Modi e la deriva maggioritaria

testo di Maria Tavernini |


Delegittimare i processi e le istituzioni democratiche, criminalizzare il dissenso e calpestare i principi costituzionali è una tendenza sempre più frequente nell’India di oggi. A rimetterci, soprattutto poveri e minoranze.

«Il vero buio all’orizzonte è la svolta che sta prendendo la democrazia indiana, come se fosse sulla strada della perdizione», si legge nel duro editoriale dello scrittore Pratap Bhanu Mehta, sul quotidiano Indian Express, all’indomani della storica marcia di trattori che il 26 gennaio scorso – 72ª festa della Repubblica – ha sfilato nella capitale indiana in parallelo alla parata militare ufficiale.

È stata una manifestazione enorme, con centinaia di migliaia di contadini e contadine provenienti da tutta l’India.

Dopo due mesi, accampati ai confini di Delhi, hanno invocato (e ancora oggi, mentre scriviamo, invocano) il ritiro delle liberalizzazioni decise a settembre dal governo nazionalista guidato dal Bharatiya Janata Party (Bjp). Riforma considerata lesiva dai lavoratori della terra che rappresentano oltre la metà della forza lavoro indiana, in quanto favoriscono i colossi dell’agroalimentare ai danni dei piccoli produttori.

Una protesta che ha raccolto enorme sostegno dalla società civile, anche internazionale, alla quale il governo ha risposto con indifferenza prima, e con la repressione poi.

Nuova India intollerante

La tendenza a delegittimare i processi e le istituzioni democratiche, criminalizzare il dissenso e calpestare i principi costituzionali, è sempre più frequente nell’India di oggi, tanto che lo svedese V-Dem Institute a marzo ha declassificato l’India come «autocrazia elettorale», rilevando che gran parte del declino delle libertà democratiche è avvenuto dopo la vittoria di Narendra Modi.

Lo schema usato contro il movimento dei contadini è lo stesso impiegato contro altri movimenti precedenti: screditare l’agitazione, sobillare le violenze e accusare manifestanti e giornalisti di attività «anti nazionali».

Il buio sembra davvero calare sul subcontinente, su quell’idea di democrazia laica e inclusiva che prese corpo quando, nell’agosto del 1947, l’India Britannica ottenne l’indipendenza dalla Corona, smembrandosi in un Pakistan musulmano e un’India a maggioranza hindu.

Per capire il lento e inesorabile declino delle istituzioni democratiche indiane e la svolta autoritaria e maggioritaria dell’esecutivo, bisogna raccogliere elementi sparpagliati in un arco temporale di diversi anni. L’instabile democrazia indiana, che ha resistito a passate derive autoritarie, è oggi messa a repentaglio dal suprematismo identitario del governo guidato dai nazionalisti hindu; ma, soprattutto, dall’ascesa di una «nuova idea» di India: intollerante e sciovinista.

Quella dei contadini – una mobilitazione senza precedenti, ancora in corso – è stata la prima grande protesta dopo la sospensione imposta dal coronavirus.

Foto iconica di gioventù induista sul tetto della moschea Bari del 16° secolo, pochi minuti prima che fosse totalmente distrutta nel 1992. (Photo by DOUGLAS E. CURRAN / AFP)

Islamofobia hindu

La pandemia in India si è innestata in un periodo molto delicato: a dicembre 2019, il governo aveva varato il Citizenship amendment act (Caa), un emendamento alla legge sulla cittadinanza, considerato discriminatorio verso la comunità musulmana e in netto contrasto con i principi costituzionali in quanto avrebbe reso l’appartenenza religiosa un prerequisito per la naturalizzazione.

Il Caa era solo l’ultima di una serie di azioni volte ad alienare la popolazione musulmana dell’India e a consacrare il suprematismo hindu, ma aveva avuto il merito di riunire le minoranze del paese – musulmani, Dalit, comunità tribali, donne, lgbt – in una protesta trasversale e pacifica che era stata però da subito repressa.

A fine febbraio 2020, poi, la capitale – epicentro nazionale della mobilitazione – era stata travolta da un’ondata di violenza settaria in risposta alle proteste che avevano riempito le strade del paese.

Le responsabilità del pogrom contro la comunità musulmana a Delhi Nordest erano state fatte ricadere sulle vittime, anziché sulla destra hindu, nonostante alcuni esponenti del partito avessero intimato di «dare una lezione ai traditori». Poi è arrivata la pandemia. Le proteste sono state sgomberate, ma non la criminalizzazione del dissenso.

Covid e repressione

Quando il coronavirus ha raggiunto l’India, il lockdown nazionale si è tramutato in una tragedia tristemente annunciata.

Il contesto di forte povertà, e un’economia già in forte recessione, basata per oltre l’80% su scambi informali, ne hanno amplificato l’impatto sociale.

Quando il 24 marzo 2020 il premier Narendra Modi ha annunciato la chiusura, 1,35 miliardi di persone hanno avuto quattro ore per prepararsi. Molti dei cosiddetti urban migrants, centinaia di milioni di persone che negli anni si erano trasferite dalle campagne impoverite alle grandi metropoli nel tentativo di sfuggire alla fame, ingrossando le fila dei poveri urbani, non hanno avuto altra scelta che affidarsi alla rete familiare tornando nei villaggi di origine.

Il caso dell’India – il terzo paese al mondo per numero di contagi in termini assoluti, ma i cui numeri vanno letti in rapporto alla popolazione – è particolarmente drammatico anche a causa della repressione che si è abbattuta come una scure sulla società civile, proprio nei mesi in cui si consumava una gravissima emergenza sanitaria, sociale e umanitaria.

Una famiglia nello slum di Sonagachi, Kolkata, India. / Photo ID 451906. 20/06/2010. Kolkata, India. UN Photo/Kibae Park.

Dissenso sotto la lente

Il 2020 ha visto sconvolgimenti epocali in tutto il mondo – soprattutto in termini di distruzione dei mezzi di sussistenza e aumento della povertà -, e l’India non ha fatto eccezione.

Il lockdown indiano è stato disumano, almeno per i più poveri.

Il governo, quando interrogato, non ha fornito i numeri di quanta gente sia morta di stenti nel tentativo di tornare a casa, di quanti posti di lavoro siano andati perduti per il lockdown, di quanti milioni di persone (ri)sprofonderanno nella povertà, in barba al millantato Indian dream.

La mancanza di dati sui migranti e le fasce deboli, e in generale sulla tragedia in corso, a fronte di migliaia di pagine e dati raccolti per incastrare attivisti e manifestanti accusati di sedizione e attività anti nazionali, dà la misura della distanza dell’esecutivo da una fetta di popolazione politicamente invisibile.

Nessuno tocchi il governo

https://www.flickr.com/photos/duncan/49631159326/ India – dove le mucche sono più sicure dei musulmani foto del marzo 2020

Proprio nei mesi dell’emergenza Covid, centinaia di persone sono state arrestate o accusate ai sensi della legge sulle attività illegali o di quella sulla sicurezza nazionale: due norme in base alle quali si può essere incarcerati per un semplice sospetto.

Tra gli arrestati, c’erano diversi studenti e attivisti legati alle proteste di fine 2019, incolpati di aver istigato i Delhi riots.

Altri, invece, almeno 16, sono stati fermati sulla base di accuse mai provate, per il caso di Bhima Koregaon, gli scontri tra alte caste e Dalit del gennaio 2018.

La repressione in questi mesi si è abbattuta sulle voci libere e su chi difende i diritti degli ultimi: dietro le sbarre delle sovraffollate carceri indiane in tempo di Covid sono finite attiviste incinte, anziani poeti, stimati frati, leader contadini, studenti, attivisti anticaste, noti giornalisti e docenti. La lista dei prigionieri politici è lunga: un esempio su tutti, padre Stan Swamy, gesuita che difende i diritti dei popoli tribali nelle foreste più remote del paese. Il sacerdote 83enne e gravemente malato, è in cella, in condizioni terribili, accusato di sostenere il maoismo.

La repressione del dissenso oggi, in India, non fa distinzioni: chiunque osi criticare il governo, rischia di essere accusato, intimidito, perseguitato. Anche i media e la Corte suprema hanno perso, pezzo dopo pezzo, indipendenza e imparzialità.

Declino graduale

L’ascesa del suprematismo identitario hindu è stato un processo graduale, accompagnato dal progressivo smantellamento delle istituzioni e delle salvaguardie democratiche.

Una tendenza – quella verso il nazionalismo maggioritario e militante – iniziata già dal primo mandato del Bjp.

Alle elezioni del 2014, Narendra Modi si era presentato come l’uomo del progresso, colui che avrebbe dato all’India il posto che meritava nel mondo: la sua ricetta di neoliberismo e industrializzazione sfrenata era riuscita a conquistare un elettorato stanco di scandali e corruzione, affamato di riscatto.

Già durante il primo mandato, però, l’agenda dell’esecutivo si è gradualmente spostata dalla retorica dello sviluppo alle politiche maggioritarie, escludenti e islamofobe, fedeli alle frange più estreme della destra hindu.

La marginalizzazione e la stigmatizzazione della comunità musulmana – e delle minoranze più in generale – è stata graduale e inesorabile: in questi ultimi sei anni si è tradotta in leggi antislamiche, linciaggi pubblici, violenze settarie, arresti di «voci critiche», e un diffuso clima di impunità tra le squadracce hindu.

Hindutva, o hinduità

Se le avvisaglie del primo mandato Modi non fossero state abbastanza evidenti, con il secondo mandato è ormai chiaro che l’enfasi sul progresso ha ceduto il passo all’etnonazionalismo confessionale del Bjp.

L’hindutva, o «hinduità», teorizzata da Vinayak Damodar Savarkar nel 1923, è la forma prevalente di nazionalismo in India.

Quando il partito capeggiato da Modi è stato riconfermato alle politiche nella primavera del 2019 con un mandato senza precedenti, l’esecutivo ha accelerato il progetto di un’India a trazione hindu in cui le minoranze, soprattutto quella musulmana, saranno sempre più ai margini.

Il 2020 era considerato l’anno in cui l’India sarebbe diventata una «super potenza». Stiamo invece assistendo è una profonda crisi della democrazia, del pluralismo e del secolarismo indiano.

La questione Kashmir

Pochi mesi dopo l’inizio del secondo mandato Modi, New Delhi ha unilateralmente abolito l’autonomia del Kashmir, l’unico stato a maggioranza musulmana dell’India: un territorio al centro di un’annosa disputa territoriale con il vicino Pakistan, insanguinato da 30 anni d’insurrezione separatista e una brutale repressione delle forze dell’ordine.

Da allora, il Kashmir è sotto un assedio permanente – che si somma a decenni di presenza militare massiccia, percepita come un’occupazione dai civili – con leader politici locali arrestati, giornalisti e media silenziati, attivisti perseguitati e incarcerati e diffuse violazioni dei diritti umani, come dimostrano diversi rapporti e inchieste indipendenti. Al lockdown militare e digitale – il più lungo mai imposto in una democrazia – ha poi fatto seguito quello per il coronavirus.

Un tempio al posto della moschea

Poi, a novembre 2019 è arrivata un’importante sentenza della Corte suprema su un’annosa disputa legale: quella riguardante il caso di Ayodhya. La Corte ha dato il via libera alla costruzione del tempio di Rama sulle rovine della moschea di Babur, distrutta nel ‘92 dagli estremisti di destra, avallando il fanatismo hindu.

Infine, l’emendamento alla legge sulla cittadinanza del dicembre del 2019 ha concesso alle minoranze provenienti da Bangladesh, Afghanistan e Pakistan che risiedono in India – tranne quella musulmana – di avere accesso preferenziale alle procedure per la naturalizzazione.

Tutto sembra andare nella direzione dell’Hindu Rashtra, la nazione a trazione hindu anelata dal Rashtriya Swayamsevak Sangh (l’organizzazione paramilitare volontaria della destra hindu apertamente ispirata al fascismo cui era appartenuto anche l’assassino del Mahatma Gandhi), in cui non c’è spazio per le minoranze, soprattutto per i musulmani, che in India sono 200 milioni, il 14,2% della popolazione.

Frattura insanabile

Negli anni ’90, la destra hindu aveva conquistato sempre maggior peso nel panorama politico indiano. Le organizzazioni della Sangh Parivar, la cosiddetta «famiglia» – la destra hindu militante e sciovinista -, credono nella superiorità degli hindu (l’80% della popolazione) sulle altre comunità religiose, e guardano a quella musulmana come a una minaccia, alimentando un senso di insicurezza utile per mobilitare le masse.

Gli scontri settari – come quelli che avevano accompagnato la partizione dell’India britannica e l’enorme migrazione delle minoranze religiose oltre l’allora neonato confine – non sono una novità in India, ma ad Ayodhya, una polverosa cittadina nello stato dell’Uttar Pradesh, nel 1992, con la distruzione della moschea costruita nel XVI secolo dalla dinastia moghul, e i successivi massacri compiuti dagli estremisti hindu che hanno portato a migliaia di morti, si è consumata una delle pagine più buie della storia dell’India repubblicana. Tutt’oggi una frattura insanabile tra hindu e musulmani.

Foto del 2002. Una donna cerca di rimettere in sesto quel che rimane della sua casa bruciata dopo pesanti scontri tra hindu e msusulmani a Ahmedabad / AFP PHOTO/Indranil Mukherjee /AFP

La carovana dei fanatici

In quegli anni, il Ram Yath Ratra, il movimento capeggiato dalle organizzazioni della destra hindu, sostenute da Lal Krishna Advani, tra i fondatori del Bjp e allora presidente del partito, mirava alla costruzione del tempio del dio Rama ad Ayodhya.

Gli hindu reclamavano la terra dove sorgeva la moschea di Babur del XVI secolo, perché considerata il luogo natale del dio hindu e perché, a detta loro, il luogo di culto musulmano era costruito sulle rovine del preesistente tempio hindu dedicato, appunto, a Rama.

Il movimento aveva organizzato un pellegrinaggio di kar sevaks, i volontari della causa hindu: una carovana di fanatici che raccoglieva adepti e seminava violenze al suo passaggio, tanto che Advani era stato arrestato infiammando ancora di più i suoi sostenitori.

Quando i militanti avevano raggiunto Ayodhya, nel dicembre del 1992, il comizio ai piedi della moschea era stato solo il preludio dell’azione: arrampicati sulle cupole, armati di mazze e picconi, gli estremisti avevano buttato giù l’edificio sotto gli occhi della polizia. La demolizione della Babri Masjid aveva poi innescato un’ondata di scontri tra hindu e musulmani che avevano portato ad almeno duemila morti. La recente sentenza del 2019 ha chiuso il cerchio: concedendo agli hindu quel terreno e dando il via libera alla costruzione del tempio, ha legittimato di fatto il fanatismo hindu.

Modi e il pogrom del Gujarat

Quando nel 2014 l’India ha messo il suo futuro nelle mani di Modi, che prometteva di essere l’uomo del cambiamento, in molti hanno chiuso un occhio sul suo passato: lui, «figlio di un umile venditore di tè», fin da ragazzo aveva militato nel Rss, scalando poi i quadri del Bjp fino a diventare il governatore dello stato del Gujarat ai tempi del pogrom antimusulmano che nel 2002 ha insanguinato lo stato Nord occidentale, facendo oltre duemila morti, quasi tutti musulmani.

I Gujarat riots avrebbero scosso profondamente l’opinione pubblica mondiale. La scintilla che aveva innescato le violenze era stata l’incendio di un treno carico di militanti della causa hindu che stava rientrando proprio da Ayodhya, dove si era tenuto un raduno per la costruzione del tempio di Rama. L’incidente del treno – le cui reali cause non sono mai state appurate – aveva scatenato la furia dei fanatici hindu che hanno messo a ferro e fuoco lo stato in tre giorni di violenze mirate: un vero e proprio pogrom, avallato dalla polizia e dalle autorità politiche dello stato. Modi, accusato di non aver fermato le violenze, sarebbe stato poi prosciolto.

Un personaggio così polarizzante e controverso a capo dell’esecutivo, forte di una legittimazione enorme, in soli sei anni di governo si è reso artefice di un preoccupante declino delle istituzioni e dei valori democratici e costituzionali che sta facendo dell’India un paese molto diverso da quello che abbiamo finora conosciuto e raccontato.

Maria Tavernini*


* Giornalista indipendente, ha vissuto per diversi anni in India, di cui scrive per «Altreconomia», «TRT World», «Reset Doc», «Q Code Magazine», «Osservatorio Diritti», tra gli altri, occupandosi di tematiche sociali, diritti umani, questioni di genere e ambientali, nel quadro dei più ampi cambiamenti politico sociali. Nel 2021 ha pubblicato il libro No going back, Prospero editore.

 




Da terra nullius a terra privata

testo di Paolo Moiola |


L’assalto all’Amazzonia pare diventata un’invasione inarrestabile. Soprattutto con la spinta del capitano Bolsonaro e dell’emergenza pandemica. I popoli indigeni, ultimo baluardo difensivo, ne stanno pagando le conseguenze. Ma il problema è mondiale, se l’Amazzonia è «patrimonio dell’umanità». Come da tempo afferma papa Francesco.

Si dice che su internet si possa comprare di tutto. Pare un’esagerazione, invece è la realtà. L’ultima conferma è arrivata da un’inchiesta della Bbc, la televisione pubblica inglese. Un lavoro giornalistico pregevole, ma molto inquietante. I corrispondenti dal Brasile hanno infatti scoperto che su Facebook, la più grande rete sociale del mondo, sono in vendita pezzi di Amazzonia. Lotti protetti di grandi o grandissime dimensioni (si parla di mille campi da calcio) e, si noti bene, senza alcun titolo di proprietà regolare, trattandosi di boschi dello stato o di riserve indigene.

A tal punto di indecenza è arrivato il disprezzo per la legge e la morale. Difficile stabilire una graduatoria di colpevolezza: il social ospitante, gli inserzionisti o le autorità governative.

Il capitano Jair Messias Bolsonaro, dal 2019 presidente del Brasile. Foto: Alan Santos / PR.

«È nostra!»

È da tempo che l’Amazzonia è sotto attacco. Avviene in tutti i nove paesi amazzonici, ma soprattutto in Brasile, che ne ospita oltre il 60 per cento. Qui la situazione è precipitata con l’arrivo al potere del capitano Jair Messias Bolsonaro. Questo militare di piccolo cabotaggio e ammiratore della dittatura non ha mai nascosto il proprio pensiero fondato sul populismo neoliberista. Nel suo discorso del 24 settembre 2019 (primo anno del suo mandato), davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite, aveva affermato l’impegno solenne per la difesa dell’ambiente affermando che l’Amazzonia è praticamente intoccata. Ma, soprattutto, aveva detto: «L’Amazzonia è nostra, non dell’umanità».

A Bolsonaro aveva risposto non un presidente, ma papa Francesco, considerato da molti come il leader più autorevole del pensiero ambientalista. L’Amazzonia, ha precisato il papa nell’esortazione apostolica Querida Amazonia, «è anche “nostra”» (QA 5).

Papa Francesco abbraccia Raoni, noto leader indigeno di etnia caiapó (maggio 2019). / Vatican news

«Terra di nessuno»

È dal Brasile, principale paese amazzonico, che è necessario partire per inquadrare la situazione. Una situazione molto grave, che la pandemia ha peggiorato.

La filosofia del governo Bolsonaro è chiara. La difesa dell’Amazzonia e dei suoi abitanti originari è considerata un intralcio allo sviluppo economico e all’arricchimento individuale. Pertanto, ogni legge ambientale va superata e ogni difensore (organizzazione o persona) reso impotente. I popoli indigeni vanno scacciati dalle loro terre o eliminati (culturalmente più che fisicamente) perché costituiti da esseri inferiori, incapaci di comprendere i principi economici che regolano la società bianca.

Francesco parla di «una falsa “mistica amazzonica”». Scrive il papa al punto 12 di Querida Amazonia: «È noto infatti che dagli ultimi decenni del secolo scorso l’Amazzonia è stata presentata come un enorme spazio vuoto da occupare, come una ricchezza grezza da elaborare, come un’immensità selvaggia da addomesticare». È da questa concezione dell’Amazzonia come «terra nullius» che, oggi come ieri, deriva la sua invasione da parte di: fazendeiros (latifondisti dell’agrobusiness), madeireiros (tagliaboschi), garimpeiros (minatori) sotto lo sguardo disattento se non l’ombrello protettivo dello stato. Uno stato intenzionato a completare la strada da Porto Velho a Manaus, nota come Br-319, che aprirebbe nuovi, pericolosissimi varchi nell’Amazzonia.

In tutto questo, il metodo più subdolo perché ammantato da un falso alone di legalità («bianca») è quello conosciuto come grilagem (land grabbing, in inglese), l’accaparramento di terre. Il sistema generalmente riguarda terre pubbliche o terre occupate da secoli da popoli indigeni o comunità tradizionali (come quilombolas e ribeirinhos).

Secondo un’associazione legale di Bahia (Associação de Advogados de trabalhadores rurais no estado da Bahia, Aatr), il fenomeno del grilagem è passato nel tempo da una falsificazione rudimentale dei documenti (dando loro un’apparenza di vecchiaia utilizzando escrementi di grilli, da cui il nome) a procedimenti più sofisticati per trascrivere le false proprietà nei registri immobiliari. È così che i latifondi per l’allevamento bovino o le monocolture (soia, soprattutto) si sono incrementati a dismisura e i loro proprietari, veri e presunti, si sono insediati nei parlamenti (bancada ruralista) per promuovere leggi in loro favore, contro l’ambiente e i popoli indigeni.

