Haiti: Una vita in lockdown


Il paese dei Caraibi, nel Settecento la colonia più ricca al mondo, e seconda nazione indipendente delle Americhe, oggi vive una situazione di «stato fallito». Non è una questione di sfortuna. Le cause storiche e geopolitiche sono precise e definite.

È la notte tra il 6 e il 7 luglio 2021. Un commando di una trentina di uomini vestiti di nero si introduce nella residenza del presidente della Repubblica di Haiti, Jovenel Moise, senza sparare un colpo. Giunti in camera da letto, scaricano raffiche di mitragliatore sul presidente, poi infieriscono brutalmente sul suo cadavere. La moglie Martine resta ferita e, evacuata a Miami, si salverà. Le macabre immagini del corpo martoriato fanno il giro dei social, a bella mostra di quanto è successo.

Chi era Jovenel Moise

Moise era espressione della classe borghese del paese, in particolare dei neo arricchiti, non delle famiglie dell’oligarchia storica. Lui aveva fatto i soldi con l’agro business, l’export delle banane, e per questo era chiamato Nèg banann, in creolo, l’uomo delle banane. Era succeduto al presidente Michel Martelly (2011-2016), come suo candidato designato, del suo stesso partito, il Partito haitiano tèt kale (Phtk), di estrema destra, filo duvalierista. Aveva inizialmente perso le elezioni contestate (ottobre 2015) e, dopo un anno di transizione, con il presidente a interim Jocelerme Privert, era stato eletto nel novembre 2016 entrando in carica il 7 febbraio 2017 (cfr. MC aprile 2017).

Moise, in contrasto con la Costituzione, aveva poi evitato di organizzare le elezioni alle scadenze fissate, sia per gli eletti locali, che per il parlamento, il cui mandato si era concluso nel gennaio 2020.

Da allora legiferava per decreto, intervenendo anche su aspetti molto delicati delle istituzioni haitiane. Stava inoltre preparando una riforma costituzionale – percorrendo però una procedura  anticostituzionale – che avrebbe aumentato ulteriormente i poteri del presidente.

La popolazione lo aveva duramente contestato già nel 2018 e poi di nuovo, con manifestazioni che avevano bloccato il paese, dall’autunno 2019.

C’era pure una diatriba sulla scadenza del suo mandato, che sarebbe stata il 7 febbraio 2021, ma che lui aveva portato al 2022, giocando su un’ambiguità costituzionale (cfr. MC marzo 2021).

Photo by Ricardo ARDUENGO / AFP

Il dopo Moise

All’indomani dell’efferato assassinio, che sciocca il paese, si innesca una contesa a tre per la gestione della transizione. I protagonisti sono: Claude Joseph, primo ministro in carica, ma sfiduciato dallo stesso Moise che due giorni prima di essere ucciso aveva designato una nuova figura, il dottor Ariel Henry, a succedergli. Il secondo è Henry stesso, che rivendica la nomina. Infine il terzo è Joseph Lambert, presidente di un terzo del senato (composto da dieci senatori, un terzo del totale, non scaduti, perché la Costituzione ne prevede il rinnovo di un terzo ogni due anni), le uniche cariche elette rimaste nel paese.

La Costituzione del 1987, emendata, prevederebbe (art. 149) che, in caso di vacanza improvvisa del capo di stato, sia il presidente della Corte di Cassazione a prendere la guida del paese, ma il giudice René Sylvestre è morto un mese prima dell’omicidio, a causa delle complicanze del Covid-19.

Come spesso è accaduto nella storia di Haiti, è un intervento esterno che prevale su tutti. Il cosiddetto Core Group (coordinamento delle ambasciate di Germania, Francia, Stati Uniti, Canada, Spagna, Unione europea, e rappresentanti di Organizzazione degli stati americani, e Nazioni Unite), i paesi «amici» di Haiti, appoggia apertamente Ariel Henry, che diventa dunque premier de facto di un governo de facto. Esso infatti non potrà essere validato da un parlamento, che non esiste, e non potrà gestire il potere esecutivo insieme a un presidente della Repubblica che non c’è. Un «deserto istituzionale» senza precedenti.

Un popolo in ostaggio

La morte violenta del presidente fa precipitare la già precaria situazione di sicurezza del paese. Se le gang (bande armate di malviventi, in creolo) sono sempre esistite, e negli ultimi anni erano diventate più forti, adesso si dividono il controllo di gran parte del territorio, nella capitale come nelle principali vie di comunicazione.

La gang di Jimmy Chérisier, detto Barbecue, che si fa chiamare G9 an fanmi ak alye (Gruppo 9 in famiglia e alleati), nei mesi di ottobre e novembre 2021 arriva a impedire la fuoriuscita delle autobotti dal terminale petrolifero di Varreux (gli autisti sono uccisi o rapiti), bloccando di fatto il funzionamento del paese per mancanza di carburante. I prezzi dei trasporti e di tutti i generi alimentari, anche di base, si impennano e molti servizi, inclusi ospedali e banche, devono chiudere. Gran parte dell’energia elettrica ad Haiti è infatti prodotta da centrali termiche e da gruppi elettrogeni privati.

Barbecue, vicino al presidente assassinato Moise, chiede le dimissioni di Ariel Henry. Poi, quasi fosse il capo di stato, pubblica un video in cui dichiara una tregua di una settimana, in onore della battaglia di Vertières (18 novembre 1803: la vittoria dell’esercito «indigeno» contro l’armata napoleonica, porta all’indipendenza), lasciando uscire i camion dal deposito. Nello stesso video dice di essere a capo di un gruppo rivoluzionario, denuncia la fame del popolo e dunque chiama i suoi seguaci a prendere le armi perché «la rivoluzione sta per cominciare».

Nella festa di commemorazione della morte di Jean-Jaques Dessalines, padre della patria, il 17 ottobre, la stessa gang impedisce al primo ministro de facto, al capo della polizia Léon Charles (che si dimetterà a fine ottobre), e al loro seguito, di svolgere la cerimonia di suffragio. I suoi uomini attaccano la scorta che batte in ritirata, e in seguito Chérisier in persona, a volto scoperto e in giacca bianca, deposita una corona di fiori alla base della stele che ricorda l’assassinio di Dessaline a Pont Rouge (Port-au-Prince).

Photo by Richard PIERRIN / AFP

Rapimenti

Un’altra gang famosa, la 400 Mawozo, controlla l’uscita Nord della capitale e la strada principale verso la frontiera con la Repubblica Dominicana. È nota per alcuni rapimenti di massa. Il 16 ottobre compie un salto di qualità, sequestrando 17 stranieri (16 statunitensi e un canadese), missionari protestanti legati all’organizzazione Usa Christian aid ministries. Il rapimento di stranieri, che finora non è una pratica frequente, è la punta dell’iceberg di un fenomeno che si è esteso a tutti i livelli sociali. Chiunque può essere rapito, e i riscatti richiesti variano da decine di migliaia di dollari a milioni. Spesso, se il riscatto non è pagato, il malcapitato viene ucciso.

«I rapimenti sono una media di quattro, sei al giorno, mentre abbiamo contato una media di cinque omicidi al giorno nei primi sette mesi del 2021», ci dice Antonal Mortimé, segretario generale di Defenseur plus, associazione per la difesa dei diritti umani ad Haiti.

«La situazione è molto peggiorata dopo l’assassinio del presidente Moise, e la gente vive un clima di terrore quotidiano. Possiamo dire che il diritto alla vita è negato, in questo momento, nel paese».

Mortimé, contattato telefonicamente, ci descrive la mappa delle gang che controllano la capitale Port-au-Prince, a Nord, Nord-Est, Sud e al centro: «Siamo circondati, siamo presi in ostaggio in modo collettivo. Abbiamo paura di portare i bambini a scuola, di andare all’Università, o al lavoro. Poi ci sono tante micro gang, in guerra tra di loro».

E continua: «Ariel Henry non ha saputo ristabilire l’autorità dello stato, la sicurezza, la fiducia dei cittadini».

Un popolo sotto controllo

«Non è un fenomeno di oggi, i gruppi armati erano presenti già 30 anni fa», ci ripete una fonte autorevole haitiana, che chiede l’anonimato, perché «qui ti ammazzano per molto poco». «Le gang sono organizzazioni paramilitari, come erano i Macoute al tempo dei Duvalier, create per controllare la popolazione. Sono i grandi proprietari terrieri e i grandi padroni dell’import-export che, in accordo con il potere fascista (del partito Phtk, nda), hanno messo in piedi e controllano le gang. Fanno parte dell’azione repressiva del Phtk».

Alcuni osservatori sostengono che questi gruppi armati stiano andando fuori dal controllo di chi li ha creati e finanziati. Il nostro interlocutore non è d’accordo: «Le gang si scontrano con la polizia, ma questa è una contraddizione secondaria. Ci sono battaglie tra gang per il controllo del territorio, dei traffici di droga, ma anche questo è secondario rispetto alla repressione perpetrata ai danni della popolazione. Ci sono gang che tentano di diventare autonome, ma non ci riusciranno. L’imperialismo (intende il controllo esercitato da parte dei paesi vicini, gli Usa in primis, nda), che ha l’ultima parola, non lo permetterà, come è già successo tante volte in America Latina».

E continua spiegando l’approccio comunicativo delle gang: «A volte i loro leader dicono che lottano per la popolazione, come Chérisier, che va in video e accusa i borghesi, e dice di volere le dimissioni del primo ministro Ariel Henry. Ma è l’esatto contrario. Se davvero volessero, potrebbero andare a prenderlo quando vogliono, perché sono più forti della polizia».

In effetti le forze di sicurezza, sebbene siano state formate per decenni dalle Nazioni Unite (missione dei caschi blu Minustah dal 2004 al 2017, preceduta dalla Minuha 1993-96, e oggi sostituita dalla più leggera Binuh, Ufficio integrato delle Nazioni Unite ad Haiti), sono incapaci di opporsi alle bande, e spesso i poliziotti vengono ammazzati. Anche le neonate Forze armate d’Haiti, sciolte dal presidente Jean-Bertrand Aristide nel 1994, e ricostituite da Jovenel Moise nel 2017, non hanno mezzi né risorse.

La piramide del potere

«Ad Haiti – continua il nostro interlocutore – esiste una borghesia industriale, ma è dominata dalla borghesia del commercio (o dell’import-export) che è molto forte e blocca lo sviluppo industriale.

Questa classe dominante non ha però la forza di eliminare il sistema precapitalistico, ovvero quello dei latifondisti, in quanto ha bisogno di loro, sia per la produzione di alimenti da esportazione (caffè, zucchero, banane…) sia per reprimere le rivendicazioni popolari dei piccoli contadini.

D’altro lato l’influenza imperialista, soprattutto statunitense, ma anche canadese, francese, che si appoggia su questa classe dominante, ha dei chiari progetti per il paese».

Si riferisce a quattro settori strategici principali: le zone franche con le manifatture del tessile (aree industriali libere da tasse, delle quali abbiamo parlato in MC gen-feb 2014 e maggio 2016); l’agro industria; le ricchezze del sottosuolo e il turismo di alta gamma.

Manifattura tessile

Le zone franche del tessile fanno parte di una strategia delle multinazionali su Haiti da decenni. Sono state ulteriormente spinte dalla famiglia Clinton (Bill e Hillary) come strategia di ricostruzione dopo il terremoto del 2010. Nel giugno di quell’anno Bill Clinton divenne co-presidente, insieme al primo ministro Jean-Max Bellerive, della Commissione ad interim per la ricostruzione di Haiti. Ma di fatto comandava lui. La grande zona franca industriale di Caracol, nel Nord del paese, ad esempio, ha visto un grosso coinvolgimento di Hillary. Inaugurata nell’ottobre del 2012, è gestita da manager e capitali sudcoreani (per Clinton-Haiti si veda MC gen-feb 2014). Altre aree sono quella di Ouanaminthe (Codevi), al confine Nord con la Repubblica Dominicana, comoda per portare i manufatti direttamente oltre frontiera, e alcune più recenti a Santo (Croix-de-Bouquet, Nord della capitale), la Apaid & Baker Sa, e Carrefour (a Sud), la Palm Apparel, oltre a quella storica nei pressi dell’aeroporto di Port-au-Prince, la Sonapi. In tutte queste zone industriali, libere da tasse, vengono assemblati vestiti per i grandi brand statunitensi e non solo. Si tratta di un grande serbatoio di manodopera a bassissimo costo, a due passi dagli Stati Uniti.

Il punto cruciale, più in generale, sta nel costo del lavoro. Il salario minimo dignitoso è una lotta affrontata a più riprese dai sindacati haitiani, in particolare nel tessile, ma non solo.

Un sindacalista ci racconta: «Oggi il salario minimo è di 500 gourde al giorno, che al tasso di cambio attuale equivale a 5 dollari. Nel 2009 era di 70 gourde (1,75 dollari con il cambio dell’epoca), ma noi ne chiedevamo 250 (6,25 Usd). Uno studio di economisti haitiani e statunitensi indipendenti, aveva calcolato che per far vivere una famiglia di quattro persone, undici anni fa occorrevano 1.100 gourde al giorno (27,50 usd). Ce ne concessero 125 (poco più di 3). Oggi l’operaio del tessile salta sistematicamente il pranzo, bevendo un goccio di kléren (distillato grezzo di canna da zucchero, dal costo irrisorio, nda) per resistere al pomeriggio. Altrimenti non porterebbe a casa nulla. Inoltre, sono quasi tre anni che il salario minimo non è stato rivisto, mentre la svalutazione della moneta nazionale è stata elevata».

Agro industria

La borghesia agro industriale è un gruppo socioeconomico che sta emergendo. Ne era espressione lo stesso Jovenel Moise. Un caso esemplificativo è l’area di Savane Diane, dove l’imprenditore Clifford Apaid (di una delle famiglie più ricche di Haiti) sta impiantando la sua compagnia Stevia agro industries (Stevia Sa), per un investimento stimato di 250 milioni di dollari (1). Su circa 8mila ettari, a cavallo di tre dipartimenti, la cosiddetta Export processing zone, produrrà manioca, zucchero di canna, avocado e stevia. La stevia (s. rebaudiana) è un dolcificante ipocalorico naturale molto utilizzato nei paesi ricchi in sostituzione dello zucchero, ad esempio è usato dalla Coca-Cola per le bibite in versione light. L’area, chiamata «Zone franche agro industrielle d’exportation de Savane Diane», è stata creata grazie a un decreto presidenziale (di Moise) dell’8 febbraio 2021, che la definisce una «zona franca» ovvero «tax free zone», o zona senza tasse. Il decreto ha reso operativo un accordo firmato tra il Consiglio nazionale delle zone franche (Cnzf), rappresentante lo stato haitiano, e Nina Apaid, presidente della Stevia Sa, nell’ottobre 2019. L’operazione prevede l’esproprio di terre ai piccoli contadini e il loro impiego come braccianti (a salario minimo).

Nel decreto salta all’occhio la frase: «Considerando l’impegno delle autorità pubbliche di prendere tutte le misure necessarie per promuovere lo sviluppo socio economico del paese, in particolare attraverso la realizzazione di zone franche».

Il sottosuolo

Una risorsa non ancora sfruttata, ma presente nel paese, è quella mineraria. Secondo diverse prospezioni, fatte in Haiti e in Repubblica Dominicana (Rd), è presente una ricca vena che taglia l’isola di Hispaniola da Nord Ovest al centro, passando per Santiago (Rd). Sono stimate buone quantità di oro, argento e rame.

Alcune multinazionali che sfruttano già il sottosuolo in Rd, hanno fatto prospezioni ad Haiti, stanno firmando accordi di sfruttamento e stanno procedendo all’installazione di siti estrattivi (2). Naturalmente questo sta causando l’esproprio di terre ai piccoli contadini, i quali hanno dato vita al Komite jistis min (in creolo: Comitato giustizia miniere), per opporsi allo sfruttamento indiscriminato delle imprese minerarie internazionali. Attualmente si tratta di zone nel Nord Est del paese, come Grand Bois e Morne Bossa.

Photo by Richard PIERRIN / AFP

L’ultima frontiera

L’ultimo ambito dello sfruttamento del paese da parte di compagnie internazionali, in joint-venture con l’oligarchia locale, è quella del turismo di alta gamma. Ne avevamo parlato in MC (gen-feb 2014) quando ci eravamo chiesti perché parte dei soldi per la ricostruzione post terremoto 2010 erano stati impiegati per costruire grandi hotel di lusso. Oggi il processo continua: «Ci sono compagnie straniere in diverse zone di interesse turistico. Parlo delle isole Tortue (Nord), Gonave, e poi Mole St. Nicolas e di altre spiagge notevoli. Stanno facendo gli studi per impiantare dei resort. E per far questo manderanno via i contadini e assumeranno personale pagandolo con il salario minimo. Un’ulteriore proletarizzazione del produttore agricolo haitiano», rincara il nostro interlocutore.

«Il grosso problema in tutto questo, è che l’opposizione liberale, oltre ovviamente la destra al potere, non mettono in discussione questi mega progetti né il salario minimo». La mano d’opera a bassissimo costo, oltre che la svalutazione continua della moneta nazionale, è infatti il propulsore dello sfruttamento delle risorse naturali e umane di Haiti.

il primo ministro ad interim, Claude Joseph (a sinistra) si congratula con il primo ministro de facto, Ariel Henry (designato dal Core group), durante la commemorazione per il defunto presidente Jovenel Moise, al Pantheon di Port-au-Prince, il 20/07/21. (Photo by Valerie Baeriswyl / AFP)

Perché uccidere il presidente

Torniamo da dove siamo partiti. Perché il presidente Jovenel Moise è stato ucciso e perché con modalità tanto efferate?

Le analisi concordano su un regolamento di conti interno alla classe politica dominante, allo stesso partito Phtk di Michel Martelly e Jovenel Moise.

Un attivista haitiano nel settore dei diritti umani, da noi contattato, che ci ha chiesto pure lui l’anonimato, si esprime così: «Si tratta di un vasto complotto, ben pianificato, che vede coinvolta la mafia haitiana e quella internazionale, insieme a quella che chiamiamo borghesia conservatrice e classe politica tradizionale haitiana. Moise ha sfidato quelli che chiamiamo gli oligarchi, le grandi famiglie più ricche di Haiti, anche se per accedere al potere ha avuto il loro supporto. Ha tentato di sfidarli, riducendo il loro margine di manovra, togliendo certi privilegi, aumentando alcune imposte. Tutto ciò ha prodotto una reazione fino al complotto. Sono passati attraverso la stessa Guardia presidenziale, i cui membri sono stati pagati affinché consegnassero il presidente. Si tratta di un crimine internazionale, costato milioni di dollari, che ha mobilitato decine di persone e materiale militare sofisticato».

In effetti, pure il vilipendio del cadavere, e la sua esposizione sui social media, pare un messaggio chiaro, mandato a chi vuole fare politica ad Haiti: se ci sfidate, ecco cosa può succedervi.

