Tuttavia, dare cifre di contagiati, quantità di tamponi, ricoverati con diversa gravità e deceduti, è molto relativo, se non azzardato, soprattutto con riferimento a quanto succede nelle grandi città (Buenos Aires, Rosario, Córdoba, Santa Fe, Mendoza) o in provincie dell’interno, ognuna con situazioni diverse.

La maggior parte dei casi complicati si registra nella capitale e nella Gran Buenos Aires e in fase di lento però costante aumento, soprattutto negli insediamenti tipo «villas miserias».

La situazione potrebbe aggravarsi in prossimità della stagione fredda di metà autunno e successivamente della prima parte dell’inverno.

Il governo nazionale, in accordo con le provincie, ha adottato misure restrittive abbastanza rigide (un lockdown dal 19 marzo fino al 7 giugno), ma c’è parecchia incertezza circa la decisione di un allentamento delle stesse e l’inizio delle fasi che permetterebbero l’apertura graduale delle varie attività sia istituzionali (istruzione, giustizia ecc.) che private (produzione, commercio, sport ecc.).

Ci sono state eccezioni, nel contesto generale dell’isolamento sociale, che hanno permesso lo svolgimento di alcune attività produttive. Tra queste, nella provincia di Mendoza, è stata autorizzata la vendemmia, iniziata alla fine di dicembre e conclusa a fine aprile. Quella della vendemmia è un’attività che attrae molta mano d’opera proveniente dalle provincie del Nord Ovest (Salta e Jujuy) e anche da alcune più lontane come Formosa, del Nord Est del paese. Molti operai appartengono a comunità indigene.

Quest’anno si è verificata una situazione molto complicata, per quanto riguarda il ritorno a casa di quanti erano stati impegnati nella raccolta non solo dell’uva ma anche delle olive e delle mele cotogne, che è coincisa con le misure di restrizione che non consentivano il viaggio di ritorno al luogo di provenienza: un doloroso panorama di centinaia di lavoratori e lavoratrici migranti rurali, bloccati nei terminal dei bus. È stato un vero dramma umano che ha evidenziato l’assembramento di intere famiglie, in condizioni sanitarie d’emergenza in mezzo alla pandemia della Covid-19, nell’incerta e lunga attesa che le imprese di pullman ricevessero l’autorizzazione per il viaggio di ritorno, pur avendo già riscosso i soldi del biglietto. Le autorità governative provinciali hanno brillato per la loro assenza, nonostante il permesso ottenuto per realizzare la vendemmia che senz’altro ha favorito le grandi imprese vitivinicole. L’inumana situazione creatasi potrebbe essere definita «la vendemmia dello scarto».

Le varie équipe di pastorale aborigena, così come la pastorale dei migranti e altre organizzazioni solidali hanno cercato di collaborare per alleviare tanta sofferenza, sia in occasione del ritorno come dell’arrivo delle persone alle proprie comunità d’appartenza.

José (Giuseppe) Auletta


Imc in Argentina

La presenza dei missionari della Consolata (Imc) in Argentina ha visto notevoli cambiamenti nel corso degli oltre settant’anni di presenza:

  • il numero delle comunità Imc del Nord è stato importante fino al Duemila (Bartolomé de las Casas, El Colorado, Pirané, Palo Santo – diocesi di Formosa – nell’omonima provincia; Machagai e Colonia Aborigen Chaco – diocesi di San Roque – nella provincia del Chaco), per poi ridursi progressivamente, fino a spostarsi in seguito dal Nord Est al Nord Ovest;
  • qui attualmente operiamo in quattro centri (Tartagal – diocesi di Orán – nella provincia di Salta; Yuto, Alto Comedero e Seminario filosofico nella città di San Salvador di Jujuy – diocesi di Jujuy – nell’omonima provincia);
  • nel resto del paese, dopo aver lasciato Rosario (provincia di Santa Fe) e San Francisco (Córdoba) dove però conserviamo il collegio, le altre presenze Imc sono: Las Heras (Mendoza), con parrocchia e Comunità apostolica formativa (Caf), Merlo (parrocchia e quasi parrocchia) e Martín Coronado – ex noviziato (provincia di Buenos Aires); Casa regionale (Buenos Aires, capitale).

Jo.Au.

L’interculturalità

  • È un modo di intendere e orientare il nostro comportamento sociale. Quando ci decidiamo a cercarla, la incontriamo nella capacità di ascoltare l’altro, sapendo che questo scambio favorisce crescita e arricchimento reciproci.
  • L’interculturalità non pretende di fare di due uno, ma di rispettare ogni parte del tutto. Un rispetto che comprende ogni cultura, ogni forma di espressione, ogni sviluppo, ogni valore sociale e giuridico, ogni voce, ogni popolo.
  • L’interculturalità ha bisogno di una interazione pacifica e di un contesto di uguaglianza. Probabilmente, parte dell’umanità fa ancora fatica a capire che non esiste un pensiero unico, una sola cultura, una sola storia o un’unica espressione della verità.
    Nel caso dell’Argentina, questo sforzo di comprensione fu fatto, in termini istituzionali, grazie alla riforma della Costituzione nazionale dell’anno 1994, una tappa fondamentale per i popoli indigeni. Anche se fra la parola scritta e la realtà rimane una grande distanza.
  • L’interculturalità esprime la possibilità di un nuovo paradigma, più giusto, più equo e, perciò, più umano.

Jo.Au.

 




Consolata mission centre: Si aprono i cancelli

testo di Francesco Bernardi |


Dal 2008 il Consolata mission centre è luogo di formazione, incontro, scambio, crescita. Giovani, vescovi, protestanti, musulmani, personalità, attivisti dei diritti umani, bambini sieropositivi all’Hiv: ciascuno trova lì uno spazio per proseguire la sua strada con maggiore consapevolezza e verità.

Sul pavimento spicca a caratteri cubitali e istoriati la data «2008». È l’anno in cui fu inaugurata la chiesa del «Consolata mission centre».

È l’anno in cui il centro aprì i suoi battenti: la porta con bassorilievi della chiesa e quella del salone conferenze; le porte ariose della sala da pranzo e della cucina; quelle della casa dei missionari e delle camere per gli ospiti.

Al Consolata mission centre possono dormire comodamente cento persone; in 250 possono sedersi attorno alla tradizionale polenta e ad altre saporite vivande; in 300 possono partecipare, nel maestoso salone, a dibattiti e conferenze con oratori che intrattengono l’uditorio con scritti, filmati e power point.

Inoltre ci sono sale, salette e quattro gazebo per discussioni di gruppo. E alberi, aiuole, fiori. Maree di fiori estasianti.

Benvenuti nel Consolata mission centre. Siete a Bunju, 35 chilometri a Nord di Dar es Salaam («porto della pace»), la metropoli del Tanzania, ricca di circa sei milioni di persone.

Se procedete ancora verso Nord per altri 35 chilometri, ecco Bagamoyo, ex porto degli schiavi, razziati dall’intero paese. «Bagamoyo» significa «lascia il tuo cuore», proprio in riferimento agli schiavi deportati.

Nel 2008, quando il Consolata mission centre spalancò cancelli, porte e finestre, la prima impressione del visitatore poteva essere: «È un enorme apparato immerso nella confusione e nel nulla». Vero. L’ambiente circostante era una spianata inselvatichita, un groviglio di rovi, serpenti e sporcizia.

Ebbene, pulizia subito. «Piantiamo alberi degni di tale nome. Piantiamo, ad esempio, mwa arobaini».

Mwa arobaini è un albero di origine indiana, che incuriosisce e incanta. È tenacissimo. Resiste alla siccità come pochissimi. Ha una vitalità che non conosce remore. I suoi rami entrano presto in casa, se non li ridimensioni debitamente. Infatti la gente lo massacra quando lo pota, e lo abbandona con moncherini che gridano pietà. Ma, poco dopo, è di nuovo garrulo nel suo verde lussureggiante.

È un albero beneaugurante per il nostro centro, infatti si chiama mwa arobaini, «di quaranta», perché si dice che guarisca quaranta malattie.

 

Il centro di Bunju. Foto Ema Maglioli

Arrivano i cardinali

Oggi, chi frequenta il centro, ringrazia e complimenta i missionari della Consolata per «aver pensato in grande e in bello».

Il Consolata mission centre viene additato come un faro che illumina presente e futuro, tutto e tutti. E veramente ne usufruiscono proprio tutti: uomini e donne a livello personale o raccolti in movimenti o gruppi, professori e studenti d’università, difensori dell’ambiente e dei diritti umani, bambini. Numerose suore. Seminaristi, preti, vescovi.

