Marsabit: Da «maisha magumu» a «maisha mazuri»
testo di Giuseppe Inverardi e Gigi Anataloni |
Dal 30 ottobre scorso non abbiamo più la franca risata e gli occhi allegri di monsignor Ambrogio che è stato per 25 anni vescovo della diocesi di Marsabit in Kenya. Ora dal cielo continua l’opera di intercessione già iniziata nel santuario della Consolatrice sul monte di Marsabit.
Lo ricordo bene quel giorno. Ero in noviziato, quando il 9 febbraio 1957 ci fu comunicato che tre nostri confratelli venivano ordinati sacerdoti a Washington. Uno di loro era padre Ambrogio Ravasi. Erano stati i primi ad essere inviati a studiare teologia alla Catholic University of America. Un atto coraggioso e lungimirante da parte della Direzione generale di allora. L’interculturalità, anche teologico accademica, faceva capolino.
Ambrogio Ravasi, sacerdote, e missionario. Il sacerdozio missionario ha caratterizzato tutta la sua vita. Aveva cuore e spirito pastorale anche quando era occupato in altre attività e in uffici amministrativi. Sia a Buffalo, che a Somerset, tutti potevano contare sulla sua pronta disponibilità per vari servizi religiosi. Era gioia per lui.
Un uomo gioioso
Gioia, semplicità, serenità lo connotavano. Tutti ne venivano toccati e ne parlavano con ammirazione. Accoglieva e accomiatava con sorriso di cordialità.
Conosco pochi missionari poliedrici come lui, per obbedienza, o necessità, o carisma. Negli Stati Uniti è stato insegnante, maestro dei novizi, primo superiore e formatore del seminario di Buffalo, poi superiore delegato, quindi incaricato della direct mail (il servizio di corrispondenza con i benefattori, ndr), e anche direttore della rivista Consolata missions.
Visse un episodio drammatico come maestro dei novizi, fortunatamente senza conseguenze. Un novizio, veterano di guerra, all’improvviso impazzì. Brandendo un coltello minacciò padre Ravasi. Non so con quali convincenti parole lo dissuase, ma fu salvo.
1971, in Kenya
Nel 1971 raggiunse finalmente il Kenya, una destinazione attesa da anni, per svolgere esplicita attività missionaria. Il suo desiderio fu però tradito. Lo mandarono subito come insegnante e cappellano al Teacher’s college di Egoji, diocesi di Meru, dove svolse un apostolato significativo tra i giovani studenti che si preparavano a essere insegnanti.
Dopo soli tre anni, fu eletto vice superiore regionale dei missionari in Kenya, un servizio a tempo pieno. Rifiutata la rielezione nella speranza di poter finalmente essere inviato nei villaggi più remoti, dal 1977 al 1981, come l’Allamano, dovette accettare la «parrocchia più grande», e divenne superiore e formatore dell’incipiente seminario dei missionari della Consolata a Langata, alla periferia di Nairobi.
Erano i primi passi in Africa della formazione di missionari nativi del paese, attraverso gli studi di filosofia prima, e il noviziato e gli studi teologici poi.
Il «nuovo» doveva inserirsi sull’albero della tradizione del carisma, e la tradizione doveva accogliere il nuovo culturale. Un futuro inedito ma promettente di fecondità. Padre Ravasi ne era convinto.
La formazione nel nuovo contesto richiedeva discernimento, pazienza, fiducia, apertura, realismo. E se l’educazione, come afferma don Bosco, è un’arte dell’amore, tanto più lo era nelle nuove circostanze. Padre Ravasi possedeva i necessari requisiti, e li esercitava con intelligenza e cuore. Quante conversazioni e considerazioni assieme ai suoi cooperatori formatori, alle quali partecipavo pure io (padre Inverardi, allora superiore generale, ndr), per tracciare un cammino illuminato.
Nel 1981, vescovo
Le voci della candidatura di padre Ravasi a vescovo di Marsabit già circolavano. La supposizione divenne certezza quando nel 1981 a Roma, durante il Capitolo generale dei missionari della Consolata, il cardinal Angelo Rossi, prefetto di Propaganda Fide, si appartò con lui e gli parlò a lungo. Doveva far breccia nella sua resistenza. Alla fine padre Ambrogio, per obbedienza, accettò. Vescovo di Marsabit.
