Myanmar: Con tre dita al cielo

testo di Piergiorgio Pescali |


I militari non avevano mai abbandonato il potere.  Oggi se lo sono ripreso per intero, sotto lo sguardo accondiscendente della Cina. La leader Aung San Suu Kyi è stata posta agli arresti, ma neppure lei è esente da responsabilità.

Proteste di piazza, vittime, persone incarcerate, coprifuoco. Il colpo di stato avvenuto lo scorso primo febbraio ha fatto precipitare il Myanmar nella paura di un ritorno alla dittatura militare, già sperimentata tra il 1962 e il 2010. Allora le conseguenze furono sanguinose per il popolo e la politica: l’embargo voluto dagli Stati Uniti assieme alla Gran Bretagna, e in seguito da tutte le democrazie occidentali aveva messo in crisi non tanto un’economia già poco sviluppata e concentrata nelle mani di pochi conglomerati controllati in gran parte dai generali, quanto milioni di birmani, in particolare donne, impiegati a centinaia di migliaia nelle industrie tessili e artigianali del paese che furono costrette a chiudere. Per mantenere i loro profitti, ai generali bastò però cambiare partner commerciali, raccogliendosi attorno agli abbracci di Cina e Thailandia. Dal punto di vista politico, ogni opposizione venne cancellata, e i leader più in vista incarcerati o, come nel caso di Aung San Suu Kyi, posti agli arresti domiciliari. Gli ufficiali che oggi guidano il Tatmadaw, l’esercito birmano, non sono gli stessi che per cinque decenni tennero la nazione sottomessa ai loro assurdi voleri: questi hanno viaggiato e studiato all’estero, hanno tessuto rapporti con diplomazie e imprenditori di tutto il mondo, hanno vissuto la rivoluzione sociale che, in quest’ultimo decennio, ha trasformato il paese. Ma, pur essendo più disponibili dei predecessori ai compromessi e al dialogo, non sono immuni da rigurgiti totalitaristici. In Myanmar, così come nella vicina Thailandia, il confine tra dittatura e democrazia è alquanto labile.

Il generale Min Aung Hlaing con il presidente cinese Xi Jinping nella capitale birmana Nay Pyi Taw il 18 gennaio 2020. Foto Ju Peng / Xinhua / AFP.

Il ruolo del Tatmadaw

Per governare un paese etnicamente frammentato in miriadi di lingue, culture, fedi, economie, società, ci vuole un’istituzione forte e trasversale. Dispiace ammetterlo, ma l’unica organizzazione in grado di rappresentare tutte queste tendenze è proprio il Tatmadaw. Del resto, la stessa Aung San Suu Kyi non ha mai negato la necessità di avvalersi dei militari per governare. Sin dal suo primissimo comizio, tenuto nel 1989, la Lady ha sempre detto chiaramente che una Birmania senza il Tatmadaw (peraltro fondato da suo padre) non avrebbe potuto esistere.

Questo è il nodo più nevralgico e problematico della democrazia birmana: una nazione che, per mantenere la propria unità, deve poggiarsi sulle forze armate sarà sempre caratterizzata da estrema fragilità. Per questo ha bisogno di un leader non solo forte e autorevole, ma anche politicamente capace di gestire i delicatissimi equilibri esistenti tra il parlamento e l’esercito. Il primo più o meno rappresentativo delle forze democratiche, il secondo necessariamente forte per intervenire con determinazione ogni qual volta l’unità del paese venga messa in pericolo.

Aung San Suu Kyi, The Lady, oggi ha 75 anni. Foto Claude Truong – Ngoc – Global Media Sharing.

La signora e il generale

Nel Myanmar del 2021 si sono venuti a confrontare due leader capaci di rappresentare queste identità: Aung San Suu Kyi e Min Aung Hlaing. La prima è sostenuta dal voto popolare ed è a capo di un partito, la «Lega nazionale per la democrazia» (Lnd), che detiene la maggioranza assoluta nella camera dei rappresentanti (258 seggi su 440). Il secondo è comandante delle forze armate, un generale a cinque stelle, uomo duro che ha speso otto anni della sua carriera nello stato dello Shan entrando in conflitto con il Myanmar national democratic alliance army, la coalizione di eserciti etnici che controllavano il commercio dell’oppio e quello, ormai più redditizio e sicuro, delle metanfetamine.

Due personalità che, seppur differenti per formazione professionale, provenienza famigliare e idee politiche, sono molto simili tra loro in fatto di ambizioni e suscettibilità. Nessuno dei due sopporta l’altro, ma mentre Min Aung Hlaing non aveva bisogno di Aung San Suu Kyi, questa non poteva governare senza Min Aung Hlaing.

I due piatti della bilancia hanno mantenuto una difficile stabilità sino a quando i due leader si sono limitati a regnare entro i loro limiti. Aung San Suu Kyi ha approfittato della momentanea debolezza dei vertici del Tatmadaw monopolizzando la scena politica e accentrando su di sé tutte le cariche più importanti delle istituzioni parlamentari: consigliere di Stato (premier),
ministro degli Esteri, presidente della Lega nazionale per la democrazia, presidente del Comitato per la pace nel Rakhine e presidente del Comitato per il dialogo con le nazioni etniche. Non potendo, per Costituzione, occupare la carica di presidente ha fatto eleggere il proprio avvocato Win Myint per poi occupare il posto di ministro dell’ufficio del presidente e divenire lei stessa presidente de facto della nazione. Un raggiro costituzionale che in qualunque altro paese democratico sarebbe stato oggetto di proteste e accuse di scandalo e disonestà, ma che nel nuovo corso della politica birmana è stato addirittura portato ad esempio in una famosa intervista fatta a Tin Oo, il patron (93enne) e uno dei fondatori della Lega per la democrazia di cui la Signora è presidente. Le dichiarazioni, imprudenti ma significative, di Tin Oo dimostrano quanto misteriosa e ambigua sia la visione di democrazia posseduta dai politici locali.

Le mosse del generale

Sul lato opposto, l’ascesa di Min Aung Hlaing ha posto di fronte alla premier birmana un formidabile avversario che si è rivelato ancora più scaltro di lei nell’aprirsi nuovi spazi. A differenza della sua rivale, il generale ha iniziato a tessere un dialogo con le «nazioni etniche», in particolare con i kachin cristiani e con i rakhine buddhisti, meritandosi l’approvazione dell’inviato giapponese del programma per la riconciliazione nazionale Yohei Sasakawa. Nel maggio 2020 Min Aung Hlaing ha riorganizzato i vertici militari rafforzando la presenza di una nuova leva di giovani ufficiali a lui fedeli. Al tempo stesso, ha iniziato a preparare una poltrona di presidenza dell’Union solidarity democratic party (Usdp) per blindare la posizione della sua famiglia in campo imprenditoriale in previsione del suo imminente (a giugno 2021) ritiro in pensione. La protezione dei beni acquisiti durante la carriera è una costante sempre presente nella politica birmana, in particolare tra i militari. Questi hanno sempre approfittato del loro potere per accumulare ricchezze e piazzare nei posti chiave loro famigliari dedicando gli ultimi anni della loro vita professionale a instaurare legami con i loro potenziali successori affinché non cadessero in disgrazia.

Grazie al decennio passato nello stato Shan, Min Aung Hlaing ha potuto costruire un impero economico immenso, ma l’arrivo nel 2016 di Aung San Suu Kyi al potere ha rischiato di mettere in pericolo la sua ricchezza. Ha posposto quindi il suo pensionamento di cinque anni (dal 2016 al 2021) iniziando a muovere le sue pedine. E quando, il prossimo giugno, si ritirerà dalla carica di comandante delle forze armate, cercherà di traslare la sua influenza in campo politico candidandosi a presidente dell’Usdp.

Il putsch militare del 1° febbraio è quindi da vedersi anche in una visione personalistica della politica birmana.

Un taxi particolare a Mingun, frequentato sito storico vicino alla città di Mandalay. Foto Martine Auvray – Pixabay.

Vittorie ed errori

Aung San Suu Kyi, The Lady, è forse una delle poche personalità oneste del paese e a lei dobbiamo molto: la sua perseveranza nel continuare a denunciare le nefandezze dei militari durante gli anni della dittatura è stata d’esempio per chiunque lottasse per i diritti umani. La Lady ha dimostrato che, con la tenacia, è possibile raggiungere obiettivi che appaiono impossibili. Tuttavia, come spesso accade ai personaggi pubblici, quando Aung San Suu Kyi si è trovata a dover mettere in pratica i proclami e le promesse lanciate mentre era all’opposizione, la sua inadeguatezza e inesperienza sono uscite allo scoperto, smantellando la sua figura idealizzata.

Al netto delle interferenze e dei giochi di potere che si sono realizzati nel parlamento con i militari, Aung San Suu Kyi ha pesantissime responsabilità nella disastrosa gestione dei rapporti con le nazioni etniche e con la classe lavoratrice del paese.

Per favorire gli interessi minerari cinesi, ad esempio, ha costretto migliaia di contadini ad abbandonare i loro villaggi e le loro terre a Letpadaung affermando che il bene della nazione è superiore a quello individuale. Lo stesso è avvenuto con i Mon e i Kachin.

Sul piano dei rapporti con le varie etnie, la consigliera di stato è stata pesantemente criticata dalle stesse associazioni, organizzazioni e governi che le avevano garantito incondizionato appoggio negli anni della sua prigionia. Più volte ha glissato l’argomento Rohingya, Kachin, Mon rifiutando ostinatamente di condannare le violenze perpetrate ai loro danni. Su questo tema si è consumato l’ultimo atto dello scontro con i militari.

Già nello stato Kachin, il Tatmadaw aveva iniziato, con la mediazione giapponese, una serie di colloqui con la Chiesa battista (i Kachin hanno una forte rappresentanza di cristiani protestanti) e con il Kachin independence organisation nonostante Aung San Suu Kyi avesse cercato di ostacolare il dialogo.

Due monaci buddhisti si riposano sulla panca di una stazione birmana. Foto Aline Dassel – Pixabay.

Buddhisti e Musulmani

Nello stato Rakhine, il doppio confronto che vedeva governo e militari uniti contro i Rohingya musulmani a Sud e contro i buddhisti dell’Arakan army a Nord, si è sviluppato in modo completamente divergente. Mentre i Rohingya continuano a essere oggetto di brutalità e persecuzioni da parte della maggioranza buddhista rakhine con la complicità sia del governo che della chiesa buddhista e delle forze armate, nelle zone settentrionali, dove i musulmani sono praticamente assenti, è la guerriglia indipendentista dell’Arakan army a impegnare le forze governative.

Lo stato Rakhine (Arakan è il nome storico della regione, mentre Rakhine è il nome dato dai militari nel 1989 in conformità con l’etnia maggioritaria) è l’unico che, nelle elezioni del 2015, ha visto prevalere con una maggioranza assoluta l’Arakan national party (Anp). Secondo la Costituzione, avrebbe, quindi, dovuto essere questo partito a formare il governo regionale, ma Aung San Suu Kyi, con un colpo di mano anticostituzionale, ha imposto un gabinetto a guida Lnd. Questo ha inasprito la già delicata situazione sociale portando a una recrudescenza delle attività della guerriglia.

Il 14 ottobre 2020, tre settimane prima delle elezioni generali che hanno visto la vittoria dell’Lnd sul piano nazionale, tre membri del partito sono stati rapiti dall’Arakan army. Due giorni dopo la Commissione elettorale ha deciso di annullare le elezioni nel Rakhine. Questa mossa ha generato proteste e nuove manifestazioni che sono rientrate solo dopo che il Tatmadaw, ancora con la mediazione giapponese, ha raggiunto un accordo con l’Anp e l’Arakan army. Secondo i punti dell’accordo, non ratificato dal governo di Aung San Suu Kyi, gli elettori dello stato avrebbero potuto recarsi alle urne entro la fine di gennaio 2021.

Sr Ann Nu Thawng inginocchiata davanti alla polizia.

La protesta delle tre dita

A seguito del colpo di stato militare, manifestazioni popolari si sono susseguite in tutta la nazione. Anche suore e preti si sono mobilitati scendendo in piazza con manifesti e mostrando le tre dita, un gesto divenuto simbolo di protesta in Thailandia nel novembre 2014 sull’onda dell’emotività suscitata dalla serie cinematografica Hunger Games e adottate, come altre mode provenienti dalla vicina nazione, anche in Myanmar.

Le contestazioni si sono ripetute in tutto il paese, ma se nelle regioni che comprendono la Birmania storica, abitata dall’etnia maggioritaria bamar (la stessa di Aung San Suu Kyi), sono state partecipate e sparse su tutto il territorio, negli stati etnici i cortei sono stati sporadici e limitati nelle grosse città dove si concentrano i Bamar.

Sui media occidentali sono apparse anche foto di rifugiati rohingya con le tre dita alzate accompagnate con didascalie che pretendevano che anche questi musulmani, del cui dramma erano responsabili sia i militari che Aung San Suu Kyi, si fossero schierati accanto alla leader birmana incarcerata. Nulla di più infondato. Quasi nessuno dei siti amministrati da attivisti rohingya ha espresso solidarietà con Aung San Suu Kyi, ma tutti hanno mostrato la loro «solidarietà con il popolo del Myanmar» o con «coloro che lottano per la democrazia». «La dittatura deve finire, ma Aung San Suu Kyi non è la risposta», è il commento che si legge più frequentemente. Non sono inoltre mancate le foto in cui si vede il monaco Sitagu Sayadaw, il più rispettato monaco della sangha buddhista dello stato Rakhine e strenuo sostenitore della lotta contro i musulmani, ricevere doni dal generale Tun Tun Naung assieme ad altri due comandanti regionali dello stato Rakhine all’indomani del colpo di stato.

L’età del futuro

Quale sarà allora il futuro del Myanmar? Se si vuole riprendere la strada della democrazia, alternative ad Aung San Suu Kyi non sembra ve ne siano, con buona pace per le minoranze etniche.

La Lady è l’unica personalità in grado di convogliare le idee assai confuse e frastagliate della Lega nazionale per la democrazia. Allo stesso tempo, però, Aung San Suu Kyi non è quello che si può definire un genio politico: ha inanellato un errore dopo l’altro nella sua gestione governativa (e anche prima, tra cui rifiutare il dialogo con Khin Nyunt quando era agli arresti domiciliari dando così via libera all’ascesa del generale Than Shwe).

Del resto, un governo di soli civili sarebbe impossibile, non solo perché non sarebbe in grado di contrastare la disintegrazione del Myanmar, ma anche perché i militari sono appoggiati da tutti i governi del Sud Est asiatico. I militari birmani, infatti, reprimono quelle istanze centrifughe etniche che minano non solo l’unità del loro paese, ma anche quella della Thailandia (che non concede cittadinanza alle proprie etnie), della Cina (che già deve fronteggiare le richieste di autonomia dei tibetani e degli uiguri) e dell’India (che non ha ancora risolto il problema dell’Assam). Se il governo birmano concedesse ampia autonomia o addirittura indipendenza ad alcune delle proprie nazionalità etniche, si rischierebbe di attivare quell’«effetto domino» profetizzato da Eisenhower e sul quale si scrisse la dottrina di McNamara in Vietnam (se un paese diventa comunista, anche gli altri potrebbero seguirlo).

Quindi, se non c’è alternativa democratica ad Aung San Suu Kyi, l’unica speranza è che, dopo il colpo di stato, la Lady si trovi in condizione tale da cercare appoggio internazionale e rivedere così la sua politica nei confronti delle etnie (non solo Rohingya) e la sua politica di svendita economica del paese. Certo è che l’ex consigliera di stato ha già 75 anni e non è in ottima salute. Occorre quindi trovare quanto prima un suo successore. Al momento però all’orizzonte non si vede nessuno in grado di sostituirla.

Piergiorgio Pescali

Archivio MC:

Piergiorgio Pescali, I Rohingya, dossier Myanmar, aprile 2017.
Piergiorgio Pescali, La nuova via birmana, dossier Myanmar, aprile 2014.

Una donna vende cibo e bevande ai passeggeri di un treno birmano. Foto Richard Mcall – Pixabay.




La regina dei container

testo e foto di Martina Ferlisi, Sarika Strobbe, Amarilli Varesio |


Elettrodomestici, apparecchi elettronici e beni di ogni tipo, buttati via in Europa, sono riutilizzati in Africa. In Italia, alcuni immigrati di lungo corso si sono specializzati nelle spedizioni. Il passo verso il commercio di rifiuti tecnologici però è breve.

«Liberate i nostri container! Stiamo morendo dentro! Basta discriminazioni», sfilano gli striscioni. È un 19 agosto dal cielo coperto, il traffico è paralizzato e la via Gramsci di Genova è invasa da un fiume di magliette rosse, grida, musica e bandiere del Ghana.
Sono più di settecento i ghanesi che, da tutto il Nord Italia, hanno raggiunto la città per manifestare. Circa quattrocento dei container da loro spediti sono fermi, senza nessuna spiegazione, da più di un anno presso la dogana di Genova. «Non capiamo perché, non sappiamo perché, noi siamo oggi qui a chiedere il perché. Non possono bloccare i nostri container, la gente sta male, sono un sacco di soldi quelli che abbiamo speso». Queste le parole di Nanà Pomaah, pronunciate con rabbia al microfono di un giornalista. A guidare il corteo c’è lei. Un passo avanti a tutti, avvolta in un vestito rosso, cammina con fierezza.

Nanà Pomaah nel villaggio ghanese di Dormaa Ahenkro, luogo di origine della madre, ha ricevuto il titolo onorifico e tradizionale di regina. Un riconoscimento che le fa sentire la responsabilità di rappresentare il suo popolo, di sostenerlo nelle sue battaglie anche in Italia, con tutta la sua grinta e determinazione.

Il blocco dei container rappresenta un grande problema per la comunità ghanese, dentro di essi, infatti, ci sono generi alimentari, vestiti, macchine, beni di ogni tipo che gli immigrati raccolgono e spediscono ai loro familiari e soci. La stessa Nanà spiega di avere una fondazione a Dormaa Ahenkro, grazie alla quale aiuta bambini di strada e vedove. Per questo è per lei importante che il suo container arrivi a destinazione. Dopo dieci giorni di fermo del container al porto, inoltre, viene richiesto il pagamento di 130 euro al giorno a chi spedisce.

A seguito della manifestazione, i funzionari della direzione interregionale di Liguria, Piemonte e Valle d’Aosta dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, si sono resi disponibili a incontrare i ghanesi che si occupano delle spedizioni, per spiegare loro le motivazioni del blocco, e soprattutto quali regole dovranno rispettare in futuro affinché non se ne ripetano altri.

A corte, dalla regina

Nanà, alcuni giorni dopo la manifestazione di Genova, ci accoglie nel salotto di casa sua a Como dove vive da ormai 22 anni. Ha indossato per noi gli abiti e i gioielli tradizionali, quelli delle cerimonie ufficiali nelle quali riveste il suo ruolo di regina. Un turbante dorato le copre il capo, e un grande tessuto bianco decorato con melograni d’oro le cade morbido sulla spalla sinistra. A ciascun polso indossa tre bracciali d’oro, e per ogni mano tre grandi anelli, anch’essi d’oro. Sono abiti che un tempo erano esclusivi dei reali ma che ora vengono utilizzati anche nei matrimoni della gente comune. In passato questi gioielli erano d’oro vero, oggi non più. Questo significa essere regina in Ghana oggi: vestiti importanti da indossare, ma che non portano nessuna ricchezza materiale, solo responsabilità.

Nanà ci racconta che dopo essere stata nominata regina nel 2016 non le è stato dato nulla se non qualche appezzamento di terra e il rispetto, quello sì, di grandi e piccoli. «Quando sei regina devi lavorare per il tuo popolo, devi creare qualcosa per il tuo popolo», ci dice. Il suo sogno è infatti quello di costruire, per mezzo della sua fondazione, una scuola tecnica e una clinica per donne incinte, per creare competenze, posti di lavoro e sicurezza sociale.

Nanà non è sempre stata una regina e la sua vita in Italia non è stata sempre facile. Arrivata a Palermo molto giovane, è stata costretta a cambiare più volte città e lavoro. Ha iniziato come parrucchiera, e dopo aver ottenuto il diploma Asa (ausiliario socio assistenziale, ndr), si è dedicata alla cura degli anziani. Nanà sostiene che siano i loro racconti, i loro ricordi, che lei definisce la sua vera «università di vita», ad averle fatto maturare l’esperienza giusta, per farle affrontare con forza e consapevolezza anche i momenti più difficili. Sa bene infatti che solo il confronto e il dialogo potranno aiutare il cambiamento.

Grazie all’incontro tra gli spedizionieri ghanesi e i funzionari delle dogane, la situazione è stata chiarita: il blocco era stato causato da irregolarità nel carico dei container. I controlli avevano fatto emergere la presenza di merci come bombole, batterie usate, motori di frigoriferi, che, secondo le leggi e le convenzioni internazionali come quella di Basilea, non possono essere spediti, perché considerati rifiuti pericolosi e altamente inquinanti.

Nanà ci racconta che in Ghana si trovano principalmente prodotti provenienti dalla Cina di scarsa qualità. Per questo i beni che arrivano dall’Europa sono tanto ambiti e apprezzati. Anche se usati e talvolta rotti, possono comunque essere riparati e durare di più di quelli nuovi cinesi.

Uniti si può

Per gestire le spedizioni nella maniera più corretta, la comunità ghanese ha dato alla luce un’associazione, l’African shipment association. Guidata da Nanà, in quanto portavoce, e presieduta da Yusuf Amoudou, spedizioniere con esperienza quasi trentennale, è stata un’iniziativa molto apprezzata dai doganieri genovesi. Chi vuole farne parte deve infatti conoscere e rispettare le regole. «Adesso anche io insegno alla mia gente», ci dice Yusuf che nel frattempo ci ha raggiunti a casa di Nanà. «Le spedizioni sono diminuite perché prima ognuno mandava qualsiasi cosa, anche i rifiuti. Adesso non più».