E proprio i vescovi furono fra i primi «clienti».

Come non ricordare l’incontro che fu ospitato dal 28 giugno al 5 luglio del 2009, richiesto dalla congregazione per la Dottrina della fede di Roma? Vi parteciparono i presidenti delle Commissioni episcopali teologiche dell’intera Africa.

Tra i circa trenta prelati presenti, c’erano, da Roma, il cardinale Levada e l’arcivescovo Ladaria; dal Senegal, il cardinale Sarr; dal Ghana il cardinale Turkson; dal Congo l’arcivescovo Monsengwo. L’eucaristia di apertura fu presieduta dal cardinale di Dar es Salaam, Polycarp Pengo.

L’anno successivo, dal 4 al 7 novembre, ci fu un congresso missionario. Vi parteciparono vescovi, professori di università, missionari e missionarie di vari istituti religiosi, laici. Settantadue persone in tutto.

Method Kilaini, vescovo ausiliare di Bukoba, città tanzaniana sul lago Vittoria, disse: «Come storico, io ammiro i missionari. Ammiro il loro coraggio, la loro forza, nonché la loro capacità di capire la nostra lingua e cultura. Molti di loro hanno anche criticato il nostro modo di vivere. Tuttavia, nel complesso, hanno contribuito molto a documentare e salvare gli elementi positivi della nostra cultura».

Catechisti e giovani

I frequentatori prediletti del Consolata mission centre sono i catechisti e i giovani. Il centro è stato pensato e realizzato specialmente per loro.

I catechisti sono la spina dorsale dell’evangelizzazione. Il sacerdote, senza il catechista, finirebbe per essere solo un «distributore» di sacramenti e sacramentali all’ultimo istante.

Sì, certo, il presbitero la notte di Pasqua o il Lunedì dell’Angelo battezza persino 150 persone. Ma chi le ha preparate? Il catechista. E chi visita gli ammalati, chi prepara i fidanzati al matrimonio, chi celebra i funerali? Il catechista. Sempre lui. E quasi sempre «sottopagato», pur avendo famiglia.

I catechisti, nel Consolata mission centre trovano una formazione accurata e approfondita attraverso corsi settimanali, sotto il patrocinio dell’ufficio catechetico diocesano di Dar es Salaam.

I partecipanti variano da settanta a cento, e provengono anche da Zanzibar e Morogoro.

Alcuni temi affrontati sono rivoluzionari nel contesto africano: ad esempio la pianificazione delle nascite, secondo il metodo Billings. Urgente è, soprattutto, la formazione biblica. L’eucaristia è l’azione di Gesù Cristo maestro e salvatore, non uno show di cerimonie e canti, pure se gradevoli.

I giovani frequentano in massa il centro: anche quattrocento per volta, se si tratta di incontri di una giornata. Meno nei seminars di tre giorni. Le famiglie, infatti, sono chiamate a partecipare alle spese di viaggio, vitto e alloggio.

Gli argomenti dibattuti si avvalgono di testimonianze di altri giovani, riflessioni di missionari e missionarie, lezioni di psicologia per la conoscenza di se stessi.

Ai giovani non si proclama «voi siete il futuro della chiesa e della società», bensì «voi siete il futuro che incomincia oggi».

La chiesa spende tante risorse per l’educazione dei bambini, ma poche «pagnottelle» per i giovani. Potrà succedere che «cinque pani e due pesci» sfa-mino cinquemila persone? (cfr. Matteo 14, 13-21).

Diritti umani e Radio Maria

Qualche tempo prima dell’emergenza Covid, sono arrivati dall’intero Tanzania diversi giovani della Comunità di sant’Egidio. A tavola hanno spezzato il pane con quattro coetanei che stavano redigendo un «Rapporto sui diritti umani in Tanzania», nonché con un quartetto di ambientalisti.

La settimana successiva è stata la volta di diversi operatori di Radio Maria provenienti da vari paesi africani. Costoro, in cortile, hanno potuto anche esercitare il loro inglese, giacché il centro ospitava, in contemporanea, una scuola di Boston gemellata con una di Dar es Salaam. Erano liceali provenienti da collegi dei gesuiti. Missionario il loro motto: «Men and women for others» (uomini e donne per gli altri).

La luce che il faro del Consolata mission centre sprigiona è pure ecumenica e interreligiosa, giacché il centro ha aperto i cancelli anche a non cattolici: luterani, anglicani, pentecostali; senza escludere i musulmani.

Protestanti in arrivo

«E chi è costui?», mi sono detto un giorno. «Dall’abbigliamento sembra un pastore luterano».

Tutte le volte che ne incontro uno, ricordo padre Igino Lumetti, buon’anima, che quarant’anni fa cercò di aiutare un pastore protestante rimasto in panne sulla strada per un guasto all’auto. Padre Igino gli si accostò. Ma il protestante, quando seppe che era un prete cattolico, rifiutò l’offerta.

Ora, cosa è venuto a fare al Consolata mission centre questo «eretico» in camicia nera e colletto clericale romano?

«Padre – ha esordito l’ospite -, complimenti per questo magnifico centro. È un luogo che sa leggere e interpretare i segni dei tempi alla luce del Vangelo. Ne abbiamo assoluto bisogno».

Avendo vissuto sette anni a Roma e trentaquattro a Torino, mi è venuto spontaneo pensare: «Cavolo! Quanta acqua è passata sotto i ponti del Tevere e del Po!». Come sono mutati i rapporti con i protestanti.

Il ministro dell’Interno

Alcune settimane fa è comparso al nostro centro un pezzo da novanta del governo. Un incidente stradale gli aveva strappato il figlio maggiore, ventenne. L’uomo si era chiuso in camera per quattro giorni, solo nella sua disperazione, affogando nel whisky.

Un giorno, mentre sedeva in parlamento accanto al presidente della Repubblica, è stato scoperto dal suo alito cattivo. È stato svergognato in pubblico dal presidente stesso e rimosso dal suo ufficio seduta stante. Era ministro dell’Interno. È arrivato al Consolata mission centre con la moglie taciturna. Entrambi in cerca di serenità. Dopo una settimana di riflessione, prima di rincasare, hanno chiesto: «Padre, ci ripeta ancora il discorso notturno di papa Giovanni XXIII all’apertura del Concilio Vaticano II nel 1962, in piazza san Pietro, illuminata da migliaia di fiaccole».

«Cari figlioli, disse pressappoco il papa buono, oggi abbiamo terminato una giornata di pace. Stanotte anche la luna in cielo è venuta a pregare con noi… Andando a casa, troverete i bambini. Fate una carezza ai vostri bambini e dite loro: questa è la carezza del papa!».

«E noi faremo altrettanto», hanno concluso i due.

Bimbi che fanno pipì

Tempo fa il centro si è sobbarcato una spesa corposa fuori programma. Erano attesi un’ottantina di ragazzi, tra cui numerosi bimbi. Come proteggere i materassi se non comprando teli di plastica impermeabili alla pipì? Ecco la spesa extra.

Con i bambini c’erano alcuni genitori ed educatori. Hanno soggiornato al centro per 15 giorni, al termine dei quali, ai più grandi è stato rivelato che erano nati sieropositivi al virus dell’Aids.

In quel giorno si sono alzate strazianti grida di dolore nel centro.

Anche i ragazzi sieropositivi sono nostri «clienti».

Elevare l’ambiente

Ebbene, dopo una complessa gestazione, nel 2008, i missionari della Consolata diedero alla luce il Consolata mission centre per offrire a tutti un luogo in cui pregare, pensare e cambiare.

È un punto di riferimento per l’intero Tanzania con la parola «missione» al centro.

La struttura ospita pure la redazione della rivista in lingua swahili «Enendeni» (Andate): mo-desta nella veste tipografica, ma significativa nei contenuti, specialmente in tema di formazione, pace, giustizia.

L’editoriale di marzo 2020 recita: «Se manchi di giustizia, le tue preghiere, i tuoi digiuni, le tue offerte, sono ipocrisia». Espressioni forse scontate in Italia, non in Tanzania.

Delle quattro riviste cattoliche del paese, Enendeni non è la… peggiore!

Il Consolata mission centre ha un alto costo di gestione, con i prezzi in costante ascesa e i nostri quattordici lavoratori da retribuire ogni mese.

Qui risuonano le dolenti note sociali del Tanzania. Quanti lavoratori, a metà mese, ci chiedono un anticipo di stipendio. E quanti richiedono un prestito.

Noi missionari abbiamo scelto l’impegno nel centro perché crediamo nell’«elevazione dell’ambiente» a 360 gradi, alla stregua della magna carta del Vangelo, come dettava il nostro fondatore beato Giuseppe Allamano.