Attualmente, l’inchiesta in corso è condotta dal giudice istrutture Garry Orélien, che ha sostituito ad agosto Mathieu Chanlatte, dimissionario. Una trentina di accusati sono agli arresti, tra i quali ex militari colombiani e tre haitiani-americani. Tra loro lo sconosciuto Christian Emmanuel Sanon, indicato come leader dell’attentato, colui che avrebbe voluto prendere il potere. Molto probabilmente l’uomo di paglia degli ideatori del complotto.

Avvisi a comparire davanti al giudice sono stati emanati ai miliardari uomini d’affari haitiani Réginald Boulos, Jean-Marie Vorbe e Dimitri Vorbe, e agli ex senatori Steven Benoit e Yuri Latortue, come riporta The Strategist, dell’Australian strategic policy institute, un think thank australiano di studi strategici(3).

L’arrestato più illustre è Samir Handal, fermato il 15 novembre scorso all’aeroporto di Istanbul.  Haitiano di origine palestinese (e residente a Miami), fermato grazie a un mandato d’arresto dell’Interpol, fa parte dell’oligarchia haitiana. Si stava recando in Giordania, provenendo da Miami. Dovrà essere estradato ad Haiti.

Il giudice Orélien ha ricevuto numerose intimidazioni: il suo ufficio è stato forzato da ladri nella notte tra il 27 e il 28 ottobre, la sua auto presa a fucilate lo stesso giorno, e uomini armati hanno cercato di fare irruzione, sempre nel suo studio, a inizio novembre.

Chi governa adesso?

Hillary Clinton (all’epoca segretario di stato Usa) inaugura il parco industriale Caracol, a Nord, il 22 ottobre 2012. Zona franca per la manifattura tessile, fortemente voluta da lei e dal marito, l’ex presidente Bill Clinton. (Photo by LARRY DOWNING / POOL / AFP)

Intanto la dinamica politica vede opporsi il governo de facto di Ariel Henry (che è stato ancora rimaneggiato il 24 novembre scorso, con il cambio di 8 ministri su 18) appoggiato da Core group e Binuh, e l’opposizione democratica, firmatari del cosiddetto accordo del 30 agosto, che chiede un processo di transizione differente. Si cerca una «riconciliazione nazionale» sul piano politico.

Gli obiettivi del nuovo governo de facto, dice Henry il 25 novembre, sono ristabilire la sicurezza, la riforma costituzionale e portare il paese alle elezioni a tutti i livelli. Il problema immediato è un deficit di bilancio statale. Un budget di circa 254 miliardi di gourde (2,5 miliardi di dollari), ma le casse dello stato ne avrebbero solo 96, di cui 30 già impegnati per sovvenzionare il carburante.

Come se non bastasse, un forte terremoto ha colpito il Sud Ovest del paese il 14 agosto, causando 2.246 morti e 329 dispersi e perdite economiche stimate di 1,6 miliardi di dollari. I bisogni recensiti per la ricostruzione sono di 1,97 miliardi.

Ma occorre ricordare che, dalle casse dello stato, mancano circa 3 miliardi di dollari, «evaporati» con lo scandalo PetroCaribe.

Marco Bello
(fine prima puntata/ continua)


Note
1 • Haiti-agriculture: new agro-industrial export free zone, Haiti Libre, 12/02/2021.
2 • Ruée vers l’or en Haiti, Enquet’action, 10/06/2020.
3 • Who benefits from insecurity in Haiti?, The Strategist, 14/07/2021.




Storia di Elena Givone, la fotografa dei sogni

foto di Elena Givone |


Un’idea geniale per far sognare i bambini che vivono in realtà difficili. Un’idea che porta Elena ai quattro angoli del pianeta a conoscere storie e desideri di bimbi e ragazzi. Un esempio di fotografia «umana» e umanitaria al tempo stesso.

È il 2011 quando Elena decide di andare in Sri Lanka ospite di una residenza per artisti: il suo progetto è quello di insegnare la fotografia ai bimbi di One world foundation, un’associazione senza fini di lucro che garantisce ai ragazzi delle zone rurali più povere di poter studiare. Si tratta di bambini e adolescenti che non possono permettersi nulla, spesso un solo pasto al giorno e, in ogni caso, non certo grandi sogni. Elena pensa alla fotografia come forma di emancipazione e possibilità di lavoro. Si tratta di una sfida, un’utopia, forse, che Elena, come dimostrerà più avanti, realizzerà.

Scuola di fotografia

Elena istituisce la prima scuola di fotografia in Sri Lanka. Il diploma che i ragazzi conseguono consente loro di accedere a finanziamenti per proseguire gli studi, iscriversi all’università e costruirsi un futuro.

Arrivata per stare qualche mese, la fotografa si ferma per quattro anni. Oltre a insegnare fotografia, infatti, inizia a elaborare un’idea. Vivendo a stretto contatto con i ragazzi e i bambini, comprende che la cosa più difficile per loro è qualcosa di scontato da altre parti del mondo, quasi banale: sognare, immaginare. Realizza così il progetto «Dream from my magic lamp».

Si tratta di una serie di ritratti dei bimbi, dei ragazzi e degli operatori che vivono, studiano e lavorano all’interno di One world foundation. Ognuno di loro viene fotografato sul medesimo sfondo azzurro con una lampada in mano. Un colore che richiama il volo, la fantasia, la libertà. Tutti debbono chiudere gli occhi e immaginare quale sia il proprio sogno. Il progetto è un successo: la fantasia non ha limiti, non conosce fame, né povertà, né disperazione. Ne nasce un libro e un lavoro che varca i confini dello Sri Lanka e arriva in Myanmar, dove Elena decide di portare avanti il proprio lavoro che sempre più si incanala nella direzione umanitaria: c’è un’idea di restituzione dell’infanzia, della bellezza, della leggerezza che anima questa giovane donna e che la spinge a cercare e infine a trovare la bellezza anche nei luoghi più dolorosi. In Myanmar Elena non utilizza più una lampada, ma una coppia ci civette scolpite nel legno, un oggetto simbolico per questa parte del mondo. In questi luoghi conosce l’estrema povertà e la solitudine: sono molti gli orfanotrofi popolati di bimbi che i genitori non possono permettersi di mantenere.

Dal Myanmar Elena parte per l’Ucraina. Qui collabora con La matrioska Onlus.

Il suo progetto sul tema del sogno cresce ancora e raggiunge i bimbi vittime dell’incidente nucleare di Chernobyl.

L’oggetto del sogno è proprio una matrioska: un simbolo di protezione, di maternità. Ogni matrioska infatti ne contiene un’altra fino a quella più piccola, che è il seme, il simbolo del bambino.

Per questi bambini, infatti, che una mamma non l’hanno mai avuta, poter raccontare il proprio bisogno di tenerezza e protezione assume un valore di liberazione.

Rifugiati

Il sogno di Elena non si ferma e anzi, è solo all’inizio. Dopo Sri Lanka, Myanmar e Ucraina, è la volta dei bambini siriani di Aleppo, che si trovano in un campo profughi in Grecia a Ritsona, una penisola a circa 70 km da Atene. Qui il progetto si arricchisce ancora: viene realizzato un libro «Rafi the refugee rabbit», una storia illustrata con protagonista un coniglietto che racconta il suo viaggio pericoloso e disperato, insieme alla propria famiglia, alla ricerca di una nuova casa.

È un libro che racconta il trauma della guerra e della fuga con immagini delicate, ma allo stesso tempo reali, e che cercano di mostrare anche ai bimbi nati in una parte del mondo non afflitta da guerre e povertà, cosa significa dover fuggire, perdere tutto e poi provare a ricominciare.

Sarà dunque un coniglio il simbolo di questo nuovo sogno: ogni bimbo stringe fra le mani un coniglietto in plastica trasparente che s’illumina, a rappresentare la fiamma della speranza. Con questo oggetto fra le mani, i bimbi chiudono gli occhi e raccontano i propri desideri.

Desideri semplici come avere una casa, mangiare un gelato, o un sacco pieno di caramelle.

Elena crea un laboratorio dei sogni: i bambini disegnano, raccontano la propria storia e ricevono in dono la fotografia che li ritrae proprio nel momento della loro massima felicità, mentre desiderano e ricominciano a sperare.

Uno dei sogni più belli che Elena ricorda è quello di Akhmed, un bimbo di Aleppo.

Stringendo fra le mani il coniglietto, il bimbo racconta di desiderare un elicottero così da poter salvare tutti i bimbi che hanno bisogno.

Se è pur vero che ci sono i traumi della guerra da elaborare e che il dolore, in posti come il campo profughi di Ritsona, sembra coprire ogni altro sentimento, è altrettanto vero che la bellezza sa farsi strada ovunque.

Questo è l’insegnamento più grande infine: la tenerezza resiste, nonostante tutto.

Il percorso

Bisogna però riavvolgere il nastro e tornare indietro, a quando Elena inizia a pensare un percorso nel mondo della fotografia.

Uno dei suoi primi ricordi legati a quello che diventerà dapprima passione e poi lavoro è una scena ben precisa che risale all’infanzia: il padre con una macchina fotografica in mano, a esplorare il mondo per poi riportarlo a Elena impresso su pellicola.

Elena racconta di aver «rubato» la macchina fotografica al padre per provare come fosse possibile far uscire da quella scatola magica tante immagini meravigliose. Il primo rullino è un disastro: foto mosse, sgranate, sfocate. Il padre decide così di insegnarle i rudimenti.

Mano a mano che cresce però, Elena si rende conto che di donne fotografe non ce ne sono poi così tante e così decide di essere «La fotografa». La spinta è prima di tutto quella di voler raccontare il mondo e, se possibile, fare qualcosa per darne una visione ampia, diversa e, sì, anche femminile.

Nonostante le reticenze dei genitori, che non vedono la fotografia come un lavoro, Elena non abbandona il proprio sogno, continua a studiare e sperimentare, ma intanto si iscrive all’Università, facoltà di  scienze internazionali e diplomatiche.

Qui incontra un uomo che diventerà il suo maestro e mentore: Luigi Gariglio. Assiste a una lezione di sociologia della comunicazione e comprende, senza più dubbio alcuno, di voler raccontare il mondo tramite l’immagine. Diventa l’assistente personale del professore, e vince una borsa di studio in fotografia allo Ied (Istituto europeo di design) di Torino.

Porta avanti entrambi i percorsi e decide, dopo il diploma allo Ied, di recarsi ad Amsterdam, in Olanda per studiare presso la prestigiosa Gerrit Rietveld Academie.

Il progetto di tesi che la porterà a destinare definitivamente la sua professione alla fotografia umanitaria con tema centrale l’infanzia, è un lavoro sulle mine antiuomo a Sarajevo.

È il primo progetto fotografico di Elena: con la sua fotografia racconta i bimbi nati fra il 1992 e il 1994. Non hanno quasi vissuto la guerra ma ne portano nella mente i segni devastanti. Le conseguenze meno evidenti forse, ma non meno lesive di un’infanzia che non si può definire tale.

Questi bambini e adolescenti, non hanno spazi dove giocare, e spesso i genitori sono mutilati e invalidi a causa del processo di sminamento avviato dal governo serbo che elargisce denaro in cambio di persone che si rechino a sminare i campi.

Il progetto «Pazi Mine» vince il premio Fnac e fa incontrare Elena con un’artista olandese: Hetty Van Der Linden. Hetty porta avanti da anni un laboratorio con bambini, dal nome Paint a Future. Attraverso la pittura, questa artista chiede ai bambini e agli adolescenti di dipingere il proprio futuro.

Elena comprende la forte valenza terapeutica dell’arte e decide di fare lo stesso con il proprio lavoro.

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Brasile

Elena continua il suo viaggio. Grazie al bando Movin’ Up finanziato dal Gai (Giovani artisti italiani) raggiunge Florianopolis, capitale di Santa Catarina (Brasile).

Qui conosce la povertà delle favelas ma anche il valore reale dell’arte: grazie al lavoro di Hetty e alla sua onlus «Paint a Future», infatti, sono stati raccolti fondi e sono state costruite delle case nelle quali gli abitanti delle favelas possono provare a costruire una vita migliore.

È a Florianopolis che Elena incontra per la prima volta, a tu per tu, dolore, violenza, povertà e disperazione.

Dapprima non sa come dare una mano e inizia a fare volontariato, ma presto capisce che portare cibo e abiti non basta, e che può aiutare con la sua arte corpo e mente. Decide che vuole provare a dare ai bambini che incontra la possibilità di volare via.

Elena si procura un tappeto e inventa una storia: un mago, che aveva girato il mondo con il proprio tappeto volante su cui aveva fatto salire tanti bimbi, poteva aiutare a visitare mondi meravigliosi perché i sogni sono infiniti e gratuiti.

Elena si muove nelle favelas con il suo tappeto magico e il desiderio di regalare uno scampolo di bellezza a questi ragazzi che vivono ai confini della società.

Posiziona il tappeto per terra, racconta loro la storia del mago e chiede dove vorrebbero andare. Nel mondo del racconto, Elena scatta una fotografia.

Il progetto «Flyng Away» si sposta più a Nord, nelle carceri minorili di Salvador, Bahia, dove ogni settimana vengono incarcerati circa 40 bambini e adolescenti tra i 9 e i 18 anni.

AppleMark

In carcere

In carcere avviene uno di quegli incontri che Elena non dimenticherà più: è quello con Emmesson, un adolescente recluso per furto. «Quel tappeto non vola, non ha la benzina», è la prima frase di Emmesson, a cui segue la risposta di Elena: «La benzina è la tua mente, se tu vuoi, puoi».

Dapprima restio a lavorare con la fotografa, diventa uno dei suoi più fidati assistenti, e la aiuta a muoversi nel mondo della prigione minorile e a raccogliere i sogni e le speranze di altri ragazzi come lui.

Una volta uscito dal carcere, Emmesson continuerà a scrivere alla fotografa dicendo che l’incontro con lei gli ha cambiato la vita e gli ha fatto capire quanto conti la bellezza, e quanto anche per lui è possibile immaginare una vita migliore.

Ma sono tanti gli incontri meravigliosi e le testimonianze durante il lavoro nelle carceri: bambini che fermano la fotografa durante il suo lavoro per dirle «ieri ho volato di nuovo, non ho bisogno del tappeto per volare: ho chiuso gli occhi e sono andato a trovare la mia famiglia».

Mali

Un altro lavoro importante è quello realizzato con la Onlus Alì 2000 in Mali, un progetto nato per raccontare i problemi legati alla siccità.

Esistono luoghi nei quali il bene primario, l’acqua, manca e con essa manca anche tutto ciò che all’acqua è connesso. Se è pur vero che molti progetti umanitari mirano a costruire pozzi, quasi nessuno pensa a come da quei pozzi l’acqua verrà raccolta. I bimbi non chiedono alla fotografa cibo o abiti, ma un contenitore, una bottiglia. Ecco l’idea: fotografare ogni bimbo con il proprio recipiente improvvisato. Chi una zucca svuotata, chi un bidone, chi un secchio malandato, chi una vecchia e usurata bottiglia in plastica recuperata chissà dove. Qualcuno, più fortunato, una borraccia.

I primi mille giorni

Dopo aver girato il mondo è il momento di tornare a Torino.

Nel 2016 Elena inizia, con la Onlus Legal@rte, un progetto che continua tutt’ora, «Profumo di Vita #neldirittodelbambino», per accendere i riflettori su un argomento che pochi conoscono: la violenza assistita da minori.

Come è riconosciuto che musica, lettura, tranquillità fanno bene al bimbo nei primi mille giorni di vita, è altresì riconosciuto che assistere a scene di violenza in un periodo così delicato può condizionare la crescita. Per affrontare il tema, l’artista torinese ha scelto la fotografia Newborn: gli scatti sono realizzati all’interno dei reparti maternità di ospedali italiani, nei primissimi giorni di vita del bambino, cogliendo al meglio il momento magico e irripetibile del sonno profondo del neonato nella sua fragilità, protetto dall’abbraccio dei genitori.

Il progetto ha successo e, nel 2021, non potendo più lavorare all’interno degli ospedali a causa del Covid, si sposta in una cornice d’eccellenza: la Reggia di Venaria. Qui la fotografa ritrae neo e future mamme comunicando così la bellezza possibile abitandola.

Una parte delle immagini del progetto sono protagoniste di un calendario giunto alla quinta edizione, destinato a diffondere capillarmente la conoscenza del fenomeno della violenza assistita attraverso un importante contributo didascalico.

Valentina Tamborra

 




Le tante febbri di Conakry


Un paese poco conosciuto in Europa, ricco di risorse naturali e minerarie, ma anche culturali e umane. Inserite in un contesto sociale e politico fragile, troppo spesso sfruttate da imprese multinazionali. Vi portiamo nelle sue contraddizioni.

Lontana dai riflettori dei grandi media, la Guinea sta vivendo un momento storico difficile sia sul piano sanitario che politico.

Con il colpo di stato avvenuto il 5 settembre scorso a opera del leader golpista Mamandy Doumbouya ai danni del presidente Alpha Condé, gli assetti politici del paese sono cambiati.

Sito in Africa occidentale, la Guinea ha 13 milioni di abitanti, ed è 178ª nella classifica Onu dello sviluppo umano (su 189). La situazione è ancora molto delicata, anche se non ci sono stati più grandi scontri o rivolte da parte della popolazione. In un primo momento, nel mese di settembre, la capitale Conakry era un via vai di polizia e militari. Piccoli gruppi hanno cercato di ribellarsi ai soldati, ma senza grandi risultati. Il tenente colonnello Mamandy Doumbouya ha giustificato l’operazione con la situazione economica del paese in caduta libera e il grave aumento della povertà.

Chi troppo vuole…

Il presidente Alpha Condé, eletto per la prima volta nel 2010 e rieletto nel 2015, aveva fatto in modo di cambiare la Costituzione che limitava i mandati a due, tramite un referendum il 22 marzo 2020. Si era quindi fatto rieleggere per un terzo mandato nell’ottobre dello stesso anno, provocando la contestazione di un vasto movimento composto dai partiti di opposizione e da gran parte della società civile. Le proteste di piazza, duramente represse, avevano causato decine di morti.

La popolazione è ancora oggi nettamente divisa in due, c’è chi sostiene Mamandy Doumbouya, autoproclamato presidente ad interim il primo ottobre, e chi ancora appoggia Alpha Condé, attualmente agli arresti.

I due, anche se non appartengono direttamente alla stessa famiglia d’origine, hanno legami, e questo è uno dei motivi che ha arginato le lotte a sfondo tribale nel paese.

Il concetto di famiglia in Guinea è molto esteso: la famiglia coincide con un gruppo tribale che mantiene un cognome e un’identità storica e culturale. Queste appartenenze sono estremamente importanti e significative.

La popolazione guineana si considera da sempre come una grande famiglia. I nuclei più forti a livello sociale e politico sono i Keita, i Touré e i Condé. Fortunatamente le varie famiglie si considerano come cugine tra di loro, e questo, negli anni, ha frenato molte rivolte e proteste. Il popo-lo guineano è d’indole pacifica e ha sempre cercato di rispettare gli accordi presi tra le varie fami-glie, molti secoli fa.

