Marsabit: Da «maisha magumu» a «maisha mazuri»

testo di Giuseppe Inverardi e Gigi Anataloni |


Dal 30 ottobre scorso non abbiamo più la franca risata e gli occhi allegri di monsignor Ambrogio che è stato per 25 anni vescovo della diocesi di Marsabit in Kenya. Ora dal cielo continua l’opera di intercessione già iniziata nel santuario della Consolatrice sul monte di Marsabit.

Lo ricordo bene quel giorno. Ero in noviziato, quando il 9 febbraio 1957 ci fu comunicato che tre nostri confratelli venivano ordinati sacerdoti a Washington. Uno di loro era padre Ambrogio Ravasi. Erano stati i primi ad essere inviati a studiare teologia alla Catholic University of America. Un atto coraggioso e lungimirante da parte della Direzione generale di allora. L’interculturalità, anche teologico accademica, faceva capolino.

Ambrogio Ravasi, sacerdote, e missionario. Il sacerdozio missionario ha caratterizzato tutta la sua vita. Aveva cuore e spirito pastorale anche quando era occupato in altre attività e in uffici amministrativi. Sia a Buffalo, che a Somerset, tutti potevano contare sulla sua pronta disponibilità per vari servizi religiosi. Era gioia per lui.

Consacrazione e piscopale di mons Ambrogio Ravasi a bellusco, suo paese natale, da parte del card Otunga e dei vescovi Gatimu e Njenga dal Kenya.

Un uomo gioioso

Consacrazione episcopale di mons Ambrogio Ravasi a Bellusco.

Gioia, semplicità, serenità lo connotavano. Tutti ne venivano toccati e ne parlavano con ammirazione. Accoglieva e accomiatava con sorriso di cordialità.

Conosco pochi missionari poliedrici come lui, per obbedienza, o necessità, o carisma. Negli Stati Uniti è stato insegnante, maestro dei novizi, primo superiore e formatore del seminario di Buffalo, poi superiore delegato, quindi incaricato della direct mail (il servizio di corrispondenza con i benefattori, ndr), e anche direttore della rivista Consolata missions.

Visse un episodio drammatico come maestro dei novizi, fortunatamente senza conseguenze. Un novizio, veterano di guerra, all’improvviso impazzì. Brandendo un coltello minacciò padre Ravasi. Non so con quali convincenti parole lo dissuase, ma fu salvo.

1971, in Kenya

Nel 1971 raggiunse finalmente il Kenya, una destinazione attesa da anni, per svolgere esplicita attività missionaria. Il suo desiderio fu però tradito. Lo mandarono subito come insegnante e cappellano al Teacher’s college di Egoji, diocesi di Meru, dove svolse un apostolato significativo tra i giovani studenti che si preparavano a essere insegnanti.

Dopo soli tre anni, fu eletto vice superiore regionale dei missionari in Kenya, un servizio a tempo pieno. Rifiutata la rielezione nella speranza di poter finalmente essere inviato nei villaggi più remoti, dal 1977 al 1981, come l’Allamano, dovette accettare la «parrocchia più grande», e divenne superiore e formatore dell’incipiente seminario dei missionari della Consolata a Langata, alla periferia di Nairobi.

Erano i primi passi in Africa della formazione di missionari nativi del paese, attraverso gli studi di filosofia prima, e il noviziato e gli studi teologici poi.

Il «nuovo» doveva inserirsi sull’albero della tradizione del carisma, e la tradizione doveva accogliere il nuovo culturale. Un futuro inedito ma promettente di fecondità. Padre Ravasi ne era convinto.

La formazione nel nuovo contesto richiedeva discernimento, pazienza, fiducia, apertura, realismo. E se l’educazione, come afferma don Bosco, è un’arte dell’amore, tanto più lo era nelle nuove circostanze. Padre Ravasi possedeva i necessari requisiti, e li esercitava con intelligenza e cuore. Quante conversazioni e considerazioni assieme ai suoi cooperatori formatori, alle quali partecipavo pure io (padre Inverardi, allora superiore generale, ndr), per tracciare un cammino illuminato.

Mons Ambrogio Ravasi in dialogo con donne samburu all’inaugurazione e benedizione della nuova chiesa di Lodokejek.

Nel 1981, vescovo

Le voci della candidatura di padre Ravasi a vescovo di Marsabit già circolavano. La supposizione divenne certezza quando nel 1981 a Roma, durante il Capitolo generale dei missionari della Consolata, il cardinal Angelo Rossi, prefetto di Propaganda Fide, si appartò con lui e gli parlò a lungo. Doveva far breccia nella sua resistenza. Alla fine padre Ambrogio, per obbedienza, accettò. Vescovo di Marsabit.

La consacrazione avvenne il 18 ottobre, vigilia della giornata missionaria mondiale, al suo paese, Bellusco (allora nella provincia di Milano) per le mani di ben tre vescovi africani: il cardinal Maurice Otunga di Nairobi e i vescovi Cesare Gatimu di Nyeri e John Njenga di Eldoret.

2002 a Tuthu, mons Ravasi durante la celebrazione del primo centenario della presenza dei missionari della Consolata in Kenya.

La diocesi nata grande

Marsabit è la diocesi creata dal nulla nel 1964 per mons. Carlo Cavallera, quando lodevolmente si dimise da vescovo di Nyeri per passare la mano al primo vescovo keniano, mons. Cesare Gatimu, suo ausiliare dal 1961.

Il Marsabit del deserto, delle strade impolverate, delle distanze interminabili, degli shifta (banditi guerriglieri somali, ndr), dei gruppi etnici in conflitto tra loro per le scarse risorse, delle difficoltà a non finire. Lo zelo e l’intraprendenza di mons. Cavallera avevano fatto fiorire il deserto già a cominciare dal 1952. Allora, in piena ribellione Mau Mau, aveva incoraggiato i suoi missionari a entrare nelle terre del Nord, formalmente parte della sua diocesi di Nyeri, ma chiuse ai missionari dal potere coloniale inglese, per visitare i campi dei prigionieri politici a Baragoi. Più tardi entrarono per assistere le piccole comunità di cattolici che già esistevano nei centri principali dove c’erano funzionari governativi e commercianti originari da Goa in India.

Erano sorte, così, missioni in luoghi strategici con i loro addentellati di evangelizzazione e promozione umana: asili, scuole, dispensari, pozzi. Più tardi aveva iniziato a Maralal la scuola per catechisti e il seminario, il Good Sheperd seminary, per la formazione di sacerdoti dai popoli nomadi.

Inaugurazione e benedizione della nuova chiesa (ancora incompleta) della cappella di Lemsigiyioi a Suguta Marmar, voluta da padre Luigi Andeni e benedetta da mons Ambrogio Ravasi.

Impegno continuo

Non era facile subentrare a mons. Cavallera. Tuttavia, con personalità e stile diverso, mons. Ravasi continuò a far crescere la diocesi, sì da portarla alla sua «moltiplicazione». Nel 2001 nacque la diocesi di Maralal (circa 21mila km2), con mons. Virgilio Pante come primo vescovo, nel distretto Samburu a Sud, lasciando ancora a Marsabit un territorio di oltre 80mila km2 al Nord.

Il vescovo, ricco di umanità ed energia, era molto vicino ai missionari e missionarie e alla gente. Affrontava sfide e situazioni difficili con invidiabile serenità. Vedeva bene i problemi, e sapeva comprendere e accompagnare. Sempre dialogante, ma determinato ed energico quando necessario. Reagiva, agiva, decideva. Forte la sua voce, più forte il suo carattere.

Era un eccellente comunicatore. Scriveva moltissime lettere. Sia a Somerset quando, incaricato della direct mail, era a contatto con i benefattori, sia dopo. Le sue lettere non erano corte, perché ricche di notizie.

Io non ho mai convissuto con lui nella stessa comunità. Ma eventi, circostanze e attività ci hanno messi vicini sia negli Stati Uniti che in Kenya, e dopo. Vicini… è dire nulla. Vicini e fratelli. Abbiamo condiviso riflessioni, decisioni, cammini. La sintonia di convinzioni e valori era perfetta. Era sempre una gioia incontrarsi e ricordare. Askofu (vescovo) Ravasi, un autentico missionario dalla Consolata.

Vescovo emerito

Raggiunti i limiti di età, nel 2006, ha dato le dimissioni e la diocesi è passata sotto la cura di mons. Peter Kihara che, da buon missionario della Consolata, ha lasciato la più centrale diocesi di Muran’ga con i suoi agricoltori montanari kikuyu per stare con i pastori delle savane e deserti del Nord.

Il vescovo Ravasi, ormai emerito, ha chiesto allora, e ottenuto, di poter restare nella diocesi che ha tanto amato e, dopo un anno nell’episcopio, conscio del rischio di essere una presenza difficile per il suo più giovane successore, si è trasferito nel «Maria Mfariji house of prayer shrine» (Maria Consolatrice casa di preghiera e santuario), da lui fatto costruire in cima ai monti di Marsabit, per poter fare quello che sentiva ormai essere il suo servizio principale alla «sua sposa»: pregare.

Al Maria Mfariji shrine di Marsabit presso la tomba di padre Paolo Tablino.

Maria Mfariji Shrine

Il santuario della Consolata consolatrice (Mfariji è colei che dona consolazione, faraja, ndr), a 1.500 metri, è adagiato sulla montagna alle spalle della cittadina di Marsabit. È la realizzazione di un sogno di mons. Carlo Cavallera che voleva ringraziare la Consolata per le meraviglie operate in quella regione, a partire da quella che lui considerava la miracolosa apertura di quei territori «proibiti al Vangelo».

Diventando vescovo, mons. Ravasi aveva fatto suo quel progetto, ma per venti anni, altre priorità come scuole, acqua, salute, lotta alla fame e povertà, nuove missioni, i catechisti, il seminario e l’impegno per la convivenza pacifica tra i diversi gruppi etnici, avevano assorbito tutte le sue forze.

L’anno giubilare del 2000 ha dato un nuovo stimolo all’antico sogno. Trovato un architetto italiano disposto a sognare con lui, ha coinvolto i santuari in tutta Italia a dargli una mano e, intanto, ha maturato l’idea di costruire non solo un santuario per ringraziare la Madre di Dio, ma soprattutto un centro di preghiera e formazione per tutta la diocesi. Il tutto arricchito dal «safaria ya imani» (il viaggio della fede), quarantatre grandi quadri che presentano la storia della Salvezza e sono una calamita che attira tanti visitatori. Un luogo con una comunità residente che prega e insegna a pregare. Sia con l’esempio della vita che attraverso incontri, ritiri, lectio divina e quanto altro può aiutare a vivere più profondamente la propria fede.

Iniziata la costruzione nel 2002, il santuario è stato inaugurato nel 2006 e poi ampliato con una piccola casa del pellegrino per coloro che desiderano fermarsi per qualche giorno di ritiro.

Gennaio 2009, nel Consolata shrine di Nairobi al funerale di padre Giuseppe Bertaina.

Come Mosè sul monte

L’amore alla Consolata lo aveva indotto a costruire quel santuario, una meraviglia per l’ancora giovane chiesa del Marsabit.

Lui ci aveva creduto. Per questo nei suoi ultimi anni è rimasto lassù, su quel monte, come Mosè con le mani alzate a intercedere per il suo popolo. Là, accanto alla tomba di un altro grande pioniere del Nord, padre Paolo Tablino, il suo corpo ora dorme un sonno eterno di pace, ma veglia in intercessione per la chiesa del Marsabit, che ha servito con il prodigo amore del Buon Pastore.

«Maisha magumu»

Caro Ambrogio, con benevola facezia più volte esclamavi «maisha ni magumu» (la vita è dura). Vero. Tanti ripetevano scherzosamente il tuo ritornello. Vita dura: sfide, difficoltà, problemi. Ma pure sogni e progetti. Non ti arrendevi. Quante realizzazioni. Ora non farai più lunghi viaggi faticosi. Solo riposo. Non più deserto, ma i prati ubertosi di una «maisha mazuri» (vita bella e buona) che il Buon Pastore ti dona in premio. A te, servo umile e fedele.

Giuseppe Inverardi
a cura di Gigi Anataloni

Mons Ravasi ritratto ai piedi della croce in uno dei 43 grandi dipinti sulla storia della Salvezza al Maria Mfariji shrine di Marsabit.


Dai campi della Brianza alle savane del Kenya

  • 1929: nasce a Bellusco il 17/02, da Nazzareno e da Stucchi Maria.
  • 1935-1941: frequenta le scuole elementari a Bellusco.
  • 1941-1943: a Vimercate, la scuola di Avviamento al lavoro.
  • 1943-1945: sospesi gli studi, aiuta i genitori nel lavoro dei campi; sono gli anni più duri del secondo conflitto mondiale.
  • 1945-1947: a 16 anni entra, a Montevecchia, tra i missionari della Consolata per iniziare gli studi ginnasiali.
  • 1947-1952: prosegue gli studi alla Certosa di Pesio (Cuneo), con l’anno di noviziato e la professione religiosa il 10/11/1951.
  • 1952-1953: anno di filosofia a Torino.
  • 1953-1957: destinato agli Stati Uniti, si laurea in teologia presso l’Università Cattolica di Washington; il 9/02/1957 è ordinato sacerdote dal delegato apostolico Amleto Cicognani, sempre a Washington.
  • 1957-1971: nei 14 anni di permanenza in Usa, riveste diversi incarichi: dal 1957 al 1963 si dedica alla formazione nei seminari di Cromwel, Batavia e Buffalo; dal 1963 al 1968 ricopre la carica di superiore dei Missionari della Consolata negli Stati Uniti; dal 1968 al 1971 è incaricato della animazione missionaria e redige la rivista «Consolata Missions».
  • 1971: è destinato alle missioni del Kenya.
  • 1981: il 30 luglio, Giovanni Paolo II lo nomina vescovo di Marsabit.
  • 1981: il 18 ottobre è consacrato vescovo a Bellusco in Brianza.
  • 2006-2020: diventa vescovo emerito e si ritira in preghiera nel Maria Mfariji house of prayer shrine in Marsabit.
  • 2020: il 30 ottobre riceve la chiamata finale al Cielo.

 

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Dietro la bontà del capitalismo

testo di Paolo Moiola |


Da tempo la globalizzazione neoliberista ha ridotto l’influenza delle organizzazioni multilaterali. Lo stiamo vedendo anche con la gestione della pandemia da Covid-19. Sono le organizzazioni private che tirano le fila, in primis quelle facenti capo a Bill Gates. Cosa c’è dietro questa filantropia che muove montagne di soldi? Siamo sicuri che la definizione di «ricchi e buoni» sia corretta?

La copertina di «Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo» (Emi, 2020).

È inusuale dare a un libro un titolo in forma di domanda. Lo fa Nicoletta Dentico, giornalista e attivista, con il suo «Ricchi e buoni?».

Che la sua domanda sia retorica lo si intuisce immediatamente dal sottotitolo: «Le trame oscure del filantrocapitalismo» (Emi, 2020). L’economia è da sempre tematica ostica e fortemente divisiva. Lo vediamo quotidianamente nella politica, ancora di più di questi tempi, a causa della pandemia. Il libro è un atto d’accusa duro e circostanziato che potrebbe irritare coloro che amano ritenersi o definirsi «moderati». «Il mio è un libro di denuncia rigorosa, ma sempre denuncia è. Io penso che questo non sia un tempo per essere sfumati: le cose vanno dette».

Miliardari filantrocapitalisti

I ricchi di cui scrive Nicoletta Dentico sono miliardari, quelli appartenenti al «Mondo Nuovo dell’1 %», come li definisce, con una punta di sarcasmo, Vandana Shiva nella sua prefazione. Ieri si chiamavano Andrew Carnegie, John Rockefeller, Henry Ford, oggi Ted Turner, Mark Zuckerberg, Warren Buffett e, soprattutto, Bill e Melinda
Gates.

«Non dimentichiamoci – ci ricorda l’autrice – che i miliardari di oggi sono figli di un’economia senza freni, giocatori di una partita senza regole che si sono arricchiti in maniera strabiliante attraverso una globalizzazione che ha prodotto la diseguaglianza che abbiamo sotto gli occhi. Persone che sono riuscite ad arricchirsi con i monopoli brevettuali, con evasione ed elusione fiscali. E portando molto delle loro ricchezze nei paradisi fiscali».

La loro «bontà» (le virgolette sono necessarie) è riferita alle elargizioni benefiche in favore della collettività mondiale, in particolare nel campo della salute. Tutto sarebbe lodevole se non si basasse su fondamenta errate (il sistema economico neoliberista) e non finisse per frenare ogni possibile cambiamento. È il filantrocapitalismo e, più precisamente, il suo lato oscuro.