Tuttavia carmina non dant panem, scriveva il vecchio Orazio. Ossia: lo studio, la ricerca culturale (meno che meno quella evangelica) e la formazione, non fanno quattrini. Il centro sarebbe in bancarotta da tempo, se non ci fosse il sostegno di amici italiani amanti della missione.

Recita un proverbio swahili: «Elimu ni mali» (la conoscenza è un capitale). Sì, la conoscenza, la verità, la chiarezza. Non bastano l’entusiasmo, il tamburo, la danza. Bisogna leggere, pensare, capire, «formarsi», perché guerre, carestie, corruzione, Aids…, sono emergenze crudeli in Africa e la «formazione» è prevenzione e cura di ogni miseria.

I missionari della Consolata ne sono convinti. Ecco perché hanno inventato il Consolata mission centre: per promuovere ed evangelizzare l’uomo, partendo dalla cultura locale e con il fine della «consolazione».

Presidente, attenzione

Mentre scrivo siamo a fine maggio, e non sono sereno. Il Consolata mission centre sprofonda nella solitudine: anche in Tanzania imperversa il coronavirus.

«La nostra economia viene prima della lotta al Covid-19». Parole discutibili di John Magufuli, presidente del Tanzania. La vita deve andare avanti. Ma come?

Fonti ufficiali parlano di 21 decessi per coronavirus e 509 contagiati totali. Dati fasulli, perché risalgono all’8 maggio, e non se ne forniscono altri per ora.

Ha destato scalpore (e ilarità) la seguente dichiarazione del presidente: «Abbiamo sottoposto ad analisi campioni di capra, olio d’auto, papaia… ed ecco che alcuni elementi sono positivi al coronavirus. Siamo di fronte a fatti strani. Non possiamo fidarci delle informazioni degli esperti».

Risultato: si usino mascherine, disinfettanti, acqua e sapone; si chiudano le scuole. Ma le merci circolino liberamente. «Non possiamo chiudere il porto di Dar es Salaam – dichiara ancora Magufuli -, perché sette paesi confinanti fanno affidamento su di esso per i loro rifornimenti alimentari». Vero e non vero, giacché Uganda, Zambia e Kenya ignorano la «benevolenza» del presidente tanzaniano, avendo chiuso le loro frontiere.

Anche le chiese sono aperte, perché «il Covid-19 non può entrare nella casa di Dio», afferma ancora Magufuli. Però, da Pasqua i fedeli in chiesa sono rari.

Gli ospedali governativi ospitano pochi malati di Covid-19, perché i contagiati non vi trovano adeguata assistenza. Quelli privati, come l’Aga Khan, sono un lusso. L’uomo della strada resta in casa curandosi con bevande al limone e zenzero o decotti tradizionali di erbe.

Fra la gente si registra rassegnazione o fatalismo. L’uso di mascherine è diminuito, anche nelle città, luoghi più esposti al virus, nonostante la paura sia tanta a causa delle persone che si vedono morire «senza ragione».

Intanto Magufuli ha proclamato tre giorni di ringraziamento a Dio, «affinché le preghiere possano continuare a tenere lontano il virus».

Forse sarebbe meglio pregare per una buona morte.

E qui mi rattristo. Vivo in un luogo che vuole «centrare la vita» nella trasparenza, nella solidarietà e nella verità.

Che cosa stiamo centrando oggi in Tanzania?

Francesco Bernardi

Entrata al centro di Bunju; foto Ema Maglioli.




Migranti ai tempi del Covid

testo e foto di Amarilli Varesio |


A Torino l’esperienza di un palazzo autogestito da migranti si fa strada. Non senza aiuti esterni, e con molto impegno degli occupanti. Ma con l’arrivo della pandemia le difficoltà sono aumentate.

Madonna della Salette potrebbe sembrare, a prima vista, una via della periferia torinese come tante altre, poco popolata, con palazzi bassi e spazi verdi lasciati incolti. Uno dei pochi elementi che nella strada, lunga qualche centinaio di metri, attirano l’attenzione, è l’insegna di un supermercato che si staglia oltre i campi dall’erba alta, rigogliosi di malva, verbena e tarassaco. Camminando per la via, un passante qualunque non potrebbe non notare l’andirivieni di giovani africani, prevalentemente uomini, che entrano ed escono da un palazzo di cinque piani, con la facciata ben ristrutturata di colore bianco e arancione. Spinto dalla curiosità, il nostro passante, aprendo il portone della struttura, rimarrebbe stupito dall’intreccio di lingue africane e dall’orchestra di profumi cosmopoliti di tè alla menta, tajine, banane fritte, attieké, poulet yassa, soupe kandja, jollof rice che invadono i corridoi.

Durante l’emergenza coronavirus, nessuno avrebbe potuto accorgersi di questo luogo singolare. Gli odori culinari raggiungevano una strada vuota e silenziosa, solcata giornalmente dalle auto della polizia che controllavano i movimenti del quartiere. Gli abitanti della palazzina non osavano uscire. L’immobilità significava la perdita o l’interruzione improvvisa del lavoro, l’impossibilità di percepire un reddito e la delicata convivenza in una casa collettiva dove gli spazi devono essere continuamente negoziati.

Nel 2016, ho avuto la fortuna di scoprire la «residenza transitoria collettiva» dell’ex occupazione di via Madonna della Salette. All’epoca, la frequentavo come volontaria per dare un supporto ai ragazzi nei corsi d’italiano e in quelli per la patente. Ricordo che un giorno mi presentai a un giovane del Ghana dicendo che mi chiamavo Ama. Lui rimase esterrefatto e poi scoppiò a ridere. Mi raccontò che nel suo paese tutti i bambini nati di sabato venivano chiamati Ama e da quel giorno mi battezzò «Ama Ghana».

Erano momenti semplici e intensi, nei quali la conoscenza reciproca e lo scambio culturale era alla base della condivisione.

Spesso, verso la fine delle lezioni, io diventavo la studentessa e imparavo a mia volta qualche termine in wolof o bambara. Questo luogo mi affascina da sempre per la sua complessità e peculiarità. Diversamente da altre esperienze per migranti, grazie alle regole e ai principi sui quali è basata la convivenza al suo interno, la Salette permette di osservare da vicino e andare incontro ai bisogni e alle priorità delle persone che ci vivono.

L’occupazione

La Salette era stato un pensionato per lavoratori e studenti, proprietà dei Missionari di Nostra Signora de La Salette, ed era diventata una struttura abbandonata finché non ha supplito alla necessità abitativa di decine di immigrati e rifugiati lasciati in strada da un sistema d’accoglienza poco efficace.

Il 17 gennaio 2014, in una notte piovosa, è scattata l’occupazione, in una mobilitazione per il diritto alla casa, promossa dal Comitato di solidarietà per rifugiati, costituito da volontari e militanti dei centri sociali torinesi, Gabrio e Askatasuna. I primi occupanti, una quarantina circa, erano un gruppo eterogeneo di famiglie italiane e immigrati provenienti dalle palazzine dell’ex Moi (il villaggio olimpico del Lingotto, costruito per i giochi invernali del 2006, cf. MC dicembre 2015), dove vivevano in camere sovrappopolate o negli scantinati. Quasi tutti avevano i documenti, ma non un tetto. Molti di questi immigrati erano approdati sulle coste italiane nel 2011, durante la cosiddetta «Emergenza Nord Africa». Quell’anno, quando scoppiò la guerra civile in Libia, le frontiere del paese arabo furono chiuse e gli immigrati che cercavano di tornare nei loro paesi non potevano farlo. Venendo a mancare gli accordi presi dal regime di Gheddafi con l’Italia per impedire alle persone di partire, gruppi di trafficanti approfittarono del caos e del vuoto di potere per organizzare le spedizioni verso le coste italiane. Molti immigrati subsahariani che lavoravano in Libia non avevano altra scelta se non quella di imbarcarsi.

«La dichiarata “Emergenza Nord Africa” è stata gestita con l’accoglienza in grandi centri e conseguentemente con forme di assistenzialismo inutili all’autonomia dei singoli. Nei primi mesi del 2013, il momento dell’uscita dai progetti per molti ha significato affrontare il problema dell’assenza di una casa», spiega l’antropologa Laura Ferrero, che per un anno ha svolto una ricerca all’interno della Salette. «Finito il progetto d’accoglienza, per qualcuno il passaggio alla Salette è stato immediato, per altri è stato intervallato con una permanenza all’ex Moi, altro punto di riferimento per immigrati di tutta Italia che cercavano una soluzione abitativa. Altri ancora stavano negli accampamenti formali e informali che si creavano attorno agli spazi del lavoro stagionale, come a Saluzzo o a Rosarno. Ognuno aveva attivato le reti sociali disponibili: amici conosciuti in Libia, durante la traversata o nei progetti. Ma il problema è stato che tutti si trovavano nelle stesse condizioni».