Dopo il colpo di stato, la Cedeao (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) ha iso-lato la Guinea sul piano economico, chiedendo elezioni libere nell’arco di sei mesi e il ritorno del potere ai civili. Ma il nuovo uomo forte, Doumbouya, non sembra preoccuparsene, negando che ci sia una crisi nel paese.

Un governo costituito da militari spaventa gran parte dei guineani, ma anche i presidenti di molti stati limitrofi.

Risorse minerarie

La Guinea è uno dei paesi più poveri dell’Africa dell’Ovest, anche se il suo territorio è ricco di risorse minerarie. Pure l’agricoltura è una componente essenziale dell’economia del paese, in particolare le coltivazioni di riso.

L’oro e altri minerali preziosi, come la bauxite, dalla quale si trae l’alluminio, sono sfruttati dalle grandi compagnie minerarie europee o americane.

La febbre dell’oro è un fenomeno che si è accentuato durante i primi anni 2000: con l’abbandono delle vecchie miniere di pietre preziose a causa dei cambiamenti del mercato globale, gran parte della popolazione e delle grandi compagnie minerarie si è indirizzata sulla spasmodica ricerca del metallo giallo.

Oltre alle grandi miniere gestite dalle multinazionali, l’estrazione dell’oro avviene in maniera artigianale. Queste piccole miniere sono un rifugio per molte persone che vivono situazioni di grande difficoltà economica e cercano nell’oro una speranza di riscatto, che il più delle volte non si realizza.

Questo sogno raramente ha un finale a lieto fine, ma al contrario porta disagio, fatica e malattie.

L’estrazione aurifera è sviluppata prevalentemente nell’alta Guinea, in particolare nella prefettura di Kouroussa. È proprio in queste terre rosse che ogni giorno centinaia di uomini e donne entrano nelle viscere della terra per cercare fortuna.

Il più delle volte l’oro è polverizzato e mischiato al terreno. Abilmente i minatori tradizionali riescono a dividere le particelle d’oro da quelle del terreno per poi fonderle insieme. Tutto avviene grazie all’utilizzo del mercurio. Purtroppo questa attività è svolta molto spesso vicino ai fiumi, soprattutto al Niger, e il risciacquo dell’oro con il mercurio sta gravemente danneggiando le risorse idriche e non solo.

Anche le miniere tradizionali hanno le loro cooperative che cercano di difendere gli interessi dei minatori. Molto spesso però le grandi compagnie sono interessate ai terreni nei quali lavorano i minatori artigianali e questo genera conflitti. Il più delle volte questi ultimi hanno la peggio. Lo stato quasi sempre appoggia le compagnie per un ritorno economico che però non va mai a sostegno della popolazione locale.

Oro e salute

Il processo di estrazione dell’oro causa molti danni, oltre che all’ambiente, anche alla salute. Svolgendosi vicino a delle risorse idriche, la malaria è una delle malattie più comuni tra i minatori. Per non parlare degli incidenti legati a tali attività. Molti uomini prima di entrare negli stretti cunicoli alla ricerca del prezioso metallo usano psicofarmaci e alcol per farsi coraggio, e questo non fa altro che aumentare la frequenza di comportamenti inadeguati che possono destabilizzare la vita sociale e la salute dei minatori.

In Guinea esiste una popolazione viandante (nomade), che si sposta continuamente alla ricerca di nuovi filoni. Questo crea villaggi temporanei e fatiscenti dove le condizioni igieniche e sanitarie sono disarmanti.

Negli ultimi anni molti burkinabè si sono uniti a questi gruppi, il che ha creato problemi a livello d’integrazione ed episodi di razzismo e intolleranza.

Le donne che appartengono a queste comunità sono solite lasciare i loro figli soli al villaggio mentre vanno nelle miniere vicine. Molto spesso, se queste donne non trovano nulla, la sera si prostituiscono con gli uomini che lavorano alle miniere. La promiscuità fa aumentare fortemente i casi di infezioni da Hiv nella popolazione.

In questi villaggi fatti di materiali di recupero, i bambini si trovano loro malgrado a vivere una vita difficile e piena di pericoli. La mancanza di acqua è una delle cause maggiori di malattie come la disidratazione o la dissenteria e i bambini più piccoli molto spesso non sopravvivono. Sono molti i bambini che non possono frequentare le scuole, lontani da ogni confort e con la responsabilità di curare la casa e i fratelli più piccoli.

Una sanità che fa acqua

La situazione del paese, a livello sanitario, è molto complessa e non riguarda solamente le popolazioni che lavorano in miniera.

L’età media della popolazione è di diciassette anni e la mortalità infantile è ancora molto alta.

La fascia più vulnerabile è quella dei bambini dai zero a cinque anni. Mentre il governo e le istituzioni sanitarie non riescono a garantire una salute pubblica efficiente. Tutte le cure sono a pagamento e la forte corruzione degli organi amministrativi e sanitari fa peggiorare la situazione.

Il 2021 è stato un anno molto complesso a livello sanitario. Già durante i primi mesi ci sono stati dei casi, fortunatamente isolati, di ebola, e un caso di febbre emorragica Marburg. Entrambi questi episodi sono nati nella prefettura di Nzérékoré, nella Guinea Forestiére, ai confini con la Costa d’Avorio, zona con scarsissime risorse economiche.

La regione della Guinea Forestiére è molto diversa dal resto del paese, sia a livello culturale che religioso. Mentre la maggioranza nel resto del paese è musulmana, nella prefettura di Nzérékore prevalgono i cattolici. Anche se non ci sono forti contrasti tra i credenti delle due fedi, a livello culturale chi appartiene al mondo cattolico viene considerato più soggetto ai vizi. Il fatto che proprio in questa zona nascano molte delle epidemie è sintomo di grande povertà e permeabilità dei confini. Il controllo sanitario di chi entra nel paese, infatti, è pressoché inesistente.

Inoltre, intorno all’epidemia di ebola sfortunatamente è nato un grosso business ed è difficile delle volte avere dati sicuri su cui lavorare. Questo complica ulteriormente la situazione e molti speculatori cercano di intercettare i soldi destinati alla cura e alla prevenzione di questa malattia.

Malaria & co

Come se non bastasse, ogni anno la Guinea deve affrontare le conseguenze della malaria che uccide periodicamente centinaia di bambini. L’alta letalità di questa malattia è legata al costo eccessivo delle cure, inoltre molti villaggi del paese sono completamente isolati e, soprattutto durante la stagione delle piogge, è impossibile muoversi per recarsi nei grandi centri dove ci sono gli ospedali migliori. Per questo motivo la medicina tradizionale è ancora importante sia a livello culturale che sanitario, ma purtroppo non è sufficiente a curare i casi gravi.

Un altro virus che spaventa molto è quello del morbillo. Numerosi focolai vicino alla capitale Conakry sono stati isolati grazie all’aiuto di associazioni non governative, e la diffusione è stata arginata.

I vaccini non sono sufficienti e sono costosi, e questo implica che anche per malattie infantili, debellate nei paesi ricchi, in Guinea si continui a morire.

Il Covid è arrivato

Negli ultimi anni, a questi problemi sanitari, si è aggiunta la paura del Covid-19.

L’espandersi della variante Delta sembra aver colpito maggiormente il paese, a differenza delle altre varianti. Anche se il tasso di mortalità non è elevato, la preoccupazione esiste sopratutto nelle aeree metropolitane.

L’Africa è stata colpita meno duramente rispetto al resto del mondo. Questo può avere numerose spiegazioni, tutte teoriche. L’età media della popolazione è molto bassa, mentre il virus uccide di più gli anziani, e alcuni virologi sostengono che nel genoma di alcune popolazioni africane c’è una resistenza maggiore a questo virus. Avere un quadro complessivo dell’andamento del Covid in Guinea non è semplice. La mancanza di tamponi e controlli adeguati ci offre dati imprecisi e parziali.

La campagna vaccinale anti Covid è iniziata a metà 2021, ma non ha avuto molto successo, sopratutto nei piccoli villaggi. La popolazione non è ben informata sulle reali conseguenze del virus e ha paura di farsi fare la vaccinazione. In un primo momento il siero più utilizzato è stato quello cinese, Sinovax, mentre ora sul mercato è possibile trovare anche Astra Zeneca.

Nella capitale Conakry, invece, gran parte della popolazione vuole vaccinarsi, poiché i casi e i decessi sono stati più numerosi. Il problema è che non ci sono sufficienti vaccini per coprire tutte le esigenze, e il ministero della Salute non ha attuato un piano idoneo per salvaguardare la popolazione più fragile. Misure di contenimento sono state attuate dal governo, e – mentre scriviamo – vige un coprifuoco che parte dalle 22 fino alle 5 del mattino.

Queste sono le febbri della Guinea, paese meraviglioso dove la natura ti accoglie calorosamente e dove gli ospiti, soprattutto occidentali, vengo trattati con enorme rispetto e riverenza.

Gianluca Uda




Congo RD: Perché abbiano la vita


Fratel Domenico, missionario della Consolata, da 37 anni spende la sua vita per le popolazioni che vivono in una delle zone più martoriate del mondo, nel Nord del Congo. Tra malati, bimbi malnutriti, persone con disabilità, poveri, carcerati, studenti.

Fratel Domenico Bugatti, da 37 anni, esattamente la metà della sua vita, opera in una delle zone più martoriate del mondo. Si spende tra le popolazioni dell’Alto Uélé, provincia a Nord Est della Repubblica democratica del Congo, al confine con il Sud Sudan e il Centrafrica.

È stato prima a Neisu, poi a Doruma, infine, da 22 anni, a Isiro.

Tra le molte cose che racconta con tranquilla pacatezza, ci sono anche due fughe in foresta per sfuggire ai gruppi armati, e un assalto notturno di ribelli sudanesi, decisi a saccheggiare la missione e poi scacciati con le armi dalla gente del villaggio.

Incontriamo fratel Domenico a Torino, durante una sua «vacanza» obbligata per piccole questioni di salute. Scalpita per poter tornare nel suo Congo, dai «suoi» bambini del centro nutrizionale Gajen e delle scuole, dalle «sue» persone con disabilità per le quali costruisce speciali carrozzine inventate da lui, dai detenuti del carcere costretti a vivere in condizioni spaventose, dalle persone malate alle quali offre le sue competenze infermieristiche. Gli chiediamo di raccontarci di sé.

Tra Italia e Canada

Nato nella frazione Sant’Apollonio di Lumezzane, Brescia, il 5 ottobre 1947, fratel Domenico è entrato nel seminario dei Missionari della Consolata nel 1959.

«Cinquanta anni fa – racconta -, arrivavano nei nostri paesi i missionari. Facevano animazione, e chi voleva iscriversi, si iscriveva. Io mi sono legato a uno di loro, allora sono entrato nel seminario di Bevera. Lì ho fatto due anni».

Fratel Domenico porta sul viso due larghi occhiali con spesse lenti che mettono in risalto i suoi occhi timidi. Tra i bottoni chiusi della sua polo blu, sbuca una piccola croce di legno con un foro al centro a forma di cuore.

Sembra un po’ a disagio. Non sappiamo se per la mascherina alla quale forse non è molto abituato e che si aggiusta continuamente sul naso, o per il fatto stesso di dover parlare di sé, incalzato dalle nostre domande.

Appare un po’ schivo, benché di cose da raccontare ne abbia molte, e anche di avventurose.

«Quando avevo 14 anni, nel ’61, sono andato ad Alpignano (Torino) per fare la scuola di avviamento. Lì ho fatto i tre anni di formazione come falegname e calzolaio. Poi sono andato in noviziato alla Certosa di Pesio. Eravamo in tre. Uno era un laico che lavorava già da tempo in Kenya.

A 18 anni, nel 1965, sono andato a Milano per fare animazione missionaria. Sono rimasto lì fino al ‘70. Poi sono tornato ad Alpignano. Nel 1972, il superiore mi ha chiesto se ero disponibile ad andare in Canada, nel Québec. Io pensavo da sempre all’Africa, però ho detto di sì, e ci sono andato per lavorare nella procura (un ufficio che curava la raccolta e la spedizione di tutti gli aiuti alle missioni nei paesi più poveri, ndr). Allo stesso tempo seguivo gli studenti del seminario, che ai tempi erano 35-40.

Nel 1977 sono tornato in Italia, e ho fatto un corso di infermieristica. Ho dato una mano a padre Saverio Dalla Vecchia per iniziare la futura casa per anziani di Alpignano. In Casa Madre a Torino, infatti, c’erano già diversi missionari anziani e malati. Ci sono rimasto fino al 1984».

La scoperta del Congo

Quando finalmente i superiori hanno proposto a fratel Domenico di partire per l’Africa, aveva 37 anni. È stato inviato in Congo, allora Zaire, a Neisu, nella zona Nord orientale del paese, in una missione tra la popolazione di etnia mangbetu fondata nel 1981 nella foresta dai suoi confratelli padre Antonello Rossi a padre Oscar Goapper.

Quest’ultimo, morto prematuramente nel 1999, all’età di 47 anni, era un missionario della Consolata argentino con la passione per la medicina.

«A Neisu si trattava di aprire un ospedale – continua il suo racconto fratel Domenico -. Padre Oscar, infatti, si era trovato con tanti casi di malattia, e lui, con un medico, ha organizzato un ospedale. All’inizio era un insieme di case in fango.

Alla fine, Oscar è riuscito a fare dei corsi universitari a Milano, ed è diventato medico lui stesso.

Quando sono arrivato io, mi ha detto: “Qui infermieri ce ne sono già. Tu occupati della costruzione”. Allora ho iniziato a costruire, e ho fatto i padiglioni della parte centrale dell’ospedale. Chi è venuto dopo di me, ha aggiunto attorno altre costruzioni. Sono stato lì 8 anni».

Oggi, l’Ospedale Notre Dame de la Consolata, sviluppato partendo dal preesistente ambulatorio, è una struttura che dispone di 150 posti letto, punto di riferimento per l’assistenza sanitaria di tutta la zona, anche grazie alla sua rete di postazioni sanitarie distribuite in diversi villaggi nel folto della foresta (cfr. Amico nei n. 3 e 5 di MC 2021).

A Doruma nella guerra

Nel 1993, fratel Domenico si è spostato presso il popolo Zande, a Doruma, un grosso villaggio importante snodo per il commercio a tre chilometri dal confine con il Sudan, allora preso nella guerra civile che in seguito avrebbe portato alla nascita dell’attuale Sud Sudan.

«A Doruma c’erano molti profughi sudanesi assistiti dall’Unhcr. Noi eravamo in una missione costruita a inizio Novecento dai domenicani, dove noi della Consolata siamo arrivati nel 1973 – racconta il missionario -. Quando sono arrivato lì, mi occupavo dell’economia e della manutenzione. Ci sono stato cinque anni, prima che fossimo costretti a venire via. I primi tre sono stati abbastanza calmi. Poi, nel 1997, Mobutu (l’allora presidente dello Zaire, ndr.) è stato spodestato da Laurent Désiré Kabila, durante la cosiddetta prima guerra del Congo. Le frontiere non sono state più controllate, e i ribelli del Sudan hanno iniziato a entrare».

È uno dei molti risvolti della crisi dei Grandi Laghi che negli anni Novanta e seguenti avrebbe provocato milioni di morti in diversi paesi dell’area.

La missione di Doruma ha così vissuto momenti drammatici, venendo più volte saccheggiata, sia dall’esercito governativo che dalle forze ribelli del Sud Sudan (Spla).

«Un giorno sono arrivati: prima i militari congolesi che scappavano verso il Centrafrica. Poi i ruandesi e gli ugandesi che inseguivano i congolesi. Noi ci siamo rifugiati tre settimane nella foresta insieme alla gente. C’era con me padre Ferdinando Paladini, il padre congolese Honoré
Tsiditeta e le suore agostiniane.

Alla fine padre Stefano Camerlengo, che era il nostro superiore  in quegli anni, è riuscito a organizzare con altre congregazioni una piccola spedizione, e quindi siamo potuti a venire via. Siamo arrivati a Kinshasa passando da Isiro e Kisangani».

I fucili puntati addosso

«Era il 1998. Quando siamo arrivati a Kinshasa – continua fratel Domenico, sorridendo, come se stesse raccontando di una vacanza al mare -, la notte stessa siamo partiti per Madrid, perché le ambasciate avevano detto di evacuare. Sono tornato un po’ a casa e poi ad Alpignano».

Dopo tre mesi, le cose in Congo sembrava che stessero cambiando. Allora fratel Domenico e padre Rinaldo Do, che era superiore della missione di Doruma, sono rientrati in Congo. Ma la crisi era lontana dal finire: «Se prima c’erano i militari congolesi – continua il fratello missionario -, ora c’erano i ribelli sudanesi che arrivavano d’improvviso e prendevano quello che potevano.

Ci è toccato stare ancora un mese in foresta. Io e padre
Rinaldo abbiamo vissuto grazie ai cristiani che ci hanno dato una capanna e un po’ di cibo.

Dopo un mese, siamo rientrati alla missione. Era l’inizio del 1999. Poco tempo dopo, una sera, è arrivato da noi il nostro superiore provinciale che da mesi voleva venire. Ha parcheggiato la macchina piena di vettovaglie nella missione. Di notte sembrava tutto tranquillo, ma poi, alle 4 del mattino, ci siamo ritrovati circondati dai ribelli sudanesi.

Bussavano alle porte e ci facevano uscire puntandoci i fucili addosso. Ci hanno fatti sedere sui gradini della casa di fronte alla chiesa e hanno iniziato a portare via tutto quello che c’era.

Abbiamo passato più di un’ora così. A quel punto è arrivato qualcuno dal villaggio e ha incominciato a sparare. I ribelli hanno pensato che fossero i militari, allora hanno preso tutto quello che potevano e hanno iniziato a fuggire, tirando anche delle granate per proteggersi. Noi ci siamo nascosti dove potevamo, e siamo stati un’altra ora lì, senza sapere cosa fare. Poi siamo usciti dai nostri nascondigli e abbiamo visto che i ribelli non erano riusciti a prendere l’auto con cui era arrivato il superiore. Allora lui ci ha detto: “Qui bisogna partire, non c’è più sicurezza”. Ha lasciato la missione in mano alla catechista e a un prete diocesano che era arrivato lì per un po’ di vacanza, e noi siamo saliti sull’auto e siamo partiti, così come eravamo, cercando di non fare troppo rumore. Siamo arrivati a Isiro, a 300 km di strada sterrata, il giorno dopo».

Nuova vita a Isiro

Dopo quella fuga, fratel Domenico non è più tornato nella missione di Doruma, che adesso è gestita da sacerdoti locali, ed è stato assegnato alla comunità Imc di Isiro, cittadina che attualmente si stima conti più di 200mila abitanti, capitale del Distretto dell’Alto Uélé.

L’associazione Cuore Amico, che nel 2015 gli ha conferito il «premio Cuore Amico» come figura esemplare di missionario, descrive così il suo impegno nella nuova missione: «Da subito si occupa della realizzazione di un centro nutrizionale d’appoggio ai moltissimi bambini e giovani con gravi carenze alimentari che affollano le strade della cittadina, vittime degli effetti della guerra.