«Il filantrocapitalismo – spiega Nicoletta – è quella forma particolare di filantropia che usa modelli, strumenti, valori del mercato e dell’impresa per spingerli, promuoverli e imporli anche nell’agenda sociale, nell’agenda dei diritti. Business e filantropia diventano dunque un tutt’uno e la filantropia diviene la continuazione del business con altri mezzi. Nel filantrocapitalismo si annulla pertanto il confine tra profit e non profit».

Dal dono alla filantropia del sistema

«La mia è una denuncia di chi fa della filantropia una forma di esercizio egemonico. Di chi è riuscito a impossessarsi anche dell’ultimo fortino rimasto indenne dalla logica capitalista: quello del mondo della solidarietà e del dono. Quelli cioè che riescono a capitalizzare da un territorio che è fondativo dell’essenza umana. Dono e solidarietà fanno infatti parte di tutte le culture. Invece, queste persone sono riuscite a cambiarli geneticamente, facendone prolungamenti del loro potere economico e imprenditoriale. Su questi soggetti io rivolgo la mia attenzione. Li chiamo “sacerdoti” perché costoro portano avanti una religione di mercato vera e propria. Quando costoro intervengono, non guardano mai all’origine del problema, loro trovano sempre una soluzione tecnica, biotecnologica, imprenditoriale. La loro idea è di creare mercati per i poveri, cosa che non tocca le cause dei problemi. Sono dei dirottatori e agiscono – appunto – con un fare religioso. E attorno a loro c’è un’aura di venerazione da parte di molti governi, soprattutto del Nord del mondo».

Osserviamo che filantropia sarebbe un termine positivo fin dalla sua etimologia: «amore verso l’uomo» o, per usare la definizione del dizionario Treccani, «disposizione d’animo e sforzo atto a promuovere la felicità e il benessere degli altri». «Occorre – precisa Nicoletta – distinguere tra filantropia e questa forma filantrocapitalista. C’è una filantropia che fa cose meravigliose, vocata magari ad azioni più piccole, sostenendo realtà che afferiscono ai diritti umani. C’è della filantropia che è stata fatta con della ricchezza meramente imprenditoriale. Penso ad alcune organizzazioni tedesche come la Rosa Luxemburg Foundation o la Heinrich Böll Foundation. Il mio non è un attacco a tutta la filantropia. Tutt’altro. C’è molta buona filantropia, anche negli Stati Uniti».

Una sede della fondazione di Bill e Melinda Gates. Foto Marc Smith.

 

I passaggi storici

Per arrivare all’attuale mutazione genetica della filantropia, ci sono state tappe storiche abbastanza delineate: negli anni Ottanta, la fase di massima espansione della globalizzazione; tra il 1999 e il 2001 (con le manifestazioni a Seattle e Genova) un tentativo di reazione da parte della società civile; dal 2000 al 2019 la progressiva perdita di centralità delle organizzazioni multilaterali (Onu, Who, ecc.); nel 2020 l’arrivo della pandemia che ha rovesciato il tavolo e che può ridisegnare il mondo (in peggio o in meglio).

«Per me il problema è la fragorosa assenza di regole del gioco che invece c’erano prima degli anni Ottanta. Veniamo da quattro decenni di cultura dell’idea che il pubblico non funziona, che è inefficiente. Ci pensano i privati, perché privato è meglio. Quattro decenni di spinta verso una privatizzazione senza regole».

Questo processo raggiunge il proprio apice quando arriva alle Nazioni unite, la più grande organizzazione pubblica sovranazionale. «I nostri miliardari filantropi capiscono che fare i buoni giocando l’agenda della solidarietà è una strategia utile per entrare nelle organizzazioni internazionali più deboli portando con sé tutti gli attori economici propri».

Nel 2000 viene così approvato lo United nations global compact, un patto tra Nazioni unite e aziende. L’accordo si trasforma «nel cavallo di Troia del settore privato, ormai dentro la pancia delle istituzioni internazionali». Un anno dopo nasce il «Fondo globale contro l’Aids, la tubercolosi e la malaria», organizzazione di natura privata che risponde a logiche di diritto privato.

Si è così passati dal multilateralismo (coordinamento tra più stati attorno a un obiettivo) al multistakeholderismo (coordinamento tra attori diversi, da stakeholder, soggetto interessato). «Sì, in italiano il termine è orrendo – spiega Nicoletta -, ma utile per indicare che siamo tutti attorno a uno stesso tavolo a gestire un determinato problema. Senza però considerare che non siamo tutti lì per lo stesso motivo. Abbiamo ragioni diverse e anche profondamente divergenti. Ed anche missioni diverse e divergenti perché il settore privato e soprattutto le multinazionali, alla fine, hanno l’obbligo statutario di fare profitti».

Oggi i bilanci dell’Organizzazione mondiale della sanità mostrano che la fondazione di Bill e Melinda Gates è, in termini assoluti, il secondo finanziatore dopo gli Stati Uniti: 531 milioni di dollari nel biennio 2018-2019. E al quarto posto c’è la Gavi Aliance, organizzazione pubblico-privata nella quale sempre la Fondazione Gates ha un ruolo di preminenza (17% dei fondi totali). «Quando Bill Gates parla all’Oms, non fiata nessuno! E nessuno si azzarda a fare un’obiezione».

Questo è vero a tal punto che il New York Times (23 novembre 2020) ha parlato di un «Bill chill», un brivido di freddo che percorre chi teme di far arrabbiare Gates e, per questo, si autocensura.

Nicoletta Dentico è molto dura verso il fondatore di Microsoft, principale esponente del filantrocapitalismo di oggi. «Critiche motivate – spiega lei – . Gates è particolarmente pericoloso. Ormai è ovunque. Ovunque. Non c’è settore della vita umana in cui lui non abbia deciso che ha ricette da somministrare: agricoltura, finanza, cambiamento climatico, salute. In questo momento Bill Gates è il kingmaker, lo zar della ricerca sul Covid-19. Il problema è: lui può spendere un sacco di soldi, ma non c’è un processo democratico rispetto alla sue decisioni. Risponde unicamente a se stesso. Vige una specie di trinità: lui, la moglie Melinda e Warren Buffet, il quale nel giugno 2006 all’uomo (Gates, in quel momento) più ricco del mondo regalò 36 miliardi di dollari. Aveva speculato fino a quel momento, ma aveva capito che sarebbe scoppiata la bomba finanziaria. Pertanto, diede tutti quei guadagni fatti con la speculazione alla fondazione di Gates, che – va ricordato – è un’organizzazione potentemente defiscalizzata e che dà reputazione».

L’Oms e il Covid

Dagli anni Ottanta, l’Oms ha visto la riduzione dei contributi obbligatori degli stati membri e l’aumento delle contribuzioni volontarie. Non è la stessa cosa: è la vittoria del privato sul pubblico, la vittoria del filantrocapitalismo.

Si obietta che l’Oms non si merita i finanziamenti, che anche la sua gestione dell’emergenza Covid-19 è stata fallimentare. «In realtà – precisa Nicoletta -, la situazione è ben più complessa. Di questa organizzazione ci sarebbe un gran bisogno. Se in questo momento è debole – ed è vero -, occorre sostenerla. Riflette le debolezze degli stati che sono i suoi peggiori nemici, come ha dimostrato Trump».

Nonostante le minacce dell’ormai ex presidente, stando al bilancio ufficiale dell’Oms per il biennio 2020-2021, per quanto concerne i finanziamenti pubblici, gli Stati Uniti sono primi, seguiti (a distanza) dalla Cina. Tuttavia, la pandemia ha spinto quest’ultima e soprattutto la Germania a offrire finanziamenti aggiuntivi.

«Un tempo – precisa Nicoletta Dentico – anche l’Italia era un grande finanziatore. Oggi sembra preferire il Gavi, il Fondo globale e iniziative similari».

L’autrice di Ricchi e buoni? ha una lunga esperienza nel campo della salute. È stata infatti direttrice di Medici senza frontiere Italia durante la presidenza di Carlo Urbani (amico e collaboratore di questa rivista). Ha lavorato per la campagna sull’accesso ai farmaci essenziali.

«Il Covid – dice – è un segno dei tempi che va colto. La devastazione della pandemia arriva da Sars-Cov-2, ma anche dall’arroganza e dall’inefficienza del mondo. E dalla riluttanza a capire che occorre cambiare le regole del gioco. Mi pare ci sia tanta gente che aspetta che “passi la nottata” per tornare a fare quello che faceva prima. Ma il Covid ci dice che non dobbiamo tornare dove eravamo prima. La seconda ondata della pandemia ci ha detto che dobbiamo cambiare rotta».

Nicoletta Dentico, autrice di «Ricchi e buoni?» (Emi, 2020). Foto: archivio Dentico.

Francesco, il leader

Nicoletta Dentico ha iniziato il suo lungo percorso di lotta per la giustizia come volontaria di Mani Tese, storica organizzazione cattolica.

«Rivendico la mia appartenenza al campo cattolico – spiega -. Il discorso evangelico “Non sono venuto a portare pace ma contraddizione”, mi ha molto ispirata nella mia vita di cristiana». E pure per le pagine di Ricchi e buoni?, aggiungiamo noi.

«La mia critica è molto dura perché io penso che Bill Gates e gli altri siano il risultato di un disimpegno, di una cessione di sovranità mostruosa da parte della politica. Io denuncio l’insipienza e la connivenza dei governi. Credo che un mondo in cui realtà private governano la cosa pubblica sia un mondo distopico».

A questa ritirata degli stati, pare si sottragga il Vaticano, che è nell’Organizzazione mondiale del commercio come osservatore permanente. Lo scorso ottobre si è schierato a fianco di India e Sud Africa per chiedere la sospensione delle norme sui brevetti allo scopo di affrontare la pandemia.

Chiediamo a Nicoletta la sua opinione rispetto al pensiero e alle azioni di Francesco, un papa a cui certamente non mancano gli avversari, anche nella propria squadra d’appartenenza.

«Lui è l’unico che si sia preso la briga di ascoltare i movimenti sociali in ben tre incontri mondiali (nel 2014, 2015 e 2016) e quella spinta diversa che viene dal basso. A iniziare dalla Evangelii gaudium (2013) – cioè prima della Laudato si’ (2015) –  quando ha cominciato a scrivere che “esta economia mata”, questa economia uccide. È lì che si è giocato, soprattutto in America, la sua reputazione. È con la Evangelii gaudium che hanno iniziato ad attaccarlo in quanto anticapitalista, in quanto comunista. Se non dice lui certe cose, non le dirà nessun altro. Se lui parla della sospensione della proprietà intellettuale per la lotta al Covid, ne parlerà tutto il mondo. Per fortuna, c’è papa Francesco che capisce come nessun altro queste problematiche. Per questo è, in assoluto, il leader di riferimento».

Paolo Moiola


Le organizzazioni principali

Filantropia made in Usa

  • Chi: Bill & Melinda Gates (Usa)
    Organizzazione (2000): Bill & Melinda Gates Foundation
    Sito: www.gatesfoundation.org
  • Chi: Bill & Melinda Gates, Wto, Unicef, World Bank, ecc.
    Organizzazione (2000): Global Alliance for Vaccines and Immunisation – Gavi, The Vaccine Alliance
    Sito: www.gavi.org
  • Chi: Bill & Melinda Gates, Norvegia
    Organizzazione (2017): Coalition for Epidemic Preparedness Innovations
    Sito: cepi.net
  • Chi: Bill & Melinda Gates, Catholic Relief Services (Usa), governi, ecc.
    Organizzazione (2002): The Global Fund to Fight Aids, Tuberculosis and Malaria
    Sito: www.theglobalfund.org
  • Chi: Bill & Melinda Gates, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Brasile, Corea, Cile
    Organizzazione (2006): Unitaid – Innovation in Global Health
    Sito: unitaid.org
  • Chi: Bill & Melinda Gates
    Organizzazione (2003): Foundation for Innovative New Diagnostics – Find
    Sito: www.finddx.org
  • Chi: Bill & Melinda Gates e Warren Buffett (Usa)
    Organizzazione (2010): The Giving Pledge
    Sito: givingpledge.org
  • Chi: Ted Turner (Usa)
    Organizzazione (1998): Un Foundation e Better World Fund
    Siti: unfoundation.org; www.abetterworldfund.org
  • Chi: Bill & Hillary Clinton (Usa)
    Organizzazione (1997): Clinton Foundation – Clinton Global Initiative
    Sito: www.clintonfoundation.org
  • Chi: Mark Zuckerberg & Priscilla Chan (Usa)
    Organizzazione (2015): Chan Zuckerberg Initiative
    Sito: chanzuckerberg.com
  • Chi: George Soros (Usa)
    Organizzazione (1979): The Open Society Foundations
    Sito: www.opensocietyfoundations.org

Bill Gates durante una conferenza della Gavi Alliance, una delle sue numerose creature. Foto Ben Fisher – Gavi Alliance.

LE PIÙ ANTICHE

  • Chi: Andrew Carnegie (Usa)
    Organizzazione (1905): Carnegie Foundation for the Advancement of Teaching
    Sito: www.carnegiefoundation.org
  • Chi: John D. Rockefeller (Usa)
    Organizzazione (1913): The Rockefeller Foundation
    Sito: www.rockefellerfoundation.org
  • Chi: Henry e Edsel Ford (Usa)
    Organizzazione (1936): The Ford Foundation
    Sito: www.fordfoundation.org

GLI ALTRI

L’imprenditore di Amazon, Jeff Bezos (Usa), l’uomo più ricco del pianeta, non ha ancora una propria fondazione.

Pa.Mo.


Alcune date.

La società, dal pubblico al privato

  • 1948 – Nasce l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms – Who, World health organization).
  • 1995 – Nasce l’Organizzione mondiale del commercio (Oms-Wto) ed entrano in vigore gli accordi «Trips» sulla proprietà intellettuale.
  • 1999 – 2001 – A Seattle (dicembre 1999) e a Genova
    (luglio 2001) movimenti della società civile protestano contro la globalizzazione neoliberista.
  • 2000 – Viene ufficialmente lanciata la Bill and Melida Gates Foundation.
  • 2000, luglio – Sotto lo slogan «Uniting business for a better world», nasce lo «United nations global compact», che apre le Nazioni unite alle imprese private.
  • 2020, 11 marzo – L’Oms dichiara la pandemia globale da nuovo coronavirus.
  • 2020, aprile – Donald Trump ordina di bloccare i finanziamenti Usa (che sono i più consistenti) all’Oms, colpevole di una pessima gestione della pandemia e di essere succube della Cina. Per parte sua, Pechino decide di versare un contributo extra.
  • 2020, 2 ottobre – In una lettera all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc-Wto), India e Sud Africa chiedono di derogare alle norme sulla proprietà intellettuale per rendere più facile per i paesi in via di sviluppo la produzione o l’importazione di farmaci contro il Covid-19.
  • 2020, 17 ottobre – A Ginevra, alla riunione dell’Oms, il Vaticano chiede che la proprietà intellettuale non ostacoli l’accesso al vaccino.
  • 2020, novembre – In rapida successione tre aziende occidentali annunciano la produzione di vaccini contro il virus Sars-CoV-2.

Pa.Mo.

 




Uniti in difesa dell’Amazzonia

testo di Paolo Moiola |


A novembre si è tenuta, a Mocoa (Colombia), la nona edizione del «Foro social  panamazónico» (Fospa). Un’occasione per fare il punto sull’Amazzonia e su una situazione complessiva aggravata dalle conseguenze della pandemia.

Il logo del Foro Social Panamazónico (Fospa, in sigla) è particolarmente indovinato. È composto di due profili sovrapposti che, al posto dei capelli, hanno la mappa della Panamazzonia. Il significato implicito è che popolazioni amazzoniche – indigene in primis, ma anche fluviali, contadine e afrodiscendenti – e ambiente naturale debbono essere in simbiosi per poter esistere. Una simbiosi ben descritta nella dichiarazione finale del Fospa del 2017: «Un senso di territorialità basato su rapporti di rispetto e integrazione con il tessuto amazzonico in tutte le sue dimensioni, non solo materiali, ma anche spirituali, culturali e d’uso».

Il cammino del Fospa

Del Foro Social Panamazónico fanno parte organizzazioni laiche e cattoliche (tra queste ultime, Repam, Cimi, Cpt, Fundación Jubileo, Caaap) dei nove paesi che compongono la regione della Panamazzonia. Dalla nascita nel 2001, il Fospa ha tenuto nove incontri: in Brasile (cinque), Venezuela, Bolivia, Perù e infine a Mocoa, nel Putumayo, Colombia. Quello colombiano è stato un incontro virtuale visto che la pandemia non ha risparmiato neppure la Panamazzonia.