Mosso dai forti appelli del papa all’accoglienza, fin dai primi giorni dell’occupazione, l’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia è intervenuto creando un gruppo di soggetti eterogenei, fra i quali Pastorale migranti, Caritas, Cooperativa O.R.So., Luoghi Possibili, al fine di interagire con il comitato e gli occupanti di via Madonna de La Salette.

Un modello alternativo

Il progetto d’accoglienza alternativo proposto dal comitato e dagli occupanti al resto del gruppo prevedeva alcune condizioni precise: non doveva seguire tempistiche prestabilite, doveva includere tutti gli abitanti, prevedere attività di inserimento lavorativo, una gestione condivisa dai residenti secondo decisioni prese in assemblea e un processo di regolarizzazione e ristrutturazione dell’edificio secondo i principi dell’auto recupero e della manodopera di chi vi abitava.

Nicolò, membro del comitato, racconta: «Per i primi due anni non c’è stato giorno né notte. Eravamo sempre lì con i ragazzi per coordinare la situazione. Nonostante la struttura fosse solida, c’erano molti problemi. La corrente continuava a saltare per l’uso massiccio di piastre elettriche, allora si cucinava a turno, prima un piano e poi l’altro, l’acqua calda è mancata finché non abbiamo messo i boiler elettrici».

Nel 2015, l’edificio, costituito in ogni piano da camere, cucina e bagni comuni, è stato oggetto di ristrutturazione e riqualificazione energetica. Il coinvolgimento diretto degli abitanti del palazzo nei lavori di manutenzione aveva come obiettivo quello di promuovere il senso di appartenenza collettiva alla struttura e di contribuzione alla «residenza collettiva». Nel corso dei mesi si è costituito un comitato di cogestione, composto da un rappresentante per ogni piano, un rappresentante della cooperativa e uno del Comitato di solidarietà per i rifugiati. In seguito, il progetto ha ottenuto il comodato d’uso gratuito dell’immobile per 10 anni e, nel 2018, i suoi abitanti hanno ottenuto la residenza. L’obiettivo a lungo termine è che la comunità della Salette raggiunga l’autonomia. Ma la condizione di marginalità che accomuna la maggior parte degli abitanti inficia la loro possibilità di contribuzione economica per le spese della casa. Per cui, attualmente, i residenti pagano un 30% delle spese vive, mentre la diocesi mette il resto.

«La gente sta alla Salette fin quando ne ha bisogno, perché magari non ha alternative, o finché se la sente. Questa è la condizione necessaria per costruire un percorso lavorativo dignitoso. Nei centri d’accoglienza, invece, ti danno vitto, alloggio, assistenza legale e quando hai i documenti ti sbattono fuori. Ma se non hai la certezza di avere un tetto sulla testa mentre impari l’italiano e cerchi un posto di lavoro, non ce la fai. Ognuno ha i suoi tempi», continua Nicolò infervorato. «Non abbiamo creato un modello di accoglienza. Il modello sta nella modalità con la quale abbiamo affrontato la situazione concreta. E si sa che mettere al centro le persone ti crea un mare di problemi, bisogna avere una pazienza infinita».

L’antropologa Laura specifica: «Gli abitanti della Salette non sono un gruppo coeso, ma una somma di individualità e piccoli gruppi. La convivenza è un obiettivo che si costruisce nelle pratiche quotidiane, attorno alle quali nascono tanto collaborazioni, quanto tensioni». Uno degli abitanti, S., fa parte del comitato di gestione della Salette. Dal 2015 coltiva un orto in giardino dove crescono pomodori, insalata e zucche. «Io porto fuori la spazzatura tutte le sere, dò il bianco quando serve, taglio l’erba. Ma non tutti si interessano della casa. Al quarto piano, ci sono due stanze sovraffollate dove vivono in dieci, ma nessuno li butta fuori. Anche se questa è casa nostra, appena qualcuno ha le possibilità economiche se ne va di qui».

All’interno della Salette, la Cooperativa Orso avvia percorsi di accompagnamento per sostenere processi di autonomia lavorativa, abitativa e sociale, con un’équipe composta da tre persone. Silvia aiuta i ragazzi a conoscere e a usare i servizi che la città offre. «Il primo anno di lavoro, in modo informale, abbiamo cercato di conoscere le persone e di farci conoscere. Non è stato facile. Non si fidavano, erano usciti dai progetti con un bagaglio enorme di delusioni. Il nostro ruolo è quello di dare loro degli strumenti, offrire dei tirocini, dei percorsi di orientamento al lavoro e di specializzazione. Noi offriamo le opportunità che troviamo, poi sta alle persone decidere. La difficoltà principale è che molti fanno fatica a crearsi un percorso lavorativo stabile, a investire in un tirocinio, per esempio. Magari fanno poche ore e guadagnano poco, e visto che sono mossi dalla necessità di guadagno, perché in Africa hanno le famiglie da mantenere, preferiscono lavori che danno subito un reddito, come quelli stagionali».

Il lockdown della Salette

Con l’arrivo del coronavirus, il Comitato di gestione ha stabilito alcune regole: accesso proibito ai non residenti e distanziamento sociale. Misure che hanno creato molte tensioni tra gli abitanti che hanno dovuto impedire l’ingresso ad amici o parenti. Inoltre, la cooperativa Orso ha provveduto a creare una rete di solidarietà con la Caritas per la distribuzione di cibo e mascherine di cotone. D. è un giovane senegalese e da cinque anni vive alla Salette. Grazie alla diocesi, nel suo frigo non è mai mancato il cibo. Quando hanno imposto le misure di contenimento, la borsa lavoro di D. è stata sospesa. «Lavoravo come carpentiere per fare scale in legno. Lavoravo solo quattro ore al giorno, ma ero contento. Prima ancora facevo l’ambulante ma era un lavoro pericoloso. Compravo giubbotti e scarpe contraffatte a Napoli e li rivendevo a Nichelino, Trofarello, Moncalieri. Un giorno un poliziotto in borghese mi ha fermato e ha detto: “Se vendi poca roba, non ti diciamo niente”. Però, mi sono spaventato e allora ho provato a cercare un “capo” (datore di lavoro) a Saluzzo, ma non l’ho trovato. Allora sono andato in Francia, a Cannes, a vendere occhiali da sole, cappelli, orecchini sulla spiaggia».

K., un ragazzo maliano, ha avuto una storia più fortunata. Quando è arrivato il lockdown, aveva appena festeggiato la firma del contratto di apprendistato di tre anni che gli aveva fatto un’azienda edile di Grugliasco. L’hanno messo in cassa integrazione, ma non sa come avrebbe fatto, senza l’aiuto alimentare dato alla Salette. I soldi sono arrivati solo mesi dopo. K. voleva andare a trovare la sua famiglia in Mali, ma senza il passaporto non può farlo. Durante l’emergenza, fino al 18 maggio era impossibile accedere alle questure. «È da 10 anni che non torno a casa. Sono partito dal Mali quando avevo 15 anni, sono scappato alle 4 di mattina quando i miei dormivano. Da noi in alcuni villaggi non c’è neanche l’acqua per bere e così la vita è troppo complicata».

Tornare a casa

Nel caso di D., un giovane del Ghana residente alla Salette dai tempi dell’occupazione, l’emergenza coronavirus ha rafforzato la sua decisione di tornare a casa. «Mi alzo alle 4 del mattino, vado in giro e mi mandano a quel paese, mi chiamano negro. Tutti i giorni esce un nuovo decreto sugli immigrati. Per quanto tempo dobbiamo continuare a essere immigrati e non persone?». Da qualche anno, D. prepara il suo ritorno e fa coltivare un campo di anacardi e cacao che ha comprato a Kokooa, per vendere i prodotti sul posto.  «Non dipendere da nessuno è una grande libertà umana. Io sarei tornato in Ghana nel 2013, sedendomi sulla sedia col mio sacco di dollari guadagnati in Libia. Ma mi hanno obbligato a venire in Italia».

W. è della Guinea-Bissau. «Ho sempre lavorato nell’agricoltura. In Italia, per tre anni ho raccolto la verdura a Foggia. Il capo era cattivo, mi segnava sei ore quando ne avevo fatte nove. Poi nel 2014 sono arrivato a Torino, ho lavorato due anni a Saluzzo e lì raccoglievo pere, pesche. Nel 2019 sono arrivato alle Salette e ho lavorato in un’azienda per raccogliere la menta senza contratto. Adesso volevo tornare a Saluzzo, ma con questa emergenza, se non hai un contratto non ti puoi muovere».