Una delle norme più vergognose studiate dal governo Bolsonaro è proprio la regolarizzazione delle terre pubbliche illegalmente occupate, in una parola il condono del grilagem (Medida provisoria 910 nota come «MP da grilagem», trasformata in progetto di legge 2.633/2020).

Le invasioni dei minatori illegali sono brevi nel tempo, ma forse ancora più nefaste: una volta ottenuto il prodotto (oro, in primis), lasciano la zona devastata per passare a un’altra.

Le immagini dei territori amazzonici dopo il passaggio dei garimpeiros sono più impressionanti di una foresta abbattuta o bruciata, di un pascolo occupato da migliaia di vacche o di un terreno coltivato a soia transgenica. Sono «cicatrici nella foresta» come le definisce il titolo di un recente (marzo 2021) rapporto redatto dall’associazione indigena guidata da Davi Kopenawa (Hutukara associação yanomami, Hay) e dall’Instituto socioambiental (Isa). E si tratta di cicatrici profonde: nel solo 2020, sul territorio degli Yanomami le aree degradate sono aumentate di 500 ettari, soprattutto lungo i letti dei grandi fiumi (Uraricoera,

Mucajaí, Catrimani e Parima). L’attività mineraria, viene osservato, non è più quella dell’uomo solitario che cerca l’oro con strumenti artigianali. Oggi è diventata un’attività d’impresa con investimenti importanti in macchinari, materiali e logistica e l’utilizzo di aerei, elicotteri e barche. I vari addetti vengono normalmente pagati in grammi d’oro.

Inoltre, la vicinanza forzata con i garimpeiros ha prodotto tra gli indigeni un’esplosione di casi di malaria (le aree disboscate facilitano la diffusione delle zanzare) e di Covid-19, oltre che di avvelenamento da mercurio (utilizzato dai minatori).

In Brasile, è sempre più diffuso il fenomeno dell’accaparramento e della privatizzione delle terre pubbliche. Foto The Intercept Brasil.

Complicità internazionali

Se non ci fossero sbocchi di mercato per i prodotti amazzonici, verrebbero meno le motivazioni economiche e speculative di latifondisti, tagliaboschi e minatori.

Un rapporto prodotto da un’altra organizzazione indigena (Articulação dos povos indígenas do Brasil – Apib con Amazon Watch, 2020) concentra l’attenzione sulle «complicità nella distruzione» dell’Amazzonia da parte di imprese, banche (tra cui GP Morgan Chase, Citigroup, Bank of America), istituti finanziari e società di fondi d’investimento stranieri (come la BlackRock, la più grande del mondo).

«Ogni giorno – si legge all’inizio del rapporto -, la soia, la carne, i minerali e altre materie prime prodotte su larga scala in Brasile sbarcano nei porti dei paesi di Europa, Sud America, Cina, Stati Uniti e altri mercati globali. Molte volte, queste merci lasciano dietro di sé ferite di abusi dei diritti umani e di devastazione ambientale che minacciano il futuro della più grande foresta tropicale del mondo e i suoi popoli e, di conseguenza, il futuro del nostro clima». «Non c’è dubbio – si legge ancora – che sia l’avanzata illegale sulle terre indigene che la distruzione dilagante dei biomi brasiliani sono collegati direttamente ai vantaggi estrattivi ottenuti dall’iniziativa privata».

L’accusa è chiara e non smentibile: «La devastazione della più grande foresta pluviale del pianeta, con le sue gravi implicazioni per la stabilità climatica, non può essere intesa semplicemente come una questione brasiliana, ma come una tragedia resa possibile e potenziata dai mercati globali. Dalle società che acquistano e commerciano materie prime, le quali guidano la deforestazione e i conflitti per la terra, alle istituzioni che finanziano i comportamenti illeciti degli attori complici della distruzione, il capitale globale è decisivo per il mantenimento di un sistema economico fallimentare e del potere politico di coloro che lo difendono».

Se non bastasse questo rapporto, a confermare le complicità internazionali nella distruzione dell’Amazzonia provvede Beef, banks and the brazilian Amazon, un lavoro di Global Witness (dicembre 2020). Secondo questo studio, le tre principali compagnie brasiliane della carne – Jbs (la più grande al mondo), Marfrig e Minerva – esportano i loro prodotti in tutto il globo, rifornendo anche grandi catene di supermercati.

Si stima che, in Brasile, il 70% delle terre disboscate sia ora popolato da bovini, tanto che il paese ha la seconda mandria più grande del mondo. Oggi in Brasile ci sono più mucche che persone: 232 milioni contro 211. Il 40% dei bovini si trovano in territorio amazzonico.

Come aiutare la resilienza indigena

I popoli indigeni sono i soli in grado di convivere con l’ambiente naturale dell’Amazzonia (Fao-Filac, 2021; Ipam, 2021). Non si tratta soltanto di una correttezza storica (visto che ne sono gli originari abitanti), ma anche di una constatazione scientifica: le foreste in territorio indigeno si sono conservate in modo migliore delle altre consentendo tra l’altro la preservazione della biodiversità e la stabilità climatica. Demarcare e titolare i territori occupati da popoli indigeni sarebbe, dunque, un investimento per il futuro.

Come abbiamo visto, oggi la situazione pare però indirizzata in senso opposto. La resilienza messa in atto dai popoli indigeni non è sufficiente a fermare un’invasione e una distruzione che coinvolgono attori poderosi. Per fare effettivi passi avanti, occorrerebbe un coinvolgimento maggiore dei non indigeni e, in particolare, dei cittadini occidentali. Infatti, pur in presenza di innumerevoli denunce scientifiche, giornalistiche e – come abbiamo visto – papali, molti obiettano che così va il mondo e che non si può fare nulla per cambiare la situazione dell’Amazzonia. Che non sia facile è certamente vero, ma è altrettanto vero che non è impossibile se si assumono comportamenti da consumatori informati e responsabili. Per esempio, rifiutando di acquistare prodotti e merci legate allo sfruttamento dell’Amazzonia e dei suoi popoli o respingendo trattati commerciali insostenibili come quello tra Unione europea e paesi del Mercosur (riquadro pag. 20).

Una spinta arriva anche dal citato rapporto di Apib-Amazon Watch che, dopo aver criticato la nostra complicità, si conclude con una nota di incoraggiamento: «Il momento di agire è ora. C’è ancora tempo».

Paolo Moiola


L’Amazzonia sui media italiani

Gli anaffettivi e i miracolati

Era stata una piacevole sorpresa vedere un’inchiesta della Rai sulla situazione dell’Amazzonia. Un lavoro accurato (*). Poi, però, si è tornati alla «normalità». Il 12 febbraio il Corriere della Sera ha pubblicato un lungo articolo sugli Yanomami scadendo nei luoghi comuni (parlando, ad esempio, di alta aggressività e violenza anaffettiva). Francesca Casella, direttrice di Survival International Italia, ha scritto una lettera di protesta al direttore del quotidiano milanese. Il giornale si è però mostrato recidivo in fatto di completezza informativa.

Domenica 28 marzo un articolo e un video sul sito hanno raccontato con toni entusiastici la sopravvivenza nella foresta per 36 giorni di un brasiliano precipitato con il suo Cessna. Riducendo a fatto secondario che quell’uomo facesse un volo illegale per portare materiale ai garimpeiros, i minatori illegali che imperversano indisturbati nei territori indigeni.

Anche il New York Times ha raccontato (sempre il 28 marzo) la storia. Tuttavia, l’articolo ha pubblicato una foto dell’Amazzonia aggredita e ha dato ampio spazio al motivo del viaggio: «Il suo (del sopravvissuto, ndr) racconto, tuttavia, ha anche messo in luce l’industria mineraria illegale del Brasile, che è fiorita negli ultimi decenni nei territori indigeni e in altre parti dell’Amazzonia che dovrebbero essere santuari». Il quotidiano Usa ha anche descritto il pentimento del protagonista.

Quello stesso giorno, al Tg3 delle 19,00 è stato trasmesso un servizio in cui si descriveva l’avventura nella foresta del pilota miracolato. Peccato che, anche in questo caso, non sia stata detta una sola parola sul motivo per il quale quell’uomo sorvolasse con il suo piccolo aereo quella parte della foresta amazzonica. Volendo dare la notizia, correttezza e professionalità giornalistica avrebbero dovuto suggerire un’informazione completa. Bene che una persona si sia salvata da un incidente. Benissimo, aggiungiamo noi, che un carico di strumenti di morte e distruzione sia andato perso e che, dal fatto raccontato nella sua completezza, più persone possano comprendere cosa significhi il business delle miniere illegali (garimpos).

P.M.

Quest’incredibile immagine, catturata dalla Stazione spaziale internazionale (Iss, 24 dicembre 2020), mostra i fiumi «sporchi» d’oro nel dipartimento peruviano di Madre de Dios dove migliaia di minatori illegali stanno disboscando e inquinando l’ambiente in maniera irreparabile. Foto ISS-Nasa.


L’accordo Unione europea-Mercosur

«Auto per carne e soia»

L’accordo di libero commercio (Free trade agreement, Fta) tra l’Unione europea (Ue) e i paesi aderenti al Mercosur (Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay) è del luglio 2019. Il Centro studi della Confindustria ha commentato (17 febbraio 2020) positivamente («un buon inizio») l’intesa, vedendo un aumento delle esportazioni italiane verso «un mercato di 260 milioni di consumatori». L’accordo però non è ancora in vigore perché non è stato ratificato dai governi dei vari paesi, ma soprattutto perché sono emerse criticità e lacune, molto gravi soprattutto per l’ambiente e i popoli indigeni.

L’accordo in questione mira a facilitare le esportazioni degli uni e degli altri: carne (bovina e da pollame), soia e zucchero dal Mercosur; auto e macchinari dall’Europa. In America Latina, i costi ambientali e sociali, già altissimi ora in assenza dell’intesa, esploderebbero. Più carne, soia e canna da zucchero richiederebbero infatti più aree da adibire a pascoli e terreni agricoli. Sarebbe un’ulteriore spinta a un insano e ingiusto sistema di produzione fatto di latifondi e monocolture, a scapito delle foreste, della biodiversità, del clima, dei piccoli agricoltori, dei popoli indigeni. I più drastici (ma, purtroppo, non lontani dal vero) hanno sintetizzato l’accordo Fta in una formula: «Auto per carne e soia da deforestazione».

Verrebbero eliminati quote e dazi import-export, ma anche le cosiddette «barriere commerciali non tariffarie», che significa tagliare o alleggerire norme ambientali e sanitarie (per esempio, in materia di agrotossici, ormoni della crescita e organismi geneticamente modificati), nonché diritti dei lavoratori e, in ultima istanza, dei consumatori. Significa – è stato ancora sottolineato – innescare una guerra dei prezzi con i piccoli produttori europei costretti a ridurre costi e qualità per poter rimanere sul mercato.

Il grafico mostra le conseguenze reali a cui porterebbe l’applicazione dell’accordo di libero commercio tra l’Unione europea e i paesi del Mercosur. Immagine Friends of the Earth – Europe (modificata MC).

A parte i decision makers (politici, imprese transnazionali e lobbisti), in tanti hanno smontato la presunta bontà dell’intesa win-win («io vinco-tu vinci»): ecologisti, Ong cattoliche e ambientaliste (come Greenpeace), sindacati europei e latinoamericani, un gruppo di quasi 200 economisti.

Quest’accordo Ue-Mercosur non va ratificato. Non per questioni ideologiche, politiche o economiche, ma perché è insostenibile e anacronistico.

P.M.

(*) Rimando: «Guerra all’Amazzonia», Rai3, Presa Diretta, 8 febbraio 2021, reperibile sui siti della Rai.

Una pista clandestina per i piccoli aerei dei garimpeiros nel pieno della foresta amazzonia e della terra indigena degli Yanomami. Foto Hutukara Associação Yanomami (Hay) / Instituto Socioambiental (Isa).

Il libro:

  • Corrado Dalmonego-Paolo Moiola, Nohimayu, Emi, settembre 2019.

Archivio MC:




Storia di Zam, giornalista impiccato

Il regime sciita di Teheran non perdona. Ruhollah Zam, giornalista e oppositore, è stato giustiziato. Il clero al potere interpreta e impone la sharia a tutti i propri cittadini. Ma non a se stesso.

Lo scorso 12 dicembre è arrivata una delle tante lugubri notizie che attraversano l’etere: un giornalista iraniano è stato impiccato a Teheran. Si chiamava Ruhollah Zam e viveva in esilio volontario in Francia con la famiglia. Da quanto si è letto sulla stampa, è caduto in una trappola tesa dai servizi d’intelligence iraniani. Nell’ottobre del 2019, con un pretesto, è stato indotto a recarsi in Iraq, paese in cui la Repubblica islamica esercita una notevole influenza. Appena arrivato, è stato fermato dalle forze di sicurezza irachene, che l’hanno poi consegnato alle Guardie della rivoluzione. I mezzi d’informazione iraniani hanno salutato con entusiasmo la cattura di uno dei nemici della Repubblica, avvenuta grazie a una «meticolosa operazione di intelligence» (Press Tv, 14 ottobre 2019).

La notizia ha suscitato commenti soddisfatti da parte delle autorità, che hanno lodato l’abilità delle Guardie e hanno manifestato orgoglio per il grande successo da loro ottenuto (Teheran Times, 14-15-16 ottobre 2019).

Ruhollah Zam, giornalista e oppositore del regime iraniano, davanti al Tribunale rivoluzionario di Tehran il 2 giugno 2020. Condannato, Zam sarà impiccato il 12 dicembre 2020. Foto Ali Shirband – Mizan News / AFP.

Chi era Ruhollah Zam

Perché le Guardie della rivoluzione ritenevano questo giornalista un nemico così pericoloso da mobilitare tutte le proprie risorse d’intelligence pur di snidarlo dal suo rifugio in Francia e riportarlo in Iran? Perché le autorità hanno tanto esultato per il successo dell’operazione?

Ruhollah Zam era il figlio di Mohammad Ali Zam, un eminente chierico sciita che, dopo la rivoluzione, ha diretto la sezione relativa alle arti dentro l’Organizzazione per la propaganda islamica. Era, dunque, figlio di un attivo sostenitore del nuovo Iran inaugurato da Ruhollah Khomeini, del quale portava il nome. Nel tempo, suo padre si era collocato all’interno della fazione politica genericamente definita «riformista», in opposizione a quella altrettanto genericamente definita «conservatrice».

Il conflitto tra le due anime del clero sciita è emerso con particolare evidenza subito dopo le elezioni presidenziali del 2009, quando la denuncia da parte del candidato riformista Mousavi di massicci brogli ha dato origine alle proteste popolari dell’Onda verde. Verde era il colore scelto da Mousavi per la campagna elettorale.

Tra i manifestanti arrestati dalla polizia durante quelle proteste c’era anche Ruhollah Zam che, dopo la liberazione, ha deciso di lasciare il paese e ha ottenuto asilo politico in Francia. In esilio ha continuato la lotta attraverso internet e le reti sociali. Nel 2015 ha fondato su Telegram un canale d’opposizione chiamato Amad News.

Tra il dicembre 2017 e il gennaio 2018 l’Iran è stato sommerso da un’altra ondata di proteste che, a differenza di quelle del 2009, hanno interessato soprattutto le province, dove inferiore è il livello di vita e maggiori sono le difficoltà economiche. Le manifestazioni, infatti, questa volta hanno avuto come causa scatenante il rincaro di generi di prima necessità, sebbene gli slogan siano subito divenuti anche politici. I manifestanti, soprattutto giovani, gridavano la propria frustrazione per le promesse economiche non mantenute, ma anche il proprio malcontento contro il sistema.

Ci sono stati atti di vandalismo, assalti a stazioni di polizia, si sono bruciati ritratti della Guida suprema. Pur condannando le violenze, persino il presidente Rohani ha riconosciuto fondate le motivazioni economiche all’origine delle proteste, ma la Guida suprema le ha attribuite alle trame di governi stranieri e dell’opposizione iraniana all’estero, e questa è rimasta la versione ufficiale.

Reti sociali e proteste

Già nel 2009 i manifestanti avevano utilizzato internet, sia per organizzarsi, sia come cassa di risonanza delle proprie rivendicazioni. Nel frattempo, l’utilizzo delle reti sociali e, in particolare, di Telegram, che funziona bene anche con una connessione lenta, tra gli iraniani si era moltiplicato, e internet era sempre di più divenuto una fonte d’informazione alternativa alla Tv di stato. Nel dicembre del 2017, la gente stabiliva su Telegram dove e quando uscire in strada.  Non c’era un movimento organizzato, non c’erano leader o figure carismatiche, c’era Telegram. Anche Amad News ha fatto la sua parte, ma per poco, perché già a fine dicembre (le proteste sono iniziate il 28) è stato chiuso da Pavel Durov, il fondatore di Telegram, per avere postato istruzioni su come costruire bombe molotov. Zam ha fondato allora un altro canale, Voce del popolo, che ha continuato ad amministrare fino alla cattura.

Dopo questi avvenimenti, le autorità hanno cominciato a vivere nel timore di altre proteste e del pericolo costituito dalla rete. La possibilità che internet offre a chiunque di mettere in circolazione materiale non censurabile è percepita come una sfida aperta, che le autorità non riescono a neutralizzare per quanti sforzi facciano, perché nell’era di internet non c’è più il monopolio dell’informazione. Viste le precedenti esperienze, quando nel novembre del 2019 nuovi rincari hanno riacceso la miccia delle rivolte, i collegamenti internet sono stati immediatamente interrotti ovunque. Ciò ha messo in difficoltà i manifestanti e ha ostacolato la diffusione d’informazioni su quanto stava avvenendo, ma ha anche ostacolato il funzionamento di ogni forma di attività nel paese, governativa e non. Il problema, dunque, è più che mai aperto.

Minareti nella città di Qom. Foto Mustafa Meraji . Pixabay.

Condannato a morte

Di quanto è successo nel novembre del 2019 non si poteva accusare Ruhollah Zam, che era già sotto processo in patria. Contro di lui sono stati comunque sollevati diversi capi d’imputazione: spionaggio per conto di Israele e della Francia, collaborazione con il governo ostile degli Stati Uniti, diffusione di notizie false, istigazione alla rivolta, blasfemia, insulti alle autorità islamiche, diffusione della «corruzione sulla terra». Il processo ha fatto il suo corso e il 30 giugno 2020 è arrivato il verdetto: condanna a morte per impiccagione. L’8 dicembre la Corte suprema ha confermato la sentenza e, solo quattro giorni dopo, il giornalista è stato giustiziato.

Alla storia di Ruhollah Zam è stata assicurata in Iran ampia copertura mediatica: doveva essere esemplare, servire da avvertimento. «Non è che l’inizio», avevano postato le Guardie della rivoluzione sul loro canale Telegram subito dopo la cattura. La soddisfazione che quella morte ha suscitato è significativamente espressa nelle amare parole pronunciate da suo padre dopo l’esecuzione e riportate dall’organo dei Guardiani, per confutarle: «La vicenda umana di Ruhollah è finita. Congratulazioni a quelli che erano in agguato di una tale gioia» (Nournews, 15 dicembre 2020). La storia di Zam dava occasione di ribadire e «provare» con le «ammissioni» pubbliche del giornalista, che la causa dei disordini interni al paese è da ricercarsi nei disegni dei nemici esterni e dei loro collaboratori, uno dei quali aveva ora ricevuto la meritata punizione.

I crimini secondo la sharia

Non entro in merito all’accusa di avere fatto circolare su Telegram notizie false per fomentare rivolte antigovernative. Non sarei in grado di confermarla, né di smentirla. È noto che la disinformazione è strumento di lotta politica e manipolazione delle coscienze da molto prima dell’arrivo di internet. Lo sanno bene anche le autorità iraniane, che, a ogni anniversario, per raccontare la storia della rivoluzione selezionano i documenti, ritoccano foto storiche, tagliano filmati.

Vorrei, però, soffermarmi sull’accusa mossa a Zam di «corruzione sulla terra», che ai nostri orecchi suona strana.

La sharia contempla un tipo di crimini definito con un termine che si può tradurre come «corruzione, marcio, disordine in senso morale». Chi diffonde questa corruzione sulla terra deve essere perseguito. Sono crimini commessi da nemici di Dio e dell’ordine da Lui voluto sulla terra, persone ingiuste e malvagie che mettono a repentaglio il buon essere, sia sociale, che morale, degli uomini.

Nel libro in cui illustra la propria idea di governo islamico, Khomeini afferma che esso deve rimuovere dalla società dei fedeli ogni traccia di corruzione. È difficile per il fedele, argomenta Khomeini, mantenersi puro e coltivare la propria fede in un ambiente corrotto. Invariabilmente finirà per corrompersi a sua volta, a meno che non scelga di distruggere la fonte stessa della corruzione e abbattere i regimi oppressivi. È chiaro a che cosa si riferisse l’autore in quest’opera, uscita nel 1970, quando si trovava in esilio in Iraq e faceva parte dell’opposizione, non solo islamica, allo scià. Anche lui, come Zam, poi ottenne esilio politico in Francia. Una storia che si ripete.