Ognuno dei due ultimi incontri si è concluso con un manifesto d’intenti che riassume la filosofia e gli obiettivi dei popoli amazzonici: si tratta della Carta di Tarapoto (2017) e della Carta di Mocoa (2020).

Il volo di un uccello nell’Amazzonia boliviana. Foto Paolo Moiola.

La resistenza contro il modello imperante

Il logo del Fospa e il manifesto del convegno dello scorso novembre, organizzato a Mocoa, in Colombia, in modalità virtuale. Immagine di FOSPA, novembre 2020.

Gli aderenti al Foro si propongono di assicurare a tutti una vita degna rispettando la diversità di ogni soggetto nonché di agire congiuntamente per curare e difendere l’Amazzonia.

Cosa essa sia lo descrive bene il manifesto redatto a Mocoa. «L’ecosistema amazzonico – vi si legge – è una giungla di complesse interazioni e saggezza naturale con mega-biodiversità, espressioni naturali e culturali, dalle Ande all’Atlantico. La difesa della giungla implica imparare a conviverci, condividere in comunità le proprie forme abitative, cibo, economia, medicina e saggezza ancestrale; significa promuovere rapporti di rispetto e uguaglianza nelle nostre comunità, sradicare ogni forma di violenza».

In questi anni, l’avversario principe non è cambiato: è un modello di sviluppo definito «estrattivista, depredatore, patriarcale, colonialista e discriminatorio», portato avanti da governi e imprese (Fospa Perù, novembre 2020). Un modello che mette in serio pericolo la sostenibilità ambientale e la sovranità alimentare, aumentando la vulnerabilità agli impatti dei cambiamenti climatici.

In questo scenario, la sovranità e l’autodeterminazione sono sempre più limitate e i diritti sono meno riconosciuti e più violati. Come è successo con lo strumento della consultazione preventiva libera e informata.

«Nonostante ciò, i popoli amazzonico e andino resistono e sopravvivono con l’impegno incrollabile di difendere la vita nei nostri territori», scrive la Carta di Tarapoto (Fospa, 2017).

Neppure il Covid

Ambiente e popolazioni della  Panamazzonia non sono stati immuni dalle conseguenze della pandemia. Anzi, l’emergenza ha acuito le problematiche di sempre. Le attività estrattive, i megaprogetti, l’invasione e l’accaparramento delle terre non si sono fermati, moltiplicando il contagio tra le popolazioni amazzoniche.

Il logo del Fospa.

«In mezzo all’intensificarsi della crisi climatica e sanitaria che colpisce soprattutto le persone povere, le donne e le popolazioni indigene, i governi hanno colto l’opportunità per dettare politiche di “ripresa economica” che avvantaggiano apertamente gruppi finanziari e imprenditoriali. Il confinamento è servito a intensificare i megaprogetti minerari ed energetici, le infrastrutture e l’espansione dell’agrobusiness e dell’allevamento estensivo. Queste misure indicano un momento di massima spoliazione degli elementi vitali per la sostenibilità fisica e culturale di tutti i popoli dell’Amazzonia, rurali e urbani.

A tutto questo si aggiunge la presenza di attività illegali, con organizzazioni mafiose impegnate nel disboscamento, nell’estrazione mineraria, nel traffico di droga e altre che minacciano e assassinano i difensori di Madre Natura, dei diritti territoriali e ambientali.

Sia la Carta di Tarapoto che quella di Mocoa pongono un’attenzione particolare ai più deboli tra i deboli: i cosiddetti «popoli in isolamento volontario e contatto iniziale» (in sigla, Piaci). Si ribadisce la difesa della loro decisione di vivere distaccati dalla società e l’intangibilità dei territori da loro occupati.

«Natura sana, popolazioni sane»

La Carta di Mocoa, documento finale del Fospa del 2020, elenca una serie di obiettivi e proposte in tre macroaree d’interesse: popoli e culture con identità amazzonica, territori e cammini di vita, autonomia e autogoverno.

Nella prima, si legge ad esempio: «Sulla base del principio “natura sana – popolazioni sane”, proponiamo di rafforzare il nostro sistema sanitario basato sulla medicina ancestrale e il riconoscimento di aspetti culturalmente appropriati della salute occidentale».

Si chiede di riconoscere e proteggere gli anziani come garanti della saggezza ancestrale e della memoria culturale, di fronte alla commercializzazione delle conoscenze amazzoniche. E di sviluppare l’educazione comunitaria interculturale per la costruzione di una cittadinanza plurinazionale come popoli amazzonici.

Un’iguana. Foto Paolo Moiola.

Nell’area territori e cammini di vita, il manifesto del Fospa ricorda di promuovere l’agroforestazione ecologica, l’agricoltura familiare contadina e la gestione comunitaria della giungla e delle foreste, per assicurare la sicurezza e la sovranità alimentare.

Nel campo dell’autonomia, si chiede di valorizzare le iniziative di governo comunitario e le organizzazioni proprie; di valorizzare le unioni meticce (bianchi con indigeni) e mulatte (bianchi con neri) come parte integrante della costruzione sociale del territorio andino-amazzonico; di rafforzare le esperienze della guardia indigena, contadina e afro come protezione dell’Amazzonia e dei processi comunitari.

Tra gli obiettivi prioritari la Carta di Mocoa vede la promozione della «Dichiarazione universale sui diritti dei fiumi» e sull’intangibilità dei bacini, sorgenti d’acqua, fiumi e foreste nei territori dell’Amazzonia, per evitare gli impatti negativi delle attività estrattive, agroindustriali, idroelettriche e delle vie navigabili transnazionali.

Viene inoltre sottolineata l’esigenza che nessun territorio amazzonico sia dichiarato «distretto minerario», rispettando il suo status di soggetto di diritti come riconosciuto dalle normative nazionali e internazionali per la protezione e la cura dell’Amazzonia.

Il manifesto chiede di promuovere campagne e richieste internazionali per comminare sanzioni legali e sociali contro le imprese che violano i diritti umani. Domanda agli stati coinvolti di ratificare e attuare l’accordo di Escazú (firmato da 24 paesi latinoamericani nel 2018, ma ancora inapplicato) per la protezione della natura e dei suoi difensori. Chiede altresì di favorire azioni che promuovano la consapevolezza ambientale in seno alle varie società.

La Carta di Mocoa chiede, infine, agli stati di riconoscere i «diritti della natura».

Un ragazzo, probabilmente figlio di un ribeiriño, su una canoa nelle acque intorbidite del Rio delle Amazzoni, in Brasile. Foto Paolo Moiola.

Le direzioni della storia

Discorsi interessanti e spesso affascinanti, ma – volendo leggere con occhi critici – si tratta forse di un elenco eccessivamente lungo e ambizioso, con proposte a volte troppo generiche, a volte ripetitive.

La filosofia di fondo espressa nel manifesto è però totalmente condivisibile e riassunta nelle poche righe di quest’appello: «Tutto indica che abbiamo perso l’orizzonte della vita ed è necessario recuperarlo con urgenza. Ecco perché l’appello a tornare alle origini, alle nostre radici territoriali e culturali, a correggere in profondità le direzioni che la storia ha preso, in particolare in Amazzonia».

Correggere il cammino della storia è un programma impegnativo, ma dimostra che c’è ancora qualcuno che non si arrende ai vari Bolsonaro, alle imprese minerarie, agli sfruttatori, agli invasori. Qualcuno che ha ancora voglia di combattere per difendere l’Amazzonia e le proprie scelte di vita.

Paolo Moiola

Delfini di fiume in un affluente del Rio delle Amazzoni. Foto Paolo Moiola.




L’occidente  e l’enigma cinese

testo di Paolo Moiola |


Quello che fu il «Celeste impero» è un paese continente difficile da decifrare senza qualche solida conoscenza. Per guardare oltre le accuse odierne e gli antichi stereotipi, ci siamo fatti aiutare da due esperti, Michelangelo Cocco e Simone Pieranni. Perché con la Cina – volenti o nolenti – tutti noi dobbiamo fare i conti. Adesso.

Per gli occidentali comprendere e relazionarsi con la Cina è sempre stato complicato. Lo era ai tempi dell’impero. Lo è ancora di più da quando il partito comunista è andato al potere e il paese ha accresciuto in maniera irrestistibile la propria forza economica e la propria influenza internazionale. Le imprese e i capitali cinesi sono ormai radicati in moltissimi paesi dell’Africa e dell’America Latina. Mentre un suo gigantesco progetto infrastrutturale, noto come nuova Via della seta (ufficialmente, Belt & Road Initiative), sta cercando di fare breccia in Europa. Insomma, oggi Pechino lotta per strappare agli Stati Uniti il ruolo di prima potenza mondiale. Di tutto questo abbiamo parlato – separatamente – con due esperti, Michelangelo Cocco e Simone Pieranni, giornalisti e scrittori con una lunga esperienza in Cina.

Mappa della Cina con la suddivisione in province e regioni autonome. Immagine Pixabay.

Una Cina «perfetta»

«Mi raccomando: non scrivere che sono sinologo perché sarebbe una bugia. Il mio livello di mandarino è basic, il che significa che mi faccio capire e capisco qualcosa, ma purtroppo (almeno per ora) nulla di più».

Michelangelo Cocco vive a Suzhou, nella provincia dello Jiangsu. È direttore esecutivo del Centro studi sulla Cina contemporanea (Cscc) e scrive per Il Messaggero, dopo essere stato corrispondente da Pechino per il Manifesto. Da poco è uscito il suo libro «Una Cina “perfetta”. La Nuova era del Pcc tra ideologia e controllo sociale» (Carocci, 2020).

«Il titolo fa riferimento al tentativo del Partito – in particolare attraverso la rinnovata centralità dell’ideologia e del controllo della popolazione mediante strumenti high tech – di dar vita a una governance “perfetta” del XXI secolo: favorire una gigantesca modernizzazione del sistema economico cinese, promuovere una cultura ambientale, garantire a tutti “una vita migliore”, come ha promesso Xi Jinping. Una governance “perfetta” per un paese continente pieno di problemi e contraddizioni: è questa la sfida epocale lanciata da un Partito che da 70 anni è sempre più la guida dell’economia e della società cinese».

Parlare oggi di «perfezione» è dura, viste le accuse di responsabilità per la diffusione del Sar-CoV-2, il «virus cinese» come lo chiamava l’ex presidente Usa Trump.

«Eventuali responsabilità cinesi – commenta Michelangelo – al momento sono estremamente difficili da accertare, anche perché gli scienziati non hanno ancora chiarito definitivamente dove e in quali circostanze si è sviluppato e trasmesso all’uomo questo nuovo coronavirus. Ciononostante un gruppo di governi (statunitense, britannico, brasiliano), che hanno negato a lungo la gravità della pandemia, l’hanno poi utilizzata a fini politici, per accusare la Cina con la quale – ormai da un paio d’anni – è in corso uno scontro che investe tutti gli ambiti: tecnologico, commerciale, politico, e valoriale. Probabilmente le autorità dello Hubei hanno reagito all’epidemia in ritardo, negandola in un primo momento e censurando i medici che avevano lanciato l’allarme sulle polmoniti misteriose. Ma tutta la polemica che si è scatenata – in un contesto ormai polarizzato Cina versus Occidente – non ha alcun valore scientifico. Si tratta di una battaglia politica che aggrava tensioni preesistenti, che ha pregiudicato quella che sarebbe stata un’utilissima cooperazione sanitaria internazionale e che impedirà qualsiasi indagine indipendente sul Sars-CoV-2».

I tre pilastri del nuovo Impero cinese

Prima dell’arrivo del Covid-19, nell’immaginario collettivo occidentale la Cina non era più quella delle campagne, ma quella moderna, ipertecnologica e simil-occidentale delle sue grandi città. Cioè, provando a sintetizzare, i pilastri del marxismo e del confucianesimo innestati nel cosiddetto «socialismo di mercato». Chiediamo a Michelangelo Cocco se questa sia un’interpretazione corretta.

«Diciamo che il “socialismo di mercato” – affermatosi “definitivamente” dopo la repressione di piazza Tiananmen (era il 1989) e dopo il viaggio al Sud di Deng Xiaoping del 1992 – ha introdotto, in un paese ufficialmente socialista, dosi sempre più massicce di capitalismo. Tuttavia, a un certo punto – approssimativamente durante il decennio 2003-2013 (con Hu Jintao presidente e Wen Jiabao primo ministro) -, il Partito ha capito che, alle riforme di mercato e al deficit ideologico, andava posto un limite, altrimenti il sistema sarebbe crollato per le tensioni create dalle disuguaglianze crescenti e dal distacco tra il Partito e la società. Xi Jinping ha assunto il compito – in maniera esplicita a partire dal XIX Congresso del 2017 – di riprendere il controllo sull’economia e sul popolo. Il pendolo Stato-mercato con Xi ha oscillato decisamente più dalla parte del primo, anche se il mercato resta un elemento imprescindibile dell’economia cinese. Attraverso un potente mix ideologico fatto di marxismo, confucianesimo e nazionalismo, la leadership ha riaffermato la propria autorità sul Partito, ricompattandolo, e sta provando a ridare un certo inquadramento ideologico-patriottico a una società che, fino a poco tempo fa, era attratta soprattutto dalle opportunità di avanzamento sociale (che, peraltro, oggi si stanno restringendo)».

il presidente cinese Xi Jinping con António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite. Foto: Yun Zhao / UN Photo.

Non soltanto Hong Kong

La cronaca delle recenti rivolte nell’ex colonia britannica di Hong Kong ha riportato alla luce anche i conflitti nella regione autonoma del Tibet e nel Xinjiang a maggioranza islamica. «Anche se si tratta in tutti e tre i casi di periferie ribelli all’interno del nuovo Impero cinese, sono tre situazioni molto diverse – spiega Michelangelo -. Il Tibet e il Xinjiang esprimono un nazionalismo debolissimo e, di fatto, non hanno rappresentanti riconosciuti, né all’interno della Cina né all’estero. In questa situazione, ritengo che il Partito potrà portare avanti – a ritmo accelerato, approfittando dell’attuale vantaggio – le sue politiche di assimilazione culturale e di controllo del territorio di queste due immense regioni frontaliere, povere e scarsamente popolate ma che, assieme, rappresentano un terzo del territorio del paese.

Diverso è invece il discorso per Hong Kong, una regione amministrativa speciale piccola, ricca e densamente popolata. Qui la società è fortemente polarizzata: una parte sta con Pechino, l’altra contro. I contestatori dell’ordine costituito sono spesso giovanissimi e di ceto medio alto, hanno i loro partiti e movimenti politici, comunicano col resto del mondo e sono riusciti ad attirare la simpatia e l’appoggio delle democrazie liberali per la loro causa. Nonostante la recente approvazione della Legge sulla sicurezza nazionale, le tensioni con questa parte importante della società dell’ex colonia britannica potrebbero rappresentare una “nuova normalità” in una Hong Kong profondamente divisa e destinata a diventare meno rilevante da un punto di vista economico per la Repubblica popolare, “sostituita” da Shanghai o dalla confinante Shenzhen».

Il volto espressivo di una donna tibetana. Foto: Smokefish – Pixabay.

«La nuova Silicon Valley è cinese»

A Pechino è rimasto per quasi 10 anni. Nella capitale cinese – era il 2008 – è stato cofondatore di China Files, agenzia editoriale che riunisce giornalisti, sinologi ed esperti di comunicazione specializzati in affari asiatici. «Quando non lavoravo come giornalista, mi divertivo a fare l’allenatore dei bambini in una scuola di calcio locale», ricorda con una punta di nostalgia. Rientrato in Italia per motivi personali, oggi Simone Pieranni è caporedattore al Manifesto e da poco ha pubblicato «Red mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina» (Laterza, 2020). Lo disturbiamo mentre è alle prese con i suoi due gemelli di quindici mesi.

Da Huawei a Tiktok: tecnologia e controllo

«Red mirror», il suo terzo lavoro dedicato alla Cina (d’imminente uscita anche in Francia e in America Latina), inizia descrivendo una giornata a Pechino usando il cellulare e WeChat (Weixin, in mandarino), un’applicazione della multinazionale cinese Tencent.

«Sono arrivato in Cina nel 2006 – racconta Simone – e in pochi anni mi sono ritrovato a fare tutto con il cellulare. Il libro nasce dall’esperienza di quanto è accaduto in quel paese a livello tecnologico».