W. è da cinque mesi che aspetta il rinnovo del permesso di soggiorno che vuole convertire da umanitario in lavorativo subordinato. Nei mesi precedenti al coronavirus avendo con sé solo la ricevuta della domanda di conversione, i datori di lavoro non si fidavano ad assumerlo. Inoltre, a marzo voleva andare a Saluzzo, ma il progetto Pas (Prima accoglienza stagionali) era chiuso per l’emergenza e senza un posto letto certificato non gli facevano il contratto.

«Durante l’emergenza coronavirus, le persone più vulnerabili erano quelle senza documenti e quelle che lavoravano in nero», racconta Eleonora Celoria, avvocata e socia Asgi (Associazione studi giuridici dell’immigrazione) che ha svolto un lungo periodo di volontariato alla Salette. «Loro non potevano spostarsi e, senza documenti, non potevano essere assunti, né dimostrare che si muovevano per esigenze di lavoro. Anche per quanto riguarda gli stranieri in regola con i documenti, la situazione non era facile: dal momento che molti svolgevano lavori precari, alcuni sono stati licenziati, ad altri non hanno rinnovato i contratti e anche chi era stato messo in cassa integrazione non aveva la sicurezza di poter tornare a lavorare a emergenza finita. Chi era titolare di permesso di soggiorno per motivi umanitari e voleva convertirlo in permesso per motivi di lavoro si trovava in difficoltà: per farlo bisogna presentare la documentazione legata all’attività lavorativa e, se avevi perso o, a causa del virus, non potevi trovare un lavoro, veniva meno la possibilità di chiedere la conversione».

I vantaggi del lockdown

«Per lo meno, le norme introdotte per affrontare l’emergenza hanno disposto l’estensione della validità dei permessi di soggiorno fino al 31 agosto, e questo ha consentito alle persone che avevano il permesso in scadenza durante questi mesi, di continuare a lavorare e di avere accesso ai servizi. Anche la proroga della carta di identità e della tessera sanitaria devono valutarsi in questo senso con favore. È fondamentale però che i migranti siano informati di questa estensione, per poter far valere i propri diritti».

M. è marocchino. Durante il confinamento, assieme agli altri ha creato una palestra sul terrazzo. «Su 70 persone, solo sette lavoravano durante l’emergenza. È stato difficile. Io lavoro in nero, mi chiamano per fare dei lavoretti in casa. Ma, per me, i veri problemi sono cominciati nel 2002. Quell’anno avevo fatto una manifestazione per il partito comunista davanti all’ambasciata marocchina a Parigi in difesa del popolo sarahawi. Per punirmi mi hanno tolto il passaporto. Da lì non ho più potuto rinnovare i documenti». M. è arrivato alle Salette dal Moi. «Volevamo creare una realtà autogestita dai migranti, era il mio sogno. Ma non ci siamo ancora riusciti. Quest’occupazione ci ha dato lavoro, dignità, tranquillità, un curriculum, una chiave, ma non siamo autonomi. Siamo quattro responsabili di piano, ma partecipiamo solo in due. Essere responsabili non vuol dire essere un libico (come un carabiniere che controlla le regole, ndr) o un ruffiano (che fa quello che vuole la cooperativa pur di mantenere un potere, ndr), solo voler mettere le cose a posto». Con la sanatoria Cura Italia Bis per regolarizzare i braccianti in agricoltura e in altri settori chiave, la sua clandestinità è terminata. «Ci regolarizzano solo per sfruttare il nostro lavoro. Noi immigrati siamo essenziali e questo è riconosciuto solo in un momento di crisi come questo».

Amarilli Varesio

 




Benin: Una Striscia tra terra e mare

testo e foto di Valentina Tamborra |


Strano paese, che si allunga tra il golfo di Guinea e il Sahel. Dove la religione tradizionale ha ancora  un’influenza importante sulle persone. Non sempre positiva. Dove un popolo vendeva l’altro come schiavo,  ora si celebra la porta del non ritorno. Dove chi ha un difetto fisico è spesso emarginato.

Il Benin, paese dell’Africa occidentale francofona, confina a Ovest con il Togo, a Nord con il Burkina Faso e il Niger, a Est con la Nigeria e si affaccia a Sud sull’Oceano Atlantico.

Qui l’età media è 45 anni: fame, malattie come l’Aids, la malaria o il colera sono fra le principali cause di morte.

Il Benin, insieme alle aree limitrofe della Nigeria, è la culla della religione vudù, riconosciuta ufficialmente dallo stato (e dalla quale, in parte, deriva anche il vudù haitiano, ndr). In lingua Fon, la più parlata nel Sud del paese, la parola «vudù» significa «anima, forza». Più precisamente è la città di Ouidah che viene definita «capitale vudù». Il 90% degli abitanti, infatti, pratica questa religione.

Arrivati a Ouidah ci si imbatte in un forte contrasto: nella tranquilla cittadina costiera infatti, il «Tempio dei pitoni», sacro al dio Dangbe, sorge proprio dinnanzi a una chiesa cattolica, la basilica dell’Immacolata concezione.

All’interno del tempio sono custoditi centinaia di pitoni reali, considerati sacri.  A prendersene cura sono sacerdoti della Tribù dei serpenti, facilmente riconoscibili grazie alle scarnificazioni sul volto rappresentanti, in forma stilizzata, i denti dei pitoni.

La religione vudù è sopravvissuta alla colonizzazione europea, e gli antichi riti e cerimonie continuano a essere celebrati grazie ai dignitari del culto che sono stati in grado di trasmetterne la memoria.

Nato allo scopo di propiziarsi i favori degli dei per ottenere felicità e prosperità, il vudù mantiene ancora oggi un lato oscuro che offusca la bellezza di tradizioni, canti, e memoria.

È a Cotonou, città più popolosa del Benin, che ci imbattiamo per la prima volta nell’anima nera di questo credo.

Molte sono le donne che fuggono dai paesi che circondano la città portando con sé bimbi appena nati affetti da labbro leporino o malformazioni del volto e degli arti.

È la fame, e dunque la carenza di sostanze come l’acido folico, uno dei motivi principali per cui molti bambini nascono con gravi malformazioni.

Purtroppo però questi «segni» sul volto o sul corpo vengono visti da chi pratica il vudù come simboli del male e spesso il bimbo che li porta è allontanato dal villaggio o, nel peggiore dei casi, ucciso.

Benin. Foto Valentina Tamborra

Victoria, madre coraggio

È questa la storia di Victoria. La sua Miracle, una bimba di pochi mesi, affetta da labbro leporino, è stata condannata a morte dallo stregone del villaggio.

Quando Victoria arriva in ospedale davanti all’equipe di Emergenza Sorrisi (Ong romana che opera in ambito sanitario, vedi box) appare disperata. Ha percorso decine di chilometri, scappando di notte dal proprio villaggio per non essere vista e poter così raggiungere l’ospedale.

Nonostante i chirurghi sconsiglino vivamente l’operazione, (Miracle infatti è davvero minuscola e denutrita, c’è il forte rischio che non sopporti l’anestesia), Victoria insiste perché la sua piccolina venga operata.

La scelta è tra affrontare il tavolo operatorio e mettersi nelle mani di uno stregone: se nel primo caso c’è almeno una speranza, nel secondo non c’è nemmeno quella.

La seguiamo a casa di un’amica, la sera prima dell’operazione. Operazione ancora in forse, infatti i chirurghi dovranno riunirsi da lì a poche ore per emettere il verdetto: operare o non operare.

Victoria vuole mostrarci dove si è nascosta, dopo la fuga dal proprio villaggio, per concedere almeno una possibilità alla sua piccola Miracle. La sua amica la ospita, pur sapendo il potenziale rischio delle azioni di Victoria.

Raggiungiamo così un piccolo gruppo di case in mattoni crudi e terra battuta in una zona rurale.

Ciò che ci colpisce, entrando nella modesta abitazione, è la presenza di una libreria.

Questa immagine ci seguirà spesso anche in altri casi: i bambini da queste parti, come ovunque, sognano un futuro e non è raro vedere in case modeste, poco più che baracche, libri conservati con cura e attenzione come tesori preziosi.

La mattina seguente Victoria raggiunge l’ospedale di buon’ora. I chirurghi hanno deciso: l’operazione si farà. Miracle ce la farà. Il palato verrà chiuso, consentendole di nutrirsi normalmente, e il labbro sistemato così da eliminare il «difetto».