Dunque, per Khomeini è legittimo opporsi a un regime oppressivo, in quanto esso è corruttore di uomini. Questa parte del suo pensiero non è sbandierata in Iran, dove sono anche censurati i discorsi da lui stesso tenuti dopo il ritorno in patria, là dove affermava che è diritto del popolo decidere attraverso un referendum la forma di governo che preferisce. Ma, in quel caso, naturalmente, il voto avrebbe dovuto rimuovere la monarchia; com’è effettivamente avvenuto col referendum del 30-31 marzo 1979, che ha istituitoì la Repubblica islamica.

Un potere che non garantisce al fedele musulmano un ambiente propizio alla sua crescita spirituale, come per Khomeini era quello dello scià, è illegittimo ed è giusto fargli guerra. Al contrario, un potere che si basa sulla sharia e ha al proprio vertice una Guida spirituale, ossia il rappresentante di Dio in terra, dovrebbe creare le condizioni migliori perché quella crescita avvenga nel migliore dei modi. Qui è l’ubi consistam (il fondamento) del Governo islamico e la sua giustificazione.

Clero sciita, l’ipocrisia al potere

Dopo più di quarant’anni di governo assoluto del clero sciita, bisogna constatare che queste condizioni non ci sono ancora. Al contrario, la fede dei musulmani iraniani è stata, ed è messa a dura prova dal comportamento della classe politica al potere, che è continua fonte di scandalo, perché contraddice apertamente gli insegnamenti di pietà, giustizia, austerità impartiti dalla religione.

Una delle figure più care ai fedeli sciiti è quella del primo imam, Ali, genero di Maometto, che fu il quarto califfo dell’islam, capo politico, oltre che spirituale, dei musulmani. Di lui s’insegna che era uomo di grande pietà e giustizia, e che riteneva proprio dovere assicurare a tutti una vita dignitosa. Per se stesso considerava disdicevole vivere meglio dell’ultimo dei musulmani e viaggiava in incognito per vedere dove era il bisogno, e soccorrerlo. Di lui si raccontano molte storie devozionali.

In una di esse Ali giunge non riconosciuto a casa di una vedova, vede la miseria in cui vive con i suoi figli e si mette a servirli, poi porta loro del cibo, e, quando quella lo ringrazia, si schermisce, chiede perdono per non aver saputo compiere a tempo debito il compito di provvedere a loro. A questo punto la vedova capisce che il suo ignoto benefattore è, in realtà, il califfo.

Che cosa vede, invece, il cittadino della Repubblica islamica? Vede che religiosi e politici influenti, sebbene predichino la necessità di una vita modesta al servizio dei poveri, vivono in un lusso mal celato; vede che i più redditizi settori dell’economia sono monopolizzati da organizzazioni legate al clero; vede intorno la miseria di tanti che non hanno il necessario per vivere, mentre ingenti risorse sono utilizzate per finanziare una politica estera ambiziosa; quando ha a che fare con le istituzioni a qualsiasi livello, conosce l’umiliazione di dover ottenere grazie a conoscenze, o al denaro, diritti e servizi che gli dovrebbero essere garantiti. Il cittadino vede la corruzione, vede l’ingiustizia e il mal governo, ma non può parlare, perché ha paura, perché criticare la Repubblica islamica può essere equiparato a bestemmia, con tutte le conseguenze che ne derivano. Come abbiamo visto, blasfemia è una delle accuse sollevate contro Zam.

Villaggio sulle montagne iraniane. Foto Mustafa Meraji – Pixabay.

Insofferenza, astio e frustrazione

Tutto ciò ha nel tempo logorato la fede degli iraniani. Un governo che si presenta come la voce di Dio in terra, con il comportamento dei suoi servitori ha discreditato l’idea stessa di Dio, ha seminato l’agnosticismo, l’insofferenza per ogni discorso sulla religione e l’astio verso i suoi ministri. È un danno che, tra l’altro, ricade su tutto il clero, anche su quelli che non condividono le ambizioni temporali del governo teocratico. La generazione arrivata alla maturità prima della rivoluzione è in genere rimasta legata ai valori tradizionali, ma le generazioni venute dopo, cresciute in un mondo in cui la difformità tra parole e realtà è la regola, in cui l’ipocrisia è premiata, sono disorientate e vivono un forte disagio interiore. In estrema sintesi: l’immoralità dei teocrati ha generato un’amoralità diffusa. Sempre di più nei giovani ai riferimenti tradizionali si sostituisce la ricerca dei valori materialistici del confort personale, del denaro, dell’affermazione sociale, che si scontra, però, con la crisi economica in cui da anni versa il paese, aggravata dal regime delle sanzioni.

Le difficoltà economiche rendono molto arduo fare progetti per sé e per la propria famiglia, il futuro appare incerto, si vive in una costante preoccupazione per il domani. Sono problemi reali: la mancanza di lavoro, o la paura di perderlo, l’inflazione che moltiplica le spese, gli affitti esorbitanti, una malattia che mette in ginocchio tutta la famiglia, perché le cure sono a pagamento. Però le difficoltà sono tanto più sentite, quanto più la felicità s’immagina legata al raggiungimento di beni materiali. Questa condizione mentale, che accomuna ricchi e poveri, è una vera e propria malattia dello spirito, un’epidemia, molto peggiore del Covid. I soldi sono diventati un’idea fissa. Ormai i discorsi che si sentono in giro sono monotematici. Si parla dei prezzi che crescono, di ciò che si può comprare o vendere, di ciò che si ha o che si vorrebbe. Chi ha, vorrebbe di più, chi non ha, pensa a come fare per avere. I giovani hanno pochi strumenti per difendersi dal pensiero dominante, non riescono a elaborare un’alternativa, e ne rimangono soggetti. A causa del senso di frustrazione creato dalla distanza tra realtà e desiderio cadono in depressione, ricorrono agli stupefacenti, o si tolgono la vita. Quello dei suicidi in Iran è da anni un dato in crescita, soprattutto nelle aree urbane. Non ci sono statistiche ufficiali attendibili, i mezzi d’informazione non ne parlano, ma tra la gente questo aumento è percepito. Mi è recentemente capitato di parlare con un pompiere che fa servizio nell’area dove risiedo, poco fuori Teheran. Lui aveva ben chiara la drammaticità della situazione, perché i pompieri hanno dovuto moltiplicare gli interventi per suicidio e oramai sono chiamati più volte a settimana.

Maria Chiara Parenzo


Archivio MC:

Minareto a Qom. Foto Mustafa Meraji – Pixabay.




Turisti per forza

testo e foto di Alberto Sachero |


Reportage dalle isole Canarie, dove la Spagna e l’Europa parcheggiano a forza i migranti africani, trasformando i grandi alberghi per turisti in domicili coatti per migliaia di persone in fuga da guerre e povertà.

La rotta migratoria atlantica è quella che dal Nord Ovest dell’Africa conduce all’arcipelago delle isole Canarie, territorio spagnolo.

È una rotta marittima solcata dagli africani in cerca di una vita migliore dall’inizio degli anni ‘90 ed è ritenuta molto pericolosa in quanto attraversa le acque insidiose dell’Oceano Atlantico. È stata la prima via d’acqua verso l’Europa a essere percorsa ben prima di quella mediterranea, ma a causa della sua difficoltà e delle valide alternative, solamente nel 2020 è tornata in auge con ingenti arrivi.

Rifugiati sulle spiagge dell’isola Gran Canaria. – ® Alberto Sachero

Una rotta più sicura

La rotta mediterranea difatti, o meglio le tre rotte mediterranee (Libia/Tunisia-Italia, Marocco-Spagna e Turchia-Grecia), sono più brevi e meno pericolose. Negli ultimi anni, però, sono diventate sempre più difficili da percorrere.

In Italia il decreto Minniti prima e i decreti sicurezza Salvini poi, criminalizzando le Ong e ostacolando l’assistenza e soccorso nel Sud del Mediterraneo, hanno ridotto le partenze da Libia e Tunisia. Anche il secondo governo Conte, per mano della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, ha stretto patti e sovvenzionato il governo libico e quello tunisino per limitare il più possibile il flusso migratorio. Inoltre, le umiliazioni e le atroci torture inflitte nelle carceri libiche scoraggiano i migranti a percorrere questa via.

Più a Ovest, sulla rotta mediterranea occidentale tra Marocco e Spagna, sono state costruite, nelle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla, chilometri di reti per arginare il passaggio. Il governo spagnolo ha pagato quello marocchino per disincentivare le partenze.

Idem nel Mediterraneo orientale, dove i pattugliamenti greci, scaduto il patto miliardario con il dittatore turco Erdogan, si sono intensificati aumentando di fatto i respingimenti.

Un altro motivo che ha spinto le persone verso le Canarie, è il costo del viaggio. Fuerteventura, l’isola più vicina alla terraferma, dista solo 70 km dal Marocco, le altre poco più. Mentre nel Mediterraneo si arriva a spendere fino a 5mila euro, oltre al denaro per raggiungere il posto di imbarco (in Marocco, Libia o Tunisia), nell’Atlantico il costo è decisamente inferiore: tra i 400mila e i 700mila franchi Cfa, moneta utilizzata da 14 paesi africani ex colonie francesi, equivalenti a 600-1.000 euro.

Rifugiati sulle spiagge dell’isola Gran Canaria. – ® Alberto Sachero

No options

La storia insegna che le migrazioni non si possono fermare, si possono solo temporaneamente limitare. Per tanti non ci sono alternative. No options, come mi hanno sempre ripetuto i migranti incontrati. Rese più difficilmente praticabili le rotte mediterranee a suon di euro e motovedette, le attenzioni di chi cerca miglior futuro si sono rivolte, nonostante l’elevata pericolosità, alla rotta atlantica, porta d’ingresso occidentale dell’Europa.

Al 20 dicembre, data del mio arrivo sulle isole, si calcola che nel 2020 siano sbarcati circa 23mila migranti, molti dei quali tra ottobre e dicembre, nove volte in più rispetto al 2019. Provengono da paesi nei quali è difficile vivere e lavorare come Marocco e Senegal, o dove vi è una grossa crisi politico-sociale come Mali, Mauritania, Costa d’Avorio, Guinea Conakry, Guinea Bissau e Gambia.

Da pescatori a profughi

La maggior parte dei migranti sono ragazzi molto giovani che lasciano i propri paesi per disperazione e mancanza di futuro. Il loro sogno è quello di arrivare in Europa e costruirsi una nuova vita aiutando così la famiglia rimasta nel paese di origine.

Per arrivare alle Canarie partono dalle località di mare di Marocco, Sahara Occidentale, Mauritania e Senegal. Il viaggio può durare da 4 a 20 giorni, a seconda della distanza e delle condizioni dell’oceano. Si stima che sui 25mila partiti, più di 2mila non siano mai arrivati, ma finiti in fondo al mare in quella grande tomba che, come il Mediterraneo, non sappiamo esattamente quanti corpi accolga.

Le imbarcazioni utilizzate sono quelle in legno variopinte dei pescatori locali. Possono ospitare da 10 a 40 persone, a seconda della grandezza dello scafo.

Imbarcazioni sequestrate nel porto di Arguineguin, Isola Gran Canaria ® Alberto Sachero

Parcheggiati sul molo

Negli ultimi mesi, la maggior parte degli arrivi sono avvenuti nel Sud dell’isola Gran Canaria, nella zona delle località turistiche comprese tra Maspalomas e Puerto Rico. Di norma le imbarcazioni vengono avvistate dagli elicotteri, che danno l’allarme alle vedette di salvataggio spagnole ormeggiate nel porto di Arguineguin. Queste salpano per recuperare i migranti che vengono portati sul molo, identificati e smistati nei centri di accoglienza dell’isola.

I barconi, chiamati patera in spagnolo, vengono poi trainati e ormeggiati in fondo al molo.

Tra ottobre e dicembre 2020 il numero degli arrivi si è impennato. Le autorità spagnole si sono fatte trovare completamente impreparate e hanno deciso di parcheggiare 2.300 persone sul molo stesso, trattandole di fatto come bestiame. In condizioni igienico-sanitarie precarie, buttate a terra senza possibilità di lavarsi, sono state ospitate in questa sorta di campo gestito dalla Cruz Roja, la Croce Rossa spagnola, per circa 15 giorni.

Il Covid-19 per loro non conta, si è scelto di non far rispettare le distanze di sicurezza. Giornalisti e fotografi sono stati tenuti alla larga, con le buone o le cattive maniere, ufficialmente per proteggere la privacy dei migranti. In realtà, per tentare di occultare le pessime condizioni dei campi e il mancato rispetto delle regole sul diritto internazionale.

La popolazione locale si è divisa su questo tema: alcuni portavano aiuti alimentari, altri inveivano contro i ragazzi. Ci sono state manifestazioni pro e contro, come sulla vicina isola di Tenerife.

Dopo due settimane, le autorità hanno finalmente trasferito i migranti: una parte in un campo tendato nella periferia di Las Palmas, capitale di Gran Canaria, e l’altra, dopo una lunga trattativa con gli albergatori dell’isola, nelle stanze solitamente occupate dai turisti europei, ma ora vuote a causa del Covid-19.

Rifugiati sulle spiagge dell’isola Gran Canaria. – ® Alberto Sachero

Incontri

Il giorno del mio arrivo nella capitale Las Palmas, incontro Kamal, un ragazzo marocchino ospite nella Fabrica, un hotel gestito da Cruz Blanca, che ospita circa 150 migranti. Ha 28 anni e un figlio che vive con la nonna a Safi, la citta marocchina da cui proviene, affacciata all’Oceano Atlantico. Per imbarcarsi è sceso fino a Dakhla, una località nel Sud del Marocco. In tutto ha viaggiato per sette giorni.

Mi dice che la vita nel suo paese è impossibile. Non si trova lavoro e le condizioni sono sempre più difficili.

Vuole andare in Spagna, trovare lavoro e aiutare il figlio e la madre. Il padre e il fratello sono annegati in un naufragio nel 2019 poco distanti da Lanzarote, isola nel Nord Est dell’arcipelago. In pochi anni ha perso 21 amici della sua stessa città, annegati. Mi mostra il lungomare di Las Palmas, dove alcuni migranti vivono, preferendo la strada all’accoglienza. Si sentono meno comodi, ma più liberi. Bivaccano in tende sulla spiaggia, rifugi di fortuna dietro al porto, angoli desolati sotto i cavalcavia.

Il giorno successivo mi reco ad Arguineguin. Fortunatamente i migranti non ci sono più, ma trovo una ventina di barconi ormeggiati in fondo al molo, tra le barche a vela e i catamarani dei turisti. Con qualche difficoltà riesco a salire a bordo.

Sembra di entrare in una casa dove è appena passato un uragano e da cui la gente è fuggita in fretta e furia. Sul fondo dello scafo trovo di tutto. Bidoni di benzina, alcuni vuoti altri ancora pieni, teloni di plastica, giubbotti salvagente, guanti, stivali di gomma, mantelle e pantaloni antipioggia, crema solare, fusti da cinque litri di acqua da bere, cartoni ancora pieni di latte, tantissima frutta secca, barrette energetiche, chili di pane. Tutto ciò che serviva per sopravvivere alla traversata. Quel che più mi colpisce è la presenza di oggetti personali. Probabilmente nella fretta di scendere dai barconi, i migranti li hanno lasciati a bordo, o forse il personale addetto al salvataggio li ha obbligati ad abbandonarli.

Trovo vestiti, zainetti pieni, beauty case, giochi per bimbi, mappe geografiche, persino un paio di mutandine colorate nuove con l’etichetta ancora attaccata.

Due abitanti del paese salgono a bordo e recuperano tele cerate, giacche antipioggia e salvagenti che possono servire. Mi chiedono di non essere fotografati. Trovo giusto recuperare indumenti che possono essere ancora utilizzati. Alcuni turisti si fanno selfie con i barconi come sfondo, altri ancora strappano una luce di emergenza e se la portano via. Intorno, barche a vela ancorate, turisti che pagaiano sulla tavola da surf, moto d’acqua che solcano le onde e gente che prende il sole in topless sulla spiaggia.

Rifugiati in uno degli alberghi di Puerto Rico, Gran Canaria – ® Alberto Sachero

«Turisti» per forza

Mi reco poi a Puerto Rico, il penultimo paesino al termine dell’autopista GC1, unica grande strada che unisce la capitale Las Palmas con il Sud dell’isola.

Questa località turistica in mezzo al nulla è costituita da grandi alberghi e casette a schiera per turisti, con relativi servizi come negozi, bar e ristoranti. Quest’anno 2020, l’alta stagione invernale è partita male e prosegue peggio. Solo i pochi turisti europei residenti sulle isole, o che vi lavorano, sono giunti alle Canarie. Gli alberghi sono vuoti, quindi il governo iberico, vista l’emergenza di Arguineguin, ha deciso di riempirli di migranti. Gli hotel Servator, Holiday Club e Canema concedono loro le stanze ma non l’accesso a sala da pranzo, piscina e spazi comuni.

La spiaggia di Puerto Rico sembra un’arena, circondata sui tre lati da immensi alberghi e strutture ricettive di colore bianco. Il quarto lato è il mare.

Quattro senegalesi fanno ginnastica sul bagnasciuga per tenersi in forma, mentre alcuni turisti sovrappeso li osservano meravigliati. Chiacchiero mentre faccio un po’ di ginnastica con loro.

Aliou mi racconta che in Senegal facevano i pescatori e lavoravano sulle stesse barche utilizzate per arrivare alle Canarie. Un milione e mezzo di persone vivono di pesca, in uno dei mari più ricchi del mondo. Negli ultimi dieci anni la quantità pescata dai locali è diminuita di circa l’80%. I grandi pescherecci provenienti da mezzo mondo svuotano con le loro reti il mare, dopo aver stipulato accordi vantaggiosi con i governanti locali. Ai senegalesi restano le briciole.

L’ultima volta sono stati in mare tre giorni pescando cinque cassette di pesce, mentre pochi anni prima ne pescavano fino a otto volte di più. Hanno quindi deciso di arrivare in Europa per tentare un futuro migliore. Così non potevano sopravvivere.

Campo di “Barranco Seco”, periferia di Las Palmas, isola Gran Canaria ® Alberto Sachero –

Braccialetti gialli

Conosco poi Mussa, un ragazzo del Gambia, mentre attraversa col semaforo rosso. Un turista italiano gli urla dall’auto: «Cannibale! Guarda cosa fai!». Lui mi spiega che non sa cosa sono i semafori: nel suo villaggio in riva al fiume Gambia non ne ha mai visti.

A 15 km da Puerto Rico sorge il villaggio di Maspalomas, la meta turistica più frequentata dell’isola, nota per le bellissime dune di sabbia sulla spiaggia. Una distesa di negozietti discoteche e bar costeggia la bella «Playa des Ingles».

Qui alcuni migranti vivono stabilmente da alcuni anni, visto che i controlli della polizia sono molto più rari che a Las Palmas. Vendono ricordini e gadget ai turisti, che però ora scarseggiano. I migranti arrivati recentemente occupano invece anche qui i mega hotel svuotati dal Covid-19.

Nella piazzetta centrale conosco una ragazza senegalese che fa treccine ai capelli per 10 euro, e un ragazzo della Guinea che vorrebbe trovare una donna bianca un po’ «più grande» di lui e sposarla, per rimanere a vivere a Maspalomas. Parlo con quattro ragazzi del Mali, dove una guerra interna dura da anni. Ci scambiamo i numeri di telefono. Vorrebbero venire in Italia e incontrarmi al loro arrivo. Come tutti i migranti ospitati negli hotel dell’isola, hanno al polso un braccialetto giallo con un codice identificativo.

Campo o prigione?

Altri migranti purtroppo sono stati meno fortunati, e sono stati rinchiusi a Barranco Seco, un campo costruito velocemente alla periferia sud della capitale Las Palmas, nei pressi dello stabilimento della birra «Tropical», la «cerveza» prodotta in Gran Canaria. Il campo è costruito in un sito militare dismesso e può contenere circa mille persone. Qui sono stati portati la maggior parte dei migranti rimasti due settimane sul molo di Arguineguin. Dormono nelle tende, non possono uscire e sono sorvegliati da un ingente numero di poliziotti.

La situazione creatasi di recente alle Gran Canarie risulta piuttosto complessa. Il 2020 passerà alla storia come l’hanno del Covid-19 e dei migranti. Mentre a causa delle restrizioni sui viaggi all’estero sono presenti pochissimi turisti, circa 23mila migranti sono sbarcati sulle isole, 7mila dei quali sono stati sistemati proprio nei grandi hotel occupati fino al marzo scorso dai turisti. Una volta terminata l’emergenza Covid-19 e riaperte le porte al turismo, i migranti dovranno «sparire» dalla circolazione e verranno probabilmente rinchiusi nei nuovi campi che l’esercito sta costruendo. La Spagna (e quindi l’Europa) sta di fatto utilizzando le isole Canarie come parcheggio, come le isole di Lesbo e Kios in Grecia. Nel frattempo, sta cercando di firmare accordi con Marocco e Senegal, per limitare le partenze e aumentare i rimpatri, che per il momento faticano a essere stipulati. Dei 23mila migranti arrivati nel 2020, pochissimi riusciranno ad arrivare dove vorrebbero: Spagna continentale, Francia, Germania, Nord Europa. La maggior parte continuerà a essere trattenuta in queste isole, senza futuro. In un limbo: senza tornare indietro e senza poter andare avanti.