Già, la tecnologia cinese. È contro di essa che si sono scagliati Donald Trump (la vicenda del social TikTok è emblematica) e, a ruota, il premier inglese Boris Johnson. Stati Uniti e Gran Bretagna spingono gli alleati a respingere l’avanzata tecnologica cinese e in particolare quella del gigante Huawei. Anche se – almeno finora – i maggiori scandali legati allo spionaggio digitale sono nati proprio nei paesi accusatori, con la National Security Agency statunitense (scandalo Datagate del 2013) e la britannica Cambridge Analytica (scandalo del 2018).

«Il pericolo dietro Huawei – conferma il nostro interlocutore – è identico a quello delle grandi aziende americane o occidentali. Qualunque sia l’impresa che gestisce i dati, c’è sempre il rischio di un utilizzo fuorilegge delle informazioni raccolte. Sulla Cina – questo è vero – si innescano però altre dinamiche che rendono tutto ancora più complicato. Inutile nascondersi dietro a un dito, la scelta è e sarà politica».

«Socialismo di mercato»

La strada dei barbieri a Kashgar, capitale dello Xinjiang, stato a maggioranza islamica. Foto: F. Charton / UN Photo.

Il caso Huawei riporta il discorso sull’economia cinese e sul modello del «socialismo di mercato».

«Un apparente ossimoro – spiega Pieranni -, ma non per Pechino. La Cina non si chiede cosa sia il suo modello, ma se funzioni o no. E ugualmente fa con tutto il resto. Chiedersi inoltre se il paese sia più capitalista o più socialista trovo sia una nuova forma di orientalismo. Neanche i cinesi sanno come definire il loro sistema, ma pescano dalla cassetta degli attrezzi della storia per trovare le soluzioni che sembrano funzionare meglio. Per loro».

Secondo Pieranni, l’economia spiega anche perché le situazioni di crisi interne al paese – Tibet, Hong Kong e Xinjiang – rimangono circoscritte e senza conseguenze pesanti per Pechino.

«Il Tibet è praticamente dimenticato. Hong Kong, dopo la legge sulla sicurezza nazionale (che di fatto riporta la città dentro all’ordinamento cinese) e qualche protesta, è ormai un elemento acquisto. La regione dello Xinjiang invece mette a nudo la nuova Cina, iper tecnologica e iper controllante. Tuttavia, è una situazione che si protrae da anni e che è riemersa di recente soltanto perché utilizzata da Trump in chiave elettorale. Purtroppo, nessuno ha veramente interesse a chiedere spiegazioni alla Cina, dato che sono ancora troppi i vincoli economici che legano il paese asiatico al mondo occidentale».

Pechino e la Chiesa di Roma

Abbiamo visto che dipanare l’enigma cinese non è facile e, in questo senso, i mezzi di comunicazione non aiutano.

Chiediamo a Simone se, secondo la sua prospettiva privilegiata, i media italiani e occidentali in generale parlino in maniera corretta e veritiera della Cina o prevalgano invece maschere ideologiche e preconcetti.

«Difficile – spiega – fare un ragionamento generale, perché esistono eccezioni. Però possiamo dire che i media mainstream hanno un atteggiamento, se non pregiudiziale, piuttosto superficiale sulla Cina, creando nello spettatore e nel lettore la necessità di vedere tutto o bianco o nero. Sono i media che creano le tifoserie. Purtroppo, sulla Cina accade così da tempo».

Tifosi. Proprio come avviene per la Chiesa di papa Francesco: o sei con lui o contro di lui. A metà ottobre, gli Usa dell’ex presidente Trump e del suo segretario di stato Mike Pompeo avevano cercato d’interferire in maniera pesante sulle relazioni tra il Vaticano e la Cina che stavano lavorando per rinnovare l’accordo provvisorio del 22 ottobre 2018 sul processo di nomina dei vescovi.

Sul Corriere della Sera del 2 ottobre, Ernesto Galli della Loggia aveva parlato di «una patetica resa di fatto, e quindi in un gigantesco regalo, ai governanti cinesi» da parte di un «papa terzomondista». Vaticano e Cina non hanno badato alle critiche e, alla scadenza, hanno rinnovato l’accordo.

«Mi si perdoni l’iperbole – chiosa Pieranni -, ma io penso che sia il rapporto tra due organismi politici molto simili. Si tratta di due istituzioni che ragionano con tempi molto più lunghi di qualsiasi governo al mondo, hanno gli stessi modi, talvolta, di gestire questioni interne e sono molto abituati a “segreti”. Credo sia realpolitik: la Chiesa sa che in Cina la crisi dei valori favorisce l’evangelizzazione; la Cina sa che un accordo con la Chiesa la mette al riparo da certe critiche occidentali».

Paolo Moiola

Repubblica popolare cinese

  • Superficie:
    9,5 milioni di chilometri quadrati (quarto paese più vasto al mondo dopo Russia, Canada e Stati Uniti).
  • Popolazione:
    1,4 miliardi di persone (primo paese al mondo).
  • Sistema politico:
    Repubblica popolare a partito unico
    (Partito comunista cinese).
  • Economia:
    socialismo di mercato; 2° Prodotto interno lordo (Pil) al mondo dopo quello degli Stati Uniti.
  • Etnia principale:
    Han (92 per cento) e altre 55 etnie ufficiali.
  • Lingua ufficiale: mandarino.
  • Religioni:
    ateismo (ufficiale); taoismo, buddhismo, islam, cristianesimo (tra il 3 e il 5 per cento).
  • Criticità interne: Tibet, Xinjiang, Hong Kong.
  • Info in italiano: www.cscc.it; www.china-files.com.
  • Pa.Mo.

Dall’Impero alla Cina comunista

  • Immagine storica di Mao Zedong, il «grande Timoniere». Foto: Anefo.

    1912 – Dopo 2mila anni, cade l’Impero cinese.

  • 1927-1949 – Guerra civile cinese.
  • 1949 (ottobre) – Dopo la sconfitta dei nazionalisti, Mao Zedong fonda la Repubblica popolare cinese.
  • 1949 (dicembre) – I nazionalisti, sconfitti dai comunisti di Mao, si ritirano sull’isola di Taiwan, da allora «provincia ribelle» secondo Pechino.
  • 1950 – L’esercito di Mao occupa il Tibet.
  • 1989 (aprile-giugno) – Rivolta e repressione di piazza Tiananmen.
  • 1997 (luglio) – Hong Kong passa dal Regno Unito alla Repubblica popolare cinese.
  • 2013 (marzo) – Inizia la presidenza di Xi Jinping.
  • 2019 (marzo) – L’Italia firma un Memorandum d’intesa con la Cina sulla «Belt and road initiative» (Bri), popolarmente nota come «nuova Via della Seta».
  • 2019 (novembre) – Primi casi di Covid-19 nella provincia di Hubei (Wuhan).
  • 2020 (20 settembre) – L’amministrazione Trump vieta in Usa le applicazioni cinesi TikTok e WeChat.
  • 2020 (22 ottobre) – Viene rinnovato l’accordo (provvisorio e segreto) tra Vaticano e Cina sulla nomina dei vescovi.

Pa.Mo.

La copertina del libro «Red Mirror» di Simone Pieranni.

La copertina del libro «Una Cina “perfetta”» di Michelangelo Cocco.

 




Oltre il Circolo polare artico

testo e foto di Valentina Tamborra |


Una storia che ha dell’incredibile. E affonda le sue radici in sei secoli fa.  Ma c’è qualcuno che la tiene viva, in un remoto e sconosciuto angolo del mondo. Una vicenda che crea legami tra due popoli. E pochi lo sanno.

Il 25 aprile del 1431 Pietro Querini, un nobiluomo veneziano, mercante ed esploratore, salpò da Candia (l’odierna Creta) alla volta delle Fiandre con un carico di 800 barili di Malvasia, cotone, spezie e altre merci.

Non poteva immaginare che si sarebbe ritrovato sulle coste delle allora sconosciute isole Lofoten, precisamente sull’isola disabitata di Sandøy, vicino a Røst. Furono i venti e i mari a decidere la sorte del capitano e del suo equipaggio. Questa è la storia di un naufragio che da sventura diventò opportunità, che da tragedia si trasformò in un secolare rapporto di amicizia: ancora oggi infatti, l’isola nella quale Querini e i superstiti del suo equipaggio furono accolti e ospitati, serba intatto il ricordo di quell’avvenimento.

Di 68 uomini della «Cocca Querina», solo 11 si salvarono, toccando terra il 14 gennaio del 1432: decimati dal naufragio, dalle condizioni terribili del mare, dalla notte polare e dal freddo artico, affamati e ridotti allo stremo delle forze, vennero salvati da alcuni pescatori dell’isola di Røst, che li ospitarono per circa quattro mesi nelle loro case. Quando il capitano Querini e i suoi uomini ripartirono, portarono con sé, insieme al ricordo della bontà d’animo e della semplicità di vita dei pescatori, un carico di quello che era il bene primario per l’isola: lo stoccafisso.

Fu così che un pesce dell’artico, che appartiene alle gelide acque del Nord, arrivò in Italia, precisamente a Venezia, diventando la prelibatezza che tutti conosciamo.

Il racconto di questa vicenda è oggi custodito in due luoghi affascinanti e carichi anch’essi di storia: la Biblioteca Apostolica Vaticana e la Biblioteca Marciana di Venezia. Il capitano Querini, infatti, scrisse di proprio pugno un diario che oggi è custodito in Vaticano, mentre alla Marciana viene conservata la deposizione di due marinai: Cristofalo Fioravante e Nicolò De Michiele, che con Querini scamparono al naufragio.

Ma oltre ai due manoscritti, cosa resta oggi di questo incontro?

Røst, l’ultima

Røst è un’isola piatta. A spezzare la linea dell’orizzonte solo un picco che ricorda il cappello di un mago, la montagna di Stavøya.

L’ultima isola delle Lofoten, non raggiunta, o quasi, dal turismo, è dedita interamente alla pesca e essiccazione del merluzzo che viene spedito principalmente in Italia, Spagna, Portogallo e Nigeria. Sono le particolari condizioni climatiche dell’Artico, infatti, a permettere l’essiccazione perfetta di questo pesce.

Singolare è anche il nome del particolare tipo di merluzzo pescato qui: Skrei. Il termine Skrei deriva infatti da un vocabolo (å skrida) che in antica lingua vichinga significa «viaggiare, migrare, muoversi in avanti».
Lo Skrei, infatti, compie ogni anno una vera e propria migrazione dal mare di Barents verso le acque più calde della costa settentrionale norvegese al fine di riprodursi.

Già nell’epoca vichinga le qualità del merluzzo erano conosciute e apprezzate. Una volta essiccato, poteva durare mesi ed essendo altamente proteico, costituiva un importante elemento per la dieta piuttosto povera degli abitanti delle isole remote.

Ancora oggi lo stoccafisso viene prodotto usando gli stessi ingredienti e lo stesso metodo dell’epoca in cui il capitano Querini naufragò su sull’isola: tutto naturale.

Røst conta oggi circa 500 abitanti, fra questi un solo medico, un poliziotto e un prete. La comunità è completamente coinvolta nella vita di mare. Chi non è un pescatore, pur non uscendo in mare ogni giorno, si dedica in qualche modo all’industria della pesca, per lavoro o per diletto.

I bambini ad esempio, durante le vacanze scolastiche, aiutano genitori e nonni nella pulizia del pesce. In particolare, imparano a tagliare le lingue che, una volta impanate e fritte, sono considerate una vera prelibatezza.

L’Italia

La piccola isola di Røst ha una peculiarità: l’eredità del passaggio degli italiani è talmente forte, da aver ispirato ben due realtà davvero particolari.

Qui infatti ha sede il comitato più a Nord della Società Dante Alighieri: il suo presidente è  Kjell-Arne Helgebostad, l’unico medico dell’isola. Kjell-Arne parla perfettamente italiano ed è ben lieto di fare da guida a chiunque desideri approfondire la storia di questa dimenticata porzione di mondo.

Il medico ha fondato anche una piccola biblioteca dove è possibile trovare libri in italiano e norvegese dedicati alla storia dell’isola e di Pietro Querini.

C’è poi una donna, un’artista eclettica e sognatrice: Hildegunn Pettersen. Cantante lirica originaria dell’isola, padre pescatore, vive oggi a Oslo dove canta e insegna musica.

È lei ad aver dato vita a un’opera lirica interamente dedicata alla vicenda del Querini. Ogni anno in agosto, viene organizzato il Querini Festival, durante il quale l’opera viene rappresentata sull’isola di Røst e coinvolge buona parte della comunità. Dalle altre isole, in molti raggiungono Røst per assistere alla rappresentazione.

Sul palcoscenico insieme a Hildegunn si possono trovare pescatori e produttori, esportatori di pesce, insegnanti della scuola, il medico e chiunque, sull’isola, voglia far parte della tradizione e della memoria.

I ragazzi della scuola hanno aiutato a costruire le scenografie, e sul palcoscenico campeggia un leone di Venezia in polistirolo dipinto d’oro che è in tutto e per tutto «uguale» all’originale.

Parte dell’opera Querini è cantata in italiano. Il sogno di Hildegunn è portare lo spettacolo a Venezia, magari proprio accanto al mercato ittico di Rialto, sotto il quale si celano le rovine di quella che fu «Casa Querina».

Un ristorante e una stele

Per ricordare il naufragio, sull’isola di Sandøya, nel punto più alto, si erge la stele dedicata a Pietro Querini. Furono gli abitanti di Røst a porla qui nel 1932 in ricordo dell’evento che sancì l’antica amicizia.

Sono passati quasi 600 anni da quando un pescatore dell’isola e i suoi due figli si imbatterono in quel gruppo di sopravvissuti

che non appartenevano al loro mondo: «Dopo che a parole e a gesti gli facemmo comprendere che eravamo naufraghi bisognosi di aiuto, cominciarono a parlare, ci dissero il nome dell’isola e tante altre cose di cui non capimmo nulla», scriveva Pietro Querini nel suo diario, e ancora oggi quell’antica ospitalità viene tenuta in vita.

Oltra alla stele di Sandøya sull’isola di Røst esiste un piccolo ristorante che è anche il punto di ritrovo della comunità: è il Querini Pub.

Gestito da Anna Cecilie, propone ricette locali e rivisitazioni del piatto più importante di queste parti: lo stoccafisso.

Svolvaer, Henningsvaer e «le altre»

La tradizione della pesca al merluzzo però, non fa parte solo del retaggio culturale della piccola isola di Røst.

Anche isole come Svolvaer, Henningsvaer, Leknes, seppure più conosciute come meta turistiche, hanno una fortissima storia legata al merluzzo.

L’economia di tutto l’arcipelago è strettamente legata alla pesca e ci sono luoghi come Ballstad, non lontano da Leknes, che sono essenzialmente villaggi di pescatori.

Le tipiche casette rosse costruite a ridosso della costa, chiamate rorbuer, sono nate come abitazioni dei pescatori norvegesi. Tradizionalmente spartane, ospitavano gli uomini che ormeggiavano la propria barca lungo i porti delle Lofoten. Oggi molti rorbuer accolgono turisti e sono diventate luoghi esclusivi, dai quali è possibile ammirare non solo la bellezza della natura, che pure in questi luoghi domina, ma anche l’andirivieni dei pescatori che ogni mattina, dalle quattro e mezza in avanti, salpano dal porto verso il mare aperto.

La vita e i ritmi della natura

Hemingway nel suo «Il vecchio e il mare» scriveva: «Chiunque sa fare il pescatore di maggio». E viene proprio da pensarlo qui, oltre il Circolo Polare Artico, dove la natura domina ed è l’uomo a doversi adattare a lei e non viceversa. Se è pur vero che i moderni sistemi di navigazione hanno ridotto di molto i rischi, è altrettanto vero che i mari del Nord sono particolarmente difficili da navigare. Capita talvolta, specialmente tra gennaio e aprile, i mesi durante i quali lentamente la luce fa capolino dopo la «blue season» (una stagione dell’anno dove la luce del sole è solo un tenue bagliore blu all’orizzonte), che in una giornata si arrivi a vivere quattro stagioni: il vento infatti, può cambiare nel giro di pochi secondi e un cielo azzurro e terso può trasformarsi in un «muro» di neve  che rende impossibile definire l’orizzonte. Se è vero che il gps aiuta a trovare la rotta, è anche vero che bisogna conoscere a menadito «le strade del mare», i fondali bassi, le rocce che con gli strani giochi di luce e le maree scompaiono alla vista e rischiano di far incagliare le barche.

Si esce in mare ogni giorno da queste parti, con qualsiasi condizione climatica: quello della pesca resta un mestiere pericoloso, e lo sa bene Håvard, un giovane pescatore la cui barca porta il nome del nonno, Åge Steinar.

Quando lo incontro, mi racconta dell’incidente di pesca che fu fatale per il nonno, esperto pescatore, nonché suo maestro.

