Inferno, purgatorio, paradiso

testo di Paolo Moiola |


Come non bastassero le devastanti conseguenze dell’embargo Usa, sull’isola si è abbattuta la pandemia e la penuria di beni primari. Molti cubani sono scesi in piazza per protestare contro il governo, trovando l’appoggio (interessato) del presidente Biden.

Tra Miami, cuore scintillante della Florida, e l’Avana, capitale di Cuba, ci sono meno di 400 chilometri. E oltre 60 anni di percorsi politici e culturali diversi, anzi opposti: capitalismo versus socialismo. Messa così, è facile arrivare a conclusioni tanto perentorie quanto parziali: ricchezza contro sopravvivenza, libertà contro autoritarismo.

In questi ultimi mesi, sulla piccola isola caraibica ci sono state manifestazioni antigovernative. Con immediate reazioni di giubilo tra la vasta comunità cubana di Miami e sulla maggior parte dei media (compresi quelli italiani). Per capire meglio la situazione, proviamo a ricordare qualche elemento dimenticato o – forse volutamente – trascurato.

Scolare di Trinidad con in mano «Granma», il quotidiano ufficiale dell’isola. Foto Jaume Escofet.

243 nuove misure

Iniziamo con l’embargo degli Stati Uniti, conosciuto come «el bloqueo» e vigente (con modalità variabili e crescenti) dal 1960.

Le conseguenze più disumane sono quelle derivanti dall’applicazione del Cuban democracy act del 1992 (Cda, conosciuto anche come legge Torricelli, dal nome del suo proponente).

È da questa norma che derivano le restrizioni più dure sui rifornimenti di medicine e di attrezzature medicali per Cuba. Se prima erano vietate le esportazioni dirette dagli Usa di quei beni, con la nuova legge vengono vietate anche le vendite dalle sussidiarie estere delle aziende statunitensi. Inoltre, in base al Cda, le navi che abbiano fatto scalo a Cuba non possono attraccare nei porti Usa per sei mesi. Una norma scandalosa e ingiustificabile, senza se e senza ma.

Eppure, a tanti l’argomento del bloqueo risulta indigesto: «È una scusa da sempre utilizzata dal regime per giustificarsi», affermano.

Tutto può essere, ma che l’embargo (economico, commerciale, finanziario) contro l’isola non produca effetti nefasti sulla quotidianità dei cubani è negare l’innegabile. Purtroppo, se Barack Obama aveva iniziato ad allentare le sanzioni, Donald Trump le ha rese ancora più dure introducendo altre 243 (leggasi «duecentoquarantatre») misure (e – negli ultimi giorni del suo mandato – ha addirittura inserito il paese tra gli stati sponsor del terrorismo).

Per comprendere meglio cosa possa comportare l’embargo degli Stati Uniti, prendiamo alcuni dei provvedimenti introdotti da Trump nell’ultimo anno della sua presidenza (non per amore della libertà e della democrazia, ma nel prosaico intento di guadagnare i voti della folta comunità cubana della Florida, circa 1,5 milioni di persone su un totale di 2,3 milioni presenti in Usa). Essi colpiscono le due principali entrate in dollari dell’isola: le rimesse e il turismo.

Il 26 ottobre 2020, il Tesoro Usa ha emendato il Cuban assets control regulations allungando la lista (Cuba restricted list) delle entità cubane (società, ministeri, uffici) con cui le compagnie statunitensi non possono avere rapporti. Tra queste anche Fincimex, sussidiaria di Gaesa, il conglomerato d’imprese che farebbe capo alle Forze armate rivoluzionarie di Cuba. La Fincimex è la controparte finanziaria della Western Union, l’azienda statunitense di trasferimenti di denaro.

Cubani davanti a un ufficio di Etecsa, la compagnia telefonica statale. Foto Ian Southwell.

A causa del divieto governativo, lo scorso 27 novembre la compagnia Usa si è vista costretta a chiudere i suoi 407 uffici distribuiti sull’isola, colpendo migliaia di cubani che sulle rimesse fanno affidamento.

Per quanto concerne il turismo, dopo aver proibito le crociere nel giugno 2019, il 28 settembre 2020 il Dipartimento di stato degli Usa ha reso nota una lista di 433 hotel cubani, legati o controllati dal governo de l’Avana, in cui ai cittadini statunitensi è stato fatto divieto di soggiornare. Agli statunitensi è stato inoltre proibita l’importazione di rum e sigari, i prodotti cubani più famosi.

Come sappiamo, Trump è poi uscito di scena essendo stato sconfitto da Joe Biden. Il neo presidente non ha però cambiato registro (smentendo, almeno fino a ora, le promesse fatte a settembre 2020, durante la sua campagna elettorale).

Il giorno seguente alle proteste dell’11 luglio, in una prima nota (White House statements and releases) Biden ha espresso vicinanza al popolo cubano («We stand with the Cuban people»).

Pochi giorni dopo, durante una conferenza stampa con Angela Merkel, è stato più esplicito affermando che Cuba è uno stato fallito («failed state») che reprime i suoi cittadini (fonte: Cnn).

Nella nota del 22 luglio, ha affermato che «gli Stati Uniti stanno con i coraggiosi cubani che sono scesi in piazza per opporsi a 62 anni di repressione sotto un regime comunista». Insomma, un crescendo inarrestabile di accuse da parte del nuovo presidente Usa.

Un cartellone del governo cubano contro l’embargo (el bloqueo), definito strumento di genocidio. Foto Diego Battistessa.

La battaglia del web

Consueto campo di battaglia è la narrativa: a chi credere? Al racconto fatto dagli Usa o a quella del governo de l’Avana? La connessione internet non è
risolutiva come spesso si crede. Nei giorni precedenti alle manifestazioni, molti gruppi anti castristi degli Stati Uniti hanno utilizzato i social media (Twitter, Facebook, Instagram, Telegram e WhatsApp) per incitare alla protesta antigovernativa. Quando questa è scoppiata, gli stessi social media l’hanno amplificata. Per questo il governo de l’Avana ha oscurato internet per 72 ore, salvo poi ripristinarla.

Introdotta soltanto nel 2018 e rafforzata nel luglio 2019, la connessione web è oggi presente sui cellulari di cinque milioni di cubani (fonte: Bbc).

A Cuba, opera una sola compagnia telefonica, la statale Etecsa. Lo scorso 17 agosto il governo ha pubblicato il decreto legge n. 35 e la risoluzione 105 sulle comunicazioni e la cibersicurezza per regolamentare internet. Gli avversari sostengono che le nuove norme servono per limitare la libertà d’espressione.

L’amministrazione Biden sta cercando soluzioni tecniche per sottrarre internet al controllo governativo. D’altra parte, non va dimenticato che lo strumento del web può aprire le porte all’informazione, ma molto spesso anche alla disinformazione e alle fake news.

Per dirla in altri termini, internet è uno strumento a geometria variabile: quando fa comodo, è la panacea di ogni male; quando gli interessi sono diversi, è il diavolo.

184 voti a favore

Davanti all’offensiva di Biden, il presidente cubano Miguel Díaz-Canel, l’ingegnere (nato nel 1960) che è succeduto ai fratelli Castro, ha risposto chiedendo al presidente Usa di eliminare le misure dell’embargo statunitense nei confronti dell’isola.

Una dose di «Abdala», uno dei vaccini contro il Covid-19 prodotti a Cuba.

Che esso costituisca una causa fondamentale dell’emergenza e non una «scusa» del governo de l’Avana ne è convinta anche la comunità internazionale. Lo scorso 23 giugno l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha, infatti, chiesto la fine del blocco economico, commerciale e finanziario degli Stati Uniti verso Cuba. La risoluzione si aggiunge alle 28 adottate dal 1992, quando l’organo dell’Onu ha iniziato a votare annualmente sulla questione. La condanna dell’embargo ha ottenuto questa volta 184 voti a favore, due contrari (Stati Uniti e Israele) e tre astenuti (Colombia, Brasile e Ucraina).

Nel corso del dibattito, il ministro degli esteri di Cuba, Bruno Rodríguez Parrilla, ha affermato che l’embargo è una violazione massiccia, flagrante e sistematica dei diritti umani del popolo cubano e ha aggiunto che, secondo la Convenzione di Ginevra del 1948, «esso costituisce un atto di genocidio». Si tratta, ha detto, di «una guerra economica di portata extraterritoriale contro un piccolo paese già colpito nel recente periodo dalla recessione e dalla crisi economica mondiale causata dalla pandemia, che ci ha privato di entrate essenziali come quelle derivanti dal turismo». «La pretesa di Cuba è di vivere senza l’embargo e che venga cessata la persecuzione dei nostri legami commerciali e finanziari con il resto del mondo», ha sottolineato il ministro (fonte: sito Nazioni Unite).

Una dose di «Soberana 2», uno dei vaccini contro il Covid-19 prodotti a Cuba.

A parte lo storico embargo statunitense, da un anno e mezzo su Cuba si è abbattuto anche il Covid-19 e le sue conseguenze economiche. Senza valute forti a causa del crollo del turismo internazionale, l’isola ha dovuto affrontare da sola la pandemia. È riuscita a contenerla per merito del suo sistema sanitario pubblico, povero di mezzi (scarseggiano anche le siringhe), ma dotato di un vasto e preparato capitale umano (medici, infermieri, tecnici, ricercatori). Dei cinque vaccini cubani, il «Soberana 2», il «Soberana plus» e l’«Abdala» hanno evidenziato di essere efficaci. A inizio settembre il governo de l’Avana e l’Oms hanno iniziato a discutere sull’autorizzazione internazionale degli stessi.

Vale la pena di rammentare che, nel corso del 2020, in piena pandemia, due brigate mediche di Cuba vennero a portare aiuto anche in Italia.

Yoani Sánchez e Frei Betto

Yoani Sánchez, la dissidente cubana più nota e più ricercata dai media internazionali, racconta la situazione sull’isola sul proprio sito web, tenuto con il marito Reinaldo Escobar: 14ymedio.com, assieme a cubalex.org, il più serio (e sovvenzionato) tra i siti antigovernativi.

Nei suoi articoli pubblicati sul New York Times e su la Repubblica (22 luglio), la giornalista ha commentato i fatti dell’11 luglio senza un solo cenno all’embargo, come non esistesse e non sortisse effetto alcuno. A lei noi preferiamo di gran lunga il brasiliano Frei Betto, frate domenicano, teologo (della liberazione) e scrittore, da 40 anni frequentatore dell’isola.

In una sua lunga e appassionata lettera, il religioso ha scritto: «Se in Brasile sei ricco e vai a vivere a Cuba, conoscerai l’inferno. Non potrai cambiare auto ogni anno, acquistare abiti firmati, viaggiare spesso all’estero per le vacanze. […] Se appartieni alla classe media, preparati a vivere il purgatorio. Nonostante Cuba non sia più una società nazionalizzata, la burocrazia persiste, bisogna pazientare nelle code ai mercati, molti prodotti disponibili questo mese potrebbero non essere trovati nel prossimo a causa dell’instabilità delle importazioni».

«Se, invece, sei uno stipendiato, un povero, un senzatetto o un senzaterra, preparati a conoscere il paradiso. La Rivoluzione ti garantirà i tre diritti umani fondamentali: cibo, salute e istruzione, ma anche alloggio e lavoro. Potresti rimanere con l’appetito per non riuscire a mangiare ciò che più ti piace, ma non avrai mai fame. La tua famiglia avrà istruzione e assistenza sanitaria – compresi gli interventi chirurgici complessi – totalmente gratuiti, in quanto questi servizi sono un dovere dello stato e un diritto di ogni cittadino».

Il cardinale Jaime Ortega Alamino, morto nel 2019, è stato per oltre tre decenni una figura chiave a Cuba. Foto Diario de Cuba.

Il ruolo della Chiesa

La Chiesa cattolica di Cuba ha sempre rivestito e riveste un ruolo fondamentale sull’isola, come unico interlocutore credibile con il potere centrale.

«Non possiamo chiudere gli occhi o girare lo sguardo». Così iniziava il comunicato dei vescovi cubani del 12 luglio, il giorno seguente alle manifestazioni di protesta sull’isola. In esso i vescovi hanno criticato immobilismo e imposizioni, reclamando invece un ascolto reciproco. Nel corso della sua esistenza, l’ex leader cubano Fidel Castro (1926-2016) ha incontrato tre pontefici: Giovanni Paolo II nel gennaio 1998, Benedetto XVI nel marzo 2012 e Francesco nel settembre 2015. In queste visite, l’affermazione più emblematica è stata, forse, quella pronunciata da Giovanni Paolo II, il 25 gennaio 1998: «Che Cuba si apra al mondo e il mondo si apra a Cuba».

Tutti i viaggi papali sono stati organizzati dal cardinale Jaime Ortega, arcivescovo di l’Avana per quasi 36 anni (1981-2016), poi sostituito dal cardinale Juan de la Caridad García Rodríguez. Ortega, scomparso nel luglio 2019, è stato un protagonista assoluto della storia dell’isola, ma le sue posizioni concilianti non sono mai piaciute ai cubani espatriati, in particolare a quelli residenti in Florida. Costoro sono arrivati al punto di accusare il prelato di «ripulire la faccia al regime» (lavar la cara al régimen).

Dall’altra parte, mons. Ortega trovava un interlocutore preparato. Fidel conosceva infatti la dottrina cattolica e la Chiesa. In gioventù, aveva studiato per anni negli istituti dei gesuiti: prima al collegio Dolores a Santiago, poi a quello di Belén all’Avana.

La sua posizione religiosa è stata oggetto di varie interpretazioni. Una delle più originali è, senza dubbio, quella dello storico Loris Zanatta, che lo ha definito «l’ultimo Re cattolico», come recita anche il titolo di un suo libro (Salerno editrice, Roma 2020). «Fidel – vi si legge tra l’altro – è innanzitutto gesuita, poi rivoluzionario, infine marxista». «Non è strano – scrive ancora – che il monarca comunista del XX secolo sia erede ideale dei monarchi cattolici del passato: crebbe su un’isola che fu Spagna per secoli, in un ambiente familiare e sociale ispanico e cattolico».

Oggi a Cuba ci sono governanti diversi, sicuramente meno carismatici dei precedenti. Anche le circostanze storiche sono radicalmente mutate. Per tutto questo, mai come oggi, il futuro dell’isola non è pronosticabile. L’unica certezza è che non sarà facile.

 Paolo Moiola

Papa Giovanni Paolo II con Fidel Castro nella visita a Cuba del gennaio 1998.

Papa Francesco con Fidel Castro nella visita a Cuba del settembre 2015. Foto Alex Castro.

Papa Benedetto XVI con Fidel Castro nella visita a Cuba del marzo 2012. Foto L’Osservatore Romano.




La piccola donna dal grande destino

testo di Marco Bello |


Qualche mese fa, per caso, mi trovai tra le mani il libro La locanda della sesta felicità, di A. Burgess. È la biografia di una missionaria inglese del secolo scorso in Cina. Una donna modesta che fece cose grandi, e lasciò il segno. Una storia da conoscere.

«Il Dio di Gladys era per lei un’armatura impenetrabile alle frecce e alle pallottole che il mondo mortale poteva lanciarle. La sua fede era incrollabile […]. Nessun problema teologico la turbò mai: le paure e i dilemmi intellettuali soffiavano al di sopra del suo capo, a un livello stratosferico». Così scrive Alan Burgess, scrittore e biografo, a cui si deve la prima biografia della missionaria inglese Gladys Aylward, nel suo «The small woman», pubblicato nel 1957 (e tradotto in italiano un anno dopo con il titolo «La locanda della sesta felicità»).

Gladys era nata nel 1902, a Edmonton, un sobborgo a Nord di Londra, da una famiglia della working class. Non aveva mai viaggiato, «non ero mai stata oltre a poche miglia da casa mia», avrebbe confessato un giorno. Da giovane (erano gli anni ‘20 del XX secolo) amava danzare e andare a teatro, e voleva fare l’attrice. Non era molto alta, poco più di un metro e cinquanta, aveva i capelli neri, occhi vispi e tipico accento londinese. Dall’età di 14 anni iniziò a lavorare come cameriera nelle case dei ricchi e non era mai stata particolarmente religiosa.

Una sera, mentre con alcuni amici stava per andare a ballare, in una via affollata di Londra, fu presa in mezzo a un gruppo di giovani che entravano in una chiesa. Senza volerlo si trovò a seguire la funzione. «Quella sera, per la prima volta nella mia vita, realizzai che Gesù Cristo, figlio del Dio vivente, era morto per Gladys Aylward. Questa percezione mi scosse e avrebbe alterato la mia intera vita», avrebbe scritto molti anni dopo. «Corsi a casa, mi buttai sul letto e pensai: Dio se sei vero mostrati, e se lo farai, prometto che io farò qualsiasi cosa mi chiederai».

La giovane donna non frequentava una chiesa, aveva poca dimestichezza con la Bibbia e non sapeva pregare. Iniziò a cercare se stessa. Un giorno lesse su un periodico che in Cina c’erano milioni di persone che non avevano mai sentito parlare di Cristo. «Pensai che era terribile passare la propria vita senza Cristo. Qualcuno avrebbe dovuto fare qualcosa». Cominciò allora a parlare con persone istruite, con competenze e posizioni sociali migliori delle sue, pensando che sarebbero dovuti intervenire loro. Ma nessuno la prese sul serio. Propose, infine, a suo fratello di partire lui per la Cina, promettendo che lo avrebbe aiutato. Lui rifiutò e la prese in giro, ma poi le disse: «Se davvero pensi che qualcuno debba andare, perché non vai tu stessa?».

Il fratello l’aveva messa davanti a uno specchio, e Gladys sprofondò nel dubbio: «Non ho mai fatto nulla di importante, non sono istruita, non ho soldi, non so predicare, non conosco nulla della chiesa». Ma arrivò a una conclusione: «Feci al Signore due promesse: se mi avesse mostrato la via, sarei andata io in Cina e non avrei mai più chiesto a nessuno di fare quello che lui avrebbe chiesto a me».

Non idonea

Il primo passo fu un periodo di prova presso il China Inland Mission, un’istituzione inglese che preparava e inviava missionari in Cina dal 1865. Ma dopo tre mesi il direttore le disse che non era idonea a diventare missionaria, perché, per il suo basso livello di istruzione, non avrebbe mai imparato il cinese e la teologia.

Gladys non si perse d’animo, sentiva forte la chiamata, e decise di partire da sola, senza l’appoggio di alcuna organizzazione. Però non aveva soldi né contatti. Riprese a lavorare duro, a servizio, facendo il massimo dell’economia. Per andare in Cina, all’epoca, c’erano due possibilità: per nave o per treno attraverso la Transiberiana. Questa seconda opzione era in quegli anni – fine anni ‘20 – altamente sconsigliata, a causa di una guerra non dichiarata tra Cina e Unione Sovietica ai confini della Manciuria, proprio dove passava il treno. Ma era molto meno cara. Gladys non volle sentire ragioni, e comprò, a rate, il biglietto.