Ptoteste degli albergatori a causa delle crisi causa Covid – ® Alberto Sachero

Strategia discutibile

La strategia anti migratoria europea è chiara: sigillare le frontiere e non concedere, se non in pochi casi eccezionali, il diritto di asilo politico. Una strategia sbagliata che mostra come i governi europei non hanno alcuna intenzione di aiutare le popolazioni in difficoltà. Ritengono più giusto bloccare i migranti, spesso provenienti da luoghi impoveriti da politiche economiche succubi degli interessi di multinazionali e paesi ricchi, invece di permettere loro la ricerca di una vita migliore lontano dal proprio paese.

Alberto Sachero,
da Las Palmas




Abitare insieme, diversamente

testo di Daniele Biella |


Storicamente presente nel Nord Europa, è arrivato da anni anche nel nostro paese. Abitare in comune, condividere, supportarsi. È difficile definire il cohousing. La cosa migliore è conoscere e raccontare le esperienze vissute.

«La compagnia, la conversazione, la condivisione, il sapere che qualcuno c’è nel momento del bisogno: la vita risulta più facile se hai qualcuno che la percorre al tuo fianco». Quando Eric Klinenberg, sociologo e scrittore statunitense, pronuncia questa frase, sa bene che c’è in corso un cambiamento epocale e virtuoso del modo in cui l’uomo può «abitare» la comunità nella quale vive. C’è la persona, certo, magari con il proprio partner, la propria famiglia, con cui condivide gli spazi di una casa. Ma in molte zone del mondo, Italia compresa, si fa strada qualcosa di più ampio: «Al tuo fianco», infatti, possono percorrere il cammino quotidiano anche altre persone e famiglie con cui nel corso del tempo hai fatto una scelta importante e, per certi versi, rivoluzionaria: la coabitazione.

Abitare condiviso, cohousing, ecovillaggi, sono i nomi che possiamo avere sentito da qualcuno o in qualche media. Nomi che rappresentano un contenitore – di varie dimensioni – il cui contenuto è dato da chi ci abita e, quindi, ogni volta diverso, deciso in piena collaborazione, particolare. Ma di cosa stiamo parlando? Ecco un esempio da cui partire, preso nel mucchio (le esperienze attive e censite in Italia sfiorano il centinaio).

Porte aperte

Siamo a Velate, paesotto di tremila abitanti unito a Usmate, alle porte di Monza, Lombardia. Qui sei famiglie, 12 adulti più 16 bambini da 2 a 13 anni, conosciutesi per la maggior parte negli ultimi 6-7 anni, stanno per realizzare il loro sogno: vivere sotto un unico tetto, nel cohousing «Uno e sette» (www.unoesette.it).

Costruito – nel vero senso della parola, perché in questo caso si è partiti dall’acquisto del terreno – attraverso una miriade di incontri e decisioni comuni, Uno e sette prende forma in un edificio nel quale ogni nucleo avrà il proprio appartamento, i propri indispensabili spazi famigliari, a cui però si aggiungono una serie di spazi comuni concepiti come un tutt’uno con le abitazioni. Ovvero da vivere ogni giorno dalla singola famiglia come allargamento della propria casa: un salone comune in cui ritrovarsi e far ritrovare la comunità del paese promuovendo eventi, una zona di coworking (postazioni di lavoro condivise) e una lavanderia comune, un giardino collettivo, una postazione dove fare musica, e terrazze nelle quali la parola d’ordine è «assieme». «Uno stare assieme non forzato, che rispetta i tempi di tutti, basato sul mutuo aiuto e su relazioni di qualità, elementi che riteniamo importanti sempre, tanto più in un periodo delicato e drammatico come quello che stiamo vivendo durante la pandemia», spiega Sabrina Curzi, membro di Uno e sette. Lei è assistente sociale e lavora a Milano per la cooperativa Farsi prossimo. Nel gruppo ci sono anche due professori, un ingegnere, una musico terapista, una libraia e altre figure unite dalla volontà di un vicinato improntato all’altruismo: Il nome, Uno e sette, parte dall’omonima favola di Gianni Rodari («Ho conosciuto un bambino che era sette bambini»), e si riferisce al fatto che nel cohousing c’è un settimo appartamento dedicato ad accogliere, in collaborazione con enti pubblici e privato sociale, persone in temporaneo stato di necessità come anziani, persone disabili o non autosufficienti, famiglie monogenitoriali. «Ora siamo alla scelta dei pavimenti per gli spazi comuni, ma alla base ci sono confronti settimanali su ogni tema, sia pratico che valoriale», continua Curzi. I cohousers hanno fondato una cooperativa edilizia, ottenuto un finanziamento da Banca Etica, ed entro giugno 2021, a prescindere dal colore dell’emergenza sanitaria, inaugureranno la loro nuova dimora, passiva e solidale. Nel frattempo hanno lanciato sulla piattaforma GoFundme.org una raccolta fondi per chi volesse aiutarli nel sostenere il progetto di accoglienza.

Anche in pandemia

L’esempio di Uno e sette è solo una delle tante esperienze virtuose presenti in varie zone d’Italia. Che si tratti di recuperare un casolare abbandonato o di costruirne uno ex novo con forte attenzione alla sostenibilità ambientale, l’importante è impostare il proprio modello su una convivenza attiva e attenta a chi ti sta accanto. «Il lockdown, in questo senso, ci ha riportati a casa: conosciamo di più chi vive attorno a noi, andiamo più spesso al negozio specializzato del quartiere, ci interessiamo a forme di relazione più significative rispetto alla frenesia con cui siamo abituati a vivere», ragiona Nicholas Bawtree, nato nel 1978 nell’agriturismo toscano dei genitori e oggi direttore responsabile di «Terra Nuova» (www.terranuova.it), il mensile cartaceo con l’occhio attento ai temi del consumo critico, del biologico e delle scelte di vita sostenibili.

La curiosità verso i cohousing e gli ecovillaggi è in aumento da anni, la pandemia ha dato ulteriore spinta: «Spesso questi sono progetti con un’intenzionalità molto forte, in ogni caso sono sempre di più le esperienze di persone che aprono le proprie case verso l’esterno, anche in vie di mezzo come i Gas, Gruppi di acquisto solidale, o altre esperienze di cohousing diffusi e servizi condivisi», aggiunge Bawtree.

L’approccio comunitario ha una propria innegabile storia: basti pensare alle centinaia di case famiglia attive da decenni in tutta Italia, ma anche a diversi contesti religiosi nei quali si pratica vita comunitaria.

Nel caso delle recenti nuove forme dell’abitare, esse nascono anche dai mutamenti in atto nella società: il costo della vita in forte aumento e il consolidamento di un individualismo legato alla società dei consumi, per esempio, stanno motivando migliaia di persone a cercare modelli alternativi, dal ritorno alla natura, tipico degli ecovillaggi, alla condivisione di spazi abitativi nei cohousing, più diffusi nei centri a forte urbanizzazione.

Daniel Tarozzi, giornalista e videomaker, oltre a scegliere in prima persona uno stile di vita sobrio nell’entroterra ligure (progetto Altopia – La casa del cambiamento), ha fondato nel 2012 la testata web «Italia che cambia» (www.italiachecambia.it), e da allora viaggia appena può in camper in ogni regione italiana a scovare le esperienze di buone pratiche: «Sono anni che non mi fermo, e ancora mi sembra di avere visto poco, data la quantità di esempi virtuosi che ci sono», sottolinea.

Per quanto riguarda il cohousing, «di solito nasce da gruppi di coppie con o senza figli. Ma non sono poche le esperienze di condivisione nate da over 65 – efficace alternativa alla casa di riposo – e da giovanissimi che dopo avere vissuto insieme come studenti decidono di continuare a farlo cercando una struttura idonea», ragiona Tarozzi.

Anche la visione degli ecovillaggi sta mutando: «Si sta superando lo stereotipo che li vede come comunità stravaganti. Esse in realtà rappresentano modelli virtuosi di ripopolamento borghi e buon vicinato». Per capire nel dettaglio quanti sono e come stanno evolvendo sia cohousing che ecovillaggi, ecco due voci autorevoli: Housinglab, associazione di Milano che mappa da anni le coabitazioni in piccole e grandi cittadine, e la Rive, Rete italiana villaggi ecologici.

Anche in città

Dal 2014 HousingLab (www.housinglab.it) setaccia le città d’Italia alla ricerca dei nuovi gruppi che vivono l’abitare collaborativo, continuando a tenere stretti rapporti con le realtà già esistenti. «Nel 2018, quando abbiamo pubblicato il libro “Cohousing, l’arte di vivere insieme” (Altreconomia editore), abbiamo contato 40 esperienze attive. Da allora, il numero è in costante aumento e anche durante questi mesi della pandemia si stanno formando ulteriori gruppi», spiega Liat Rogel, ricercatrice di origini israeliane che oggi ha tre figli, vive in un condominio solidale a Milano e ha alle spalle tre anni di studi a Berlino e un dottorato in design di servizi e abitare collaborativo conseguito al Politecnico milanese. È lei che, assieme a Chiara Gambarana, ha fondato HousingLab, associazione che si occupa anche di facilitazione e accompagnamento di chi sceglie la strada del cohousing. «Di solito si parte da 2-3 persone, con le rispettive famiglie, che poi coinvolgono altri, creando quella relazione di fiducia necessaria per prepararsi a una vita di coabitazione fatta di decisioni prese in comune». Sul sito di HousingLab si può trovare una mappatura delle coabitazioni, completa di statistiche di ogni sorta, dall’età dei componenti – la fascia 36-65 anni è la più rappresentata, al 38%, seguita al 28% da quella dai 19 ai 35 – alla costituzione dei nuclei: per il 46,5% sono coppie con figli, per il 32,5% senza figli, il 21% single (a fronte di una media generale in Italia che vede i single al 38%, le coppie con figli al 28% e senza figli al 34%).

«Ogni cohousing è diverso dall’altro, ha le sue peculiarità. Di certo li accomuna il fatto che le persone condividono oggetti e spazi in una relazione che non è di condivisione forzata ma basata sul mutuo aiuto», continua Rogel. A volte, infatti, in chi si affaccia al tema, c’è la preoccupazione che vivere in cohousing sia troppo coinvolgente e che limiti gli spazi personali e famigliari, ma non è così: «Spesso è un antidoto all’isolamento che si vive nelle città, perché negli spazi in comune si riscopre la socialità».

Andare a vivere in cohousing non significa risparmiare sul costo della casa: «I prezzi delle abitazioni rimangono spesso quelle di mercato», conferma la fondatrice di HousingLab. Ma il guadagno è, appunto, nelle relazioni profonde che si instaurano fra i membri del gruppo.

I primi modelli di abitazioni condivise nascono nell’Europa del Nord e in quella centrale, dalla Danimarca fino a Vienna, e ancora oggi è là che ci sono le esperienze più solide. Ma anche in Italia, soprattutto sull’asse Milano e Torino ma anche in Emilia Romagna, Toscana e nella città di Trento, se ne trovano molte. Ecco qualche nome: attorno al capoluogo lombardo si trovano Base Gaia, Urban village Bovisa, Cenni di cambiamento, Cohousing Terracielo, mentre a Torino il Cohousing Numero Zero, Abitare la fabbrica, il Condominio solidale Casa di via Gessy e la rete di Coabitazioni giovanili solidali. Spesso, come accade nel caso di Uno e sette, la realtà solidale sceglie di riservare spazi per accogliere persone in situazione di disagio: in questi casi, se nel progetto di accoglienza è coinvolta la Pubblica amministrazione o una Fondazione di comunità, l’azione portata avanti dal cohousing rientra in quello che viene chiamato housing sociale (tra le fondazioni più attive a livello nazionale c’è proprio la Fondazione housing sociale).

Dentro gli ecovillaggi

Uscendo dai centri abitati si apre il mondo degli ecovillaggi, realtà dinamiche dalle mille sfaccettature spesso immerse nella natura o in piccoli borghi recuperati nei quali si mette in atto una «rialfabetizzazione» delle relazioni, una condivisione di potere, spazi e decisioni che affascinano anche molti giovani.

Da qualche tempo c’è una proposta di legge sulle «comunità intenzionali» che vorrebbe dare un riconoscimento più formale a tale modo di vivere.

A fare da collettore di esperienze in questo caso è la storica Rive (www.ecovillaggi.it), di cui Francesca Guidotti è stata per anni presidente, ancora oggi uno dei maggiori punti di riferimento a livello nazionale: «Per spiegare gli ecovillaggi parto sempre da una metafora: la vita comunitaria è come un vestito, i cui colori e forme vengono scelti da chi lo indossa, ovvero dalle persone che vivono la comunità. Quindi ogni ecovillaggio è unico, è come la vita di una persona: dall’infanzia in cui si inizia, alla gioventù in cui si esplora la nuova modalità di vita, alla fase adulta dove l’identità diventa ben radicata».

Guidotti ha 35 anni, è diventata madre da poco, ed è autrice del libro guida «Ecovillaggi e Cohousing», Terra Nuova edizioni). Ha iniziato a occuparsi di questi temi più di un decennio fa, durante la tesi in antropologia culturale, e oggi si occupa di formazione per team di realtà collaborative con l’ente Campus del cambiamento, oltre a essere portavoce della Rete di reti (www.retedireti.org), struttura leggera nella quale convergono gruppi informali e associazioni di ecologia ed economia solidale, e in cui rientra a pieno titolo il coabitare. «Confermo che il fenomeno del vivere assieme è in espansione, e il coronavirus ha dato ulteriore spinta a cercare forme di relazioni alternative, in cui si genera benessere sociale per una vita a minore impatto sull’ambiente con uno stile di vita solidale», continua Guidotti, che ha cofondato l’ecovillaggio La Torre di Mezzo, in Toscana. Nel caso dei villaggi ecologici l’asse portante si sposta dal Nord verso il Centro Italia: Torri Superiore vicino a Ventimiglia, Bagnaia nei pressi di Siena, Tempo di Vivere e Lumen a Piacenza, Alvador a Reggio Emilia, La città della Luce ad Ancona sono alcuni dei nomi da conoscere per capire.

Si può fare

Entrando nelle case e conoscendo chi vive realtà di coabitazione, una cosa risulta chiara: è una scelta che si può fare, alla portata di gran parte di noi. Bisogna volerlo, certo. «La base è accorgersi dell’altro. Ancora di più in tempi di costrizione come quelli attuali», riflette Nicholas Bawtree. «Ognuno di noi può essere una risposta a un bisogno altrui, dobbiamo andare in profondità nel “deep web” dell’essere umano per vedere l’altro non come entità minacciosa, ma come risorsa per stare meglio noi stessi». Con un consiglio finale. «Diciamo più spesso buongiorno e buonasera a chi incontriamo in strada, soprattutto ora che abbiamo le mascherine: sciogliamo la tensione salutandoci, è davvero un toccasana». Anche questo è un approccio comunitario alla vita.

Daniele Biella

  




Ribelli, mercenari ed eserciti

testo di Marco Bello |


Pare strano che uno dei paesi più poveri dell’Africa sia di tanto interesse per potenze mondiali e continentali. Il conflitto che dura dal 2013 e si sta riattizzando, sotto forme diverse, suscita non pochi interrogativi. La risposta, come sempre, sta nel sottosuolo.

«La gente è demoralizzata. La cosa più brutta è che manca la speranza», ci racconta una nostra fonte da Bangui, la capitale della Repubblica Centrafricana, che richiede l’anonimato.

Nel grande paese nel cuore dell’Africa (esteso due volte l’Italia, con 5 milioni di abitanti), senza sbocchi sul mare, negli ultimi mesi da sotto le ceneri di una mai spenta guerra civile, è venuta una fiammata.

Tutto è iniziato a metà dicembre 2020, quando sei gruppi ribelli, attori del conflitto che ha insanguinato il paese tra il 2013 e il 2018, sono tornati allo scoperto uniti sotto il nome di Coalizione dei patrioti per il cambiamento (Cpc) e ha attaccato l’esercito regolare, le Faca (Forze armate centro africane), prendendo il controllo di diverse città. Si dice che siano arrivati a controllare i due terzi del paese. È stata la ripresa della guerra,che, dopo gli accordi di Karthoum del 2019 tra governo e alcune fazioni ribelli, si era placata, lasciando di fatto irrisolti molti problemi.

«Una mossa che in qualche modo ci si aspettava con l’approssimarsi delle elezioni», rivela la nostra fonte. Il 27 dicembre scorso, si è infatti tenuto il primo turno delle elezioni presidenziali e legislative. Elezioni perturbate appunto dagli attacchi della Coalizione in diverse zone del paese. Il 14 marzo, poi si è svolto il secondo turno delle legislative, ma anche il recupero del primo turno nei seggi dove non era stato possibile votare. Le presidenziali, invece, avevano già dato un risultato al primo turno, con la rielezione del presidente Faustin-Archange Touadéra, in carica da cinque anni, con quasi il 54% dei voti.

La rinascita dei ribelli

Ma chi sono questi ribelli? Come sono organizzati? Chi li arma? E quali sono le altre forze in campo?

Nella Coalizione si assiste a un «matrimonio contro natura», commenta la nostra fonte, in quanto si trovano gli anti Balaka con gli ex Séléka, feroci avversari negli anni 2013-2018. Inoltre a metà marzo la Coalizione ha chiesto al generale François Bozizé, di diventare il suo coordinatore, e lui ha accettato. Bozizé, presidente dal 2003 al 2013, che era stato cacciato dal potere proprio dai Séléka.

La nostra fonte mette in evidenza alcune anomalie dell’attuale ribellione: «I ribelli di oggi sembrano diversi da quelli del periodo precedente. Sono bene armati e organizzati. Non compiono saccheggi efferati come facevano prima. Sembra che ci sia qualche finanziamento dietro. Questo è un primo elemento». Inoltre, continua, «la coalizione nasce contro il presidente Touadéra, però ha disturbato le elezioni in zone del paese dove questi difficilmente avrebbe vinto. Anche questo elemento è strano».

I ribelli, intorno al 20 dicembre, oltre a conquistare diverse città, hanno pure bloccato la Rn3, strada principale che collega Bangui con il Camerun, e quindi con lo sbocco sul mare, il porto di Douala, e il resto del mondo. Tutte le merci principali, compresi i beni di prima necessità, arrivano nel paese attraverso la Rn3, che passa da Bossembélé, Baoro, Bouar. «È il cordone ombelicale del paese, ed è rimasto bloccato due mesi. Così i prezzi in capitale e nel resto del paese sono aumentati», ci racconta padre Federico Trinchero, delegato provinciale dei Carmelitani Scalzi in Rca, raggiunto telefonicamente a Bangui.

Intorno al 13 gennaio i ribelli hanno attaccato Bangui, e sono stati a un passo dal conquistarla. «C’è stato un tentativo, che però non ha convinto nessuno, di prendere la capitale. È sembrata una finta. Erano pochi e male organizzati, al contrario del solito. Un altro elemento quanto meno strano». La nostra fonte sembra quasi ipotizzare degli accordi segreti tra ribelli e presidente.

Il Presidente Faustin-Archange Touadera (Photo by FLORENT VERGNES / AFP)

Nuovi alleati

La mossa del presidente Touadéra, già a dicembre, è stata quella di chiedere aiuto a due alleati fondamentali e insoliti per un paese da sempre «feudo» della Francia: il Rwanda di Paul Kagame e la Russia di Vladimir Putin.

Il Rwanda era già presente nel paese con un contingente nella Minusca (i caschi blu dell’Onu), per la quale, tra l’altro, fornisce il numero più elevato di uomini (1.686, dato di agosto 2020), ma ha prontamente schierato militari sotto i colori nazionali, circa 800 uomini ben armati e addestrati. «Il Rwanda da tempo aveva interesse a estendere la sua zona d’influenza in un paese ricco di oro e diamanti come la Rca», e si sa, il piccolo Rwanda è uno dei maggiori esportatori di minerali e preziosi (oro, coltan, ecc.), sottratti a paesi terzi (in particolare la Repubblica democratica del Congo).

I russi invece sono presenti in Rca con mercenari, o paramilitari, una milizia privata, assimilabile alla Wagner, compagnia militare privata, che avrebbe legami diretti con il ministero della Difesa russo, e che è stata impiegata in Siria e in Ucraina. Ufficialmente, l’ambasciatore Vladimir Titorenko, in un’intervista rilasciata a Radio France internationale, li chiama «istruttori», al servizio del ministero della Difesa russo, che in nessuno caso sono coinvolti in scontri armati. Chi li ha visti in azione dice che sono piccoli gruppi di militari esperti, sui 35-40 anni, che non stanno nelle caserme, ma si mischiano con la gente, occupando delle case vuote, dove stabiliscono le loro basi. Sono ben armati, forniti di risorse economiche, «pieni di dollari», e affiancano le truppe della Faca in operazioni di combattimento. L’ambasciatore conferma un incremento di 300 unità sulle 235 già presenti nel paese e pure quattro elicotteri da combattimento.

Grazie a questi potenti alleati, le Faca hanno potuto respingere i ribelli della Coalizione, riconquistando città dopo città, a partire da fine gennaio. «In effetti i ribelli si sono ritirati mano a mano che gli altri risalivano. Il problema è che non si è fatta pulizia, queste milizie si sono solo spostate», dice la fonte. In questo modo però è stata liberata anche la strada verso il Camerun, il 22 febbraio, e i camion hanno ripreso a circolare.