Tensione, sollievo, il sorriso e le lacrime di una madre quasi certa di non poter più stringere la sua piccola. Una ninna nanna cantata a bassa voce e una sola frase «c’est magnifique» (è magnifico).

Un’infermiera scoppia a piangere, i chirurghi sorridono. Ma è solo una delle tante sfide da qui alla fine della missione.

In Benin è così ogni giorno. Per un bimbo che viene operato, e dunque salvato, un altro muore o viene allontanato dalla società diventando un reietto. Diffuse sono le campagne di sensibilizzazione promosse da équipe medico sanitarie con l’aiuto di Ong come Emergenza Sorrisi. Nei villaggi tentano di diffondere una conoscenza che porti a un nuovo approccio verso i problemi sanitari.

Qui bisogna agire sull’aspetto socio culturale del problema. La chirurgia infatti può annullare alcune malformazioni, diminuire difetti fisici, ma alla base c’è la necessità di spiegare alle persone la vera origine di queste problematiche.

Una storia simile per alcuni aspetti, anche se meno drammatica, è quella di Didier.

Un bimbo di appena 10 anni costretto a studiare a casa, lontano dagli altri bimbi, a causa di una malformazione al braccio.

Didier si è procurato un libro di inglese e uno di spagnolo e ora, oltre alla sua lingua madre e al francese, parla altre due lingue.

Dopo l’operazione Didier potrà tornare a scuola, non sarà più esiliato. La realtà del Benin ad oggi è impietosa con chi presenti un «difetto fisico».

Benin. Foto Valentina Tamborra

L’operazione «miracle»

Esiste ovviamente un protocollo severo da seguire quando si opera. La sala chirurgica deve essere sterile, il personale sanitario usa guanti, mascherine, camici: la preparazione a un intervento è la medesima nella prima clinica di lusso o nel paese più povero del mondo.

Vista da fuori, la preparazione è un atto preciso che non lascia spazio al sentimento, all’emozione.

Quando la piccola Miracle viene portata in sala operatoria tutto si ferma per un attimo: uno degli anestesisti si passa una mano sulla fronte, un’infermiera fa il segno della croce. E uno dei chirurghi che sta per sciogliere il nodo di un nastro che lega al pannolino una piccola conchiglia, ferma per un momento la mano: «È un portafortuna, ha un’energia importante. Lo toglierò io».

E sembra un piccolo gesto quello che compie questo chirurgo anziano, con anni di esperienza, migliaia di operazioni alle spalle, eppure con un’attenzione all’essere umano e alle sue necessità sempre viva.

Esiste un protocollo, e deve essere seguito. Ma in sala operatoria si può, anzi talvolta si deve, dar spazio all’emozione.

Benin. Foto Valentina Tamborra

Le spose bambine

In questo paese è purtroppo ancora fortemente presente la realtà delle spose bambine.

Bimbe e adolescenti vengono promesse in sposa a uomini molto più anziani, dovendo così rinunciare alla propria infanzia, all’educazione scolastica e vivendo in una realtà di abuso.

La ragione è socio culturale e ancora una volta strettamente connessa alla povertà e alla conseguente mortalità.

Se è vero che l’età media è 45 anni, e che il tasso di mortalità infantile è elevatissimo, è dunque «ricercata» una ragazza giovane e fertile che possa garantire una progenie.

I bambini in Benin sono l’anello debole e più sottoposto a vessazioni.

Riti vudù, spose bambine, lavoro minorile, elevata mortalità, tutto questo contribuisce a far sì che il Benin sia un paese antico, per storia cultura e tradizione, ma giovanissimo.

Benin. Foto Valentina Tamborra

Piccola Venezia d’Africa

Ganvié è la più importante città lacustre dell’Africa Occidentale. Situata sul lago Nokouè, a Nord di Cotonou, viene soprannominata «la Venezia d’Africa».

L’origine della città risale al XVIII secolo quando, a causa delle razzie schiaviste, le popolazioni si rifugiarono nelle paludi del lago al fine di sfuggire ai cacciatori di schiavi.

Qui troviamo qualche migliaio di case in legno, erette su pali infissi nel terreno paludoso. In tutto la città conta circa 30mila abitanti. Si vive principalmente di pesca e ultimamente anche di turismo.

Di Venezia però troviamo ben poco: anche a Ganvié infatti, la condizione di povertà della popolazione è evidente. Le condizioni igienico sanitarie purtroppo sono critiche.

Anche qui il vudù è molto presente nonostante ci sia anche una una parrocchia cattolica.

Per muoversi a Ganvié è necessario l’utilizzo di piccole imbarcazioni, chiamate piroghe. Ogni abitante ne possiede una con la quale si sposta da un isolotto a un altro. Non è raro vederle quasi affondare a causa del carico eccessivo di persone, merci, animali. Le piroghe hanno poi un altro ruolo essenziale: solo con esse infatti è possibile raggiungere le due fontane che garantiscono acqua potabile alla popolazione. L’acqua del lago infatti è salmastra, dunque non potabile.

Benin. Foto Valentina Tamborra

La via degli schiavi

La già citata Ouidah non è famosa solo per il vudù. Qui troviamo infatti anche «la strada degli schiavi». Il passato di questa città è tristemente legato alla tratta degli schiavi.

Sorgeva proprio a Ouidah un importante mercato di esseri umani. Il dolore per l’ingiustizia subita è oggi celebrato a imperitura memoria con questo percorso che ci guida attraverso l’intera cittadina.

A Ouidah è possibile camminare, come in una vera via crucis, lungo i quattro chilometri che migliaia di uomini e donne hanno fatto incatenati, partendo dal mercato degli schiavi, lasciandosi alle spalle le proprie famiglie a la propria libertà.

Lungo la strada si trovano cinque tappe che raccontano la storia della marcia degli schiavi. Il percorso culmina alla Porta del non ritorno. Il monumento sorge su una bellissima spiaggia, la stessa nella quale gli schiavi venivano caricati sulle scialuppe che li avrebbero portati alle navi. I più combattivi o disperati preferivano suicidarsi lasciandosi affogare piuttosto che partire verso l’ignoto.

Oggi la colossale porta affaccia su quello stesso mare blu intenso.

Benin. Foto Valentina Tamborra

Quotidianità della morte

Lungo le strade che conducono a Cotonou la morte va in scena con una normalità impressionante. Minimarket, bar, benzinai e bancarelle di cibo si alternano a negozi che espongono sulla strada polverosa i feretri d’occasione.

Trasportati poi con mezzi di fortuna (legati a motorini talvolta, o su traballanti ape car) dal negozio agli ospedali o alle case, ricordano in ogni momento come il confine fra la vita e la morte in questo luogo sia estremamente labile.

Negli ospedali, spesso male attrezzati a causa delle condizioni del paese, le camere mortuarie straripano. Il rapporto con il corpo di un caro defunto pare essere assai meno «forte» di quello che abbiamo noi occidentali, e i lavoranti delle camere mortuarie trattano i corpi con meno cura di quella che noi ci aspetteremmo.

Sebbene a un primo sguardo possa essere scioccante, qui forse l’essere umano, anche se non per scelta, ha meglio compreso l’idea di caducità della vita.

I funerali vengono seguiti in  modo composto, da una folla vestita di bianco, che accompagna il proprio caro al luogo della sepoltura fra canti e silenzi. Una foto a grande formato, come un quadro, viene posta davanti al corteo, a memoria del defunto.

La vita, poco dopo, può riprendere il proprio corso.

Valentina Tamborra

Benin. Foto Valentina Tamborra


L’Ong dei miracoli

Emergenza Sorrisi è una Ong che si occupa di bambini affetti da labbro leporino, palatoschisi, malformazioni del volto, esiti di ustioni, traumi di guerra, cataratte e altre patologie invalidanti nei paesi del Sud. Unisce 375 medici e infermieri volontari, grazie ai quali vengono realizzate missioni chirurgiche in 23 paesi nel mondo, dove fino a ora 4.863 bambini sono stati operati e hanno ritrovato il sorriso. Uno dei pilastri della loro attività è la formazione e l’aggiornamento dei medici e degli infermieri locali.

Tutti i progetti di Emergenza Sorrisi nei paesi del Sud del mondo prevedono un’ampia partecipazione locale: allo stato attuale sono cinque le sedi autonome dell’associazione aperte in Benin, Congo, Iraq, Pakistan e Afghanistan.

I medici e tutto il personale sanitario che accetta di partire per le diverse missioni sono volontari. Spesso utilizzano le proprie ferie, momenti normalmente dedicati al riposo, per raggiungere luoghi remoti e sovente pericolosi.