La barca carica di pesce stava rientrando in porto quando all’improvviso una forte tempesta rese difficile la navigazione. La barca affondò portando con sé l’uomo. A nulla valsero gli sforzi di altri pescatori accorsi sul luogo della tragedia: solo Håvard riuscì a salvarsi. Eppure, nonostante tutto, come dicono da queste parti, nessuno vorrebbe cambiare mestiere perché: «Puoi togliere una barca al suo uomo, ma non un uomo dalla sua barca».

Storie di donne

Arrivando sul porto di Svolvaer, è facile scorgere, proprio poco distante dalla battigia, posta a picco su alcuni scogli, una statua dalla figura esile: è la moglie del pescatore. Una mano alzata a schermare gli occhi dalla luce Artica, scruta il mare in attesa del ritorno del suo uomo. È la rappresentazione tipica delle mogli dei pescatori. Donne che attendono e sembrano poco coinvolte nella vita di mare. Ma non è per nulla questo il ruolo di donne, come Lone e Line.

La prima, una trentenne con un tatuaggio sulla schiena che rappresenta tre stoccafissi e quello di un’ancora sul braccio destro, è una pescatrice. Fuggita dai ritmi della città, si è rifugiata a Røst dove oggi vive di pesca.

Lone ha dovuto farsi strada in un mondo ancora oggi prettamente maschile: inizialmente guardata con stupore, oggi è a tutti gli effetti «un lupo di mare». Nel tempo libero ama suonare il pianoforte e colleziona strumenti antichi, come un arpicordo che tiene appeso in salotto.

Line invece è una vraker, ovvero una selezionatrice. Figlia di pescatori, ha imparato il mestiere da un vero e proprio maestro: Ansgar Pedersen, dell’azienda Glea. Ogni giorno Line annusa migliaia di stoccafissi per stabilirne la qualità e il mercato di destinazione. Ha provato per un periodo a trasferirsi in città, abbandonando l’isola, ma non faceva per lei. Ha deciso di restare quindi a Røst dove oggi è sposata e ha due bimbi.

Line racconta che, fino a una ventina di anni fa, addirittura si diceva che «le donne in barca portassero sfortuna». Oggi invece il ruolo femminile all’interno del mercato della pesca è pienamente accettato.

Dove lavorare

Eppure non solo i norvegesi sono esperti pescatori: ogni anno infatti, durante la stagione della pesca al merluzzo da gennaio ad aprile,  sono in molti a raggiungere le Lofoten da zone come la Lituania, in cerca di lavoro.

È il caso di Arturas che, nella sua terra natale, era fotografo e cameraman. Dopo la crisi economica che ha colpito il suo paese ha dovuto reinventarsi. Oggi da gennaio a maggio si sposta alle isole Lofoten dove ogni giorno prende il mare con il suo capitano, Odd Helge Isaksen, a caccia dei migliori skrei.

Tra leggenda, superstizione e tradizione

Ogni uomo di mare, si sa, ha una storia da raccontare. Un’avventura particolare, una tempesta cui è scampato fortunosamente o una pesca particolarmente disastrosa.

Ma c’è sempre una «storia» a cui ogni pescatore è particolarmente affezionato. E ad essa, un po’ per superstizione, un po’ per tradizione, si collegano alcuni piccoli riti di buon auspicio. È il caso ad esempio, del saluto alla montagna di Vågakallen, un picco che domina il porto di Svolvær.

Nelle prime ore del giorno, quando il buio ancora avvolge il villaggio, i pescatori preparano le barche e prendono il mare. Prima di partire, però, fanno un inchino e un saluto a questa montagna: che li protegga, che li accolga nuovamente nel porto sicuro, carichi di pesce, al ritorno.
Durante la stagione della pesca non è difficile imbattersi in quello che è forse uno degli spettacoli naturali più affascinanti al mondo: l’aurora boreale.

In Norvegia queste scie colorate che accendono la notte artica, vengono chiamate Nordurljos: «Luci del Nord».

La leggenda narra che, ogni qualvolta il cielo si accende di questi colori brillanti, da qualche parte le Valchirie sono in battaglia: secondo il mito, i bagliori in cielo, dal verde al rosso al rosa, non sono altro che il riflesso del sole sulle armature delle guerriere.

Valentina Tamborra

Questo lavoro è diventato una mostra fotografica e un libro: «Skrei. Il viaggio», Valentina Tamborra, Silvana Editoriale, 2020.




Rd Congo: Ripartire dalle donne (vittime di violenza)

testo di Luca Salvatore Pistone |


L’Est di uno dei paesi più ricchi d’Africa non trova pace. Nonostante la presenza delle Nazioni unite, decine di milizie imperversano. I civili subiscono ogni sorta di vessazione. Mentre il mondo sta a guardare o, meglio, si gira dall’altra parte.

La guerra nel Nord della Repubblica democratica del Congo (Rdc) è un abominio. Covava da lungo tempo, ma è con il genocidio ruandese del 1994 che, nell’immenso stato dell’Africa centrale, si è scatenata la catastrofe. Vertiginosa diffusione di gruppi armati, negligenza delle autorità, saccheggio di risorse naturali sono solo alcuni degli ingredienti di quello che gli esperti definiscono «conflitto a bassa intensità». Una barbarie, che si protrae da oltre due decenni (di cui MC ha più volte parlato, ndr).

La prima vittima di tanta violenza? La donna. Seni amputati, clitoridi tagliati e ani sventrati sono le firme dei macellai. In Congo il corpo della donna è diventato un campo di battaglia la quale è lecito infliggere dolore, umiliazione, terrore.

Goma

Raggiungiamo Goma, il capoluogo della provincia del Nord Kivu, via terra dal Ruanda. Lasciati i bagagli in albergo, la prima cosa che facciamo è recarci al comando regionale della Monusco (Missione dell’Onu per la stabilizzazione nella Repubblica democratica del Congo). Bisogna muoversi per tempo per trovare posto a bordo di uno dei suoi aerei diretti a Bunia, capoluogo della provincia di Ituri, prima meta del nostro viaggio.

Sbrigata la burocrazia dell’Onu e strappata a un funzionario indiano la promessa che saremo inseriti al più presto nella lista dei passeggeri, ci rechiamo all’appuntamento con Caleb in un bar con terrazza sul lago Kivu. Il tramonto contribuisce a rendere il paesaggio ancora più mozzafiato.

«Finalmente ci conosciamo!». Quarantacinque anni, alto, pochi denti in bocca, Caleb è un simpaticone. Giornalista, ha collaborato con prestigiose testate internazionali. È lui il nostro fixer (la persona che negli scenari di guerra o di crisi, assiste il giornalista che si muove sul campo). «Fidati di me, per capire come le cose vanno in Congo bisogna parlare con le donne».

La casa delle donne

La mattina seguente Caleb passa a prendermi con il suo fuoristrada. In meno di mezz’ora raggiungiamo il villaggio di Bulengo. Continuiamo per un paio di chilometri di strada sterrata e, nascosta da una fittissima vegetazione, troviamo un’enorme villa. Siamo alla Maison des femmes. Ci accolgono una ventina di donne con altrettanti bambini. Terminati i convenevoli, tutte tornano alle loro attività. C’è chi si dedica alla tintura di stoffe per abiti femminili, chi all’intreccio di cestini di plastica riciclata e chi all’allevamento di polli e maiali.

Justine Masika è la presidente di Synergie des femmes pour les victimes des violences sexuelles (Sfvs), una piattaforma nata nel 2002 che raggruppa 35 piccole Ong locali con sede a Goma. «Sfvs gestisce il progetto Maison des femmes. Teniamo dei corsi di formazione professionale e, grazie al microcredito, contribuiamo all’avvio di piccoli esercizi commerciali. Qui le nostre assistite parlano dei traumi che hanno vissuto. Capiscono di non essere sole e che si può andare avanti. Operiamo sulle conseguenze dello stupro, ma ci siamo rese conto che è necessario intervenire alla base di questo male, e cioè lavorare sulle cause che rendono la violenza sessuale un fenomeno così diffuso».

Justine ha un bel da fare. Alla porta del suo ufficio bussano in continuazione le sue collaboratrici per farle firmare pile di scartoffie. «Per porre un freno a questo crimine bisogna combattere l’impunità di cui godono gli stupratori, coinvolgere maggiormente i politici e gli investitori stranieri per mettere fine al saccheggio delle materie prime e, quindi, ai conflitti per il sottosuolo che dilaniano il nostro Congo. Occorre anche capire che gli stupri non distruggono solo il fisico di chi li subisce, ma l’intera società. Le donne, dopo essere state abusate, vengono considerate colpevoli per ciò che è successo loro: vengono ripudiate dai mariti e i figli restano abbandonati a se stessi».

Sfvs si assume le spese per la riparazione chirurgica di fistole retto-vaginali, dei test per l’Hiv e dei trattamenti per malattie sessualmente trasmissibili. Ha istituito venti consultori dove vengono invitate sia le vittime che i loro familiari, allo scopo di far capire a questi ultimi che la «gogna» perpetrata anche da loro non è la via giusta. La sezione per la difesa legale fa pressioni presso le Corti, dinanzi alle quali vengono portati i casi delle donne stuprate, e ha avviato un’intensa campagna per la creazione di tribunali che si occupino esclusivamente di violenze sessuali.

Il dolore

È mezzogiorno. Può avere inizio il douleur (dolore), come Justine chiama l’orario dei colloqui dello psicologo del centro con le vittime di violenza sessuale.

Provengono tutte dalla zona di Masisi, una città del Nord Kivu nota per essere il centro di conflitti che vedono coinvolti almeno 140 piccoli gruppi armati irregolari. «Mettetevi comodi. Vedrete quanto in basso può arrivare l’uomo», ci annuncia Justine.

La prima a entrare è Judithe, di 57 anni. Dieci anni fa dovette assistere all’assassinio del marito e dei due figli, fatti a pezzi col machete. «Il nostro villaggio fu attaccato dai miliziani Mai Mai. Piangevo e quelli mi violentarono uno dopo l’altro, picchiandomi a sangue. La mia comunità mi ripudiò».

È il turno di Mamy, di 35 anni, madre di tre bambini: «Ero andata al pozzo per prendere dell’acqua e ho incontrato degli uomini armati. Mi hanno detto che potevo scegliere tra la vita e lo stupro. Quando vieni stuprata vieni marchiata a vita. Il tuo uomo si sente umiliato e ti caccia via di casa. Per l’intero villaggio sei come morta o una prostituta. Io invece nella disgrazia sono stata fortunata perché mio marito ha capito la situazione e mi ha tenuta con sé».

Therèse ha da poco compiuto 15 anni ed è al settimo mese di gravidanza. Sorride solo quando pensa a Julie, il nome che ha scelto per sua figlia. Per più di un mese è rimasta nelle mani di criminali nella foresta. «Quando mi volevano venivano nella capanna in cui mi avevano rinchiusa. Lo facevano a turno, anche in due, per più volte al giorno. Ero la donna di tutti. Mi costringevano pure a cucinare per loro. Poi un giorno all’improvviso mi bendarono e mi riportarono all’ingresso del mio villaggio».

Chantal ha 19 anni e tra un mese partorirà: «Al mio villaggio non c’è una sola famiglia che non abbia una donna violentata. Io ho tre cugine che sono state abusate. La mia famiglia è in ginocchio, nessuno ci rivolge più la parola».

Secondo le stime delle Nazioni unite, nella regione si verifica uno stupro ogni trenta minuti. Una pratica che non accenna a placarsi.

Ringraziamo la Maison des Femmes e torniamo alla macchina. Regna il silenzio. A infrangerlo, una volta immessi sulla strada asfaltata, è Caleb: «Adesso capisci come siamo messi? In Congo la donna è il campo di battaglia». Mi squilla il cellulare e sul display compare il nome del funzionario della Monusco. È stato di parola: tra un paio di giorni potremo volare su Bunia.

Bunia

Un’enorme distesa bianca e blu. È così che Bunia appare dall’alto. Poi, a mano a mano che l’aereo plana, ci si rende conto di come migliaia di teli di plastica dei colori dell’Onu abbiano inghiottito l’intera città. Sono le tende degli sfollati provenienti da tutto l’Ituri, la martoriata provincia di cui Bunia è capoluogo.

Ituri, un vasto territorio di circa 65mila chilometri quadrati nel Congo Nord orientale, è da lungo tempo teatro di abominevoli scontri tra due etnie, gli Hema e i Lendu. I primi storicamente pastori, i secondi agricoltori. Le rivalità tra i due gruppi risalgono al periodo coloniale, quando i belgi favorirono gli Hema, creando non poche disparità che i governi succedutisi fino ai nostri giorni non hanno voluto e saputo limare.

Le dispute vere, quelle sfociate nel sangue, sono iniziate negli anni Settanta in concomitanza della promulgazione di leggi sulla distribuzione delle terre che avevano avvantaggiato gli Hema. Picchi di violenza si sono registrati nel 1972, 1985, 1996, 2001 e 2003, mentre scontri minori si sono protratti fino al 2007. Negli anni Novanta gli sfollati raggiunsero la cifra record di 400mila. Le varie missioni di stabilizzazione dell’Onu nella Rdc non sono riuscite a fermare i massacri, registrando peraltro un alto numero di morti tra i propri militari. Negli ultimi mesi hanno avuto luogo nuovi scontri con almeno una ventina di morti tra i civili, e le rappresaglie, fomentate da gruppi armati vicini alle due etnie interessati dalle ricchezze del posto, sembrano non avere fine.

Un mare di sfollati

L’Onu ritiene che gli sfollati dovuti a quest’ennesimo incidente, sparsi in campi ufficiali e irregolari soprattutto a Bunia, o rifugiatisi nel vicino Uganda, siano 340mila, circa l’8% dell’intera popolazione della provincia.

Per motivi di sicurezza dobbiamo alloggiare a Bunia, dove ha sede una base della Monusco, gestita dai contingenti marocchino e bengalese. Il responsabile dell’ufficio stampa della missione, un sergente marocchino, ci dà un lasciapassare per raggiungere autonomamente Djugu, la terza città per estensione di Ituri, divenuta uno degli epicentri delle violenze, a patto di tornare a Bunia prima di sera. Un percorso di 70 chilometri su strada sterrata con buche che inghiottirebbero una jeep. Caleb scorre la rubrica di uno dei suoi tre Iphone e contatta Richard, un autista locale. «Tutto ok, domattina alle 4 in punto ci passa a prendere con un pick up».

Richard spacca il minuto. Lasciamo Bunia e a ogni curva rimaniamo a bocca aperta per la bellezza del territorio. Colline verde smeraldo, cascate azzurrissime, fiori mai visti prima. Il viaggio procede liscio e in meno di tre ore siamo alle porte di Djugu.

La città bruciata

Il colore che domina in città è il nero: non c’è un solo edificio o catapecchia che non sia stato incendiato. La cenere è ovunque. Per la loro opera di devastazione sia gli Hema che i Lendu si servono di «serbatoi incendiari», ovvero serbatoi di motociclette lanciati a come molotov contro le case di quelli che ritengono nemici.

Pochissime le persone che incontriamo per strada. Nessuno ha voglia di parlare con noi e così decidiamo di proseguire per un’altra ventina di chilometri fino a Fataki, una piccola località sotto l’amministrazione di Djugu dove è attivo l’unico ospedale del circondario.

Da una stanza provengono urla strazianti di una giovane. Yvonne sta per dare alla luce il suo primogenito. Il dottor Bavi, il giovane direttore dell’Ospedale di Fataki, ci chiede se vogliamo assistere ma decliniamo l’offerta, rimanendo al di qua della tenda che delimita la sala parto. Ephala, la madre della ragazza, è seduta su una sedia in un angolino. Quella che tra pochi minuti diverrà nonna ha appena trent’anni. «Prima è toccato a me, adesso a lei. A sedici anni fui violentata, Yvonne a quattordici. Mia figlia nacque in seguito a quello stupro, come il figlio che ora sta partorendo. Spero sia un maschio, così non potrà essere violentato come noi».

Prendiamo la direzione per Bunia e siamo in hotel prima di sera, come promesso al sergente marocchino.

I campi profughi

Il giorno seguente ci viene assegnata una scorta di caschi blu bengalesi per visitare il Site1 e il Site2, i due campi ufficiali per sfollati di Bunia, uno a poche centinaia di metri dall’altro. Gli chiedo il perché di una simile misura di sicurezza, apparentemente eccessiva, e lui non mi lascia diritto di replica: «Un poliziotto è stato ucciso all’interno del Site1. Tranquillo, avrete massima libertà di movimento».