Ma la gente ha paura, i ribelli sono nelle campagne. «Nella nostra scuola di Baoro, gli alunni sono passati da 1.700 a 800, perché i genitori non vogliono mandarli. L’ospedale nei pressi di Bouar è inattivo, perché il personale e i pazienti non si fidano ad andarci», ci dice padre Aurelio Gazzera, missionario carmelitano a Bouar.

Bangui, durante le elezioni del dicembre 2020 (Photo by Nacer Talel / ANADOLU AGENCY / Anadolu Agency via AFP)

Caschi «blu stinto»

Poi c’è la missione delle Nazioni Unite in Rca (Minusca), presente nel paese dal 2014, una delle tre più grandi missioni Onu al mondo. Oggi può contare su circa 13.200 effettivi (di cui 10.800 militari, gli altri polizia e staff tecnico) e ha recentemente chiesto e ottenuto dal Consiglio di sicurezza un aumento di 3.700 unità. Le loro regole d’ingaggio non prevedono di attaccare il nemico, ma di rendere sicuro il processo elettorale.

La gente li accusa di immobilismo. «I ribelli sanno che i militari Minusca non possono andare oltre un raggio di cinque chilometri dalla loro postazione, per cui mettono il posto di blocco per fermare la gente a sei, e fanno quello che vogliono. Molti pensano che la richiesta di aumento sia una vergogna, perché aumenteranno le spese, ma continueranno a non fare niente».

Le vittime dei recenti scontri sono soprattutto i civili, di cui si contano circa 200mila profughi. La metà sono sfollati interni, secondo l’Ocha (Organizzazione delle Nazioni Unite per il coordinamento umanitario). Circa 105mila si trovano invece in Rdc, Ciad, Camerun e Congo.

Il primo ministro Firmin Ngrebada (al centro)  saluta la truppe mentre un elicottero russo vola sopra. (Photo by FLORENT VERGNES / AFP)

Cuori uniti

Il presidente Touadéra non è molto amato dalla popolazione: «In cinque anni non ha fatto granché – dice la nostra fonte -. Adesso è stato rieletto con poco più di 300mila voti, ovvero meno del 20% degli aventi diritto. Questo ci dice che è una presidenza debole e che la situazione non è per nulla stabile, potrebbero esserci recriminazioni».

Anche le legislative non sono state tanto favorevoli al partito del presidente, il Mcu (Movimento cuori uniti) che, pur restando maggioritario, è inseguito da indipendenti e opposizione. Anche il 14 marzo, in diverse zone del paese non si è potuto votare, ma l’Autorità nazionale elettorale ha assicurato che il 96% dei seggi è stato aperto.

Il maggiore concorrente di Touadéra, arrivato secondo alle presidenziali, è Anicet-Georges Dologuélé. È stato rieletto all’Assemblea nazionale, ma non brilla per iniziativa. «Le opposizioni, in particolare Dologuélé, hanno molto deluso. Non hanno reagito in tempo, avrebbero potuto creare delle alleanze, negoziare qualcosa di politico, ma non sono state all’altezza», sostiene la nostra fonte.

Secondo padre Federico: «Al contrario che nel 2013, nei recenti scontri non c’è l’elemento confessionale. Il tentativo di destabilizzare il paese è solo una guerra per il potere, quelli che erano nemici sono diventati alleati, uniti per prendere il potere». E continua: «Abbiamo passato due mesi nei quali la gente era disperata, se ci fosse stato un colpo di stato, saremmo tornati al punto di partenza. Adesso, dopo la controffensiva di regolari e alleati, la gente reagisce e cerca di riprendere le proprie attività».

Marco Bello


Intervista al cardinale Dieudonné Nzapalainga

L’instancabile ricerca della pace

Il giovane cardinale del Centrafrica percorre senza sosta il paese. Spesso con i «colleghi» musulmani e protestanti. Vuole parlare al cuore e alla coscienza. Perché crede fermamente che una uova società si possa costruire. Ma solo con l’impegno e la partecipazione di tutti.

Abbiamo contattato telefonicamente il cardinale Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, per chiedergli il suo punto di vista sulla ripresa della guerra. Monsignor Nzapalainga è anche un religioso della Congregazione dello Spirito Santo.

Cardinale, quali sono i maggiori problemi della Rca oggi?

«Il problema più importante è il raggiungimento della pace, perché quando c’è insicurezza, i bambini non vanno a scuola, i genitori non possono lavorare nel campo, la gente vive nascosta.

Affinché ci sia la pace occorre che i dirigenti si riuniscano, inizi un dialogo, e chi combatte riprenda a fare il lavoro che faceva prima di pensare che prendendo le armi si può diventare ricchi, distruggendo, saccheggiando. La pace inizia nel cuore di ognuno».

Lei sta percorrendo il paese per incontrare la gente.

«Sono appena rientrato da un’area di campagna, dove ho chiesto alla gente cosa è successo alla loro vita. Mi hanno spiegato dell’arrivo dei ribelli, di cosa hanno fatto, poi dell’arrivo dei regolari. Ho chiesto a tutti come potremmo ripartire, imparando da quanto è successo.

Quando sono andato a Banagassou ho parlato con i ribelli. Li ho incontrati, ho chiesto loro da dove venivano, e perché erano venuti qui e a fare cosa. All’inizio erano nervosi.

Quando si va a cercare la pace occorre farsi piccoli. Io e il mio gruppo abbiamo camminato per due chilometri e mezzo per incontrarli. Poi abbiamo aspettato che ci ricevessero. Hanno sparato in aria, ma io ho detto che se avessimo avuto paura, e fatto dietro front, non avremmo potuto costruire la pace. Forse era il modo per darci il benvenuto. Finalmente ci hanno ricevuto e abbiamo parlato con un generale e alcuni suoi collaboratori. Noi pensiamo che siano il nemico, il diavolo, ma bisogna andare a incontrarli, parlare con loro, alle loro coscienze, mendicare la fraternità e l’abbandono delle armi, affinché tutto torni normale.

Poi ci hanno detto che erano venuti a difendere il paese ed erano pronti a morire per esso. Ho chiesto al generale se aveva una madre, mogle e figli, e mi ha risposto di sì. Ho detto che loro non hanno chiesto di essere vedova, orfani. È una questione di responsabilità. Ho anche detto loro che il villaggio si era svuotato, la gente dormiva dispersa all’addiaccio, senza sicurezza, e che non è così che possiamo costruire un paese.

Andando via un giovane ufficiale mi ha accompagnato, e, in disparte, mi ha detto che le mie parole lo avevano toccato, che voleva lasciare il gruppo, che però lo avrebbero ucciso.

Ho poi saputo che tre giorni dopo la nostra visita, i ribelli hanno lasciato la posizione. Questo vuol dire che un cammino di pace è iniziato».

Ma come fare per mettere tutti d’accordo?

«Come in tutto il mondo, non possono esserci due capitani sulla stessa nave. Oggi abbiamo un presidente, si aspetta la fine del suo mandato, e si fanno altre elezioni. Ma se vogliamo cacciarlo con le armi, domani verrà un altro che le userà per mandare via noi. Bisogna che tutti accettino di deporre le armi e tornino alle proprie occupazioni. Quando vedo questi giovani armati, cerco di parlare ai loro cuori, alle loro coscienze».

In generale qual è dunque il ruolo della Chiesa?

«È fare mediazione, perché Dio unisce, mette insieme, e così dobbiamo fare noi. Il ruolo della Chiesa è anche asciugare le lacrime, perché ci sono delle vittime. Gente che ha perso tutto, può avere l’istinto della collera, dell’odio. Noi dobbiamo dire loro che Dio non li ha abbandonati, e non devono cadere nel circolo vizioso della violenza. C’è impunità, ma ci deve essere giustizia. Chi ha sbagliato deve essere fermato, occorre spiegargli che ciò non è bene.

In Rca c’è la Piattaforma delle confessioni religiose, della quale fanno parte musulmani, protestanti e cattolici. Quando riusciamo, andiamo a fare le visite insieme, io, un imam e un pastore. Se ad esempio un ribelle musulmano dice: “Il vostro ruolo è pregare Dio, perché vi immischiate in politica?”. L’imam  cita un versetto del Corano nel quale si dice che i fedeli che soffrono e sono divisi, sono figli di Dio e il sacro libro domanda loro di unirsi, dialogare, trovare soluzioni. Questa è una citazione che io non potrei fare. È insieme che cerchiamo il cammino per la pace, non ci sono riferimenti solo nella Bibbia. Insieme costruiremo la nostra società».

Il presidente Touadéra e il suo governo stanno cercando la pace?

«Sì, lo abbiamo incoraggiato a cercare la pace. Io sono andato con altri vescovi a parlargli, dicendo: anche se avete vinto la guerra, occorre fare la pace con il nemico, altrimenti chi ha perso si preparerà per vendicarsi. Abbiamo piuttosto interesse a integrare tutti, affinché ognuno abbia il suo posto e si costruisca il paese insieme. L’aspetto militare non basta, occorre anche quello politico. Noi parliamo con i ribelli e parliamo con il governo. Interpelliamo anche la comunità internazionale».

E a livello internazionale, la missione dei caschi blu cosa fa?

«Vengono da tanti paesi, è difficile metterli tutti insieme. Hanno un ruolo di interposizione, non devono sparare. Ci sono cose che funzionano, ma anche dei limiti, bisogna avere il coraggio di dirlo. La loro presenza permette di proteggere la gente, ma per contro sono passivi, quando ci sono conflitti non intervengono e la popolazione non capisce perché siano venuti così armati se poi non possono difenderli dagli attacchi».

In Centrafrica che misure sono state prese per la pandemia da Covid-19?

«Le autorità hanno preso delle misure, ma posso dire che qui c’è la mano di Dio. Qui ci sono state sensibilizzazioni che non hanno portato la gente a usare le mascherine, eppure le vittime sono state poche. Così la gente ha iniziato a dire che la malattia non è qui».

Cardinale Nzapalainga, secondo lei cosa impedisce che la guerra finisca?

«In Centrafrica non si fabbricano le armi, c’è qualcuno che le vende e si arricchisce. Vengono qui per comprare in modo illecito diamanti, oro e altri preziosi. Questi trafficanti non vogliono che la guerra finisca. Per via normale dovrebbero pagare concessioni, rendere conto del loro operato. Ma vogliono andare direttamente dai produttori. Occorre combattere questo traffico».

Marco Bello


Archivio MC

● F. Trinchero, Solo Dio può salvare il Centrafrica, agosto 2018.
● F. Trinchero, M. Bello, S. Turrin, Il convento dei rifugiati, luglio 2014.
● Marco Bello, Il cuore (malato) del continente, ottobre 2013.

Soldati del Minusca in un villaggio vicino a Bangui (Photo by FLORENT VERGNES / AFP)




Etiopia: La breve ferocia

testo di Enrico Casale |


Un conflitto velocissimo e, al tempo stesso, violentissimo. Questa è stata la guerra in Tigray scoppiata il 4 novembre 2020 e durata un mese (ma combattimenti continuano tuttora nelle montagne) con gravi conseguenze umanitarie.

È un conflitto dalle radici profonde, quello al quale abbiamo assistito nel novembre scorso in Etiopia, per questo, allo scopo di comprenderne le ragioni, bisogna ripercorrere la storia del paese degli ultimi decenni.

Dei cento milioni di abitanti dell’Etiopia, il 6-7 per cento abita nella regione settentrionale del Tigray, confinante con l’Eritrea. Essi appartengono all’etnia tigrina, la stessa che è in maggioranza in Eritrea.

Negli ultimi cinquant’anni, pur essendo minoranza, i Tigrini hanno sempre ricoperto un ruolo determinante nel paese.

Potere tigrino

Siamo negli anni Settanta. Dalle montagne del Tigray, aspre e altissime, parte la resistenza contro la sanguinosa dittatura di Menghistu Haile Mariam, l’uomo che nel 1974 ha rovesciato l’imperatore Haile Selassie, e con lui la millenaria dinastia salomonide.

Proprio su quelle montagne, i Tigrini creano le loro basi, e conducono una guerriglia durissima.

In questa lotta si serra un’alleanza storica tra eritrei, guidati da Isayas Afeworki, e Tigrini etiopi, guidati da Meles Zenawi.

Quando nel 1991 questi due attori riescono, in alleanza con altre forze regionali, ad abbattere il regime dell’odiato «negus rosso», conquistando il potere, l’Eritrea si avvia all’indipendenza, e Meles Zenawi diventa premier, sostenuto dal Tigray people’s liberation front (Tplf, Fronte popolare di liberazione del Tigray).

Meles rimane al potere fino alla morte nel 2012. Sono anni duri nei quali, nonostante venga introdotto nel paese un sistema federale, il potere è concentrato saldamente nelle mani dei Tigrini che lo gestiscono con fermezza, senza grande rispetto delle altre etnie, in particolare gli Amhara, che per secoli sono stati l’anima della classe dirigente etiope, e gli Oromo, che, sebbene rappresentino l’etnia maggioritaria, sono sempre stati esclusi dal potere politico ed economico.

Rifugiati etiopici in fuga dalla guerra del Tigray – Photo by ASHRAF SHAZLY / AFP

La vendetta

Con la morte di Zenawi, per i Tigrini iniziano i problemi. Progressivamente sono messi ai margini, in un processo che subisce un’accelerazione nel 2018, dopo l’arrivo di Abiy Ahmed al potere.

Abiy, primo ministro etiope, è un oromo con una lunga carriera militare all’ombra dei Tigrini. Arrivato al governo, da un lato, apre spazi alle etnie oromo e amhara, dall’altro restringe l’influenza dei Tigrini.

La mossa che scatena lo scontro con il Tplf data il 21 novembre 2019, quando Abiy dà vita al nuovo Prosperity party (Partito della prosperità), tramite la fusione di tre dei quattro partiti che componevano il Fronte democratico rivoluzionario popolare etiope (Eprdf), e di altri cinque partiti affiliati. I partiti includono l’Oromo democratic party (Odp), il Southern ethiopian people’s democratic movement (Sepdm), l’Amhara democratic party (Adp), la Harari national league (Hnl), l’Ethiopian somali people’s democratic party (Espdp), l’Afar national democratic party (Andp), il Gambella people’s unity party (Gpup) e il Benishangul Gumuz people’s democratic party (Bgpdp).

Una mossa che non viene accolta bene dai leader del Tplf, i quali, infatti, ne rimangono fuori e si arroccano nel Tigray.

A settembre 2020, nonostante i divieti imposti dal premier Abiy, si svolgono le elezioni per il rinnovo delle istituzioni regionali nel Tigray, vinte, come facilmente previsto da tutti i media nazionali e internazionali, con ampio margine dal Tplf.

Il parlamento di Addis Abeba taglia i rapporti con l’esecutivo del Tigray, dichiarandolo illegittimo, e annuncia che da questo momento in avanti avrà a che fare solo con le strutture amministrative locali (comuni, amministrazioni distrettuali, ecc.) per mantenere «i servizi di base» a favore della popolazione.

La goccia che fa traboccare il vaso è l’occupazione di una base militare dell’esercito federale da parte delle milizie del Tplf. È guerra.

Conflitto breve e feroce

© GCIS / Kopano Tlape

Come tutti i conflitti civili, anche quello in Tigray è durissimo, non solo per i combattenti, ma anche per la popolazione civile.

«La situazione era già drammatica prima della guerra – spiega Fessaha Alganesh, dottoressa italoeritrea, da anni attiva nell’aiuto agli eritrei ospitati nei campi profughi del Tigray -, con l’invasione delle locuste, i campi distrutti, la carenza di cibo, l’epidemia di Covid-19. A queste piaghe bibliche, si sono aggiunti i combattimenti sul terreno e i bombardamenti dal cielo».

Presto si diffondono notizie di stragi. A Mai Kadra, il 9 novembre, sembra che siano uccise decine di persone di etnia amhara. Nella città di Axum, che gli ortodossi etiopi considerano santa perché lì sarebbe conservata l’Arca dell’Alleanza, è segnalata una strage di centinaia di Tigrini che avrebbero impedito l’accesso ai luoghi santi da parte delle milizie. Diverse sono poi le segnalazioni di incidenti, inclusi attacchi di artiglieria su aree popolate, attacchi deliberati ai civili, esecuzioni extragiudiziali e saccheggi diffusi.

Non si conosce l’esatto numero dei morti in combattimento. Si sa però che 950mila civili sono costretti ad abbandonare le proprie case e i propri villaggi.

Migliaia di Tigrini fuggono in Sudan per cercare rifugio dalle bombe e dalle violenze. «Ho parlato con una donna che è riuscita ad arrivare in un campo profughi sudanese – continua Alganesh -. Mi ha detto che quando sono iniziati i bombardamenti intorno al suo villaggio, presa dalla paura, si è caricata il figlio più piccolo in spalla e ha preso per mano quello più grande. Ha percorso, senza nulla da mangiare, decine di chilometri per cercare un rifugio sicuro. È drammatico quanto sta succedendo. I civili fanno fatica a capire che senso abbia questa guerra».

Questa situazione impedisce l’accesso degli operatori umanitari, cosa che rende impossibile verificare sul campo tutte le denunce di violazioni dei diritti umani.

«Se i civili sono stati deliberatamente uccisi da una o più parti in conflitto, queste uccisioni costituiscono crimini di guerra. Ci sarà bisogno di indagini indipendenti, imparziali, approfondite e trasparenti per stabilire la responsabilità e garantire la giustizia», dichiara la responsabile delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, che descrive gli incidenti «strazianti» e «spaventosi».

In un mese, l’esercito federale di Addis Abeba, coadiuvato dalle milizie amhara, invade tutta la regione.

Analisti militari accusano l’Eritrea di essere scesa in campo. Il governo di Asmara, che nel 2018 ha siglato un accordo di pace con Addis Abeba, avrebbe accettato volentieri di sostenere l’esercito etiope per vendicarsi di quella dirigenza tigrina che per una ventina di anni gli si era contrapposta.

A puntare il dito contro l’Eritrea sono soprattutto gli Stati Uniti. Grazie a immagini satellitari, comunicazioni intercettate e numerosi report, gli Usa avrebbero raccolto le prove del coinvolgimento dei soldati di Isaias Afewerki. Tra i loro reparti ci sarebbero anche numerosi somali che Mogadiscio aveva inviato ad addestrarsi nei campi militari eritrei e che si sarebbero trovati a combattere contro i Tigrini.

In Somalia il caso è sollevato in parlamento, ma il governo del presidente Mohamed Abdullahi Mohamed Farmaajo non offre risposte convincenti e, al momento, si sa solo che alcuni militari di Mogadiscio sono morti (anche se le autorità affermano che sono morti durante l’addestramento).

Quella che sembra una vittoria semplice, però, potrebbe trasformarsi in una sorta di Vietnam per gli etiopi. Le forze del Tigray hanno ripiegato sulle montagne. Si sono rifugiate in una regione che conoscono bene, dove per anni hanno combattuto contro il regime di Menghistu e dove, si dice, abbiano sempre tenuto in efficienza, e ben forniti di armi, alcuni rifugi.

Il Tigray oggi

«A Macallè la situazione sembra tranquilla, apparentemente pacifica. Non si vedono poliziotti per strada. Ci sono solo alcuni agenti della polizia federale nella stazione principale e nelle vie principali. Le strade sono pattugliate da soldati armati che si muovono su veicoli equipaggiati con mitragliatrici. Ci sono alcuni posti di blocco in punti strategici della città, come i valichi. L’elettricità arriva nelle case, i telefoni funzionano, ma non ci sono collegamenti Internet. Il cibo è disponibile, il sistema bancario funziona, i prezzi sembrano normali». Sono queste le impressioni di un testimone, rientrato da poco dal Tigray e che vuole mantenere l’anonimato. Le sue parole trasmettono un’immagine tranquilla della capitale del Tigray, ma la realtà pare più complessa. «Le persone – continua la nostra fonte – sono caute, alcune non vogliono uscire di casa, non vogliono essere chiamate, altre sono traumatizzate. Le donne hanno paura a uscire perché temono di essere violentate. Tutti raccontano storie orribili dei giorni in cui, a novembre, la capitale del Tigray è stata al centro dei combattimenti».

La nostra fonte conferma che gli scontri sul campo non sono terminati, e che i miliziani del Tplf stanno continuando a combattere sulle montagne. «Abbiamo udito spari di artiglieria pesante – ricorda -. Apparentemente erano lontani, ma erano talmente forti che li abbiamo sentiti all’interno della nostra abitazione con porte e finestre chiuse. La salva è durata per circa 10-15 minuti poi è finita all’improvviso com’era iniziata».

Da più parti si segnala la presenza di soldati eritrei, somali, emiratini, miliziani amhara. La nostra fonte non ha visto di persona i militari di Asmara, né quelli somali o emiratini, ma ha raccolto testimonianze sulla loro presenza. «Da quanto mi hanno raccontato – osserva la nostra fonte -, gli eritrei avrebbero annesso una striscia di confine settentrionale a Nord di Adigrat. Gli eritrei sono temuti per la crudeltà e i saccheggi. Mi hanno raccontato che spesso ucciderebbero civili innocenti vendicandosi per le perdite subite durante i combattimenti».