Intanto studiava la Bibbia, e andava anche a tentare prediche pubbliche, che non godevano di grande considerazione, allo speaker’s corner di Hyde Park. Ebbe l’occasione di leggere diversi libri sulla Cina, quando fu a servizio da sir Francis Younghusband, che vi aveva lavorato.

Per le sue origini, Gladys era cresciuta nel mondo protestante anglosassone, anche se, per lei, quello che contava era essere cristiana.

In quel periodo, durante una funzione in una chiesa metodista, sentì dire che una missionaria in Cina, Jeannie Lawson, di 74 anni, cercava una giovane missionaria per portare avanti il suo lavoro. Fu come un colpo di fulmine, e Gladys scrisse subito una lettera alla Lawson, la quale, dopo mesi – i tempi dell’epoca -, rispose che l’avrebbe accettata.

Il viaggio

Il 15 ottobre 1932, Gladys Aylward partì dalla stazione londinese di Liverpool street. Aveva due valigie: una conteneva vestiti e l’altra, cibo in scatola, biscotti, un fornello ad alcool, una padella, una teiera e un po’ di riso. Aveva con sé pochissimi soldi. A salutarla al binario c’erano la madre, il padre e la sorella, che non sapeva quando e se avrebbe rivisto. Non lo fece a cuor leggero, fu un grosso sacrificio lasciare la famiglia e il paese. Non aveva mai viaggiato all’estero, non era mai stata su un traghetto, né su un treno a lunga percorrenza.

«Non ho mai chiesto il permesso ai miei genitori. Ho detto loro che sarei partita. Erano i miei soldi ed era la mia vita. E pensavo che stavo facendo quello che Dio voleva che facessi. Quindi, anche se non capirono, essi accettarono e mi lasciarono andare», avrebbe raccontato.

La sua determinazione, e forse una dose di sana sprovvedutezza, la aiutarono, ma la spinta fondamentale fu la fede in quello che credeva fermamente Dio le avesse chiesto: andare a parlare di Cristo ai cinesi.

In quell’epoca, una giovane donna (aveva 28 anni) non viaggiava da sola. La guerra, sebbene non dichiarata, c’era eccome, e la corsa del treno fu interrotta nella città siberiana di Čita. Gladys rischiò di morire di freddo in Siberia, poi di essere trattenuta in Unione Sovietica. Ma fortunosamente qualcuno la salvò e, pure senza un soldo, da Vladivostok – dove era stata deviata a causa del conflitto – prese una nave che la portò in Giappone. Anche lì, a Kobe, una coppia di missionari la aiutò, e finalmente giunse nella città portuale cinese di Tientsin, dove fu accolta in una missione ben strutturata. Jeannie Lawson era conosciuta, e si sapeva che lavorava nello Shanxi, una provincia montagnosa e selvaggia a Nord Ovest di Pechino. I missionari del Tientsin mission center la affidarono al signor Lu, un uomo d’affari che stava partendo per quella terra. Anche quello sarebbe stato un viaggio lungo e faticoso. Presero il treno per un lungo tratto e poi un autobus.

Arrivarono a Zézhou dopo un mese e Gladys fu accolta da due anziane missionarie che le indicarono dove abitava Jeannie, a Yangcheng, ad alcuni giorni di viaggio. Non c’erano strade, e l’unico mezzo per arrivarci era a dorso di mulo.

Jeannie la missionaria

L’incontro con Jeannie Lawson non fu caloroso. La missionaria scozzese era una donna brusca e, dopo 50 anni di servizio in Cina, non era facile da trattare per una giovane appena arrivata. In città non c’erano altri cristiani, e loro erano chiamate «diavoli stranieri»: i bambini scappavano e gli adulti tiravano loro del fango.

La regione era costantemente percorsa da mulattieri che con i loro muli trasportavano le merci tra le città e i villaggi fortificati sulle colline. Jeannie ebbe un’intuizione: «Se apriamo una locanda per mulattieri, diamo loro alloggio e un pasto caldo, potremo anche intrattenerli con delle storie – cosa che di solito amano – e racconteremo le storie di Cristo. I commercianti, poi, viaggiando porteranno questi racconti nell’intera provincia».

Fu così che nacque la «Locanda delle otto felicità», sembra in riferimento alle otto virtù confuciane, ma anche alle beatitudini del Vangelo di Matteo. Gladys aveva il compito di piazzarsi sul percorso dei muli in arrivo in città, e di tirare nel cortile della casa il primo della fila, in modo che gli altri seguissero. Era questa la maniera di procurarsi i clienti. Jeannie dava la zuppa ai mulattieri e intanto raccontava passi del Vangelo, mentre Gladys badava ai muli.

«Sebbene Jeannie non mi abbia mai insegnato a mangiare il cibo cinese con le bacchette, o qualcosa sui costumi locali, e neppure mi abbia mai dato un consiglio su come imparare la lingua, [da lei] imparai come pregare e guadagnare le anime delle persone per il mio Signore», avrebbe scritto poi Gladys.

Dubbi e segni

Ingrsso della locanda nel 2006

Un anno dopo il suo arrivo, Jeannie morì. Gladys si ritrovò sola, arrivata da poco e, per di più, donna e straniera. La situazione delle donne all’epoca non era molto libera: «Adesso credevo che, in quanto giovane donna da sola, avrei dovuto andarmene. Inoltre, in Cina le donne non uscivano mai da sole, erano sempre accompagnate da un uomo della famiglia o da un servitore. E se non c’era questa possibilità, non uscivano di casa. […] Mi sentivo rinchiusa. Desideravo uscire. Ero giovane, ero contenta, volevo essere libera. E adesso ero chiusa in un piccolo cortile, che ogni sera si riempiva di animali e uomini». Mentre si chiedeva perché Dio l’avesse portata in quella città sperduta, unica cristiana, ed era presa dai dubbi su come procedere, pregava per un segno. Inoltre, Jeannie aveva una piccola rendita come missionaria, che con la sua morte si era estinta. Si presentava anche un problema economico.

In quegli anni Chang Kai-Shek, il capo di stato, divenuto cristiano, aveva messo al bando l’antica, e invalidante, usanza di bendare i piedi delle bimbe, che poi sarebbero rimasti piccoli e rovinati per sempre. Servivano ufficiali del governo che, a dorso di mulo o a piedi, percorressero il paese per sensibilizzare le popolazioni sulle nuove regole.

Il nome della locanda nel 2006: il vecchio cortile di Gesù

Il mandarino (capo politico) di Yangcheng si presentò in pompa magna nel cortile della locanda, e chiese (piuttosto ordinò) a Gladys di essere l’ispettrice dei piedi della sua area. Il motivo: era l’unica donna con «piedi grandi» e sarebbe servita da esempio. «Io rifiutai. Ero andata in Cina per Gesù Cristo e non volevo mischiarmi con questioni di governo, piedi e politica. […] Ma lui non se ne andava». La piccola donna iniziò a pregare nel suo intimo, non sapeva come uscire da quella situazione. Poi sentì come una voce, ebbe un’illuminazione: essere ufficiale del governo le avrebbe permesso di viaggiare in tutta la regione, incontrare e parlare con la gente nei villaggi più remoti, e ricevere pure un compenso economico. «Occorre dare tutti se stessi. Dio in quel momento non aveva bisogno delle mie mani, ma dei miei piedi! E li ebbe». Disse al mandarino che accettava, ma essendo lei una missionaria, avrebbe pure parlato alla gente della vita di Cristo. Il politico – che sarebbe poi diventato un suo caro amico, e si sarebbe convertito al cristianesimo – non vide in ciò nulla di cui preoccuparsi.

Gladys divenne nota e rispettata in Yangcheng e in tutta la zona. Iniziarono a darle il nome di Ài Wĕi Dé, ovvero «la virtuosa». Un giorno venne chiamata per sedare una rivolta nella prigione, e non senza paura, vi riuscì. Suggerì quindi migliorie, che furono adottate, per rendere la vita dei carcerati meno dura, e riuscì a predicare il vangelo anche tra di loro.

Gladys Aylward iniziava a inserirsi nella società delle montagne dello Shanxi, ma rimaneva comunque l’unica straniera. I più vicini erano i missionari di Zézhou con i quali fece amicizia. Sentiva che qualcosa nella sua vita non andava e, inoltre, come donna, molte cose non poteva farle.

«Pregai per avere un compagno […] La gioia di avere qualcuno con cui scalare le montagne, discutere, cantare e pregare. Ma non arrivò». Gladys avrebbe poi detto in un colloquio: «[Dio] lo chiamò, ma lui non arrivò mai». Il tempo passava e Gladys pensò che il Signore non l’avrebbe lasciata sola, e forse sarebbe arrivata una compagna di missione. Ma ancora nulla.

«Nove soldi»

Un giorno Ài Wĕi Dé assistette a una scena raccapricciante. Una megera maltrattava un bambino vestito di stracci. Era in vendita, in quell’epoca succedeva. «Lo vuoi comprare?», disse la megera. Gladys non se l’aspettava, e non aveva quasi denaro con sé. La commerciante di bambini insistette e alla fine la missionaria offrì quello che aveva, nove soldi. Era una bambina, e fu soprannominata Novesoldi: «Comprai la bambina. Fu il primo atto di quella che sarebbe stata la mia completa sottomissione al Signore. Non avevo compreso che stavo comprando la mia prima figlia, una bimba che stava entrando nella mia vita per significare molto. Dopo di lei arrivarono, uno dopo l’altro, gli altri, tutti in maniere differenti, in varie circostanze, ognuno così diverso in carattere e temperamento. Pregai Dio per loro. Egli ci nutrì, ci vestì. La situazione divenne caotica, ma eravamo molto felici. A un certo punto avevo 40 bambini. Chiesi a Dio di non mandarmene altri per favore. Ma il Signore non sempre risponde alle tue preghiere come ti aspetti».

Nel frattempo, Gladys Aylward decise di prendere la cittadinanza cinese, per sentirsi meglio in mezzo alla gente, diventò ufficialmente Ài Wĕi Dé. Anche se, nella pratica, poco cambiò.

La grande traversata

Erano gli anni in cui cominciava la seconda guerra sino-giapponese (1937-45), che faceva parte di una vasta strategia di occupazione dell’Asia da parte del Giappone. In Cina si opponevano all’invasione l’esercito regolare nazionalista, ma anche i guerriglieri comunisti. La guerra arrivava da Est e inizialmente la gente delle montagne a Yangcheng non pensava di esserne coinvolta. Invece iniziarono i bombardamenti della città che crearono morte e distruzione. Gladys si adoperò organizzando i primi soccorsi. Portò i suoi bambini in un villaggio di montagna e faceva la spola con la città per aiutare. Ma poi i militari giapponesi arrivarono e commisero atti efferati. Gladys fu anche picchiata, riportando lesioni interne che le avrebbero poi creato problemi di salute e fu ferita da una pallottola alla schiena. Intanto gli orfani che raccoglieva aumentavano, perché, a causa della guerra, molti bambini restavano soli e vagavano per le campagne.

Quando la situazione stava per precipitare, la piccola donna decise che era il momento di partire per portare i bimbi in salvo da morte certa. Ne aveva circa un centinaio, una ventina dagli 11 ai 15 anni, tra i quali Novesoldi, e un gran numero di piccoli dai quattro anni in su. Si congedò dal mandarino, che non avrebbe mai più rivisto e che l’aiutò con un po’ di cibo per i primi giorni. Poi, il chiassoso gruppo, con lei unica adulta, partì a piedi verso le montagne, direzione Ovest. Era all’incirca il marzo del 1940.

Fu una scelta molto coraggiosa, da un’analisi superficiale si potrebbe dire incosciente. In realtà fu, come sempre per Ài Wĕi Dé, dettata da una grande fede, che le dava forza e una determinazione travolgente.

Dopo quasi due settimane arrivarono sulle sponde del Fiume Giallo che segna il confine Ovest tra lo Shanxi e lo Shaanxi. Tutti i villaggi erano stati abbandonati e la popolazione sfollata aveva attraversato il fiume per fuggire ai giapponesi. Non c’erano più barche. Gladys e i bambini erano allo stremo, affamati e sporchi, ma non si trovava da magiare. Se non avessero attraversato il grande fiume, sarebbero morti.

Dopo tre giorni, comparve un ufficiale dell’esercito nazionalista che pattugliava il fiume. Vedendoli in quello stato, e stupito di quella strana compagine, si adoperò per fare venire delle barche dall’altra riva e i 100 bambini con Gladys poterono proseguire.

Ci vollero ancora giorni, a piedi e poi su un treno merci, ma Ài Wĕi Dé riuscì a portare tutti i suoi bambini al sicuro, nei pressi della città di Xian (Shaanxi), dove erano stati allestiti dei campi profughi per la gente che fuggiva da Est. Avevano percorso oltre 400 km attraversando le montagne.

Gladys Aylward era però in pessime condizioni di salute. Perse conoscenza, fu curata e accudita alla missione di Xingping e all’ospedale della missione battista di Xian. Senza le cure sarebbe morta. Ci vollero mesi, ma si riprese.

In seguito lavorò nelle città Lanzhou (Gansu) e Chengdu (nello Sichuan, più a Sud ).

Cina addio

Gladys Aylward tornò in Inghilterra nel 1949 grazie all’interessamento di un’associazione statunitense, che le pagò il biglietto. Lasciò la Cina a malincuore, dopo tanti ripensamenti. Perché tutto ciò che amava era lì. Aveva bisogno di cure, inoltre con la vittoria dei comunisti iniziarono le persecuzioni delle religioni. Lei non voleva causare problemi a chi stava aiutando.

«Ci incontrammo, io e la famiglia (i ragazzi e bambini, ndr), per l’ultima volta in un campo fuori dalla città di Chengdu. Avevo deciso che era tempo di partire. Mettevo in pericolo chi stava con me perché, sebbene avessi un passaporto cinese, e fossi cinese nei miei pensieri, nel mio amore, nella mia lingua, nei vestiti e in tutto tranne che nel viso, avevo ancora la faccia di una straniera».

In Inghilterra si adoperò per i migranti cinesi, e per promuovere la missione. Voleva tornare in Cina, ma le autorità le rifiutarono l’autorizzazione.

Ài Wĕi Dé andò ad Hong Kong nel 1958, ancora sotto controllo britannico. La città era invasa di profughi arrivati dalla Cina popolare. Qui si prese cura di loro e contribuì a fondare la Hope Mission che li accoglieva.

Si trasferì quindi a Taiwan, dove, sull’isola di Formosa, i nazionalisti cinesi, guidati da Chang Kai-Shek, avevano fondato la Repubblica cinese.

Affittò un hotel chiuso a Beitou, appena fuori Taipei, la capitale, e vi fondò un orfanotrofio, il Gladys Aylward orphanage. Nei primi anni ‘60 arrivò dall’Inghilterra una giovane ad aiutarla, Kathleen Longton: finalmente Gladys ebbe la sua compagna di missione.

Nel 1959 acquistò un terreno a Muzha grazie all’aiuto della Ong statunitense World Vision e vi costruì un orfanotrofio che nel 1963 chiamò Bethany nursey school.

Un’opera che continua

Il 3 gennaio 1970 Gladys Ài Wĕi Dé morì per le complicazioni di una semplice influenza, poche settimane prima di compiere 68 anni. Il suo fisico ormai cronicamente debilitato non andò oltre. Ma la sua opera continua, e si espande. Un gruppo di suoi collaboratori presero in mano la struttura nel 1971.

Una missionaria inglese Linda McFerren vi ha poi lavorato 26 anni con i colleghi cinesi (1992-2018). Nel 2010 la struttura ha cambiato statuto per adattarsi alla mutazione della società, e il nome è diventato Bethany children’s home. Un moderno centro per accoglienza di bambini e adolescenti (0-18 anni) in difficoltà. Il centro sperimenta un metodo innovativo di assistenza famigliare degli orfani. Oltre a continuare con i progetti di reinserimento, realizza servizi di sostegno per bambini svantaggiati e appoggio diretto alle famiglie problematiche.

Marco Bello
(fine prima puntata)

 




Di chi è la colpa?

testo di Antonio Benci |


Il Terzo mondo è una categoria nata negli anni ‘50 che indicava indipendenza e autodeterminazione. Diventata in seguito sinonimo di sottosviluppo e povertà, mentre nasceva nei paesi ricchi un movimento che avrebbe avuto una sua evoluzione.

Terzo mondo è quello che oggi si chiamerebbe un «brand fortunato», coniato nel 1952 da uno studioso francese, Alfred Sauvy, che contrappose al Primo mondo capitalista e al Secondo comunista un ampio gruppo di paesi che stavano uscendo dal giogo coloniale e che potevano auto rappresentarsi come qualcosa che vagamente assomigliasse al Terzo stato del 1789.

Si può solo immaginare il carico di attese che poteva suscitare l’accostamento tra questa eterogenea sommatoria di nazioni con coloro chi avevano dato il via alla Rivoluzione francese, che in mezzo a contraddizioni e anche orrori, aveva contribuito a spingere le istituzioni nell’età moderna. Grazie ai movimenti di liberazione e soprattutto all’immagine di questi presso l’opinione pubblica e l’intellighenzia europea, il Terzo mondo divenne un catalizzatore di speranze e inquietudini. Si evocava l’autodeterminazione dei popoli, si osservava lo sforzo di indipendenza di molti paesi africani e asiatici, e l’uscita dal cono d’ombra della povertà endemica di popoli colonizzati dai «civili» uomini bianchi.

Per una breve finestra temporale – grosso modo i primi anni ‘60 – il miracolo parve compiersi con una sequela di stati che si emanciparono dal giogo europeo. Un ruolo importante l’ebbero intellettuali e leader carismatici di quei paesi che si imposero al mondo con le loro ricette e suggestioni. Parliamo di Franz Fanon, Julius Nyerere, Aimé Césaire, Léopold Sédar Senghor, Camara.

Colombia, una paese dalle grandi disuguaglianze dove, si potrebbe dire, coesistono Primo e Terzo mondo. Foto Marco Bello

Sottosviluppo

Il meccanismo, tuttavia, si inceppò ben presto e spinse l’immaginario a identificare sempre più il Terzo mondo con sottosviluppo, arretratezza, fame. E subito iniziò a imporsi una domanda: a creare questo effetto era la soffocante logica dei blocchi (Usa e Urss) e il neocolonialismo, oppure l’assenza di élites autoctone di quei paesi e una classe dirigente nella migliore delle ipotesi corrotta? In altri termini il sottosviluppo era endogeno o esogeno?

Agli oltranzisti modernizzatori americani che demonizzavano le società tradizionali, arretrate per definizione, si contrapposero le teorie neomarxiste che individuavano nei diseguali rapporti di forza tra i paesi le cause del sottosviluppo, creando un rapporto di causa-effetto tra la povertà dei paesi del Sud e la ricchezza di quelli del Nord.