Lo spedizioniere

Yusuf sfoggia la sua dentatura bianchissima mentre ci rivolge un sorriso. Ha indossato una cravatta con dei piccoli cavalli in corsa e lucidato le scarpe per la nostra chiacchierata. Yusuf viene dal Ghana, ed è in Italia dal 1989. Lavora come manutentore a Caverago, nella provincia di Bergamo. Negli anni ‘90 ha spedito il suo primo container e, piano piano, si è costituito una solida rete di connazionali che lo pagano per mandare beni, nuovi o usati, in Ghana. Frigoriferi, televisori, pompe, macchine da cucire, ma anche dentifricio, medicinali chiusi dentro grossi bidoni di plastica. Tutti beni che l’uomo raccoglie porta a porta, con il furgone, durante il weekend, e poi ammassa dentro un grande magazzino.

La logica sottostante a questa attività, nelle comunità africane in Italia, è quella di mandare ai propri familiari delle rimesse sotto forma di beni e non di soldi, perché questi ultimi vengono facilmente tassati dallo stato. «Nel container ci sono i miei oggetti più quelli di altre 20 o 30 persone», dice Yusuf definendo quello che in dogana viene chiamata una spedizione «groupage» (mettere in gruppo, ndr). Per Yusuf, questo è diventato il suo secondo lavoro. Una volta al mese, per 3.500 euro, affitta e spedisce un container da 40 piedi.

Riciclo e circolazione

Come Yusuf, molti altri immigrati presenti nelle nostre città, barcamenandosi tra lavori precari, portano avanti questo genere di attività informali di riciclo e riutilizzo, non senza contraddizioni. Spesso, i beni di seconda mano vengono recuperati da chi sgombera le cantine e, invece di portare gli oggetti all’isola ecologica, li rivende agli spedizionieri. Altra fonte sono donazioni di privati, mercati dell’usato, marketplace di Facebook, marciapiedi o rubati all’aziende di smaltimento rifiuti. Nelle comunità di origine intere famiglie ricavano gran parte del loro reddito dalla rivendita dell’usato europeo in piccoli negozi, o dal suo riutilizzo in diverse attività. Le auto, ad esempio, diventano taxi, i forni permettono di aprire delle panetterie, e i frigoriferi di vendere il ghiaccio lungo le strade accaldate delle capitali africane. Con un investimento modesto, si attivano piccole economie locali.

Non prima di aver ricevuto un bacio da parte di Nanà, usciamo di casa per andare con Yusuf nel luogo in cui i suoi collaboratori stanno caricando un container.

Dentro al container

Ci inoltriamo lungo una stradina immersa nel bosco punteggiata da sedie di plastica malridotte usate da prostitute con lo sguardo cupo. Sotto nubi dense, finiamo nel cortile di un grande capannone dove troneggiano cinque container aperti e montagne di oggetti ben incellofanati e accatastati, con i nomi dei proprietari accuratamente scritti sopra. Questa è la condizione necessaria per evitare che, in caso di apertura del container, i doganieri pensino che il carico sia destinato al traffico di rifiuti. Con grande maestria, da ore, quattro uomini stanno incastrando i pacchi nel container in modo da non lasciare neanche una fessura libera. Alcuni, vedendoci arrivare, mostrano un po’ di diffidenza, non sembrano contenti della nostra visita. Ci fermiamo pochi minuti, giusto il tempo per vedere alcuni pneumatici usati ammucchiati. Probabilmente non è ancora ben chiaro a tutti quali sono gli oggetti la cui esportazione è vietata dalla Convenzione di Basilea del 1992.

Per via di questa convenzione risulta molto difficile esportare, per esempio, gli oggetti elettronici. «Le apparecchiature elettroniche di seconda mano, possono essere esportate a condizione che abbiano la certificazione di funzionalità», ci spiegherà Florindo Iervolino, responsabile della dogana di Genova. In poche parole, è necessario che un tecnico compia dei test sull’elettrodomestico e certifichi il suo funzionamento o la possibilità di ripararlo. Ma questa operazione costa circa 60 euro.

Lo stratagemma usato dagli spedizionieri africani è quello di non dichiarare il materiale che necessiterebbe di certificazione. Inoltre, i beni vengono spediti con la dicitura «effetti personali o masserizie», che però dovrebbe essere al seguito di una persona che trasloca. Questo genere di spedizioni viene sottoposta a forme di controllo minori in dogana, e non permette di esportare e commerciare, ma solo di traslocare i propri beni. (questo è uno dei dettagli che indica che è   una pratica illecita).

L’ambiguità si gioca sul fatto che i beni presenti nei container sono di varia natura: oltre a quelli destinati esplicitamente alla rivendita in negozi dell’usato europeo che possono essere definiti merci, ci sono beni inviati come aiuto alle proprie famiglie, oppure spediti su richiesta: cioè oggetti già proprietà del destinatario al momento della spedizione e che quindi non rientrano in un vero e proprio commercio.

Piccoli commerci

Il recupero dei beni, lo stoccaggio, l’organizzazione del container richiedono fatica, pazienza e una capacità logistica non indifferenti. La motivazione che anima questo lavoro è la consapevolezza di poter dare ad altri e a se stessi delle nuove opportunità economiche.

Abu ha 26 anni ed è arrivato in Italia 5 anni fa. Per diverso tempo ha lavorato come rider, senza coperture assicurative. Nei week end vendeva e comprava vestiti ai mercatini dell’usato, e con il tempo è riuscito, assieme ad altri, ad affittare un container e a spedire beni di vario genere alla sorella in Gambia, permettendole così di aprire un negozio dell’usato. Tra i beni più richiesti dai clienti vi sono i frigoriferi. Abu allora ha iniziato a recuperarli da un italiano che effettua sgomberi, e che rivende a basso prezzo ciò che trova. Abu rivende i frigoriferi al triplo del prezzo, riuscendo così ad avere un margine di guadagno che lo aiuta a vivere. Il piccolo commercio del giovane ha un effetto positivo sull’economia della sua famiglia: la sorella rivende i beni, mentre la madre prepara e vende ghiaccioli alla frutta, che conserva in un grande frigorifero speditole dal figlio. Sebbene scelga quelli più nuovi e funzionanti, Abu non effettua nessun test di funzionamento, e come questi vengano spediti, nemmeno lui lo sa bene, è un suo socio a occuparsi della documentazione.

Forse, il motivo di quella certificazione, costosa e insostenibile per chi vorrebbe solo spedire oggetti con buone intenzioni, è chiara a chi lavora nelle grandi discariche a cielo aperto, come quella di Agbobloshie, nei sobborghi di Accra, capitale del Ghana. Lì, ogni giorno, uomini, donne e bambini bruciano apparecchiature di ogni genere per estrarre a mani nude rame, ferro, metalli di valore e guadagnarsi così la giornata.

Tutti in discarica

Mike Anane, giornalista ambientale, vive ad Accra e, da vent’anni, si occupa di documentare la tremenda situazione in cui versano i territori delle discariche e loro suoi abitanti. In questi luoghi vi è un’altissima incidenza di malattie respiratorie, della pelle e tumori. L’esposizione a fumi nocivi e tossici porta le persone a non respirare più, a non riuscire a dormire la notte. «In questi vent’anni, le persone sono diventate più consapevoli – dice Mike -, ma l’arrivo di rifiuti elettronici non si è mai fermato, nonostante le diverse convenzioni e regole che ne impedirebbero la spedizione. Ricevere un frigorifero che potrebbe smettere di funzionare in breve tempo è problematico laddove non vi sono infrastrutture adatte a un consono trattamento e smaltimento». Mike è categorico: «Per impedire che questo inferno continui a bruciare, i paesi dell’Occidente devono rispettare gli accordi, effettuare i controlli e smaltire i beni che non funzionano all’origine».

Le persone da noi incontrate non hanno intenzione di spedire beni non funzionanti, ma solo far arrivare alle proprie famiglie oggetti di qualità, ai quali non avrebbero accesso altrimenti. D’altra parte, il traffico illecito di rifiuti, spesso gestito dalle ecomafie, è un fenomeno che provoca grossi problemi ambientali e sociali in Africa e che va combattuto con fermezza. Come coniugare la volontà di offrire un’opportunità migliore ai propri familiari, con la sostenibilità? Un sistema che agevoli la certificazione del funzionamento dei beni usati, prima della loro partenza – evitando dunque che si trasportino rifiuti – che sia semplice ed economicamente accessibile agli immigrati, potrebbe essere un primo passo per rendere le esportazioni più trasparenti. Inoltre, vi è la necessità di un sistema in Italia che si preoccupi di agevolare pratiche di valorizzazione di beni già esistenti e prepararli al loro riutilizzo e commercializzazione.

Martina Ferlisi, Sarika Strobbe, Amarilli Varesio


Le autrici

Martina Ferlisi, ama scrivere, studia economia.
Sarika Strobbe, artista, studia antropologia.
Amarilli Varesio, cantautrice, studia antropologia.
• Le foto del servizio sono delle tre autrici e di Marta Lombardelli, videomaker.
• Sono state finaliste della nona edizione del Premio Morrione 2020, per la categoria video inchiesta con «Un’altra rotta». Qui il trailer: www.premiorobertomorrione.it/inchieste/unaltra-rotta/




Quei bravi «ragazzi»

testo e foto di Valentina Tamborra e Angelo Anzalone |


Sono donne e uomini tra i 18 e i 28 anni. Percorrono le strade di notte, portano aiuto e sollievo a senza tetto e persone in difficoltà. A chi vive in isolamento, ma già era ai margini prima della pandemia. Siamo stati con loro dal Sud al Nord Italia.

In collaborazione con Croce Rossa italiana (Cri) abbiamo dato vita al progetto «Quei bravi ragazzi, l’Italia che aiuta». Volevamo raccontare l’esperienza e la dedizione dei giovani volontari di Croce Rossa italiana nella loro quotidianità a supporto dei cittadini, in particolare dei più fragili, durante l’emergenza Covid-19.

Abbiamo voluto verificare se è vero che «i ragazzi» sono indifferenti alle sorti del mondo. Abbiamo incontrato uomini e donne fra i 18 e i 28 anni impegnati in attività, come la consegna della spesa, il supporto ai senzatetto e l’assistenza sanitaria in ambulanza in alcune delle aree più colpite della Lombardia, come Legnano, Parabiago, la stessa Milano, e Acireale e Catania in Sicilia.

C’è un elemento che ci ha colpiti in maniera ancora più profonda: l’aggravarsi dell’isolamento di quanti già nella vita quotidiana pre covid vivevano isolati.

Abbiamo lavorato sul campo a Catania e a Milano seguendo i volontari nell’assistenza ai senzatetto, e abbiamo scoperto un mondo parallelo, ignorato, che con l’emergenza pandemia è rimasto ancor di più lontano dai riflettori e in qualche modo abbandonato a se stesso.

Solidarietà milanese

Milano, alle spalle del Duomo, sotto i portici di Galleria Vittorio Emanuele, ma anche tra le vie che costeggiano corso Europa, si consuma una vita parallela: è in questi luoghi che trovano riparo fra portici e androni centinaia di senzatetto. Sono le 20 circa quando da una delle sedi di Croce Rossa italiana, partiamo insieme ai volontari per seguire il loro abituale giro che ci porterà a distribuire cibo e conforto a moltissime persone.

Di notte, quando tutto tace e la città si svuota, sorgono piccoli ricoveri come tende, cartoni e vecchie coperte. Fungono da casa per chi una casa non ce l’ha. È uno scenario che certo abbiamo visto centinaia di volte abituandoci, in qualche modo, a una coesistenza che non dovrebbe esserci. Ma molte delle strutture che normalmente distribuiscono cibo ai più bisognosi sono state costrette a chiudere i battenti a causa della pandemia. E così, in una città ormai svuotata, i soli a incrociare mani e sguardi, a curare i bisogni di chi è rimasto per strada in attesa che l’incubo finisca, sono i «ragazzi» di Croce Rossa italiana e di pochi altri enti.

Prima di recarci per strada passiamo da un ristorante solidale che, nonostante le difficoltà dovute alla pandemia, ha deciso di aiutare come può chi si trova in difficoltà. Si chiama «Rob de Matt»: un luogo di incontro e scambio situato fra Dergano e Bovisa, zone periferiche della città di Milano.

Un locale che sorge al centro di un delizioso giardino che è anche orto e luogo di ritrovo per famiglie, bimbi, universitari e anziani. Il titolare, Edoardo (Chef e presidente di questa realtà), insieme alla sua squadra, ha preparato durante tutto il periodo della prima ondata di pandemia, circa 150 pasti caldi al giorno.

Pasti consegnati ai volontari di Croce Rossa perché venissero distribuiti nell’abituale giro notturno.

Un rapporto d’amicizia

Recuperato il cibo, è il momento di riunire tutti i volontari e i dipendenti che copriranno il turno della notte.

«Allora, vi ricordate dove sta Francesco? Proprio dietro al Duomo, vicino alla fermata della metro», e inoltre: «E Marina? Marina sta ancora con Alessio? O si sono separati? Dobbiamo trovarli entrambi, sapete che è una situazione delicata».

I nomi, le identità. Il ritorno all’umanità. Qui per strada, mentre nel mondo si parla di etichette, non ci si è mai dimenticati che dietro numeri e statistiche ci sono persone. Il giro fatto dai volontari è sempre il medesimo. Ogni sede di Croce Rossa ha il proprio itinerario così da non lasciare scoperta nessuna zona della città. E ogni volontario è assegnato al medesimo giro perché è importante creare fiducia con le persone che si incontrano. Il cibo, infatti, è solo un pretesto per avvicinarsi, o almeno lo era prima della pandemia, quando c’erano altri enti a distribuire i pasti. I giovani volontari stringono rapporti forti, di reale conoscenza con queste persone che vivono ai margini della società. Prima della pandemia, infatti, non era insolito per i ragazzi fermarsi anche un’ora con una persona. Me lo racconta Tobia Invernizzi, 26 anni, volontario da tre.Gli manca, dice, passare del tempo insieme a quelli che sono diventati in qualche modo vecchi amici. Di cosa si parla di notte, per strada? Quali sono le paure di chi vive in una città che va di corsa, come Milano, e che scavalca spesso con indifferenza coperte e cartoni che per qualcuno sono casa?

Si parla di cose quotidiane. Di amore, di un giornale letto, una notizia di attualità, del pasto consumato il giorno prima, o della diatriba nata per un posto occupato per dormire, posto che era di un altro senzatetto. Si parla di cose umane, e ora, con il Covid, anche questo momento di scambio è a rischio.

Bisogna consegnare il pasto, scambiare due parole e andarsene: niente contatto fisico, nessun abbraccio. Non ci si può sedere vicini, volontario e senzatetto, essere umano ed essere umano, per scambiare due parole, una risata, fumare insieme una sigaretta.

Un cane di nome Stella

«Ma ti ricordi quando ho preso Stella? Era piccola così. Aveva un anno e ora ne ha dodici!»

Stella è una cagnolina nera, somiglia a un bracco. Se ne sta quieta, seduta accanto alle gambe del padrone.

Vivono insieme, in strada, da almeno undici anni.

È uno dei primi scambi di battute cui abbiamo assistito durante la notte per il servizio ai senza dimora.

Un pasto caldo (merluzzo in umido), e un sorriso che raggiunge gli occhi, tanto da cancellare per un attimo quella barriera imposta per nostra e altrui sicurezza: la mascherina. Ci si conosce tutti, in strada. Tra persone che dormono accampate fra tende e giornali, coperte e cartoni, e fra volontari che ogni notte vanno a trovarli per portare cibo, si, ma soprattutto conforto, ascolto, aiuto.

Undici anni di un rapporto che si consuma nella «Milano bene» che, a quest’ora della notte, è ormai svuotata.

Presto arriverà il mattino, farà luce, e allora bisognerà raccogliere le proprie cose e spostarsi in attesa di consumare il giorno e arrivare, nuovamente, all’ora nascosta dal buio.

Paolo prende il suo sacchetto con il cibo, restiamo a parlare ancora un po’, cinque minuti, non di più, perché il Covid ha ridotto questo tempo dello scambio. È una questione di sicurezza, certo, e bisogna rispettarla. Anche qui in strada si distribuiscono mascherine e gel disinfettante. Vengono richiesti, al pari di una coperta, di un panino, di un tè caldo.

Perché l’ansia, la paura, serpeggia anche qui, fra chi al grido «restate a casa» ha potuto rispondere solo rimanendo esattamente dov’era: per strada. Più abbandonato di prima. Più solo di prima.

Fra piazza del Duomo e la periferia, chi vive la strada è rimasto li. Invisibile più che mai.

Il tempo di un abbraccio

Finito il turno, si torna in sede. Che si sia fatto il servizio notturno ai senzatetto o il servizio ambulanza, svolto alla sede di Parabiago (hinterland milanese), ciò che si percepisce ora è stanchezza, sicuramente, ma anche una grande tenerezza e la consapevolezza di aver fatto tutto ciò che si poteva. Ma se lavorando per strada bisogna evitare il contatto a tutti i costi per tutelarsi dal virus, c’è un momento, alla fine del turno in ambulanza, nel quale le barriere, per qualche secondo, possono venire meno.

Con indosso ancora la tuta bianca, i guanti e la mascherina, i ragazzi si lasciano andare a un abbraccio sicuro: il contatto umano, un corpo che si avvicina a un altro, il conforto. Nahomi cerca il suo collega, restano cosi per qualche secondo.

Questa ragazza che studia giurisprudenza e sogna di fare del proprio lavoro una missione, anche nel tempo libero si dona agli altri. Oggi il servizio ambulanza è stato particolarmente duro: un codice rosso, non Covid, ma comunque finito nel peggiore dei modi. Eppure, lei e gli altri ragazzi non desistono: ne vale la pena, sempre. Anche nei momenti più duri, anzi soprattutto in quei momenti.

Guardando questi ragazzi, quel gesto semplice eppure oggi negato, ci si rende ancora più conto di quanto il Covid sia prima di tutto «una malattia dell’amore». Separa, per sicurezza, isola, per necessità. Ma l’essere umano è tale proprio perché animale sociale, proprio perché «l’altro» sia conforto e non timore, non pericolo.

La riflessione più urgente da fare, insieme a quelle su tutte le problematiche connesse a economia e salute, è quella legata al contatto fra persone. Abbiamo necessità di tornare a non temerci, abbiamo necessità di tornare alla vicinanza e alla condivisione. In attesa di poterlo fare, è già molto sapere che, in alcuni luoghi in Italia, sono state istituite «stanze degli abbracci» in alcune Rsa (Residenza socioassistenziale), come a Bollate, nel milanese.

A questo proposito restano impresse le parole di un amico medico: «la medicina deve adattarsi all’essere umano». Non dimentichiamoci, alla fine, che sotto guanti, mascherine, indumenti protettivi, siamo e restiamo, prima di tutto, soprattutto, persone.

La realtà siciliana

Daniela Carbone, consigliere eletta per il comune di Acireale (Catania), è la prima ad accompagnarci.

È lei la responsabile del servizio «pronto spesa e pronto farmaco», iniziativa nata allo scopo di approvvigionare le famiglie svantaggiate e gli anziani in difficoltà.

Il nostro viaggio si snoda tra i magazzini alimentari, scelti tra strutture pubbliche ed edifici sequestrati alla mafia e consegnati a Cri, nei comuni di Aci Catena, Aci Sant’Antonio e Aci Bonaccorsi: è da questi luoghi, sorti a nuova vita, che partono le operazioni di smistamento e consegna cibo alle categorie più fragili.

È proprio Daniela a rivelarci alcuni effetti collaterali e forse meno facili da prevedere di questa emergenza: «Nonostante i numeri dei contagiati, inferiori rispetto alle altre regioni d’Italia, in special modo alla Lombardia, il numero dei richiedenti aiuti alimentari è progressivamente aumentato con l’avanzare delle restrizioni. Il dato non è imputabile al virus in sé ma alle conseguenze dovute alle necessarie limitazioni. In Sicilia il lavoro nero è uno dei principali problemi che da sempre l’attanagliano. Il virus non ha fatto altro che esacerbare un malessere che già preesisteva. Impedendo alle persone di potersi recare al proprio posto di lavoro si è impedito loro di potersi sostenere. Tutte quelle fasce sociali che riuscivano alla meno peggio a “portare a casa la giornata” adesso sono regrediti ad uno stato di semi povertà».

L’elenco degli aiuti è fitto e, tra una casa e l’altra, un vicolo e l’altro, persone di diverso livello sociale e genere attendono il loro cofanetto di alimenti e beni di prima necessità con rigoroso e immobile pudore.

A fine turno una coppia di anziani ultraottantenni attende l’arrivo dei volontari. Uno di questi ultimi ci racconta che i due erano persone molto conosciute in paese perché per anni avevano gestito una piccola bottega di generi alimentari. Al suono del ricordo, però, la coppia scoppia in un pianto amaro rivelando che mai si sarebbero aspettati di finire senza certezze e senza protezione, abbandonati e impauriti, in attesa di finire l’ultimo tempo della loro vita.

Contro emergenza

È una calda domenica di maggio e, dalla sede di Catania, Alberto Leotta ci attende a inizio turno, insieme al suo team, per raccontarci la sua giornata. Non sono previsti interventi oggi, ma una esercitazione, una delle tante da fare necessariamente per mantenere alta la preparazione per una risposta al pronto intervento.

Alberto ci tiene a precisare che, la sede in cui Cri opera, è una importante e lussuosa villa sequestrata nel 1998 a una famiglia mafiosa locale.