Il Site1 è il campo più grande della regione. Sorto lungo la recinzione dell’Ospedale Generale di Bunia, ospita circa diecimila sfollati in stragrande maggioranza di etnia Hema. Nel Site2, nato poco dopo su un terreno messo a disposizione dalla Diocesi di Bunia, ce ne sono quasi novemila.

È la Ong congolese Lasi (Ligue anti-sida en Ituri), diretta dal pastore Ignaci Bingi, ad aver ricevuto dal governo provinciale l’incarico di gestire gli aiuti al Site1 elargiti dal Pam (Programma alimentare mondiale) e Oxam (Oxford committee for famine relief). Per distribuire meglio le derrate alimentari, il pastore ha personalmente diviso il campo in dieci blocchi, facendo eleggere dalla comunità un rappresentante per ogni blocco. «Gli sfollati mi riferiscono tutto ciò che non va nel campo in modo che io possa portare le loro rimostranze a chi di dovere. È gente esausta, che ha perso tutto ciò che aveva, incattivita. Una bomba a orologeria insomma».

A occuparsi invece del Site2 sono Caritas Congo e Unicef (Fondo delle Nazioni unite per l’infanzia). Di scuole non ce ne sono e così l’unico spazio aggregativo che i bambini possono frequentare è un piccolo centro costituito da quattro pareti di legno all’interno delle quali alcuni animatori li intrattengono con balli e canti. «Tantissimi dei nostri sfollati sono minori – dice Clementine Pelosi, funzionaria Unicef – e tantissimi sono orfani perché i loro genitori sono stati uccisi durante gli scontri».

I due campi sono un distillato di atrocità. Testimonianze verbali e testimonianze visibili sulla loro pelle. La storia di Grace e Rachel appartiene a queste ultime. Non lascia molto spazio alla fantasia. Due bambine, sorelle, rispettivamente di undici e due anni. Da pochi giorni sono uscite dal reparto di chirurgia dell’Ospedale generale di Bunia, dove erano state condotte due mesi prima in fin di vita.

A raccontarcela è loro zia Charlotte: «I Lendu hanno attaccato Tchee, il nostro villaggio. Hanno violentato davanti agli occhi di Grace e Rachel la loro madre, mia sorella. Sempre davanti ai loro occhi hanno ucciso i loro genitori e i tre fratelli più grandi. I Lendu, non soddisfatti, si sono divertiti coi machete. Hanno tagliato parte del braccio sinistro di Grace e l’hanno ferita alla nuca. Poi sono passati a Rachel. L’hanno squarciata da guancia a guancia e da orecchio a orecchio. Io ho già i miei figli a cui badare, come posso sfamarle? Sapete che nessuno le sposerà in queste condizioni?». Grace è appoggiata alla sua spalla mentre Rachel dorme tranquillamente tra le sue braccia.

Accanto a me un casco blu bengalese. Ha gli occhi lucidi. Infila in tasca a Grace una merendina. Si è fatto buio, dobbiamo andare.

Luca Salvatore Pistone


Dieci anni dal «Rapporto Mapping»

Il genocidio senza storia

Il primo ottobre 2020 ricorrevano i 10 anni dalla pubblicazione del «Rapporto Mapping» dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i diritti umani (Unhchr) sulla Repubblica democratica del Congo.

Per capire meglio di cosa si tratta, occorre fare un passo indietro. Nel 1994, al termine del genocidio in Ruanda, durato 100 giorni senza che la comunità internazionale intervenisse, il Fronte patriottico ruandese (Fpr) di Paul Kagame assunse il controllo del paese (milizia a maggioranza Tutsi anglofona, ndr). Nella speranza di salvarsi dalle violenze dell’Fpr, deciso a vendicarsi del genocidio subito dagli Hutu, circa due milioni di ruandesi di etnia Hutu si rifugiarono nell’allora Zaire di Mobutu. Questi era malato, stanco e ormai abbandonato dagli alleati.

Con il genocidio in Ruanda, l’invasione dello Zaire da parte di quest’ultimo era solo questione di tempo e, con la scusa di inseguire i genocidari hutu, si è concretizzata con la «Prima guerra del Congo» che si è combattuta fra il 1996 e il 1997 e che ha messo fine al regime di Mobutu. Per non destare sospetti durante l’invasione, è stato messo a capo dell’avanzata un cittadino zairese, Laurent-Désiré Kabila che è diventato presidente nel paese nel 1997. Nel 1998 Kabila ha intimato ai ruandesi di ritornare a casa loro e così è iniziata la «Seconda guerra del Congo», detta anche Guerra mondiale africana, che, con milioni di vittime, si è conclusa nel 2003 con un governo di transizione guidato da Joseph Kabila, al potere dal 2001, dopo l’assassinio di Laurent-Désiré Kabila.

In seguito alla scoperta di molte fosse comuni nel 2005, l’Unhchr decise di investigare, e mandò i suoi esperti che indagarono sul decennio 1993-2003 producendo il Rapporto Mapping, uno studio molto dettagliato che sarà pubblicato il 1 ottobre 2010, ma subito messo nel cassetto, in seguito a pressioni di Paul Kagame e dei suoi alleati. Questo rapporto denunciava la morte di 6 milioni di persone e individuava 617 massacri classificabili come crimini di guerra, crimini contro l’umanità e, alcuni, come crimini di genocidio. Tutti crimini imprescrittibili.

Oggi sono in tanti, congolesi e amici del Congo, a chiedere la verità su questo dramma. Nel decimo anniversario del Rapporto Mapping, il dottor Denis Mukwege (cfr. Mc aprile 2018), Premio Nobel per la Pace 2018, ha lanciato, insieme alla società civile congolese ed esponenti della diaspora, una campagna di sensibilizzazione per chiedere alle Nazioni unite l’applicazione delle raccomandazioni di quel rapporto. In particolare, la creazione di un Tribunale penale internazionale ad hoc per giudicare i crimini commessi nella Rd Congo negli ultimi decenni, crimini, lo ricordiamo, che avvengono tuttora nel silenzio, seppure sotto gli occhi della comunità internazionale. Nessuno si illuda però. La strada per arrivare alla verità e alla giustizia è davvero molto lunga e piena di insidie. Ricordiamoci che le responsabilità non si limitano al solo Ruanda ma toccano potenze mondiali ed esponenti della politica congolese. E soprattutto, non dimentichiamoci i troppi interessi economici in ballo.

John Mpaliza*

*Attivista per i diritti umani e per la pace
FB: facebook.com/johnmpaliza/ (ospite di MC giugno 2016)




Bolivia. La rivincita della democrazia

testo di Paolo Moiola |


Per la Bolivia è stato un anno vissuto pericolosamente. Il paese andino è passato dal golpe del novembre 2019 al ritorno alla democrazia dell’ottobre 2020. Un periodo molto difficile dal punto di vista politico e sociale, complicato anche dalla presenza della pandemia.

Non sarà facile governare il paese. Rimangono divisioni gravi e problemi seri. Eppure, almeno per ora, i boliviani ce l’hanno fatta: dopo un golpe e un anno di governo de facto il paese andino ha scelto il ritorno alla democrazia attraverso un processo elettorale libero, pacifico e molto partecipato.

Nonostante una tensione diffusa e le difficoltà imposte dalla pandemia, le elezioni dello scorso 18 ottobre hanno infatti registrato una grandissima affluenza, pari all’87 per cento degli aventi diritto. Il risultato è stato netto: Luis Arce Catacora, candidato del Mas-Ipsp (Movimiento al socialismo – Instrumento por la soberanía de los pueblos), ha vinto con il 55,1 per cento dei voti, con un vantaggio abissale su Carlos Mesa di Comunidad ciudadana (28,83%) e Luis Fernando Camacho di Creemos (14%). La presidenta de facto Jeanine Áñez e Carlos Mesa hanno subito riconosciuto la vittoria di Arce e del Mas. Cosa che non è avvenuta con Camacho, il leader dell’estrema destra separatista. È facile prevedere che da quest’ultimo arriveranno i maggiori problemi per il nuovo presidente e il suo governo.

Subito dopo la vittoria, il vincitore aveva scritto un tweet sobrio e distensivo: «Siamo molto grati per il sostegno e la fiducia del popolo boliviano. Recuperiamo la democrazia e riacquisteremo stabilità e pace sociale. Uniti, con dignità e sovranità».

L’ex presidente Evo Morales con Paolo Moiola, autore di questo articolo, a La Paz nel 2005. Foto: archivio Paolo Moiola.

Gli anni di Evo Morales

I boliviani – 11 milioni di persone di cui circa il 60 per cento indigeni (Aymara, Quechua e altre 34 etnie minori) – hanno scelto la continuità con i quasi 14 anni (gennaio 2006 – novembre 2019) di governo di Evo Morales, il primo indigeno eletto presidente.

I meriti di Evo Morales sono indubitabili, a iniziare dal riscatto e dall’inclusione sociale dei popoli indigeni. Con lui questi ultimi hanno riconquistato dignità e orgoglio, pure sulla scia delle tutele introdotte dalla nuova carta costituzionale, in vigore dal febbraio 2009. Anche in campo economico i risultati raggiunti sono stati estremamente lusinghieri.

È altrettanto certo che Evo Morales abbia commesso alcuni errori: sul tema della coltivazione della foglia di coca, sul parco nazionale del Tipnis, sulla gestione dell’Amazzonia boliviana. Probabilmente, il suo sbaglio più grande è stato però quello di forzare la mano per un nuovo mandato presidenziale (sarebbe stato il quarto). Detto questo, il golpe contro di lui del novembre 2019 e il (pessimo) governo de facto che ne è seguito non hanno avuto nulla a che vedere con la democrazia.

In questo momento, l’ex presidente, rientrato in patria dopo l’esilio prima in Messico poi in Argentina, ha sulle spalle una serie impressionante di accuse: dal terrorismo fino alla pedofilia e allo stupro. A tal punto che anche l’organizzazione Human rights watch, pur non lesinando critiche ai suoi anni di governo, nel rapporto «La giustizia come arma» (dell’11 settembre 2020) non ha esitato a etichettare come persecutorie e politicizzate le iniziative giudiziarie contro di lui.

Dopo la vittoria elettorale del 18 ottobre, ci si interroga su un eventuale ruolo politico di Morales. Tuttavia, se è vero che l’ago della storia boliviana non si è spostato a destra e il Mas è tornato centrale, è altrettando vero che oggi i protagonisti sono altri.

Luis Arce (al centro), economista del Mas, festeggia la sua elezione a presidente della Bolivia a far data dall’8 novembre 2020; a destra, il suo vice David Choquehuanca, di etnia aymara. Foto: Ronaldo Schemidt / AFP.

L’oggi di Luis Arce

Il nuovo presidente è Luis Arce, nato a La Paz nel 1963 da una famiglia di insegnanti. Economista, Arce è stato funzionario pubblico, professore universitario e soprattutto ministro dell’economia sotto Evo Morales. Durante il suo lungo operato come ministro (interrotto soltanto per curare un tumore), l’economia boliviana è cresciuta in maniera sorprendente (una media del 4,9 per cento all’anno) e soprattutto ha visto la drastica riduzione del tasso di povertà. Il tutto nell’ambito di una politica economica contraria al pensiero unico neoliberista e iniziata – era il maggio del 2006, primo governo Morales – con la nazionalizzazione del petrolio e del gas.

Al fianco di Arce, come vicepresidente, ci sarà David Choquehuanca, già ministro degli esteri, ex sindacalista e soprattutto aymara, caratteristica importante per quella parte di indigeni boliviani scontenta di aver lasciato la presidenza a un bianco (meticcio, a voler essere precisi).

Luis Fernando Camacho mostra la Bibbia ai sostenitori durante un comizio a Santa Cruz il 4 novembre 2019, nei giorni del golpe; un anno dopo, si piazzerà terzo alle elezioni per la presidenza del paese. Foto: Daniel Walker / AFP.

Dal gas al litio

A parte la presenza di grandi bellezze culturali e naturali (dalle Ande all’Amazzonia), che cosa rende la piccola nazione latinoamericana strategicamente rilevante? La Bolivia del 2020 non è più soltanto il paese con giacimenti di gas (importanti, ma in rapido calo). È anche e soprattutto il paese con le più grandi riserve di litio al mondo, precedendo Argentina e Cile, come dimostrano tutte le principali rilevazioni geologiche (fonte Bbc). Il litio è il metallo del presente e del futuro se si considera che esso è componente essenziale delle batterie delle auto elettriche (oltre che di cellulari e vari dispositivi elettronici). Con l’elezione di Arce pare esclusa la privatizzazione della Yacimientos de litio bolivianos (Ylb), la compagnia statale che tratta il prezioso metallo. Tuttavia, il neopresidente non dovrà cadere nell’errore di puntare sull’estrattivismo, affidandosi cioè a una politica di semplice sfruttamento ed esportazione delle materie prime. La sfida è la creazione di una industria nazionale e la ricerca di una (difficile) compatibilità ambientale.

L’ex presidente Carlos Mesa, secondo più votato nelle elezioni del 18 ottobre 2020, intervistato da Paolo Moiola a Palazzo Quemado, a La Paz, nel 2005. Foto: Francesco Zaratti.

La foglia di coca e la mezza luna bianca

Come per tutti i paesi amazzonici, anche in Bolivia la preservazione dell’ambiente è, e sarà, un tema fondamentale. Finora l’Amazzonia boliviana (che interessa il 44 per cento del territorio) non è stata difesa in maniera adeguata, ripetendo gli errori dei paesi vicini (disboscamento ed espansione della frontiera agricola).

Il nuovo presidente dovrà affrontare anche la controversa questione della produzione della foglia di coca e il problema dei rapporti con la regione chiamata Media Luna (Mezza Luna, per via della sua forma).

La foglia di coca è parte della cultura boliviana e come tale protetta dalla legge (articolo 384 della Costituzione). Il problema nasce dalle quantità prodotte e dal loro uso. Secondo l’agenzia delle Nazioni unite contro la droga (Unodc), nel 2019 la Bolivia ha aumentato del 10 per cento le sue coltivazioni di foglia di coca (stimate in circa 25mila ettari). Nel paese il consumo di coca è legale per alcuni usi (infusione, rituali religiosi andini e mascado, la sua masticazione). Il problema è dato dal fatto che la Bolivia è anche il terzo produttore mondiale di cocaina dopo la Colombia e il Perù.

Produttori di foglie di coca nella provincia del Chapare (dipartimento di Cochabamba). Foto: J. Sailas – UN Photo.

Quanto alla regione della Mezza Luna, essa comprende le pianure orientali del paese e quattro dipartimenti (Santa Cruz, Pando, Beni e Tarija). È abitata da una popolazione bianca o meticcia. Si tratta della regione più ricca della Bolivia per via dell’agricoltura estensiva, dell’allevamento. e dei campi petroliferi, che nel 2006 Evo Morales riportò – attraverso la compagnia pubblica Ypfb – sotto il controllo dello stato, con grandi proteste delle compagnie private e della comunità internazionale neoliberista.

Queste diversità hanno prodotto nella regione la nascita di un forte movimento separatista (Nación Camba), reso ancora più aggressivo dall’arrivo al governo del Mas. Proprio da Santa Cruz de la Sierra, capoluogo politico della Mezza Luna, arriva il personaggio dell’opposizione più controverso, sicuramente pericoloso: quel Luis Fernando Camacho giunto terzo nelle elezioni di ottobre. Cattolico fondamentalista (ma che strizza l’occhio agli evangelici), durante i suoi comizi era solito ripetere: «Dios va a volver a Palacio». E così ha fatto, rispettando tutti i canoni della visibilità mediatica: domenica 10 novembre 2019, in concomitanza con le dimissioni (forzate) del presidente Morales, Camacho è entrato a Palazzo Quemado, sede del governo a La Paz, e si è inginocchiato davanti a una Bibbia, aperta al centro di una bandiera boliviana. Due giorni dopo è stata la senatrice Jeanine Áñez, appena proclamatasi presidenta ad interim della Bolivia, ad affacciarsi al balcone del palazzo mostrando la Bibbia alla folla assiepata nella piazza sottostante.

Un anno dopo, alle elezioni del 18 ottobre 2020, la bianca Áñez si è ritirata, mentre il bianco Camacho si è piazzato molto lontano da Arce e Mesa, raccogliendo però parecchi voti nei dipartimenti della Mezza Luna.

Cosa l’estremista Camacho vorrà fare di quel consenso è una questione rilevante per il futuro del paese andino.

La senatrice Jeanine Áñez, appena proclamatasi presidenta ad interim, si affaccia al balcone del palazzo presidenziale per salutare la folla con la Bibbia in mano (La Paz, 12 novembre 2019). Foto: Aizar Raldes / AFP.