La nostra fonte ha raccolto testimonianze anche sui miliziani di etnia amhara, sui somali e sugli emiratini. «Secondo quanto mi hanno detto le persone del posto – continua -, anche i miliziani amhara saccheggerebbero il territorio. Per quanto riguarda i somali, sono stati visti da testimoni oculari nelle loro uniformi vicino a Macallè. Farebbero parte di quei reparti che erano stati inviati in Eritrea per addestrarsi e si dice siano stati impiegati per combattere nel Tigray. Gli Emirati arabi uniti invece avrebbero schierato propri droni facendoli decollare dalla loro base in Eritrea, anche se la loro presenza è stata denunciata solo dai media vicini al Tplf».

Un sopravvissuto del massacro di Mai Kadra, il 9 novembre 2020. / Photo by EDUARDO SOTERAS / AFP

Quale futuro?

Quello in Tigray è stato un conflitto locale che avrà profonde ricadute a livello nazionale.

La sconfitta del Tplf ha (al momento) messo la sordina a un forte movimento di fronda che minacciava direttamente il potere di Abiy Ahmed. In questo senso, la sconfitta invia un messaggio ad altre importanti forze etnonazionaliste, come l’Oromo liberation front, e quelle che hanno destabilizzato la tormentata regione di Benishangul-Gumuz.

L’allontanamento del Tplf dalla politica nazionale può inoltre essere visto, come è scritto in uno studio elaborato per Ispi da Aleksi Ylönen, del Center for international studies di Lisbona, come una mossa «per promuovere l’unità e l’armonia etnica», portando «a una ripresa della popolarità e alla fiducia in un progetto nazionale comune».

Rimuovere il Tplf da un ruolo preminente nella politica e nell’economia nazionali e garantire che non riprenderà il potere nel processo di liberalizzazione economica, è scritto nell’analisi di Ylönen, «sembra essere stato cruciale nei calcoli dell’amministrazione Abiy», perché favorirebbe «una graduale apertura dell’economia» rispetto alla visione localista dei Tigrini.

Il premier dovrà però ora pagare un prezzo elevato per il sostegno ricevuto da Asmara e dalle milizie amhara. Molto probabilmente alle truppe eritree sarà concesso il permesso di occupare quelle aree nel Tigray assegnate all’Eritrea nella decisione della Commissione per i confini Eritrea-Etiopia del 2002 (al termine della guerra del 1998-2000). A loro volta le milizie amhara potranno riprendere il controllo delle terre che erano state ritenute rubate durante il governo del Tplf.

Enrico Casale




Burundi: Il nuovo corso di Evariste

testo e foto di Marco Bello |


Il paese vive in un regime repressivo che nega le libertà fondamentali dal 2015. Da giugno scorso ha un nuovo presidente che fa sperare in future aperture. Ma occorre dargli tempo, dicono gli osservatori. E l’Unione europea, che ha imposto sanzioni al paese nel 2015, fa prove di dialogo.

È il 22 febbraio, parlo con il mio amico burundese in esilio, ed ecco che mi comunica la notizia di oggi: «Radio Bonesha Fm potrà di nuovo trasmettere in Burundi!». Lo ha annunciato Nestor Bakumukunzi, presidente del Consiglio nazionale per le comunicazioni (Cnc). È un primo debole segnale di apertura di un regime repressivo. Così come la liberazione dei quattro giornalisti del giornale Iwacu, alla vigilia del Natale scorso, dopo 430 giorni di prigionia. Liberazione arrivata poche settimane dopo che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il 4 dicembre 2020, aveva tolto il Burundi dalla sua agenda politica, ovvero dei paesi da monitorare almeno trimestralmente. Il Consiglio aveva adottato una dichiarazione nella quale «[…] prende nota del miglioramento delle condizioni di sicurezza nel paese e delle misure prese per lottare contro l’impunità […]. Il Consiglio sottolinea che molto resta da fare in materia di riconciliazione nazionale, promozione dello stato di diritto e di un sistema giudiziario indipendente ed efficace, la preservazione dello spazio democratico e il rispetto delle libertà fondamentali […]».

La dichiarazione del Consiglio indicava inoltre la «una nuova fase per lo sviluppo» intrapresa dal Burundi, ed esortava la comunità internazionale a continuare a «interagire con il paese».

Ma di quale nuova fase si tratta? Facciamo un passo indietro.

Anno spartiacque

Aprile 2015, il presidente Pierre Nkurunziza, del partito Cndd-Fdd (gli ex guerriglieri hutu durante la guerra civile terminata con gli accordi del 2003), in carica da 10 anni, forza la Costituzione e si ricandida per un terzo mandato (cfr. MC marzo 2016). La società civile, i partiti di opposizione e gran parte della popolazione contestano la candidatura incostituzionale. Il regime reprime le piazze nel sangue. Le vittime sono decine. Il 13 maggio alcuni generali, Godfroid Niyombare e Cyrille Ndairukure in testa, tentano un colpo di stato per rovesciare Nkurunziza, ma vengono scoperti.

La repressione è violentissima e diretta a tutti i settori della società. Inizia una vera e propria caccia all’uomo. Molti intellettuali, giornalisti, leader della società civile e di partiti politici considerati conniventi, vengono arrestati, altri fuggono all’estero. Gli Imbonerakure, i giovani del partito, costituiscono una vera e propria milizia che svolge i lavori di repressione più sporchi.

Nkurunziza va avanti, organizza le elezioni per luglio, impedisce la partecipazione di osservatori stranieri e vince senza difficoltà. La comunità internazionale, che aveva già contestato la candidatura fuori della Costituzione, mette il paese in isolamento. L’Ue attiva sanzioni economiche. Il 2015 diventa un anno spartiacque per il piccolo paese centro africano.

«Dopo il tentato golpe di maggio 2015, la maggior parte dei media indipendenti e i leader della società civile, sono stati obbligati a scappare. A livello dei media abbiamo contato più di cento giornalisti che sono fuggiti nei paesi confinanti o in Europa, e così anche io, che sono partito un po’ tardi. Dopo c’è stato davvero un passo indietro della libertà di espressione, del pluralismo politico», così ci racconta il direttore di un popolare giornale burundese, che chiede l’anonimato.

Nei cinque anni che seguono, il partito al potere occupa tutti gli spazi politici e annulla ogni opposizione dei partiti e della società civile, diventando l’unico attore sia a livello centrale che locale sul territorio. Gli Imbonerakure svolgono un lavoro di controllo capillare nei quartieri delle città. «Chi non è stato arrestato o ucciso, se ha un po’ di soldi, tenta la via dell’esilio. Chi non riesce, resta in patria adottando un profilo basso», ci dice il giornalista, contattato telefonicamente. Molti burundesi passano la frontiera con Rwanda e Tanzania, dove si creano campi profughi, come già negli anni ‘90 durante la guerra civile. Si parla di oltre trecentomila rifugiati. Il regime inoltre isola il paese dal resto del mondo: nell’ottobre 2017 il Burundi esce dalla Corte penale internazionale, nel febbraio 2019 il governo chiude l’ufficio locale dell’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu.

Evariste Ndayishimiye e la First Lady Angelique Ndayubaha / Photo by TCHANDROU NITANGA / AFP

Cambio al vertice?

Per le elezioni del 2020 Nkurunziza non si ricandida, e il partito al potere Cndd-Fdd sceglie il generale Evariste Ndayishimiye. «Nkurunziza voleva Pascal Nyabendo, presidente dell’Assemblea nazionale, ma questi non aveva fatto la guerra. I generali hanno preferito Ndayishimiye. Lui è di certo il generale meno coinvolto in affari sporchi, in storie di corruzione e in massacri. Benché ai tempi fosse alla presidenza, e quindi al corrente di tutto, era la figura più presentabile», ci racconta una altro giornalista, che ancora vive e lavora a Bujumbura.

Nel maggio 2020, senza difficoltà, le elezioni consacrano vincitore il candidato del Cndd-Fdd. Nadyishimiye dovrebbe prendere la presidenza ad agosto, ma Pierre Nkurunziza muore improvvisamente l’8 giugno. Così l’investitura è anticipata al 18 giugno.

La morte di Nkurunziza resta avvolta nel mistero: c’è chi dice sia stato avvelenato, altri che sia morto per Covid. Probabilmente non si saprà mai.

Il nuovo presidente esordisce con un ammorbidimento. «Nel suo discorso, diceva ai partiti politici di opposizione di non avere più paura di criticare il governo, affinché esso si possa migliorare. Ha chiesto ai membri del suo partito di non considerarli come nemici, ma piuttosto come partner. È un atteggiamento un po’ paternalistico però», ci racconta il giornalista. Il 28 gennaio 2021, il presidente esorta il Consiglio nazionale di comunicazione a «sedersi con i responsabili dei media per trovare soluzioni». Ricordiamo che, all’indomani del tentato golpe, alcune radio come Radio Publique
Africaine
(Rpa), Radio-télévision Renaissance, sono state distrutte e i giornalisti sono dovuti fuggire. Per altri media sono scattate sanzioni, come la sospensione. Anche radio internazionali come Bbc e Voice of America sono state silenziate. Molti giornalisti si sono organizzati in esilio per continuare a informare attraverso piattaforme social, web radio e gruppi Whatsapp o Telegram (cioè tramite la diffusione di servizi audio via programmi di messaggistica).

Il sito del giornale Iwacu, l’unico indipendente rimasto, bloccato da anni, così come il popolare forum dei lettori, dovrebbe essere ripristinato a giorni (al momento in cui scriviamo è ancora inaccessibile dal Burundi).

Un altro aspetto interessante è che il presidente si dice per la «tolleranza zero» contro la corruzione. Anche in questo caso occorrerà vedere se ci sarà un seguito alle parole.

Ci dice il giornalista: «Ho chiesto al leader del principale partito di opposizione, il Cnl (Congresso nazionale per la libertà), Agathon Rwasa, e lui ha risposto: “Vorrei crederlo, ma il discorso sarà applicato?”. Il dubbio c’è. Sì, il nuovo presidente ha la buona volontà di cambiare le cose, fa discorsi di aperture, ma sarà seguito dal suo partito, dalla maggior parte dei membri?».

La squadra di governo

Ci si domanda se il cambio politico espresso dal presidente sia reale. «Sì e no – ci risponde il giornalista in esilio -. Sì nella misura in cui ci sono nuove personalità, delle novità, ma non abbiamo notato un vero cambiamento come la lotta alla corruzione, la riduzione delle violazioni contro i diritti umani. In generale possiamo dire che c’è una certa stabilità, una certa pace politica, ma è così perché ci sono pochissime voci critiche attive in Burundi». E continua: «I leader della società civile sono per la maggior parte in esilio, l’attività dei partiti politici è minima, non c’è ancora il pluralismo, occorre dare tempo al nuovo presidente, vedremo cosa farà».

Qualche dubbio resta soprattutto sulla squadra che lo circonda. «Sono sempre gli stessi, anzi qualcuno è uscito ancora più allo scoperto». Il nostro interlocutore si riferisce ai due falchi del partito, i generali Alain-Guillaume Bunyoni e Gervais Ndirakobuca, nominati premier e ministro dell’Interno e della sicurezza, entrambi sotto sanzioni dirette dell’Unione europea dal 2015 per «atti di violenza, repressione e incitazione alla violenza».

«Il presidente ha delle buone intenzioni ma non avrà la possibilità di realizzare la sua politica, perché è circondato da uomini molto duri. Sono quelli che gli aveva indicato Nkurunziza e lui ha seguito queste direttive perché considera il suo predecessore come il suo grand père (nonno)», ci confida una fonte burundese. Qualcuno dice addirittura che non è il presidente a dirigere il paese, ma il primo ministro. «Ad esempio, non nomina nessuno, sono tutti uomini di Bunyoni».

Un altro aspetto, critico per un cambio di passo, è la base del partito, quella che controlla il territorio. Tutte le autorità locali, province, comuni, fino al livello più capillare di divisione amministrativa, la collina, sono dirette da gente del Cndd-Fdd. «Il paese è totalmente controllato. Se, come giornalista devo andare a fare un servizio nell’interno, devo chiedere il permesso al governatore, che mi segnala al cumune e infine al capo collina», ci dice il giornalista di Bujumbura. La struttura piramidale difficilmente cambierà, e il rischio è che manterrà la sua rigidità.

Le attese della gente

I burundesi, in generale, sono in attesa di vedere se ci sarà un effettivo miglioramento, con un minimo di speranza e una certa preoccupazione.

«Da quando è stato eletto il nuovo presidente, molte persone vivono uno stato di attesa e allerta. Aspettano e cercano di capire cosa sta succedendo. Inoltre, si comincia a parlare di rotture interne al partito. Ci sono stati arresti di personalità del Cndd-Fdd. Una probabile lotta interna per il potere», ci racconta Valeria Alfieri, ricercatrice, esperta della regione dei Grandi Laghi africani.

Un altro fronte contro il regime burundese è quello dell’opposizione armata. Sebbene il governo la neghi, esistono dei gruppi armati burundesi che hanno le basi nella confinante Repubblica democratica del Congo (Rdc) e conducono assalti di disturbo.

«Si tratta di partiti di opposizione che stanno cercando di mettere in piedi dei movimenti armati.
Altri sono legati ai golpisti del 2015. Avvengono reclutamenti nei campi di rifugiati burundesi all’estero. Cominciano a dare fastidio quando riescono a muoversi tra Congo e Rwanda, e se riescono a mettere le mani su risorse minerarie per finanziarsi. Tutto è molto legato a quello che succede in Congo». Continua la ricercatrice. «In Rwanda il presidente Paul Kagame non è interessato all’instabilità, ma chiude un occhio su questi movimenti».

Il 2 febbraio scorso una delegazione dell’Unione europea è stata in visita a Bujumbura dove ha iniziato una serie di incontri con il ministro degli Esteri Albert Shingiro. Le due parti hanno previsto un percorso per giungere all’eliminazione delle sanzioni entro fine novembre.

Le sanzioni, oltre quelle dirette ad alcuni alti funzionari, hanno privato il governo del Burundi di aiuto budgetario di circa 430 milioni di euro in cinque anni. D’altro canto, i rappresentanti dei paesi membri non sono stati più ricevuti nei ministeri burundesi, la repressione dei diritti umani è aumentata, mentre il Burundi ha intensificato gli affari con la Cina e la Russia. Insomma, come dire, dopo cinque anni di separazione, approfittiamo del nuovo presidente più presentabile, per cercare di ricostruire una relazione che conviene a tutti, con buona pace dei diritti umani.

Marco Bello


I giovani burundesi e le sfide del futuro

Un paese benedetto da Dio?

Il piccolo Burundi ha poco spazio per coltivare. I giovani, anche quelli che studiano, non hanno possibilità di trovare un lavoro. Alcuni missionari e Ong tentano di dare loro una speranza per l’avvenire.

Quando si atterra a Bujumbura si sorvola il lago Tanganika situato a 773 m d’altitudine e si vede lontano il monte Heha, di 2.670 m, a 30 km a Nord Est della città. Laggiù, è la zona detta Bujumbura rural, dove il clima è fresco e la nebbia copre spesso le montagne. La città di Bujumbura si estende a perdita d’occhio lungo i grandi assi stradali che la attraversano. In meno di venti anni ha cambiato aspetto. Le automobili hanno invaso le grandi arterie e il traffico è oggi regolato da semafori. Nuovi quartieri si stendono lungo gli ampi viali che escono dalla città e le colline intorno, un tempo coltivate, vedono spuntare case come funghi, mentre i quartieri popolari si addensano e si estendono con una rapidità sconcertante.

Tutte le province del paese conoscono un’evoluzione simile. Le costruzioni in mattoni cotti, cemento e tetti in lamiera sostituiscono poco alla volta quelle in mattoni di terra compattata coperte di tegole. L’accesso all’acqua e all’elettricità è migliorato nei quartieri della città, come sul territorio nazionale. Anche internet e telefono cellulare sono oggi presenti ovunque.

Un anno complesso

Nel 2020 il Burundi ha conosciuto molti cambiamenti. Le elezioni hanno portato al potere un nuovo presidente, sempre del partito dell’aquila, simbolo del Cndd-Fdd, affisso a tutti gli angoli delle strade. Molti governatori di provincia e amministratori comunali sono stati cambiati. La popolazione ha reagito all’annuncio dei risultati senza manifestare né gioia né tristezza.

Il Tanganika ha visto le sue acque alzarsi di oltre due metri e rovinare numerose case del litorale nel marzo dello scorso anno.

Nello stesso mese la pandemia di Covid ha causato la chiusura di frontiere e il blocco dei voli commerciali. Misure tolte e rimpiazzate da periodi di quarantena di sette giorni obbligatori in hotel, con test sistematici dei passeggeri. Ma le frontiere terrestri restano chiuse, a eccezione del traffico delle merci tramite camion. Tutto questo ha avuto ripercussioni economiche sugli scambi transfrontalieri, in particolare sugli assi che collegano il Burundi con  Congo RD e Rwanda.

Le feste di matrimonio e le cerimonie di fidanzamento, o celebrazioni di lutti, continuano a ritmare la settimana della vita sociale del paese. Le chiese sono pure piene. Cattolici e protestanti costituiscono l’85% della popolazione. Ma la povertà crescente e l’aumento della disoccupazione iniziano a creare problemi. Il Fondo monetario internazionale ha appena classificato il Burundi come primo dei paesi più poveri del mondo. In un paese tradizionalmente agricolo, dove il 90% della popolazione attiva è ancora occupata nei campi, ci si chiede quali prospettive ci siano per la gioventù. Come vivono i giovani in un paese in piena esplosione demografica e urbanizzazione accelerata, dove le terre non bastano più a dare lavoro a tutti?

Missione giovani

Padre Kinglesy, missionario nigeriano dei missionari d’Africa, responsabile della pastorale dei giovani a Buyenzi, un quartiere densamente popolato del centro di Bujumbura, ci spiega come accompagna i giovani: «Cercano di cavarsela con pochi mezzi. Qui cristiani e musulmani vivono insieme. Si capiscono. Il quartiere è misto, conta diverse moschee e si parla volentieri lo swahili, la lingua privilegiata dei musulmani. A Buyenzi ci sono molti meccanici di origine congolese venuti all’epoca coloniale. Ci sono anche molti giovani migrati dall’ambiente rurale. Alcuni tentano di fare dei piccoli commerci, o dei lavoretti. Ma vediamo anche sempre più delle ragazze molto giovani cadere nella prostituzione. Vengono a confidarmi che è il loro unico mezzo di sopravvivenza, non hanno altra opzione. Ci sono anche diversi furti che constatiamo essere in aumento in questo quartiere che è vicino al mercato. È a causa della fame. Molti giovani dormono fuori, sotto le verande dei negozi, perché mancano alloggi, ma non sono disperati. E quelli che hanno un piccolo spazio per abitare, quando lo vediamo, ci diciamo che sono coraggiosi.

La nostra missione è la promozione della pace. Spingere i giovani a cercare in se stessi i talenti non sfruttati. Attraverso la danze e i concerti si dà loro uno spazio d’espressione. Organizziamo delle competizioni di danza moderna, e sviluppiamo anche il canto e abbiamo qualche strumento musicale per chi vuole esercitarsi».

Alcuni giovani utilizzano anche le danze e il canto per guadagnare qualcosa, proponendosi di suonare nei matrimoni e nelle feste. Questo può permettere loro di pagarsi gli studi.

«Noi ci occupiamo anche dei bambini di strada. Una Ong ci ha proposto di costruirci un forno per il pane, che permetterà di sviluppare una piccola attività generatrice di reddito per qualcuno di loro. Abbiamo pure creato una piccola biblioteca con una sala di lettura per gli studenti che vengono a cercare un posto calmo e illuminato per studiare».

Avvenire sospeso

Spesso gli universitari alla fine degli studi hanno come unica opzione quella di proporsi a una società di sicurezza o a uno sportello di vendita di carte telefoniche, o come camerieri nei baretti di quartiere. Una giovane laureata non ha trovato altro che lavorare come baby sitter per una famiglia ricca. Un’altra che ha terminato la scuola secondaria è tornata alla campagna per coltivare. Perché, dice, «almeno qui posso trovare un sapone per lavarmi». Ma questo ritorno alla terra non sempre è auspicabile, in quanto constatiamo che in certe province i fratelli coltivano i campi a stagioni alternate, perché la terra è diventata troppo poca.

Il regime attuale ha concentrato molte risorse nella mani del colonnelli del partito. Essi gestiscono o controllano una parte dell’economia e investono nei trasporti, bus o piccole moto a tre ruote, i took-took, che sono diventate i principali trasporti di merce, o ancora in certe imprese, come il primo produttore di concime del paese, la Fomi. Il settore minerario è pure trainante.

I giovani del partito, chiamati Imbonerakure, che significa «quelli che vedono lontano», pattugliano il paese sotto l’occhio benevolo dei militari. Un contributo obbligatorio è dovuto per i giovani, ai quali è chiesto di arruolarsi con la promessa di un successivo ipotetico impiego. Un quadro che sembra molto scuro per l’avvenire dei giovani.

Diversi programmi di appoggio all’inserimento lavorativo fanno sforzi per creare opportunità per i giovani, e favorire lo sviluppo delle filiere, siano esse agricole, di allevamento o per la trasformazione del latte o la produzione del miele. Anche tramite il trasferimento di competenze degli artigiani verso i giovani, stimolando i più dotati a fornire formazione o possibilità di apprendistato.

Sarebbe il caso anche di aiutare gli universitari a inventare dei lavori creativi, a posizionare meglio il paese sui mercati regionali, a innovare utilizzando gli strumenti digitali.