Ci mostra tutta la lunga procedura di vestizione che anticipa ogni uscita in ambulanza. «A causa dei tempi lunghi di preparazione e vestizione, il tempo di risposta tra un intervento e un altro si è dilatato».

Il ricordo dei soccorsi è vivo negli occhi di Alberto che fa fatica, ci svela, dimenticherà questo particolare momento storico.

«Quando si ritorna a casa le sera e si sente un po’ di freddo alle ossa, o un po’ di mal di gola, il pensiero inevitabilmente rimanda alla possibilità di aver contratto il virus, di essere diventato un potenziale problema per le persone più care».

Catania, senza dimora

Sono circa 80 i senza fissa dimora che, nei vicoli di Catania, dividono la notte tra gelo e solitudine.

Durante la fase 1 e 2 del lockdown le strutture di accoglienza, mense e ambulatori di assistenza, hanno dovuto barricarsi per evitare il contagio.

L’unità di strada dei giovani volontari di Croce Rossa italiana ha svolto numerose attività di sostegno a favore delle fasce più deboli. Durante la fase 1 del lockdown, Croce Rossa si è posta da tramite tra le varie associazioni per provvedere al fabbisogno di beni di prima necessità: pasti caldi, acqua, indumenti e kit di pulizia. Con l’inizio della fase 2, il 4 maggio, le mense hanno potuto riaprire i battenti così, il servizio di assistenza di Croce Rossa, attraverso ronde settimanali, vigila sulle condizioni sanitarie e psicologiche di tutti gli utenti presenti sul territorio catanese.

«Il cibo è una scusa per monitorare il bisogno dei senza dimora – ci dice Danilo Di Mauro responsabile dell’unità di strada – un legame, il nostro, instaurato nel tempo. Conosciamo le loro storie personali, le loro paure e i loro drammi. Una sorta di famiglia allargata in cui prendersi cura vicendevolmente gli uni degli altri».

Valentina Tamborra e Angelo Anzalone




Armi, Gang e un uomo al comando

testo di Marco Bello |


La deriva autoritaria dell’élite al potere. L’impunità a livelli mai visti. I banditi che controllano la popolazione. Mentre imperversa l’«economica del rapimento». La diaspora guarda con grande preoccupazione il 2021: l’anno di tutte le sfide.

È il 28 agosto 2020, a Port-au-Prince l’avvocato Monferrier Dorval viene freddato con un proiettile. Dorval era il presidente dell’Ordine degli avvocati della capitale, e stava lottando per migliorare la situazione nel suo paese. L’assassinio suscita indignazione in molti settori della società haitiana.

Quattro mesi dopo, il 28 dicembre, in un assalto è ferito gravemente il giornalista Vario Sérant, e ucciso l’ingegnere Obelson Mésidor, che è in auto con lui. Collaboratore della Nazioni unite e insegnate all’Università di stato di Haiti, Sérant viene salvato per il rotto della cuffia.

Due eventi non isolati, segnali di una situazione sociale ormai al limite del collasso nel paese caraibico.

Ma cerchiamo di capire cosa sta succedendo.

© Valerie Baeriswyl / AFP

Uomo solo al comando

Il 7 febbraio 2017, dopo un’elezione contestata (svoltasi tra fine 2015 e gennaio 2016) e un anno di transizione (con presidente ad interim il presidente del senato Joselerme Privert), è diventato capo di stato Jovenel Moise. Grande imprenditore agricolo, anche noto come «Neg banan» (l’uomo delle banane, in creolo), Moise rappresenta una ristretta classe di neo arricchiti grazie a traffici e commerci più o meno leciti. Una classe legata alla destra storica duvalierista, di cui fa parte anche il cantante Joseph Martelly, che lo ha preceduto alla presidenza (2011-2016) (si veda MC aprile 2017).

Come già Martelly, anche Moise ha evitato accuratamente di realizzare elezioni, facendo scadere gli eletti locali prima, e poi, a inizio 2020, la camera dei deputati e due terzi del senato. Da allora, non essendoci più il parlamento (ad eccezione di un terzo del senato, dieci senatori), il presidente, governa per decreto, forzando la Costituzione e facendo diventare Haiti una «quasi» dittatura presidenziale.

Mentre Martelly non era riuscito a creare consenso per un Consiglio elettorale provvisorio (Cep), e, quindi, a costituire questo organo fondamentale, Moise ha avuto a disposizione un Cep riconosciuto e funzionante, durante gran parte del suo mandato. Nonostante questo, non ha realizzato le elezioni, fino alle dimissioni del Cep, nell’agosto 2019, a causa della constatazione, da parte dello stesso, che non c’erano le condizioni per realizzare la consultazione elettorale.

«Moise vuole cambiare la struttura istituzionale del paese, ma vuole farlo tutto da solo», ci confida il giornalista Gotson Pierre. «Non ha mai smesso di criticare il fatto che c’è una condivisione di potere (dettata dalla Costituzione, ndr). Lui è per un potere presidenziale, mettendo il presidente della Repubblica a capo supremo della nazione. Come è stato durante la dittature dei Duvalier».

E continua: «Vuole liberarsi istituzionalmente, per governare liberamente. Per questo motivo dice: da quando non c’è più il parlamento, facciamo molte cose. L’organo legislativo è un ostacolo per lui».

Così dal gennaio dello scorso anno, scadute le due camere, Moise ha firmato molti decreti, alcuni dei quali piuttosto discutibili e, soprattutto, senza il controllo di nessuna altra istituzione. Di fatto sta legiferando in modo diretto, e molti sono decreti che modificano le istituzioni repubblicane. «Ha fatto oltre quaranta decreti nei vari settori, per esempio nell’ambito dell’organizzazione degli ordini professionali, del codice penale, e di altri organi indipendenti, come la corte superiore dei conti».

Alcuni decreti mettono a rischio la libertà e i diritti fondamentali, come quello che istituisce l’Agenzia nazionale d’intelligence (Ani), molto criticato da opposizione e società civile. Questa struttura, infatti, ricorda tanto la milizia dei famigerati Tonton Macoute: «Sarà un’agenzia dei servizi segreti, i cui membri possono essere armati, e andare a casa delle persone senza mandato. Renderanno conto solo al presidente, il che assomiglia molto ai Macoute del passato. Anche i diplomatici stranieri hanno detto a Moise che è un decreto pericoloso». Da notare che gli ambasciatori delle diverse cancellerie, in generale mantengono una posizione defilata, omettendo di ostacolare la deriva autoritaria del presidente. Chi ci parla ricorda bene i Duvalier e la loro milizia: padre Jean-Yves Urfié, missionario francese della congregazione dello Spirito Santo, ha iniziato a lavorare ad Haiti nel 1964. Da Duvalier è stato pure espulso nel ‘69, per poi tornare nel paese.

© Valerie Baeriswyl / AFP

Ritorno al passato?

Il disegno di Moise è chiaro. Con un decreto del 7 gennaio, il presidente rende pubblico il suo calendario elettorale. Vuole realizzare un referendum costituzionale il 25 aprile di quest’anno e poi elezioni presidenziali, legislative e locali, tra il 19 settembre e il 21 novembre. Per arrivare il 22 gennaio 2022 alla proclamazione ufficiale dei risultati, e procedere all’insediamento del presidente della repubblica il 7 febbraio, data simbolo della caduta di Jean-Claude Duvalier (7 febbraio 1986).

Le questioni sul tavolo sono diverse e complesse. Primo: il mandato dell’attuale presidente scade il 7 febbraio 2021 e non 2022 (su questo punto c’è un’ambiguità nella Costituzione). Secondo: il Consiglio elettorale provvisorio si è dimesso e Moise ha creato il proprio Cep (nell’ottobre scorso) che non risponde alla normale procedura, non ha un consenso tra le istituzioni ed è dunque illegale, non avendo neppure prestato giuramento di fronte alla Corte di cassazione. Terzo: la Costituzione, per essere riformata, prevede un iter complesso di modifica, con diversi passaggi in parlamento, a cavallo tra due legislature. Moise invece ha creato un comitato di redazione, «composto da amici suoi», sottolinea padre Jean-Yves, ai suoi ordini, incaricato di redigere un progetto di Costituzione. Questo sarà votato dal popolo al referendum e diventerebbe dunque valido, nei programmi del presidente, entro maggio. Anche questo procedimento è illegale. Come è possibile tutto ciò? Una spiegazione ce la può dare Jaques Stephen Alexis, grande scrittore, medico e uomo politico haitiano (1922-1961), quando diceva che Haiti è il paese del «Réalisme Merveilleux» (realismo meraviglioso).

Gotson Pierre tenta di spiegarci. «Con il referendum costituzionale, Moise vuole modificare la Costituzione, ma violando la Costituzione attuale. È la prima volta dal 1987, quando è stata promulgata, che chi detiene il potere osa metterla di lato. Ci sono stati i colpi di stato, ma la Costituzione è stata sempre menzionata, e si parlava di ritorno all’ordine democratico. Ma con Moise, siamo fuori dalla Costituzione, e lui agisce senza avvertire, senza un discorso: dice “creiamo un comitato per fare una nuova costituzione”, e questo senza contattare nessuno. È pura arbitrarietà».

Inoltre, si conoscono già le grandi linee della nuova carta fondamentale: «Si ha l’impressione che questa Costituzione l’abbia già pensata: massimi poteri al presidente, soppressione del primo ministro, il parlamento diventa unicamerale, eliminando il senato. Siamo in una grande riforma istituzionale, portata avanti in maniera informale, e tutto è fatto dall’esecutivo da solo».

Il rischio per lo stato è dunque elevato, continua il giornalista: «Il referendum consacrerà l’insieme dei decreti che sono già stati pubblicati sui diversi settori della vita pubblica. Cancellerà tutte le acquisizioni democratiche del 1986 in materia istituzionale. Da circa un anno siamo in questo processo».

Qualcuno non è d’accordo

L’opposizione politica e gli altri settori della società haitiana cosa dicono? «Il movimento popolare era più forte nel 2019, aveva bloccato il paese durante diverse settimane», ricorda padre Urfié, riferendosi al cosiddetto «paylock», ovvero il blocco totale del paese nell’autunno di quell’anno, causato da diversi settori della società che protestavano contro la corruzione del presidente e il suo entourage nell’affare Petrocaribe: aiuti venezuelani ad Haiti dirottati nei forzieri di pochi.

Però l’opposizione politica è variegata e divisa, ci ricorda il missionario, che negli anni ‘90 era stato un promotore dei movimenti sociali e della democrazia nel paese, attraverso le comunità di base, rischiando varie volte la vita: «Nell’opposizione ci sono anche personaggi simili a Moise. Quindi, il popolo non ha fiducia in molti dei suoi dirigenti. Inoltre questi non riescono a mettersi d’accordo. Per essere efficace, occorre che il movimento sia generalizzato, invece ci sono gruppi gli uni contro gli altri. Troviamo quelli che sono più radicali e altri meno, quelli favorevoli al dialogo e altri no. Tra i radicali c’è gente come Yuri Latortue, che faceva parte degli squadroni della morte durante il colpo di stato (si riferisce al putsch di Raoul Cédras, 1991-1994, che lui ha vissuto in prima persona, ndr). È qualcuno che è diventato molto ricco grazie a traffici strani».

Gotson Pierre approfondisce: «C’è rivalità fra i leader, ma forse c’è anche un problema di rappresentazione, che rende le cose difficili. Che messaggio comunicano? Stanno iniziando a cambiare, parlano di transizione, perché, secondo loro, Moise deve rispettare la Costituzione. È una richiesta legittima, anche agli occhi della comunità internazionale, la quale sostiene globalmente Moise, anche se c’è stata qualche dichiarazione contro il governare per decreto».

«Ora fanno incontri, anche se è un po’ tardi. Il processo d’intesa a livello dell’opposizione non è facile, per molteplici ragioni. Tendenze, differenze nel panorama politico haitiano, molti ostacoli.

C’è una ricerca di concertazione, quello che si constata è che non arrivano, per il momento, a invertire il rapporto di forza con il presidente. Occorre mobilitare veramente la gente e smuovere le cose».

Il presidente Jovenel Moise © Valerie Baeriswyl / AFP

Vuoto istituzionale

A inizio gennaio, si è riunito quel che resta del parlamento, ovvero dieci senatori (un terzo del senato, che ad Haiti è rinnovato ogni due anni in modo parziale). Questi reduci hanno eletto il presidente del senato, nella figura di Joseph Lambert, che diventa, oltre a Moise, la sola carica istituzionale di vertice attualmente eletta ad Haiti. Politico di lungo corso, è in parlamento dal 1990, e aveva l’ambizione di fare il primo ministro con Moise.

«Il presidente si è fatto il vuoto istituzionale intorno, gli unici eletti sono i dieci senatori. Come la transizione del dopo Martelly è stata guidata dal presidente del senato dell’epoca, così Lambert sarebbe forse l’unico titolato a sostituire Moise dopo il 7 febbraio. Sembra che abbia avuto contatti con l’ambasciata Usa. Potrebbe essere contro Moise oppure suo alleato», analizza il giornalista.

Lambert è un altro personaggio ambiguo, già consigliere di Michel Martelly, una nostra fonte ci dice che è classificato dalla Dea statunitense come responsabile di traffico di stupefacenti.

Diversi gruppi della società civile e dell’opposizione politica hanno iniziato la mobilitazione delle piazze dal 15 gennaio, per opporsi alla permanenza di Moise dopo il 7 febbraio e per una transizione. La repressione da parte dei corpi speciali di intervento rapido (Cimo) e della polizia, è stata violenta, con l’uso di lacrimogeni, proiettili di gomma ma anche armi reali.

La Rete nazionale per la difesa dei diritti umani, Rnddh, il 22 gennaio ha scritto in un comunicato che: «I recenti avvenimenti […] costituiscono una violazione flagrante delle libertà di espressione, circolazione e libertà individuali del popolo haitiano». Dice inoltre: «[La Rnddh] giudica inquietante che questi casi di violazioni si siano intensificati all’indomani delle dichiarazioni minacciose del presidente Jovenel Moise, il 19 gennaio […], e che la sua Agenzia nazionale d’intelligence, già attiva, gli permetta di raccogliere informazioni relative ai cittadini che partecipano o finanziano i movimenti antigovernativi. Perché, ha affermato, quello che era possibile negli anni scorsi, non lo sarà più nel 2021».

Nelle mani delle Gang

Gotson Pierre ci ricorda che per invertire il rapporto di forza occorre una mobilitazione generale. Ma anche che oggi, ad Haiti, c’è una problematica sociale molto forte: «Se queste mobilitazioni riescono, allora è un segnale molto buono. Ma le difficoltà sono tante, perché praticamente tutti i quartieri sono controllati dalle gang. In certi casi la gente non può uscire di casa, c’è il rischio che non possano andare a manifestare».

In molti quartieri la popolazione è in ostaggio, le gang (termine creolo di origine inglese, che indica bande armate di malviventi), sovente hanno in mano la situazione, malgrado le operazioni di polizia. Gang che intessono legami con i politici, e le più importanti sono vicine, o fanno accordi, con chi detiene il potere.

«È un fenomeno che si è già visto nel passato, ma adesso, non solo è più forte, hanno più gente, più armi, ma si è generalizzato. In tutti i quartieri troviamo delle cellule di gang. In alcuni sono molto più sviluppate che in altri, ma non si può dire che ci sia un luogo esente. E le troviamo anche in altre città, oltre che in capitale. In certi quartieri non c’è un’aggressione evidente: le gang ci sono e fanno i loro affari. Ma in altri, è una vera e propria guerra. Ad esempio, Bel Aire (quartiere centrale di Port-au-Prince, ndr): non si può passare adesso, trovi strade sbarrate, vie vuote, tutto è chiuso».

© Valerie Baeriswyl / AFP

L’economia del rapimento

Un altro fenomeno, legato alle gang, che si sta diffondendo sempre più, è quello dei rapimenti a scopo di estorsione, chiamati qui kidnapping. «È il banditismo. Penso che sia un fenomeno che si nutre dell’impunità, il traffico di armi e di droga. Quando la situazione è questa, chi è senza scrupoli riesce a fare di tutto. Inoltre, tutto questo funziona bene quando si ha il banditismo di stato», racconta Gotson Pierre.

«Attraverso i rapimenti fanno molti soldi, e non parlo dei ricavi dei piccoli rapitori, o dei soldà come li chiamano qui. Si tratta di centinaia di migliaia di dollari, talvolta milioni, tutto in cash, che passano di mano e sono gestiti ai livelli alti delle gang. È una vera e propria industria remunerativa, e tutti questi contanti devono sicuramente andare da qualche parte e servire a qualcosa». Qualcuno fa l’ipotesi che questo denaro servirà a finanziare le prossime elezioni.

Occorre purtroppo osservare, che «quando il kidnapping funziona, tutto funziona». Molti soldi girano, molte persone lavorano, è come se ci fosse un’«economia del kidnapping».

Iliana Joseph, presidente di Haititalia, associazione culturale della diaspora haitiana in Italia, mette l’accento su alcuni aspetti: «Hanno inventato rapimenti che non eravamo abituati a vedere: hanno capito che con questo sistema si fanno tanti soldi, allora la cosa si è diffusa, anche grazie alla televisione. Non erano mai arrivati a rapire bambini o famigliari di persone del popolo». E parla delle paure di chi vive lontano: «Se qualcuno sa che un vicino di casa ha un parente all’estero, questo può essere preso di mira. Chiedono dei riscatti molto elevati che spesso non si possono pagare. Se non si paga, i rapiti vengono ammazzati. Neanche le generazioni più anziane di noi avevano mai visto una situazione così nel paese. Io non ho mai avuto paura di prendere un aereo e andare al mio paese, in 25 anni che vivo in Italia. Oggi ci penso bene. Tutto questo è molto grave».

Il Covid ha colpito poco Haiti in modo diretto. Durante la prima ondata è stato abbozzato un lockdown. Ora non più, e i casi stanno aumentando. Ma un effetto importante è stato indiretto.

Ancora Iliana Joseph: «Chi vive all’estero sostiene la sua famiglia con le rimesse, che sono un’entrata rilevante nel bilancio di Haiti. La pandemia, e il conseguente lockdown, ha fatto perdere il lavoro a una gran parte della diaspora nel mondo, con il conseguente crollo degli invii in valuta pregiata. Questo ha aumentato la povertà in maniera diffusa e contribuito a far degenerare la situazione sociale nel paese».

Marco Bello


Nota

Mentre stiamo chiudendo la rivista, gli eventi ad Haiti sono in rapida evoluzione. Torneremo sulla situazione quando si sarà stabilizzata.


Archivio MC

• Marco Bello, «La cultura ci salverà», MC 04/2017.
• Marco Bello, A due passi dalla Tortuga, MC 07/2016.
• Marco Bello, dossier: La cultura è rivoluzione, MC 05/2016.
• Marco Bello, Il presidente a vita è morto, MC 12/2014




Stati Uniti. È ancora lunga la strada per il sogno

Dopo la schiavitù, gli Stati Uniti conobbero la segregazione. Un periodo di cento anni segnato dalla lotta di personaggi come Rosa Parks e Martin Luther King. Ancora oggi il razzismo è ben presente nella società americana come hanno evidenziato le vicende avvenute durante la presidenza di Donald Trump.

Per soli bianchi: posti a sedere, sale d’attesa, bagni, cabine telefoniche, fontanelle, ma anche scuole e università. Per quasi un secolo (1865-1964), la scritta «Whites only» fu la dimostrazione tangibile che negli Stati Uniti era terminata la schiavitù, ma non il razzismo.

La pratica aveva il nome di «segregazione razziale». Essa consisteva nella separazione fisica delle persone sulla base della razza o, meglio, visto che il concetto non ha valenza scientifica, della presunta razza. Si dividevano i neri dai bianchi all’interno di strutture pubbliche (scuole, tribunali, ecc.), servizi pubblici (mezzi di trasporto) e privati (ristoranti, barbieri, campi sportivi, servizi igienici, ecc.) e li si segregava in aree residenziali a loro dedicate (ghetti).

La segregazione razziale fu la modalità attraverso cui la società bianca dominante riuscì a circoscrivere e limitare le conseguenze prodotte dall’abolizione legale della schiavitù, avvenuta nel 1865.

Per dirla con l’Enciclopedia Britannica: «La segregazione razziale fornisce un mezzo per mantenere i vantaggi economici e lo status sociale superiore del gruppo politicamente dominante».

L’insegna di una lavanderia che lavora soltanto per bianchi.

«Separati ma eguali»

Durante e, soprattutto, dopo il periodo della ricostruzione postbellica (1865-1877), gli stati del Sud, appartenenti alla ex Confederazione (South Carolina, Mississippi, Florida, Alabama, Georgia, Louisiana, Texas, Virginia, Arkansas, Tennessee, e North Carolina), e l’Oklahoma, iniziano ad applicare norme discriminatorie nei confronti della minoranza nera.

Queste leggi sono conosciute sotto i nomi generici di «Black codes» (codici per i neri) e «Jim Crows laws» (leggi Jim Crows, dal personaggio interpretato da un attore che si dipinge il viso di nero). Ecco qualche esempio.

A fine 1865, lo stato del Mississippi emana una legge secondo la quale i neri, senza lavoro o che si riuniscano senza permesso, sono considerati vagabondi e, in quanto tali, punibili con una multa o, a discrezione del giudice, con il carcere. Nel caso che il nero condannato non paghi la multa entro cinque giorni, è compito dello sceriffo trovargli un’occupazione fino al pagamento della somma dovuta. La stessa legge punisce i bianchi che si riuniscano con neri o abbiano con essi rapporti.

Negli stati del Sud si susseguono le norme che richiedono la separazione dei bianchi dalle «persone di colore» (colored, così all’epoca vengono chiamate) sui mezzi del trasporto pubblico (tram, autobus e treni). Il principio applicato è conosciuto come quello del «separati ma eguali» (separate but equal). Secondo questo principio, la segregazione razziale è consentita purché sia prevista una pari sistemazione per i passeggeri neri.