«No hay plata»

In una riunione tenuta pochi giorni prima di assumere la guida del paese, Arce e Choquehuanca hanno affermato che dovranno ridurre il numero dei ministeri perché «no hay plata» (non c’è denaro). Il vicepresidente ha polemicamente aggiunto che il governo transitorio è venuto per «assaltare» invece che per «governare».

A proposito di ricchezze, in «Le vene aperte dell’America Latina», il compianto Eduardo Galeano parla molto della Bolivia e del suo «aver nutrito la ricchezza dei paesi più ricchi». Proprio per il suo passato di dipendenza e sottomissione, oggi per il paese andino la cosa più importante è proseguire lungo la strada che assicuri un’esistenza degna a tutti i suoi abitanti e una reale sovranità nazionale.

Insomma, per il nuovo presidente Luis Arce governare la Bolivia si prospetta più impegnativo di quanto non sia stato vincere le elezioni.

Paolo Moiola




Bolivia: La morte e il funerale, eventi comunitari

testo e foto di Stefania Raspo |


Il coronavirus ha impatti diversi nelle comunità indigene non soltanto perché mancano strutture sanitarie e medicine, ma anche perché è diversa la loro cultura.

Vilacaya (Potosí).  Il 19 marzo 2020, in conferenza stampa, l’allora presidente dello stato plurinazionale di Bolivia, Jeanine Áñez, decretava la quarantena in tutto il territorio nazionale. Il lockdown è durato molti mesi, anche se con intensità differente: si è iniziato con una quarentena rigida fino al mese di agosto, quindi con graduali aperture dal mese di settembre, anche se la situazione di contagio non è uguale in tutte le regioni del paese, e in alcune aree più problematiche si sono prolungate le restrizioni anche nel mese di ottobre. In queste pagine non parleremo però del numero dei contagi e dei morti, e ciò per due ragioni. La prima è banale: essi sono facilmente reperibili sui siti istituzionali. La seconda è sostanziale: i numeri sono una mera opinione in un paese che, per mesi, ha effettuato una quantità irrisoria di tamponi e, fino a oggi, non può contare su un numero adeguato di laboratori per analizzarli. Vogliamo, piuttosto, considerare due aspetti della pandemia: il fatto che che in Bolivia si abbatta su una popolazione a maggioranza indigena, e le conseguenze che il coronavirus ha avuto sulla politica.

Le culture indigene e il coronavirus

Con il suo 60 per cento, la Bolivia è uno dei paesi con la maggior presenza indigena di tutto il continente americano. Come vive la pandemia un paese con profonde radici tradizionali (ancestrali)?

A questa domanda si può rispondere sotto diversi punti di vista. A livello sociale, i gruppi indigeni (soprattutto dell’Amazzonia) sono tra i più vulnerabili, persino a rischio di estinzione: il gruppo Esse Ejja, che ormai conta pochi individui, se venisse attaccato dal virus scomparirebbe, considerando che molti suoi membri soffrono di tubercolosi. Per di più, le comunità indigene dell’Oriente boliviano (le cosiddette Terre Basse, che comprendono una buona porzione della foresta amazzonica del paese) non godono dell’assistenza sanitaria che, seppur precaria, possono avere invece gli abitanti dei centri urbani.

Donne indigene a La Paz. Foto: Kaniri – Pixabay.

Per capire come la cultura ancestrale agisce e reagisce di fronte al contagio del coronavirus, è meglio spostarsi nelle aree rurali, dove i saperi tradizionali sono ancora molto vivi. Prima di tutto, ci sono i medici tradizionali che si sono mossi e si sono incontrati per cercare insieme soluzioni alla malattia. Allo stesso tempo, si è attivata la profonda conoscenza della natura che un po’ tutti possiedono: le erbe aiutano a superare la malattia o a prevenirla. Ogni cultura, poi, ha sviluppato nei secoli terapie che comprendono anche un ambito spirituale e il contatto con le forze cosmiche.

Comunque, i contagi nell’area rurale sono stati pochi, come le morti. Forse per la bassa densità di popolazione. Forse anche per la vita più sana della gente benché – questo sia ben chiaro – viva in una condizione di povertà cronica. O forse – davvero – i saperi medici indigeni hanno le armi per combattere il coronavirus.

Detto questo, è stato però inevitabile uno scontro culturale tra gli usi e costumi delle comunità e le regole contro la pandemia imposte dalle autorità. In particolare sui modi con cui affrontare l’evento della morte che, nella maggior parte delle culture, è un forte momento collettivo, accompagnato da molti rituali con elementi cristiani e ancestrali.

Nel caso delle comunità contadine quechua, il funerale è un tempo comunitario, per questo è molto difficile che si accetti una cerimonia a porte chiuse. È successo nell’altipiano de La Paz: sono arrivati i poliziotti per disperdere il ritrovo di tante persone nel cimitero, persone che sono state prese a botte.

Qualcuno potrebbe giudicare come ignoranti e testardi gli andini, ma si tratta invece di qualcosa di profondo, perché la presenza dei defunti continua viva nella comunità. Il funerale non è un saluto formale a chi non c’è già più. Da qui scaturisce un forte shock culturale tra le comunità indigene. Tuttavia, poiché il controllo dell’ordine sociale è quasi inesistente (ci sono pochi poliziotti per vaste estensioni di territorio), il lockdown governativo è sempre aggirato con facilità.

Il villaggio di Vilacaya, dove noi operiamo da più di sette anni, si trova in un’area povera e arida. Qui ci sono centri sanitari pubblici nelle comunità più grandi, però il medico e l’infermiera visitano anche le borgate minori. Il sistema sanitario è gratuito da due anni, ma gli ambulatori sono poco forniti di medicine. In ogni caso, durante questa emergenza, hanno fatto una buona campagna di prevenzione, insegnando i comportamenti adeguati per non contagiarsi, e distribuendo mascherine alle famiglie. Tra gli operatori sanitari ci sono stati molti contagi e anche alcune morti.

Improvvisazione politica

Un altro aspetto della pandemia da sottolineare è la sua influenza sulla politica nazionale. Fin dall’inizio, alcuni analisti hanno previsto che molti governi in America sarebbero stati messi alla prova dall’emergenza sanitaria, e si sarebbero rafforzati oppure indeboliti, a seconda della gestione e politica che avrebbero attuato.

Un’infermiera al lavoro nel villaggio di Vilacaya. Foto: Stefania Raspo / MC.

Così è stato in Bolivia (non entriamo nel merito di altri paesi, anche se si potrebbe dire lo stesso): dopo i tumulti sociali che l’anno scorso hanno ribaltato il risultato elettorale, che vedeva di nuovo Evo Morales come vincitore, il paese è stato guidato da un governo di transizione, con a capo la presidente Jeanine Áñez, in vista delle nuove elezioni.

La pandemia ha fatto rimandare la data del voto almeno tre volte, l’ultima con grande tumulto popolare che ha paralizzato il paese per circa due settimane in agosto. Infatti, i parlamentari del Mas (il partito di Evo Morales, con la maggioranza di eletti) avevano cocciutamente imposto la data per inizio settembre, con grande rischio di contagi (già si calcolava che questo mese sarebbe stato il più critico). Il tribunale elettorale ha rimandato ad ottobre le elezioni, suscitando l’ira del Mas e del sindacato nazionale. Il governo non ha reagito, perché nel frattempo Jeanine Áñez si era candidata per la presidenza, e non voleva sbilanciarsi, cosa che in campagna politica significa essere strumentalizzati o a favore o a sfavore.

Eppure, al primo sondaggio sui candidati, Jeanine è risultata una delle ultime, con solo il 3% delle preferenze. Perché? La sua candidatura non è piaciuta da subito: era salita al potere dicendo di essere solamente la persona che avrebbe portato il paese a elezioni democratiche e che poi avrebbe lasciato il posto, promessa che si è rimangiata con la propria candidatura. Ma non si tratta solo di questo: il governo di transizione non ha saputo coordinare un’azione in sinergia con i governatori dei dipartimenti e delle provincie, molte volte ha agito senza consultare le altre istituzioni, e senza preavviso. È il caso della chiusura dell’anno scolastico in agosto: all’annuncio del ministro dell’istruzione, nessuno lo sapeva e gli addetti ai lavori dell’educazione sono insorti contro una decisione unilaterale e non concertata. Alla reazione generale, il governo ha fatto marcia indietro parlando di una mera chiusura amministrativa, e che le lezioni a distanza sarebbero continuate. Insomma, unafiguraccia, ma non è stato l’unico esempio di politica con il sapore dell’improvvisazione. Il risultato è che il 17 settembre Jeanine Áñez ha ritirato la propria candidatura.

I vincitori delle elezioni del 18 ottobre dovranno subito fare i conti con un paese più povero, con meno lavoro, con un sistema sanitario fragile e inadeguato all’emergenza sanitaria. Ossia le conseguenze della pandemia peseranno anche sul prossimo governo e forse anche sulla stessa stabilità politica del paese.

Stefania Raspo
(Missione MC di Vilacaya)

Cimitero di Vilacaya il 2 di novembre, ricorrenza dei morti: alcuni bambini ricevono del pane dal parente di un defunto. Foto: Stefania Raspo / MC.




Moria è bruciata

testo e foto di Alberto Sachero |


Dopo la devastazione del campo profughi nell’isola di Lesbo, cambierà qualcosa per i migranti?

Il campo di Moria sull’isola di Lesbo, il più grande d’Europa arrivato a contenere circa 20mila persone a inizio 2020, è stato per anni un periferico limbo in cui l’Europa ha parcheggiato i migranti, permettendo solo a pochi di completare l’iter di richiesta di asilo politico.

Moria è andato a fuoco il 9 settembre 2020. Gli abitanti del campo hanno perso il poco che avevano e sono fuggiti per non perdere anche la vita.

Sembra che ad appiccare il fuoco siano stati i migranti stessi. Nel campo erano stati individuati 35 casi di Covid-19, e per questo motivo era ogni giorno più blindato, fino alla completa chiusura.

Alcune persone hanno quindi dato fuoco alle tende, per evitare di essere rinchiusi a tempo indeterminato.

Moria bruciata

Arrivato sull’isola di Lesbo mi reco a vedere cosa resta di Moria (foto 1 – di apertura). Dopo cinque giorni dall’incendio, un forte odore di ulivi carbonizzati e plastica bruciata aleggia ancora nell’aria. Ovunque tende bruciate, letti, biciclette, bottiglie di acqua in plastica e ogni tipo di effetto personale. Tutto andato in fumo.

Incontro alcuni abitanti che ancora riempiono sacchi neri con quello che sono riusciti a salvare dalle fiamme. Poco più avanti, due ragazzi afghani sono saliti su un ulivo e stanno cercando di tagliare dei cavi dell’alta tensione per costruire delle corde per trainare le loro «slitte» con a bordo il poco che gli è rimasto.

L’esodo intrappolato

Fuggendo dal rogo, gran parte dei migranti si è diretta in verso Mytilini, il principale centro dell’isola di Lesbo (foto sopra). La strada però è stata bloccata dalla polizia greca che non voleva che arrivassero in città. Sulla strada che collega Mytilini e Moria, con dei bus messi di traverso, sono stati creati due blocchi, distanti circa 1,5 Km tra di loro, in modo da intrappolare le persone nella strada e non farle muovere. Sono stati chiusi i supermercati, ufficialmente per ragioni di sicurezza, in realtà per mettere in difficoltà i migranti e non permettere loro di acquistare cibo e acqua per sopravvivere.

I fuggiasci da Moria si sono costruiti ripari di fortuna, con teli, rami e paglia. Li hanno piazzati sui marciapiedi della strada, nei parcheggi dei supermercati chiusi, nei boschi adiacenti, sopra i tetti, in resti fatiscenti di vecchie costruzioni e sotto tir parcheggiati (foto qui). Tutto ciò con temperature sopra i 30 gradi.

Il governo greco, col benestare dell’Europa, non ha mosso un dito per assisterli, si è limitato a costruire in fretta e furia un altro campo per rinchiuderli il più velocemente possibile e renderli nuovamente invisibili.

Molte Ong sono così arrivate sull’isola e moltissimi giovani volontari indipendenti hanno portato il loro sostegno da tutta Europa. Mancavano solamente le istituzioni. Osteggiati dalla polizia greca, che spesso non li faceva accedere all’area o li faceva attendere ore al di fuori, hanno portato cibo, acqua, vestiti e medicinali a 13mila migranti. Questi, con una calma incredibile, hanno formato code lunghe più di un chilometro aspettando fino a due ore sotto il sole cocente, per assicurarsi un pasto o qualche bottiglia di acqua (foto 3, qui sotto).

Condizioni disumane

Mi dirigo verso la zona a circa due chilometri a Nord della città di Mytilini con Sia, una volontaria greca che deve portare dei farmaci a una donna afghana. La polizia non ci permette di entrare. Dobbiamo fare un lungo giro sulla collina per aggirare gli altri due posti di blocco e finalmente, dopo un’ora di cammino, giungiamo sul posto. L’impatto visivo è molto forte: migliaia di persone sistemate in accampamenti di fortuna, buttate per terra in condizioni disumane; interminabili code per il cibo; uomini, donne, qualche anziano e migliaia di bambini ovunque. Si stima che siano circa 13mila persone di cui 4mila sotto i 18 anni, tantissimi molto piccoli o addirittura neonati (foto 4, qui sotto).

Protezione negata

Inizio a parlare con la gente. Un ragazzo mi dice che circa l’80% di loro proviene dall’Afghanistan, un paese distrutto dalla guerra, dai Talebani, dai Daesh, dall’intervento statunitense, dai continui attentati. Mi dice in perfetto inglese: «Sono scappato, non avevo altra scelta, e ora devo arrivare in Europa, indietro non posso tornare, mi ucciderebbero». Ci sono anche Iraniani, Iracheni, Somali, Yemeniti, tutte persone che fuggono da guerra persecuzione o povertà, che avrebbero il sacrosanto diritto di chiedere protezione e accoglienza.

Una madre, con in braccio due bimbi, mi dice: «Uno è mio, ha dodici giorni. È nato qui, e dopo cinque giorni di vita siamo scappati dal campo in fiamme. L’altro ha cinque mesi, è di una mia amica in ospedale a Mytilini con grossi problemi di salute, l’ho adottato, almeno per il momento, poi si vedrà».

I bambini tengono allegra la drammatica situazione sulla strada, con i loro sorrisi e la loro spensieratezza. Sono purtroppo abituati a vivere in guerra e povertà, ma la loro voglia di ridere e di giocare vince quasi sempre sulla tristezza e dà agli adulti un motivo di speranza per un futuro migliore.

Indietro non si torna

La sera vado in un locale indicatomi da alcuni volontari, in cui ci sono parecchie persone da tutta Europa. Lì mi vengono segnalati altri locali di «destra», in cui i volontari non sono ben accetti. Il governo greco è di destra, e l’isola di Lesbo è piena di fascisti che fanno ronde. Ci sono stati moltissimi episodi di aggressioni a profughi, volontari e anche giornalisti e fotografi. Le bandiere nere sono numerose e ben visibili sulle strade isolane.

Il secondo giorno mi reco da solo nella zona in cui sono bloccate le persone. La polizia mi ferma di nuovo. Rientro in paese, incontro un gruppo di afghani che fanno la spesa e che tornano al loro rifugio. Mascherina, occhiali da sole e borse della spesa mi permettono di superare il posto di blocco. La famiglia afghana che mi ha aiutato a entrare, mi ospita. «Come Alberto, this is our house». Padre, madre e due figli. Mi offrono del cibo, anche se ne hanno poco. Ringrazio e cerco di dire che ne hanno più bisogno loro. Mi meraviglia la loro dignità, presenza e pulizia. Non so come fanno, buttati a terra in quel modo con poco cibo e scarse possibilità di lavarsi. Io che dormo in una camera con bagno privato sono molto meno presentabile.

Il figlio maggiore mi racconta che vivevano in una zona di Kabul. Da una parte i Talebani, dall’altra il Daesh. Non riusciva ad andare a scuola per le continue sparatorie, il padre lavorava saltuariamente. Hanno quindi deciso di partire per l’Europa. In due anni sono arrivati a Lesbo, dopo aver lavorato per pochissimo denaro ed essere stati rinchiusi nei campi turchi. «Non abbiamo scelta, indietro non possiamo tornare».