È vero, il Burundi è un paese che ha del potenziale, ma è tempo di uscire dal torpore creando le condizioni per scappare alla corruzione e garantire la sicurezza e l’uguaglianza delle possibilità per tutti.

Jérémie Kabisa*
*Espatriato congolese che vive e lavora a Bujumbura.

Bibliografia

• Valeria Alfieri, Le Burundi sous Ndayishimiye: une page qui se tourne?, Revue Hommes et libertés, marzo 2021.

Archivio MC

• Marco Bello, Scivolando del baratro, MC 03 2016.
• Marco Bello, La verità sono io, MC 06 2013.
• Marco Bello, Radio incontro, MC 05 2011.

 

 




Il «game» infinito dei respingimenti

testo e foto di Simona Carnino |


Perseguitati in patria, vendono tutto e partono. Obiettivo Germania. Dai Balcani alle Alpi, tenteranno di attraversare diverse frontiere, anche a piedi, nella neve. Ma sono più volte respinti. Abbiamo seguito una famiglia in fuga per la vita.

Oulx. La sera del 31 dicembre, Nadim, sua sorella Tamkin e la madre Fawzia arrivano a Oulx, in alta Valle di Susa, con uno degli ultimi treni da Torino.

Davanti alla stazione ferroviaria, è parcheggiato l’autobus di linea che li porterà a Claviere.

Fawzia ha 61 anni, è una maestra d’asilo e vedova di un dentista. Nadim ha 24 anni e Tamkin 18, ma alle spalle un’esperienza di vita di gran lunga superiore all’età anagrafica. In questa notte a cavallo tra il 2020 e il 2021, il loro obiettivo è solo uno: superare la frontiera con la Francia, attraverso i sentieri montani, e arrivare a Briançon. Se ci riusciranno, la Germania, traguardo del loro viaggio, sarà più vicina.

Nadim alza lo sguardo verso il cielo. Le nuvole basse e dense non lasciano dubbi. Nevicherà. Anche nel loro paese di origine, l’Afghanistan, le strade sono spesso ricoperte da una pesante coltre di neve durante l’inverno. Sanno bene cosa significhi addentrarsi tra i boschi, con il rischio di perdersi o di essere vittime di ipotermia.

Ma l’urgenza di arrivare dall’altra parte supera la paura, in particolare ora che non hanno più un soldo e sono riusciti a lasciarsi alle spalle la Serbia e la rotta balcanica, dove sono stati intrappolati per un anno, continuamente respinti dalla polizia croata e rumena nei loro tentativi di oltrepassare i confini dell’Europa.

La vita in Afghanistan

Nadim è un attivista per i diritti umani. «Tutto è iniziato nel 2015, quando Farkhunda Malikzada è stata lapidata da una folla imbestialita, accusata ingiustamente di aver bruciato il Corano – racconta Nadim -. Quella brutalità mi ha spinto a scendere in piazza per chiedere giustizia e da quel giorno sono diventato un attivista e membro del Civil society human rights network, un consorzio di organizzazioni per i diritti umani in Afghanistan. Partecipavo spesso a programmi radiofonici per parlare di diritti delle donne e degli sfollati».

Qualche tempo dopo, un gruppo di persone armate e a viso coperto ha fatto irruzione in casa di Fawzia, minacciando di uccidere tutta la famiglia se Nadim non avesse chiuso la bocca. «Mia madre ha smesso di lavorare e mia sorella di andare a scuola, per paura di essere uccise in strada – continua Nadim -. Abbiamo lasciato il quartiere, ma ci hanno ritrovati. La cosa che mi rattrista di più è che non ho mai capito chi fossero quelle persone, se affiliati del governo o militanti Talebani. Scappare era l’unica possibilità che vedevamo. Abbiamo barattato la casa, l’automobile e i gioielli di mia madre con un nostro cugino, in cambio dei soldi per il viaggio».

E così, una mattina di inizio dicembre 2019, Nadim, Tamkin e Fawzia si sono lasciati alle spalle Kabul. Con un biglietto aereo e il loro passaporto sono volati a Dubai, ma dagli Emirati Arabi non c’era modo di arrivare liberamente in Germania. Il passaporto afghano permette di viaggiare unicamente in 30 paesi al mondo, e nessuno di questi è uno stato europeo.

«Abbiamo speso 45mila dollari per acquistare tre passaporti di nazionalità inglese – spiega Nadim -. Quasi tutti i nostri soldi sono andati in fumo così, ma non vedevo alternativa». Il passaporto inglese permette ancora oggi di muoversi senza richiesta di visto turistico in 130 stati, nonostante le restrizioni di movimento imposte dal Covid-19.

Acquistati tre biglietti per Francoforte, durante uno scalo a Budapest, la polizia ungherese si è resa conto che i passaporti della famiglia erano falsi. Senza dar loro la possibilità di richiedere asilo politico e, contravvenendo al principio di non refoulement sancito dalla Convenzione di Ginevra, la polizia di frontiera ha trasportato Fawzia e i suoi figli di fronte alla recinzione innalzata dall’Ungheria sul confine con la Serbia. Aperto il cancello, li ha scaricati nel paese dell’ex Jugoslavia.

I Balcani

Il governo di Viktor Orbán, da anni, si distingue per una politica xenofoba e aggressiva nei confronti dei migranti. Il 17 dicembre 2020, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha condannato l’Ungheria per non aver rispettato l’obbligo di garantire l’accesso alla procedura di richiesta d’asilo in particolare alle persone in arrivo dalla frontiera serba.

Nadim, Tamkin e Fawzia sono rimasti un anno in Serbia, tra i campi per migranti di Vranje, nel Sud del paese, a Šid, a pochi chilometri dal confine croato, e a Krnjača, Belgrado.

«Niente era umano, neppure il cibo – continua Nadim -. Non potevamo lavorare, non avevamo assistenza legale, e la gente ci chiamava terroristi. Abbiamo provato a scappare dalla Serbia a piedi dieci volte, ma siamo sempre stati respinti. Le prime quattro volte abbiamo provato a entrare in Romania, ma all’ultimo tentativo la polizia di frontiera mi ha picchiato e rotto il naso. Siamo tornati in Serbia dove sono stato operato. Poi abbiamo provato a passare sei volte in Croazia, ma siamo stati respinti. All’undicesima volta abbiamo pagato uno smuggler (trafficante, ndr) per arrivare in Italia. Il viaggio è costato 15mila euro per circa 650 km».

Nessun migrante si mette in cammino con i contanti in mano. In genere, così come ha fatto il cugino di Nadim, un parente nel paese di origine paga in maniera telematica un’organizzazione criminale che si occupa di gestire il viaggio a prezzi esorbitanti, approfittando delle restrizioni imposte dall’Europa e della disperazione delle persone. Di solito il trasporto avviene in automobile e furgoncino, ma le frontiere più spesso vengono attraversate a piedi.

Proprio durante il passaggio a piedi del confine tra Croazia e Slovenia, Fawzia, stremata dal viaggio, è svenuta. Abbandonati dal trafficante, Nadim e Tamkin hanno cercato aiuto, consegnandosi alla polizia slovena intenta a intercettare i migranti nel bosco per respingerli in Croazia. Dopo il ricovero all’ospedale di Lubiana, Fawzia e i suoi figli sono stati trasferiti a un campo per migranti e registrati nel sistema Eurodac, il database europeo per l’identificazione delle impronte digitali di coloro che richiedono protezione internazionale.

Senza volerlo, Nadim, Fawzia e Tamkin hanno fatto domanda d’asilo in Slovenia, l’unico modo possibile per non essere deportati nuovamente in Croazia.

«Appena mia madre si è ripresa, abbiamo ricontattato la persona con cui eravamo arrivati in Slovenia, perché ci trasportasse fino a Udine», spiega Nadim. Infine, dalla città friulana, un treno li ha portati a Oulx, dove giungono dopo più di un anno dalla partenza da Kabul.

Alle 19.50 Fawzia e i suoi figli acquistano tre biglietti e prendono posto sull’ultimo autobus per Clavière. Dopo pochi minuti la corriera parte, lasciandosi indietro la cittadina.

I sopravvissuti alla rotta balcanica

A partire da maggio 2020, a Oulx è aumentato il numero di passaggi dei sopravvissuti alla rotta balcanica. Chi riesce a fuggire dalla Bosnia e dalla Serbia, scampando fisicamente ai respingimenti a catena attuati da Croazia, Slovenia e anche dall’Italia a Trieste e Udine, si dirige a Ventimiglia o a Oulx per superare il confine italo-francese. La frontiera tra Slovenia e Austria è quasi del tutto inaccessibile da tempo, per cui, chi vuole andare in Germania e in Nord Europa è costretto ad allungare il viaggio verso l’Italia e la Francia.

Come Fawzia, Nadim e Tamkin, molte persone che transitano per il valico transfrontaliero del Monginevro sono afghane, ma anche pachistane, iraniane e del Nord Africa. Queste ultime preferiscono evitare la Libia, provando a raggiungere l’Europa attraverso la Turchia e i paesi dell’ex Jugoslavia. Secondo i dati del Danish refugee council, l’85% sono famiglie, a volte con bambini piccoli o nati durante il viaggio.

Continuano a tentare la sorte anche persone provenienti dall’Africa subsahariana, attraverso la rotta del Mediterraneo centrale, e richiedenti asilo in Italia, ma che puntano verso la Francia.

Secondo i dati raccolti dal Refuge solidaire di Briançon, il primo ricovero per migranti in transito in territorio francese, tra luglio 2017 e dicembre 2020, sono arrivate in Francia dal Monginevro 11.632 persone. È probabile che il numero sia superiore, perché non tutti i migranti si fermano al rifugio.

La frontiera tra la neve

Alle 20.20, l’autobus su cui viaggiano Fawzia, Nadim e Tamkin si ferma sulla strada principale di Clavière. L’abitato, nota meta sciistica della Via Lattea, è immerso in un silenzio inusuale per una vigilia di Capodanno. Le restrizioni nazionali per ridurre il contagio di Covid-19 hanno imposto la chiusura degli impianti sciistici e dei ristoranti. Il termometro del centro di informazione turistica segna i sette gradi sotto zero.

Insieme a Fawzia e i suoi figli, scendono a Clavière quattro ragazzi iracheni. Davanti alla chiesa del paese, i volontari della Croce Rossa, con il progetto MigrAlp, fin dall’inverno del 2017, si occupano di informare i migranti delle difficoltà del cammino nella neve, oltre a fornire assistenza sanitaria in caso di emergenza.

«Tra gennaio e il 15 febbraio abbiamo assistito 420 persone, tra chi prova ad attraversare la frontiera e chi è stato respinto dalla polizia francese – dichiara Michele Belmondo della Croce Rossa di Susa -. Ogni sera consegniamo ai migranti un volantino con i numeri di emergenza da chiamare se si trovano in difficoltà».

Fawzia e gli altri spariscono dietro alla chiesetta di Clavière, verso le piste da sci di fondo, e iniziano a camminare in direzione Francia. Le seggiovie sopra di loro si ergono immobili contro la luna quasi piena, che appare e scompare dietro le nuvole gravide.

Come previsto, inizia a nevicare. Fawzia sente che le forze la stanno abbandonando e si appoggia a sua figlia Tamkin. La fitta nevicata non le permette di proseguire il cammino. Nadim ha già visto questa scena sulla frontiera tra Slovenia e Croazia e, per evitare che la situazione della madre si complichi, prende una decisione. La famiglia torna indietro e chiede aiuto alla Croce Rossa, che la soccorre e la trasporta al rifugio Fraternità Massi, a un centinaio di metri dalla stazione di Oulx.

«Aperto da settembre 2018, il rifugio è gestito operativamente dalla Fondazione Talità Kum negli edifici dell’ordine dei Salesiani, con il supporto della prefettura, del comune e il finanziamento della Fondazione Magnetto e della Curia – spiega don Luigi Chiampo, fondatore di Talità Kum -. Abbiamo una capienza di 30 posti letto e in quest’ultimo periodo ospitiamo circa 20-30 persone a notte. Al momento stiamo presentando un progetto con la prefettura per poter continuare a fornire assistenza».

Dalle 4 del pomeriggio alle 10 del mattino, gli operatori del rifugio forniscono un pasto caldo, abbigliamento pesante e un letto ai migranti in transito, bloccati dalle condizioni meteorologiche o respinti dalla polizia francese. Qui l’associazione Rainbow for Africa fornisce assistenza sanitaria e l’Associazione di Studi giuridici per l’immigrazione consulenze legali, così come fanno gli operatori della Diaconia Valdese in un ufficio a pochi passi dalla stazione di Oulx.

Oltre al rifugio Fraternità Massi, da dicembre 2018, a Oulx è stata occupata una casa cantoniera, attualmente a rischio di sgombero, che offre accoglienza 24 ore su 24, diventando un punto di riferimento per numerosi migranti in transito che possono sostare nelle ore diurne, prima di tentare l’attraversamento notturno. La chiusura della casa limiterebbe l’assistenza ai migranti, che non avrebbero un ricovero dove ripararsi di giorno.

Il game infinito

Alle 16.40 di alcuni giorni dopo il primo tentativo di superamento del confine nella neve, Fawzia, Nadim e Tamkin provano a lasciarsi alle spalle l’Italia in Flixbus, la compagnia internazionale di autobus low cost. Pur avendo acquistato un regolare biglietto fino a Lione, la traversata dura meno del previsto. Infatti, arrivati in prossimità del tunnel del Frejus, la polizia di frontiera francese procede al controllo dei documenti. In pochi istanti Fawzia e i suoi figli si ritrovano fuori dall’autobus. Senza fornire maggiori spiegazioni, la gendarmerie rifiuta l’ingresso alla famiglia, affidandola alla polizia italiana che la scarica a Oulx, a pochi passi dal rifugio Fraternità Massi. «Chi arriva dalla rotta balcanica sa che la logica dei respingimenti da parte della polizia si ripete sulle successive frontiere. Una sorta di “game infinito”, un gioco al massacro che, in maniera più o meno violenta, inizia da quando i cittadini extracomunitari arrivano ai confini dell’Unione europea fino al paese di destinazione – dichiara Davide Rostan, il pastore valdese di Susa -. Dopo decine e decine di tentativi di attraversamento, i migranti spesso riescono a superare le frontiere, ma il costo in termini economici, fisici e psicologici è incalcolabile».

Fawzia, Nadim e Tamkin sono stati respinti lungo tutto il viaggio, dall’Ungheria, dalla Romania, dalla Croazia e infine dalla Francia.

Da novembre 2020, in seguito all’attentato terroristico di Nizza del 29 ottobre, il governo francese ha investito nella militarizzazione del valico transalpino, stanziando 60 nuovi gendarmi sulla frontiera, per intensificare i controlli migratori. La Police aux frontières perlustra anche i sentieri montani, in cerca dei migranti che attraversano il confine camminando nella neve, spesso rincorrendoli per fermarli e respingerli al Monginevro.

«Dai dati raccolti emergono profili inquietanti sulle violazioni compiute dalla polizia francese – dichiara Giulia Spagna, responsabile dei programmi regionali per l’Europa del Danish refugee council -. I richiedenti asilo vengono respinti senza alcuna procedura ufficiale, ma in tacito accordo con la polizia italiana, con cui è in atto una collaborazione informale per aggirare le leggi internazionali sulla protezione e asilo, che prevedono invece il controllo dell’avvenuta registrazione delle impronte digitali delle persone migranti in un paese dell’Unione europea prima di attuare un respingimento. Di recente ci siamo abituati alle immagini scioccanti di persone e famiglie al freddo, derubate e picchiate lungo la rotta balcanica. Il Piemonte e la Liguria sono le tappe successive di quella rotta, e vi troviamo le stesse persone, ancora più stremate, nuovamente umiliate nei loro diritti umani».

Verso la Germania

Di fronte all’impossibilità di superare il valico transalpino, Nadim, Fawzia e Tamkin cambiano strategia e si dirigono verso la frontiera di Ventimiglia, per provare a raggiungere la Francia da quel versante.

«Dopo un controllo dei documenti, la polizia ci ha fatto scendere dal treno prima di raggiungere Nizza – racconta Nadim al telefono -. Il giorno dopo ci abbiamo riprovato e, incredibilmente, abbiamo avuto fortuna e siamo arrivati a Mentone».

A molti, invece, è andata peggio.

Finalmente in Francia, la famiglia prende l’ennesimo bus e arriva a Parigi. Da lì, pagando 1.100 euro a un ultimo passeur, il viaggio termina ad Amburgo, in Germania. È il 18 gennaio del 2021. Un anno, un mese e circa 15 giorni dalla partenza da Kabul.

«Abbiamo speso intorno ai 65mila dollari per il viaggio – racconta Nadim -. A volte mi sembra impossibile che non abbiamo più un soldo e che siamo sopravvissuti a quest’anno. Ma so anche che siamo fortunati. Ho visto persone in Serbia che viaggiavano da tre anni e non riuscivano a trovare i soldi per superare la frontiera».

Nadim, Fawzia e Tamkin richiedono asilo politico ad Amburgo, ma la registrazione delle impronte digitali in Slovenia mette la famiglia di fronte a una grande incertezza. Secondo il regolamento di Dublino, le procedure di richiesta di asilo devono essere gestite nel primo paese europeo di ingresso. L’eventuale ricollocazione in un altro stato dell’Unione europea avviene in un secondo tempo e non sempre con successo.

«Abbiamo un permesso di soggiorno di tre mesi in Germania, ma non sappiamo se la nostra pratica di asilo può essere gestita qui o se siamo obbligati a tornare in Slovenia», racconta Nadim.

A oggi, la famiglia di Fawzia si trova in un campo per migranti in attesa di capire cosa ne sarà del loro futuro.

«Le restrizioni delle frontiere arricchiscono solamente i trafficanti – spiega il pastore valdese Rostan -. Se ai migranti venisse concessa l’opportunità di ricevere un visto per raggiungere l’Europa, potrebbero investire i loro soldi per affittare una casa, acquistare un corso di lingua e avere il tempo di cercarsi un lavoro, invece di essere costretti a pagare organizzazioni criminali per raggiungere la propria meta».

L’umanità del confine

Nel libro di Marco Balzano «Le parole sono importanti», l’autore spiega che il termine «confine», dal latino cum e finis, è letteralmente il luogo dove si finisce insieme, la soglia dell’incontro, la frontiera nel suo senso etimologico, uno spazio dove si sta di fronte e si intravvede l’altro.

Il confine tra Francia e Italia è un muro difficile da valicare, ma è anche il luogo dove organizzazioni e persone italiane e francesi cooperano per assistere i migranti in transito, dando loro cibo, vestiario e cure mediche. Una sorta di gestione umana delle frontiere, che si oppone di fatto alla militarizzazione dei confini imposta dalle istituzioni europee.

Dal 2017 a oggi, quattro persone sono morte durante l’attraversamento del confine del Monginevro. Eppure le temperature rigide, i sentieri impervi, la neve, la mancanza di indumenti pesanti e l’inesperienza dei viaggiatori avrebbero potuto provocare un numero di vittime superiore. Dietro a disgrazie scampate ci sono i ragazzi della casa cantoniera, gli operatori della Fondazione Talitá Kum, la Croce Rossa, il Soccorso alpino, il personale medico di Rainbow for Africa, Medici per i diritti umani, i volontari del Refuge solidaire di Briançon, ma anche singoli cittadini.

La società civile ha saputo creare un cordone di umanità così organizzato che spesso sfugge anche alla comprensione dei migranti, ma che permette a persone come Fawzia, Tamkin e Nadim di non perdere i loro sogni e neppure la loro vita sulla sottile linea di frontiera.

Simona Carnino




Papa Francesco in Iraq: Sui fiumi di Babilonia

testo di Luca Lorusso |


 

Sui fiumi di Babilonia

Un viaggio in sospeso fino all’ultimo, in una terra gravida di violenze, in dialogo con leader religiosi, politici e civili, e con le ferite di un popolo. La fratellanza umana cercata nella culla della civiltà. Il papa in Iraq secondo due esperti del paese.

«Se Dio è il Dio della vita, e lo è, a noi non è lecito uccidere i fratelli nel suo nome. Se Dio è il Dio della pace, e lo è, a noi non è lecito fare la guerra nel suo nome. Se Dio è il Dio dell’amore, e lo è, a noi non è lecito odiare i fratelli». L’appello di papa Francesco alla pace, al dialogo e alla fratellanza umana, non è nuovo. Ma ha avuto una forza speciale durante il suo viaggio in Iraq dal 5 all’8 marzo scorso.

Già da tempo il pontefice voleva visitare il paese dei due fiumi, la terra di Ur dei Caldei dove nacque Abramo, padre della fede per ebrei, cristiani e musulmani, e finalmente ci è riuscito.

In mezzo alla tempesta della pandemia, il suo primo viaggio dopo più di un anno, papa Bergoglio l’ha compiuto là, dove la tradizione colloca l’Eden, il giardino bello e fertile della prima coppia umana, oggi mosaico di etnie e religioni e campo di battaglia bagnato dal sangue di troppi conflitti.

La terra di Ur dei caldei

«Dopo la prima guerra del Golfo del 1991, e la seconda del 2003, sull’Iraq c’è stato il silenzio per troppo tempo, fino all’arrivo dell’Isis nel 2014». Don Renato Sacco, parroco di Cesara (Vb), è coordinatore di Pax Christi Italia, legato all’Iraq e amico del cardinale Louis Raphaël I Sako, dal 2013 patriarca della chiesa caldea a Baghdad, fautore del viaggio apostolico e in particolare dell’incontro tra Francesco e il grande ayatollah ʿAlī al-Husaynī al-Sīstānī a Najaf, città santa dell’islam sciita.