Era quest’ultima l’impostazione della «scuola della dipendenza» che nacque e si sviluppò per merito di studiosi latinoamericani raggruppati intorno alla figura dell’intellettuale argentino Raúl Prebisch. Da qui trasse origine quella lettura dell’economia mondiale incentrata sulla dicotomia centro-periferia che avrebbe fatto nascere il movimento terzomondista. Il Terzomondismo alla lettera (ci soccorre la Treccani in questo) significa: «Atteggiamento favorevole ai paesi del Terzo mondo, che può manifestarsi sotto forma di solidarietà politica, di sostegno economico, di forte interesse culturale ecc. Negli anni Sessanta e Settanta del 20° secolo, con il termine Terzomondismo si è indicato un orientamento politico che si è sviluppato soprattutto nell’ambito della nuova sinistra, di sostegno alle lotte di liberazione dal dominio coloniale o neocoloniale, ai movimenti rivoluzionari operanti nei paesi del Terzo mondo e ad alcuni stati come Cuba e la Cina».

Tre aspetti

A leggere questa definizione si direbbe che il termine terzomondismo sia relegato in uno scaffale polveroso della storia collettiva. Lotte anticoloniali? Movimenti rivoluzionari? Cosa c’entrano con lo spazio mentale odierno? Eppure ci sono almeno tre aspetti che portano il terzomondismo nella nostra vita contemporanea e sono tre sentiment molto rilevanti per l’uomo: le cause del sottosviluppo, la terapia e il senso di colpa.

Mozambico, in ambito rurale, l’accesso all’acqua pulita è ancora un diritto negato. Foto Marco Bello

Le cause

La lunga rincorsa della scuola della dipendenza portò fin da subito a sinistra. Per dirla con Adriano Sofri, all’idea di «contrapporre la solidarietà alla carità, dunque la dignità degli sfruttati al bisogno dei poveri» (A. Sofri, Chi è il mio prossimo, Sellerio, Palermo, 2007). Abbiamo visto come i problemi del sottosviluppo vennero letti nell’accezione terzomondista in chiave marxista come generati dallo sfruttamento capitalista a cui rimediare non con «l’aiuto», ma con la ricerca di una autentica rivoluzione di respiro internazionale.

Su queste considerazioni, negli anni si innestarono ulteriori e ancora più complesse impostazioni e interpretazioni, strettamente legate alla modernità. Con la vittoria del «blocco capitalista» vennero a crearsi le condizioni per rimettere all’ordine del giorno il Terzo mondo, soprattutto da parte di quei movimenti che videro nella vittoria capitalista un rafforzamento delle politiche liberiste e un impoverimento di quelle di welfare, in un’accezione nazionale come internazionale.

Essere terzomondisti significò pertanto combattere e contestare una sorta di pensiero unico filo occidentale, rimanendo nella trincea di una visione minoritaria che vedeva nell’egoismo dei paesi ricchi la causa principale se non unica del malessere di quelli poveri. Le battaglie contro il debito dei paesi in via di sviluppo, contro il conformismo culturale, contro la globalizzazione, in definitiva erano un guardare al Terzo mondo «pensando a noi stessi». Il terzomondismo negli anni ‘90 fu un vettore di un malessere diffuso che portava con sé un rifiuto radicale della stessa globalizzazione. Era il rifiuto di quell’etnocentrismo che, nelle parole di Samir Amin, costituiva «una dimensione fondamentale dell’ideologia del mondo moderno» (S. Amin, Le conseguenze dell’eurocentrismo in Terzo Mondo. Specchio e memoria dell’Occidente, a cura di F. Slegato ed E. Zarelli, Macro Edizioni, Forlì, 1993). E in effetti l’occidente non esitava a supportare e aiutare regimi antidemocratici al servizio di questa impostazione culturale centrata sul «noi», basti pensare al triste e repentino declino delle cosiddette «primavere arabe».

Borneo malese. Danza di un’etnia dell’isola. L’etnocentrismo occidentale sminuisce le altre culture. Foto Marco Bello

Le terapie

Se dalla diagnosi si passa alle terapie, si torna una volta di più a Sofri e alla dicotomia carità/solidarietà. Il Terzo mondo rimane povero perché l’aiuto è insufficiente oppure perché le società del Sud sono inefficienti? Di nuovo la domanda centrale è «di chi la colpa?». In questi decenni una risposta parziale; eppure, convincente è la carenza di giustizia e diritti. Questa carenza, infatti, allarga la distanza economica, sociale e culturale tra mondi diversi. Come mi disse Graziano Zoni, attivista di Emmaus e Mani Tese fino dagli anni ’60: «Il dare ha tollerato un sacco di ingiustizie e ne tollera ancora. Il dare degli aiuti non si pone il problema della giustizia» (A. Benci, Il prossimo lontano, Unicopli, Milano, 2016).

E quindi le stesse terapie pensate nell’alveo della cooperazione con programmi di sviluppo, accordi bilaterali, l’ingresso delle agenzie delle Nazioni Unite, il ruolo delle Ong, hanno mostrato e mostrano la corda. E questo perché un sentimento terzomondista ancora presente e diffuso all’interno delle opinioni pubbliche suscita diffidenza nei confronti dei programmi finanziati dai paesi ricchi per far «sviluppare» quelli poveri. Non è forse un’altra forma, sia pure sottile e raffinata, di etnocentrismo? La contraddizione rimane: senza giustizia e quindi diritti, non vi può essere uno spirito di cooperazione vera tra le genti, e i fenomeni migratori degli ultimi anni sembrerebbero ribadire questo concetto, come annotano gli studiosi che parlano di sviluppo diseguale come padre non solo di questo spostamento di massa epocale, ma anche dell’inserimento di un’intera generazione di africani e asiatici «nell’economia mondiale come fornitori di manodopera migrante e nello stesso tempo come base per industrie occidentali itineranti» (C. Meillasoux, Per chi nascono gli africani in Gli immigrati in Europa. Diseguaglianze, razzismo, lotte, a cura di P. Basso e F. Perocco, Franco Angeli, Milano, 2003).

Burkina Faso – foto Marco Bello

La colpa

E veniamo ora all’ultimo aspetto: il senso di colpa.

Le responsabilità occidentali sulle condizioni attuali di buona parte del mondo sono solo storiche oppure ancora attuali, come il terzomondismo sostiene? Pascal Bruckner sostenne negli anni ‘80 che l’Occidente, pur avendo colpe storiche inoppugnabili, non doveva sentirsi «in colpa» per il ritardo di sviluppo del Terzo mondo, in gran parte espressione dell’incapacità delle «proprie» classi dirigenti. Per lui non era vero quindi che il mancato sviluppo del Sud, con annesse tensioni, guerre, instabilità, insicurezza, carenza di diritti e servizi fosse direttamente connesso ai voleri inconfessabili dei paesi del Nord, del loro tessuto industriale, della loro rete di interessi (P. Bruckner, Il singhiozzo dell’uomo bianco, Longanesi, Milano, 1984).

Il dibattito suscitato da Bruckner continua da quattro decenni ed è tutt’ora apertissimo con una visione terzomondista che vede tra i suoi epigoni spezzoni del mondo missionario, gruppi scomposti del movimento altermondialista, buona parte delle Ong che lavorano «a Sud», e ottengono per questo, senza porsi troppi problemi o domande, finanziamenti da parte di governi, agenzie ed enti del Nord; altro argomento su cui tornare.

Pensiamo, per rimanere all’oggi, ai numerosi commenti a caldo – in cui si distinse padre Giulio Albanese – seguenti l’assassinio dell’ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio, che inscrivono l’accaduto nell’instabilità dell’area determinata dalla presenza di bande armate manovrate da multinazionali e affaristi interessati alle materie prime del paese. Un’interpretazione bollata come terzomondista e quindi per definizione datata, polverosa, ideologica da parte dei salotti buoni dell’atlantismo e della diplomazia italiana e non. In questo senso per una fetta importante di opinione pubblica fa gioco mantenere in vita il termine terzomondista come sinonimo di antiquato.

Borneo – foto Marco Bello

Dove sta la verità?

In questo articolo si è tentata una difficile «sistemazione» del termine terzomondismo che è naturalmente un «mondo» troppo vasto per essere spiegato in poche righe. Tuttavia, alcuni punti appaiono chiari.

C’è ancora oggi, a decenni di distanza, una parte dell’immaginario occidentale che vede il terzomondismo come un incrocio tra senso di colpa e ansia di riforma del proprio stile di vita e convivenza. Il variegato fronte altermondialista in questo senso appare come debitore dell’esperienza del terzomondismo.

Finché continuerà a esistere lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il vilipendio della dignità degli ultimi e quella straripante diseguaglianza che, in questi sessant’anni, non solo non si è attenuata, ma anzi si è ampliata a dismisura, continueranno a esserci scuole di pensiero e interpretazioni che vedono questi mali come connessi all’arroganza del forte nei confronti del debole, eterno disvalore che ha avuto – e ha tuttora – lo stesso terzomondismo tra le sue interpretazioni.

Tuttavia, se sono indubbi i guasti determinati dall’accaparramento di risorse, materie prime, cervelli da parte di nazioni, aziende e comunità ricche a scapito di quelle povere, è altrettanto vero che il terzomondismo ha anche stimolato e rafforzato quella sorta di auto assoluzione per chi vive nel Terzo mondo che vede come il male venire sempre «da fuori».

È ancora lungo e tortuoso il viaggio del terzomondismo all’interno delle nostre società e delle loro, dei nostri stati d’animo e dei loro, delle nostre percezioni di loro e delle loro su di noi.

Antonio Benci




Il ghetto dei miracoli

testo e foto di Amarilli Varesio |


In un quartiere malfamato della capitale un giovane musicista ha un’idea geniale. Crea uno spazio per lottare contro il degrado dando lavoro ai giovani. Qui la plastica trova una seconda vita, e gli ortaggi fioriscono in bottiglie e scarpe vecchie.

Un bambino a torso nudo fa rotolare abilmente il cerchio della ruota di una bicicletta su un sentiero di spazzatura senza farlo cadere. Corre su un pianoro di rifiuti compatti, schivando taniche rotte, cumuli di stracci, galline e mucche che pascolano alla ricerca di scarti alimentari. Otto anni fa, questo luogo era per metà una palude e per l’altra un parco giochi per i bambini di Kwamokya (uno degli slum più grandi di Kampala, la capitale dell’Uganda). Il ghetto, come lo chiamano gli stessi abitanti del quartiere, si trova incastonato tra le colline della città, all’ombra di lussuosi grattacieli e supermarket, come l’Acacia Mall.

«Ogni volta che alziamo lo sguardo, ci ricordiamo da dove veniamo», commenta Patrick Mujuzi, il fondatore di Ghetto research lab (Grl). L’uomo indossa degli stivali di plastica bianchi sporchi di fango, e un cappello di lana rossa che non riesce a trattenere tutti i suoi dreadlocks. È musicista, produttore musicale e professore di storia e religione. Mi racconta come Kwamokya sia diventato famoso nel paese negli ultimi anni poiché vi è cresciuto Robert Kyagulanyi (conosciuto come Bobi Wine), 39 anni, musicista reggae e principale oppositore dell’attuale presidente Yoweri Museveni (al potere da 36 anni, oggi al sesto mandato) alle elezioni presidenziali del gennaio 2021. Prima delle votazioni, i caccia volavano bassi, vicini alle case, per spaventare i moltissimi sostenitori del «presidente del ghetto», e la polizia reprimeva violentemente qualsiasi manifestazione di protesta. A Kwamokya, attaccare volantini di Museveni sulle case, anche se si era oppositori, era diventata una strategia per proteggersi quando la polizia faceva irruzione.

Il cancello del Ghetto research lab a Kwamokya, Kampala. (Foto Amarilli Varesio)

Arriva la polizia

Nel gennaio 2021, la polizia è andata anche al Ghetto research lab per cercare i sostenitori di Bobi Wine. Patrick ricorda bene quella sera. Fuori dal cancello i poliziotti avevano trovato un ragazzo che fumava marijuana e quello era diventato il pretesto principale della loro visita. «Ci hanno fatti uscire tutti dalla sede e hanno chiesto chi fosse il capo. Mi hanno indicato. Noi eravamo una quindicina e loro il doppio, tutti armati di bastoni e pistole. Mi hanno strappato due dreadlocks e poi mi hanno picchiato, calciandomi tra le gambe e sulla testa. Poi mi hanno trascinato di peso fino alla sede della polizia. Sono rimasto tre giorni all’ospedale. Fortunatamente ho delle conoscenze politiche. Alcuni parlamentari hanno chiamato i poliziotti che avevano organizzato l’attacco e hanno ordinato loro di liberarmi immediatamente. Mi hanno rilasciato, ma per quei fatti nessuno è stato condannato».

L’impunità della polizia è una storia ben conosciuta agli abitanti del ghetto. Quasi ogni sera, i poliziotti si muovono in gruppo per il quartiere con il warrag (l’alcol) in una mano e la pistola nell’altra. Picchiano chiunque attraversi il loro cammino, a meno che non ricevano dei soldi. A quel punto ti ringraziano.

«Per fare una perquisizione dovrebbero avere un mandato. Io conosco la legge. Mica sono tutti stupidi nel ghetto, dicevo loro. Ma più parlavo, più mi picchiavano».

Dopo quell’episodio, una volta uscito dalla clinica, Patrick per sicurezza, non si è fatto vedere nel quartiere per qualche giorno.

Ora, il bambino a torso nudo corre con la ruota sotto il braccio per scampare al temporale torrenziale che si è aperto sopra di noi senza preavviso.

Ci dirigiamo verso la sede in bambù di Ghetto research lab, che sorge su un angolo della discarica. In questa zona, il governo non permette di costruire strutture permanenti per via della vicinanza alla linea dell’elettricità che arriva da Jinja, la città che sorge presso le sorgenti del fiume Nilo. Nonostante la terra appartenga al governo, Grl paga un affitto di 9 milioni di scellini ugandesi (2.108 euro) all’anno a un uomo che si ritiene il padrone della zona.

Il capannone in bambù è circondato da piante di papaya, banana, seneci nel pieno della fioritura che traboccano da scarpe bucate appese alle pareti e vecchi pneumatici, di misure diverse, impilati e pieni di terra. In questi ultimi crescono pomodori, fragole, spinaci.

All’interno della sede, l’ambiente è fresco e ventilato. Anatre e galline scorrazzano libere tra le macchine da cucito, che vengono utilizzate per insegnare il mestiere ai giovani del quartiere, e tra le gambe della gente. C’è chi, spaparanzato sulla poltrona, guarda un film sul televisore comune, chi lava i vestiti a mano. Per una decina di persone, Grl è diventata la propria casa.

Patrick si mette a preparare la colazione a base di cipolla, pomodori, avocado e zenzero per tutti. Nel 2008, una volta finita l’università, aveva deciso di raggiungere il fratello a Kwamokya per dargli una mano con lo studio di registrazione e ne era diventato il manager. «Attraverso quel lavoro, sono entrato in contatto con moltissime persone del quartiere e ho capito, tramite loro, cosa vuol dire vivere nel ghetto. Non riuscivo a fare pranzo perché sapevo che loro non avevano mangiato. Tanti ragazzi rubavano i cellulari, mentre le ragazze si prostituivano perché avevano fame. Erano guidati dalla disperazione. I miei amici mi davano pochissimi soldi per registrare le canzoni, molti erano senza lavoro. Piano piano ho capito che dovevo creare un posto dove poter connettere le idee e realizzare dei progetti per dare lavoro ai giovani. Così, mi sono messo a pensare, e nei rifiuti del ghetto ho visto la soluzione per dare il pranzo ai miei amici».

Imparare sbagliando

È il 2013 quando Patrick crea un gruppo con i ragazzi che frequentano lo studio di registrazione. Sono in 24. L’obiettivo è quello di promuovere la propria musica e, allo stesso tempo, trovare delle soluzioni per risolvere i problemi dello slum, come la disoccupazione giovanile e la degradazione ambientale, attraverso l’idea che «si impara facendo e sbagliando».

Per sfamare i suoi amici, Patrick decide inizialmente di occuparsi di agricoltura urbana. Lui sperimenta e, se le tecniche funzionano, le trasmette ai ragazzi. «Raccoglievamo buste di plastica e vecchi sacchi. Li riempivamo di terra e vi coltivavamo piante o fiori. Per esempio, riempivamo di terra un sacco di 50 kg e lo bucavamo su tutta la lungehzza per infilarvi semi di cipolle e pomodori. Facevano inoltre in modo che l’acqua bagnasse anche le piante che crescevano in fondo». Patrick e il gruppo realizzano concime naturale con gli scarti vegetali, saponi naturali e sistemi di acqua ponica (un sistema di coltivazione in assenza di terreno, unito all’allevamento dei pesci). Ben presto, alcuni giornali locali si interessano a quelle attività alternative che vengono portate avanti nel ghetto.

Grazie alla visibilità ricevuta, il gruppo partecipa a delle esibizioni artistiche ed esegue la pianificazione dei giardini urbani per alcuni privati. Ma l’indipendenza economica è ancora lontana perché le entrate non sono stabili.

Nel frattempo, Patrick organizza anche giornate di pulizia del ghetto. «All’inizio raccoglievamo la plastica e la bruciavamo perché, all’epoca, non avevamo altre idee. Ci mettevamo a bordo strada con le casse e i microfoni e raccontavamo alle persone che passavano quello che stavamo facendo. Ma poi ho capito che bruciare la plastica impattava lo strato d’ozono. Dovevamo trovarne un uso alternativo intelligente».

Il Grl ha costruito la propria sede su parte della discarica di Kwamokya. (Foto Amarilli Varesio)

Bagni di plastica

Mentre si salta da una sponda a un’altra dei canali che scandiscono i vicoli angusti tra le case, non bisogna lasciarsi ingannare dalla solidità apparente del terreno. Nascosti sotto sottili strati di terra mista a plastiche varie, rimangono acquattate le cosiddette «flying toilets», i sacchetti di plastica in cui la gente chiude i propri bisogni, lasciati per strada, al riparo da occhi indiscreti. Patrick sa che l’igiene è una delle sfide più grandi di Kwamokya.

Dopo due anni, finalmente, il gruppo trova una soluzione economica e soddisfacente per ridurre l’inquinamento da plastica nel ghetto: i bottle bricks, mattonelle derivate dalla fusione delle bottiglie. «Mi ci è voluto del tempo per arrivarci. Dopo aver trovato l’idea giusta, ho scoperto che in Asia c’erano tante case costruite con i mattoni di plastica, ma dentro c’era la terra, non altra plastica». Intanto, nel 2016, Patrick e i suoi amici si registrano ufficialmente come Ghetto research lab, un’organizzazione non profit che ha l’obiettivo di formare i giovani su pratiche sostenibili, e aiutarli a diventare economicamente indipendenti. Poi, nel 2018, la Lupererial foundation, una fondazione gestita da un ricco indiano, proprietario di moltissimi lodges turistici in Uganda, dona 15 milioni di scellini ugandesi a Grl, raccolti tramite una «goat race» (gara di capre, tipica di certi gruppi etnici, ndr), per costruire due bagni pubblici. Vengono coinvolte decine di madri single che abitano nelle baracche attorno alla discarica. Le donne raccolgono e riempiono 35mila bottigliette con sacchetti di plastica. «Il governo voleva chiudere una scuola di Kwamokya perché non aveva le latrine per gli studenti. Grazie a questo progetto, quei bambini possono continuare a studiare».