Ne è significativo esempio il «Louisiana Separate Car Act», approvato nel luglio 1890. Al fine di «promuovere il comfort dei passeggeri», le ferrovie della Louisiana devono fornire «posti uguali ma separati per le razze bianche e colorate» sulle linee che percorrono lo stato.

Nel 1896, il principio «separati ma eguali» viene confermato anche dalla Corte suprema chiamata a deliberare sul caso «Plessy v. Ferguson».

Homer Plessy è un calzolaio di New Orleans. Proveniente da una famiglia mulatta, Homer è una persona attiva nel sociale. Per protestare contro le leggi sulla segregazione, nel 1892 acquista un biglietto di prima classe sulla East Louisiana Railroad e si siede nello scompartimento per «solo bianchi». Alla richiesta di allontanarsi, Plessy rifiuta e per questo viene fatto scendere dal treno, imprigionato per una notte e rilasciato dopo aver pagato una cauzione di 500 dollari. Nel processo l’imputato dichiara di aver visto violati i diritti sanciti dal XIII e XIV emendamento della Costituzione, ma il giudice John Howard Ferguson lo dichiara colpevole.

Nel 1986 la causa «Plessy v. Ferguson» (dal nome dei due protagonisti) arriva davanti alla Corte suprema. Questa, con una netta maggioranza (sette contro uno, con un giudice assente), dà torto al ricorrente sostenendo la costituzionalità della segregazione razziale secondo la dottrina del «separati ma uguali».

Avendo dalla loro parte la Corte suprema degli Stati Uniti (composta di nove membri eletti a vita), fino al 1954, gli stati del Sud possono emanare senza problemi leggi di segregazione razziale. Come testimoniano varie sentenze, «la Corte sostanzialmente acconsentì alla “soluzione” del Sud ai problemi delle relazioni razziali» (prof. Melvin Urofsky, Britannica).

In sostanza, queste leggi vengono emanate e sono vigenti pur violando uno o più degli emendamenti della Costituzione americana introdotti dopo la guerra civile: il XIII (che proibisce la schiavitù), il XIV (pari protezione davanti alla legge) e il XV (diritto di voto).

Al Lincoln Memorial una giovane attivista domanda (retoricamente): «Dov’è il sogno?». Foto Victoria Pickering.

Anni cinquanta: la storia cambia

Dopo la Prima guerra mondiale, cambia il clima generale e cambia anche la Corte suprema. Nel 1950, la «Associazione nazionale per il progresso delle persone di colore» (National Association for the Advancement of Colored People, Naacp) chiede a un gruppo di genitori afroamericani tra cui Oliver Brown di Topeka (Kansas) di tentare di iscrivere i propri figli a scuole per soli bianchi (all-white school). Oliver prova a iscrivere la figlia Linda, 9 anni, alla scuola elementare Sumner della cittadina, ma l’iscrizione viene negata in quanto l’istituto non accetta bambini di colore. L’associazione afroamericana raccoglie altri 12 casi e intenta una causa collettiva conosciuta come «Brown contro l’ufficio scolastico» (Brown v. Board of Education of Topeka, Kansas). Nel 1954, la Corte suprema sentenzia che «sistemi d’istruzione separati sono per essenza ineguali. [I ricorrenti], in ragione della segregazione qui contestata, sono stati privati dell’uguale protezione davanti alla legge».

Un anno e mezzo dopo questa storica sentenza accade un altro evento che segnerà la storia dei neri d’America.

Il bus di Rosa Parks

La foto segnaletica di Rosa Parks, l’iniziatrice (1955) della rivolta contro la segregazione sui mezzi pubblici.

Montgomery, Alabama, 1° dicembre 1955. Al termine della sua giornata lavorativa, Rosa Parks, una donna nera di 42 anni, prende l’autobus per tornare a casa sistemandosi sul primo sedile dietro la parte riservata ai bianchi. Le norme della città di Montgomery richiedono infatti che tutti i mezzi di trasporto pubblico abbiano posti separati per bianchi (nella parte anteriore) e neri (in quella posteriore).

Durante il suo percorso l’autobus si riempie e vari passeggeri bianchi rimangono in piedi nel corridoio. L’autista se ne accorge, ferma il mezzo e sposta il cartello che separa le due sezioni indietro di una fila, chiedendo a quattro passeggeri neri di lasciare i loro posti ai bianchi.

Tre di loro obbediscono all’autista, mentre Rosa Parks si rifiuta. «Non credo che debba alzarmi», risponde la donna. A quel punto, l’autista chiama la polizia. Questa arresta la donna per violazione delle norme locali e la porta alla centrale. Verrà rilasciata quella notte dietro cauzione.

Pochi giorni dopo – il 5 dicembre – al processo Rosa Parks viene condannata al pagamento di una multa. La storia della donna fa però nascere tra la comunità afroamericana di Montgomery una protesta civile e pacifica di grande portata: il boicottaggio degli autobus della città. Circa 40mila pendolari afroamericani iniziano a disertare i mezzi pubblici, scegliendo di muoversi a piedi o su taxi da loro stessi organizzati.

La protesta (funestata anche da violenze dei segregazionisti) prosegue per 381 giorni fino al 13 novembre 1956. In quella data la Corte suprema degli Stati Uniti dichiara incostituzionale la segregazione sui trasporti pubblici.

La prigione di Birmingham

La lotta di Rosa Parks è stata guidata dal giovane e preparato pastore della Dexter Avenue Baptist Church di Montgomery. Il suo nome è Martin Luther King.

Nel 1957, assieme ad altri pastori e leader neri, King fonda ad Atlanta, sua città natale, la Southern Christian Leadership Conference (Congresso dei dirigenti cristiani del Sud), organizzazione per i diritti civili. Nel 1959, King viaggia in India, dove approfondisce la filosofia nonviolenta di Ghandi. Il suo lavoro di pastore è ad Atlanta, ma la sua attività principale è ormai girare il paese per parlare di razzismo e diritti civili. Inevitabilmente si scontra più volte con le autorità. A Birmingham, Alabama, una città con alti livelli di segregazione, lancia una grande campagna di resistenza, coinvolgendo nella protesta anche ragazzi. Viene arrestato. Nell’aprile 1963 pubblica la «lettera dal carcere di Birmingham» in cui controbatte alle critiche pervenutegli dagli ecclesiastici bianchi della città e spiega la pratica della disobbedienza civile nonviolenta.

«Per oltre due secoli – scrive Martin Luther King – i nostri antenati hanno lavorato in questo paese senza ricevere compenso; hanno fatto del cotone una ricchezza; hanno costruito le case dei loro padroni mentre pativano macroscopiche ingiustizie e vergognose umiliazioni: e tuttavia, grazie a una inesauribile

vitalità, hanno continuato a crescere e a svilupparsi. Se le crudeltà inaudite della schiavitù non sono riuscite a fermarci, l’opposizione con cui oggi abbiamo a che fare dovrà senza dubbio fallire. Noi conquisteremo la nostra libertà».

La protesta dei cittadini neri, la lettera dal carcere e le violenze della polizia di Birmingham hanno una vasta eco portando la questione razziale all’attenzione generale.

Un’insegna nella stazione delle corriere di Durham, in North Carolina, nel 1943, indica la sala d’attesa per i neri («colored»), come prevedono le norme Jim Crow. Foto Jack Delano.

Il sogno di Martin

Pochi mesi dopo, la protesta si sposta a Washington, dove il Congresso sta discutendo il Civil Rights Act, la legge antidiscriminazione presentata dal presidente John Kennedy. Il 28 agosto 1963 Martin Luther King, davanti a una folla di 250mila persone, pronuncia il suo discorso più famoso: I have a dream, ho un sogno.

Il leader afroamericano delinea chiaramente la meta: «In America, non ci sarà né riposo né tranquillità fino a quando ai neri non saranno concessi i loro diritti di cittadini». Ma le modalità per raggiungere quest’obiettivo sono, secondo Martin Luther King, precise e inderogabili: «In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste. Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. […] Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica». Infine, ecco il sogno: «Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere».

Il 3 luglio 1964, circa un anno dopo la marcia e il discorso di Washington, il presidente Lyndon Johnson (sostituto dell’assassinato John Kennedy) firma il Civil Rights Act, avendo alle spalle Martin Luther King.

La lotta non conosce pause. Pochi mesi dopo (a marzo 1965), ancora nello stato dell’Alabama, Martin Luther King partecipa alle marce da Selma a Montgomery, la prima delle quali repressa dalla polizia, attuate per reclamare il diritto di voto anche per gli afroamericani. Pochi mesi dopo, il 6 agosto 1965, il presidente Johnson firma il Voting Rights Act, con il quale i neri ottengono finalmente l’accesso al voto.

Martin Luther King non potrà però continuare a perseguire il suo sogno perché viene assassinato a Memphis, in Tenneesee, il 4 aprile 1968, all’età di 39 anni.

«La vera pandemia è il razzismo», un cartello eloquente di una afroamericana. Foto Miki Jourdan.

Da Obama a Trump

Nelle elezioni del novembre 2008 viene eletto Barack Obama, primo presidente afroamericano nella storia degli Stati Uniti. I problemi razziali del paese non si risolvono però con la sua elezione. Con Obama la condizione dei neri migliora nel campo dell’istruzione e della salute, ma non in quello del lavoro e del reddito.

A dimostrazione del cammino ancora da percorrere, la circostanza che nel 2013, cioè all’inizio del suo secondo mandato, nasce il movimento Black lives matter (le vite dei neri contano).

Il successore alla Casa Bianca è l’imprenditore e miliardario Donald Trump, che mette subito in mostra la sua totale mancanza di scrupoli negando per lungo tempo la nascita americana di Obama.

Le proteste degli afroamericani dilagano nelle città Usa soprattutto durante il secondo mandato di Trump. Con l’ex presidente i «suprematisti bianchi» (cioè coloro che ritengono i bianchi intrinsecamente superiori alle persone di colore) – riuniti in gruppi come The Proud Boys, gli Oath Keepers o i Three Percenters – hanno molta visibilità e libertà d’azione. Nei drammatici eventi del 6 gennaio 2021, i sostenitori di Trump e assalitori del Campidoglio sono nella quasi totalità bianchi.

Due ragazze mostrano cartelli di appoggio al movimento «black lives matter» (le vite dei neri contano). Foto Tom Hilton.

Joe Biden, finalmente

Sono ormai passati 55 anni dalla fine (formale) della segregazione e discriminazione razziali. Tuttavia, ancora oggi la minoranza nera – oltre 48 milioni di persone pari al 14,7 per cento della popolazione statunitense – è fortemente penalizzata. I neri sono discriminati nei rapporti con la polizia e la giustizia (più morti, arrestati e condannati), nell’accesso a buone scuole e ai lavori migliori, nell’assistenza sanitaria (Pew Research Center, Race in America 2019, aprile 2019).

Non sarà facile per il nuovo presidente Joe Biden porre rimedio a ingiustizie razziali sedimentate e acutizzate durante i quattro anni di Trump.

Tuttavia, i suoi passi iniziali sono di buon auspicio. La vice di Joe Biden è Kamala Harris sulle cui spalle ricadono una serie di primati: la prima donna, la prima nera (il padre è giamaicano), la prima tamil (per parte di madre) a diventare vicepresidente degli Stati Uniti. Inoltre, in considerazione delle età di Biden (78 anni) e di Kamala (56), la ex procuratrice della California è una candidata molto accreditata alla prossima presidenza.

Anche il movimento Black lives matter sembra mostrare speranza e fiducia nel cambiamento attraverso una lotta non-violenta. A gennaio, sul proprio sito, ha scritto: «Ogni giorno che passa, facciamo sempre più passi verso la realizzazione dell’America in cui Martin Luther King ha sempre creduto».

Paolo Moiola


Cronologia: 1865-1968

Dalla segregazione a Martin Luther King

  • 1865-1877

    Martin Luther King, leader della causa degli afroamericani, assassinato nel 1968. Foto Library of Congress.

    È il periodo della «ricostruzione» post bellica. Negli stati del Sud inizia a essere applicata la segregazione attraverso norme specifiche denominate «Black codes» e «Jim Crows laws».

  • 1866
    A Pulaski, in Teneessee, nasce il Ku Klux Klan (Kkk), la più violenta tra le organizzazioni di suprematisti bianchi.
  • 1896
    La Corte suprema stabilisce che la segregazione sui vagoni dei treni della Louisiana è costituzionale sostenendo il principio del «separati, ma eguali» (separate but equal).
  • 1909, febbraio
    Nasce la «National Association for the Advancement of Colored People» (Naacp), una delle prime e più influenti associazioni per i diritti civili degli afroamericani negli Stati Uniti.
  • 1915
    L’Oklahoma entra nella storia Usa come il primo stato a separare le cabine telefoniche pubbliche.
  • 1954, maggio
    Una sentenza della Corte suprema – Brown v. Board of Education (Brown contro l’ufficio scolastico) – dichiara incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche.
  • 1955, 1 dicembre
    A Montgomery, capitale dell’Alabama, l’attivista Rosa Parks si rifiuta di cedere il posto sull’autobus a un passeggero bianco. Viene arrestata. Il giorno successivo incomincia il boicottaggio dei mezzi pubblici della città, protesta che dura per 381 giorni.
  • 1964, 3 luglio
    Una legge federale – il «Civil Rights Act» – rende illegale ogni forma di discriminazione razziale, non solamente da parte degli organismi pubblici, federali o locali, ma anche nelle relazioni commerciali e nel lavoro.
  • 1965, 21 febbraio
    A 39 anni, il leader nero Malcolm X viene assassinato con sette colpi di arma da fuoco durante un discorso pubblico ad Harlem.
  • 1965, marzo
    Per il diritto di voto agli afroamericani si svolgono tre marce da Selma a Montgomery.
  • 1965, 6 agosto
    Il presidente Lyndon B. Johnson firma il «Voting Rights Act», una legge progettata per far rispettare i diritti di voto garantiti dal 14.mo e 15.mo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti.
  • 1968, 4 aprile
    Martin Luther King, leader nero di fama mondiale, viene assassinato a Memphis.

(a cura di Paolo Moiola)


«Sala d’attesa per i colorati»: un’indicazione specifica per i neri nella stazione di Rome, Georgia, nel 1943. Foto Esther Bubley – Library of Congress.

Neri americani*: i numeri (2019)

  • popolazione nera: 48,2 milioni
  • percentuale su totale: 14,7 per cento
  • tasso di povertà: 20,8 per cento (10,1%**)
  • tasso di disoccupazione: 6,1 per cento (3,3%**)
  • educazione superiore (college): 29 per cento (45%**)
  • stati con più neri: New York, California,Texas, Florida e Georgia
  • città Usa con più neri: New York, Chicago, Detroit.

(*) «Black population», «african americans» sono i termini più utilizzati negli Stati Uniti per indicare la popolazione nera. I termini «negro» («negroes», al plurale) e «colored» sono caduti in disuso.
(**) Percentuale per la popolazione «bianca».

Fonti: US Census Bureau (census.gov); US Bureau of Labor Statistics (bls.gov); US Department of Education (ed.gov).

 (Pa.Mo.)


Politica e religione in Usa

Il cattolico Joe Biden

Il nuovo presidente Joe Biden, secondo cattolico (dopo John Kennedy) a ricoprire la massima carica degli Stati Uniti. Foto Matt Johnson.

Joe Biden, dal 20 gennaio 2021 alla guida degli Stati Uniti, è il secondo presidente Usa di fede cattolica. Il primo fu John Fitzgerald Kennedy (dal 1961 al 1963). Si stima che il 3 novembre 2020 circa la metà degli elettori cattolici abbia votato per Biden. L’altra metà si è schierata con l’ex presidente Donald Trump; una buona parte di costoro appartiene alla schiera degli anti Francesco.

Durante il suo mandato, l’ex presidente ha avuto rapporti soprattutto con i cristiani evangelici. Trump aveva l’Evangelical Advisory Board, un organismo composto principalmente da leader di organizzazioni della destra religiosa, predicatori televisivi e pastori conservatori (The Washington Post, 30 agosto 2018). Aveva Paula White, nota televangelista della Florida, come capo consigliere spirituale.

Il primo giugno dello scorso anno, nel pieno delle proteste per l’uccisione di George Floyd, Donald Trump ha camminato dalla Casa Bianca fino alla Chiesa episcopale di San Giovanni. Un centinaio di metri sgombrati dalla polizia con i gas lacrimogeni. Arrivato davanti alla chiesa con il suo stuolo di accompagnatori (peraltro, tutti bianchi e senza mascherine), l’ex presidente si è piazzato davanti all’insegna e ha alzato al cielo la Bibbia che teneva tra le mani. Senza aprirla. Tutto in favore di telecamere e macchine fotografiche.

Per tutto il suo mandato presidenziale, Trump ha usato la religione per i suoi fini politici, un «nazionalismo cristiano» che ha ottenuto molto seguito tra fette consistenti di evangelici e di cattolici.

Ci sono stati politici repubblicani e leader religiosi che hanno parlato apertamente di un intervento di Dio per la sua ascesa al potere. Franklin Graham, noto pastore evangelico, in un’intervista del luglio 2019 ha affermato che «Dio era dietro le ultime elezioni» vinte da Trump.

Anche la frettolosa nomina alla Corte suprema della giudice cattolica Amy Coney Barrett, nominata pochi giorni prima delle elezioni del 3 novembre, rientrava nel disegno politico ed elettorale dell’ex presidente. Questo utilizzo strumentale della fede religiosa da parte di Trump ha contribuito a fomentare un clima fortemente divisivo.

Il 30 agosto 2020, padre James Altman di La Crosse, Wisconsin, è intervenuto nel dibattito con un video pubblicato su YouTube: «Non puoi essere cattolico ed essere democratico […] Pentiti – esorta padre Altman nel suo accattivante filmato – del tuo sostegno a quel partito e alla sua piattaforma o affronterai le fiamme dell’inferno!».

L’opposizione della destra cristiana continua anche dopo la chiara sconfitta del presidente. «Jesus saves» dicevano alcuni cartelli nella manifestazione pro Trump del 6 gennaio 2021 sfociata nell’assalto al Campidoglio. Quei fatti hanno però costretto vari leader religiosi repubblicani (come i pastori Mark Burns, Pat Robertson, ecc.) a prendere apparentemente le distanze dall’ex presidente. Se questi sembra, almeno per il momento, fuori gioco, non lo è però il «trumpismo».

Il giorno seguente all’insediamento del nuovo presidente, il sito del «Falkirk Center» della Liberty University, istituto cristiano (evangelico battista), ha pubblicato un lungo articolo sui «modi in cui tutti noi possiamo glorificare Cristo mentre ci opponiamo alle politiche di Biden».

Nella sua lettera di benvenuto (datata 20 gennaio) al nuovo presidente e alla sua famiglia, l’arcivescovo José Gómez, presidente della Conferenza episcopale statunitense (United States Conference of Catholic Bishops, Usccb), ha scritto che «lavorare con il presidente Biden sarà unico, sarà il nostro primo presidente in 60 anni a professare la fede cattolica». Tuttavia, è facile prevedere che il dialogo non sarà certamente semplice su alcuni temi e, in particolare, sulla questione dell’aborto su cui la lettera dell’arcivescovo si sofferma molto.

Secondo una ricerca del Pew Research Center (4 gennaio), nel 117.mo Congresso degli Stati Uniti la maggioranza assoluta dei parlamentari sarebbe di religione protestante (294 persone, il 55,4 per cento del totale), mentre i cattolici sarebbero 158, pari al 29,8 per cento, più di quanti sono nel paese (20 per cento). Difficilmente i cattolici pro Trump cambieranno idea rispetto al suo successore. È invece molto probabile che, al contrario di Trump, il cattolico Joe Biden non userà la fede religiosa come strumento di lotta politica.

Paolo Moiola

 


Le puntate precedenti:

 




La dignità sotto i piedi

testo di Daniele Biella |


In Piazza Libertà, davanti alla stazione, una coppia si prende cura dei migranti che arrivano in Italia dopo le peripezie e le violenze alle frontiere. Curare le loro ferite sotto gli occhi di tutti, è un urlo contro la normalizzazione del male.

«Avevo un ricordo bellissimo dei boschi della ex Jugoslavia, mi sembravano paesaggi usciti da film della Disney. Ora, quando li guardo, penso alla tragedia che si sta consumando in quei luoghi. Decine di persone – non sapremo mai quante – vi perdono la vita tentando di migrare verso il Nord Europa. È straziante».

Lorena Fornasir ha uno sguardo al quale non si può sfuggire: nei suoi occhi chiarissimi si specchiano le immagini create dalle parole che ci ha appena rivolto.

Non sono immagini belle, ma questa è la realtà: benvenuti in Europa, dove le frontiere uccidono chi cerca di superarle con la speranza di una vita migliore, ma senza documenti validi.

© Daniele Biella

Unico obiettivo: la cura

Incontriamo Lorena in Piazza Libertà, davanti alla stazione di Trieste, in un tardo pomeriggio di settembre, mentre la seconda ondata di Covid inizia a svegliarsi. È qui che la donna, psicologa 67enne, giudice onorario minorile con un’energia inesauribile, si fa trovare tutti i giorni assieme al marito Gian Andrea Franchi – filosofo e storico, ex professore di 84 anni – e ai volontari dell’associazione Linea d’ombra nata nel 2019. Dedicano tempo a presidiare il luogo con un unico obiettivo: la cura.