Partendo da un terreno con una costruzione non terminata, fratel Domenico realizza il Centro di alimentazione Gajen che oggi funziona a pieno ritmo: fornisce alimenti per bambini e malati, effettua visite mediche, attività di laboratorio e farmacia, dà gratuitamente medicine. Le attività del Centro non si fermano all’alimentazione e all’assistenza sanitaria: vi si organizzano corsi di igiene e formazione per le mamme, visite negli ospedali o centri di salute per aiutare piccoli e poveri, accoglienza e aiuto a bambini, ragazzi e giovani non scolarizzati, per i quali si paga la retta scolastica mensile; si realizzano attività sportive, vi si costruiscono biciclette per portatori di handicap, vi si organizzano corsi di alfabetizzazione e promozione della donna, vi si vendono pane e biscotti grazie alla costruzione di un piccolo forno.

Una volta la settimana, il Centro accoglie oltre 200 poveri, ai quali viene dato un po’ di riso, sapone, sale e qualche soldo […].

A partire dal 2005 costruisce e ristruttura la Maison père Oscar, una casa per studenti provenienti dalle missioni della Consolata che frequentano le scuole superiori e universitarie di Isiro. Sorge accanto alla clinica universitaria ed ha al suo interno una biblioteca, aperta a tutti gli studenti della città, e un auditorium. La Maison ospita il dipartimento di Scienze religiose per la formazione di insegnanti di religione, agenti di pastorale e diaconi permanenti. L’iniziativa vuole essere un contributo per elevare la situazione culturale della popolazione, un piccolo tassello per costruire la pace, il dono più desiderato dai congolesi».

Il centro Gajen

«Quando sono arrivato a Isiro – prosegue fratel Domenico -, c’era padre José Ariel Hoyos
Zuluaga, che sarebbe morto nel 2013. Con lui abbiamo cominciato ad accogliere i bambini malnutriti. A padre Ariel è succeduto padre Rinaldo Do. Abbiamo comprato dei terreni e, un po’ per volta, abbiamo organizzato il centro nutrizionale che abbiamo chiamato Gajen: Groupe d’appui aux jeunes et aux enfants nécessiteaux (Gruppo d’appoggio a giovani e bambini bisognosi)».

Fratel Domenico ha costruito poi il dispensario, una sala per l’osservazione con dei letti, il laboratorio, la farmacia, la cucina.

«All’inizio avevamo quattro infermieri, oggi abbiamo due infermieri e un pediatra. Abbiamo salvato qualche centinaio di bambini… forse qualche migliaio. E continuiamo. I bambini vengono con le mamme al mattino, tutti i giorni, per due o tre mesi, alcuni anche per quattro o cinque mesi. Fanno colazione, e un controllo. Una volta che hanno preso le medicine, verso mezzogiorno diamo loro un pasto abbondante. Ne mangiano una parte, e l’altra parte la portano a casa. Stanno da noi fino all’una, poi tornano a casa con le mamme».

Quando ci sono casi di bambini con altre malattie, ad esempio l’Aids, fratel Domenico li manda all’ospedale generale di Isiro o all’ospedale di Neisu, a 30 km.

Scuole, carrozzine, carcere

In questi 22 anni a Isiro, fratel Domenico ha espresso tutte le potenzialità dei suoi talenti. Oltre al centro Gajen, si è occupato di persone con disabilità, costruendo quasi 200 carrozzine con pezzi di biciclette e tubi reperibili sul mercato locale; si è preoccupato di offrire un alloggio agli studenti che arrivano dalle missioni Imc della zona. «Poi ho iniziato ad andare nelle prigioni: visitiamo i carcerati e portiamo cibo e medicine. È un carcere fatto come al tempo dei belgi: uno di quei capannoni che, quando c’era la colonia, servivano per le piantagioni di caffè e cotone. I carcerati stanno nel capannone così, senza letti, senza stanze, sdraiati a terra… una cosa impossibile. Se uno non vede, non ci può credere.

Io e padre Rinaldo, qualche tempo fa, abbiamo fatto una settantina di letti per portarli al carcere. Ma sono spariti tutti dopo poco tempo. Venduti: materassi e letti. A quel punto abbiamo continuato a portare solo gli alimenti e le medicine».

Un’altra delle cose di cui si occupa fratel Domenico è la conduzione della scuola materna e della scuola primaria per i bambini del centro nutrizionale. «Le scuole devono essere autosufficienti, quindi chiediamo una retta per i bambini. Lo stato dice di voler dare qualcosa, ma alla fine non dà niente. Le scuole si reggono con le rette degli studenti e gli aiuti dall’Italia. Il centro nutrizionale invece è un servizio completamente gratuito».

Il problema del Congo

Chiediamo a fratel Domenico come ha visto cambiare in questi 37 anni il Congo. «Il paese ha sofferto molto. Il suo problema è la sua ricchezza. Tutte queste guerre che ci sono, sono per il sottosuolo. I paesi limitrofi cercano di prendersene una parte: come il coltan, ad esempio, poi i diamanti, l’oro. A Isiro, nel sottosuolo, c’è molto ferro. Adesso non ci sono cave, ma il giorno che ci sarà bisogno di ferro, le faranno. Ci sono dappertutto compagnie straniere che estraggono minerali. La guerra in Nord Kivu è dovuta a questo, alla sua ricchezza. Cercano di eliminare la gente facendola partire o uccidendola. Ammazzano senza pietà. E la gente scappa».

Infine, gli chiediamo quali sono state le soddisfazioni e le difficoltà della sua missione: «La difficoltà, è quella di capire come andare avanti economicamente con la nostra opera. La soddisfazione, invece, è quella di poter vedere in giro i bambini che abbiamo salvato, che sono tanti, che magari erano arrivati al centro nutrizionale mezzi morti. Piano piano li abbiamo fatti riprendere. Alle volte sono figli di ragazze madri. La soddisfazione è questa: che lo scopo che ci siamo prefissi, cioè quello di aiutare, è realizzato».

Luca Lorusso




Kirghizistan. Dove le montagne toccano il cielo


«Tutto era pronto per partire per il Kirghizistan»: così avevamo informato i lettori di questa rivista, ormai due anni fa, ma solo dopo tanto tempo di attesa, a metà agosto del 2021, finalmente, le Missionarie della Consolata hanno potuto stabilirsi nel paese, dopo aver aperto una prima comunità nel Kazakistan nel 2020.

Già sembrava che questa missione «non s’avesse da fare». Prima c’è stata l’impossibilità a viaggiare per il Covid, poi la difficoltà nell’ottenere i visti.
Io, suor Ivana, ho ricevuto il visto nel dicembre 2020. Appena ricevuto sono dovuta entrare immediatamente nel paese per evitare di perderlo. Le mie sorelle, suor Judith Kikoti (del Kenya) e suor Adanech Mitiku Shawo (etiope), l’hanno ricevuto solo agli inizi di agosto 2021 e finalmente anche loro sono partite.
Sono stati tempi di grande incertezza, ma che sicuramente ci hanno insegnato, ancora una volta, che la Missione è di Dio, che i suoi tempi e cammini sono perfetti, e che la nostra pazienza non è mai troppa.

Ed eccoci allora in Kirghizistan, paese dell’Asia centrale abitato da circa 6,5 milioni di persone, per la maggior parte musulmane. Precisamente siamo a Jalalabad (Žalal-Abad), come l’omonima città pakistana o afghana, zona Sud Occidentale del paese, a poca distanza dal confine con l’Uzbekistan, nella missione dove sono presenti due gesuiti polacchi, che accompagnano i pochi cattolici di questa zona.

L’inserimento in una nuova realtà richiede tempi lunghi per la conoscenza sia della lingua che della cultura e della storia del paese. Quest’ultima è una chiave di lettura importantissima della realtà in cui ci troviamo; perciò, attualmente siamo impegnate su questi fronti, ma anche nella «costruzione» della nostra comunità religiosa. Dopo questa prima fase del «vedere e conoscere», successivamente faremo un discernimento sui cammini da intraprendere, previa una riflessione in dialogo con l’amministratore apostolico, padre Anthony James Corcoran, sj. Il fatto di essere in loco ci offre già la possibilità di testimoniare la nostra fede.

Mettere su casa

Gli inizi, soprattutto se così tanto desiderati e sospirati, sono sempre belli. La gioia di tornare a riunirci come comunità dopo diversi mesi, e di avere finalmente raggiunto la nostra terra promessa, ci ha dato quella giusta carica di entusiasmo per incominciare a entrare in questa nuova e sfidante realtà. È un paese mussulmano, dove l’appartenenza a quella che fu l’Unione Sovietica è un ricordo ormai lontano, soprattutto per il 50% della popolazione che ha meno di 25 anni, e nelle zone nelle quali i cosiddetti «russi» (vengono chiamati così tutti i discendenti di europei presenti nel paese), che fino agli anni ‘90 erano numerosi, sono ormai pochi.

Il Kirghizistan è immerso in una stupenda natura, dove gli incontaminati paesaggi montani, il cielo terso, gli aspri crinali e gli ondulati pascoli estivi popolati da pastori che vivono al riparo delle loro yurte, sono di una bellezza affascinante.

Il «mettere su casa» è stata una bella occasione per una conoscenza sul campo di questa realtà. Siamo le prime suore che abitano in Jalalabad e sicuramente, le prime che si sono avventurate nel bazar (grande mercato popolare) e ai mercati.

Questa città è la terza per grandezza e importanza del paese con i suoi 100mila abitanti. Ma l’aspetto esteriore e la mentalità della sua popolazione è più da villaggio, e il suo bazar è il centro della vita commerciale e anche sociale.

Il nostro modo di vestire e i nostri visi, destano molta curiosità tra le bancarelle: pochi ci identificano come «monache», molti invece ci chiedono chi siamo, da dove veniamo, se abbiamo marito e figli (1), e che cosa facciamo. Certo, ci vedono anzitutto come possibili clienti straniere, per cui le buone maniere sono di obbligo, anche se alcuni ne approfittano per aumentare i prezzi, ma in molti casi abbiamo sentito grande apertura e simpatia nei nostri confronti, e siamo anche state aiutate.

In strada con la gente

Le «matschiutke», i piccoli pulmini da 15 o 18 posti a sedere, che utilizziamo per spostarci nella città, sono per noi, non solo un mezzo di trasporto, ma un osservatorio della realtà in cui siamo inserite. Questi mezzi pubblici sono molto usati, economici, comodi. Anche i bambini delle scuole li usano, in quanto qui, come in tutto il paese, non esiste un trasporto scolastico dedicato. Dallo scarso flusso di auto private, anche nelle ore di punta, capiamo che la macchina è un bene che poche famiglie si possono permettere (2), e al Sud vedere una donna al volante è ancora abbastanza raro.

Ci ha piacevolmente sorprese il constatare come nelle «matschiutke» sia viva la cultura di lasciare il posto alla persona più anziana. È interessante notare come un adolescente seduto lasci il posto anche a un giovane di 30 anni. Questo significa per noi avere sempre un posto assicurato. Inoltre, in questi mezzi di trasporto, come anche nel bazar, non si sentono schiamazzi o persone che parlano forte al telefono, anzi sembra tutto ovattato.

Arrivo di suor Judith Kikoti (dx) e suor Adanech Mitiku Shawo accolte all’aereoporto di Biskek da suor Ivana e dall’amministratore apostolico del Kirghizistan padre Anthony James Corcoran, sj (2° dx) e un confratello, il 18 agosto 2021.

Tre lingue diverse

A differenza del Nord del paese, dove ancora molti parlano russo, qui al Sud è raro sentire parlare questa lingua. Qui predominano il kirghiso e l’uzbeco, anche se i venditori qualche parola la conoscono, fortunatamente per noi, soprattutto se hanno più di 40 anni e hanno vissuto nel tempo dell’Unione Sovietica, quando era obbligatorio parlare in russo, pena il carcere e multe salate. Questo ci ha fatto subito capire che abbiamo una grande sfida davanti a noi: non solo imparare il russo, che è la lingua utilizzata nelle comunità cristiane, ma necessariamente anche il kirghiso e l’uzbeco.

Abbigliamento

Dicevo che il nostro abbigliamento è strano per le persone locali, in quanto quasi tutte le donne, vestono secondo la loro cultura, ossia con vestiti lunghi e con il velo islamico, ad eccezione delle giovani, soprattutto le universitarie, delle donne impiegate in uffici o scuole, e delle poche «russe» che vestono all’europea.

Ci sono tanti modelli di veli: quelli che nascondono solo i capelli e quelli che coprono anche il viso. Il velo è un accessorio che ci aiuta a distinguere, a parte i tratti del viso, se una donna è kirghisa o uzbeca: le donne kirghise, infatti, portano il velo legato alla nuca, ed è sempre molto colorato o bianco (questo colore identifica le novelle spose). Invece quelle uzbeche portano un velo fermato nella parte anteriore della testa che copre tutto il collo ed è di tonalità più scura.

C’è però in questi anni una crescita della tendenza, che alcuni chiamano moda e altri la identificano come un segno di radicalizzazione islamista, per la quale molte giovani donne e bambine indossano il velo con una specie di cuffia sotto, tipo passamontagna che contorna il viso.

Anche gli uomini sono soliti coprire il capo: i Kirghisi usano, specialmente nelle feste o negli incontri importanti, il «Kalpak», un cappello a cono in feltro bianco con i bordi di diversi colori e decorazioni ricamate, che tradizionalmente informa sull’età e la posizione sociale di chi lo indossa. Gli Uzbechi invece indossano quotidianamente il «tubeteica», una specie di zucchetto, generalmente di colore scuro (verdone, grigio, nero o blu), con o senza ornamenti ricamati bianchi o grigi.

Pastori e contadini

Qui al Sud del paese convivono Kirghisi e Uzbechi. Questi ultimi sono quasi un milione, rappresentano il 14% della popolazione di tutto il paese. Hanno lingua, tradizioni e stili di vita molto diversi: i Kirghisi (3) erano, e lo sono ancora attualmente (se non tutti fisicamente, ma almeno nella mentalità, come mi diceva un’amica kirghisa), un popolo nomade, dedicato all’allevamento di cavalli, mucche e pecore, mentre gli uzbechi un popolo più sedentario dedicato tradizionalmente all’agricoltura e al commercio. I due popoli, al tempo dell’Unione Sovietica, vivevano pacificamente dividendo gli spazi di questa regione, i primi sulle montagne e i secondi nelle pianure. Ma con la caduta dell’Urss, avendo stabilito i confini delle nuove repubbliche indipendenti a tavolino e, in molti casi, prendendo le strade esistenti come le linee di frontiera, molti Uzbechi si ritrovarono in territorio kirghiso. Come tutti gli altri abitanti nati in Kirghizistan appartenenti ad altre minoranze etniche, il loro passaporto è kirghiso con la specificazione della nazionalità di origine. Questo significa che: se tuo padre è uzbeco tu sarai sempre uzbeco, se tuo padre era russo, tu sarai per la società sempre russo, e, di conseguenza, questo porta a uno sbarramento nell’accedere agli incarichi pubblici e/o di rilevanza nella società (4). I due popoli, anche se sottostanno alle leggi della stessa nazione, di fatto vivono una vita separata: ci sono negozi, ristoranti, moschee e scuole separate, queste ultime per garantire a ciascuno il diritto all’apprendimento della propria lingua. In questo momento la convivenza è pacifica, ma solo nel 2010 Jalalabad e la vicina città di Ošh (a 100 chilometri di distanza) furono teatro di gravi scontri tra le tue etnie, perché molti Kirghisi sentivano che la loro sovranità era minacciata dagli Uzbechi, che per le loro capacità imprenditoriali, si stavano arricchendo nella loro terra. Il bilancio di quegli scontri fu pesante: secondo fonti non ufficiali, più di 3mila morti, 9 su 10 Uzbechi, case date in fiamme, e tante persone fuggite all’estero.

Un seme piccolo piccolo

Immersa in questa realtà del Sud del paese c’è la nostra Chiesa Cattolica, due piccole comunità parrocchiali formate da «russi» (5), una in Jalalabad, che raccoglie anche i parrocchiani dei villaggi vicini, e una a Ošh, per un totale, almeno nei registri parrocchiali, di cento persone, ma in realtà sono molte meno.

La storia della Chiesa in Kirghizistan è recente, comincia ufficialmente nel 1997, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, per volere di papa Giovanni Paolo II, quando fu affidata ai gesuiti. Lo scopo del loro arrivo era esclusivamente l’accompagnamento spirituale dei fedeli cattolici che si trovavano in queste terre e che, durante gli anni sovietici, erano stati costretti a vivere la loro fede di nascosto per l’ateismo di stato. Negli anni ‘90 i cattolici presenti in queste terre erano molti, ma a causa di una non facile situazione economica, di difficoltà ad accogliere il nuovo stato delle cose, ossia essere comandati da Kirghisi, della paura di possibili vendette da parte di questi ultimi e per le politiche di accoglienza dei paesi di origine, come tanti «russi» di altre religioni, sono andati via. Come dicono con rammarico alcuni dei nostri parrocchiani cinquantenni che hanno vissuto il cambiamento: «Adesso siamo pochi, ma una volta sì che eravamo tanti!». I motivi di chi è rimasto sono essenzialmente tre: o aveva un buon lavoro, o era troppo povero per affrontare la migrazione, o non ha avuto il coraggio di andarsene e ricominciare vita da un’altra parte.

Purtroppo, i nostri giovani, senza prospettiva di lavoro, se possono, lasciano il paese appena maggiorenni. Oggi la nostra Chiesa è un piccolo gregge, visto da Kirghisi e Uzbechi come una religione straniera per i «russi», accompagnato da sette gesuiti, un prete diocesano slovacco Fidei donum, cinque sorelle francescane e noi tre suore Missionarie della Consolata, distribuiti in tre zone del paese.

Le sfide che si presentano davanti a noi, e le domande, sono tante: quale futuro per la Chiesa cattolica in questo paese? Come aiutare il cammino di riconciliazione tra questi popoli? Risposte non ne abbiamo, ma ciò che conta ora è accogliere e amare questa realtà ed essere docili ai cammini che Dio ha preparato per noi qui in Kirghizistan, dove finalmente siamo arrivate.

Ivana Cavallo

Note

1 Per i Kirghisi e gli Uzbechi presenti in questa zona, è assurdo che una donna non abbia marito, tanto è vero che una vedova poco tempo dopo la morte del marito deve risposarsi, perché c’è la credenza che una donna non sposata porti energia negativa alla famiglia.

2 La situazione economica nel paese è molto difficile. Secondo l’ultimo censimento, su sei milioni di abitanti, più di un milione è all’estero per lavorare e inviare soldi alla famiglia. Gli stipendi sono molto bassi, per cui è normale che chi lavora come dipendente, abbia più di un lavoro.

3 Nel 1970 solo il 14% dei Kirghisi viveva nelle città, di fatto i cattolici cin­quantenni dicono che quando loro studiavano, poteva esserci uno o al massimo due bambini kirghisi in classe, il resto erano tutti russi. Nel 2009 la percentuale era salita già al 30%.