Attualmente, però, la fusione delle bottiglie di plastica per la creazione delle mattonelle è in sospeso, per via dei fumi neri e tossici che vengono emanati nel processo. Il gruppo sta cercando di costruire delle macchine che non producano emissioni. A ogni modo, da ogni fallimento nascono nuove idee. Infatti Grl impara a realizzare le compost toilet da un’organizzazione americana, Give Love. «Avevano costruito delle compost toilet nella regione del Karamoja, nel Nord Est dell’Uganda, ma il progetto era fallito, perché la gente non le usava. Un amico che lavorava con loro me li ha fatti conoscere, convinto che, grazie a me, in Kwamokya quel progetto sarebbe decollato». Grl costruisce, quindi, delle compost toilet per un gruppo di 40 disabili di Kwamokya. «Per loro, andare in bagno era un grosso problema. Le latrine erano lontane ed era complicato raggiungerle. Ciascuno, adesso, ha un bagno in casa. Noi andiamo da loro una volta a settimana per raccogliere il loro «oro», e gli diamo il cesto pulito indietro. Dopo un anno, possiamo vendere il concime a cinquemila scellini al chilo».

Un’università dove sporcarsi le mani

La conversazione con Patrick viene interrotta per l’ennesima volta da un nuovo visitatore. Manu, un rifugiato congolese, saluta Patrick, che ricambia il saluto col pugno chiuso. Poi si allontana col prototipo di sacco solare che purifica l’acqua in quattro ore, ricavato da bottiglie di plastica. Al Grl, le idee e le sinergie sono molte e la voglia di offrire maggiori opportunità di lavoro ai giovani è il sogno più grande di Patrick. «Vorrei che il Grl diventasse un’università, ma non come quelle che conosciamo tutti. Vorrei che fosse un posto per tutti, anche per chi non ha soldi, nel quale sono necessarie solo la curiosità e la voglia di sporcarsi le mani. Un professore universitario, che poco tempo fa è morto di Covid, mi ha donato dieci ettari di terreno da utilizzare per dieci anni. Questo è il secondo anno che non lo uso. Il mio sogno è di implementare su scala maggiore quello che facciamo qui, creare un centro di ricerca più grande dove insegnare la pratica agli studenti che imparano solo la teoria, le “Muzungu things” (cose da bianchi, nda)».

La mamma di Patrick viene ad avvertirci che il pranzo è pronto. Si è sistemata con le pentole e i tavoli dentro il Grl perché l’affitto di un locale (tipo ristorante di strada) è troppo caro per lei. Nella pentola fumante sta cucinando il matoke, il frutto del platano, avvolto nelle sue foglie. Di fianco a lei, svetta una pianta di marijuana rigogliosa e il contrasto è immediato. Quasi leggendomi nella mente, Patrick risponde al mio sguardo divertito. «Sono un lavoratore sociale, ho a che fare con i giovani del ghetto. Questa è la ragione per cui fumo e per cui ho i dreadlocks. Solo diventando come loro, i giovani si avvicinano e ti ascoltano. Solo così si è in grado di cambiarli. Io spiego loro che si può lavorare anche fumando».

D’un tratto, vediamo i ragazzi accalcarsi attorno al televisore e commentare le scene con tono indignato. Il telegiornale mostra le immagini appena riprese dell’attentato contro il ministro del Lavoro e dei trasporti. Katumba è sopravvissuto all’attacco, ma gli assassini hanno ucciso la figlia e l’autista. Patrick scuote la testa amareggiato. «Sento che devo entrare in politica, questo sentimento cresce ogni giorno dentro di me. Tra qualche anno chiamerò i media per dire che sto arrivando. Bobi Wine mi ha ispirato, ma non è quella la mia motivazione principale. Io so che qui in Uganda entrare in politica equivale a morire. Non voglio abbandonare i miei figli (si riferisce ai giovani del centro, ndr). Ma mi stanno provocando. E sento che le persone voterebbero per me, anche se non sono un uomo ricco, ma la gente mi conosce. Se Bobi Wine non vince nei prossimi anni, allora quando questo presidente morirà, ci proverò».

Amarilli Varesio

Il negozio dove vengono esposti i saponi naturali e i vestiti creati dalle allieve del corso di cucito del Grl. (Foto Amarilli Varesio)




Giovani, costruite il vostro destino

testo di Marco Bello |


È stato innanzitutto un amico d’infanzia di Sankara. Ci racconta il paese reale, la sfida del terrorismo e i conti ancora aperti con un passato su cui fare giustizia. E ci ricorda l’attualità e l’universalità del messaggio del presidente visionario.

Fidél Toé, classe 1949, è stato ministro del Lavoro, Sicurezza sociale e Funzione pubblica di Thomas Sankara (1983-87). Era amico d’infanzia del presidente visionario del Burkina Faso. Avevano, in fatti, frequentato insieme il liceo Ouezzin Coulibaly di Bobo Diulasso.

«Ho conosciuto Sankara nel 1962», ci racconta. «Abbiamo avuto relazioni sane, abbiamo discusso, a volte non eravamo d’accordo».

L’ex minstro è oggi in pensione, dopo una vita nella funzione pubblica, un mandato da deputato (2002-2007), e anni di impegno nella lotta all’Hiv nel suo paese, come coordinatore della Cellula ministeriale di lotta al Hiv/Aids del ministero del Lavoro e della sicurezza sociale.

Toé ha conosciuto l’esilio, dopo l’assassinio di Sankara, avvenuto il 15 ottobre 1987. Ha passato sette anni tra il Ghana e il Congo Brazzaville (1987-94).

È un signore cordiale e accogliente, e quando parla è subito chiaro che porta dentro di sé una grande fetta di storia del Burkina Faso. «Scriverò una memoria – ci confida -, ho tante cose da raccontare».

Lo abbiamo raggiunto telefonicamente, nella sua casa di Ouagadougou. Gli facciamo alcune domande sulla difficile situazione che attraversa oggi il paese saheliano.

Terrorismo islamista

Onorevole, come legge gli ultimi, sanguinosi, attacchi dei terroristi in Burkina Faso?

«Gli attacchi sono iniziati nel 2015, nel Nord del paese. Hanno sorpreso molti, mentre altri se li aspettavano. Con l’insediamento del primo governo del presidente Roch Marc Christian
Kaboré sono arrivati attacchi precisi agli hotel per stranieri, e poi allo stato maggiore dell’esercito. Il presidente ha rivelato che alcune persone sospette avevano reclamato, informalmente, al governo, alcuni veicoli promessi dal precedente presidente, Blaise Compaoré. Secondo me c’è la complicità del vecchio regime. Sono state intercettate telefonate nelle quali si diceva che occorreva destabilizzare il paese.

Oggi, pur non conoscendo la faccia di chi attacca, sappiamo che ci sono tra loro dei giovani burkinabè, reclutati dagli jihadisti. Devo ammettere che in qualche modo anche noi siamo complici, per il fatto di non denunciare i nostri figli. Se un ragazzo che non possiede nulla e non lavora, torna al villaggio pieno di soldi, certo non li ha vinti alla lotteria. Li ha ottenuti tramite le armi, la droga o la frode.

Sono questi elementi endogeni che permettono al terrorismo di attaccare, installarsi e sfruttare. Come nell’ultimo attacco a Solhan (vedi box), un villaggio nei pressi del quale si estrae oro in maniera tradizionale. Le autorità dovrebbero capire che se abbiamo l’oro non dobbiamo metterlo a disposizione di chiunque. La ricerca artigianale di questo metallo è oggi fonte di insicurezza, perché nei pressi dei siti si installano persone giunte da ogni dove, anche dall’estero, e non si ha più il controllo di chi è presente sul territorio. Inoltre, le nostre frontiere sono molto permeabili. In fondo penso ci sia una mancanza dei servizi d’informazione oltre che una debolezza organizzativa.

Durante la rivoluzione (sankarista, 1983-87, ndr), chiunque arrivasse in un villaggio doveva presentarsi alle autorità e al Cdr locale (Comitato di difesa della rivoluzione), per essere registrato. Inoltre, un altro problema è che non abbiamo insegnato alla popolazione a difendersi, così la gente scappa di fronte al nemico».

Ma non dovrebbero essere l’esercito e la polizia a garantire la sicurezza dei cittadini?

«È vero, ma in queste situazioni. quando il problema è troppo grande per l’esercito, penso che la popolazione debba sapersi difendere. Si tratta di autodifesa per supplire alle mancanze delle forze di sicurezza. In diversi casi di attacchi, l’esercito era a decine di chilometri, ed è potuto intervenire solo in un secondo tempo. Le nostre frontiere sono difficili da controllare con l’esercito che abbiamo. Ci sono pure soldati che si rifiutano di andare in zone remote. Forse c’è un problema a livello delle gerarchie militari.

Poi c’è la questione dei siti auriferi. Se c’è una popolazione che si organizza per sfruttare l’oro, deve anche essere disponibile a impiegare dei soldi per la sicurezza, per proteggere il minerale estratto. In altri paesi succede così».

Più in generale, come valuta la lotta al terrorismo da parte di questo governo?

«Devo dire che non ci sono stati risultati, quindi c’è un fallimento da questo punto di vista. I servizi non funzionano, non si sa quando arriva il nemico. Dicono che si è fatto un negoziato, ma in verità non è cambiato nulla. Non si è ancora trovata la soluzione».

Inoltre il terrorismo a livello internazionale sembra una scusa per una presenza straniera nel paese.

«Il ricorso a forze straniere dimostra l’impotenza della nostra nazione di affrontare il nemico. Penso che non si sia spiegata in modo adeguato l’importanza di questa lotta ai nostri giovani, perché vediamo dei burkinabè che criticano l’intervento straniero, ma essi stessi non fanno nulla. Non c’è in noi la coscienza che dobbiamo batterci e che, chi può, deve andare al fronte. Ci sono tanti, anche della società civile, che sono contro l’intervento militare, che trovano troppo violento, ma loro non si sporcano mai le mani. Non c’è una guerra con le mani pulite. Ci saranno altre situazioni difficili, queste persone sono molto violente. Negli eventi di Solhan si vede la barbarie. E questo ti fa diventare barbaro, e ti fa chiedere una giustizia punitiva immediata».

Notizie di attacchi jihadisti nel Nord del paese (Photo by OLYMPIA DE MAISMONT / AFP)

L’insurrezione

Parlando dell’insurrezione del 2014 e poi di quella del 2015 contro il colpo di stato, cosa è rimasto del movimento popolare?

«Nel 2014 c’è stata un’insurrezione salutare, che ha visto la fuga di un uomo che non voleva più lasciare il potere, mentre la nostra Costituzione prevede che il capo di stato può stare 5 anni, rinnovabile una volta. Ma Blaise Compaoré voleva un rinnovo perpetuo.

Le forze che hanno fatto l’insurrezione erano dei vecchi amici del partito di Compaoré che si erano dimessi (alcuni mesi prima, ndr) unendosi all’opposizione storica. Movimento che si era rafforzato con i giovani di Ouagadougou e di tutto il paese che si sono sollevati affinché ci fosse un rinnovamento.

Però, quando si fa un’insurrezione, e non c’è uno stato maggiore che dica, nel caso di successo, che cosa si farà, ecco che altri, più organizzati, possono appropriarsene. È quello che è accaduto qui con i militari, che hanno “recuperato” i risultati della rivolta. L’esercito è organizzato, ha potuto subito dire chi aveva preso il potere, mettere in piedi un sistema di sicurezza (per evitare derive, ndr). Hanno presentato un volto unico, mentre i partiti politici, che avevano mandato via Compaoré, non sono riusciti a presentare una struttura e una visione unica del dopo insurrezione. I militari stessi hanno messo in salvo il presidente deposto, facendolo fuoriuscire dal paese in segretezza.

Allo stesso tempo hanno utilizzato il linguaggio degli insorti e hanno preso le redini. Le contraddizioni sono poi venute fuori con il colpo di stato del generale Dinederé (sventato da una successiva insurrezione, ndr).

Oggi assisto a un fenomeno che mi fa sorridere, ovvero gli ex del sistema Cdp (Congresso per la democrazia e il progresso, il partito di Compaoré che ha regnato 27 anni, ndr) che minacciano di preparare un’insurrezione contro questo governo, che è stato acquisito a sua volta dopo un sollevamento popolare.

Aspettiamo di vedere cosa faranno. Dicono che il regime attuale è fallito. Il governo ha creato delle forze speciali, e loro dicono di essere contrari, che esisteva già il Rsp (Reggimento di sicurezza presidenziale, il corpo militare scelto che proteggeva il presidente ed è stato origine del colpo di stato del 2015, ndr). Ma questo proteggeva un uomo e la sua famiglia e non la popolazione. Gli ex del Cdp dicono che il governo deve dare le dimissioni, altrimenti loro lo cacceranno con la forza. Poi chiedono che per la riconciliazione nazionale si faccia tornare Blaise Compaoré, che attualmente ha cambiato nome in Kouassi Kodjo, e vive in Costa d’Avorio».

Verità e giustizia sul passato

Facendo un passo indietro, in questo periodo si parla molto del processo contro i responsabili dell’uccisione di Thomas Sankara e dei suoi dodici compagni, quel 15 ottobre 1987. Lei come è coinvolto?

«Tutti gli elementi d’indagine sono riuniti affinché il processo possa cominciare. Il giudice d’istruzione, di grande competenza, ha convocato molti testimoni. Io stesso sono stato chiamato a testimoniare e ho raccontato quello che so. Devo dire che nessuno, prima d’ora, mi aveva convocato su questo. Ci hanno accusato di tante cose, me e Sankara, ma nessuno mi aveva mai interrogato.

Inoltre, il giudice d’istruzione, ha finalmente avuto accesso ai dossier francesi sul caso, che erano secretati. Qui tutti (gli avvocati, la famiglia, io stesso) pensano che il processo avrà luogo.

Per questo chiediamo che il termine “Riconciliazione nazionale” non sia esibito per dire, dobbiamo stare zitti, ma, al contrario, occorre fare verità su quanto è successo. Un paese che non ha la verità sul suo passato, che mente a se stesso, non può andare avanti. Non potrà dire di voler giudicare i ladri, se non ha fatto luce sui suoi dirigenti.

Penso che ci sarà il processo, e che il presidente Sankara possa essere sepolto, perché i suoi resti attendono ancora un degno commiato. Spero che si faccia presto, perché da quando se ne parla alcuni testimoni sono già deceduti. Stiamo diventando vecchi».

L’attualità di Sankara

Qual è l’attualità del messaggio del presidente Thomas Sankara per i giovani del Burkina Faso?

«Un messaggio per i giovani dell’Africa e del mondo, che ha superato la dimensione geografica del Burkina Faso. I giovani si devono organizzare seriamente. Non devono aspettarsi che tutto sia facile, ma devono responsabilizzarsi per prendere in mano il proprio destino. Occorre avere uno sguardo nuovo sul modo in cui organizzarsi, in tutti i settori di attività. Sankara voleva rivoluzionare i diversi settori. È stato il primo a parlare contro la deforestazione, per la protezione della natura, per un’economia endogena. Altrimenti consumiamo prodotti provenienti dall’estero e non sviluppiamo la nostra economia. Come, ad esempio, l’allevamento di piccoli animali, nel quale siamo forti.

L’avvenire del Burkina Faso non è nelle miniere d’oro. I giacimenti si sono costituiti durante periodi molto lunghi, non si può venire e sfruttarli per dieci anni, portando via tutto, dando allo stato solo qualche inezia e dicendo che si contribuisce al paese.

Sankara ha sempre detto che anche se troviamo del petrolio in Burkina, non sarà quello che ci salverà. Basta guardare ora in che stato è l’economia di tutti quei paesi che hanno trovato il petrolio, con i loro dirigenti che rubano i soldi derivati. Per l’oro è la stessa cosa».

Provincia Loroum, Nord Burkina

L’insurrezione ha in qualche modo «sdoganato» la figura di Thomas Sankara, prima se ne parlava di nascosto, adesso sono tutti sankaristi.

«È vero, Thomas Sankara suscita molto interesse. Ci sono scritti che possono essere utili, altri lo sono di meno. Per esempio, c’è un libro scritto da un italiano che non conosco (Toé si riferisce a un romanzo pubblicato in Italia, ndr), che si sarebbe ispirato alla biografia scritta dal mio amico Bruno Jaffré (il biografo di Thomas Sankara, ndr). Mi hanno mandato qualche pagina di questo libro, nel quale l’autore parla di me in termini che ho trovato offensivi e irritanti. Prima di tutto non capisco perché in un romanzo (una fiction), anche se su Thomas Sankara, sia stato utilizzato il mio nome. Perché si sia parlato dei miei genitori, scrivendo Jérôme Toé, che non è il nome di mio padre. Se è stata fatta della fiction, bisogna farla con nomi inventati.

Il rapporto tra me è Sankara è presentato in modo falsato. Abbiamo sempre fatto dell’emulazione sana, per arrivare all’eccellenza, non ci copiavamo, ma potevamo completarci. Sankara è stato per me un amico e un compagno. E lui diceva che io ero un fratello per lui.

Quando aveva bisogno di qualcuno di fiducia, mi chiamava, e sono sempre stato al suo fianco. Prima come direttore di gabinetto della comunicazione, quando era segretario di stato, poi come ministro. Ho parlato con lui al telefono trenta minuti prima che fosse ammazzato. Scriverò un libro di memorie, con la mia verità».

Marco Bello

 Archivio MC

Per approfondire

  • �Bruno Jaffré, Burkina Faso. Les années Sankara, L’Harmattan, 1989.
  • �Lila Chouli, Sur l’insurrection populaire et ses suites au Burkina Faso, L’Harmattan-Sénégal, 2018.
  • �Marco Bello, Enrico Casale, Burkina Faso. Lotte, rivolte e resistenza del popolo degli uomini integri, Infinito edizioni, 2016.

Roch Marc Christian Kaborāˆ presidente del Burkina Faso (Photo by OLYMPIA DE MAISMONT / AFP)


Il paese combatte il terrorismo e cerca la verità sul suo passato

Massacro nel Sahel

Gli attacchi terroristici islamisti, iniziati nel 2015, continuano a insanguinare il Burkina Faso. A Solhan, nel giugno scorso, si è toccato il record di vittime. Di mezzo c’è l’oro, e il finanziamento che i gruppi jihadisti ne traggono. Intanto l’opposizione politica chiede conto al governo sulla sicurezza.