«No Photo, no photo»

Il terzo giorno, dopo esser nuovamente «rimbalzato» al posto di blocco, riesco ad entrare grazie ai ragazzi, tutti molto giovani e pieni di voglia di fare, di una Ong. Mi consigliano di «infilarmi» tra di loro nel momento in cui la polizia concede alla Ong di entrare nella zona. Così accade, dopo circa due ore, con il capo dei poliziotti che raccomanda ai volontari «No photo, no photo». I governi europei non vogliono che si mostri quel che sta succedendo a 13mila persone bloccate in strada dalla polizia in tenuta antisommossa e tenute in condizioni disumane, senza cibo, riparo, servizi e assistenza. La sopravvivenza di questa gente è stata garantita esclusivamente dal lavoro straordinario svolto dalle Ong e dai volontari, che si sono fatti in quattro per portare viveri, acqua e beni di prima necessità.

Il nuovo campo prigione

Tutto quello che ha fatto l’Europa è stato di dare soldi alla Grecia per costruire un nuovo campo (foto 6, sopra).

I migranti sono poi stati lasciati privi di cibo e riparo per una settimana, per costringerli a entrare nel nuovo campo. In quei giorni ho assistito personalmente a dialoghi tra funzionari greci e migranti in cui i primi esortano i secondi a prepararsi per entrare nel nuovo campo. Ma questi ultimi rispondono di no, che non volgliono essere rinchiusi in un nuovo campo prigione.

Tutte le mattine ci sono manifestazioni, con in testa centinaia di bambini, che fanno la spola tra un blocco e l’altro della polizia, urlando «Asadi» (libertà in lingua farsi), «We don’t go in the new camp» e «Freedom» (foto 7, qui).

Davanti al rifiuto della gente, i funzionari cercano di convincerla che solo nel nuovo campo di Kara Tepe troverà ristoro, tende, farmaci e WiFi. Dai migranti ancora risposta negativa. Alla seconda risposta negativa, dato che i migranti mostrano di fidarsi più dei volontari e dei giornalisti che dei poliziotti e funzionari greci, questi provano a convincerli che il governo vuole solo il loro bene, mentre Ong e giornali vogliono solo usarli.

Infine, visto che con le buone non ottengono niente, iniziano a minacciare: «O entrate nel campo o la vostra richiesta di asilo non verrà processata».

Il giorno successivo, dopo aver sigillato l’area tenendo fuori tutti, in primis i giornalisti, viene messo in atto un vero e proprio rastrellamento. Ingenti forze di polizia in tenuta anti sommossa armate fino ai denti, passano lentamente intimando ai migranti di recarsi nel nuovo campo. Le persone a questo punto cedono e formano code interminabili per la registrazione. È vietato accedere con cinture, accendini e qualsiasi tipo di oggetto appuntito, come in galera.

Il nuovo campo di Kara Tepe viene riempito da circa 10mila «ospiti». Sorge in un’area in riva al mare, già zona militare contaminata da residui bellici e pallottole inesplose, certo luogo non ideale per le migliaia di bimbi che in quella terra giocano. L’area è nota per essere molto fredda e piovosa nella brutta stagione.

Le famiglie sono ammassate in grossi tendoni in plastica, caldi in estate e freddi in inverno. Duecento in ogni tenda su letti a castello, contro ogni regola anti Covid. I bagni sono in tutto venti.

L’unica buona notizia è che gli abitanti potranno uscire dalle 8.00 alle 20.00, con obbligo di rientro. Almeno per ora.

Spero di sbagliarmi ma il mio presentimento è che con gli inevitabili casi di Covid positivi, il campo sarà presto sigillato.

Rientrato in Italia, il 23 settembre apprendo alla radio che è stata approvata la bozza per il nuovo «Patto di solidarietà» sul tema migranti: verranno stanziati dall’Europa più soldi per i paesi periferici come Italia e Grecia e saranno finanziati e agevolati i rimpatri forzati.

Solidarietà tra i paesi europei nel cacciare i poveracci, non solidarietà verso gli esseri umani.

Alcuni amici afghani mi informano che, come era prevedibile, le prime piogge autunnali hanno completamente inondato il campo e le tende, che il cibo è scarso e di pessima qualità, e che si fanno code in continuazione, per mangiare, per uscire e rientrare al campo, per andare in bagno.

Moria è bruciata, cambierà qualcosa per i migranti?

No, anzi, sì. Sarà ancora più duro per loro richiedere asilo ad una «fortezza» Europa sempre più arroccata e solidale solo con i propri interessi economici e con la protezione dei propri confini.

Alberto Sachero




Gli Usa e il Mondo

testo di Piergiorgio Pescali |


Nella storia degli Stati Uniti, le guerre – a volte esplicite, ma più spesso non dichiarate – sono una costante. Una lettura attenta della politica estera di Washington, al di fuori del modello interpretativo repubblicani-democratici, porta però delle sorprese. In attesa della rielezione di Donald Trump o della vittoria del democratico Joe Biden.

Il 3 novembre gli Stati Uniti andranno a votare per il loro quarantaseiesimo presidente. Dopo un primo periodo in cui si sono succeduti candidati di diversi movimenti politici (federalisti, unionisti, whigs, democratici-repubblicani), dal 1869 ad oggi tutti gli inquilini della Casa Bianca sono stati rappresentanti di soli due partiti: quello repubblicano e quello democratico.

Secondo un’opinione diffusa e consolidata, in particolare in Europa, gli schieramenti ideologici dell’elettorato statunitense sono ben definiti: da una parte i progressisti, che trovano espressione nel partito democratico, e dall’altra i conservatori, raggruppati prevalentemente in quello repubblicano.

In realtà, la distinzione non è così netta. In particolare, con riferimento alla politica estera, i programmi delle amministrazioni democratiche e repubblicane trovano spesso ribaltamenti inaspettati che rispecchiano un Dna storico che vede un partito democratico espansionista e interventista, e un partito repubblicano più moderato.

L’imbarco di truppe statunitensi su un aereo. Foto: Skeeze-Pixabay.

Le radici storiche: nati da un unico tronco

Le radici dei due principali movimenti politici degli attuali Stati Uniti si rifanno a un unico tronco: quel «Partito democratico-repubblicano» (Pd-r) fondato nel 1792 da Thomas Jefferson e James Madison in opposizione al Partito federalista (che si batteva affinché i poteri del governo centrale fossero più forti). Gli stati settentrionali dell’Unione erano dominati dai federalisti; quelli meridionali, gelosi della propria autonomia, rappresentavano le roccaforti dei democratico-repubblicani. In questo quadro, che gli storici chiamano Primo sistema partitico Usa, si fronteggiavano pertanto due grandi schieramenti: i federalisti di Alexander Hamilton, espressione della classe commerciale e aristocratica che guardava con simpatia al modello britannico, e il Partito democratico-repubblicano appoggiato dai contadini e dai pionieri, che ammiccava alla Francia rivoluzionaria. Lo stesso nome «democratico» fu un’aggiunta postuma suggerita da Edmond-Charles Genet, ambasciatore di Parigi negli Usa. In realtà, le convergenze del Pd-r verso la Francia erano dovute più all’astio dei suoi rappresentanti verso il Regno Unito, impegnato nelle guerre napoleoniche, che ad un vero e proprio atteggiamento politico. La contrapposizione Partito federalista (pro Londra) e Partito democratico-repubblicano (pro Parigi) all’interno del Congresso americano portò alla cosiddetta «Guerra del 1812» tra Usa e Regno Unito, appendice oltreoceano delle guerre napoleoniche europee. Oltre a decretare la vittoria statunitense (nel 1815) e la fine del movimento federalista, il conflitto fu il primo passo dell’espansionismo americano ai danni delle popolazioni indiane (appoggiate da Londra che così facendo sperava di mettere in difficoltà gli statunitensi) e del tentativo del presidente Thomas Jefferson di invadere e conquistare il Canada britannico (Upper Canada). Fu sempre a causa di questa guerra che gli Stati Uniti si convinsero che per sopravvivere avevano bisogno di una marina forte e potente. Ed iniziarono a costruirsela.

L’allora presidente John F. Kennedy all’Onu il 25 settembre 1961. Foto: UN Photo – Yutaka Nagata.

Lo schiavismo e la guerra civile

Tra il 1824 e il 1832, il Pd-r si scisse: una fazione, guidata da Andrew Jackson fondò il Partito democratico, mentre l’altra, guidata da John Quincy Adams e Henry Clay, si raccolse attorno al Whig Party riprendendo il nome dalla fazione progressista britannica che, tra il XVII e il XIX secolo, si contrappose ai tories conservatori. Jackson rafforzò il potere presidenziale, estese il suffragio universale ai maschi adulti di origine europea-americana. Tra i due partiti si accese una rivalità basata, ancora una volta, sull’equilibrio decisionale tra poteri periferici e potere federale centrale, e sulle barriere protezioniste. I whigs si opposero anche alla politica di espansione statunitense intrapresa dal presidente del Partito democratico James K. Polk, il primo presidente ad applicare la dottrina Monroe sulla cui formulazione, «L’America agli americani», venne puntellata l’egemonia degli Usa sull’intero continente dall’Alaska alla Terra del Fuoco.

Polk appoggiò l’ulteriore avanzata verso Ovest ai danni dei nativi americani, annesse agli Usa il Territorio dell’Oregon e, al termine di una guerra che imperversò tra il 1846 e il 1848, obbligò il Messico a cedere lo stato del Texas.

Fu la questione schiavista a far nascere il Partito repubblicano: il senatore democratico Stephen A. Douglas redasse il Kansas-Nebraska Act che allargava il diritto di schiavitù ai territori dei due stati che davano il nome alla legge. Il presidente Franklin Pierce, anch’esso democratico e antiabolizionista, appoggiò la nuova legge tracciando così la strada che portò alla Guerra civile americana.

Nuovi schieramenti

L’allora presidente Ronald Reagan all’Onu il 17 giugno 1982. Foto: UN Photo – Yutaka Nagata.

Ad opporsi al Kansas-Nebraska Act furono i whigs e i democratici abolizionisti che formarono il Partito repubblicano. Fortemente progressista, difensore dei diritti civili delle popolazioni afroamericane, unionista, favorevole al rafforzamento del potere federale, il nuovo movimento radunò ben presto attivisti e sostenitori tra gli Stati settentrionali che espressero la loro volontà di emancipazione e di democrazia in Abramo Lincoln, eletto alla presidenza sebbene avesse ottenuto solo il 40% dei voti elettorali.

Dopo la Guerra civile, i repubblicani, presenti in particolare nel Nord più industrializzato, iniziarono ad avere l’appoggio dei grandi gruppi industriali e il partito iniziò a spostarsi verso il conservatorismo e verso le élite delle classi più abbienti. La Casa Bianca restò in mano repubblicana fino al 1913 tranne che, per due mandati, tra il 1885 e il 1889 e tra il 1893 e 1897 (presidenza Cleveland). Fu verso la fine del XIX secolo, con l’emergere di politici come Theodore Roosevelt e di strateghi militari come Alfred T. Mahan, che i repubblicani abbandonarono la loro tradizionale neutralità per imbarcarsi, in stretta compagnia dei democratici, in una politica di supremazia globale.

Dopo «L’America agli americani», Washington iniziò a guardare oltre i propri orizzonti: il trampolino di lancio per l’espansione nel Pacifico e in Asia, iniziato nel 1854 (quando il commodoro Perry obbligò il Giappone ad aprire i suoi porti al commercio con gli Usa), fu completato nel 1898, con l’annessione delle isole Hawaii. Da allora la presenza statunitense in Oriente divenne una costante in ogni amministrazione a prescindere dal colore politico. Fu invece la società civile a contrastare la politica militare: l’occupazione delle Filippine, Guam, Cuna e Porto Rico, avvenuta al termine della guerra ispano-americana del 1898, suscitò un’ondata di indignazione inducendo il senatore repubblicano George S. Boutwell a fondare la Lega anti-imperialista.

Dalle bombe nucleari alle Nazioni unite

L’allora presidente Bill Clinton all’Onu nel 1993. Foto: UN Photo – Milton Grant .

A partire dal XX secolo i candidati presidenziali inclusero nei loro programmi capitoli sempre più importanti riguardanti la politica estera e il ruolo che gli Stati Uniti avrebbero ricoperto nel mondo.

L’interventismo militare dell’amministrazione democratica di Woodrow Wilson (1913-1921) segnò l’inizio della nuova era per gli Usa: prima di entrare nella Prima guerra mondiale contro la Germania, Wilson aveva già spedito le sue truppe ad Haiti, in Messico, nella Repubblica Dominicana, Cuba, Nicaragua e Panama dove nel 1914 era stato inaugurato il canale. Subito dopo, lo stesso Wilson inviò truppe militari in aiuto all’Armata bianca russa nell’intento di contrastare le truppe bolsceviche.

L’influenza degli Stati Uniti divenne sempre più ingombrante e, dopo il secondo conflitto mondiale, complice la Guerra fredda, le varie amministrazioni iniziarono a intraprendere una politica di aperto interventismo militare.

Fu il democratico Harry Truman, dopo aver ordinato il lancio delle due bombe nucleari sul Giappone, a sfruttare per primo il predominio statunitense nelle Nazioni Unite come ombrello politico al fine di muovere le sue pedine sullo scacchiere internazionale.

La guerra di Corea (1950, amministrazione Truman, democratica), l’intervento in Libano (1978, amministrazione Carter, democratica e Reagan, repubblicana), la guerra nel Golfo Persico (1990, amministrazione Bush Sr, repubblicana), quella di Bosnia (1992, amministrazione Clinton, democratica), e i plurimi interventi in Libia (2011, amministrazione Obama, democratica) furono fatti su mandato Onu, ma dietro richiesta della Casa Bianca.

Ancora sotto un’amministrazione democratica (questa volta Kennedy), i militari Usa intervennero a Cuba nel tentativo disastroso della Baia dei Porci, di rovesciare il governo di Fidel Castro. Sempre Kennedy fu il presidente che diede il la per la Seconda guerra d’Indocina inviando i primi contingenti in Vietnam. L’incidente del Golfo del Tonchino (2 agosto 1964) permise al suo successore, il democratico Lyndon Johnson di coinvolgere appieno gli Stati Uniti nella regione asiatica, la cui eredità passò al repubblicano Nixon, a cui spettò il compito di intavolare i negoziati di pace e di compiere il definitivo ritiro dal Sud Est asiatico.

Discorso di Donald Trump dallo studio ovale della Casa Bianca in occasione della 75.ma Assemblea generale dell’Onu, lo scorso 23 settembre. Foto: UN Photo – Eskinder Debebe.

Dialoghi e bombe

A corollario della sua politica internazionale, fu ancora Nixon a ristabilire i rapporti diplomatici con la Repubblica popolare cinese di Mao Zedong. Una peculiarità, quella del dialogo con governi di ispirazione socialista o comunque fortemente biasimati dagli Usa, che rimase una costante nelle amministrazioni repubblicane. Infatti, mentre le direzioni democratiche hanno prevalentemente preferito risolvere i conflitti internazionali con le armi (guerra di Bosnia-Clinton, Libia-Obama, Siria-Obama), quelle repubblicane sono state le più impegnate nel dialogo. Reagan (nel secondo mandato) con Gorbaciov, Trump con la Corea del Nord e, recentemente, con i Talebani, sono le battaglie diplomatiche che hanno avuto più successo.

E se, da una parte, è facile identificare nelle amministrazioni repubblicane di Bush padre (1989-1983) e figlio (2001-2009) quelle che più di tutte si sono impegnate ad aprire nuovi fronti bellici, non altrettanto immediata è la sensazione di quanto identicamente deleteria e dispensatrice di bombe sia stata un’amministrazione generalmente considerata positivamente come quella di Obama (2009-2017).

A essa, nonostante il Nobel per la pace (2009) assegnato alla sua guida, si deve la destabilizzazione dell’intera area mediterranea mediorientale e nordafricana, gli interventi in Somalia e Yemen, l’aumento di truppe in Afghanistan e la chiusura degli spiragli di dialogo con la Corea del Nord.

L’ex presidente Barack Obama con Joe Biden, candidato democratico alla Casa Bianca 2020. Foto: Pixabay.

Trump-Biden: diversi, ma non su tutto

In questi primi giorni di novembre gli elettori statunitensi sceglieranno il loro nuovo presidente. Lo sfidante democratico Joe Biden ha già annunciato che, se eletto, sarà disposto anche a ordinare interventi militari contro Iran e Corea del Nord nel caso i leader di questi paesi non ottempereranno alle richieste Usa, aumenterà la presenza di truppe statunitensi nella penisola coreana e prenderà misure contro Pechino se questa non farà pressione su Pyongyang sul disarmo nucleare.

La politica estera Usa rischia di tornare ad essere dominata da due slogan dopotutto molti simili tra loro: «We are America, second to none» (Biden) e «Make America great again» (Trump).

Entrambi, nella loro megalomania, hanno dimenticato che Stati Uniti e America non sono la stessa cosa.

Piergiorgio Pescali