«Qui c’è un passaggio continuo di migranti che arrivano dalla “rotta balcanica”. Si fermano a Trieste giusto il tempo per riprendere le forze prima di provare ad andare a Nord», spiega Lorena. «Il problema è che molti arrivano a dir poco malridotti e bisognosi di attenzione. Noi veniamo qui proprio per questo, per curarli: medichiamo le ferite a piedi, gambe, braccia, e ascoltiamo i loro tremendi racconti».

© Daniele Biella

Respingimenti e violenze

Nessuna fake news in questa brutta storia. È tutto vero: la controprova dello scempio dei diritti umani in atto ai confini dell’Europa sono proprio loro, i sopravvissuti con i traumi che si portano addosso.

«Tentava di attraversare il confine italo sloveno insieme alla moglie e a un compagno, ma è morto cadendo in un burrone dopo un volo di venti metri, nei pressi del castello di San Servolo, in provincia di Trieste», riporta Radio Capodistria il primo gennaio 2020. È una vicenda che a Lorena Fornasir ritorna spesso in mente, perché ricorda la disperazione della moglie. Così come ricorda i tanti racconti di chi riesce ad arrivare in Piazza Libertà – ribattezzata da loro Piazza del Mondo – e narra di persone care e compagni di viaggio persi nel buio dei boschi, nelle settimane di cammino tra le frontiere balcaniche e, soprattutto, tra un respingimento e l’altro: «Le persone vengono rimandate indietro dalla polizia di confine, sia in Croazia che in Slovenia. Negli ultimi mesi anche all’arrivo in Italia», sottolinea Gian Andrea.

«Ci sarebbe il diritto del migrante a chiedere asilo politico, ma evidentemente non viene rispettato». E c’è di più: «Le persone che assistiamo in piazza arrivano spesso con evidenti segni di violenze, e denunciano pestaggi da parte delle forze di polizia una volta entrati nel confine croato».

Botte documentate da foto e video che anche gli europarlamentari di Bruxelles conoscono almeno dal 2017, grazie alle mobilitazioni di associazioni per i diritti umani di tutta Europa, compresa Linea d’ombra Odv (Organizzazione di volontariato – www.lineadombra.org), la onlus creata da Fornasir e Franchi. Violenze che nessuno pare riuscire a fermare, anche per la resistenza del governo croato ad ammettere le responsabilità delle proprie forze dell’ordine.

The game, il gioco

Gli stessi Lorena e Gian Andrea hanno visto con i loro occhi i segni di quelle percosse quasi in diretta, quando nel 2015 hanno iniziato a fare la spola con altri amici tra Italia e Balcani, portando vestiario e viveri nei campi profughi informali che si erano creati a Bihac e Velika Kladusa, al confine tra Bosnia e Croazia: «Non solo le botte. Alle persone vengono rotti i telefoni cellulari, requisiti gli zaini, e a volte addirittura tolti i vestiti che indossano», aggiunge Gian Andrea, lasciando intuire tutto il proprio sdegno.

Parecchi di quei migranti che avevano conosciuto al confine tra Bosnia e Croazia, ragazzi e giovani soli, ma anche famiglie con bambini e anziani, li hanno poi reincontrati nei pressi della stazione di Trieste: quelli fortunati che sono riusciti ad arrivare in Italia, nonostante tutto. Tra loro, alcuni hanno affrontato l’ultima parte del viaggio anche decine di volte: ogni volta venivano respinti, ma dopo avere recuperato le forze ripartivano, perché non c’era possibilità di tornare indietro nel posto da cui erano scappati. L’unica speranza era quella di andare avanti, raggiungere il Nord Europa.

Questo continuo procedere ed essere respinti, lo chiamano the game, il gioco: un nome che richiama il divertimento, usato però per qualcosa che di giocoso non ha nulla, forse per esorcizzare una realtà che fino a pochi anni fa non si sarebbe immaginata nemmeno nei peggiori incubi, se pensiamo che accade a ridosso di quell’Europa che nel 2012 ha ricevuto il premio Nobel per la Pace per il suo impegno a cancellare guerre e violenze dal proprio vocabolario.

Una straordinaria prova di quella solidarietà che abbatte i muri e crea legami di fratellanza. La comunità senegalese a Trieste si è mobilitata in sostegno di chi arriva dalla rotta balcanica, fratelli migranti che arrivano da altre terre e per altre vie. Un incontro toccante, ieri in Piazza Libertà, quasi un abbraccio. Un aiuto concreto, consegnato a Linea d’ombra, da parte di chi ha vissuto sulla propria pelle la violenza dei confini, destinato a chi ancora è in viaggio.

Davanti alla stazione

Dal 2019, con un flusso di arrivi notevole (almeno 15mila persone secondo i dati ufficiali dell’Agenzia europea Frontex), l’impegno dei volontari di Linea d’ombra in Piazza Libertà è diventato quotidiano. I viaggi solidali si sono interrotti, in particolare con l’arrivo del Coronavirus, e oggi l’attività è concentrata proprio lì.

«Abbiamo appena ricevuto notizie da una famiglia iraniana che è passata qualche settimana fa da Trieste, dopo avere superato la rotta balcanica. È riuscita ad arrivare in Francia e, da lì, ha raggiunto la casa di un parente in Germania, dove ora sta bene», ci racconta Franchi a fine novembre con sollievo. «Li ricordo bene, perché ci ha impressionato il fatto che fosse la loro figlia di 7 anni, che parlava inglese, a relazionarsi con noi per fare capire i loro bisogni».

Storie. Tante storie che i volontari di Linea d’ombra e di altre associazioni con le quali Linea d’ombra collabora, incrociano ogni giorno. Oltre all’associazione di Lorena e Gian Andrea, infatti, in Piazza Libertà sono presenti quotidianamente l’Ics, Consorzio italiano di solidarietà, che agevola le pratiche di asilo per i pochi che non vogliono continuare il viaggio verso Nord; l’associazione Strada SiCura, con dottoresse che medicano le ferite; e c’è chi si occupa di preparare un pasto caldo, di distribuire i vestiti e le scarpe donati.

Tra i migranti che arrivano a Trieste, alcuni si fermano per chiedere la protezione umanitaria: è la scelta di una giovane medico siro palestinese fuggita dalla guerra, che oggi aiuta a curare le ferite di chi arriva, così come quella emblematica e drammatica di Umar Adnan, un ragazzo pachistano oggi poco più che ventenne, partito da solo a 18 anni dal suo paese, dopo un’infanzia segnata dallo sfruttamento lavorativo, e arrivato in Italia dopo aver subito, tra le altre cose, le angherie di un gruppo di poliziotti croati al confine: «Mercoledì 25 settembre 2019 ho incrociato Adnan lungo la strada che scende dal confine di Velika Kladusa in Bosnia Erzegovina, dopo che era stato catturato, seviziato e respinto dalla polizia croata. Gli avevano tolto le scarpe e lo avevano torturato con una sbarra incandescente scorticandogli la gamba», scrive inorridita Lorena in quello che è poi diventato un appello rivolto all’Unione europea intitolato «Torture ai confini d’Europa», diffuso tramite la piattaforma change.org, dove ha raccolto quasi 70mila firme.

Incontro in piazza con gli Scouts sloveni in Italia (Slovenska Zamejska Skavtska Organizacija), venuti per conoscere la realtà di chi arriva dalla rotta balcanica e portare un aiuto concreto e prezioso

La disumanità

Fornasir ricorda nel testo del suo appello anche un’altra persona che però non ce l’ha fatta: si chiamava Alì. «Nel febbraio 2019, Alì era stato catturato e la polizia croata, dopo vari maltrattamenti, dalla Croazia lo aveva respinto in Bosnia, tra la neve e il gelo, levandogli vestiti e scarpe. Alì era ritornato a Velika Kladusa a piedi, tra la neve, vagando per ore. I suoi piedi si erano congelati ed erano andati in necrosi. Dopo mesi di sofferenze, Alì è morto sabato 21 settembre, a causa della disumanità».

Molte persone, non solo Lorena e Gian Andrea, hanno tentato di alzare la voce per Alì, ma nessuna autorità, Onu compresa, è riuscita a evitare la sua morte.

È andata meglio, nonostante tutto, a Umar Adnan che incontriamo in Piazza Libertà dove, una volta recuperato l’uso della gamba ferita, oggi offre aiuto a sua volta ai nuovi arrivati, e scatta foto molto utili a Linea d’ombra per documentare e diffondere informazioni su quello che accade. «I poliziotti croati volevano obbligarmi a dichiarare che ero un trafficante, e quando negavo arrivavano le botte», ricorda, aiutato dal mediatore volontario Raheem Ullah, suo connazionale arrivato a Trieste per il proprio lavoro di ricercatore in biologia. «È passato un anno e mezzo, qui mi trovo bene e posso dare una mano, oltre che ricominciare a vivere. Ma di certo sono ancora molto risentito. Non riesco e non voglio perdonare. Nessuno mi ha chiesto scusa», conclude mostrandoci i segni ancora ben visibili sulla gamba.

Tollerati perché utili

L’aspetto importante è che ora Umar Adnan ha ritrovato il sorriso, grazie anche a questa «normalità dell’aiutare» che, nella Piazza del Mondo, è visibile a occhio nudo. Una normalità quotidiana, anche se precaria. «Siamo tollerati dalle autorità locali perché siamo funzionali», analizza Franchi. «Medicando le persone, tamponiamo un problema, mettiamo in atto quello che dovrebbero fare loro di fronte a persone bisognose d’aiuto».

Anche durante tutto questo periodo di pandemia, infatti, a Linea d’Ombra è stato permesso di operare, ovviamente con tutti i dispositivi di protezione individuale del caso.

L’unica opposizione esplicita al loro operato, di fatto, è arrivata dalle frange di estrema destra della zona, che un giorno di fine ottobre hanno indetto un presidio nella piazza. Quel giorno, dall’altra parte, si sono fatte presenti numerose persone solidali con i migranti e con i volontari che danno loro supporto.

«Dopo quel momento, a livello cittadino è nato un gruppo di persone che ora si ritrova per coordinarsi su come agire per affrontare le problematiche di Trieste. Partendo dai migranti», aggiunge Gian Andrea, «si riflette anche su altri aspetti, politici e sociali, come le condizioni carcerarie, ad esempio».

Scarpe, giacconi, tute

«Un’altra novità degli ultimi mesi è, nonostante le difficoltà causate dal Covid-19, la creazione di una rete organica di attivisti che arriva fino al confine con la Francia, seguendo gli spostamenti dei migranti tra Trieste, Veneto, Milano, Torino, Oulx e poi Briançon, in Francia».

I migranti scelgono la via più lunga per arrivare in Germania perché la frontiera austriaca è quasi del tutto inaccessibile da tempo. Del resto, la situazione, in questi flussi migratori, è in continuo cambiamento: per la paura di essere respinti al confine italo sloveno vicino a Trieste, le persone cercano sentieri tra le montagne e si spostano anche verso la provincia di Udine senza passare dalla città, con il rischio di diventare ancora più invisibili e di rimanere quindi senza assistenza in casi di emergenza.

Il 2021 si preannuncia un anno duro per tutti a causa della pandemia ancora in corso, ma sarà ancora più arduo per chi non ha una casa e sta cercando un luogo sicuro dove arrivare.

Con una meravigliosa catena di solidarietà, Linea d’ombra continua a ricevere donazioni sia di soldi che di materiale, entrambe molto importanti perché il bisogno è sempre alto: «In questo periodo nel quale fa più freddo, a volte ci sono 30 persone al giorno, a volte meno di una decina, dobbiamo essere sempre pronti», ci dice Franchi.

«Abbiamo bisogno più di tutto di scarpe, giacconi, pantaloni, tute e zaini, mentre usiamo i fondi per comprare in particolare cibo e medicinali».

dalla descrizione della foto su FB: “#BalkanRouteEurope Trieste 10 gennaio 2021 Piazza mondo: <>
Carrettino: “sarò anche pazzo ma sono qui in nome delle madri del mondo, amiamo la vita che mettiamo al mondo, ce la consegniamo l’una con l’altra, nel dolore ci rafforziamo. Aspetto i loro figli, giorno dopo giorno, cerco il coraggio di sognare e di provare a far vivere i sogni. Ma, ti prego piazza del mondo, grida a tutti: APRITE LE FRONTIERE. Lipa è sempre, non solo ora che si è incendiato il campo”

La normalità del male

Mentre accompagniamo Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi lungo la strada che porta a casa loro, una volta lasciata la Piazza del Mondo, l’immagine che abbiamo di questa coppia è quella di un mix di umiltà e tenacia talmente forti da risultare sorprendenti, perlomeno a prima vista. Ma pensando alle storie e alle scelte di vita di tanti uomini e donne che hanno fatto la storia con la loro dedizione agli ultimi, dopotutto, capiamo che loro due fanno parte di questa categoria di persone: una coppia splendidamente normale. Due operatori di pace che hanno come orizzonte il bene dell’umanità.

«Tra di noi è un continuo scambio: io ho un approccio più politico e intellettuale, lei è più corporea e immediata», ragiona Franchi. «Ci completiamo», aggiunge la moglie prima di gettare uno sguardo all’indietro, verso Piazza Libertà e la stazione. «Il dolore che provo, a volte, quando volto le spalle alla piazza, è tremendo: so che le persone andranno a dormire in un posto di fortuna, e rimarranno lì, soli con i loro drammi personali, mentre io vado a casa al sicuro. Questo mi pesa tanto. Mi preoccupo soprattutto per i giovani soli, perché le famiglie che arrivano assieme hanno almeno il conforto di essere un gruppo, di avere dei bambini che, quando scherzano e ridono, portano gioia anche nei momenti peggiori. I ragazzi invece no, e spesso sono in giro da anni, tra Serbia e Bosnia, respinti da tutti e con danni psicologici irreversibili. Mi chiedo quale sarà il loro futuro».

Lorena ci confida poi un suo cruccio: quello di sentire dentro sé crescere l’abitudine, conseguenza dell’aver visto per troppo tempo troppe situazioni insostenibili: «Non sento più tanta rabbia come quella che provavo nel 2015, quando ho iniziato. E questo mi stupisce e mi amareggia, perché significa che ti abitui alla bruttura, alle deportazioni, alle violenze. Perdo di vista l’essere umano mentre mi sforzo di capire e poi denunciare i meccanismi con cui i governi respingono le persone alle frontiere. Ci vuole anche questo aspetto, certo, ma la rabbia, se ben canalizzata, è un collante sociale che genera la giusta reattività per chiedere conto a chi di dovere di quanto accade. Invece se il male diventa “normale”, un’abitudine, rischiamo la rassegnazione, l’assuefazione. Per questo il mio sentimento più forte oggi è resistere alla normalizzazione della barbarie in atto».

Sentendo le parole della moglie, Gian Andrea prosegue e rilancia: «La nostra resistenza è continuare a esserci, “esistere” in questa piazza, fare vedere che l’azione diretta è il modo migliore per evitare che quello che accade cada nell’oblio. Stiamo parlando di persone come noi che non chiedono altro se non di trovare un luogo dove stare che sia migliore di quello dal quale sono venute via».

Un gruppo di liceali triestini ha colto al volo il messaggio: a novembre, dopo che una loro professoressa ha invitato una volontaria di Linea d’Ombra in classe, ha raccolto decine di paia di scarpe in ottimo stato.

Quelle scarpe ora sono ai piedi di qualcuno che ne aveva un grande bisogno.

Daniele Biella

Archivio MC




La vita sospesa di Fukushima

testo di Piergiorgio Pescali |


Oltre alle radiazioni scaturite dall’incidente nucleare del 2011, la popolazione e il territorio di Fukushima hanno dovuto sopportare alte dosi di disinformazione. Anche per questo la rinascita è difficile.

Quest’anno il Giappone ricorda il decimo anniversario di tre eventi che hanno condizionato la politica e l’assetto sociale dell’intera nazione. Alle 14.46 dell’11 marzo 2011, un terremoto di magnitudo 9.0 sconvolse le regioni orientali affacciate sull’Oceano Pacifico. Una cinquantina di minuti dopo, una serie di ondate alte tra i tre e i quattordici metri, raggiunse le coste del Tohoku penetrando per diversi chilometri nell’entroterra, e devastando ciò che il sisma non era riuscito a distruggere. Le vittime furono ventimila, il 92% delle quali causate dallo tsunami.

Le due centrali nucleari di Fukushima gestite dalla Tepco (Tokyo electric power company), la più grande compagnia elettrica della nazione, furono inondate dalla marea che invase le stanze dove erano collocati i generatori di emergenza.  Senza elettricità, le pompe non riuscirono a immettere l’acqua di raffreddamento nei reattori i quali iniziarono a surriscaldarsi. La situazione fu riportata sotto controllo a Fukushima Daini (Fukushima 2), ma a Fukushima Daiichi (Fukushima 1) tre dei sei reattori subirono una parziale fusione del nocciolo liberando radioisotopi, in particolare xeno-133, iodio-131, cesio-134, cesio-137, tellurio-132, stronzio-90 che si sparsero nell’ambiente.

I venti trasportarono tra il 70 e l’80% della radioattività sulle acque dell’oceano antistanti la centrale, mentre il restante 20-30% si depositò su una lingua di terra che si incuneò per circa quaranta chilometri nell’entroterra.

Un accumulo di sacchi contenenti terreno contaminato dalle radiazioni della centrale di Fukushima. Foto Piergiorgio Pescali.

Troppe falsità

Migliaia fra artigiani, agricoltori, pescatori rimasero senza lavoro e l’agricoltura della zona, settima tra le prefetture del Giappone in termini di produzione totale, ma seconda per prodotti biologici, si afflosciò.

Il riso e le pesche «made in Fukushima», un tempo vanto della provincia e famosi in tutto l’arcipelago, rimasero a marcire nei campi. Sebbene la radioattività controllata per ogni lotto di raccolto, dopo il primo anno di picco, fosse scesa sotto i livelli di guardia, i consumatori erano oramai sfiduciati, da una parte dalle troppe bugie e verità nascoste del governo e della dirigenza Tepco, dall’altra dalle campagne antinucleari e ambientaliste di alcune associazioni che lanciavano allarmi preoccupanti sullo stato della radioattività. C’era chi, inventando dati e interviste, descriveva una Tokyo deserta e terrorizzata, e chi preconizzava un Giappone per la maggior parte inabitabile, dove l’intera popolazione dell’arcipelago sarebbe stata costretta a trasferirsi nelle poche aree salvatesi dalla nube radioattiva.

Dalla parte opposta, le organizzazioni pro-nucleare e la Tepco, guidate dal governo di Naoto Kan, l’allora primo ministro giapponese del Partito democratico, cercavano di minimizzare i pericoli, assicurando che la popolazione non correva alcun rischio, e che la situazione era sotto controllo. Chi aveva ipotizzato il pericolo di fusione dei reattori (come realmente accadde) venne immediatamente destituito.

In questa guerra sull’informazione, nessuno dei due eserciti aveva la piena ragione dalla sua parte e, come spesso accade nei conflitti, la popolazione civile fu quella che subì le maggiori conseguenze.

Le divergenze non si limitavano a mettere a confronto chi era pro o contro il nucleare, ma si trasmettevano trasversalmente tra chi vedeva messo in pericolo il proprio lavoro di una vita e chi soffiava sul fuoco per meri interessi economici o ideologici. Agricoltori che avevano lottato in tempi non sospetti contro la presenza delle centrali atomiche, si trovarono all’improvviso a contestare gli stessi movimenti antinucleari che propagandavano la propria azione pubblicando rapporti allarmistici, raffazzonati e zeppi di dati privi di fondamento scientifico, illustrati con fotografie falsificate. In questo scenario surreale, Fukushima tentava di rimettersi in piedi.

Oggi, a distanza di dieci anni, si può dire che vi sia riuscita, almeno in parte.

La difficile rinascita

Dal 2014 le zone interdette alla popolazione sono state ristrette sempre più, ed oggi l’area di evacuazione totale si è ridotta a 337 km2 rispetto ai 1.653 km2 del 23 aprile 2011. Al contempo, la popolazione evacuata è scesa da 165mila (maggio 2012) a 37mila (novembre 2020). Le ultime zone riaperte, alla fine del 2020, sono quelle di Futaba, Tamioka e Okuma, tra le più colpite in quei tragici giorni del marzo di dieci anni fa.

Nonostante circa un milione di cittadini e 443mila imprese abbiano ottenuto o stiano ottenendo rimborsi per un totale equivalente a 76 miliardi di euro, le difficoltà a cui vittime e residenti devono far fronte sono ancora evidenti.

E sono problemi che non possono essere risolti con alcun tipo di indennizzo economico.

Anni e anni di sradicamento dalle proprie comunità, dalla terra natia, di convivenza con estranei in case di fortuna che impedivano una pur minima privacy, la consapevolezza di non potere più lavorare come prima, l’emigrazione verso altre prefetture con la conseguente frammentazione delle famiglie, hanno trasformato Fukushima in un baratro psicologico per molte delle vittime.

Un terremoto, uno tsunami, per quanto devastanti e terribili possano risultare, lasciano la speranza della ricostruzione. Al contrario, le invisibili particelle radioattive sprigionatesi da una centrale nucleare, spazzano anche questa eventualità. Non basta più solo ricostruire. Bisogna rivoltare il terreno, raschiare centinaia di chilometri quadrati di superficie, ripulire il suolo, filtrarlo, ridistribuirlo. E il sale marino, che ha impregnato i campi, li ha inariditi diminuendo la fertilità, sconvolgendo l’equilibrio chimico che rendeva così preziosi e unici i raccolti.

Radiazioni e tumori

Gli studi dell’Unscear – United Nations scientific committee on the effects of atomic radiation – confermati anche da altre ricerche scientifiche, affermano che la dose effettiva di radiazioni assorbita dalla popolazione che viveva nelle zone contaminate durante l’incidente è stata inferiore a 10 mSv (millisievert; il «sievert» misura gli effetti provocati dalla radiazione su un organismo), una quantità paragonabile alla dose radioattiva naturale annua assorbita in media dai giapponesi.