È la notte tra il 4 e il 5 giugno scorso. Verso le due del mattino una banda di giovani in motocicletta arriva al sito aurifero nei pressi del villaggio Solhan, capoluogo del comune rurale omonimo (entità amministrativa più piccola).

Gli assalitori attaccano inizialmente la postazione dei Volontari per la difesa della patria (Vpn), una sorta di milizia di autodifesa composta di persone della popolazione. In seguito, si dirigono verso le case, sfondano le porte e uccidono direttamente chi vi abita, senza chiedere nulla e senza considerare l’età. Saccheggiano il possibile, danno fuoco ad alcune case, poi ripartono. Piazzano dell’esplosivo sul ponte della strada che collega Solhan a Sebba, a una decina di chilometri. Causerà altre vittime.

Il bilancio ufficiale è di 132 morti, ma altre voci portano il numero a 150. Molti sono anche i feriti. Si tratta dell’attacco più sanguinoso che il Burkina Faso ha subito sul suo territorio, dall’inizio degli eventi di questo tipo, nel 2015.

In quell’anno il Burkina Faso stava vivendo una transizione politica, seguita da un’insurrezione popolare che aveva deposto il presidente Blaise Compaoré, in carica da 27 anni (cfr MC febbraio 2016). Un colpo di stato del Reggimento di sicurezza presidenziale guidato dal generale Gilbert Dienderé, aveva tentato di bloccare il cambiamento nel settembre 2015, ma il movimento popolare, con l’appoggio internazionale e, soprattutto, dell’esercito, era riuscito a evitare il peggio. La transizione era ripresa e un nuovo presidente, Roch Marc Christian Kaboré si era insediato il 29 novembre. Il suo governo aveva giurato il 12 gennaio 2016. Tre giorni dopo, un attacco in grande stile era stato perpetrato da jihadisti nel cuore della capitale, facendo 30 vittime di 18 nazionalità.

Da quel giorno gli attacchi si sono moltiplicati nel Nord del paese, per poi estendersi a Est e Sud Est, senza risparmiare la capitale. Si hanno evidenze di contatti diretti tra Compaoré, quando era presidente, e gruppi jihadisti, che avrebbe preservato il paese dalle incursioni.

Solhan, come detto, è un sito aurifero, ed è sfruttato da cercatori d’oro artigianali. Sono situazioni particolari, in cui il tessuto sociale è completamente stravolto. Qui sono installati, senza controllo, decine di migliaia di cercatori d’oro, molti provenienti da paesi vicini. Nell’agosto 2020, il Consiglio economico e sociale del Burkina Faso, ha pubblicato uno studio sul «lavaggio di denaro sporco e finanziamento del terrorismo», con focus sul paese.

Oltre a ricevere finanziamenti dall’estero, i gruppi jihadisti si autofinanziano sfruttando le risorse del territorio che occupano, come le miniere artigianali, o imponendo tasse e balzelli alla popolazione. Dallo studio risulta che dal 2016 al 2020 i terroristi hanno raccolto più di 140 miliardi di dollari, solo tramite gli attacchi o balzelli a siti auriferi artigianali, come quello di Solhan. Normalmente i siti nei quali i cercatori non pagano, vengono attaccati.

Il governo, il 7 giugno, ha disposto la chiusura di tutti i siti auriferi artigianali delle province di Oudalan e Yahga (qui si trova Solhan).

Nella regione sono presenti gruppi jihadisti legati alle due principali formazioni: il Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (Gsim), legato ad Al Qaeda, e lo Stato islamico nel grande Sahara, legato all’Isis. Si tratta di due coalizioni di una galassia di gruppi che talvolta si scontrano tra loro.

L’attacco di Solhan, che non è stato l’ultimo, secondo il governo è stato perpetrato da un gruppo burkinabè, denominato Mouhadine, che significa «Genti solidali», attivo dal 2019 in Burkina, ma anche Niger e Benin. Le forze di sicurezza avrebbero arrestato due elementi del gruppo.

Il presidente Kaboré – rieletto per un secondo mandato nel novembre 2020 – ha pure tentato di avviare una tre giorni (17-19 giugno) di «Dialogo politico», con tutti i partiti del paese. Ma alla fine l’opposizione si è sfilata, e per voce del Capofila dell’opposizione politica (è una figura istituzionale), Eddie Komboigo, ha indetto manifestazioni di protesta contro l’insicurezza e in memoria delle vittime, a inizio luglio.

Intanto, alcuni politici legati al partito di Blaise Compaoré, il Cdp (Congresso per la democrazia e il progresso), vogliono organizzarsi per il ritorno dell’ex presidente e la riconciliazione nazionale. Ma prima, occorre fare verità sul passato, a partire dall’assassinio di Thomas Sankara.

Marco Bello

Soldati francesi in Burkina (Photo by Fred Marie / Hans Lucas / Hans Lucas via AFP)




Trascendenza e culto dei morti

testo e foto di Piergiorgio Pescali |


È una regione della Francia, ma la penisola della Bretagna ha origini e caratteristiche tutte sue. Ne sono testimonianza concreta la lingua (appartenente al gruppo celtico), ma anche i suoi monumenti religiosi: dai «dolmen» ai «menhir» fino ai «calvaires» dell’epoca cristiana.

Il «Cristo verde» di Paul Gauguin, famoso pittore francese.

Paul Gauguin (1848-1903) è conosciuto dal grande pubblico per i quadri dipinti durante i suoi due soggiorni a Tahiti, negli ultimi anni della sua vita.

Prima di quel periodo, però, vi fu un’intensa preparazione artistica e tecnica sviluppatasi durante la sua permanenza in Bretagna, a Pont-Aven e a Le Pouldou. Lì, in una breve quanto tormentata fase della sua vita, l’artista francese inaugurò quella forma pittorica denominata a volte «sintetismo», altre volte «ideismo», che lo portò a produrre quadri che troveranno la loro definitiva completezza in Polinesia. Tra di essi ve n’è uno, considerato opera minore e oggi conservato al Museo reale di belle arti di Bruxelles. Dipinta nel 1889, subito dopo la più famosa Il Cristo giallo, la tela è intitolata Il Cristo verde e ritrae una donna bretone seduta sulla base di una scultura in pietra che raffigura la deposizione di Gesù dalla croce.

Il «Cristo giallo» del famoso pittore francese Paul Gauguin.

È, quella scultura, un «calvario», una rappresentazione tipica delle terre bretoni che testimonia la religiosità di una terra aspra e dura, francese de jure, ma indipendente per tradizione e vanto. Coluche, l’attore comico italo-francese (1944-1986), disse una volta che «la Bretagna è bella e poi non è lontana dalla Francia».

Sviluppatisi in quei «recinti parrocchiali» (enclos paroissiaux in francese) nati tra il IX e l’XI secolo e continuamente arricchiti di elementi artistici e architettonici, i calvari della Bretagna rappresentano l’ultima fase di completamento spirituale che ha avuto inizio ben prima dell’avvento del cristianesimo.

«Dolmen» e «menhir»

Per capire l’importanza e la peculiarità di queste realtà religiose occorre individuare il profondo legame che connette il popolo bretone con la trascendenza. Un rapporto che affonda le radici nella preistoria, qui ben rappresentata dai numerosi dolmen e soprattutto menhir che costellano a centinaia le colline della regione.

Del resto, dolmen e menhir sono due parole bretoni che significano rispettivamente «tavola di pietra» (dol, tavola e men, pietra) e «pietra lunga» (da men e hir, lunga). Innalzati cinque-seimila anni fa da civiltà pressoché sconosciute (i più famosi druidi arrivarono ben dopo), i menhir vennero trasformati dal cristianesimo in una sorta di protocalvari con la sola aggiunta di croci sulla loro cuspide.

Il complesso megalitico di Carnac, In Bretagna. Foto Deborah Bates – Pixabay.

 

Dai Galli ai Celti: il cristianesimo bretone

Furono popolazioni celtiche, provenienti per lo più dal Galles e dalla Cornovaglia, a introdurre il cristianesimo e a sostituirsi ai galli. L’Armorica romana divenne la «Piccola Bretagna» per differenziarsi dalla «Grande Bretagna», ma i legami con le terre d’origine vennero mantenuti.

Tutti i sette santi ritenuti fondatori della Bretagna erano nati e avevano studiato in Galles, avevano predicato chi in Irlanda, chi in Scozia per approdare poi sulle coste del continente europeo tra il V e il VI secolo d.C. dando vita a una fede tra le più incrollabili di Francia. Un pellegrinaggio, il Tro Breizh («Il giro della Bretagna», noto anche come Pèlerinage des Sept-Saints de Bretagne), collega attraverso seicento chilometri le sette cattedrali dedicate ai padri del cristianesimo bretone.

«Terra di vecchi santi e di bardi» recita il Bro Gozh ma Zadoù (Vecchia terra dei miei padri), l’inno della Bretagna che, oltre a spartire con le regioni britanniche una cultura ancestrale, ne condivide anche la lingua. Per secoli il mare è stato fonte di unione, mentre le foreste che dividevano la regione dal regno franco occultavano l’orizzonte e le luci di Parigi. Un proverbio afferma che quando Parigi sarà inghiottita dalle acque, riemergerà la città di Ys, la leggendaria capitale bretone situata nella baia di Douarnenez distrutta per i peccati di Dahut, la figlia del re Gradlon. Il mito, che ricorda quello di Sodoma, rimane vivo ancora oggi tra le famiglie della Bretagna a testimonianza di una dicotomia franco-bretone non ancora completamente sanata.

La cattedrale di Tréguier ospita le tombe di due dei sette santi fondatori della Bretagna: San Tugdual e Sant’Ivo. Foto Piergiorgio Pescali.

Lontani da Parigi

Dopo l’allontanamento dei normanni (939), il ducato di Bretagna si mantenne virtualmente autonomo dal regno di Francia fino al 1547. Durante questo periodo i duchi di Montfort, che amministrarono gran parte della regione, svilupparono un fiorente commercio di lino e tessuti con le isole britanniche, orientando l’economia della regione al di là della Manica piuttosto che verso l’esecrata Parigi.

La ricchezza che ne seguì favorì sia le classi più povere che i feudatari ripercuotendosi sulle parrocchie. Il clero locale vide le entrate finanziarie aumentare enormemente in pochi decenni: i meno abbienti davano parte dei loro magri introiti come ringraziamento, mentre le famiglie più ricche «si sdebitavano» della loro agiatezza su questa terra comprando indulgenze per la vita dopo la morte.

Il calvario di Guimiliau è tra i più famosi della Bretagna; la caratteristica principale sono i personaggi, tutti rappresentati con vestiti dell’epoca in cui è stato realizzato (1581-1588). Foto Piergiorgio Pescali.

Recinti parrocchiali, peste e processioni

È da queste premesse che, a partire dal IX secolo, iniziarono a sorgere i «recinti parrocchiali», complessi architettonici cristiani (chiesa, cappella, cimitero, ossario) chiusi. Il primo fu quello di La Martyre, nel dipartimento di Finistère, ma ben presto ne seguirono altri scatenando una competizione che si prolungò nei successivi sei secoli. Le parrocchie chiamavano i migliori architetti e scultori per avere le enclos più belle e prestigiose in grado di richiamare fedeli da tutta la Bretagna.

 

In un’epoca in cui la manipolazione del denaro era vista con sospetto, le enclos paroissiaux servivano anche a separare fisicamente le attività commerciali (le fiere, i mercati, le compravendite) dalla vita religiosa. Le barriere così create impedivano la mescolanza tra il mondo sacro e quello mondano e, non ultimo, ostacolavano l’accesso agli animali.

I primi recinti comprendevano solo la chiesa e il cimitero. Non dimentichiamo che i villaggi erano formati al massimo da poche decine di famiglie e quindi, almeno nei primi decenni, il terreno occupato dal camposanto non aveva necessità di grandi estensioni.

Nel settembre 1347, dalle navi in porto a Marsiglia cominciò a diffondersi anche in Francia la peste nera che raggiunse la Bretagna alla fine dell’anno successivo. Le guerre di successione in atto tra i conti di Blois e i duchi di Montfort favorirono la propagazione della pandemia che continuò a falciare vite fino alla fine del secolo. La pestilenza non cessò del tutto, ma rispetto al resto dell’Europa, alla Bretagna venne in parte risparmiata l’ecatombe: il batterio Yersinia pecstis riuscì a essere confinato in alcune città grazie ad una severa politica di segregazione che salvò le campagne dal morbus pestiferus. Fu in questo periodo che iniziarono a divenire popolari i pardons, pellegrinaggi penitenziali (ancora oggi in uso), dedicati a un particolare santo a cui chiedere una grazia, un favore o a cui semplicemente rendere grazie.

Il collegamento alla peste di queste processioni è chiaro se si pensa che i santi più acclamati erano San Rocco e San Sebastiano e i pardons partivano o arrivavano non presso le chiese, ma più spesso nei pressi di una fontana da dove sgorgava acqua pura di sorgente. Le fontane erano spesso considerate, assieme ai santi, dispensatrici di poteri purificatori capaci di allontanare le epidemie e di mondare dai peccati alla stregua del battesimo cristiano.

L’ossario del Calvario di Guehenno con il «Santo sepolcro» e il Cristo deposto sulla tomba. Foto Piergiorgio Pescali.

L’«Ankou», la morte

Fu invece la successiva ondata epidemica a colpire, con più ferocia della precedente, la Bretagna dopo la metà del XVI secolo ravvivando la fede delle comunità. I lazzaretti vennero presto riempiti e le autorità obbligarono i contagiati a rintanarsi in casa segnando le porte con calce bianca. Era loro concesso di uscire all’aperto per pochi minuti al giorno, ma in tal caso dovevano indossare una tunica con una croce bianca avvisando del loro passaggio con il rumore di un bastone picchiato sul selciato.

I morti divennero talmente numerosi che i cimiteri non bastavano più a contenere tutti i cadaveri che, già a partire dal XIV secolo, venivano riesumati con maggior frequenza. La seconda peste obbligò ad accelerare il disseppellimento e a partire dal XVI-XVII secolo i resti vennero conservati negli ossari, garnal in lingua bretone. Come le tombe, anche gli ossari erano rivolti verso Est e come le lapidi cimiteriali anche su questi ossari difficilmente si trovano le croci. I fedeli potevano osservare le ossa dei defunti, spesso ammonticchiate le une sopra le altre, da finestrelle. La porta, chiamata Porz a maro, «Porta della morte», che consentiva l’accesso all’interno della struttura era ornata da rilievi che mostravano riti di passaggio verso l’immortalità mutuati dal mondo celtico la cui figura più comune è l’Ankou, la morte, spesso raffigurata come uno scheletro avvolto in un mantello e con una falce o un’ascia tra le mani e accompagnata da frasi ammonitrici. Nel recinto parrocchiale di La Roche-Maurice accanto a una delle rappresentazioni più famose dell’Ankou si legge la scritta «Vi uccido tutti» e «Uomo, ricorda che sei polvere», mentre a La Martyre l’ossario accoglie i fedeli con un «Morte, giudizio, gelido inferno: quando l’uomo pensa a tutto questo deve tremare».

Dal XVIII secolo le famiglie più ricche iniziarono a mettere i teschi dei loro defunti nelle boîte à chef (cassette dei teschi) identificate per nome ed età del morto accompagnando la traslazione con canti e litanie che ricordavano che sulla terra «non c’è più nobiltà, né ricchezza, né bellezza! La terra e i morti si sono confusi e uniti!».

Il calvario di Guehenno, eretto nel XVI secolo; il gallo di fronte ricorda il triplice diniego di Pietro: fu aggiunto alla scultura originale solo nel 1863 dall’abate Jacuot. Foto Piergiorgio Pescali.

I calvari

Ciò che caratterizza maggiormente le enclos sono sicuramente i calvari, che iniziarono ad apparire dopo il 1450 a Tronoën ed ebbero il loro epilogo a Saint-Thegonnec nel 1610. A volte sono solo semplici croci in pietra su cui è raffigurata la deposizione o Maria Vergine e Maria Maddalena. Altre volte sono vere e proprie storie animate da decine di personaggi. Sono questi i calvari più ammirati e famosi, che si trovano a Gumiliau, Plugastel-Daoulas, Pleyben, Saint-Jean-Trolimon, Guehenno, Plougonven. Artisticamente sono il risultato di un lungo processo di trasformazione che ha rimodellato i menhir preistorici in strutture più elaborate, ma rivolte, fisicamente e spiritualmente, sempre verso il Cielo. La cuspide smussata delle «lunghe pietre» viene sostituita dalla croce e la parte più massiccia che affonda nel suolo si trasforma nelle scene evangeliche più rappresentative e note. Dal punto di vista strettamente religioso i calvari sono le biblia pauperam destinate ai fedeli. I parroci li utilizzavano per insegnare catechismo, i devoti riconoscevano le fasi della vita di Cristo e la sua Passione.

La certezza della Resurrezione, identificabile nei cimiteri dove le tombe sono rivolte verso Est, si ripercuote nelle scene dei calvari, privi di qualsiasi accenno ai miracoli di Cristo. La Salvezza non è un miracolo, ma una certezza. Tutto si sviluppa attorno alla croce, simbolo di salvezza, e le scene non seguono mai uno schema e una cronologia ben definita lasciando all’artista la scelta di ciò che vuole rappresentare e la posizione all’interno dell’opera. Vi sono calvari in cui i personaggi sono vestiti con abiti bretoni del tempo, altri in cui indossano abbigliamenti più ligi agli eventi descritti nei Vangeli. In comune tra loro hanno la divisione in due parti: la vita di Gesù prima dell’entrata a Gerusalemme (annunciazione, visitazione, natività, epifania, fuga in Egitto, presentazione, battesimo, tentazioni) e le ultime fasi della vita di Cristo dopo la domenica delle palme (entrata a Gerusalemme, ultima cena, lavanda dei piedi, Getsemani, processo, via crucis, la Veronica, crocifissione, morte, deposizione, tumulazione, resurrezione).

Diavolo e inferno

Non tutti i calvari sono monumentali: questo è a Callac. Foto Piergiorgio Pescali.

L’unica libertà mondana che si prendono alcuni scultori è la rievocazione di Katell Kollet («Caterina la perduta») che si trova nei calvari di Guilimiau e Plougastel-Daoulas. Caterina, nipote del Conte Morris signore di La Roche-Maurice era una bella sedicenne il cui unico scopo nella vita era il divertimento e il ballo. Per questa sua «leggerezza» venne rinchiusa sino a quando non avesse deciso di maritarsi. Liberata da un servo compiacente si rifugiò a La Martyre dove la coppia ballò sino allo sfinimento. Il servo morì, ma Katell, desiderosa di continuare la danza, invocò il diavolo che, presa la palla al balzo, la rapì portandola all’inferno. Caterina Kotell divenne quindi Caterina Kollet. La leggenda è molto popolare in Bretagna, tanto da dare il nome a una band musicale che continua la tradizione dei gwerz, i canti popolari.