La consacrazione avvenne il 18 ottobre, vigilia della giornata missionaria mondiale, al suo paese, Bellusco (allora nella provincia di Milano) per le mani di ben tre vescovi africani: il cardinal Maurice Otunga di Nairobi e i vescovi Cesare Gatimu di Nyeri e John Njenga di Eldoret.
La diocesi nata grande
Marsabit è la diocesi creata dal nulla nel 1964 per mons. Carlo Cavallera, quando lodevolmente si dimise da vescovo di Nyeri per passare la mano al primo vescovo keniano, mons. Cesare Gatimu, suo ausiliare dal 1961.
Il Marsabit del deserto, delle strade impolverate, delle distanze interminabili, degli shifta (banditi guerriglieri somali, ndr), dei gruppi etnici in conflitto tra loro per le scarse risorse, delle difficoltà a non finire. Lo zelo e l’intraprendenza di mons. Cavallera avevano fatto fiorire il deserto già a cominciare dal 1952. Allora, in piena ribellione Mau Mau, aveva incoraggiato i suoi missionari a entrare nelle terre del Nord, formalmente parte della sua diocesi di Nyeri, ma chiuse ai missionari dal potere coloniale inglese, per visitare i campi dei prigionieri politici a Baragoi. Più tardi entrarono per assistere le piccole comunità di cattolici che già esistevano nei centri principali dove c’erano funzionari governativi e commercianti originari da Goa in India.
Erano sorte, così, missioni in luoghi strategici con i loro addentellati di evangelizzazione e promozione umana: asili, scuole, dispensari, pozzi. Più tardi aveva iniziato a Maralal la scuola per catechisti e il seminario, il Good Sheperd seminary, per la formazione di sacerdoti dai popoli nomadi.
Impegno continuo
Non era facile subentrare a mons. Cavallera. Tuttavia, con personalità e stile diverso, mons. Ravasi continuò a far crescere la diocesi, sì da portarla alla sua «moltiplicazione». Nel 2001 nacque la diocesi di Maralal (circa 21mila km2), con mons. Virgilio Pante come primo vescovo, nel distretto Samburu a Sud, lasciando ancora a Marsabit un territorio di oltre 80mila km2 al Nord.
Il vescovo, ricco di umanità ed energia, era molto vicino ai missionari e missionarie e alla gente. Affrontava sfide e situazioni difficili con invidiabile serenità. Vedeva bene i problemi, e sapeva comprendere e accompagnare. Sempre dialogante, ma determinato ed energico quando necessario. Reagiva, agiva, decideva. Forte la sua voce, più forte il suo carattere.
Era un eccellente comunicatore. Scriveva moltissime lettere. Sia a Somerset quando, incaricato della direct mail, era a contatto con i benefattori, sia dopo. Le sue lettere non erano corte, perché ricche di notizie.
Io non ho mai convissuto con lui nella stessa comunità. Ma eventi, circostanze e attività ci hanno messi vicini sia negli Stati Uniti che in Kenya, e dopo. Vicini… è dire nulla. Vicini e fratelli. Abbiamo condiviso riflessioni, decisioni, cammini. La sintonia di convinzioni e valori era perfetta. Era sempre una gioia incontrarsi e ricordare. Askofu (vescovo) Ravasi, un autentico missionario dalla Consolata.
Vescovo emerito
Raggiunti i limiti di età, nel 2006, ha dato le dimissioni e la diocesi è passata sotto la cura di mons. Peter Kihara che, da buon missionario della Consolata, ha lasciato la più centrale diocesi di Muran’ga con i suoi agricoltori montanari kikuyu per stare con i pastori delle savane e deserti del Nord.
Il vescovo Ravasi, ormai emerito, ha chiesto allora, e ottenuto, di poter restare nella diocesi che ha tanto amato e, dopo un anno nell’episcopio, conscio del rischio di essere una presenza difficile per il suo più giovane successore, si è trasferito nel «Maria Mfariji house of prayer shrine» (Maria Consolatrice casa di preghiera e santuario), da lui fatto costruire in cima ai monti di Marsabit, per poter fare quello che sentiva ormai essere il suo servizio principale alla «sua sposa»: pregare.
Maria Mfariji Shrine
Il santuario della Consolata consolatrice (Mfariji è colei che dona consolazione, faraja, ndr), a 1.500 metri, è adagiato sulla montagna alle spalle della cittadina di Marsabit. È la realizzazione di un sogno di mons. Carlo Cavallera che voleva ringraziare la Consolata per le meraviglie operate in quella regione, a partire da quella che lui considerava la miracolosa apertura di quei territori «proibiti al Vangelo».