Intervistando questi volontari durante le loro missioni in Iraq e Benin, abbiamo constatato che tutti concordano su una cosa almeno: ogni viaggio dà loro molto più di quello loro danno. Per utilizzare le parole di un’infermiera ormai alla sua decima missione, «è quasi un bisogno egoistico. Quando parto per una missione sto bene, sono felice. Mi sento utile. E quando torno, tutta quell’energia me la porto addosso per mesi. Mi fa sentire che il mio, il nostro lavoro, ha un senso profondo».

Valentina Tamborra

Benin. Foto Valentina Tamborra




Missione Madagascar: «sembra di essere nell’ottocento»

testo di Marco Bello | foto Archivio fotografico MC |


Da circa un anno un gruppo di giovani missionari della Consolata è presente in Madagascar. Le sfide non mancano ma l’entusiasmo è alle stelle. E mentre i «nostri» stanno studiando la lingua e il contesto, arriva il coronavirus. Ma le autorità sembra riescano a circoscriverlo.

È il 29 gennaio 2019. padre Godfrey Msumange, detto Baba Godfrey, sbarca all’aeroporto di Nosy Be, Madagascar. È l’anniversario della fondazione dell’Istituto Missioni Consolata di cui Baba Godfrey è consigliere generale per l’Africa. Oggi non è un giorno come un altro, l’arrivo del sacerdote tanzaniano sancisce l’apertura di una nuova presenza per l’Istituto di Torino fondato dal beato Giuseppe Allamano nel 1901. Si tratta del decimo paese sul continente africano. Padre Godfrey è accolto dal vescovo di Ambanja (si legge Ambanza), monsignor
Rosario Vella, salesiano (oggi trasferito alla diocesi di Moramanga), e da una folta rappresentanza della diocesi.

Siamo sull’isola di Nosy Be, costa Nordorientale del paese. Il tempo è stupendo, il mare bellissimo. Ma le sfide che aspettano i missionari sono enormi. Il gruppo raggiungerà Ambanja al di là dello stretto, con un motoscafo da Hell-Ville (Andoany), capoluogo del distretto di Nosy Be. Qui c’è la sede della vasta diocesi.

Il viaggio di padre Godfrey rappresenta l’apertura ufficiale della missione, ma i missionari che vi lavoreranno devono ancora arrivare, problemi burocratici di permessi e visti li hanno trattenuti a Nairobi (Kenya). Sono i padri Jean Tuluba (Rd Congo), Kizito Mukalazi (Uganda) e Jared Makori (Kenya). Loro sbarcheranno sull’«Isola rossa» il 13 marzo, iniziando, di fatto, la nuova avventura.

Ma come si è arrivati a questo giorno? Facciamo un passo indietro.

AfMC foto Godfrey Msumange

Il precursore

Fin dal 1999, padre Noè Cereda, missionario della Consolata innamorato dell’isola, aveva ottenuto dai suoi superiori un permesso speciale, ad personam,  per poter lavorare nel paese, pur non essendoci missioni dell’Istituto. Passò alcuni anni proprio a Hell-Ville, poi, dal 2005, si trasferì in capitale, Antananarivo. Padre Cereda ha lavorato con le suore Ancelle (o discepole) del Sacro Cuore, fondate a Lecce e arrivate sull’isola nel 1988. Nel settembre del 2010, padre Stefano Camerlengo, attuale superiore generale e all’epoca vice superiore, fece una visita a padre Noè. Restò molto colpito dalla bellezza dell’isola, ma anche dalle difficili condizioni di vita.

Due anni più tardi, il vescovo italiano di Ambanja, monsignor Vella, scrisse una lettera ufficiale chiedendo ai missionari della Consolata di aprire una missione nella sua diocesi. La risposta tardò, ma la riflessione fu portata avanti. Nel giugno 2016 una nuova visita del consiglio generale, composta dai padri Dietrich Pendawazima, Hieronimus Joya e Marco Marini, accompagnati proprio da padre Noè, sancì infine la decisione. Il vescovo propose tre possibili missioni: Ankaramibe, sulla direttrice stradale verso Sud tra Ambanja e Antsohihy; la seconda nei pressi della stessa città di Antsohihy; la terza più all’interno, a 15 km da Bealanana, una località chiamata Beandrarezona. La decisione cadde proprio su quest’ultima.

La scelta

«Questa scelta, seppure la più complessa, è sicuramente quella più ad gentes rispetto alle altre – ci spiega Baba Godfrey -. Nelle altre due località c’era già la presenza di sacerdoti, mentre a Beandrarezona ci andavano una volta ogni due anni. Inoltre la zona è di difficile accesso, durante la stagione delle piogge la strada diventa un letto di fango. Anche sul versante della promozione umana le esigenze sono moltissime. Dal punto di vista missionario, in questa zona solo tre persone ogni cento sono cristiane».

In Madagascar, a livello nazionale, i cristiani sono circa il 45%, e metà di questi sono cattolici. I restanti praticano religioni tradizionali, che sono molto importanti sull’isola. I musulmani sono invece una minoranza. La popolazione è di circa 24,2 milioni di abitanti su una superficie di 587.041 km2, poco meno del doppio dell’Italia. Nel paese le infrastrutture stradali sono basiche e restano enormi le difficoltà per collegare le diverse regioni.

La popolazione è composta da diciotto etnie, ma la cosa più interessante è la compresenza di gruppi di origine africana (bantu) e di altri di origine asiatica. I primi sono legati ai popoli delle coste del Mozambico e della Tanzania. I secondi, hanno tratti indonesiani e malesi, in particolare la lingua malgascia è simile a quella parlata nel bacino del fiume Barito, nel Kalimantan, il Borneo indonesiano. Vi sono poi influenze arabe, indiane ed europee. Nella diocesi di Ambanja la popolazione maggioritaria è di etnia Sakalava, di origini tipicamente bantu.

Il paese ha indici di sviluppo molto bassi, e permane intorno al 160 su 189 paesi della classifica delle Nazioni Unite sull’indice di sviluppo umano.

Continua Baba Godfrey: «Una delle cose che noti nell’area di Beandrarezona sono i coltivatori di riso. Si è in mezzo alle colline e alle risaie: c’è una grande riserva di acqua in questa zona. Ho visto una natura rigogliosa, cascate, fiumi, tante potenzialità. Pare una terra ancora vergine, soprattutto in queste zone remote. La gente è molto semplice. Sembra di essere nell’Ottocento. Collaborando con le autorità locali potremmo fare grandi cose per questa gente».

Inoltre, una comunità di suore francescane malgasce si è da poco installata a  Beandrarezona. «Sono molto contento di questo. Noi uomini andiamo fino a un certo punto, ci vuole sempre la donna».

I primi tre

Padre Jean Tuluba è di Wamba (Rdc), è un giovane missionario che ha già lavorato cinque anni a Roraima, nel Nord del Brasile, tra i popoli indigeni di quella regione. Lo raggiungiamo per telefono, nonostante le difficoltà. È pieno di entusiasmo per questa nuova missione. «Siamo a 1.000 km dalla capitale, a 300 da Ambanja, sede della diocesi, e a 15 km, di strada terribile, da Bealanana, la città più vicina. Abbiamo fondato una nuova parrocchia perché prima il territorio era vastissimo». E l’estensione della parrocchia continua a essere molto grande, anche a causa delle strade, poche e in pessime condizioni. Padre Jean continua: «Le sfide sono tante, e sono simili per tutta la chiesa del Madagascar. Prima di tutto la povertà. Il paese non è povero, ha molte risorse, ma a causa della geopolitica il popolo viene impoverito ogni giorno. Abbiamo constatato, dopo un anno di studio e comprensione della realtà, che la povertà è quasi ovunque. L’attività principale è l’agricoltura e la produzione di riso in particolare. A livello politico la storia del Madagascar è fatta di colpi di stato e sconvolgimenti, ma adesso con il nuovo presidente Andry Rajoelina, che è giovane e capace la situazione sembra stabilizzarsi».

Padre Jean ci racconta come sia difficile lavorare con la gente, molto occupata nei campi. Gran parte delle famiglie non riesce a mandare i figli a scuola a causa del basso reddito e molte persone, se ci sono problemi di salute, devono mettersi in cammino per 15-20 km per raggiungere un dispensario o un ospedale. «Queste preoccupazioni sono impellenti e occorre dare loro qualche risposta. La prima attività evangelica della chiesa in Madagascar è la lotta alla povertà. Materiale oltre che spirituale. E intellettuale, perché  molti giovani non studiano».