4 I Kirghisi, per la prima volta nella storia, nel 1990 si organizzano come stato, un processo non facile che si rispecchia anche nella fatica di arrivare alla stabilità politica e allo sviluppo economico, causata soprattutto dalla forte corruzione, dovuta in parte a un mancato senso della concezione della proprietà privata. Infatti, fino a 30 anni fa i Kirghisi hanno sempre vissuto sulle montagne, e chi arrivava per primo occupava i pascoli per il proprio bestiame, e quindi non avevano mai avuto bisogno di organizzarsi come stato. L’educazione scolare e il servizio pubblico sanitario sono una eredità dei tempi dell’Unione Sovietica.

5 Queste terre dell’Asia Centrale ai tempi dell’Unione Sovietica, videro crescere la loro popolazione di russi (qui intesi come quelli provenienti veramente dalla Russia), tedeschi, polacchi, ucraini, ceceni, tatari, curdi, etc., sia perché meta delle deportazioni di massa di molti popoli che vivevano nei territori dell’Urss, considerati pericolosi e sovversivi negli anni della Seconda guerra mondiale, sia perché negli anni successivi c’era una grande offerta di lavoro nelle miniere e nelle fabbriche aperte dal regime in queste terre, senza contare tutti i funzionari che venivano direttamente dalla Russia.




Giuseppe Frizzi. Il «minatore» umile e appassionato


La malattia ha portato via senza preavviso un altro missionario del Mozambico. Un bergamasco semplice, che ha amato il popolo a cui è stato mandato, i Macua Xirima (o Scirima), con tutto il suo cuore e, ancor più, con tutta la sua intelligenza.

Ho conosciuto padre Giuseppe Frizzi, missionario della Consolata, ventuno anni fa in Mozambico, a Maúa, nella provincia del Niassa. Maúa è stata la mia prima – e fino a oggi unica – esperienza di missione ad extra. Viverla al fianco di un missionario dello spessore umano, spirituale e apostolico di padre Frizzi ha costituito per me una vera benedizione e una straordinaria opportunità di trasformazione e crescita nella mia vocazione di missionaria della Consolata. Da allora, pur essendo stata chiamata ben presto ad altri servizi fuori dal Mozambico, ho sempre seguito da vicino, con viva partecipazione, profondo interesse e ammirazione, il suo percorso missionario e il suo instancabile impegno pastorale e di ricerca sul fronte etnografico, etnologico, linguistico ma soprattutto teologico e missionario.

Chiesa di San Luca a Maua

Maúa, più che un luogo

Vorrei spendere una parola sul contesto di Maúa, partendo da quanto ho vissuto durante la mia permanenza là e nei successivi contatti fino ad oggi, nell’intento anche di situare quanto cercherò di esprimere circa la mia esperienza con, e di, una persona eccezionale come «padre Frizzi» (come era da tutti chiamato).

Arrivata a Maúa nell’anno 2000, mi inserisco nell’équipe missionaria della parrocchia di san Luca. L’équipe è formata da padri, fratelli e suore, tutti missionari e missionarie della Consolata. Padre Frizzi è il parroco. L’équipe ha la sua sede in Maúa, ma serve decine e decine di comunità cristiane sparse nel distretto omonimo e in altri confinanti facenti capo alla parrocchia di san Luca, che in quegli anni attende pure ad altre tre parrocchie a loro volta suddivise in decine di comunità cristiane animate da ministri laici.

La popolazione del distretto di Maúa e di quelli limitrofi è per la stragrande maggioranza di etnia Macua Xirima. È una etnia bantu caratterizzata da una cosmovisione, un’antropologia e una teologia assolutamente originali e affascinanti, radicate nella percezione della femminilità e della maternità come assi portanti dell’universo, percezione che si traduce anche in una particolare struttura sociale matriarcale, matrilineare e matrilocale e in una spiritualità dalle chiare connotazioni femminili e materne.

Evangelizzazione inculturata

La linea pastorale scelta dall’équipe missionaria, in accordo con la diocesi, è caratterizzata da un’attenzione particolare all’evangelizzazione inculturata. Arrivare a Maúa significa venire a contatto con una sensibilità pastorale segnata in modo particolare dalla percezione del cammino che Dio ha già percorso col popolo Macua Xirima, dal rispetto di questo cammino e da una proposta evangelica chiara e dialogica. Tale proposta, mentre offre necessariamente un salto di qualità nella relazione con Dio e tra le persone, gode di valorizzare, approfondire e lasciarsi istruire dal tesoro dell’esperienza che il popolo ha vissuto con Dio nella storia, espressa dalla religione tradizionale e dalla cultura in generale.

In questo contesto pastorale si inserisce il Centro studi Macua Xirima (in portoghese: Centro investigações Macua Xirima – Cimx) iniziato da padre Giuseppe che ne è il direttore, unendo questa sua attività a quella di parroco fino alla fine dell’anno 2020.

Durante la mia permanenza a Maúa, ho avuto l’opportunità di collaborare con padre Frizzi al Cimx oltre che nella pastorale. Poiché il Cimx ha un ruolo fondamentale nello splendido percorso missionario che lo Spirito ha suscitato e guidato a Maúa e dintorni, è opportuno spendere qualche parola per illustrarne l’origine, la natura e le caratteristiche.

Il Centro Studi

Arrivato in Mozambico nel 1975, dopo il dottorato in teologia biblica e una breve permanenza in Portogallo e in Inghilterra, negli anni 1979-1986 padre Frizzi si trova nella missione di Cuamba, circa 150 km a Sud di Maúa. Sono gli anni difficili del governo di ispirazione marxista, della nazionalizzazione delle missioni, della guerra civile. Padre Frizzi, come gli altri missionari e missionarie, è sottoposto a limitazioni della libertà di movimento da parte delle istituzioni di governo. Utilizza questo periodo per lo studio della lingua macua e l’organizzazione di materiale etnografico e linguistico già raccolto da missionari e missionarie negli anni precedenti. Nel 1982, egli pubblica la prima edizione del messale festivo in lingua macua xirima, il Masu a Muluku.

Con il trasferimento a Maúa, presso la parrocchia di san Luca, nel 1987 padre Frizzi inizia la raccolta più sistematica del materiale etnografico, coadiuvato da un gruppo di collaboratori locali. Nasce così, senza fare rumore e quasi inosservato, il Centro investigações Macua Xirima (Cimx). In un certo senso, il Cimx è un po’ il cuore della parrocchia di san Luca e del percorso missionario in quel contesto.

In quel contesto si è creato un po’ per volta un clima umano fatto di calore, fiducia e reciprocità nel quale fluisce un autentico e fecondo dialogo. A quel clima contribuisconono tutti gli aspetti del lavoro impostato dal padre: la famigliarità con il materiale tradizionale, l’allenamento progressivo a verbalizzarne le tematiche, lo sforzo di tradurre la Parola di Dio in lingua xirima, attraverso discussioni appassionate e a volte infuocate sulla scelta dei vocaboli ma anche sul significato delle parole. Ma poi anche il confronto costante tra persone diverse nei gruppi di traduzione, elaborazione e revisione dei testi. Ultimo, ma non meno importante, anche il rapporto quotidiano tra padre Frizzi, gli altri missionari, le missionarie e i collaboratori del Centro, corroborato da una storia vissuta assieme per lunghi anni, anche nei momenti duri della guerra, dell’incertezza e della disperazione.

Centro di umanità

In questo clima umano ho la grazia di essere accolta e di goderne le potenzialità e i frutti. Anche molti ricercatori, studenti, missionari e missionarie di varie nazionalità, esperienze e appartenenze religiose, possono abbeverarsi lungo gli anni al pozzo inesauribile e ricchissimo di Maúa. Qui apprezzano il patrimonio scientifico e spirituale depositato nel materiale raccolto e soprattutto nei cuori dei collaboratori locali del Centro, lasciandosi coinvolgere e trasfigurare dallo Spirito che fluisce, con soavità e abbondanza, in questa appassionante esperienza missionaria. Godono dell’accoglienza semplice, amabile, familiare dei missionari e delle missionarie della Consolata, scoprendo, con meraviglia e gratitudine, la grandezza umilissima e riservata, la sapienza profonda e disarmante, la fiamma ardente e dolce, la luce limpida e discreta che traspariva dalla persona di padre Frizzi, sempre pronto ad ascoltare, condividere, dialogare, accompagnare alla scoperta dei tesori che Dio semina e fa crescere nella persona e nel popolo.

I Frammenti

L’ultima pubblicazione di padre Frizzi e del Cimx ha visto la luce alla fine del 2020. Si tratta di un’opera originalissima, densa e sostanziosa: Fragmentos e segmentos da biosofia e biosfera xirima (Frammenti e segmenti della biosofia e biosfera xirima). Essa rappresenta un nuovo frutto maturo di oltre quarant’anni di esperienza missionaria tra il popolo Macua Xirima. Scrive l’autore nell’introduzione a questa sua opera: «La pubblicazione dei “Frammenti e segmenti della biosofia e biosfera xirima” presuppone la lettura attenta del volume Murima ni ewani exirima – Biosofia e biosfera xirima, pubblicato nel 2008, perché vuole esserne la continuazione e il complemento esemplificato. È un’altra, forse l’ultima, tappa importante del lungo cammino iniziato nell’anno 1937, con l’arrivo dei primi missionari e missionarie della Consolata nel Sud del Niassa. Capire e parlare la lingua xirima era condizione necessaria per comunicare e evangelizzare. Alcuni missionari non solo si sforzarono di parlare la lingua xirima, ma si dedicarono alla ricerca filologica attraverso l’elaborazione di grammatiche e dizionari, penetrando nella struttura della lingua e contribuendo alla conoscenza della stessa. Col tempo, comparvero i primi lavori di ricerca e di traduzione in campo liturgico, catechetico e biblico. […] Nutro la certezza che anche questi Frammenti e segmenti potranno favorire il consolidamento delle radici culturali xirima perché diventino in futuro capaci di innalzare antenne aperte alla pluralità linguistica e culturale a livello locale, nazionale e mondiale».

Minatore cronico

Padre Frizzi, come un appassionato ricercatore di pietre preziose, un «minatore cronico», come lui amava definirsi, ha sondato e scavato con amore e riverenza il terreno umano e spirituale dei Macua Xirima, accogliendo e raccogliendo i tesori che ne emergevano. Ha sperimentato con gioia che il primo atto missionario è il raccogliere più che il seminare, mietendo ciò che Dio ha seminato e fatto crescere nel cuore della persona e del popolo lungo il suo cammino storico e spirituale.

Ha vissuto la beatitudine del missionario evangelizzato da coloro che evangelizza, nella dinamica di un fecondo, intenso e coinvolgente scambio di doni.

Ha varcato la porta della Luce tornando a Colui che lo ha inviato e consegnando a Lui il raccolto straordinario, sovrabbondante, di una vita di appassionata ricerca e di profonda unione con Dio, vissuta nella gioia evangelica e nella gratitudine più genuina anche in mezzo a vicende molto dolorose e drammatiche. Nella semplicità, sobrietà ed essenzialità, ha imparato a distinguere ciò che è importante da ciò che è effimero, nell’impegno convinto e fervoroso a costruire sempre ponti di comunione, ad aprire strade di congiunzione, a tessere legami di vera fraternità.

La tomba di un Buono

I funerali di padre Frizzi si sono svolti il 3 novembre 2021 nella chiesa di Nzinje a Lichinga e poi è stato sepolto nel cimitero del santuario della Consolata di Massangulo. Il suo corpo è stato accolto nel grembo fertile della terra rossa del Niassa. La sua vita è ora pienamente trasfigurata dalla luce lieta e avvolgente dell’abbraccio di Dio Padre e Madre, ardentemente desiderato, cercato, trovato, amato, annunciato, celebrato lungo la sua intensissima vita.

Un proverbio macua recita: Pixa murima nlitti nawe khannìxa. La fossa in cui si seppellisce la persona buona/mite/trasparente/santa (=pixa murima) non è profonda.

Molti anni fa, chiedendo ai collaboratori del Cimx di Maúa qualche delucidazione circa questo proverbio, mi venne spiegato che nessuno ha piacere né fretta di separarsi dal pixa murima, ossia da chi è buono/mite/trasparente/santo. Per questo, quando egli muore, si fa fatica a scavargli la fossa e chi comincia a farlo perde in fretta l’energia in seguito al dispiacere. Perciò la fossa non riesce a essere profonda. Inoltre, non è necessario seppellirlo molto in profondità, anzi, meglio lasciargli la possibilità di uscire senza troppa difficoltà dalla tomba, se volesse, per tornare nel mondo dei vivi, ove sarebbe sempre più che benvenuto.

suor Simona Brambilla, Mc

Sepoltura e tomba nel cimitero della Consolata a Massangulo

 


Breve biografia

 

Padre Giuseppe Frizzi nasce a Suisio (Bg) il 14 maggio 1943. Entrato giovanissimo tra i Missionari della Consolata, emette la prima professione religiosa nel 1963 e nel 1969 viene ordinato sacerdote a Roma.
Dopo i primi studi di filosofia e teologia a Roma, nel 1973 consegue il dottorato in teologia biblica presso la Westfälische Wilhelms Universität di Münster (Germania) con una tesi su Mandare/inviare in Luca – Atti.
Padre Frizzi viene inviato in Mozambico nel 1975 e vi rimarrà fino alla morte. Per molti anni è parroco della parrocchia di san Luca a Maúa e direttore del Centro studi Macua Xirima della diocesi di Lichinga, situato nella stessa parrocchia. Lì coniuga in modo ammirevole e armonico un intenso e gioioso impegno pastorale, anche nel periodo drammatico della guerra civile, con un inesauribile dinamismo di preghiera, riflessione, studio, dialogo a vari livelli. Matura una lunga e profonda esperienza nel campo della evangelizzazione inculturata, della ricerca etnografica, linguistica, antropologica culturale e missiologica, che sfocia anche in molte pubblicazioni.

Nel 2009, padre Frizzi viene insignito della laurea Honoris causa in missiologia da parte della Pontificia Università Urbaniana in Roma. Dopo una brevissima malattia, padre Frizzi torna alla Casa del Padre il 30 ottobre 2021, proprio ai vespri della memoria liturgica della Beata Irene Stefani, missionaria della Consolata, alla quale era spiritualmente legatissimo e per la cui causa di beatificazione aveva dato il suo fondamentale contributo.

S.B.

IL CIMX:
un centro di ricerca e incontro interculturale

Il Centro investigações Macua Xirima, fin dagli inizi, ha perseguito diverse piste di ricerca:

  • catechesi, bibbia e liturgia (1);
  • lingua, educazione, cultura (2);
  • scultura, pittura, architettura (3).

Il Cimx, fino a questo momento, è stato un organismo flessibile e di tipo familiare con la sua sede principale in alcuni locali della parrocchia di Maúa, che conservano lo stile semplice e sobrio dell’ambiente in cui sono inseriti. In questi locali, alcuni computer costituivano gli strumenti di lavoro dei collaboratori addetti a ricevere e archiviare il materiale proveniente dai ricercatori sul campo.

Questi erano persone di Maúa e dintorni che, in accordo con padre Frizzi, si recavano nelle varie comunità locali partecipando a riti, conversando con gli anziani, i saggi e i terapeuti tradizionali, e raccogliendo così materiale orale che registravano su audiocassette oppure trascrivevano su quaderni. Il materiale veniva consegnato al padre che ne prendeva visione e operava una prima selezione eliminando le ripetizioni. Vieniva quindi archiviato in formato cartaceo e digitale con rispettiva traduzione in portoghese.

Il Cimx è stato pure la sede della commissione locale per la traduzione della Bibbia in lingua macua xirima: lavoro durato una decina d’anni, che ha visto coinvolti padre Frizzi e una decina di collaboratori locali, uomini e donne, animatori di comunità cristiane.

Ancora, il Cimx è stato sede delle commissioni per l’elaborazione e revisione di varie pubblicazioni xirima in campo linguistico, catechetico, liturgico ed educativo.

Al Cimx hanno fatto riferimento vari artisti, pittori e scultori della Scuola d’arte san Pietro Claver, che operano in diverse località del distretto di Maúa e limitrofi.

Siamo fiduciosi che possa continuare nella sua missione.

S.B.

1 Segnaliamo le seguenti pubblicazioni che fanno capo al Centro:

  • il Catechismo degli adulti e dei bambini (1986); il Messale festivo – Masu a Muluku, seconda e terza edizione (1986 e 1999);
  • l’edizione ampliata e illustrata del libro di canti e preghiere – Mavekelo ni Itxipo (1986 e riedi­zione nel 2003);
  • il Nuovo Testamento – Watana wa nanano e il Libro dei salmi – Masalimu (1998);
  • la vita di Gesù illustrata – Yesu Atata ni Namuku, nell’edizione italiano/macua (2000), portoghese/macua (2002) e inglese/macua (2007);
  • La Bibbia in lingua xirima – Bibliya Exirima (2002).

2 Segnaliamo le seguenti pubblicazioni che fanno capo al Centro:

  • Mwana Mutthu Owo! (2002), un’antologia illustrata bilingue di racconti e proverbi tradizionali, ora in uso nelle scuole;
  • il Dicionário Xirima-Português e Português-Xirima (2005);
  • Murima ni Ewani Exirima – Biosofia e Biosfera Xirima (2008), una presentazione monumentale della cosmologia xirima attraverso testi tradizionali di proverbi, rac­conti, miti e riti;
  • Fragmentos e Segmentos da Biosofia e Biosfera Xirima (2020), una compilazione di temi significativi della cultura xirima, esplorati dall’autore attraverso la raccolta di testi rilevanti per la cosmovisione del popolo (approccio etnografico), l’analisi degli stessi (approccio etnologico) e il confronto con temi biblici e cristiani (approccio teologico – dialogo interreli­gioso).

3 La Scuola d’arte san Pietro Claver è parte integrante del Cimx. Ad essa si ri­fanno artisti locali che nel campo della scultura e della pittura sanno dare un contributo originale, espressione della loro cultura. In particolare, i crocifissi lignei scolpiti da questi artisti sono apprezzati in Mozambico e all’estero. Le illustrazioni delle pubblicazioni del Cimx sono tutte opere di artisti locali. Anche l’architettura delle nuove chiese e i lavori di recupero ed abbellimento delle vecchie chiese dopo la restituzione alla diocesi da parte dello stato, nella zona di Maúa e dintorni, si sono avvalsi di vari elementi culturali e dell’uso creativo di materiale locale.

Disegni Makua Sirima a matita sull’argomento della Beata Irene.

Il disegno Macua Xirima a matita, di Afonso Murupala, sull’argomento della Beata Irene, presentato a Roma durante l’incontro IMC, MC e LMC nel 13° Capitolo generale IMC, è un esempio dell’arte sviluppata nel Cimx. Questo il significato:

  • Suor Irene è una missionaria conosciuta in tutto il mondo per il suo casco coloniale. L’artista trasforma il casco coloniale e ne fa un cappello parigino, tanto elegante da attirare l’ammirazione dei due soldatini.
  • L’elegante e simpatico cappello, insieme alle ali del grande Spirito, adombrano l’immenso cuore materno della Nyaatha (madre di mi­sericordia) keniana e della Pwiyamwene (madre del popolo) mozambicana.