Tra i tipi di cancro sensibili alle radiazioni, solo quello riconducibile alla tiroide, causato dallo iodio-131, può essere imputabile con relativa certezza a Fukushima. Per tutte le altre insorgenze tumorali non possono essere tratte conclusioni certe sulla correlazione con le radiazioni rilasciate. Questa forte ambiguità causale aggiunge un altro elemento di scontro scientifico nell’ambito medico riguardante gli incidenti nucleari.

Nel giugno 2011 è iniziato un programma di monitoraggio sanitario trentennale a cui partecipano più di due milioni di cittadini giapponesi, 360mila dei quali di età inferiore a 18 anni. L’obiettivo è quello di monitorare l’andamento dei tumori tiroidali. Nel marzo 2020 la prestigiosa rivista Nature ha pubblicato i primi risultati della ricerca stabilendo la bassa incidenza dei casi di cancro alla tiroide a Fukushima correlati al contenuto di iodio-131 nel suolo e nell’aria.

È comunque difficile convivere con l’incertezza di cosa riserverà il domani: le radiazioni possono manifestare i loro effetti anche a distanza di anni e questa «vita sospesa» influisce pesantemente nei rapporti interpersonali, sia in famiglia che in società.

Specialisti misurano le radiazioni attorno alla centrale di Fukushima. Foto Susanna Lööf / IAEA Imagebank.

Dalla terra al mare

Non sono solo gli agricoltori e gli artigiani a soffrire per l’incidente di Fukushima. I pescatori delle coste limitrofe alla centrale hanno subito perdite e devastazioni altrettanto pesanti. Il Grande terremoto del Giappone orientale e il successivo tsunami hanno danneggiato circa 29mila pescherecci, circa il 10% della flotta totale giapponese, e 319 porti. Nella sola prefettura di Fukushima sono state 873 le imbarcazioni danneggiate.

A causa dei venti, la maggior parte delle radiazioni fuoriuscite dalle Unità 1, 2, 3, 4 di Fukushima Daiichi sono state sospinte sull’oceano portando la Fukushima fisheries cooperative association a vietare la pesca nelle acque antistanti la centrale tra il marzo 2011 e il giugno 2012. Successivamente le attività sono state gradualmente riaperte, ma ancora oggi il pescato totale è il 10% di quello antecedente il disastro nucleare.

Anche in questo caso, come avviene per i prodotti agricoli e pastorizi, tutta la merce è analizzata per misurare la quantità di radionuclidi contenuta. La fetta di mercato nazionale (pari all’1% del totale) che occupavano i pescatori della prefettura prima dell’incidente nucleare è stata riempita da altre comunità e sarà difficile che possa essere riconsegnata alle cooperative di Fukushima. Per sopravvivere ci si è affidati al senso di comunità: come è successo tra i piccoli coltivatori, anche i pescatori hanno potuto contare sulla solidarietà dei concittadini che nei periodi più critici hanno acquistato i prodotti invenduti permettendo una difficile sopravvivenza.

Esperti raccolgono campioni d’acqua nelle acque di mare antistanti la centrale nucleare. Foto NRA / IAEA Imagebank.

Lo sversamento delle acque

Ora però un altro pericolo si sta profilando all’orizzonte. Un pericolo più concettuale che reale: l’annunciato sversamento delle acque di contenimento radioattivo nell’oceano. Per evitare che il «corium» (la massa altamente radioattiva di combustibile nucleare fusa durante l’incidente ed oggi solidificatasi) liberi radioisotopi nell’aria, viene insufflata acqua nei reattori 1, 2 e 3. Successivamente, questa acqua è filtrata e depurata da tutti i radioisotopi tranne per il trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno difficile e costoso da eliminare. Ad oggi circa 1,24 milioni di tonnellate di acque sono immagazzinate in 1.061 serbatoi e ogni giorno se ne aggiungono 160 tonnellate. L’Iaea (International atomic energy agency) prevede che la capacità di stoccaggio si esaurirà nel 2022, ed entro tale data bisognerà decidere come smaltire se non tutta, almeno parte dell’acqua. Già nel 2013, dopo che le prove per eliminare il trizio erano fallite, il governo aveva avvisato che, tra le opzioni considerate, quella dello scarico in mare era la più probabile compatibilmente con la sicurezza ecologica e l’economicità dell’operazione. Nel 2020 la decisione finale è stata accolta con preoccupazione non solo dalle associazioni ambientaliste, che hanno riproposto la visione apocalittica di un oceano Pacifico radioattivo e privo di vita, ma anche dai pescatori locali, preoccupati più per l’impatto negativo di tanto clamore sui consumatori che per l’effettivo inquinamento provocato dal trizio.

Il rilascio programmato delle acque ha una tempistica che durerà tra i sette e i trentatré anni (la durata dipende dal limite di radioattività massimo che si vuole raggiungere e dall’anno in cui si inizierà a sversare l’acqua) e comunque è stata scaglionata in modo da non superare mai il limite imposto dalla legge giapponese. Tenendo conto che la contaminazione da trizio nelle acque da versare in mare è di circa 1 PBq (da 0,5 MBq/l a 4 MBq/l)  e che nei complessivi 1,3 milioni di metri cubi di acqua da scaricare sono presenti in totale circa tre grammi di trizio, è stato calcolato che, se l’intera quantità di acqua oggi presente nei serbatoi venisse scaricata nel giro di un solo anno, l’impatto nelle acque marine sarebbe di 0,00081 mSv/anno. Ben poco se paragonati ai 360 TBq/anno di trizio rilasciato tra il 2008 e il 2011 dalle sole centrali giapponesi o alla quantità di trizio scaricata nelle acque marine da altri impianti nucleari sparsi per il mondo.

Il futuro del nucleare in Giappone

Il disastro di Fukushima accese il dibattito sul futuro energetico del Giappone. L’autosufficienza energetica nazionale, che nel 2010 era pari al 20,3% di cui la quasi totalità proveniente dal settore nucleare, nel 2013, dopo la chiusura dei reattori, era scesa al 6,6% per risalire al 9,6% nel 2017 a causa della parziale ripresa dell’attività atomica e dell’aumento dell’utilizzo delle fonti rinnovabili, potenziate dai forti incentivi concessi dal governo e dal sensibile miglioramento delle tecnologie dedicate a questo campo di sviluppo.

Già alla fine del 2012, quando Shinzo Abe succedette a Yoshihiko Noda alla guida del governo del Giappone, fu chiaro che il nucleare avrebbe avuto ancora un futuro nella politica energetica giapponese. Un futuro incerto e di transizione, in linea con il modello descritto dall’Ipcc (International panel on climate change), ma che lasciava spazio all’energia atomica almeno fino al 2050 secondo i piani del primo ministro per ottemperare anche agli obiettivi di riduzione dell’80% delle emissioni di CO2 che la nazione si è proposta di raggiungere entro quella data.

All’inizio del 2021, secondo l’Iaea, in Giappone sono di nuovo operativi trentatré reattori nucleari che generano una capacità totale di 31.679 MWe pari al 7,5% dell’energia totale prodotta nella nazione. Due reattori, che aggiungeranno un totale di altri 2.653 MWe, sono in fase di costruzione, mentre sono stati chiusi definitivamente ventisette reattori.

La disastrosa condotta dei governi che hanno gestito l’incidente nucleare di Fukushima (in particolare quello di Naoto Kan), si ripercuote ancora pesantemente nell’opinione pubblica giapponese: solo l’1,9% dà credito al governo e ancora meno (1,2%) all’industria nucleare. Il motivo è da ricercarsi nella reticenza da parte di queste due entità nazionali (governo e industria) nel dare notizie veritiere alla popolazione, nell’insufficiente preparazione del personale, nella condotta della dirigenza delle compagnie energetiche e nelle numerose bugie rilasciate sia dagli apparati governativi che dai vari protagonisti privati sul pericolo radioattivo e sul modo con cui è stata gestita l’emergenza.

Nel 2019 un grosso scandalo che ha coinvolto la Kansai electric power company (Kepco), membri della prefettura di Fukui, del Partito liberaldemocratico e dello stesso ex sindaco di Takahama, ha sconvolto, se mai ce ne fosse stato bisogno, ancora una volta l’industria nucleare nipponica.

Lo scandalo ha riportato alla ribalta i loschi interessi del «villaggio nucleare» nazionale, un problema già più volte sollevato da numerosi gruppi antinucleari e che viene spesso associato alla mancanza di controlli adeguati nel campo della sicurezza all’interno delle centrali.

Proprio questo sistema perverso e pericoloso avrebbe dovuto mettere in guardia i vari dicasteri preposti alla sorveglianza nucleare, cosa che in Giappone non è avvenuta ed è uno dei motivi per cui oggi molti cittadini si sentono defraudati della propria sicurezza.

È anche per questo che i giapponesi faranno fatica ad accettare un ritorno al nucleare che sembra oramai già deciso

Piergiorgio Pescali

Archivio MC

● Piergiorgio Pescali, Atomi di pace, atomi di guerra, dossier, agosto-settembre 2018;
● Piergiorgio Pescali-Mirco Elena-Tiziano Tosolini, Giappone. Viaggio nel disastro nucleare, dossier, dicembre 2015.

Esperti della IAEA in visita alla centrale di Fukushima. Foto Greg Webb / IAEA Imagebank. 




Madagascar: Un paradiso (quasi) naturale

testo di Marco Bello |


La quarta più grande isola del pianeta è terra di una natura unica e splendida. Vi abita un popolo ospitale. Ma alcuni mali comuni la affliggono: corruzione, degrado ambientale, trafficanti di animali. Ne abbiamo parlato con la società civile.

«Questo momento è critico, ma da sempre la situazione del paese è difficile sotto tanti punti di vista: morale, sociale, economico. Per cause diverse, non sempre i governanti, pure con buona volontà, sono stati all’altezza di dirigere un paese non semplice». Chi parla è monsignor Rosario Vella, vescovo di Moramanga, nel Centro Est del paese (vedi box sotto).

Da novembre, sulla Grande isola i prezzi degli alimenti di base sono aumentati in modo vertiginoso. Quello del riso – cibo più importante della popolazione – è raddoppiato, ma anche olio e zucchero hanno visto grossi incrementi, tanto che molte famiglie hanno ridotto i beni acquistati, e quindi la quantità di cibo mangiato nel quotidiano.

Photo by Mamyrael / AFP

Ancora una crisi

Una parte della crisi è imputabile alla pandemia da coronavirus, che però, fortunatamente, qui ha colpito poco.

A causa della pandemia, il presidente Andry Rajoelina ha imposto in primavera un mese di blocco, durante il quale era proibito entrare e uscire dalle città, i trasporti non funzionavano, le frontiere sono state chiuse.

«Soprattutto la chiusura delle frontiere ha avuto un impatto sull’economia. Sapendo che l’ingresso di valuta dipende dal commercio verso l’estero, ma non abbiamo potuto esportare – ci racconta Tsimihipa Andriamazarivo, coordinatore della Ong Tolotsoa -. Inoltre il blocco totale del turismo, è stato penalizzante per tutto il comparto. Abbiamo avuto una forte svalutazione della moneta nazionale e quindi un deterioramento del tessuto economico. Nel paese i trasporti sono stati interrotti, e il commercio interno bloccato. La popolazione non ha potuto generare un reddito in modo normale. L’azione principale del governo è stata la distribuzione di viveri e altri aiuti sociali, ma non ha potuto impedire la crisi».

Va ricordato che il Madagascar è esportatore di pregiati generi alimentari, come le spezie. Continua l’attivista: «C’è stata la campagna agricola della vaniglia, ma i prezzi erano molto bassi. Adesso c’è la campagna della litchi (o ciliegia cinese, piccolo frutto dolce, molto consumato in Francia, ndr), ma il problema è lo stesso. La pandemia è durata troppo, e gli esportatori hanno comprato al ribasso». E, fatto grave, sottolinea Tsimihipa, non si vede un’azione governativa: «Il parlamento è in sessione per la legge di bilancio del 2021, ma nella bozza non appaiono misure di appoggio al settore privato e per la creazione di impiego. Non ci sono interventi per la ripresa economica. Molte imprese e attività commerciali hanno chiuso o hanno ridotto il personale per riuscire a sopravvivere. La situazione è critica a livello privato, e c’è attesa per un’azione governativa che non si concentri sulla raccolta delle imposte, ma piuttosto su misure di appoggio al tessuto economico, per la situazione post covid». Tsimihipa si chiede ad esempio come ripartire con il turismo, che in tempi pre covid era stimato a circa il 6,1% del Pil e si è praticamente azzerato. «Sviluppare turismo interno? Avevamo come obiettivo 500mila turisti annuali. Non è stato fatto questo piano strategico».

«Siamo in attesa del Quadro di concertazione e dialogo che è previsto dal Piano multisettoriale d’urgenza (Pmdu) elaborato dal governo in giugno. È previsto un decreto che nomini il comitato di pilotaggio del piano, dove ci sarebbero rappresentanti del settore privato, società civile, collettività locali, ma ancora non è stato fatto. Piuttosto si sta facendo la legge di bilancio senza tenere in conto il post covid».

© Af AVG

Corruzione

L’Ong Tolotsoa, nata nel 2010, si occupava inizialmente di questioni legate all’iscrizione allo stato civile dei bambini in difficoltà. «In queste attività ci siamo imbattuti in molti casi di corruzione, e abbiamo scoperto come il fenomeno fosse diffuso. Abbiamo dunque deciso di riorientare le nostre attività, impegnandoci nella lotta alla corruzione e nella promozione della buona governance del paese, nell’educazione civica e alla cittadinanza, e nella responsabilizzazione dei giovani. Tutto questo lo facciamo attraverso progetti». Nel 2014 Tolotsoa ha realizzato un sito internet, sul quale qualunque cittadino può denunciare casi di corruzione, piccoli o grandi, che gli sono capitati nel servizio pubblico. «Uno degli effetti è stato quello di avere dei dati, una statistica globale sugli atti di corruzione, i numeri, la posta in gioco e i servizi più toccati. Questi ultimi sono risultati la giustizia, le forze dell’ordine e il parlamento. Tutto questo è stato utile per orientare la lotta anticorruzione. I nostri dati sono inoltre stati confermati da uno studio dell’Ong Transparency International». Con questo progetto Tolotsoa ha vinto un premio internazionale sulla trasparenza, che l’ha incoraggiata ad andare avanti. «Un altro settore nel quale abbiamo iniziato a impegnarci è la valutazione delle politiche pubbliche, con un progetto che realizza un osservatorio cittadino delle attività parlamentari».

Il progetto si chiama balaky.org, ancora una volta un sito, che vuole essere uno strumento che aiuta ad avvicinare la gente a questa istituzione: «Fare in modo che i cittadini siano in grado di dibattere sulle questioni importanti, che ci sia più prossimità con le decisioni prese nelle due camere. Con l’obbiettivo di collegare i rappresentanti ai cittadini, per ottenere più efficacia, ma anche per far passare il messaggio che stiamo monitorando il parlamento. Con questo speriamo che si riduca il rischio di scandali, come quelli di corruzione avvenuti nella passata legislatura. Scandali che hanno creato una disaffezione del popolo all’istituzione».

© Af AVG

Ambiente: si salvi chi può

Il Madagascar è un santuario della biodiversità unico al mondo, ma il degrado ambientale e lo sfruttamento delle sue risorse naturali lo hanno reso il quinto paese più vulnerabile ai cambiamenti climatici. «Abbiamo più di 8 milioni di ettari di foreste naturali, ma negli anni ’50-’60 ne avevamo il doppio. Tutto è scomparso con un ritmo di 100mila ettari di foresta all’anno». È l’attivista ambientale Ndranto Razakamanarina che ci parla. Mette l’accento sulle organizzazioni criminali dietro le quali c’è il taglio e l’esportazione di legname pregiato, e su quelle che catturano e «trafficano» animali protetti. Organizzazioni spesso colluse con la politica.

«Un motivo è la povertà diffusa – ci spiega l’attivista -, perché spesso il degrado delle risorse naturali è opera della gente vulnerabile, assoldata dai trafficanti di legno pregiato e di animali protetti, i cui responsabili non sono mai arrestati. Tra loro c’è gente di potere. Tutti quelli che sono passati ne hanno approfittato».

Il Madagascar è anche molto ricco di risorse minerali, ci ricorda Ndranto, e pure su questo c’è «un grande furto, che sia l’oro o le pietre preziose, non sono sfruttate per il bene del paese ma per il profitto di pochi».

Ndranto ha una lunga esperienza. Ingegnere forestale, dopo aver lavorato molti anni con Ong internazionali, ha fondato una rete di associazioni ambientaliste: «Nel 2009 ho creato Alliance voahary gasy (ovvero alleanza natura malgascia, Avg), una piattaforma di 30 associazioni e Ong che si battono per l’ambiente». Sono tutte entità malgasce, ci tiene a precisare: «Alcune organizzazioni internazionali volevano entrare, ma queste hanno sempre la preoccupazione di essere espulse se denunciano il governo, pur avendo dati verificabili in mano. A noi nazionali al massimo rischiamo l’arresto», e scoppia in una fragorosa risata.

«La nostra prima azione è stata nel 2009, quando il governo uscente aveva fatto un decreto per l’esportazione di legno di rosa (palissandro) soprattutto in Cina. Al loro arrivo, i golpisti (si veda box, ndr) hanno fatto pure loro un decreto simile, sempre illecito. Abbiamo denunciato tutto al tribunale del Consiglio di stato, ma quando c’è un governo golpista, tutte le istituzioni gli appartengono, quindi non abbiamo vinto».

«Lavoriamo per una giustizia ambientale: da un lato per il rispetto delle leggi, e dall’altro per la giustizia per le comunità svantaggiate che hanno scelto di proteggere l’ambiente.

Le nostre azioni hanno lo scopo di rafforzare le capacità della società civile e la messa in rete delle associazioni. Lavoriamo molto sulla comunicazione, e per fare denuncia e pressioni su chi governa».

© Andry Nantenaina / Puremotion Mg

Un ciclo perverso

© TI-IM

Il degrado ambientale coinvolge la popolazione in un ciclo perverso: «Attualmente si assiste a una riduzione delle sorgenti d’acqua, che porta la siccità. Quando la pioggia arriva, non c’è più ritenzione d’acqua, perché non ci sono le foreste, e si verificano le inondazioni. Tutti gli anni il Sud del paese è vittima della siccità, e c’è la carestia (come in questo momento, ndr). Così la gente è obbligata a migrare verso il Nord e l’Ovest. Qui sono utilizzati da altri per tagliare le foreste, trasformarle in coltivazioni di mais e recuperare il legno prezioso, o fare carbone. E la desertificazione si perpetua altrove».

Un osservatore speciale

Sulle problematiche ambientali, ma non solo, è molto attiva la chiesa cattolica malgascia. Ci spiega padre Attilio Mombelli, vincenziano di Como, da 51 anni missionario in Madagascar: «In cinquant’anni ho visto la foresta scomparire completamente. Uno dei problemi è che la gente dà fuoco per “liberare” le terre. La Conferenza episcopale ha iniziato alcuni anni fa un programma per creare diocesi “verdi”. Tutte le associazioni cattoliche, le Caritas, le parrocchie, sono state chiamate a piantare alberi e poi a prendersene cura per alcuni anni, finché la pianta non sia abbastanza robusta». Il sacerdote, attualmente basato a Ihosy (dove la carestia di questi mesi morde più forte) ci dice inoltre che le Caritas diocesane sono impegnate sul fronte dei diritti umani e dell’educazione.

Uno strumento molto utilizzato sono le radio diocesane. «La capostipite è Radio don Bosco della capitale, ma oggi se ne trova una in ogni diocesi, tranne due. Trasmettiamo i giornali radio, poi le informazioni locali, facciamo formazione, parliamo di ambiente, scuola, lingua, salute ed educazione civica, come anche di lotta alla corruzione e di preparazione alle elezioni». Padre Attilio è stato per 20 anni direttore della Radio Avec di Ihosy.

Gli chiediamo a che punto, secondo lui, osservatore esterno ma non troppo, è la democrazia in Madagascar.

«In Madagascar la democrazia la si vende a buon mercato, però non esiste. Possiamo dire che qui ha un senso diverso. Esiste un’organizzazione ancestrale, tradizionale, dove ci sono i re, mpanjaka (sulla costa est), che dirigono la società, un sistema al di fuori e al di sopra di quello che può essere il governo, l’amministrazione all’occidentale. È quello che tiene in piedi la struttura sociale malgascia. Con l’indipendenza è venuta la democrazia, e siccome cambia ogni volta che c’è un presidente nuovo, di fatto, la democrazia non è mai esistita. Il presidente fa quello che vuole e poi sovente esagera e viene mandato via. Io ho assistito ad almeno quattro rivoluzioni dal ‘72 in avanti.

Il sistema dei capi villaggio è molto forte. Sono persone che hanno un’autorità che viene dalla famiglia o dalla tribù. Democrazia è una parola che non è vissuta e non entra nella mente dei malgasci».

Marco Bello


Cronologia essenziale

Nella terra dei lemuri

1886, agosto. Il Madagascar è attaccato da navi da guerra francesi (1883). La regina Ranavalona III si rifiuta di abdicare, ma viene mandata in esilio ad Algeri. L’isola è ufficialmente colonia della Francia.

1960. Indipendenza dalla Francia, che tuttavia rimane molto presente. Philibert Tsiranana è il primo presidente della repubblica. Costretto a dimettersi nel 1972 dai militari.

1975. Didier Ratsiraka, ex militare, già ministro degli Esteri, diventa capo di stato. Attua riforme di tipo socialista.

1991. Accordo tra forze politiche su terza repubblica, ma Ratsiraka non vuole lasciare il potere. Disordini e blocco della capitale.