«L’Iraq è la mezza luna fertile, il paradiso terrestre della Genesi, la terra dei monasteri del Nord, dove c’è Mosul, l’antica Ninive convertita da Giona. È anche la terra di Nabucodonosor e dell’esilio: “Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion” (Sal 137). Infine, è la terra di Ur dei Caldei, di Abramo.

In un paese che ha visto guerre coperte da motivazioni religiose, sancire un dialogo di religione e non una guerra di religione è stato estremamente importante».

Photo by – / VATICAN MEDIA / AFP

Terra di persecuzione

Francesco è stato il primo papa a visitare l’Iraq. Ha realizzato un sogno che era stato già di Giovanni Paolo II, che sarebbe voluto andarci nel 2000. Centro del suo viaggio è stato l’incontro con i musulmani sunniti e sciiti, e con le minoranze etniche e religiose del paese, come gli yazidi e i mandeisti, ma altrettanto centrale è stato l’incontro con le chiese cristiane, eredi di alcune delle comunità più antiche.

A inizio Novecento i cristiani in Iraq rappresentavano il 6,4% della popolazione (vedi box), nel 2005 erano il 2%, e oggi circa lo 0,6%. Se nel 2003 erano 1,4 milioni, oggi sono circa 250mila.

«La chiesa irachena fonda le sue origini sulla predicazione dell’apostolo Tommaso. È sempre stata una chiesa di testimonianza e di martirio, e lo è anche adesso. Quando Sako è diventato patriarca, ha chiesto ai cristiani di non lasciare il paese. Anche perché, come dicono pure i musulmani, l’Iraq sarebbe più povero senza di loro.

Il papa è stato a Mosul, nella piana di Ninive, e a Qaraqosh, una delle rare cittadine irachene a maggioranza cristiana, per incoraggiare quelle comunità. Io ci sono stato. È una chiesa viva che non ha perso la speranza».

Forte simbolismo

Nei tre giorni di visita, le tappe del papa sono state molteplici, tutte fortemente simboliche. Ha incontrato i governanti a Baghdad e le autorità civili del Kurdistan iracheno a Erbil, ha visitato il grande ayatollah ʿAlī al-Sīstānī, punto di riferimento dell’islam sciita a Najaf, e ha partecipato all’incontro interreligioso nella piana di Ur, infine ha portato il suo sostegno ai cristiani di Mosul, di Quaraqosh e di tutto l’Iraq.

«Il papa ha incontrato le autorità, alle quali fa bene sentirsi dire che devono essere al servizio del popolo e non della corruzione o di poteri esterni; i capi religiosi; poi le vittime dell’Isis e, più in generale, le vittime della guerra, perché ricordiamoci che prima dell’Isis ci sono state le due guerre del Golfo.

L’America nel 2003 ha tolto tutte le responsabilità politiche, militari, amministrative a chi era stato legato a Saddam Hussein, e il paese è rimasto sguarnito.

Il silenzio sull’Iraq non si è rotto nemmeno con il rapimento e l’uccisione nel 2008 dell’arcivescovo caldeo di Mosul, mons. Paulos Faraj Rahho. Io ero stato da lui pochi giorni prima del rapimento. Lo hanno fatto poi trovare morto in una discarica. Però di tutto questo non si è parlato, così, quando nel 2014 è arrivato l’Isis, molti lo hanno interpretato come un fungo nato all’improvviso, ma l’Isis non è un fungo, è il frutto di una gestione economica, politica, militare che ha alimentato rabbia e odio».

al-Sīstānī, Sako e il papa

Nella prima bozza di programma del viaggio, la tappa di Najaf per l’incontro con il novantenne leader sciita non era prevista.

Fin da subito, il cardinal Sako si è speso perché venisse inserita. Il suo auspicio era quello che i due leader firmassero il documento sulla fratellanza umana di Abu Dhabi, firmato il 4 febbraio 2019 da Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb, punto di riferimento per l’islam sunnita. Il papa avrebbe così avuto, in qualche modo, anche un ruolo di mediazione tra l’islam sciita e l’islam sunnita.

Il tempo a disposizione per maturare un passo così importante, però, non era sufficiente. Ciò non toglie che l’incontro sia stato un evento fruttuoso con possibili risvolti futuri: «Presto ci recheremo in Vaticano per assicurarci che questo dialogo continui, si sviluppi e non si fermi qui», ha detto, infatti, dopo la visita papale Sayyed Jawad Mohammed Taqi Al-Khoei, uno degli esponenti di spicco del mondo sciita iracheno, segretario generale dell’Istituto Al-Khoei di Najaf.

Don Renato Sacco ci racconta che lo stesso Sako si trova a svolgere quotidianamente un ruolo di mediazione tra le diverse fedi ed etnie irachene: «Da sempre, fin da quando era parroco a Mosul, Sako crede nel dialogo. Ricordo che una volta a Kirkuk, dove è stato vescovo, mi sono trovato a una cena di Sako con tutti i capi religiosi e politici della zona. Tutti erano venuti con la scorta, con tanto di kalashnikov. A un certo punto nel salone è andata via la luce. Al buio, con tutti questi capi l’uno contro l’altro armati, ho avuto paura. Ma non è successo niente.

Sako mi aveva detto che quei capi sarebbero andati volentieri alla cena da lui, perché da soli non sarebbero mai riusciti a incontrarsi. Sako faceva da mediatore, da punto di riferimento.

L’incontro del papa con al-Sīstānī è conseguenza di questo cammino. È un messaggio per l’Iraq e per il mondo: i capi dialogano».

Il viaggio e la pandemia

In un suo intervento su «La Civiltà cattolica», Antonio Spadaro dà un’interpretazione forte a questo primo viaggio del papa dopo i mesi di stop dovuti alla pandemia. Scrive: «Il viaggio in Iraq si deve inquadrare in questa emergenza sanitaria dello spirito come missione della Chiesa in quanto “ospedale da campo”. Il luogo ideale per porre la tenda di questo ospedale è la piana di Ninive». E prosegue: «Il Pontefice ha identificato in questi mesi […] un chiaro punto focale della sua missione: la fratellanza umana, per la costruzione della quale le religioni possono offrire un “prezioso apporto” […]. Per questo ha deciso di ripartire da Baghdad». La chiesa «ospedale da campo» trova nella lotta alla pandemia il simbolo di una possibile lotta delle fedi religiose unite per il bene comune nella fratellanza umana.

«Condivido molto quello che scrive Spadaro», dice il coordinatore nazionale di Pax Christi. «Il motto del viaggio in Iraq era il versetto di Matteo che dice “Voi siete tutti fratelli”, scritto in caldeo, arabo, inglese e curdo.

Andare in Iraq accanto alle vittime, recitare l’angelus a Qaraqosh, un luogo di sofferenza e di speranza, ha voluto dire scegliere da che parte stare.

Il viaggio poi è stato un sostegno anche per chi lavora lì nel silenzio accanto ai profughi, alle vittime della violenza, a chi ritorna nelle proprie case e le trova distrutte, e continua a farlo, a chi lotta per la pace».

Luca Lorusso


Le chiese irachene

In Medio Oriente si stima che vivano circa 15 milioni di cristiani. In alcuni paesi crescono di numero grazie alle migrazioni, soprattutto nella penisola arabica; in altri, come la Siria e l’Iraq, diminuiscono in modo drastico svuotando alcune tra le comunità più antiche del mondo. Se in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti, nel 1900 i cristiani erano prossimi allo 0% della popolazione, oggi rappresentano il 4% e il 13%. Al contrario, se in Siria e Iraq nel 1900, i cristiani erano rispettivamente il 18% e il 6,4%, oggi sono il 2% e lo 0,6%. Con un calo esponenziale a partire dal 2010 in Siria e dal 2003 in Iraq.

Il rapporto di Acs (Aiuto alla Chiesa che soffre), I cristiani in Iraq, pubblicato a gennaio e scaricabile dal sito acs-italia.org, parla di un esodo provocato soprattutto negli ultimi 20 anni dai conflitti, dalla povertà e dalle persecuzioni.

Pluralità di confessioni

In Iraq i cristiani sono concentrati soprattutto nel Nord (Erbil, Dohuk, Sulaymaniyah, Kirkuk e nella provincia di Ninive). Dagli anni 70, molti sono emigrati a Baghdad e a Bassora, ma dopo il 2003 si è registrato un corposo fenomeno di ritorno.

Una delle caratteristiche più vistose dei cristiani iracheni è la pluralità di confessioni alle quali appartengono. La più consistente è la chiesa cattolica caldea, il cui patriarca, dal 2013, è il card. Louis Raphaël I Sako. Essa raduna il 67,5% dei cristiani del paese. Le altre chiese cattoliche sono quella cattolica siriaca (6,5%), la cattolica armena (0,5%) e la cattolica latina (0,5%). Le chiese ortodosse sono invece quella assira orientale (13%), l’ortodossa siriaca (6%), l’apostolica armena (4%) e la greco ortodossa (0,5%). Mentre gli evangelici contano circa l’1,5% dei cristiani.

Esodo e timori

Il rapporto di Acs, ripercorrendo le varie fasi dell’esodo, ricorda che all’arrivo dell’Isis a Mosul e nella piana di Ninive nell’estate 2014, 120mila cristiani sono fuggiti in pochi giorni nelle zone curde. Negli anni tra il 2014 e il 2019, le persone uccise a causa della guerra sono state in totale 73mila, solo nella zona di Mosul si sono contati 384mila sfollati.

E riguardo ai timori che i cristiani della piana di Ninive hanno ancora oggi, Acs scrive: «Sconfiggendo [l’Isis], il paese ha piegato il peggior nemico della libertà religiosa […]. La minaccia però non è annientata perché molti dei suoi combattenti […] si sono dati alla clandestinità, attaccando occasionalmente le minoranze religiose anche negli ultimi anni». Riguardo alle milizie sciite: «La preoccupazione più immediata per la sicurezza nella Piana di Ninive è rappresentata dalle milizie sostenute dall’Iran che […] hanno aiutato a sconfiggere l’Isis. Tuttavia, alcuni cristiani le accusano di corruzione e di violazioni dei diritti umani». Infine, riguardo alla Turchia: «Gli interventi turchi nel Nord dell’Iraq diretti contro i militanti del Pkk (il Partito dei lavoratori del Kurdistan, nda) stanno colpendo diverse minoranze religiose tra cui cristiani e yazidi. Dall’inizio del 2020 almeno 25 villaggi cristiani nel Nord del paese sono stati svuotati […]».

L.L.


Mosaico di religioni

Dei circa 40 milioni di abitanti iracheni, si stima che gli arabi siano il 75-80%, i curdi il 15-20%, e che un restante 5% sia costituito da una pluralità di minoranze etniche come turkmeni, assiri, persiani.

La stragrande maggioranza della popolazione è di fede musulmana, il 98% circa. Tra le fedi minoritarie che formano il restante 2%, la cristiana, la mandeista, la yazida.

All’interno della vasta maggioranza musulmana vanno distinti poi tre gruppi principali: gli arabi sciiti che rappresentano la maggioranza, circa il 64%, concentrati soprattutto nella parte Sud orientale del paese, gli arabi sunniti, 17%, nell’Iraq centro meridionale, e i curdi sunniti, 17%, nella zona Nord, l’area maggiormente abitata dalle minoranze (vedi cartina pag. 30).

Gli sciiti

All’interno dell’islam, gli sciiti si caratterizzano per il ruolo speciale assegnato ad Ali, cugino e genero del profeta Muhammad, e alla sua discendenza attraverso Fatima, figlia del profeta.

Gli sciiti rappresentano il 10-15% di tutti i musulmani del mondo (circa 130-195 milioni), e rappresentano l’80% della popolazione che vive sui giacimenti di petrolio del golfo.

Le tre principali etnie che compongono l’islam sciita sono l’araba, l’iraniana persofona, e l’azera turcofona.

Gli sciiti arabi iracheni sono la più grande comunità sciita del mondo arabo. Le altre si trovano in Libano (20% della popolazione), Siria (10-12%), Kuwait (20-25%), Arabia Saudita (10-15%), Bahrain (50-70%), Yemen (35%), Turchia (20%).

In Iran, gli sciiti persiani e azeri costituiscono oltre il 90% del paese. In Azerbaigian gli sciiti sono il 75-80%, in Afghanistan il 20-25%, in Pakistan il 20%.

I santuari

I luoghi nei quali la tradizione colloca le sepolture di alcuni dei membri della famiglia del profeta Maometto, sono quelli nei quali sorgono i più importanti santuari che svolgono un ruolo centrale nella fede sciita.

Il santuario di Najaf, dove riposano le spoglie di ‛Alī ibn Abī Ṭālib, cugino a genero del profeta, è considerato il più importante, e sede della più prestigiosa scuola teologica sciita. Suo «rivale» in Iran è il santuario di Qom, dove è seppellita Fa’ṭima, sorella dell’ottavo imām ‛Alī ibn Mūsā ar-Riḍā, anch’esso sede di un’importante scuola teologica secondo i caratteri iraniani.

L.L.


Lo sciismo dialogante di ʿAlī al-Sīstānī

Il grande ayatollah di Najaf è il massimo interprete di una lettura «quietista» dell’Islam sciita, rifiutando l’interferenza religiosa nella politica. Nonostante ciò, ha oggi un ruolo centrale nello scenario iracheno, ed è considerato un fattore di stabilità nel suo paese. È per questo che il cardinale Sako guarda a lui come un punto di riferimento nel dialogo, e che la «visita di cortesia» del papa a Najaf è stata uno dei momenti più significativi del suo viaggio in Iraq.

Abbiamo sentito Andrea Plebani, ricercatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Associate research fellow all’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), vicedirettore scientifico del Centro studi internazionali di geopolitica. I suoi interessi di ricerca sono concentrati sull’evoluzione dello scenario geopolitico mediorientale, con particolare attenzione a Iraq, Siria ed Egitto, e sulle dinamiche interne alla galassia islamista.

Photo by – / Ayatollah Sistani’s Media Office / AFP

Qual è il ruolo del grande ayatollah al-Sīstānī?

«‘Alī al-Husaynī al-Sīstānī è il massimo rappresentante del quietismo sciita che riconosce la centralità del ruolo dei giurisperiti (esperti di diritto islamico, nda), ma prevede un loro non coinvolgimento diretto nell’ambito politico. L’opposto dello sciismo khomeinista che in Iran si è affermato dalla rivoluzione del ’79.

Questa diversità si riflette in una competizione tra i due santuari chiave dello sciismo: quello di Najaf, e quello di Qom in Iran.

Ciò detto, c’è anche da dire che l’impostazione quietista di al-Sīstānī non gli ha impedito negli ultimi decenni di giocare comunque un ruolo chiave sul piano politico. Ad esempio, nel 2014, quando l’Isis è entrato a Mosul, ha emanato una fatwa per chiamare gli iracheni (non solo gli sciiti, ma tutti, e questo è significativo) a imbracciare le armi. Cosa che ha contribuito non poco alla vittoria contro i terroristi.

La sua centralità informale sul piano politico è sempre stata segnata da un ruolo di mediatore, dall’appello al dialogo, al rispetto delle minoranze. Consideriamo che l’Iraq post 2003 è un paese che ha subito dei cambi di equilibri interni fortissimi che l’hanno destabilizzato sotto molti profili.

In questa realtà così frammentata e dilaniata, al-Sīstānī ha giocato un ruolo di moderatore, invitando, ad esempio, a non rispondere alla violenza con altra violenza anche in tempi difficili come gli anni dal 2004 al 2006 nei quali gli attacchi colpivano in modo sempre più duro la popolazione civile.

Da sempre, poi, non esita a far sentire la sua voce in favore dei diritti dei più deboli. Penso alle manifestazioni di protesta che sono esplose nel 2019: quando i manifestanti hanno chiesto il suo intervento, lui, mentre il governo reprimeva anche nel sangue le proteste, ha risposto chiedendo che i loro diritti venissero tutelati.

Al-Sīstānī ha una statura unica nel sistema iracheno: in un paese destabilizzato, negli ultimi decenni lui è stato una costante che è riuscita a tenerlo assieme».

La visita del papa ad al-Sīstānī può aver irritato l’Iran?

«Non penso. Ho parlato di competizione tra le due visioni sciite, ma la competizione non implica necessariamente ostilità. Il papa, con la sua visita ad Al-Sīstānī gli ha voluto anche riconoscere il fatto che si è speso molto per creare un clima non ostile alle minoranze, un clima di dialogo. Questo non vuol dire che le minoranze siano tranquille in Iraq, ma il tentativo di al-Sīstānī va evidenziato».

Riguardo alle proteste, quali erano, e sono, le loro istanze?

«Sono proteste molto frammentate, senza una leadership univoca, che hanno riunito anime diverse: dagli studenti, anche giovanissimi, ai giovani disoccupati (il 57% della popolazione in Iraq ha meno di 24 anni, l’età media è di 21, nda). Non sono manifestazioni settarie, di una componente che mira ad affermare la sua centralità.

Uno dei loro slogan più significativi è: “Noi vogliamo una patria”. Cioè, da un lato, che il paese sia realmente indipendente, non soggetto all’influenza degli Usa, dell’Iran, ma anche che l’Iraq non sia ostaggio di una cricca di politici i cui interessi sono diversi da quelli della collettività.

L’Iraq è un paese potenzialmente ricchissimo, non solo per gli idrocarburi. È una terra fertile. Ha uno sbocco sul Golfo Persico, ha buone capacità industriali.

Anche sulla base di queste considerazioni, le proteste chiedono risposte a istanze basilari: che i diritti degli individui vengano tutelati, che ci siano opportunità lavorative, che sia garantita la dignità. Si chiede un netto cambiamento. E che vengano realizzate le aspettative generate dalla caduta del regime di Saddam».

Una delle problematiche è anche la suddivisione «settaria» delle cariche istituzionali.

«Il sistema iracheno non è consociativista come quello libanese nel quale è previsto che alcune cariche vengano affidate a esponenti di specifiche comunità. Nel sistema iracheno la costituzione non dice nulla in tal senso, però di fatto, sul piano sostanziale, dal 2005 il primo ministro è un arabo sciita, il presidente è curdo, lo speaker del parlamento è arabo sunnita, il ministro dell’Interno è un arabo sciita, quello della difesa è un arabo sunnita, e così via. È anche questo uno degli aspetti contro i quali i manifestanti si scagliano: il settarismo è rifiutato da sempre dalla popolazione irachena».

Un ulteriore elemento di complessità nel quadro iracheno è aggiunto dalla regione autonoma del Kurdistan.

«Nell’autunno 2017, quando la lotta contro l’Isis volgeva al termine, la classe dirigente del Kurdistan iracheno ha indetto un referendum sull’indipendenza. Questo anche alla luce del notevole credito internazionale acquisito grazie agli sforzi nella lotta all’Isis.

Il Kurdistan porta avanti almeno dal 2003 una campagna che tende a rappresentarlo come una realtà diversa dal resto dell’Iraq. Nella prima decade del 2000 c’era una campagna pubblicitaria che presentava il Kurdistan come l’altro Iraq, quello che funziona, che cresce, si sviluppa, dove si rispettano i diritti, ecc.

Con il ritiro delle forze di sicurezza irachene nel 2014 da Mosul, le forze curde, ex peshmerga, avevano occupato molti dei territori contesi da tempo tra Baghdad ed Erbil, territori chiave dal punto di vista sociale, culturale, storico, ma anche economico. In particolare la città di Kirkuk attorno alla quale ci sono giacimenti che avrebbero garantito le basi economiche del Kurdistan iracheno indipendente.

Il problema è che la questione non è solo tra Baghdad ed Erbil. Ci sono comunità curde in Siria, ma soprattutto in Turchia e Iran. La Turchia ha da sempre una linea di opposizione nei confronti di un Kurdistan indipendente, e questi si è di fatto trovato circondato dall’opposizione di Ankara, Teheran e Baghdad, e abbandonato dagli Usa».

Fino all’ultimo, il viaggio del papa è stato in bilico. I timori per la sicurezza erano forti.

«Anche io ero molto preoccupato, perché l’Iraq è un paese con problemi di sicurezza enormi. Sono felice che sia andato tutto bene. La visita di un’autorità come il papa ha restituito all’Iraq la centralità che dovrebbe sempre avere. È stata, oltre che uno strordinario atto di coraggio personale e di amore nei confronti della popolazione irachena, non solo cristiana, l’occasione per dare centralità a chi spesso è stato dimenticato».

L.L.


Archivio MC:

Valentina Tamborra, Iraq: la rivolta e la speranza, agosto 2020.
Angelo Calianno, I sopravvissuti (alla follia dell’Isis). Reportage da Kirkuk, maggio 2019.
Angelo Calianno, Le bombe non conoscono religione. Reportage da Mosul, aprile 2019.
Marta Petrosillo, Ricostruire dopo l’Isis. Il ritorno dei cristiani nella piana di Ninive, aprile 2019.
Simone Zoppellaro, Kurdistan: Orgoglio Kurdo. Reportage dal Kurdistan iracheno, dossier, luglio 2017.
Simone Zoppellaro e Paolo Moiola, Popolazioni perseguitate: Yazidi, dossier, marzo 2017.