Grazie padre Frizzi,  fratello nostro

La perdita così repentina di una persona come padre Frizzi lascia in chi lo ha conosciuto da vicino un grande vuoto e dolore assieme a una viva,  immensa, profondissima gratitudine per aver avuto il privilegio, la grazia e l’onore di averlo incontrato e di aver condiviso con lui un tratto di cammino. A nome mio personale e dell’istituto delle Missionarie della Consolata desidero esprimere il nostro sentito e commosso grazie al carissimo padre Giuseppe Frizzi, fratello nostro.

Sì, padre Frizzi, proprio questo termine ha caratterizzato e cadenzato la tua presenza tra noi Missionarie della Consolata: fratello. Quante sorelle, dopo averti incontrato, mi hanno espresso questo commento: «Padre Frizzi è proprio un fratello». Ti abbiamo sentito e ti sentiamo così. Profondamente, autenticamente, inconfondibilmente fratello. Ti abbiamo visto avvicinarti a noi in tanti modi e occasioni, sempre col tuo fare rispettosissimo e umile, col tuo sguardo attento e discreto, col tuo sorriso timido, genuino e disarmante, col tuo cuore sensibilissimo e disponibile, ardente e mite, con la tua mente vulcanica, lucida, acuta e penetrante, con la tua parola sobria, stimolante e soave, con il tuo spirito libero, trasparente, effervescente e delicatissimo, capace di elevarsi ad altezze impensabili e di inabissarsi nelle profondità più recondite del Mistero di Dio e delle creature.

Ti abbiamo visto varcare la soglia di tante nostre comunità, e dei nostri cuori, con somma discrezione e altrettanta premurosa vicinanza: in ogni incontro con le Sorelle nelle varie assemblee, momenti di formazione comunitaria, Esercizi spirituali e altre piccole e grandi occasioni che ti abbiamo chiesto di condividere con noi, in Mozambico, in Kenya, in Tanzania, in Guinea Bissau, in Italia, in Brasile, in Bolivia. Con gioiosa e pronta disponibilità sei venuto, in punta di piedi, sei entrato in sintonia col nostro cammino, lo hai respirato, lo hai fatto in qualche modo tuo, benedetto e illuminato con la tua presenza, sempre umile, semplice, calda, dolce e affidabile, salda e tenera.

Missionario spigolatore

Quante volte, durante questi nostri incontri, ci hai parlato della missione, aiutandoci a leggere, specialmente attraverso il Vangelo di Luca, le coordinate di un cammino missionario consolatino all’insegna del dialogo, del tessere ponti, del divenire, come amavi chiamare te stesso, «cronici minatori», cioè persone che scavano, che vanno in profondità in se stesse e nel contatto con l’altro, rintracciando tesori nascosti, intercettando il movimento dello Spirito che danza in ogni cuore e in ogni popolo, cogliendo con stupore, gioia e gratitudine, il cammino di Dio nel cuore della persona e della cultura, dove il Signore, come amavi dire «è di casa e a casa».

Ci hai segnato la via di una missione nel segno dell’umiltà di chi si china a spigolare nel campo, raccogliendo quanto Dio ha già operato, mentre getta il seme del kerigma che feconda il terreno umano.

Missionario con lo zaino

L’ultima volta che ci hai fatto dono della tua presenza è stata in agosto 2021, a Nairobi, per un’importante assemblea a livello di Africa. Lì ci dicevi, tra l’altro:

«La missione non è subito seminare, ma mietere, mietitura, messe. Il Seminatore è Dio, gli inviati i mietitori. Il seme della mietitura è di Dio oppure Dio stesso, i mietitori lo raccolgono nel loro zaino. La messe è immensa, i mietitori sono pochi. La vocazione dell’inviato è speciale, singolare, rarissima…».

Ti piaceva tanto la metafora dello zaino, e commentando il Vangelo di Luca sottolineavi che noi missionari e missionarie siamo chiamati a partire e arrivare presso il popolo a cui siamo inviati con lo zaino vuoto, per lasciarcelo riempire dai tesori che Dio vorrà donarci nel contatto con l’esperienza spirituale di quel popolo, entrando con rispetto e gratitudine nella sua casa vitale.

Anche in quest’ultima occasione, a Nairobi lo scorso agosto, come spesso facevi, sei tornato sulla dimensione del ritorno dalla missione, ricordandoci che l’inviato sempre ritorna al Mittente, e vi ritorna con lo zaino pieno. Commentavi così il brano evangelico del ritorno dei discepoli dalla missione (Lc 10,17-24):

«Mietendo dalla messe di Dio già arata e coltivata, gli inviati non possono ritornare se non con lo zaino pieno di meraviglie di Dio, conosciuto di casa e a casa là dove sono stati inviati. Insomma, inviati a mietere ritornano da mietitori con il cuore che trabocca di gioia […]. Gesù invita l’inviato a deporre lo zaino, a svuotarlo per riempirlo di contenuti definitivi e non più transitori legati alla dinamica della missione, ma ora legati all’estasi finale della missione, all’estasi trinitaria, nella quale l’inviato ritorna al Mittente e si immerge in Lui in simbiosi e osmosi estatica e instatica, in profonda conoscenza e adorazione del mistero trinitario, ‘beatificato’ e trasfigurato».

Il tronco – fonte battesimale della chiesa di Nipepe dove è avvenuto il miracolo della Beata Irene

Beata Irene

Carissimo Fratello nostro, è così che ora ti sentiamo e vediamo: per lunghi anni hai riempito lo zaino del tuo cuore e del cuore di molti e molte spigolando nel campo missionario che Dio ti ha donato, tra il popolo Macua.

Hai intercettato la danza dello Spirito nell’anima profonda di questo amatissimo popolo, mietendo e seminando Vangelo; hai gioito e ci hai fatto gioire delle meraviglie che Dio aveva seminato e fatto crescere nel suo campo che è lo spirito della persona e della cultura, hai restituito a noi che ti abbiamo conosciuto i frutti splendidi che hai raccolto.

E tutto questo non lo  hai fatto da solo. Lo hai fatto coltivando un’esperienza profonda di Dio, lo hai fatto in comunione con tanti fratelli e sorelle con cui hai tessuto relazioni di autentico scambio di doni, lo hai vissuto in compagnia di una Sorella straordinaria: la beata Irene, che ti ha stimolato, illuminato, ispirato in tutto il tuo cammino missionario, fino a raggiungerti nell’ora del ritorno e a volerti con sé per celebrare in Cielo la sua Festa, il 30 ottobre scorso. Lì, nel Cielo, accompagnato per mano da Irene, hai portato, Fratello, il tuo zaino pieno, per restituirlo tutto a Dio e in Lui immergerti, assaporando ora in pienezza l’abbraccio dell’Amore tenerissimo e forte della Trinità, in lei beatificato e trasfigurato.

Celebrazione del funerale di padre Giuseppe Frizzi nel Santuario della Consolata di Massangulo.

Grazie, Fratello nostro! Dal grembo di Dio Madre, dove ora dimori, continua a sorriderci, animarci, accompagnarci, benedirci, ispirarci. Amen, alleluia.

suor Simona Brambilla, Mc


Da archivio MC

 

 




Nel cuore e alle frontiere d’Europa

Il vecchio continente è il «qui e ora» della missione. Per i Missionari della Consolata è il luogo delle radici, della sorgente del loro carisma. Sempre più è vera frontiera di testimonianza, annuncio e consolazione.

Non come lupi solitari, ma come tessitori di reti.

«Le riflessioni teologiche o filosofiche sulla situazione dell’umanità e del mondo possono suonare come un messaggio ripetitivo e vuoto, se non si presentano nuovamente a partire da un confronto con il contesto attuale, in ciò che ha di inedito per la storia dell’umanità» (Laudato si’, n. 17).

Questa breve citazione di papa Francesco, tratta dall’enciclica Laudato si’, sarebbe potuta essere il cappello sotto cui collocare tutta la riflessione della prima Conferenza della neonata Regione Europa dei Missionari della Consolata.

Questo incontro, iniziato in streaming lo scorso mese di maggio e conclusosi in presenza a Fátima (Portogallo) dal 20 al 24 settembre 2021, ha di fatto sancito l’unione in un’unica circoscrizione (iniziata giuridicamente due anni fa) delle nostre comunità di Missionari della Consolata in Italia, Polonia, Portogallo e Spagna.

Ne è nato un documento interessante, il Progetto missionario regionale, una sorta di vademecum che, definendo in modo chiaro alcuni obiettivi, cerca di individuare criteri e linee di azione per giungere a una nuova comprensione, e quindi a un nuovo orientamento di ruolo e azione, del missionario della Consolata oggi in Europa.

Momenti della Conferenza e veduta dei partecipanti

Il contesto

Come emerge chiaramente dalla citazione di papa Francesco, il confronto con l’hic et nunc, il «qui e ora» della missione, deve essere l’imprescindibile punto di partenza come anche l’auspicato traguardo dell’impegno missionario nel continente.

La Conferenza ha ribadito l’importanza di dedicare tempo e attenzione all’analisi del contesto, in modo che essa possa diventare atteggiamento e metodo, ispirazione e prassi.

È inutile ricordare come la missione in Europa sia stata caratterizzata fino a non molti anni fa da una dimensione totalmente opposta: era una missione ibi et post, «lì e dopo», che si svolgeva altrove, e per la quale in Europa ci si preparava, tanto da un punto di vista accademico professionale, quanto economico e strutturale.

La Conferenza regionale ha scelto di focalizzare il proprio lavoro sull’analisi della realtà, nella consapevolezza che è il contesto che sceglie noi, ci interpella come cristiani e missionari, ci obbliga a prendere decisioni, orientare la preghiera, ispirare l’azione.

Mentre scrivo, svariati paesi dell’Europa sono nuovamente sfidati da una crescita esponenziale del Covid, le cui conseguenze economiche e sociali generano un malcontento popolare difficile da controllare e per giunta cavalcato in modo opportunista e strumentale da frange estremiste e xenofobe.

Al confine orientale dell’Unione europea va in scena una tragedia umana di dimensioni epocali con migliaia di migranti esposti ai rigori dell’inverno, che rischiano di morire di freddo, stenti o botte al confine tra Polonia e Bielorussia.

Reticolati e muri diventano la cifra delle nostre relazioni, mentre la Cop26 ha lasciato senza risposta gli interrogativi circa la volontà dei governi di assumere impegni concreti e soprattutto urgenti e credibili nei confronti della salvaguardia del pianeta (cfr il Dossier di questo numero).

In soli dieci giorni tutti questi fatti sono stati oggetto di cronaca, hanno rappresentato il «qui e ora», uno scenario in cui anche il missionario può dire la sua. Anzi, è chiamato a farlo.

11.11.2021 – Fot. Irek Dorozanski / DWOT

Dal Marocco alla Bielorussia

Ecco allora che, qualcuno dice profeticamente, la prima Conferenza della Regione Europa Imc ha dato il visto buono all’apertura della comunità di Oujda, in Marocco, vicino al confine con l’Algeria. Il Marocco non è in Europa, ma Oujda è, oggi, un punto di approdo per chi ha appena terminato di attraversare il deserto e arriva in condizioni di grande bisogno a un punto cruciale del suo viaggio della speranza verso l’Europa. Sono stati i nostri confratelli in Spagna, da anni parte di una rete/osservatorio sui movimenti migratori nel Mediterraneo, a spingere affinché l’Istituto scegliesse un impegno concreto in questa realtà.

La stessa Conferenza ha dato il via libera alla volontà dei missionari della Consolata in Polonia, di aprire una seconda comunità, in una città a trenta chilometri dalla frontiera con la Bielorussia.

Nel 2008, il nostro Istituto aveva scelto di dare vita a una presenza in Polonia per essere germe di universalità e interculturalità in una Chiesa tradizionalmente molto forte, ma che sentiva il bisogno di essere maggiormente stimolata nella propria dimensione missionaria.

Sarebbe dovuto anche essere un primo passo verso un’ulteriore apertura nell’Est Europa. Oggi, è significativo essere presenti come segno di fraternità universale in quella frontiera simbolo della chiusura delle nostre frontiere e dei nostri cuori.

Senza il bisogno di tante parole, le nostre comunità interculturali, formate da confratelli provenienti da tre diversi continenti, annunciano che la logica del Vangelo è quella del ponte, non certo quella del muro o del cavallo di frisia.

Ovviamente, è importante formarsi in maniera adeguata a questa missione. Il Progetto missionario regionale europeo ha ben chiaro che soltanto chi saprà usare in modo armonico Bibbia e giornale, spiritualità e attenzione alla realtà, riuscirà a penetrare le pieghe di una cultura in continua evoluzione e rispondere a sfide importanti come quelle che la Chiesa sta vivendo oggi in Europa: la perdita di significato e di credibilità, la marginalizzazione, l’essere divenuti minoranza.

Educarsi alla missione in Europa, oggi richiede il coraggio di cambiare paradigma formativo, associando alla ricerca di una spiritualità forte, costruita sull’incontro costante e profondo con la Parola, l’inserimento in comunità che siano allo stesso tempo apostoliche e formative, in cui la ricerca di una buona preparazione accademica si sposi con un’approfondita conoscenza della realtà e delle persone che la compongono.

Climate March

Carisma

Va da sé che la bontà o meno del Progetto regionale, la sua assunzione da parte delle comunità di missionari della Consolata e la messa in pratica nelle varie attività regionali, dipenderanno in gran parte dalla capacità che le comunità avranno di rileggere e interpretare il carisma del nostro istituto alla luce dell’oggi.

Le nostre comunità Imc in Europa, in particolare quelle in Italia, sono depositarie di un patrimonio spirituale e carismatico importante. Esse vivono e operano nei luoghi dove tutto ebbe inizio, ma guai se questi si trasformassero in una sorta di museo spirituale, dove trovare una collezione di cimeli con i quali crogiolarsi nel ricordo dei «bei tempi andati».

Oggi il nostro Istituto, come del resto altre congregazioni fondate più o meno nello stesso periodo (a cavallo fra 19° e 20° secolo), sta vivendo un’esperienza particolare: da una parte l’estinzione di una generazione di missionari che ha conosciuto o è stata molto vicina alle fonti dirette del carisma, le ha studiate e tramandate, alcune volte pubblicando testi che sono ancora imprescindibili per chi vuole conoscere la storia e lo spirito delle nostre missioni; dall’altra l’emergere di una nuova generazione di missionari che corre il rischio di perdere il legame vitale con la storia dell’Istituto e quindi di non essere capace di trasmettere con efficacia l’eredità spirituale di chi ci ha preceduto.

La Regione Europa Imc ha il dovere di continuare a essere «culla» del carisma, ma deve altresì essere anche «girello», strumento attraverso cui il pensiero di Giuseppe Allamano e le intuizioni significative dei missionari cresciuti sotto le sue ali, vengono portati per le vie della nostra missione di oggi nel continente. Pensieri e intuizioni depurati di tutto quanto non è più attuale e creativamente nutriti delle nuove e dinamiche manifestazioni dello Spirito.

Manifestante alla protesta contro il mandato vax protesta con cartello con messaggio “Nessun vaccino forzato”

Le parole della missione

Come comprendere e declinare, allora, alcune parole che fanno parte del nostro bagaglio missionario alla luce di dove e di quanto stiamo vivendo?

La parola annuncio, per esempio, attraverso la quale il missionario riscopre oggi, anche in Europa, il suo ruolo di araldo del Vangelo, di messaggero del primo annuncio, di testimone di Cristo, presentato a chi non lo ha incontrato prima o a chi, forse, ne ha soltanto sentito parlare in tempi ormai lontani.

Oggi, il missionario, per essere tale, per poter continuare a fregiarsi di un titolo che gli viene attribuito in virtù di una vocazione specifica, non può abdicare alla missione di cercare «i lontani», anche quelli che si trovano dietro l’angolo, di entrare in dialogo con quelle frange di umanità che non hanno mai frequentato, o non frequentano più, i nostri abituali recinti.

Come comprendere oggi la parola consolazione? L’assemblea dei missionari riuniti in Conferenza ha cercato di leggere la portata attuale di questo termine che è parte del nostro nome, parola con la quale ci presentiamo. Le nostre comunità non cessino di essere presenza viva, autentica e prossima a chi sta sempre ai margini, affamato di compassione e condivisione.

Che senso possiamo dare oggi alla parola parrocchia, perché indichi una realtà che sia un segno distintivo del nostro modo di vivere la missione ad gentes, soprattutto nelle periferie delle città europee?

Come ricomprendere il termine economia, riferita alla vita materiale delle nostre comunità Imc, in modo che diventi non soltanto uno strumento funzionale all’organizzazione della vita e delle opere dei missionari, ma sia una vera e propria dichiarazione di intenti nella testimonianza di giustizia, impegno per la pace e salvaguardia della casa comune nella quale viviamo?

Riempire le parole di un significato nuovo e attuale, non lasciare che risuonino vuote, fare in modo che parlino veramente alla testa e al cuore delle persone che incontriamo, è una delle prime condizioni per dare corpo alla nostra missione in Europa.

Celebrazione eucaristica presieduta da padre Alvaro Pacheco

Camminare insieme

Sappiamo che la strada da percorrere non è facile.

I missionari della Consolata riuniti a Fátima non hanno peccato di ingenuità, e sono stati ben contenti di ritrovarsi insieme in un luogo benedetto dalla presenza della Vergine Maria, loro protettrice, per affidare ancora una volta a lei le scelte impegnative che li attendono dietro l’angolo.

Alcune circostanze del contesto europeo non vanno prese sottogamba, e obbligano chi dirige oggi il cammino della Regione a fare i salti mortali per riuscire ad armonizzare l’utopia con il disincanto, la provvidenza con il realismo.

In alcuni casi saremo certo obbligati a puntare al ribasso: la nostra missione è oggi più povera di risorse, tanto umane quanto economiche, rispetto al passato; ciò avviene per tante e diverse ragioni che vanno dalla perdita, nella società, del senso religioso e dell’affezione verso il mondo missionario, al crollo di fiducia (soprattutto delle generazioni più giovani) verso la Chiesa vista come istituzione.

Stiamo diventando (fisicamente e metaforicamente) più anziani e, con l’età, non mancano gli acciacchi. Questo ci obbliga a «dimagrire», a spendere energie in un processo di spoliazione tanto doloroso quanto inevitabile. Questo fenomeno, non serve nascondersi dietro un dito, condizionerà le scelte attuali e future e andrà tenuto sempre presente per poter progettare una missione che sia anche fattibile.

Tuttavia, non siamo esentati dal sollevare la testa guardandoci intorno. Dobbiamo continuare a dire: «Possiamo», se lo vogliamo, e, soprattutto, se crediamo fermamente che lo vuole il Signore. Lui non farà mancare il suo aiuto nei momenti di aridità, di «impantanamento», di difficoltà anche drammatica, come tante volte ha dimostrato nel passato. A noi sta il compito di provarci sempre e comunque.