1993. Elezioni, viene eletto il professor Albert Zafy, dell’opposizione. Sarà costretto a dimettersi per accuse di abuso di potere e rapporti con i trafficanti di legname e animali.

1997. Ratsiraka si ricandida e vince le elezioni.

2002. Alle elezioni vince Marc Ravalomanana, imprenditore dello yogurt. Ratsiraka non accetta il risultato e si asserraglia nella città costiera di Toamasina. Marc è riconosciuto a livello internazionale.

2006. Marc Ravalomanana è rieletto, ma c’è malcontento. Andry Rajoelina, 34 anni, sindaco della capitale, cavalca la protesta.

2009, 24 gennaio. Durante uno sciopero generale e successive manifestazioni, la polizia spara sulla folla. I morti ufficiali sono 88. Nel febbraio Andry chiede le dimissioni del presidente, ci sono altri scontri e 30 morti. Si inseriscono i militari.

2009, 17 marzo. Il presidente rimette il suo mandato nelle mani di un direttorio militare. Questo nomina Andry presidente di transizione.

2009, agosto. Ciclo di negoziati a Maputo (Mozambico) per risolvere la crisi. Partecipano i quattro presidenti. Trovato un accordo, che però non sarà rispettato da Andry.

2011, settembre. Andry firma una road map per uscire dalla crisi e a novembre si forma un governo di unità nazionale con gruppi dell’opposizione.

2013, dicembre. Hery Rajaonarimampianina vince le elezioni.
I deputati tentano di destituirlo nel 2015 ma la Corte costituzionale rifiuta.

2015, dicembre. Elezioni senatoriali a sei anni dalla dissoluzione del senato per il golpe.

2018, dicembre. Andry Rajoelina vince di nuovo le elezioni e diventa presidente.

Ma.Bel.

 


Incontro con monsignor Rosario Vella

Religioni sorelle, chiese amiche

Monsignor Rosario Vella è salesiano, originario di Canicattì (Agrigento). Missionario in Madagascar dal 1981, dal 2007 al 2019 è stato vescovo di Ambanja (Nord Ovest). Dal luglio 2019 è vescovo di Moramanga (Centro Est).

Mons. Vella, ci parli della chiesa in Madagascar.

© AfMC

«La presenza della chiesa cattolica si può dividere in due zone: gli altipiani centrali, dove si arriva al 40% di cattolici, e le coste, dove siamo il 5-10%. Le statistiche nazionali parlano del 25%. Quindi la chiesa cattolica è minoranza, ma ha una valenza molto forte nella società. Da sempre è stata molto ben accettata dalla gente, perché la missione in Madagascar, è stata concepita come buona novella del Vangelo, ma anche per migliorare la vita concreta delle persone. La chiesa è stata sempre molto attiva nei diversi campi: la sanità, costruendo dispensari, l’educazione, le scuole cattoliche hanno i migliori risultati e avvicinano tante persone. Chi frequenta non sono solo i cattolici, anzi. Nelle zone dove sono stato io, i cattolici erano al massimo il 15% degli alunni. Gli altri erano di religione tradizionale, protestanti e musulmani.

Inoltre la chiesa ha fatto strade, appoggiato attività agricole, animazione dei villaggi. I sacerdoti fanno tanto nel territorio in cui lavorano. È una chiesa missionaria proprio come la vuole Francesco, ovvero di pastori che hanno l’odore delle pecore addosso e si inseriscono nel tessuto umano della società, da una parte in modo semplice ma dall’altra molto efficace».

Che relazioni ci sono con le altre religioni?

«Il popolo malgascio accetta tante cose, ha una mentalità che vuole essere solidale con tutti. Questo è un grandissimo aiuto di fondo. Non c’è quasi nessun problema tra i fedeli delle varie religioni, tra cristiani e con gli islamici.

La religione tradizionale vive l’armonia con Dio, con il creato e con le persone. Sono valori radicati nell’animo della gente, e sono anche valori cristiani. L’unione con Dio creatore. Noi lo chiamiamo il Dio di Gesù, anche per loro è un Dio creatore. L’armonia con la natura è la stessa che viviamo noi. L’armonia con la gente corrisponde all’amore per il prossimo. Sono cose che legano le religioni tradizionali e la religione cattolica. Noi ci troviamo bene con tutti, quando c’è una festa siamo accolti. Quando vado in un villaggio, a celebrare, all’accoglienza ci sono tutti. Quando andiamo in chiesa, sono in molti, di altre religioni, a partecipare alla messa, alle conferenze, alla catechesi, agli incontri. Proprio perché c’è questa unità, che è una cosa molto bella».

E la chiesa locale?

«Le vocazioni in Madagascar sono tante, dal punto di vista maschile e anche femminile. Le suore hanno un grande sviluppo e vocazioni solide. Abbiamo tante suore giovani, con molto entusiasmo, ma anche saggezza, ardore, nel mettere in pratica l’evangelizzazione con tutti gli aspetti sociali.

Le diocesi del centro, degli altipiani, sono già solide e hanno tanti sacerdoti. Quelle delle coste, essendo i cristiani pochi, sono più deboli e c’è bisogno di un grande sostegno e di tanti missionari. Non è solo una questione di quantità, ma anche di essere una chiesa universale. In una diocesi ci sono malgasci e missionari di tante nazionalità diverse che arrivano da Francia, Italia, Polonia, Spagna, altri paesi europei, ma anche dall’America Latina e iniziano a venire anche dall’Africa. Una varietà che crea uno scambio di esperienze e dà testimonianza che l’essere insieme, in Gesù, è possibile.

Inoltre i seminari sono pieni, e anche le chiese. Questo ci fa dire che la chiesa qui è molto viva e vivace. Durante il periodo della pandemia, la gente voleva pregare. Lo stato ha cercato di bloccare o ridurre, ma poi era impossibile mettere delle barriere».

Marco Bello

 La prima puntata sul Madagascar è stata pubblicata sul numero di  MC giugno 2020.

 




Niger: Sulle tracce di Boko Haram

testo e foto di Luca Salvatore Pistone |


L’estremo Est del paese, vicino al lago Ciad, vive da anni un’emergenza umanitaria. Qui i jihadisti di Boko Haram fanno incursioni dalla vicina Nigeria. Molti villaggi sono stati distrutti e la gente vive nei campi di sfollati.

Mussa si asciuga il sudore con uno straccio. «Mia cugina Jamilah è uscita di notte dalla tenda e non è più tornata. Sono passati tre giorni, è finita nelle mani dei Bons hommes». Al suono delle parole Bons hommes, la platea di bambini che si è radunata alle nostre spalle comincia a urlare a squarciagola una canzone il cui ritornello fa: «Bons hommes non osate venire qui, i piccoli di Assaga Niger e Assaga Nigeria vi prenderanno a pugni». C’è chi la canta in lingua haussa, chi in kanourì e chi in peul.

«Bravi uomini»: è così che i bambini del campo per profughi e sfollati di Assaga chiamano i membri di Boko Haram (locuzione haussa il cui significato è «l’istruzione occidentale è proibita», cfr. MC ottobre 2016), il gruppo terroristico nigeriano che si fa chiamare anche Stato islamico dell’Africa Occidentale, confermando l’affiliazione ai ben più potenti e mediatizzati cugini dello Stato islamico.

Per fare esorcizzare loro il mostro, le Ong attive nel campo li hanno muniti di fogli e pennarelli sui quali sono ritratti omoni grandi e grossi con fucili e machete, donne kamikaze con lunghe vesti che coprono l’esplosivo, taniche di benzina per dare fuoco a chiese, scuole e mercati e una marea di cadaveri.

Terra di confine

Il campo profughi di Assaga si trova a una ventina di chilometri da Diffa, una poverissima città del Sud Est del Niger, al confine con la Nigeria. Ho scelto Diffa come base per muovermi nella regione martoriata dai Bons hommes. È il terzo giorno consecutivo che vengo al campo, che tra sfollati nigerini e profughi nigeriani ospita un numero imprecisato di persone. Sicuramente diverse migliaia.

La tendopoli prende il suo nome da un piccolo villaggio di frontiera raso al suolo dai jihadisti. Si estende per quasi un chilometro ai lati dello stradone asfaltato che conduce all’aeroporto di Diffa. Da una parte c’è Assaga Niger, terra di sfollati nigerini, e dell’altra Assaga Nigeria, dei profughi nigeriani. Una divisione ormai interiorizzata dai locali. Così, quando qualcuno attraversa la strada, magari per acquistare del latte in polvere in una delle bancarelle sorte come funghi, esclama: «Vado all’altra Assaga, torno presto».

Abbandonando il loro villaggio natale, le vittime di Boko Haram speravano di trovare nel campo di Assaga un posto sicuro dove sopravvivere. Ma la realtà è un’altra: l’accampamento viene preso di mira dai miliziani, perché a difesa diretta della struttura non c’è nessuno. Le infiltrazioni, al fine di reclutare nuove forze, sono prassi comune. Spesso all’appello manca qualcuno o perché misteriosamente ucciso o perché rapito. Nel secondo caso le vittime sono soprattutto donne. Mancano servizi igienici e corrente elettrica, e così, di notte, per fare i propri bisogni, occorre allontanarsi ed esporsi a pericoli. Proprio come accaduto a Jamilah, la cugina di Mussa.

«Se non l’hanno sgozzata – è certo Mussa – l’hanno fatta loro schiava». Sul versante nigeriano di Assaga, Mussa ha visto la morte in faccia. «Ci avevano radunati tutti davanti al pozzo. Ci accusavano di essere dei traditori, di avere denunciato la loro presenza alle autorità. Ma non era vero. Hanno imbracciato i fucili e hanno iniziato a spararci contro, all’altezza della testa. Quel giorno sono morte almeno venti persone. Quei Bons hommes erano ragazzi dai quattordici ai vent’anni». Mussa è riuscito a scappare riportando però una profonda ferita sul fianco, frutto di un rapido incontro con la lama del machete di un jihadista.

Nigeriano o terrorista?

Una giovane donna si fa avanti. Si chiama Atikah, è anche lei nigeriana e vuole parlare. «La prima volta che vennero a casa nostra mi chiesero perché mio marito non fosse in moschea. Io risposi loro che non lo sapevo e se ne andarono via. Vennero una seconda volta. Risposi la stessa cosa. Alla terza risero, con un’espressione crudele in volto. Mi presero di forza e mi condussero in moschea. Lì mi fecero trovare mio marito, morto, con la gola tagliata».

Il terrore che la gente prova per Boko Haram si sta mutando in fobia. I rifugiati nigeriani, specialmente i più giovani, sono sospettati di essere terroristi perché provengono dalla loro stessa terra. Zainab, vent’anni, teme di essere diventata vedova: «Mio marito andava al mercato di Diffa per acquistare della frutta da rivendere qui al campo. Alcuni venditori ambulanti avevano iniziato a stuzzicarlo, a dirgli che, in quanto nigeriano, era certamente un terrorista. Poi due settimane fa uno di loro ha chiamato un poliziotto e questo lo ha arrestato e portato via. Da quel giorno non ho più sue notizie».

Diffa ha un solo alleato che tutti chiamano rivière Komadugu Yobé, un fiumiciattolo che nasce dal lago Ciad, si dirama fra piccoli arbusti e sabbia e aumenta sensibilmente la propria portata nella stagione delle piogge. Per circa 150 chilometri costituisce la frontiera fra Nigeria e Niger. Quando cominciano le piogge e il Komadugu Yobé sale, gli attacchi di Boko Haram diminuiscono.

Ma in queste settimane, di pioggia non se ne parla, e i jihadisti sono sempre in agguato, pronti ad attraversare il Komadugu Yobé a piedi e a lanciare rappresaglie di ogni sorta. L’intera regione è tenuta d’occhio dalle spie di Boko Haram che, oltre che per l’efficienza del proprio sistema d’intelligence, spicca per una notevole capacità persuasiva, basata sulla repressione di chi osa tradire la setta.

Lo stato ci prova

L’esercito nigerino di stanza a Diffa è costituito in maggioranza da giovani soldati male equipaggiati, spediti al fronte senza un buon addestramento. La paga mensile di un soldato non arriva ai 100 euro. Poco se si pensa che Boko Haram promette uno stipendio cinque volte maggiore.

Prima dell’arrivo di Boko Haram, il motore dell’economia regionale erano le coltivazioni di pepe. Poi sono cominciati a spuntare fucili e munizioni nascosti nel retro dei camion carichi della spezia, difficili da controllare senza metal detector di cui gli apparati di sicurezza nigerini sono sprovvisti.

Boko Haram riscuote delle tangenti sul passaggio di coloro che transitano nei territori da esso controllati. Per questo il governo di Niamey ha dichiarato a Diffa lo stato d’emergenza, con il divieto di alcune coltivazioni che avvantaggiano Boko Haram (il pepe) o che, impiegando piante a stelo alto, consentono ai terroristi di nascondersi (il mais). Altra misura preventiva è il divieto assoluto dell’utilizzo di motocicli, mezzi prediletti di Boko Haram per gli attacchi rapidi e kamikaze, oltre che diffusissimi a Diffa. Un provvedimento che ha messo definitivamente in ginocchio la già misera economia locale dal momento che quello del mototassista è uno dei lavori più diffusi.

Gocce di cristianesimo

È domenica e mi dirigo alla chiesa evangelica della «Vita abbondante». Insieme a quella cattolica è una delle due uniche comunità cristiane di Diffa: in tutto un centinaio di credenti. A indicarmi Godiya, la cui storia mi è stata raccontata da un suo conoscente, è il guardiano della parrocchia. È bellissima nel suo sfarzoso abito viola. Canta nel coro e in alcuni passaggi fa la prima voce sfoggiando le sue doti canore.

Per poterla avvicinare attendo che la funzione finisca. Trascorrono almeno due ore tra sermoni, musiche e balli che tengono alto il morale dei partecipanti, tutti elegantissimi.

Godiya ha vent’anni, è nigeriana e la sua città natale è Maiduguri, proprio dove nel 2002 nacque Boko Haram. Si è trasferita coi suoi cari a Diffa per fuggire all’assedio jihadista. «La tragedia della mia famiglia avvenne cinque anni fa. Uscii in cortile e vidi mio padre per terra, picchiato da due ragazzi più giovani di me. Cercava di difendersi dai loro pugni e calci. Gli rubarono i soldi e il cellulare. Corsi da mia madre gridando a squarciagola. “Aiuto! Aiuto! Stanno uccidendo papà!”. Mamma si mise a strillare insieme a me, ma quei due ci puntarono contro una pistola. Poi spararono tre colpi a mio padre. Nessuno venne in nostro soccorso». Godiya ha saputo in seguito che quei due giovani erano di Boko Haram. Tuttavia, non ha mai capito se avessero ucciso suo padre in quanto cristiano o perché aveva opposto resistenza durante il furto.

Vittime «collaterali»

È ancora mattino presto quando atterro a Niamey, la capitale. Prendo un taxi e mi faccio lasciare al carcere minorile maschile, in pieno centro. Al suo interno, tra spesse e alte mura di terra battuta, si trovano una cinquantina di ragazzi accusati di far parte di Boko Haram, e da mesi in attesa di giudizio. Il direttore della prigione non vuole correre il rischio di un «contagio» tra i comuni detenuti e così i presunti terroristi, identificati con la sigla Eafga (Bambini associati a forze e gruppi armati), hanno un’ala tutta per loro.

Durante il giorno, complice il caldo asfissiante, i ragazzi se ne stanno tranquilli sdraiati all’ombra. Sporadicamente scatta una rissa, subito soffocata dall’intervento dei secondini. La posta in gioco è troppo alta: chi sgarra non ha diritto all’ora di attività sportiva, ovvero alla partitella di calcio. Quando alle cinque di pomeriggio lo psicologo del penitenziario tira fuori dalla tasca il foglio con la lista dei più meritevoli, nel braccio dei sospetti Boko Haram cala un silenzio di tomba. Tutti si mettono sull’attenti nella speranza di sentire pronunciare il proprio nome.

«A tutti i nostri giovani piace il calcio – dice lo psicologo -. Qui è l’unico sfogo che hanno. Durante la partita abbiamo modo di renderci conto di chi sono i ragazzi con i caratteri più violenti. Una volta individuati, spiego loro che devono cambiare atteggiamento. Non dispongo di prove certe del fatto che ci siano membri di Boko Haram. Sono mesi che attendono il processo e solo Allah sa quando avverrà. La mia opinione? Solo pochi di loro, volenti o nolenti, hanno avuto contatti con i terroristi».

I detenuti selezionati dallo psicologo si mettono in fila indiana per uscire dal recinto in cui mangiano, si lavano e dormono. Appena fuori, un secondino li fa sedere per terra per la conta. A fatica i ragazzi riescono a contenere l’entusiasmo che solo un pallone può dare. E non fa niente che le linee del campo siano fatte con delle pietre e che le porte siano arrugginite e senza reti. Giocare a piedi scalzi non è un problema.

La situazione di questi detenuti, quasi tutti originari di Diffa, è molto delicata. Spesso non sanno neanche perché si trovino qui. La politica della «tolleranza zero» adottata dall’esercito e dalla polizia nigerini si è tramutata in continui arresti arbitrari. «Sono nato e cresciuto in un villaggio vicino a Diffa. I miei genitori sono morti quando ero piccolo, non li ricordo. Facevo l’apprendista saldatore, ma di lavoro non ce n’era, così mi sono messo a vendere biscotti per strada». Hamidou ha quindici anni ed è rinchiuso a Niamey da un paio di mesi. «Una sera al villaggio sono arrivati dei soldati che si sono messi a perquisire tutto e tutti. Indossavo una maglietta di colore verde militare che avevo trovato per strada. Mi hanno picchiato, bendato gli occhi e caricato su un furgone. Dopo alcune ore mi sono ritrovato nella prigione di Diffa. Poi mi hanno portato qua».

Mamadou ha diciassette anni ed è nato nella regione di Borno, nel Nord Est della Nigeria. «Sono stato avvicinato diverse volte dai terroristi, volevano diventassi uno di loro. Un giorno mi dissero che per me avevano in mente una “missione sacra”. Volevano farmi esplodere all’aeroporto di Diffa. Raccontai tutto alla mia famiglia e il giorno dopo scappammo in Niger». In «salvo» a Diffa, però, Mamadou ha commesso un grave errore: rivelare la sua storia ai nuovi vicini di casa. «Hanno spifferato tutto ai poliziotti e quelli mi hanno creduto uno di Boko Haram. Mi hanno arrestato e condotto qui. Nessuno vuole dirmi che fine farò, non ho notizie dei miei genitori. Lo giuro, sono innocente».

Si sta facendo buio e l’orario di visita è terminato. Alcuni ragazzini mi pregano di tornare con notizie fresche su Cristiano Ronaldo e Messi. Rispondo loro che l’indomani dovrò fare ritorno in Italia. Nessuno è sicuro di dove si trovi il nostro paese. «Ma lì si gioca a calcio?», ci chiede uno che indossa la maglia del Milan col numero 8 di Gattuso.

Luca Salvatore Pistone

ARCHIVIOMC
• Marco Bello, Califfato made in Africa, MC 10/2016.
• Marco Bello, Occidente proibito, nell’ambito del dossier Jihad Africana, MC 11/2012.




Palestina. Senza odio né violenza

testo e foto di Operazione Colomba |


Le famiglie palestinesi delle colline a Sud di Hebron sono ancora lì. Nonostante le violenze quotidiane, anche sui bambini, subite da decenni da parte di esercito e coloni israeliani. Resistono, a difesa delle proprie terre e identità. Condividono la loro lotta nonviolenta i volontari di Operazione Colomba.

È il 2004 quando un gruppo di militanti israeliani, i Ta’ayush1, propongono ai volontari di Operazione Colomba di visitare le colline a Sud di Hebron, in Cisgiordania.

Lì, un comitato popolare locale di palestinesi ha richiesto la presenza di attivisti internazionali per monitorare l’accompagnamento a scuola dei bambini. Lungo la strada per arrivare a lezione, infatti, gli studenti palestinesi sono oggetto di violenze da parte dei coloni israeliani insediati nella zona.

Il villaggio di At-Tuwani si trova nell’area conosciuta come Massafer Yattaad. È il più grande della zona, con circa 300 abitanti. Quando vi arrivano, i volontari del Corpo nonviolento di pace dell’associazione Papa Giovanni XXIII hanno già due anni di esperienza di Palestina. Sono stati in Cisgiordania (West Bank), vicino a Ramallah, a sostegno delle comunità palestinesi private delle proprie terre a causa della costruzione del muro di separazione tra Israele e i Territori occupati. Prima ancora sono stati nella Striscia di Gaza, durante la Seconda Intifada nel 2002.

L’unica via per la pace

Operazione Colomba è nata nel 1992, dal desiderio di alcuni volontari e obiettori di coscienza di vivere concretamente la nonviolenza in zone di guerra.

Inizialmente ha operato nell’ex Jugoslavia, e negli anni a seguire ha aperto presenze stabili in diversi scenari di conflitto, dai Balcani all’America Latina, dal Caucaso all’Africa, dal Medio all’estremo Oriente, coinvolgendo oltre 2mila volontari uniti dalla determinazione di sperimentare nella propria vita la nonviolenza, l’unica via per ottenere una pace vera, fondata sulla verità, la giustizia, il perdono e la riconciliazione.

Vivere in Area C

Il villaggio di At-Tuwani si trova in Area C, tra la città di Yatta e la Green line, quello che dovrebbe essere il confine tra Israele e i Territori palestinesi occupati.

Secondo gli accordi di Oslo, la Cisgiordania è divisa in tre Aree denominate A, B, e C. In particolare, l’Area C, che copre circa il 61% dell’intero territorio della Cisgiordania, è sotto il controllo civile e militare di Israele. Questo significa che i palestinesi non possono costruire nulla, se non con un permesso rilasciato dalle autorità israeliane, e che le loro terre possono essere confiscate.