 

Come scrisse Anatole Le Braz (1859-1926) ne La leggenda della morte, «tra tutti i popoli celtici, i bretoni sono forse quello che ha conservato più intatta l’antica curiosità della razza per i problemi della morte».

Piergiorgio Pescali




Variante Delta, variabile Modi

testo di Maria Tavernini |


Il disastro era previsto e annunciato, ma la classe politica al potere ha minimizzato, preferendo raccogliere consensi più che mettere in sicurezza il paese. E le conseguenze dello tsunami seconda ondata hanno colpito anche il resto del mondo.

A fine gennaio scorso, al vertice di Davos del Forum economico mondiale, il primo ministro indiano Narendra Modi aveva sostenuto che il paese avesse dimostrato al mondo come gestire una pandemia.

«Quando è arrivato il Covid-19, anche l’India ha avuto i suoi problemi – aveva dichiarato il premier -. All’inizio dello scorso anno, diversi esperti e organizzazioni avevano previsto che l’India sarebbe stata il paese più colpito dalla pandemia. Qualcuno aveva anche detto che si sarebbero contagiate 700-800 milioni di persone e che due milioni di indiani sarebbero morti».

Secondo Modi, l’India – che ospita quasi il 18% della popolazione mondiale con 1,38 miliardi di persone, ed è il più grande produttore globale di vaccini, tanto da essere definita la «farmacia del mondo» – non solo si era presa cura dei suoi cittadini, ma aveva anche aiutato altri paesi esportando kit, mascherine e, più di recente, vaccini.

Un lockdown brutale

Dopo la prima ondata di Covid-19 che aveva solo lambito il paese con un tasso di mortalità molto basso e contagi relativamente sotto controllo, soprattutto se rapportati alla popolazione, enorme e molto giovane (età media 29 anni), le autorità avevano cantato vittoria e abbassato la guardia. Sembrava già lontana la brutalità del primo lockdown, imposto a fine marzo 2020 con sole quattro ore di preavviso, che in un’economia basata per l’86% su scambi e rapporti informali, aveva scatenato un incontrollato esodo di lavoratori a giornata e di poveri urbani verso le campagne, e innescato così una grave crisi umanitaria per milioni di persone ai margini della società.

11 marzo 2021. I Naga Sadhus (uomini santi) s’immergono nel Gange per espiare i loro peccati in occasione del Kumbh Mela, il più grande raduno religioso del mondo che si svolge ogni 12 anni in quattro luoghi diversi. Quest’anno è stato ad Haridwar dal 15 gennaio al 27 aprile. (Photo by Prakash SINGH / AFP)

La super diffusione del Kumbh Mela

Dopo un inverno di apparente quiescenza del virus con meno di 10mila nuovi casi al giorno, l’allora ministro della salute Harsh Vardhan, a marzo scorso, aveva trionfalmente annunciato la fine della pandemia nel paese e il ritorno alla «normalità».

Niente poteva essere più lontano dalla verità, ma il governo guidato dai nazionalisti hindu del Bharatiya Janata Party, spinto da una contrazione del Pil del 7,7%, aveva deciso di allentare le restrizioni e far ripartire l’economia.

Mentre il mondo era costretto in casa dalla violenza della seconda ondata e i numeri iniziavano a risalire anche in India, il governo aveva permesso che si tenesse il Kumbh Mela, il più grande raduno umano al mondo: un festival hindu che si celebra a cadenza ciclica in quattro città indiane.

Nonostante le restrizioni, tra gennaio e marzo 2021, oltre tre milioni di pellegrini erano arrivati ad Haridwar da tutta l’India, ammassati sulle rive del Gange per il bagno rituale nel fiume sacro.

Il Kumbh Mela si sarebbe trasformato in un evento «super diffusore» con migliaia di casi collegati.

Solo un anno prima, durante la prima ondata, un altro raduno religioso, in quel caso musulmano, della Tablighi Jamaat, tenutosi nella moschea di Nizamuddin a Delhi – quando i casi giornalieri erano ancora bassi – i fedeli musulmani (poche migliaia, non milioni) erano stati bollati come «corona jihadi» e incolpati dalla destra hindu di aver fatto detonare i casi di Covid-19 nel paese.

Diversi media indipendenti avevano poi smontato quella narrazione ed evidenziato come la comunità musulmana – la più grande minoranza religiosa in India, oltre 200 milioni di persone – fosse stata usata come capro espiatorio dell’aggravarsi della pandemia nel paese.

I comizi oceanici di Modi

Un anno dopo, con i casi in rapido aumento e il Kumbh Mela ancora in corso, il premier si era limitato a esortare i fedeli a fare un bagno solo «simbolico» nel Gange. Nel frattempo, però, si tenevano le elezioni in cinque stati e, mentre l’opposizione aveva sospeso i comizi elettorali con l’aggravarsi della situazione epidemiologica, il Bharatiya Janata Party aveva continuato a tenere comizi oceanici, soprattutto nel secolarissimo Bengala Occidentale, dove Modi sperava di conquistare l’elettorato e dove poi avrebbe invece incassato una pesante sconfitta.

Durante un comizio, nel bel mezzo della seconda ondata, il premier aveva detto di non aver mai visto tante persone a una manifestazione politica: «Dovunque mi volti, vedo gente», aveva esclamato estatico.

In quei giorni, l’India veniva travolta da uno tsunami di casi che avrebbe messo a nudo le fragilità del sistema sanitario indiano e l’impreparazione di una classe politica inadeguata che ha condotto il paese verso una catastrofe di proporzioni inaudite.

24 marzo 2021. I sostenitori del Bharatiya Janata Party (Bjp) durante uno dei comizi elettorali del primo ministro indiano Narendra Modi, a Sipajhar, Assam, India. (Photo by ANUWAR HAZARIKA / NurPhoto / NurPhoto via AFP)

Tsunami seconda ondata

A inizio aprile 2021, il paese è stato letteralmente travolto dalla seconda ondata di infezioni superando un milione di casi attivi.

Nel giro di poche settimane, l’India ha superato il Brasile come secondo paese al mondo per numero di casi dopo gli Usa, con oltre 2,5 milioni di positivi, una media di 300mila nuovi casi e duemila morti al giorno.

Ai primi di maggio, l’India ha registrato in un solo giorno oltre 400mila nuovi casi – l’incremento giornaliero più alto al mondo dall’inizio della pandemia – e oltre 3.500 decessi: una cifra che molti analisti considerano una sottostima (poi rivista al rialzo).

Le immagini dei crematori che bruciavano corpi (come da tradizione nei riti funerari hindu) senza sosta, giorno e notte, anche fuori dagli spazi adibiti, hanno restituito la vera proporzione della tragedia in corso, i cui numeri reali, probabilmente, non si conosceranno mai.

Con gli ospedali pieni, i posti in terapia intensiva ormai saturi, ossigeno e medicine introvabili se non a prezzi esorbitanti sul mercato nero, in un sistema sanitario fatiscente – almeno nel settore pubblico -, diverse grandi città hanno registrato un numero molto maggiore di cremazioni e sepolture rispetto al bilancio ufficiale delle vittime di Covid-19.

Se la seconda ondata ha travolto le megalopoli indiane, le zone rurali sono state letteralmente devastate. Molte persone sono morte per mancanza di ossigeno. La carenza di legna per le cremazioni, le lunghe file e l’inflazione sui prezzi degli ultimi riti ha costretto molte persone (anche hindu) a seppellire i propri cari sulle rive sabbiose dei fiumi: piccoli cumuli di sabbia adornati da ghirlande di fiori. Con le piogge dei monsoni che hanno gonfiato i fiumi, i corpi sono poi venuti a galla, riportati a riva in un macabro spettacolo.

Stime di una catastrofe

Mentre scriviamo, i casi totali ufficiali hanno superato i 30 milioni, e i morti sono più di 400mila: cifre che difficilmente riflettono la realtà. Secondo alcune stime, i numeri relativi a contagi e morti potrebbero essere fino a cinque volte superiori a quelli ufficiali, complice la poca trasparenza delle istituzioni, metodi di registrazione dei decessi frammentari e un inefficace sistema di tracciamento.

Il New York Times ha delineato quattro possibili scenari sui reali numeri della pandemia in India: uno scenario definito «conservatore» stima che i morti siano almeno 600mila; una stima più probabile parla di 1,6 milioni di decessi da Covid-19, mentre lo scenario più catastrofico stima siano 4,2 milioni (stime effettuate alla fine di maggio 2021).

Disastro annunciato

Programma di sensibilizzazione della Trinity care foundation contro il Covid-19 a Jangamakote Village nello stato del Karnataka, nel Sud dell’India.

Secondo l’agenzia di stampa Reuters, nei primi giorni di marzo 2021, un forum di esperti scientifici aveva avvisato i funzionari indiani di una nuova variante del coronavirus, molto contagiosa, che si stava diffondendo nel paese, denominata B.1.617.2, o anche variante Delta, oggi predominante nel Regno Unito.

Nonostante l’avvertimento, il governo centrale non era intervenuto con restrizioni per fermare il contagio: milioni di persone senza mascherine, incuranti delle minime norme di contenimento, avevano partecipato ai festival religiosi e ai comizi elettorali tenuti dal primo ministro Modi, permettendo al virus di circolare liberamente e di mutare.

L’allarme per la nuova variante era stato lanciato a inizio marzo dall’Indian Sars-CoV-2 Genetics Consortium (Insacog), che per primo aveva sequenziato la variante B.1.617.2 del coronavirus, a febbraio. Non si sa se i risultati fossero stati trasmessi direttamente al premier Modi, ma è oramai chiaro che le autorità avevano deliberatamente sottovalutato gli avvertimenti.

Sebbene il rapporto non abbia ricevuto molta attenzione sui principali media indiani, la catastrofe della seconda ondata in India ha messo in luce le ombre dell’amministrazione Modi, ampiamente criticata – in India e all’estero – per la sua incapacità di prevenire e arginare la pandemia. I principali media internazionali hanno infatti puntato il dito contro un esecutivo che ha creduto nel «miracolo indiano», e non si è premurato di contenere il disastro. Piuttosto, di minimizzarlo o negarlo.

I vaccini indiani

Mentre scriviamo, dopo settimane di impennata, la curva dei contagi sembra essere finalmente in lieve flessione: un nuovo lockdown ha fatto rallentare la corsa della contagiosa variante indiana.

Intanto, il piano vaccinale, applicato molto lentamente per mesi, sembra accelerare: l’India è il più grande produttore al mondo di vaccini e ne fabbrica due contro il coronavirus – Covaxin, di Bharat Biotech e Covishield, del Serum Institute of India -. Sono state somministrate 376 milioni di dosi, il numero più alto al mondo dopo Cina e Stati Uniti, ma, in rapporto alla popolazione, un tasso di vaccinazione molto più basso di tanti altri paesi.

Nei giorni peggiori del picco pandemico, l’India ha bloccato le esportazioni del vaccino fino alla fine del 2021 per soddisfare l’enorme domanda interna. La decisione ha avuto un pesantissimo impatto sui 91 paesi a medio e basso reddito che dipendono dal vaccino indiano nell’ambito del piano dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il Covax, che mira a immunizzare due miliardi di persone, ha affermato lo scienziato capo dell’Oms, dr. Soumya Swaminathan.

La campagna vaccinale indiana, iniziata lo scorso gennaio, si era inizialmente concentrata su anziani e persone fragili. Modi aveva poi annunciato di voler mettere il vaccino sul libero mercato per somministrarlo ai più giovani, tramite i governi statali e le strutture sanitarie private, a prezzi maggiorati, creando un doppio binario: chi poteva e chi non poteva permetterselo.

A seguito dell’impennata di infezioni ad aprile e (forse) sulla scia del richiamo ricevuto dalla Corte suprema indiana, che aveva definito il piano «arbitrario e irrazionale», il primo ministro ha poi aperto le inoculazioni gratuite dal 1° maggio per la fascia 18-45 anni. Peccato che non siano state aumentate le scorte, e l’India fa affidamento anche su vaccini prodotti all’estero.

Un leader inadeguato

«Il mondo è sull’orlo di un catastrofico fallimento morale, e il prezzo di questo fallimento sarà pagato con vite e mezzi di sussistenza dalle popolazioni più povere», aveva avvisato a gennaio Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore esecutivo dell’Oms durante una sessione del comitato esecutivo.

La crisi indiana ha confermato i timori di Tedros e dimostrato che in questa pandemia non ci si salva da soli. La mala gestione di un governo impreparato e la conseguente assente pianificazione indiana, ha avuto pesanti ricadute per i cittadini di ogni estrazione e provenienza. Ma anche per quei paesi che dipendevano dalle esportazioni indiane per il piano vaccinale.

Come in altri luoghi del mondo guidati da leader autoritari e populisti, la pandemia ha messo in luce l’incapacità della leadership di rispondere adeguatamente alla crisi, barcamenandosi tra negazione, ottimismo infondato e soluzioni di facciata.

La pandemia ha fatto emergere con violenza le storture del sistema e l’inadeguatezza della leadership indiana: di un partito che, negli ultimi sette anni di governo, si è reso responsabile di un grave declino delle libertà e delle istituzioni democratiche.

Durante i giorni più neri della catastrofe, il primo ministro si è tenuto lontano dai riflettori sostenendo che «il sistema era collassato». Non appena i numeri sono iniziati a calare, come da tradizione, Modi si è assunto i meriti dell’appiattimento della curva.

Peccato che la parola d’ordine «Aatmanirbhar Bharat» (India autosufficiente) sia stata disattesa. L’amministrazione è stata interessata più a controllare la narrativa, silenziare le critiche e nascondere la polvere sotto il tappeto che a tenere a bada il contagio.

E mentre l’India difficilmente dimenticherà questa tragedia, gli esperti avvisano che la terza ondata di contagi potrebbe colpire il paese tra settembre e ottobre.

Maria Tavernini

Programma di sensibilizzazione della Trinity care foundation contro il Covid-19 a Jangamakote Village nello stato del Karnataka, nel Sud dell’India.


I cristiani indiani durante la seconda ondata

Perseguitati ma al servizio

Se il subcontinente indiano è stato travolto dalla seconda ondata di Covid-19, trasformatasi nel giro di poco tempo in una catastrofe senza precedenti nella storia repubblicana, per i cristiani d’India e per le altre minoranze religiose, la crisi è stata ancora più drammatica.

La comunità cristiana indiana è la terza comunità religiosa dopo quella hindu e quella musulmana, con oltre 27 milioni di fedeli, ed è costituita in larga parte da Dalit (i «fuoricasta» secondo la rigida stratificazione sociale indiana) convertitisi anche nella speranza di sfuggire a discriminazioni e umiliazioni.

I cristiani indiani, di questi tempi, pregano per i vaccini, per il cibo e per l’ossigeno: ventilatori e bombole di ossigeno scarseggiano, e le restrizioni hanno impedito a coloro che lavorano alla giornata di guadagnare abbastanza per sfamarsi.

Inoltre, l’appartenenza religiosa ha creato non poche discriminazioni anche nella rete di distribuzione di aiuti alimentari durante i giorni più duri del lockdown. Nell’India a maggioranza hindu, con una leadership che avalla politiche settarie e maggioritarie, le minoranze sono destinate a diventare sempre più un bersaglio, «cittadini di serie B».

La persecuzione delle minoranze religiose è, infatti, significativamente aumentata sotto l’amministrazione Modi: la pandemia non ha fatto che acuire questa tendenza e aggravare le discriminazioni, l’autoritarismo e la violenza.

Benché i cristiani siano stati duramente colpiti dalla pandemia e molti siano stati ridotti alla fame, complici anche le condizioni economiche di molte comunità dal background Dalit e il fatto di essere stati spesso deliberatamente lasciati fuori dagli aiuti ufficiali, le organizzazioni cristiane, come anche quelle sikh e musulmane, sono state in prima linea per assistere poveri e malati.

Sono circa 60mila i posti letto che la Chiesa cattolica indiana ha messo a disposizione grazie alle proprie opere sanitarie per arginare la seconda ondata della pandemia. Le istituzioni sanitarie cristiane si sono concentrate in larga parte sulle aree rurali, quelle più devastate dal contagio, dove le strutture pubbliche sono sottodimensionate e in condizioni pessime.

«Le nostre scuole funzioneranno come centri di isolamento e quarantena; le nostre sedi come centri di vaccinazione; e il nostro personale religioso inizierà una campagna per incoraggiare le persone a vaccinarsi», ha detto il presidente dei vescovi indiani a «Vatican News».

Secondo l’emittente vaticana, molte diocesi indiane si sono attivate mettendo in campo anche metodi innovativi per aiutare ad alleviare le sofferenze della gente: nei giorni dell’emergenza sanitaria, l’arcidiocesi di Bangalore, nel Sud dell’India, ha reso disponibili le sue strutture adibendole a ospedali temporanei per i pazienti Covid. L’arcidiocesi ha inoltre attivato una linea telefonica di supporto per le vittime e i loro familiari, fornendo informazioni sulla gestione domiciliare della malattia e sulla disponibilità di posti letto e ossigeno.

M.T.

 




Con altri occhi

testo e foto di Daniele  Biella |


Portare a scuola le migrazioni in carne e ossa. Per far conoscere ai ragazzi la concretezza delle vite dei protagonisti di un fenomeno troppe volte descritto in modo ideologico. Un rifugiato che si racconta in aula vale più di mille video su YouTube.

Siamo in un paesino della Brianza, in un pomeriggio d’autunno del 2019, quando ancora la pandemia non è entrata nelle nostre vite. Una bambina che sta per finire la scuola primaria, vede da lontano una persona e corre ad abbracciarla. La nonna, rimasta indietro, guarda la scena sbalordita e preoccupata: non conosce, infatti, quella persona, che ha anche il colore della pelle diverso dal suo. Ma la preoccupazione dura pochi attimi, perché la bambina risolve tutto con un sorriso e poche parole. «Nonna, è Wilfrid! È venuto nella nostra scuola a raccontarci la sua vita. È molto bravo e simpatico». La nonna si avvicina al giovane, che è nato nel 1996 in Camerun, e dal 2017 è rifugiato in Italia, e poco alla volta inizia a parlargli.

Una domanda dopo l’altra, la signora è sempre più a suo agio e, al momento dei saluti, la tensione iniziale non ha lasciato alcuna traccia.

«Quando ha saputo che stavo lavorando come aiuto cuoco in un ristorante non lontano da dove abitava, mi ha detto che sarebbe venuta una volta a mangiare. E dopo qualche tempo è accaduto», spiega Wilfrid qualche mese dopo agli alunni di una classe di seconda media mentre io, accanto a lui, osservo i volti divertiti dei ragazzi e della professoressa presente. «Per questo è importante conoscere la storia delle persone. La conoscenza è il primo passo per superare i pregiudizi», aggiungo.