Nel corso dei prossimi mesi, MC vi porterà a spasso per alcune delle nostre comunità in Europa, perché vogliamo condividere con voi alcuni tentativi già in atto di vivere l’ad gentes alla luce dei tempi e dei luoghi in cui siamo inviati ad annunciare il Vangelo.

Saranno questi percorsi, accompagnati dalla viva voce dei missionari che li hanno intrapresi, a spiegare con chiarezza, sicuramente meglio delle parole di questo articolo, che cosa intendiamo per missione in Europa oggi.

Nel fare questo, inoltre, non nascondiamo il nostro desiderio di coinvolgere in questa avventura anche voi che, in questo momento, state leggendo MC.

L’invito a seguirci che vi rivolgiamo, vuole, infatti, sancire un altro dei criteri che il Progetto regionale reputa fondamentali per vivere la nostra missione nella gioia ed efficacemente: fare rete, non pensare di voler costruire il Regno di Dio da soli, camminare con altri.

La Chiesa oggi chiama questo stile «sinodalità», e dà a esso così tanta importanza da aver deciso di istituire un Sinodo su questo tema, e di voler dedicare il tempo che intercorrerà tra adesso e la sua celebrazione (ottobre 2023) a un cammino di ripensamento della Chiesa sulla base del coinvolgimento comunitario. La missione oggi in Europa non può essere fatta da «lupi solitari»; non è più il tempo per camminare da soli.

A questo riguardo, nel ribadire che il vero agente della missione è la Chiesa locale, la Conferenza dice che, pur preservando le nostre specificità e il nostro carisma, è soltanto all’interno di essa e in comunione con essa che la nostra missione sarà gioiosamente efficace, gratificante e, chissà, magari anche profetica.

Il nostro stile di presenza in un mondo caratterizzato sempre più dalla multiculturalità ci apre a bellissime esperienze di collaborazione in tutto il Continente, tanto nel catecumenato, quanto, più in generale, nella catechesi degli adulti, nella formazione dei catechisti e nella pastorale migranti.

In contesti, anche ecclesiali, tentati dalla chiusura e dall’autoreferenzialità, il nostro apporto negli uffici missionari delle varie diocesi può essere (e di fatto lo è) valorizzato come una boccata d’aria fresca. Sempre e soltanto nel momento in cui, però, la chiesa locale diventi veramente famiglia, compagna di viaggio.

Infine, sempre nello spirito della sinodalità, la nostra missione in Europa deve continuare a guardare fuori dal proprio orto. Grazie alla generosità e al sacrificio di tanti, le nostre comunità hanno potuto costantemente dare una mano a quelle degli altri continenti. Secondo il principio che si può aiutare le nuove chiese sia partendo che donando, molti nostri benefattori ci hanno permesso di non essere estranei a tante situazioni di dolore e necessità nel mondo.

Chiediamo però che questa disposizione, sempre attiva nel sostenere progetti di sviluppo, programmi di formazione e sostegno a distanza, crei rapporti di interscambio con altre realtà del mondo che, grazie al dono della loro cultura e delle loro tradizioni, possano aiutarci a far comprendere e accogliere alle nostre chiese il dono dell’altro.

Ugo Pozzoli
* Regione Europa Imc

Visione generale del Santuario di Fatima dalla spianata




Una vita per la Missione


Uno dei sogni di ogni missionario è quello di morire in terra di missione ed essere sepolto all’ombra del baobab, in mezzo al popolo che ha tanto amato. Non è stata la sorte di padre Franco Gioda. La sua gente in Mozambico non ha potuto accompagnare nel suo ultimo viaggio il corpo di colui che ha servito la missione con un ardore eccezionale.

Tutta la vita di padre Franco è stata intessuta di missione: da quando lasciò il seminario diocesano di Torino per diventare missionario della Consolata.

Intessuti di missione furono gli anni trascorsi in Italia, per la formazione, l’animazione, la direzione. Ma molto più intensi furono quelli vissuti in Mozambico.

Nel Niassa

La sua prima missione fu nel Niassa, durante la lunga e dolorosa guerra di indipendenza. Quando tutti vivevano in allerta, per timore di imboscate o assalti, padre Franco non tralasciava di visitare le comunità dei cristiani nei villaggi lontani. In bicicletta o a piedi, su sentieri impervi, con il sole o la pioggia, giornate e giornate di cammino per incontrare le piccole comunità, pregare, celebrare, dare coraggio e speranza: «Dio non vi abbandona, io sono qui nel suo nome».

Più di una volta fu sorpreso da attacchi di guerriglieri, sparatorie e saccheggi. E i cristiani lo nascondevano affinché non lo scoprissero. E quando l’assalto finiva, tutti, cristiani e no, lo salutavano e lo ringraziavano: «Dio ci ha protetti dalla morte, perché tu eri qui con noi! Ma, padre, perché sei venuto fin qua?». E lui: «Sono qui per Lui!», diceva alzando un crocifisso.

«Giovane» a Fingoé

«Lui» è stato la ragione della vita missionaria di padre Franco. In questi ultimi anni, superati i settanta, ma sentendosi ancora un giovanotto, ha fondato con altri due confratelli la missione di Fingoé, nella diocesi di Tete. Fingoé è il capoluogo di una regione vasta 30mila Km2, come Piemonte e Liguria insieme. Dal 1974 era rimasta senza nessuna presenza missionaria in assoluto. E padre Franco, quotidianamente, prima in macchina, poi in moto, e poi a piedi, secondo le possibilità che le cosiddette strade permettevano, visitava i villaggi. Incontrando qualcuno, chiedeva: «Amico, sai se qualcuno qui è cristiano?». «Mi sembra che nella famiglia che vive in quella casa là, qualcuno sia cristiano, ma non sono sicuro, perché qui non abbiamo missionari. Anch’io ho studiato con i padri, ma tanti anni fa». E padre Franco: «Non ti piacerebbe incontrarti con altri e insieme conoscere Dio e Gesù?», e così, iniziava con 4-5-10 persone. Passava poi in un altro villaggio, e un altro, e un altro. Decine di villaggi che oggi sono piccole e grandi comunità cristiane nel vasto territorio che forma la missione di Fingoé.

I capisaldi

Padre Franco credeva nell’importanza della «presenza» e, a costo di non avere un solo giorno di respiro, visitava continuamente tutte le comunità, anche le più piccole. I sentieri, le scarpate, le salite, la pioggia non spaventavano il «giovane» padre Franco. Lui – Gesù – doveva essere conosciuto e amato da tutti.

Con orgoglio padre Franco mostrava la mappa dei suoi villaggi. Non c’è ancora una carta geografica che li segnali, ma lui li aveva tutti identificati, con nome, abitanti, distanze, catecumeni, cristiani. La mappa del tesoro, le sue comunità.

L’altro caposaldo della sua missione era la formazione dei catechisti a cui dedicava tempo ed energie. Ecco allora il centro catechistico da lui fondato a Uncanha dove non bastava che i catechisti conoscessero la Bibbia, ma dovevano essere uomini e donne di Dio, capaci di testimoniare con la vita il Vangelo che predicavano e poi di ardere di vero spirito missionario per andare a evangelizzare le comunità.

A Fingoé, padre Franco ha vissuto la missione «che aveva sempre sognato», come lui stesso ha detto, dove si è sentito ringiovanito potendo dare tutto se stesso per i fratelli in nome del Vangelo.

A San Paolo di Tete

Quando è stato destinato alla città di Tete per dar vita alla nuova missione di San Paolo, ha accettato a malincuore, per obbedienza. La sua gente di Fingoé gli mancava. Quando però si è reso conto che San Paolo non era solo la periferia della città, ma anche una grande regione tra i fiumi Zambesi e Luenha, che pochi missionari negli anni avevano visitato, si è animato, e a 80 anni gli si sono aperti nuovi orizzonti. Con un gruppo di giovani e alcuni anziani e anziane, due volte alla settimana si è inoltrato in quella regione lasciando l’auto da qualche parte, e poi camminando fino ad arrivare a un villaggio, e là chiedere: «Amico, sai se…».

Ventidue nuove comunità sono sorte in questi ultimi due anni. Comunità che hanno già costruito le proprie cappelle, segno della presenza del Signore e della fede di un popolo umile e credente.

Il 17 ottobre scorso è morto un missionario che davvero ha annunciato un Nome, un Mistero, un Senso, una Vita: il Signore Gesù. Lui, Colui che nobilita, affratella, rende le persone migliori.

Lui, accolga il suo missionario tra le sue braccia, e gli faccia vedere la bellezza del Volto che a tutti ha annunciato.

Sandro Faedi

Il fuoco della Missione

Padre Franco ha servito con dedizione e amore molte comunità cristiane nel Niassa. Ha servito la Chiesa con passione. Durante la guerra civile ha percorso migliaia di chilometri in bicicletta per portare la Parola di Dio, l’Eucaristia e la consolazione alle comunità cristiane sparse nella regione. Ha subito imboscate, ha sofferto fame e sete, ha soccorso feriti, ha seppellito morti. Non aveva paura, ha sempre avuto fiducia nella protezione dall’Alto.

Nel 2012, all’età di 74 anni, ha accettato di accompagnare il vescovo Ignacio Saure a Tete. Il suo cuore missionario lo ha portato a visitare le comunità cristiane abbandonate di Marávia e Zumbo.

Nel 2014, all’età di 76 anni, ha iniziato la parrocchia di Fingoé. Si è dedicato con competenza pastorale e grande sacrificio all’animazione e alla creazione di comunità cristiane nelle missioni di Uncanha e Zumbo. Nel 2018 ha fondato il Centro catechistico di Uncanha per la formazione dei catechisti (vedi lettera di padre Carlo Biella).

Nel 2019 ha accettato la sfida di andare a lavorare nella città di Tete. Ha restaurato la parrocchia di San Paolo e l’ha trasformata in una parrocchia viva e missionaria. Ha fondato la parrocchia di Matambo. Ha visitato tutti i villaggi. Ha aperto nuove comunità, formato catechisti. Si è dato completamente fino alla fine, senza mezze misure. Ardeva nel suo cuore il fuoco della carità e la passione per la missione. Sempre disponibile a tutto e a tutti.

Accogliamo la sua scomparsa fisica e lasciamoci ispirare dalla sua vita, dal suo lavoro e, soprattutto, dalla sua viva testimonianza di fede, di simpatia e di bontà.

Ha amato e servito la Chiesa in tutto dando una testimonianza viva di fede e di missione. Viveva totalmente per Dio e per gli altri.

Il sacerdote è soprattutto l’uomo della carità; è padre più per gli altri che per se stesso. Durante la sua vita sacerdotale padre Franco si è ispirato a questa regola di vita e l’ha incarnata nella sua azione.

Avendo compiuto la sua missione accanto ai suoi fratelli, è stato chiamato a vivere nella gloria del Signore. Ora, gli sia dato di partecipare all’eternità riservata a coloro che sulla terra sono stati amici di Dio e hanno fatto la sua volontà.

Diamantino Antunes
Vescovo di Tete

Brevi note biografiche

Franco Gioda nasce a Poirino (To) il 17/07/1938.  Entra tra i Missionari della Consolata ed emette la prima professione dopo il noviziato in Certosa di Pesio il 02/10/1959.
È ordinato sacerdote a Torino dal cardinal Maurilio Fossati il 30/03/1963. Dopo aver servito prima nel seminario di Benevagienna (Cn) e poi di Biadene (Tv), passa per due anni nel seminario di Ermesinde in Portogallo. Nel 1970 parte per il Mozambico dove è viceparroco prima a Maica e poi a Nipepe, nel Niassa. Sono gli anni della guerra di indipendenza della Frelimo contro i portoghesi.

Richiamato in Italia a fine 1973, lavora per dieci anni come animatore missionario in varie case, e nel 1983 riesce a tornare nel suo amato Mozambico, dove, fino al 2000, alterna il servizio di parroco a quello di superiore (1990-1996) del gruppo dei missionari in quel paese. Sono i tempi duri della guerra civile tra Frelimo e Renamo (1981-1994).

Nel 2000 rientra in Italia. Dopo un periodo trascorso come animatore in Certosa di Pesio, serve per sei anni come superiore della regione, fino al 2008, quando va a Martina Franca (Ta). Nel 2011 torna nuovamente in Mozambico. Vive i suoi ultimi anni nella diocesi di Tete, prima con il vescovo Ignácio Saure e poi con monsignor Diamantino Antunes.

Rientrato in Italia per cure nel 2021, ha raggiunto la meta del suo camminare il 17 ottobre 2021, ad Alpignano (To). È sepolto nel Cimitero monumentale di Torino.

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Grande, Romero, Proaño, avvocati degli oppressi


Perseguitati, incarcerati, uccisi. Rutilio Grande, Leonidas Proaño, Oscar  Romero, tre grandi esponenti della Chiesa latinoamericana. Tre uomini legati dalla fede e dalla scelta per gli ultimi. Tre uomini che hanno dato la vita per il riscatto e la nobilitazione degli oppressi.

Il primo passo della storia che vogliamo raccontare ci porta in Ecuador, alla scoperta della vita e dell’opera di un fulgido rappresentante della teologia della liberazione, il teologo e vescovo Leonidas Eduardo Proaño Villalba.

Proaño naque nel 1910 a San Antonio de Ibarra, un paese a soli sei chilometri da Ibarra, capitale della provincia di Imbabura, nel Nord dell’Ecuador. La sua infanzia trascorse in seno a una famiglia artigiana che si dedicava alla produzione di cappelli di paglia. Ebbe la possibilità di frequentare le scuole elementari e successivamente, grazie all’interessamento di un parroco amico del padre, fu inviato nel 1925 al seminario di San Diego di Ibarra. In quell’istituzione poté terminare gli studi superiori per poi proseguire l’approfondimento della filosofia e della teologia nel seminario maggiore di Quito, capitale del paese andino.

Nel 1936, esattamente il 29 di giugno, Leonidas Proaño venne ordinato sacerdote, dando inizio ufficialmente a un cammino che lascerà una testimonianza di fede e speranza per i più emarginati del paese, in particolare per le popolazioni indigene. Attivo fin dai primi anni ‘40 con opere di divulgazione e scrittura (fondò la libreria «Cardijn» nel 1941 e il giornale  «La Verdad» nel 1944), Proaño si fece strada dentro il clero ecuadoregno, prima nella sua provincia natale e poi, con la nomina a vescovo, nella capitale della provincia del Chimborazo, Riobamba (dal 1954 al 1985), situata nel cuore dell’Ecuador.

Mons. Proaño, «guerrigliero comunista»

È qui, nel centro del paese andino, che Proaño dispiegò, in modo avvolgente e innovativo, la sua opera di reinterpretazione sociale e di riscatto comunitario. Lo stesso governo dell’Ecuador, nei suoi archivi (consultabili online), racconta in modo dettagliato e coinvolgente le vicende di quegli anni, che videro come protagonista colui che passerà alla storia come il vescovo degli indigeni e dei poveri. In quegli archivi si legge che, nel 1954, monsignor Leonidas Proaño, vescovo di Riobamba, si dissociò dai modi tradizionali di esercitare il sacerdozio e, precursore del metodo «vedere-giudicare-agire», entrò nelle brughiere e nelle colline dell’ampia geografia della provincia del Chimborazo, per interiorizzare nella sua azione una visione profonda e veritiera del territorio. Nelle sue molte e lunghe visite, potè toccare con mano la dolorosa realtà degli indigeni maltrattati dai proprietari terrieri, in un sistema di oppressione ed espropriazione che continuava fin dai tempi della colonia. Proaño si schierò senza se e senza ma con gli indigeni, da lui riconosciuti come i più poveri tra i poveri, iniziando insieme a loro la più grande opera di liberazione e nobilitazione nell’Ecuador repubblicano.

Dal 1960 in poi, la sua opera di educazione e riscatto iniziò a estendersi sul territorio. Creò nel 1960 un progetto chiamato «Scuole radiofoniche popolari» e, nel 1962, fondò il «Centro di studi e azione sociale» con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo delle comunità indigene emarginate dallo stato. Proaño partecipò ai grandi movimenti di rinnovamento della Chiesa cattolica di quegli anni, come il Concilio Vaticano II e il Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), nel quale giocò un ruolo da protagonista.

Il vescovo di Riobamba dovette superare innumerevoli conflitti, incomprensioni, persecuzioni e accuse. Venne etichettato come il vescovo rosso, comunista, sovversivo e terrorista: il motivo di ciò risiedeva nella sua ostinata fermezza nell’esigere giustizia, terra e dignità per le popolazioni indigene. Tanti e tali attacchi lo portarono, nel 1973, a dover viaggiare a Roma per difendersi dall’accusa di essere un guerrigliero comunista: venne assolto, ma, nonostante ciò, rientrato in Ecuador, nel 1976 dovette assaggiare il carcere sotto la dittatura di Guillermo Rodríguez Lara. Leonidas Proaño lasciò all’età di 75 anni (nel 1985) la carica di vescovo, ma la sua opera non terminò quel giorno. Fu nominato presidente della Pastorale indigena e nel 1986 fu anche candidato al premio Nobel per la Pace. Il 29 maggio del 1988 inaugurò il centro di formazione delle missionarie indigene
dell’Ecuador, nella comunità di Pucahuaico, nel suo paese natale San Antonio di Ibarra. Morì a Quito il 31 agosto del 1988, ma pochi giorni prima, il 12 agosto, aveva fatto in tempo a creare la fondazione «Pueblo indio del Ecuador».

Proaño e Grande

In questa enorme e significativa vicenda umana c’è un punto di connessione con la storia di Rutilio Grande e quindi di Romero che avrà conseguenze regionali estremamente rilevanti. Proaño, dopo aver partecipato al Celam, venne eletto presidente del dipartimento della Pastorale e da quella posizione si fece promotore della creazione dell’«Istituto itinerante della pastorale dell’America Latina» (Ipla). Proprio a Quito, per frequentare i corsi dell’istituto, arrivò nel 1972 il sacerdote Rutilio Grande, avido di nuovi stimoli per rinnovarsi e distanziarsi dal conservatorismo radicale della Chiesa salvadoregna.

Dopo gli studi all’Ipla, Grande passerà alcuni mesi a Riobamba, nella diocesi di mons. Leónidas Proaño,  vivendo proprio nella casa di quel vescovo cordiale e semplice, austero e ospitale ma soprattutto vicino alla gente. Un modello di fede e di Chiesa molto diverso rispetto a quanto vissuto da Grande nel Salvador, che risvegliò in lui una nuova consapevolezza.

Un fedele mostra una foto di Rutilio Grande; il padre gesuita sarà beatificato il 22 gennaio 2022. Foto Vatican News.