Diventando vescovo, mons. Ravasi aveva fatto suo quel progetto, ma per venti anni, altre priorità come scuole, acqua, salute, lotta alla fame e povertà, nuove missioni, i catechisti, il seminario e l’impegno per la convivenza pacifica tra i diversi gruppi etnici, avevano assorbito tutte le sue forze.
L’anno giubilare del 2000 ha dato un nuovo stimolo all’antico sogno. Trovato un architetto italiano disposto a sognare con lui, ha coinvolto i santuari in tutta Italia a dargli una mano e, intanto, ha maturato l’idea di costruire non solo un santuario per ringraziare la Madre di Dio, ma soprattutto un centro di preghiera e formazione per tutta la diocesi. Il tutto arricchito dal «safaria ya imani» (il viaggio della fede), quarantatre grandi quadri che presentano la storia della Salvezza e sono una calamita che attira tanti visitatori. Un luogo con una comunità residente che prega e insegna a pregare. Sia con l’esempio della vita che attraverso incontri, ritiri, lectio divina e quanto altro può aiutare a vivere più profondamente la propria fede.
Iniziata la costruzione nel 2002, il santuario è stato inaugurato nel 2006 e poi ampliato con una piccola casa del pellegrino per coloro che desiderano fermarsi per qualche giorno di ritiro.
Come Mosè sul monte
L’amore alla Consolata lo aveva indotto a costruire quel santuario, una meraviglia per l’ancora giovane chiesa del Marsabit.
Lui ci aveva creduto. Per questo nei suoi ultimi anni è rimasto lassù, su quel monte, come Mosè con le mani alzate a intercedere per il suo popolo. Là, accanto alla tomba di un altro grande pioniere del Nord, padre Paolo Tablino, il suo corpo ora dorme un sonno eterno di pace, ma veglia in intercessione per la chiesa del Marsabit, che ha servito con il prodigo amore del Buon Pastore.
«Maisha magumu»
Caro Ambrogio, con benevola facezia più volte esclamavi «maisha ni magumu» (la vita è dura). Vero. Tanti ripetevano scherzosamente il tuo ritornello. Vita dura: sfide, difficoltà, problemi. Ma pure sogni e progetti. Non ti arrendevi. Quante realizzazioni. Ora non farai più lunghi viaggi faticosi. Solo riposo. Non più deserto, ma i prati ubertosi di una «maisha mazuri» (vita bella e buona) che il Buon Pastore ti dona in premio. A te, servo umile e fedele.
Giuseppe Inverardi
a cura di Gigi Anataloni
Dai campi della Brianza alle savane del Kenya
- 1929: nasce a Bellusco il 17/02, da Nazzareno e da Stucchi Maria.
- 1935-1941: frequenta le scuole elementari a Bellusco.
- 1941-1943: a Vimercate, la scuola di Avviamento al lavoro.
- 1943-1945: sospesi gli studi, aiuta i genitori nel lavoro dei campi; sono gli anni più duri del secondo conflitto mondiale.
- 1945-1947: a 16 anni entra, a Montevecchia, tra i missionari della Consolata per iniziare gli studi ginnasiali.
- 1947-1952: prosegue gli studi alla Certosa di Pesio (Cuneo), con l’anno di noviziato e la professione religiosa il 10/11/1951.
- 1952-1953: anno di filosofia a Torino.
- 1953-1957: destinato agli Stati Uniti, si laurea in teologia presso l’Università Cattolica di Washington; il 9/02/1957 è ordinato sacerdote dal delegato apostolico Amleto Cicognani, sempre a Washington.
- 1957-1971: nei 14 anni di permanenza in Usa, riveste diversi incarichi: dal 1957 al 1963 si dedica alla formazione nei seminari di Cromwel, Batavia e Buffalo; dal 1963 al 1968 ricopre la carica di superiore dei Missionari della Consolata negli Stati Uniti; dal 1968 al 1971 è incaricato della animazione missionaria e redige la rivista «Consolata Missions».
- 1971: è destinato alle missioni del Kenya.
- 1981: il 30 luglio, Giovanni Paolo II lo nomina vescovo di Marsabit.
- 1981: il 18 ottobre è consacrato vescovo a Bellusco in Brianza.
- 2006-2020: diventa vescovo emerito e si ritira in preghiera nel Maria Mfariji house of prayer shrine in Marsabit.
- 2020: il 30 ottobre riceve la chiamata finale al Cielo.