In carne e ossa

Perché mi trovo dentro un’aula scolastica assieme a un giovane rifugiato, davanti a studenti curiosi che, per tutto il tempo dell’incontro, ci riempiono di domande? La risposta si chiama progetto «Con altri occhi».

Ogni anno, come giornalista che si occupa di tematiche migratorie, incontro nelle scuole migliaia di ragazze e ragazzi, in Brianza, ma anche in altre zone d’Italia, per far toccare loro con mano «le migrazioni in carne e ossa», e mostrare come sia possibile guardarle con altri occhi.

Il progetto, iniziato nell’anno scolastico 2016/2017, permette un incontro tanto eccezionale quanto normale: quello tra una persona che si trova in Italia dopo una migrazione forzata e ragazzi che, attraverso il suo racconto, possono capire meglio quello di cui i mass media parlano da anni, quasi sempre con toni accesi: «Gli sbarchi», «le carrette del mare», «l’accoglienza dei richiedenti asilo».

Quello delle migrazioni è un tema complesso che, se non affrontato in modo approfondito e adeguato, può generare disinformazione e luoghi comuni nocivi. Come è avvenuto in diverse situazioni, la persona migrante può diventare il capro espiatorio dei problemi delle comunità.

Narrazione e dialogo

«Il migrante che arriva in Italia dopo la fuga forzata dal suo paese non deve essere trattato con pietismo, non è un “poverino”, ma una persona con le sue caratteristiche che la rendono diversa dagli altri, proprio come me. Più sfortunata, certo, perché, a differenza mia, chi chiede asilo in Italia, o in una nazione non sua, ha dovuto abbandonare controvoglia i luoghi di una vita», dice Sergio Saccavino, direttore di Aeris Cooperativa sociale, storica realtà della provincia di Monza che oggi ha settecento soci lavoratori (soprattutto in ambito di assistenza educativa scolastica). È lui che mi ha chiesto, nel 2016, di diventare formatore per Aeris sulle migrazioni, portando con me persone rifugiate in Italia che la stessa cooperativa ospita in appartamenti della zona secondo il modello dell’accoglienza diffusa aderendo a progetti della prefettura e del ministero dell’Interno.

«C’è bisogno di un racconto diretto di quello che accade. Devono parlare i protagonisti. Noi abbiamo il dovere di fare un investimento culturale in tal senso», aveva aggiunto Saccavino. Detto, fatto: il progetto – che per le scuole è stato gratuito per i primi quattro anni, e che, con l’arrivo della pandemia, è stato strutturato in doppia modalità, online e in presenza, a seconda della situazione specifica – già nel primo anno ha coinvolto 5mila alunni e, a fine anno scolastico 2020-2021, ha raggiunto quota 15mila.

In ogni classe sono proposti due incontri: durante il primo si affrontano con i ragazzi le motivazioni e le dinamiche che spingono gli esseri umani a lasciare la propria casa. Lo si fa anche attraverso un gioco di ruolo e la narrazione diretta di alcuni viaggi giornalistici (su una nave di salvataggio, alle frontiere d’Italia e d’Europa, nei paesi di provenienza di chi arriva nel nostro continente). Nel secondo incontro, accompagno in classe una persona accolta in Italia, allo scopo di instaurare un dialogo a tu per tu con gli studenti.

Il libro

Ultimamente il progetto è diventato anche un libro, dal titolo Con altri occhi. Viaggio alla scoperta delle migrazioni (Fabbrica dei Segni editore, 2020), proprio perché l’ottimo riscontro di interesse verso il progetto ha convinto Aeris e Fabbrica dei Segni ad accordarsi per pubblicare un testo capace di raggiungere chiunque voglia approfondire, adulti compresi.

Ho scritto il libro raccogliendo le testimonianze dei quattro giovani rifugiati che mi hanno accompagnato in classe in questi anni (oltre a Wilfrid, c’è Harris, ghanese, Bourama, maliano, e Mamadou, della Guinea Conakry), ma anche le domande e le considerazioni degli studenti. Queste ultime rappresentano – e lo dico senza alcuna retorica – il modo più efficace per capire quanto le ragazze e i ragazzi (ma anche i bambini, dato che il progetto si rivolge a studenti dagli 8 anni alle scuole secondarie di primo e secondo grado) siano pronti a ragionare su quanto sta accadendo e, soprattutto, a «dire la loro» con responsabilità e senso della realtà.

Le relazioni (e la conoscenza) superano i muri

Andando nelle classi e dialogando in modo fitto con gli studenti, ho riscontrato una conferma non da poco: il concetto di multiculturalità, oramai, è pregnante. Il compagno di classe di origini straniere ha un nome e un carattere, prima di avere una nazionalità, e le relazioni che i ragazzi creano superano «muri» che invece a volte si instaurano nel mondo degli adulti.

Ci possono essere situazioni specifiche di intolleranza o bullismo, ma, in generale, si dice il vero quando si afferma che la scuola è più avanti del resto della società a livello di «gestione delle diversità». E non solo le diversità date dalle provenienze.

Quello che serve agli alunni (e, a volte, anche ai professori, che hanno bisogno formazione specifica per rispondere alle domande dei loro studenti senza trovarsi spiazzati), è avere tutti gli elementi per capire di che cosa si parla quando si discute di migrazioni. A cominciare dalle parole «giuste» (profugo, richiedente asilo, rifugiato, migrante economico, protezione umanitaria) e dalla conoscenza dei luoghi e delle situazioni di partenza delle persone.

«Quali sogni hai?»

«Perché sei partito?», è spesso la prima delle decine di domande che gli studenti pongono alla persona rifugiata durante gli incontri.

Le domande arrivano sempre come un fiume in piena: «Come è stato il viaggio con il barcone?», «quanti soldi ricevi dall’accoglienza in Italia?», «cosa fai durante la giornata?», chiedono gli studenti per capire i meccanismi concreti della migrazione. «Quali sogni hai?», «sei stato trattato male qualche volta, anche per le tue origini?», «cosa pensi del razzismo?», per capire a livello più profondo quello che ha dentro di sé una persona che viene da lontano. «Che squadra tifi?», «che musica ti piace?», «quale città italiana vorresti visitare?», «quale cibo preferisci?», «che numero di scarpe porti?», chiedono per stabilire una relazione orizzontale di normalità.

Le domande trovano sempre una risposta, e spesso fanno scattare confronti e discussioni anche profondi.

«Ho visto emergere ragionamenti e aspetti dei miei alunni che non avevo mai notato», mi hanno detto tante volte maestre, maestri, professoresse e professori.

Coinvolgimento emotivo

Un valore aggiunto del progetto è il fatto che i giovani rifugiati coinvolti parlano bene l’italiano. Si evitano, quindi, incomprensioni e difficoltà di dialogo: le loro storie, i loro racconti, arrivano diritti a destinazione, e spesso sono coinvolgenti a 360 gradi.

Ci sono, infatti, momenti di forte emozione, soprattutto quando i rifugiati parlano, con gli studenti più grandi, dei viaggi difficili e pericolosi che hanno affrontato nel deserto del Sahara o nel Mare Mediterraneo, o delle dure condizioni che devono sopportare le persone migranti e dei trattamenti cui sono sottoposte da parte dei trafficanti di esseri umani nelle prigioni illegali in Libia e nelle altre situazioni di violazioni dei diritti umani.

Uno dei momenti più coinvolgenti è quello nel quale Wilfrid racconta ai ragazzi di una canzone gospel che si è messo a cantare assieme ai compagni di gommone quando l’imbarcazione aveva iniziato a imbarcare acqua dopo la rottura del motore.

Durante il racconto, spesso, Wilfrid ne intona una strofa, creando un’atmosfera di forte empatia.

Empatia che trova sollievo quando il giovane camerunese racconta il miracoloso salvataggio da parte di una nave commerciale di passaggio che poi ha consegnato i naufraghi alla Guardia costiera italiana.

Messaggi su carta

«Quando ci ha raccontato quello che ha passato, si poteva percepire che era molto triste e aveva nostalgia del suo paese, ma nonostante tutto era sempre sorridente e per questo lo ammiro. Questa esperienza mi ha fatto capire molte cose e mi sono emozionata», scrive una ragazza di terza media su un foglietto al termine dell’incontro.

Ogni volta chiedo ai ragazzi, in forma anonima se preferiscono, un pensiero a caldo su quanto vissuto: ne ho raccolti migliaia. Sono diretti, a volte taglienti, mai scontati, veri.

«Dei ragazzi come noi hanno delle storie che meritano di essere ascoltate». «Ho imparato che se vedi una persona in difficoltà devi aiutarla perché ogni persona può fare la differenza». «Non sono una persona che prova pregiudizi verso le persone, ma questa esperienza mi ha chiarito le idee, e penso che gli immigrati siano persone come noi, alcune buone altre di meno». «Quando bisogna giudicare un libro si guarda il contenuto, non la copertina».

Nel libro che nasce dal progetto, una sezione è dedicata a molti di questi messaggi. Un’altra, invece, è dedicata a esempi di contaminazione positiva: piccoli fatti capitati dopo gli incontri in classe (come quello tra Wilfrid, la bambina e sua nonna) che aiutano ancora di più a superare le barriere invisibili del pregiudizio.

Per il resto, il testo riporta con ricchezza di esempi le leve che rendono valido un progetto sulle migrazioni proprio partendo da questa esperienza. L’intento è di spronare altre persone, altri enti, altri giornalisti, altre persone rifugiate a replicarlo in altre zone d’Italia.

Serve guardare il mondo con altri occhi, pur rimanendo se stessi: la conoscenza diretta delle storie di vita, oggi più che mai, è necessaria per fare evolvere questa nostra società nella giusta direzione, ovvero con un’identità forte perché aperta verso il mondo. Una società dove le fake news, le notizie false, non devono trovare terreno fertile.

«Come sta Harris?»

«Non è stato semplice, all’inizio, incontrare gli studenti e raccontare di me e della mia vita. Sono riuscito a farlo, ho preso in mano il coraggio e mi sono aperto, confrontandomi e soprattutto imparando molto da loro», ragiona Harris, il primo testimone coinvolto nel progetto di Aeris. «Ho 20 anni e non ho avuto una vita facile. Conoscere così tanti ragazzi ed essere ascoltato pur essendo giovane, è stata per me una grande scuola di vita. Spero davvero sia stato utile anche a tutti loro, uno per uno».

L’esempio che l’utilità c’è stata, e non solo quella, è arrivato direttamente a me a inizio 2021, ovvero quattro anni dopo l’incontro tra Harris e uno studente di prima media che ora affronta le superiori: «Ciao, mi fa piacere rivederti. Ma soprattutto, come sta Harris?», mi ha chiesto il ragazzo in un incontro fortuito per strada. Aggiungendo: «Sai che, nonostante sia passato tanto tempo, ricordo tutto di quello che ci siamo detti in classe? È uno dei ricordi più incisivi che porto dietro dalla scuola media».

Daniele Biella




Miniere «green»

testo di Daniela del Bene |


La domanda di minerali per la produzione di pannelli solari aumenterà di più del 300% entro il 2050. L’estrazione di cobalto, litio e terre rare per pale eoliche, batterie e veicoli elettrici crescerà a tassi senza precedenti. Viaggio nelle nuove miniere.

In un contesto internazionale di grandi incertezze e sfide sociali ed economiche, la questione ambientale ed energetica si impone come un’asse centrale di possibile cambiamento. Non solo per l’evidenza dei cambiamenti climatici, ma anche perché le risorse energetiche su cui è basata la società industriale sono sempre più scarse e di difficile accesso.

Come risposta alle attuali sfide energetiche, da anni si stanno studiando alternative basate sulle fonti cosiddette rinnovabili: dal solare fotovoltaico all’eolico, passando per varie altre tecnologie e per l’efficienza energetica.

Queste alternative, per importanti e imprescindibili che siano, hanno alimentato un clima di generale (ed eccessivo) ottimismo che sta scoraggiando una riflessione critica. Pur essendo necessario continuare a far ricerca sulle fonti rinnovabili, dobbiamo affrontare alcuni temi di fondo.

Black Rock Solar’s first photovoltaic array was 90 kilowatts to power the school buildings in Gerlach, Nevada.

Tre temi ineludibili

La mole attuale di consumo mondiale di energia e di materie prime sta provocando un livello irreversibile d’inquinamento, di emissioni di gas serra e di degrado di ecosistemi. Questo mette a repentaglio le basi stesse della vita. La crescita economica infinita messa in relazione con i limiti biofisici «finiti» della Terra è dunque il primo tema di fondo da affrontare, come da anni sostiene il movimento per la decrescita e studiosi di tutto il mondo.

Il secondo tema è l’insufficienza delle fonti rinnovabili: anche se riempissimo di pannelli solari o pale eoliche tutti gli spazi disponibili, non potremmo comunque raggiungere l’attuale livello di energia generata dai combustibili fossili.

Il fisico spagnolo Antonio Turiel dell’Istituto de ciencias del mar di Barcellona, lo scrive nel suo libro Petrocalipsis: un sistema basato sulla crescita infinita non si può adattare alle rinnovabili. Esse producono energia in modo intermittente (solo quando c’è luce, o soffia il vento, etc); producono solo elettricità (che costituisce il 20% dell’energia totale che include il carburante per il trasporto o l’energia termica) e, infine, hanno un potenziale limitato: se tutti i governi del mondo si accordassero per consumare solo energia rinnovabile, questa coprirebbe appena il 30% del fabbisogno.

Il terzo tema da affrontare si riferisce alla quantità di energia e materiali necessari per la fabbricazione di pannelli solari e turbine. Da dove li prendiamo? Qual è il costo di estrazione? Quali sono gli impatti ambientali e sociali? Chi gestisce l’infrastruttura per la loro estrazione e lavorazione? I materiali sono solo in parte riciclabili e già sono sorti grandi cimiteri di pale eoliche. Cosa faremo di pannelli e pale dopo la loro vita utile?

Mutanda mining – RD Congo

Energia post Covid

I diversi piani di recupero promossi dall’Unione europea e da altre economie energivore come Stati Uniti, India, Cina, per affrontare la crisi economica post pandemia, stanno sostenendo con ingenti fondi progetti «green», tra cui le rinnovabili su grande scala e la conversione del trasporto verso mezzi elettrici.

Questi piani nascono dall’illusione di tornare alla famosa «normalità di prima», cioè ai livelli di consumo pre-pandemia, e omettono di considerare alcuni «dettagli» importanti, come il fatto, ad esempio, che il territorio occupato per il solare o l’eolico viene tolto ad altre funzioni, come la produzione agricola. Attualmente, infatti, è più remunerativo dare in affitto un campo a imprese di energia rinnovabile che coltivarlo.

La produzione energetica rischia, dunque, di mettere a repentaglio la già martoriata attività agricola e la nostra capacità di nutrire la popolazione. Quali saranno le conseguenze per le famiglie e le piccole imprese agricole? Quale sarà lo stato di salute del territorio tra vent’anni, quando la vita utile di questi mega progetti giungerà alla fine?

Secondo la rivista «Bloomberg new energy outlook», l’energia eolica e solare coprirà il 56% della produzione di elettricità entro il 2050. Secondo la Banca mondiale, la domanda di minerali per la produzione di pannelli solari aumenterà di più del 300% entro il 2050, mentre l’estrazione di cobalto, litio o terre rare per pale eoliche, batterie e veicoli elettrici aumenterà a tassi senza precedenti.

Questa tendenza già si registrava prima del Covid-19. Tuttavia, ora, le grandi imprese dell’energia si stanno accaparrando i fondi per la ripresa a un ritmo fuori controllo, e ciò impedisce una reale riflessione di fondo, cosa che sarebbe necessaria in ogni società democratica.

Miniere in fermento

L’attività mineraria in tutta la sua storia ha sempre provocato impatti ambientali e sociali negativi, tuttavia, oggi, le esplorazioni avvengono su scala più grande, controllata da imprese transnazionali che ne ricavano un profitto molto più elevato dei costi che sostengono, e con un livello di impatto ambientale incomparabile con quello di decenni fa.

Sono tristemente famose le miniere di oro, rame, carbone, bauxite sparse in Sud America, India, Filippine, Sudafrica, e in molti altri paesi. Ma la corsa all’accaparramento di minerali strategici «per la transizione energetica» sta portando all’apertura di nuove miniere, come quelle in Congo Rd e in Spagna.

Il cobalto del Congo Rd

La miniera di Mutanda, in Congo Rd, è attualmente la più grande produttrice mondiale di cobalto.

Si trova nella provincia di Lualaba, nel mezzo dell’area protetta di Basse-Kando.

La legge del paese vieta ogni nuova attività economica nelle aree protette, ma in questo caso non è stata rispettata. La prima impresa a esplorarla fu la congolese Gécamines negli anni ‘80. Dal 2013, la maggior parte delle operazioni sono controllate dalla svizzera Glencore Plc.

Diversi episodi associano le operazioni di Glencore in Congo all’inquinamento del suolo e dell’aria. Uno di questi è avvenuto tra luglio 2013 e settembre 2014, quando alcune sostanze tossiche hanno contaminato circa ventiquattro ettari di terreni nelle vicinanze, proprietà di ventisei famiglie di Moloka.

Ancora oggi è possibile vedere l’inquinamento del suolo dalle immagini satellitari. La vegetazione è completamente scomparsa e non ricresce nulla.

Le uniche azioni intraprese da parte di Glencore, dopo quattro anni dalle prime denunce, sono state quelle di ripiantare alcuni alberi (che si sono ammalati) e risarcire le ventisei famiglie con un totale di 65.330 dollari, una cifra ridicola a fronte della perdita dei mezzi di sussistenza.

Vision of the area Paumo-Banda_ Sud Isiro in Alto Conso in RD Congo, dove si vedere la foresta progressivamente distrutta dalle miniere illegali di coltan (da Google Earth)

Contaminazioni

Il Congo Rd è il paese con la maggior riserva di cobalto conosciuta. Essa fornisce circa la metà della produzione mondiale, e questo a scapito delle comunità locali e degli ecosistemi del paese, in modo simile a quanto accade per il coltan nel Kivu.

L’African resources watch (Afrewatch) e l’Associazione per lo sviluppo delle comunità del Lago Kando (Adclk) hanno lavorato per diffondere la loro preoccupazione per le violazioni dei diritti umani e per l’inquinamento nell’area di Mutanda.

Un altro episodio di contaminazione è avvenuto nella notte tra il 16 e il 17 aprile 2017, un gasdotto è esploso rilasciando un acido tossico. Ancora una volta, gli agricoltori che vivevano vicino alla miniera sono stati colpiti e le loro terre distrutte. Da queste terre, le tossine sono entrate nel fiume Luakusha che sfocia nel lago Kando. Il disastro, quindi, non ha riguardato solo i terreni direttamente contaminati, ma anche l’attività di pesca, l’agricoltura della zona che dipende dalle acque del lago per l’irrigazione, e i cittadini in generale che non hanno più avuto accesso all’acqua potabile.