Rutilio Grande, gesuita

Rutilio Grande nacque il 5 luglio 1928 a El Paisnal, un piccolo centro abitato a circa 45 km dalla capitale del Salvador, San Salvador. Membro di una famiglia numerosa e con genitori separati, dopo la morte della madre (avvenuta quando Rutilio aveva solo 4 anni) venne cresciuto dal fratello più grande e dalla nonna. La donna era una fervente cattolica e fu lei l’iniziatrice di Rutilio ai misteri della fede.

Altra figura essenziale nella vita di Rutilio fu quella dell’arcivescovo Luis Chávez y González, conosciuto quando aveva solo 12 anni. Questi gli offrì la possibilità di proseguire gli studi nel seminario della capitale, cosa che fu un punto di svolta nella vita del giovane Rutilio che successivamente, il 23 settembre del 1945, entrò nella Compagnia di Gesú facendo il noviziato a Caracas (Venezuela), dove rimase per due anni.

Dopo aver pronunciato i voti di povertà, castità e obbedienza, iniziò un percorso tortuso fatto di viaggi, crisi di salute, periodi di docenza e di studio che si alternavano a dubbi sulla sua vocazione. L’America Latina e la Spagna furono il contesto geografico e umano in cui egli visse in quegli anni, e proprio a Oña (Spagna) venne ordinato sacerdote il 30 luglio 1959: pochi mesi dopo l’annuncio di Papa Giovanni XXIII della convocazione del Concilio Vaticano II.

Un’ulteriore tappa di studi europea, questa volta alla Lumen Vitae di Bruxelles (1963-1964), gli fece scoprire quella che sarebbe poi diventata la teologia della liberazione e con essa una via nuova di interpretare la propria missione apostolica.

L’amicizia con Romero

Tornato nel Salvador, padre Rutilio svolse prima il ruolo di formatore nel seminario San José de la Montaña (nella capitale) e poi quello di rettore dell’Externado de San José. Nel 1967 iniziò la sua relazione con Oscar Romero, un’amicizia che perdurò negli anni e che vide, nel giugno del 1970, proprio Rutilio Grande servire come cerimoniere alla consacrazione di Romero come vescovo ausiliare di San Salvador. Quelli furono proprio gli anni nei quali Grande si trovava in aperta critica e grossa difficoltà con la struttura clericale salvadoregna. I suoi metodi di insegnamento, che vedevano l’opera evangelizzatrice andare di pari passo con la promozione di uno sviluppo di un’intellettualità critica e comunitaria, non trovavano il consenso dei suoi superiori. Rutilio però era stato oramai positivamente contaminato dall’esperienza belga e dalla successiva II Conferenza episcopale latinoamericana di Medellín (1968), che fu fonte d’ispirazione per il suo zelo pastorale e per la sua solidarietà e la vicinanza con i poveri.

Proprio in quel contesto, all’inizio del 1972, Grande intraprese il suo viaggio in Ecuador dove potè toccare con mano l’opera dirompente di Proaño.

Un cartello all’interno di una chiesa di Quito, capitale dell’Ecuador, ricorda a chi entra che i poveri sono tanti e che occorre aiutarli. Foto Paolo Moiola.

Inviso a latifondisti e conservatori

Dopo quell’esperienza rivelatoria, Rutilio accettò di diventare parroco di Aguilares (settembre 1972), la stessa parrocchia dove aveva trascorso l’infanzia e la giovinezza. Lì fu uno dei gesuiti incaricato di fondare le Comunità ecclesiali di base (Ceb) e di formarne i dirigenti, chiamati «Delegati della Parola».

Queste attività allarmarono i latinfondisti della zona e anche le frange più conservatrici del clero salvadoregno che temevano che la Chiesa cattolica venisse infiltrata e controllata dalle forze politiche di sinistra. Come ricorda José M. Tojeria in «Novedad y tradición: el martirio de Rutilio Grande», il Gesù del Vangelo era il centro dell’attività pastorale di Rutilio e i contadini salvadoregni delle zone di Aguilares e El Paisnal lo accolsero con entusiasmo.

Molti di loro decisero di alfabetizzarsi per poter leggere il Vangelo attraverso una modalità pedagogica ispirata a Paulo Freire. Grande ebbe la funzione di aiutare i membri delle comunità rurali ad acquisire coscienza della propria dignità, dei propri diritti, capacità e possibilità.

Questo avveniva mentre il Salvador era terreno di un confronto crescente tra i settori ricchi e la maggioranza della popolazione che versava in una situazione di estrema povertà. Rutilio Grande giocò un ruolo importante in questo scontro sociale, denunciando apertamente gli abusi e soprusi del governo, toccando il suo zenit con quello che viene ricordato come il «Sermone di Apopa» del 13 febbraio 1977 (omelia relativa al controverso caso del sacerdote colombiano Mario Bernal Londoño, espulso dal Salvador dopo essere stato sequestrato da supposti guerriglieri). Meno di un mese dopo, il 12 marzo 1977, mentre viaggiava in una jeep nella parrocchia di Aguilares, Grande cadde in un’imboscata dei gruppi paramilitari di estrema destra noti come «squadroni della morte». Con lui vennero uccisi anche Manuel Solorzano (72 anni) e Nelson Rutilio Lemus (16 anni).

È il 24 marzo del 1980, mons. Oscar Romero viene assassinato mentre celebra messa nella cappella dell’ospedale Divina Provvidenza, a El Salvador. Foto ANSA.

Un altro assassinio

La morte cruenta dell’amico Rutilio Grande provocò una grande crisi in mons. Romero. Una trasformazione che, probabilmente, egli aveva iniziato già a partire dall’ottobre del 1974, quando venne nominato vescovo della diocesi di Santiago di Maria, nel dipartimento di Usulután.

Nei due anni che trascorse in quella zona rurale del paese, potè toccare con mano la repressione governativa, i massacri e il terrore nei quali erano tenuti i contadini da parte dell’esercito che operava come braccio armato dei latifondisti. Un bagno di realtà che dovette spingere Romero a rivedere molte delle sue precedenti posizioni. Lì passò due anni e, successivamente, il 3 febbraio del 1977 venne nominato da Paolo VI arcivescovo di San Salvador, proprio per succedere al padrino spirituale di Rutilio, monsignore Luis Chávez y González. Solo 28 giorni dopo la sua nomina, Romero venne raggiunto dalla notizia dello spietato omicidio dell’amico. Oscar Arnulfo Romero avrebbe fatto la stessa fine il 24 marzo del 1980.

Diego Battistessa


Archivio MC




Se i ricchi arrivano anche nello spazio


Lo spazio è la nuova frontiera dell’uomo. E, in quanto tale, suscita dubbi e domande. I viaggiatori attuali sono da considerarsi turisti spaziali o pionieri di una nuova era? Gli enormi costi di questi viaggi sono giustificabili? Le colonizzazioni extraterrestri saranno presto una necessità reale per l’umanità?

Il prossimo febbraio 2022, la missione AX-1, organizzata dall’Axiom Space, porterà l’israeliano Eytan Stibbe, lo statunitense Larry Connor e il canadese Mark Pathy a bordo della Stazione spaziale internazionale (International space station, Iss). A rendere particolarmente interessante la notizia è il fatto che i tre sono ricchi uomini d’affari che non hanno mai intrapreso la carriera d’astronauta. Sono, quindi, a tutti gli effetti dei semplici turisti spaziali.

A guidarli verso l’Iss sarà l’ex astronauta della Nasa Michael López-Alegria, che ha al suo attivo ben cinque missioni nello spazio. Sarà lui l’unico professionista che condurrà il terzetto a bordo del Falcon 9 della SpaceX di Elon Musk, il fondatore della Tesla. La navicella spaziale si aggancerà alla stazione internazionale, dove, per la «modica» cifra di 55 milioni di dollari ciascuno, i tre magnati saranno ospitati per otto giorni.

Il costo esorbitante che i turisti dovranno pagare spianerà la strada verso una nuova forma di economia dopo che, nel 2019, la Nasa ha accettato di accogliere visitatori privati sulla stazione spaziale. Intanto, lo scorso ottobre, un regista e un’attrice russi sono stati 12 giorni a bordo della stazione per girare un film. Questi hanno preceduto l’attore Tom Cruise e il regista Doug Liman che si sono prenotati per un successivo volo durante il quale gireranno scene di un altro film. Intanto, Space Hero, un’agenzia di produzione televisiva, ha annunciato che, nel 2023, il vincitore del suo reality show avrà come premio un viaggio e soggiorno alla Iss con la Axiom Space.

Connor, Pathy e Stibbe, però, non si definiscono «turisti spaziali», bensì «pionieri di una nuova era», quella della colonizzazione di nuovi mondi. E questa definizione non è del tutto errata.

I tre «comuni mortali» si sono volontariamente sottoposti a test coordinati con istituti, ospedali, enti scientifici al fine di monitorare lo stato delle condizioni di esseri umani non completamente addestrati per affrontare eventuali colonizzazioni extraterrestri.

In particolare, Larry Connor ha scelto di collaborare con la Mayo Clinic e la Cleveland Clinic; Mark Pathy con il Montreal Children’s Hospital e la Canadian Space Agency, mentre l’israeliano Stibbe si sottoporrà a test coordinati con l’agenzia spaziale israeliana e la Ramon Foundation.

Inoltre, l’equipaggio non professionista, prima di essere portato in orbita, ha dovuto affrontare 15 settimane di training e i dati raccolti durante il loro addestramento saranno utilizzati per successive missioni esplorative.

I viaggi nello spazio stanno conoscendo un’accelerazione a causa dell’interesse di alcuni tra i maggiori miliardari del mondo. Foto Piro4D – Pixabay.

Voli suborbitali e voli orbitali

Le missioni spaziali hanno sempre generato polemiche per gli alti costi e le energie umane, tecnologiche e logistiche profuse. È quindi naturale che anche la missione AX-1, riservata a gente facoltosa, abbia partorito contraddittori anche tra coloro che hanno sempre sostenuto la necessità di investimenti nell’esplorazione dello spazio. L’alto costo della «gita» sembra uno schiaffo alle ristrettezze economiche in cui versa parte della popolazione mondiale, ma se vogliamo preservare il futuro dell’umanità, dobbiamo anche guardare oltre l’oggi e il domani. Con il depauperamento delle risorse del nostro pianeta, l’aumento di popolazione e la sempre maggiore richiesta di energia, la colonizzazione di altri pianeti sarà, a detta di un numero sempre maggiore di scienziati e politici, non più una scelta, ma una necessità. In questo quadro le missioni turistiche, per quanto facciano storcere il naso perché (sino a oggi) riservate a una ristretta cerchia di persone, potrebbero rappresentare una prima verifica della possibilità di periodici viaggi di trasferimento di nuovi coloni.

Nel frattempo, il turismo spaziale decolla e sono già diverse le compagnie che stanno offrendo voli sia suborbitali (quelli che raggiungono un’altezza massima di 100 chilometri) che orbitali (quelli che raggiungono e superano i 400 chilometri, potendo agganciarsi così all’Iss). L’agenzia di consulenza spaziale Northern sky reserach stima che, entro il 2028, i voli suborbitali potranno valere 2,8 miliardi di dollari per salire a 10,4 miliardi entro il 2040 mentre i voli orbitali raggiungeranno i 610 milioni di dollari entro il 2028 e i 3,6 miliardi entro la decade successiva.

Una satellite in orbita attorno alla terra. Foto Pixabay.

Branson contro Bezos

Jeff Bezos di Amazon ha fondato «Blu Origin». Foto Daniel Oberhaus.

Le principali compagnie che si contendono il mercato dei voli turistici suborbitali sono la «Virgin Galactic» di Richard Branson e la «Blue Origin» di Jeff Bezos.

La prima opererà con la SpaceShipTwo, una navicella guidata da due piloti che potrà trasportare sei passeggeri i quali dovranno sottoporsi ad un addestramento di tre giorni prima del volo. La SpaceShipTwo verrà poi trasportata a 12mila metri di altezza da un jet, il WhiteKnightTwo e, dopo essersi sganciata dall’aereo madre, razzi propulsori porteranno la navicella a un’altezza di circa 90 chilometri. Il volo è parabolico e i passeggeri proveranno solo in parte la sensazione della microgravità prima di rientrare sulla Terra, nel New Mexico. La società di Branson ha già venduto 600 biglietti a un prezzo tra i 200mila e i 250mila dollari ciascuno.

Il magnate Richard Branson ha fondato la Virgin Galactic per viaggiare nello spazio. Foto Virgin Galactic.

La Blue Origin, invece, opererà con una capsula portata a 100 chilometri da un booster (razzo ausiliario), il New Shepard, con una traiettoria verticale. Dopo aver subito gli effetti della microgravità per pochi minuti, i passeggeri rientreranno nel Texas utilizzando un sistema di paracaduti tipo quello utilizzato dalle navicelle sovietiche, mentre il booster potrà essere riutilizzato per successivi lanci. A differenza dei clienti della Virgin Galactic, quelli che si affideranno alla Blue Origin necessiteranno di un solo giorno di addestramento.

Compagnie in orbita

L’unica azienda che si affaccerà a breve al turismo spaziale orbitale è, come già scritto, l’Axiom Space fondata dall’ex direttore operativo dell’Iss Michael Suffredini e dall’iraniano naturalizzato statunitense Kam Ghaffarian. L’Axiom ha stretto una collaborazione con la SpaceX di Elon Musk, a cui è affidato il compito di trasportare i turisti in orbita, e la Nasa, che ospiterà i visitatori nella stazione spaziale al costo di 35mila dollari a notte per persona. Ma i programmi della Axiom Space sono ben più ambiziosi: nel 2024 dovrebbe entrare in funzione una «depandance» spaziale collegata all’Iss e, dal 2028, addirittura una stazione completamente indipendente che ospiterà i clienti senza appoggiarsi alla stazione spaziale internazionale.

Ci sono però altre compagnie già pronte a sfruttare la ghiotta occasione rappresentata da questa nuova forma di turismo: la Space Adventure di Eric C. Anderson e la stessa Virgin Galactic hanno in programma di spartire la torta con l’Axiom Space. La Space Adventure ha già una certa esperienza nel campo avendo trasportato sette turisti sulla stazione spaziale con la Soyuz russa per una settimana al costo «stracciato» di 20 milioni di dollari. Nel 2023 porterà altri turisti, e uno di essi avrà anche la possibilità di effettuare una passeggiata nello spazio. Recentemente, un accordo con la SpaceX ha permesso alla Space Adventure di programmare voli orbitali senza appoggiarsi all’Iss: i clienti resteranno semplicemente cinque giorni a orbitare attorno alla Terra.

I crateri della luna. Foto Ponciano-Pixabay.

«Cara Luna»

Il progetto turistico più ambizioso rimane però dearMoon di Yusaku Maezawa, un uomo d’affari giapponese che ha già siglato un contratto con la SpaceX per un viaggio attorno alla Luna in programma nel 2023, poco prima di Artemis III, la missione della Nasa che, nel 2024, riporterà un uomo e una donna (questa volta veri astronauti) sulla superficie del nostro satellite.

Elon Musk di Tesla ha fondato «SpaceX». Foto Daniel Oberhaus.

Maezawa sarà accompagnato da altri otto turisti a cui offrirà il volo, scelti dopo una selezione a cui hanno partecipato più di un milione di candidati. Non si conosce il costo dei biglietti che il giapponese ha riservato per sé e i suoi compagni di viaggio, ma la SpaceX sta già costruendo il nuovo razzo, la Starship, che trasporterà la comitiva.

Di tutte le missioni turistiche spaziali, però, dearMoon è quella più ambigua e meno dettagliata. Secondo il suo ideatore, lo scopo sarebbe quello di promuovere la pace nel mondo dando un nuovo impulso all’arte, un obiettivo piuttosto banale per una missione che costerà miliardi di dollari (Elon Musk ha lasciato trapelare che l’intera progettazione e realizzazione costerà alla SpaceX cinque miliardi di dollari).

Magnati e raccolte di fondi

Resta il fatto che, almeno nelle sue forme iniziali, il turismo spaziale sarà riservato a privilegiati, coloro che potranno permettersi il lusso di spendere milioni di dollari o euro per passare qualche ora nello spazio osservando a distanza un pianeta che, per loro, sta diventando sempre più stretto.

È forse anche per questo motivo che la cooperazione con istituti di ricerca e ospedali (in particolare dedicati alla cura di bambini) è ormai divenuta quasi una consuetudine per i magnati della finanza e dell’imprenditoria che decidono di spendere una cospicua quantità di denaro per assecondare un loro sfizio o una loro passione.

Una passeggiata spaziale. Foto NASA.

Ospedali nello spazio

Lo scorso settembre, la missione Inspiration4, guidata da Jared Isaacman, aveva indicato come scopo principale della gita turistica spaziale (costata, per quattro persone, 200 milioni di dollari) una raccolta fondi a favore del St. Jude Children’s Research Hospital, una fondazione gestita dalla Alsac (American lebanese syrian associated charities) fondata nel 1957 dall’attore libanese-statunitense Danny Thomas. Thomas era un devoto cattolico, che, appena giunto negli Stati Uniti, chiese aiuto a San Giuda Taddeo. Avendo trovato successo, fama e agiatezza, decise di dare vita all’Alsac che, nel 1962 costruì l’ospedale, divenuta oggi la quindicesima organizzazione benefica degli States. Oggi l’Alsac raccoglie circa 750 milioni di dollari ogni anno per il funzionamento del centro (i cui costi operativi si aggirano sui 620 milioni di dollari per anno). La raccolta di fondi costituisce il 74% del budget del St. Jude (in media gli ospedali nazionali raggiungono a malapena donazioni per il 10% del loro budget) e permette alla struttura sanitaria di ospitare ogni anno circa 7.800 bambini pazienti senza chiedere alcun contributo economico alle famiglie.

Isaacman, fondatore e proprietario della Shift4 Payment, aveva offerto i costosi biglietti ad altre tre persone, tra cui un medico ausiliario dello stesso St. Jude la quale era riuscita a sconfiggere un tumore osseo che l’aveva colpita nella sua adolescenza. Obiettivo della missione Inspiration4 era quello di raccogliere aiuti economici per 200 milioni di dollari (la stessa cifra sborsata da Isaacman per la vacanza spaziale) grazie alla pubblicità che ne sarebbe derivata. Il traguardo è stato raggiunto e superato (anche grazie alla donazione di 50 milioni di dollari fatta da Elon Musk), ma sono in molti ad aver storto il naso per la manipolazione sempre più frequente fatta dai miliardari per giustificare agli occhi della società i loro capricci.

La simpatia e la poca notorietà di Isaacman, gli hanno evitato numerose critiche per il suo costoso capriccio, cosa non accaduta con altri suoi colleghi del calibro di Jeff Bezos o Richard Branson o allo stesso Elon Musk.

La democratizzazione dello spazio, come qualcuno ha definito il turismo spaziale, è ancora un obiettivo lontano da raggiungere.

Piergiorgio Pescali

Il lancio di una navetta spaziale statunitense. Foto WikiImages – Pixabay. | Uno dei punti contestati a questi viaggi e anche il tasso di inquinamento prodotto dai lanci. Un solo volo inquina più di quanto possa inquinare un povero in tutta la sua vita.