È proprio in merito a questi poteri che nel 1999 la zona a Sud di Yatta è stata dichiarata area di addestramento militare (Firing zone 918) dall’amministrazione israeliana. Tale dichiarazione ha portato al trasferimento forzato di tutti gli abitanti palestinesi viventi nell’area, circa 700 persone di dodici villaggi, che sono stati caricati su camion militari e portati altrove mentre le ruspe distruggevano le tende e le grotte in cui avevano vissuto.

Dopo sei mesi, grazie a un procedimento portato avanti da avvocati israeliani, e in seguito a una decisione dell’alta corte di Giustizia israeliana, i palestinesi sono potuti tornare nei propri villaggi, senza però che vi fosse prima stato un formale smantellamento della zona di addestramento militare, che ancora oggi minaccia la vita degli abitanti.

Oltre all’occupazione militare, è andata crescendo negli anni anche quella civile, con le espansioni degli insediamenti israeliani e la nascita di nuovi avamposti, abitati da coloni nazional religiosi che, per mezzo di attacchi fisici anche molto violenti, impediscono ai palestinesi gli spostamenti e l’accesso alle proprie terre. Gli avamposti, come anche le colonie, sono peraltro considerati illegali, non solo dal diritto internazionale ma perfino dallo stesso ordinamento israeliano.

Resistenza nonviolenta

La scelta più semplice per i palestinesi delle colline a Sud di Hebron avrebbe potuto essere quella di lasciare le proprie terre per vivere una vita più sicura in città, oppure di abbandonarsi alla violenza – come talvolta capita quando non si ha più speranza nella vita -. Invece, questi semplici pastori e contadini, hanno deciso di restare e di lottare per difendere i propri diritti. Alcuni abitanti di At-Tuwani, allora, sotto la guida di uno di loro, Hafez Hureini, si sono uniti in un comitato popolare per trovare assieme il metodo più efficace per resistere alle ingiustizie.

È nata così la loro resistenza popolare nonviolenta.

Si tratta di una forma di lotta dal basso in cui le famiglie e i villaggi si uniscono per difendere una terra che è di tutti, senza ingerenze politiche, valorizzando il ruolo di ognuno, dalle donne, ai bambini, agli anziani.

Quando un terreno è minacciato, è terra di tutti; quando un giovane viene arrestato, è il figlio o il fratello di tutti.

La nonviolenza chiede ogni giorno di non guardare l’oppressore come un nemico, ma come un essere umano che sta sbagliando. Chiede di denunciare con forza l’ingiustizia, senza odiare chi la compie.

Lo scopo non è schiacciare l’altro, ma includerlo nella ricerca di una soluzione condivisa.

L’obiettivo della lotta popolare è il riconoscimento dei palestinesi come esseri umani portatori di diritti umani inalienabili.

Nella pratica, il comitato popolare delle colline a Sud di Hebron, organizza manifestazioni e azioni nonviolente, supporta i contadini e i pastori nell’accesso quotidiano alle loro terre, e promuove numerose iniziative per garantire servizi essenziali come l’acqua potabile, la corrente elettrica, la costruzione di scuole e di cliniche mediche.

Negli anni la resistenza nonviolenta ha raggiunto risultati incredibili: dallo smantellamento del muro nel 2006 che avrebbe distrutto la vita delle comunità, all’approvazione di un piano regolatore che riconosce l’esistenza del villaggio principale dell’area, At-Tuwani. Vittorie importanti, che però non sono sufficienti in una quotidianità di oppressione come quella dell’occupazione militare.

Accompagnare i bambini

In questa realtà, Operazione Colomba si è stabilita ad At-Tuwani, inizialmente con il compito di accompagnare i bambini all’unica scuola presente nell’area. Per raggiungerla, i bambini dei due villaggi di Tuba e Maghayir Al Abeed, ancora oggi, devono percorrere una strada che passa tra la colonia israeliana di Ma’on e l’avamposto di Havat Ma’on.

Dati i frequenti attacchi da parte dei coloni su quella strada, i bambini avevano iniziato a fare un percorso alternativo che li costringeva però a camminare ogni giorno circa 2 ore e mezza, rischiando comunque la violenza degli israeliani.

Nel 2004, durante un accompagnamento di bambini sulla strada più breve, quattro attivisti internazionali sono stati brutalmente attaccati e feriti dai coloni. L’episodio ha ottenuto un’attenzione mediatica così ampia che la commissione per i Diritti dell’infanzia della Knesset (il parlamento israeliano) ha deciso di riconoscere una scorta militare ai bambini che ogni giorno li accompagnasse nel tragitto da casa a scuola.

Dal 2004, Operazione Colomba monitora questo servizio per denunciarne le mancanze e i continui ritardi. Infatti, spesso la scorta militare non si presenta, lasciando i bambini ad aspettare, a volte per ore, in una zona estremamente pericolosa, esponendoli al rischio di essere attaccati. Inoltre questi ritardi portano anche a perdere ore scolastiche, che non vengono recuperate, ledendo ulteriormente il diritto all’istruzione degli alunni.

Qualora la scorta non si presenti, sono gli stessi volontari a ricoprire la sua funzione, accompagnando i bambini e condividendo con loro il rischio degli attacchi da parte dei coloni, che spesso approfittano dell’assenza dell’esercito.

 

Documentare le violenze

Come stile di vita, i volontari di Operazione Colomba hanno scelto la piena condivisione della quotidianità del villaggio, vivendo al suo interno, nello stesso modo in cui vivono i palestinesi.

Tra le attività di cui si occupano, l’accompagnamento dei pastori e delle famiglie sulle loro terre è la più importante. Poiché le terre spesso si trovano vicino a colonie e avamposti israeliani, i volontari documentano con foto e video le loro violazioni e, quando se ne presenta la necessità, s’interpongono tra i palestinesi e i coloni armati.

A questa attività, che occupa la maggior parte della giornata di un volontario, si aggiungono tutte le situazioni classificabili come emergenze. Tra esse, ad esempio, il monitoraggio dei checkpoint mobili, improvvisati lungo la strada dai militari israeliani, troppo spesso luoghi di violenze e umiliazioni nei confronti dei palestinesi; il monitoraggio delle demolizioni di abitazioni o di strutture per animali, strade e tubature per acqua potabile.

I volontari osservano e documentano arresti e violenze perpetrate dalle forze armate israeliane o dai coloni: la documentazione tramite video e fotocamere (spesso condivisa sulla pagina Facebook di Operazione Colomba) è fondamentale per poter denunciare e mettere l’opinione pubblica a conoscenza delle violazioni dei diritti umani che avvengono.

Attivisti israeliani per i palestinesi

Fortunatamente, a supportare la resistenza nonviolenta delle colline a Sud di Hebron, non ci sono solo i volontari internazionali: fin dal 1999 è stata costante la presenza di attivisti israeliani.

La loro azione è basilare sia negli accompagnamenti dei contadini sui loro campi che nelle azioni legali che vengono promosse da avvocati israeliani.

Opporsi alle ingiustizie perpetrate dal proprio paese, dal proprio esercito, non è affatto facile, e ha un costo molto alto: spesso gli attivisti vengono identificati come traditori della patria, sono emarginati e perseguitati. La loro scelta implica molta solitudine e talvolta il carcere, come succede per i giovanissimi che rifiutano il servizio militare per obiezione di coscienza.

 

Nonviolenza ereditaria

Nel corso degli anni, i volontari di Operazione Colomba ad At-Tuwani hanno visto crescere una nuova generazione di giovani che s’impegna e che diviene progressivamente consapevole del valore della resistenza popolare nonviolenta. I frutti di questa trasmissione intergenerazionale si riconoscono nella nascita del presidio di Sarura, e di Youth of Sumud2, un gruppo di azione nonviolenta.

Era il maggio 2017 quando alcuni attivisti israeliani, insieme ai giovani palestinesi delle colline a Sud di Hebron – figli di coloro che quasi vent’anni prima avevano iniziato la resistenza nonviolenta -, si sono stabiliti a Sarura, un villaggio abbandonato negli anni ’90 a causa della violenza dei coloni. La loro intenzione era di ristrutturare le grotte dell’ex villaggio e di riportarvi le famiglie a viverci.

Telecamera alla mano, hanno iniziato anche ad affiancare i volontari di Operazione Colomba nelle loro attività giornaliere: accompagnamenti dei bambini e dei pastori, e documentazione di checkpoint e di demolizioni.

Non è stato facile mantenere una presenza stabile a Sarura: le vessazioni da parte dei coloni e dell’esercito sono state continue, ma i giovani di Youth of Sumud hanno continuato la resistenza nonviolenta restaurando una prima grotta, dove ora è tornata a vivere la famiglia proprietaria.

In una Palestina in cui i villaggi vengono evacuati e distrutti, nelle colline a Sud di Hebron, un villaggio abbandonato è rinato ed è tornato in vita, grazie all’impegno di questi ragazzi.

Essere la loro voce

Negli ultimi anni, i volontari di Operazione Colomba hanno iniziato a visitare altre aree oltre al villaggio di At-Tuwani, accompagnando e supportando le comunità palestinesi in lotta anche altrove nella Cisgiordania occupata, ovunque ce ne sia bisogno.

Una realtà che ricorda molto le colline a Sud di Hebron di quindici anni fa, è quella delle comunità di pastori che vivono nella valle del Giordano. Circa l’86% del suo territorio è, infatti, area C, e la presenza di colonie e avamposti israeliani è massiccia, così come la presenza di aree dichiarate zone militari e di riserve naturali, sotto la piena giurisdizione israeliana.

Tutto ciò porta al trasferimento forzato di intere comunità palestinesi, costrette ad andarsene dalle proprie case.

Nel 2019, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha dichiarato l’intenzione di annettere parte della valle del Giordano entro il 2020, operazione per ora sospesa.

Grazie all’aiuto di attivisti israeliani, i volontari di Operazione Colomba hanno iniziato a visitare le comunità della zona, mettendo a disposizione la propria esperienza. In particolare, nell’ultimo anno hanno iniziato a dormire in un villaggio e ad accompagnare i pastori della zona, ripercorrendo le fasi di conoscenza reciproca e di creazione di un rapporto di fiducia simili a quelle degli inizi della presenza ad At-Tuwani.

Spesso le storie di resistenza e nonviolenza rimangono nascoste e silenziose. I palestinesi di At-Tuwani sono persone normali, che fanno vite semplici, ma che si sono trovate loro malgrado vittime di un’oppressione, e hanno deciso di lottare per i propri diritti e la giustizia.

Kifah Adara, una donna del villaggio, ogni volta che qualcuno dei volontari parte per ritornare in Italia, chiede di raccontare quello che ha visto in Palestina, di essere la loro voce amplificata. Ed è questo il nostro augurio: che possiamo sempre essere megafono dei popoli che chiedono giustizia.

Volontari di Operazione Colomba

Note:

1- Organizzazione di israeliani e palestinesi che lottano insieme, attraverso un’azione diretta nonviolenta quotidiana, per porre fine all’occupazione israeliana dei Territori palestinesi e per raggiungere la piena uguaglianza civile. www.taayush.org

2- www.facebook.com/youthofsumud

Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII

L’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII è un’associazione internazionale di fedeli di diritto pontificio. Fondata nel 1968 da don Oreste Benzi, è impegnata da allora, concretamente e con continuità, nel contrasto all’emarginazione e alla povertà. La Comunità lega la propria vita a quella dei poveri e degli oppressi e vive sempre con loro, ogni giorno.

Attraverso lo strumento della condivisione diretta con gli emarginati, i membri di Comunità non possono chiudere gli occhi davanti alle ingiustizie e anzi lavorano incessantemente per la loro denuncia e rimozione.

Oggi la Comunità siede a tavola, ogni giorno, con oltre 41mila persone nel mondo, grazie a più di 500 realtà di condivisione tra case famiglia, mense per i poveri, centri di accoglienza, comunità terapeutiche, Capanne di Betlemme per i senzatetto, famiglie aperte e case di preghiera. La Comunità opera anche attraverso progetti di emergenza umanitaria e di cooperazione allo sviluppo in molti paesi del mondo.

Infine, è presente nelle zone di conflitto con il proprio Corpo nonviolento di pace Operazione Colomba.

Complessivamente è presente in una quarantina di paesi nei cinque continenti.

Dal 2006 la Comunità Papa Giovanni XXIII è anche presente all’Onu con un ruolo consultivo speciale presso l’Ecosoc (consiglio Economico e Sociale dell’Onu), rendendosi portavoce degli ultimi del mondo, nel foro in cui i leader internazionali prendono le decisioni sulle sorti dell’umanità.

Grazie alla forza dei suoi membri, dei volontari e dei suoi sostenitori, la Comunità Papa Giovanni XXIII porta avanti il grande progetto di solidarietà del suo fondatore: essere famiglia per chi non ce l’ha.

www.apg23.orgwww.operazionecolomba.it

www.facebook.com/OperazioneColomba


Vite che non si arrendono

La prossimità alle persone che vivono in zone di conflitto, o ci hanno vissuto, ha due facce: quella della vicinanza lì (in Palestina, Siria, Libano, Iraq); e quella dell’accoglienza qui, in Italia. Due amici ce le raccontano attraverso 24 storie di incontri. In Cisgiordania come a Torino, ciò che emerge è la speranza di chi resiste, la resilienza dell’umanità.

Fatima vive ad Aleppo, una città distrutta dalla guerra. Ha tre bambini che mostrano i segni della malnutrizione. Accudisce una sorella disabile. Suo marito è morto per un’esplosione. Lei guadagna qualcosa vendendo oggetti che recupera in giro, tra le macerie. A volte trova bombe inesplose che smonta per venderne i pezzi. Disfa ordigni di morte per ricavarne cibo e vita.

Aisha è una giovane somala sbarcata a Lampedusa tempo fa. Dopo anni dalla fuga, sente ancora ogni tanto dentro sé i morsi delle violenze viste e subite.

Le loro sono storie difficili, e Alessandro Ciquera e Marco Canta ce le raccontano trasmettendoci la speranza e la forza di cui sono pervase. Oltre a Fatima e ad Aisha, ci presentano Arsema, ragazza etiope in cerca di casa in Italia; i figli di Hafez che piangono mentre il padre viene portato via dalla polizia militare israeliana; Ola e il suo fratellino, siriani malati di talassemia, profughi in Libano; e poi Mohammed, Karim, Abu Zahra, e altri.

Gli autori de La speranza ha il vestito azzurro, parlano di resilienza, e ce la mostrano nel racconto dei gesti quotidiani di uomini, donne e bambini.

Come Fatima, che tramuta bombe in pane, morte in vita, tutti loro fanno i conti con il male, la sofferenza, facendone il luogo della loro resistenza e, a volte, rinascita.

Alessandro ha 32 anni e fa parte dell’Operazione Colomba. A 18 anni ha fatto il suo primo viaggio in un luogo di conflitto, a Kirkuk, in Iraq, per costruire un campetto da calcio per i bambini, e da allora non ha più smesso di viaggiare per incontrare e condividere. È stato in Palestina per due anni, in Siria, in Albania, nei campi profughi siriani in Libano per tre anni.

In Italia ha lavorato in progetti educativi presso il carcere minorile di Torino, nella scolarizzazione di minori in condizioni socialmente critiche e nell’assistenza alle persone senza fissa dimora.

Da ragazzo è stato animatore, in oratorio a Grugliasco (To), dei figli di Marco.

Marco Canta ha 54 anni, si è formato nella Gioc (Gioventù operaia cristiana), è stato attivo nel Gruppo Abele, presidente della Cooperativa Orso che si occupa, tra le altre cose, di accoglienza di rifugiati, e attualmente è direttore e vicepresidente di Casa Oz, Onlus che offre accoglienza a bambini malati e alle loro famiglie che soggiornano a Torino per il periodo delle cure. È portavoce del Forum del terzo settore del Piemonte.

Alessandro, nel libro racconti di persone che non si arrendono, e che, ad esempio ad At-Tuwani, in Cisgiordania,
resistono alle ingiustizie in modo nonviolento.

«I palestinesi di At-Tuwani e dei villaggi di quell’area, da decenni vivono aggressioni sistematiche.

Loro vorrebbero solo vivere la loro vita, andare ai pascoli, coltivare, fare pozzi, costruire stalle, ma tutti i giorni sono umiliati, minacciati, ostacolati, picchiati, a volte uccisi o arrestati.

Quello che li aiuta è il senso del resistere insieme: non c’è nessuno lì che si salva da solo. Quando qualcuno è arrestato, subito fanno una colletta per gli avvocati, manifestano, chiamano giornalisti.

Quella gente desidera solo rimanere sulla propria terra.

Il fatto che dopo decine di anni di soprusi non se ne siano andati altrove, è un messaggio bello per tutti. I giovani di lì, sanno bene cosa c’è fuori del loro villaggio, però sono consapevoli della loro identità: sono nati lì, le loro famiglie abitano quelle terre da generazioni, e anche loro vi appartengono.

Ecco, in questo tenere insieme la vita normale, semplice, i piccoli gesti, la scuola, il seminare, con l’oppressione, io ci ho sempre visto qualcosa che parla del Vangelo. Lì ho imparato cosa può voler dire un’esistenza senza violenza».

Dove ti ha portato Operazione Colomba negli anni?

«Io sono legato a Operazione Colomba da quando mi sono diplomato. Ho iniziato in Palestina, dove sono stato due anni, poi sono stato in Iraq più di una volta, in Libano per tre anni, in Siria, in Albania. Sempre cercando la condivisione con le persone che vivono situazioni di sofferenza e di conflitto. Mai con l’idea di essere “l’occidentale che va lì a salvare i poveri”, ma con il desiderio di camminare insieme, di partecipare nel mio piccolo a una lotta che magari va vanti da decenni.

In Iraq la gente rischia di morire anche solo facendo gesti semplici, come andare al mercato, a messa, esprimere un pensiero. In Siria ci sono la guerra, l’obbligo del servizio militare, il rischio del carcere o di sparire, le fosse comuni, i villaggi bruciati. Ecco, in Siria ho trovato un dolore grande, e se c’è qualcosa che si può imparare da queste persone è il desiderio di non fermarsi, di rimanere in piedi: anche se vivi sotto una tenda, metti una stufetta, un fiore, un quadretto, provi a far fare i compiti ai bambini. E continui ad avere fede, a vivere la fede nelle ferite che la vita ti ha fatto incontrare».

Nel libro parli molto dei profughi siriani in Libano.

«Quello che mi ha colpito della vita dei profughi è la loro solitudine. Se vivi in un villaggio in Palestina, pur nella violenza, sei a casa tua, hai la tua casetta, le tue pecore, la tua gente. Invece il profugo ha la sensazione di essere dimenticato da tutti, che la sua vita non vale niente, e che, se oggi muore, saranno in pochi ad accorgersene, pochi o nessuno potrà venire al suo funerale, perché ha un amico in Turchia, un altro è morto, un altro fa il servizio militare, un altro è scomparso in prigione, un altro è in Europa, un altro sta provando a prendere una barca per attraversare il Mediterraneo.

Chi sei tu senza le tue relazioni? Tanti ci dicevano: “Non abbiamo nessun altro, a parte Dio e voi”».

Marco, i capitoli che raccontano gli incontri con rifugiati avvenuti a Torino e dintorni, sono tuoi?

«Sì. Il primo incontro con i rifugiati per me è stato nel 2009: sono entrato quasi per caso nell’ex clinica San Paolo di corso Peschiera a Torino che era occupata da 400 rifugiati, provenienti soprattutto dal Corno d’Africa. Quell’incontro ha cambiato la mia vita. Prima non sapevo nemmeno cosa significasse fuggire da contesti di guerra.

La proprietà dell’immobile, a un certo punto, ne aveva chiesto la restituzione, e prefettura e questura avevano deciso per lo sgombero. Da lì è nato “Non solo asilo”, un coordinamento di associazioni, che ha avviato un dialogo, e che ha ottenuto sei mesi di tempo per trovare opportunità per le persone. In poche settimane abbiamo creato una rete di comuni e associazioni che ci ha aiutati ad avviare progetti per 200 persone. Lavoravamo sul modello dell’accoglienza diffusa, e non sulle grandi strutture. La rete dello Sprar si è allargata così in buona parte del Piemonte, e ad Avigliana si è realizzato il primo Cas diffuso (centro accoglienza straordinaria), che poi ha fatto scuola in Italia».

Perché hai voluto raccontare questi tuoi incontri?

«Nel libro raccontiamo storie di persone che hanno una forza, un’energia, una capacità di resilienza tale che, se fossimo in grado di accoglierle e di renderle conosciute tra i giovani, ne avremmo giovamento tutti. Sono storie potenti.

Se pensiamo alla crisi della nostra società, ai ragazzi disillusi che non lavorano e non studiano, le storie di queste persone, che sono riuscite a superare delle tragedie enormi ricostruendo il loro futuro, danno speranza a tutti.

Una delle storie raccontate nel libro è quella di Mohammed, arrivato in Italia come minore non accompagnato. Oggi è un giovane di 22 anni, come mio figlio più grande. Se penso all’influsso positivo che lui ha avuto sui miei figli, mi è chiaro che quando riesci a superare la barriera della non conoscenza, poi accadono cose belle».

E tu Alessandro?

«Ho scritto dei miei incontri con queste persone ferite dalla vita, ma resilienti, perché quando trovi una perla preziosa, non puoi tenerla in tasca. Devi mostrarla. Non sono storie solo nostre. Abbiamo iniziato a scriverle in un tempo difficile, quando sono stati fatti i decreti sicurezza e parlare di questi temi era davvero dura. Volevamo lanciare queste storie come un salvagente».

Luca Lorusso