I residenti hanno iniziato ad avere anche problemi di salute.

La risposta della società mineraria è stata quella di spargere la calce nell’acqua per ridurne l’acidità, ma non è stata sufficiente. Inoltre, le comunità sono state escluse completamente dal processo decisionale.

Per quanto riguarda le condizioni dei lavoratori della miniera, molti lamentano orari troppo lunghi, scarsa retribuzione degli straordinari, discriminazione tra dipendenti congolesi e di altri paesi, e la mancanza di sindacati. I dipendenti hanno anche sollevato preoccupazioni riguardo ai materiali tossici con cui devono lavorare e alle poche misure di protezione adottate.

Mutanda non è l’unica miniera di cobalto nella provincia di Lualaba. Il deposito di Tenke Fungurume, ad esempio, è sfruttato da una compagnia cinese. Anche qui i problemi legati all’inquinamento, alla mancanza di trasparenza e comunicazione con la popolazione, la contaminazione di fonti d’acqua, l’abbandono di famiglie sfollate in tende per oltre due anni senza soluzioni abitative, e la precaria situazione dei lavoratori sfruttati, hanno portato a proteste che sono state represse con violenza, causando anche alcuni morti.

Il caso spagnolo

La domanda di metalli non spinge solo sulle frontiere estrattive dell’Africa o dell’America Latina, ma apre nuove aree di sfruttamento anche «a casa nostra».

Nella zona Sud Occidentale della Spagna, nella comunità autonoma dell’Estremadura, a 800 metri dal centro di Cáceres, città di 96mila abitanti, dichiarata patrimonio dell’umanità nel 1986 dall’Unesco, la società Tecnología extremeña del litio Sl, vuole realizzare una miniera di litio a cielo aperto.

La società è una filiale della joint venture promossa dalle società Valoriza Minería (una sussidiaria di Sacyr Sa) e Plymouth minerals Ltd (che ha cambiato nome in Infinity lithium corporation). Il suo progetto di 412 ettari (estendibile a 1.175) prevede una zona di estrazione di 1.100 metri di diametro e 500 di profondità, un impianto di arricchimento con forno per la tostatura acida, una vasca di evaporazione per il lavaggio dei minerali e 290 ettari di suolo per depositare i residui.

La miniera sorgerà nell’area naturale della Sierra de la Mosca, nella Valle di Valdeflores, un’area ad alta biodiversità di grande valore ecologico e sociale.

Dal punto di vista ambientale, questa catena montuosa collega spazi naturali protetti di grande importanza, è un corridoio ecologico fondamentale per gli ecosistemi della zona. Da un punto di vista sociale e culturale, essa ospita il santuario della Virgen de La Montaña (a 500 metri dalla prevista fossa della miniera), è una zona ricca di sentieri per l’escursionismo ideali per attività ambientali ed educative.

La zona ha un’economia tradizionale (frutteti, oliveti, mandorleti, bestiame, apicoltura e produzione di legna da ardere) e una massa forestale di boschi e prati mediterranei che costituiscono il polmone verde di Cáceres.

zona mineraria nel Sud della RD Congo tra le cittadine di Kiala, Kolwezi e Komoto (da Google Earth)

Batterie per l’Europa

Dietro il progetto della miniera di Valdeflores, si muovono interessi geopolitici per ridurre la dipendenza dell’Unione europea (Ue) dall’importazione di litio. L’Ue è il terzo consumatore mondiale dopo la Cina e gli Usa di questo minerale, per ora estratto principalmente in Australia e Sud America.

Per questo motivo, nel 2017 è stata creata la European battery alliance (Eba) per realizzare una catena strategica per le batterie in Europa che comporterà progetti di estrazione del litio anche in Portogallo, Svezia, Finlandia, Repubblica Ceca, e la costruzione di nuove fabbriche di batterie in diversi paesi, principalmente per gli impianti di assemblaggio di veicoli elettrici già esistenti o pianificati in Europa.

Un accordo firmato tra la società Infinty lithium e Eit inno energy, la piattaforma di investimento pubblico-privata promossa dalla Commissione europea per un finanziamento di 800mila euro destinati alla prima fase del progetto e all’assistenza tecnica per ottenere i 300 milioni necessari per il resto del progetto, testimoniano la grande pressione per l’apertura di questa miniera.

A sostegno degli interessi geopolitici, si fa sempre più forte la retorica ambientale che parla di «mineria verde» o di «climate smart». Un esempio ne sono le dichiarazioni del vicepresidente della Commissione europea Maroš Šefčovič che definiscono «ammirevole» il progetto minerario di Valdeflores.

«Salva la montagna»

I probabili impatti negativi del progetto hanno risvegliato un processo molto interessante di organizzazione cittadina nella popolazione di Cáceres preoccupata per la minaccia al territorio, alla salute e alla ricchezza bioculturale.

A partire dal 2017 si sono tenuti i primi incontri informativi della piattaforma cittadina «Salva la montagna di Cáceres». È iniziata una raccolta di firme e il primo percorso escursionistico a Valdeflores è stato realizzato per informare le persone e divulgare i valori del luogo. Nel corso dei tre anni successivi sono stati prodotti numerosi documenti sui rischi del progetto, video, mappe e manifesti.

Tutti questi materiali sono serviti come base per numerosi dibattiti, workshop, incontri di quartiere. Si è denunciata la vicinanza della miniera alla zona abitata, all’impianto di depurazione dell’acqua (solo 300 metri), all’ospedale e al campus universitario. Si è dato l’allarme circa il probabile impatto sulla salute delle polveri sottili e dei gas tossici prodotti dall’impianto di trasformazione, l’impatto sulle falde acquifere e sulle altre fonti d’acqua.

Grazie a questo lavoro, si sono scoperte molte irregolarità dell’impresa per ottenere permessi, insolvenze finanziarie e studi d’impatto ambientale molto carenti. Si sono così iniziate cause legali che hanno messo in luce una lista di illeciti e azioni compiute dall’impresa senza i dovuti permessi, come l’apertura di una via e l’abbattimento di alberi.

Il Comune di Cáceres, in un consiglio comunale del 2018, ha votato contro il progetto e contro le modifiche al piano generale municipale che erano state sollecitate dall’impresa.

Sono state inviate anche denunce alla Banca europea degli investimenti e alla Commissione europea.

Durante questi anni di mobilitazione, si sono stretti legami con altre realtà che affrontano problematiche simili in Spagna, come con il collettivo ContraMinAcción della Galizia.

Cambiare strada

Dall’Italia e dall’Europa, in molti guardiamo da lontano ciò che avviene lungo le frontiere dell’estrattivismo nel resto del mondo; ora è probabile che quegli scenari si faranno sempre più vicini.

Davvero vogliamo continuare a replicare lo stesso schema di sfruttamento, a scapito della base stessa della nostra vita?

Perché non cogliamo l’occasione per riprendere quei punti profondi di riflessione, a cominciare dal settore energetico, e non pensiamo a come ridurre i consumi, come risparmiare suolo dalla cementificazione, come rendere più resilienti i nostri territori, rigenerare i suoli, le acque, le foreste, come creare sinergie tra il settore agricolo ed energetico, e come rilocalizzare produzione e consumo energetico?

Non ci sono formule magiche, e non è neanche detto che questo basti a evitare scenari climatici molto difficili, ma ormai indietro non si può tornare. Possiamo solo cambiare direzione.

Daniela del Bene




Tu, «padrecito», non capisci niente

testo di Renzo Marcolongo |


Ero sinceramente convinto che una laurea in psicologia mi avrebbe dato una marcia in più al servizio della missione, aiutandomi a capire le persone senza problemi. In realtà le persone sono molto di più di quanto i manuali scientifici riescono a codificare. C’è sempre qualcosa da imparare.

Un pomeriggio a San Vicente del Caguán, una donna mi chiamò al cellulare chiedendo un appuntamento per sua figlia quindicenne che soffriva di depressione. Le ricevetti (la madre, la figlia e la nipotina di 3 mesi) lo stesso pomeriggio, e ascoltai ciò che la madre – molto preoccupata e nervosa – mi diceva: sua figlia non mangiava, non dormiva, si chiudeva in se stessa, si isolava e non voleva parlare. Tutto questo a causa di una vicina che le aveva mandato una maledizione, un incantesimo o una stregoneria, perché invidiosa della ragazza che aveva dato alla luce una bella bambina.

Chiesi alla madre di uscire dal mio studio per poter parlare con la figlia. Dal dialogo capii che la ragazza stava soffrendo di depressione post-partum. In più non era assolutamente felice di essere rimasta incinta a 14 anni e abbandonata dal padre della bambina. Il suo futuro non sembrava per niente roseo. La mia diagnosi di depressione post-partum mi sembrava molto azzeccata (quasi da manuale) e, in questo caso, aggravata da fattori personali.

Con questa diagnosi in mente, invitai la madre a entrare nel mio studio e le spiegai in modo semplice che lo stato di sua figlia non dipendeva da una maledizione e che non c’era motivo di preoccuparsi. Tutto si sarebbe sistemato abbastanza presto. La signora ascoltò incredula le mie parole e, con mia sorpresa, mi disse: «Tu padrecito non capisci niente e troverò un’altra soluzione».

La soluzione alternativa fu quella di consultare i «fratelli» (curanderos tradizionali) che le promisero di eliminare l’incantesimo mettendo sotto il letto della figlia un bicchiere d’acqua benedetta da un sacerdote (probabilmente benedetta da me), per tre notti, e chiedendo un contributo «volontario» di 150mila pesos (35 euro) per ogni bicchiere d’acqua.

Sorriso sotto i baffi

Non so se la neomamma, poi, sia stata meglio. Penso di sì, non tanto a causa dei benefici dell’acqua benedetta posta sotto il letto, quanto perché la depressione post-partum non tende a durare a lungo, a meno che non subentrino complicazioni.

La replica della madre alla mia diagnosi mi sembrò divertente e sotto i baffi mi scappò un sorriso, perché le sue parole avevano messo in discussione i miei 32 anni di esperienza come terapeuta. Tuttavia, con il passare del tempo, le parole di quella donna continuavano a risuonarmi nella mente come un chiodo fisso. Iniziai a chiedermi allora se per caso non mi fosse sfuggito qualcosa nella mia diagnosi, forse un’interpretazione della realtà diversa da come io l’avevo percepita che mi avrebbe permesso di offrire alla ragazza una cura più consona alla sua cultura.

Dal punto di vista della psicologia «scientifica» del mondo occidentale, la depressione post-partum ha una soluzione terapeutica collaudata con un percorso di recupero eccellente.

Però, perché non prendere in considerazione le convinzioni e le credenze delle persone che vivono esperienze emotive in culture diverse da quella del mondo occidentale, cose tutte che influiscono sul benessere della gente?

Qual è l’impatto che il mondo del «sacro» e del «simbolico», che ognuno inconsciamente porta dentro di sé, ha sulla vita quotidiana e sul benessere della persona? Il mondo sacro e simbolico è un serbatoio di senso e significati che le persone usano per vivere1.

Identità e culture

Il mondo personale e intimo di ogni essere umano possiede una sinfonia, un insieme di valori, miti, visioni sulla natura umana, su ciò che è «normale e anormale», su ciò che è «salute e malattia» (fisica o mentale), sulle cause di essere sani o malati, sul significato di «maturità», su come ricostruire i rapporti familiari e sociali distrutti e scoprire chi o cosa li ha distrutti. È una sinfonia trasmessa dalle generazioni passate e interpretata nel presente da persone che condividono e assumono ciò che è importante per il gruppo di appartenenza che, a sua volta, offre un’identità.

Identità: un termine che viene dal latino idem, che significa «lo stesso – medesimo» e si applica alla persona. La mia identità dice chi sono io con le mie caratteristiche che mi distinguono dagli altri; e si applica anche all’identità di un gruppo che crea e modella ciò che è importante per il gruppo stesso e i suoi membri. Comprendere l’identità di un gruppo significa entrare più profondamente nella mente di una persona che ne fa parte e ccapire le visioni e le percezioni del suo mondo. E questo favorisce la diagnosi e il cammino terapeutico.

Il contributo della psicologia scientifica occidentale può «guarire» la mente spiegando le dinamiche psicologiche che sono in gioco. Ma in un mondo non occidentale, non sempre la psicologia riesce a «guarire» l’insieme della mente e del cuore che formano un’unità nella persona. Il limite della psicologia scientifica è quello di non dare la dovuta importanza ai mondi simbolici e diversi che creano e organizzano tutta la vita delle persone nella loro mente, nella loro salute e nelle loro relazioni.

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Un mondo di relazioni

Quella donna che scelse di avvicinarsi ai «fratelli» e non a uno psicologo «qualificato», fece una scelta culturale, sociale e religiosa, attingendo alle sue percezioni del mondo e ai suoi valori. Cercava un «significato» per quello che stava accadendo a sua figlia, e il significato offerto dalla psicologia non possedeva il peso affettivo, né il valore emotivo che i «fratelli» le offrivano. Le emozioni e il cuore furono più potenti ed efficaci della scienza e del cervello.

Quello che per me era un disturbo interno, mentale, personale e passeggero, per la donna era la conseguenza di un mondo esterno che entrava nella persona; un mondo di relazioni sociali negative segnate dall’invidia. E questo mondo esterno era percepito come la causa della sofferenza e di lì la necessità di sconfiggerlo.

Incontro tra Psicologia e cultura

Possiamo parlare di incontro tra psicologia e cultura? Possiamo incoraggiarlo? Sarà possibile?

Credo che per favorire l’incontro tra il cosmo (che significa ordine) scientifico e quello dell’esperienza culturale, sia necessario un «interprete», pur cosciente che l’interprete è, per forza di cose, sempre un po’ un traditore: è impossibile, infatti, tradurre da un universo culturale a un altro in modo fedele il significato profondo di una parola, un’espressione, un sentimento, un’esperienza sociale, emotiva e strutturale di un gruppo. L’ordine sociale espresso a parole, in culti e musica è ben compreso solo da coloro che appartengono a quel gruppo. Gli altri possono capirlo teoricamente ma non emotivamente.

Quello che imparai personalmente fu che la mia diagnosi era stata parziale perché non aveva incluso il mondo culturale di madre e figlia, mondo che formava e interpretava le manifestazioni delle malattie fisiche e mentali.

Ora mi rendo conto che lè importante nella guarigione della persona, per restituirla alla sua comunità sana e ristabilita, scoprire, assieme alla diagnosi psicologica, qual è la sua visione del mondo. In questo modo si può ricostruire quell’identità specifica che appartiene alla grande sinfonia di identità individuali che formano la persona e che la fanno sentire parte di un gruppo.

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Questione di armonia

Ricostruire l’identità significa ricostruire l’armonia del gruppo ed eliminare quella dissonanza che danneggia la melodia dello stesso.

Ognuno ha dentro di sé un equilibrio emotivo che gli permette di vivere con tranquillità la propria esistenza, interpretando il suo mondo. Questo equilibrio può apparire fragile agli occhi di uno straniero, ma non alla persona che lo vive.

Ora ho imparato che, come psicologo, non posso più fidarmi solo del quadro interpretativo della malattia mentale offerto dalla psicologia. Se veramente mi sta a cuore la guarigione completa della persona è essenziale comprendere il mondo interpretativo (quadro di riferimento) del suo cosmo, collegando così la guarigione a tutta la persona.

La storia di Teresa

E fu così che, con questa esperienza e riflessioni, affrontai, alcuni mesi dopo, il caso di Teresa (un nome fittizio per proteggere la sua identità).

Teresa mi aveva chiesto un incontro, perché si sentiva agitata da uno spirito che non le permetteva di vivere bene (era depressione), e lo spirito proveniva da una persona che la malediceva e la odiava senza che Teresa ne sapesse le ragioni. Le prime sessioni, durante le quali Teresa acquistò fiducia in me, furono seguite da incontri nei quali lei entrava in trance cambiando tono di voce, personalità e raccontando episodi dolorosi della sua vita. Al risveglio Teresa diceva di non ricordare nulla, però lo «spirito» del trance mi dava informazioni importanti su avvenimenti passati e su sentimenti percepiti come troppo dolorosi per accettarli coscientemente.

Ciò mi diede la possibilità di affrontare emozionalmente situazioni del suo passato dolorose e traumatiche.

Il cammino verso la guarigione sembrava stesse funzionando bene, fino a quando, in una delle sue ultime sessioni, lo «spirito» mi chiese – durante un trance – che, come sacerdote, andassi nel suo campo per rimuovere e distruggere una ciotola sepolta lì dal «nemico» che conteneva le maledizioni e lo «spirito» stesso, e per esorcizzare il terreno.

Accettai di andare, e pur non trovando alcuna ciotola, nonostante il figlio avesse scavato in vari posti indicati dallo «spirito» (mentre Teresa era in trance), spiegai che senza dubbio la ciotola di cocco si era sciolta, consumata dopo cinque anni sotto terra e che, con quella, era sparito anche lo «spirito» e la maledizione.

Feci l’esorcismo del terreno, e la presenza calma e silenziosa di un cane confermò che non c’era più nulla di malefico nella tenuta (secondo la cultura spiritica dei «fratelli», i cani abbaiano quando sentono la presenza di uno spirito o di una maledizione).

Teresa entrò e uscì dalla trance ancora una volta, dopo di che si sentì integralmente libera. Ringraziò e abbracciò i presenti e da allora la sua guarigione fu completa.

Darsi una mano

Ho incontrato Teresa molte altre volte camminando per le strade del paese, e ho notato che è ben inserita nella sua famiglia e nella sua comunità.

Mi sono convinto che il semplice intervento psicologico non sarebbe stato sufficiente se non avessi percepito gli aspetti emotivi, sociali e spirituali di Teresa. L’esorcismo ha dato un’ulteriore risposta al malessere e disagio di Teresa completando così il lavoro terapeutico.

Credo sia fondamentale per ogni disciplina (scientifica o tradizionale) saper riconoscere i propri limiti, liberandosi dalla pretesa di sapere tutto e risolvere tutto.

Scoprire il mondo delle immagini, del divino e del simbolico di una cultura, collegandolo con la storia vissuta della persona, ci porta a una visione più completa delle persone e quindi a inventare nuovi cammini per risanare e curare.

Dandosi la mano, scienza, mondo tradizionale e spirituale, possono favorire un benessere più profondo e significativo nella gente. E questo è il mio ministero qui, a San Vicente del Caguán.

Renzo Marcolongo

(1) Sono grato a David W. Augsburger che con il suo libro «Pastoral counselling across cultures» (WP Philadelphia, 1986), mi ha molto aiutato a diventare culturalmente sensibile e aperto a nuove interpretazioni della realtà.

Padre Marcolongo Renzo, celebrando l’Eucarestia in casa generalizia a Roma