Ecco che numerose, a livello nazionale, sono le scuole cattoliche di vario ordine e anche i dispensari e i centri di salute. «Per lottare contro queste povertà – continua padre Jean – bisogna istruire la gente, perché fin tanto che il popolo è ignorante qualcuno continuerà a sfruttarlo e a mantenerlo in questa condizione. Se invece è armato della conoscenza sarà più facile che sappia difendersi e rivendicare i propri diritti». Questa è la posizione della chiesa del Madagascar. Quindi occorre investire nella formazione di bambini e giovani, ma anche delle famiglie, per aiutarli a formarsi a una gestione di famiglia e di comunità completa, sotto tutti i punti di vista.

AfMC foto Godfrey Msumange

Missione vera

Dopo oltre sei mesi ad Ambanja a studiare la lingua malagasy, i «nostri» tre missionari sono andati a installarsi a Beandrarezuma il 20 ottobre 2019, in occasione della Giornata missionaria mondiale. «La nostra prima attività è fare osservazione e conoscenza del popolo, delle sfide, delle realtà locali, per vedere come posizionarci come missionari della Consolata in mezzo a questa gente», continua padre Jean.

Oltre alle sfide generali che ritroviamo in tutto il paese, qui ne abbiamo altre. Nella diocesi di Ambanja non ci sono molti cristiani. Si stima che solo il 9-11% sono credenti e nella nostra missione ancora meno. L’attività principale è andare al campo e coltivare il riso, ogni giorno. Anche la domenica. Diventa difficile proporre delle attività pastorali. L’unico momento è domenica dopo la celebrazione dell’eucarestia, perché si ha un po’ di gente. Quello che riusciamo a fare lo facciamo subito dopo la messa».

Poi c’è tutta la problematica della logistica che pesa pure sull’attività pastorale.

«Qui non abbiamo una casa, ma siamo ospiti presso una famiglia, siamo tre in una piccola casa. C’è un terreno della diocesi, dove speriamo di costruire.

Le strade, e questo vale per tutto il paese, sono terribili. Mi ricordano le strade del Congo. Durante la stagione delle piogge (che terminano a maggio), sono impraticabili e non danno accesso a nulla. È difficile uscire di casa, perché non c’è posto dove andare, c’è fango ovunque, è difficile andare a piedi, in bici, moto o anche in auto. Noi abbiamo un’auto ma è ferma a Bealanana, nell’altra parrocchia, e dobbiamo fare a piedi i 15 km per arrivarci se dobbiamo viaggiare verso altre città.

Ci sono difficoltà di comunicazione, di movimento. Si passa tra montagne e valli in cui si produce riso: tutto è pieno di fango».

E continua fiducioso: «Poco a poco entriamo nella realtà e vediamo cosa si può fare per il nostro popolo qui.

La nostra sfida principale è dunque l’educazione. A Bendrarezona c’è una scuola costruita dal nostro ex vescovo Rosario Vella, che è gestita dalle suore. Ma i genitori hanno difficoltà a pagare la retta. Devono coltivare, vendere il riso e quindi pagare la scuola dei figli. Molti giovani non possono studiare perché le famiglie non hanno i soldi. Inoltre, terminata la primaria, dalla classe delle medie devono andare altrove, a Bealanana, Antsohihy o Ambanja, lontano dalla famiglia. Qui non ci sono scuole secondarie».

Il Presidente del Madagascar, Andry Rajoelina, alla cerimonia di lancio del “Covid Organics” in Antananarivo, il 20 Aprile 2020. / Photo by RIJASOLO / AFP

Madagascar e coronavirus

Anche la salute è un grosso problema e una priorità. I dispensari sono lontani dalla gente.

Il coronavirus è arrivato nel paese, ma grazie a diversi fattori e alle politiche intraprese dal presidente Andry Rajoelina, ad oggi, mentre scriviamo, i dati ufficiali parlano di 186 persone positive, di cui più del 50% i guarite (al 13/05/2020). Non c’è stato ancora alcun decesso.

«Il coronavirus è arrivato anche qui. Quando è cominciato in Europa le persone erano un po’ distratte. Il traffico aereo è continuato ed è così che è entrato nel paese il primo caso, verso la metà del mese di marzo. Qualche viaggiatore in arrivo dalla Francia. In quel momento noi tre eravamo a Antananarivo per rinnovare i nostri visti di residenza.  Il presidente stesso ha annunciato alla televisione i primi quattro casi. Noi siamo stati allertati e siamo rientrati velocemente alla missione. Tutto era chiuso».

Padre Jean apprezza il modo con cui è stata gestita l’emergenza: «Il presidente stesso era il primo sulla linea del fronte, insieme al governo per sensibilizzare la popolazione sui pericoli del Covid-19, mostrando cosa succede negli altri paesi. È stato costituito un centro operativo di risposta contro il virus. Hanno chiuso tutto il traffico aereo e stradale. Hanno cominciato a seguire i casi. Sono stati molto attivi. E la popolazione ha obbedito. Anche se non è facile. Ogni due giorni il presidente presentava la situazione alla televisione. I casi di contaminazione non si moltiplicano qui in Madagascar. Poi il 20 aprile, il presidente Rajoelina ha presentato un rimedio tradizionale, che ha chiamato Covid-organics che l’Istituto malgascio di ricerca ha studiato sulla base della pianta di artemisia (molto efficace e largamente usata nella cura della malaria, ndr). Hanno trattato due casi di malati e sembra che siano guariti. È un prodotto locale.

Ha dichiarato il deconfinamento parziale, e la ripresa parziale di alcune attività, come le classi finali della scuola, che hanno ripreso mercoledì 22 aprile, rispettando sempre le distanze. A ogni scuola si inviano mascherine prodotte sul posto e anche la medicina locale, Covid-organics distribuita gratuitamente a tutti gli alunni e gli insegnanti. Il Madagascar è sulla strada giusta. Se si riprendono le attività poco a poco, vuol dire che va meglio. Avevamo paura, ora la situazione non sembra grave, ma non abbassiamo la guardia, occorre sempre rispettare le consegne del ministero della Salute.

A livello di chiesa non facciamo attività, anche su indicazioni del cardinale, monsignor Désiré Tsarahazana, presidente della Conferenza episcopale malgascia. Preghiamo a casa, senza messe e raggruppamenti. Ho speranza che il Covid-19 non farà molte vittime qui».

AfMC foto Godfrey Msumange

 

Tante missioni, tante sfide

Chiediamo a Baba Godfrey se, secondo lui, c’è differenza con le sfide in altre missioni di recente apertura, come l’Angola.

«Le sfide si assomigliano. Qui gli esperti dicono che occorre studiare almeno anno la lingua, senza la quale non riesci a parlare e quindi a fare missione. Occorre inoltre lavorare tanto in comunione, come ci insegna il Concilio Vaticano II, che definisce la missione come comunione. Oggi più di ieri ci chiedono di lavorare in stretta comunione con diversi enti sul territorio.

Si tratta di uno dei paesi più poveri del mondo, noi siamo all’inizio e vogliamo fare un progetto con la gente locale».

A proposito, ci racconta padre Jean «la popolazione di Beandrarezona ha iniziato a rimettere a posto la strada di collegamento con Bealanana, che è la più importante per il villaggio. Noi ci siamo dati disponibili e parteciperemo direttamente ai lavori». Anche questa è missione.

E padre Godfrey parla di futuro: «Come prospettiva abbiamo quella di aprire altre missioni nel paese nei prossimi anni, non molte, si parla di due o tre. Piccole comunità, ma grandi segni».

Marco Bello
(1-continua)

AfMC foto Godfrey Msumange

Madagascar in pillole

  • Popolazione: 26,26 milioni
  • Superficie: 587.041 km²
  • Pil pro capite: 527,50 Usd (2018)
  • Indice di sviluppo umano (classifica): 0,521 (162 su 189, 2018)
  • Tasso di fecondità: 4,78
  • Speranza di vita: 66,3 (2017)
  • Lingue ufficiali: Malgascio, Francese
  • Capitale: Antananarivo
  • Moneta: Ariary
  • Etnie: 18 etnie principali. Altipiani centrali (origine asiatica): Merina (3 milioni) e Betsileo (2 milioni). Costa (origine bantu), dei quali i maggiori sono: Betsimisaraka (1,6 milioni), Tsimihety (700mila), Sakalava (700mila).
  • Religioni: circa metà della popolazione malgascia è dedita a culti tradizionali locali, che tendono a essere centrati attorno all’idea del legame con i defunti. Il 45% dei malgasci sono invece cristiani, suddivisi circa in parti uguali fra cattolici e protestanti.

AfMC foto Godfrey Msumange

AfMC foto Godfrey Msumange